The Project Gutenberg eBook, La Signorina, by Gerolamo Rovetta

This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org

Title: La Signorina

Romanzo

Author: Gerolamo Rovetta

Release Date: April 24, 2013 [eBook #42588]

Language: Italian

Character set encoding: UTF-8

***START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA SIGNORINA***

 

E-text prepared by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni,
and the Online Distributed Proofreading Team
(http://www.pgdp.net)
from page images generously made available by
Internet Archive
(http://archive.org)

 

Note: Images of the original pages are available through Internet Archive. See https://archive.org/details/lasignorinaroman00rove

 


 

Copertina

GEROLAMO ROVETTA


La Signorina

ROMANZO


9.ª Edizione


MILANO
Casa Editrice BALDINI, CASTOLDI & C.º
Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80

1901


PROPRIETÀ LETTERARIA

Tutti i diritti di traduzione e di riproduzione riservati all'Autore.

MILANO — TIP PIROLA & CELLA di P. CELLA


INDICE

PARTE PRIMA.
 
Lulù.
 
Cap. I. Segantini e Favretto Pag. 1
II. Il terribile seccatore 23
III. Lulù!... Lu... lù... 39
IV. ?... 51
V. La Signora Carlotta 75
VI. Dalla bella Suzann 93
VII. Papà!... 105
 
PARTE SECONDA.
 
Stefania.
 
Cap. I. I consigli dell'amico Pag. 123
II. La signora Eugenia 145
III. La contessa 163
IV. La Fáni innamorata 183
 
PARTE TERZA.
 
Il secondo Impero.
 
Cap. I. La festa di Lulù Pag. 227
II. La vita nuova 237
III. Tornano a fiorir le rose 253
IV. I fiori secchi 275
V. ... ho finito di fare a mio modo 291
 
PARTE QUARTA.
 
La signorina.
 
Cap. I. La casa vecchia Pag. 309
II. Malinconia 343
III. La villa Roero 365
IV. Il culto delle memorie 397
V. Il Nino Moro 413
VI. Gelosie 429
VII. La mammetta 449
VIII. ... Sempre Lulù 459

alla signorina MARGHERITA TAMAGNO
nel giorno delle sue nozze

PARTE PRIMA

LULÙ

[1]

I.
Segantini e Favretto.

Francesco Roero, dietro l'uscio socchiuso del suo piccolo appartamento a terreno di via Principe Amedeo aspetta ansioso, in palpiti, da quasi un'ora:

— Nemmeno oggi?.... Che anche oggi abbia detto di sì, per calmarmi, per lusingarmi, per mandarmi via?... Che non venga proprio nemmeno oggi?

Aspetta ancora un bel pezzo, sempre ritto, immobile, colla fronte appoggiata a un de' battenti, l'orecchio teso, trattenendo il respiro, aspettando, sperando udire da un momento all'altro un fruscio di vesti particolare, un noto tic-tac di passettini veloci.

[2] — No! Niente!... Anche stavolta me l'ha data ad intendere! — Strappa l'orologio, con ira, dal taschino della sottoveste e si scosta dall'uscio per vedere l'ora al chiaro, in mezzo all'anticamera già illuminata discretamente da una lampada rosea.

— Le sei!... Son quasi le sei e mi aveva promesso di venir subito, dopo le cinque!... Non vien più! Ormai è sicurissimo, non vien più! Le sei!... È già scuro!... È già notte! — Pestando i piedi e borbottando furioso tra denti: — Uff!... Maledettissima civetta!

La civetta maledettissima, tanto amata alle cinque, tanto odiata alle sei è «la Fáni» come la chiamano semplicemente le signore del bel mondo e anche, fra di loro, in confidenza, gli amici più intimi e più martirizzati.

Fáni, Stefania. La baronessa Stefania d'Eichelbourg, negli Arcolei. Padre tedesco; madre milanese. Concepita nella Selva Nera e nata in Piano d'Erba. Però, nell'incrocio, tutti i caratteri più spiccati e più opposti delle due razze. Bionda e nervosa; sentimentale, voce languida e salute di ferro. Alta, forte, spalle magnifiche e piedini sottili, maravigliosi. Una carnagione infantile, dalle [3] tenue sfumature rosee più delicate e attorno al labbruzzo tumidetto e mobile, l'espressione virile, il disegno dorato dei piccoli baffettini.

Sono quasi tre mesi, tre lunghi mesi, dai primi di novembre, appena la Fáni è tornata dalla campagna, a quella sera dell'ultimo di gennaio, che il povero Roero, innamorato e disperato, prega, supplica, minaccia per ottenere una visita... la prima visita.

— Che male c'è?... Che pericolo c'è?... Vorrei tanto mostrarvi i miei quadri: quello del Segantini e l'altro del Favretto! Venite! Venite!... Vieni! Voglio! Fate prima una visita alla De Angelis, che è vicinissima a casa mia, poi... è un lampo! Scappate dentro, non ci son scale, il primo uscio del ripiano a sinistra. Chi potrà vedervi? Chi potrà mai saperlo?... Nessuno; giuro!... Nessuno!

— Ma poi, anche se... dicessi di sì?

— Sì! sì! sì! sì!

— Perchè? Sapete che... deve esser sempre così. Dunque?... È un capriccio inutile, da egoista cattivo! Sapete che ho tanta paura; sapete che sono tanto nervosa, sapete che dopo mi sentirei male, e insistete tanto senza poi... nessuno scopo. Perchè? Perchè?

[4] — Perchè... ve l'ho detto! Voglio mostrarvi i miei quadri!

— Di sera?... Vedere i quadri di sera? Al buio?

— Si accendono i lumi... E poi perchè voglio vivere dove voi avete respirato per cinque minuti, per un attimo almeno!... Sì Fáni, prego, prego, prego!

La Fáni, lentamente, fa un sospiro di ammirazione profonda, mentre cerca di liberar la mano che il giovine le ha presa e che stringe troppo forte:

— Segantini e Favretto!... La mia passione!

— Venite, dunque, venite! Io vi aspetto dietro l'uscio.

— Chi sa che maraviglia?

— Il quadro del Segantini Dopo un bacio è una scena alpestre, nell'alta Engadina: un pastore e una pastorella, un branco di pecore; in fondo la catena delle montagne, la cima nevosa dei ghiacciai: un gran riposo, una gran pace. — Quello del Favretto, Venezia, Le ciacolone sul Liston: giocondità, calore, clamore, fervore di vita...

La Fáni, con un altro sospiro più profondo:

— Segantini pensa: Favretto ride! Che grandi artisti, tutti e due!

[5] — Venite, dunque, venite! Parlerò io alla portinaia. Non domanderà niente, non vedrà niente! Voi passate di volo.

Segantini! Favretto!... Che grande tentazione!

La baronessa Stefania è una raffinata: ama tanto discorrere e discutere d'arte! Si accalora, si appassiona, si entusiasma. Essa pure dipinge, e tra le signore e i suoi amici è in fama d'essere una buona dilettante. Dipinge bestie, soltanto. S'è provata una volta, anche a fare il ritratto di don Giulio, suo marito e c'è quasi riuscita.

Segantini e Favretto!.... Che gran tentazione!

E soltanto per amore di Segantini; per amore di Favretto ha finito a cedere e a promettere.

— Ma... vengo per un minuto, un lampo e... dopo mai più! Giurate?

— Giuro.

Invece... sono le sei. Il Roero, nell'angoscia muta dell'attesa le sente battere a tutti gli orologi e perde ormai ogni speranza. È sempre in ascolto, dietro l'uscio, ma ha la faccia pallida, rabbuffata. Di solito quando non si pettina troppo e non porta i solini troppo alti è piuttosto un bel giovane e molto simpatico, ma a furia di aspettare e di arrabbiarsi è diventato perfino livido e brutto.

[6] — Sempre bugiarda, sempre civetta e nient'altro!

Ha un impeto di collera, di rivolta, contro Stefania, contro la propria debolezza, contro la propria dabbenaggine e già si allontana dall'uscio dopo averlo sbattuto con ira, quando sente sotto l'atrio ripercuotersi il tic-tac, quel tic-tac che aspetta da un'ora.

— Cara! Cara! Mia!

E Stefania, appena dentro, lì, dietro l'uscio, si sente presa, stretta fra le braccia dell'innamorato, in quel punto reso più ardito e più ardente dalla lunga attesa, dal dubbio atroce, e dalla gioia insperata; e il viso di Stefania, il viso morbido, odoroso dal nasino rosso e diaccio sotto la veletta, è coperto, è divorato da una furia ingorda di baci.

— Che cosa fa?... Non sono i nostri patti... Mi aveva promesso...

— Ti amo! Ti amo! Ti amo!...

— La credevo un gentiluomo!... Mi sono affidata alla sua parola... d'onore... Ha giurato...

— Ti amo! Ti amo!

Le braccia, i muscoli di Stefania diventano d'acciaio; le manine nervose graffiano anche sotto i [7] guanti. In un impeto più forte d'ira, di sdegno, riesce a sciogliersi da Francesco e a spingerlo, barcollante, in mezzo della stanza.

— È così, è così che mi rispettate?... Che mi date prova di rispettarmi e di stimarmi?... Non mi vedrete mai più!

Stefania si slancia sull'uscio per fuggir via, ma non può: la serratura inglese, a sdrucciolo, s'è chiusa.

Francesco, a tale rimprovero, a tale minaccia, si calma repentinamente, rientra in sè e comprende l'errore commesso, la propria pazzia.

— Perdonatemi, perdonatemi...

— Aprite! Subito! Aprite!

Francesco balbetta sempre più confuso, mortificato, senza osare di avvicinarsi:

— Più che rispetto... è devozione, adorazione che sento per voi...

— Bel modo di provarmi questi sentimenti!... Aprite, ho detto, subito!

Francesco, sempre più pallido, balbetta sempre più forte:

— Perdono! Vi supplico!... Vi domando perdono, adorandovi umilmente, come una regina... [8] Adorandovi in ginocchio, come una santa... come la mia santa.

La voce tremante dell'innamorato, quella pronta sommissione, quella parola «santa» acquietano la bella baronessa. Da buona moglie ella segue i principî del marito clericaleggiante, don Giulio Arcolei: ed è persino accusata, d'essere un po' bigotta.

Un istante di silenzio: Stefania si volta, si scosta dall'uscio, si avvicina d'un passo a Francesco:

— Voi, signor Roero, mi avete dato una lezione...

— No, ma no!

— La lezione che mi merito, per essermi troppo fidata di voi, della vostra parola, delle vostre promesse, dei vostri giuramenti più sacri! Colpa mia, colpa mia! — Levando i begli occhi al cielo con un sospiro doloroso: — Ma vi credevo tanto mio amico!... Il solo in cui credevo, in cui mi fidavo. — La voce di Stefania ha una velatura di lacrime; ella non comanda più; ella prega a sua volta.

— Aprite, siate buono; lasciatemi andar via! E... non vediamoci più! Non dobbiamo vederci mai più!... Vi perdono! Ho già detto è colpa mia, [9] tutta colpa mia; voi non avete fatto altro che darmi la lezione che mi son meritata!... Adesso, ai vostri occhi... — Stefania ha un singulto e si copre il viso colle due mani: — Dio, Dio, che vergogna!

Francesco l'osserva bene... esita un istante, poi si avvicina, continuando ad osservarla e pensando fra sè:

— O non è andata tanto in collera come credevo, la collera comincia a passare.

Le prende i polsi, fa un po' di violenza e le scopre la faccia.

— Tutta la mia vita. Prendetevi tutta la mia vita in cambio di un po' di bene...

Stefania, di nuovo fiera, minacciosa:

— Tornate da capo?

Francesco rassicurandola, vivamente:

— No! No! No! — E così dicendo alza la portiera del primo salottino.

— Perchè?

— Non siete venuta per vedere i miei quadri?

— È troppo tardi!

— Un momentino, appena; in fretta!

Stefania è perplessa. Vorrebbe e non vorrebbe. [10] La tentazione per i quadri c'è, e diventa forte a vista d'occhio.

Francesco insiste colla sua bella voce calda, appassionata:

— Un momentino appena; in fretta!

— Ma... molto in fretta! — Stefania cede.

— Dev'essere molto tardi!... Giulio è buono, ma non posso farlo aspettare a pranzo. È l'unica cosa che lo faccia infuriare.

— È presto ancora. Sono appena sonate le sei. E poi oggi c'è Consiglio comunale. Si discutono i bilanci; la seduta terminerà tardissimo. Un'occhiata!... Due minuti!

— Allora, soltanto il quadro del Segantini.

— E quello del Favretto. Sono tutt'e due nel mio studio.

Stefania è assalita da una nuova curiosità:

— Nel vostro studio?... Dove lavorate, dove scrivete, dove pensate tante belle cose?

— Dove penso tanto a una cosa sola bella... a voi.

— Zitto, finiamola; o vado via!

— Venite qui; è qui, subito.

Francesco attraversa il primo salottino, poi alza un'altra portiera, a diritta:

[11] — Entrate.

Stefania gli passa dinanzi sfiorandolo colle vesti ed entra.

Francesco la segue lasciando subito ricadere la ricca tenda. Indicandole un quadro dai vivaci colori:

— Eccolo: Favretto!

Stefania sorridente: — Le ciacolone sul Liston?... Oh Venezia, Venezia!... — Si avvicina al quadro alzando gli occhi radiosi e dimentica tutto in quell'istante, anche il pericolo, nel solo amore dell'arte.

— Venezia, o Venezia! Che colore, che rilievo!... Proprio vero: quante ciacole!

Il giovane rispetta per qualche momento quel rapimento estatico, poi con una mano premendole il braccio leggermente e coll'altra sfiorandole appena la vita sottile l'obbliga a voltarsi un pochino.

— Ed ecco Segantini: Dopo un bacio. Guardate, anche in questo piccolo e ignorato capolavoro, quanta verità! quanta espressione!

— Non dite verità! È molto di più!... Questa è poesia!... Quanta poesia!

— Siate buona, parlatemi un poco, per me solo, di Segantini e di Favretto.

[12] Stefania, si sente tocca nel debole:

— Ma perchè?.... Perchè volete farmi parlar d'arte?... Che capriccio!... Se non dico che sciocchezze!

— Si rimane tutti incantati a bocca aperta ad ascoltarvi quando parlate voi! Ma oggi parlate soltanto per me!... Sì, sì, sì!... Ne ho bisogno per la mia «Arianna.»

Stefania si sente ancora più lusingata:

— Ma che?.... Vorreste mettere nella vostra commedia le... le sciocchezze d'una donnetta?...

Francesco, prendendola ancora per una mano, facendole più dolce violenza:

— Qui, proprio qui!... Sedete sulla mia poltrona! Qui, dinnanzi alla mia scrivania! Quanto vorrò bene d'ora in poi a questa mia casetta, a questa mia stanzetta...

— Com'è bello il vostro studio!

— Sedete e parlate.

Stefania opponendosi con una grazietta di bimba ostinata:

— Lasciatemi guardare. Voglio prima guardar tutto!

— Sedetevi e parlate.

[13] Stefania apre la cartella sulla scrivania e legge sul primo foglio volante:

Arianna — atto secondo. — Leggete, voi invece.

— No, no!

— Lasciatemi vedere!

Francesco, togliendole via la mano e chiudende la cartella:

— Ho detto di no!... Dunque?... Sentiamo: Favretto è la verità e Segantini la poesia. Avanti! V'ho detto che ho bisogno di alcune vostre definizioni così argute e così originali per far parlare la mia Arianna.

Stefania, seduta sulla poltrona, guarda a dritta il quadro del Segantini, poi si volta a sinistra guardando quello del Favretto... Infine dà un'occhiata sorridendo anche a Francesco e ormai non sembra più preoccupata dell'ora del pranzo e tanto meno di far aspettare don Giulio.

— Favretto è un uomo che ride, vi pare? Segantini sta serio. Favretto è un borghese: ha vissuto certo presso quella donna in babbucce discinta e rosea che nel Vandalismo sta rammendando la biancheria di casa, mentre il pittore restaura la Madonna assunta in cielo. Segantini è [14] un solitario aristocratico meditativo cui quella donnetta grassoccia non avrebbe suggerito nemmeno il satirico paragone col restauratore vandalico; egli non l'avrebbe veduta; dall'arte sua appare che realmente, nella vita, egli non l'avrebbe guardata. Favretto nel Vandalismo fa un po' di predica, ma i personaggi son gli stessi del quadretto del Sorcio esposto, credo, sei o sette anni fa.

— Sì, nel settantatrè.

— Con Favretto resterei, appunto, a ciacolar tutt'una sera; a Segantini non saprei che dire o temerei ad ogni parola un'interpretazione impreveduta filosofica e profonda che io non mi sarei nemmeno sognata, e che, forse, sarebbe vera: perchè no?

Il Roero che guarda sempre Stefania, appoggiato, un po' curvo, alla spalliera della sua stessa poltrona, ripete queste due ultime parole, ma dando loro un'espressione tutta diversa, amorosissima e appassionata:

— Perchè... no?

Stefania sente ciò che il giovine le dice, ma ancora non vuol capire, e allontanandolo colla bella mano, dalla quale ha levato il guanto e che scintilla [15] di gemme, continua a.... definire, sempre con maggior foga e con maggior calore:

— Segantini dipingerà altri cento anni: non dipingerà mai, scommetto, una donna che rida. Favretto dipingerà altri cento anni, — Dio lo voglia! — ma scommetto, fin d'ora, che non dipingerà mai una donna che pianga. Segantini è bianco e azzurro: Favretto è rosso e verde. Segantini non lo concepisco che magro e barbuto; Favretto un po' pingue e un po' lucido. Segantini non ha spirito, nel senso francese: Favretto non ha che spirito! Segantini, certo, si leva all'alba, Favretto a sole alto... Segantini, di sicuro, ha una biblioteca: a capo fila Darwin per la lettura mattutina, Schopenhauer per la lettura serale. Favretto non credo che abbia una biblioteca. Se l'ha, deve essere Goldoni nella vecchia edizione padovana... Se i due pittori dovessero scrivere, Favretto scriverebbe novelle, Segantini...

— Poesie! — esclamano a questo punto tutti e due insieme, la signora e il suo innamorato. Poi continuano a fissarsi e a tacere.

A un tratto Stefania china gli occhi arrossendo.

— E.... se facessero all'amore? — domanda Francesco sommessamente, colla voce rotta.

[16] Stefania torna a sorridere, ma risponde girando via gli occhi per non guardare l'amico.

— Favretto sceglierebbe, possibilmente, una donna sotto i venti, Segantini verso i trenta...

Il Roero l'interrompe:

— Come me!

E cade in ginocchio, abbracciandola così seduta sulla poltrona.

Stefania cerca ancora di allontanarlo; i suoi occhi improvvisamente raddolciti e inumiditi non sono più minacciosi, ma supplichevoli.

Ella balbetta con un fil di voce:

— E poi?... E poi?... Dio! Dio!... E poi?

Subito, improvvisamente:

Driinn.

È il campanello elettrico dell'anticamera.

Stefania respinge d'un colpo il Roero che balza in piedi volgendosi verso l'uscio: rimangono per un istante tutt'e due muti, aspettando: poi la baronessa, bisbiglia appena, tremante, con un filo di voce:

— Chi sarà?... Chi sarà?...

L'altro s'è subito rimesso e sorride per calmarla:

[17] — Non c'è nessuno! Avranno sonato qui per isbaglio. Succede tante volte! Di sopra abita un maestro di musica.

Di nuovo e due volte:

Driinn!... Driinn!

— Dio! Dio... Ah mio Dio!

— No, ma no!... Non spaventatevi! Se non è uno sbaglio sarà qualche seccatore che è passato dalla porta senza parlare alla portinaia.

Ancora driinn e questa volta una sonata lunga che non finisce più.

Stefania, ritta in piedi, pallida come la morte, rimane impietrita, senza fiato.

Anche il giovinotto è un po' stravolto, ma si frena e continua a rassicurarla:

— Non abbiate paura!... Se non c'è nessun pericolo vi ripeto!... Chiunque sia, quando si sarà stancato se ne andrà.

— È ben chiusa la porta?

— Chiusa a chiave!

— Allora andiamo! Andiamo! Avrete certo un altro uscio, un'altra scala!

— No!

— No?.. Come mai?!

[18] Il Roero, sul momento, non avverte il «come mai» della baronessa, nè la sua intonazione di maraviglia, e quasi di sdegno.

Egli si avvicina alla portiera, la scosta un pochino e rimane in ascolto.

Più niente!... Tutto silenzio.

Spinge il capo nell'anticamera e ascolta ancora per meglio assicurarsi, poi, tranquillato realmente, torna sorridendo vicino all'amica.

— Ho avuto ragione sì o no? Quel seccatore s'è persuaso: — Nessuno risponde! — Ed è andato via!

— Se domanda in portineria? Se incontra qualcuno?

— Per tutti sono a Lodignola, sino a domani.

— E il vostro servitore?

— L'ho lasciato in libertà più presto. Non torna che stasera, dopo le nove. Vi supplico, non abbiate più alcun timore!

— Vado, vado, vado!... Lasciatemi andar via subito, per carità.

È inutile insistere. Stefania è ormai troppo agitata, troppo nervosa.

Ritta dinnanzi uno specchio, sta appuntandosi di furia la veletta, studiando di coprirsi bene il viso.

[19] Francesco è di nuovo diventato pallido, ma adesso di rabbia, di veleno, di collera! Avrebbe ammazzato «quel seccatore», avrebbe voluto strozzare la portinaia!

Con tante raccomandazioni, con tante ingiunzioni: — Ricordatevi che sono a Lodignola per tutti! Venisse anche il Padre Eterno!

— Non ci sarà nessuno?... Non ci sarà proprio nessuno? — Continua a domandare Stefania che, quando diventa nervosa, non ragiona più.

L'altro risponde sempre stizzito, la voce bassa, reca:

— Ma no! Ma no! Se vi dico di no! No! Non avete nemmeno scale da fare... Siamo a terreno... Siete subito fuori!

E la giudica affatto senza cuore e senza sangue, e pensa nel suo dispetto, studiandola, fissandola cogli occhi torvi quanto ci sia proprio di vero e quanto, forse, di meditata civetteria anche in tutto quel suo spavento, in tutti quei tremiti!

— Il mio manicotto?

— Eccolo.

La baronessa, che ha finito di tirarsi su i guanti, caccia una manina nel manicotto e fa per correr [20] via quando è arrestata all'improvviso da un gran colpo d'ombrello o di bastone dato contro le imposte.

— Dio!

Il Roero, trasalendo, muove un passo verso la finestra, poi si ferma aggrottando le ciglia e stringendo i pugni.

Quasi subito, un secondo colpo più forte del primo, e una voce che lo chiama:

— Roero! Roero!... Francesco!... Cecco!

— Ah, mio Dio! Chi è?... Ma chi è?...

Stefania, atterrita, cerca istintivamente cogli occhi ove nascondersi.

L'altro, intanto, continua a gridare dalla strada, a squarciagola:

— Cecco! Cecco!... Cecchino!... Sono io!... Nespola!...

— Nespola? — Ripete Stefania guardando Francesco, interrogandolo cogli occhi stupiti.

Francesco ripete appena, sottovoce:

— Il più terribile dei seccatori!

— Roerooo!... Rispondi!... So che ci sei!... Vedo il chiaro della lucerna!... Se hai da scrivere, da lavorare non importa! Ho da parlarti!... Sul momento!... Ho fretta!... Roerooo!

[21] — Ma che cosa sarà mai successo?... Che cosa vorrà?

— Chi sa? Non può essere niente di serio! Una sciocchezza, certo! Magari... vorrà condurmi a pranzo con lui! Ma se intanto non gli rispondo è capace di buttar giù la casa! È fatto così! Quando capita è una disgrazia!... Una tempesta!

— Nespola? — Ripete Stefania, rasserenandoci a quelle parole e sorridendo per quel nome.

— Un chiacchierone, un sussurrone qualunque!... Un giornalista...

Stefania torna subito ad oscurarsi.

— Un giornalista a spasso! Vivaddio! Stava tanto bene in America!

— Roerooo! Roero!

— Ma come si fa? Come si fa?

— Vado io; lo piglio per il petto o per il collo. Non dubitate; lo porto via con me! Voi spiate dalla finestra. Quando ci vedete lontani uscite pure, senza timore. Prendete la chiave!... Dov'è?...

La cerca affannato in tutte le tasche; la trova.

— Eccola! A voi! — E fa per correr via.

Ma la Fáni, prendendo la chiave, lo trattiene lei, adesso, per una mano, fissandolo con un sorrisetto arguto e seducente.

[22] — Venite stasera?...

— Sì.

— Roerooo!

Stefania continua a fissare il giovine commediografo e continua a sorridere.

— Sentite, — bisbiglia sottovoce, — il vostro terribile seccatore!

Poi, d'improvviso, mentre lo spinge fuori è Stefania che gli sfiora una guancia più col fiato che colle labbra.

[23]

II.
Il terribile seccatore.

Francesco, piombando addosso all'amico Nespola che continua a chiamarlo sotto la finestra:

— Via! Via!... Vieni via!

— Sei in collera?... Invece di lavorare alla commedia, di' la verità, c'era Dalila con te? M'è venuto in mente adesso. — E l'amico scoppia in una grande risata.

Francesco è furibondo: afferra Nespola per un braccio e lo trascina giù lungo la strada, verso piazza del Duomo.

— Vieni con me! E finiscila!

— Che viso! Che occhi!... C'è proprio Dalila? — E l'importuno ride ancora più forte.

Dalila è una divetta della compagnia Scalvini, [24] così chiamata dalla parte che fa in un'operetta-parodia — La Mascella d'asino — la gran novità del giorno che spopola alla Canobbiana.

— E ricordati che sia la prima e l'ultima volta che ti prendi con me simili licenze! In casa mia, comando io; e quando non ci sono, non ci sono per nessuno, e tanto meno per te, ricordatelo bene!... Non sei nè mio fratello, nè mio padre! Non sei altro che un seccatore!

Nespola sorpreso, mortificato, fa forza e si ferma:

— Se ti arrabbi così, piuttosto torno indietro! Torniamo indietro!

— Avanti! Avanti! E in fretta! E spicciati! Che cosa vuoi? Perchè sei venuto?... Perchè?... Che cosa c'è di tanta premura?

— Ho un duello.

— Al solito!... Lo troverai un giorno o l'altro quello che ti spaccherà la testa!

— Grazie dell'augurio. I rappresentanti del mio avversario si troveranno al Caffè dell'Accademia alle sette e mezzo.

— Che cosa c'entro io?

— Tu mi servirai da testimonio e mi aiuterai a trovarne un altro. Adesso in piazza del Duomo [25] saltiamo in un brum e andiamo a pescarlo. Uno qualunque. Non c'è tempo da perdere! Son quasi le sette!

— Io non posso! Sai del resto che i duelli, i tuoi pasticci non sono cose che mi divertano.

A questo punto si sente stringere il braccio dall'amico: si volta.

— Che cosa c'è?

— Guarda, per Dio, che bella donna!... Per lei mi batterei volentieri, altro che per Depretis!

Era la baronessa Arcolei, che passava loro dinanzi svelta, diritta, con quel suo tic-tac misurato, ritmico, veloce.

Dileguato lo spavento, le era tornata l'audacia: voleva vedere quel tipo curioso che si chiamava «Nespola» e voleva godersi a mettere in imbarazzo l'amico, a intimidirlo, a confonderlo con la propria impudenza.

— Depretis?... — Francesco ha la voce leggermente alterata. — Perchè Depretis?

— Perchè mi batto per Depretis! Non te l'ho detto?

— Tu?... Ma non fai il repubblicano?

— Ho difeso Depretis a proposito della riforma [26] elettorale. Con questa legge è Barbabianca, appunto, che viene a me; non sono io che vado a lui!

— Con chi ti batti?

— Col Bonaldi della Difesa Lombarda.

Il Roero, sempre più seccato, si morde i baffi.

— Ma io... sono in ottimi rapporti col Bonaldi.

— A me invece è antipaticissimo con quel viso giallo-verde, sbarbato, che non sa decidersi fra il viso del prete e quello del servitore!... E poi io sarò più meno a spasso, ma lui è un giornalista più bestia di me!

— E per questo vuoi batterti con lui?

— Per questo non posso soffrire la sua aria d'importanza, la sua affettazione di volersi mettere in frac tutte le sere!... Vero Tony di sagrestia.

— Ma io, ti ripeto, sono in ottimi rapporti col Bonaldi e non posso andarlo a sfidare a nome tuo, per simili... sciocchezze.

L'altro guarda il Roero e sorride.

— Ma è lui che sfida me!... L'ho mandato a rotolare sotto i tavolini del Caffè Manzoni: aveva dato del cinico, del traditore a Barbabianca, perchè, pur di rimanere al potere, non esitava a spalancare alla piazza le porte del parlamento. Io [27] gli ho dato dell'imbroglione, della canaglia, e credo anche quattro pugni.

— Ma... il Bonaldi avrà reagito, avrà risposto?

— Quando lo pescarono sotto i tavolini e l'ebbero rimesso in piedi, mi rispose tranquillamente, accendendo la sigaretta e senza guardarmi in faccia, — non guarda mai in faccia quel falso baciapile!, — che se, per caso, avessi potuto trovare due persone appena rispettabili, disposte a rappresentarmi, alle sette e mezzo al Caffè dell'Accademia, due suoi amici le avrebbero aspettate: in caso diverso, una querela. Io subito ho pensato al deputato Traversa. — Scoppiando in una risata: — Più rispettabile di un onorevole!... Sono persino sinonimi! Ma poco fa, ho saputo che il Traversa è a Roma. Allora ho pensato a te: mi dispiace di doverti far alzare domattina alle sei, ma come si fa? — Nespola ride di nuovo e più forte. — Il Bonaldi vuole una persona rispettabile? E io gli mando, nientemeno, che l'amante della moglie d'uno dei suoi padroni.

Francesco si ferma di colpo, lo fissa:

— Come parli!

— Volevo dire l'amico, il galante, il cicisbeo [28] l'adoratore: per Dio, quanti nomi per lo stesso giuoco! Ma sì, che cosa credi? Che non si sappia? Lo dicono tutti!

— Abbassa la voce! Dicono che cosa?

— Dicono che Dalila è il pot-au-feu, ma che la moglie dell'Assessore Arcolei è la musa del commediografo, la donna romantica, il... piatto dolce! È bella, almeno? È clericale?.... Amica dell'Arcivescovo?... Farete prima il segno della croce?

— Basta! Finiamola!

Francesco, più che irritato, offeso, si sente ferito da tali parole.

— Sono chiacchiere, falsità, ancora più stupide che maligne. E per quanto mi chiedi, sono dolentissimo, ma devo dirti di no, assolutamente no. Prima di tutto, non ho tempo. Stasera non posso, e domani vado a Venezia. Ho poi anche molti obblighi di buona cortesia verso il signor Bonaldi. La Difesa Lombarda, in ogni occasione, si è sempre occupata di me e delle cose mie, con molto interesse e con molta benevolenza. In fine... — L'ira di Francesco è sul punto di scoppiare, ma il suo tatto diplomatico riesce ancora a frenarlo: — Infine... [29] io voglio essere rispettato e perciò rispetto gli altri e non posso e non voglio servire da comparsa, da burattino, da marionetta ne' tuoi colpi di scena per quanto falsi e grotteschi. Addio! Buona sera!

Sono giunti in piazza del Duomo: Francesco vede passare un brum e fa una corsa per fermarlo.

— Brum! Brum!...

L'altro afferra Francesco per il polso: non ride più, la sua faccia è pallida, costernata:

— Si tratta del mio onore!... Roero! Roero!.. Hai ragione!... Sono leggero, troppo impetuoso, matto, ho avuto torto; ma adesso si tratta del mio onore. È troppo tardi, ormai! Alle sette e mezzo bisogna essere al Caffè dell'Accademia. E adesso, a quest'ora, chi potrei trovare? Sono tornato dall'America da quindici giorni! Ancora non conosco nessuno su cui poter contare, e ho già tanti nemici! E poi un altro come te, stimato come te, dove lo trovo? E si tratta del mio onore! Si tratta del mio onore!

Francesco è già con un piede sul montatoio del brum, ma gli manca il coraggio di salire e di andarsene:

[30] — T'ho detto che non posso, che ho un impegno per stasera.

— Non hai altro che da passare dall'Accademia, e ti sbrighi in un attimo. Io accetto tutte le condizioni del mio avversario: anche quella, se vuole, di battermi in frac.

L'amico Nespola è sicuro ormai che il Roero non gli scappa più e torna a ridere spensieratamente.

In fatti Francesco fa cenno al brumista di aspettare un momento e torna vicino al suo terribile seccatore: lo manda al diavolo assai cordialmente, ma pensa anche, in cuor suo, che non può abbandonarlo.

Certi amici sono come le malattie: capitano quando vogliono, e si può soltanto sperare che passino presto!

Il Roero conosce Nespola già da vari anni. Lo ha incontrato la prima volta sul palcoscenico del teatro Manzoni. Adesso il Roero, nel bel mondo delle prime milanesi, è il giovane commediografo alla moda, dalla raffinata casistica bourgettiana: allora lo si credeva ricco soltanto di quattrini e di gusto. Non amava ancora il teatro, ma soltanto [31] le attrici ed appunto ad una di queste, una sera, senza pensarci, avea promesso un proverbio per la beneficiata; senza quasi pensarci lo aveva scritto, lo aveva letto ai comici, agli amici, al club e in casa D'Orea; lo aveva dato a copiare e messo in prova, e soltanto alla vigilia di andare in iscena gli si erano aperti gli occhi e aveva cominciato a pensare con spavento, al pericolo e al ridicolo di fare un gran fiasco.

— Ritirare la commedia?... Con tutto il teatro già venduto?... Che chiasso! Gli amici, gl'invidiosi, i rivali, gl'imbecilli, che già pregustano il piacere di fischiarlo e la voluttà della piccola distruzione!... Come si sarebbero vendicati!

Nespola, il già terribile seccatore, si trova appunto sul palcoscenico alla penultima prova, e scopre nella nuova commediolina ciò che agli altri era passato inosservato: il talento dell'autore e una fresca e spontanea originalità.

— La vostra commedia, signor Roero, ha un difetto solo; è troppo lunga e troppo corta. Fatevi dare il manoscritto, andiamo a far colazione e poi lavoriamo insieme un paio d'orette. Per domani sera, scommetto e giuro, avrete un grande successo!

[32] Nespola, in quel tempo, era pure un autore drammatico; soltanto faceva i suoi drammi colla forbice e colla gomma, tagliandoli dalle appendici del Secolo. Il Roero lo guarda mortificato, ma poi accetta, per disperazione. Invece di un paio d'orette, stanno insieme a fare, a disfare, a rifare e a mangiare e bere allegramente tutto il giorno, tutta la notte... ma la sera dopo il Roero ha un trionfo; il pubblico e la critica lo portano alle stelle!

Potrebbe il Roero dimenticare tutto ciò? Potrebbe il Roero rifiutarsi al povero Nespola che ricorre a lui, in nome del suo onore? No, certo; tanto più che lo scrittore bohémien, sempre in collera col pranzo e sempre in caccia di quattrini con chi non gli deve nulla, a lui, a Francesco Roero che invece gli deve pur qualche cosa, anzi appunto per questo, non ha mai domandato nemmeno cinque lire in prestito.

No, non lo può abbandonare! Assolutamente, no.

Una seccatura, per altro!... Una grande seccatura!... Fare da padrino a un repubblicano, lui, Francesco Roero?

Che cosa avrebbero detto al club?

[33] Fare da padrino all'avversalo del Bonaldi?... L'anima... politica, di don Giulio Arcolei?

Il Roero dà un'alzata di spalle:

— M'importa assai di don Giulio!...

E Stefania?.... La collera, i musetti lunghi di Stefania? Stefania clericale e così aristocratica?... Stefania che in odio alla democrazia aborre i giornalisti in generale e, all'infuori della moda e della musica, tutto ciò che è moderno?...

Il giovine innamorato, invece d'intimorirsi, ha un impeto di sdegno e di fierezza:

— Stefania deve comprendere la mia condizione; i miei obblighi. Io non sono un insignificante damerino! Un qualunque imbecille sportista! Non deve confondermi colla folla che le riempie il salotto! Io sono uno scrittore, un commediografo, un uomo d'ingegno. Il mio mondo è più vasto del suo, io non appartengo soltanto a lei, ma anche al pubblico!

E se per vendetta non tornasse più?... Ma ricorda l'ultimo saluto, gli occhi lucenti della Fáni e sorride:

— Verrà!... Tornerà!...

[34] Intanto Francesco e il suo seccatore camminano sempre su e giù poco lungi dal brum e dal brumista, che continua a tenerli d'occhio: Nespola ripete, con tutti gli incidenti più comici la scena successa al Caffè Manzoni e conclude ancora dichiarando che avrebbe accettato tutte le condizioni imposte dall'avversario.

— Sta bene, ma per l'altro testimonio?

— Un tuo amico, un tuo collega, un ufficiale, così si fa più presto!...

— Ho già trovato! Nicoletto Loreda..... Un giovine guerriero di complemento. Un eroe sempre pronto e felicissimo quando si tratta di far battere gli altri.

— Allora, in compenso, ci pagherà da pranzo.

— No, oggi, t'invito io.

— Invece andremo alle Tre Spade, dove ho credito illimitato e dove ti farò sentire un barolo degno della circostanza.

— Come vuoi!

Francesco chiama il brumista, fa salire l'amico in carrozza, e poi monta egli pure, gridando l'indirizzo al cocchiere:

[35] — Borgonuovo, 115!

Una sferzata alla rozza e il brum parte di corsa, traballando.

Francesco, dopo un momento; appena la vettura ha varcato l'acciottolato e cessa il rumore assordante dei vetri e delle ruote:

— Dimmi un po'; per presentarti al Loreda, come ti chiami? Tutti ti chiamano Nespola!... Io ti ho sempre chiamato Nespola....

Il giornalista risponde con una risata:

— Sicuro!... Se qualche volta non ci fosse l'usciere, avrei dimenticato anch'io di chiamarmi Savoldi. Pippo Savoldi.

— Nespola è sempre stato il tuo pseudonimo?

— No. Prima è stato il nome di una mia cagnetta. Una piccola terrier, intelligentissima, affezionatissima! E sì che non la mantenevo sempre a bistecche, povera Nespolina!... Quand'è morta, per memoria e per gratitudine, ho preso il suo nome.

Un lungo silenzio: il viso del giornalista s'è fatto serio mentre osserva l'amico suo, che soffia lentamente dallo sportello il fumo della sigaretta, Nespola ha qualche cosa in quel momento che [36] gli vorrebbe confidare... Il suo viso diventa più serio, con una espressione quasi di angoscia. Ad un tratto lo chiama battendogli sopra una spalla:

— Sai?... Adesso... ho un'altra...

— Un'altra cagnetta?

— Sì.

— E si chiama Nespola come la prima?

— No; questa... si chiama Lulù! Vuoi vederla? Te la faccio vedere!... È un momento! È qui vicino!

Il Savoldi fa per aprire lo sportello: Francesco lo ferma.

— Non faremo poi troppo tardi?

— Hai ragione!... Anzi, meglio così!

Il viso del giornalista muta di colpo ed egli scoppia in una delle sue rumorose sghignazzate.

— Meglio così; potrei commuovermi e diventar vile! Invece, resta inteso: se morrò infilzato come un rospo, Lulù è tua. Ti rimane Lulù in eredità!

Francesco ride a sua volta:

— Va bene!

— Qua la mano.....

— Accettato!

I due si stringono la mano, sempre ridendo, [37] mentre la carrozza si ferma dinanzi al numero 115 di via Borgonuovo.

Nicoletto Loreda è in casa. Appena sente dal Roero di che si tratta, rimanda il pranzo con entusiasmo.

— Eccomi a sua disposizione, caro signor Savoldi; e con tutto il piacere! S'accomodi!... Accomodatevi!... Senza complimenti! Alla militare! Vado a mettermi il paltò e torno subito.

In fatti il Loreda va e torna in un lampo: paltò nero, guanti neri, cappello a cilindro, aspetto più che mai risoluto e marziale.

— Dunque, abbiamo da fare col Bonaldi, della Difesa? Oh! Oh! L'ho visto più volte in sala di scherma. Sacré Tonner! Tira benissimo di sciabola e di fioretto!

Nespola strizza l'occhio a Francesco ridendo alle spalle del giovine guerriero:

— Tanto meglio!... Sul terreno chi più ne sa, le piglia.

[39]

III.
Lulù!... Lu...lù...

Il duello è fissato per le otto alle Cascinette, fuori di Porta Nuova, in un cortiletto del tiro al piccione, tutto chiuso da una siepe folta ed alta; ma già allo scoccar delle sette, com'eran d'accordo, Nicoletto Loreda si presenta in casa del Roero per farlo svegliare.

Al servitore che gli apre;

— Il vostro padrone? — E aggiunge difilato, senza aspettar risposta: — Bisogna svegliarlo subito!... Sul momento!

— È già alzato da un pezzo! È già vestito!

Il servitore va innanzi aprendo gli usci:

— S'accomodi, signore: il padrone l'aspetta in camera.

[40] — Alzato e vestito?... Tanto meglio!

Loreda segue impettito il servitore facendo sgrigliolare le scarpe nuove sul pavimento e cantarellando sottovoce:

Suoni la tromba intrepido...

Io pugnerò da forte!...

— Buon dì, caro Francesco! Già pronto per la battaglia?... Bravo!

Francesco sta riempiendosi l'astuccio di sigarette: risponde appena, colla voce un po' rauca, senza alzare il capo:

— Buon giorno.

— Ti annunzio un roseo mattino. Avremo una giornata fredda, ma stupenda...

Suoni la tromba intrepido...

Fa piacere, di tanto in tanto, una buona alzata mattutina! Io ho già fatto una prima colazione: due uova col caffè. E tu?

Francesco cerca la scatoletta dei cerini, arrabbiandosi perchè non la trova subito, e non risponde.

[41] Nicoletto l'osserva sott'occhi, lo studia:

— Non sei di buon umore?

Il Roero continua a non rispondere e allora Nicoletto va a guardare alla finestra battendo colle dita sui vetri:

Suoni la tromba intrepido...

Il Roero prima lo guarda torvo, poi lo interrompe con impeto:

— Sai...

L'altro si volta scattando come molla.

— Abbiamo agito, credo, troppo leggermente.

— Noi?... Abbiamo agito leggermente?... Noi?... Quando?

— Ieri sera; coi padrini del Bonaldi.

— Leggermente? Nobilmente vuoi dire, coraggiosamente!..... Abbiamo accettato, senza ribatter parola, tutte le condizioni del nostro avversario! Più gentiluomini di così, vivaddio, non si poteva essere!

— Abbiamo accettato condizioni troppo gravi.

— Avevamo dal nostro Savoldi un mandato imperativo.

[42] — Appunto!.... Un mandato imperativo non dovevamo accettarlo, assolutamente. La volontà del «primo» dev'essere subordinata ai doveri indeclinabili dei padrini.

E in istrada mentre si avviano a prendere il Savoldi, che li aspetta in piazza del Duomo, al Caffè Carini, Francesco Roero a capo chino, sempre imbronciato borbotta ancora con un impeto sordo d'amarezza e d'ira:

— Sì; leggermente!..... Abbiamo agito troppo leggermente: con troppa fretta.....

Ma queste parole, il Roero, più che per il suo compagno, le ripete nella propria coscienza, come un rimprovero per sè stesso.

È il suo tormento, è il suo rimorso. È perciò che non ha mai potuto chiuder occhio in tutta notte!

Quand'egli s'è trovato la sera innanzi al Caffè dell'Accademia, in presenza dei due rappresentanti del Bonaldi, il marchese Emanuele Estensi e il conte Carlo Faraggiola, s'è sentito preso, lì per lì, da un senso improvviso di mortificazione e di timidità.

Il commendator Bonaldi e il quasi ignoto..... [43] Nespola! Era l'aristocrazia e la democrazia che si trovavano di fronte; e a Francesco Roero, che fin allora non ci aveva pensato, seccava assai di trovarsi all'Accademia a sostenere la democrazia.

Il marchese Emanuele Estensi e il conte Carlo Faraggiola, non erano soltanto i rappresentanti del ricco e reputato giornalista moderato conservatore, con una punta di clericalismo; non erano soltanto i rappresentanti del partito politico di don Giulio Arcolei ma rappresentavano i due rivali suoi più temibili presso il cuore della Fáni; rappresentavano le idee, i pregiudizi, i gusti, i sentimenti, le raffinatezze, l'eleganza, l'ambiente, la corte della bella baronessa.

Egli sentiva che avrebbe potuto far perder la testa, far commettere qualunque scappatella alla Fáni, ma sentiva pure che presso il soglio della baronessa, egli non avrebbe mai avuta l'autorità di que' due, però li detestava e li ammirava, li metteva in ridicolo e li invidiava. Francesco Roero era ricco, era entrato ormai nel sancta sanctorum della più ristretta società milanese, ma perchè suo padre, un fittabile di Lodignola, si era logorato [44] la vita accumulando per lui. E in faccia al conte Carlo Faraggiola e al marchese Emanuele Estensi, avendo da rappresentare la repubblichetta spiantata del povero Nespola, Francesco Roero si era sentito più che mai..... il figlio di suo padre e nient'altro!

Allora, per mantenersi in credito e in sussiego, più assai preoccupato dei giudizi e dei pregiudizi della Fáni che non della pelle del povero Nespola, per l'ansia di mostrarsi lui, in tutta la sua condotta, ancor più gentiluomo di quei due campioni autentici della vecchia razza, a furia d'inchini, di sorrisi garbati e di compiacente cavalleria aveva finito per accettare tutte le condizioni e le pretese poste innanzi dagli abili avversari, con grande vantaggio del loro primo.


Il Savoldi che aspetta fuori dal Caffè Carini, appena scorge il Roero e il Loreda alza le braccia e le mani festosamente in segno di saluto, li raggiunge affrettando il passo e subito, per scherzare [45] e per far ridere il Roero, domanda rivolgendosi comicamente serio a Nicoletto:

— Come mai?... Non vi siete messo in uniforme?

E lo scapigliato e rumoroso giornalista, continua per tutta la strada e anche sul terreno, durante tutti i preparativi per lo scontro, a scherzare, a ridere, a dir spiritosaggini e buffonate alle spalle di Nicoletto Loreda che fa «l'omeno d'arme» con una disinvoltura e un'animazione straordinaria e alle spalle persino del suo stesso avversario, il Bonaldi, ch'egli chiama sottovoce don Torquemada, per la testa calva ossuta ergentesi sull'alta e rigida persona, per la faccia pallida marmorea, dall'occhio nero obliquo, dal naso adunco, dall'espressione impassibile e impenetrabile.

Nespola s'è accorto che il Roero «ha la luna»; pensa di averlo seccato col farlo alzar troppo presto e tutti i suoi sforzi sono appunto per metterlo di buon umore, ma non ci riesce.

E nemmeno il Roero, per quanto si sforzi, riesce a vincersi: la stessa limpida serenità di quella fredda mattina di gennaio, gli penetra nel sangue, nelle ossa con un brividore sinistro che gli agghiaccia l'anima e che lo prostra.

[46] Quanto la sera innanzi è stato garbato, deferente, remissivo, altrettanto adesso è ostinato, cavilloso, risoluto, perfino aspro nel difendere, nel tutelare i diritti del suo primo.

A momenti sembra quasi ch'egli stesso cerchi una questione coll'Estensi e col Faraggiola. Strapazza Nicoletto Loreda che sembra a nozze e quando vede in un angolo del cortile il giovine chirurgo dalla barba ispida e dalla folta capigliatura arruffata preparare i ferri, le filacce, le bende, è preso da un tremito convulso.

..... Eppure s'era battuto lui stesso più d'una volta, coraggiosamente. Ma allora si trattava della sua pelle! Era padrone lui, lui solo, della sua propria pelle!

È con terrore che vede avvicinarsi il momento in cui i duellanti saranno di fronte: e il momento si avvicina.

A mano a mano, nel dare le ultime disposizioni, la sua voce si fa bassa, roca, il suo occhio incerto e smarrito.

E il freddo, il freddo di quella mattina scialba, sinistra, maledetta che gli fa battere i denti, e piegar le ginocchia.....

[47] E il momento, il terribile momento si avvicina rapido, preciso, incalzante!... È un lampo!... Come sarebbe felice il Roero se potesse battersi lui..... se dovesse anche pigliarle lui invece di quell'altro!

— Sarà colpa mia, se accadrà una disgrazia!...

La sera innanzi, al Caffè dell'Accademia, durante le trattative, nel fissare le condizioni di quello scontro era ubriaco, era pazzo, cos'era successo?...

Non aveva preveduto nulla, pensato a nulla!...

— No! No! Non dovevo aderire, dovevo oppormi alle generose ingiunzioni del mio primo!... Non dovevo accettare così, ad occhi chiusi, in fretta, leggermente tutte le condizioni dell'avversario! Leggero! Leggero! Sono stato leggero, persino sleale! Sono colpevole! Sono un vigliacco!

Si estrae a sorte la scelta del terreno: il favorito è il Bonaldi.

A questo primo scacco della fortuna il cuore del Roero ha un'altra stretta più forte.

La sorte è pure in favore degli avversari assegnando al conte Faraggiola la direzione del combattimento.....

[48] — Se fossa toccato a me — pensa il Roero — mi sarebbe mancata la forza!.....

I due avversari, ai lati opposti del cortile, si levano in fretta la giacca, il panciotto, la camicia; a petto nudo, sono posti l'uno in faccia all'altro. Che cosa fanno?... Che cosa fa?... Il Roero non lo sa nemmeno: agisce meccanicamente, automaticamente.

Nicoletto Loreda gli dà una sciabola:

— Com'è pesante!...

Il Faraggiola, alto, biondo, compassato come un diplomatico inglese, è in mezzo agli avversari e prende con ambe le mani, per misurare la distanza, le punte delle due lame.

— Signori, in guardia!

Tutto il piccolo cortiletto, avvolto in una luce che il freddo rende cristallina, gira lentamente dinanzi agli occhi del Roero, colle figure nere simmetricamente disposte dei testimoni e del medico, il petto ignudo dei duellanti, le loro sciabole diritte che luccicano.....

Il Faraggiola lascia libere le punte delle due lame e si scosta di alcuni passi, retrocedendo:

— A loro!

[49] Il Roero trasalisce, spalanca gli occhi esterrefatti. Un momento di sosta, di ansia.....

Un uccellino, di volo, si ferma dondolando sopra una lunga frasca della siepe: osserva un istante, poi fugge via battendo l'ali, squittendo impaurito.

È il Savoldi che si slancia contro l'avversario attaccando per il primo....

— Alt!

I padrini credono che il Bonaldi sia rimasto ferito al braccio. Il medico osserva: la lama ha appena sfiorato.

Un'altra sosta, poi un nuovo assalto, ancora del Savoldi, fulmineo; ma nell'impeto si getta contro la sciabola dell'avversario: la punta gli attraversa la gola.

— Alt!

— Alt!

Il Bonaldi abbassando la sciabola, si ferma irrigidito, mentre il Roero si precipita raccogliendo fra le braccia il Savoldi che barcolla, che stramazza addosso a lui coprendolo di sangue.

— Per dio! Per dio! Dottore! Dottore!

Accorre il medico..... Accorrono tutti attorno [50] al ferito. Nespola fissa in volto al Roero due pupille dilatate, disperate, gridandogli un nome:

— Lulù!... Lu... lù...

Straluna gli occhi: un altro fiotto di sangue che gli sgorga dalla gola, dalla bocca, gli spegne la parola e la vita.

Un grido, un nuovo orribile grido di Roero:

— È morto!

[51]

IV.
?.....

Francesco Roero dopo il duello si chiude in casa, senza ricevere, senza farsi più veder da nessuno. Ha sempre fissi dinanzi a sè, gli occhi stravolti del morente, la macchia rossa che si allarga, sente sempre l'odor del sangue. D'ora in ora, la solitudine, l'abbattimento, la stanchezza, lo rendono sempre più nervoso e più inquieto. È un'inquietudine, è un terrore quasi fantastico del reale, del presente..... e dell'al di là! È il terrore di quel sangue, di quegli occhi, dell'anima stessa, del fantasma di quel morto; e lo turba, lo agita pure il pensiero di un processo, di una condanna... Forse la prigione!

— È stato ammazzato un uomo! Abbiamo ammazzato un uomo!

[52] E Stefania? Com'è lontana oramai! E ieri, soltanto ieri era lì, proprio lì, seduta dinnanzi alla scrivania!

L'idea della notte, di passar tutta la notte così solo, colla visione di quel duello, di quel sangue, di quegli occhi, lo spaventa.

Suona, chiama Giovanni, il servitore:

— Va subito in cerca dell'avvocato Olivieri; adesso lo troverai facilmente alla Patriottica; e del dottor Sellero. Non mi sento bene. Fa presto!

Il dottor Sellero è pure il dottore di casa Arcolei: gli chiederà un calmante per la notte e indirettamente anche le notizie di Stefania.

— Non una parola, nulla, in tutto il giorno!

L'Olivieri è un giovine avvocato, molto amico del Roero.

— Mi farà un po' compagnia e intanto mi consiglierò; sentirò che cosa devo fare. È stato ammazzato un uomo!... Abbiamo ammazzato un uomo!

Ma il dottore si è recato a Vigevano per un consulto, e l'Olivieri è impegnato in una seduta. Quando l'avvocato arriva più tardi, trova il Roero già a letto:

— Vuoi dormire, o ti senti poco bene?

[53] — Non sto bene. Ho fatto chiamare il medico, ma è a Vigevano.

— Hai pranzato?

— No. Non ho fatto nemmeno colazione.

L'Olivieri prende il lume dal tavolino per guardar meglio in viso l'amico; gli fa qualche domanda, lo studia attentamente, poi rimette il lume a posto, sorridendo:

— Tu hai in corpo una paura indiavolata!... Sei rimasto molto impressionato; sei un uomo di cuore, è naturale! Ma invece di muoverti, di cercare di distrarti, sei rimasto tutto il giorno solo, chiuso in casa, senza parlare, senza mangiare, e i nervi han preso il sopravvento! Lascia stare il dottor Sellero a Vigevano, chè alla tua cura penso io. Una buona cena e un paio di bicchierini di marsala. In quanto al processo... Non pensarci nemmeno!

— Ma... è stato ammazzato un uomo!...

— No; un uomo è rimasto ucciso in duello, il che è ben diverso. Anche per la Giustizia è come per l'arte: tutto, caro mio, sta nella forma. Si farà un processo, certamente, e il Bonaldi verrà anche condannato a parecchi mesi di detenzione che sconterà..... con una prossima amnistia.

[54] — Per il Bonaldi è anche giusto; è stato provocato, è stato offeso e, in fine, s'è battuto lealmente mettendo in gioco la propria vita come quell'altro... che l'ha perduta. Ma noi? Noi abbiamo fatto ammazzare un uomo e non abbiamo arrischiato nulla!

— Tu non sei andato a cercarlo questo Savoldi, questo tuo Nespola!... Ti è caduto sul capo come una tegola! Accomodare la questione pacificamente era impossibile; dunque?... Rimorsi non ne devi avere. I padrini, quando sono in regola colla propria coscienza, non hanno nessun conto da rendere nemmeno alla legge. Su, su, coraggio! Recipe, una buona cena; e se non basta il marsala per infonderti un po' di color roseo nella fantasia, fa portare una bottiglia di champagne.

— Se mi fai compagnia.....

— Perchè no?

— Allora mi alzo subito, e intanto mando Giovanni al Rebecchino. Fuori, stasera, non voglio farmi vedere.

L'avvocato scoppia in una risata:

— Fai benissimo! C'è Nicoletto Loreda che si fa vedere anche per te. Io l'ho visto da lontano [55] descrivere il duello: capivo dai gesti, dalle mosse! L'ho visto sul Corso, al Cova, al bar, e l'ho sentito dal parrucchiere. Adesso, poco fa, alla Patriottica, descriveva ancora, con delle spaccate tremende!... Ma, ormai, non ha più voce!

— L'opinione pubblica, per chi è? Che cosa dice la gente?

— È favorevole al vivo.

— E... in casa Arcolei?

— Con questo duello il Bonaldi e la Difesa hanno acquistata molta autorità e forza: ciò, naturalmente, farà gongolare don Giulio, che per altro si guarderà bene dal dimostrarlo.

— E... io?

— Tu?

— Sì. Credi che io sarò ricevuto bene, come prima, in casa Arcolei?...

— Ecco, ciò dipende dal grado, diremo, di stima e di simpatia che può aver per te la signora baronessa. Tu solo, mio caro, sei in grado di sapere fino a che punto ella può esser disposta a chiudere un occhio. Perchè è così: in faccia a casa Arcolei, alla sua corte e al mondo milanese tu, con quel tuo Nespola sanculotto, ti sei abbastanza incanagliato.

[56] Il Roero comincia a cenare svogliatamente, ma poi, a mano a mano, acquista un ottimo appetito. Anche lo champagne e l'allegra parlantina dell'avvocato fanno il loro effetto, e però, quando dopo la mezzanotte egli torna a letto, si addormenta subito e placidamente. Ma verso le quattro si desta di colpo sussultando, e si rizza a sedere sui cuscini col respiro rotto, affannoso, col cuore che gli batte furiosamente, colla fronte madida di sudore.

— No, no, no, io non ho fatto il mio dovere! Io non sono in regola colla mia coscienza! Io dovevo imporre condizioni meno gravi, io dovevo far valere l'inferiorità fisica del povero Nespola in confronto del Bonaldi! Invece io ho accettato in fretta e in furia tutto ciò che proponevano il Faraggiola e l'Estensi in vantaggio del loro primo! Io non ho pensato nemmeno a quel povero disgraziato che mi aveva affidato il suo onore e la sua vita! Io non ho pensato che alla Fáni, a ciò che quei due avrebbero riferito, avrebbero detto di me alla Fáni... Ed io quell'uomo l'ho fatto ammazzare; l'ho lasciato ammazzare per la Fáni!

Nel buio della camera ecco ancora riappariscono [57] gli occhi stravolti, la gola squarciata dalla larga ferita e nel silenzio profondo risuona l'urlo terribile della convulsione e della morte:

— Lulù! Lu... lù...

Era la disperazione, era il delirio!

— Lulù! Lu... lù...

Che contrasto strano, doloroso, persino ironico, questo grido, questo nome, il nome di un cane, di una bestia su quella bocca sformata che vomita sangue, che spasima, che si torce nell'agonia!

— Lulù? La cagnolina, l'unico affetto del povero Nespola! Gli ho promesso di custodirla, di tenerla con me! Gliel'ho promesso e lo farò! Giuro che lo farò! Ma dove trovarla? Dove sarà? Nespola rideva, scherzava sempre su tutto, su tutti! Forse è uno scherzo anche Lulù!

Nella cameretta che il Savoldi teneva alle Tre Spade — tutta casa sua! — Lulù non c'era. Non c'era niente in quella povera camera lontana; una topaia su, all'ultimo piano! Avevano trovato un pettine e un berrettino da viaggio; due solini staccati, uno sudicio ed uno nuovo... Poi nient'altro che giornali e mozziconi di sigari. Un gran puzzo, un tanfo di sigaro spento.

[58] — Lulù? Forse è stato uno scherzo e non esiste nemmeno! Oppure, chi sa, Lulù è presso qualche donna.... presso un'amica, un'amante di quel povero diavolo! In tal caso devo cercarla, devo prenderla con me; l'ho promesso!

Francesco a poco a poco si calma; il suo respiro, i battiti del suo cuore si fanno più regolari. Egli torna a tirarsi giù, sotto le coperte, a stendersi nel letto, e continua a pensare:

— Domani, andrò di nuovo alle Tre Spade. Domanderò all'albergatore di questa Lulù; forse egli saprà dirmene qualche cosa. E poi pagherò il conto del Savoldi. E se quel povero diavolo ha lasciato altri debiti li pagherò. Voglio che la sua memoria sia rispettata. L'Olivieri penserà al funerale, che si farà a mie spese...

..... Gli occhi di Nespola non sono più minacciosi. Nespola ringrazia, scoppiando al solito in una grande risata e il Roero, a poco a poco, si addormenta tranquillamente.

Ma la mattina dopo il suo primo pensiero non è di correre alla locanda delle Tre Spade in cerca di Lulù, è di mandare in portineria nella speranza di trovare un bigliettino, un libro, qualche cosa [59] che gli sia mandato da Stefania. Stefania accorta e prudente, anche quando è innamorata, non gli ha mai scritto e il Roero non aspetta certo una lettera, ma due righe, una parola, un cenno soltanto, per fargli capire ch'ella è in collera, che lo ama sempre.....

Niente. Di Stefania, niente: non ha scritto, non ha mandato un libro, il segno d'intesa che è sola in casa verso le sei, prima di pranzo e che lo aspetta a quell'ora senza fallo; non ha mandato nessuno.

— È troppo presto ancora; verrà qualcuno più tardi. Ieri non mi ha veduto in tutto il giorno, ma ieri sera mi ha certo aspettato come al solito. Perchè si sarebbe cambiata? Che cosa ho fatto? Che delitto ho commesso? Ho fatto da padrino ad un giornalista mezzo repubblicano che ho conosciuto molti anni fa! Ciò può aver urtato don Giulio; non lei. Lei sa benissimo che io non sarò mai un codino.... E per quanto abbia detto, predicato, non è mai riuscita a farmi ammirare suo marito! Un grand'uomo perchè sa non far niente e perchè non parla! Io sono un artista, uno scrittore; ho altri ideali, altri doveri! Non sono un [60] imbecille ieratico sullo stampo del suo Estensi e del suo Faraggiola! Chi sa, però, come questi due sapranno valersi dell'occasione per screditarmi e per guadagnar terreno. Sono invidiosi, gelosi; qualche cosa hanno dovuto subodorare e mi odiano... Ma la Fáni con me, ormai... E venuta qui... È stata qui, vivaddio; qui in casa mia! Certo questa volta mi scriverà o mi farà dir qualche cosa!

Presentarsi in casa Arcolei senza un avviso di Stefania, non si arrischia per via di don Giulio:

— Se don Giulio mi fa uno sgarbo?... Se non mi riceve?... Scrivere io a Stefania?...

Impossibile. Stefania gli ha proibito di scrivere, per qualunque motivo, assolutissimamente.

Non c'è altro dunque che aspettare e il Roero aspetta e non si alza da letto: dormendo, il tempo passa più presto e spera in cuor suo d'essere svegliato da un messaggio di casa Arcolei.

Chiude gli occhi, ma tende ansioso le orecchie ad ogni passo, ad ogni voce, ad ogni suonata di campanello.

Non può dormire; si volta, si rivolta. Mille pensieri lo agitano; gli ritornano le inquietudini, le smanie come il giorno innanzi. Ha già mandato [61] Giovanni in portineria due, tre volte: niente! Si alza per far colazione e strapazza il servitore, il parrucchiere, lo stampatore venuto a portargli delle bozze. Poi, non ha ancor finito di far colazione, pianta lì tutto e si veste per uscire.

— Andrò in cerca di Lulù. Povera Lulù, mi vorrà più bene e mi sarà certo più fedele!...

Ha già indossato il paltò, prende il cappello, i guanti, il bastoncino, quando ecco Giovanni con una lettera; la lettera di Stefania!

Giovanni è ancora sull'uscio, la lettera è ancora sul vassoio, ma il Roero è troppo innamorato per potersi sbagliare.

— Chi l'ha portata?

— Un servitore di casa Arcolei.

— Aspetta la risposta?

— No; è già andato.

Il Roero non esce più; si chiude invece nel suo studio colla lettera tanto desiderata, tanto cara! Ma prima di leggerla, vuol goderla. Fa per aprirla e ha timore di aprirla... teme ancora in un disinganno!... Oh, il piacere di aspettare, d'indovinare, d'immaginare!

«A Francesco Roero
«s. m.»

[62] — Non è una lettera; è un bigliettino soltanto!... Ma che importa? M'ha scritto! Vuol dire che mi ama e vuol dire che la vedrò!

Sdraiato sul canapè continua a bearsi nel rileggere l'indirizzo dal bel caratterino slanciato, ad angoli precisi, mentre il profumo che emana dalla lettera dell'Arcolei, dapprima quasi impercettibile, si fa più acuto, più penetrante...

«A Francesco Roero
«s. m.»

Ad un tratto il cuore gli fa un sobbalzo; si rizza a sedere sul canapè:

— Forse è un avviso di premura! Un appuntamento!... Vuol vedermi subito!

Straccia la busta che è grossa, fortissima, inglese: non è che un semplice biglietto di visita di Stefania con un grosso punto d'interrogazione scritto in lapis.

Francesco ha un impeto d'ira... poi, scrollando il capo, sorride con amarezza:

— Lei, lei, sempre lei! Sempre prudente e diffidente! Mai un abbandono vero! Mai un impeto schietto del cuore! Civetta..... e sempre la scuola [63] dei gesuiti! Un punto d'interrogazione, che cosa vuol dire? Niente e anche tutto!

?.....

«Perchè non sei venuto?... Perchè non ti sei fatto vedere? Perchè non hai fiducia in me, perchè non credi in me?...»

Le domande continuano e Francesco si rasserena. Quel punto d'interrogazione diventa appassionato, tenero, espressivo, eloquente più di qualunque lettera. È la Fáni, tutta la Fáni, colla sua ombrosa riserbatezza e la sua birichina furberia. E lei, lei, tutta la Fáni, che è tornata lì, in casa sua, mezzo sorridente e mezzo in collera, col no sulla bocca e il negli occhi. È lei che lo ama, che lo cerca, che lo irrita, che lo maltratta, e che lo calma e lo incanta con una sola carezza.

«Son venuta qui, da te, e ancora dubiti del mio amore?»

Gli par di sentire la voce della Fáni calda, appassionata; gli par di sentire il suo calore, la sua fragranza, nel profumo di quel bigliettino.

— Cara... cara...

E Francesco innamorato e beato bacia la busta, il cartoncino, bacia il punto d'interrogazione, baciando [64] insieme con trasporto, con delirio gli occhi e la bocca della Fáni.

Ma l'innamorato ama e teme quegli occhi a volte sfavillanti, a volte impassibili; ama e teme quella bocca giovine, rosea, dalle leggere sfumature dorate su cui il sorriso languido e voluttuoso si muta a un tratto in una freddezza imperiosa. Egli non si arrischia di presentarsi inaspettato, in ore insolite, in casa Arcolei. La baronessa, ottima amica e insieme ottima moglie, è osservante fino allo scrupolo di ogni regola, di ogni abitudine sociale e, più che può, si mantien fedele all'orario. Colpi di testa dunque, e colpi di scena, mai; improvvisate, mai. Tutto a suo tempo, e c'è tempo per tutto.

Il Roero pensa e conclude:

— Presentarmi di giorno, no. Se oggi avesse potuto vedermi, Stefania mi avrebbe certo mandato anche un suo libro insieme al bigliettino. Andrò stasera; un po' più presto del solito, per trovarla sola.

E il povero Nespola?... E i propositi della notte? Il Roero scrive in fretta all'avvocato Olivieri per il funerale del giorno seguente: ed anche il giorno seguente andrà alla ricerca di Lulù.

[65] Intanto, frenando l'impazienza, egli aspetta che sian suonate le otto e tre quarti prima di varcar la soglia dell'amata. Gli eletti e i prediletti assunti, come il Roero, all'intima comunanza dell'adorazione serale, giungono, quasi sempre, tra le nove e un quarto e le nove e mezzo, partendo dal club o dal Cova, tutti insieme par farsi la guardia l'un l'altro.

Il giovine poeta fa d'un salto lo scalone con l'ali a' piedi e il cor giocondo, ma appena entrato in anticamera s'impunta e aggrotta le ciglia.

Dall'attaccapanni, sotto due lucidi cilindri splendenti al gaz, e così uguali che sembrano gemelli, pendono due pellicce, una lunga, una un po' più corta. Stefania non è sola; ha certo avuto a pranzo il Faraggiola e l'Estensi.

Il Roero, mentre attraversa l'appartamento seguendo i passi del servitore, ha un travaso di bile e di gelosia, col ritorno dei più cattivi pensieri: il duello, il povero Nespola, i suoi rimorsi.

Egli pensa fra sè, imbronciandosi sempre più:

— Anche costoro vorranno farmi il processo! Anche donna Stefania e don Giulio Arcolei; anche quel falso inglese del Faraggiola e quel piccolo [66] rogantino dell'Estensi! Ma stasera mi fo sentire!... Per Dio, non ho paura di nessuno!... Se qualche volta mi lascio imporre dalla baronessa Stefania è perchè è una donna... che mi piace! Ma adesso sono stufo, stufo, stufo di tutta questa casa che sente di patchouly e di sacristia! Proprio oggi li ha invitati a pranzo.... senza di me!... E tutti e due, perchè si son coperti di gloria!...

Povero Nespola!

— Per di qua, signor cavaliere!...

Il servitore volta a sinistra e lo fa passare per la lunga fila di stanze che conducono al salottino... delle indisposizioni di Stefania, quello che precede la sua camera da letto.

— Come?... La baronessa è ammalata?

— Dopo pranzo s'è sentita poco bene.

Tale notizia è fonte di nuove inquietudini per il giovine commediografo. Stefania non è mai indisposta, la sera, senza un perchè.... e senza avere una vittima prestabilita.

Nel salottino, tenuto mezzo al buio dai grandi e fitti paralumi, spiccano accanto al caminetto i bianchi sparati del conte Faraggiola e del marchese Estensi, cioè di Carletto e di Manòlo, come i due [67] testi classici della moda sono chiamati familiarmente alla corte di Stefania e nelle altre corti amiche. Don Giulio Arcolei, in piedi, appoggiate le spalle alla caminiera, spiega loro il nuovo piano regolatore della città di Milano, messo in discussione quel giorno stesso al Consiglio comunale.

Quando il servitore alza la portiera, don Giulio si volta verso l'uscio, e veduto il Roero gli stende una mano dal suo posto, senza muoversi, e coll'altra gli accenna di non far rumore. Francesco si avanza in punta di piedi, e dopo aver stretta la mano a don Giulio, a Carletto e a Manòlo, cerca, girando gli occhi, la padrona di casa. Essa è sdraiata, tenendosi una mano sugli occhi, sopra una lunga poltrona mezzo nascosta tra la finestra e una piccola scrivania, che luccica ai riflessi della fiamma del caminetto.

— Donna Stefania non si sente bene?

Don Giulio sospira:

— La sua emicrania; ma questa sera è più forte del solito.

E continua a discorrere, sommessamente, del piano regolatore.

Francesco Roero, sempre in punta di piedi, si [68] avvicina di alcuni passi a donna Stefania: la bella signora abbassa un momento la mano dagli occhi, sospira flebile, con un gemito, poi, allungandosi, riadagiandosi riprende il primo atteggiamento.

L'autore di Arianna intende il latino, fa un rispettoso saluto e torna indietro, riavvicinandosi agli altri tre; ma anche lì rimane estraneo alla conversazione, fuori affatto dall'orbita della intimità.

Don Giulio, che si sfoga e parla in privato a casa sua per tutto il tempo che tace in pubblico, esaurito l'argomento del piano regolatore, comincia quello non meno ripetuto della nuova esposizione nazionale. Carletto e Manòlo ascoltano attentamente, approvando muti, coi cenni del capo, e Francesco Roero, che si aspettava una sfuriata da tutta quella gente, una strapazzata da parte della Fáni, e che si era preparato a rispondere, a difendersi e, occorrendo, ad attaccare a sua volta, dapprima si sente confuso, impacciato e anche intimidito da quell'accoglienza inaspettata, da tutta quell'esagerata indifferenza, da quel silenzio diplomatico. Ma poi, l'irritazione e il suo orgoglio offeso riprendono il sopravvento. Si alza [69] per andarsene e saluta don Giulio con voce forte e risoluta:

— Vi auguro la buona sera e vi prego di far le mie scuse a donna Stefania. Domattina, se permettete, manderò a prendere le notizie. I due personaggi muti; egli li saluta appena, freddamente, con un cenno del capo e un addio.

I tre si guardano stupiti, e don Giulio, più di tutti e tre, rimane maravigliato e quasi sconcertato da quella specie di ribellione di uno dei più sommessi adoratori di sua moglie.

— Ma come?... Non volete aspettare il tè?

— Grazie. Non sono venuto per fermarmi. Volevo soltanto presentare i miei ossequi a donna Stefania.

Si ode una vocina lontana, debolissima, che pare un lamento:

— Signor Roero!...

Il Roero ha già stretto la mano accomiatandosi da don Giulio. Sentendosi chiamare, si volta e si avvicina lentamente, inchinandosi e salutando, per prendere commiato anche dalla padrona di casa.

Don Giulio si affretta a ritornare al suo posto [70] presso il caminetto e riprende il discorso, ma adesso a voce un po' più alta, mentre Carletto e Manòlo sembrano ascoltare con sempre crescente attenzione. Nessuno dei tre, finchè dura il colloquio tra Francesco e donna Stefania, spinge mai gli sguardi indiscreti verso l'angolo oscuro dov'è seminascosta la poltrona a sdraio.

Appena Francesco le è vicino, Stefania bisbiglia sospirando, senza muoversi, senza alzare il capo:

— Mi sono molto inquietata!... Sapete che mi fa tanto male!... Mio marito è furibondo contro di voi!... Dio mio! Ah, Dio mio!

Un lungo gemito e una lunga pausa, una forte pressione colle dita alle tempie per attutire lo spasimo.

— Anche Manòlo e Carletto vi danno torto, molto torto.

— Sono dolentissimo di sapervi poco bene.

— Avete ricevuto il mio biglietto?

— Cioè, il vostro segno.... grafico? Sì. Ho cercato d'indovinare. Volevate dirmi di venire?... Per questo sono venuto.

— No; volevo dirvi, invece, che non vi capisco.... proprio più.

[71] — Allora mi sono sbagliato nell'interpretazione.

La vocina della Fáni si fa più tenera, più flebile:

— Dite di volermi bene e poi, invece....

Francesco, sempre in piedi, la guata cogli occhi torvi, le ciglia aggrottate:

— E poi?... Avanti! Spiegatevi.

— E poi me lo provate, mettendovi con tanta leggerezza contro di noi. Vi ripeto: non vi capisco proprio più.

— Non mi capite, appunto, per un equivoco. Perchè dite noi? Io non amo tutta la casa, compresi gli ospiti. Io amo voi, soltanto voi; voi.... al singolare!

— E ciò che cosa vuol dire?... Che non sapete amare! Siete ancora troppo giovine; non sapete amare! Oh, se mi amaste veramente avreste un po' di amicizia anche per mio marito, così buono, così retto, così giusto! Avreste per lui stima e devozione! Quando si ama una donna, bisogna ricordarsi bene che si devono tutti i riguardi a suo marito.

— Io, invece, quando amo una donna, odio suo marito e tutti quelli che le fanno la corte.

[72] — Perchè per voi l'amore non è poesia, sacrificio, ma egoismo, e non vi preme nè la pace, nè la riputazione, nè la felicità della povera donna alla quale dite e pretendete di voler bene. Il vostro amore, invece della gioia segreta e suprema dell'anima, volete che sia per tutti una disgrazia!..

Stefania sempre sdraiata gli stende la mano congedandolo:

— Andate pure. Buona sera.

Francesco non si muove.

— Buona sera. Adesso andate. Abbiamo parlato anche troppo fra noi soli, a bassa voce. Del resto.... dipende ancora.... soltanto da voi. Non fate altre sciocchezze; diventate serio, ragionevole, e non siate imprudente.

— Sciocchezze non ne ho mai fatte! Imprudenze non ne ho mai commesse!

— Tutti sono d'accordo nel mettere questo fatto, così doloroso, in silenzio. Avete veduto anche i giornali più avversi al Bonaldi? Ne hanno parlato pochissimo; ormai non ne parleranno più. Voi, da parte vostra, fate altrettanto. Se non per risparmiare a me nuovi dispiaceri, almeno per voi. Pensate alla vostra nuova commedia, così bella.... [73] Non vi conviene crearvi nemici. Anche se non lo meritate — cattivo! — io sento che vi vorrò sempre bene, pur troppo!... Almeno come una sorella! Domani mattina vado a messa a San Fedele. Buona sera e.... andate pure.... anche su qualche palcoscenico.... a far la corte alle prime donne. Cattivo! Cattivo!

La bella sofferente fa un altro sospiro più profondo, coprendosi di nuovo gli occhi languidi colla manina ingemmata.

[75]

V.
La signora Carlotta.

All'indomani, poca gente ai funerali del povero Nespola. Qualche reporter, qualche ozioso frequentatore del caffè del teatro Manzoni, qualche artista drammatico e qualche curioso raccolto per via. I giornali, che gonfiano i vivi e anche i morti, invece di levar la voce attorno a quella bara, hanno sopìto ogni curiosità, ogni rumore. Il morto non è di moda; nessuno ne ha parlato, nessuno ne parla. Insomma, interessi e convenienze e simpatie hanno ordita tacitamente la congiura del silenzio.

Il Bonaldi, in fatti, nato a Milano, appartenente al giornalismo milanese, ha nome e autorità, conta amici, aderenze, influenze, mentre invece, chi è, [76] chi lo conosce quell'attaccabrighe esaltato e villano, capitato non si sa da dove per far chiasso? Uno spiantato, uno spostato, un sovversivo pericolosissimo, sempre in cerca di una lite e di un biglietto di cinque lire! Il povero Bonaldi, infine, vi è stato tirato pei capelli!... Più che offeso, provocato, è stato, si può dire, aggredito!... Del resto non è stato il Bonaldi a infilzare il Savoldi, ma è stato il Savoldi a farsi infilzare, mentre il povero Bonaldi non faceva altro che parare e difendersi!

Su tutta Milano spirava in que' giorni un'auretta tepida di trasformismo e di conciliazione, soffiata da Roma dal buon Depretis. Anche gli avversari stessi del Bonaldi e della Difesa non hanno nessun interesse, per il momento, di attaccare polemiche, e però, per ispirito di solidarietà fra colleghi, stanno zitti.

Il conte Faraggiola e il marchese Estensi, sempre gentiluomini, non mancano, per altro, al funerale. Seguono la piccola bara per un tratto di via, poi, molto prima di arrivare al cimitero, chetamente si dileguano.

Il bravo Nicoletto Loreda, soldatescamente accigliato [77] e stretto impettito nel nero e lunghissimo stiffelius, ha preparato quattro parole di addio energiche, risolute. Ma poi, visto che non resta più quasi un'anima per applaudirlo, e rimasto un po' urtato e sconcertato dal malumore del Roero che lo saluta appena e non risponde afflitto a' suoi nuovi appunti sulla tattica e la tecnica seguìta nello scontro, si risolve a un tratto e con un'alzata di spalle torna indietro e va a far colazione.

Francesco Roero rimane solo al cimitero e rimane fino all'ultimo istante presso il povero Nespola.

Che solitudine immensa e triste in quel momento, in quel luogo! Quanto egli sente freddo e desolante il nulla della vita e il nulla della morte!... Tanto correre, tanto affaticarsi, tanto affannarsi e tanto soffrire per arrivare più presto a raggiungere la fine... di tutto! Per rimaner lì soli, in un cimitero, non ancora sotterra e già abbandonati!

— Ci si dà tanta importanza ed è così poca cosa la vita.... e la morte!... Anche la Fáni con tutti i suoi capelli biondi e le sue ipocrisie, con quegli occhi e quella bocca... anche la Fáni così [78] bianca e così bella... sarebbe finita lì.... così! E la morte — il nulla! — arriva alle volte senza nemmeno lasciare il tempo di aspettarla! Povero Nespola, non aveva ancora trent'anni! Aveva poco più della mia età! Ad un tratto, in un momento, nella pienezza della forza, della salute, della vita, mentre rideva, mentre scherzava e godeva.... Ed è stato forse anche per colpa mia!.... Non potrò perdonarmelo mai più!

Uscito dal cimitero prende un brum e si fa condur subito a Porta Romana, all'albergo delle Tre spade:

— Ma — grida al brumista — senza passare da via Manzoni, nè da via Santa Margherita!

Egli non vuol incontrare donna Stefania, la quale annunziandogli la sera innanzi che sarebbe «andata a messa a San Fedele,» gli aveva fissata l'ora e il giro della passeggiata per potersi trovare alla mattina.

— Non voglio vederla più!... Voglio finirla!... Mi è diventata antipatica!... Farà un bel girare, stamattina, per incontrarmi!... E nemmeno stasera, nemmeno domani, non mi vedrà mai più!... In casa sua, con quel marito imbecille che tollera la [79] corte così palese, così sfacciata del Faraggiola e dell'Estensi, non mi vedrà mai più! Ormai, la signora baronessa, inviti a pranzo chi vuole; me no. Io le risponderei un bel no! Ho bisogno di quiete, di raccoglimento, per lavorare!

Il proposito di Francesco Roero è ben fermo; tuttavia, in fondo al suo cuore, ancora inavvertita già si risveglia una speranza: ciò che farà la Fáni quando non lo vedrà più, per poterlo riveder ancora.

Alle Tre spade, il locandiere crede di sognare e si profonde in inchini e in complimenti, asciugandosi la bocca e il viso col tovagliolo che tiene sempre in mano e che gli serve per tutti gli usi, da strofinaccio e da fazzoletto.

— Il conto?... Il signore mi domanda il conto del Savoldi?... Del signor Savoldi?... Poveretto!... Crede?... Appena ricevuta la notizia mi son sentito gelare il sangue!... E anche mia moglie! Gli volevamo bene come a uno di casa! Così affabile, allegro!... Sempre matto, scherzoso!... Il signore è un suo parente?... No?... Fa lo stesso! Scusi anche l'indiscrezione!... Mi ha chiesto il conto? Se ha la bontà di accomodarsi un momentino è presto fatto; in due minuti!... Ecco una sedia!

[80] Il locandiere prende una sedia, e gliela presenta davanti dopo averne spazzata la polvere col tovagliolo:

— Il signore era forse un suo amico?... Sarebbe un giornalista anche il signore?... Povero giovine!.. Tutti i difetti del mondo, ma un cuore!... Per cuore!... Lo dicevo sempre anche a mia moglie: «Che cuore!» Mah!... Per me il duello è una vera barbarità e si dovrebbe proibire!... Vengo subito col conto!

Il locandiere entra nel burò, si caccia il tovagliolo sotto l'ascella e fruga tra i registri. Intanto continua a parlare:

— Stamattina volevo andare anch'io al funerale con mia moglie; ma poi per via del mercato di Melegnano c'è stato in casa un andirivieni straordinario!... Chi sa che bel funerale?... Un matto da legare, ma un talento!... Per talento!... Il signore, scusi la domanda, è di Milano?

— Sto a Milano.

— Ecco, infatti, perchè mi pare di averla vista ancora.... se non sbaglio?

— Ho pranzato qui, l'altra sera.

Un momento di silenzio: il locandiere sta facendo [81] la somma. Quando ha finito e il conto è pronto lo mette sopra un piatto e lo fa consegnare «al signore» da un cameriere che aspettando la mancia stava attento, gironzando nella sala.

Francesco Roero prende la nota, la scorre con un'occhiata: non arriva alle novanta lire. Dà un biglietto da cento, e lascia il resto al cameriere.

— Grazie, signore.

Il locandiere, fatto il saldo gli vuol mostrare e consegnare la poca roba stata raccolta nella camera del signor Savoldi:

— Un gran disordinato!... Ho dovuto far lavare, scopare, lavorare per mezza giornata! Ma anche un gran galantuomo!... Per galantuomo, straordinario!

Il Roero non guarda nemmeno tra quelle straccerie; prende soltanto un involtino in cui c'erano alcune carte, alcune lettere.

— Non sa, signor albergatore, se il povero Savoldi ha lasciato debiti?

— Non so. Crediti no, certissimo, potrei giurare; ma debiti.... Tutto ciò che è arrivato, lettere, conti.... lì c'è tutto! Guardi lei.

[82] Il Roero apre l'involtino, fa passare le carte, le lettere e intanto domanda ancora al locandiere, elle approfitta del momento per spolverarsi col tovagliolo le scarpe:

— Il signor Savoldi.... aveva pure un piccolo cane?

L'altro scrolla il capo maravigliato:

— Un cane? Mai visto cani!

— Ma sì, una piccola cagnetta!... Una cagnolina chiamata Lulù.

— Non ho mai viste cagnoline al signor Savoldi e non l'ho mai sentito a chiamar Lulù!... Lulù?

— Eppure.... me ne ha tanto parlato l'ultima sera, prima del duello....

— Non saprei.... era tanto originale!... Sarà stata magari un'invenzione, uno scherzo.... Tutti i giorni ne inventava una di nuovo!...

Il locandiere tace e osserva il Roero che legge e rilegge con grande attenzione un piccolo foglietto levato da una busta bigia, con sopra stampato l'indirizzo di una ditta.

— Il signore... ha forse trovato qualche cosa d'importante?

[83] Francesco Roero non risponde, ma quel foglietto, una piccola fattura, lo ha colpito vivamente e torna a rileggerlo, con molta attenzione:

Merce stata consegnata alla signora Carlotta Canzi, per conto del signor Savoldi:

1/2 dozzina di calzettine piccole da bambino L. 5.50
3 corpettini 2.50
2 sottanine di lana 4.00
Totale L. 12.00

Il Roero si rivolge di nuovo all'albergatore:

— Conosce lei una certa signora Carlotta Canzi?

Il locandiere fa la stessa faccia di quando il Roero gli ha parlato di Lulù; poi soggiunge lisciandosi le labbra e i baffi, sempre col tovagliolo:

— Se vuol sapere qualche cosa più di preciso riguardo al povero Savoldi, ai suoi interessi, alle sue relazioni, io credo che il signore dovrebbe rivolgersi al caffè del Teatro Manzoni, oppure alla Fiaschetteria Toscana: qui, in realtà, non ci veniva altro che a dormire.... e quando ci veniva!... Era proprio un caso quando si fermava a colazione veniva a pranzo....

Il Roero non ascolta di più, salutato appena il [84] locandiere che lo segue profondendosi di nuovo in inchini e in ringraziamenti, esce dall'albergo e salta nel brum, che lo aspetta sempre sulla porta, gridando al cocchiere:

— Al caffè del Teatro Manzoni!

Appena in brum, il Roero torna a leggere la noticina:

1/2 dozzina calzettine piccole da bambino....
3 corpettini....
2 sottanine di lana....

— Da bambino?... «Merce stata consegnata alla Signora Carlotta Canzi per conto del signor Savoldi?....» — In questo punto il Roero rivede il viso e gli occhi di Nespola diventati improvvisamente così seri e ansiosi mentre gli parla di Lulù e gli raccomanda Lulù.

— Strano!... Ma poi, subito, anche mentre mi raccomandava Lulù s'è messo a ridere.... Come avrebbe potuto ridere di una cosa tanto seria e in quel momento?... Fosse vero? Ma se fosse proprio vero?

Dall'animo di Francesco spariscono i terrori, i biechi fantasmi, si placano le inquietudini e i rimorsi: — Fosse vero! Fosse vero! — Egli ripete [85] prorompendo con un impeto di gioia. — Un bambino? Un figliuolo di quel povero disgraziato? L'ho promesso; sarebbe mio. Farò il mio dovere.

E il piccolo essere che reca la pace alla sua coscienza e sana il suo onore, egli lo immagina roseo, biondo, sorridente, bellissimo; come una nuova attrattiva e un nuovo ornamento interessante e poetico del suo quartierino da scapolo, come una nuova fonte di gioia, un nuovo divertimento della sua vita.

Il Roero, giovanissimo ancòra, e ancòra, nel fondo, un po' romantico ad onta della psicologia pessimista delle sue commedie, non pensa più in là; non pensa all'avvenire, ai gravissimi doveri che poi peserebbero su lui, a tutti i nuovi obblighi, al vincolo che non potrebbe più spezzare e sopratutto egli non pensa che il piccolo esserino roseo e sorridente crescerebbe a poco a poco e diventerebbe un uomo.... o una donna.

— Fosse vero!... Sarebbe mio figlio!... L'ho promesso; farò il mio dovere!

In quel punto il brum, venendo da via Durini, attraversa il Corso per imboccare la via Monte Napoleone, e il Roero, proprio sul corso, vicino [86] alla Galleria De Cristoforis, scorge Donna Stefania che fa il solito giro, prima di andare a casa, accompagnata da Manòlo e da Carletto. Il giro prima della messa toccava al Roero; quello dopo messa al Faraggiola e all'Estensi.

La Fáni è fresca e prosperosa, animata dall'auretta mattutina. Alta, diritta, il petto sporgente, una mollezza languida nel camminare, i bei capelli biondi ondeggianti sulla fronte, sorride colle labbra e cogli occhi esperti ai due appassionati corteggiatori, che le si stringono ai fianchi beati, estasiati.

Il Roero pieno di dispetto, di furore, di gelosia, si caccia in fondo al brum, per non essere veduto:

— Civetta, ipocrita, falsa e senza cuore!... Non mi ha veduto, prima di messa, e non ci pensa nemmeno!... Voglio metterla in commedia, subito, appena ho finito l'Arianna!... La devota voluttuosa! Ecco il titolo! Bellissimo! E voglio mettere in commedia anche quei due tipi comicissimi e nuovi che l'amano... in società!

Vicino al teatro Manzoni egli ferma la carrozza, discende e la lascia in libertà. Fa il resto della strada a piedi.

[87] — Non vado nemmeno stasera in casa Arcolei!.. Nemmeno domani, mai più!... L'ho detto e lo mantengo: non ci vado più! Non mi vede più!

Sempre irritatissimo contro la Fáni, apre l'uscio a vetri del caffè, ma subito gli mozza il respiro una zaffata di fumo di sigaro e di tanfo di cucina, mentre gli rintrona le orecchie una disputa animata, un vociare, un urlare in vari dialetti... Il Roero esita un istante sulla soglia; non sa se entrar dentro sì o no... Ad un tratto succede alle grida, allo strepito, un grande silenzio: tutti, nel caffè, voltano la faccia curiosa verso il giovane ed elegante commediografo che riempie il Manzoni e verso uno dei padrini, il più noto, del povero Nespola.

Francesco Roero saluta con un cenno del capo e torna indietro chiudendo l'uscio con una spinta che fa rintronare i cristalli.

E avviandosi verso la piazza della Scala, borbotta fra sè:

— Che stupido!... Vado dal negoziante che ha dato i corpettini e le sottanelle, pago il conto, e intanto posso avere tutte le informazioni e l'indirizzo di questa signora Canzi, senza perdermi in chiacchiere e in pettegolezzi!

[88] Guarda di nuovo il conticino per veder l'indirizzo della bottega:

Fratelli Lamberti, via Orefici, 25.

Il Roero ci va difilato e sa da un commesso senza troppa fatica, tutto quanto vuol sapere.

La signora Carlotta è la moglie del signor Vincenzo Canzi, maestro di pianoforte e direttore d'orchestra: abita al Cordusio, a due passi da via Orefici, in faccia al ristorante del Giardinetto.

Il Roero trova subito la casa, ma la vecchia portinaia che vende anche fiori e frutta nell'angolo sotto il portone, risponde che la signora Carlotta non c'è:

— È partita da Milano da due o tre giorni! È andata a Bergamo, dove il signor maestro Canzi dirige l'opera, al teatro Riccardini.

— E... si fermerà molto a Bergamo?

— Tutto il mese; così ha detto. Finchè dura lo spettacolo.

— Tutto il mese!... — Ripete il giovinotto pensando e preparando la nuova domanda che vuol fare.

La vecchia, intanto, prende da un cestino un mazzetto di violette, lo asciuga bene col grembiule e lo presenta al commediografo:

[89] — Forse il signore voleva intendersi colla signora Carlotta per entrare in pensione?

— Già, appunto!

Il Roero, contento perchè la vecchia lo ha messo sulla buona strada, paga due lire il mazzolino di violette, e lo infila lentamente nell'occhiello del paltò.

— Tengono molta gente a dozzina i signori Canzi?

— Oh no!... Hanno un locale troppo ristretto e meschino. Qualche maestro, qualche artista, qualche cantante... Scusi sa, ma dato il caso, non mi sembrerebbe una famiglia adatta per un par suo. Io, piuttosto, avrei una contessa di Verona, la quale sarebbe disposta a prendere a dozzina una persona sola, ma di gran riguardo.

— Non cerco per me; cerco per un mio amico; uno studente... un ragazzo.

— Allora, come comanda; ma per tutto il mese la signora Carlotta non torna.

— Ultimamente, prima di partire, chi aveva a pensione?

— Nessuno. Veniva un giovinotto, l'Americano, ma soltanto a pranzo e non tutti i giorni.

[90] — L'Americano?... Un... giornalista?

— Lo chiamano l'Americano perchè è tornato da poco dall'America e ha sempre in bocca l'America; ma proprio chi sia, che cosa faccia, non si sa! Certo, giudicando a prima vista, deve avere più allegria che quattrini! Il signor maestro non lo può soffrire per via della politica. Si sa, i disordini, le dimostrazioni, prima cosa fanno chiudere i teatri! Certe volte attaccano liti indiavolate!... Anzi la signora Carlotta mi ha dichiarato che quando torna da Bergamo, non lo prende più in casa nemmeno per un giorno!

Il Roero, a queste parole, ha un brivido e impallidisce: la portinaia che vende un soldo di castagne secche a un ragazzetto, non vede e non ci bada. Poi, siccome l'altro non si muove, gli domanda a sua volta:

— Forse lo conosce lei, l'Americano?

— Io conosco un giovanotto giornalista, che appunto è tornato da poco dall'America e che deve essere in relazione colla signora Carlotta, ma non so se è proprio l'Americano che dite voi. Quello che conosco io, ha moglie, ha famiglia...

— No, no!... Allora no!... È un altro. Questo [91] qui non ha moglie. È stato con una donna in America, dalla quale ha avuto una bambina, ma non l'ha sposata. Secondo quanto mi diceva la signora Carlotta doveva essere... una poco di buono.

— E... la bambina, dov'è?

— Colla signora Carlotta. L'Americano le paga trenta lire al mese per tutto quanto!

— Allora, anche la bambina adesso si trova a Bergamo?

— Oh, no! Siccome la signora Carlotta è partita detto fatto, dietro un telegramma del maestro, così ha portato Lulù da una sua amica. — Lulù! — Guardi un po' che nomi! Suo padre la chiama Lulù, Nespola, la cagnolina! È un originale così stravagante! Però dev'essere partito anche l'Americano prima della signora Carlotta. È un po' di giorni che non si fa vedere.

— Sapete dirmi chi è, e dove sta l'amica della signora Carlotta che ha in custodia questa bambina, questa Lulù?

La vecchia alza le braccia gridando forte:

— Eh! Eh!... È una cantante che non canta mai!... È la bella Suzann!... Sotto i Portici Meridionali, numero 57 al 3º piano. La conoscono [92] tutti!... E forse... la conosce anche il signore! — E la vecchia spalanca la bocca nera sferrata con una lunga risataccia maliziosa.

— Per dio!

Il Roero è sconvolto da un impeto d'ira e di sdegno.

La bimba, Lulù, la creatura del povero disgraziato affidata a quella donna, caduta in quelle mani!... In casa della Suzann!... della bella Suzann!

Corre via in gran furia, gli occhi torvi, barbottando minaccioso, piantando lì la vecchia portinaia, attonita, sbalordita.

— La Suzann!... Dalla Suzann!... Dalla Suzannina!

[93]

VI.
Dalla bella Suzann.

Mentre il Roero attraversa l'Anticamera della signora Suzann, sente da lontano, nell'appartamento, una donna che strilla e nella stanza vicina l'abbaiare di un grosso cane. Il cane è Müloch, un danese magnifico enorme, che accompagna sempre la padrona sul Corso, sotto la Galleria, a piedi e in carrozza.

Francesco, a quello strepito, si ferma su due piedi, fissando Elisa, la cameriera che gli ha aperto l'uscio.

— Chi c'è?... C'è gente?

— No, no; nessuno. È un'amica della signora appena arrivata da Bergamo.

— La signora Carlotta?... La signora Canzi?

[94] — Appunto: come lo sa?

Il Roero non risponde, ma è lietissimo in cuor suo di quell'arrivo e di quell'incontro e segue la cameriera nell'altra stanza, dove c'è il solo Müloch che continua ad abbaiare furiosamente contro un uscio chiuso dal quale si sente più forte la voce irata, che grida e che minaccia.

La cameriera chiama il cane e lo calma:

— Fermo, Müloch!... Taci, Müloch!

Il cane si volta e benissimo educato alle accoglienze ospitali della casa, appena vede entrare un bel giovine elegante, cessa dall'abbaiare e gli si avvicina annusando e dimenando la coda, esprimendo il piacere di fare una nuova conoscenza.

— Saluta, Müloch!... Da bravo!... Saluta il signore!

La bella Suzann sente dal salottino la voce della cameriera, impone silenzio all'amica e corre lei stessa ad aprir l'uscio:

— Elisa!... Chi è venuto?

Elisa invece di inoltrarsi si ferma e lascia passare il giovanotto che si avanza salutando famigliarmente.

La signora sembra aver memoria più buona di Müloch, perchè riconosce subito il Roero.

[95] — Oh! Oh!... Chi si vede!... Che miracolo!... Bisogna dar fiato alle trombe e sonar le campane!

— Perchè?

— Sfido io! Ormai... non mi vedete più, nemmeno quando c'incontriamo a naso a naso!

Ma la bella ragazza non è in collera, gli stringe le mani, le accarezza e lo fissa negli occhi, avvicinando la bocca ridente, profumata.

— Venite! Venite!... Io vi perdono volentieri, mostro!... tesoro!... quando mi provate ancora di non avermi dimenticata del tutto!... Venite!...

E mentre Elisa ritorna dond'era venuta seguìta da Müloch affatto rappacificato, la Suzann allegra, scherzosa, saltellante, prende Francesco a braccetto e lo conduce nel salottino, facendo cenno di andarsene, per il momento, alla signora Carlotta: una vecchia alta, secca, angolosa, ritinta e imbellettata, con un berrettino di pelo alla cosacca, e un lungo mantellone nero, liscio, foderato di vaio spelato.

La bella Suzann, abituata agli usi del gran mondo, quantunque la vecchia, che ha capito, si disponga ad andarsene, fa egualmente le presentazioni:

[96] — La moglie del signor maestro Canzi, mia amica. Il cavalier Roero, un celebre autore!

La signora Carlotta si mostra fiera e sdegnosa; saluta appena; ma poi, mentre si avvia per uscire, lancia al cavaliere, squadrandolo ben bene, un'occhiata assassina, tremenda.

— Vado da Elisa, a farmi dare una tazza di caffè e limone, ben caldo. Ho bisogno di calmarmi i nervi! Ho i nervi e lo stomaco ancora stravolti!

Il Roero, inchinandosi, la ferma in mezzo al salottino con un cenno cortese della mano.

— Scusi, ho il piacere di parlare alla signora Carlotta Canzi?...

La vecchia maravigliata e sempre sospettosa si ferma, lo fissa, ma senza rispondere.

Il Roero continua sempre più affabile:

— Vengo in questo momento da casa sua.

— Da casa mia?

— Precisamente. Ed è appunto per parlare di un certo affare che la riguarda, che sono venuto a trovare la Signora Suzann. Io ero molto amico del povero Savoldi, e....

— Del Savoldi?... — interrompe la vecchia sbarrando gli occhi e stendendo le braccia. — Amico [97] del Savoldi?... Di quel... cane, parlando come se fosse vivo?

Il Roero aggrotta le ciglia e la Suzann cerca coi cenni, di calmar la vecchia, di frenarla, ma tutto è inutile, e questa continua diventando sempre più furibonda:

— È per quel cane, sì per quel cane che sono tornata a Milano stamattina! Che mi son precipitata qui, appena saputa la bella notizia! Ieri c'era riposo; siamo stati tutto il giorno in campagna, a Gorlago, e ci capita al ritorno questa bomba!... Belle prodezze!... Bella bravura farsi ammazzare quando non si ha niente al mondo da perdere! Quando si rompe e tocca a chi resta a pagare! Bella coscienza!... Bel punto d'onore!... Un cane, un vero cane!... Non ha mai avuto cuore, nè sentimento per nessuno!

Il Roero, indignato, alza la voce a sua volta:

— Le ripeto, signora Canzi, se non ha capito bene, che io ero amico del signor Savoldi! Sono stato suo testimonio, suo padrino; è spirato fra le mie braccia e voglio, vivaddio, che il suo nome e la sua memoria siano rispettati! E deve essere rispettata anche la sua ultima volontà! Per questo [98] soltanto ero stato da lei, a casa sua, al Cordusio; per questo, mi trovo qui.

La signora Carlotta, lì per lì, rimane un po' sconcertata; capisce che ha da fare con un uomo risoluto; abbassa il tono e modera le parole.

— Allora, le domanderò una cosa sola; lascio giudicare a lei: — Un uomo, un gentiluomo, ha il diritto di fare il prepotente, di andare a farsi ammazzare senza dire nè ai nè bai, senza prima provvedere ai propri impegni, ai propri debiti sacrosantissimi? Ha il diritto, per esempio, di farsi ammazzare per le sue chiacchiere, per la sua America, per le sue repubbliche, lasciando poi la sua propria creatura da mantenere agli altri? Ha, per esempio, il diritto di andarsene, di sparire comodamente, quando si ha in giro una cambiale di cinquecento lire che va proprio in punto a scadere dopodomani e sulla quale, in pienissima buona fede, ha messo la sua firma per favore, per puro favore, nientemeno che il signor maestro Canzi?... Mio marito, signor cavaliere, mio marito!

— In quanto a Lulù, te l'ho già detto, — esclama la Suzann. — Se nessuno la vuole me la tengo io!

La bella ragazza, che si aspettava tutt'altra cosa [99] dalla visita del Roero, non è contentissima certo della piega che va prendendo il colloquio; tuttavia fa di necessità virtù e s'interessa abbastanza alla scena, rimanendo mezzo sdraiata sulla lunga poltrona mentre, accavalciate l'una sull'altra le gambe affilate e ben tornite nella calza nera, fa dondolare sulla punta del piedino lo zoccoletto grazioso, alla brianzola.

— Povera Lulù, non è cattiva!... Se non la vuol nessuno, me la tengo io!

Il Roero è sempre più irritato; è pallido in volto, ha le labbra tremanti.

— No! Sarà mia! È mia! La considero come figlia mia! L'ho promesso a suo padre! L'ho avuta da suo padre!... Dov'è? Dov'è?... Me la porto via subito! È tutto il giorno che la cerco! È per lei che sono in giro!... È questa bambina appunto, — Lulù, — che volevo avere dalla signora Carlotta! Che son venuto a prendermi qui, perchè mi hanno detto ch'era qui da voi!... Dov'è? Datemela subito!

— Piano, piano!... Un momentino! — Esclama con calma ironica la signora Carlotta.

La vecchia ha un lampo, come una visione. [100] Tutti i romanzi letti nel Secolo, tutti i drammi sentiti al Fossati e alla Commenda accendono la sua fantasia con un subbisso d'idee e di speranze. La figlia dell'Americano?... Lulù?... Ma chi sa che mistero! Chi sa che cosa c'è sotto! Chi sa chi è suo padre!... Chi sa mai chi può essere sua madre! Oh, oh, il signor Roero si riscalda troppo per questa Lulù! Ha troppa smania d'averla! No, no, no; niente affattissimo! Non bisogna mollare!

— Piano, piano, piano!... Un momentino! La mia Lulù, adesso non si vede, e non c'è nessuna furia di portarla via!... Primieramente ci sarebbe sempre una quistione morale di principio: due mesi di dozzina in arretrato. E poi, la mia Lulù è stata, per l'appunto, affidata a me e al maestro da suo padre stesso finchè era vivo. Per cederla al primo che capita, adesso che suo padre è morto, occorre la presentazione di una carta, di una lettera, di un documento relativo!... Quella creatura, deve sapere, non ha mai avuto... madre e per conseguenza, morto anche il babbo, poveretto, non ha più nessuno al mondo!

La signora Carlotta sospira, si commuove; ha la tosse:

[101] — Ho fatto tanti sacrifici, tante spese io, per la mia Lulù!... Viscere mie!

Francesco Roero guarda con curiosità la signora Carlotta, rimanendo imperterrito contro una così grande sfuriata:

— Tutto ciò che ci sarà da pagare, la dozzina, le spese fatte, pagherò io. Anche la cambiale la ritirerò io.

— Questo va benissimo e, dato il caso, bisognerà intendersi col maestro, con mio marito. È lui che comanda. Io le farò ancora soltanto notare, che il cuore, il cuore, non si paga e non si compra, nemmeno coi milioni! Io, ed anche il maestro, ormai ci siamo affezionatissimi. E poi, caro signore, è pure una quistione di puntiglio, di amor proprio! La creatura è stata affidata a noi: che cosa direbbe il mondo, se noi, per esempio, l'abbandonassimo, così su due piedi, nelle mani... del primo che capita? Del resto, caro signore, ella capirà benissimo, come lo capisco anch'io: questi son tutti discorsi accademici. Io mi riscaldo perchè toccata nel mio debole, nel cuore, nel sentimento, nel punto d'onore, ma senza nessunissima voce in capitolo! Parlerà col maestro; sentirà il maestro; [102] deciderà il maestro! Mio marito è padronissimo, dispotico di strapparmi... anche le viscere!... Soltanto, per oggi, la mia Lulù, me la porto a Bergamo. Lei, se crede, venga a Bergamo. Il maestro sarà prevenuto.

Il Roero, invece di arrabbiarsi, scoppia in una gran risata:

— No, no! Non ho tempo di andare a Bergamo e la figlia del Savoldi resterà a Milano! — Poi si volta, sempre sorridendo, alla Suzannina: — Siete tanto buona, tanto gentile, volete farmi un favore? Volete permettermi due paroline alla signora?

— Devo andar via? — Esclama la bella ragazza. — Subito! Subito! — E infervorata in quella contesa, in quel piccolo dramma per la figlia di nessuno, e già parteggiando, in cuor suo, per il Roero e per Lulù, corre via saltellando, sbattendo gli usci, sollevando colle due mani il lungo strascico della sua vestaglia molto estiva, di crespo rosa.

Uscita la ragazza, il giovinotto si avvicina alla signora Carlotta fissandola bene in faccia.

La vecchia, istintivamente, indietreggia d'un passo:

[103] — Perchè?... V'ho detto che io non c'entro...

— Pagherò tutto, vi ripeto. Ci volete anche guadagnar sopra in questo affare?... Si capisce. Avrete anche una somma in regalo; ma poi basta; ricordatevelo bene, basta. Non voglio nè voi, nè maestro, nè nessuno tra i piedi! Il mio avvocato, l'avvocato Olivieri, verrà lui stesso a Bergamo e metterà tutto in regola.

— Ma la mia Lulù... — fa per ricominciare la vecchia.

— La povera creatura di quel disgraziato voi, voi... l'avete messa qui, in questa casa; l'avete affidata alla bella Suzann, alla Suzannina!... Ah, vivaddio, finitela colla sfacciataggine! Se non volete cedere colle buone, peggio per voi! Io ho avuto l'ultima raccomandazione, l'ultima preghiera del povero Savoldi. Lulù, è stata la sua ultima parola, il suo ultimo grido disperato. Datemi Lulù, e subito. O se preferite che fra me e voi, intervenga il magistrato, se volete che nei fatti vostri, in casa vostra, intervenga il magistrato.... o la questura.... come volete. Io sono pronto a tutto pur di finirla in fretta e di aver subito Lulù.

La signora Carlotta capisce che non c'è da scherzare.

[104] — Ma se poi mio marito va in furia e mi strapazza?...

— Vostro marito starà cheto e zitto com'un olio! Garantisco io. Dov'è Lulù? Andiamo; datemela. Facciamo presto.

— Nina! Nina! — Grida forte la signora Carlotta, chiamando.

— Che cosa c'è?... Posso tornare? — Risponde subito Suzann, e caccia dentro l'uscio la piccola testolina ricciutella.

Il Roero torna a sorridere, appena vede la ragazza.

— Sì. Venite pure!... Ormai ci siamo messi d'accordo. Datemi la bambina e, vi prego, per favore, fatemi chiamare una carrozza.

— Elisa!... Va a chiamare un brum! — Grida la ragazza alla cameriera. Poi, rivolgendosi al Roero sorridendo: — Lulù è in camera mia, sul mio letto, che dorme.

[105]

VII.
Papà!....

Lulù dorme vestita, sul letto basso e ampio, sotto il baldacchino dal parato giallo. Ha una bambola accanto, colla testina posata sul guanciale: una povera bambola sudicia e sdruscita, col nasino rotto.

La signora Carlotta si precipita nella camera, si slancia sulla bimba, la scuote, la solleva fra le braccia, la stringe al petto.

— Viscere mie!... Amore!... Gioia!...

La piccina sbarra gli occhi, non capisce nulla: attonita, spaventata, sta per mettersi a piangere.

Anche la Suzann s'intenerisce; vuol prender lei la bimba e la stringe a sua volta coprendola pure di baci sonanti.

[106] — Com'è carina! Com'è bella!... No, no, non piangere, tesoro! Guarda il signore!... Ti piace il signore?... Sai, è venuto a prenderti per condurti a spasso! Per condurti in carrozza!...

La bimba, passata dalle braccia della vecchia in quelle della ragazza, pare rasserenarsi, e fissa «il signore» cogli occhi grandi, rotondi e neri, nerissimi, come i capelli folti e riccioluti, che le coprono la fronte e le spalle.

— Ti piace il signore?

La bimba guarda ancora il Roero per un momento, sempre fissa, sempre seria, poi a un tratto si volta verso la sua bambola, stendendo una manina:

Titi!

— Vuole Titi!

— Vuole la sua bambola!

La vecchia prende la puppattola e la porta alla bambina.

— Ecco gioia, cara!... Ecco la tua Titi!...

Lulù corruga la fronte quando la signora Carlotta le si avvicina, afferra Titi, la stringe col braccino contro il petto e volta le spalle alla vecchia per non rispondere a' suoi baci.

[107] La Suzann accarezzandola con una mano, continuando a ravviarla, a lisciarle i bei capelli lucenti, le volta di nuovo la testolina rotonda verso il Roero:

— Al signore, non vuoi darlo un bel bacino?...

Il Roero si avvicina, ma la bimba rimane immobile e torna a guardarlo, a fissarlo, di nuovo molto seria, e tenendosi Titi sempre stretta contro il petto.

Il giovinotto sorride, ma non osa avvicinarsi. Sembra quasi impacciato, esitante.

Appena ha veduta Lulù, appena s'è trovato dinanzi a quella bambina, egli pure ha subito compreso tutte le conseguenze dell'atto che sta per compire, dell'impegno morale e materiale che sta per assumere.

— Da brava — continua intanto Suzann. — Perchè non vuoi dare un bacio al signore?... E tanto bello, guarda!... È tanto simpatico!...

— Adesso — continua pure la signora Carlotta, che ha già preso in mano un gran cappellone di paglia alla marinara — adesso se sarai buona, il signore ti condurrà a trovare il papà! — E la vecchia, soggiunge più sottovoce: — È l'unica [108] promessa colla quale si può ottenere tutto ciò che si vuole.

In fatti Lulù alza gli occhi e fissa di nuovo il Roero:

— Papà.... gelato... rosso!

— Vuol dire che il suo papà la conduce a prendere il gelato di lampone! — Spiega Suzann facendo da interprete.

— Sì, cara! Sì! Sì! Il gelato rosso! — Esclama il Roero con uno slancio vivo del cuore che vince in lui ogni esitazione.

Ma Lulù continua a guardarlo, a fissarlo, poi con una mano si prende la punta del piedino, mostrando la scarpina rotta:

— Papà.... belle scarpine nuove.

— Vuol dire che il suo papà le ha promesso di portarle un paio di scarpini nuovi — spiega ancora la ragazza.

La signora Carlotta si avvicina per metterle il cappello, ma la bimba non vuol lasciarsi toccare.

Suzann, mettendola in piedi sul letto, le domanda:

— Vuoi che ti vesta io?

Cì.

— La carrozza è pronta! — viene a dire l'Elisa.

[109] Allora Suzann, in fretta e in furia, le mette il cappellone, e sull'abitino di lana bianca, tutto macchie, le infila una giacchettina di panno blu coi bottoni dorati, corta corta e stinta.

— Ecco fatta la toletta!

La Suzannina prende Lulù colle due mani sotto le ascelle e la posa per terra.

— Adesso vai a spasso col signore?...

Lulù, seria seria, si stringe Titi contro il petto e cammina diritta verso il Roero, prendendolo per una mano.

— E non ti vedrò più?... Non verrai più a trovarmi?... — Suzann dà un altro bacio alla bimba e appoggiandosi, con amoroso abbandono, alla spalla del Roero avvicina ancora al viso del giovine la bocca ridente.

Il Roero, questa volta, avvicina anche la sua e un bacio è ricambiato. Poi si avvia per uscire, tenendo sempre la bimba per la manina.

— Ma guarda com'è sfacciata la mia Lulù!... — esclama la signora Carlotta, che al rumore del bacio ha fatto una smorfia. — Stringe subito amicizia coi bei giovinotti!

Il Roero pure è maravigliato e soddisfatto della [110] confidenza, dell'amorevolezza che gli dimostra la bambina. Si china, un momento, verso di lei e le domanda sottovoce:

— E adesso?... Vuoi darmelo un bacino?

La bimba alza ancora gli occhioni, che in quel momento sembrano più neri e più grandi, lo fissa sempre seria, poi ad un tratto, per non lasciar andare Titi, scioglie la sua manina dalla mano del Roero, piega di colpo la testolina rotonda, e riversando innanzi i lunghi riccioli dei capelli offre al bacio del giovine il candido solco della piccola nuca.

La ragazza e la vecchia a quell'atto danno in ismanie:

— Come col suo papà!

— Tal'e quale, come col suo papà!

— Il povero signor Savoldi faceva sempre così! La baciava sempre lì, sotto i capelli!

Il Roero sfiora appena il collino fine, delicato, respirando l'odor dei capelli, e sentendo sulle labbra il calore della piccola vita.

— Dunque.... andiamo?

Lulù con una scrollata di testa si riaccomoda i riccioli sulle spalle, stringe più forte la bambola [111] contro il petto, prende di nuovo la mano del giovinotto e si avvia, tirandoselo dietro, per uscire.


Quando sono nel brum, il Roero torna pensieroso guardando la piccina, che sembra solo intenta nel pettinare e nello strappare i capelli di stoppa di Titi.

— E adesso che cosa fò? Che cosa si fa?... Non ho pensato a niente e bisogna pensar a tutto!... Bisogna intanto vestirla di nuovo!... Poi?... Ci vuole una donna!... Metterla in collegio è troppo presto... Tenerla con me?... È impossibile!...

Continua a osservarla, a studiarla.

— È bellina assai.... È molto bella!... È una bellezza!... Soltanto è sformata da quel cappellone orribile, da quei brutti vestiti....

— Voi bene... a Titi?

— No.

— No?... Perchè no?

— Oggi Titi cattiva. Cattiva col suo papà.

Il Roero tace un momento, continua a osservar la bambina, e le domanda di nuovo:

[112] — Sei stata altre volte in carrozza?

Cì. Col mio papà.... — Poi il pensiero del papà gliene fa sopravvenir un altro: alza la gambina e si prende di nuovo colla mano lo scarpino rotto: — Papà.... belle scarpine... nuove. — Poi domanda cogli occhi inquieti: — Papà?... Papà?...

— Sì! Sì... Il papà! Ti condurrò dal papà!... E andremo a prendere anche il gelato, subito, il gelato rosso. Sai che il papà.... ha tanto da fare.... Forse è lontano oggi.... ma torna... andremo domani dal papà.... Intanto ti prenderò io il gelato rosso e anche le belle scarpine nuove.

La bimba non sembra persuasa; si mostra invece sempre più inquieta.

Il Roero allora le domanda:

— Se non torna oggi il papà, vuoi aspettare il papà con me, o vuoi tornare dalla signora Carlotta?

— Con te, — risponde risoluta la bimba.

E di nuovo torna ad occuparsi attenta, seria, dei capelli di Titi.

— Cattiva Titi? — Domanda ad un tratto al Roero.

— Sì, cattiva.

[113] Ma quando sono giunti a casa s'intorbida la pace.

Lulù, sempre colla bambola stretta contro il petto, ha presa una mano di Francesco e non c'è verso, non vuol lasciarlo più; gli sta sempre attaccata, seguendolo per tutte le stanze, non lasciandogli far nulla.

E la bimba non vuol Giovanni!...

Giovanni, vedendo la piccina, sapendo chi è, e com'è disgraziata, ha voluto farle subito una carezza; ma la bimba ha allontanato il capo fieramente.

Non vuol Giovanni. Se egli fa per parlarle ella si stringe più dappresso al Roero; se fa appena un atto per toccarla, comincia a strillare.

— È un affar serio!... — Il giovinotto, fissa inquieto il servitore, come per chiedergli consiglio.

— Sicuro: il signor padrone ha trovato il suo bel da fare!

— Bisognerà vedere... Parlerò anche coll'avvocato Olivieri. Ci vuole una donna, una governante.

— Metterla in collegio è troppo presto.

— Non ha ancora cinque anni!...

— Potrebbe collocarla da una qualche maestra privata. Raccomandarla molto...

[114] — Andrei a trovarla tutti i giorni...

— Ma, intanto, dove la farà dormire?

— Per stasera in camera mia. C'è un sofà: ne fai un lettino.

— Se la piccina vuol star sempre con lei... sarà un affar serio!

— È impossibile!.... Ci mancherebbe altro!

Si sente suonare il campanello: Lulù, guardando sospettosa verso l'uscio, corruga la fronte e si stringe più forte al Roero.

È il portinaio con un libro.

— Da parte di donna Stefania Arcolei. Il servitore ha raccomandato di consegnarlo subito.

Il Roero ha un lampo di gioia:

— La Fáni! La Fáni!... Come ho fatto bene stamattina a non farmi vedere!... È lei, adesso, è lei stessa che mi cerca!

Scioglie la mano, con forza, dalla manina di Lulù, e in fretta toglie il libro dalla carta che lo avvolge.

— Gyp! Gyp! L'autore favorito!

Un libro di Gyp, vuol dire: «Venite subito; sul momento». Il libro invece di un autore italiano: «Aspettate. Venite soltanto prima di pranzo.»

[115] Il Roero non pensa più ad altro e ordina a Giovanni di portargli di nuovo — subito! — il cappello e il paltò, per uscire.

Ma Lulù, lasciata la mano, gli ha presa, stretta, una falda dell'abito.

— Senti, Lulù, — le dice serio il giovinotto con tono più risoluto. — Tu devi voler bene anche a Giovanni che è tanto buono e che ti farà giocare.

La bimba sta attentissima a quello che dice, non risponde... ma la manina non si stacca dalla falda dell'abito.

— Lasciami andare: tu stai qui con Giovanni e con... Titi; e giocate insieme tutti e tre.

Gli occhioni della bimba gettano un lampo; le sue ciglia s'increspano.

— Lasciami andare. Torno subito, subito!

E il Roero crede di aver trovato un espediente buono soggiungendo:

— Vado a prenderti il gelato rosso e le scarpine nuove!

Povero Roero! Non avesse mai detto!

Lulù scoppia in un piatto dirotto; slancia la bambola con ira addosso a Giovanni, poi si butta [116] a un tratto per terra, rotolandosi sul tappeto e strillando:

— Papà! Papà! Papà!... No gelato! No gelato!... Papà! Papà! Papà!...

Era una disperazione; era una convulsione di grida, di lacrime, di dolore, da rabbia.

Il Roero comincia un po' anche a spaventarsi:

— No! No! No!... Lulù! Ma Lulù! Resto qui!... Resto qui con te!

— Papà!... Papà! Papà!... No gelato!... Papà!

Il Roero non sa più che cosa fare, prega e supplica:

— Non esser cattiva, Lulù, la mia Lulù! Non piangere più!... Calmati!... Il papà verrà domani! Lo vedrai domani!... Intanto resterai con me! Sempre con me!

— Il padrone ha trovato il suo bel da fare, — mormora Giovanni sottovoce, senza più cercare di avvicinarsi alla bambina, che continua a piangere, a strillare e a rotolarsi per terra.

— Può farsi anche del male! Che non batta la testina contro qualche mobile!

— Vuoi che lo mandi via Giovanni?... Sì! Lo manderò via!... Va via! — Poi, più piano, il Roero [117] soggiunge al servitore: — Va dal signor Olivieri... che venga subito! Che venga a vedere, ad aiutarmi!

Appena uscito Giovanni, le strida, le convulsioni, cominciano a calmarsi e Lulù si lascia di nuovo prendere in braccio dal Roero. A poco a poco i singhiozzi si fanno più radi, i begli occhi tornano a fissare il Roero... poi ad un tratto stende la manina per riprendere Titi.

Il Roero, tenendo Lulù sempre in braccio, si china, prende la bambola e gliela dà.

— Cattiva, Titi? — Domanda la bimba sorridendo.

— Cattivissima! — Risponde il Roero.

Lulù guarda la bambola, la stringe di nuovo contro il petto, e chinando la testolina, solleva coll'altra mano i capelli e offre ancora al giovinotto il collino da baciare. Poi quando ha ricevuto il bacio, dà la solita scrollatina ai capelli, guarda Titi, guarda il giovinotto, e torna a sorridere: ha vinto lei, e s'è rappacificata con tutt'e due!

Che fare?... Bisogna aspettare l'Olivieri. Chi sa che l'Olivieri non le sia simpatico...

[118] — Mi consiglierà!... Vedremo insieme che cosa si potrà fare... combinare...

Francesco siede sul canapè, e Lulù, sforzandosi colle braccia e colle gambine, si arrampica sui cuscini e gli siede accanto, vicinissimo.

Quell'attaccamento della bambina, così improvviso e così forte, finisce però col commuovere il Roero e anche, quasi, col lusingarlo, per quanto gli renda impossibile in quel momento di correre da Stefania.

— Andrò più tardi... e forse è meglio. Meglio così!

Rivede Stefania come l'ha veduta quella mattina sul corso, tra l'Estensi e il Faraggiola, e sente ridestarsi in cuor suo, contro «quella civetta», un impeto d'ira e di gelosia.

— Meglio così!... Vedrà che non può fare di me tutto ciò che vuole!... Capirà che io non sono senza fierezza, senza dignità, come quelle due marmotte! No! No! Deve chiamarmi ancora molte volte! Deve aspettarmi ancora per un pezzo!

E il Roero ha un sentimento di gratitudine, di riconoscenza verso la bimba, verso la piccola Lulù, che gli ha dato tanta forza... che gli ha impedito [119] di correre subito dalla Fáni, come un imbecille innamorato!

Si volta a guardarla; Lulù è occupata ad avvolgere Titi nel fazzoletto col quale il Roero le ha asciugato le lacrime. È seria, tranquilla, intenta. Egli si china, l'accarezza, poi le rialza colla mano tutti i capelli, e la bacia sulla fossetta morbida e tepida della piccola nuca.

La bimba non si muove: continua quietamente, attentamente a vestire e a svestire la bambola col fazzoletto.

[121]

PARTE SECONDA

STEFANIA

[123]

I.
I consigli dell'amico.

L'avvocato Olivieri si ferma a Bergamo soltanto fra una corsa e l'altra e si mette subito d'accordo coll'arrendevole marito della signora Canzi, col quale, del resto, s'era già inteso prima per lettera. L'avvocato sborsa un migliaio di lirette tutto compreso, a nome del suo cliente, il cavalier Francesco Roero: cinquecento, per il ritiro della cambiale, un altro centinaio di lire per i due o tre mesi arretrati di pensione; il resto, come si esprime poeticamente il maestro Canzi, «a titolo di sovvenir».

E patti chiari, espressi anche ben chiaramente nella lettera di ricevuta: i coniugi Canzi, si ritengono, colle mille lire, pienamente soddisfatti. [124] Non hanno, nè avranno più niente da dire, nè da pretendere rapporto alla bambina del povero signor Savoldi.

Il maestro, prima di separarsi, fornisce anche gentilmente tutte le informazioni e le notizie, che può dare intorno a Lulù.

— La piccina è nata a New-York; è stata regolarmente riconosciuta dal Savoldi; ha nome Elena-Maria. La madre, ignota. Una...

Il pudibondo maestro si ferma e lascia indovinare il resto con un sospiro; quindi prosegue mal celando il proprio disgusto:

— Quando la mia Carlotta, nell'assumere la grave responsabilità dell'allevamento e dell'istruzione della neonata, volle prima chieder conto, naturalmente, anche della madre, l'Americano rispose, scandalizzandomi, con una delle sue più ciniche risate: «Lulù, non ha nessuna madre. L'ho fatta far io di commissione, a prezzi ridotti, alla fabbrica dei bebè Jumeau!...» Era un povero giovine disorientato e stonato!... Non il sentimento della famiglia; nessun rispetto alla società, alle istituzioni; non un principio, almeno, di un culto o di una religione qualsiasi, magari la turca! [125] Niente! Il pandemonio! Soltanto gridare, contradire, distruggere, vituperare! E nessunissima educazione! Io ripetevo sempre, alla mia Carlotta, appunto per tenerla in guardia: costui non lasciartelo entrare in camera così facilmente; non è un gentiluomo, è un soqquadro.

Ritornato a Milano, dopo aver riferito al Roero l'esito del colloquio e le informazioni avute, l'Olivieri, onde meglio rassicurarlo, gli promette di scrivere al console italiano a New-York per identificare lo stato civile con l'età precisa della piccola Elena-Maria Savoldi.

— Così avrai già provveduto e sarai in regola anche per tutti i casi avvenire, che possano succedere.

— Sai, — esclama il Roero, dopo aver stretta la mano e ringraziato l'amico, — sai che adesso Lulù comincia a non far più capricci e a esser buona con Giovanni e anche con la Luisa?

La Luisa è una bella ragazzotta, una nipote di Giovanni, che il Roero ha preso provvisoriamente per bambinaia.

— Oggi, per la prima volta, Lulù mi ha visto uscire e non ha fatto tragedie.

[126] — Me ne congratulo! — L'avvocato ride allegramente.

I capricci, le scene, le lacrime, il buono o il cattivo umore della bambina hanno ormai una grande importanza per il quieto vivere del Roero. In pochi giorni ella ha finito per entrare, spadroneggiando, nella sua vita, per riempire tutta la sua casa. Lo fa diventar matto; è un vero tormento, una disperazione certe volte, ma lo diverte anche, assai!

Adesso Lulù s'è abituata, dorme in camera con la Luisa; ma la mattina, appena il Roero suona per il caffè, gli portano la bimba in camiciolina sul letto, e ormai egli deve rinunciare all'ultimo pisolo e alla lettura della Lombardia e della Perseveranza per lasciarsi spettinare e pettinare e arricciare i baffi da Lulù. E tutte le mattine, immancabilmente, si ripete il solito giuoco: egli deve prendere Titi con sè, nel suo letto, sullo stesso guanciale, chiuder subito gli occhi, e finchè Lulù comanda, deve fingere di dormire profondamente accanto a Titi.

— Sonno... Titi.

— Sì, Titi ha sonno.

[127] — Buona... Titi?

— Buonissima!

Poi, quando il Roero è nel suo studio a lavorare, Lulù mette su casa sotto la scrivania; vi apre il salotto e la sala da pranzo e fa grandi ricevimenti e grandi inviti a Titi.

— E il papà? — Domanda l'avvocato al Roero. — Comincia ad essere dimenticato?

— No! No! Ma oramai l'ho persuasa che è in viaggio, un gran viaggio, lontano, lontano! Tornerà.... dopodomani. Dopodomani per Lulù è il futuro indefinito. Quando poi fa i capricci e ricomincia ancora col «mio papà, voglio il mio papà», la fo star zitta minacciandola di condurla ad aspettare il suo papà dalla signora Carlotta. Allora — vedessi! — aggrotta le ciglia, mi pianta tanto di muso, ma non fiata più.

— Povera piccina!

I due giovani rimangono per alcuni istanti silenziosi e pensierosi.

Quella bimba, così costante nelle simpatie e nelle antipatie, che ricorda tutto, che vede tutto, alla quale non sfugge una parola, un ette, non avrebbe certo dimenticato tanto presto «il suo papà!»

[128] Ormai, per prudenza, non bisogna più parlare di gelato rosso. Col gelato, Lulù comincia a volere anche il papà e se non si fa presto a distrarla, sono lacrime e strilli.

Anche a proposito delle scarpine nuove c'è stato un po' di pericolo, ma poi la vanità femminile ha finito per avere il sopravvento.

— Anche il mio papà, ha promesso... belle scarpine... nuove... dopodomani.

— Sì; anche il tuo papà.

— Voglio scarpine mio papà!... Scarpine mio papà! Più belle... scarpine del mio papà!

— Sì cara; molto più belle! Ma intanto queste che hai, bisogna cambiarle. Sono rotte! Sono brutte!... Guarda come sono brutte!

— Brutte... rotte... brutte... — continua a borbottare Lulù, ma docilmente allunga intanto i piedini, si lascia mettere le scarpette nuove e dopo, compiacendosene, rimane un pezzo seduta per terra a guardarle, a toccarle, a palpeggiarle, stringendo i piedini colle manucce.

Il Roero si rivolge a un tratto all'Olivieri, domandandogli:

— E la signora Eugenia, ha poi risposto?

[129] — Sì. Domattina sei libero, verso le dieci?

— Sempre; sono sempre libero, tutto il giorno.

— Allora vengo a prenderti e si va insieme dalla signora Eugenia, per combinare.

— Speriamo che non dispiaccia a Lulù!

— Speriamo!

Questa signora Eugenia è la maestra, l'educatrice, l'istitutrice proposta dall'Olivieri.

— Domattina, alle dieci... — pensa fra sè il Roero. — Allora, aspetterò domani mattina.

Egli vuol parlare all'amico di Stefania, per sfogarsi contro Stefania; gli vuol raccontare di una certa visitina che gli ha fatto don Giulio, e lo vuol pregare — è questo che più preme — di recarsi dalla baronessa col pretesto di sapere che cosa dice di lui, o inventa contro di lui, ma in realtà, nella speranza che quell'incontro fra donna Stefania e l'avvocato possa rendere inevitabile un riavvicinamento.

Egli è deciso: non vuol più andare da quella civetta insopportabile!... Ma come vorrebbe esser costretto «per forza» a ritornarci!

La mattina dopo l'avvocato è puntuale; ed anche il Roero è già pronto, sulla porta, ad aspettarlo.

[130] — Lulù stamattina sente il tempo! Ha fatto il diavolo a quattro! Non voleva a nessun costo lasciarmi alzare! Mi ha strappato i capelli, mi ha rintontito a furia di baci e di botte! Finalmente, stanca morta, s'è addormentata sul mio letto.

— Ha ragione Giovanni: hai proprio trovato il tuo bel da fare!

— Ma è strano, come dal primo giorno, fin dal primo momento, ha preso subito a volermi bene.

— Ha subito capito che con te avrebbe potuto fare a suo modo. Le bambine, caro mio, sanno mettere il loro cuore a posto, molto meglio delle donne.

— La signora Eugenia dove sta?

— In fondo al corso Venezia.

— Andiamo a piedi. C'è tempo!

Il commediografo prende a braccetto l'avvocato.

— Discorreremo, intanto. Voglio dirti una cosa... e chiederti forse anche un favore. Ma tutto ciò, prometti, deve restar fra di noi.

L'avvocato gli dà un'occhiata, poi risponde sorridendo:

— Ho capito!... La baronessa!... Prometto il segreto professionale.

[131] — Ieri mattina è stato da me don Giulio Arcolei a farmi la predica, a darmi grandi consigli a proposito di Lulù!

— Che diamine! Perchè mai donna Stefania non te l'ha fatta lei stessa la predica, direttamente?

— Non ho più messo i piedi in casa Arcolei — te l'ho detto? — da quella sera famosa, dopo il duello!

— E allora, come mai la baronessa ha saputo di Lulù?

— Quella gente sa sempre tutto! Ha un servizio di polizia particolare.

L'avvocato dà un'altra occhiatina all'amico:

— Siete in collera?

— No. Mi secco in quella casa, e non ci vado più; ecco tutto!

— Gelosie di Zelinda... o gelosie di Lindoro?

— Ho detto che mi secco, mi secco, mi stufo!

Il Roero quasi si arrabbia; non è più tornato dalla Fáni, verissimo, ma per certi suoi calcoli che ormai, pur troppo, comincia a riconoscere sbagliati.

«Non andandoci più io», aveva pensato, «finirà col venir lei!... Verrà lei!»

[132] E già la rivede seduta lì, nel suo studio, proprio lì, dinanzi alla sua scrivania, e colla smania, colla febbre sente ancora quel bacio... il tremito delle labbra, quella carezza della guancia ardente, vellutata, mentre il povero Nespola urla e strepita sotto la finestra!

— Tornerà! Tornerà! — Invece...

Ma invece di tornar lei, ha mandato suo marito

— E così, — domanda l'avvocato scotendo Francesco per un braccio, — che cosa ti ha detto quel bonomo dell'Arcolei?

— Di non pregiudicarmi troppo leggermente, di pensare al mio avvenire, di non arrischiare la mia libertà. Il giorno, per esempio, in cui volessi prender moglie?... «Che impiccio in casa propria una figlia, non si sa di chi!» Mi ha detto, quasi mi ha imposto di mettere Lulù in collegio, in qualche istituto femminile. Figurati! una bimba che non avrà più di cinque anni! «Fatela istruire, fatela educare! Assegnatele un piccolo capitale, una dote; ma tenerla con voi? Allevarla come figlia? Diventate matto? Sarebbe un gravissimo errore! Una pazzia!» Ah! Ah! Sua moglie deve odiarla molto la povera Lulù!

[133] L'Olivieri si ferma un momento su due piedi, poi domanda:

— Posso parlar chiaro?

— Quanto vuoi.

— Ebbene, mi par naturalissimo che donna Stefania voglia sbarazzar lei e te da questo impiccio. Aggiungi poi, nel caso particolare, che Lulù è anche la figlia... di Nespola! Ma come? — esclama l'avvocato con una risatina ironica. — La baronessa fa di tutto per nobilitarti, per renderti, almeno all'aspetto, somigliante al marchese Estensi e al conte Faraggiola, e tu continui ancora a sgusciarle di mano? Prima, incanaglisci democraticamente facendo da testimonio al padre contro il Bonaldi e adesso vorresti addossarti anche la figlia, non si sa di chi?... Ohibò!

— Che cosa credi? Tu credi che donna Stefania sia la mia amante?

— Non credo. Suppongo, immagino!

— Ebbene, no! — Prorompe il Roero con impeto, arrossendo di collera e anche di dispetto.

L'altro, allora, finge comicamente il massimo stupore.

— Noo?...

[134] — No! Quella donna, — e non gliene faccio un merito, — non sarà mai l'amante di nessuno.

— Questa poi... è un'esagerazione!... Perchè?

— Perchè non ha cuore.

— Che c'entra il cuore? Le donne che non hanno cuore sono quelle, anzi, che amano di più! E il cuore, precisamente, che spesso spesso impedisce di amare! Per lo meno di amarne più d'uno... alla volta!

L'ironia dell'avvocato diventa sempre più acre, pungente. Sembra ch'egli abbia una ruggine secreta colla baronessa e che abbia in odio tutti gl'innamorati. Presto però s'accorge d'essere andato troppo oltre e prende lui sotto braccio l'amico domandandogli per rabbonirlo:

— Hai detto di volermi chiedere qualche cosa, un favore?... Che cosa vuoi?

Il Roero non risponde; ha un muso lungo un palmo.

— Sei in collera?

— No.

— Che cosa vuoi, dunque? Che cosa devo fare?

— Nel favore che volevo chiederti, c'entra appunto... donna Stefania.

[135] È l'avvocato, questa volta, che raggrotta lo ciglia.

Il Roero continua:

— Tuttavia, ti dirò di che si tratta. Capirai se non altro che sebbene io abbia fatto la corte a quella signora, sono rimasto... a mezza strada. E adesso mi hanno troppo seccato lei, suo marito... e compagnia! Rinuncio all'impresa! Pure, soltanto per curiosità ed anche per regolarmi all'occorrenza, vorrei sapere che cosa dicono di me, o stanno inventando sul mio conto in casa Arcolei. Il favore che pensavo di chiederti, che ti chiederei ancora, è questo: fare una visita a donna Stefania, per sentire, per capire... così, che vento spira.

— Come?... Come?...

L'avvocato rimane attonito, e pensa tra se: — Ma è vero? Proprio vero? Non è ancora l'amante? In fatti, se già lo fosse, non avrebbe più bisogno di mandar qualcheduno a tastar terreno! Non avrebbe più bisogno di me!... Ma allora se c'è tempo, finchè c'è tempo, bisogna salvarlo! Tentare di salvarlo! — Si avvicina all'amico e gli parla, adesso, con un'espressione affettuosa, con un tono che diventa, a mano a mano, più confidenziale, più intimo:

[136] — Caro mio, questa volta... non posso proprio servirti.

— No?

— No. Devi sapere che anch'io, come te, non vado più dalla baronessa Stefania.

— Oh?... — Francesco si ferma di colpo e fissa a lungo interrogando cogli occhi l'Olivieri che lentamente, accennando col capo, risponde di sì. — Anche tu?...

— Anch'io.

— Ma... se non me ne sono mai accorto?

— È stato un baleno, un lampo, fortunatamente senza tuono, senza fulmine!... Al primo indizio del temporale mi son messo a scappare... e scappo ancora!

— E donna Stefania?

— Donna Stefania?... — L'Olivieri continua a ridere, ma il suo riso diventa forzato. — Ella non se n'è accorta, o non ha voluto accorgersene! De minimis... eccetera! Ed io non sono nè un uomo alla moda, nè un uomo influente, nè un uomo celebre e nemmeno un bel giovane. E tu... tu, amico mio, se appena puoi, se sei ancora a tempo, ascolta il mio consiglio, scappa scappa a [137] tua volta, scappa come il vento, scappa, scappa a costo di dar la testa nel muro! Meglio rompersi il naso, che rompersi il collo! Queste donne sono la rovina, sono il fallimento, mio caro, per chi ha da lavorare come noi; per chi può e deve riuscire a far qualche cosa di buono, come te! Per chi, sopra tutto, vuol pensare colla propria testa e vuol agire secondo la propria coscienza!

— Certo!... Sicuro!... Hai ragione!

Il Roero è sbalordito, confuso. Anche l'Olivieri c'è cascato... e anche l'Olivieri ha fatto fiasco!

— Si, certo, è una civetta insopportabile che bisogna fuggire. — Ma intanto, per quella stessa confessione così straordinaria la Fáni diventa più viva che mai, più viva e più bella e, dal profondo del cuore, sfugge a Francesco un lungo sospiro di desiderio, di rimpianto.

L'avvocato osserva il Roero:

— Coraggio! Strapparsi una bella donna dal cuore è doloroso come farsi strappare un dente, ma il giorno dopo che liberazione! Coraggio! Coraggio, poeta! — Gli batte colla mano amichevolmente sopra una spalla e ormai, sbandita ogni ombra di amarezza, si mette a ridere di cuore: — Veniamo alla conclusione?

[138] — Bisogna guardarsi dalle donne?

— Dalle donne... che amano ad occhi aperti.

L'Olivieri continua a ridere, sperando di far ridere anche l'amico. — Non hai osservato, tu che scrivi commedie? Tutte queste donne serie e savie per le quali l'amore è un mezzo per governare, per trionfare, per fare della politica, per preparare le elezioni, per avere in mano il Municipio, amano tutte ad occhi aperti! Anche nell'estasi dell'abbandono, esse non chiudono gli occhi, non li socchiudono nemmeno: la loro pupilla è sempre lì, fissa su di te, vigile, diffidente, scrutatrice. Persino il bacio! Ti danno anche il primo bacio cogli occhi spalancati: vogliono vedere fino a che punto ti fanno tremare e impallidire! Oh queste donne sono brave! Si divertono, ma con giudizio, studiando e imparando dall'esperienza e così potendo a buon diritto esclamare anche dopo la resa: tutto è perduto, tranne l'onore!

Francesco sorride appena scrollando il capo.

— No? Tu dici di no? Guarda... donna Stefania! Ti serva di esempio, appunto, la nostra carissima donna Stefania! Studiando, osservando essa ha imparato che il mondo perdona tutto facilmente [139] a chi sa farlo ridere alle spalle di qualcheduno, ed essa riesce a mantenersi a galla in mezzo alla pubblica stima, facendolo ridere alle spalle de' suoi... diremo, amici! Sai come ti chiama il pubblico, cioè quelle cinquecento persone che costituiscono «il gran pubblico» dei club, dei teatri, dei salotti?

Il Roero fissa inquieto l'Olivieri.

— Non capisco! Mi chiameranno, spero, col mio nome?

— No! Ti chiamano Francesco primo.

— Francesco primo? Perchè Francesco primo?

— Per la stessa ragione per la quale chiamano il marchese Estensi, Emanuele secondo, e il Faraggiola, Carlo terzo. Siete uno dopo l'altro e tutti insieme, i tre re, regnanti!

— Per Dio!... Potrei dare una lezione...

— A chi? A cinquecento persone che diventano mille, che diventano tutti, come, quando le cerchi, possono anche diventare... nessuno?

Il Roero si arriccia, si morde i baffi, vorrebbe ribellarsi, attaccar lite, rispondere all'Olivieri, che parla così per dispetto, per rabbia, perchè... ha fatto fiasco... Ma pure in tanta esagerazione c'è, pur troppo, anche qualche cosa di vero!

[140] — E questa signora Eugenia, — esclama a un tratto, pieno di stizza, — dov'è cacciata?... In capo al mondo?

— A porta Venezia; te l'ho detto. Attraversiamo i giardini; ci siamo subito.

L'Olivieri vede bene di aver fatto andare in collera l'amico senza essere riuscito ancora a persuaderlo, a convincerlo e perciò, affrettando il passo, ripiglia con più calore, con più forza:

— E oltre le beffe, il danno! Queste donne prudenti, che riflettono, che calcolano, che sanno dominarsi per poter dominare, vogliono tutto, ti prendono tutto, come sei, intelligenza coscienza e cuore, e ti cambiano, ti mutano, ti trasformano a loro talento! Ma non hai notato come gli amanti, gli amici di queste signore in voga, finiscono per rassomigliarsi tutti, il marito compreso? Il loro seno è un gran crogiuolo nel quale entrano per fondersi insieme e prendere la stessa anima e quasi anche la stessa faccia, l'uomo di talento e l'imbecille! Sei ancora a tempo? — L'Olivieri obbliga il Roero a voltarsi, ad alzare il capo, a guardarlo. — Sei ancora a tempo? In tal caso via, via di corsa; salvati perchè il pericolo è imminente!... Hai già il taglio dei capelli e del [141] paltò; hai già le cravatte come Emanuele secondo e Carlo terzo! E bada, Francesco mio, se non ti salvi, il ridicolo non peserà soltanto su di te, ma anche, e più, sulla tua arte. La sera in cui si darà l'Arianna, il pubblico non verrà a teatro per sentire la tua commedia, ma la commedia di Francesco primo. Ne' tuoi personaggi, nelle tue scene, cercherà soltanto di scoprire i tuoi casi e i tuoi rivali e tu non sarai preso sul serio, avessi anche scritto un capolavoro! E questo ancora... poco male! L'opera non è meno bella anche se l'autore è sfortunato, ma finirai col non prenderti sul serio tu stesso e resterai tutta la vita il commediografo elegante per uso delle signore! Non ho ragione?... Ho ragione sì o no?

L'altro non risponde; le mani ficcate nelle tasche del paltò, continua a rodersi i baffi e le labbra nervosamente.

L'Olivieri gli mette una mano sulla spalla, per tirarselo più vicino, quasi volesse abbracciarlo:

— Tu vuoi, tu devi, tu diventerai qualcheduno, ma ad un patto, uscire dal «gran mondo» di donna Stefania, che non è poi altro che la solita baracca dei soliti burattini dove si recita sempre la stessa decrepita commedia, per entrare nella [142] folla, per studiare il cuore, l'anima, la vita della folla nelle sue angosce e nelle sue speranze. Questa è l'arte che io voglio da te, che io aspetto da te; ma per far questo bisogna essere semplicemente quello che sei, Francesco Roero, il figlio di tuo padre, del campagnuolo umile, gran lavoratore, al quale devi la tua bella, ingenua onestà, così piena di scrupoli... borghesi, come deve, invece, la baronessa Stefania, la sua smania d'intrighi e di prepotenze, alle sue matrone del Regno Italico e a' suoi ciambellani di Casa d'Austria. Le rivoluzioni son rimaste alla superfice, e poi non sono state fatte per distruggere gli stemmi, ma per darne a chi ne desidera. I pregiudizi sono sempre gli stessi; le due razze, rivali, sono sempre di fronte: quella della baronessa col sentimento dell'impero, la tua, con quello della sudditanza! Ti arriderà assai facilmente la vittoria, ma la conquista sarà dall'altra parte. Donna Stefania, resterà sempre lei, sempre come sua nonna, ma tu, invece, dovrai cessare d'essere il figlio di tuo padre, per diventare un mezzo gentiluomo. Sudditanza e sommissione! Hai visto le ire sorde a proposito del duello del povero Nespola?... Le prime avvisaglie contro Lulù? Abbasso l'indipendenza, [143] caro mio! Il cuore alla moglie e il voto al marito!

Erano giunti alla casa della signora Eugenia: l'avvocato si ferma indicando la porta all'amico.

— Sta qui. Ed ora che ho parlato tanto, dimmi la verità, il parlare, colla speranza di poter convincere, è anche questo un vecchio pregiudizio rimasto agli avvocati?

Il Roero è buono, è giovine. A tanto calore, a tanta effusione è rimasto scosso, commosso:

— Hai ragione. Fuggire come il vento!

— Pensando sempre, per non perdere la paura, che se donna Stefania ti raggiunge e vuole, essa, con tutte le mie chiacchiere, non avrà perduto niente e sarò io, invece, che avrò perduto un amico!

L'avvocato continua a ridere, ma poi ripensa all'idea buttata lì, quasi per ischerzo, e a poco a poco finisce col sospirare a sua volta mormorando:

— Chi sa?... Quando io pure ho avuto quel baleno, quel lampo?... Chi sa?... Chi mai potrà sapere se sono stato proprio io a fuggire, o se, invece, non è stata lei stessa, donna Stefania, ad aprir le mani per lasciarmi andare?

[145]

II.
La signora Eugenia.

La signora Eugenia, alta e ben composta della persona, è sempre di un'eleganza assai caratteristica e signorile nella modesta semplicità del suo abito tutto nero, col solino ritto, di una candidezza inappuntabile, stretto alla gola. Ormai ha già varcata la cinquantina, eppure, dicono i suoi amici, la signora Eugenia non è mai stata tanto bella! Ha incominciato prestissimo a incanutire e ciò, invece di nuocere, le ha giovato: a trent'anni pareva si fosse incipriata per sembrar più giovine; adesso i suoi magnifici capelli bianchi, raccolti sul capo in una massa ondulata dai riflessi della seta e dell'avorio, fanno maggiormente risaltare la freschezza del suo piccolo viso, liscio e roseo, [146] dalle linee delicate come un cammeo, e gli occhi nerissimi in cui la bontà sorride con un lampo d'arguzia.

— Oh, sono vecchia, sapete, molto vecchia! — Ripete sovente la signora Eugenia alle signorine che le fanno dei complimenti e ai giovinotti che, magari, le fanno anche un po' di corte. — Sono vecchia, molto vecchia!... — Ma, così dicendo, accarezza, sollevandoli, i bei capelli bianchissimi che le ricascano sulla fronte e giù dalla nuca, quasi sulle spalle e mostra, compiacendosene, le sue mani lunghe e morbide, senza anelli, ma colle unghie a mandorla, che brillano lucentissime. I suoi capelli, le sue mani e il piedino, ecco tutte le vanità della signora Eugenia. Un paio di stivaletti del Beltrami che le dura un anno, la biancheria sempre di bucato, e un pezzo di sapone finissimo, ecco tutto il suo lusso! Ma oltre alle sue vanità, oltre al bisogno dei suoi piccoli lussi, la signora Eugenia sente pure un nobile orgoglio, una giusta fierezza: quella di dover tutto soltanto a sè stessa.

Oh, se la sua vita è trascorsa serena e illibata, non è stata facile, tutt'altro! Nata ricca, da una [147] famiglia di buoni patriotti impoveritasi nelle vicende politiche, e rimasta ancora giovanissima, orfana e sola, la signorina Eugenia ha dovuto cominciare ben presto a guadagnarsi il suo pane, non sempre freschissimo, e il suo pezzetto di sapone inglese, gli stivaletti del Beltrami e il canfino della misera lucernetta che finiva col bruciarle anche gli occhi!

Molte buonissime case di Milano erano state in intima relazione colla sua; con talune c'era anche un po' di lontana parentela, ma la signora Eugenia, conservandosi tuttavia nei rapporti della migliore amicizia, non ha mai voluto ricevere la carità di nessuno, per quanto larvata dalla gentilezza e dalla simpatia, e non ha mai cercato aiuti nè protezioni.

Diceva sempre ridendo:

— Italia libera e indipendente! I miei hanno tutto sofferto per la libertà, ed io, per ciò, ho l'obbligo di conservare e di difendere la mia!

Si comincia col darle della matta, della presuntuosa, della donna emancipata e col circondarla di ridicolo e di diffidenza, ma poi, a poco a poco, quando ognuno deve convincersi che in quella [148] bella, in quella coraggiosa fanciulla non c'è superbia nè alterigia, ma fierezza d'animo e dignità di vita, che il suo non è capriccio, non è leggerezza, ma invece un vero, un continuo sacrificio, un eroismo, quasi, per la signorina abituata prima alla ricchezza, agli agi, si finisce col renderle giustizia, si finisce ad ammirarla e ad averla più cara.

Benvoluta e ricercata, ella riceve continui inviti: inviti a pranzo, a festicciuole, inviti al teatro, ma di proposito ella non accetta altro che alla domenica e le sue amiche vanno a gara, disputandosela una settimana coll'altra.

Nè la giovinetta porta in giro il fardello delle sue pene, nè porta il broncio per la propria virtù, per la vita che s'è imposta; tutt'altro! La sua cameretta sola vede qualche lacrima — per la mamma, per la sua povera mamma specialmente, — ma fuori ella è sempre piena di gaiezza, di brio, di chiacchiere, di risatine squillanti. È l'allodoletta che vola libera, cantando in faccia al sole.

E la signora Eugenia ha sempre una risposta pronta per chi l'ammira coll'idea di volerla compiangere:

[149] — No! no! Quando si è giovani e si è sani non è una disgrazia l'esser poveri! Anzi.... è un'occupazione e una distrazione.

E non domanda mai niente, nemmeno a Domeniddio; soltanto, di conservarle la salute che le ha già dato.... E la signora Eugenia, benedetta nella sua forza, nel suo coraggio, nella sua costanza ha lavorato tutta la vita, senza mai buttarsi malata, nemmeno un giorno!

Sapendosi sempre contentare di poco, dopo le difficoltà dei primi anni più difficili ha finito poi col trovarsi davvero soddisfatta e felice del proprio stato. Apprezza tutte le più piccole cose, perchè le guadagna da sè.... e perciò le costano molto.

Oh, la felicità di un paio di guanti nuovi, e di una piccola boccettina di acqua di Colonia! Oh, il primo vaso di garofani, — veramente magnifico! — che potè comperarsi dinanzi alla chiesa di San Giuseppe!... Quanto le fu caro! Per esso ebbe tutte le cure che avrebbe avute per un giardino!

In principio non fece che cucire in bianco, ricamare, tutta la sera e parte della notte, per guadagnarsi da vivere; e il giorno studiava per poter fare la maestra. Era questa la sua idea, il suo [150] sogno, ciò che sentiva di poter far meglio: la maestra ai bambini e alle bambine. E fu contentissima quando, per la prima volta, potè entrare in una piccola scuola privata; ma il giorno in cui vinse il concorso per un posto di maestra comunale le sembrò addirittura di essere nominata regina!

Adesso, dopo più di trent'anni di lavoro, dopo aver percorsa tutta la sua scala, gradino per gradino, dopo esser diventata vice-direttrice e direttrice delle scuole di San Celso, s'è ritirata non tanto per riposare quanto per lasciar posto agli altri, con una piccola pensioncella. E adesso, colle sue tre stanzette, colla sua donna di servizio, per un paio d'ore tutte le mattine, colla sua buona zuppa di vero brodo, la sua aletta di pollo, le sue quattro castagne d'inverno, le sue quattro ciliege l'estate, la sua tazza di squisito caffè e il balconcino pieno di garofani e di girani, la signora Eugenia dichiara di essere diventata una milionaria. In fatti, non solo non ha un debito — non ne ha avuti mai! — ma accumula tesori tali, che le permettono l'acquisto di un libro o di un corpetto di lana per qualche povero scolaretto e di farsi onore, colle sue brave mance, a Natale e al Ferragosto.

[151] I fiori, per la tomba della povera mamma li ha sempre comperati, anche quando pativa la fame.

Eppure, dopo diventata milionaria, la signora Eugenia si sente forse meno felice. Le è rimasto un gran vuoto nella vita e nel cuore: non ha più d'intorno la sua folla di bambini! E ciò essa ha confidato appunto all'avvocato Olivieri, una sera, trovandosi insieme in una casa d'amici.

Oh, quel gran stanzone della scuola così pieno di visetti vispi e ridenti, che gran rimpianto per il suo cuore! E che angosce, che struggimenti, per tante miserie che la circondavano!

Certe mattine, d'inverno, il levarsi presto presto, ancora col buio, nella fredda cameruccia, il dover «far toletta» coll'acqua ghiacciata della brocca era un vero supplizio; era un supplizio la lunga strada fangosa, deserta col vento che soffiava frizzante, che gelava il naso e tagliava le labbra, ma poi arrivata là in mezzo alla scuola, quanta vita subito e quanto frastuono, quanta letizia, quanta luce di primavera e di sole, anche se fuori dai finestroni si addensava la nebbia o cadeva fitta la neve!

Ed era poi convinta e orgogliosa della grande importanza, della gravità della sua missione.

[152] La signora Eugenia pensava e diceva:

— Sono le mamme è vero, che fanno i bambini... ma gli uomini li facciamo noi, colle nostre prime cure, coi nostri insegnamenti; siamo noi, povere maestrine, che formiamo la loro coscienza e il loro cuore. I bambini nascono tutti buoni, ed è colpa nostra se diventano uomini cattivi, perchè non abbiamo insegnato loro, non abbiamo dato loro la forza per diventar felici.

Oh, fra quei piccoli uomini mandati alla scuola, quanti che ingiustamente soffrivano!... E a questi la signora Eugenia si sforzava di insegnare non soltanto la calma e la bontà, ma altresì l'energia per farsi un po' di posto in quel mondo che il buon Dio aveva creato per tutti.


La signora Eugenia, mentre aspetta l'avvocato Olivieri e Francesco Roero, prepara il caffè colla sua macchinetta famosa. Tutto ciò che possiede la signora Eugenia è straordinario, è famoso. La sua piccola casetta, appunto perchè è tanto piccola, [153] sta tutta dentro, nel suo cuore. Se non fosse così buona e se non sapesse di far piacere a chi la invita, rinuncerebbe subito anche ai grandi pranzi della domenica, per i desinaretti con un'ala di pollo e quattro castagne, lì al suo tavolino tutto lindo, con in mezzo, per trionfo e per compagnia, una rosetta o un garofano nel bicchiere.

Il suo bravo caffè — pensa la signora Eugenia che n'è ghiotta — fa piacere a tutte le ore, specialmente d'inverno. E mentre il caffè bolle nella macchinetta, va in camera a lavarsi un'altra volta le mani, a lucidarsi le unghie, poi torna nel salottino, si guarda nello specchio della caminiera e si aggiusta i capelli. Da giovane, la signora Eugenia non ci aveva mai pensato; adesso invece ci tiene ad essere una bella vecchia. Ella stessa, riflessiva come tutte le persone che vivono molto sole, s'è accorta di questo, e ne ride fra sè.

— Meno male che comincio adesso a far la civetta e che cominciano adesso a piacermi gli uomini!

Quella mattina c'è anche di più: si tratta della visita, della presentazione di un giovine letterato alla moda, e la signora Eugenia ha sempre tenuto [154] moltissimo ai letterati, considerandosi un po' della famiglia.

Guarda al suo precisissimo orologio di bronzo della scrivania: sono le dieci in punto.

— Staranno poco a venire! — Bisbiglia sottovoce.

Mette altra legna nel franklin; si guarda attorno per vedere se non l'è sfuggito un briciolo di polvere... spinge una poltroncina, ch'era un po' fuori di posto sotto la finestra... Torna dinanzi allo specchio della caminiera e raddrizza il ritratto in fotografia di Cesare Cantù, che lo stesso Cantù le ha regalato, con una dedica affettuosa.

Dopo un momento si sente suonare all'uscio:

— Eccoli!

La signora Eugenia corre ad aprire:

— Ho preparato il caffè! Ho pensato che con questo freddo una buona tazza di caffè si prende sempre volentieri!

— Benissimo! Bravissima, cara signora Eugenia! — L'Olivieri si rivolge poi al Roero:

— Sentirai che caffè! Straordinario! Famoso!

Presenta subito l'amico alla signora, senza un attimo d'imbarazzo o di sussiego, nemmeno in quel primo incontro.

[155] Entrano tutti e tre nel salottino, parlando, ridendo, come fossero amici già da molti anni.

La signora Eugenia si affretta presso la macchinetta del caffè, si curva, guarda, spegne con un soffio la fiamma, lo lascia deporre diventando seria per non distrarsi nel misurare il tempo dovuto, poi lo versa adagio, fumante, nelle tre tazzette di porcellana che hanno la lucidezza di un cristallo tanto sono pulite, e senza la più piccola taccherella.

— Ecco, per tutti e tre... — esclama l'antica maestrina, riempiendo le tazze soltanto fino all'orlo dorato. — La sua giusta misura; così non c'è da litigare!

L'Olivieri, sorseggiando il caffè ne esalta la squisitezza con l'amico, facendogli poi ammirare, sempre per far la corte alla signora Eugenia, tutte le maraviglie del salottino.

— Che caffè! Non te l'ho detto?... È una delle tante specialità di cui ha la privativa soltanto la signora Eugenia. E che eleganza di tazzettine!... Tutto qui, del resto, guardati attorno e vedrai, tutto è di buon gusto, tutto è bello, simpatico, elegante, cominciando dalla padrona di casa!... Non [156] è vero?... Rispondi, adesso che finalmente puoi vederla: è bella, è simpaticissima, sì o no, la nostra signora Eugenia?

Il Roero risponde affermando con entusiasmo e la signora Eugenia ride di gusto. Comprende benissimo che l'Olivieri le fa tutti quei complimenti per farle piacere e sapendo di farle piacere; ma non importa, se li gode lo stesso.

Ripete solo, di tanto in tanto:

— Signor avvocato! Signor avvocato! Non scherziamo troppo! Un po' di rispetto alla vecchiaia!

— Guarda quando ride, che denti mostra quella... vecchiaia! — E l'Olivieri indica a Francesco la bocca ancora fresca e bella colle due file di denti intatti, bianchi e lucenti come le tazzette di porcellana.

— Basta! Basta!... Io permetto che mi si faccia la corte soltanto la domenica sera, quando vado nel gran mondo! Una volta la settimana e basta. Se no, ci si fa l'abitudine e non c'è più divertimento! Dunque stia zitto e mi dia invece una delle sue sigarette da ricco signore!

— Subito, sul momento! L'Olivieri caccia la mano in tasca e leva l'astuccio delle sigarette che le offre già aperto: — A lei.

[157] — Da bravo! Una sigaretta anche pel suo amico: dò io il cattivo esempio e ne' miei saloni è permesso fumare.

Il Roero, prima di prendere la sigaretta, accende un cerino e lo presenta alla signora Eugenia.

— Grazie! Però, — riprende questa dopo le prime boccate di fumo, — l'avverto per l'avvenire: la sigaretta è un vizio che mi fo mantenere e soddisfare dai miei amici.

— Non è vero, sai, Roero! Tante volte le ho offerto una scatoletta di Tocos, non l'ha mai voluta accettare!

— Tutta una scatola è già un regalo. Io non accetto regali.

— E questa, scusi, finisce per essere in lei quasi un'affettazione.

— Un'esagerazione, via! — corregge il Roero.

— No, no, no! I regali si possono accettare e fanno piacere soltanto quando si possono rendere, e siccome colle mie sostanze questo piacere non posso permettermelo, così, dacchè sono al mondo, legge draconiana e uguale per tutti: regali, niente! Ma, invece, la tassa di una sigaretta ogni volta che incontro un amico, questo sì, e non si scappa! [158] E badiamo ve'! Anche incontrandomi per la strada! Me la porto a casa e adesso che sono milionaria me la fumo deliziosamente dopo la mia brava colazione o dopo il mio pranzetto! Si ricordi, signor Roero: d'ora in avanti resta tassato anche lei!

— Ben felice, felicissimo...

— E per lei la tassa finirà con l'essere molto gravosa! — La signora Eugenia sorride sempre, ma adesso con una espressione più dolce, con un'affabilità che diventa quasi affettuosa. — Il signor Olivieri mi ha detto che avrò la fortuna di vederla spessissimo; ch'ella avrebbe l'intenzione d'associarmi ad un'opera bella, santa... che le fa molto onore. Bravo! Bravo! — Gli occhi della signora Eugenia hanno un lampo improvviso di commozione. — Che Dio la benedica!

Il Roero resta colpito, e a sua volta si sente commosso dalla bontà, dalla sincerità di quelle parole. Egli ha dimenticato in quella improvvisa e nuova intimità, così cordiale, tutto il lungo colloquio avuto prima con l'Olivieri.

La signora Eugenia ha vuotata la sua tazza; l'avvocato e il Roero si alzano insieme per levargliela di mano. Il Roero arriva primo e presa la [159] tazza, la pone sul cabarè di lacca rossa, in mezzo al tavolino.

L'Olivieri torna a sedersi, accanto alla signora Eugenia:

— Si ricorda, quella sera in casa Rossi? Mi diceva ch'ella si sentiva malinconica e che soffriva di nostalgia non vedendo più i suoi bambini, ed io ho pensato subito a lei... per Lulù.

— La piccina si chiama Lulù?

— Sì, e quando fa i capricci, Lulù sola, le assicuro, dà più da fare di cento bambini.

— Tutto sta a poterle andar a genio, — osserva la signora Eugenia; — trovare il modo di riuscirle subito simpatica, la prima volta!

— Ma lei, si figuri, la conquisterà di colpo!

— Certissimo! — Soggiunge il Roero con convinzione. — Lulù farà con lei, come con me: le vorrà subito molto bene.

— Sì?... Lo spero anch'io del resto; mi han sempre voluto bene tutti i miei bambini; e anche adesso, molte e molti, che son diventate mamme, che son diventati papà, non mi hanno dimenticata e mi vogliono bene ancora!... C'è tanta bontà nei bambini! E il nostro studio deve consistere appunto [160] nel conservarla, nel coltivarla, nell'aumentare questa bontà, per quando sono grandi!... Del resto ce n'è tanta della bontà anche nel mondo! Più assai che non si creda! Basta saperla cercare, perchè è timida e molte volte si nasconde.

A questo punto la signora Eugenia interrompe il proprio entusiasmo. Si avvicina col viso al Roero per meglio fissarlo negli occhi e gli domanda, con un sorrisetto, pieno di arguzia:

— Dica un po': confesso la mia colpa. Ancora, non ho avuto la fortuna di sentire una sua commedia e non ho letto niente di suo. Sarebbe mai uno scrittore di quelli che adoperano l'inchiostro nero?... Un naturalista, un pessimista? No! No! Per carità! Che orrore! Tanto più, poi, che, in questo caso, ella mancherebbe di sincerità!

— Perchè?

— Perchè lei ha troppo cuore, e il cuore è una forza che illumina l'arte, la riscalda, v'ispira la pietà e il perdono. Il cuore è la gioia, l'entusiasmo, la ricerca ansiosa di tutto ciò che è bellezza, nella forma e nell'anima, nella creatura e nelle cose!... Dio, Dio! Senza accorgermene, mi son messa a far la predica! Sarà stato il mio caffè [161] troppo forte!... Del resto, bisogna compatirmi. Sono vecchia e naturalmente le mie predilezioni sono per la vecchia scuola, un po' romantica, un po' sentimentale, ma che, per questo, ha fatto del bene. Ahi! Ahi! L'avvocato ride e il commediografo sorride! Lasciamola lì, e torniamo... a Lulù!

Parlano a lungo della bambina, de' suoi capricci, delle sue simpatie e delle sue antipatie, della sua prontezza d'ingegno, della sua grazia infantile, della sua facilità ad apprendere e ad affezionarsi.

Combinano insieme che la signora Eugenia sarebbe andata quel giorno stessa a vederla, verso le quattro.

E a questo punto, è naturale, salta fuori la maestra col suo metodo, e il suo programma. La signora Eugenia parla di religione e di grammatica, dei verbi e della divisione, di libri di testo e di penne da scrivere, poi finalmente ritorna alla visita che avrebbe fatto quel giorno alla piccina e conclude:

— Bisogna che si abitui gradatamente alla mia faccia, alla mia voce: insomma deve imparare a conoscermi. Se me la faccio condur qui subito, vedendo un viso nuovo e trovandosi in una casa nuova, resta in sospetto e invece di prendermi in simpatia mi prende in avversione.

L'avvocato si alza: è quasi ora di andarsene. [162] Ma prima offre un'altra sigaretta alla signora Eugenia, scherza, ride, ricomincia a farle la corte.

Il Roero, invece, sfoglia i libri, guarda i ninnoli, i gingilli, i ritratti del salottino. Molti ne riconosce, ma uno lo colpisce singolarmente. È una piccola miniatura, certo di molto pregio. La testina e il collo soltanto: una signora bellissima, bionda, delicata.

— Scusi, signora Eugenia, non è un ritratto, questa piccola miniatura? È un lavoro di fantasia? È disegnato con una finezza squisita... Quanta soavità!... Quanta dolcezza!

— È un ritratto! — Risponde la signora Eugenia vivamente.

— Un ritratto?... Davvero? Di chi?

— È la mamma! — E mentre arrossisce con gli occhi sfavillanti dal piacere, stende la mano al Roero, e gli dà una forte stretta piena di affetto, di riconoscenza:

— Sapesse! Non poteva farmi un piacere più grande! È tanto bella vero?... È proprio la mia mamma!

Strano!... Quella signora dai capelli tutti bianchi aveva detto «la mia mamma» con l'istessa espressione con la quale Lulù diceva certe volte «il mio papà!»

[163]

III.
La contessa.

— È simpatica, non è vero? — Domanda l'Olivieri all'amico, ancora sulle scale, appena usciti dal salottino della signora Eugenia.

— Simpaticissima! E per la retribuzione, per l'onorario, come si fa?... Vuol dire che ci penserai tu; combinerai tu, a mio nome.

— Ci sarà poco da pensare e da combinare. La signora Eugenia, con me, ha già parlato chiaro. «Sono contentissima di poter fare anch'io un po' di bene, di poter essere un po' di mamma per questa bambina così sola; ma intendiamoci; nient'altro che questo! Ormai sono milionaria: non fò più la maestra.»

Il Roero scrolla il capo:

[164] — Allora... è un impiccio, una seccatura! Quella signora non vuol accettar regali perchè non può ricambiarli, e pretenderebbe che io quasi scroccassi da lei il suo tempo e le sue lezioni!

— Non inquietarti; potremo mettere d'accordo la sua fierezza e la tua. Io la chiamo, scherzando, la calamita dei vedovi! Ha sempre d'intorno un paio di vedove o di vedovi di famiglie decadute, disgraziatissimi, ammalatissimi, con numerosissima prole tutta piccolissima, pieni d'appetito e di pudibonda timidezza: ebbene, fisserai, le darai una sommetta mensile per i suoi vedovi. Essa capirà, accetterà lo stesso, e li spenderà tutti, te lo assicuro!

— Va bene; farò così. Ma... e Lulù? Se Lulù, contro tutte le nostre previsioni, non volesse saperne di quella cignora?

— La signora Eugenia ha tanta pratica; ha tanto tatto! Speriamo. E poi, adesso l'hai vista; puoi giudicare tu stesso.

— Che bella faccia, attraente!

— Quelle son le donne!... Le vere donne!... La provvidenza!

— Quelle, sì; come la signora Eugenia, non come la Fáni! — Mormora Francesco tra sè.

[165] Il pensiero della Fáni, che è stato per un momento sotto gli altri, ma che è sempre vivo e dominante nel suo cuore, è spinto a galla da un grande sospiro. Egli continua a camminare silenzioso per un lungo tratto di strada, poi d'improvviso, e toccando nel gomito il compagno, gli dice a mezza voce:

— Sai che cosa farò?

— A proposito della signora Eugenia o di Lulù?

— No; a proposito della baronessa Stefania.

— Ah?... — L'avvocato cambia subito d'espressione, sogghigna, ritorna ironico.

— Non voglio più mettere i piedi in casa Arcolei; ma ho l'obbligo di salvare almeno certe apparenze.

— Naturalmente!

— Oggi, sarebbe il suo giorno di ricevimento; ma invece oggi non c'è, perchè è di turno all'ospedale. È nella Commissione delle dame visitatrici. Io, per altro, non sono obbligato a saperlo: vado, non la trovo e lascio il mio biglietto. Un altro giorno, invece dell'ospedale, ci sarà la visita a qualche asilo, oppure seduta al Consiglio direttivo delle Piccole Suore, o la conferenza di monsignor [166] Flamberti al Sacro Cuore: torno, e le lascio un altro biglietto. Andrò qualche sera, quando sono ben sicuro che è a teatro, e appena mi fosse possibile di affidare Lulù alla signora Eugenia, vado a finire l'Arianna a Bordighera o a Mentone. Va bene così?

— Va benissimo; ma, per altro, fa tutto ciò che vuoi fare, senza pensarci troppo. E adesso?... Io devo andare in tribunale, e tu?

— A casa, a far colazione. Ma prima vieni con me a prendere una bambola. Titi ormai è tutta rotta, sudicia. E pensa che certe volte mi tocca anche di baciarla! Sai dove si vendono le bambole, quelle proprio belle, ben vestite?

— Dalla Bellotti, sotto la Galleria. Ne ho presa una a Natale per una mia nipotina; ha fatto furori!

Il Roero compera una bambola magnifica; la più bella che ha la Bellotti. È una bambola elegantissima, vestita color celeste, con un gran cappellone celeste, abbigliata, pettinata, messa in tutto punto, proprio come una vera signora. Il Roero l'ha scelta apposta con gli occhi nerissimi, coi capelli nerissimi e con la piccola testina rotonda come Lulù.

[167] Somiglia a Lulù!

— Così, — dice sorridendo all'Olivieri, — farò felice quel demonietto! Lulù, per oggi almeno, sarà tutto il giorno occupata colla sua bambola, mi lascierà in pace e si metterà di buon umore per quando verrà la signora Eugenia.


Francesco Roero, quando torna a casa, trova Lulù seduta sotto il pianoforte, nel salotto, in istrettissimo colloquio con Titi.

— Dove sei?

La bimba si curva e rimane tutta raggomitolata per nascondersi e per farsi cercare.

— Che cosa fai li sotto?... Ti vedo!... Vieni fuori!...

Lulù non risponde, ma alza il capo, spinge innanzi il visino e lo fissa con gli occhi ridenti.

— Vieni qui! Vieni fuori!

— Più Lulù!... Lulù andata a cagia.

— Ma no che non è andata a casa!... Se la vedo! Guardala lì!

Titi, andata a cagia! — Esclama Lulù con [168] un piccolo grido di allegrezza, come un uccellino che trilla sbattendo le ali.

— Ha fatto benissimo, perchè non si lavava mai la faccia.

— Brutta, Titi!

— Da brava! Da brava! Vieni qui, presto! Vieni a darmi un bacio.

La bimba continua a fissarlo sorridendo... si strascica carponi, poi si rizza di colpo e corre precipitandosi contro le gambe del Roero.

— Un bacio!... Non mi dai nemmeno un bacino?

Ella fa cenno di no, stringendo gli occhi... ma subito con un nuovo grido di allegrezza, abbassa la testina, solleva i capelli, e riceve il piccolo bacio sul collo. Poi lo guarda tenendosi colle mani aggrappata alle sue gambe:

— Sei venuto in carroccia?... Perchè?

— Oh bella! — Francesco è maravigliato. — Come hai fatto a capire che sono venuto a casa in carrozza?

La bimba invece di rispondere ripete la domanda:

— Sei venuto in carroccia?... Perchè?

— Perchè... non ero solo. Ero con... con una signora!

[169] Lulù si ferma, ritta su due piedi, aggrottando le ciglia.

— Una bellissima signora! Che rassomiglia a Lulù! — Soggiunse in fretta, il Roero.

In quel punto si ode una grande scampanellata, e Giovanni sollevando la portiera si presenta sull'uscio serio serio, coll'aria di annunziare una visita d'importanza:

— C'è di là una signora... francese; una signora contessa appena arrivata da Parigi. Ha domandato se qui ci sta una certa signorina Lulù, e vorrebbe farle una visita. La faccio entrare?

— Certamente! Certamente! Non bisogna far aspettare le... le contesse di Parigi! — Il Roero osserva con un po' di inquietudine Lulù, rimasta immobile con gli occhi sempre fissi verso l'uscio e le ciglia aggrottate.

Giovanni, uscito appena fatta l'ambasciata, rientra subito con la Luisa tenendo ciascuno la bambola per una mano e facendola avanzare a piccoli passettini.

— Ecco la signora contessa di Parigi.

— Guarda, Lulù, che bella signora!

— Ha i capelli neri come i tuoi! Ha gli occhi, guarda, come i tuoi! Ti rassomiglia! — Continua [170] a ripetere il Roero, mentre Luisa e Giovanni fanno saltellare la bambola dinanzi a Lulù.

— È una gran dama, venuta apposta da Parigi per far visita alla signorina Lulù! Una contessa, nientemeno!

Ma Lulù indietreggia sempre finchè urta e si ferma con le spalle contro una poltrona: allora quando ha la bambola vicina, la respinge con un moto di dispetto, mentre con un braccio si nasconde gli occhi per non vederla.

— No! Non voglio conteccia!... Via! Va via! — E la bimba, pestando i piedi, strillando, prorompe in un pianto dirotto.

Padrone, servitore e bambinaia si guardano maravigliati e quasi mortificati da quel mal esito inaspettato.

— Forse la crede proprio un'altra bambina come lei, ed è gelosa!... — Osserva la Luisa.

Ma il Roero comincia a sbuffare e a perder la pazienza.

— Guarda! È una bambola!... Una bambola come la Titi! L'ho presa apposta per te!... È tua!... Prendila! È tua!

Non c'è verso! Lulù non vuol guardar la bambola [171] e continua invece a respingerla furiosamente, a battere i piedi per terra, a strillare sempre più forte.

— Finiscila, vivaddio! Finiscila o ti mando subito dalla signora Carlotta!

Oh sì! La bimba si mette a strillare ancora più di lena.

— Cattiva! Peste! Sei una peste! — Grida il Roero addirittura furibondo. — Lasciamola qui sola, finchè si è sfogata! Finchè ha perduto il fiato! Andiamo, Giovanni, presto!... La mia colazione.

Ma appena rimasta sola con la Luisa, Lulù si calma come per incanto e il suo visino e i suoi occhi non hanno quasi più traccia di tanta collera, di tanto dolore, nè di tante lacrime sparse. Ella guarda la bambola che Giovanni, prima di uscire, ha messo in piedi in un angolo del canapè, poi guarda la Luisa:

— Brutta... conteccia!

— Ma no, invece, che è bella, molto bella!... Guardala bene! Non hai voluto nemmeno guardarla!

Lulù lentamente si avvicina al canapè fissando, divorando la bambola con gli occhi. Ma è ancora [172] adirata contro la bella signora di Parigi capitata in carrozza col suo amico, perchè mentre l'osserva attentamente si dà l'aria, come per farle dispetto, di disprezzare tutto ciò che più l'ha colpita e la colpisce nella sua sfarzosa toletta.

— Brutto... cappellino!

— È molto bello invece! Guarda che bella piuma! Proprio all'ultima moda!

— Brutte... scarpine.

— Ma no!... Sono scarpine verniciate! Nientemeno! E che belle calzettine di seta!

— Brutte... calzettine!

— Ma tu, dimmi, — le domanda la Luisa, accarezzandola, dandole un bacio, mentre Lulù appoggiata in piedi al canapè, fissa sempre la bambola, — dimmi la verità, tu, appena l'hai vista, l'hai creduta una bambina, proprio una bambina vera, viva, come te?... Invece no, guardala bene: non vedi che non si muove?.. È un regalo che ti ha portato il signor padrone!

— Cattivo... quello là!

— Ma si dice quello là, al signor Francesco? — La Luisa non può tenersi dal ridere.

— Brutta conteccia! — Continua a bisbigliare [173] la bambina, ma adesso l'espressione del viso non corrisponde più alle parole. La guarda cogli occhi incantati, si arrischia, comincia a toccarla... le tocca, le tira un ricciolo di capelli. — Sono proprio capelli veri! Allora Lulù va in estasi; salta sul canapè, prende in braccio la bambola e vuol levarle subito il cappellino.

— Mia... conteccia!

— Sì; è tua.

— Porto cagia mia.

— Sì, puoi portarla a casa tua, puoi portarla dove vuoi!

Lulù si stringe la bambola contro il petto e le imprime un gran bacio sulla faccettina di biscuit in segno di riconciliazione e di amicizia, ma più ancora in segno di conquista, di possesso, e subito scivola giù del canapè, sempre colla sua puppattola ben stretta fra le braccia, attraversa trotterellando il salottino e corre nello studio a cacciarsi sotto la scrivania dove ha la sua seggiolina e c'è il lettino, il carrettino di Titi, dove ha la cagia sua e dove la signora Eugenia quando viene verso le quattro, come ha promesso, la trova ancora tutta intenta e occupata colla sua conteccia.

[174] La signora Eugenia, appena entra nello studio accompagnata dal Roero, va direttamente verso la scrivania, e curvandosi per avvicinarsi a Lulù e sorridendo, si mette subito a discorrere come se già si fossero conosciute da un pezzo.

— Son venuta per vedere se quella signorina lì, — e indica la puppattola, — sa ben contenersi, se è savia, oppure se fa capricci.

Lulù seduta sul panchettino colla sua bambola in grembo che adesso dorme, stanca di visite e di ricevimenti, caccia innanzi la testina sotto la scrivania e cogli occhioni neri lucenti, guarda fisso quella signora che le parla con tanta naturalezza, con tanta confidenza, senza volerla subito abbracciare, nè voler darle subito dei baci.

Il lungo esame è riuscito certo favorevole alla signora Eugenia. Lulù, quando ha finito di guardarla, le indica la bambola e le impone silenzio col ditino:

— Dorme.

— Allora zitti, tutti zitti! Bisogna far pianino pianino! — Bisbiglia la signora Eugenia, sommessamente.

— Dorme, — ripete Lulù, contentissima di essere [175] secondata in quell'idea, e così il primo incontro passa tranquillo e sereno, come nessuno avrebbe mai osato sperare.

Il Roero è soddisfattissimo:

— Brava! Molto brava! È certo anche la sua voce così dolce, così armoniosa, che fa subito colpo sui bambini e che li persuade.

— Oramai il passo più difficile è andato bene! — Risponde sottovoce la signora Eugenia, rizzandosi sorridendo.

Ella è un po' rossa, accesa in viso e il suo occhio sempre così calmo e sicuro sfugge, adesso, quello del Roero. Il trovarsi a un tratto e con tanta intimità nello studio del giovine letterato, le fa una forte impressione che non può del tutto nascondere. Guarda in giro curiosa ed estatica, osservando ed ammirando.

— Segantini e Favretto? — Esclama vivamente indicando i due quadri famosi.

— Sì.

La signora Eugenia continua a guardarli a guardarli, ma non aggiunge altro. Il suo entusiasmo si esprime tutto cogli occhi in un sentimento quasi di devozione... e non ha parole.

[176] Come scotendosi da quell'estasi, soggiunge soltanto:

— Ella deve scrivere delle gran belle cose in questo studio, in questo.... ambiente. — E torna subito vicino a Lulù, curvandosi vivamente per vederla sotto la scrivania.

— Dorme ancora?

Ci; ma adesso si sveglia.

— Allora vieni un po' qui! Lasciamela vedere!

Il Roero spinge una poltrona verso la signora Eugenia, che siede ringraziando con un cenno del capo. Lulù le porta subito la bambola sulle ginocchia e vi si appoggia anche lei liberamente.

— E come si chiama questa bella signora?

— La mia.... conteccia!

— Non si parla così. Bisogna pronunziar ben chiare le sillabe: Con-tes-sa, colla doppia esse, ssa. Proviamo insieme: Con-tess....

— Con-tessa!

— Brava! Ma brava la mia Lulù! Allora giacchè sei tanto brava, mi darai anche un bel bacio!

La bimba alza il visetto e subito le scocca un bacio sulla bocca, in fretta, non volendo perder tempo.

[177] La signora Eugenia rizzando la bambola e tenendola in piedi sulle ginocchia, si effonde in grandi ammirazioni.

— Che cappellino magnifico! E anche le sottane di battista ricamata?... Oh, oh! Ma che lusso!

Gli occhi della bimba sfavillano di gioia.

— Ma sai che il signor Francesco è molto buono? Lo hai poi ringraziato, proprio bene, per averti fatto un così bel regalo?

Il visino di Lulù s'intorbida un istante: non ha ancora perdonato a... quello là, e colla sua furberia evita di rispondere.

— Dorme più... conteccia!

— Da brava! Da brava! Pronunzia bene la doppia esse come ti ho detto! Con-tess...

— Con-tessa! — Ripete la bimba con uno de' suoi piccoli gridi di allegrezza.

— Dunque, dimmi, lo hai ringraziato il signor Francesco?... Ricordati che il signor Francesco ti vuol molto, molto bene.

Lulù torna a oscurarsi e le sue labbra hanno un leggero tremito, finchè il Roero prendendola in braccio esclama ridendo:

— Facciamo la pace!... Facciamo la pace!

[178] La bimba ride, gli si attacca al collo, lo stringe forte colle braccine, lo soffoca, gli tira i capelli, gli dà le botte, lo copre di baci.

La signora Eugenia riman lì come estatica e cogli occhi lucenti a guardare il Roero, a guardare Lulù. Quel «giovane papà» così buono, così affettuoso per quella bimba non sua... quella bimba così bella e così intelligente alla quale hanno ucciso il babbo, e che non ha la mamma, commuovono il suo cuore profondamente, esaltano la sua fantasia un po' romantica.

— E Titi? E Titi? — Domanda dopo un momento, riprendendo il suo ufficio, la sua parte di maestra. — Adesso mi farai vedere anche Titi?

Lulù la guarda attonita per un istante: se n'era affatto dimenticata!..... Ma soggiunge subito, già coll'istinto femminile, volendo giustificare il proprio oblio:

Titi..... brutta!... Cattiva!

— Se è brutta è una disgrazia e perciò bisogna anzi volerle bene anche di più.

— Cattiva!

— Cattiva no, non può essere! Qui non ce ne sono di cattivi! I cattivi sono tutti lontani lontani, noi non ne conosciamo di cattivi!

[179] Ciò persuade molto e va molto a genio alla piccina:

— Lulù... buona!

— Sì, anche tu sei buona, e adesso andremo insieme a cercare la Titi.

La signora Eugenia, prima di entrare nello studio per incontrarsi con Lulù, si era informata di tutto, e aveva già visto nel salotto, dov'era la vecchia bambola.

— Vuoi che andiamo insieme a cercarla?

Cì!

— Ricordati; pronuncia bene la esse: ssì! Hai capito?

Cì!

La bimba, che le ha presa la mano, tira di forza la signora Eugenia nel salottino dove, sotto il pianoforte, giace distesa la povera Titi senza una gamba e tutta a sbrendoli.

Lulù, fiera della sua Contessa, non vuol più saperne.

— Brutta!... Brutta Titi!

— Oh povera Titi! Povera la mia Titi! — La signora Eugenia con un accento di dolore e di grande commiserazione, raccoglie la vecchia [180] bambola e torna a sedersi accarezzandola, cercando in qualche modo di aggiustarla.

Lulù si ferma ritta, immobile, sempre colla bella Contessa stretta fra le braccia, osservando la signora Eugenia.

— Povera Titi! Povera la mia Titi!... Chissà che dolore non aver più le carezze, non aver più i baci di Lulù!

— Brutta! — Ripete forte la bimba, per vincere col disprezzo l'interno rimorso.

— Brutta perchè Lulù non le vuol più bene!... Ma prenderò io a volerle bene, e tornerà bella. Adesso me la porto con me, vado a comperarle un bel cappellino; con una stoffa tutta a fiori, che ho a casa, le farò un magnifico vestitino nuovo, e quando sarà pulita e ben pettinata, e avrà ancora tutte e due le sue gambine, verremo qui insieme a trovarti e tu ritornerai a volerle bene. Quando dobbiamo venire?

Stacera! — Esclama subito Lulù.

— No, stassera, — e la signora Eugenia ripete apposta le esse, — stassera è troppo presto. Non posso aver finito il vestitino. Verrò..... domattina. Sei contenta?

[181]Cì! Cì!

— No! Pronunzia bene la esse. Sss...

Sss... cì.

— Cara! — La signora Eugenia le stampa un gran bacio sulla testolina rotonda in mezzo ai capelli nerissimi, fitti fitti e odorosi, mentre il Roero rimane sempre più stupito vedendo quel demonietto selvaggio così presto addomesticato, così tranquillo e ubbidiente.

— Anche il cappellino a Titi?

— Anche il cappellino.

— Anche le scarpine a Titi?

— Sicuro, povera Titi! Le prenderemo anche un paio di scarpine nuove. Come le vuoi? Di pelle nera o di pelle gialla, come ora sono di moda?

Lulù non risponde: sempre appoggiata alle ginocchia della signora Eugenia, alza gli occhi fissandola, mentre si prende un piedino con una mano:

— Anche il mio papà... porterà belle scarpine nuove.....

Poi, dopo un momento, soggiunge scrollando dolcemente la testina:

Stacera no!... No, stacera... Dopo... domani!

[183]

IV.
La Fáni innamorata.

— Appena posso affidare Lulù alla signora Eugenia, — aveva detto il Roero all'Olivieri, — corro a prendere il treno e vado subito a Bordighera o a Mentone a finir l'Arianna.

In un paio di settimane Lulù è stata felicemente conquistata dalla bella mammetta, ma il Roero, sempre dichiarando a tutti di voler partire e di aver una voglia matta di mettersi a lavorare, non si muove mai, e non fa mai niente. L'Arianna, con tutte le esortazioni della signora Eugenia, ammessa alle confidenze letterarie dell'elegante commediografo, rimane ferma allo stesso punto.

— Lavoro... qui! — E si batte la fronte colla mano. — Finchè non trovo il nuovo finale per il terzo atto, non posso ricominciare a scrivere.

[184] Ma invece è un altro, è tutt'altro finale che ha sempre in mente il giovinotto! È il lieto fine di quella sua commedia di dispetti, di puntigli, di rabbia! Se l'Arianna è rimasta ferma allo stesso punto, la Fáni, invece, progredisce ogni giorno, e sempre più velocemente, con molto scapito, s'intende, per il povero Olivieri.

— Un chiacchierone che infila paradossi e paroloni e niente altro!..... Stefania un'intrigante? Una donna politica? Una donna pericolosa?..... Niente affatto! Ha dello spirito, ha del talento, vuol piacere e vuol che tutti le facciano la corte! L'Olivieri odia Stefania; è naturale: anche lui ha fatto fiasco! Però, sparlandone come fa, commette una indelicatezza!..... Carlo III, Emanuele II!..... Intanto nessuno può dir niente di positivo!..... Il ridicolo, la folla, il figlio di tuo padre... Tutta retorica avvocatesca! Oh, Rabagas, Rabagas, se la principessa di Monaco ti avesse concesso soltanto un'occhiatina!

È ormai pentito in cuor suo della risoluzione presa, della sua ostinazione di non metter più piede in casa Arcolei.

— Ho sbagliato. Invece di andarmene, di non [185] farmi più vedere, dovevo rimanere e impormi! Ma adesso, abbassare le armi, cedere, non si può; vorrebbe dire sottomettermi per sempre a tutti i capricci, le bizzarrie, le tirannie della Fáni! Sopportare, accettare d'ora in poi, tutte le tremende civetterie della Fáni! Cedere, con quella donna, vuol dire perder tutto! Bisogna invece mostrarsi forte, prepotente, indifferente! Allora è lei che si riscalda, che prende fuoco..... Eppure no! È una donna troppo volubile, troppo strana; imperiosa e orgogliosa; manca di logica e non c'è un sistema possibile!.... Mostrarmi indifferente?..... Bravo!.... Son più di tre settimane che non mi fò vedere, che aspetto... e lei non si muove!... Niente!... Ha mandato un libro, una volta, poi suo marito, poi... più niente! Che cosa c'è di nuovo?... Perchè ci deve essere qualche cosa di nuovo!..... Tanta indifferenza, tanta freddezza, se fossero vere, sarebbero inesplicabili! In fine, se non me l'ha detto chiaramente, mi ha fatto capire chiaramente di amarmi!.... È stata qui!.... È venuta qui!.... Qualunque donna innamorata, che ha perso la testa non può far di più... È rimasta piccata! S'è messa anche lei di puntiglio!... Ma è innamorata... cederà!

[186] E ogni volta che esce di casa o che rientra, lancia un'occhiata ansiosa nella sua casella in portineria, ma il libro avvolto nella solita carta azzurra, il libro tanto desiderato, non c'è. Ad ogni suono di campanello, spera un bigliettino da casa Arcolei; e tutte le sere, dopo le cinque e mezzo, manda fuori Lulù, manda fuori la Luisa e aspetta, dietro l'uscio, spiando ogni passo, ogni rumore, aspetta coll'orgasmo, colla febbre chiamando la Fáni, invocandola, minacciandola:

— Oh, se ritornasse!... Se ritorna!

Il campanello rimane sempre muto, la scala silenziosa. Nessuno entra in casa, nessuno si muove, nessuno vien mai a cercarlo a quell'ora! Almeno avrebbe un istante di speranza, di gioia!

Quando dopo aver atteso, sempre invano, per un'altra settimana, si persuade che la Fáni, ostinata, non cede e non si muove, manda al diavolo ragionamenti e risentimenti e pensa soltanto a trovar l'occasione, il pretesto di arrendersi, anche senza onore.

— Ah, sì! Sì! Voglio finirla! Finiamola!

E subito, l'innamorato, respira più libero e si sente felice.

[187] — Sarà quel che sarà!... Dirà Rabagas tutto ciò che vuole, ma io non posso vivere, non posso stare senza quella donna!.... Sarà quel che sarà, e anche se non diventerò nè un grande scrittore, nè il drammaturgo della folla, poco male: tante seccature di meno! La Fáni, quando vuole, è molto più bella, più cara e più desiderabile anche della gloria!

E fischiettando la Carmen, ride alle spalle di... Rabagas.

Quel giorno stesso, alle cinque, l'ora solita di donna Stefania, va a fare una gran visita alla signora De Angelis; ma donna Stefania non si fa vedere. Anzi, è la signora De Angelis medesima che ne chiede notizia al Roero.

— Come sta la Fáni?..... È un secolo che non la vedo!

La mattina dopo, egli gira su e giù per via Manzoni, per via Santa Margherita, attraversa più volte piazza San Fedele, all'ora della messa... niente. Gira su e giù per il Corso, niente; non solo non vede la Fáni, ma nemmeno Carletto e Manòlo!...

Comincia a diventar nervoso, a inquietarsi, ad arrabbiarsi.

[188] Come sarebbe stato felice in quel momento se gli fosse apparsa da lontano la devota voluttuosa, sia pure anche fra i due suoi antipatici corteggiatori!

Disperando, ormai, per quel giorno d'incontrar la moglie, si mette sulle tracce del marito. Gli fa la posta nei dintorni del municipio, in piazza della Scala, al club: anche don Giulio è invisibile. Al club, per altro, il Roero riesce a scoprire Carletto e Manòlo, loro due soli, in un salottino appartato, che giuocano all'écarté, e la vista dei due rivali, invece di turbarlo, questa volta lo consola.

— Finalmente!... Adesso saprò che cosa c'è di nuovo.

Il Faraggiola e l'Estensi lo accolgono con insolita cordialità e tutt'e due lo salutano chinando il capo allo stesso modo e tutt'e due torcendo le labbra, che stringono la sigaretta, colla stessa smorfia, che esprime il loro compiacimento, la loro simpatia.

— Oh! Oh! Il nostro caro Roero!

— Oh! Oh! Carissimo!

— Che miracolo!

— Un vero miracolo!

[189] I due lions invitano il Roero a sedersi al loro tavolino e a puntare: ma non parlano di donna Stefania, non accennano nemmeno a casa Arcolei, il che, data la fine diplomazia e il riserbo abituale dei due perfettissimi gentiluomini, non turba il Roero, non lo inquieta; anzi, tutt'altro!

È questa la prova evidente che nel regno della Fáni non è successo nessun rivolgimento. Anche quell'accoglienza amabile, quasi festosa è indizio certo di ordini emanati dall'alto, per richiamare a corte il disertore indispettito.

Così il Roero si trova bene a quel tavolino; punta, perde, e contentissimo di perdere continua a gorgheggiare la Carmen in barba a Rabagas!

Lì, tra il Faraggiola e l'Estensi, tra Carletto e Manòlo, gli sembra quasi di aver vicina la Fáni e respirarne l'odore a pieni polmoni. L'ha ritrovata, finalmente, e finalmente egli riprende le abitudini e ricominciano per lui le ore dei giorni trascorsi, i giorni dell'amore e delle furie gelose che, visti da lontano e dopo il timore di averli forse perduti, risorgono ad uno ad uno e si distendono nella memoria sereni, incantevoli, pieni di sole.

[190] Punta, perde, continua a perdere allegramente... ma poi, a poco a poco cessa dal gorgheggiare e diventa pensieroso:

— Come mai?... Restano al club tutto il giorno?... Ma non devono trovarsi alla carrozza di donna Stefania sui bastioni, o con don Giulio a qualche seduta? Che la mia tattica risoluta e coraggiosa abbia determinata la disgrazia di Emanuele secondo e di Carlo terzo?

Ed il Roero ironico, dimentica d'essere Francesco primo e ha un lampo di gioia. Osserva più attentamente il Faraggiola e l'Estensi; non sono in abito da visita, c'è dello sforzo nella loro gentilezza, dell'amaro nei loro sorrisi.

— Oh, poveri disgraziati!..... Adesso mi spiego perchè stamattina, sul Corso, non ho veduto nessuno!

Smette di puntare, si alza, paga in fretta e se ne va.

— Farò io una corsa sui bastioni!... Voglio vedere, per curiosità, se c'è donna Stefania. Se ci fosse... potrei anche fermarmi un momento alla sua carrozza, e salutarla. Un semplice saluto, su due piedi, è un dovere di cortesia; è come portare [191] il biglietto di visita..... Io resto irremovibile al mio posto; intanto..... sentiremo lei, che cosa dirà.

Sui bastioni la carrozza di donna Stefania non si vede.

— Forse è troppo tardi! — Francesco guarda l'orologio. — Sicuro! Sono le cinque e mezzo!... Maledetto il giuoco!

La sera torna al club, naturalmente per far ancora la posta a Carletto e a Manólo. I due vi sono infatti; e quando egli entra nella gran sala, gli sembra di scorgere un cenno, un atto istintivo di dispetto, col quale il Faraggiola avverte l'Estensi della sua presenza. Tutti e due leggono il giornale e fingono di non vederlo. Allora il Roero mostra a sua volta di non vederli. Prende una rivista e passa nella sala attigua, sedendosi in modo da poterli sempre tener d'occhio.

— Sono un uomo di spirito, diavolo! E non devo abusare..... dello spirito degli altri! Bastano gli sforzi di amabilità e di buon umore ai quali li ho costretti nella giornata!

Alle nove e mezzo Carletto e Manólo si scambiano il giornale e non si muovono..... Alle dieci [192] si alzano..... ma tornano nel solito salottino appartato e si rimettono, lor due soli, serii e gravi, a giocare all'écarté.

Oh poveri infelici!

Francesco, in quel momento, è sicuro della loro disgrazia e abbraccerebbe dalla gioia non solo la Fáni, ma anche don Giulio.

— Domani è il suo giorno; vado da lei e prestissimo.

E in fatti ci va.

— La signora baronessa?...

— La padrona non c'è! — Risponde il vecchio portinaio affacciandosi all'uscio della porticina col berretto in mano.

— Come non c'è? Oggi non è il suo giorno di ricevimento?

È il suo giorno di ricevimento, ma non c'è. È andata in campagna. È andata a Borgoprimo.

— È andata a Borgoprimo? Con questo freddo? Ma da quando?

— Da una settimana.

— E ritorna?

— Uhm!... Questo non si sa!

— Don Giulio, per altro, è a Milano?

[193] — Don Giulio?.... — Il portiere ha un risolino strano, tra l'ironico e il beffardo. — Don Giulio pure è a Borgoprimo.

— Anche don Giulio?..... Anche don Giulio da una settimana?... A Borgoprimo?

— Così ha lasciato detto. Ma per le lettere, se il signore volesse scrivere, abbiamo ricevuto l'ordine di mandare quelle della padrona a Borgoprimo, e quelle del padrone, invece, al signor ragioniere.

— Allora dunque... — Il Roero sta per fare un'altra domanda, forse altre cento domande, ma il risolino del portinaio diventa sempre più significativo... Quel vecchio chiacchierone lo fissa in un certo modo...

Il Roero frena un impeto di rabbia; leva di tasca il portafoglio, lo apre nervosamente, prende un biglietto di visita, lo dà borbottando: — Per la signora baronessa! — e senz'altro volta le spalle.

— Che cos'ha da ridere?... Ride di me quella faccia rasa da sagrestano?

Ma poi, del portiere si dimentica subito.

— Partita! È partita! È a Borgoprimo da otto [194] giorni!... Ecco spiegato perchè non l'ho più vista, perchè il Faraggiola e l'Estensi non si muovono dal Club! Ecco spiegato tutto!... Cioè no; non è spiegato niente... nientissimo! Come mai quei due Kakatoa indivisibili non hanno spiccato essi pure il volo per Borgoprimo?

... La Fáni, a Borgoprimo, nell'alto Varesotto, quasi in montagna, con questo freddo e con Gajarre alla Scala? E don Giulio, il nuovo Belloveso, abbandona Milano che ha da rifare e parte per... non si sa dove?

Altrettanto il Roero è andato in fretta e giulivo verso casa Arcolei, altrettanto se ne ritorna passo passo, a capo chino, meditabondo.

— È successo qualche cosa!... Certo, qui c'è sotto qualche cosa!...

La Fáni è partita! Questo è l'importante ed è questo il pensiero che lo addolora, che lo inquieta, che lo inasprisce.

— Civetta!... Una gran civetta e nient'altro!... Ha proprio ragione l'Olivieri!... Partita, senza farsi più viva! Civetta e orgogliosa! Forse lo ha fatto apposta!... È sicuro, è sicurissimo anzi, lo ha fatto apposta; è partita per vendicarsi! Io non [195] mi faccio più vedere e lei mi pianta. Civetta! superba e, come tutte le bigotte, anche vendicativa! E io, adesso, che cosa fò?... Andare per otto giorni all'Excelsior, a Varese?... Da Varese a Borgoprimo, un'oretta di strada... E don Giulio?... Lui non è certo partito per il dispetto di non vedermi più!... Ma che cos'ha la gente da voltarsi, da guardarmi con tanta curiosità?...

Passando dal Cova, entra nella confetteria per far mandare a casa i soliti dolci a Lulù. È l'ora di moda, c'è folla e vi ferve una discussione animatissima... Appena entra lui, si fa silenzio: tutti lo salutano in un certo modo, come per fargli le condoglianze.

Il Roero, senza spiegarsi il perchè, si sente impacciato e se ne va subito, dimenticando i dolci e Lulù.

— Quante persone antipatiche ci sono a questo mondo! E come taglierei volontieri la faccia a qualcheduno!

Tanto per sfogarsi, entra nella Patriottica, che è lì accanto, e passa subito in sala di scherma.

— Un assalto per stendere i nervi!... Mi farà bene!... Oh Dio, anche Nicoletto Loreda!

E borbotta fra' denti: — Noioso seccatore!...

[196] Nicoletto Loreda, in tenuta di scherma, strepita come un ossesso, facendo crocchio col maestro e con due o tre dilettanti.

— Ma che nome! Ma che apparenze!... Prudenza!.. Paura bella e buona! Se fosse stato un uomo di fegato e se non avesse avuto di fronte un ufficiale, io credo che anche l'Arcolei sarebbe stato felicissimo di poter mettere le cose apposto a modo mio, così, — e Nicoletto Loreda fa fischiare il fioretto partendo dalla guardia con una spaccata terribile!

Francesco impallidisce, ma poi si rimette subito e si avvicina al gruppo, stringendo la mano al maestro, a Nicoletto Loreda e salutando gli altri che non conosce o conosce appena di vista, con un inchino profondo.

— Che cosa c'è? Chi vuoi ammazzare? — Domanda al bollente Achille, sorridendo.

Il Loreda frequenta pochissimo la società ed è fuori del giro di casa Arcolei; gli altri, un commerciante tedesco e due giovani studenti, non hanno mai sentito a parlare... di Francesco primo: gli rispondono però tutti insieme, contenti di entrare in discorso con uno scrittore di moda, e di offrirgli un soggetto per un dramma o per una commedia.

[197] — La moglie dell'assessore Arcolei... — Una bellissima signora!... — Una signora della prima aristocrazia di Milano!... — È fuggita con un tenente di artiglieria!... — No, con un capitano di cavalleria!... — Un principe romano! — No, napoletano!... — Torinese! Ve lo dico io, perchè lo so! L'ho conosciuto al bar!

— Sia chissisia, questo non importa, è indifferentissimo! — Strilla Nicoletto Loreda diventando più rosso d'un peperone. — È il marito che bisogna... fotografare! Il marito che approfitta dell'occasione per fare un viaggio in Egitto!

— Impossibile! — Prorompe il Roero furibondo. — Impossibile! Tutte falsità!

A quello scoppio improvviso di collera, il Loreda e gli altri ammutoliscono, guardandosi stupiti.

— Ma pure...

— Io l'ho saputo da un redattore della Difesa, la gazzetta ufficiale di casa Arcolei!

— Falsissimo, ripeto!

— È voce generale.

— Lo dicono tutti, che sono scappati, moglie e marito!

Il Roero, dopo il primo impeto, riesce quasi subito a reprimersi, a dominarsi.

[198] — Tutti, — risponde con un breve sorriso e assumendo a sua volta il sussiego amabilmente benigno del Faraggiola e dell'Estensi verso la gente spicciola. — Tutti, vuol dire nessuno; precisamente! Io ho l'onore di conoscere quella signora da molto tempo; sono amico dell'Arcolei e posso assicurare che il racconto di questa doppia fuga può essere grottesco..... o spiritoso, secondo i gusti, ma niente affatto verosimile!

Nicoletto Loreda si risente e vorrebbe rimbeccare, ma il Roero, scrollando leggermente il capo, soggiunge appena qualche parola qualche motetto piacevole, poi si rivolge al maestro e mostrando d'esser venuto lì soltanto per questo, fissa un'ora per un assalto alla sciabola.

— Ho bisogno di affaticarmi, di stendere i nervi.

Il maestro s'inchina a mezza guardia:

— Il signor cavaliere sta troppo a tavolino!

Il Roero saluta tutti, assai cortesemente, da perfetto diplomatico, e se ne va, dopo aver accesa la sigaretta.

— Tutte falsità! — Borbotta fra sè. — Tutte grottesche, stupide, volgari falsità! Eppure... tutto falso, no! Con niente non si inventa niente! Qualche [199] cosa di vero ci dev'essere, c'è! Intanto... la Fáni è partita! Don Giulio è partito!... E il riso, il sogghigno petulante di quel vecchio custode di refettorio? Vivaddio qualche cosa c'è, c'è, c'è! Ah, infame! Maledetta!

E quel che c'è, se c'è un amante, bisogna saperlo! Subito!

— Un amante?... Può darsi. Ma compromettersi? Far pazzie? Perdere la testa? Lei? Donna Stefania? Così astuta, così abile, così ipocrita, così calcolatrice? Impossibile! È impossibile.

Bisogna saper tutto, subito. Non ci sono più esitazioni, riguardi! Al diavolo l'amor proprio, la diplomazia, la gelosia. I due che possono sapere, che sanno qualche cosa, sono il Faraggiola e l'Estensi.

L'Estensi è il più vicino. Sta in via Bigli.

Il Roero salta in carrozza, e si fa condurre dall'Estensi a gran carriera.

Ma il servitore che apre al Roero non lo conosce, non l'ha mai visto, e sembra esitare, incerto. Non sa rispondere se il suo padrone c'è o non c'è, se riceve sì o no. Il Roero insiste e l'altro, finalmente, si spiega.

[200] — Il signor marchese è ancora a pranzo.

— A pranzo?... Così presto?

— Perchè deve partire, fra un paio d'ore.

— Parte? — Il Roero è fuori di sè. — Parte?... Anche lui, per l'Egitto?

— Nossignore; per Montecarlo, — risponde tranquillamente il servitore.

— Vi prego; consegnategli subito questo biglietto. — E il Roero gli dà un biglietto di visita, sul quale ha scritto col lapis: Una sola parola, in fretta!

Il servitore lo fa entrare in un salottino, si allontana un momento e ritorna subito, seguito dal marchese in persona.

— Voi, carissimo Roero?.... Avanti! Avanti!.... Trovate qui anche l'amico Faraggiola. Ha pranzato con me, perchè stasera partiamo insieme per Montecarlo!

— Non vorrei disturbarvi....

— Ma no; ve lo assicuro! Noi che abbiamo appena finito di pranzare prenderemo il caffè e voi invece berrete il vermouth!

Quando il Roero entra nel gabinetto, vicino alla sala da pranzo, dove appunto c'è il servizio del [201] caffè e dei liquori, gli viene incontro anche il Faraggiola che sembra più alto e più biondo nell'abito chiaro da viaggio. Carletto non profferisce parola, ma le sue labbra si schiudono rotonde segnando appena un — oh! — di maraviglia e di piacere, mentre prendendo fra le sue la mano del Roero, la stringe con due forti scosse, in due tempi.

— Volete parlarmi?... Venite nel mio studio o verso prima il vermouth? — Gli domanda l'Estensi che, vestito di chiaro come il Faraggiola, sembra invece più bruno e più mingherlino.

— No! No! Posso parlare con tutti e due! Anzi, sono felicissimo di avervi trovati qui, tutti e due. Che cosa c'è di nuovo, di vero nelle chiacchiere messe in giro?

I due amici guardano il Roero, si guardano l'un l'altro, tornano a fissare il Roero... Adesso è la bocca di tutti e due che si apre rotonda, con un muto — oh! — di maraviglia.

— Si racconta, si grida dappertutto che donna Stefania è fuggita con un amante! Che don Giulio, pel dispiacere, è fuggito anche lui in Egitto! Ma tutto ciò è inverosimile! È grottesco!

[202] — Naturalmente.

— Ma pure in fondo, un principio di verità ci dev'essere! Che cosa è successo?

— Ma...

— Ciò che voi avevate preveduto.

— Precisamente.

— Ma io non ho preveduto niente! Io vi ripeto, vi giuro, vivaddio, che non so niente, nientissimo.

— Scusate: non vi siete allontanato da casa Arcolei per... — l'Estensi si ferma.

— Per Cencino Parodi? — Continua il Faraggiola.

— Cencino Parodi? — Ripete il Roero che ancora non capisce, anzi, che capisce ancor meno di prima. — Cencino Parodi? Quel ragazzo, quel piccolo biondetto che fu raccomandato a donna Stefania, mi pare, da una zia di Genova?

— Ecco l'uomo.

Ecce homo!

— Quel tenentino di cavalleria? Io non l'ho quasi mai visto e non ci ho mai badato!... Lo chiamavano il puppattolo, il giuocattolo, il...

El bélee...

El bel bélee!

[203] — Appunto, mio caro!

— Il bel bélee è arrivato primo!

Il Roero attonito, stupefatto, sgrana tanto d'occhi:

— Impossibile!... Quasi suo figlio!... Potrebbe essere quasi suo figlio!... E poi uno stupido chiacchierino, cretino, petulantino!...

— Per questo, precisamente, perchè la cosa non era seria, perchè si prestava al ridicolo, don Giulio ha voluto intervenire, intempestivamente...

— Al solito, senza alcun tatto...

— E non ha fatto altro che attizzare il fuoco, invece di spegnerlo! Vero imbecille!

Un imbécile!

E i piedi lunghi e stretti, colle ghette bianche di Manòlo e di Carletto, mossi, agitati nervosamente, sembravano quattro piccioni che si rimbecchino imbizziti.

Il Roero rimane immobile, la faccia stralunata.

— Don Giulio ha voluto gridare...

— Ha voluto imporsi.... — continuano gli altri due, sempre un po' per uno. — Ha voluto proibire le cavalcate, le trottate, e quando finalmente anche voi siete scomparso...

— Ma io...

[204] — È montato in furia, esagerando come fanno tutti i timidi, tutti i pusillanimi, che si battono i fianchi per darsi coraggio.

— Ma io...

— Ha imposto alla moglie di mettere alla porta Cencino Parodi...

— Ha scritto, ha fatto scrivere al Ministero per fargli cambiar di reggimento...

— E allora donna Stefania, sapete com'è, per puntiglio più che per amore, ha perduto la testa e ha finito per esagerare moltissimo anche lei! Tutta colpa di don Giulio. Che imbecille!

Un imbécile!

— Allora, dunque, è proprio vero? — Balbetta il povero Francesco, rimasto senza fiato.

— È proprio... scappata?

— Scappata, no. Ha dichiarato a suo marito che lei era nata per comandare e non per ubbidire, che ormai era stucca e ristucca di passar tutta la vita a non far altro che consiglieri comunali, per sostener lui e la sua Giunta, che quando lui voleva alzar la voce era troppo buffo, le diventava antipatico, e che lei, insomma, voleva divertirsi, voleva dividersi; ed è partita per la sua villa, la villa Eichelbourg, a Borgoprimo!

[205] — E lui, Cencino Parodi, ha chiesto l'aspettativa ed è andato a Varese.

— La Fáni? Proprio la Fáni? Donna Stefania? — Mormora il Roero. — Lei così prudente, così piena di cautele, di riguardi, di rispetti umani, che ci teneva tanto al nome, alla influenza, alla sua piccola corte?... E per chi poi? Per che cosa?

— Per il frutto proibito!

— Ma... in così poco tempo? Così in fretta?

— Voi siete stato tutta una settimana senza farvi vedere, ciò ha messo in sospetto il marito, il quale mancando in questo caso dei consigli di sua moglie, non ha fatto altro che commettere un monte di spropositi.

— Se voi, caro Roero, foste rimasto tranquillo al vostro posto, forse forse...

— Ma io...

Manòlo e Carletto scrollando la testa vogliono interromperlo.

— Ma io... — ribatte l'altro più forte, — io non ho messo più piede in casa Arcolei perchè... perchè mi son sentito offeso! Non vi ricordate come sono stato accolto, anzi come mi avete ricevuto quella sera, dopo il duello del povero Savoldi?

[206] Carletto e Manòlo stendono la mano quasi in atto di scusarsi, e il Roero, ancora colla faccia stravolta, la stringe a tutti e due.

— Don Giulio è proprio andato al Cairo?

— Ma no!

— Doveva andare a Salsomaggiore fra un paio di mesi...

— Gli abbiamo consigliato di anticipare.

— In questo frattempo il mondo comincerà a dimenticare, donna Stefania a ragionare, e Cencino Parodi a stancarsi... di Varese. Allora, vedremo. Per il momento siamo costretti a scappare anche noi! Continue domande, indiscrezioni, commenti, spiritosaggini...

— Ma fra un paio di mesi, chi ci pensa più? Donna Stefania non vorrà passare tutta la sua vita a Borgoprimo!

— E don Giulio?... Senza sua moglie sarebbe un uomo finito!

— Gran donna, del resto!

— Simpaticissima!

— Una vera donna, con tutte le qualità e con tutti i difetti della donna!

— Anche in questa circostanza ha mostrato coraggio, e in certo modo, anche carattere.

[207] — E poi... gran bella donna!

— Straordinaria!

Sospirarono tutti e tre, anche il Roero.

— Eppure, — mormora il Faraggiola sottovoce, con grande convinzione, — io sarei pronto a scommettere... — E si ferma.

Il Roero lo fissa attentamente: l'Estensi approva col capo.

— Un riscaldamento subitaneo, — continua il Faraggiola, — nient'altro!

— Un colpo di testa!

— Di testa, soltanto.

— Passeggiate romantiche; la luna tremula, il paesaggio...

— Discussioni artistiche e letterarie...

— Ma poi, ripeto, son pronto a scommettere: anche Cencino Parodi... sul più bello... alto là!

Retournons sur nos pas!

Tutti sorridono a questo punto: ognuno dei tre innamorati rammenta il proprio caso particolare, quando Stefania è stata lì lì, e poi è tornata indietro. Ognuno prova un senso di sollievo, di conforto e spera; Anche il tenentino... lì lì, ma poi... alt!

[208] — Volete, caro Francesco? — L'Estensi gli offre il cognac. — Verso anche a voi un bicchierino?

— Mezzo soltanto, grazie.

L'antipatia, la diffidenza reciproca, il sussiego svaniscono naturalmente. Quando il Roero fa salire in carrozza Carletto e Manòlo, diretti alla stazione, tutti e tre si danno del tu.

Il Roero, che non vuol arrabbiarsi, ride nervosamente.

— Ah! Ah! Poveri diavoli! Costretti a scappare col cuore ferito e la paura del ridicolo! Io invece... l'ho piantata io, per il primo! Ha ragione l'Olivieri.

Dopo tanti giorni che tratta l'avvocato freddamente, che cerca di scansarlo, sente un improvviso bisogno di rivederlo subito, di stringergli la mano.

— Bravo Olivieri! Un vero amico!

Sa che l'avvocato pranza al caffè Martini, e va difilato a cercarlo.

— Pranzeremo insieme, e rideremo. Gli racconterò tutto. Anche la fuga di Emanuele secondo e di Carlo terzo!

Al Martini l'avvocato non c'è. Non è a Milano; è andato a Roma per una causa.

[209] Il Roero non si arrabbia, perchè assolutamente non vuol arrabbiarsi. Ride e scherza colla padrona del caffè, involandole un mazzolino di mughetti ch'era sul banco fra una scatola di mostarda e il piatto del formaggio. Tracanna d'un sorso un doppio bitter con doppio cognac per mettersi appetito, poi va un momento al Cova per vedere chi c'è.

Il gran salone è affollato. Scorge un tavolino d'amici, ci va, e sempre parlando forte, sghignazzando per mostrarsi allegrissimo, siede ed ordina il pranzo.

— Ostriche, prima di tutto! Due dozzine! Ho un appetito fenomenale!

Non vuol più pranzare a casa. È molto più divertente pranzare al caffè, cogli amici che si possono cambiare tutti i giorni. È di buonissimo umore, sta benone, ma fuori di casa. L'idea di trovarsi solo nel suo quartiere, in camera sua, gli fa quasi spavento! È allegrissimo, ma per stare allegro ha bisogno di luce, di gran luce, di tutto quel mare di luce. Ha bisogno di trovarsi lì, sempre lì, in mezzo al moto, al frastuono, alla gente.

[210] Dopo ingoiate le ostriche, ordina i piatti più straordinari, li assaggia appena, trova la cucina pessima, strapazza il cameriere, il direttore, e continua a bere. Dopo il Capri colle ostriche, una bottiglia di Gattinara.

— Ma come mai, — continua intanto a pensare, — fra tanta gente, non salta fuori il nome di donna Stefania e del suo bel belée? Mi credono addolorato, in lutto? Ma se invece sono felicissimo! Sono pieno di riconoscenza per il Parodi! Lo abbraccierei anch'io... quel bel belée!

Il Roero avrebbe abbracciato il Parodi, l'Estensi, il Faraggiola, tutti quanti! Uno solo avrebbe invece voluto strozzare: il marito; don Giulio.

— Che bestia! non è permesso di essere così bestia!

I commensali non hanno mai visto il Roero di un'allegria così rumorosa. Si mettono in sospetto, si guardano l'un l'altro ammiccandosi, e prudentemente nessuno parla del grande scandalo del giorno.

— Beviamo, una bottiglia di Champagne? — propone il Roero alla fine del pranzo.

— Volentieri, se offri! Faremo un brindisi all'Arianna!

[211] — Abbasso l'Arianna e tutte le donne dell'arte moderna! Sono più stupide e più oche di una tedesca gonfiata di caffè e latte! Ah! Ah! Il romanzo! Il teatro naturalista! È la vetrina di un figurinaio!... Il verismo? Il documento? Ma se la verità vera, di ogni giorno, è tutto ciò che vi ha di più innaturale, di più illogico, di più inverosimile, di più fantastico, di più maraviglioso! I mariti, per esempio! Chi mai da Aristofane a Shakespeare, a Molière, dal Boccaccio all'Ariosto, a Cervantes ha mai saputo creare nell'arte uno di questi nostri mariti vivi, in carne ed ossa, così epicamente grotteschi e così buffonescamente tragici?

Fedora, la fioraia, una russa di Porta Ticinese, si avvicina al tavolino. Il Roero di solito molto serio e riguardoso, prorompe questa volta in grandi esclamazioni ammirative, stringendola con un braccio per la vita, regalando fiori a tutti gli amici, fissando a mezza voce un appuntamento. Quando Fedora se ne va, nel salutarla, le mette in mano un biglietto da cento lire.

— Siccome ho fatto l'esperienza che tutte le donne sono eguali in faccia alla morale e al sentimento, così, per me, io prendo sempre quelle [212] colle quali si fa più presto! Dite la verità: mi avete mai veduto ad assediar fortezze décolletées difese colla polvere di cipria? Signore... mai! Perchè viaggiare in diligenza quando si può andare a vapore? Il paesaggio è il medesimo!

E continua a insistere, sperando che qualcuno lo interrompa, almeno con un'esclamazione, con un colpetto di tosse ironica... Invece, niente. Tutti bevono lo Champagne, rosicchiano dolciumi, ridono e approvano.

Il Roero non può più resistere; quel silenzio è troppo eloquente, offende troppo il suo amor proprio. Allora, per costringerli a parlare, dopo aver rotto un bicchiere a calice, battendolo con forza sul tavolino, si fa coraggio ed entra lui stesso nell'argomento.

— E i nostri buoni amici? Il Faraggiola e l'Estensi?... Partiti per Montecarlo!... Sicuro; li ho imbarcati io stesso, prima di pranzo...

Silenzio. Il discorso non attacca e il Roero non può spingersi più in là...

Ha bisogno di muoversi, di respirare. Al Cova si soffoca; passa un momento alla Scala. Subito, appena entrato nella barcaccia, si mette a parlar [213] forte, a far chiasso... lo fischiano; egli risponde con ingiurie e se ne va brontolando e bestemmiando.

— Voglio andare al Dal Verme, al circo Guillaume. Almeno là si vedono le bestie vere!

Ma anche al Dal Verme, per poco, non attacca lite con un clown, per certi suoi scherzi fatti alla donna tigrata.

Ha sempre sete, e ha sempre bisogno di sfogarsi con qualcuno. Al Club, continua a bere cognac, giuoca, vince, vuol contradire a ogni cosa, cerca d'attaccar lite, ma non gli riesce.

Nessuno rimbecca, gli danno tutti ragione e lo guardano in un certo modo...

— Che musi stupidi! Hanno quasi l'aria di compassionarmi!

Ride ancora più forte, torna a fischiettare la Carmen, a decantare la bellezza di Fedora e tutte le sue perfezioni anche morali.

— È una buonissima ragazza, sincerissima in tutto, dal colore dei capelli... all'orario. Perchè anche Fedora ha un orario; tutte le donne hanno un orario...

Verso le quattro del mattino, solo solo, a piedi, [214] perchè non trova più un brum, si avvia verso casa. È stanco, spossato. Ha il paltò aperto, tratto tratto si leva anche il cappello, non sente il freddo acuto, frizzante. A poco a poco cessa anche l'orgasmo, il ronzìo delle orecchie, il turbinio confuso della testa e comincia a rientrare in sè con un senso di sgomento.

— Che cosa ho fatto? Che cosa ho detto?... Che cosa avrò mai detto?

Pensa, ripensa, si sforza, ma non può, non si ricorda più niente!

— Che cosa ho detto? Ma che cosa ho detto?

Ha paura di aver commesso qualche indelicatezza, ha paura che gli sia sfuggito un qualche nome.

— Mi sentivo male, volevo stordirmi, ho bevuto... Tutto quel chiasso... Ho parlato, ho parlato... Ma che cosa ho detto?..... Se ho pronunciato il suo nome, se mi son fatto capire, sono un vigliacco!

Ad un tratto, appena da via Principe Umberto gli si affaccia via Principe Amedeo, si arresta sorpreso:

— Che cosa c'è?

In quel buio di tutta la casa, di tutte le case, si vede una delle sue finestre illuminata dietro le persiane chiuse.

[215] — Che cosa c'è?

Inquieto affretta il passo, apre il portone, attraversa l'atrio, fa i pochi gradini d'un salto, e spalanca l'uscio del suo quartierino:

— Che cosa c'è... Chi è?

Subito non capisce, non ricorda, non vede bene chi gli viene incontro nel salotto...

— Sono io, signor Francesco.

È la signora Eugenia, fresca e rosea, in tutto punto nell'abito nero.

— La piccina, dopo la passeggiata, è stata poco bene e mi sono un po' spaventata. Le ho messo il termometro, aveva già la febbre altissima: voleva lei; chiamava il suo papà: «No, più dopodomani! Subito, il mio papà!» Ma presto s'è calmata; è venuto il dottore, ha preso il chinino. Adesso sta meglio, la febbre sembra scomparsa, dorme da due ore; è un angelo, povera Lulù!

— E lei?...

— Non mi sono fidata della Luisa; è troppo giovine; sono rimasta qui.

— Sarà..... sarà adesso molto stanca, povera signora?

— Oh no!..... Per una notte sola? — La signora [216] Eugenia sorride, ma i suoi occhi hanno una leggera nube di mestizia. — Il dottore mi ha promesso di venir prestissimo; aspetto il dottore, e dopo la visita, se non c'è niente di nuovo, torno a casa. Lei, invece, non faccia complimenti. Vada subito a dormire. Io mi siedo lì, tranquillamente, a leggere. — E indica una poltrona, presso un tavolino, sul quale, accanto alla lucerna, c'è un libro ancora aperto.

Il Roero bisbiglia qualche parola, butta via il cappello, e senza levarsi il paltò si lascia cadere sul canapè.

Lulù, la signora Eugenia e tutto il resto, aveva tutto dimenticato.

— Vada a dormire, vada subito a letto! — Ripete la signora Eugenia. — Non c'è da inquietarsi, glielo assicuro. Dev'essere stata, come ha detto anche il dottore, una febbre effimera. Sono così frequenti nei bambini!... Sono stata un po' inquieta anche per colpa sua, non vedendola comparire, ma Giovanni m'ha subito tranquillata. M'ha detto che lo fa tante volte, di ordinare il pranzo, e poi di non tornare a casa!... Adesso, da bravo, vada a letto subito subito! Ha la cera così stanca!...

[217] La signora Eugenia si avvicina di più, lo fissa attentamente, gli tocca i polsi, la fronte...

— Vada a letto, subito, subito!

La voce della signora Eugenia è carezzevole, penetrante; è una mamma col suo figliuolo.

— Già sicuro... — balbetta l'altro pallido, sfatto, i capelli ritti, guardandosi attorno trasognato. — Già, sicuro... Sono stato a cercare l'Olivieri... Non l'ho trovato... son rimasto fuori... ho pranzato al Cova.

— Il signor avvocato è andato a Roma e resterà a Roma per un paio di settimane.

— Ah!... Un paio di settimane?... A Roma?

— Ha una causa importantissima. Così mi ha detto ieri sera, quando è stato a salutarmi.

— A salutarla? C'è stato!... Poteva ben venire a salutare anche me!

— Sì... voleva farlo; ma poi non ha osato.

— Non ha osato? Come non ha osato?

— «Francesco,» il signor avvocato ha detto proprio così, «non è più lo stesso con me! Adesso non ha più nessuna confidenza; mi sono accorto che cerca anche di schivarmi.» Gli occhi della signora Eugenia continuano a sorridere, ma argutamente, con un po' di malizia.

[218] In quegli occhi, in quello sguardo sembra al Roero di leggere un nome, il nome di Stefania; si alza torvo, minaccioso:

— Ma lei..... anche lei, che cosa crede?..... Vivaddio, che cosa crede?

E tutta la rabbia, la gelosia, le angosce che lo soffocano, che gli strozzano la gola, prorompono finalmente in uno sfogo di collera e di dolore.

— Perchè ride?... Sì, ride, ride, ha riso!... Ride di me come l'Olivieri, come tutto il mondo, perchè anche lei mi crede uno stupido, un vigliacco!

— Signor Francesco! Per amor di Dio! Non gridi così forte!... Lulù... di là... dorme! — La signora Eugenia fa presto a chiudere gli usci e a calare le portiere, perchè la bimba non abbia a svegliarsi, e perchè la Luisa non possa udire e ascoltare.

Ma l'altro è ormai fuori di sè, cammina su e giù, dà calci alle sedie, a tutto ciò che gli capita tra piedi.

— Voglio gridare! Sono padrone di gridare! Sono in casa mia! Sono padrone io! E voglio sapere da lei, signora, subito, voglio sapere perchè ride, voglio sapere che cosa crede e che cosa le ha raccontato l'Olivieri. È stato sincero, almeno? [219] È stato proprio sincero? Le ha raccontato che anche lui è stato innamorato pazzo di quella donna?... Sì, sì! Pazzo, pazzo! Anche lui, pazzo come me, innamorato come me, perchè non sono io solo il ridicolo, lo stupido, e il vile... — Uno scoppio di lacrime gli rompe la voce e la parola e si butta disteso, bocconi sul canapè, continuando a piangere dirottamente.

— Mio Dio! Mio Dio! Povero signor Francesco! Signor Francesco! — Esclama la signora Eugenia, pallida a sua volta, tutta tremante, correndogli vicino per calmarlo, per reggergli la testa, per levarlo su diritto sul canapè.

— No, no, signor Francesco... Signor Francesco! Mi ascolti, la prego, la scongiuro, non faccia così, non si disperi così!

Il Roero continua ancora un pezzo a piangere, a singhiozzare, poi la signora Eugenia, a poco a poco, riesce a sollevarlo, a farlo sedere sul canapè. Allora egli la guarda cogli occhi ancor pieni di lacrime nel viso molle, ammaccato. Non può parlare: le prende e le stringe una mano come per domandarle perdono.

— Pianga pure, signor Francesco. Pianga, finchè [220] si sente di piangere. Si sfoghi con me, liberamente. Può essere sicuro del mio cuore, della mia amicizia e della mia segretezza. Faccia con me come con una sorella... con una mamma. Vede? — E passa la piccola mano sui capelli, — potrei proprio essere la sua mamma!

Il giovine le stringe ancora l'altra mano che teneva sempre fra le sue, poi si china e gliela bacia.

— Grazie, signora Eugenia. Adesso... passerà. Creda pure, passerà. Soltanto mi dica, la prego, che cosa le ha detto l'Olivieri? Mi dica tutto.

— Mi ha detto soltanto del dispiacere per la sua freddezza, per il suo mutamento. Il resto... io lo sapevo già dagli altri.

— E... gli altri che cosa le hanno raccontato?

— Niente che le faccia torto. Se lei ha amato, se ama fortemente, con tutta la sua passione, ciò non fa torto a lei; farà torto invece... a quella persona che non ha saputo comprenderla e apprezzarla.

E la signora Eugenia, così severa e scrupolosa con sè stessa, si lascia trasportare e dimentica il povero don Giulio e la morale, per condannare [221] in cuor suo la baronessa Stefania che non ha saputo apprezzare ed amare quel bel giovine così innamorato che si dispera per lei.

Il Roero per il bisogno di giustificarsi o di sfogarsi comincia a parlare, a raccontare, ma soltanto di sè, del suo accecamento, delle sue follie, delle sue speranze, dei suoi disinganni, accennando appena a «quella persona» con molto riserbo e con molta delicatezza, riuscendo così ad interessare e a commuovere più vivamente la signora Eugenia che attenta, ansiosa, più che ascoltare, assiste, per la prima volta in sua vita, allo svolgersi di una scena d'amore vera, viva, palpitante.

Eppure... Eppure com'è bello l'amore anche visto fra le lacrime!

La signora Eugenia ascolta, ascolta, e sospira a sua volta e anche le sue pupille luccicano tremolanti... forse non solo di pietà verso il giovine infelice; forse anche per un intimo, inconsapevole rimpianto...

Albeggia... Il Roero continua a parlare, a parlare, a raccontare, a ripetersi, ma sempre ascoltato intensamente, ansiosamente.

— Si faccia coraggio, si consoli, — gli dice la [222] signora Eugenia. — Il dolore ha pure la sua bellezza; ha in sè un gran fascino. Ritempra, fa del bene. Una vita trascorsa senza soffrire, come lei soffre in questo momento, è una vita inutile e vuota. E nel dolore che vibrano più forti tutte le nostre fibre. Oh, benedette le lacrime, benedette queste sue lacrime!... Sono come la pioggia che rende il sole benefico e più sfolgorante. Coraggio, coraggio e vedrà! Ritornerà presto a lavorare, a scrivere e con che lena, con che ardore!... Quante nuove forze troverà in sè! Quanta nuova e dolce poesia!... Quanta indulgenza per gli altri; quanta bontà! Vedrà, dopo aver sofferto, come la sua intelligenza si farà più pura e più sensibile, come il suo occhio penetrerà più acuto nell'anima e nella vita. L'ingegno si nutrisce di dolore; i felici non hanno mai fatto niente di grande!

La signora Eugenia si sente vincere, quasi soffocare, da un orgasmo, da una commozione nuova, strana. Esita un istante, ha un tremito, una piccola scossa nervosa, poi ripiglia con impeto:

— Perchè no?... Ormai, alla mia età, posso dir tutto; posso confessarmi anch'io... Ebbene, sa? Questo suo dolore, invece di rattristarmi, di [223] sbigottirmi, suscita in me l'amarezza, il rimpianto di non aver anch'io sofferto... così; di aver trascorsa tutta la mia esistenza, di esser diventata vecchia da vera stupida, senza... senza aver amato.

E al chiarore della lucerna, che ormai illanguidisce confondendosi con quello del giorno, il Roero vede il bel volto arrossire, farsi di fuoco, fin sulla fronte limpida, senza una ruga, fino alla radice dei bei capelli bianchi.

[225]

PARTE TERZA

IL SECONDO IMPERO

[227]

I.
La festa di Lulù.

È il 29 di aprile, è il compleanno di Lulù: la signora Eugenia entra in camera della piccina prestissimo, non sono ancora le sette e mezzo, e la sveglia spalancando la finestra:

— Auguri e auguri alla signorina Elena Maria!

Lulù rimane un attimo trasognata; poi, vista la signora Eugenia, dà un salto sul letto, col visetto ridente, allungando le braccine.

La signora Eugenia corre a prenderla, la solleva, se la stringe al petto e baciandola, accarezzandola colla guancia, sembra aspirare la fragranza di quel bel fiore così fresco e roseo, ancora stillante di tepida rugiada.

[228] — Cara!...

— Che cosa mi ha portato?...

— Prima si fa il segno della croce, così!; adesso l'Avemaria: Ave, Maria, gratia plena, Dominus teco...

Tecum!...

— Brava! — E quando Lulù ha finito di recitare l'orazione, la signora Eugenia la riadagia nel letto, continuando ad accarezzarla.

— Che cos'è che desideri? Sentiamo. Che cosa ti si deve augurare per la tua festa?

— Un bell'ombrellino grande e il ventaglio colla capretta bianca.

— Invece, io voglio augurarti molto di più! Auguro alla signorina Elena Maria di essere sempre così bella e sempre così buona!... Avrei dovuto dire, buona prima, e dopo bella, ma siccome la bellezza non è altro che l'espressione e il premio della bontà, così, non è vero?... Fa lo stesso!

— Fa lo stesso.

— ... Sempre così bella e sempre così buona...

— Ma voglio anche l'ombrellino e il ventaglio colla capretta! Anche l'ombrellino e la capretta! — Lulù, già colla smania in corpo di far del chiasso, [229] salta di nuovo sul letto battendo le manine e continuando a strillare: — L'ombrellino e la capretta!

— Sotto, sotto! Che pigli freddo!

— No! No! No! Prima vedere!

— Che cosa vuoi vedere?

— Il regalo!

Lulù diventa seria. Coi regali non si scherza e i suoi regali, per quel giorno, ella li ha già ben fissi in mente.

— Che regalo mi ha portato?

— Prima di tutto mi sono alzata apposta alle sei, per essere la prima a darti un bacio. Poi ti ho portato... la Storia di Roma!

— Quella grande, con le figure colorate?

— Appunto! — La signora Eugenia, che aveva messo il libro sopra una seggiola, va a prenderlo e lo porta alla bimba.

— C'è la lupa coi bambini?... Dov'è la lupa coi bambini?

— Eccola qui, guarda; la lupa che allatta Romolo e Remo, i due fondatori di Roma. Ma adesso sotto, sotto, da brava, così. Non voglio più che pigli freddo!

[230] — Luisa! Luisa!... Vieni a vedere la lupa coi bambini!

— La Luisa non c'è; è andata a messa, perchè oggi è domenica.

— È domenica? — Nuovo strillo di gioia. — Allora andremo a prendere il biscotto colla granita.

— Cioè, prima andremo a messa, poi, dopo, ti condurrò a prendere il biscotto colla granita.

Adesso il biscotto colla granita tiene il posto del gelato rosso da molto tempo dimenticato... e a poco a poco, naturalmente, col gelato rosso, anche «il suo papà» è quasi sparito dalla memoria e dal cuore di Lulù. Il povero Nespola è in paradiso fra gli angeli, ed è ricordato soltanto, coll'aiuto della signora Eugenia, nelle orazioni della sera e della messa.

Lulù, che intanto continua a divertirsi ammirando e commentando i re di Roma e la madre dei Gracchi, si ferma ad un tratto alzando il visino verso l'uscio... Sente avvicinarsi un passo che ha già fatto arrossire fugacemente la signora Eugenia, e dà in un altro grido di gioia:

Cochi!

Francesco, ancora in giacca da camera, caccia [231] la testa dentro l'uscio e Lulù di nuovo salta fuori dalla coperta e corre in ginocchioni fino in fondo al letto:

Cochi! Cochi! Cochi!

— Lei?... Già qui, — esclama il Roero sorpreso e contento vedendo la signora Eugenia.

— Ed io credevo di essere il primo a far gli auguri alla signorina! Invece lei è già qui: abito nero, collettino bianco, in tutto punto e tutti i giorni più bella!

Ma Lulù, ch'è scivolata dal letto, lo interrompe saltandogli al collo, baciandolo, stringendolo, soffocandolo.

— Che cosa mi hai portato?

Lulù, presa in collo dal Roero con un solo braccio, si volta, si rivolta, per poter vedere l'altra mano ch'egli tien sempre dietro, nascosta.

— Che cosa mi hai portato?

— Oggi hai compiuti i sette anni! Sei ormai una signorina! Vergognati! Non sta bene correre intorno in camicia, per la camera!

Mentre fa la predica, la signora Eugenia prende Lulù, la riporta a sedere sul letto, l'avvolge fino al collo in uno scialle di seta che le annoda dietro [232] la vita, gonfiando bene il fiocco e lasciandole libere e scoperte soltanto le braccine.

— Così, almeno, non piglierai freddo!

— Che cosa mi hai portato? — Ripete Lulù, che sa sempre vincere, con un tono flebile di preghiera. — Fammi vedere!

Il Roero si avvicina, e lentamente pone sul letto un lungo involto.

— L'ombrellino grande! — Esclama subito Lulù.

— Guarda.

È proprio l'ombrellino! Un magnifico ombrellino! Lulù ha gli occhi scintillanti, batte le manine e domanda alla signora Eugenia:

— È mio, l'ombrellino?

— Sì: è tuo.

— E questo, non lo vuoi? — Il Roero scioglie un altro piccolo involto; è il ventaglio colla caprettina bianca.

La gioia diventa troppo grande; Lulù non può contenerla tutta, ha bisogno di espanderla, di dividerla con altri, e si mette a chiamare, a strillare:

— Luisa! Luisa! Giovanni! Venite a vedere! Ma venite a vedere! — E di nuovo domanda alla signora Eugenia ed al Roero: — Mio anche il ventaglio?

[233] — Sì, tuo anche il ventaglio. Tutto per la tua festa!

— Ecco la Luisa ed ecco Giovanni.

Lulù siede con sussiego sotto l'ombrellino aperto, facendosi vento; ma appena entrano i due, si ferma attonita, spalancando i grandi occhioni neri:

— Ancora?... Ancora?... Regalo?

Giovanni e la Luisa si avvicinano a' piedi del letto e le offrono una magnifica torta di cioccolatta con fiori e ghirigori di zucchero colorato, punteggiati di confettini d'argento.

— Che cos'è?

— Leggi.

Lulù si alza sulle ginocchia, e insieme alla signora Eugenia legge compitando:

«Evviva la signorina».

Francesco, allo spettacolo di tanta felicità, sorride di tenerezza e di compiacenza:

— Mi vuoi bene, Lulù?

La bimba salta in piedi sul letto, e scotendo la testina per liberarsi gli occhi dalle lunghe ciocche dei capelli, con le ditine grassocce gli alza i baffi delicatamente e lo bacia forte proprio lì, sulle labbra nude.

[234] — Tanto bene io... a Cochi!

Cochi è l'ostinazione di Lulù. Per quanto la signora Eugenia abbia predicato per farle dire Francesco, non c'è stato verso; sempre Cochi! Ella vuol provare anche adesso, e comincia in fatti colla severa ammonizione dei sette anni, ma resta subito interrotta da una grande scampanellata e dall'arrivo dell'avvocato Olivieri.

— Anche tu?... Così presto? — Esclama il Roero.

— Ho allungato fin qui il mio solito giretto mattutino, per portare i miei auguri alla signorina Elena Maria!

La signorina Elena Maria colla faccia seria e gli occhi ridenti, sempre seduta sul letto, e tenendo alto l'ombrellino aperto, si fa vento come una gran dama.

— Per bacco, quanti regali e che bei regali!... Te ne ho portato uno anch'io però piccolino, che adesso forse farà brutta figura.

— Un regalo?... Ancora?

Lulù non ride più; diventa seria. L'incognita di un nuovo regalo turba quasi la sua piccola mente. Che cosa sarà? Tutti quelli che aveva immaginato, desiderato, li ha già avuti. L'Olivieri [235] si accosta al letto e dopo averle dato un bacio, presenta a Lulù un astuccetto di velluto: lo apre: c'è un piccolo anello con due diamanti e una turchina.

Lulù lascia cadere l'ombrellino e il ventaglio, ma questa volta non dice una parola. Guarda il Roero, guarda la signora Eugenia e diventa rossa rossa... L'Olivieri le prende una mano:

— Lasciami vedere se ti va bene... — Le infila l'anellino nel ditino medio.

Lulù rimane immobile colla mano aperta, poi si volta di colpo stendendola verso la Luisa.

— Che bellezza! Un anello di brillanti! — La Luisa si mostra incantata. — Ma adesso, dal momento che il signor avvocato ti ha già dato l'anello, gli devi promettere che quando sarai grande lo sposerai!

— No, — risponde subito Lulù, aggrottando le ciglia. — Io non sposo lui... Io sposo Cochi!

Tutti si mettono a ridere e Francesco più di tutti:

— Oh povera la mia Lulù!

Sulle prime ride anche la signora Eugenia, ma poi osserva:

[236] — Quando Lulù sarà grande, da marito, il signor Francesco sarà ancora un giovinotto... quasi.

— Quasi, signora Eugenia! Quasi! Con vent'anni di differenza! Auguriamo qualche cosa di meglio alla povera Lulù per la sua festa!

Poi Francesco si volta verso l'Olivieri cambiando tono:

— Ho scritto una lettera che mi preme di leggerti. Voglio leggerla anche a lei, signora Eugenia. Venite nel mio studio, un momento. Intanto Lulù farà la sua toletta colla Luisa.

Lulù, ch'era di nuovo rotolata in mezzo a' suoi regali, alza il visino verso il Roero e ripete cantando:

— Io sposo Cochi!

— Brava, vedremo se sarai di parola! — Esclama il Roero, e prima di uscire le torna vicino per salutarla.

Lulù lo fissa, poi ridendo allegra, con un fremito di gioia, abbassa la testina, solleva i capelli e riceve il piccolo bacio sul collo.

[237]

II.
La vita nuova.

In due anni Francesco Roero ha cambiato abitudini e vita: ha cambiato quasi sè stesso. Rotto così brutalmente il fascino della Fáni e il giogo della baronessa Stefania, egli ha bisogno di nuovi affetti, di nuove commozioni ed anche di nuove distrazioni. Egli si attacca ancor più strettamente a Lulù e rende più viva, più intima l'amicizia e più frequenti i rapporti colla signora Eugenia. L'influenza su di lui perduta da Stefania è acquistata dall'Olivieri, al quale ha ormai interamente affidata anche la cura de' suoi beni.

In questo mutamento entra in gran parte il dispetto e il rimorso di aver sacrificato per tanto tempo le sue opinioni e i suoi gusti, nella politica [238] come nell'arte, al catechismo angusto e un po' settario di casa Arcolei. La passione, la servitù amorosa gli hanno fatto tollerare fino allora quella gente e quelle idee, ma finalmente... basta! Si sente libero e forte, torna a pensare e ad operare colla propria testa e col proprio cuore.

È pieno di idee e lavora. Lavora con un ardore, con una alacrità prodigiosa. Tutte le sue energie, i suoi entusiasmi, il suo sangue, sono per il lavoro. Stefania colla sua perfidia gli ha lasciato troppo disgusto e colla sua bellezza troppo desiderio di sè. Aborre ogni donna perchè Stefania è donna, ed ogni donna gli è indifferente perchè nessuna donna... è Stefania! E questa vita così austera, casta, raddoppia l'intensità creatrice del suo cervello, la sua attività, la sua resistenza. È al tavolino che egli si eccita e che si stanca, è al tavolino che i suoi nervi vibrano e spasimano e che si calmano insieme, che la sua giovinezza sana e vigorosa trova le ansie e le gioie, le voluttà e insieme tutto lo sfogo nel pensiero che spossa la mente, ma che produce e crea.

Subito distrugge l'Arianna; ma non volendo aver l'aria di una abdicazione artistica, nè in certo [239] modo, di rinnegare l'opera propria, serba il titolo e invece che ad una solita per quanto arguta anatomia dell'amore ispira la commedia al concetto della donna depressa ed oppressa dai pregiudizi sociali. Poi scrive — Vae Victis! — dramma di pensiero in cui svolge tra i primi in Italia la formula delle aspirazioni ancora latenti e incomposte delle masse.

Il successo di questi due lavori è incerto nel teatro dove la vecchia platea si sente perplessa e turbata dall'audacia della nuova arte; ma le discussioni accanite dei giornali e il pregio vero delle due opere danno ben altra importanza e ben altro valore al giovine commediografo del bel mondo che però, in breve, abbandona risolutamente il teatro, ormai troppo ristretto e troppo insidioso per la sua fantasia che bolle, che trabocca, e che ha bisogno di spazio e di libertà. Pensa un romanzo, ma finisce collo scrivere, più che un romanzo, un libro strano, originale, che risente de' suoi entusiasmi per Tolstoi e per gli umanitari del nuovo Cristianesimo. Gli scritti del giovine sociologo appaiono a intermittenze: sono frammenti, sono capitoli, primizie dell'opera concesse di tempo in [240] tempo a riviste, a giornali; e sono accolte, chieste, richieste, lette avidamente, discusse, portate alle stelle, combattute con accanimento, ma con rispetto.

E tutto ciò che il Roero medita e pensa egli lo confida all'Olivieri, tutto ciò che scrive, lo legge la sera, nel suo studio, all'Olivieri ed alla signora Eugenia, la quale viene sempre, all'ora del caffè, per «mettere a nanna» Lulù e per dare poi il pretesto di una passeggiata al letterato fattosi certosino, che dopo sonate le undici, presa una tazza di thè, l'accompagna a casa, sempre laggiù, a porta Venezia.

Sono intime, care serate che danno al Roero i vivi godimenti e le soddisfazioni del trionfo, e nelle quali si riscalda e ritrae nuovo fervore per cacciarsi, per tuffarsi tutto, ancor più dentro nel lavoro.

Ed anche per la signora Eugenia, come sono care quelle ore, come lusingano il suo amor proprio! Ci ripensa poi tutto il giorno; inquieta talvolta e agitata. Quelle letture suscitano in lei a primo tratto entusiasmo e ammirazione, ma poi... anche un senso quasi di sbigottimento.

L'antica maestrina ristretta alla vecchia morale ubbidiente e ossequente; la direttrice delle scuole [241] di San Celso, rigida osservante di tutti gli statuti governativi e municipali; l'ospite della domenica alle mense della ricca società milanese, quando sente affermare, di colpo, certe teorie che sconvolgono tutte le sue vecchie idee di doveri, di sommissione, di rassegnazione cristiana e politica, si turba, dà dei piccoli balzi sulla poltrona, guarda or l'uno or l'altro incerta, quasi spaventata... Ma vede l'Olivieri approvare lentamente col capo; scorge nel Roero tanta sincerità, tanta sicurezza!... E quella voce?.... Oh la voce del giovine lettore così calda, insinuante irresistibile! La signora Eugenia, a poco a poco, torna a calmarsi, a lasciarsi vincere e convincere e commossa, accesa in volto, le pupille sfavillanti, s'alza di colpo e corre dal Roero a stringergli la mano:

— Bravo!.... Bravo!.... Oh, come adesso mi fa capire che io non sono mai stata altro che una donnetta! Nient'altro che una piccola donnetta!... — E in questa spontanea, in quest'umile confessione della propria inferiorità, è tutta la devozione e anche tutta la viva e profonda tenerezza del suo cuore. Più tardi, quando ritorna a casa accompagnata [242] dal Roero, che rimane quasi sempre silenzioso perchè ripensa a ciò che ha letto ed alle discussioni coll'Olivieri, la signora Eugenia alza gli occhi, di tanto in tanto, a quel volto che il gran dolore della passione tradita ha fatto così serio e così grave. Lo guarda fisso traendo un sospiro dall'anima, timidamente, con rispetto quasi religioso, non osando dire una parola, temendo di rompere il filo dei pensieri alti, nobili e generosi.

— Buona notte!... A domani, presto! — Le dice il Roero.

— Buona notte, — risponde la signora Eugenia, e poi soggiunge mentre sulla porta si stringono la mano: — Le raccomando; non si stanchi troppo!


Francesco Roero, appena è entrato nello studio ed ha liberata da un mucchio di giornali la solita poltroncina, sulla quale va a sedersi la signora Eugenia, si rivolge all'Olivieri:

— Sai di che si tratta, non è vero? Quel poco che è comparso del mio romanzo ha dato, forse, qualche illusione sul mio io, a molta gente che [243] non mi conosce bene. Mi s'invita, — continua guardando anche la signora Eugenia — ad assumere tutti gli obblighi e i doveri di una grande organizzazione di classe che si va formando in Milano e ch'io sono certissimo, fra non molto, avrà soverchiato e spazzato via tutte le antiche società e confederazioni operaie, così come le ferrovie, «il bello e orribile mostro,» hanno mandato al diavolo berline e diligenze! Orbene, vi confesso, a tutta prima l'offerta mi ha sedotto: creare in piccolo, in Lombardia, ciò che... non saprei, Lassalle e Marx sono riusciti a fare in Germania, può dare un po' alla testa. E anche dopo aver meditato io non penso di tirarmi indietro, nè per poltronaggine, nè per paura. Niente affatto! Penso, invece, che bisogna prima metterci ben d'accordo con un patto di ferro fra me e coloro che dicono di aver fiducia in me. E il patto da parte mia è qui, in ciò che ho meditato in questi giorni e che ho scritto in questa lettera. Senti un po', ma rifletti bene; e ascolti anche lei, signora Eugenia. È il mio programma politico, perchè quello che mi si offre e mi si domanda è assai più grave di una candidatura... della deputazione! E tutto me stesso, è la [244] mia anima e la mia mente da consacrare ad una grande causa, non soltanto ad un piccolo partito.

— Sentiamo! Esclama vivamente l'Olivieri.

La signora Eugenia, gli occhi intenti sulla lettera, non fiata nemmeno.

Milano, 29 aprile 1883.

Amici carissimi;

Grazie d'aver pensato a me. Voi lavorate per ottenere quel benessere materiale cui avete diritto e nel quale potrete giungere al miglioramento morale di cui avete il dovere.

Su questa via io posso e voglio essere tutto con voi; lo sarei se un giorno aveste bisogno anche del mio braccio e del mio sangue. Ma intendiamoci chiaramente: io non credo che nella prosperità e neppure nella libertà si riassuma tutto il bene verso cui l'uomo procede.

Prosperità e libertà sono talvolta una parte di quel vero bene che si chiama giustizia, e talvolta sono i mezzi per raggiungerlo.

È soltanto a questo ideale di giustizia ch'io sento di poter interamente votarmi, perchè nella giustizia è l'essenza d'ogni sociale equilibrio, perchè un giorno solo d'ingiustizia ci risospinge di secoli verso l'errore, la violenza e la barbarie.

Ora le organizzazioni politiche, i partiti, come suol [245] dirsi, per necessità di vita, per tattica di guerra, per opportunità di propaganda, talvolta inconsciamente, tal'altra di proposito, sacrificano il concetto ed anche la pratica della giustizia.

Se io, dunque, fossi adesso con voi, potrei essere un giorno contro di voi, milite di quella altissima fede. Nell'idea, dunque, e nel lavoro, ma fuori del partito, così quale sono, mente e cuore, operoso, ma libero, se mi volete, son qui. Comunque, a voi la certezza di una parola franca, a me l'orgoglio di aver avuto l'occasione di poterle dire, ed anche la soddisfazione di non aver esitato nel dirla.

Francesco Roero.

— E così?... Dunque?... Che cosa te ne pare? — Questa volta il Roero dimentica affatto la signora Eugenia, più che mai in estasi, e si avvicina inquieto all'avvocato. — Dimmi francamente: Non ti persuade? Non ti va?

— Non mi persuade, ma va benissimo! — Risponde ridendo l'Olivieri. — Bella la lettera e bellissime le verità che vi sono espresse con tanta franchezza. Ma sono cose un po' campate in aria, che non cavano un ragno dal buco. Anche per conquistare la giustizia ideale bisogna sgombrare le vie della libertà pratica, se no, si resta al di qua del fosso, colle mani e coi piedi inceppati, a [246] fissare il punto dove invece bisognerebbe arrivare col salto. Ma son cose che non si discutono. Tu hai scritto quello che senti. Copia dunque la tua lettera, mandala e tira diritto per la tua via, come la coscienza ti detta. Noi, intanto, andiamo a far la corte alla signorina Lulù.

Ma invece di raggiungere la bimba, quando sono in salotto l'Olivieri ferma la signora Eugenia, toccandola sul braccio:

— Sa che cosa c'è di nuovo?..... Don Giulio Arcolei s'è riconciliato colla moglie. Cioè, per esser più esatti, donna Stefania s'è riconciliata con suo marito.

— Possibile?...

— Altro che possibile! Sicurissimo!... L'ho saputo ieri sera, al caffè Martini, dall'assessore Corbolani, un collega dell'Arcolei, nientemeno! Mi ha raccontato il grande avvenimento con tutti i più curiosi particolari! E s'intende, pigliando le parti della baronessa. Anzi il marito, in tutto questo tempo, fu a mala pena tollerato in Municipio, nella certezza che si sarebbe riunito alla moglie, il solo, il vero valore della casa.

La signora Eugenia si mostra sempre più stupefatta.

[247] — Ma come?... Adesso?... Si riconciliano adesso, dopo due anni di... Dopo due anni passati in campagna?

— È in viaggio col giovine tenentino: dal glacier du Rhóne alle Piramidi! Ma lei crede forse, o maliziosa e pettegola signora Eugenia, che donna Stefania al verde, sui ghiacci o sotto il sole, abbia mai commesso il più piccolo strappo alla virtù? Nemmeno per ombra! Tutte cattiverie, goffaggini delle borghesucce piene di rabbia e di livore contro le nostre grandi dame!

— Ma... però...

— Che ma! Che però! Se c'è una colpa, è solo di quella bestia di suo marito che, appunto, per essere uno scempio, vede sempre tutto doppio! Ha voluto fare il geloso, il furioso, il prepotente, e la baronessa, adirata e offesa, l'ha piantato come un cavolo e si è ritirata a Borgoprimo, a casa sua, a leggere, a dipingere, a divertirsi.

— Ma però quel... quell'altro?

— Quell'altro? Chi quell'altro? — L'avvocato deve sentir ancora un po' di bruciore perchè si riscalda troppo. Forse vuol riferirsi al tenentino Parodi?..... Uno sbarbatello qualunque, inconcludente!... [248] Ancora un ragazzetto!... Mi maraviglio che lei possa pensare, solo per un momento, una cosa simile! Ma come?... Donna Stefania colla sua intelligenza e abilità, donna Stefania che aveva tutta una corte a' suoi piedi, un Faraggiola, un Estensi, un Francesco Roero, andarsi a perdere con quell'insulso tenentino?..... Col bel belée? Del resto, vuole una prova chiara e lampante dell'innocenza di donna Stefania?..... È lei stessa che oggi dà moglie al Parodi.

L'Olivieri scoppia in una grande risata sardonica, mentre la signora Eugenia continua a ripetere senza aver ben capito:

— Gli dà moglie?... Che moglie?

— Sicuro! È così! — L'Olivieri non ride più, cambia tono; diventa serissimo e pallido. — Queste donne... di giudizio, quando sono sazie di un amante, per sopprimerlo, gli danno moglie!

— Prende moglie? Il Parodi?

— Donna Stefania gli dà in isposa nientemeno che una sua cugina, la Luardi.

— La contessina Luardi?... Ersilia?... Ma se è ancora, quasi, una bambina?

— Diciott'anni. L'età necessaria per poter lasciar [249] credere di non capire... certi intrighi. Mezzo milione di dote: un fiore di grazia e di bellezza. Per Dio! Se il premio corrisponde ai meriti, il tenentino deve vantarne molti!

— Ma il conte Luardi?... Il padre della ragazza?

— È un vecchio adoratore che è stato sempre tenuto dalla baronessa al regime dell'amor platonico e che quindi, anche per orgoglio, giura e spergiura sostenendo l'innocenza di lei. Anzi, per attestarle pubblicamente la propria stima ed il proprio rispetto e smentire così le infami calunnie della gente bassa, le nozze verranno celebrate a Borgoprimo, in casa della baronessa, sotto gli auspici della baronessa!

— E lei crede che la baronessa Arcolei... tornerà ancora a Milano?

La signora Eugenia, oltrechè stupita, sembra anche un po' inquieta.

— Certissimo! Dopo il matrimonio di sua cugina andrà un po' al mare e un po' in montagna per riposare, per dipingere, per rimettersi al corrente colla lettura del Pungolo e della Perseveranza, poi tornerà a Borgoprimo, dove si daranno feste, cacce, pranzi, grandi ricevimenti, e quando [250] tutti rientreranno a Milano vi rientrerà solennemente anche la baronessa... con tutti gli altri.

— Ma e... e il signor Francesco? — La signora Eugenia parla sottovoce. — Chi sa che cosa dirà il signor Francesco, a udire tutte queste notizie!

— Sicuro! Passerà di maraviglia in maraviglia, perchè Francesco, a dispetto di tutto il suo gran talento, conosce molto bene gli uomini e molto male le donne. Del resto non c'è fretta. Egli vive ormai fuori del mondo; saprà tutte queste notizie con comodo, a suo tempo. Intanto lasciamolo lavorare in santa pace!

La signora Eugenia, rimasta pensierosa, approva col capo e sospira:

— Eppure, sarà tutto vero, signor avvocato, ma che vuole?... Ancora stento a crederlo.

— Perchè lei è una donna piena di cattiveria! Ma badi a ciò che fa: continuando a persistere nell'errore ed a volersi schierare contro la baronessa Stefania, finirà male. Nessuno la inviterà più a pranzo la domenica, e il conte Faraggiola e il marchese Estensi proclameranno la sua decadenza dal bon ton!

— Il Faraggiola e l'Estensi?.... Anche loro?..... Tornano daccapo?

[251] — Più di prima e forse..... molto meglio di prima!... Per riconquistare la stima, l'onore e il proprio posto in società, una donna, nelle condizioni della baronessa Stefania, deve riconciliarsi non solo con suo marito, ma deve anche riconciliarsi, a qualunque patto, co' suoi amanti. Se no, guai! Potrebbe correre il rischio che qualche gran dama, di quelle più rigorose e scrupolose, si ostinasse magari... a non volerla ricevere.

[253]

III.
Tornano a fiorir le rose.

La signora Eugenia passa ormai quasi tutto il suo tempo con Lulù: viene a prenderla la mattina, verso le nove, e poi, tra passeggiate, lezioni, giuochi, un po' a casa del signor Francesco, un po' a casa sua, tutto il giorno resta con lei. E anche la sera è immancabile all'ora del caffè; e quando la bimba, dopo aver saltato su e giù da tutte le poltrone e i canapè, dopo aver date tante botte a Cochi, casca addormentata morta sulle ginocchia di qualcuno, la signora Eugenia la mette a letto colla Luisa, dopo averle fatto dire le orazioni.

C'era un giorno, per altro, nel quale la buona signora voleva tenersi affatto libera e nel quale [254] non veniva da Lulù, altro che la sera: era l'undici di ogni mese. La sua mamma era morta, appunto, l'undici di febbraio e quel giorno, tutti i mesi, la signora Eugenia lo dedicava alla sua mamma e voleva in tutto quel giorno, restar sola colla sua mamma.

Oh, quand'era giovinetta, nelle pene e nelle ansietà di quei primi anni, quante preghiere, quante cose la piccola maestrina aveva da dire alla sua mamma, quando si recava a portarle, l'undici del mese, il suo mazzolino di fiori e non poteva darle che pochi momenti, dopo un'ora di corsa, magari sotto l'acqua o nella neve, dalla scuola lontana fino al cimitero!

E quanto coraggio e quante speranze da ritrovare lì, loro due sole, loro due insieme, così unite le due anime, quella della povera mamma e quella della buona figliuola! E adesso invece, dopo tanti anni trascorsi così di volo, quante cose da ricordare, da ripensare e da godere sempre insieme... loro due sole, con un'intima profonda compiacenza: quella povera mamma, così cara, doveva essere contenta, soddisfatta ed anche un pochino fiera della sua figliuola!

[255] Il giorno undici non è mai stato, del resto, un giorno di tristezza per la signora Eugenia. È stata ed è la festa della sua mamma! Ormai libera.... milionaria, padrona di sè, ella può darle tutte le ore e tanti bei fiori!

La mattina ascolta la messa che fa dire per la sua mamma, poi va a comperare i fiori, torna a casa, li dispone con cura, fa colazione e infine si reca al cimitero, dove rimane gran parte del pomeriggio.... Quando se ne torna nella sua casa così ordinata, tranquilla e linda com'è stata la sua vita e com'è la sua coscienza, leva dal cassettone tutte le care cosucce della sua mamma e degli altri suoi morti, guarda tutto a lungo, togliendo su ogni oggettino, ad uno ad uno, per riporli poi lentamente, ad uno ad uno, allo stesso posto, colla devota precisione della suora che richiude le reliquie nel tabernacolo, ma contenta, sorridente, tutta piena di memorie e.... sola.

Sola?.... Ma è propria sola anche adesso, quando è colla sua mamma? Proprio tutta sola come una volta?

No. Da qualche mese è venuto un terzo personaggio ad occupare un gran posto fra loro due. [256] Francesco Roero s'è messo fra la mamma e la figliuola, è penetrato fra quelle due anime apertamente, francamente per le vie del cuore e della riconoscenza, nulla turbando, ma diffondendo un nuovo alito nella poesia della sua vita: il culto di quella tomba.

Francesco Roero era già caro alla signora Eugenia per le molte benedizioni di tutte le sue vedove e di tutti i suoi vedovi e i sorrisi di tanti poveri bambini da lui così continuamente e così largamente soccorsi.... ma adesso era benedetto anche da un altro celeste sorriso, il sorriso di quella sua povera morta.

Il giorno undici di ogni mese, la signora Eugenia inoltrando, quasi ansiosa nella melanconica galleria sotterranea del cimitero, scorge da lontano la nota lapide già tutta nascosta da fiori splendidi, freschissimi: una maraviglia, una fragranza che si effonde tutto all'intorno. È un pensiero, è un dono del signor Francesco, il quale sceglie poi l'occasione della festa d'Ognissanti per un altro dono, per un'altra improvvisata alla signora Eugenia, che la fa scoppiare in lacrime di sorpresa e di gioia: in mezzo ai fiori sorride, modellata con squisito [257] amore nel bronzo, l'immagino mite e dolce della mamma bellissima.


È una limpida mattina di maggio; il Roero ha fatto la sua buona e bella cavalcata, ma un po' più breve del solito: è appunto il giorno in cui la signora Eugenia non si fa vedere; è il giorno undici. Bisogna essere a casa più presto, spogliarsi e far la doccia e rivestirsi in fretta, per poi uscir di nuovo per condurre a passeggio Lulù, e prima di tutto per andar a scegliere i fiori pel cimitero.

— È alzata Lulù? — Domanda ad alta voce il Roero, mentre attraversa il salottino e le altre stanze per entrare nel gabinetto di toletta.

— Sì! — Risponde allegramente la bimba con una vocina che sembra il trillo di un uccellino.

Era contentissima di uscire con Cochi, era contentissima di andare a prendere i fiori per la signora Eugenia.

E appena è permesso entrare, ecco Lulù in tutto punto, col vestitino di giaconetta bianca, ricamato, a trasparenti rosa, un gran nastro rosa [258] con un fiocco enorme e un cappellone magnifico, tutto rosa, che chiude il visino tondo e fa risaltare ancor di più i capelli e gli occhi nerissimi.

— Sono pronta, io!

— Brava! Sei più brava di me! — Risponde il Roero che ancora in maniche di camicia sta annodandosi la cravatta, e scopre Lulù nello specchio.

— Io sto qui! — La bimba si diverte a veder il Roero vestirsi; salta sopra una seggiola e appoggiata alla finestra rimane in piedi, attentissima: — Che fai adesso?

— Non vedi? Mi metto la cravatta.

— Bello Cochi!

— Oh, bellissimo!

Francesco dà in una gran risata. È allegro quella mattina e lo ha messo anche più di buon umore quel grand'uomo dell'Arcolei.

Si sono incontrati poco prima; Francesco a cavallo, don Giulio in carrozza: e don Giulio, nell'espansione dei saluti, pareva, a momenti, che volesse buttarsi dallo sportello, mentre, fino a pochi giorni innanzi, fingeva sempre di non vederlo!... Da pochi giorni, invece, fingono di non vederlo il Faraggiola e l'Estensi, che gli avevano sempre mostrata una cordialità straordinaria.

[259] — Perchè questo cambiamento?.... Mah!.... Le mie idee, i miei scritti, la politica!..... Per altro, per le mie idee dovrebbe tenermi il broncio anche don Giulio!

Francesco dà un'alzata di spalle e torna a ridere.

— Che bei matti! Il mondo è proprio una gabbia di matti! A stare fuori, a osservare, è divertentissimo!.... Andiamo, Lulù! Sono pronto anch'io! Vedi come ho fatto presto? Andiamo a prendere i fiori per la signora Eugenia! Vuoi bene alla signora Eugenia?

— Sì.

— E a me?

— Io ti sposo, dunque?

Fuori, sotto la Galleria e sul Corso, Lulù dando la mano a Francesco e facendosi anche tirare un pochino, continua sempre a parlare a parlare colla vocina chiara e carezzosa: fa un'infinità di domande, sempre le solite; si ferma dinanzi alle vetrine, sempre le solite.

Grandi soste e grandi esclamazioni di ammirazione e di maraviglia, dalla Bellotti dove ci sono le bambole, dalla Ghezzi dove ci sono i cappelli colle penne e gli uccellini, dal Guglianetti dove ci sono i ninnoli, i ventagli e gli ombrellini.

[260] — Andiamo, adesso, a prendere i fiori per la signora Eugenia?

— Sì.

— Dove andiamo?

— Lo sai; andiamo dal Ferrario.

— E a prendere il biscotto colla granita?

— Andremo..... — Francesco finge di pensarci un poco. — Andremo a Santa Margherita o al Cova. Dove vuoi.

— Allora..... — Anche Lulù ci pensa, ma sul serio. Poi, siccome l'altra volta è stata a Santa Margherita, oggi sceglie il Cova, e continua a parlare a parlare e a camminare dando sempre la mano a Francesco e facendosi sempre tirare un pochino. La gente si volta e si ferma a guardarla, sorridendo.

Ad un tratto il Roero si sente avvolto da un fruscìo di vesti, da un profumo che lo turba, da una biondezza che lo abbaglia, mentre una voce fresca, gaia, argentina, lo fa trasalire, sussultare, gli fa battere il cuore con violenza.

— Che la veda anch'io questa bellezza, questo fiore, questo tesoro!

E donna Stefania — la Fáni — ancora più fresca, [261] ancora più bella, ancora più bionda e più alta nell'abito di cheviot bigio, scuro, attillatissimo. Ella ha presa e sollevata Lulù fra le braccia e la copre di baci schioccanti, risonanti.

— Oh amore! Che amore!..... Amore, amore, amore... — E continuano i baci, per quanto Lulù, aggrottate le ciglia, divincolandosi, respinga colle manine quelle carezze, quella bocca.

Francesco, prima pallido, poi rosso, colle tempie e i polsi che gli martellano, non sa dire una parola. Quella donna che lo fissa negli occhi e che gli parla avvicinando impercettibilmente la sua faccia alla sua, la sua bocca alla sua, è già ripenetrata in tutto il suo sangue, dentro tutti i suoi sensi.

— M'avevano detto ch'era molto bella, — continua Stefania guardando sempre lui, non la bimba, — ma è ancora più bella, molto più bella di quanto si può immaginare! Vuoi le mie rose?... Prendi, carina, tesoro, amore! — E slacciata la giacchetta e strappandole nervosamente dallo sparato della camicetta di batista color viola, che sussulta all'anelito del bel seno colmo, offre tre magnifiche rose rosse a Lulù, dopo aver immerso con voluttà le nari e la bocca... sempre fissando Francesco.

[262] — Lulù ringrazia... ringrazia la signora.

Lulù non ringrazia, non vuol prendere le rose e invece tira più forte, per allontanarsi, la mano del Roero.

— Non vuoi le mie rose, tesoro?... Non le vuoi da me? No?... Ma da lui, sì, le prenderai, non è vero?... — E Stefania ride vittoriosa, dando le sue rose al Roero, che tenendo con una mano Lulù, e i fiori coll'altra, confuso, impacciato, non vedendo più che quella camicetta che palpita e si gonfia, quelle labbra rosse, quei denti bianchi e tutto quel biondo, risponde colla voce rotta;

— È una selvaggia... Una piccola selvaggia. Da brava, Lulù, ringrazia... ringrazia la signora...

— Andavate in giù? — Domanda Stefania, indicando con una mano il Corso verso San Carlo.

— Andavo... dal Ferrario.

— Allora accompagnatemi all'hôtel; sono alla Ville.

Francesco non dice una parola, si volta, per ceder la dritta a Stefania e la segue macchinalmente, facendo sgambettare Lulù, tirandosela dietro con forza.

— Sono stanca io... — borbotta la bimba sottovoce, imbronciata; ma nessuno l'ascolta.

[263] Stefania, mentre risponde affabile, graziosa, ai saluti e alle scappellate che riceve, spiega a Francesco, sempre fissandolo negli occhi, le labbra mobili, umide, i denti scintillanti, le nari frementi, come mai, invece che a casa sua, è andata all'albergo.

— Sono arrivata stamattina, prestissimo, con Giulio, e la nostra casa è piena di operai. Mettiamo i caloriferi e cambio tutta la mia sala; vedrete! Si riparte subito, oggi stesso, per ora di pranzo! Carletto e Manòlo sono a Borgoprimo; non volevano lasciarmi partire! Sono furenti!... Quei nostri amici, invecchiando, diventano tiranni più che mai. Ma abbiamo dovuto fare questa corsa a Milano assolutamente. Giulio, oggi, ha una seduta della Giunta ed io ho una infinità di commissioni e di ordinazioni per i miei sposi...

— I suoi sposi? — Pensa Francesco, e la guarda stupito.

— Non sapete?... Ma come? Non sapete che mia cugina Luardi sposa Cencino Parodi?... Che il matrimonio l'ho combinato io? E che si fa il tre di giugno, a Borgoprimo, in casa mia?

Francesco Roero ha un sussulto, si ferma un [264] attimo su' due piedi. Non capisce più niente! È un sogno! È un sogno! Stefania — la Fáni — gli è apparsa in sogno come tante altre volte!

— Ma sì! Cencino Parodi prende moglie e sposa mia cugina! Perchè quella faccia stupita? Che c'è di così strano? Ah, sicuro! Adesso capisco! Anche voi avete creduto che Cencino Parodi sia stato il mio amante!

Stefania non ride più, diventa pallida e i suoi occhi si riempiono di lacrime: lacrime di collera e di dolore, di fierezza e di vergogna.

— Anche voi! Già, sicuro, anche voi! — Mormora con voce più bassa. — Anche voi non avete capito niente! Anche voi come gli altri! Voi... peggio degli altri! Cencino Parodi, il mio amante?... Lo avete creduto, non è vero?... Lo credete ancora?... Voi! Proprio voi! Il solo che non avrebbe mai dovuto crederlo! Che non aveva il diritto di crederlo!

..... Il Parodi non è stato il suo amante? Prende moglie? Sposa sua cugina?... Ed è lei stessa che gli ha dato moglie?...

Sono giunti alla porta dell'albergo: Francesco è come stordito: si preme la fronte, non sa che [265] cosa dire, che cosa fare, e si ferma a bocca aperta, guardando Stefania.

— Venite di sopra; un momento solo! Qui non si può parlare.

— Vuol salire in lift? — Domanda, inchinandosi dinanzi alla baronessa, il piccolo groom col giacchettino verde.

— No, non importa! Sono al primo piano! — Stefania vola su per l'ampio scalone, rapida, leggera, tra il fruscìo delle vesti che hanno il fremito dell'ali e spandono intorno il profumo dei fiori.

Francesco la segue, sempre macchinalmente, affrettando il passo, stringendo più forte la manina di Lulù e alzandola per un braccio, perchè non abbia a incespicare negli ultimi gradini.

— Sono stanca, io! — Ripete la bimba, ancor più pallida e più corrucciata.

Entrano in un salotto; dall'uscio aperto si vede la camera da letto.

— Sofia! — Chiama forte Stefania. — Sei lì?

— Sissignora! — Risponde una voce dall'altra stanza.

Donna Stefania si rivolge allora a Francesco.

— Mi aspettate un istante? Dò alcuni ordini [266] alla mia cameriera e torno subito! — Fissa ancora Francesco, e negli occhi ha un sorriso, un lampo. — Sono stufa di sarte e di modiste!... Tutta la mattina su e giù! Adesso basta! Riposo! Manderò Sofia! — Nervosa, mobilissima, ridendo e arrossendo, pronta, ardita e ad un tratto confondendosi impacciata, va sin sull'uscio dell'altra stanza, poi torna indietro e si ferma ancora col pretesto di Lulù.

— Ma tu, carina, non essere in collera con me! Questo non si permette! E adesso che siamo qui soli, voglio un bacio! Mi devi dare un bacio! — Stefania prende le manine di Lulù, siede sul canapè, si tira Lulù sulle ginocchia, la stringe, preme il visino contro la sua faccia, mandandole il cappellone di traverso, per strapparle un bacio, ma è impossibile.

— Non voglio, io!

— Perchè sei cattiva! — Borbotta Francesco accigliato.

— No! No! Non sgridatela! Non fate il burbero! Poco male! — Esclama Stefania con una risata. Ma subito diventa seria, osservando la bimba freddamente:

[267] — È molto bella! Ha il difetto, appunto d'esser troppo bella!... Non par vera!

Contenta del suo frizzo, donna Stefania dà un'altra risatina e accarezza a lungo i capelli di Lulù spartiti lisci in mezzo alla fronte e cadenti in lunghi e grossi riccioloni, ornati sulle tempie da due piccoli nastrini rosa. — Che bei capelli! Che bel nero lucente!... Adesso ti daremo i dolci, per placarti!..... Francesco, guardate lì, sul tavolino; quella scatoletta di legno.....

— Questa?

— Sì; grazie!

Stefania prende la scatoletta di dolci e l'offre aperta alla piccina che è scivolata giù dal canapè ed è corsa ad aggrapparsi alle gambe del Roero. Questi la spinge di nuovo verso donna Stefania.

— Prendi un dolce e ringrazia!... Comincia ad essere un po' gentile!

Lulù non prende niente; rimane ritta in piedi appoggiata con un fianco al canapè, senza nemmeno voler guardare la scatola.

— No?.... Proprio no?.... Allora i dolci li metteremo qui! — Stefania pone la scatola aperta sul canapè, dinanzi a Lulù. — E tu li prenderai [268] quando saran passati i capricci!.... Va bene?... E le rose? — Guarda di nuovo Francesco. — Le mie rose non sono per voi! — Si alza in collera, gli strappa le rose che Francesco aveva ancora in mano e le butta sul canapè, vicino alla scatoletta dei dolci — Sono di Lulù! Le ho colte io stessa, stamattina prestissimo. E mi sono anche punta! Guardate! — Avvicinandosi al Roero gli mostra una piccola graffiatura sulla mano rosea e trasparente, fatta per le carezze..... abbassa la voce, si avvicina ancor di più, fino a bruciargli il viso con una vampa di fiato caldo, odoroso: — Voi non li meritate i miei fiori!... Cattivo! — Nelle pupille c'è il tremolio di una lacrima, l'espressione di un gran dolore, ma è un attimo; di nuovo una risata e corre nell'altra stanza chiamando la cameriera e dandole tutti gli ordini, camminando su e giù, levandosi il velo, il cappellino, la giacchetta.

Francesco, in faccia all'uscio rimasto aperto, la segue, la cerca ansioso cogli occhi; Lulù ritta, immobile, appoggiata con un fianco al canapè, non guarda i dolci, non guarda le rose: guarda ostinata per terra..... E la bella voce di Stefania [269] continua a risuonare nell'altra stanza, alta e melodiosa come un canto.

— Sofia!

— Signora.

— Andrai tu dalla Challion; con tante cose, io ho fatto tardi e non ho più tempo!... Le dirai, sta ben attenta, che la contessina Luardi vuol tutto pronto, assolutamente, per la fine del mese e che per l'abito da viaggio ha scelto la popeline noisette e la fodera di gros celeste. Hai capito?

— Sissignora!

— Andrai dalla Magugliani e le dirai, sempre per la contessina Luardi, che le valenciennes, per i sauts de lit, le trova troppo basse.

— Sissignora!

— Andrai dalla Paulet: i miei due cappelli, quello di gaze coi lilà per giardino e quello di paglia coi bluets, voglio averli all'hôtel, per le cinque, senza fallo!

— Sissignora.

— Poi, va in cerca di monsignor Fabiani: se non lo trovi a San Fedele lo troverai a casa sua. Gli dirai che il matrimonio, come gli ho già scritto, è fissato per il giorno tre di giugno e che per la [270] cerimonia religiosa.... No! no! Da monsignor Fabiani andrò io e se non posso oggi, farò un'altra corsa venerdì o sabato! E non dimenticarti della Laforet! Non ho quasi più guanti.... Lei sa già che cosa mi deve mandare.

— Sissignora!

Si sente chiudere un uscio.... si sentono allontanarsi lungo il corridoio dei piccoli passettini affrettati: è la cameriera che se ne va. Un momento di silenzio e di nuovo la voce di Stefania che chiama:

— Signor Roero! Francesco!... Guardate un po' voi! Sofia ha chiuso il mio nécessaire e non so più aprirlo!

Francesco si presenta sull'uscio e vede donna Stefania che si tien ritta nell'angolo tra la parete e i pie' del letto: ella gli fa cenno di chiudere e appena scattata la molla, gli afferra una mano tirandoselo vicino, nell'angolo, con un atto d'inquietudine.

— Che non mi veda! Che non ci veda quella vostra Lulù! Guai se.... — Ma Stefania non può finire, le sue parole rimangono rotte, la sua bocca è soffocata da una furia di baci.

[271] Stefania con una mano allontana la faccia di Francesco dalla sua, ma coll'altra lo tien forte serrato contro il suo petto.

— Sì, sono stata pazza, pazza! Ma per vendetta! Perchè volevo vendicarmi di voi! Ho perduta la testa, ma per voi! E voi, invece, avete creduto.... come gli altri! Dopo che per voi avevo tutto arrischiato! Dopo quella sera! Vi ricordate? Quella sera in casa vostra? Invece di amarmi di più, siete fuggito; non vi siete fatto più vedere, ed io ero furente, furente, disperata! Per questo, mio marito, Carletto, Manòlo, vedendomi sempre nervosa, come matta, diventavano ancor più insopportabili! Non potendo più esser gelosi di voi, eravate sparito, hanno inventato il Parodi! Mi fanno scene per il Parodi; mettono su mio marito, che a sua volta mi fa scene per il Parodi; ed io allora che avevo già perso la testa, ma per voi, perdo anche la pazienza e mi servo del Parodi — un ragazzo — lo conoscete? — nient'altro che un ragazzo — per vendicarmi di voi e per liberarmi di tutti quegli altri.... che non posso più soffrire!

Francesco fissa sempre Stefania, acceso, sconvolto [272] da quella voce sommessa, ma calda, armoniosa voluttuosa; quella voce lo esalta, lo eccita, ma la voce soltanto, senza intendere, senza badare alle parole, al senso delle parole. Che importa se sia la verità o sieno tutte menzogne? È la donna che lo ha ripreso, quella donna così bella e così bionda, che gli è sfuggita, ed ora è tornata, la sola donna che esiste per lui da due anni, ch'egli vuole da due anni e che è lì, che ha lì, finalmente!... Essa è lo scopo, la vita, il perchè! Si è sempre ingannato, ha voluto ingannarsi! Lei, lei, per un'ora, per un attimo, e che tutto il mondo precipiti!... Che importa a lui di tutto il mondo?

Stefania, vicina, accarezzandogli le mani, continua a parlare a parlare, a piangere, a sorridere e a parlare ancora sottovoce, sommessamente, non più offesa, adirata, nervosa, ma languida, tenera, appassionata:

— Non ho rimorsi, però; no, non ho rimorsi! Posso aver fatta la mia infelicità, ma non la vostra! A me sola ho fatto del male, non a voi! Voi avete lavorato, siete salito in alto! Tutti parlano di voi con entusiasmo, con ammirazione! Io ho letto tutto, sempre! Mentre voi mi avete dimenticata, [273] io invece ho sempre vissuto di voi, con voi!

— No! No! Io non ti ho dimenticata, no! E da quella sera che ti aspetto!... Quando sei stata a casa mia!

La voce di Francesco è rauca, rotta, tremante.... la bella voce di Stefania continua invece dolcissima, chiara anche fra le lacrime.

— Non volevo più rivedervi! Capivo che non sarei stata più sicura di me e volevo serbare, chiusa nell'anima, tutta la mia poesia! Rivedervi? E poi?... Non avevo niente da dirvi perchè vi avevo perdonato; non avevo niente da chiedervi perchè mi avevate dimenticata! E ciò è stato possibile, e l'anima ha vinto finchè siamo rimasti lontani l'una dall'altro... Ma poi, stamattina, appena mi siete apparso, addio fierezza, dignità, proponimenti, giuramenti... Adesso andate, andate... vi prego... andate via!

— Ah no, questo no, no! — Risponde il Roero pallidissimo, torvo in viso, afferrandola minaccioso per un braccio.

Stefania, coi muscoli che diventano d'acciaio sotto la pelle morbida di raso, si scioglie ancora, lo [274] respinge lontano e indicandogli l'uscio chiuso, bisbiglia sottovoce:

— Lulù!... Di là c'è Lulù!

— Allora?

Stefania lo guarda e promette cogli occhi prima di rispondere:

— Passate con un brum dalle Grazie... alle due. Mi prenderete con voi, mi terrete con voi, dove volete, fino a stasera... — Subito si asciuga gli occhi, si aggiusta i capelli, corre nel salottino e di nuovo scoppia in una gran risata avvicinandosi a Lulù.

— Che cosa hai fatto, carina?... Ma che cosa hai fatto?

Lulù era sempre ritta, immobile al suo posto, sempre imbronciata, appoggiata di fianco al canapè: tutti i dolci erano stati buttati, sparsi per terra, la scatola rotta, le rose strappate e peste.

Francesco febbricitante, scomposto, cogli occhi stravolti, non guarda Lulù, non la vede nemmeno: l'afferra per una manina e la trascina via precipitosamente, quasi di corsa, facendosela trottar dietro col gran cappellone rosa tutto di traverso.

[275]

IV.
I fiori secchi.

Com'è bella, benedetta d'aria e di sole, quella giornata di maggio!

Oh il sole! Il sole!

La signora Eugenia è ferma all'ingresso del cimitero, e sotto la volta del Famedio, sempre un po' nella pen'ombra, le si offre dinanzi la grande distesa tutta verde e fiorita delle aiuole, colle innumerevoli chiazze candide dei marmi e le fiamme d'oro dei bronzi sotto la gran luce del sole... E il palpito di quella luce, di quel colore, di quel tepore, rompe il gelo e dissolve l'angustia e l'orrore delle tombe.

La signora Eugenia ha già negli occhi la cara effige circondata di fiori e quei sepolcri non le fanno nè sgomento nè tristezza.

[276] Anche dopo si vive, e l'amore e il ricordo non ci lasciano mai soli!... Lei anche dopo, avrebbe avuto i fiori e la compagnia di Lulù...

— Cara!... — E sorride pensando a Lulù, pensando al signor Francesco. — Verranno qui insieme, qualche volta, a trovarmi.

La lunga passeggiata da casa al cimitero non l'ha stancata, anzi le ha infuso nuovo vigore. Il sorriso negli occhi, le labbra socchiuse, alacre il corpo, lo spirito lieto e il pensiero sereno, ella respira quell'aria leggera sottile che spazza via ogni nube e gode di quel sole, di tutto quel sole che la illumina e la riscalda e che fa salire su, dal fondo dell'anima, gli ardori, i fremiti dell'ultima gioventù. E prima di scendere i noti gradini, si ferma ancor un istante, diritta, alta, bella, nel semplice abito nero, a contemplare lo spazio immenso: e inconsapevolmente lo sguardo non scorge più dinanzi a sè una gran distesa di morti, ma al pari del pensiero, si volge verso l'alto, verso l'azzurro, tutto purezze, speranze, promesse...

Non diventa triste, nemmeno quando è discesa giù nel sotterraneo; anzi le sorridono ancor di più gli occhi, le labbra e il cuore perchè pregusta [277] già la solita cara sorpresa; i bei fiori sempre diversi, sempre freschissimi, sempre i primi e i più rari, il dono, l'omaggio, il pensiero delicato del suo giovine amico, buono e affettuoso, che rivela tutto «il suo gran talento» anche nelle manifestazioni del cuore.

Il medaglione di bronzo, in mezzo alla lapide, ella lo scorge subito, di lontano, appena nel sotterraneo: — Eccolo! Eccolo! — e già cogli occhi e coll'animo fa festa al ritratto e ai fiori e ne sente la dolcezza e la fragranza... ma quando la tomba della mamma le si scopre tutta, si arresta, il cuore le dà un balzo; continua ad avvicinarsi, ma lentamente: ogni sorriso è sparito, e più e più s'inoltra, il lungo e alto sotterraneo diventa freddo e cupo.

Il medaglione di bronzo è circondato da frasche, da rovi, da lunghi rami ingialliti e spinosi, costellati di neri grumi di petali avvizziti, e tutte le foglie aride e secche si spargono e terra, sul marmo, e il vento le allinea lungo il muro. Sono i fiori del mese scorso; ancora i fiori dell'undici di aprile!... E allora per la prima volta, in tanti anni, la signora Eugenia rimane immobile, esitante, col cuore [278] stretto, lì, dinanzi alla mamma... finchè le sue pupille, le sue labbra, tutta la sua persona, son corse da un tremito: ella si avvicina al ritratto e lo bacia, lo ribacia singhiozzando.

— Oh povera la mia mamma! La mia mamma! Dimenticata da tutti!

Ma poi rimane confusa: ella stessa non trova, non sa darsi la ragione di quel suo grand'impeto di dolore. — Perchè? — E si stringe nelle spalle mormorando: — Se ne sarà dimenticato!... No, impossibile! — Continua a pensare ed ha una nuova inquietitudine: — Forse Lulù è ammalata? No; in tal caso mi avrebbero avvertita, mi avrebbero mandata a chiamare!... Allora che cosa può essere?... Che cosa è successo?... Perchè qualche cosa dev'essere successo... — Continua a pensare a pensare, appoggiata alla lapide e con la fronte sul ritratto, e per la prima volta, in tanti anni, il suo cuore e i suoi pensieri corrono lontani lontani, mentre essa si trova lì, così vicina alla mamma.

— Sì; se n'è dimenticato!... Ma pure qualche cosa deve essere successo, perchè abbia potuto dimenticarsene! Ancora ieri sera se ne ricordava [279] benissimo... «Dunque», mi ha detto, «domani non ci vediamo?»... I suoi occhi mi fissavano con una espressione affettuosa, piena di melanconica tenerezza. Pensava anche lui alla mamma in quel momento e ha soggiunto: «Venga almeno più presto, domani, a prendere il caffè!... Non ci vediamo in tutto il giorno!»

La signora Eugenia torna a stringersi nelle spalle con grande tristezza.

— Se ieri sera se ne ricordava, se ne sarà dimenticato stamattina! Qualche lettera, qualche visita, qualche affare urgente... Oppure, anche rammentandosi ch'era l'undici del mese, non avrà mandato i fiori lo stesso. Perchè mandare i fiori tutti i mesi? Bella pretesa! Ma, intanto, povera la mia mamma, non hai i bei fiori del signor Francesco, e nemmeno il povero mazzolino della tua figliuola. Domani! Domani! Tornerò domani!...

Strappa dalla lapide le fronde, i rami spinosi, col fazzoletto pulisce le macchie gialle, nericce, raccoglie col piede le foglie secche, e fa spazzar via ogni cosa da un inserviente, seguendo con uno sguardo pieno di mestizia e con un grande, improvviso accasciamento quella cesta che si allontana [280] coi miseri e pochi avanzi dei bei fiori dell'undici aprile...

— Tutto finisce a questo mondo!... E se si ha anche la disgrazia di morir tardi, tutto finisce prima di noi! Se n'è dimenticato, certo! Che vi abbia pensato e non abbia voluto mandarli apposta, non è possibile! — Ella sorride amaramente: quei fiori ch'erano stati tutta la sua poesia, perdono a un tratto la loro. Ella per la prima volta apprezza il dono e il pensiero gentile del signor Francesco per quello che valgono in realtà: il ricambio, il compenso, la mercede, sebbene nella forma più delicata e squisita, delle lezioni che dà a Lulù.

— È il mio mensile, che mi vien pagato in tanti fiori! Stasera mi farà le sue scuse per essersene dimenticato; il mese venturo me ne manderà di più e così i conti saranno pari... Stasera?... Chi sa, forse non vi andrò nemmeno stasera. Mi sento tanto stanca! È lunga, a farla tutta a piedi, la strada da casa mia al cimitero.

Si sente affranta anche nel risalire i gradini, nell'uscire di nuovo all'aperto... Tutto quel sole l'accieca, il suo occhio non si volge più in alto, [281] ma fissa con uno sguardo obliquo le infinite e sterminate fila di morti che restan lì soli tutto il giorno, tutta la notte... sempre soli.

Monta su nel primo tram che passa: ha fretta: le è venuta a un tratto una gran fretta di tornare a casa.

— Chi sa!... Sono uscita prestissimo! Forse, intanto c'è stato qualcuno a cercarmi! Forse a casa trovo una lettera che spiega tutto.

Quando il tram è vicino, appena rallenta, salta dal montatoio, attraversa la strada e imbocca la porta coll'agile sveltezza che in certi momenti rammenta ancora la giovine maestrina di una volta.

— C'è stato nessuno a cercarmi? — Domanda fermandosi rossa, ansante dinanzi all'uscio aperto della portinaia.

— Nossignora, nessuno.

— E lettere?...

— No, proprio niente. — La portinaia, vedendo che la signora Eugenia rimane lì, ferma, attonita, domanda a sua volta: — Aspettava forse qualcheduno, o qualche risposta?

— No, no, grazie.

Anche l'ultima speranza è perduta; l'hanno [282] proprio dimenticata! Infila di furia la scala, e quando è dentro, nella sua camera, sola, l'agitazione nervosa, la fatica, il dolore la vincono, vuol frenarsi, non può... e dà in uno schianto di lacrime.

È un dolore, un affanno, un'angoscia una desolazione, un gran vuoto d'intorno a sè, dentro di sè, ch'ella sente e soffre senza fermarsi a pensare, senza rendersene conto.

Così, per più d'un'ora, la signora Eugenia continua a piangere, buttata attraverso il suo lettino modesto e semplice sotto la coltre candida; sempre quello, ancora il lettino della povera maestrina.

Verso le cinque soltanto, il campanello della scala dà un piccolo suono discreto... La signora Eugenia alza la faccia verso l'uscio, pensa un istante, poi bisbiglia tra sè: — Sarà la Gentilina! — E va lentamente ad aprire.

È proprio la vecchia donnetta di servizio, che viene come di consueto a prepararle il desinare.

— Ancora col cappellino, signora padrona?... Ancora vestita?

— Già!... Sicuro!... — La signora Eugenia è maravigliata lei stessa d'essere ancora vestita e col cappellino. — Sono appena... Ero di là!... — Non sa mentire e non aggiunge altro.

[283] — Ma che cera! Che brutta cera! — Continua la Gentilina osservandola... — Si sente poco bene?

— Mi sono stancata, mi sono buttata un po' sul letto.

E diventa rossa, si confonde. Perchè quel turbamento? Perchè sente che quel suo dolore deve nasconderlo, che non può confidarlo ad alcuno?... Subito si sforza per ridere ed esclama con uno scatto nervoso nella voce:

— Da brava, Gentilina!... Oggi voglio una zuppa, un pranzettino eccellente!...

— Ho preso i piselli freschi e i petti di pollo per fare le costolettine! — Esclama la vecchietta trionfante.

— Evviva! Sei un portento, Gentilina! Vengo subito ad aiutarti!

La signora Eugenia rientra in fretta nella sua camera, confusa, nervosa, agitata da un nuovo turbamento, si avvicina allo specchio dell'armadio per levarsi il cappello e la mantellina e ad un tratto si ferma, rimane a lungo a fissarsi esterrefatta.

Dio, Dio! Che cosa le rivelano in quel punto i suoi occhi rossi e i suoi capelli bianchi!... Ha un sussulto che le fa balzare il petto violentemente, [284] una vampa di fuoco le corre fin sulla fronte... una gran vergogna, la vergogna di sè stessa, vince il suo dolore, e scoppia a ridere in mezzo alle lacrime.

Sì, sì, sì, era vero! Si era un po' innamorata del signor Francesco!

— Oh, vecchia matta! — Esclama fissandosi nello specchio, continuando a ridere ed arrossire. — Vecchia matta! Vecchia matta!

Una subita, violenta reazione succede in lei: butta il cappello, il velo da una parte, la mantellina dall'altra, e corre in cucina, parlando forte, affaccendandosi per aiutare la vecchietta che le prepara il pranzo, sforzandosi per scherzare, per cantarellare, ma sempre colle vampe di rossore che le bruciano le gote e la fronte, e il cuore che continua a ripeterle: — Vecchia matta! Vecchia matta! Vecchia matta!

— Per amor del cielo, che nessuno se ne sia accorto! — A questo dubbio le fiamme tornano ad accenderle la faccia, ma subito si calma pensando tra sè: — Nessuno mi crederà mai una vecchia tanto matta!

La Gentilina prepara sull'angolo della piccola tavola la zuppiera fumante, le costolettine di pollo coi piselli, due mele e un'arancia.

[285] — Comanda altro, signora?

— No, grazie.

La Gentilina, come al solito, se ne va.

Seduta sola dinanzi al suo desinaretto, la signora Eugenia ritorna pallidissima e triste. Si può comandare alle lacrime, al cuore fino a un certo punto, ma non allo stomaco. Si prova, vorrebbe mangiare a tutti i costi, ma non può cacciar giù un boccone.

— E... e per poter trovare una scusa, scrivere un bigliettino e non andare stasera da... da Lulù?

Ci pensa, ci ripensa; che gran sollievo, per lei, buttarsi in letto, spegner subito il lume e dormire, dormire fino a domani! Che riposo, rimaner sola nel silenzio, all'oscuro! Ma finisce scrollando la testa e mormorando:

— No, no; è impossibile! Sarebbe la prima volta che manco all'ora del caffè, che non vado a mettere a letto Lulù!... Proprio oggi... che non ho avuto i fiori. No! No! Bisogna andare!... E poi, a qualunque costo, bisogna serbare gli stessi rapporti, la solita intimità col signor Francesco. Per Lulù... e per i miei poveri: se io sono una vecchia matta, i miei poveri non ne devono soffrire. [286] I miei poveri, che vivono della carità del signor Francesco e che lo benedicono senza neppure conoscerlo! Questo è il vero sentimento di carità; far il bene per il bene, di nascosto... dare con tanta nobiltà e con tanta delicatezza... celare perfin la mano... La vera carità dev'essere proprio intelligente. Non basta avere un gran cuore, bisogna avere un gran talento come il signor Francesco per poter...

La signora Eugenia si arresta... e sospirando arresta il corso dei suoi pensieri.

— Andiamo! È tardi! Bisogna andare! Così anche se è successo qualche cosa stamattina, lo saprò. A quest'ora ci sarà già il signor Olivieri. — L'idea di non trovar solo il signor Francesco la conforta nella sua improvvisa e strana timidezza; ma poi, pensando all'Olivieri, rammenta il discorso che egli le ha fatto qualche giorno innanzi, e un lampo le attraversa la mente e rischiara ogni suo dubbio:

— Quella donna! È arrivata quella donna! C'è di mezzo quella donna!

Ogni timore, ogni timidezza, ogni altro sentimento è vinto da quella nuova ansia, da quel nuovo orgasmo, da quella nuova, terribile inquietudine.

[287] — Donna Stefania! Donna Stefania! Certo! Certo! È arrivata donna Stefania!

In fretta si caccia su il cappello, la mantellina, corre da Lulù e subito si accorge che il suo cuore non l'ha ingannata.

Il signor Francesco non c'è; non è venuto a pranzo, non ha mandato a dir niente: Lulù dorme sulle ginocchia della Luisa. La signora Eugenia guarda la bimba: anche così addormentata è pallida, ha il visino gonfio di chi ha molto pianto.

— Che cosa ha avuto? — Domanda subito alla Luisa.

— Ha fatto capricci! È stata cattiva tutto il giorno!... Deve essere successo qualche cosa per altro, quando è uscita stamattina col signor Francesco... Chi sa, devono forse averle fatto dei dispetti. Ha continuato tutto il giorno a dire: «Cattiva signora! Brutta signora!...» Deve aver incontrato qualcheduno che non le è andato a genio! È tanto capricciosa!

— Il signor avvocato non è venuto stasera? — La voce della signora Eugenia si è improvvisamente abbassata.

— No; Giovanni mi ha detto che il signor avvocato dev'essere andato a Genova.

[288] — Allora, andiamo a mettere a letto Lulù, e poi andremo a dormire anche noi!

La signora Eugenia prende in braccio Lulù e si avvia preceduta dalla Luisa che tiene il lume. Per andar nella camera della bambina si passa dinanzi all'uscio dello studio del signor Francesco; l'uscio è aperto, lo studio è buio...

La signora Eugenia pensa a tutte le altre sere... e non può a meno di sospirare. Sente in quel punto che tutto è finito, che le belle sere non torneranno mai più.

Anche Lulù ha un piccolo sussulto nel sonno; apre gli occhi, si sveglia un poco... e si sveglia del tutto mentre la signora Eugenia e la Luisa, uno per ciascuna, le levano gli stivalini.

Appena vede la signora Eugenia, la bimba sorride, ma poi torna subito seria, e aggrotta le ciglia:

— Cattivo, Cochi!

— L'hai adesso col signor Francesco? — esclama la Luisa — Sei tu la cattiva! Il signor Francesco è tanto buono!

— No, cattivo Cochi! Cattivo!

La signora Eugenia vorrebbe far qualche domanda alla bimba, ma non osa per la Luisa. Quello che [289] più temeva è ormai una certezza: lo sente, è sicura oramai. Per sapere il resto c'è tempo domani.

— No! nessuno è cattivo! La mia Lulù non è cattiva, non è mai cattiva!... È buona, è brava Lulù, e adesso, prima di andar in letto, prima di andar sotto sotto, dirà le sue orazioni...

Inginocchia la bimba sul letto, le congiunge le due manine, e s'inginocchia anche lei appoggiandosi alla sponda.

Ave Maria.... gratia plena.... Dominus tecum... — principia la bimba.

— No, no; prima devi dire alla Madonna che l'Avemaria... è per il tuo papà.

— Per il mio... papà?... — Lulù fissa la signora Eugenia come per ricordarsi di qualche cosa.

— Sì, pel tuo papà..... che è in cielo col buon Dio, che ti ha voluto tanto bene... che te ne vuol tanto ancora, e che tu non devi mai dimenticare...

— Il mio papà? — Domanda ancora Lulù. — Il mio papà?..... — Poi di colpo si mette a piangere e a strillare, buttandosi sul letto, rotolandosi sul letto: — Il mio papà!... Il mio papà! Io voglio il mio papà, io voglio il mio papà!...

— Ancora capricci! Adesso fa capricci per il [290] suo papà! — La Luisa non sa più se ridere o se arrabbiarsi.

Ma la signora Eugenia, invece, si getta sulla bimba, se la stringe forte contro il petto, la copre di baci.

Oh, quel piccolo cuoricino della bimba cara, come sente il suo, come risponde al suo, come batte col suo! E piange anche lei con Lulù, continuando a coprirla di baci e mormorandole sugli occhi, sulla bocca, in mezzo ai capelli:

— Io non ti lascierò mai! Non ci lascieremo mai! Voglio essere la tua mamma! Dimmi mamma, Lulù, chiamami mamma!

Lulù si stringe forte al collo della signora Eugenia, ma continua a gridare:

— No, no, no! Voglio il mio papà, io! Io voglio il mio papà!

[291]

V.
— ... ho finito di fare a mio modo!... —

Quando donna Stefania ripensa fra sè e sè, tranquillamente, a' casi suoi, finisce sempre col sorridere mormorando con un senso di stupore:

— Con Cencino Parodi ho proprio perso la testa!... Come ho fatto? Com'è successo? Ma!... — E invece di sospirare continua a sorridere.

Donna Stefania, in fondo, non è pentita e non è punto sbigottita: perder la testa, poco male; basta poi saperla ritrovare. Ma stupita, sì; donna Stefania è stupita moltissimo.

— Come ho fatto? Com'è successo?

Un caso di forza irresistibile... — Davvero! — È stato un impeto di passione irresistibile!... Per Cencino Parodi, sarebbe stata capace di qualunque [292] pazzia! Ne ha fatte di grosse, ma ne avrebbe commesse anche di maggiori.

Aveva cominciato a ridere, a scherzare, a giocare, come al solito; forse più del solito, sentendosi più sicura perchè si trattava di un ragazzo: lui, ventitrè anni, mentre lei ne aveva, senza che nessuno lo sapesse, trentatrè!

Aveva cominciato a ridere, a scherzare e a giocare... ma poi, ad un tratto, nella sua civetteria languida e sentimentale, nella freddezza calcolatrice della donna astuta e prudente, corse una vampata: l'istinto dell'altra razza ch'era in lei, quella più forte e più brutale del padre tedesco, ebbe il sopravvento.... — Come ho fatto? Com'è successo? — ..... Mah! Un capogiro, una pazzia! Quella bocca fresca, intatta, quella fanciulla bionda vestita d'ufficialino di cavalleria, quel monello impertinente avevano suscitato in lei ardori ed impeti selvaggi!

Adesso la furia, l'ardore sono passati; ma un po' di bruciore rimane ancora. Quel Cencino Parodi è sempre un gran tesoro!.... Ah!..... Peccato che spuntino i baffetti a rompere l'incanto!

Il tenentino, per combinazione, era anche arrivato [293] a buon punto. Donna Stefania, sempre cullata, assopita, addormentata dalla duplice e innocua adorazione di Carletto e di Manòlo, era stata destata piacevolmente dall'amore, dalla passione del giovine Roero..... ma poi, nel giorno stesso che avrebbe potuto essere il più bello, Francesco Roero si mette a fare il radicale, poi a fare il permaloso e a tenere il broncio — anche lui come gli altri due!... — Comincia a non lasciarsi più vedere, a scappare, sperando che Stefania gli corra dietro... e invece quell'altro, Cencino Parodi, che, intanto, colle sue piccole manine paffutelle avea saputo dare all'albero una fortissima scossa, fa staccare dall'albero il frutto già maturo!

Allora..... al diavolo Carletto, Manòlo e anche don Giulio, più noiosi della pioggia! Al diavolo gli scrupoli e la prudenza; al diavolo le elezioni e le missioni, il prefetto, il sindaco e l'arcivescovo! Al diavolo le feste, le corse, i lunch... e le dame visitatrici!... L'amore! L'amore! L'amore allegro e bello, spensierato e giovine... sopratutto giovine!

Era la prima volta!.... Era la prima volta che amava!... Che noia, essere amati; e che gioia, amare! L'amore! L'amore! Non c'è altro divertimento [294] al mondo! Che stupida aspettare tanti anni, più di trent'anni, per capirlo! L'amore, l'amore, non c'è altro divertimento al mondo che l'amore, l'amore bello, allegro e giovine, soprattutto giovine! Oh che delizia a Borgoprimo, tra le selve ombrose e i prati odorosi di fieno falciato! Che delizia, in Isvizzera, sui ghiacciai, col freddo frizzante e ravvivante... e in Egitto, le Piramidi, il Nilo, la calda voluttà dell'Oriente...

— Ma, pur troppo, adesso..... basta! Dinanzi a quei baffettini che spuntano bisogna mettersi a riflettere; bisogna far giudizio!

E sono baffettini appena percettibili — Figurarsi! — Donna Stefania e Cencino Parodi scherzano alle volte tra loro due a proposito di chi li ha più lunghi! — Ma quei del tenentino, appena spuntati, subito, avevano già messo le puntine in sù... Presto sarebbero stati terribili, quando si sarebbero accorti..... — ventitrè e dieci fa trentatrè — che quegli altri, i piccoli baffettini della dolce amica, hanno dieci anni di più!

E allora?... Se fosse stato lui, il primo, a darle un bel saluto? Ahimè! Allora sarebbe stato troppo tardi anche per far giudizio, perchè la donna comincia [295] ad essere perduta, precisamente quando il suo amante comincia a piantarla.

Ah, no! Questo no! Questo mai! Delizioso Borgoprimo, deliziosa la valle del Rodano, deliziosissime le Piramidi, ma, per bacco, anche Milano è sempre una gran bella città!

Si raccoglie in sè stessa, si figura a Borgoprimo dopo l'abbandono del Parodi... in pieno romanzo borghese col medico condotto! Si figura invece di nuovo a Milano, signora, padrona di Milano... Sì, sì! Non c'è dubbio! Si sente ancora troppo giovine e forte, si vede troppo bella, per rinunciare a vivere nel mondo, per rassegnarsi ad essere dimenticata e non esser più di moda; e subito, finchè ha tempo di poter scegliere fra Borgoprimo e Milano, opta per Milano.

Il poter ritornare a Milano come prima, anzi ancor più festeggiata e più ammirata di prima, dipende solo da lei.

Suo marito?...

Donna Stefania sorride argutamente. Di tanto in tanto le capitavano certi numeri del Pungolo e della Perseveranza con gli elogi all'integerrimo ed attivissimo assessore Arcolei segnati in blù! [296] L'indirizzo, sulla fascia, è scritto dal ragioniere; ma l'ordine di spedirli è stato dato da suo marito.

Suo marito?... Povero diavolo! Non ha mai tanto apprezzato e forse non ha mai tanto desiderato sua moglie. Tutti gli hanno detto che quella... partenza è avvenuta per colpa sua, ed è rimasto il solo a crederlo veramente. Sua moglie non avrebbe che a ritornare e lo vedrebbe subito a' suoi piedi, pentito.

Ma suo marito non basta. E Carletto e Manòlo?... E Francesco Roero?... Il più importante, l'uomo del giorno?

Anche Carletto e Manòlo ella li avrebbe di nuovo aggiogati con nessuna fatica e con nessun incomodo. Lusingare il loro amor proprio facendo credere alla gente ancor di più di quello che... non c'era mai stato e non ci sarebbe stato mai. Si erano sempre accontentati delle apparenze. Abbondare ancor di più nelle apparenze! E basta, s'intende! Donna Stefania è troppo artista nell'anima e pensa che bisogna aver buon gusto, soprattutto negli spropositi. Avevano intanto il torto grandissimo, quei due, di essere due copie di una stessa edizione e poi... l'opposto del suo genere. Le labbra [297] scolorite, appassite, la pelle arida e tesa, le grinze agli occhi. Moltissima eleganza, ma..... un grave sospetto. Il biondo del Faraggiola e il nero dell'Estensi, così vivi, così lucidi, eran proprio sinceri?

Cento volte meglio Francesco Roero; questo poi sì!

Meno ortodosso in fatto di aristocrazia, di eleganza, di sport, ma molto più giovine; e anche un bel giovine! Le era sempre piaciuto del resto, anche prima, e forse... senza quel terribile seccatore... A questo punto, un dubbio attraversa l'animo di donna Stefania: anche Francesco Roero è più giovine di lei.... ma non di dieci anni come Cencino Parodi.... soltanto di tre o quattro anni.... e l'animo di Stefania si rasserena.

Lui, questo non lo sapeva, lei non gliel'avrebbe mai detto e così sarebbero diventati vecchi insieme.

Sentiva per altro che ormai con Francesco Roero non avrebbe potuto più scherzare. Ma sentiva pure che per ritornare a Milano come prima, per avere autorità ed influenza come prima e più di prima, Francesco Roero le occorreva più di tutti.

[298] Ah! Ah! Adesso che era salito tanto in alto, adesso che era andato tanto lontano, richiamarlo in casa Arcolei e ai buoni principi... Questa non solo sarebbe stata per lei l'assoluzione; sarebbe stato il trionfo!

Ma, s'intende, tutto..... per tutto! Anche Francesco Roero, sommissione intera. Soffocato ogni spirito di ribellione e d'indipendenza: una sola volontà, la sua, di lei! Oh, il signor Roero avrebbe dovuto scontare l'indocilità di un tempo! C'erano molti piccoli conti da aggiustare, e lei aveva molte piccole vendette da compiere! Quella bastarda, fuori di casa!... Ed anche quella vecchia antipatica, odiosa, fuori di casa! E quel democratico avvocatino, che a lasciarlo fare si sarebbe innamorato di lei tanto volentieri, fuori dei piedi!

Ma... e Cencino Parodi?... Oh, povero tesoro! Colla testa negli affari lo aveva dimenticato!..... Come avrebbe fatto a metterlo in libertà?..... Era ancora innamoratissimo!...

Nei loro trasporti, essa lo aveva trattato sempre un po' da mammina... A poco a poco sarebbe diventata più mammina, più seria... Avrebbe cominciato a dargli dei consigli...

[299] — Bisognerebbe trovargli una moglie..... Una ragazza adattata alla circostanza... Di quelle che non capiscono niente!...

Pensa, ripensa...

— Il conte Luardi, a proposito, deve avere una figlia ancora in collegio..... o appena uscita di collegio...

Il conte Luardi è una buona pasta d'innamorato, uso Carletto e Manòlo.

— Ma come fare a riannodare i rapporti e l'intimità dopo tanto oblio?...

Pensa ancora un momento e ha subito un lampo:

— San Giuseppe!

Il conte Luardi ha nome Giuseppe; fra un paio di giorni, il diciannove di marzo, è San Giuseppe... E il conte Luardi riceve da Borgoprimo, per il suo giorno onomastico, un bel ritratto di donna Stefania a cavallo, «coi migliori auguri di un'amica affettuosa che non dimentica...»


Il brum col Roero, che aspetta alle Grazie, appena salita donna Stefania, con la faccia nascosta [300] da una fitta veletta bianca sparsa di miche lucenti, azzurrine, comincia a fare un lungo giro, che finisce poi secondo gli ordini ricevuti, nelle vicinanze della stazione, dinanzi all'hôtel Firenze.

Il Roero ha messo nel brum una piccola valigetta, assai leggiera, che deve calmare, come li calma in fatti, tutti gli scrupoli del locandiere.

Sono le cinque e mezzo quando escono insieme dall'albergo, sospettosi e un po' inquieti. Donna Stefania, dopo una rapida stretta di mano e un'occhiata che brucia di sotto il velo, si avvia risoluta verso il cuore di Milano, l'andatura ardita e superba, il petto sporgente, il passo rapido e franco da conquistatrice... Il Roero invece, che deve più tardi ritornare alla locanda per il conto e per la valigetta, s'inoltra a caso, passo passo, curvo, dinoccolato, imbronciato e si perde per le vie fangose ancora in fabbrica e i terreni incolti dietro alla stazione. A un tratto si ferma, guarda macchinalmente l'orologio senza nemmeno veder l'ora e dà un grosso sospiro di stanchezza e di scontento.

Il dì dopo, com'era stato convenuto con donna Stefania, va per una visita a Borgoprimo; vi ritorna alla domenica e vi si ferma due o tre giorni; [301] poi da Borgoprimo non torna a Milano, ma va direttamente a Lodignola.

In tutto quel tempo s'era appena intrattenuto alla sfuggita con Lulù e aveva sempre cercato di schivare la signora Eugenia e l'Olivieri. Ma all'Olivieri telegrafa subito, appena a Lodignola: «Ti aspetto domattina, devo parlarti: affari urgenti». Ma poi, dopo un'ora, durante la quale rabbioso, nervoso, furioso, aveva strapazzato il fattore, il giardiniere, il cocchiere, tutti quanti, pensa che invece di parlare coll'Olivieri è meglio scrivere e spedisce subito un secondo telegramma: «Non venire domattina; parto oggi stesso: segue lettera e spiegazioni».

Trovarsi a tu per tu coll'Olivieri?... Sapeva già che cosa l'amico gli avrebbe detto. L'Olivieri avrebbe avuto tutte le ragioni, lui tutti i torti; l'Olivieri avrebbe parlato da uomo serio, di proposito, e lui avrebbe risposto... da bestia. Ma la conclusione quale sarebbe stata?... Disgustarsi, romperla, forse irreparabilmente, certo inutilmente.

E poi... un'altra ragione gli consiglia di scrivere invece di parlare: quella stessa che in quei giorni gli ha fatto sfuggire Lulù. Francesco si sente debole. [302] Forse non è il cuore, sono i nervi; ma non vuol più vedere nè Lulù, nè tutta quella gente. Non potendo più essere come prima, gli farebbe troppo male. E poi, che male!... Tutti quegli occhi pieni di sottintesi, di rimproveri, di lamenti gli darebbero tremendamente ai nervi. È meglio finirla e cavarsela collo scrivere!... E scrive, in fatti:

Carissimo Olivieri,

Poche parole per far più presto. A quest'ora tu sai già che cos'è successo: un po' ti sarà stato riferito, il resto lo avrai immaginato!

... È proprio così; e non parliamone più.

Quand'è così, sono inutili le discussioni, anzi sono pericolosissime e io non desidero farne assolutamente. Per questo, appunto, invece di farti venire a Lodignola, ho preferito scriverti.

Tu per indurmi a cambiar strada, per ammonirmi, per rimproverarmi non potresti dirmi niente che già non mi sia detto anch'io. Ho fatto io per il primo l'esame di me stesso e del mio stato. Ascoltami bene: io non amo quella donna, non stimo quella donna, ma mi piace, ne sono geloso e ne ho paura. Sono debole di cuore e di carattere e ti riassumo la mia condizione presente e la mia vita avvenire in questo: ho finito di fare a mio modo.

[303] Caro amico, nel giudicarmi vi siete tutti sbagliati: e per un momento mi sono sbagliato anch'io credendomi diverso.

Oh le mie aspirazioni alla giustizia, alle riforme, a un nuovo avvenire! Oh tutto il mio lavoro, la mia resistenza al lavoro, la mia fantasia, la mia febbrile attività. Ci siamo tutti sbagliati... ed io più di tutti. Ciò che la buona signora Eugenia, nel facile entusiasmo del suo cuore espansivo, chiamava genio non era altro che una sovrabbondanza di sangue che eccitava il mio cervello. La mia stessa intelligenza, colla sua feconda esuberanza di idee... non era altro che un fatto fisiologico semplicissimo, dovuto all'economia dell'organismo, ad un risparmio anormale di forze. Oggi, cessata la causa, è cessato il fenomeno. Oggi l'esuberanza di fantasia, l'attività, il genio... — addio, mio caro! — Oggi sento che stenterei un'intera giornata per riuscire a scrivere una pagina, per afferrare un'idea... e che penerei un'ora per scegliere un aggettivo.

Concludendo: nessun rimpianto e, soprattutto, nessun rimprovero. Era legge fatale che un giorno o l'altro io dovessi ritornare quello che sono in realtà. È per legge fatale che ogni uomo ha nella vita la donna che si merita ed io ho meritato e merito, appunto, di aver finito di fare a mio modo. Per quanto la signora Eugenia abbia decantato i miei meriti morali, per quanto mi abbia fatto benedire e ribenedire da tutti i suoi vedovi e le sue vedove, io non sono altro che uno scettico dal cuor tenero: penso che il mondo [304] gira e non cammina, e per ciò è meglio lasciarlo girare come vuole, chè, tanto, ritornerà sempre a rifare la stessa strada... e sento che voglio bene ancora a troppe persone, essendomi ormai ridotto per la mia debolezza a non dover fare altro che la felicità e la volontà di una sola.

Questo è il mio testamento morale che ti affido sul punto di passare a nuova vita. Quando avremo occasione di rivederci, lo desidero e te ne prego, non parleremo altro che de' miei affari e, occorrendo, verrò io a cercarti al tuo studio.

Hai già la mia procura. Il mio ragioniere, tutta la mia gente hanno l'ordine di rivolgersi a te, di consigliarsi con te, di dipendere da te, come prima.

E a te pure rimane la tutela degli interessi di Lulù, che desidero sempre affidata alla signora Eugenia.

A Lulù ho assegnato un piccolo capitale, ottantamila lire: questo capitale è già investito in altrettanta rendita intestata al nome di Elena Maria Savoldi. Alla signora Eugenia consegnerai inoltre trecento lire al mese per tutto il mantenimento e l'educazione di Lulù. In fine, da oggi, metto a piena disposizione della signora Eugenia e di Lulù la vecchia casa di Lodignola, dove io sono nato e che fu da me abitata con mio padre, prima che mio padre fabbricasse la nostra villa.

A Lulù farà bene la vita di campagna: e la signora Eugenia diceva sempre che il suo sogno era una villetta con un piccolo giardino e un balcone dove restar seduta a contemplar le montagne. La casa ha [305] un piccolo giardino e un frutteto. Tu vi farai fare tutte le riparazioni e le innovazioni necessarie, compreso il piccolo balcone, che adesso non c'è. E dirai alla signora Eugenia che io non regalo questa casa alla nostra Lulù per due ragioni: la prima, perchè la casa paterna non si cede a nessuno; la seconda, perchè desidero che Lulù, anche lontana, resti sempre in casa mia.

Ed ora una stretta di mano e un abbraccio.

... Ricordi le tue profezie di due anni fa?... In un punto solo hai sbagliato: tu non hai perduto un amico....

E nello scrivere l'indirizzo: «all'avvocato Olivieri, Milano», gli occhi del Roero erano pieni di lacrime.

[307]

PARTE QUARTA

LA SIGNORINA

[309]

I.
La casa vecchia.

La vecchia casa del babbo Roero spicca tutta bianca sull'alto della collina e al primo raggio di sole, pei vetri del piccolo balcone, riscintilla fra i glicini rampicanti e i vasi di garofani rossi e sorride fresca intima e semplice al cospetto dell'altra villa Roero, ampia nuova sontuosa, che si adagia laggiù in mezzo al piano verde del parco.

Le finestre della casetta sono sempre tutte aperte, quelle della villa sempre tutte chiuse. Nella villa, nel parco immenso passeggia soltanto qualche volta il custode, oppure lavora il giardiniere co' suoi uomini, ma per lo più tutto il recinto rimane silenzioso, disabitato: non vi gironzano altro che due grossi cagnacci col pelo rossiccio che fanno [310] la guardia muovendosi lentamente, col testone basso, colla coda bassa, immusiti e brontoloni come due vecchi gottosi. Invece il piccolo giardino e il brolo della casetta sono pieni di vita e di moto; si vede correre, saltare, cantare, ridere una bella fanciulla in cui sbocciano come rose i diciott'anni irrequieti e chiassosi. E ridendo e scherzando e giocando e cantando e cogliendo fiori nel giardino e divorando frutti nel brolo, ella chiama «mamma, mammina, mammetta,» o «signora Eugenia, cara cara» una vecchia signora coi capelli tutti riflessi d'argento, alta e ancora elegante e piacente per la calma serena degli occhi intelligenti e indulgenti e per tutto ciò che è rimasto in lei e che spira da lei di fresco, d'intatto, di giovanile. La bella vecchia, vestita di nero, col solino di una candidezza immacolata, stretto alla gola, è sempre affaccendata attorno alla bella giovinetta o la tien d'occhio dal balcone; ride e scherza con lei e le dà queste terribili strapazzate:

— Elena! Elena! Gioia! Basta adesso! Fa troppo caldo! C'è troppo sole! Ti farà male! Vieni un po' in casa! Vieni un po' su con me!

— Mammina, mammetta, mammuzzoli, adesso non vengo!

[311] — Ma, Elena, gioia, basta mangiar frutta! Basta! Non avrai più fame a colazione!

— Anzi, tutt'altro!... Le frutta mi mettono appetito!

— Insomma, basta! Vieni subito in casa o vado in collera!

— Eccomi! Eccomi, signora Eugenia! — Cantando, la giovinetta attraversa il giardino, imbocca l'uscio, piglia di corsa le scale e si precipita addosso alla vecchia signora con una pioggia di baci impetuosi, che la soffocano e la stordiscono.

— Basta!... Basta anche coi baci!... Auf! Che tormento! — E così dicendo la signora Eugenia ride mostrando tutta la sua compiacenza e ancora tutti i bei denti bianchi. — Sei diventata grande... ma sei rimasta sempre Lulù: anzi sei diventata più Lulù di prima.

La signora Eugenia ha ragione: adesso la signorina Savoldi la chiamano Elena.... ma è rimasta Lulù; più che mai Lulù; buona, cara e ancora un pochino capricciosa. A diciott'anni, non è diventata molto alta, anzi è un po' piccoletta, tarchiatella. È sana e forte, bianca e rossa e ben proporzionata. Ha i capelli nerissimi che si ravvolgono [312] in una massa ondulata e indisciplinata sulla testolina rotonda; ha gli occhi nerissimi e fulgidi. Per la signora Eugenia non c'è al mondo una ragazza più bella; la Luisa l'ammira incantata, tutti le vogliono bene.

Appena è in casa e quando è ora di studiare o di lavorare, la signorina Elena si calma e diventa seria e più che la figliuola o l'allieva, appare ormai la compagna e l'amica della signora Eugenia. Leggono insieme, studiano insieme, lavorano insieme, e hanno molto da leggere, da studiare e da fare.

I primi studi, la signorina Elena li ha cominciati a Milano, e allora a Lodignola, non venivano, lei e la signora Eugenia, altro che alle vacanze; ma poi la naturale inclinazione, le attrattive della campagna, della libertà, della bella casetta tutta per loro due sole, dell'aria, della luce, dei prati, dei fiori, le avevano indotte ben presto a stabilirsi a Lodignola.

— Io potrò insegnarti tutto quel pochissimo che so, — disse la signora Eugenia alla sua allieva, — e il resto lo studieremo insieme.

In fatti, adesso, studiano insieme le lingue, — meno [313] il francese, che già lo parlano tutt'e due benissimo, — e imparano a conoscere sui libri, il mondo e gli uomini.

E con quanta passione, con quanto spirito di emulazione! Però la signorina Elena è la più pronta e la più brava, e la stessa signora Eugenia, orgogliosa, lo dichiara per la prima.

A diciott'anni la signorina Elena è benissimo educata, senza affettazioni, senza smancerie; è coltissima, senz'essere pretenziosa e pedante. E non suona il pianoforte.

— Oh, questo no! Il pianoforte no! — Aveva detto l'Olivieri, sempre consultato sull'istruzione della giovinetta. — Il pianoforte no! È uno dei primi fattori dell'odierno decrescere dei matrimoni, perchè fa odiare le ragazze da lontano!

Invece tutti vogliono bene alla signorina Elena, anche quando vanno in furia contro di lei e la chiamano Lulù!

— Sei sempre Lulù!.... Diventi ogni giorno..... più Lulù!

Tutti adorano la signorina Elena-Lulù..... e qualcheduno, più d'uno, comincia anche ad amarla, proprio d'amore.

[314] Ma di questo Lulù ne ride e la signorina Elena non ci pensa.

Il suo cuore, il suo essere, sono già presi e occupati, fino dai tempi più remoti.

Quando cominciò a susurrare in lei il primo canto della bella poesia della vita?... Ella non ricorda, non sa. Forse per lei si schiusero insieme la vita e l'amore.

Saper voler bene non è da tutti; anzi, è rarissima dote: e la signorina Elena sa voler bene. Ella ricambia la grande tenerezza, l'adorazione della signora Eugenia; sente amicizia, affetto, gratitudine per l'avvocato Olivieri, ma il suo bene per il signor Francesco è tutt'altra cosa: è poesia. La poesia che trasfonde luce e colore in chi è amato, che lo esalta, che lo innalza su su, fino al settimo cielo.

Non lo vedeva mai! Erano anni ch'ella non vedeva più il signor Francesco Roero e però la sola immagine che rimaneva sempre fissa in lei era quella del signore elegante, di dieci anni addietro; egli restava sempre anche per la signorina Elena il «Cochi bello» di Lulù!

E quante volte la mattina, appena alzata e [315] aperta la finestra, ella rimane ritta, immobile appoggiata al davanzale, cogli occhi fissi laggiù, in mezzo al piano verde del parco dove si adagia la villa Roero, tutta chiusa, abbandonata dal suo padrone.... E quante volte interrompe quella sua contemplazione con un sospiro e un fremito, e passandovi adagio la mano sotto i capelli, sulla nuca, risente ancora la carezza morbida dei baffi odorosi e il calore del bacio. E come rimane in lei ancora evidente, viva l'ultima impressione, quella dell'hôtel de la Ville! Cochi, il suo «Cochi bello», le era stato portato via da quella cattiva signora alta e bionda.... la nemica sua. Sì, adesso aveva saputo tutto, un po' dalla mammetta, un po' dall'avvocato.

La nemica sua, perchè anche la baronessa Arcolei era di quella gente contro la quale il suo povero papà si era scagliato in battaglia e aveva persa la vita!

A questo pensiero, mentre Elena fissa la villa abbandonata, e dove soli i due grossi cani rossicci gironzolano lenti, dinoccolati, col muso basso, il suo cuore si stringe dolorosamente, e i suoi occhi si riempiono di lacrime. È malinconico l'aspetto [316] di quella villa.... e deve essere ben malinconico anche il suo padrone! Tutta così chiusa, quella villa le sembra una prigione e lei pensa che anche il signor Francesco, il suo Cochi, è prigioniero, schiavo di quella donna cattiva, alta e bionda. No, no, lui non poteva essere felice! Era lontano dalla sua felicità; soltanto lì con loro, lì, in mezzo a loro, adorato da tutti loro e amato da lei, soltanto lì, egli sarebbe stato felice! Ed Elena, ripensando ai tempi in cui era Lulù, ripeteva sorridendo come Lulù:

— Io ti sposo!

Oh che gioia se avesse potuto vedere per un sol giorno aperte, spalancate le finestre di quella villa! L'opprimevano quelle finestre sbarrate, quel silenzio dell'abbandono!

Non aveva più veduto il signor Francesco da due o tre anni. Prima, a Milano lo vedeva, qualche volta, ma assai di rado.

Ella però gli scriveva a Natale, al suo giorno, due o tre volte nell'anno. Ma che lettere insipide! Ciò che ella gli avrebbe voluto dire: «venga» o «vieni», «torna» o «torni», non glielo poteva scrivere dunque.... Dunque non erano lettere! [317] Faceva un bel componimento, col suo più bel caratterino, da sottoporre all'approvazione della signora Eugenia, ed all'ammirazione dell'avvocato Olivieri.

— Eh! eh! — La signorina Elena ride con una certa furbizia quando pensa fra sè: — Anche la mammetta ha un gran debole per il signor Francesco!... Ogni volta che ne parla, si riscalda, si entusiasma, le vengono le vampe alla faccia! Sembra che ritorni più giovine e più bella! E come anche la mia mammetta detesta quella donna Stefania! Stefania?... Che nome.... da vecchia! La mia mammetta non la nomina mai quella Stefania, nemmeno per isbaglio.... ma se parlan di lei, istintivamente aggrotta le ciglia! Cara! Cara! La mia mammetta cara!

— Ma però dev'essere molto astuta quella Stefania! Che arte deve avere!... Come si potrà mai fare per poter diventare così padrona di un uomo?... Del più bello... del più simpatico... del più degno di essere amato!... — Ed Elena dimentica Stefania e pensa solo a Francesco; non odia più, torna solo ad amare.

— È molto più bello anche dell'Olivieri! Molto [318] più bello, molto più elegante, molto più giovine, molto più chic! Povero signor Olivieri! — La giovinetta sorride come prima con una certa malizietta... ma con una punta d'ironia più acuta, più spietata.

— Continua a vantarsi con me di essere più giovine di due anni del signor Francesco!... Povero avvocato!... Gli faccio una grande impressione. Ma... impossibile! È buono, quasi come la signora Eugenia, gli devo molta riconoscenza e gli voglio molto bene... potrà fare il paio per me colla mammetta. Ecco, sarà per me un signor Eugenio, ma niente di più!... Che begli occhi ha il signor Francesco, profondi, dolcissimi... Quando guardano accarezzano come un velluto! Come sta bene in cilindro e in stiffelius! E che belle mani!... Mi piacciono gli uomini forti che hanno le mani bianche e delicate come una signora! Le mani dell'avvocato, poveretto, come invece sono grosse e corte! Bruttissime mani!... Povero avvocato!... Da qualche tempo fa sforzi inauditi di eleganza, ma non ci riesce! E come gli secca proprio per me, di diventar calvo! È tanto buono, povero Olivieri!... Ma pure deve accontentarsi di essere buono, senza [319] voler anche diventar bello! Io per altro... Io sì; faccio colpo! E ho fatto colpo anche al signor Francesco!

Elena alza, stende le braccia e sorride a questo pensiero, deliziosamente. Ella si sente forte: è la giovinezza che le martella nel sangue, che tutto rischiara e illumina d'intorno a lei e che corre in lei con un gorgoglio fremente di gaudi e di promesse.

Sì, l'ultima volta che si sono incontrati a Milano, nello studio dell'avvocato Olivieri, il signor Francesco è rimasto colpito.

— Come sei diventata bella! Sei diventata molto bella! — Glielo ha proprio detto!... E l'ha fatta ridere. Ma poi, ha continuato a guardarla senza più dirle niente e l'ha fatta arrossire.

— Bella, molto bella! — Ripete Elena di sovente quando è sola in camera sua, e pensa: — Allora avevo quindici anni, appena; ne sono passati altri tre! E adesso?... Bella o brutta?

Si affaccia allo specchio, si guarda... Alza, stende le braccia... e la giovinezza canta, in un sorriso, il suo trionfo.

— Ma lui è lontano, sempre lontano! Non lo [320] vedo più! Oh se venisse a Lodignola! Se si fermasse per qualche giorno a Lodignola!... Allora, allora sì!

Elena, oltre ad una grande tenerezza, ha riposto una assoluta confidenza nella signora Eugenia: non ha segreti per lei... tranne uno. Non le ha mai detto che tutto quanto era rimasto di Lulù nella signorina Elena, era la volontà di sposare il suo Cochi!

Molte volte è stata tentata, ma non ha mai osato domandarle se fosse proprio vero che le bionde piacessero agli uomini molto più delle brune.

Era questa la sua inquietudine e la sua preoccupazione.

Se fosse stato vero, guai! Lei, così nera, avrebbe finito col fargli ribrezzo!

Si guardava, si guardava, e la leggerissima peluria vicina alle tempie la tormentava, e quella più fitta, che imbruniva la nuca, sotto i capelli, era il suo spavento!

Dio! Dio! Se proprio non gli piacevano che le bionde, ella gli avrebbe fatto orrore!

Ma se non parla mai del «Cochi di Lulù», se non fa mai nessuna domanda a proposito delle bionde, per altro, del signor Francesco parla anche [321] lei e sarebbe impossibile farne a meno perchè a Lodignola ne parlano tutti, e lì, nella casa vecchia, è sempre lui l'argomento dei discorsi più importanti.

Francesco Roero, anche non andandovi mai, è amato a Lodignola e vi è diventato popolare; un po' per merito suo, molto per merito della signora Eugenia e dell'Olivieri.

A Milano, il Roero ha finito per accettare la carica di consigliere comunale, secondo le intenzioni di casa Arcolei. Il suo seggio è quindi fra quelli della maggioranza conservatrice, ma verso sinistra... tutto quanto gli è stato possibile. L'antico autore di Vae Victis è rimasto frondeur e qualche volta diserta o rompe le file... Ma troppe altre volte subisce l'ambiente sino al punto di rassegnarsi, quasi inconsapevole, alla parte di correttore della prosa ufficiale di palazzo Marino, di estensore di aulica retorica da manifesti e da indirizzi e — chi mai glielo avrebbe detto! — persino di anonimo polemista.

Per sottrarsi, fin dove gli riesce, alla politica militante, che non è la sua, si consacra più volentieri alla beneficenza cittadina. Ma, ahimè! quale abisso fra i suoi audaci ideali di previdenza e di [322] solidarietà umana e la gelida e burocratica funzione elemosiniera che gli è permesso di compiere, usata ora come un freno, ora come un correttivo, più di sovente sfruttata come una imposizione, come una moneta spicciola di supremazia di casta!... De' suoi ideali, il Roero non parla, non scrive più, non si occupa più, non osa più guardar loro in viso, neppure nell'intimo suo, ma in compenso gran parte de' suoi redditi finisce a Lodignola fra le mani intraprendenti e sapienti dell'avvocato Olivieri e della signora Eugenia, che colle ricchezze del neo-commendatore, caro ai difensori della proprietà e dell'ordine, vanno applicando e svolgendo in nome suo tutto un programma di socialismo pratico ed umanitario, fra quella buona gente di campagna.

Così, ed è anche giustizia, tutto il bene fatto dall'Olivieri e dalla signora Eugenia, tutto ciò che riescono a creare, a fondare, a istituire, è attribuito all'iniziativa di Francesco Roero, è messo sotto il patrocinio di Francesco Roero, porta il nome di Francesco Roero.

L'Olivieri e la signora Eugenia hanno trovato nelle tenute del Roero le consuetudini pressochè [323] feudali dell'epoca spagnolesca... le consuetudini che, pur troppo, sussistono tuttora in gran parte della Lombardia, e un po' dappertutto. I coloni sono giorno per giorno sfruttati dai fittabili o dai fattori che, pur condannandoli a fatiche improbe, rubano sul loro meschino salario anche più di quel che poi rubino sugli utili al proprietario e li fanno vivere abbrutiti, in case inabitabili, senza aria e senza istruzione, ignoranti perciò e superstiziosi, schiacciati moralmente e fisicamente.

Essi assistono, insomma, al trionfo inveterato di una grande e continua iniquità, che non è neppur compresa da chi la compie e accascia in un sordo livore i disgraziati che la subiscono.

Ebbene, la signora Eugenia, coll'aiuto morale dell'Olivieri e coll'aiuto materiale del signor Francesco, si è assunta, nel nome di questi, l'applicazione pratica, quotidiana, e illuminata della giustizia e della provvidenza.

Senza sapere affatto che l'istituzione va maturandosi, compone una specie di collegio di probiviri, fatto delle persone più autorevoli del paese, le quali esaminano e compongono i dissidi e impediscono le spogliazioni, fissando con energica e intelligente [324] equanimità i rapporti fra imprenditori e salariati dell'industria agricola.

Destando così le buone volontà intorno a sè, e sempre coi consigli dell'Olivieri, l'antica direttrice delle scuole di S. Celso porta un aiuto efficace all'istruzione, oltre le classi elementari, perchè i ragazzi dei contadini, dai dieci anni in su, non ritornino a mano a mano all'ignoranza e all'avvilimento di prima. Quindi lezioni e scuole serali, domenicali, invernali, quindi diffusione di buoni libri nelle case, libri di educazione, e libri d'istruzione agraria, istruzione pratica pei giovinetti, e infine creazione del podere «Francesco Roero», un podere modello, vastissimo e ricchissimo, ove si provano tutti i progressi dell'agricoltura, nuove macchine, nuove colture, nuovi sistemi. Al podere vanno annessi, mercè l'Olivieri, un gran caseificio cooperativo, e una latteria sociale.

Lodignola, così trasformata, non può più essere il borgo perduto tra i campi, al quale non si arriva che colla diligenza. Deve essere congiunta a Milano col tram a vapore, ed è per ottenere questa nuova linea che da un paio d'anni l'Olivieri non si dà pace.

[325] La casa vecchia di babbo Roero a Lodignola... è un po' la casa del Governo. I vari rami dell'amministrazione di quel minuscolo Stato della filantropia moderna risiedono nella casetta bianca, sull'alto della collina. Lassù vengono divise le varie ingerenze, di là partono gli ordini, e all'occorrenza i soccorsi. Tutto ciò che si riferisce alle scuole, all'istruzione, al personale del caseificio, dipende direttamente dalla signora Eugenia e dalla signorina Elena: il resto è sotto la giurisdizione speciale dell'avvocato Olivieri. Segretario e factotum delle signore, come dell'avvocato, è il figlio del fattore, un bravo giovinotto e anche un bel giovinotto, un po' rustico di modi, ma attivo e intelligente, e che tutti a Lodignola chiamano il Nino Moro per la faccia bruna e i capelli folti e crespi come un africano. Il Nino Moro che ha finito l'Istituto tecnico a Milano, è tornato a Lodignola col cappello a cencio sulle ventitrè, la cravatta rossa e la testa intronata e confusa da molte idee mal digerite sul patto sociale, la lotta di classe e il collettivismo marxista. Idee poi che invece di diventar chiare e ordinate, fermentano sempre più bislacche nel suo cervello, per la vicinanza [326] appunto della signorina Elena Maria, della quale il povero Nino comincia a innamorarsi in segreto, disperato e rabbioso contro le ineguaglianze sociali.

Sono due i cuori che ardono segretamente per la signorina e se, fra tante fiamme, la buona e candida signora Eugenia pur rimane all'oscuro, Elena invece ha indovinato subito e perchè l'avvocato diventi sempre più brontolone e permaloso e perchè il Nino Moro si faccia sempre più fosco e più... collettivista!

— Ho capito! — Pensa Elena, sorridendo birichina come Lulù. — Ho capito! Io non sono nata per mettere gli uomini di buon umore!... Oh, se potessi rendere un po' rabbioso anche quell'altro!

Sente una soddisfazione intima, segreta, anche un po' egoista per quel suo potere, per quel forzato omaggio che vien reso da due uomini, i soli che l'avvicinino, alla sua bellezza ed al suo fascino; e ne gioisce, ma fantasticando dietro a quell'altro che non vede più e che pure un giorno, presto o tardi, dovrà rivedere....

Però non ha da rimproverarsi la minima civetteria. Capisce tutto, ma gli altri due credono invece che non abbia capito niente. Onesta e fiera, non [327] lascia nè vuol lasciar sussistere il più leggero inganno. Sempre Lulù e nient'altro che Lulù per l'Olivieri; sempre la signorina, buona, affabile, gentile, ma sempre la «signorina» per il Nino Moro.


Grandi affari vanno maturandosi in quei giorni nella casa vecchia: la linea del tram a vapore da Lodignola a Milano, e la festa dei saggi scolastici e delle premiazioni. Per il tram, l'avvocato Olivieri, aiutato anche in questo dal Roero, ha già costituito il Comitato promotore e ha quasi raccolto tutto il capitale in azioni, mentre il Nino Moro ha lavorato e corso intere settimane cogli ingegneri, per fissare e rilevare il primo tracciato della strada. La signora Eugenia e la signorina Elena sono invece in grandi faccende per la festa delle premiazioni.

È vicina l'ora del pranzo; si aspetta da Milano l'Olivieri, il quale deve aver conferito appunto col signor Francesco pel tram a vapore, e nella saletta da pranzo, le signore danno gli ultimi ordini [328] alla Luisa, che in quei dieci anni è diventata lunga e magra come una pertica, ha sposato Giovanni ed è già rimasta vedova... e chiacchierona.

La signora Eugenia è seduta alla scrivania e discute animatamente con Elena a proposito dei premi. La signora Eugenia vuol dar libri; la signorina Elena, che è la passione di tutte le ragazze di Lodignola, vuol dare vestiti; la Luisa, come sempre, senza mai volerne convenire, è del parere della signorina.

— Un bel libro è sempre il più bello dei premi! — Sentenzia la signora Eugenia, alzando la testa dai conti e accomodandosi gli occhiali che non le vogliono stare sul nasino profilato.

— Bel premio, un libro da studiare! — Esclama ridendo la signorina Elena.

— Un premio ha da essere un premio e non un castigo! — Brontola la Luisa, levando la tovaglia e i tovaglioli dalla credenza.

La signora Eugenia fa un moto di stizza, si distrae, perde il filo della somma che sta facendo, torna da capo scrollando la testa, bisbigliando i numeri a fior di labbro e segnandoli colla punta del lapis. Poi si toglie dal viso gli occhiali e si volta.

[329] — Non si tratta già di regalare un libro soltanto di studio, un libro noioso!

— Oh scusi sa! — Ribatte ancora la Luisa. — In confronto di un bel vestito, tutti i libri sono noiosi!

— Sta zitta! Non sai niente e non capisci niente!

Elena ride — Ha già fatto la scelta la mammetta!... Sai Luisa?... La mammetta ha già fatto la scelta! Dica un po'... — Ed Elena, sempre ridendo, si avvicina alla signora Eugenia che per precauzione torna a levarsi gli occhiali. — Dica un po', ha deciso tra i divertentissimi Ricordi di Massimo D'Azeglio e i Promessi Sposi?...

— Un bel vestito per trovarselo lo sposo, altro che Promessi Sposi! — Mormora ancora la Luisa.

La signora Eugenia aggrotta un momento le ciglia ed Elena al solito, le salta addosso coprendola, soffocandola sotto i baci, mentre continua a ripetere cantando: — La mammetta si arrabbia! La mammetta va in collera! Va in collera! Va in collera!

— Gli occhiali! Sta attenta! Gli occhiali! — Geme la signora Eugenia alzando la mano cogli occhiali. Poi, quando Elena è stanca, si sforza per [330] tornar seria ed assume un tono severo che non fa paura a nessuno.

— Coi baci... non devi creder sempre di accomodar tutto e di farti perdonar tutto! Questa volta hai torto, tortissimo. Anche tu dovresti invece aiutarmi nel far loro amare i libri!

— Sicuro, ma per farli amare, bisogna farli desiderare!

In quel punto, una carrozza entra nel cortile.

— L'avvocato! L'avvocato! — Elena corre alla finestra a vedere e poi si volta verso la signora Eugenia: — È proprio l'avvocato! Faremo giudicare dall'avvocato!

— Brava! Un altro famosissimo per darti torto! — La signora Eugenia sorride colla sua ironia bonaria, chiude nel tiretto della scrivania i libri dei conti e si alza per andare anche lei alla finestra a salutare l'Olivieri.

— Ben arrivato! Bravo! È stato di parola! Lo si aspettava a pranzo!

L'avvocato che sta per scendere dal legnetto alza gli occhi verso la finestra, levandosi il cappello.

— Non ho ragione? — Gli domanda Elena ad alta [331] voce. — Non è vero che per farsi amare bisogna farsi desiderare?

— Oh, ci vogliono tante cose per farsi amare!

L'Olivieri, che al primo vedere la fanciulla aveva sorriso, torna serio a queste parole e quasi imbronciato, scende pesantemente dalla carrozza. Non ha ancora quarant'anni, ma è molto invecchiato. È troppo grasso, colle spalle incurvate, comincia a diventar calvo, ha la barba folta, rotonda, brizzolata.

Sono corse tutte giù per incontrarlo e fargli festa, ed anche la Luisa per prender la valigia e l'altra roba.

Corre per staccare il cavallo anche Nicodemo, un ometto ancora rubizzo, l'ortolano, il giardiniere, il cocchiere, ed anche il servitore della casa vecchia.

È una folata di voci allegre, di risa, di saluti, che circonda l'Olivieri, mentre egli leva dalla carrozza prima i pacchi e i pacchettini inerenti alle commissioni eseguite a Milano, poi le ceste e le scatolette dei regali che l'avvocato porta alle signore.

— Ti sei ricordato i cioccolatini di menta? — Gli domanda Elena, sempre un po' golosa.

[332] L'avvocato la guarda di traverso, e presentandole un'enorme scatola di dolci, borbotta come se le offrisse del veleno:

— Qui ci sono cioccolatini di menta, cioccolatini di vaniglia, cioccolatini d'arancio, cioccolatini al pistacchio, al croccante, al caffè, al rosolio...

— Che bravo! — Elena prende lo scatolone con un salto di gioia. — Ma guarda se mi devi regalare tante dolcezze... con quella brutta faccia!

L'avvocato non può a meno di ridere e ride anche la signora Eugenia.

Elena lo afferra per il soprabito e subito gli sottomette il gran quesito del premio: il libro o l'abito.

Povero Olivieri! Ha vicino quel bel visetto, quegli occhi, quei capelli, quella bocca, sente quel profumo caldo dei diciott'anni..... Come potrebbe darle torto? Anche lui vota per il vestito, poi, sentendo la Luisa che dall'alto della scala chiama: «In tavola, signori!», passa nella stanza terrena riservata a lui nelle gite frequenti a Lodignola per lavarsi in fretta e darsi una spazzolata.

Quel giorno l'Olivieri, oltre le provviste e i regali, ha portato molte novità.

[333] È stato dal Roero ed è soddisfattissimo della visita. Ne parla subito, mentre rigirando il cucchiaio nella scodella, lascia che la minestra raffreddi:

— Ormai, per la linea del tram, siamo in porto. Ho con me l'atto costitutivo della Società. Francesco questa volta ha fatto miracoli! Mi ha procurato una grande quantità di firme e tutte di persone influentissime. Ora tocca a noi, per le altre, qui nei paesi interessati. Il Nino Moro è stato avvertito del mio arrivo?

— No, — risponde la signora Eugenia. — Credevo sempre di vederlo, e invece sono tre sere e anche più che non si fa vivo.

— Bisognerebbe farlo chiamare.

— Da un po' di tempo quel ragazzo mi sembra cambiato. Una volta era sempre qui, adesso invece bisogna mandarlo sempre a cercare!

— Già! Precisamente! — L'Olivieri approva col capo la signora Eugenia. — Anch'io lo trovo molto cambiato! È diventato irascibile, puntiglioso... Una volta capiva le cose per aria, adesso non capisce più un'acca e in compenso risponde di traverso.

[334] Tutti e due, l'Olivieri e la signora Eugenia, guardano un momento Elena, come in atto d'interrogarla, di sentire in proposito anche il suo parere. Ma la signorina Elena, la quale sa benissimo perchè il Nino Moro è diventato un altro, continua quietamente a mangiare con appetito il pollo alla cacciatora facendone ben scricchiolare gli ossicini.

È per lei che il Nino Moro sta lontano dalla casa vecchia; per vederla il meno possibile e poter guarire, dimenticarla.

Elena, in questo, gli dà ragione; il Nino Moro mostra di aver giudizio, e lei lo stima anche di più.

Intanto l'Olivieri ha cominciato un altro discorso... e lei, pur non perdendo il buon appetito, sente il sangue che ora le monta alla testa, ora le fa un tuffo, e la fa diventare rossa rossa.

La signora Eugenia se n'accorge, ma crede sia effetto del caldo e del pranzo.

L'avvocato parla con aria di mistero, con circospezione, fissando la signora Eugenia e commentando le parole coi cenni e le strizzatine d'occhio. Tutto ciò per Elena che non deve capir niente di quei discorsi, ed Elena, in fatti, da signorina ben educata, sembra tutta dedita a preparare il [335] solito piatto di bucce e di torsoli per un povero coniglio zoppo che ha preso sotto la sua protezione.

— Sicuro, signora Eugenia! — Grande occhiata espressiva dell'avvocato. — Don Giulio è ammalato seriamente, pare, di nefrite. La moglie, da vera moglie modello, sempre, — altra occhiata che colpisce in pieno come in un bersaglio la faccia attonita e intenta della signora Eugenia, — da vera moglie esemplare, lo cura, lo veglia giorno e notte e a Borgoprimo sono sospesi i ricevimenti... anche degli amici più intimi.

Elena si alza, dà alla Luisa il piatto da portare al coniglio e va alla credenza, dove voltando le spalle alla tavola si mette a preparare il caffè.

La signora Eugenia e l'Olivieri, sentendosi più liberi, aumentano i cenni e le occhiate esplicative.

— Già, appunto... Francesco... non avendo da fare a... Milano... e nemmeno a.... — soltanto colle labbra dice «a Borgoprimo» — verrà probabilmente per qualche giorno a Lodignola.

Sulla credenza si sente un forte tintinnio argentino: un cucchiaio è caduto di mano ad Elena, nel vassoio di metallo.

Anche la signora Eugenia ha gli occhi scintillanti e ripete contenta:

[336] — Il signor Francesco?... a Lodignola?

L'Olivieri le impone la calma, con un'occhiata... sempre per non suscitare sospetti nella signorina.

— Sicuro! Come le ho detto, e trovandosi pel momento disoccupato, si interessa molto alla linea del tram...


— Buona sera, signori!

— Oh, buona sera, Nino!

— Arrivate in punto a prendere una famosa tazza di caffè! Oppure, senza complimenti, — domanda sorridendo la signora Eugenia, — preferite un bicchier di vino?

— Nè vino, nè caffè, grazie! — Risponde in fretta un po' bruscamente il Nino Moro, che non ha guardato dalla parte di Elena, ma che la sente muoversi alla credenza, ed è già tutto in orgasmo. — Sono venuto a prendere gli ordini per domani e poi torno a casa, perchè è a momenti ora di cena. Da noi si cena presto.

— Sedetevi almeno un minuto! Se non volete nè il caffè, nè il vino, prendete un bicchier di vermut, vecchio! Squisito!

[337] La signora Eugenia abbonda in offerte e in garbatezze. — Può darsi, — pensa fra sè, non sapendo spiegarsi il cambiamento del giovinotto — che io qualche volta senza accorgermi non sia stata con lui abbastanza gentile. Luisa!

— Non c'è! — Risponde Elena sempre dalla credenza. — È andata un momento nel brolo col piatto del coniglio.

— Allora fa il piacere, porta tu il vermut.

— Subito, mammetta! — Elena, calma e sorridente, mette con grazia signorile un bicchierino dinanzi al giovinotto che si alza e ringrazia confuso, e gli versa il vermut con mano fermissima.

Intanto l'Olivieri riferisce anche al Nino Moro tutto ciò ch'egli ha ottenuto a Milano pel tram a vapore.

Ma il giovinotto, invece di mostrarsi soddisfatto, sfodera una quantità di critiche, di timori, di difficoltà. Si direbbe gli dispiaccia che l'Olivieri riesca nel suo intento, e cerchi ogni pretesto per contrariarlo e litigare.

L'Olivieri per un po' cerca di persuaderlo, poi perde la pazienza ed alza la voce.

— Lei non ha da discutere, nè da approvare. [338] Domattina inforchi la sua bicicletta e via. Nicodemo porterà la nota dei nomi e lei andrà dove deve andare per le firme.

— Sissignore. Buona sera!

Il Nino Moro, i cui occhi hanno un lampo nella faccia bruna, ripete: — Buona sera! — E se ne va in furia guardando la signora Eugenia e non guardando la signorina.

L'Olivieri è seccato. Passeggia in su e in giù per la saletta, borbottando:

— Villani ignoranti! La cravatta rossa, arroganza e prepotenza, ed ecco per loro il socialismo!

La signora Eugenia ride e mette pace:

— Un ragazzo; un povero ragazzo!

Escono tutti insieme a far quattro passi, nel fresco della sera.

Elena si è attaccata, saltellante, al braccio dell'Olivieri. Egli si lascia prendere un po' in giro per la bianca luna che gli vien sorgendo tra i capelli radi, e pur borbottando è quasi felice.


— No, — pensa Elena sorridendo fra sè, mentre [339] entra e si chiude nella sua camera. — No, povero Nino! Non è il socialismo che lo rende furioso... È invece la gelosia; è geloso dell'Olivieri! Che matto!... Ma non capisce che non amo l'Olivieri, che non lo amerò mai?

Dopo averla fatta ridere, quella gelosia così male a posto finisce per irritarla istintivamente.

Ella non ama l'avvocato, non lo avrebbe mai amato, dunque... perchè l'altro diventava geloso?.. In questa irritazione c'è anche un senso arcano di pudore; e fra il geloso e l'oggetto della gelosia, tra il Nino Moro e l'Olivieri, l'Olivieri finisce ad esser quello dei due che ha il torto maggiore. Il povero Nino soffriva, doveva soffrire molto! Amare e non essere corrisposto doveva essere certo un gran martirio!

— Ma e d'altra parte, che cosa io ci posso fare? Non amerò mai neanche lui; dunque?... A quella semplice interrogazione tutto il suo cuore, tutto il suo sangue, rispondono no; nè l'uno, nè l'altro; impossibile.

Per un istante la faccia turbata del povero Nino suscita in lei un senso di compassione.... Ma scompare presto.

[340] Gli innamorati non corrisposti fanno più dispetto che compassione....

— No! No!... Mai! Mai!... — Ed ha come un brivido, una rivolta di tutta sè stessa.

Va a chiudere la finestra, la notte è chiarissima e la villa, laggiù in mezzo alla macchia buia degli alberi del parco, s'intravede misteriosa, fantastica e romantica. Spogliandosi lentamente, ella continua a vederla.

— Forse verrà!... Egli verrà.... Oh se venisse davvero a Lodignola!... Intanto, adesso a Borgoprimo non c'è! In questo momento non è con lei!... È il primo momento in cui sono sicura che non è con lei!...

Elena ride di gioia.... Salta sul letto, si caccia, sotto, ha ancora un sussulto, un fremito.... è felice.

— Verrà!... Forse verrà!... — Continua a pensare, a pensare a quella donna cattiva, alta e bionda.... Con che aria di trionfo l'aveva veduta uscire quella volta, l'ultimo giorno, dalla camera dell'hôtel de la Ville....

Come aveva fatto quella vecchia Stefania ad impadronirsi di lui.... in quel modo?

— Oh, se egli venisse qui a Lodignola, con me!....

[341] Il sonno a poco a poco si avvicina.... ed ella vede sempre la villa, ma adesso la vede in mezzo al piano verde, colle finestre tutte aperte, spalancate.... È piena di voci, piena di gente, coi due grossi cani che corrono, saltando dall'allegrezza, incontro a lui, al signor Francesco, a Cochi.... Il sonno la prende ed Elena si stende con un sospiro e si addormenta come Lulù, mormorando: «Io ti sposo».

[343]

II.
Malinconia.

In quell'estate, col gran caldo, la signora Eugenia ha cominciato a prendere un piccolo vizio: dopo colazione siede nell'angolo fresco della finestra, sotto la scrivania, sfoglia un vecchio fascicolo della Revue des Deux Mondes, e poi subito — trac — piega la testa e fa il suo bravo pisolino d'una mezz'oretta.

Un giorno, per altro, mentre la Revue le è appena caduta dalle mani sulle ginocchia, è destata bruscamente da un'interrogazione della Luisa.

— Ma lei, signora, dica un po'... non ha proprio capito che cosa c'è di nuovo?

— Capito?.... Di nuovo?.... Che cosa c'è?

La Luisa, che ha quasi finito di sparecchiare, [344] si avvicina con aria di mistero, ripiegando un tovagliolo:

— Ma sicuro! Non ha capito il vero motivo di tutte le lune, di tutte le stranezze del signor Nino? Non ha ancora capito niente?

— Io no... cioè sì! A Milano gli hanno montato la testa colla politica!

— Ma che politica! Ma che Milano! Qui! — La Luisa abbassa la voce, e si curva un poco, parlando all'orecchio della padrona: — La signorina Elena!

— Come?...

— È innamorato morto della signorina!

La signora Eugenia, che alle prime parole aveva spalancato gli occhi, balza in piedi spaventata.

— Diventi matta!... Non farti nemmeno sentire! — E guarda dalla finestra, inquieta, spiando il ritorno di Elena che è andata nel brolo a portare al coniglio il suo piatto di bucce.

— Non sono matta, no! Soltanto, io ci vedo bene, e lei, invece, ha bisogno di occhiali.

— Di' su presto! Prima che torni Elena! Spiegati!

— La paglia vicina al fuoco!... Il signor Nino [345] ha preso fuoco! Sfido io! A noi non fa colpo, perchè l'abbiamo sempre sotto gli occhi!... Ma non sa che s'è fatta una bellezza?... Fosse soltanto due dita più alta!

— Non far chiacchiere! Sempre chiacchiere! Chiacchierona insopportabile! che cosa hai saputo? Che cosa hai visto? — La signora Eugenia dà un'altra occhiata dalla finestra, poi ripete più forte: — Fa presto!

— Che cosa ho saputo! Che cosa ho visto!.... Non ci son fatti precisi da poter raccontare! Guardi anche lei, la prima volta che vien qui il Nino Moro! Sopratutto quando la signorina gli rivolge il discorso; quando gli dà la mano! Guardi, e vedrà, e saprà tutto anche lei! L'amore e la tosse non si nascondono!

— Ma Elena?... Elena?...

— Da questo lato, stia tranquillissima. La signorina, in certe cose, è ancor più ignorante di lei, che è tutto dire! Si conserva un bicchier d'acqua in ghiaccio! Io le sto accanto, non la sento mai in tutta notte! Tira dritto filato le sue otto ore di sonno — beata lei! — svegliandosi la mattina allo stesso posto dove si è addormentata la sera!

[346] — Silenzio, allora! Non una parola ad Elena del Nino! Che non sospetti di niente, per amor di Dio!

— Ma se non sospetta nemmeno che gli uomini possano cominciare a innamorarsi di lei!

— Per questo appunto... le prime impressioni... Chi sà che turbamento! Che sconvolgimento!

— Io non parlo! Io, del resto, non parlo mai con nessuno!... Basta che un giorno poi... non finisca a parlar quell'altro!

— Eccola! Sst!...

— Sst! — risponde la Luisa, alzando la mano in atto di fare giuramento.

Elena entra di corsa, cantando e rischiarando tutta la saletta col vestito di batista color rosa; poi si ferma dinanzi alla signora Eugenia, mostrandole giuliva il piatto vuoto:

— Guardi, mammetta! Mangiato tutto! Che appetito, oggi, il mio Rolando! — Rolando è il nome dato al coniglio. — E non zoppica quasi più! Le compresse han fatto miracoli! Ma, sai, Luisa?... Dobbiamo continuare ancora un bel pezzo, almeno tre volte al giorno!

La signora Eugenia e la Luisa si scambiano [347] un'occhiata sorridendo: ancora non c'è proprio nessun pericolo. Elena non ha capito niente di niente.

Però il pericolo c'è sempre, dall'altra parte. Se il Nino Moro fa qualche sciocchezza?

Il pisolino per quel giorno è mancato. La signora Eugenia è in tutte le pene.

— Che cosa fare?... Trovare la persona e il modo per parlargli?... Per dirgli che cosa?... La Luisa non ha riferito nessun fatto positivo. Non si può proibire ad un giovinotto di cambiar di colore e di confondersi dinanzi ad una ragazza.... e non si può proibire a nessuno d'innamorarsi!

La signora Eugenia fa un lungo sospiro: pensa a quel suo quarto d'ora, quando anche lei è stata una vecchia matta!

— Basta, — conclude poi, — speriamo bene. Sabato sera o domenica, l'avvocato Olivieri tornerà a Lodignola: sentirò l'avvocato.

Intanto, in que' giorni, invece di mandar a chiamare e di adoperare il Nino Moro, fa sempre sgambettare il povero Nicodemo dalla casa vecchia al caseificio, dalla latteria alle scuole.

Il pensiero che più la conforta è quello del signor Francesco.

[348] — Ha promesso di venire a Lodignola!... Lui può accomodar benissimo tutto quanto! Lui sì! Può allontanare il figlio del suo fattore, con una scusa qualunque. Il signor Francesco ha un altro stabile in Piemonte: può mandarlo in Piemonte per un paio di mesi.

Doveva essere un grande avvenimento quell'arrivo del signor Francesco a Lodignola! La signora Eugenia faceva già in suo onore, spese straordinarie. Aveva scritto al Beltrami, ordinandogli due paia di stivaletti. Due alla volta, nientemeno. Un lusso strepitoso! Un paio, di pelle gialla, di bulgaro, per le passeggiate, e l'altro, un magnifico paio di pelle verniciata, per la sera.

Pensandoci, aveva impeti di gioia e rideva tra sè.

— Voglio proprio fare la mia brava figurona! E, pur troppo, l'unica cosa ormai che mi sia rimasta, come una volta... l'unico mio vanto, sono i piedi!

Le mani cominciavano a diventare un po' secche, un po' gialle. Aveva provato a usare, invece del sapone, una certa pasta inglese all'ireos, ma...

— Ci vuol altro che pomata per ammorbidire i sessant'anni!

[349] L'avvocato Olivieri arriva puntualmente al sabato sera, ma la signora Eugenia aspetta a parlare del Nino Moro, quando Elena è andata a letto.

La buona donna, nel raccontare la grande scoperta della Luisa, sembra disposta a compatire il povero ragazzo; ma l'Olivieri, invece, appena sente di che si tratta, monta su tutte le furie.

— Furbo, il villano! Senza un soldo, agguantare ottantamila lire di dote, è un bel fare il socialista!

La signora Eugenia protesta altamente:

— Lei va subito a pensar male! Subito la dote! Subito l'interesse! L'amore, secondo lei, non dovrebbe nemmeno esistere a questo mondo! Ma se non può più esistere per me, che sono vecchia, e nemmeno per lei che ha fatto ormai le sue campagne, può esistere benissimo per il signor Nino, il quale non ha che vent'anni; e la mia Elena è tanto bella e ha tante buone qualità da far colpo anche per sè stessa, senza la dote.

L'avvocato, col viso torvo, rabbioso, non bada nemmeno a quella vecchia esaltata e romantica! Lo colpisce soltanto il nome di Elena.

— Appunto! La signorina Elena! Elena... — Nel [350] far la domanda, un senso d'angoscia subentra alla collera, diventa un po' pallido e cerca le parole. — Elena... ci pensa?

— Ancora no, per fortuna! — Gli occhi della buona signora sfavillano di tenerezza e di contentezza. — Ancora non pensa che a Rolando! Ma, capirà, è un momento! Basta una parola, una semplice occhiatina.

— Sicuro! Bisogna far presto! Subito! Cacciarlo fuori dei piedi!

— Adagio, adagio! Andiamo adagio! Cacciarlo via, perseguitarlo in qualunque modo, oltre che ingiusto, sarebbe anche imprudente. Se Elena venisse a saperlo? Caro mio, in amore come in politica, non bisogna mai fare dei martiri! Tanto più poi che, da parte sua, il signor Nino si contiene non solo prudentemente, ma nobilissimamente.

L'Olivieri alza le spalle con una risata ironica e la signora Eugenia si riscalda.

— Nobilissimamente! Sissignore! Schiva tutte le occasioni di trovarsi con Elena e non si fa quasi più vedere nè qui, nè in paese.

L'Olivieri continua a sogghignare.

— In nome della poesia e del romanticismo, [351] lei, magari, sarebbe anche capace di dar Elena in moglie a quel tanghero... ad un contadino!

— Cioè, scusi tanto, avvocato: in questo caso toccherebbe proprio a lei a dargliela in moglie, in nome della sua democrazia!

— Ma come c'entra qui la democrazia?

— Oh, so anch'io che qui non c'entra affatto! — Anche la signora Eugenia sorride ironicamente. — La democrazia ce la facciamo sempre entrare per far discendere fino a noi chi sta più su... ma quando si tratta, invece, di far salire fino a noi chi sta più giù, allora la mandiamo a spasso e si diventa magari aristocratici!... Tuttavia, giudizio per carità! Che Elena non se ne accorga e che sopratutto non abbia da compiangere il suo innamorato. Guai! Di tutti i democratici, l'amore, quando ci si mette, è il democraticone più vero e più sincero. Io non voglio certamente che Elena sposi il signor Nino. Mai, mai! L'idea sola mi spaventa. Diversità di condizione, diversità di educazione. Elena merita molto e molto di più, siamo d'accordo. Ma per questo non si deve odiare il povero ragazzo. Tutt'altro! Se si è innamorato... è una disgrazia, non è una colpa. Elena è bella, buona, [352] affabile, un tesoro. Se anche noi, tutti, ne siamo mezzo innamorati!... Quel povero diavolo non è corrisposto, non ha una sola speranza, non osa nè parlare, nè farsi vedere. Lui, come lui, fa pietà e merita tutta la simpatia.

— Brava! Anche la simpatia! — Borbotta l'avvocato.

— Sicuro! Tutta la simpatia! È nel suo diritto, se è innamorato, se ama! Ha vent'anni! Direi anzi che fa il suo dovere. Sì, perchè è a vent'anni che si deve amare! Allora l'amore è bello, allora l'amore.... è amore, anche se ci fa soffrire, anche se ci fa morire. — La signora Eugenia è commossa e sospira. — È quando siamo vecchi, amico mio, che diventa peccato! Quando siamo vecchi, allora no; allora non abbiamo più diritto di perder la testa; allora si diventa matti e ridicoli!

La signora Eugenia parla sempre per sè, solo per sè, tornando col pensiero indietro di dieci anni; ma quell'altro arrossisce per conto suo sotto la barba e fino alla radice dei pochi capelli che gli son rimasti. Che la signora Eugenia abbia indovinato, abbia scoperto ciò che lui stesso comincia appena, con un senso quasi di terrore e di sbigottimento, a confessare a sè stesso?

[353] Appunto, anche quel giorno, in carrozza, in tutto il viaggio da Milano a Lodignola, egli non aveva fatto altro che sottrarre diciotto da trentotto. Ahimè! Restava sempre quel numero terribile: venti. Una ventina d'anni di diversità! Aveva spinto i diciotto di Elena a diventare quasi diciannove.... Aveva tirato indietro i suoi trent'otto fin quasi ai trentasette.... Ma la differenza era sempre troppo grande. Quando Elena avrebbe avuto trent'anni, l'età del fuoco, lui ne avrebbe avuto cinquanta.... l'età della cenere!

Adesso, tutte queste cifre tornano a ballare nella testa del povero avvocato. Egli guarda inquieto la signora Eugenia: — Che abbia inteso di fargli un rimprovero, di dargli un avvertimento? Ma si conforta subito: — No! No! Non è donna capace di sottintesi, capace di lanciar frecciate. Mi avrebbe dato addirittura del pazzo, senza tanti complimenti. Perchè è proprio così: non sono altro che un pazzo!

L'avvocato passeggia su e giù per la saletta immusito e a capo basso.... come i cani della villa Roero.

— Tanto arrabbiarsi contro il Nino Moro! — Continuava [354] a pensare tra sè. — Ha ragione la signora Eugenia. Ed io?... sono ingiusto! Io... peggio di lui! La diversità della condizione? Ma che cosa sono le mie poche migliaia di lire messe da parte, il mio studio bene avviato, in confronto de' suoi vent'anni? La coltura? L'educazione?... L'amore fa tanti miracoli, quando si hanno vent'anni!

La signora Eugenia l'interrompe:

— Senta, avvocato!

— Che c'è?

— Il signor Francesco è il solo che può metter tutto a posto. Con una scusa, con un incarico qualunque, può allontanare il giovinetto da Lodignola per tre o quattro mesi..... e il tempo e la lontananza accomodano ogni cosa. Siamo ancora, fortunatamente, affatto in principio. Una simpatia, un po' di bruciore; ma, come diceva anche la Luisa, non può essere amore disperato. Il giovine non sarebbe in tal caso, tanto prudente, tanto timido.

— Va bene. Parlerò con Francesco. Domani sera vado a Milano; lunedì mattina andrò subito a cercarlo.

— Ma no! Aspettiamo che venga a Lodignola.

[355] — Francesco a Lodignola? Se non ci vien più! Non ci pensa nemmeno!

Il bel viso, fresco e pieno, della signora Eugenia esprime un grande stupore, una dolorosa mortificazione.

— Non vien più a Lodignola?... Allora è tornato a Borgoprimo? Il signor Arcolei è guarito?

— Ma che Borgoprimo! Che Arcolei!... Don Giulio va sempre di male in peggio, e la moglie esemplare, l'ammirabile donna Stefania, non abbandona un solo istante la camera del marito! Francesco è a Milano! Si diverte a Milano col Faraggiola e coll'Estensi: tutti e tre a far gli scapoli! Mi dicono che frequentano i teatri di second'ordine, i caffè-concerti e si divertono colle ragazze... di buona volontà!

— Il signor Francesco?

— Francesco, appunto! E dovrebbe, invece, far giudizio, perchè ha due anni più di me!

L'avvocato ripete così il suo ritornello favorito; ma questa volta lo fa solo per abitudine.

Si sente vecchio quella sera, vecchio e stanco. Non vede l'ora di cacciarsi in letto.

— Buona notte, signora Eugenia. Combineremo domani che cosa dovrò dire a Francesco.

[356] — Buona notte! A domani.

Anche la signora Eugenia è rimasta senza parole.

Ciascuno va in cerca della propria candela e l'accende, sopra pensiero. Si danno la mano, si augurano ancora la buona notte e poi si voltano le spalle e, senza più dire una parola, l'Olivieri attraversa il corridoio a terreno per entrare nella sua camera e la signora Eugenia sale al primo piano, dove è la sua.

— Due anni più, due anni meno, che importa! — Mormora l'Olivieri mentre comincia a svestirsi, e fa un sospirone così lungo, che gli vien su dal fondo dell'anima. — I vent'anni del Nino Moro! Ecco la gioventù! Eppure anche lui, con tutta la sua gioventù, a quest'ora deve essere rabbioso come un cane!

Sospira anche la signora Eugenia, mentre rimbocca le coperte del lettuccio; sempre quello suo antico, da ragazza, che si è portato con sè da Milano.

— Che scema! Che matta! Speravo tanto nel caso, nel tempo, che lo allontanassero da quella donna!... Perchè poi?... avrei dovuto pensare che dopo quella... ce ne sarebbe stata un'altra. Povero [357] Nino!... Se è proprio innamorato, come dice la Luisa, deve soffrire assai!

È verissimo quanto ha riferito l'avvocato Olivieri. Il Roero non si muove da Milano, perchè a Milano si diverte a «far lo scapolo» in compagnia dell'Estensi e del Faraggiola. Sembra che sia un po' di vacanza, capitata all'improvviso a tre vecchi collegiali: appena fuori, non sanno da che parte andare. Aprono la bocca per tirare il fiato e finiscono sbadigliando.

Da tanto tempo erano ligi ai voleri di donna Stefania, sempre così rigorosa nell'orario! La sera specialmente!

Come avrebbero potuto passar la sera, lontani, fuor dal raggio di donna Stefania?

Sempre agli ordini, sempre di servizio presso la baronessa Arcolei, o nei dintorni della baronessa Arcolei, così a Milano come a Borgoprimo, così al mare come in montagna, che cosa farsene, in che modo approfittare di quella improvvisa libertà?

Sempre in tutto punto, anche moralmente, sempre colla serietà misurata degli uomini importanti, sempre colla rigida freddezza dei grandi modelli inglesi, sempre fissi cogli occhi sulla sovrana, movendosi [358] a' suoi cenni, respirando secondo ella batteva il tempo, largo o andantino, si guardano adesso l'un l'altro, quasi sbigottiti.

Fino a quel giorno avevano vissuto tutti e tre, in politica, con la visione delle tenebre e del precipizio, mancando oramai il provvido puntello della forca. In arte, tutto il difficile e nessuna allegria: alla Scala quando si dava Wagner, al Manzoni quando si dava Ibsen. In pittura, non sane e gioconde nudità scaldate al sole, ma nebulose pallidezze nordiche o magre e gelide allegorie di Botticelli londinesi. E tutto ciò... da più di dieci anni.

Appena a Milano, il Faraggiola pensò subito di ripartire per la sua villa coll'Estensi, e anche il Roero di andarsene a Lodignola. Più lontani, no, per esser pronti alla prima chiamata da Borgoprimo.

Ma quella sera? Quella prima sera? Come far venire le undici?

È d'estate; di teatri aperti non v'è che la Commenda: vi si rappresenta il Paradiso. Le pochades erano proscritte e scomunicate dai gravi personaggi di casa Arcolei. Pure, in ognuno dei tre, era rimasta una reminiscenza eccitante di tutta la [359] pornografia condannata in quella commedia... La prima donna che mostrava grandi cose...

— Andiamo a vedere... di che si tratta!

Ci vanno col broncio, sbadigliando alle prime scene per convenienza, ma poi... — tutto il loro mondo era lontano; il mondo elegante in Engadina; il mondo politico a Carlsbad... — potevano anche permettersi di ridere. Ridono, in fatti, come matti, e al ritorno discutono animatamente la prima donna, come se fossero in discussione le varie parti, i diversi capitoli, del bilancio comunale.

Contentissimi della Commenda, risolvono di fermarsi a Milano un altro giorno, vogliono avere un'idea anche dell'Eden.

Le coucher de Jeannette?

— Che roba è?

Vanno all'Eden, e rimandano la partenza di giorno in giorno, finchè a partire non ci pensano più. Introdotti da un senatore un po' monello e incartapecorito protettore di ragazze, salgono nel minuscolo palcoscenico, entrano nei piccoli camerini... e poi uno dopo l'altro, come congiurati, le ragazze prima, il biondo senatore dopo, col suo passetto di giovinotto galvanizzato, loro tre infine, si riuniscono in un salottino riservato, a cena...

[360] E finiscono col divertirsi a Milano, come non si sono divertiti mai. Fanno ora i giovinotti, e anche i giovinetti: capriccetti, dispettucci, bacettini, gelosiette...

È una Milano tutta nuova, che avevano avuto lì a due passi e che non avevano mai conosciuta, così vicina e così lontana da casa Arcolei, da quell'ambiente di sonnolenza, da quello stringimento di tutti i freni! Naturalmente fingevano anche, qualche volta, di annoiarsi, di patire il caldo; si mostravano addolorati per donna Stefania e inquieti per don Giulio; brontolavano di dover restar lì a Milano, perchè Milano è vicina a Borgoprimo.

E intanto il biondino senatore annunciava loro il Catenaccio alla Commenda e all'Eden l'arrivo della Lola Faller, nientemeno! Una maraviglia! Eccellente ragazza! Nella danza serpentina, una apparizione! Nel Coucher d'une jeune mariée, carina, carina, irresistibile!

— Vi presenterò subito. Ho avuto io l'incarico di trovarle un appartamentino pieno di discrezione...

Ed è così che Francesco Roero abbandona l'idea di passare qualche giorno a Lodignola.

[361] Del resto egli non avrebbe mai supposto nè immaginato gli effetti prodotti alla Casa Vecchia dalla sua permanenza in città.


— Ci siamo! — Dice una mattina la Luisa, sempre colla sua aria di gran mistero, alla signora Eugenia.

— Come ci siamo?

— La signorina ci casca.

— Ci casca?

— Sicuro. C'è un grande cambiamento. Ma non se n'è accorta anche lei, signora Eugenia?

— Elena?...

— Da qualche giorno non canta più, è meno allegra.

— È vero.

— Non salta, non grida, non corre. Fa invece delle lunghe passeggiate solitarie.

— È vero.

— Continua a mangiare con buon appetito, questo sì; ma rimane indifferente a tutte le mie improvvisate, e non si occupa più del povero Rolando.

[362] — Ma pure... il signor Nino, qui, non ci viene quasi più. Non si vedono mai.

— Che si vedano o non si vedano, io non so. Un cambiamento c'è; questo è sicuro. Ci stia attenta anche lei.

Poco dopo, Elena entra silenziosa nella saletta, a passo lento, coll'aria svogliata; ha una lettera in mano.

La signora Eugenia le aveva detto di scrivere al signor Francesco, pregandolo di voler venire a Lodignola, come aveva promesso tempo addietro anche all'avvocato Olivieri, per assistere alle feste del saggio scolastico.

— Hai scritto. Elena? — La signora Eugenia si mette a fissare la giovinetta con uno sguardo più inquieto che scrutatore.

— Sì. Vuol leggere? — E fa per darle la lettera.

— No! No! Figurati! Sono certa che gli avrai scritto una bellissima letterina, con tutto il tuo cuore. Devi voler molto bene al signor Francesco... E ricordati, per il tuo avvenire e per la tua felicità, devi promettere a te stessa di fare in modo di obbedirlo sempre, in tutto, e di amarlo sempre... più di tutti.

[363] La fanciulla alza i suoi occhioni interrogativi in faccia alla signora Eugenia... poi commossa le butta le braccia al collo, la bacia, la stringe, muta, con espressione profonda di mestizia, e se ne va lasciando la povera donna ancora più inquieta.

— Oh Dio! Dio! Se la Luisa avesse proprio indovinato! Se incominciasse anche lei ad innamorarsi del Nino!

Elena porta ella stessa la lettera per il Roero alla posta vicina.

... No, non gli ha scritto con tutto il suo cuore! Il suo cuore, lo ha fatto tacere... Gli ha scritto due paginette stupidissime. Prima di tutto, scrivergli di venire per il saggio, era già una cosa sciocca per sè stessa... e poi sentiva di essere irritata, di essere molto in collera contro il signor Francesco. No! Egli non le voleva più bene! Come l'aveva dimenticata! Adesso quella signora cattiva non ci entrava più... Adesso era lui, proprio lui, soltanto lui, che non pensava nemmeno di venirla a vedere. Era lui, adesso, il cattivo che non le voleva più bene, il cattivo che l'aveva dimenticata!

Guarda la lettera, scrollando il capo, mentre la lascia cadere nella cassetta:

[364] — Va! Va! Va pure a Milano anche tu, lettera stupida! Sei la lettera che egli si merita, nè più, nè meno.

Ritornando alla Casa Vecchia, fa un'altra strada e passa dinanzi alla scuola per vedere se son cominciati gli addobbi per la festa del saggio. Trova tutti in grandi faccende e il signor Nino che dirige il lavoro.

— Povero Nino! — Pensa fra sè, vedendolo. — Se mi ama davvero, deve soffrire anche lui!

Gli si avvicina gentile, domandandogli molti particolari, e lodando tutto quanto egli ha fatto. Non per civetteria, ma per bontà... per pietà.

Il giovine è diventato pallido. Il pallore, in quella faccia bruna, dà l'impressione di una sofferenza più acuta. E nel rispondere alla fanciulla, il suo sguardo è dubbioso, la sua voce trema... Povero Nino!

Ella partendo gli stringe la mano, e quando è di nuovo sola, nel viottolo ombroso che sale alla Casa Vecchia, cammina lenta, pensierosa. L'anima le trema, come presa da uno scoramento ignoto, profondo, indefinito...

— Se proprio mi vuol bene... quanto deve soffrire anche lui!

[365]

III.
La villa Roero.

Elena si agita nel sonno, si scote, si sveglia: sente giù in istrada lo scalpitìo, il nitrito di un cavallo, sente dal balcone la voce della signora Eugenia...

Si rizza a sedere sul letto e tende l'orecchio:

— La mammetta?... Con chi parla?... Chi è arrivato?

La signora Eugenia continua, sempre dal balcone:

— Che bravo! Finalmente!... Ormai avevamo perduta anche la speranza!

— Sono partito da Milano ieri sera, dopo pranzo, per schivare il caldo!

Alla voce nuova, a quella voce d'uomo Elena trasalisce e spalanca gli occhi nel buio.

[366] La signora Eugenia ricomincia i complimenti:

— Era tanto aspettato a Lodignola per le feste del saggio scolastico!

— Non ho potuto!

— Anche Elena le aveva scritto, pregandolo di venire!

— È proprio lui! È lui! È lui! — Elena balza dal letto e a pie' nudi corre ad ascoltare alla finestra, allungandosi per poter vedere il signor Francesco traverso le stecche delle persiane. — Sì! Sì! Eccolo! Eccolo! È proprio lui!

In quegli anni Francesco Roero non è che diventato più magro e più pallido. Sempre elegantissimo, coi baffetti castagni chiari rivolti in su, fa caracollare il cavallo, sotto il balcone, con sicurezza e con grazia, mentre risponde alla signora Eugenia:

— Non ho scritto a Lulù sapendo di dover venire a Lodignola... — Il cavallo s'impenna: Francesco s'interrompe un istante, battendogli colla mano sul collo per quetarlo, poi ripiglia: — E Lulù come sta?... Io, già, la chiamerò sempre Lulù!

— Benissimo!... Dorme ancora!... È quella lì la sua camera!... Le finestre sono ancora chiuse!... Dorme sempre sin tardi!

[367] Ad Elena, ritta dietro le persiane, batte il cuore con violenza. Ella vede il Roero fissare cogli occhi sorridenti la sua finestra, mentre domanda alla signora Eugenia:

— È sempre così carina?

— S'è fatta mollo bella! Una bellezza!... Anzi ho da parlarle anch'io... per un certo discorso che le ha fatto l'Olivieri!

— Oh! Oh!... Ancora novità?... — E il Roero dà in una risatina, accarezzando la testa del cavallo.

Elena aggrotta le ciglia. Quel riso le fa dispetto: ha un lampo di collera, non contro il Roero, ma contro il Nino Moro.

— Novità, proprio, no!... — È sempre la voce della signora Eugenia, — ma ho da parlarle!

— Va bene! Verrò verso le tre!

— Venga a far colazione qui!... Le preparerò io una certa costoletta alla scatola, squisita...

— Grazie, ma non posso! Ho molto da fare! Sono venuto anche per il vostro famoso tram... Stasera parto!

— Così subito? Riparte? — Esclama la signora Eugenia vivamente.

Anche Elena ha una stretta al cuore e rimane immobile, assorta, trattenendo il respiro.

[368] — Ho appena una settimana disponibile, avendo molti impegni a Milano, e voglio andare a Zermatt e al Gornergrat.

— Va via! Torna via! Vuol tornar via! — Ripete Elena tra sè, con un senso di dolore, di disperazione; poi, più per istinto che per ragionamento, così quale si trova, le braccia nude, i bei capelli sciolti, la camicia che le casca dalle spalle, spalanca d'improvviso le imposte in pieno sole, come saltasse in quel punto dal letto, guarda il Roero, dà un piccolo grido e si tira indietro vivamente, si caccia ancora in letto ravvoltolandosi nelle lenzuola, confusa, inquieta... arrossendo ed anche ridendo.

Il Roero a quell'apparizione dà una spronata al cavallo e si fa sotto la finestra di Elena.

— Lulù! Lulù! — Continua a chiamare, — Lulù!

Elena non si fa più vedere. È la Luisa, invece, che viene alla finestra a fare i suoi complimenti.

— E Lulù? Dov'è scappata Lulù?

— Sta vestendosi, e scende subito a salutarla.

— No! No! Ci vuol troppo tempo! Ditele, Luisa, di tornare un momento alla finestra!

[369] La Luisa rientra e poco dopo Elena si affaccia di nuovo, ma imbacuccata in uno scialle grande a righe rosse e nere. Non è la stessa cosa, ma è molto carina anche così.

— Brava Lulù! Ti fò paura adesso?... Ti fò scappare?

Elena, rossa, confusa, balbetta appena qualche parola.

Il cavallo continua a scalpitare, a sbuffare, a impennarsi... Il Roero non può più tenerlo, saluta ridendo e via di carriera.

Elena, spaventata, dà un grido e la signora Eugenia ripete più forte:

— Arrivederci a colazione! L'aspettiamo! Si ricordi!

Il Roero è venuto a Lodignola dopo i funerali di don Giulio Arcolei, morto quasi improvvisamente per l'aggravarsi del suo vecchio male.

Durante otto o dieci giorni almeno, non sarebbe stato conveniente nè per lui nè per gli altri due, insomma per i tre amici più intimi del compianto Arcolei, il farsi vedere al caffè a mangiare di buon appetito e tanto meno a divertirsi all'Eden e alla Commenda. Stare in casa o al club, ritirati, tutto il giorno, tutta la sera?...

[370] L'Estensi e il Faraggiola prendono subito il primo treno e vanno insieme in campagna, come già avevano fissato. Il Roero si ferma ancora un giorno a Milano e poi parte anche lui per Lodignola. Egli ha dovuto aspettare un dispaccio, un ordine di donna Stefania. Francesco Roero deve sempre ricordare, e in quel momento sopratutto, di aver obblighi e doveri maggiori degli altri due. In fatti donna Stefania gli ordina Lodignola o la Svizzera. Ella desidera la solitudine: vuol tutta consacrarsi alla devozione delle memorie. Rispetti, sentimenti e scrupoli le impongono, per alcuni giorni, che il Roero, più di ogni altro, rimanga lontano da Borgoprimo; ed il Roero approva, in cor suo, pienamente, quel delicato riserbo, quel breve periodo di ritiro, di austerità e di penitenza imposto a sè stessa dalla vedova modello.

Egli parte, abbastanza di buon umore; ma tutto quel viaggio in carrozza è troppo lungo, troppo pesante.

— Auf! Che caldo! Che afa, anche di sera!... Bisogna cercare un luogo più fresco!

Quella campagna, quella pianura monotona lo hanno già annoiato; la vista di que' suoi luoghi [371] sotto la tenue luce del crepuscolo e tra le ombre della notte lo rattrista.

— Si diventa vecchi!... In tutti questi anni son diventato vecchio... e nient'altro!... Auf! Che caldo! Sarà meglio andare un po' in Isvizzera. A Zermatt e al Gornergrat.

Ma l'apparizione di Elena ha dissipato ad un tratto il tedio improvviso della campagna, l'impressione uggiosa, triste di Lodignola.

— Che bella mattina limpida, fresca!... E, per Dio, che bella ragazza!

Trottando e galoppando allegramente verso la villa Roero, egli sorride pensando a Lulù... e anche a quell'altra, che sta compilando a Borgoprimo l'orario della vedova.

— Stefania, scommetto, non arrischierebbe di farsi vedere in pieno sole in una toletta così... mattutina! Ormai, cogli anni, anche il suo pudore si è fatto più scrupoloso. Ma chi sa quanti anni ha veramente?... A guardarla in fretta, sembra ancora la stessa. Eppure come è rimasta soltanto «donna Stefania»! Come la Fáni è completamente sparita! I capelli sono biondi, è ancora tutta bionda, ma che biondo... inconcludente!... I capelli [372] di Lulù!... Che splendore!... In poco tempo si è fatta una gran bella ragazza! È la giovinezza è la salute in tutta la sua... prepotenza! — È proprio la vera parola: prepotente!... — Il Roero pensa alla bambina; la rivede ancora col suo grande cappellone tutto rosa, e sorride: — È stata sempre prepotente, la piccola Lulù!

Giunto alla villa, appena smontato da cavallo, si ferma un po' in giardino ad accarezzare Flick e Flock, i due grossi cani, che continuano a saltargli intorno e ad abbaiare per fargli festa. Ride e scherza col custode e con sua moglie: la trova sempre sul punto di fare un nuovo figliolo!

— Quanti sono, anzi, quanti saranno?

— Sette, signor padrone!

— Sette?... Per bacco!... Aria buona a Lodignola!... — Passeggia un po' col giardiniere: le piante son cresciute benissimo. Approva tutto, loda tutto, è contento di tutto e di tutti.

La gente che passa dalla strada, e che lo vede nel giardino, si ferma a salutarlo festevolmente ed a complimentarlo per il suo arrivo.

— Mi vogliono bene, — pensa tra sè. — Non sapevo di essere tanto popolare a Lodignola. Tutto [373] merito della nuova linea del tram e più ancora della signora Eugenia.

Ordina la colazione:

— Due uova al burro e una costoletta. Deve esser tutto pronto per le undici. Mi raccomando, — ripete a Patrizio il servitore succeduto al povero Giovanni. — Per le undici in punto! Intanto una buona doccia e mi vesto...

Che doccia deliziosa!... Che buona acqua, fresca, limpida, odorosa!

A colazione, mangia in fretta e furia, e subito dopo, sfidando il caldo e il sole di mezzogiorno, fa a piedi la salita alla Casa Vecchia.

— Eccomi qui cara signora Eugenia. Le domando una tazza del suo deliziosissimo caffè!

Il Roero, che un po' è stato aspettato a colazione, ma senza molta speranza e che arriva quando ormai non lo si aspetta più, è accolto da grida di giubilo.

La signora Eugenia è raggiante; la Luisa, fatti i suoi complimenti, dichiara che il signor Francesco è diventato ancora più giovine, ed Elena, sorpresa e trasportata dall'improvvisa gioia, gli corre incontro come per buttargli le braccia al collo. Francesco [374] ha un leggero turbamento, non abbraccia Elena, le prende invece le due mani e la conduce vicino alla finestra.

— Qui, qui, con me, ben al chiaro: vediamo se questa mia figliuola è diventata bella o brutta. Non voglio rinunciare a' miei diritti di papà!

— Papà, papà... — La Luisa che è sempre stata una grande ammiratrice del signor Francesco, scrolla il capo con una smorfietta sua particolare. — Mi lasci dire che la signorina potrà vantarsi di avere un papà molto giovine e molto bello.

La signora Eugenia, beata e tutta occupata nel preparare il caffè, sorride appena all'esclamazione della Luisa, mentre il Roero, che ne ha avuto piacere, ma finge di non averla udita, continua a fissare, a osservare Elena, che pur arrossendo un poco e sorridendo, lo fissa a sua volta tranquilla e sicura.

— Non c'è male, sono abbastanza contento.

Elena arrossisce di più, ride, ma non abbassa gli occhi. Per quanto nerissima, è sicura ormai che non gli fa orrore... Invece.....

— Ecco pronto il caffè! — La signora Eugenia è gongolante. — Un caffè che spero degno del signor Francesco.

[375] — Cioè, vuol dire che sarà degno della signora Eugenia! — Francesco si avvicina al tavolino sul quale la Luisa ha posto il vassoio. Elena corre ad offrirgli la tazza, egli la prende inchinandosi e coll'altra mano leva di tasca l'astuccio delle sigarette.

— A lei, signora Eugenia. Ogni fatica merita premio. Sono sigarette eccellenti.

— Grazie, signor Francesco. Mi fa riprendere un vizio che avevo smesso.

— Come?... La grave imposta della sigaretta?... Non si esige più? L'Olivieri non ha protestato?

— Ma che! Il signor Olivieri, ormai, non fuma altro che sigari virginia.

Elena è buona, vuol bene all'Olivieri, ma l'amore e l'istinto in quel punto la rendono spietata e ride con un'alzata di spalle a quel «sigaro virginia» che segna il decadimento del povero avvocato.

— Non mi offre più sigarette perchè io non ne voglio più! — Soggiunge la signora Eugenia, sempre pronta invece, alla difesa dei deboli. — Ho smesso di fumare per non dare cattivi esempi ad Elena.

— Sì! Sì! Oggi voglio provare! Mammetta, mammuzzoli, oggi voglio provare!

[376] — Guarda che idea!

Anche la Luisa si mostra scandalizzata: — Fumare?... Una signorina!

— Sì! Sì! Sì! Mammetta! — continua Elena, accarezzando e baciando le gote pienotte della signora Eugenia. — Mi lasci provare!

— Mai più!... Sta ferma! Basta, tormento che sei!... No e no! Assolutamente!

Elena si volta, corre dal Roero. — Allora lei! Me la darà lei! — Gli afferra il braccio, per afferrargli anche la mano ch'egli tiene alzata stringendo la scatoletta. — La prego! La prego! La prego! — Si rizza in punta di piedi, fa un salto... non può arrivare a prender la scatoletta e si arrabbia.

— Cattivo!

— Elena!... — Esclama severamente la signora Eugenia.

Francesco abbassa la mano e intercede per la sigaretta:

— Dobbiamo permettere? In via d'eccezione?

La signora Eugenia tien duro, ed anche la Luisa, s'intende, fa gli occhiacci, ma poi tutte e due ammirano estatiche quella... Lulù — sempre Lulù — persino nei capricci.

[377] — Come sa fare!... — Pensano in fondo al cuore. — Come sa sempre ottenere tutto ciò che vuole!

Elena ha già presa la sigaretta e Francesco le accende il fiammifero.

— Basta che poi non le faccia male, — borbotta la Luisa.

E la signora Eugenia domanda:

— Almeno, sono leggere?

— Leggerissime.

Elena allunga i labbruzzi per stringere la sigaretta; fa le più comiche boccucce per soffiar il fumo lontano, ma un po' di fumo le va sempre in gola o negli occhi. Ride e domanda a Francesco:

— Ma come si fa?

Francesco scherza, giuoca e si diverte a tormentarla:

— In tanti anni sei rimasta... Lulù!

— Lo so.

— Piccola! Piccola!

— Lo so.

— Nera, nera!

— Lo so.

— Brutta!...

— Questo non è vero!

[378] Francesco rimane fino alle quattro alla Casa Vecchia, poi verso le sette ci torna per pranzo.

Alla Casa Vecchia c'è una ragazza di Lodignola, la Pinella, che fa benissimo da mangiare. Il Roero, dopo pranzo, col permesso della signora Eugenia, e colla piena soddisfazione della Luisa, la chiama in salotto e si profonde in elogi.

La signora Eugenia non ha insegnato a Elena a far la cucina, e ne spiega il perchè al signor Roero, che l'approva pienamente.

— Io non credo che la missione della donna sia quella di saper preparare manicaretti e ghiottonerie al proprio marito. Adesso fanno entrare anche la cucina nell'istruzione obbligatoria! Per me, sarò una vecchia testarda, ma son di parere che si dà troppa importanza al mangiare! Si fanno diventar le ragazze troppo golose e schifiltose! Dato un bisogno, ci sono le uova, il suo bravo pollo o la sua brava carne lessa, e per gusto mio, in ogni momento, una bella manina bianca e morbida è da preferirsi a qualunque patè!

— D'altronde, anche per far la cucina bisogna averci inclinazione! — Sentenzia la Luisa, mentre, aiutata da Elena distende sulla tavola sparecchiata [379] il gran tappeto amaranto dei ricevimenti di gala. — Bisogna averci passione, appunto come la Pinella! La signorina... è troppo signorina! Fin da bimba, quando giuocava coi suoi fantocci, voleva che fossero tutti grandi signori! Altro che cuochi e cuoche! A proposito, signor Francesco, sa che la signorina Elena conserva ancora... la contessa?

Il Roero non capisce.

— La bambola... — spiega la signora Eugenia.

— Quale? Ne ha... rotte tante di bambole!

— Quella famosa. La prima. Signorina! Gliela faccia vedere!

— Sì, sì, subito! — Esclama Elena allegra, contenta, e sparisce.

Come la saletta rimane vuota e silenziosa senza quella fresca gaiezza, senza quella rotonda testolina bruna, senza quel semplice vestito bianco di mussolina, coi nastri di seta lilla! Ma, dopo un istante, eccola ricomparire con un grande scatolone, in cui sono riposti «i suoi tesori».

— Aiutami, Luisa!

La Luisa corre a prendere lo scatolone e il Roero, ch'era diventato serio, torna a sorridere:

— Oh, brava! Vediamo dunque la signora contessa!

[380] La magnifica bambola coll'abito di giaconetta ricamato e il cappellone celeste è conservata benissimo; ha soltanto la faccetta un po' screpolata e il naso rotto.

Francesco prende la bambola, l'accarezza, la guarda a lungo e sospira. Egli ripensa a quegli anni, ormai così lontani; rivive, per un istante, uno di quei giorni... che non torneranno mai più.

Elena si diverte: leva tutti i giocattoli dallo scatolone.

— Guardi, signor Francesco!... Il piccolo canapè e la piccola poltrona della contessa!

Francesco guarda... e continua a pensare:

— Potrei avere anch'io una famiglia... l'affetto, il conforto, la tenerezza e le compiacenze vere, serene, oneste della casa... Una donna mia... soltanto mia. Potrei avere un amore di figliuola, una figliuola così buona, così bella...

— Signor Francesco!...

— Cara!

— Guardi!... La povera Titi.

Elena ride, ride, ride... È tutta la sua fanciullezza innocente, il suo ardore spensierato, la contentezza del suo cuore felice e del suo sangue sano, che allegramente le scoppiettano sulle labbra.

[381] Francesco ne è rapito, incantato, ma poi a poco a poco la bianca, la casta figura sparisce... Un'altra immagine gli si presenta dinanzi... severa in quel punto, quasi arcigna.... È una biondezza opaca e giallognola, è un sorriso ironico e imperioso, è una voce interna che gli ripete: — Eccola... questa è la tua! Ogni uomo ha la donna che si merita!

La signora Eugenia lo osserva un po' inquieta: il Roero sente quello sguardo e si scuote con una risata:

— Proprio così! Mah!... È proprio così! — Poi a un tratto non ride più, sorride soltanto. — Ognuno di questi giocattoli, quanti ricordi, quante memorie porta con sè! Allora ero giovine anch'io, quasi quanto Lulù..... almeno nelle illusioni! E il mio «genio», buona signora, si ricorda?... Il grand'uomo dell'avvenire! Sono diventato appena appena, un mezzo grand'uomo a Lodignola... e per merito suo e del buon Olivieri.

— Signorina! Gli faccia vedere l'anellino! — Esclama a questo punto la Luisa.

— È l'anellino, — la signora Eugenia s'è fatta pure un po' malinconica e pensierosa, — che il signor Olivieri ha regalato ad Elena quando ha compito i sette anni.

[382] Elena continua a cercarlo, nascondendo la faccia nello scatolone: si sente agitata e confusa.

— Non lo trovi più! Non l'hai più! — Francesco si diverte a farla arrabbiare.

— Si! Si! Eccolo! Quando l'Olivieri vuol fare il cattivo, il burbero, gli dico sempre: «Bada, l'anel ti rendo!...»

Ti? Come ti? — Domanda Francesco vivamente. — Dai del tu all'Olivieri?

— Sicuro.

— E a me no? Perchè?

— Perchè... perchè all'Olivieri... — Elena non abbassa gli occhi, ma torna a diventar rossa... — Perchè l'Olivieri...

— Bada Elena.... non dire sciocchezze, — ammonisce la signora Eugenia.

— Perchè l'Olivieri?... — Ripete Francesco per farla continuare.

Elena si arrabbia, dà un'alzata di spalle:

— Perchè, perchè! O quest'è bella! Perchè all'Olivieri ho sempre dato del tu... senza perchè.

— Anche a me, hai sempre dato del tu.

— Non è vero!

— Elena! — ribatte la signora Eugenia. — Non si risponde così!

[383] — A lei, proprio a lei, — continua Elena sempre rivolta al Roero senza badare ai rimproveri della mammetta, — non ho mai dato del tu.

— Sì!

— No! A lei, proprio a lei, no, mai! Io ho dato del tu soltanto... a Cochi!

— Brava signorina! Ha ragione! — La Luisa è raggiante e la signora Eugenia, che si è alzata e avvicinata ad Elena per imporle il dovuto rispetto verso il signor Francesco, la bacia invece commossa, tuffando il viso, nei capelli neri, odorosi.

Ad un tratto si ode un forte abbaiamento, uno sbattere d'usci, un gran fruscío, e due grossi cani si precipitano nella saletta, rovesciano le sedie, fanno spaventare la Luisa, e saltano addosso al Roero, scodinzolando festosamente. Sono Flick e Flock venuti alla Casa Vecchia, dietro al custode che ha portato le lettere. Al fiuto hanno sentito subito il padrone.

Francesco accarezza i cani, scusandosi per quella rumorosa invasione e distrattamente, in fretta, dà un'occhiata alla posta, guardando appena che cosa c'è.

Elena raggrotta le ciglia, poi subito si rasserena. [384] Ha lanciato sul pacco una sola occhiata: ha visto tutto. Ci sono giornali, ci sono lettere... ma non «quella lettera» che teme. Corrispondenza d'affari; si capisce dalle buste. Elena è di nuovo contenta, torna bambina e con biscotti, zucchero, carezze e baci, si fa presto amicissima di Flick e Flock.

— Povere bestie! — Pensa tra sè. — Sembravano così brutte, così cattive! Invece soffrivano perchè non c'era il loro padrone! — E non vuole assolutamente che il custode le riconduca a casa.

— Torneranno alla villa più tardi! Col signor Francesco. Intanto restano qui a giocare con me. Flick! Flock! Ohp! Ohp! Se volete ancora zucchero bisogna saltare! Ohp! Ohp! Là là!

E più tardi, molto più tardi, quando Francesco lascia la Casa Vecchia dopo aver indugiato un'ora a salutare la ragazza, chiamandola piccola Lulù, piccolissima Lulù, nera nera e bruttissima, Elena tempesta di baci la signora Eugenia prima di andare a dormire ed entra nella sua camera cantando.

È la gioia che le trabocca dall'anima, è l'amore che riluce negli occhi, è la balda sicurezza dei diciott'anni che saluta la vita tutta piena di rose e di sole!

[385] Prima di chiudere le persiane, rimane per un bel pezzo ritta alla finestra a guardare.

— Finalmente! — Mormora tra sè. — Oh finalmente!

La villa è tutta illuminata, aperta... Non sembra più una prigione! È un palazzo incantato! È un giardino incantato!

Elena continua a guardare e pensa sorridendo:

— ... No, no. Più niente Svizzera! Più niente Zermatt! Si resta lì, perchè lo voglio io.


La mattina dopo Francesco Roero, prestissimo, è di nuovo a cavallo, sotto il balconcino della Casa Vecchia.

— Buon giorno, signora Eugenia! Buon giorno!

Egli chiama, è vero, la signora Eugenia, ma guarda sempre la finestra di Elena che è già spalancata.

— Signora Eugenia! Buon giorno!

Elena continua a non farsi vedere. Invece la mammetta si presenta quasi subito al balcone, già messa in tutto punto: i bei capelli bianchi ben [386] pettinati, l'abito nero, il candido solino stretto alla gola:

— Signor Francesco, buon giorno!.... Come ha riposato?

— Benissimo! E quella gran dormigliona di Lulù?

La signora Eugenia si sporge dal terrazzino: guarda verso la camera della ragazza.

— La finestra è aperta; dev'essere svegliata. Elena!

— Lulù! — Chiama Francesco a sua volta.

Nessuno risponde: un momento di silenzio, poi un grido della signora Eugenia che si sente stringere e baciare d'improvviso e la bella testolina di Elena che sporge dalla ringhiera:

— Bravo, signor Francesco! A furia di elogi e di complimenti ha fatto girar il capo alla Pinella. Sta già in cucina a quest'ora, compilando il menu per la colazione: risotto bianco o risotto giallo coi fegatini? Questo è il gran problema!

— Come? Dovrei venire a colazione anche stamattina?

— S'intende.

La signora Eugenia, sebbene soddisfattissima, si crede in obbligo di correggere e di spiegare l'imperativo di quella matta figliuola:

[387] — È un gran piacere ch'ella ci fa!... Perchè vorrebbe restar solo alla villa? Non è in casa sua, anche qui? Dunque, ormai, siamo intesi: tutti i giorni, colazione e pranzo alla Casa Vecchia.

— Tutti i giorni? E se poi... non vado più in Isvizzera? — Il cavallo in quel momento è tranquillissimo: è il Roero stesso che lo tocca leggermente cogli speroni per farlo caracollare sotto il balconcino. — Tutti i giorni no! Sarebbe troppo abusare.

— Tutti i giorni, sì! Lo ha detto la mammuzzoli! E non si faccia aspettare!... Per non mettere la Pinella alla disperazione!

— Ho detto.... tutti i giorni no!

Il cavallo fa un'impennata, ma la signorina non si spaventa più. Ormai ha capito il giuoco.

— Ho detto, tutti i giorni, sì!

— Ma, ma, ma, Elena! — La signora Eugenia al solito, vorrebbe imporsi, far la seria. — Al signor Francesco si dice così?

— Al signor Francesco si dice: Voglio così! — E la bella testolina bruna sparisce dal balcone.

Alle undici in punto, attillato, profumato, i baffetti ancor più rivolti in sù e le ghette bianche, [388] il Roero, che colla persona svelta elegante e il viso un po' scarno e pallido, sembra proprio un giovinotto, si presenta sull'uscio della saletta.

— Eccomi pronto: la piccola Lulù ha detto «voglio» ed io obbedisco.... per paura dei capricci.

Elena quella mattina, si comporta in tutto come quando è sola colla signora Eugenia, da brava ragazza di casa, attiva, attenta e tranquilla. È vestita di picchè celeste, con un grande colletto bianco ripiegato, e con un bel cravattone di seta nera. Aiuta la Luisa a finire di preparare la tavola e l'aiuta pure, quando occorre, anche durante la colazione.

Alle frutta prepara come al solito, il piatto per Rolando e lo porta lei stessa nel brolo.

La Luisa, appena uscita Elena, si avvicina al signor Francesco:

— Dica la verità: se la signorina fosse soltanto due dita più alta? Che bellezza?

— Anche così ce n'è abbastanza per far perdere la testa! A proposito dei nostri discorsi, e delle sue raccomandazioni, signora Eugenia, saprà che il.... signor Nino è partito fino da ieri per Casalpò. Fabbrico a Casalpò. Faccio riparare la casa colonica [389] e ricostruire varie cascine. Ho mandato apposta il giovinotto a sorvegliare i lavori. E resterà laggiù, in Piemonte, finchè voglio io. Ha posto le mire troppo in alto il nostro socialista!

La signora Eugenia fa un sospirone, compassionando il povero innamorato:

— In quanto alla mia Elena, fortunatamente in questi giorni è tornata di buonissimo umore. È stato un certo falso allarme della Luisa, la quale a furia di voler veder tutto, vede alle volte anche quello che non c'è.

— Scusi, signora, io....

La Luisa vorrebbe difendersi, ma Elena ritorna col piatto vuoto di Rolando e il discorso a proposito del Nino Moro, resta interrotto....

Francesco, molto prima di sera, è già dinanzi al cancello della Casa Vecchia. Vede Elena che sta cogliendo fiori nel piccolo giardino, e si ferma ad osservarla:

— Signorina... Lulù!

Sentendo la voce di Francesco ella si volta, rossa di piacere.

— Bravo! Non lo aspettavo così presto! È stato bravo! Venga ad aiutarmi! Sto cogliendo i fiori per la saletta.

[390] Francesco non si muove. Si gode invece a stuzzicarla:

— Un altro abito nuovo! Ambiziosissima Lulù! Ieri, vestita di mussolina bianca e nastri lilla; oggi mussolina crème, coi nastri verde oliva...

— E stamattina?... Ecco, non si ricorda più!

— Picchè celeste, colletto bianco, cravatta nera.

— Vede, dunque? Se lei osserva e si ricorda così bene.... val la pena di cambiare.

Non sono le parole, è il tono che conta; il tono di Elena nel dare la sua risposta è stato tanto carino e gentile! Francesco ne è rimasto colpito, ma continua a scherzare:

— Piccola Lulù! Piccola, piccola, piccola!

— So che sono piccola. Me l'hanno detto degli altri.

— L'Olivieri?

Francesco entra nel cancello e si avvicina.

Elena ride, in un modo un po' strano:

— Oh, l'Olivieri no! Me lo dice sempre la signora Eugenia ed è il grave dolore della Luisa.

— Perchè hai detto: «l'Olivieri no»?

— Perchè l'Olivieri.... non si è pronunziato.

— Voglio sapere la verità e subito, e voglio [391] sapere perchè ridi in quel modo, birichina di una Lulù! Scommetto che l'Olivieri ti fa un po'.... la corte e tu sei anche capace di lasciartela fare!

— Questo poi no!

— Dunque te la fa?

— Tenga i fiori! Intanto io colgo delle rose.

Francesco prende il mazzo colle due mani, ripetendo:

— Dunque ti fa la corte?... Oppure lui vorrebbe, ma tu.... niente? Ridi, birichinissima? Ho indovinato.

— Stia attento!... Lascia cadere i fiori!

— Tu.... niente corte, perchè l'Olivieri è troppo vecchio.

— Intanto l'Olivieri non è vecchio, tutt'altro. E poi, anche fosse, l'età che cosa conta?

— Allora.... perchè è brutto?

— Anche l'esser bello o brutto, che cosa conta?

— Che cos'è che conta, dunque, per te?

— Una cosa sola: grande, grande. — Ed Elena, pur sorridendo, sospira nel fissare Francesco. — Farsi tanto voler bene!

La signora Eugenia sta leggendo la sua vecchia Revue, seduta alla finestra della saletta. Alza gli [392] occhi, vede Francesco ed Elena nel rosaio, si ferma a guardarli pensierosa.... e un senso amaro, profondo di tristezza penetra a poco a poco nella sua anima:

— È proprio vero.... — mormora tra sè, scrollando il capo. — Io non sono mai stata così giovine.... giovine come Elena.

Dopo un momento fa per rimettersi a leggere, ma le si appannano gli occhiali.


Francesco Roero passa così la sua vita allegro, contento, non pensando più ad altro. Nel piccolo mondo di Lodignola egli ha trovato la quiete, la felicità.... ed anche la gloria. Col tram a vapore e col podere modello, colle scuole, il caseificio e la nuova magnifica uniforme da lui regalata alla banda comunale è diventato a Lodignola l'eletto e il prediletto del popolo, il vero padre della patria!

Si è fatta una grande illuminazione in onore di Francesco Roero, con sparo di mortaretti, con fuochi artificiali e la banda ha inaugurato il nuovo uniforme, suonando nel giardino della villa l'inno [393] di Garibaldi, la marcia reale, la Marsigliese: un po' per tutti i gusti, non essendo ancora ben conosciuto il suo gusto preciso.

Un giorno, a metterlo di malumore gli capita una lettera del Faraggiola che, anche a nome dell'Estensi, gli domanda notizie della baronessa Arcolei:

«Sai dirmi qualche cosa della nostra cara donna Stefania? Abbiamo scritto, riscritto a Borgoprimo e a Milano, ma con noi continua a non dar segno di vita. E con te?... Sei stato più fortunato?....»

— Uff!

..... Risponderò stasera, risponderò domani..... Francesco non ha mai risposto. Non è già il tempo che gli è mancato; è stata la voglia. Ormai gli secca, gli pesa tutta quella gente egoista, monotona e così vecchia d'idee, di giudizi.... di tutto.

— Risponderò dalla Svizzera!

Ma presto anche alla Svizzera non ci pensa più....

Alle cavalcate succedono adesso le scarrozzate. Egli stesso guida i due cavalli del brèc, e con una scusa o coll'altra, passa sempre dalla Casa Vecchia a prendere anche le signore. Una sera, [394] appunto, Francesco ed Elena hanno combinato, insieme alla signora Eugenia, una grande trottata per la mattina dopo fino a Valpiana, dove ci sono da visitare i lavori di un nuovo ponte sul Lambro.

Il brèc deve trovarsi alla Casa Vecchia per le otto e mezzo, e alle otto in punto aspetta già nel cortile dinanzi alla villa. Anche Francesco scende quasi subito: dà un'occhiata ai cavalli, scambia qualche parola col cocchiere e sta già per montare a cassetta, quando vede entrare dal cancello il fattorino del telegrafo.

— Ci siamo! — Borbotta rannuvolandosi. Apre in fretta il dispaccio, legge e fa un atto di stizza:

«Vado a Milano per poche ore: vi aspetto in casa verso mezzogiorno».

— Eh, già! — sospira — una volta o l'altra mi doveva capitare!

Fa due o tre passi per uscire, per correre alla Casa Vecchia a portare quella notizia, poi subito si ferma:

— Ed Elena?.... Se mi domanda dove vado?... Perchè vado via?...

Non gli regge l'animo di tornare lassù, di rivedere Elena, di salutarla, chi sa per quanto tempo!

[395] — Chi può mai indovinare i nuovi progetti e i quarti di luna della baronessa?

Scrive in fretta due righe alla signora Eugenia scusandosi «per dover rimandare la gita ad un altro giorno» e colla stessa carrozza già attaccata, sbuffando e brontolando, parte per Milano.

— Rimandare la gita!... Un altro giorno! — pensa in cuor suo. — E se invece non potrò più ritornare a Lodignola?

Quella campagna, que' suoi luoghi non gli sono mai sembrati tanto belli e tanto cari.

[397]

IV.
Il culto delle memorie.

Il Roero trova donna Stefania che lo attende nel salottino solito, vicino alla camera da letto. Le finestre sono spalancate; c'è una gran luce, un gran caldo e un gran disordine. I mobili sono ricoperti colle federe di tela greggia; sul canapè, sulle poltrone un monte di pacchi e pacchetti, di scatole e di ceste: tutta roba da portare in campagna.

Appena entra il Roero, donna Stefania gli va incontro guardandolo con un'espressione afflitta e compunta, senza dirgli una parola, senza dargli la mano: fa un gran sospiro, leva da una borsetta appesa al braccio un fazzoletto con un grande orlo nero e si asciuga gli occhi.

[398] Anche il Roero sospira profondamente;

— Coraggio!... Bisogna farsi coraggio!

— Dite, dite la verità! — Prorompe Stefania con uno schianto di cuore. — Chi lo avrebbe immaginato?... Oh povero Giulio! Chi lo avrebbe mai immaginato?

— Così giovine ancora....

— È così buono.

— Buonissimo! Eccellente! Pure.... bisogna farsene una ragione. Da molto tempo le sue condizioni erano disperate. Consolatevi pensando che ha finito di soffrire e che voi lo avete assistito fino all'ultimo con ogni cura più affettuosa, col sacrificio di tutte le ore, in un modo mirabile, commovente.

— Oh sì, sì! Povero Giulio! Egli ha avuto tutte le mie ore, tutta la mia vita! Questo sì. In questo almeno ho fatto il mio dovere. È un grande conforto per il mio cuore e per la mia coscienza.

Altri sospiri.... e ancora il fazzoletto.

Il Roero rimane muto, a capo chino, atteggiato a dolorosa mestizia; pure ogni sospiro della baronessa gli rialza lo spirito. Egli sente in quel momento che la catena invece di essergli ribadita comincia ad allentarsi, ed è proprio quello, per [399] lui, il momento decisivo, il momento critico. Il suo avvenire, la sua libertà, e la sua felicità dipendono ormai da quella prima visita, da quel primo incontro... dalla prima parola che gli avrebbe detto donna Stefania rimasta vedova.

«Ci siamo!» Aveva pensato Francesco appena ricevuto il dispaccio, e durante il viaggio da Lodignola a Milano egli si era fatto forte cercando di prevedere e di prepararsi per tutti i casi possibili.... quello fra gli altri che Stefania gli buttasse le braccia al collo esclamando:

— Ora sono tua... anche colla coscienza!

Ogni uomo ha la donna che si merita: egli avrebbe dovuto accettare e mostrarsi grato della nuova offerta.

Invece, insperatamente, la coscienza della baronessa è rimasta fedele al povero defunto. L'orario, anche per quella prima visita, indica il culto delle memorie e il dolore della vedova.

Francesco ha uno slancio: prende una mano della baronessa e gliela stringe con sincera effusione.

Ella scioglie dolcemente la mano, si scosta dal Roero, vorrebbe vincersi ed esclama con un tono di voce diverso, troppo forzato, per poter sembrare indifferente:

[400] — Troviamoci un posticino; sediamo, almeno un momento. Sono tanto stanca! Anche voi: aiutatemi a sbarazzare il canapè.

Il Roero le corre vicino, prende i pacchi e le ceste e intanto l'osserva alla sfuggita:

.... Sta malissimo in nero! Il biondo dei capelli è troppo giallo. È molto giù. È molto invecchiata.

— Scusate, Francesco, tutto questo disordine. Sapeste quante cose ho avuto da fare stamattina! Adesso, aspetto la sarta e poi torno subito a Borgoprimo.

— Allora anch'io, — pensa il Roero, — torno subito a Lodignola!

Ha un nuovo slancio e con un braccio cinge la vita della baronessa.

— No! No! — Ella ha ancora uno sfogo di dolore. — Perdonatemi, Francesco! È più forte di me. Voi avete tutto il diritto di pensare e di dire che è un'assurdità, che è una contradizione.... Eppure, che volete? È proprio così! Sto poco bene; soffro; non posso vedermi a Milano. Qui tutto mi ricorda il povero Giulio.... e il povero Giulio non c'è proprio più!... È una pazzia? Sono pazza? Dite la verità.

[401] — No... tutt'altro! Anzi, vi assicuro, a me pure ha fatto molto senso.... un gran senso.

— Così buono! Così profondamente buono! È morto come un angelo, domandando perdono a tutti.... anche a me.

Il Roero, che guardava Stefania, guizza via con gli occhi e abbassa il capo: sembra umiliato e confuso, da tanta bontà.

Ella continua colla voce sommessa, dolorosa:

— Mi sono buttata sul suo letto per confessargli tutto! Io, io sola, dovevo chiedere, implorare il suo perdono!... Oh come avrei voluto ottenere il suo perdono!

S'interrompe un istante... rivolge in alto il cuore e gli sguardi.... poi l'anima si prostra e rimane accasciata nell'angolo del canapè, mormorando, le grandi pupille fisse nel vuoto:

— Adesso.... lo sa.

Il Roero sogguarda la baronessa colla coda dell'occhio, la studia.

— Ma perchè mi ha fatto venire a Milano? Per assistere a' suoi rimpianti vedovili è troppo poco. Ci deve essere un altro motivo.... Quale sarà?

Egli è sempre un po' inquieto.

[402] — Anche nel suo testamento — ripiglia Stefania con un lungo gemito, — persino nelle sue ultime disposizioni mi ha dato prova di tanto affetto, di tanta fiducia e di tanta stima! Mi ha nominata sua erede universale ed ha lasciato a me anche la cura dei legati di beneficenza, dei ricordi ai parenti, agli amici.

— Ha fatto molto bene. Bravo!

— Tutto ciò.... capirete anche voi, impone nuovi riguardi verso la sua memoria; nuovi doveri....

Il Roero annuisce con un'aria contrita e rassegnata, ma sta sempre più attento.

— E impone anche nuovi sacrifici. Adesso, per esempio, coi suoi parenti devo mostrarmi gentilissima.

— Sicuro!

— Aspetto da Novara mia cognata e mia nipote. Le ho invitate a Borgoprimo, si fermeranno un mese e forse più.

— Tutt'e due?

— Tutt'e due.

— Madre e figlia?... Questo, per esempio, è un vero eroismo. Sarebbe già un bel peso.... una alla volta.

[403] — Curiose, pettegole, sofistiche. Dio mio! Portano sempre a spasso la loro virtù!

— Non hanno nient'altro da portare a spasso... di bello!

La baronessa non può frenare una risatina. Le due brave signore erano sempre state il babau de' suoi amici: quando o l'una o l'altra capitava a Milano, scappavano tutti come il vento!

Ella si avvicina a Francesco più insinuante e per la prima volta, in quel giorno, gli dà del tu:

— Per tante ragioni di convenienza, di delicatezza e di prudenza, capirai, appena successa la disgrazia, desidero che mia cognata e mia nipote, venendo da me, mi trovino sola.

— È giusto, pur troppo! Giustissimo!

La baronessa guarda l'amico e lo ringrazia senza dire una parola, con un malinconico sorriso.

Ella pure è stata, fino allora, un po' inquieta; non molto, ma un po' inquieta, sì. Da lungo tempo aveva già capito, aveva già sentito che Francesco ormai le era legato soltanto per dovere di gratitudine e per forza di abitudine; tuttavia aveva temuto un po' di burrasca. Morto l'amore gli sopravvive sempre l'amor proprio.

[404] — Sei buono! — E teneramente avvicina la fronte alla bocca del Roero. Questi continua a osservarla; Stefania deve aver preso troppo sole; ha la pelle ruvidetta; ha due rughe agli angoli della bocca... Non se n'era mai accorto! Due rughe lunghe, profonde!... La bacia appena sui capelli... e le stringe molto forte la mano.

— Tutto questo, — continua donna Stefania, appoggiando il capo sul petto di lui, — dovevo dirtelo e ho voluto dirtelo. Scriverti? Che cosa mai avresti potuto pensare di me? Ci sono certe sensazioni, certe impressioni che si possono rivelare con una sola parola, con uno sguardo, ma che cento lettere non basterebbero a spiegare. Io a te non avrei mai potuto scrivere di non venire. Adesso, invece, sei tu stesso — non è vero? — che trovi ciò conveniente, necessario...

— Bisogna sottomettersi a certi riguardi... sia pure con dispiacere.

Francesco le stringe ancora la mano, gliela accarezza e gliela bacia. La baronessa comincia ad essere più disinvolta:

— Oltre a ciò che t'ho detto, volevo poi vederti, invece di scriverti, prima di tutto... per vederti, poi anche per chiederti un favore.

[405] — Finalmente! Adesso ci siamo! — Pensa il Roero. Non la guarda, ma rimane attentissimo.

— Tu stesso devi consigliare a Carletto e a Manòlo di non tormentarmi con lettere e con telegrammi, di lasciarmi in pace.

— Io?

— Sì, sì! Ti prego. Se fo' l'immenso sacrificio di non veder te, che almeno mi sia risparmiata la noia di quei due insopportabili egoisti! Figurati, hanno già incominciato a scrivermi a due e a quattro mani!... E con certe allusioni, con certi scherzi a proposito dei miei voti, del mio ritiro, della mia vita claustrale, che mi hanno molto irritata. No, no; l'esprit non è proprio il loro forte! Quando era vivo il povero Giulio, pazienza! Hai visto anche tu, erano utilissimi, specialmente in campagna. Di giorno lo tenevano occupato, la sera giocavano a biliardo, senza notare che nel nostro caso in cinque, si è molto più liberi che non in tre. E poi allora c'era la politica, allora c'erano le influenze da coltivare, il Municipio... ma adesso? Tu andrai in Isvizzera, e tutto il resto.... aveva uno scopo soltanto quando c'era il povero Giulio. Io non ho più voglia di niente. Non ho più fatto [406] uno sgorbio, non mi sono più seduta al pianoforte. Impossibile! Ti prego; è una grazia che ti domando: in compenso del grandissimo sacrificio di non vederti, salvami da Carletto e da Manòlo!

— .... Per me, ben volentieri. Sempre.... Tutto ciò che vuoi! Ti confesso, per altro, che mi trovo in un serio imbarazzo. Come fare? Il Faraggiola e l'Estensi non sono a Milano... Andar apposta a cercarli per tener loro un simile discorso....

— Scrivi. Non vai a Zermatt? — Francesco risponde con un gesto che non è nè un sì nè un no, ma che Stefania crede un sì. — Scrivi loro, appena sei a Zermatt, che ti trovi benissimo, che c'è fresco e di venire a raggiungerti.

— Per scrivere, scrivo anche da Milano, se vuoi, oggi stesso.

— Meglio ancora. Bravo. Potreste combinare di fare il viaggio insieme. L'agosto è il più bel mese per la montagna.

— Tuttavia.... scusa, perchè, invece, non scriveresti francamente tu stessa?

— Perchè andrei suscitando chissà mai quali sospetti! — Ella torna ad avvicinare la fronte.... e finisce ad appoggiarla alla bocca del Roero. — Penserebbero [407] che è un tuo capriccio; che sei tu, sempre geloso a sbalzi, che mi hai imposto di non ricevere, e un bel giorno, sono sicurissima, me li vedrei a capitare, mi farebbero una cara improvvisata! Vogliono distrarmi per forza!

— Ma io... se c'entro io, il pericolo è lo stesso, anzi è maggiore!

— No, no. Tu devi scrivere che mi hai veduta a Milano, un momento, alla sfuggita; è la verità... Che mi hai trovata molto stanca, molto abbattuta, che ho assolutamente un grande bisogno di riposo, di quiete per rimettermi in salute... e aggiungi anche questo — è la verità — che sono occupatissima, sempre sossopra, per l'amministrazione, per i legati... e che anche tu non vieni più, per ora, a Borgoprimo, non volendo seccarti con mia cognata e con mia nipote che vi faranno una lunga dimora.

— E anche questa... quasi quasi... è la verità! — Il Roero diventa vivace e buono. Promette alla baronessa di scrivere in giornata ai due amici in modo di spaventarli.

— Sta tranquilla! L'annunzio delle tue ospiti farà un effetto terribile!

— Lo credi? Proprio?

[408] — Giuro! — E il Roero scoppia in una grande risata.

Lì per lì, scoppia a ridere allegramente anche donna Stefania, ma subito se n'avvede e torna seria. Tuttavia non è più il caso di mostrarsi gemebonda; si mostra invece gelosa:

— Adesso mi dirà poi, caro signore, che cosa ha fatto in tutto questo tempo... sempre a Lodignola.

Il Roero, prima di rispondere, cerca una sigaretta:

— Ho fatto molte cose. Anch'io ho voluto dare un'occhiata alla mia amministrazione; ho sistemato un po' le mie faccende.

— E a proposito, la pupilla? La cara orfanella? Sentiamo un po': vi vedevate spesso?

Francesco sembra distratto: si diverte a spingere più in alto il fumo della sigaretta.

— Mi sono informata, a suo tempo: non dubitare! — Donna Stefania stringe le labbra con una smorfietta sprezzante. — So, so; mi hanno detto: è diventata una nanerottola qualunque. È per questo che ti ho lasciato tranquillo a Lodignola.

Donna Stefania dà una languida occhiata al Roero appoggiandosi al canapè, allungandosi, stirandosi con stanca mollezza e agitando i piedini [409] agili, nervosi che spuntano tra le sottane come i pistilli tra le foglie d'un fiore. Cerca la mano del Roero che non si muove, ma ad un tratto le sue pupille si fermano attente fissando l'uscio: ha un lampo, e una ruga le incide la fronte. Ella ha sentito camminare nell'altra stanza... Il passo si avvicina, e sulla soglia si presenta un giovinotto pallido in viso, gli occhi torvi. Donna Stefania s'è già alzata di scatto, allo schiudersi dei battenti.

— Ebbene, signor Enrico? Ha trovata la sarta? L'ha accompagnata come le ho ordinato? — La baronessa si frena a stento, il suo tono è aspro, imperioso.

— È di là, — risponde il giovinotto, esso pure con voce alterata e lanciando verso la baronessa uno sguardo di collera e di gelosia.

Il Roero non vede niente; pensa solo ad andarsene. Va a prendere, con aria diplomatica, il cappello, il bastone e ringrazia in cuor suo il nuovo arrivato che gli rende più facile il peggior passo... che nel suo caso è proprio quello dell'uscio.

— Baronessa, coraggio e... non dimenticate troppo gli amici.

— Come? Andate già? Così presto?...

[410] — Sento che avete da fare: c'è la sarta.

— La sarta può aspettare. Guardate un po', Francesco, questo bel signorino! — La baronessa fa l'atto di presentarglielo. — Non lo riconoscete più?

Francesco saluta con un lieve sorriso, e guarda il giovine per la prima volta: è un bel ragazzo, piuttosto, ma dall'aspetto un po' volgare.

— No, proprio. — Il Roero s'inchina e si volta alla baronessa scrollando il capo: — Non ricordo di aver mai avuto il piacere...

— Ma... Enrichetto!... Il nostro Enrichetto! — esclama donna Stefania gridando e ridendo con foga esagerata. — Il figlio del signor Franzini!... Del nostro ragioniere!

— Ah!... — Il Roero si espande: strette di mano e complimenti; ma la scoperta non lo ha punto commosso. — Sia il benvenuto anche il signor Enrichetto! Io, intanto, saluto e me la batto! — Questo pensa in cuor suo e questo gli preme: nient'altro!

— È stato in Germania, fin'ora; a Francoforte. — La baronessa continua le cerimonie della presentazione.

[411] — Benissimo!

— Alla scuola di commercio, dove s'è fatto onore.

— Bravo! Molto bravo!

— Adesso è nello studio col suo babbo; è di aiuto al suo babbo, e qualche volta, quando vengo a Milano, mi fa da cavaliere.

Donna Stefania sorride, rivolgendosi al giovinotto, con tutta la graziosa compostezza di una gran dama, sempre amabilissima, pur conservando le debite distanze.

— Poveretto! Deve aver messa a ben dura prova la sua pazienza!... Dica la verità? L'ho fatto correre su e giù tutta la mattina, abusando in modo indegno del suo tempo e della sua gentilezza!

Il signor Enrichetto si mostra pochissimo disinvolto. Resta lì duro, impalato; non risponde e non si muove. La baronessa e il Roero devono salutarsi dinanzi a quel tanghero che non capisce nemmeno di dover voltarsi un momento... a guardare i quadri.

— Donna Stefania, fate buon viaggio, e abbiate cura di non strapazzarvi troppo. Oggi stesso, scriverò a Carletto e a Manòlo.

— No, no! O all'uno o all'altro! Una lettera sola... per tutti e due!

[412] — Da buoni fratelli!

— E ricordatevi, questo poi mi preme di più. Voglio conoscere minutamente i vostri progetti di viaggio. La Svizzera, sta bene; ma andrete proprio a Zermatt?

— Probabilissimo.

— Dovete scrivermi ancora prima di partire, e poi subito appena arrivato.

Si stringono la mano: la baronessa segue il Roero fin sull'uscio, bisbigliandogli qualche paroletta nel modo più confidenziale, più intimo, più affettuoso... e prima di lasciarsi si stringono un'altra volta, due o tre altre volte, la mano.

Il signor Enrichetto diventa prima rosso, poi pallidissimo.

[413]

V.
Il Nino Moro.

Il Roero, appena uscito con pie' leggero dal palazzo Arcolei, guarda l'orologio e fissa subito il suo piano:

— È appena il tócco; alle tre si parte e per le otto sono a pranzo a Lodignola.

Tutti gli altri pensieri vengono dopo, a poco a poco.

— Proprio così!... Chi me lo avrebbe detto! Il giorno in cui mi credevo legato più che mai, riacquisto invece la libertà! Perchè, non c'è dubbio: Stefania ha tutta l'intenzione di lasciarmi libero!

Egli accende una sigaretta: è la prima, quel giorno. Si sente sollevato: anzi, ormai, si sente affatto libero.

[414] — Tanti saluti, signora baronessa!

Dopo la morte del povero Arcolei, egli aveva il dovere... di mettersi a sua disposizione e questo dovere lo aveva compiuto. È la baronessa che, invece di trattenerlo, lo manda in Isvizzera, al fresco, ed egli ormai si sente nel pieno diritto di pigliare il largo per sempre.

— Tanti saluti, signora baronessa!

Egli ripensa al loro colloquio di quella mattina, ai sospiri, alle lacrime, ai rimorsi e agli scrupoli così delicati della vedova sensibilissima... E ripensa anche alla lettera che deve scrivere al Faraggiola e all'Estensi.

— Tutti e tre! Ha proprio l'intenzione, almeno per il momento, di farci pigliare il volo a tutti e tre!

Torna a sorridere con un po' di malizia.

— Che ce ne sia un quarto?... Impossibile!... Eppure, il solo culto delle memorie mi pare un po' pochino per il suo fervore... In ogni modo, se un altro c'è, arriva tardi allo spettacolo: quando si comincia a spegnere i lumi!

E così, dopo aver tanto amato e tanto sofferto per quella donna, dopo averle tanto sacrificato della sua vita, de' suoi sogni di gloria, delle sue [415] idee e anche della sua coscienza, ormai, sul punto di staccarsene per sempre, egli non trova per lei, in fondo al cuore, nè un rimpianto, nè un ricordo: soltanto un frizzo e una risata!

— E adesso passiamo un momento dall'Olivieri. Se c'è qualche seccatura, la si sbriga presto, e così, per un pezzo, non torno più a Milano!

Accende un'altra sigaretta e la sua faccia s'illumina a un tratto. Sembra diventi più giovine.

— E Lulù?... La piccola Lulù?!... Bisogna comperarle un regalino!... Nanerottola!... Ah! Ah! — Francesco ride allegramente. — Vorreste avere la sua freschezza, cara baronessa e i suoi occhi! Pensiamo che cosa si deve prendere per fare un'improvvisata alla piccola Lulù. Dolci, intanto, canditi e cioccolattini, perchè è golosissima. Poi si può cercare dal Confalonieri se ci fosse una spilletta, un gingillo qualunque. Andiamo a vedere!

Affretta il passo verso la galleria, dov'è la bottega dell'orefice, e rimane un pezzo di fuori, a guardare nella vetrina.

— Ecco! Quello è carino! — Sono tre cerchietti uniti, uno di piccoli smeraldi, uno di rubini, uno di diamanti, che formano un solo anello. — È [416] carino e le piacerà certo. L'altro, che le ha regalato l'Olivieri, è diventato troppo stretto.

Prende l'anello e va dal Cova per i dolci. Vede una confettiera che è anche una magnifica bambola e sceglie subito quella mettendosi a ridere.

— Alla prepotentissima signorina Lulù si porta da Milano... una bambola!

Fa nascondere l'astuccio dell'anellino in mezzo ai dolci e continuando a sorridere scrive sulla scatola di cartone: Una bella signora di Milano venuta a Lodignola a far visita alla Contessa. Sorveglia finchè la scatola è ben involta nella carta e ben legata e raccomanda che gliela mandino subito a casa.

— Subito, — ripete ancora nell'uscire. — Riparto oggi stesso.

E contento e soddisfatto si avvia verso lo studio dell'Olivieri.

Una bella signora di Milano venuta a Lodignola a far visita alla Contessa!

Gli par di sentire il riso allegro, schietto, argentino della bella giovinetta.

Piccolissima Lulù, prepotentissima!

In quello stesso giorno, mentre il Roero faceva [417] la sua visita a donna Stefania, l'Olivieri vedeva capitarsi nello studio, improvvisamente, il Nino Moro di Lodignola.

— Come... Lei qui?

— Sissignore. In due parole mi sbrigo. Vengo ad avvertirla che mi sono diviso da mio padre e che perciò non sono più al servizio del signor Roero.

— Va bene. — L'Olivieri, dopo aver squadrato il giovinotto con un'occhiata scrutatrice, lo licenzia con un cenno del capo e fa per avviarsi alla scrivania; ma poi si ferma di botto, con un gesto di collera, e si volta: — S'è inteso con suo padre? S'è messo d'accordo con suo padre? Sì?... Allora va benissimo! S'accomodi! Era affatto inutile ch'ella venisse qui da me con tanta importanza e con tanta superbia, a dare le sue dimissioni. Per il signor Francesco e per me, chi deve rispondere di tutto a Lodignola è suo padre. In quanto a lei può andare, stare, è indifferente. Sono affari interni di famiglia che non mi riguardano. A me basta che a Lodignola non manchi il personale.

— Oh no! Anzi!.... Ce n'è fin troppo del personale a Lodignola! — Il Nino Moro sghignazza [418] ironicamente e un lampo d'odio gli passa negli occhi. — C'è troppa gente a Lodignola e dà fastidio. Tanto è vero questo, che il signor Francesco mi ha mandato ipso facto a Casalpò a sorvegliare... quando fa la luna!

L'Olivieri nella determinazione presa dal giovinotto, nel suo contegno, nella sua arroganza, in quella sua specie di rivolta, non vede altro che l'amore per Elena, e lo scopo di far colpo sulla ragazza, di far breccia nel suo cuore, cosicchè diventa più aspro, quasi brutale.

— Se il padrone l'ha mandato a Casalpò, vuol dire che avrà avuto i suoi buoni motivi e in quanto a lei, caro signore, il suo dovere è quello di obbedire senza permettersi tante osservazioni.

— Finchè uno ha «un padrone», come dice lei, tutto questo va benissimo, ma io pianto appunto mio padre e il signor Roero, perchè «padroni» non ne voglio avere.

— Se avesse cuore, — ribatte l'avvocato, il quale sente d'essersi lasciato trasportare e che per questo, invece di frenarsi, s'irrita sempre di più, — s'ella avesse cuore, penserebbe a suo padre, alla sua famiglia... e anche alla sua condizione.

[419] Il Nino Moro vede che l'altro è un po' giù di strada e perciò prosegue più sicuro:

— Come l'ho dichiarato in casa mia, lo dico anche a lei: ho bisogno di lavorare, ma non sono nato per servire. Le ho portato la chiave del mio scrittoio: registri, note, conti, troverà tutto in regola. Occorrendole, al caso, qualche schiarimento, mi mandi a chiamare. Verrò subito qui, al suo studio. Il mio indirizzo è via Lentasio, 37. Ormai non torno più a Lodignola. Sto a Milano, a lavorare... perchè a Milano c'è molto da lavorare per tutti e in tutti i modi. Servitor suo.

Egli fa per andarsene, ma l'altro lo trattiene per un braccio, guardandolo bene in faccia. Il giovinotto vuol tener duro... ma dopo un momento si confonde e abbassa gli occhi.

L'avvocato gli lascia andare il braccio, va a richiuder l'uscio, torna alla scrivania e siede.

— Permetta una parola prima di andarsene così.... S'accomodi.

Il Nino Moro, diritto in piedi dinanzi alla scrivania, rigira fra le dita nervose la larga tesa del cappello a cencio.

— Si accomodi.

[420] Il giovine siede, accavallando una gamba sull'altra, per mostrarsi indifferente e sicuro.

— Mi dica un po' che cosa vuol fare e in che modo intende di lavorare?

— Scusi.... I conti che io devo rendere a lei, gliel'ho detto: sono a Lodignola, nello scrittoio, e le ho data la chiave.

— Sta bene, quelli sono i conti che mi deve rendere.... il mio dipendente, o se le accomoda meglio, il dipendente del signor Roero, prima di lasciare il servizio e la casa. Guarderò, e non dubito, saranno in piena regola. Ma ci sono ben altri conti da regolare fra me e lei, i conti che un uomo di cuore e un vero galantuomo deve sempre poter rendere al suo benefattore.

— Benefattore? — Esclama il Nino Moro, balzando in piedi.

— Sissignore! Benefattore! — Ripete l'Olivieri alzandosi a sua volta. — Oh, no, no, non è il caso di sorridere e tanto meno di sogghignare! Non creda già che io voglia ricordarle i pochi aiuti materiali che posso aver dati a suo padre, i pochi vantaggi che posso aver procurato anche a lei. Ma che! Di tutto ciò, tanto lei, quanto suo [421] padre, si sono già sdebitati col lavoro, coll'attività, colla fedeltà. Ma io, a lei.... Ma io, a te, a te, ragazzo mio, ho fatto del bene, del gran bene, non materiale, del bene morale. Io ho consigliato a tuo padre di mandarti a Milano a studiare; io, parlando, discorrendo con te famigliarmente, ti ho dato le mie idee sui diritti e sulla eguaglianza. Sono io, che ti ha aperto, rischiarato l'orizzonte, che ha spazzato via da Lodignola quegli avanzi del medioevo, quegli avanzi del feudalismo che vi regnavano ancora quando tu eri un ragazzo. È per questo, che io sono anche il tuo benefattore e che mi vanto di esserlo, ed è per questo che oggi io ti domando che cosa intendi di fare e in che modo intendi di lavorare. Voglio saperlo e ho diritto di saperlo! Sì, guardami pure: se ti senti del coraggio in faccia mia, anche questo lo devi a me: la tua fierezza, la tua coscienza d'uomo, te le ho date io!

Nino è diventato pallido, smorto, il suo sguardo è smarrito, si perde, il suo respiro si fa sempre più affannoso, vorrebbe rispondere, non può, non sa, ha un tremito, un sussulto.... Finalmente, dopo uno sforzo, balbetta colla voce rotta, rauca:

[422] — Lo ha detto anche lei.... Il mondo non può più andar avanti così!

— Ma non l'ho detto per me! L'ho detto per gli altri... Pei molti altri che soffrono assai più di me... e di te.

— Lei non può sapere come soffro io! Quanto soffro io!

Lo sguardo vivo rilucente dell'avvocato sembra spegnersi in una malinconia profonda. Egli ha un lungo sospiro, poi riprende:

— Chi sa?... Forse potrei anche saperlo... più assai che tu non creda! Mettiti, per altro, ben in mente, che il mondo non potrà mai cambiarsi... come intenderesti tu. Al mondo ci saranno sempre delle belle ragazze che bisogna assolutamente dimenticare... perchè non si potranno mai sposare.

Il Nino Moro irrigidisce, aggrotta torvo le ciglia.

L'Olivieri gli si avvicina e gli prende una mano, affettuosamente.

— No, non irritarti, non l'ho detto per offenderti!... E continuo a darti del tu, come a un mio figliuolo. — Poi soggiunge con voce più sommessa: — Finchè al mondo ci saranno degli innamorati, ci saranno sempre dei felici e degli infelici. Coraggio, [423] ragazzo mio! Finora hai agito da galantuomo, da uomo dignitoso e forte; continua così. Tu ami e non sei riamato? Ebbene per il momento sarà anche una disgrazia, ma non renderla più grande, forse irreparabile... E sopra tutto, ricordati, che questa disgrazia tua non diventi una disgrazia per nessun altri, nè per tuo padre, povero vecchio, che per te s'è levato il pane di bocca e che ti adora come il suo Dio in terra... e neanche per un'altra persona..... Specialmente per lei, se proprio le vuoi bene: per la signorina Elena.

Solo a sentire quel nome semplice e chiaro, «signorina Elena», il povero Nino scoppia in un pianto dirotto.

— Su! Su! Calmati! Coraggio! Sii uomo! — L'Olivieri a sua volta, allo spettacolo di quel dolore, alla vista di quelle lacrime, si sente sossopra. — Vivaddio, sii uomo!.... Quanto più si soffre, tanto più bisogna esser forti!

Il Nino Moro ha un impeto di rivolta contro sè stesso. Si asciuga le lacrime coi pugni chiusi, con dispetto, con rabbia:

— Sissignore... ha ragione lei; e anch'io, posso giurarlo, ho sempre pensato così: dev'essere una [424] disgrazia soltanto per me. Per questo non sono più tornato alla Casa Vecchia, per questo rimanevo nascosto, non mi lasciavo più nemmeno vedere. Ma il signor Francesco, lui, non doveva mai fare ciò che ha fatto.

— Il signor Francesco? — L'Olivieri non capisce. — Che cosa ha fatto il signor Francesco?

— No! Non aveva nessun diritto! Sono il figlio del suo fattore, questo lo so e non l'ho mai dimenticato. Ma, come dice anche lei, signor avvocato, sono un uomo anch'io e, lo ripeto, il signor Francesco non aveva nessun diritto di trattarmi... come mi ha trattato!

— Ma, insomma, che cosa ha fatto?

— Mi ha mandato via dalla mattina alla sera, mi ha mandato a Casalpò con una scusa qualunque, perchè a Lodignola... gli davo ombra.

— In questo ha agito prudentemente! Ha fatto quello che, al suo posto, avrei fatto anch'io. Ti ha allontanato per distrarti, pel tuo bene.

— Nossignore! Soltanto... perchè gli davo ombra.

— Appunto, e lo approvo. Una ragazza, specialmente in un piccolo paese, è tenuta d'occhio, è subito compromessa. Basta un'imprudenza da [425] parte tua anche involontaria, per far succedere dei pettegolezzi, dei guai. Il signor Roero ha l'obbligo di tutelare e di guidare la signorina Elena perchè è come suo padre.

— Ma che padre! Creda a me! C'è una bella diversità! Ah! Ah! Suo padre!

Il giovinotto dà in una risata ironica e l'Olivieri lo guarda attentamente.

— Suo padre? Comincia alla mattina a caracollare sotto le sue finestre a cavallo! Poi, tutto il giorno alla Casa Vecchia, a colazione, a pranzo, a insegnarle a giocare al tennis, a montare a cavallo; poi passeggiate, scarrozzate, anche di sera, col fresco e colla luna...

L'Olivieri lo interrompe indignatissimo:

— Basta così! Non ti permetto più una sola parola! La signorina Elena aveva quattro o cinque anni quando le è morto il padre, e il signor Francesco l'ha sempre tenuta come una sua figlia!

— Ma in tanto tempo che la signorina è stata a Lodignola, chi lo ha mai visto il signor Francesco? Ha aspettato che avesse... diciannove anni... a diventare suo padre!

L'Olivieri si arrabbia anche di più, non già contro il Nino, ma adesso contro Francesco.

[426] — Quello là crede di essere a Milano, — pensa tra sè, — di poter fare come a Milano, di portare a Lodignola gli usi di Milano! Balordo e leggero! Crede ancora di giuocare con... Lulù... e non si accorge nemmeno che adesso Lulù è diventata una signorina di diciannove anni!

Tutte le ragioni che ha per non dubitare del Roero, l'Olivieri le espone con tanta persuasione, con tanta sicurezza, che il giovinotto comincia ad esserne scosso, poi finisce a persuadersene.

— Ma non sai che il signor Francesco ha due anni più di me?... E che ha altro in mente, caro mio, che le ragazze? Perchè è venuto a Lodignola?... Te lo dico io, perchè lo so... Cioè, no... A cagione di certi riguardi che doveva mantenere! Perchè a Milano per un po' di tempo... non era il caso! Adesso vedrai! In due o tre giorni sparirà di nuovo da Lodignola... e non si vedrà più! Ma diventi matto?... Sei diventato matto!

L'Olivieri questa volta scoppia in una grande risata che scende come balsamo nel cuore del Nino Moro.

— Il signor Francesco far la corte alla signorina Elena?... Lui, più vecchio di me! Con due anni più di me!

[427] L'Olivieri continua a ridere, ma la sua stizza contro il Roero si fa più viva.

— Mettersi a fare l'elegante, il lion a Lodignola, come a Milano!... Che senza testa! Non vuol mai decidersi a diventar vecchio... e ha due anni più di me.

L'avvocato si rivolge ancora al Nino Moro, e gli aggiunge qualche parola, sempre per persuaderlo, per calmarlo, per rabbonirlo.

— Adesso va via, e domani a quest'ora, anzi un po' più tardi, dopo le quattro, torna qui da me. Devi restare a Milano, in questo sono d'accordo, e non dubitare: sei giovine... passerà. Oppure... resterà, non come un dolore, ma come una poesia, la bella poesia della prima giovinezza che si diffonde poi per tutta la vita. E amerai ancora, e più fortemente. Sì, sì. Credilo a me. È il tuo primo amore, questo! È come il sole che tramonta tra le nuvole, ma che risorge alla mattina a cielo sereno. Quello che porta con se tutte le illusioni, non è il primo, è l'ultimo amore, l'ultimo raggio che serve solo a mostrarci... il gran buio che ci sta dinanzi e dintorno.

L'Olivieri si interrompe, tace un momento, poi [428] si sforza e riprende a parlare con foga, riscaldandosi mentre accompagna il Nino Moro fin presso l'uscio:

— Torna domani. Discorreremo. Sì, sì, devi restare a Milano, devi lavorare per te... e per gli altri. E ti guiderò un po' anch'io! Anzi, lavoreremo insieme... non subito... quando sarai più calmo, più tranquillo, quando comincerai a dimenticare. E ricordati... per lavorare per gli altri... come intendiamo noi, non bisogna avere l'odio nel cuore, bisogna avere l'amore. È coll'amore, non coll'odio che si può riuscire a fare qualche cosa di buono, di bello ed anche di grande a questo mondo!

[429]

VI.
Gelosie.

Uscito il Nino Moro, l'avvocato continua a passeggiare su e giù per lo studio, arrabbiandosi, con degli scatti improvvisi contro il Roero.

— E pensare che ci fu un tempo in cui io l'ho creduto davvero un uomo d'ingegno! Non è mai stato altro che un egoista, un gaudente!... Nient'altro!

Soffia, sbuffa, gira, rigira, si tira la barba, poi scatta di nuovo:

— Si fa menare per il naso dalla baronessa Arcolei per tutta la vita e nei brevi intervalli si diverte, povero Dodò, a fare il gingillone colle celebrità internazionali dell'Eden, o a fare il papà con Lulù, dimenticandosi che gli anni passano e [430] che Lulù è diventata la signorina Elena! Testa vuota, inconcludente! Uff!... Che testa leggera!... E quella candida innocentona della signora Eugenia che continua ad ammirarlo, estatica, a bocca aperta! E anch'io che aspetto adesso a persuadermene, e ne ho fatto un grand'uomo a scartamento ridotto, per Lodignola! Ha ragione il Nino Moro! In tanti anni non si è mai fatto vedere, ma ora che la bimba è diventata una ragazza, una signorina, capita d'improvviso alla Casa Vecchia, e vi prende domicilio! Ha ragione il Nino Moro!...

A questo punto l'Olivieri non soffia più, non sbuffa più: sospira profondamente.

— Eh sì!... Proprio vero quel che ha detto la signora Eugenia... Nino è giovine, ha ragione, è innamorato, è nel suo diritto... E in fondo è anche un bravo giovine, onesto, intelligente, abbastanza educato. Forse ci siamo spaventati troppo... e forse siamo noi, invece, dalla parte del torto. Io specialmente!... Balordo e leggero anch'io!... C'è stato un momento in cui, proprio, avevo perso la testa!

L'Olivieri si ferma su due piedi, pensieroso: l'espressione del suo volto cambia a un tratto: non è più acceso dall'ira; s'è fatto smorto, coi segni [431] di una grande angoscia. Gli appaiono sotto gli occhi due lividi, si fanno profondi, scendono giù giù, infossando le gote, tra la barba folta e grigia.

— Proprio; avevo perso la testa!... Volevo persino farmi bello, per piacerle, brutto come sono!... Brutto, colla testa mezzo pelata... e vecchio. Sì, vecchio, perchè lei è la giovinezza, la vita, il sole, ed io, in confronto, non sono che un povero tizzone spento... Eh! Quando si perde la testa, si diventa ragazzi; peggio: si diventa cattivi! Con quel povero Nino, sono stato cattivo. In fine, è un bravo giovine ed anche un bel giovine. Non è ricco, ma ha coraggio ed ha carattere.... Chi sa?... Forse la felicità di Elena è proprio riposta lì, in quel buon ragazzo che l'adora!... Non ha una grande finezza di modi, ma ha la finezza del cuore! Dunque, perchè no? Perchè tanto spaventarsi? Perchè è figliuolo d'un fattore?... E anche la signorina Elena, in fine, di chi è figlia? Ella stessa conosce la sua condizione e non si lascia ingannare. È una ragazza di testa... buona... brava... cara. Ma per ora, fortunatamente, è ancora una bimba... dunque... Non ci pensa lei? Non pensiamoci noi. Per altro, se venisse a sapere che il [432] povero Nino s'è disgustato con suo padre e minaccia di rompersi il collo per amor suo... Bisogna avvertire subito subito la signora Eugenia, per via di quella chiacchierona della Luisa!... Elena non deve saper niente. Mai niente! Intanto, è troppo presto per maritarla... e poi, così bella... È una vera bellezza... Intelligentissima... coltissima... Che occhi maravigliosi, e che capelli, quanti capelli!... No, no, no! Altro che un mezzo contadino di Lodignola!... A suo tempo un grande matrimonione, deve fare!

L'avvocato respira più liberamente, il suo viso si rischiara:

— A suo tempo, fra qualche anno, farà un grande matrimonione. Sicuro! Basta, per altro, che quel bel tomo di Francesco... non faccia sciocchezze! Lodignola non è una capitale! I piccoli paesi sono invidiosi, pettegoli, maligni. Guai! Colle ragazze non si è mai prudenti abbastanza! Io, per esempio, sono stato sempre pieno di riguardi. Lui, invece, di mattina, di sera, sempre alla Casa Vecchia; si ferma a cavallo sotto le finestre! È diventato matto?

A questo punto, il giovine di studio, che stava [433] copiando a un tavolino nell'anticamera, spalanca l'uscio annunziando festosamente il signor Roero, che si presenta sorridendo, con un gran fiore all'occhiello e coll'aria dell'uomo felice e soddisfatto.

— Bravo l'amico! Bravissimo! Non ti fai più vedere a Lodignola!

Il Roero entra e, subito, nel dar la mano all'avvocato capisce che è in cattiva luna, ma non vi bada e continua allegramente:

— Vengo a tirarti le orecchie anche per conto delle nostre signore della Casa Vecchia!

L'Olivieri gli dà un'occhiata di traverso, sembra che anche i peli ispidi della barbaccia si rizzino minacciosi contro Francesco.

— Le orecchie, invece, dovrei tirarle io a te. Le orecchie si tirano ai ragazzi, e tu, a Lodignola, ti sei condotto come un ragazzo.

Francesco non ride più... Si avvicina d'un passo fissando l'avvocato:

— Cioè?

— Cioè... hai dimenticato che Lodignola non è Milano, e che la signorina Elena non è più Lulù!

— Io non dimentico mai niente, nemmeno i diritti della tua vecchia e buona amicizia, compreso [434] quello di sfogarti con me quando sei di cattivo umore! Ma non mettiamo in ballo la signorina Elena, te ne prego. Questo no!

L'avvocato fa un passo, un gesto di collera; poi cerca di frenarsi:

— Non sono io che la metto in ballo. È la gente.

— La gente? Che c'entra la gente? Elena non appartiene che a me. Io l'ho avuta da suo padre, io me la son tenuta; è come mia. Che c'entra la gente?

— C'entra... in quanto... C'entra benissimo, perchè la gente, anche a Lodignola, ha gli occhi per vedere e la lingua per parlare.

— Vedere che? Parlare di che cosa? Nessuno ha il diritto di intromettersi ne' fatti miei.

Il Roero alza la voce e l'Olivieri grida più forte:

— Se non ha questo diritto, ha però ragione di pensare che è per lo meno... strano, il paterno zelo che ti ha acceso tutto d'un tratto per la signorina Elena... alla quale hai sempre provveduto, questo è vero, ma della quale finora non ti eri mai curato. Hai aspettato che avesse... quasi vent'anni a farle il papà.

L'avvocato ride nervosamente e, daccapo, gira e rigira, soffia e sbuffa.

[435] Francesco, al contrario, invece di arrabbiarsi di più, si calma. Egli ormai è convinto che l'avvocato ha proprio un po' di bruciore per la signorina Elena, e in cuor suo lo compiange: — Povero diavolo! Come è sempre sfortunato ne' suoi innamoramenti! — Inoltre, quel giorno, egli non vuole arrabbiarsi, non vuole aver scene spiacevoli. Si sente di buon umore e desidera tornare a Lodignola di buon umore. Siede sul canapè, dondolando una gamba sull'altra.

— Ciò che tu dici, può anche sembrar vero alla gente che non sa, che non mi conosce. Certo, io non mi sono occupato direttamente dell'educazione di... Elena; ma avevo la coscienza, e ormai ne ho anche la prova, di averla affidata a buone mani. Se poi, finora, non mi son fatto quasi mai vedere, tu meglio di qualunque altro, ne sai il perchè. Tu sai che molte volte, ciò che più di tutto avrei desiderato di fare, non ho potuto farlo.

Fra i due c'è un lungo silenzio. Anche l'Olivieri siede sul canapè e riprende per il primo il discorso, ma con tutt'altro tono:

— Io so benissimo quanto il tuo cuore buono, affettuoso, generoso, ti ha sempre consigliato per [436] la... signorina. So benissimo, meglio di chiunque altro, che, da vicino o da lontano, tu sei sempre stato per lei un padre... sì, un vero padre. A me, certo, non sarebbe mai venuto in mente di fare osservazioni, perchè ora tu passi le tue giornate colla signorina, e vai spesso, a piedi o in carrozza, di mattina o di sera, colla signorina. La cosa per me è semplice, naturalissima, innocentissima. Figurati!.. Ma può esserlo soltanto per me che ti conosco a fondo e che conosco a fondo i fatti tuoi. Per tutti gli altri, per tutti coloro, appunto, che non sanno come realmente stieno le cose... capirai, ti vedono arrivare da un momento all'altro, e ti vedono subito quasi domiciliato alla Casa Vecchia... la signorina è piuttosto... appariscente; anche tu dai nell'occhio... e si fanno supposizioni.

— Irragionevoli! — Interrompe Francesco, sempre dondolando la gamba ed ammirandosi la punta del piede.

— Irragionevoli! — Ripete l'Olivieri che trova la parola giustissima.

I due amici non si guardano ancora bene in faccia, ma l'astuccio delle sigarette passa amichevolmente dall'uno all'altro.

[437] — Irragionevolissimi, siamo d'accordo. Ma quando mai, caro Francesco, i gelosi sono stati ragionevoli?

— I gelosi? Come i gelosi?... — La gamba del Roero si abbassa di colpo, il suo occhio ricomincia a intorbidarsi. — Che c'entrano i gelosi?

— È stato qui, adesso, il Nino Moro. È andato via poco fa.

Il Roero balza in piedi e istintivamente stringe col pugno il bastoncino in atto minaccioso.

— È stato forse quel villano che si è permesso di fare osservazioni sul conto mio? Punto primo, chi gli ha dato il permesso di muoversi da Casalpò?

Si alza anche l'avvocato.

— Il permesso, caro mio, se lo è preso, senza domandar niente a nessuno.

— Va bene. Stasera, appena arrivato a Lodignola, parlerò io con suo padre!

— È inutile. Si è diviso da suo padre e si è stabilito a Milano.

— Si è stabilito a Milano? Francesco ride ironicamente. — Bravo!.... Uno spostato di più!.... Ce ne son tanti!

[438] — Scusa, — ribatte l'Olivieri, — un giovane onesto di più: e non ce ne son molti.

— Onesto?... Lo vedremo alla prova. — Il Roero diventa lui adesso, pallido e nervoso.

— Alla prova?... Lo abbiamo già visto, — insiste puntigliosamente l'avvocato. — Invece di avvicinare la ragazza, invece di tentare di scaldarle la testa, d'imporsi, si è subito allontanato: è scomparso.

— Bel merito! Non è del tutto uno sciocco! Lui! Un mezzo contadino! Capisce troppo che se Elena si fosse accorta di qualche cosa, ne avrebbe fatto una risata!

L'Olivieri continua, più che mai ostinato, più che mai insistente:

— Eh, chi lo sa? Anch'io potrei essere di questo parere.... ma non lo giurerei! Con le ragazze non si può mai giurar di niente! Del resto, vedremo.

— Come, vedremo? — Francesco torna a perdere le staffe: invece l'Olivieri si mostra pacato, tranquillo, sorridente.

— Vedremo. Della rottura del Nino Moro con suo padre, della sua partenza da Lodignola, si [439] parlerà... e, chi sa mai?... Sono cose che potrebbero anche far colpo sulla signorina Elena. Nella guerra d'amor vince chi fugge! — L'avvocato dice il proverbio cantarellandolo.

— Elena non lo saprà. Non sentirà mai a parlare del Nino Moro!

— No?... Ma tu allora non sai che cosa sono le ragazze!

— Ci siamo noi a sorvegliarla! Io e la signora Eugenia.

— Sorvegliare... una ragazza?

Francesco riesce ancora a frenarsi, per miracolo.

— Si direbbe che tu fai apposta per farmi dispetto.

— Dispetto? — Ripete quell'altro, con un tono di maraviglia esagerata. — Perchè dispetto?

— Per lo spirito di contraddizione! Perchè tu, quando cominci a contradire non sai più quello che dici, o dici, e sei capace anche di sostenere, le peggiori assurdità.

— Non è un'assurdità, niente affatto, il dubitare che la signorina Elena possa innamorarsi del Nino Moro.

— Ma diventi matto! — Vorrebbe mettersi a [440] ridere anche il Roero... e non ci riesce! Fa solo smorfie. — Tu, vecchio mio, sei diventato matto!

— E tu sei diventato troppo.... savio! Fino al punto di non voler ammettere che una ragazza non possa perder la testa per un giovinotto, per un bel giovinotto, e già innamorato di lei, innamorato morto!

— Ma è il figlio del mio fattore!

— Che importa? È onesto, è intelligente, è un bravo giovine.

— Ma non sai che la signorina Elena.... sarà ricchissima? Sarà lei la mia erede... di tutto? Che è mia, mia; perchè l'ho avuta da suo padre?

— L'hai avuta da suo padre per farla felice, non per farla ricca!

È proprio vero: l'avvocato sembra lo faccia apposta a insistere, a contradire, per far dispetto a Francesco. È sempre sorridente e cammina per lo studio, dondolandosi, con una cert'aria quasi di trionfo.

— Del resto, caro Francesco, devi sapere che la signorina Savoldi, — è la prima volta e non a caso, che l'Olivieri, con astuzia da avvocato, la chiama col nome del padre, — devi sapere che [441] la signorina Savoldi conosce la sua condizione benissimo e ragiona, in proposito, con più logica di noi. Sai che cosa ha detto un giorno alla signora Eugenia? «Io non voglio maritarmi. Io resterò... come lei! Una ragazza che non sa nemmeno chi sia, dove stia la sua mamma, difficilmente trova un buon partito».

— Appunto: nella sua logica, ha parlato di un buon partito. E tu, la gran testa quadra, troveresti che il Nino Moro sarebbe un buon partito?

— Tutto sommato, il giorno in cui la signorina Elena lo amasse, come lui ama lei... sì!

Il Roero si alza e prende il cappello per andarsene.

— Va bene, va bene. Ho capito. Tu, non so il perchè, vorresti attaccar lite: io, invece, non ne ho voglia e me ne vado. Ti saluto!

— Buon viaggio! Una sola raccomandazione. Ne ho forse il diritto. Finora, hai sempre permesso anche a me di occuparmi un po' della signorina. Dunque, giudizio. E bada di non essere tu, colle tue imprudenze, a farle perdere poi le occasioni del famoso buon partito!

Questa volta ride allegramente anche il Roero [442] e riesce a far montare la mosca al naso all'avvocato.

— Ma a sentire tutte le tue raccomandazioni e a vederti così eccitato, così fuori di strada, si potrebbe quasi dubitare di aver a che fare con un.... geloso.

— Ridi pure!.. Tutte le cose irragionevoli fanno ridere. Ho riso anch'io, poco fa, e molto, vedendo il povero Nino geloso.... di te!

— Per caso, spieghiamoci chiaro, avresti davvero l'intenzione di offendermi?

— Per offenderti, avrei dovuto trovare la cosa verosimile e crederti capace, durante gli intervalli che ti son concessi da donna Stefania, disvagarti... trattando leggermente, scherzando con ciò.... che dovresti avere di più sacro al mondo!

Francesco si avvicina all'Olivieri fissandolo: ha una faccia così stravolta da far paura.

— Basta! Finiamola! Non ti permetto più una parola. Io avevo molti obblighi con te. Li ricordo ancora in questo momento.... e ti perdono. Siamo pari! Addio! — E se ne va.

Egli non parte più alle tre, parte la sera, tardi. Si è troppo arrabbiato e uscendo dallo studio dell'Olivieri [443] fa il proponimento di non tornar più a Lodignola.

Invece di andar subito a casa, passa dal Club, a vedere se il Faraggiola e l'Estensi, o almeno uno dei due, fossero a Milano. Avrebbero combinato di partire insieme per Zermatt, subito. Bisogna far presto; ormai la stagione è inoltrata.

— Non voglio più tornare a Lodignola!

È furibondo contro tutti, anche contro Elena: anzi, sopratutto contro Elena. Solo donna Stefania non suscita le sue ire perchè non gli passa neanche per la mente.

— Non voglio più tornare a Lodignola! No!... E la roba d'estate? Gli abiti di montagna? Sono a Lodignola. Come si fa?..... Farseli mandare? Impossibile! Patrizio è troppo bestia!

Al Club, quando gli dicono che il conte Faraggiola e il marchese Estensi non sono a Milano, si arrabbia di nuovo.

— Che giornataccia!... C'è proprio la disdetta!

Si mette al tavolino per scrivere la famosa lettera, come ha promesso a donna Stefania, ma dopo il «carissimo amico» straccia il foglio, si alza e va via.

[444] Non ha testa di scrivere, di pensare, di far niente.

— Quell'Olivieri, per altro, si meriterebbe una buona lezione. Ah! Ah! Si capisce.... vorrebbe restar solo alla Casa Vecchia! Niente affatto! Io, intanto, torno a Lodignola stassera come avevo fissato, e ripartirò domani... con comodo. Sarebbe curiosa!... Per far piacere a quel caro signor avvocato, non sarò più padrone adesso di tornare a casa mia!

Ma che c'entra l'avvocato? È il dispetto contro Elena!

— È una ragazza che scherza sempre, che scherza troppo!..... «L'avvocato è tanto buono! L'avvocato è tanto caro!» E poi... quel tu! L'Olivieri sempre pronto a pigliar fuoco, s'è montata la testa e adesso finge di proteggere quell'altro perchè è geloso di me, credendo di farmi rabbia! Che asino!

Quando la sera, verso le nove, riparte per Lodignola, nel montare in carrozza scorge in un angolo, insieme alla coperta, un pacco di forma quadrata: dev'essere una scatola, avvolta in carta azzurra.

— Che cos'è?

[445] — L'ha portata un cameriere del caffè Cova, — risponde il portinaio.

Il Roero guarda il pacco aggrottando le ciglia e lo fa mettere sul sedile di faccia.

La carrozza parte e il Roero, appena fuori di Milano, cerca di sdraiarsi per dormire, ma tutto gli dà noia. Anche quel pacco! Vorrebbe pigliarlo e buttarlo fuori della carrozza!

— La bambola!..... Io le portavo la bella bambola da Milano!...

Sorride ironicamente, ma poi, a poco a poco, è proprio quella scatola che ha lì dinanzi, è proprio quella bambola che comincia a quietarlo.

— Povera piccola! Che colpa ne ha lei se... il socialista è diventato matto e se l'Olivieri è ancora più matto di quell'altro?... Lei è sempre Lulù... Serena... buona... e cara.

Egli continua a guardare la scatola... anzi proprio la bambola che ricorda, che rivede in quella scatola. Diventa triste, poi inquieto..... Il cuore gli batte violentemente; non è più la bambola, è Lulù... È Elena, proprio Elena, la giovinetta bella e fiorente ch'egli ha dinanzi, negli occhi, nel cuore.

— Il Nino Moro o un altro... ma verrà il giorno [446] in cui Elena s'innamorerà.... in cui mi sarà portata via!

Ha una scossa e si rizza a sedere come spaventato:

— Bisogna non vederla più! — E in quel momento lo giura a sè stesso con un tremito: — Non la vedrò più!

Ma la bambola è lì e proprio lì c'è Elena... Ed egli la rivede viva... bella... e cara!

Si volta, guarda da un'altra parte, ma invano; la notte è buia, piena di ombre nere... L'immagine della fanciulla è sempre lì, distinta, luminosa..... Chiude gli occhi quasi con ira... Elena è sempre lì... e ride!... Egli ne sente anche il riso adesso, e la voce così giovine e fresca...

— Se tutta la vita dovessi vederla così?... Se non potessi dimenticarla mai... mai più?

Ad un tratto un'idea nuova, strana, terribile, gli balza nella mente:

— Il padre di Lulù!... È la vendetta del povero Nespola!

Non è più Elena... è la faccia del Savoldi, che dopo tanti anni gli si para dinanzi; non è più il riso argentino di Elena, è la sghignazzata rumorosa [447] del povero Nespola che gli percuote l'orecchio; del povero Nespola ch'egli ha lasciato ammazzare.

Attorno alla carrozza che corre via velocemente, soffia un'aria calda, pesante... La notte si fa sempre più buia; spariscono anche le ombre degli alberi, delle case, nella vasta distesa della pianura tenebrosa. Solo, di tratto in tratto, qualche lampo sinistro squarcia la nera nuvolaglia all'orizzonte lontano.

— Ha ragione l'Olivieri. L'ho avuta da suo padre per farla felice, non per farla ricca. Se mi fossi ingannato?.... Colle ragazze non si può mai sapere, non si può mai giurar di niente... Se Elena avesse della simpatia per quel giovane? «È onesto... è intelligente... è innamorato morto...»

Adesso il Roero non vede più nemmeno la scatola, nemmeno la bambola dentro la scatola. È troppo buio, tutto buio..... La carrozza corre via sempre velocemente...

— Mi sembrava tanto lontana Lodignola... ed invece, ecco, ci siamo già! Si arriva sempre e sempre troppo presto a questo mondo... anche alle cose che sembrano più lontane... anche alla fine... di tutto! Ebbene, se Elena lo vuole... E sia! Ella deve essere felice a qualunque costo. Per me, ormai....

[448] — Questa scatola, sarà da portare alla Casa Vecchia? — Domanda Patrizio, mentre il Roero smonta di carrozza.

Il servitore ha subito indovinato che si tratta di dolci, di un regalo per la signorina.

Francesco fa un gesto di stizza.... Non avrebbe più voluto sentir parlare di quella scatola, non avrebbe più voluto averla sotto gli occhi!...

— Stasera è troppo tardi. Basterà portarla domattina? — Insiste Patrizio, il quale ha già capito che il signor padrone è di cattivo umore.

— Sì! Sì! Basta domattina!

— È arrivato un telegramma.

— Quando?

— Due ore fa.

Il Roero finalmente, si può sfogare!

— E dov'è? Tante chiacchiere sempre e non mi dite quello che preme di più!

— L'ho fatto mettere in camera sua, colla posta.

— Andate a prenderlo, presto!

.... È un dispaccio dell'avvocato Olivieri:

«Ti auguro ciò che il tuo cuore desidera e ti abbraccio con tutta la nostra antica fida amicizia.»

[449]

VII.
La mammetta.

La giornata, tanto burrascosa a Milano per il Roero e per l'Olivieri, non era passata molto serenamente nemmeno alla Casa Vecchia. Elena era stata tutto il giorno dispettosa, di pessimo umore e per la prima volta aveva risposto male alla mammetta.

La signora Eugenia, a colazione, le aveva chiesto se si sentisse poco bene, che cosa aveva, perchè non mangiava, ed Elena a risponderle che stava benissimo, che non aveva niente e che non mangiava... perchè... non aveva fame! Poi Elena porta il piatto a Rolando... e non torna più in saletta. Va in camera sua e vi si chiude, a studiare, dice lei, a scrivere, a lavorare.

[450] La signora Eugenia fa mille domande alla Luisa, che sa sempre tutto, ma questa volta anche la Luisa dichiara di non saper niente.

— Chi sa? Estri!... Un cattivo quarto di luna!... Del resto è sempre stata così, e anche lei, in quanto a guastarla, ha compito l'opera! Tutti tremano dalla paura di non fare abbastanza presto a contentarla, e che cosa succede?... Quando si fissa una cosa in mente e non può ottenerla, fa i capricci!

— Ma che cosa s'è fissata in mente?

— Di andare stamattina a Valpiana! Il signor Francesco, invece di venire a prenderla colla carrozza, è partito per Milano, e la signorina, subito, fa il musone! Scusi sa, signora, se glielo dico, ma lei ha sempre avuto un cattivissimo sistema! L'ha troppo abituata a fare a suo modo, ad accontentarla in tutto, a seguirla in tutto!... Ci vuol altro! Provi questa volta a non badarle!

Fatta la sua brava predica, la Luisa va in cucina e studia colla Pinella ciò che può andar più a genio alla signorina per il pranzo.

Ma a pranzo siamo daccapo. Elena non mangia. La signora Eugenia diventa inquietissima: la Luisa [451] guarda la signorina con una faccia esterrefatta e non ha più nemmeno il coraggio di brontolare.

Ricomincia l'interrogatorio della mammetta:

— Che hai?...

— Niente.

— Ma perchè non mangi, se non hai niente?

— Perchè non ho fame.

Un lungo silenzio, una grande occhiata furtiva alla Luisa, poi la signora Eugenia torna daccapo:

— Ma perchè non hai fame?

— Perchè di no!... Perchè non posso sempre aver fame, non posso sempre aver voglia di ridere, di parlare come una macchinetta!

Scoppia in lacrime, e corre di sopra: si chiude nella sua camera e va a letto.

Questa volta è la Luisa che, ad onta di tutte le sue prediche, ha bisogno di essere confortata dalla signora Eugenia.

— No, no! Non c'è da impressionarsi, Luisa, non è niente!... Forse è arrabbiata perchè il signor Francesco è andato via, senza nemmeno venirci a salutare.

— E in questo la signorina ha ragione! Un momento... poteva lasciarsi vedere!

[452] La mattina dopo la signora Eugenia, già vestita per partire, in cappellino e colla borsetta solita dei suoi viaggi a Milano, entra in camera di Elena e spalanca le finestre.

Elena non dorme e vedendo la signora Eugenia in cappellino, si rizza sui gomiti, domandandole stupita:

— Dove va?

— A Milano. Oggi è l'undici d'agosto. Prendo la diligenza al Molino Nuovo, senza andare in paese, per far più presto.

— Torna per il pranzo?

— Prima, prima! Spero prima! Ti ho svegliata io?

— No, no.

— Non volevo partire senza vederti, senza darti un bacio. Ieri... — La signora Eugenia si china sul letto, passa un braccio attorno la vita di Elena e le dà il bacio stringendola forte contro il cuore: — Ieri non ti si poteva parlare... eri in collera anche colla mammetta... Lasciami col cuor tranquillo; dimmi tutto, gioia cara... Che hai?

Elena bacia la signora Eugenia sui capelli, la bacia più forte sulla bocca: poi fa uno scatto, [453] come un singulto, le butta le braccia al collo e piange.

— Gioia! Gioia! Gioia mia! Gioia cara! Ma che hai? Che hai? — La signora Eugenia si dispera e piange anche lei.

Elena solleva la testolina scotendola per liberarsi la faccia dai capelli che la coprono tutta e coprono anche il cuscino come un'onda nera rilucente, e guarda fissa verso la finestra dalla quale si scorge la villa Roero.

— È partito! Non torna più!

— Chi? — Esclama la signora Eugenia spaventata, pensando al Nino Moro.

Elena continua a fissare la finestra e le lacrime le cadono copiose dagli occhi:

— Non torna più, più, più!... Oh lo sento! È stata lei, di nuovo lei! Sempre lei!

La signora Eugenia si rizza attonita, osservando Elena. Finalmente comincia a capire qualche cosa.

— Il signor Francesco?

Elena raggrotta le ciglia, i suoi occhi hanno un lampo di collera mentre continua a fissare la finestra:

— Donna Stefania, capisce?... È stata lei!

[454] — Donna Stefania?... — La signora Eugenia passa dallo stringimento di cuore alla maraviglia. — Che cosa ne sai?... Chi ti ha detto?... — In fatti, il nome di quella signora non era mai stato pronunziato fra loro due.

— Gli ha telegrafato lei!... Quella là! È stata lei a chiamarlo a Milano!.. Ancora, da capo! Ancora lei! Sempre lei!

— Ma.... come hai potuto sapere di chi era il dispaccio arrivato al signor Francesco?... Chi t'ha detto....

— Niente! Nessuno!.... Si capisce da sè! È tanto chiaro! Vuole una prova?... La prova è questa: che non è venuto a salutarmi!... Non è venuto a salutarmi perchè il dispaccio era di donna Stefania!... Non è venuto a salutarmi perchè non torna più! — Elena dà un grido disperato che squarcia il cuore alla povera signora Eugenia. — Non torna più! No! No! Non torna più! — E la povera fanciulla si scioglie con impeto dalla signora Eugenia e si butta attraverso il letto singhiozzando convulsamente.

La signora Eugenia è rimasta immota, come impietrita, fissando Elena.

[455] Elena ama! Elena è innamorata! Innamorata del signor Francesco!

La verità si fa strada, a poco a poco, si fa chiara in lei, nel suo cuore, con una commozione profonda.

Elena è innamorata!... È innamorata del signor Francesco!

Ella continua a fissare quel corpo così giovine e fiorente che si dibatte attraverso il letto nello spasimo, nella convulsione dei singhiozzi e ripensa con angoscia indicibile a sè stessa, ad un giorno ormai lontano. Lo ha amato anche lei il signor Francesco, ma lei non ha mai potuto piangere così dirottamente, non ha mai potuto abbandonarsi così francamente, così apertamente, nella bella schiettezza dell'amore e del dolore.... Oh, se anche lei avesse conosciuto a vent'anni il signor Francesco e avesse potuto disperarsi così!.... Allora sarebbe stata come Elena, nel pieno diritto di amare, nel pieno diritto di soffrire.... Ad un tratto si sente un nodo di pianto salire dal cuore alla gola..... Ha un impeto, uno slancio, una frenesia, si butta addosso ad Elena, la solleva, scosta tutti i capelli che ostinatamente gliela nascondono, e le copre la bocca, le gote, il collo, il seno di baci e di lacrime, [456] stringendola con passione, con ardore, con violenza:

— Ama! Ama! Ama! Creatura mia! Gioia! Tesoro! È l'amore tutta la bellezza della vita! È l'amore tutta la vita! Gioia! Tesoro! Cara! Ama! Ama! Dovesse l'amore farti versare tutte le tue lacrime, benedette le lacrime!... Ama sempre, a costo di morire! Oh meglio per una donna morire d'amore che vivere senza amore!

Elena si acqueta un po' e comincia a poter dire qualche parola balbettando:

— Pensi... vedrò ancora la villa chiusa... tutta chiusa... Dio! Dio! Che silenzio! Che vuoto! Che angoscia!

— Spera...

— Che cosa posso sperare?

— Non so.... non so dirti.... Ma oggi voglio vederlo.... a Milano.... vado a cercarlo a Milano....

Elena ha un lampo negli occhi e arrossisce con un moto istintivo di pudore.

— No!... No!... E poi?... Ci sarà sempre quella là!

— Ma ci sei tu adesso! Tu così giovine, tu così bella!

La signora Eugenia ha detto ciò con un grido di ansietà e anche di speranza. È proprio vero: [457] quella là fa paura anche a lei; ma tosto sembra rasserenarsi e una gran luce, una gran fede le illumina gli occhi.

— La mia mamma.... m'ispirerà... Andrò prima dalla mia mamma!... Sentirò la mia mamma, e quello che mi dirà lei di fare.... farò!

La povera bimba guarda la signora Eugenia, e tutta quella bontà, quella sicurezza, diffondono anche nella sua anima un raggio di speranza.

— La saluti anche per me, la sua bella mamma... tanto tanto! Le dia un bacio anche per me!

Si alza sul letto, si stringe con un braccio al collo della signora Eugenia e le bisbiglia in un orecchio:

Quella là... ha fatto piangere anche lei, signora Eugenia!

La signora Eugenia si scosta fissando Elena. Elena risponde accennando di sì colla bella testina rotonda:

— Sì, Lulù.... ha sempre capito tutto!

Le due donne si abbracciano ancor più strettamente e i bei capelli bianchi e i bei capelli neri si confondono insieme, come si confondono le due anime in un solo dolore, in un solo amore.

[459]

VIII.
... Sempre Lulù.

Elena non si decideva ad alzarsi: non poteva dormire, non aveva voglia di leggere, e continuava a star a letto. Finchè la mammetta non fosse ritornata da Milano che cosa avrebbe fatto?... Niente. Alzandosi, passando vicino alla finestra, avrebbe dovuto vedere la villa tutta chiusa!

— No! No! Resto a letto finchè non torna la signora Eugenia!

La Luisa, colla faccia costernata, era già stata due volte a chiedere che cosa volesse di colazione.

— Niente.

Verso le dieci, eccola di nuovo, ma di corsa, allegrissima:

— Signorina! Signorina! Un regalo che le [460] manda il signor Francesco! — E le presenta la famosa scatola del Cova. — È tornato ieri sera.

Elena è in giubilo; salta dal letto e corre alla finestra:

— Sì! Sì! Che gioia! La villa è tutta aperta!

— Si copra; fa fresco! E adesso mi dirà, non è vero, che cosa vuole di colazione? — La Luisa guarda la signorina con una certa faccia!... È lì lì per indovinare qualche cosa.

Anche Elena sorride vivamente.

— Dirai alla Pinella di fare tutto ciò che piace al signor Francesco.

— Ma il signor Francesco non viene.

Ad Elena sembra che il sole che aveva brillato torni, ad un tratto, ad oscurarsi:

— Come, non viene?

— Ha detto a Patrizio di avvertire le signore che passerà un momento a salutarle dopo colazione.

Elena ripete fra sè maravigliata: — «Avvertire le signore? Passerà a salutarle.... un momento.... dopo colazione?» — Allora è tornato per ripartir subito! — Si sente guardata, studiata dalla Luisa, e ciò la irrita.

— Va via, adesso! Mi alzo.

[461] — E per la colazione, dunque? Che cosa ordino?

— Quello che vuoi! Quello che c'è. Va via e chiudi!

Elena aspetta che la Luisa se ne sia andata, poi salta di nuovo dal letto e lei stessa richiude l'uscio a chiave.

— Certo è tornato per ripartir subito.

Le viene in mente che nel pacco ci possa essere una lettera, un bigliettino che spieghi qualche cosa; lo apre in fretta, nervosamente e subito le cade sott'occhio ciò che Francesco aveva scritto sulla scatola:

«Una bella signora di Milano venuta a Lodignola a far visita alla Contessa.»

Elena apre la scatola e trova la bambola. Corruga la fronte e diventa pallidissima.

— Ancora una bambola!... Per lui... sono sempre Lulù!

Quel regalo, il non venire a colazione, quelle parole «avvertire le signore che passerà un momento a salutarle» tutto ciò non le lascia alcun dubbio.

— È venuto a Lodignola a prendere la sua roba, e torna via subito. Va in Isvizzera, con quella là.

[462] Elena si veste lentamente, ma non guarda più dalla finestra. Scende a colazione, mangia qualche cosa, seccata dagli sguardi della Luisa, poi come di solito prepara il piatto per Rolando e glielo porta nel brolo, sempre pallidissima, cogli occhi torvi, colla fronte contratta.

E non si rasserena nemmeno quando Francesco si presenta sull'uscio della saletta, proprio coll'aria di fare una visita.

— Come?... La signora Eugenia non c'è?

— È andata a Milano.

— Proprio oggi! Che disdetta! Avrei tanto desiderato di salutare anche la signora Eugenia!

La Luisa, dopo un momento, esce dalla saletta in punta di piedi: Francesco ed Elena restano soli senza nemmeno accorgersene. Elena è seduta accanto alla finestra, sulla piccola poltroncina della signora Eugenia; dall'altra parte siede Francesco. In mezzo al tavolino è stata posta la «Signora di Milano» che sorride immobile colle braccine aperte.

— Grazie... della sua bellissima bambola.

Elena è imbronciata; ha la voce bassa e cupa.

Il Roero è pure molto pallido.

[463] — È stato uno scherzo. Volevo portarti dei dolci, ma ho visto questa confettiera e l'ho presa per scherzare. Perdonami; non essere in collera. Vado via: sono venuto a salutarti.

Elena ha negli occhi un tremolìo di lacrime.

— È proprio molto contento di andar via, se anche nel salutarmi ha tanta volontà di scherzare!...

Il Roero è colpito da quelle parole, da quell'accento di dolore così schietto, così sincero, così espansivo: fissa la fanciulla e il cuore gli batte con grande violenza.

— No, no, sai..... Non sono contento, cara Lulù... ma...

— Mi dica Elena! — La bella fronte candida e luminosa si corruga di nuovo, crucciata. — Almeno oggi, mi dica Elena.

— No Lulù, sempre Lulù. Così avrò più coraggio per dirti... ciò che ti devo dire. Lo vedo anch'io che ti sei fatta grande, che ormai sei diventata proprio una signorina. E guarda che cosa ti ho nascosto appunto qui, sotto la bambola che ti ha fatto andare in collera, qui, in mezzo ai dolci.

Francesco alza il coperchio della confettiera, prende l'astuccio, lo apre, e le mostra l'anello.

[464] La fanciulla diventa rossa rossa: s'inganna sull'intenzione del Roero e perciò anche a lei, adesso, batte il cuore violentemente.

Nelle parole, nel pallore del Roero, c'è un'espressione di mestizia profonda, dolorosa.

— Ascoltami, cara... cara la mia figliuola: ti sei fatta grande... sei diventata una signorina... presto sarai una signora... Ma io voglio sempre essere... il tuo papà.

— No, — risponde Elena seccamente, respingendo l'anello. — Io non voglio... Io non diventerò mai una signora, come intende lei. L'ho già dichiarato alla signora Eugenia. Voglio fare come la signora Eugenia, resterò sempre... sola!

Elena dice questa parola «sola» con fierezza e con sdegno.

È la risposta a quell'altra parola detta da Francesco, e che l'ha ferita: «papà».

Francesco sorride dolcemente, ma incredulo.

— Oh, figliuola mia, figliuola cara!... Che proponimenti a diciott'anni!

— Diciannove... e anche più.

Francesco parla con lentezza quasi solenne, fissando Elena attentamente.

[465] — Questo ti volevo dire... per oggi, per domani, per sempre. Abbi fiducia in me, riponi in me tutta la tua confidenza. E se un giorno... quando il tuo cuore... — la voce di Francesco è alterata, egli diventa ancora più pallido, — quando avrai una simpatia, dimmelo subito.

— No.

— Come no?

— No! — Ribatte Elena con maggior impeto.

Francesco la guarda maravigliato:

— Vorresti impedire al tuo cuore anche... una simpatia?

— L'avrò, ma a lei non lo dirò.

— Perchè?

— Perchè di no.

Francesco si alza di colpo: fissa la fanciulla, cerca di capirla.

Elena lo fissa a sua volta, e continua a rispondere:

— No, no, no.

Il Roero si sente le fiamme alla testa: s'inganna, sogna, diventa matto... o è proprio la verità?

— Elena, ascoltami, — le dice sottovoce, con tono grave. — Ascoltami bene: sai che c'è un [466] giovine innamorato di te... che ti ama seriamente, onestamente?

— Lo so; ma io non lo amo.

— Giuralo! — Esclama Francesco avvicinandosi ad Elena istintivamente, con un lampo di gelosia negli occhi.

— Non lo amo, — risponde semplicemente la fanciulla, guardandolo sicura, serena.

Francesco le prende una mano: rimane muto, ma sembra supplicarla.

Elena gli legge negli occhi, sente il calor febbrile di quella mano e non s'inganna più. Allora anche lei gli si avvicina col viso pallido, anche lei supplichevole:

— Non vada via... resti con me... sempre con me!

Gli accarezza la mano con la gota calda, umida e gli si abbandona inerte sul petto.

Francesco la stringe come pazzo tra le braccia con un grido soffocato:

— Elena... Elena!

Elena tace un istante, poi senza scostarsi da lui alza il viso e lo guarda con un lampo di amore, di felicità e di sicurezza che le passa negli occhi rilucenti:

[467] — Adesso sì, ancora Lulù, mi dica pure Lulù... Lulù che starà sempre qui, così, con lei...

Francesco trema come un ragazzo, accarezza la testolina rotonda di Elena, la preme contro il suo petto:

— Figliuola mia.... Lulù.... Cara.... Non ingannarti..... È un inganno il tuo. Tu mi vuoi bene, ma non puoi amarmi, non potrai mai amarmi! Lasciami andar via...

— No!

— Ma pensa che cosa sarebbe di me, dopo... se tu adesso ti ingannassi...

— No... non vada via... resti con me... sempre con me... — ripete la bimba, ma questa volta la sua voce è una carezza, ed ella preme la testina contro la spalla di lui, si stringe tutta contro il petto di lui, come a farsi sentire dal cuore.

— Ma io devo dirti tante cose prima... Io non sono degno di te... ti sembra di volermi bene, ma per bontà, per gratitudine. Ebbene, sappilo... tu non mi devi nulla. Quello che ho fatto per te, io dovevo farlo; era un preciso dovere di coscienza!... Ti spiegherò... Tu a me non devi nulla!

— Le devo questo, di volerle bene... ed è questo solo che mi rende felice!

[468] Egli è ancora tremante; la sua voce si è fatta più bassa; egli le parla nascondendo quasi la faccia negli odorosi, morbidi capelli:

— Sì, ti amo, Elena, ti amo: e l'ho capito ieri; è per questo... non per altro, che volevo partire, che volevo fuggire...

Elena sussulta sul petto del Roero, con un fremito di gioia.

— Io volevo fuggire da Lodignola, da te, da tutto il mondo, pieno di gelosia disperata. Sì, tu sei penetrata nel mio cuore, ormai ne sei la padrona: ma devi anche guardare nella mia coscienza e giudicarmi. Ascoltami... Per dieci anni io sono stato di un'altra donna...

— Lo so...

— Era un amore ben diverso da quello che sento per te, perchè a lei non dovevo nulla, perchè non la stimavo nemmeno... Ma pure le ho dato la mia gioventù, la mia vita, il mio onore quasi...

— Lo so...

— Sono stato debole e vile con lei. Io ero nato per lavorare, per lottare, per vincere. Vedevo d'intorno a me le miserie, le ingiustizie e volevo dedicarmi al bene... Per lei, invece, mi sono chiuso [469] nell'egoismo di una passione, di un'abitudine... peggio ancora... tu non capisci... ma io sì... Io sento che adesso è troppo tardi!

— Mai; non è mai troppo tardi! Miserie, ingiustizie ce ne sono sempre da per tutto. E... tu — nel dir tu, una fiamma le arde le gote e le ridono gli occhi, — tu lo sai! Tu che sei sempre stato buono, e che hai sempre fatto del bene anche da lontano, che hai sempre voluto che si facesse del bene... per conto tuo... Invece di scrivere dei bei libri, farai delle opere buone, con me. Giovano di più a chi soffre ed anche l'esempio è più utile.

— Ma pensa anche a questo... Devi sapere anche questo, perchè devi saper tutto. Se quella donna, oggi che è rimasta libera, lo avesse voluto, io non sarei qui con te, sarei con quella donna.

— Sarebbe stato il tuo dovere.

— E tu?

— Te l'ho detto: come la signora Eugenia; sempre sola.

Francesco crede d'impazzire. Ancora trema, dubita della propria felicità.

— Cara! Buona, mia! Ascoltami!.. Ma attentamente!... Tu sei giovine... sei bambina ancora... [470] ed io ho l'età che avrebbero tuo padre! È troppo poco tempo che mi hai riveduto, è troppo poco tempo che mi ami, per poter essere sicura di te... per tutta la vita.

— Io ti ho sempre voluto bene. Fin dove giunge la mia memoria, vedo sempre te. Sì, ti ho voluto bene anche quando eri lontano, anche in tutti questi anni in cui non ti ho visto. E sono stata gelosa e ho pianto. Eppure, che vuoi? Ho sempre avuto una grande fede nella mia felicità avvenire, perchè mi son sempre sentita tua, tutta tua. Io sono un po' selvaggia, sai? Bene, proprio bene, non ne ho voluto che a te. Ho una grande tenerezza per la signora Eugenia, per la mia mammetta cara, eppure, è proprio così. Ieri, quando ero in collera con te, anche lei mi era diventata indifferente e le ho risposto male: sono stata cattiva. Sì, bene, proprio bene... soltanto a te. Io ti vedo ancora come per la prima volta. Non mi ricordo più di tutto il resto, ma di te sì... Ti vedo come quella prima volta, quando sei venuto a prendermi. Sei sempre stato lo stesso e sarai sempre così per me. Fin d'allora! Proprio... sì... fin d'allora!

Elena ha un lampo negli occhi, si scosta:

[471] — Ma dimmi, dimmi... È possibile che così bambine si possa essere innamorate?

Francesco torna a riprendersela, la guarda con infinito amore e si china colla bocca avida, ardente per darle un bacio.

Elena lo fissa sorridendo, scostandosi ancora, sciogliendo una mano dalle mani del Roero:

— Qui...

E abbassa la testina, riversando i capelli come faceva Lulù, per prendere il bacio su la piccola, candida nuca...

FINE.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (fruscio/fruscìo/fruscío, tremolio/tremolìo e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

 

 


***END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA SIGNORINA***

******* This file should be named 42588-h.txt or 42588-h.zip *******

This and all associated files of various formats will be found in:
http://www.gutenberg.org/4/2/5/8/42588

Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed.

Creating the works from public domain print editions means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg-tm electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG-tm concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for the eBooks, unless you receive specific permission. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the rules is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. They may be modified and printed and given away--you may do practically ANYTHING with public domain eBooks. Redistribution is subject to the trademark license, especially commercial redistribution.

*** START: FULL LICENSE ***
THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE
PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK

To protect the Project Gutenberg-tm mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase "Project Gutenberg"), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg-tm License available with this file or online at www.gutenberg.org/license.

Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg-tm electronic works

1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg-tm electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg-tm electronic works in your possession. If you paid a fee for obtaining a copy of or access to a Project Gutenberg-tm electronic work and you do not agree to be bound by the terms of this agreement, you may obtain a refund from the person or entity to whom you paid the fee as set forth in paragraph 1.E.8.

1.B. "Project Gutenberg" is a registered trademark. It may only be used on or associated in any way with an electronic work by people who agree to be bound by the terms of this agreement. There are a few things that you can do with most Project Gutenberg-tm electronic works even without complying with the full terms of this agreement. See paragraph 1.C below. There are a lot of things you can do with Project Gutenberg-tm electronic works if you follow the terms of this agreement and help preserve free future access to Project Gutenberg-tm electronic works. See paragraph 1.E below.

1.C. The Project Gutenberg Literary Archive Foundation ("the Foundation" or PGLAF), owns a compilation copyright in the collection of Project Gutenberg-tm electronic works. Nearly all the individual works in the collection are in the public domain in the United States. If an individual work is in the public domain in the United States and you are located in the United States, we do not claim a right to prevent you from copying, distributing, performing, displaying or creating derivative works based on the work as long as all references to Project Gutenberg are removed. Of course, we hope that you will support the Project Gutenberg-tm mission of promoting free access to electronic works by freely sharing Project Gutenberg-tm works in compliance with the terms of this agreement for keeping the Project Gutenberg-tm name associated with the work. You can easily comply with the terms of this agreement by keeping this work in the same format with its attached full Project Gutenberg-tm License when you share it without charge with others.

1.D. The copyright laws of the place where you are located also govern what you can do with this work. Copyright laws in most countries are in a constant state of change. If you are outside the United States, check the laws of your country in addition to the terms of this agreement before downloading, copying, displaying, performing, distributing or creating derivative works based on this work or any other Project Gutenberg-tm work. The Foundation makes no representations concerning the copyright status of any work in any country outside the United States.

1.E. Unless you have removed all references to Project Gutenberg:

1.E.1. The following sentence, with active links to, or other immediate access to, the full Project Gutenberg-tm License must appear prominently whenever any copy of a Project Gutenberg-tm work (any work on which the phrase "Project Gutenberg" appears, or with which the phrase "Project Gutenberg" is associated) is accessed, displayed, performed, viewed, copied or distributed:

This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org

1.E.2. If an individual Project Gutenberg-tm electronic work is derived from the public domain (does not contain a notice indicating that it is posted with permission of the copyright holder), the work can be copied and distributed to anyone in the United States without paying any fees or charges. If you are redistributing or providing access to a work with the phrase "Project Gutenberg" associated with or appearing on the work, you must comply either with the requirements of paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 or obtain permission for the use of the work and the Project Gutenberg-tm trademark as set forth in paragraphs 1.E.8 or 1.E.9.

1.E.3. If an individual Project Gutenberg-tm electronic work is posted with the permission of the copyright holder, your use and distribution must comply with both paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 and any additional terms imposed by the copyright holder. Additional terms will be linked to the Project Gutenberg-tm License for all works posted with the permission of the copyright holder found at the beginning of this work.

1.E.4. Do not unlink or detach or remove the full Project Gutenberg-tm License terms from this work, or any files containing a part of this work or any other work associated with Project Gutenberg-tm.

1.E.5. Do not copy, display, perform, distribute or redistribute this electronic work, or any part of this electronic work, without prominently displaying the sentence set forth in paragraph 1.E.1 with active links or immediate access to the full terms of the Project Gutenberg-tm License.

1.E.6. You may convert to and distribute this work in any binary, compressed, marked up, nonproprietary or proprietary form, including any word processing or hypertext form. However, if you provide access to or distribute copies of a Project Gutenberg-tm work in a format other than "Plain Vanilla ASCII" or other format used in the official version posted on the official Project Gutenberg-tm web site (www.gutenberg.org), you must, at no additional cost, fee or expense to the user, provide a copy, a means of exporting a copy, or a means of obtaining a copy upon request, of the work in its original "Plain Vanilla ASCII" or other form. Any alternate format must include the full Project Gutenberg-tm License as specified in paragraph 1.E.1.

1.E.7. Do not charge a fee for access to, viewing, displaying, performing, copying or distributing any Project Gutenberg-tm works unless you comply with paragraph 1.E.8 or 1.E.9.

1.E.8. You may charge a reasonable fee for copies of or providing access to or distributing Project Gutenberg-tm electronic works provided that

1.E.9. If you wish to charge a fee or distribute a Project Gutenberg-tm electronic work or group of works on different terms than are set forth in this agreement, you must obtain permission in writing from both the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and Michael Hart, the owner of the Project Gutenberg-tm trademark. Contact the Foundation as set forth in Section 3 below.

1.F.

1.F.1. Project Gutenberg volunteers and employees expend considerable effort to identify, do copyright research on, transcribe and proofread public domain works in creating the Project Gutenberg-tm collection. Despite these efforts, Project Gutenberg-tm electronic works, and the medium on which they may be stored, may contain "Defects," such as, but not limited to, incomplete, inaccurate or corrupt data, transcription errors, a copyright or other intellectual property infringement, a defective or damaged disk or other medium, a computer virus, or computer codes that damage or cannot be read by your equipment.

1.F.2. LIMITED WARRANTY, DISCLAIMER OF DAMAGES - Except for the "Right of Replacement or Refund" described in paragraph 1.F.3, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, the owner of the Project Gutenberg-tm trademark, and any other party distributing a Project Gutenberg-tm electronic work under this agreement, disclaim all liability to you for damages, costs and expenses, including legal fees. YOU AGREE THAT YOU HAVE NO REMEDIES FOR NEGLIGENCE, STRICT LIABILITY, BREACH OF WARRANTY OR BREACH OF CONTRACT EXCEPT THOSE PROVIDED IN PARAGRAPH 1.F.3. YOU AGREE THAT THE FOUNDATION, THE TRADEMARK OWNER, AND ANY DISTRIBUTOR UNDER THIS AGREEMENT WILL NOT BE LIABLE TO YOU FOR ACTUAL, DIRECT, INDIRECT, CONSEQUENTIAL, PUNITIVE OR INCIDENTAL DAMAGES EVEN IF YOU GIVE NOTICE OF THE POSSIBILITY OF SUCH DAMAGE.

1.F.3. LIMITED RIGHT OF REPLACEMENT OR REFUND - If you discover a defect in this electronic work within 90 days of receiving it, you can receive a refund of the money (if any) you paid for it by sending a written explanation to the person you received the work from. If you received the work on a physical medium, you must return the medium with your written explanation. The person or entity that provided you with the defective work may elect to provide a replacement copy in lieu of a refund. If you received the work electronically, the person or entity providing it to you may choose to give you a second opportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. If the second copy is also defective, you may demand a refund in writing without further opportunities to fix the problem.

1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth in paragraph 1.F.3, this work is provided to you 'AS-IS', WITH NO OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.

1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied warranties or the exclusion or limitation of certain types of damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement violates the law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or unenforceability of any provision of this agreement shall not void the remaining provisions.

1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone providing copies of Project Gutenberg-tm electronic works in accordance with this agreement, and any volunteers associated with the production, promotion and distribution of Project Gutenberg-tm electronic works, harmless from all liability, costs and expenses, including legal fees, that arise directly or indirectly from any of the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this or any Project Gutenberg-tm work, (b) alteration, modification, or additions or deletions to any Project Gutenberg-tm work, and (c) any Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of electronic works in formats readable by the widest variety of computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg-tm's goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S. Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered throughout numerous locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation's web site and official page at www.gutenberg.org/contact

For additional contact information:
Dr. Gregory B. Newby
Chief Executive and Director
gbnewby@pglaf.org

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide spread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate

While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate

Section 5. General Information About Project Gutenberg-tm electronic works.

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg-tm concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support.

Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition.

Most people start at our Web site which has the main PG search facility: www.gutenberg.org

This Web site includes information about Project Gutenberg-tm, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.