The Project Gutenberg eBook of Pompei e le sue rovine, Vol. 3 (of 3)

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Title: Pompei e le sue rovine, Vol. 3 (of 3)

Author: Pier Ambrogio Curti

Release date: December 5, 2023 [eBook #72323]

Language: Italian

Original publication: Milano: Sanvito

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK POMPEI E LE SUE ROVINE, VOL. 3 (OF 3) ***

POMPEI
E LE SUE ROVINE VOL. III


POMPEI
E LE
SUE ROVINE

PER L’AVVOCATO
PIER AMBROGIO CURTI

GIÀ DEPUTATO AL PARLAMENTO NAZIONALE
DIRETTORE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI ARCHEOLOGIA
E DI BELLE LETTERE DI MILANO

VOLUME TERZO

1874
MILANO — F. SANVITO, EDITORE.
NAPOLI — DETKEN E ROCHOLL.


Proprietà letteraria.

Legge 25 Giugno 1865. Tip. Guglielmini.



INDICE


[5]

CAPITOLO XIX. Il quartiere de’ soldati e il Pagus Augustus Felix.

Quartiere de’ soldati, o Ludo gladiatorio? — Pagus Augustus Felix — Ordinamenti militari di Roma — Inclinazioni agricole — Qualità militari — Valore personale — Formazione della milizia — La leva — Refrattari — Cause d’esenzione — Leva tumultuaria — Cavalleria — Giuramento — Gli evocati e i conquisitori — Fanteria: Veliti, Astati, Principi, Triarii — Centurie, manipoli, coorti, legioni — Denominazione delle legioni — Ordini della cavalleria: torme, decurie — Duci: propri e comuni — Centurioni — Uragi, Succenturiones, Accenti, Tergoductores, Decani — Signiferi — Primopilo — Tribuni — Decurioni nella cavalleria — Prefetti dei Confederati — Legati — Imperatore — Armi — Raccolta d’armi antiche nel Museo Nazionale di Napoli — Catalogo del comm. Fiorelli — Cenno storico — Armi trovate negli scavi d’Ercolano e Pompei — Armi dei Veliti, degli Astati, dei Principi, dei Triarii, della cavalleria — Maestri delle armi — Esercizj: passo, palaria, lotta, nuoto, salto, marce — Fardelli e loro peso — Bucellatum — Cavalleria numidica — Accampamenti — Castra stativa — Forma del campo — Principia — Banderuole — Insegne — Aquilifer — Insegna del Manipolo — Bandiera delle Centurie — Vessillo della Cavalleria — Guardie del campo — Excubiæ e Vigiliæ — Tessera di consegna — Sentinelle — Procubitores — Istrumenti militari: buccina, tuba, lituus, cornu, timpanumTibicen, liticen, timpanotriba — Stipendj militari — I Feciali, gli Auguri, gli Aruspici e i pullarii — Sacrifici e preghiere — Dello schierarsi in battaglia — Sistema di fortificazioni — Macchine [6] guerresche: Poliorcetiæ: terrapieno, torre mobile, testuggine, ariete, balista, tollenone, altalena, elepoli, terebra, galleria, vigna — Arringhe — La vittoria, inni e sacrificj — Premj: asta pura, monili, braccialetti, catene — Corone: civica, murale, castrense o vallare, navale o rostrale, ossidionale, trionfale, ovale — Altre distinzioni — Spoglia opima — Preda bellica — Il trionfo — Veste palmata — Trionfo della veste palmata — In Campidoglio — Banchetto pubblico — Trionfo navale — Ovazione — Onori del trionfatore — Pene militari: decimazione, vigesimazione e centesimazione, fustinarium, taglio della mano, crocifissione, fustigazione leggiera, multa, censio hastaria — Pene minori — Congedo.

Nel capitolo di quest’opera I Fori, dicendo del Foro nundinario o venale, toccai dell’opinione manifestata da molti che anzi essere un simile foro, quel luogo fosse invece un quartiere di soldati, e venni osservando come da essi si avesse per avventura a scambiare la parte per il tutto, riconoscendo io con altri come in tal foro si ritrovasse un quartiere sia di soldati, sia di gladiatori, come forse meglio sembrasse al Padre Garrucci.

Bréton, malgrado le dimostrazioni fatte da quest’ultimo scrittore, e malgrado che sia tratto a riconoscere ch’egli abbia nella maniera la più positiva stabilito in una dissertazione inserta nel numero tredicesimo del Bollettino Archeologico napolitano del gennajo 1855, che si trattasse in questo luogo di un di que’ Ludi gladiatorii, di cui parla Giusto Lipsio[1], non sa risolversi [7] ancora a non ritenerlo per un quartiere di soldati.

«Io non so in verità, scrive egli, perchè siasi cercato di sostituire questa denominazione di foro nundinario a quella di Quartiere de’ Soldati, che venne a siffatto luogo fin dall’origine assegnato. È evidente che una città dell’importanza di Pompei, una città fortificata, dovesse avere una guarnigione e, per alloggiarla, una caserma. Perchè dunque cercare questa caserma altrove e non nel monumento il più piano e così conforme alla sua destinazione? Le porte strette e poco numerose sarebbero state incommodissime e perfino dannose per un mercato dove una folla numerosa si sarebbe pigiata in disordine, mentre che esse potevano perfettamente bastare a soldati che marciavano per due e regolarmente. Una bardatura di cavallo da sella, armi, cimieri, memidi o calzari di bronzo vennero qui trovati, che a dir vero sono più proprii di gladiatori, che non di soldati; ma che conchiuderne per ciò? Che gladiatori di passaggio a Pompei presero alloggio nella caserma, ciò che è più naturale che prender alloggio nel mercato. Nelle camere non si rinvennero letti: ma si sa che i soldati giacevano per lo più sulla paglia. Il solo grande appartamento che esiste dovette essere destinato al capo della guarnigione. Una sola cucina sarebbe stata insufficiente se il nutrimento di tutti non fosse stato ammanito in comune, e noi vediamo [8] che quella del quartiere de’ soldati era evidentemente destinata alla preparazione degli alimenti d’una gran quantità di persone. Finalmente, quale sarebbe stata in un mercato la destinazione di una prigione così severa come quella che qui vi fu riconosciuta? S’arroge che in nessun luogo della città si rinvenne una così grande quantità di scheletri, non essendosene contati meno di sessantatrè, ripartiti principalmente nelle camere del primo piano. Non è egli quindi supponibile che taluni motivi di disciplina abbiano ritenuto i soldati al loro posto troppo lungo tempo per permettere a tutti di sottrarsi alla morte?»[2]

Questi sono gli speciosi argomenti di Bréton, che potrebbero ben anco essere conformi a verità, se quelli addotti dal Garrucci non fossero stati buoni del pari e convincenti, per conchiudere che dovesse essere invece un ludo gladiatorio. Io non presumo di mettere innanzi un perentorio giudizio; solo permettendomi di ricordare che ho già esternato l’avviso mio che inclina all’ipotesi del Garrucci. Se non che al mio presente argomento ciò che preme di stabilire si è che alla vita romana in Pompei non potesse mancare quanto aveva tratto alla vita militare, e quindi dovevan esistere e una caserma, se forse non ve n’erano anche di più, e posti e stazioni; che infatti [9] alla Porta di Ercolano si trovò morta, l’alabarda in pugno, la sentinella, che fida alla sua consegna, anzichè mancarvi, e cercare come tutti gli altri cittadini lo scampo nella fuga, erasi lasciata soffocare dall’aere graveolenta e seppellire sotto le ceneri e i lapilli.

Ma se qui non erano alloggiati i soldati, se questa non era la caserma, ma un ludo gladiatorio, o locali attinenti solo al foro venale, e dove trovar dovevansi soldati, posto che Pompei, come non è contraddetto, fosse città importante, e di una importanza ben anco militare, avesse mura, saracinesche, opere di fortificazione, e se anzi ben due volte vi furono dedotte colonie militari, l’una volta al tempo e per gli ordini di Silla e l’altra per quelli di Augusto?

Potrebbesi rispondere a siffatta domanda con quei dati storici che Bréton medesimo prepose all’opera sua: «Silla ordonna que Pompei fût reduite en colonie militaire sous le double nom de Colonia Veneria, Cornelia, emprunté aux noms du dictateur et de la divinité protectrice de la ville. Il y envoya des troupes sous le commandement de son neveu Publius Sylla: mais les Pompéiens, regardant ces colons comme des étrangers, leur refusèrent les droits de cité...»

E più sotto:

«Quoiqu’il en soit, les colons furent forcés d’habiter hors de la ville dans un faubourg, qui, lorsque plus tard, Auguste eut envoyé une nouvelle colonie [10] de vétérans, prit le nom de Pagus Augusto-Felix[3]

Da queste nozioni di storia pompeiana, che sono conformi a quelle che ho pur io date nei capitoli del primo volume di quest’opera, inferisco: a che dunque cercar in città caserme e stazioni militari, se i soldati dovevano rimanere fuori della città? Vero è che quanto è scoperto del Pagus Augustus-Felix non ha rivelato quartiere di sorta, ma solo quella parte che l’attraversa ed è la Via delle Tombe e che percorreremo nell’ultimo capitolo di quest’opera; ma rammentiamoci altresì che ancor molto rimane a trarre in luce e che gli scavi ulteriori ponno co’ loro risultamenti diradare ogni dubbio e risolvere la quistione.

Dopo ciò, dinnanzi al fatto delle sentinelle summentovate e dopo le diverse guerre e fazioni guerresche narrate in quest’opera nei capitoli della storia, a soddisfare agli intenti dell’opera ed a chiudere di essa quanto ha riferimento alla vita publica romana, riprodotta in Pompei, entrerò a dire degli ordinamenti militari e di quanto ha tratto all’armamento; ben francando la spesa il conoscere siccome fossero, perocchè non di poco avessero a contribuire a quei trionfali successi ch’ebbero sempre le armi romane. Gli scavi di Ercolano e di Pompei portarono discreto contributo all’archeologia per farci conoscere armi [11] ed attrezzi militari e guerreschi, ed io di questi più innanzi ne tratterò il meglio che mi sarà dato.

Ho già provato, trattando del commercio de’ Romani, che lungi costoro dall’essere, come si crede erroneamente dall’universale, un popolo soldato per istinto, lo fosse invece costretto dalla necessità, e conquistando l’universo non lo facesse che per proteggere la sua indipendenza o per difendersi, che non pugnò insomma che vagheggiando le dolcezze della pace, alla quale, appena il poteva, si abbandonava. Orazio compendia le aspirazioni de’ Romani quando esclama:

O rus quando ego te aspiciam[4]?

I Romani in fatti ebbero a preservarsi dai Sabini, dagli Etruschi, dai Latini, dai Sanniti, in tutti i quali erano elementi di grandissima resistenza; onde Properzio, che tutto abbracciava il sentimento dell’antichità, era nel vero giudicando l’Italia in quel verso che già m’avvenne di dover riferire:

Armis apta magis tellus quam commoda noxæ[5],

più propria, cioè, alle armi, che non alla aggressione [12] e distruzione. Se dunque al soldato romano si può rimproverare un sol vizio, l’avarizia, perchè l’orgoglio è più spesso nel soldato una virtù; di ricambio ebbe l’onor militare come noi l’intendiamo pure oggidì, il rispetto al giuramento, la devozione al suo capo, il gusto della disciplina. I Romani vinsero il mondo con la tattica, la disciplina, la forza d’insieme, la costanza e il sentimento d’essere Romani. Gli altri popoli usavano di armi straordinarie e di macchine, il popolo romano della spada. Anche contro i Germani, individualmente sì bravi e sì forti, era colla pugna corpo a corpo e colla spada che i Romani avevano la vittoria; onde Germanico così poteva dire alle sue truppe: Non enim immensa barbarorum scuta, enormes hastas inter truncos arborum et enata humo virgulta, perinde haberi quam pila et gladios, et hærentia corporis tegmina. Densarent ictus, ora mucronibus quærerent[6]. Potrebbesi e vizio e virtù che ho mentovati, comprovare coi fatti alla mano; ma la storia di Roma è troppo notoria per avere d’uopo di ricorrere a ciò.

Piuttosto m’occuperò qui ad informare il lettore della formazione di questa famosa milizia conquistatrice dell’universo.

[13]

E prima devesi portar l’attenzione sulla scelta, dilectus, che era il raccogliere e l’iscrivere i soldati in codici o matricole. Tale scelta veniva fatta tra cittadini e socj o confederati; — rado avvenne che si ricorresse ai poveri ed agli schiavi, — e venivano poi ascritti o a’ fanti o a’ cavalieri. Nella milizia navale si accoglievano anche le persone più abbiette e i libertini.

Il principio della milizia era al diciassettesimo anno, la fine al cinquantesimo. Chi per altro serviva di continuo, terminava i suoi obblighi a’ trentasette anni; gli altri, dove non avessero compiuto il lor servizio al quarantesimo sesto anno, non n’erano liberati e si potevano costringere finchè non avessero compiuti i cinquant’anni. Altro requisito della milizia era il censo, solo volendovisi i ricchi, gli onesti e coloro i quali, avendo beni tutti proprii, in certo modo presentassero solidarietà d’interessi colla cosa publica.

La leva, o coscrizione, delle truppe, testimonio Dionigio d’Alicarnasso[7], si faceva ogni anno, designandosi all’uopo due consoli, che alla loro volta, congiuntamente al popolo, creavano ventiquattro tribuni per capi di quattro legioni.

La cernita si faceva, previa publicazione dell’editto a mezzo del banditore, dai tribuni in Campidoglio, [14] estraendo a sorte dalle tribù e classi, alla presenza dei consoli assisi nelle sedie curuli. I refrattarj che si sottraevano alla milizia, i consoli comandavano venissero ricercati e tradotti in carcere, talvolta puniti di verghe, venduti i loro beni e qualche volta benanco multati dell’estremo supplizio o della morte civile, venduti cioè pubblicamente schiavi o notati d’infamia.

Tre giuste cause sottrar potevano al servizio: la prima era la dispensa, vacatio, per l’età, se già raggiunto il cinquantesimo anno; per onore, se fosse taluno nella magistratura o nel sacerdozio; per beneficio se il Senato e il Popolo consentivano: la seconda causa dicevasi emeritum, ed era per chi aveva compiuti venti stipendj: la terza era vizio o malattia, come i mancini, i gracili, chi mancasse di pollici o altre dita, gli inetti a reggere scudo o gladio.

Nella leva così detta tumultuaria, od anche subitaria[8], che seguiva nell’imminenza di qualche pericolo, non si osservavano grandi formalità, esentandosi soltanto quelli ch’erano gravemente infermi od inabili affatto.

Per ciò che riguardava la cavalleria, spettava ai censori il determinare chi vi dovesse appartenere. Duplice poi era il corpo da’ cavalieri, l’uno costituivasi di quelli che ottenevano dal publico il cavallo [15] e il suo mantenimento, ed erano i soli che una volta dicevansi cavalieri, equites; l’altro di coloro che non l’ottenevano. Costoro potevano allora servire tra i pedoni, pedites. Riguardavasi molto a’ costumi per concedersi il cavallo, e però spettavane la decisione al censore. Dopo, tal facoltà si arrogarono i principi.

Finita la coscrizione, i tribuni congregavano i militi delle rispettive legioni e lor facevano prestare giuramento. Ignorasi però se giurassero uno per uno, o se insieme. Consisteva la formula nel giurare: sarebbero per seguire i consoli a qualunque guerra fossero essi per chiamarli, non mai tentar cosa contraria al popolo, non disertar mai le bandiere, raccogliersi al cenno de’ consoli, nè partir mai senza l’ordine loro.

Eranvi poi gli evocati, che formavano spesso la forza degli eserciti, quasi assunti dietro preghiera o domanda, ed erano per lo più veterani, esperti e prudenti della milizia, che comunque avessero assolti i loro servizj, li riassumevano tuttavia in grazia de’ consoli o de’ capitani. Gli evocati venivano dispensati da certe opere faticose, come del vallo e degli accampamenti e tenuti in maggior onore, spesso considerati quasi centurioni.

I conquisitori erano coloro che si mandavano nelle campagne ad ingaggiare la gioventù per la milizia od a scoprire i refrattarj che vi si tenevan nascosti ed a persuaderli di costituirsi.

[16]

Toccato fin qui della cernita, veggiamo dell’ordine della milizia.

Vario era esso sia ne’ militi che ne’ duci: Giusto Lipsio lo considera e distingue, rispetto ai primi, in generi e in parti.

Generi dei pedoni erano i Veliti, gli Astati, i Principi e i Triarj. Veliti coloro che per poca età e ricchezza venivano assegnati a questo infimo genere, e quasi inermi venivano esposti di fronte al nemico; astati perchè dapprima combattevano colle aste, dopo poi, serbando sempre lo stesso nome, combattevano coi pili, specie di giavellotti, e coi gladii; principi, perchè nello schierarsi dell’esercito venivano nel terzo ordine. Parrebbe tuttavia dal loro nome dovessero trovarsi invece nella prima.

Parti della fanteria erano poi queste, nelle quali i generi si dividevano dai tribuni e dai centurioni i militi pedoni, eccettuati i veliti: la Centuria, che si componeva di sessanta militi ed era assegnata ad un centurione; il Manipolo, che si costituiva di due centurie; la Coorte, composta di tre manipoli ed aveva astati, principi o triarii, ed anche per consueto i veliti. Scipione Africano istituì anche la Coorte Pretoria, nella quale s’ascrivevano i volontarii e gli amici e che mai si dipartiva dal Pretore, ad imitazione della Coorte Regia presso i Macedoni; finalmente la Legione, perchè comprendeva tutti gli altri ordini. Romolo l’istituì di tremila uomini; cacciati i [17] Re, crebbe a quattromila; a cinquemila montò nella guerra contro Annibale ed a seimila la portò Scipione quando passò in Africa.

Essendo molte le legioni, — perchè se prima sotto i consoli furono quattro, nella seconda guerra Punica ascesero a venticinque, nella guerra civile fra Cesare e Pompeo se ne contarono quaranta e nell’assedio di Modena cinquanta — ebbero diversa denominazione: il più spesso si distinsero col numero progressivo come prima, secunda, tertia; talvolta col nome del fondatore, come Augusta, Claudiana; alcune dal nome degli Dei, di Marte, di Minerva, di Apollo; altre dalle provincie trionfate, come Italica, Gallica, Cirenaica; ed altre finalmente da qualche onorifica qualità, come la Vittrice, la Fulminante, la Valente, la Ferrea, la Pudica, la Fedele[9].

Gli ordini della cavalleria, erano le torme e le decurie. Dividevansi in dieci corpi. Ogni legione aveva dieci torme tricenarie, ossia tremila cavalieri. Le ale, erano così chiamate a motivo della loro posizione nella battaglia; onde dicevasi ala destra ed ala sinistra, componevansi di soci e di confederati; le torme o compagnie suddividevansi in tre decurie o brigate di dieci uomini.

Tito Livio ne fa sapere, come nel principio della seconda guerra Punica, i Romani, veduta l’inferiorità [18] della loro cavalleria rimpetto a quella de’ Cartaginesi, usassero dei veliti come arcieri e frombolieri per appiccar zuffa avanti le linee e spazzar la via all’esercito[10].

Questa era, per usare del linguaggio militare, la bassa forza: essa per altro si completava coi suonatori di militari strumenti, con operai armajuoli e costruttori di macchine guerresche, tormenta bellica et impedimenta, e conduttori di bagagli, pel trasporto de’ quali non si faceva uso, come di presente, di carriaggi, ma di bestie da soma, perchè di minor impaccio e di servizio più pronto.

Ora dei duci.

Questi pure erano di due generi: proprii, quelli che erano preposti ad una o a qualche parte dell’esercito, come i centurioni, e i tribuni; comuni, coloro che erano preposti a tutti, come i legati e il comandante in capo, imperator.

I centurioni venivan, d’ordine o consenso dei consoli, eletti dai tribuni fra quelli della loro classe: sovente però si toglievano anche da classi superiori, ma per segnalati meriti, massime per militari, distinti. L’elezione dei centurioni era duplice. Nella prima se ne eleggevano trenta, ed altrettanti nella seconda. Il primo eletto denominavasi Primopilo ed era nel suo diritto di intervenire nei consigli militari, [19] in un coi tribuni e coi legati. Talvolta accadde, più per qualche occasione e volontà del duce, che per diritto o costume, che tutti i centurioni venissero ammessi nel consiglio. Insegna poi dei centurioni era un baston di vite, di cui si valevano a punizione de’ soldati.

I centurioni già eletti si eleggono pure alla loro volta gli uffiziali, uragi, o più veramente chiamati optiones. Quando venivano creati dai tribuni, dicevansi accensi; ma quando la loro nomina fu devoluta ai centurioni, ebbero quel nome di optiones ed anche di sottocenturioni, succenturiones. Tergoductores erano que’ sott’uffiziali che compivano le funzioni che or sarebbero de’ sargenti; decani quelli che or si direbbero caporali.

In mezzo a’ centurioni si trasceglievano due, prestanti per vigoria d’animo e di corpo, per essere signiferi, o portatori del vessillo; perocchè quantunque un solo fosse il vessillo, due tuttavia erano i vessillarii o signiferi, acciò l’uno succedesse all’altro in caso di fatica, essendo i vessilli pesanti, od anche all’evenienza di malattia.

Il Primopilo, primopilus ed anche primipilus, era il capo di tutti i centurioni, come il prefetto e principe delle legioni. Egli aveva autorità anche sul collega suo Primopilo sinistro e la tutela dell’aquila, che era lo stendardo principale della legione[11], tanto [20] così che si dicesse aquila come sinonimo di primopilato.

Come i centurioni eran preposti ai manipoli, così i tribuni della milizia erano a tutta la legione che ne aveva sei. Li istituì Romolo, li mantennero i Re ed i Consoli; ma il popolo se ne avocò il diritto e il suffragio, poi esclusa ancora la facoltà nel popolo, e questi volendola rivendicare, restò convenuto che parte ne avesse il popolo e un numero eguale i consoli; i primi detti anche comitiati, avuti in maggior onore; gli altri detti Rutili o Rufuli. I tribuni erano eziandio di due sorta, cavalieri e plebei. Spettava ai tribuni render giustizia e conoscere delle cause capitali, dare il segnale alle guardie e sentinelle, curare le veglie, vigilare le munizioni, provvedere agli esercizi tutti. Portavano l’anello d’oro, gli altri militi non potendolo portar che di ferro.

La cavalleria dividendosi in dieci turme, si pigliavano tre cavalieri per ciascuna turma, e così si avevano trenta duci. Erano insomma tante turme nella cavalleria quante erano nella fanteria le coorti; tante le decurie quanti i manipoli: e per conseguenza altrettanti i duci; con questo solo divario che nella turma ve ne era un solo, mentre nel manipolo ve n’erano due. Nella turma erano tre le decurie e l’uffiziale che comandava la decuria appellavasi decurione. Ciascuna turma aveva un solo vessillo. Spettava ai duci delle turme la nomina degli uragi od optiones; come nella fanteria.

[21]

I soci o confederati, in luogo dei tribuni, che solo spettavano ai militi cittadini, avevano i prefetti e venivano costituiti dai consoli, pari nel resto nei diritti e nella podestà ai tribuni. I Legati erano applicati agli imperatori o comandanti in capo, non tanto per comandare, quanto per giovar di consiglio, ed era il Senato che li destinava come pratici della milizia presso del capo. Era grande dignità codesta, perocchè col potere dell’imperatore avesse altresì diritto alla venerazione dovuta ai sacerdoti. Cicerone li chiamava numi di pace e di guerra, curatori, interpreti, autori di bellici consigli, ministri del provinciale interesse. Il loro potere per altro era subordinato a quello del comandante. Incerto era il numero loro, talvolta destinato uno per legione, sempre come sembrava conveniente al Senato. Quelli ch’eran preposti a tutto l’esercito, dicevansi consolari: pretorii quelli assegnati alle legioni.

Il supremo comandante era poi, come dissi, l’Imperatore, imperator, a cui obbedivano cittadini e confederati, cavalieri e fanti. Insegna della carica erano i littori coi fasci: aveva il paludamento, la clamide, e i suoi cavalli portavano fregi militari, bardature ricche d’oro e stragulo scarlatto.

Veniamo ora a trattare delle armi, le quali si dicevano tela se erano per offesa, arma se per difesa.

È a questo punto che mi richiama la speciale attenzione il Museo Nazionale di Napoli, dove colle [22] armi e cogli attrezzi militari e guerreschi di varii altri musei privati, o rinvenuti altrove, si accolsero quelli che si trovarono negli scavi d’Ercolano e di Pompei. Nel dire di questa parte interessantissima del napoletano Museo, mi varrò dell’accurato Catalogo, che come degli altri oggetti tutti riguardanti altre classi, così di questa diligentissimamente delle armi, compilò l’illustre Commendatore Fiorelli, del quale non è parola che basti a dir quanto delle preziosità pompejane ed ercolanesi sia benemerito, e che fu da lui pubblicato in Napoli nell’anno 1869 nella Tipografia Italiana del Liceo Vittorio Emanuele.

Giovi premettere un cenno storico intorno all’ordinamento di tale Raccolta, quale il Fiorelli fe’ precedere al suo Catalogo.

Innanzi che si ponesse mano ad un più ragionevole ordinamento del Museo, le armi antiche che si possedevano erano confuse agli utensili domestici di bronzo: il galerus, l’ocrea, la fibula, i pugiones, e le parmæ, oggetti d’abbigliamento o stromenti militari, trovavansi in buona compagnia coi cacabi, e i lebetes, gli ahena, i clibani e gli infundibula. Argomenti il lettore qual relazione vi avessero, oltre l’avere comune il metallo ond’erano formati, cioè il bronzo.

Ora le Armi Antiche hanno una distinta collocazione, divisa la raccolta in tre classi.

La prima è delle armi greche, le quali provenute da sepolcri di remota antichità, e per lo più ricchi [23] di vasi dipinti, appartengono ai Greci dell’Italia Meridionale anteriori al dominio di Roma, trovate nei luoghi di Ruvo, di Pesto, di Locri, di Egnazia e Canosa; ma siccome esse punto non riguardano Pompei ed Ercolano e neppure quell’epoca che l’opera mia prese a dichiarare, affin di non uscire dal campo nostro, non ne terrò parola.

La seconda classe è delle armi romane ed italiche, rinvenute nelle tombe della Campania e nei campi del Sannio e segnatamente alle pendici del monte Saraceno presso l’antica Bovianum vetus, oggi denominata Pietrabbondante; e fra queste pur talune vennero offerte dagli scavi di Ercolano e Pompei.

Queste galeæ, od elmi, che per essere tutti di bronzo, a stretto rigore dovrebbero dirsi casses, perocchè dapprima la voce galea venisse adoperata a designare un elmo di pelle o cuojo, pel contrapposto di cassis che indicava un elmo di metallo, appartengono a Pompei. L’una (n. 57 del Catalogo speciale e 3474 del generale) ha breve projectura o visiera nella parte posteriore, ove è un foro per attaccarvi la crista, con altro sulla sommità per contenere il piede del cimiero (apex), che addita avere già per avventura spettato a centurione, cui, per autorità di Polibio e di Vegezio, fregiava l’elmo un cimiero, che mancava in quello di semplice soldato. Nei lati di questa galea due cerniere sostenevano le paragnatidi (bucculæ) ora mancanti. La seconda (n. 59 — 3000) [24] appare alterata ed ha avanzi di cerchio di ferro, adattatovi all’intorno, perchè evidentemente adoperata come utensile di cucina. Egualmente si conosce essere stata mutata in trulla la terza galea (n. 62 — 3473), per l’aggiunta di un manico di ferro.

Due galeæ di bronzo (nn. 60, 61 — 2842, 2880) con frontale e bucculæ, aventi sul vertice una piccola falera bucata per immettervi l’apex e dietro un uncino per fermare la crista con le falde posteriori aggiunte e tenute da chiodi, vennero invece raccolte negli scavi d’Ercolano.

Una cuspide di bronzo (n. 80 — 3459); due gladii di ferro (81, 82 — 3459, 9618) due lame di gladio in bronzo (n. 83, 84 — 3461, 3462) furono pur di Pompei; così due teste d’aquila in bronzo, impugnature di gladio (85, 86 — 3458, 12883); un frammento di lorica squamea (93 — 3456) consistente in novantuno pezzetti di osso in forma di squamme, ciascuno con due buchi, ne’ quali passava un filo che li univa tra loro sopra un torace di lino.

La terza classe è delle armi gladiatorie di Pompei e d’Ercolano, credute da molti armi di guerra e per la singolarità delle loro forme cagione di gravissimi errori sulla natura dell’armamento dei legionarii romani, ai quali però queste armi erano affatto estranee, perchè solo destinate ai ludi ed alle pompe dell’Anfiteatro.

Io per altro ho creduto di riserbarne il cenno in [25] questo capitolo, per non iscindere in diverse parti l’argomento delle armi.

Dodici sono le galeæ, di cui una sola di ferro, le altre tutte di bronzo che si trassero dagli scavi di Pompei (nn. 268, 269, 271, 274, 275, 276, 277, 278, 279, 280, 282, 284). Sono degne di considerazione speciale: quella al n. 275 adorna di figure in rilievo rappresentanti cinque muse sulla parte anteriore, il dio Pane nel dinanzi della crista, con trofeo di cimbali, tirsi, tibie, e di una lira graffiti, e due amorini nella visiera, quelle ai nn. 276 e 278 a varii bassi rilievi e quella al n. 282 che ha sulla fronte in rilievo la figura di Roma galeata, che calcando una prora di nave regge nella sinistra il gladio chiuso nella vagina, con due figure virili avanti di sè prosternate e altri gruppi ai lati.

Cinque sono le galeæ di Ercolano, delle quali una di ferro, le altre in bronzo (270, 272, 273, 281, 283). La prima è adorna di bassi rilievi che ritraggono sulla fronte un simulacro di Priapo avvolto in ampia clamide, avente ai lati due guerrieri, con altri fregi minori nelle restanti parti. Quella al n. 283 è veramente insigne, essendo interamente ornata di figure a rilievo esprimenti gli ultimi fatti della guerra di Troja.

Una parma o scudo circolare di bronzo (n. 288) trovata in Pompei ha nel mezzo di argento ed in rilievo il Gorgonio circondato da ghirlanda di olivo, e [26] così un mezzo scudo (n. 287) o galerus, con figure marine.

È di Ercolano un mezzo scudo eguale (n. 286), ma di bronzo e atto alla difesa della testa, venendo per lo più applicato all’omero nelle lotte dei gladiatori Reziarii.

Tredici ocreæ di bronzo (290, 291, 293, 294, 295, 296, 297, 298, 299, 300, 301, 302, 303, 304) son di Pompei, la più parte figurate e le ultime due, simili affatto tra loro, servir dovevano certo ad un solo combattente.

Priva di ornamenti è la sola ocrea di bronzo rinvenuta in Ercolano.

Sei cuspidi di bronzo per lancia offriron pure gli scavi pompejani (305, 307, 308, 309, 310, 311) e una tricuspide (n. 306) che armava forse l’estremità dell’asta di un Bestiario.

I medesimi scavi diedero tre pugnali di ferro, pugiones (312 — 4) con manici d’osso; due frammenti di cingolo di bronzo (315) in cui alternatamente stavano in rilievo borchie con protomi bacchiche e di altre divinità, con calici di fiori aperti, frammezzati di rami d’edera scolpiti a puntini; con balteo di cuojo (316) a borchie di bronzo, e sei dischi dello stesso metallo con protomi in rilievo; e finalmente due corni (521 — 2) o trombe di bronzo che si suonavano dal cornicen, di che verrò più sotto, quando sarà il discorso degli istrumenti musicali della milizia, a parlare.

[27]

Tre fibule d’argento (317 — 9) servienti a baltei di cuoio provengono da Ercolano.

È indubitabile che gli scavi che si verranno ad operare nel Pagus Augustus Felix trarranno in luce molte e molte altre armi; perocchè quello fosse il luogo ove dimorava la colonia militare statavi per ben due volte dedotta da Roma.

Enumerate le armi di Pompei ed Ercolano, che si hanno nel Museo napoletano, vengo adesso ad assegnare quello che si aveva ciascun milite facente parte dell’esercito romano.

Ho già detto che i veliti erano quasi inermi; la loro armatura infatti era assai leggiera: un cimiero, galea o galeus, di pelle o lana per coprire il capo; una spada, gladius; un’asta, hasta; una specie di scudo, parma, di legno ricoperto di cuoio e la frombola e con essa avanti l’armata facevano in guerra le prime provocazioni contro l’inimico.

Gli astati avevano un cimiero, galea ærea, di ferro senza visiera, onde Cesare nella pugna farsalica avendo di contro i bellimbusti di Roma che parteggiavano per Pompeo, potè consigliare i suoi colle parole: Faciem ferite, mirate alla faccia, sicuro che per non essere sfregiati al volto avrebbero volte le spalle. Sull’elmo portavano creste e penne; avevano un gladio, uno scudo, scutum, il più spesso ovale, qualche volta curvo come un canale od embrice; onde dicevasi imbricatum, largo due piedi e mezzo della superficie, e [28] quattro di larghezza, costruito di più legni leggieri, come il fico e il salice, ricoperti di pelli coi margini di ferro: vestivano la corazza, lorica, di cuojo o di ferro e armavansi di una specie di giavellotto, pilum, di ferro e pesante, il quale, diretto con arte, trapassava il nemico scudo ed anche i suoi loricati cavalieri; e finalmente avevano la gambiera, ocrea, di ferro, che, secondo Vegezio nel suo trattato De Re Militari, i veliti frombolatori, funditores, portavano alla gamba sinistra, e i legionarii alla destra, dandone la ragione in ciò che nella pugna i primi dovessero atteggiarsi ponendo il sinistro piede avanti, mentre i militi avanzassero invece il destro.

I veliti frombolatori armavano le loro frombe di ghiande missili (glandes), o grosse palle di piombo, in luogo di pietre, delle quali più spesso servivansi. Esse portavano incise lettere allusive, come Fir, per FIRMITER, quasi a dire scaglia forte, o Feri Roma, cioè colpisci o Roma, e il Catalogo delle Armi Antiche succitato, ricorda le ghiande missili dell’assedio di Ascoli (a. u. c. 664, 665) e quelle della Guerra Civile (a. u. c. 705) colle diverse leggende, tra cui nell’ultime Feri Pomp. e Feri Mag. cioè, colpisci Pompeo, colpisci il Magno, cioè il medesimo Pompeo, perocchè appunto dovesse questo gran capitano nel 705 occupare il Piceno per opporsi alle armi di Cesare. Il Museo Nazionale possiede 39 di queste ghiande dell’Assedio d’Ascoli, e 9 della Guerra Civile.

[29]

Le armi dei Principi e dei Triarii erano simili a quelle degli Astati; solo i Triarii, a vece dei pili, o giavellotti, portavano le aste, di che valevansi principalmente formandone selve dirette contro le cariche della cavalleria nemica, come si farebbero oggidì al medesimo intento i quadrati alla bajonetta.

Di talune di tali armi fornirono esempi gli scavi pompejani, come più sopra si è detto.

I soldati di cavalleria dapprima non portavano lorica, affin d’essere più spediti, ma una semplice vesta, ed anzi per questa speditezza maggiore, s’accostumavano i cavalli stessi a piegar le gambe e prostrarsi. Pare che non avessero sella, ma qualcosa che le somigliasse onde seder più sofice. Avevan asta più gracile, scudo o parma di cuoio; e quando poi imitarono l’armatura greca, ebbero gladio ed asta più grande e cuspidata, ossia appuntata, scudo, e nella faretra tre o più giavellotti, con cuspide larga, cimiero e lorica.

Ogni legione aveva i suoi maestri delle armi per ammaestrare i soldati. Primo esercizio era il camminare celere, eguale e giusto; quindi era la Palaria, per la quale combattendo contro un palo confitto in terra con armi pesanti, si addestravano a maneggiar le vere con agilità; altri eran: la lotta, il nuoto, il salto, il cavalcare, la marcia che spingevano fino a ventiquattro miglia in sei ore, e il porto dei fardelli. Avevan questi fin sessanta libbre di peso, [30] senza tener conto delle armi, considerate queste come membra del soldato, secondo s’esprime Cicerone: Nostri exercitus primum, unde nomen habeant, vides; deinde qui labor, et quantus agminis ferre plus dimidiati mensis cibaria: ferre si quis ad usum velint: ferre vallum, nam scutum, gladium, galeam nostri milites in onere non plus numerant, quam humerus, lacertus, manus. Arma enim membra esse militis dicunt, quæ quidem ita geruntur apte, ut si usus foret, abiectis oneribus, expeditis armis, ut membris pugnare possint[12]. In tasche di cuojo, portavano frumento bastevole per venti giorni e Tito Livio dice fino per trenta[13], a cui dopo sostituirono il biscotto, che dicevan bucellatum[14].

I Romani non ebbero cavalleria leggiera, ma dopo [31] aver patito a causa della cavalleria leggiera numidica, di essa se ne valsero di poi. Questi feroci soldati pugnavano nudi ed inermi, all’infuori d’una mazza, che maneggiavano con grandissima arte. Erano poi questi barbari di una maravigliosa destrezza nel saltare da un cavallo all’altro. Sul qual proposito rammenterà il lettore come Omero nell’Iliade accennasse alla somma destrezza de’ suoi eroi perfin su quattro cavalli. Teutobocco re dei Teutoni era solito saltar alternativamente su quattro ed anco su di sei cavalli.

Dovendo or dire degli accampamenti, o campi fortificati, castra, comincerò per segnalarne la disposizione, notevole per l’ordine e per l’arte. Essi, se permanenti, chiamavansi castra stativa e il campo si faceva in forma quadrata circondato da fossato, fossa, e da un parapetto, agger, costituente insieme ciò che veniva detto vallum, con palizzate chiamate sudes, come al verso di Virgilio:

Quadrifidasque sudes, et acuto robore vallos[15].

Si formavano all’accampamento quattro porte: prætoria, era la porta che fronteggiava il nemico; decumana, quella della parte opposta e per la quale si conducevan i soldati colti in delitto per essere puniti: le altre, dei lati, dicevansi principales coll’aggiuntivo [32] di destra, o sinistra. Il campo si divideva poi in due parti: la superiore conteneva il quartiere del generale, prætorium, presso alla porta per ciò appellata prætoria, alla cui destra il luogo del questore, quæstorium, e alla sinistra i luogotenenti generali. Nella parte inferiore erano, nel mezzo la cavalleria, e dai lati di essa i Triarii, i Principi, gli Alabardieri e gli alleati.

L’interno era diviso in sette viali, il più largo dei quali correndo in dritta linea tra le due porte laterali e subito di fronte alla tenda del generale, era largo metri 3,04 e chiamavasi via principalis. Più innanzi, ma parallela, vi era un’altra strada detta via quintana, larga metri 3,52 e divideva l’intera parte superiore del campo in due eguali scompartimenti, e questi erano pure suddivisi in cinque altre strade della stessa larghezza.

Fra i Tribuni e Prefetti e dirimpetto alle due porte laterali eravi la parte più sacra degli accampamenti e dicevasi Principia, de’ quali già toccai in addietro. Ivi erano le statue e le principali insegne, vi si ergevano gli altari e si celebravano i sacrificj, a un di presso come nel Medio Evo si immaginò nelle città italiane il Carroccio. Nei Principii si tenevano i consigli dei duci, si amministrava dai tribuni militari la giustizia: tribunos jura reddere in principiis sinebant, come lasciò scritto Tito Livio[16].

[33]

Nota Giusto Lipsio che nel campo si inalberavano le banderuole, dalle quali ognuno conosceva il proprio posto.

La milizia aveva poi speciali insegne nel campo, come avverte Lucano in quel verso della Farsaglia:

. . . . . infestisque obvia signis

Signa pares aquilas et pila minantia pilis[17].

Più sopra ho ricordato che la legione aveva l’aquila per insegna, ed era essa d’oro o d’argento, inalberata su di un’asta e si figgeva, in terra, e quei che la portava dicevasi aquilifer. Il manipolo aveva la sua insegna: fu dapprima in un piccol fascio di fieno, posto sulla sommità d’una pertica, donde venne il nome di manipolo, come nota Ovidio nel Lib. III. de’ Fasti:

Illaque de foeno: sed erat reverentia foeno

Quantum nunc aquilas cernis habere tuas.

Pertica suspensos portabat longa maniplos

Unde Maniplaris nomina miles habet[18].

Più avanti fu sostituito il fascio di fieno da un’asta, con un traverso di legno alla sommità e su di esso [34] una mano. Vi si misero anche imagini di numi, poi di imperatori, e l’adulazione vi fe’ collocare anche l’imagine di Sejano al tempo di Tiberio. I portatori di queste insegne furono chiamati imagiferi.

Ogni Centuria aveva la sua bandiera distinta, su cui ponevansi iscrizioni, o ricamavansi le figure dell’Aquila, del Minotauro, del cavallo o del cignale[19].

La cavalleria, alla sua volta, aveva in ogni turma un vessillo consistente in una picca con un traverso nella sommità, al quale s’accomandava un drappo su cui era tessuto a lettere d’oro il nome del generale[20].

Ogni parte del campo aveva a difesa una turma con tre manipoli, o una coorte con veliti, come si evince da Giulio Cesare, De Bello Civili[21]. Al quartiere de’ cavalieri v’erano i triarii, e Sallustio ci fa sapere che alla guardia del Console fosse un manipolo[22] ed una turma d’alleati straordinarii; a quella de’ legati fossero quattro astati ed altrettanti principi; a quella del questore tre.

Le guardie diurne di sentinella dicevansi excubiæ, quelle di notte vigiliæ. Tessera appellavasi la parola d’ordine, perchè consegnavasi alla sentinella una tavoletta di contrassegno in cui era scritto il manipolo [35] al quale ciascuna guardia apparteneva e la veglia che gli toccava, come leggesi in Stazio:

Dat tessera signum

Excubiis positæ vices[23].

Venivano le sentinelle estratte a sorte dai tergoduttori e si conducevano avanti il tribuno di guardia: distribuite poi a’ rispettivi posti di guardia, vi venivano rilevate a suon di corno[24]. Un soldato, chiamato tesserario, riceveva dai tribuni la tessera al tramontar del giorno, e nella quale era scritto il motto, ed egli alla sua volta la consegnava, in presenza di testimoni, al suo manipolo od alla turma.

Marco Porcio Catone, sulla fede di Festo, insegna che Procubitores si chiamassero poi que’ soldati armati alla leggiera, che facevano di notte la scolta dinanzi agli alloggiamenti, quando questi erano vicini a quelli dei nemici.

Anche allora v’erano istromenti militari, de’ quali valevasi in diverse occasioni la milizia: la buccina, corno di caccia proprio dapprima de’ pastori, era stata poscia adottata negli eserciti; onde Properzio così notò tal passaggio:

Nunc intra muros pastoris buccina lenti

Cantat[25]

[36] e Virgilio, nell’Eneide, ne disse l’uso guerresco:

Bello dat signum rauca cruentum

Buccina[26].

Il suon della buccina muoveva le insegne; la tuba, più piccola e simile alla nostra trombetta dava il segno dell’attacco e della ritirata: quella era a più giri, questa invece retta, giusta quanto avverte Ovidio:

Non tuba directi, non æris cornua flexi[27].

Il lituus era una trombetta più piccola, più dolce e curva, il cornu era di bufalo, legato in oro, con suono acuto e distinto: così accenna Seneca nell’Edipo ad entrambi questi istrumenti:

Sonuit reflexo classicum cornu,

Lituusque aduncos, stridulo cantus

Elisit ære[28].

Poco in uso era il tamburo, timpanum, di cui si servivano i Parti nel dar il segno della battaglia e se ne valevano i Romani a imitazione di essi, talvolta per distinguere in guerra i segni delle nuove [37] evoluzioni, come più sensibili, giusta il verso di Stazio;

Tum plurima buxus,

Æraque taurinos sonitu vincentia pulsus[29].

Questo tamburo pare fosse formato da una caldaja di rame, lebes, sulla cui periferia era tesa una pelle come sono i timballi delle nostre odierne orchestre: nondimeno i Parti ebbero anche il lungo tamburo, come si rileva da Plutarco (In Crasso 23); ma allora sembra si chiamasse con greco nome symphonia.

Tubicen veniva detto il suonator della tromba; liticen quello del lituo; cornicen quello del corno, e tympanotriba quello del tamburo.

Detto della formazione della milizia e dei loro capi, tocchiamo brevemente degli stipendj. — Da prima è certo che nessuno stipendio si accordasse ai soldati, come che fosse tenuto obbligo naturale di libero cittadino di portar l’arme a difesa della patria; poi lo si ammise e fu di triplice natura; in denaro, in frumento e in vestiario. In denaro si diedero prima due oboli al giorno; ma Cesare, per tenersi il soldato affezionato, ne duplicò il soldo; altri [38] imperatori, pe’medesimi interessi, l’accrebbero. Ho già detto come poi al frumento si sostituisse il biscotto.

Dopo ciò seguiamo la milizia all’azione.

Siccome tanto in Grecia che in Roma non vi aveva per avventura atto della vita pubblica nel quale non si invocasse auspice la divinità, tanto che in Roma non seguisse adunanza pubblica se prima gli auguri non avessero assicurato propizii i numi, e l’assemblea non avesse ripetuta la preghiera pronunziata dall’augure, ed anzi il luogo di riunione pel Senato fosse un tempio e fossero multate di nullità le decisioni deliberate in luogo non sacro. Così non sarebbesi potuto muovere la milizia alla guerra senza l’intervento della religione.

A tale effetto trovasi ricordato in Dionigi d’Alicarnasso[30] e nello Scoliaste di Virgilio[31] come nelle città italiche fossero istituiti collegi di Feciali, i quali presiedevano a tutte le cerimonie sacre cui davano luogo le relazioni internazionali. Gli speciali uffici di questi sacerdoti ho già raccontato ne’ capitoli della storia[32] e detto come ad essi incombesse pronunciar la formula sacramentale della guerra. Un tal rito egli compiva colla testa velata, e una corona sulla testa. Quindi il Console in abito sacerdotale [39] apriva solennemente il tempio di Giano e faceva il sacrificio a propiziare il Dio. Le viscere della vittima immolata venivano dall’aruspice esaminate, e se favorevoli riuscivano i segni, il console riconoscendo che gli Dei permettevan la pugna, dava gli ordini della stessa.

E ciò che il Console faceva allo intimarsi della guerra, ripeteva il sommo duce, sagrificando cioè e pronunciando solenni preghiere, e così ad ogni campale battaglia facevasi precedere la consultazione delle viscere degli animali sagrificati.

Era insomma nè più nè meno di quello che si faceva nella più remota antichità anche in Grecia, ciò che prova la comune origine delle due nazioni. Restò famoso quanto intervenne alla battaglia di Platea. Gli Spartani erano già ordinati in battaglia; ognuno trovavasi al suo posto e la corona in testa udivano i suoni dei tibicini che accompagnavano gli inni religiosi. Dietro le file il re attendeva al sacrificio, ma le viscere delle vittime non presentavano i favorevoli auspici; epperò rinnovavasi il sacrificio. Più vittime vennero immolate; ma intanto la cavalleria persiana avanza, scaglia i suoi dardi e fa cadere gran numero di Lacedemoni. Ma questi rimangono immobili, lo scudo al piede, sotto la grandine nemica in aspettazione del segnale degli Dei. Questo finalmente è manifestato e allora i militi spartani imbracciano gli scudi, danno mano alla spada, gittansi [40] animosi sull’inimico, lo combattono fieramente, lo sbaragliano e riportano la più gloriosa vittoria.

Eschilo, nei Sette a Tebe, così fa pregare, prima della battaglia gli Dei:

O voi possenti, o prodi

Voi divi e dee beate,

Di questo suol custodi,

Della città non date

Preda a nimico di sermon diverso

Esaudite di vergini

Il prego a voi con tesa man converso.

Deh la città secura,

Amici Dei, ne renda

Il favor vostro, e cura

Pur del sacro vi prenda

Popolar culto; e rimembrate, o numi,

L’are, che a voi di vittime

Arder Tebe fe’ sempre, e di profumi[33].

Anche in Euripide, nei Fenicii, è detta consimile preghiera.

Da qui il costume che cogli àuguri seguissero l’esercito romano anche i pullarii, che dal pasto dei polli traevano gli auspici[34], e dei quali doveva essere frequente e rispettato l’ufficio, se ogni legione [41] l’avesse[36], se Planco scrivendo a Cicerone seriamente dicessegli: Pullariorum admonitu, non satis diligenter eum auspiciis operam dedisse[37].

L’armata si schierava in battaglia in due o tre battaglioni; le legioni romane erano sempre nel mezzo; ai fianchi, a formar le ale, le legioni alleate. La cavalleria, per consueto, alle spalle della fanteria, e Tito Livio nota che venisse anche collocata in coda, ad impedire che l’oste nemica non circondasse l’armata. Ho già detto come i Veliti fossero i primi ad aprir la pugna, seguissero poscia gli Astati e appresso i Principi; la vanguardia si componeva di quaranta compagnie. Il generale stava fra i Triari e i Principi, e a lato aveva la guardia pretoria, gli evocati ed un tribuno di ogni legione. Il prefetto della cavalleria comandava alle dieci turme, come il decurione più vecchio sovrastava a ciascuna turma.

I Romani poi sapevano mirabilmente fortificarsi, munendo le loro città di torri, di muraglie merlate e di larghi e profondi fossati. L’ingresso in città era per porte praticate nel piede delle torri con ponti levatoj [42] e saracinesche, come già ci accadde di vedere a Pompei. Tutto un sistema di torri le cingeva, ed a cagion d’esempio, nelle carte topografiche antiche di Milano pur colonia romana, detta anzi altera Roma, si vedeva che fra una torre e l’altra non correvano più di cento piedi. Le piazze-forti approvvigionavano, in previsione di assedio, di viveri e di armi e d’ogni cosa atta ad offendere, siccome bitume, solfo e pece. In caso invece di investimento di una città, vi si praticavano intorno linee di circonvallazione e trincee; e se fosse sembrata impresa non grave, usavasi riempirla di una linea di soldati che chiamavano corona, giusta quanto vedesi ricordato nel seguente verso di Silio Italico:

Mœnia flexa sinu, spissa vallata corona

Alligat[38],

od anche nello storico Giuseppe Ebreo, De Bello Iudaico si legge: Duplici peditum corona urbem cingunt et tertiam seriem equitum exterius ponunt[39].

All’espugnazione poi servivasi di una infinità di macchine dette Poliorcetiæ, dal loro inventore Demetrio Poliorcete. Comprendevasi nel numero di esse il terrapieno fatto di terra, pali e fascine [43] onde porvi le torri e battere in breccia. La torre mobile a diversi piani, perfino di quaranta piedi d’altezza e montata su ruote; la testuggine, specie di tettoja di legno coperta di pelle bovina onde metterla al coperto dagli assalitori, facevasi cogli scudi sulla testa quando correvano insieme all’assalto onde difendersi da’ proiettili nemici; l’ariete, trave lunga e grossa guernita all’estremità di una testa di ferro che, sostenuta da’ soldati stessi coperti dalla testuggine, veniva violentemente spinta contro le muraglie; la catapulta, macchina, secondo Vitruvio[40], di due braccia atta a scagliar dardi di molta grandezza, materie infiammate e sassi; la balista, mossa da nervi allo stesso scopo di scagliar pietre; il tollenone, o trave in terra confitta con altra alla cima, così collocata traversalmente che abbassandosi l’un de’ capi, l’altro s’inalzava, ed a questi capi erano adattati certi graticci entro cui s’ascondevano i soldati e dai quali offendevano l’inimico; e l’altalena, macchina movibile da cui s’alzava il ponte fino all’altezza delle mura assediate e da cui gittavasi la scala munita di uncini onde aggrapparla al parapetto e compire la scalata. L’elepoli, la terebra, la galleria, la vigna, con o senza ruote, erano altrettante testudini di diversa fattura; chi poi volesse avere di questi bellici strumenti l’idea più esatta, ricorra al libro X di Vitruvio [44] che ne discorre ampiamente. Tutte queste macchine poi trattavano i Romani con somma destrezza e agilità.

Quando si accingevano ad impresa di molto momento e alla battaglia, o quando trattavasi di comporre una spedizione militare, il comandante arringava i soldati, e Tito Livio nelle sue storie ci fornì magnifici esempi di militare eloquenza, e se l’entusiasmo de’ soldati rispondeva alle parole di lui, Ammiano disse che lo si esprimeva col percuotere gli scudi e colle acclamazioni: Hac fiducia miles, hastis feriendo clypeo, sonitu adsurgens ingenti, uno propemodum ore dictis favebat et cœptis[41]; ma se l’arringa non trovava approvazione, facevasi intendere una confusa mormorazione od opponevasi il più assoluto silenzio; onde più tardi potea dirsi con istorica allusione che il silenzio fosse la lezione dei re.

Il comandante, dopo la battaglia e la vittoria, assolte le pubbliche e solenni cerimonie del sacrificio, pel quale processionalmente portavasi al tempio principale della città, fra i canti guerreschi de’ soldati incoronati che lo seguivano, e le grida Io triumphe[42], dinanzi alla fronte del suo esercito, lo ringraziava, [45] particolarmente facendo onorevole menzione di coloro che meglio si fossero distinti e distribuiva i premj secondo le diverse qualità di essi. Chi avesse combattuto corpo a corpo col nemico, o presolo, od ammazzato, otteneva l’asta pura, o mezza picca tutta di legno, così rammentata da Virgilio:

Ille vides pura juvenis, qui nititur hasta[43].

Ottenevano monili d’oro o d’argento, braccialetti o catene coloro che avessero reso segnalato servizio.

Più ambite per altro erano le corone. Davasi la civica, ed era guarnita di quercia, a chi avesse salvo un cittadino; onde Claudiano, nelle lodi di Stilicone, cantò:

Mos erat in veterum castris, ut tempora quercu

Velaret, validis fuso qui viribus hoste

Casurum potuit, morti subducerem civem[44].

Concedevasi la murale d’oro, perchè foggiata a muro e baluardi, a chi primo avesse scalato le mura:

. . . . . Cape victor honorem

Tempora murali cinctus turrita corona[45].

[46]

La castrense o vallare, ed era d’oro formata come di palizzate di vallo, per colui che primo avesse occupato il campo nemico; la navale o rostrale a chi primo fosse saltato sulla nave nemica; l’ossidionale o graminea, intesta d’erba colta nel luogo assediato, al capitano che avesse costretto il nemico a levar l’assedio: la trionfale, che fu prima di alloro, poi d’oro, al capo supremo dopo una segnalata vittoria, e finalmente la ovale di mirto a chi riportasse ovazione, o trionfo minore.

Erano altre distinzioni militari: l’intervento ai publici ludi fregiato dei riportati premj, l’esposizione delle spoglie nemiche alle pareti esterne delle case con divieto di levarnele anche per vendita delle medesime, e Tibullo vi accenna in quel distico:

Te bellare decet terra, Messala, marique,

Ut domus hostiles præferat exuvios[46].

Il supremo comandante, che ucciso il comandante nemico, ne lo avesse spogliato, la spoglia, detta opima, sospendevasi nel tempo di Giove Feretrio. Tre soli conseguirono questo onore: Romolo uccidendo Acrone re de’ Cicimei, Cornelio Cosso ammazzando Tolunnio re de’ Tusci, e Marcello spegnendo Viridomaro re de’ Galli[47].

[47]

Ai primi tempi di Roma la preda bellica ripartivasi fra coloro che avevano preso parte alla guerra; dopo venne qualche volta promessa ai soldati per incuorarli alla pugna; il più spesso spettava alla Repubblica e l’impadronirsi di essa costituiva perfino reato di peculato.

Ma l’onore maggiore e che importava il più superbo e solenne spettacolo, era il trionfo, che veniva accordato a quel supremo capitano che avesse riportata alcuna insigne vittoria; ma solo vi poteano aspirare i dittatori, i consoli e i pretori; sì che citisi come singolar privilegio l’averlo ottenuto Cn. Pompeo di soli 24 anni, ed essendo appena cavaliere. Per aver diritto e chiederlo, era mestieri avere in una sola battaglia sbaragliato almeno cinquemila nemici, deporsi dal comando dell’armata e, restando fuori di Roma, domandarlo per lettera involta in foglie d’alloro, indirizzata al Senato, che venuto nel tempio di Bellona, leggevala e trovato giusto quell’onore, lo concedeva, riconfermandolo imperatore.

Per essere stato rifiutato l’onor del trionfo ai Consoli Valerio ed Orazio, il tribuno Icilio ne appellò al popolo, che loro lo accordò, onde quindinnanzi ne nacque spesso conflitto di autorità. Fu per tale conflitto che Claudia vestale, saputo che disturbar volevasi il trionfo del proprio padre Claudio, e farlo scendere in mezzo ad esso dal carro, a ciò impedire, montò ella stessa il carro con lui; perocchè nessuno [48] sarebbesi attentato portar la mano su d’una vestale.

Il supremo duce, cui era decretato il trionfo della veste palmata, ossia tessuta a frondi d’alloro, che si mutò nel seguito in porpora tessuta d’oro, cingeva le tempia d’una corona d’alloro, che poi fu d’oro, e nell’una mano stringendo uno scettro eburneo sulla cui cima era un’aquila d’oro, nell’altra invece un ramoscello d’alloro, attendeva il Senato, che gli moveva incontro seguito da’ littori co’ fasci ornati di frondi pure di lauro e incominciava la pompa del trionfo. Precedevano i tibicini e trombettieri suonando concenti di battaglia. Venivano poscia i bianchi tori coperti da gualdrappe di porpora ricamata d’oro, e dorate le corna, destinati ad essere sagrificati, e condotti dai vittimarj stringenti ciascuno una lancia, susseguiti da’ sacerdoti. Tenevano dietro i molti carri colle imagini delle nazioni e castella debellate; onde il popolo, giusta quanto cantò Ovidio:

Ergo omnis populus poterit spectare triumphos

Cumque ducum titulis oppida capta leget[48].

Quindi i carri recanti le spoglie dei nemici, le armi, l’argento, il danaro, i vasi, le insegne e le macchine guerresche conquistate.

Dietro di essi camminavano i re, i capitani e i [49] prigionieri colla testa rasa in segno di loro schiavitù, e carichi di catene:

Vinclaquæ captiva reges cervice gerentes

Ante coronatos ire videbit equos[49]

e finalmente arrivava maestoso su di un carro, ricco d’avorio ed incrostato d’oro e tratto da quattro bianchi corsieri, attelati tutti di fronte, il trionfatore:

Portabit niveis currus eburnus equis[50].

Nei tempi ultimi della republica, Pompeo ai cavalli sostituì gli elefanti, Marcantonio i leoni, Nerone giumenti ermafroditi, Eliogabalo le tigri, e Aureliano le renne.

I figli dei trionfatori o stavano sui cavalli del carro trionfale, come praticò Paolo Emilio, o sovra il carro stesso, o immediatamente venivano dietro di esso.

Tertulliano poi nota, che uno schiavo sostenesse la corona del trionfatore e a tratti gli gridasse: Respice post te, hominem esse memento.

Entrando il trionfatore per la porta Capena, per la quale si andava al Campidoglio, meta del trionfo, il popolo lo acclamava colle grida Io triumphe, e la formula del popolare entusiasmo, quasi sacramentale, [50] è suggellata nelle odi di Orazio, in quella a Giulio Antonio, ne’ seguenti versi:

Teque dum procedis, Io Triumphe

Non semel dicemus, Io Triumphe

Civitas omnis: dabimusque Divis

Thura benignis[51].

Arrivato tra plausi al Campidoglio, dimessa la toga trionfale, volgevasi agli Dei con questa preghiera: Gratias tibi, Iupiter Optime Maxime, tibique Junoni Reginæ et cæteris huius custodibus, Habitatoribusque arcis Diis, lubens lætusque ago, Re Romana in hanc diem et horam per manus quod voluistis meas, servata, bene gestaque, eamdem et servate, ut facitis, fovete, protegite propitiati, supplex oro[52].

Si immolavano allora le vittime e compivansi i sacrifici: il trionfatore deponeva l’alloro nelle mani della statua di Giove; quindi i prigionieri venivano [51] tradotti al carcere Tulliano dove si facevano miseramente morire[53].

Si chiudeva l’augusta cerimonia con un lauto banchetto a spesa publica, e vi intervenivano i maggiorenti della città, all’infuor de’ consoli, acciò, osserva Valerio Massimo, il trionfatore vi serbasse la preminenza[54]. Alla plebe poi si distribuiva in segno d’allegrezza denaro. V’ebbero trionfi che durarono tre giorni, come quello di Paolo Emilio, nel quale porse commovente spettacolo il re Perseo in catene co’ suoi figliuoli, inscii, per la tenera età, della loro immensa sventura. Quello di Giulio Cesare, descrittoci da Dione Cassio, durò quattro giorni.

Il trionfo navale era suppergiù il medesimo. Solo facevasene precedere la domanda colla spedizione di una nave ricca di spoglie ed adorna d’alloro.

Il minor trionfo che dicevasi ovazione, perchè esigeva il sagrificio d’una pecora, ovis, compivasi andando il supremo duce, al quale era aggiudicato, o a piedi od a cavallo al Campidoglio, con corona di mirto in capo, con toga bianca orlata di porpora e con ramo d’ulivo in mano. Accordavasi a chi avesse riportata una vittoria su nemico disuguale, come pirati, schiavi, transfughi. Eran nella procession trionfale [52] i tibicini, portavansi le insegne militari, le spoglie, le armi, il denaro.

I trionfatori ottenevano talvolta l’onore delle statue o dell’erezione di colonne o di un arco, l’uso della corona e della veste trionfale, il diritto alla sedia curule e cento altre prerogative.

Ma pari alla grandiosità de’ premj, era la gravità delle pene che s’infligevano a’ delinquenti militari. Severissima era la militar disciplina, e si comprende allora come la sentinella pompejana, neppur davanti ai pericoli ed all’orrore del terribile cataclisma avesse violata la consegna, ma, rimasta al suo posto, vi perisse; e la disciplina non v’ha chi ignori essere la virtù e la forza precipua degli eserciti.

Già ne’ capitoli della storia ho ricordato il formidabile esempio del giovane Manlio Torquato dannato a morte dal padre, per essersi, contro divieto, battuto con Geminio Mezio, che lo aveva sfidato; nè altrimenti aveva operato Giunio Bruto co’ proprj figliuoli, fatti trucidare da lui pel sospetto di essersi ammutinati nel campo affin di rimettere in trono i Tarquinj.

La sedizion militare e la fuga di un corpo di milizia punivasi colla decimazione, cioè collo estrarre a sorte dieci soldati in cento e mandarli a morte; e la ragione di tal pena è fornita da Cicerone: Stuatuerunt itaque majores nostri, ut si a multis esset flagitium rei militaris admissum, sortione in quosdam anima deterreretur: ut metus videlicet ad omnes, pœna [53] ad paucos pervenerit[55]. Eravi anche la vigesimazione e la centesimazione. Se il soldato abbandonava il suo posto di guardia, se disertava per tre volte, se rendevasi colpevole di nefando delitto, di spergiuro o di falsa testimonianza, veniva dal Tribuno e da un consiglio di guerra, sempre adunato in causa capitale, condannato a morte colle verghe, e questo genere di morte chiamavasi fustinarium. Fustem capiens Tribunus, scrive Polibio, condemnatum leviter tangit et delibat. Quo facto, omnes qui in castris sunt, ferientes alius fustibus, alius lapidibus, plerosque in ipsis occidunt[56].

Il latrocinio, al dir di Frontino, si puniva col taglio della mano del colpevole, e quindi gli si eseguiva la pena del fustinarium.

Si usò ne’ delitti gravi il taglio della testa colla scure; i disertori anche coll’affissione in croce.

Pene minori erano la fustigazione leggiera con dieci, venti o cento battiture, e si applicavano per codardia o per mancanze; la multa e, dove non pagata, [54] il pegno, privandosi il soldato di parte delle armi, che doveva provvedersi con denaro proprio e si chiamava censio hastaria.

Erano del pari punizioni militari: l’orzo dato a vece del frumento, quasi ritenuti indegni dell’alimento umano, perchè l’orzo davano a’ giumenti; la sospensione del soldo, e il soldato dicevasi allora ære dirutus; l’attendarsi fuor del vallo o del campo, e lasciato quindi più esposto al nemico; l’abito vile, o disciolto; il mutar di milizia e talvolta il rilegamento fra i bellici impedimenti ed alla custodia dei prigionieri; lo star in piedi alla cena, solendo in tempo di essa i soldati romani star seduti, e va dicendo.

Compiuta la sua ferma, o come dicevasi dai Romani, confecta stipendia, il soldato veniva congedato, e il congedo, missio, era poi di duplice natura. Dicevasi onesto, honesta missio, a chi aveva ultimato il servizio militare; causario, causaria missio, se motivato da vizio, difetto o morbo.

Era poi detto grazioso, se accordato al milite da’ comandanti per favore, ma poteva revocarsi da’ censori; ignominioso, se fosse stato determinato da crimine o delitto.

Sotto di Augusto poi vi ebbe quella specie di congedo che appellavasi exauctoratio, ed era il congedo a servizio militare compiuto, che non obbligava ad altro onere di milizia, se non alla pugna contro il [55] nemico, e in tal caso dicevansi veterani sifatti soldati.

Questi che ho riassunti in breve erano gli ordinamenti della romana milizia, che a compimento del quadro della vita publica de’ romani e delle città, come Pompei, che s’erano alle leggi ed alle costumanze de’ romani conformate, dovevo far conoscere al lettore.

[57]

CAPITOLO XX. Le Case.

Differenza tra le case pompejane e romane — Regioni ed Isole — Cosa fosse il vestibulum e perchè mancasse alle case pompejane — Piani — Solarium — Finestre — Distribuzione delle parti della casa — Casa di Pansa — Facciata — La bottega del dispensatorPostes, aulæ, antepagmentaJanua — Il portinajo — ProthyrumCavædiumCompluvium ed impluviumPuteal — Ara dei Lari — I Penati — Cellæ, o contuberniaTablinum, cubicula, fauces, perystilium, procœton, exedra, œcus, tricliniumOfficia antelucanaTrichila — Lusso de’ triclinii — Cucina — Utensili di cucina — Inservienti di cucina — Camino: v’erano camini allora? — Latrina — Lo xisto — Il crittoportico — Lo sphæristerium, la pinacoteca — Il balineum — L’Alæatorium — La cella vinaria — Piani superiori e recentissima scoperta — CœnaculaLa Casa a tre piani — I balconi e la Casa del Balcone pensile — Case principali in Pompei — Casa di villeggiatura di M. Arrio Diomede — La famiglia — Principio costitutivo di essa — La nascita del figlio — Cerimonie — La nascita della figlia — Potestas, manus, mancipiumMinima, media, maxima diminutio capitis — Matrimonii: per confarreazione, uso, coempzione — Trinoctium usurpatio — Diritti della potestas, della manus, del mancipiumAgnati, consanguineiCognatioMatrimonium, connubiumSponsali — Età del matrimonio — Il matrimonio e la sua importanza — Bigamia — Impedimenti — Concubinato — Divorzio — Separazione — DiffarreatioRepudium — La dote — Donatio propter nuptias — Nozioni [58] sulla patria podestà — Jus trium liberorum — Adozione — Tutela — Curatela — Gli schiavi — Cerimonia religiosa nel loro ingresso in famiglia — Contubernium — Miglioramento della condizione servile — Come si divenisse schiavo — Mercato di schiavi — Diverse classi di schiavi — Trattamento di essi — Numero — Come si cessasse di essere schiavi — I clienti — Pasti e banchetti romani — Invocazioni al focolare — Ghiottornie — Leggi alla gola — Lucullo e le sue cene — Cene degli imperatori — Jentaculum, prandium, merenda, cœna, commissatio — Conviti publici — Cene sacerdotali — Cene de’ magistrati — Cene de’ trionfanti — Cene degli imperatori — Banchetti di cerimonia — Triumviri æpulonesDapes — Triclinio — Le mense — Suppellettili — Fercula — Pioggie odorose — Abito e toletta da tavola — Tovaglie e tovaglioli — Il re del banchetto — Tricliniarca — Coena recta — Primo servito — Secunda mensa — Pasticcerie e confetture — Le posate — Arte culinaria — Apicio — Manicaretto di perle — Vini — Novellio Torquato milanese — Servi della tavola: Coquus, lectisterniator, nomenclator, prægustator, structor, scissor, carptor, pincerna, pocillator — Musica alle mense — Ballerine — Gladiatori — Gli avanzi della cena — Le lanterne di Cartagine — La partenza de’ convitati — La toletta d’una pompejana — Le cubiculares, le cosmetæ, le calamistræ, ciniflones, cinerarii, la psecas — I denti — La capigliatura — Lo specchio — Punizioni della toaletta — Le ugne — I profumi — Mundus muliebris — I salutigeruli — Le VenereæSandaligerulæ, vestisplicæ, ornatrices — Abiti e abbigliamenti — Vestiario degli uomini — Abito de’ fanciulli — La bulla — Vestito degli schiavi — I lavori del gineceo.

Conosciuta che abbiamo la vita publica de’ Romani, se non desunta interamente da quanto offrirono gli scavi di Pompei, certo tuttavia avvalorata e grandemente da essi, facciamoci ora a chiedere ai medesimi tutto quanto ha tratto alla vita privata. Entriamo [59] nelle case di Pansa e di Sirico, di Cornelio Rufo e di Caprasio Primo, di Olconio e di Giulia Felice, non che de’ molti altri facoltosi pompejani: affacciamoci anche alle più modeste ed a quelle dell’uomo del popolo e interroghiamo. Quelle mute rovine ne avranno di eloquenti rivelazioni a fare. Collo ajuto degli scrittori di quel tempo indovineremo l’uso d’ogni singola stanza, come con essi ci siam resa ragione d’ogni altra cosa, che siam venuti fin qui discorrendo, e risaliam dopo alle più elevate considerazioni toccanti la famiglia e il costume, gli usi e le consuetudini. Ampio è codesto argomento che piglio a svolgere; ma vedrò modo di rapidamente farlo.

Avanti tutto, esaminiamo, o lettore, la casa, nel suo materiale.

La prima osservazione che si presenta è quella, che abbiamo insieme già fatta, parlando nel capitolo dell’Arti dell’Architettura: la piccolezza cioè, di esse, della quale a stento possiamo capacitarci, accostumati come siamo ad ammirare la vastità de’ palazzi de’ nostri grandi, e l’ampiezza pur delle nostre case. Ricorderà il lettore che non solo credetti attribuire questa piccolezza delle case pompejane alla vita che que’ cittadini facevano frequentemente in istrada e in piazza, ma piuttosto alle abitudini, alle tradizioni ed al gusto de’ Greci che vi si conservavano. Ecco perchè mai si terrebbe ad esempio una casa pompejana, per formarsi un’esatta idea di una [60] casa romana. I Greci studiarono più presto le bellezze delle forme architettoniche, che lo splendore della grandezza seguìta da’ Romani. Questi d’altronde non avrebbero potuto colle anguste abitazioni greche mantenere il costume superbo d’essere sempre seguiti e corteggiati da una folla di clienti, d’essere sempre assistiti e serviti da una quantità di servi. Alla finezza del gusto finalmente sopperirono i Romani colla magnificenza.

Colle case pompejane pertanto argomentiamo in quelle vece solamente come potessero essere le case di Pericle e di Aristide, di Socrate e di Platone, di Atene, di Sparta e di Corinto.

Contuttociò, la distribuzione delle parti puossi dire comune tanto alle case greche che alle romane; suppergiù una casa pompejana è distribuita come era una casa romana, eccettuata l’ampiezza maggiore di quest’ultima; come pure si possa dire che visitata una casa, siensi visitate tutte, perocchè a un di presso siano tutte egualmente conformate: nelle sole decorazioni consistendo per avventura la differenza.

Un’altra diversità si riscontra per avventura nel mancare le case pompejane di vestibulum. Tal nome non davasi già a quella parte della casa che così designiamo oggidì, ma bensì come raccogliesi da Vitruvio e da Aulo Gellio[57], a quella corte o piazza che [61] stava avanti alla casa, od a qualunque altro grandioso edificio, subito sulla fronte dell’entrata principale, lo che ottenevasi col prolungare le mura laterali al di là della facciata dell’edifizio, come del resto suole, di frequentemente vedersi massime ne’ palazzi di campagna, chiuse per lo più cotali corti o piazzali da muri o cancellate, od anche determinate da albereti. In Pompei, città di terz’ordine, adagiata su d’un pendio, che non poteva disporre di larghi spazi, che le case erano piccolette, non vi potevano essere vestiboli nel senso che assegnavasi allora ad essi, convenienti questi ad edifici piuttosto grandiosi. Pare per altro dal luogo stesso di Vitruvio che in greco dicendosi prothyra i vestiboli che sono avanti alle porte, e prothyra da’ Romani quelli che in greco si dice diathyra, cioè cancello o riparo, vestibolo potesse essere detta pur quella parte subito successiva dove stava l’ara o focolare, di cui dirò fra breve, se si deve aggiunger fede ad Ovidio:

Huic quoque vestibulum dici reor: inde precando

Adfamur Vestam; quæ loca prima tenes[58].

Or venendo a dire dell’altezza delle case di Pompei, se in Roma si spinse talmente la fabbrica delle [62] case fino ad esservi undici piani, tal che Augusto fosse costretto a rendere un editto che conteneva l’ardimento degli architetti acciò non varcassero l’altezza di settanta piedi, e Trajano a ridurla a sessanta, per la maggiore sicurezza e salubrità: in Pompei, sa già il lettore, come quasi tutte le case sembri non abbiano avuto che il pianterreno e un primo piano, che appellavano solarium, onde il nostro solajo. Taluna appena, come vedrà più avanti, si riconobbe aver avuto due piani e il solajo.

Qui altra osservazione è dato di fare avanti queste casette pompejane, prima di mettervi il piede: la mancanza, cioè, assoluta di finestre sulla via. Poteva ciò essere l’effetto delle imposizioni che gravitavano su di esse; ma più perchè la casa tenevasi per santuario chiuso all’occhio profano; perocchè le imposte gravi, non avrebbero trattenuto gli Olconj e i Pansa, e i tanti altri maggiorenti dallo averle. Del resto anche nell’interno le camerette il più sovente ricevevano luce dall’uscio e da lucernari dall’alto. La luce piovente dall’alto era anche in Roma in quasi tutte le case: avvertimento codesto non inutile pel giusto collocamento de’ capolavori dell’arte antica, e pel modo più sicuro di apprezzamento.

Sa già del pari il lettore come Pompei si dividesse in regioni, regiones, e queste in isole, insulæ, le quali assumevano il nome del proprietario principale delle case o dell’unica casa onde si costituiva, come questa [63] di Pansa, che invito il lettore a visitare come esempio di tutte nella via delle Terme.

Scoperta dal 1811 al 1814, si ritenne appartenente a Pansa, edile, poichè un’iscrizione dipinta su di una spalla o pilastro della porta così dicesse:

PANSAM ÆDILEM PARATVS ROGAT[59].

Questa famiglia dei Pansa abbiam già veduto ricordata nell’Anfiteatro: essa doveva essere tra le più influenti e autorevoli nella città; Fiorelli, nella Storia delle Antichità Pompejane, riferisce quest’altra iscrizione che rammenta Cuspio Pansa:

CVSPIUM PANSAM
AED . FABIVS EVPOR . PRINCEPS
LIBERTINORVM[60].

La facciata principale ha sei botteghe, nel cui mezzo vi è la porta: le botteghe per altro, come in [64] quasi tutte le altre case, non hanno comunicazione coll’interno della casa, all’infuori di una che riusciva all’atrio, occupata forse dallo schiavo, dispensator, che là vendeva vino, olio e le derrate raccolte nel fondo del padrone, come, massime in Firenze, veggiam praticarsi tuttodì. Delle botteghe non ci intratterremo, perchè l’abbiam già fatto nell’apposito capitolo.

Della porta d’ingresso della casa esistono ancora i due pilastri, o stipiti, postes, non le antæ o fores, o battenti, diremmo noi, perchè consumate dal fuoco del Vesuvio, ma che secondo lo stile de’ Romani, dovevano essere di cedro o d’altro legno prezioso, di nobile architettura, o a specchi ornati di intagli, o a grosse borchie a capocchie dorate, e si dicevano antepagmenta; e si aprivano al di dentro della casa, onde non essere d’impaccio sulla via, in ciò diversificando dal costume greco. Chiudevansi poi internamente con ispranghe di ferro che dall’alto scendevano a configgersi in terra come pur oggidì si usa.

Janua dicendosi la porta, janitor era detto il portinajo, od anche ostiarius, al qual ufficio destinavasi uno schiavo incatenato che stava a sedere nella cella ostiaria, ed aveva la cura dell’ingresso, tenendo una verga nella mano. Nella casa di Pansa, come nella più parte delle case pompejane, l’ostiarius doveva stare nel prothyrum, o stretto corridojo corrispondente alla porta e che metteva all’atrium. A fianco dell’ostiarius stava spesso un grosso cane, ma già [65] espressi come si fosse sostituito al cane vivo, uno di musaico, che lo rappresentasse, od anche la semplice leggenda cave canem. Ricordai pure come sul limitare dell’atrium vi fossero anche altre leggende, come salve, salve lucru, ecc. In questa casa di Pansa leggevasi la sola parola SALVE in musaico, la quale fu trasportata nel Museo di Napoli.

L’atrium, detto eziandio cavædium, quasi la parte cava e vuota della casa, cava ædium, è nella casa di Pansa un cortiletto della specie tuscanica, recinto di portici e semplice, sostenuto da quattro mensole affrancate nel muro, e sul quale venivano a poggiare le quattro parti del tetto che versavano la pioggia nel compluvium, o bacino, nel mezzo del cortile. Talvolta dagli scrittori si confondono il compluvium coll’impluvium e si scambiano promiscuamente. Plauto medesimo ha nel Soldato Millantatore, Miles gloriosus, questi versi:

Mihi quidem jam arbitri vicini sunt, meæ quid fiat domi,

Ita per impluvium intro spectant[61].

A togliere siffatto inconveniente del guardar de’ vicini per l’impluvio nella casa, Plinio ne fe’ sapere come si usassero cortine che coprissero tutto il compluvio. [66] A fianco dell’impluvium era il più spesso un puteal o bocca del serbatojo d’acqua: qui era pure un altare per gli Dei domestici, lares, su cui ardevansi profumi.

Come in Grecia, anche in Roma la casa soleva avere un altare, e su di esso della cenere e dei carboni accesi. I Greci questo altare appellavano ἑστὶα, parola colla quale si designò di poi la dea Vesta, la quale, per testimonianza d’Ovidio, non era che fiamma viva.

Nec tu aliud Vestam, quam vivam intellige flammam[62],

e più sotto:

Effigiem nullam Vesta nec ignis habent[63].

I latini lo chiamavano ara ed anche focus. Impedivasi che questo fuoco si estinguesse, curando che anche la notte, coperto dalle ceneri, non si consumasse interamente. Al mattino era prima sollecitudine di ravvivarlo, perchè la sua estinzione equivaleva a funesto presagio; tanto così che focolare estinto fosse sinonimo di famiglia estinta. Nè doveva essere codesta alimentazione del fuoco sull’ara una costumanza indifferente, se v’erano regole [67] e riti all’uopo. Non era buona ogni sorta di legna, mentre anzi il servirsi di taluna sarebbe stata empietà, meno poi gittarvi su materie immonde. Tuttavia Macrobio, ne’ suoi Saturnaliorum, ricordò come presso i Romani alle calende di Marzo ciascuna famiglia dovesse estinguere il suo fuoco sacro, per riaccenderne un altro; e la ragion dà Ovidio nel lib. III, Fastorum:

. . . . vires flamma refecta capit[64],

ma per ciò fare non potevasi adoperare la selce e il ferro, ma si dovesse concentrare in un punto solo i raggi solari, o forse far uscire la scintilla dal rapido sfregamento di due legni.

A questo fuoco prestavasi adorazione e culto, con offerte di fiori, d’incenso, di vino e di vittime, veggendosi in esso un dio provvido, benevolo e protettore della casa: onde nessuna meraviglia il leggere in Virgilio di Ecuba, che quando il palazzo di Priamo fu invaso da’ Greci, visto Priamo stesso venirle innanzi giovenilmente armato, ella gli avesse a dire:

. . . . quæ mens tam dira, miserrime conjux,

Impulit his cingi telis, ant quo ruis? inquit.

Non tali auxilio, nec defensoribus istis

Tempus eget: non si ipse meus afforet Hector

Huc tandem concede: hæc ara tuebitur omnes,

Aut moriere simul[65].

[68]

Focolare, lare domestico e Penati erano poi tutti una medesima cosa nel linguaggio ordinario. Infatti scrive Servio, lo scoliaste di Virgilio: «Per focolari gli antichi intendevano gli Dei Lari, e così Virgilio ha potuto indifferentemente ora dire focolare, per Penati, ora Penati per focolare[66]

I numi poi che gli antichi chiamavano Lari od Eroi, non erano che le anime de’ morti, alle quali assegnavano sovrumana potenza, la cui memoria era sempre annessa al focolare.

Di queste divinità costituivasi la religione domestica, di cui il solo padre famiglia era il pontefice, non essendovi per essa regole uniformi, giusta l’espressione di Varrone: Suo quisque ritu sagrificia faciat:[67] epperò le pratiche di questa religione, su cui il Pontefice aveva solo diritto a vigilare perchè si compissero, seguivano nell’interno della casa ed erano circondate dal segreto.

I Cavedj delle altre case pompejane erano più ricchi di quello della casa dell’edile Pansa, perchè [69] recinti di colonne, e vi si annetteva infatti una certa importanza, perchè nel cavedio ricevevansi spesso i clienti e i forestieri. Dalla istituzione, che già ricordai trovata da Romolo, de’ patroni e de’ clienti originò l’affollarsi di questi ultimi alle case de’ primi. Quanto più ricchi ed influenti fossero i patroni, tanto era maggiore ed assidua la presenza de’ clienti. Fin dall’alba ne assediavan le porte, cercavano affezionarsene i servi, onde penetrare dal patrono per dargli il buon giorno, e queste sollecitudini dicevansi officia antelucana, e Giovenale, a far la loro caricatura, dipinse Trebio, che per accorrere ai mattutini saluti, non ha pur tempo di attaccarsi alle scarpe i legacci:

. . . habet Trebius propter quod rumpere somnum

Debeat et ligulas dimittere, sollicitus ne

Tota salutatrix jam turba peregerit orbem

Sideribus dubiis, aut illo tempore quo se

Frigida circumagunt pigri serraca bootæ[68].

[70]

Tutt’all’intorno del cavedio sonvi camerette, cellæ o contubernia, non illuminate che dall’aprirsi delle loro porticine, per uso degli schiavi.

Dopo il cavedio, seguiva il tablinum, detto pur tabulinum, stanza destinata dapprima a contenere gli archivii delle famiglie e le imagini degli avi, imagines majorum, delle quali già dissi in addietro; adoperata poi anche come sala da pranzo.

A destra ed a sinistra del tablinum sono due sale: quella a sinistra con pavimento a musaico doveva essere una biblioteca, a giudicar dai papiri carbonizzati e distrutti che vi si rinvennero: quella a destra doveva servire da camera da letto, cubiculum, da cuba, nicchia, nella quale entrava il capo del letto. Al Museo di Napoli veggonsi letti di bronzo trovati a Pompei: dovevan essere de’ ricchi, i quali li avevano anche di più preziosa materia. Nelle case più modeste eran di legno ed anche di materiale di fabbrica, su cui stendevano materassi o pelli.

Il passaggio fra il cubiculum e il tablinum chiamavasi fauces e per esso passavasi all’appartamento interno. Pel servizio della casa spesso le fauces giravano tutto all’intorno di essa.

Oltre il tablinum, era il perystilium, corrispondente alla Gyneconitis d’una abitazione greca. Nella casa di Pansa era un cortile circondato da sedici colonne d’ordine jonico con capitelli ornati. Spesso in questo spazio trovavasi un giardino, xystum, che in [71] questa casa esiste separatamente, come vedremo più avanti; ma più ordinariamente, come qui, una piscina od un impluvium col suo puteal per attingervi l’acqua.

Il Perystilium è poi fiancheggiato da due camere, entrambe da letto, appena capaci a contenerlo, quella a sinistra preceduta da un’anticamera detta allora procœton.

Non è inopportuno osservare in un angolo del peristilio di questa casa di Pansa un corridojo, per il quale da una porticina detta posticum, si usciva sulla via della Fullonica, opportunissima al patrono per sottrarsi all’importunità de’ clienti, come nota Orazio nella epistola 5 del Lib. 1.

et rebus ommissis

Atria servantem postico folle clientem.

Dalla parte opposta al posticum evvi un’ala e nel fondo del peristilio alto di due gradini, la sala principale detta exedra, o meglio exedrium, come Cicerone chiama nelle sue epistole famigliari un diminutivo di exedra[69], od anche œcus, che serviva a convegno, alla conversazione e talvolta anche da pranzo, ed ha una gran finestra che dava sul giardino. Ma qui per sala da pranzo o triclinium, come appellavasi, era la sala sull’angolo destro del peristilio, avente a fianco il tinello per il vasellame e per tutto ciò che serviva [72] al banchetto. Triclinium dicevasi dalla riunione di tre letti da mensa insieme disposti in guisa da formare tre lati di un quadrato, lasciando uno spazio vuoto nel mezzo per le tavole, ed il quarto lato aperto, perchè potessero i servi passare e porre su quella i vassoi. Diverse stanze di questo genere si scoprirono nelle case di Pompei, ma curioso è il vedere come fossero tutte piccole e invece di letti mobili avessero stabili basamenti su cui si adagiavano i convitati. V’erano anche i biclinia, tavole da pranzo di due soli letti.

Presso i prischi romani si mangiava nel vestibolo esposto agli occhi di tutti e a porte aperte, e le leggi Emilia, Antia, Julia, Didia, Orchia l’uso tradussero in obbligo e Isidoro ne dà la ragione: ne singularitas licentiam generet[70]. Nella calda stagione si cenava anche sotto qualche albero fronzuto, operando in modo, a mezzo di cortinaggi (aulea), che la mensa e i convitati fossero riparati dal sole, dalla polvere o da altro pericolo di immondizia, come leggiam descritto da Orazio nel convito dato da Nasidieno a Mecenate, e la cui caduta produsse così deplorevole scompiglio:

Interea suspensa graves aulea ruinas

In patinam fecere, trahentia pulveris atri

Quantum non aquilo campanis excitat agris.

[73]

Nella casa d’Atteone in Pompei esiste uno di questi luoghi da pranzo di pergolati, detti Trichila, in cui si mangiava all’aperto sotto padiglioni di verdura; vi sono solidi muramenti a ricevere i materassi di tre letti triclinarii e con fontana davanti che zampillando dovea produr vaghezza e frescura.

Ma il lusso e lo sfarzo creò i ricchissimi triclinii: alle tavole primitive di abete o di faggio successero quelle di avorio, di scaglia, di testuggine, di bosso, d’acero, di cedro, e poscia vi incastonarono pietre preziose e vi applicarono piastre d’oro e d’argento come ai letti triclinari che erano di comunissimo legno; ma caduta la repubblica, anche ad essi si estese la ricercatezza, talchè i tappeti babilonici di Nerone valutaronsi quattro milioni di sesterzi, cioè 840,000 lire nostrali. Si mangiava appoggiati sui gomiti, talchè posar il gomito in casa d’alcuno, ponere cubitum apud aliquem, equivaleva pranzar da alcuno, come leggesi in Petronio: hic est, inquit Menelaus, apud quem cubitum ponetis[71], e come direbbesi da noi mettere i piedi sotto la tavola. Così sternere lectulos, voleva dire preparare la tavola: onde si legge in Terenzio:

Et lectulos jube sterni nobis et parari cætera[72].

[74]

Tornerò al triclinio più avanti, quando farò assistere il lettore ad una mensa pompeiana, o romana, che val lo stesso.

Divisa dal triclinium per un corridoio, fauces, ed a mano sinistra, è la cucina nella casa di Pansa. Questa distanza rese dubbio in taluni la designazione del triclinio; ma dove si consideri che ciò provvedeva ad impedire che il fumo e gli odori della cucina giugnessero, l’esitazione sparirà. La cucina, culina, ha presso una piccola cameretta pel migliore servizio, ed un’altra per il pranzo, forse de’ servi, che aveva un’uscita sulla via di Fortunata. Nella retrocucina stanno de’ podii o muricciuoli per appoggiarvi le giarre d’olio e gli utensili, e una tavola per la confezione del pane o di cose dolciate.

Nella cucina veggonsi dipinte due persone che sacrificano, e al disotto due serpenti che proteggono l’ara sacra alla dea Fornax, protettrice dei fornelli. Ai lati vi sono dipinti in rosso presciutti, pesci, pezzi di cinghiale, lepri ecc. In essa poi si rinvennero stoviglie e molti utensili di bronzo e nei fornelli la cenere.

Qui credo dare il nome d’alcun utensile di cucina usato in Pompei ed in Roma. Ahenum era un calderone, che sospendevasi al disopra del fuoco per iscaldarvi l’acqua; cortina era un profondo calderone circolare per farvi bollir carne; cacabus una specie di casseruola che ponevasi su d’un treppiede, tripus, al [75] fuoco per cuocervi carni, legumi, ecc. Tripus dicevasi anche un calderotto su tre piedi per far bollire commestibili, come si vede in una pittura che rappresenta una scena del mercato di Ercolano; hirnea echytra, vasi di terra cotta, per bollire e cucinare; mateola, la pala; forcipes, le mollette da camino; foculus, l’aiuola del camino, ed anche lo scaldavivande e il veggino per iscaldarsi le mani; testum, detto anche da noi testo; craticula, la graticola; batillus, la nostra paletta; sarago, specie di padella; rudis, la tazza per ischiumare; scutriscum, la padella; situlus aquarius, il secchio; trulla, vaso che versava l’acqua nel lavatojo a mezzo d’un manubrio; trullens, catino; trua, cucchiaione per ischiumare la superficie dei liquidi; mutellio, vaso d’acqua con manico; cucuma, fosse la nostra cocoma per far bollire l’acqua; haenum coculum, la marmitta da minestra; fistula, pila per tritare il farro; cribra incernicola, il crivello; colum, il colatojo; culter coquinarius, coltello da cucina; formella, la forma per accomodarvi più vagamente il pesce; ovulare, strumento per cuocere le uova. Anthepsa era un apparecchio contenente il suo proprio fuoco e gli scaldatoi dell’acqua in modo da essere acconci a cucinare in qualunque parte di una casa, e di tali arnesi se ne trovarono diversi negli scavi di Pompei. Carnarium dicevasi l’arnese sospeso al soffitto e fornito di chiodi ed uncini onde appendervi salumi, erba, frutta ecc., e designavasi con tal nome anche [76] moscajuola o dispensa per conservare i commestibili; clibanus, vaso coperto traforato in giro a piccoli buchi per cuocervi il pane, al qual effetto si circondava di ceneri calde, e Trimalcione, in Petronio, per ridicola ostentazione si valeva del clibano d’argento; mortarium, il mortaio, pilum, pistillum, pila e pestello; vera, lo spiedo, vara, l’alare per sostenerlo; infundibulum, l’imbuto; olla, vaso d’argilla cotta adoperato per cucinare come la nostra pignatta: più piccola e fatta di metallo, dicevasi lebes.

Gli inservienti della cucina erano coqui, i cuochi; focariæ le cuciniere, piuttosto guattere; focarii i mozzi da cucina.

Prima di lasciar la cucina, farò cenno se la voce caminus possa intendersi pel nostro camino, ossia per quella gola che mena via il fumo attraverso i varj piani della casa e lo scarica al disopra del tetto. «I passi, scrive Rich, che si potrebbero citare non sono punto concludenti, e la mancanza di qualsiasi cosa che somigli a un fumajuolo, in cima d’una fabbrica, nei numerosi paesaggi dipinti dagli artisti di Pompei e di qualunque effettiva traccia d’un simile congegno negli edifizj publici e privati scoperti in quelle città, porse prova sufficiente che s’egli era noto agli antichi, devono però averne fatto uso molto di rado; quindi nella più parte delle case il fumo deve avere avuto l’uscita o da un semplice buco nel tetto o dalla finestra o dalla porta. Se non [77] che dei congegni per fare fuoco nel centro d’una stanza, accompagnanti almeno a una certa gola, sono stati scoperti in parecchie parti d’Italia, uno a Baja, uno presso Perugia, ed un terzo a Civitavecchia, e di questo si vede la pianta nell’incisione che sta nel manoscritto di Francesco di Giorgio, che si conserva nella libreria publica in Siena. La forma è un parallelogramma chiuso per intiero da un muro alto dieci piedi (m. 3,047) da tre de’ suoi lati, ma con un’apertura o porta. Dentro questo guscio sono allogate quattro colonne con un’architrave sopra di esse, che reggevano una cupoletta piramidale, sotto la quale si accendeva il fuoco sul focolare: la cupoletta serviva a raccogliere il fumo a misura che saliva su, e lo lasciava passare a traverso un foro in cima. Se gli edifici, nei quali quelle stufe erano costrutte avevano un piano solo, non si usava, forse, gole di sorta: ma se, com’è probabilissimo, ci erano degli appartamenti di sopra, par quasi certo, che una piccola gola o canale dovesse essere collocata sopra lo spiraglio della cupola nella stessa maniera che egli è in un forno di panettiere in Pompei, quantunque l’altezza originaria non può essere determinata, stantechè non rimanga che una porzione del pian terreno.»

La latrina, parrà strano, era quasi sempre, come nella casa del Questore, vicina alla cucina! Non consisteva per lo più che in una cameretta con una seggia, perchè non vi avevano pozzi neri. Del resto nulla ci deve [78] maravigliare se nella bassa Italia queste segge si videro nella cucina stessa anche in case agiate.

Dal lato opposto alla cucina, a fianco alla exedra, vi sono le altre fauces, o corridoio, che da questo lato fu diviso in due parti: la prima convertita ad uso di tabularium per la conservazione dei papiri importanti e delle cose preziose; la seconda è una camera forse destinata allo studio e riesce allo xisto o giardinetto, dove fiori ed arboscelli crescevan vaghezza alla casa e ne profumavan l’ambiente. Una fontana alimentata da un serbatoio in fondo dello xisto irrigava le ajuole: si rinvennero tubi di piombo e due grandi caldaje di bronzo che or si conservano nel Museo. Tra lo xisto e il peristilio era una specie di galleria coperta, che chiamavasi da’ Romani cryptoporticus e permetteva, anche nell’ore più soleggiate, rimaner nel giardino all’ombra. Fu qui che venne trovato il più bel candelabro di bronzo che si ammiri nel suddetto Museo. Orazio così accenna simili giardini di una casa di campagna:

Nempe inter varias nutritur silva columnas

Laudaturque domus longos quæ prospicit agros[73].

[79]

E Plinio, descrivendo a Gallo il suo Laurentino, o villa che teneva nella campagna romana, presso al luogo ove è l’odierna Torre di Paterno, e lungo il mare, così parla dell’ufficio dello xisto e della galleria attigua: Ante cryptoporticum xystus violis odoratus. Teporem solis infusi repercusso cryptoporticus auget quæ ut tenet solem, sic Aquilonem inhibet submovetque: quantumque caloris ante, tantum retro frigoris. Similiter Africum sistit, atque ita diversissimos ventos, alium alio latere, frangit et finit. Hæc jucunditas ejus hieme, major æstate: nam ante meridiem xystum, post meridiem gestationem hortique proximam partem umbrania temperat, quæ ut dies crevit decrevitque, modo brevior, modo longior hac vel illac cadit. Ipse vero cryptoporticus tum maxime caret sole, quum ardentissimus culmini ejus insistit. Ab hoc petentibus fenestris Favonios accipit transmittitque: nec unquam aere pigro et manente ingravescit[74].

[80]

Tale era dunque il pian terreno d’una casa signorile pompejana: od almeno questa era la distribuzione più generale e più regolare; poche sarebbero le modificazioni che si rinverrebbero nelle altre case. Tuttavia sarebbero in talune rimarchevoli lo sphæristerium pel giuoco alla palla, la pinacoteca o sala delle pitture; il balineum o il bagno; l’alæatorium o sala del giuoco, e la cella vinaria per la conservazione del vino e dell’olio, che non esistevano in tutte.

Rimarrebbe a dire del piano o piani superiori: ma non ne rimane esempio in Pompei, perchè rovinati interamente nel seppellimento della città, o caduti nello sterramento: sembra tuttavia che fossero destinati più specialmente all’abitazione delle donne ed alla servitù della casa, e le camere di essi piani dicevansi cœnacula. Tracce di esistenze di tali piani si riscontrano in Pompei in certe scalette che veggonsi praticate nelle fauces di più case, e se in questa città dovevano essere tutte le costumanze [81] di Roma introdotte, dovevano esistere anche scale esterne che mettevano a questi piani superiori[75].

Quasi in prova di case a più piani, una viene additata appunto col nome di casa a tre piani, presso alla casa della Danzatrice; ma di questi tre piani non rimane adesso vestigio, solo vedendosi che sotto al livello della via publica era il pian terreno, ed un resto di scala che metteva al primo piano.

A proposito di piani superiori, non lascierò qui di riferire quanto si legge nel Giornale di Napoli dell’otto novembre (1872):

«A Pompei in ottobre gli scavi furono continuati negli stessi luoghi del mese innanzi, cioè sulla sinistra della porta antica più vicina alla ferrovia, ed in un’isola che ha la fronte sulla strada Stabiana. Questa via, dove s’avvicina alla porta dello stesso nome, s’insinua nel fondo di una piccola valletta, e sulle coste laterali si dispiegano con varia pendenza edifici privati e pubblici. Il lato occidentale è opportunamente coperto dai due teatri, nei quali il declivio del suolo serve a sostenere le gradazioni ove sedevano gli spettatori. Sul lato opposto od orientale è situata l’isola, che ora si restituisce a luce, e che precisamente sta in parte di fronte ai teatri, e in parte si prolunga più al nord. In ottobre [82] vi fu interamente messa allo scoperto una bella e grandiosa abitazione, che, per la indicata accidentalità del suolo, ha nel piano della via l’atrio con le stanze attinenti, ed il resto ad un livello tanto più elevato, che forma un vero secondo piano, quantunque non sovrapposto a quello inferiore. È la prima volta che s’incontra nelle case di Pompei una disposizione siffatta.»

Avevano poi questi piani superiori, finestre e balconi? Non lo si può dire; ma è permesso congetturarlo e credere di sì, se sussista tuttavia in Pompei la casa detta del Balcone pensile, sterrata nel 1862. A vero dire più che un vero balcone, esso è ciò che dicevasi mœnianum, ossia terrazzino coperto sporgente sulla strada da uno dei piani superiori e sostenuto da mensole infisse nei muri; quantunque da quell’esempio unico che si ebbe in Ercolano d’un edificio in piedi, e che si dovette demolire, perchè tutto il legname e gli architravi che lo sorreggevano si trovarono pressochè carbonizzati, siasi raccolto che dodici camerette, cœnacula, fabbricate sui corridoi superiori alla corte, ricevessero luce da finestre che guardavano nell’interno. Di congeneri balconi pensili offrivano gli scavi pompejani diversi esempi, ma trascurati o non compresi, caddero in rovina: questo solo che diè nome alla casa fu con tutta diligenza restaurato, onde riesca una delle più importanti case che si additino in Pompei.

[83]

Recentemente, ossia nel 28 luglio 1872, secondo leggesi nel Giornale degli Scavi[76], Appendice III, nella Relazione officiale dei lavori eseguiti in Luglio ed Agosto 1872, nel disterro dell’isola settima nella Regione settima, a nord-ovest del Tempio di Venere si è scoperto un altro balcone pensile, che affaccia sopra un vicoletto, che ha una direzione perpendicolare al lato occidentale del Tempio.

Dopo quanto ho detto circa la somiglianza che si hanno quasi tutte le case pompejane, non parmi consentaneo a’ miei intenti venir descrivendo parte a parte ognuna che fu scoperta e che pur richiamerebbe l’attenzione per la particolarità degli oggetti ritrovati: pur nonpertanto ne segnalerò almeno il nome ottenuto nella designazione degli scavi.

La Casa del Poeta Tragico in Pompei Vol. III, Cap. XX.

Presso la porta della Marina è la casa detta di Championnet, così chiamata perchè vi si praticarono scavi alla presenza del francese generale di questo nome; la casa del Cinghiale fu così nomata da un cinghiale contro il quale si slanciano due cani, rappresentato nel mosaico del vestibolo; Nuova Casa della Caccia, perchè la parete sinistra del peristilio offre una bellissima pittura esprimente una caccia d’animali, e si vede un orso che si scaglia contro un cinghiale, e in distanza un leone che sta per superare un dirupo e trarre in soccorso dell’orso: è detta nuova, [84] perchè altra ne portava già identica denominazione; la casa di Sirico nella via del Lupanare, fu detta da un sigillo che si rinvenne, su cui si lesse tal nome. Presso alla soglia dell’atrio leggesi in musaico il saluto SALVE LVCRV, che già m’avvenne di ricordare nel chiudere il discorso delle tabernæ. Nella via d’Augusto evvi la casa della nuova fontana o dell’Orso, essendovi nel prothyrum un musaico che lo raffigura accosciato e ferito da una lancia; la casa di Marte e Venere per la bellissima pittura che li rappresenta in un bellissimo specchio circolare su d’un pilastro fra la prima e la seconda camera da letto, cubicula, dell’atrio. La casa di Cornelio Rufo ha il busto in marmo del proprietario con sotto scolpite le parole CORNELIO RVFO; la casa detta del numero 4 è interessante per le sue molte pitture: quella del Citarista deve il suo nome alla superba statuetta in bronzo d’Apollo Citarista che vi si rinvenne e che fu trasferita al Museo. La casa di Olconio, tra i maggiorenti più rispettabili di Pompei, dà il nome alla strada e offrì, nel 1853, quando vi si praticarono gli scavi, interessanti oggetti d’arte e dati importanti della vita pompejana. Tutta l’insula di M. Epidio Sabino, che sta rimpetto alla casa del Citarista, contiene due abitazioni di cui una certamente era dello stesso M. Epidio Sabino, proclamato duumviro di giustizia per avviso di Tito Svedio Clemente, come si lesse nella facciata esterna della casa. Importantissima per le sue decorazioni e per [85] le sculture è la casa di Marco Lucrezio, questo nome essendosi desunto da una pittura d’una camera del peristilio, che raffigurava una tavoletta pugillare con uno stilo, un calamaio, un sigillo e le parole M. Lucretio Flam. Martis Decurioni Pompeis[77]. Il lettore conosce già la casa del Fauno per la stupenda statuetta in bronzo trovata nell’atrio, per il musaico della Battaglia d’Isso e per altre molte preziosità; così quella di Castore e Polluce, detta anche del Questore, e che è pure considerata come una delle più belle di Pompei, e dove già notai tante degnissime cose d’arte. La casa dell’Ancora, dal musaico della soglia, presenta una particolarità, un sotterraneo, cioè, nel fondo di essa, da cui si passava in una gran sala circondata da nicchie al livello stesso del sotterraneo. La casa del Poeta già visitò il lettore, quando vi trovò il musaico all’ingresso, rappresentante il cane alla catena, col motto CAVE CANEM, e vi ammirò molte altre artistiche cose. Casa del Maestro di Musica fu nominata quella non discosta dalla casa di Pansa, sulle cui pareti interne si videro dipinti varii istrumenti musicali; e di Sallustio quella sul cui muro esterno si lesse l’iscrizione, pressochè interamente cancellata adesso:

C. SALLVSTIVM. M. F.

[86]

Nell’impluvium di questa bella casa, sovra base di marmo, si rinvenne un gruppo in bronzo del più puro stile greco e di rimarchevole bellezza, raffigurante Ercole che ha raggiunto alla corsa la cervetta, dalla bocca della quale usciva un getto di acqua, e che per la poca cura che s’ebbe dapprincipio degli scavi si lasciò che se ne privasse il Museo di Napoli, che solo ne serba una copia in gesso, l’originale trovandosi nel Museo di Palermo. In questa casa, come in diverse altre, nel fondo della abitazione si osserva un lararium, nicchia o piccolo tabernacolo, con frontispizio, a custodia dei domestici numi o lari, spiriti guardiani della famiglia. Vi si trovò diffatti un idoletto di metallo, un vasetto e una moneta d’oro, e dodici altre di bronzo di Vespasiano.

Per ciò solo che comprenda tre abitazioni e senza alcun altro apparente motivo, dove non fosse un altare pel fuoco sacro nella terza corte che somiglia a un tempio, non lungi dalla casa del Chirurgo, della quale a suo luogo ho già intrattenuto il lettore, fu detta casa delle Vestali, quella che è in Via delle Terme, e la quale ha sulla soglia il saluto: SALVE. Ha essa tre cortiletti con portico all’ingiro a colonne. Al lettore tenni già parola della casa di Cicerone, che è nel Pagus Augustus Felix, nè vi aggiungerò altro.

Di moltissime altre già scoperte dovrei fare menzione, come di quella dell’Argenteria, per molti vasi [87] di questo metallo rinvenuti; di Cajo Memmio, di Cajo Vibio, di Caprasio Primo, di Fusco, di Polibio, di Pomponio, di Popidio Prisco, di Popidio Secondo, di Gavio Rufo, dei Diadumeni, di Spurio Meseor (mietitore), di Giulia Felice, per non dire di quelle altre moltissime che ricevettero nome da pitture o sculture, o da qualche particolare circostanza come le case di Zeffiro e Flora, di Venere, e Marte, delle Nereidi, di Nettuno, delle Amazoni, di Atteone, delle Danzatrici; dell’Arciduca di Toscana, dell’Imperator di Russia, di Giuseppe II, del Re di Prussia, della Regina d’Inghilterra; dei vasi di vetro, dei tre piani, del torchio di terra cotta, della muraglia nera, dei bronzi, dei fiori e vie via di tante altre; ma come dissi, suppergiù l’una all’altra somiglia: le sole decorazioni più o meno ricche distinguendole; rese poi più o meno interessanti dalla preziosità dagli oggetti che vi si ritrovarono.

D’una sola tuttavia m’incombe il debito di particolarmente descrivere, per ciò appunto che nella sua distribuzione e nelle diverse sue attinenze diversifichi dalle altre: essa è posta nel sobborgo, nella via delle Tombe, e si designa piuttosto come una casa suburbana o di campagna.

Posta rimpetto al sepolcreto di Marco Arrio Diomede, liberto di Arrio, maestro del Pagus Augustus Felix, come leggeremo sull’iscrizione di esso nell’ultimo capitolo di quest’opera, si credette che la [88] casa fosse a lui spettata; onde proseguiamo noi pure a ritenerla per sua. Essa è l’ultima abitazione a sinistra della via delle Tombe, e presentando due piani, riesce indubbiamente di particolare interesse. La descrizione di essa e la descrizione delle sue ville che fa Plinio il Giovane nelle sue Epistole ci forniscono l’idea completa d’una romana villeggiatura.

Si entra nella casa di M. Arrio Diomede, discendendo alcuni gradini di marmo aventi a ciascun dei lati una colonnetta di materia laterizia. Subito si presenta, come osserva Vitruvio parlando delle case di campagna, una corte aperta, atrium, recinta da quattordici colonne di ordine dorico pur di mattoni rivestiti di stucco che dovevano formar portico. Questo medesimo piano, avendo verso il giardino una loggia scoperta, lo dominava. Nella detta corte c’era un impluvium e da ciascun lato stavano due puteali per attingervi l’acqua. A destra dell’atrio, le camere per gli schiavi e una scaletta per ascendere al piano superiore destinato forse alle donne; a sinistra, l’appartamento per il balineum, o bagno privato, che già il lettore trovò parte a parte descritto nel capitolo delle Terme. Dall’un dei portici dell’atrium si va alla dispensa, dove intorno ad una tavola di marmo si trovarono stoviglie da cucina. Quindi seguono i cubicula, o camere da letto, già ricche di pitture e musaici. Il triclinium era nel mezzo di forma semicircolare e le [89] pareti dipinte a pesci natanti nell’acqua. Tre larghe finestre riguardavano alla campagna e lo rendevano più allegro. Ancora dalla corte scoperta si accedeva ad altro appartamento, costituito da un’exedra, o sala da conversazione, e da altri salotti, da cui si entrava in una galleria, su di una sala maggiore, oecus, e da ultimo sulla loggia scoperta, sul giardino e per isfondo il mare. A livello del giardino, v’è un appartamento terreno, le cui camere erano a volte decorate di pitture e i pavimenti a musaici che or sono al Museo. Sotto il portico era una fontana, e dal giardino si discendeva alla lunga cella vinaria, che corre tutta la lunghezza di tre portici, dove ho già detto altrove quanti scheletri e preziosi oggetti siano stati rinvenuti e che era rischiarata da spiragli. Da un lato del giardino vedesi un recinto che già notai essere stato un sphæristerium, e all’angolo sinistro s’aprivano due piccole camere, dove pure fu trovato uno scheletro con un braccialetto di bronzo ed un anello d’argento.

Veduta così come fosse la casa pompejana, ed osservato ad un tempo in che differisca la casa romana, naturale è il passaggio a ragionare della famiglia, e lo farò con quella maggiore brevità che ponno comportare l’economia dell’opera e l’importanza del subbietto.

Anzi tratto, parmi doveroso accennare quale fosse il vero principio che tenesse unita e compatta la famiglia [90] romana, perocchè tutto quanto la riguarda sembrerà allora subordinato ad esso.

Chi per avventura lo ebbe ad indagare più profondamente e giustamente, è per mio sentimento il signor Fustel de Coulanges nell’opera già superiormente citata La Cité Antique, che meritamente venne coronata dall’Accademia Francese e dovrebbe ancor meglio essere apprezzata. Io indicherò un tale principio colle parole e dimostrazioni di quell’illustre e dotto scrittore.

Il principio della famiglia antica — scrive egli — non è unicamente la generazione. Ciò che lo prova è che la sorella non è nella famiglia quello che vi è il fratello; è che il figlio emancipato o la figlia maritata cessano completamente di farne parte, e per ultimo lo provano parecchie altre disposizioni delle leggi greche e romane.

Il principio della famiglia non è tampoco, come potrebbe agevolmente reputarsi dal lettore, l’affezione naturale. Imperocchè il diritto greco e il diritto romano non tengono conto alcuno di un tal sentimento. Esso può esistere in fondo dei cuori, ma non si trova nel diritto. Il padre può esser tenero della sua figliuola, ma non può legarle l’aver suo. Le leggi di successione, vale a dire, tra le leggi quelle che più fedelmente attestano delle idee che gli uomini si facevano allora della famiglia, sono in flagrante contraddizione, sia coll’ordine [91] della nascita, sia coll’affezione naturale[78].

Gli storici del diritto romano, avendo assai giustamente osservato che nè la nascita, nè l’affetto fossero il fondamento della famiglia romana, hanno creduto che questo fondamento si dovesse trovare nella potenza paterna o maritale. Ma di tale potenza essi fecero una specie di istituzione primordiale; non ispiegando per altro com’essa siasi formata, a meno che non sia che per la superiorità del marito sulla moglie, del padre sui figli.

Ora è un grave errore il collocare così la forza all’origine del diritto. L’autorità paterna o maritale, ben lungi dall’essere stata una causa prima, fu essa stessa un effetto: essa è derivata dalla religione e fu stabilita da questa. Essa adunque non è il principio che ha costituito la famiglia.

Ciò che nei membri della famiglia antica, fu qualche cosa di più possente della nascita, del sentimento, della forza fisica: fu la religione del focolare e degli antenati. Essa operò che la famiglia formasse un corpo in questa e nell’altra vita. La famiglia antica è una associazione religiosa più ancora che una associazione di natura. La donna infatti non vi era veramente contata se non in quanto la sacra cerimonia del matrimonio l’avesse iniziata al culto: [92] il figlio non vi contava pure, se rinunziava al culto, o se era emancipato, e l’adottato invece vi era un vero figlio, perchè se non aveva il vincolo del sangue, aveva qualche cosa di più, la comunanza del culto; e il legatario che rifiutava d’adottare il culto di questa famiglia, non conseguiva la successione e finalmente la parentela e il diritto all’eredità erano regolati, non dietro la nascita, ma dietro i diritti della partecipazione al culto, come gli ha stabiliti la religione. Certo che non è la religione che ha creato la famiglia, ma è dessa sicuramente che le ha dato le sue regole, e di là conseguitò che la famiglia antica ebbe una costituzione così diversa da quella ch’essa avrebbe avuto se i sentimenti naturali fossero stati soli a fondarla.

L’antica lingua greca aveva una parola ben significativa per designare una famiglia; dicevasi επίστιον, parola che significa letteralmente ciò che è appresso ad un focolare. Una famiglia era un gruppo di persone alle quali la religione permetteva d’invocare lo stesso focolare e d’offrire il banchetto funebre ai medesimi avi[79]. Si comprende così l’importanza delle espressioni: pro aris et focis.

Premesso così quanto concerneva il principio fondamentale della famiglia, pel migliore intendimento, debbo far precedere la spiegazione, secondo il concetto [93] romano, delle tre parole potestas, manus, mancipium, nelle quali si compendiano i diritti esistenti nella famiglia, ed allora meglio ancora verrà compresa la costituzione della stessa.

Per la parola potestas, intendevano i Romani la potestà del padrone sullo schiavo e quella del padre sui figli: per la parola manus, la podestà alla quale le donne erano in certi casi sottomesse: e per la parola mancipium, un diritto d’una certa natura, che se non è sì agevole il definire, verrà nondimeno chiarito dalle dimostrazioni che ne farò.

Qual fosse il potere del padrone sugli schiavi, dirò più avanti parlando di costoro; quasi egualmente esteso era quello del padre sui figli. L’ingresso del figlio nella famiglia, dice il sullodato signor Fustel de Coulanges, era segnalato da un atto religioso. Era mestieri dapprima che fosse accettato dal padre. Questi, a titolo di padrone e di custode vitalizio del focolare, di rappresentante degli antenati, doveva pronunciare se il nuovo arrivato fosse, o non fosse della famiglia. La nascita non formava che il legame fisico: la dichiarazione del padre costituiva il legame morale e religioso. Questa formalità era egualmente obbligatoria a Roma come in Grecia.

Occorreva di più pel figlio una specie d’iniziazione. Essa aveva luogo poco tempo dopo la nascita, il nono giorno a Roma, il decimo in Grecia. Quel giorno il padre riuniva la famiglia, chiamava de’ testimonj [94] e faceva un sagrificio al suo focolare. Il figlio veniva presentato al dio domestico; una donna lo portava nelle sue braccia e correndo gli faceva fare più volte il giro del fuoco sacro. Questa cerimonia aveva un duplice scopo, di purificare il bambino, cioè di togliergli la macchia che gli antichi supponevano avesse contratto pel solo fatto della gestazione e di iniziarlo al culto domestico. Da tal momento il figlio era ammesso in questa specie di santa società e di piccola chiesa che si chiamava la famiglia. Ne aveva la religione, ne praticava i riti, era atto a dir le preghiere e più tardi dovrà essere egli stesso un onorato antenato.

Tali solennità non si richiedevano per la figlia, appunto perchè ella non potesse esser chiamata a continuare il culto della famiglia, potendo il matrimonio applicarla ad un altro culto, come si dirà tra poco.

Al punto di vista del diritto pubblico, era il figlio libero e indipendente e poteva però esser magistrato, tutore e votare nella tribù e nella classe del padre suo; ma al punto di vista del diritto privato, in qualunque età rimaneva sotto la podestà del padre.

La donna in manu era considerata come la figlia del proprio marito, e se questo medesimo era figlio di famiglia, veniva essa considerata, come la figlia del figlio: nelle relazioni del padre di famiglia, diventava mater familias e abbandonava la famiglia [95] d’origine. La conventio in manum, importava per sè una minima capitis diminutio, cioè il cambiamento di famiglia; da non confondersi colla capitis diminutio media, che significava una certa diminuzione di libertà, cioè la perdita della cittadinanza, come la capitis diminutio maxima era la perdita completa della libertà, lo che traeva seco la piena incapacità civile. — Cessavano così nella donna i diritti d’agnazione o di parentela civile fra lei e la sua antica famiglia.

Tuttavia la manus non era una conseguenza necessaria del matrimonio; ma s’acquistava colla confarreazione, coll’uso e colla coemzione. La prima consisteva in un solenne sacrificio, al quale assistevano il gran pontefice, il flamine diale e dieci testimoni cittadini romani, ma era riservato a’ patrizii, e i matrimoni così celebrati si avevano per sacri. Dirò per altro più sotto degli altri riti che precedevano od accompagnavano questa prima sorta di matrimonio. L’uso, era quando la donna aveva abitato col marito durante un anno senza interruzione e la donna che evitar voleva la conventio in manum, bastava che ogni anno ella passasse tre notti fuori del domicilio coniugale, lo che dicevasi trinoctium usurpatio. In questo modo ella poteva farsi rivendicare dal padre suo, o dal tutore e così riacquistare la libertà. La coemzione era una specie di vendita, nella quale la donna, autorizzata dal padre o dal tutore, si vendeva al suo marito. Questa era la forma primitiva del matrimonio [96] ed era certo anche la più semplice: epperò durò più lungo tempo.

Il padre investito della potestas e il marito della manus, potevano vendere il loro figlio o la loro moglie ad un terzo e questa vendita che aveva luogo colla mancipazione, dava al compratore un diritto che si chiamava mancipium, equivalente alla proprietà; sì che mentre la patria potestas e la manus cessavano alla morte del padre o del marito, il mancipium passava agli eredi del compratore. Ciò malgrado, la persona in mancipio, se non poteva esercitare i diritti politici, non perdeva la sua prima condizione d’ingenuità, o civile. Questo diritto si venne poco a poco restringendo, ridotto quasi esclusivamente al caso che il figlio avesse cagionato un danno, nel quale il padre lo cedeva alla persona lesa in mancipium, a titolo di indennità.

Il debitore insolubile e chi si vendeva gladiatore, auctoratus, e il romano prigioniero di guerra riscattato da un altro romano, si trovavano nella medesima condizione di chi era in mancipio.

Ciò premesso, la famiglia romana si componeva di tutti gli individui discesi da maschi da un autore comune, od entrati nella famiglia per mezzo dell’adozione o della manus, che creavano dei veri vincoli di figliazione. I diversi membri della famiglia si chiamavano agnati, e di questi coloro che succedevano in linea retta, i figli ed altri discendenti, dicevansi [97] sui hæredes, i fratelli e sorelle consanguinei. L’agnazione era la parentela del diritto civile, e però non poteva appartenere nè ai latini, nè ai peregrini, cioè ai forastieri.

I Romani, inoltre, conoscevano la parentela naturale che dicevano cognazione, cognatio, e si estendeva fino al settimo grado, ed una terza parentela, l’affinità, ossia le relazioni esistenti fra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge.

Se il matrimonio presso i Romani era un’istituzione del diritto delle genti, non era meno un’istituzione di diritto civile, regolandone il diritto romano le condizioni e gli effetti, assolti i quali, si chiamava legitimum matrimonium, ed anche justæ nuptiæ. La capacità di contrattar un simile matrimonio, appellavasi connubium, e per regola generale non era questo concesso che fra cittadini romani: per esser concesso a’ peregrini, abbisognava dell’autorizzazione del potere legislativo.

Modestino definiva il matrimonio: consortium totius vitæ, divini atque humani juris comunicatio e Giustiniano vi aggiungeva: individuam vitæ consuetudinem continens, ossia la completa e indivisibile unione dell’uomo e della donna: ma ciò malgrado, il divorzio era ammesso e ne veniva anche spesso abusato. Va per altro detto come pel corso di cinque secoli non uno se ne avesse a contare: e rimase ricordato dalle storie il nome di Carvilio Ruga che fu il primo [98] che ricorse a codesta misura. Non si creda però che ad essa fosse fomite pensiero di lussuria od altra condannevole causa: egli teneramente amava la moglie e di nulla aveva a lagnarsene, se non che di sua sterilità; ma siccome nella formula del maritaggio aveva giurato menarla sposa per aver de’ figli, ella non avendogliene dati, sacrificò l’amore alla religione del giuramento[80]. La religione diceva che la famiglia non doveva estinguersi e che ogni affezione e diritto naturale dovessero cedere davanti a questa regola assoluta. Nè era altrimenti in Grecia, dove Senofonte[81] e Plutarco[82] narrano che quando il matrimonio fosse stato sterile per fatto del marito, dovesse il fratello od un parente del marito sostituirsi a lui e la donna accondiscendervi, e il figliuolo che ne fosse nato si avesse a considerare come figlio del vero marito.

Ma del divorzio, col progredire del tempo, venne come dissi, abusato, nè fu la voce della sola religione che il reclamò; ma bastarono i litigi colla nuora, od anche l’impudicizia; e Paolo Emilio ne allegò unicamente a causa l’essere stato dalla moglie offeso; Sulpizio Gallo, perchè uscita a capo scoperto; [99] Antistio Vetere, perchè parlottò in segreto con una liberta volgare; Publio Sempronio, perchè ita a’ giuochi senza sua saputa. Cicerone ripudiò Terenzia dopo trent’anni di convivenza, perchè gli abbisognava una nuova dote onde spegnere i debiti; e Publio perchè parve rallegrarsi della morte di Tulliola. Essa Terenzia fu di Sallustio, poi di Messala Corvino, poi di Vibio Rufo; Tulliola passò per tre mariti, e l’ultimo, Dolabella, la ripudiò incinta. Bruto, il virtuoso Bruto, rinviò Claudia per isposare Porcia. Un famoso ghiotto fu sul punto di cacciar la sua, perchè in momenti critici visitò la cella dei vini, ch’e’ temeva se ne inacidissero. Cajo Titinnio minturnese menò a bella posta la scapestrata Fannia, per espellerla poi come impudica e tenersene la dote. Cesare ebbe tre mogli, Pompeo quattro, quattro Augusto, cinque o sei ciascun membro della famiglia di esso, e v’erano donne che, al dir di Seneca (De Benef. III, 26) contavano gli anni dai mariti, non dai consoli[83].

Il matrimonio era di consueto preceduto dagli sponsali, o promessa, consistente in una stipulazione tra il futuro marito e il padre della futura sposa: chi vi avesse dipoi mancato, era passibile dapprincipio dell’azione di indennizzo: più innanzi si limitò a colpire d’infamia colui che avesse mancato alla data fede e contratto altri sponsali.

[100]

L’età pel matrimonio era di dodici anni nella donna, di quattordici nell’uomo, e quando gli sposi fossero alieni juris, occorreva il consenso delle persone nella cui podestà si trovavano; per le fanciulle, comunque sui juris, era indispensabile il consenso de’ loro parenti e tutori.

L’importanza del matrimonio presso i Romani, come presso i Greci, non si è presto compresa se non si designano i caratteri essenziali di esso. Già superiormente ho toccato della religione domestica o del focolare, e del come da casa a casa potesse differenziare, poichè ogni padre-famiglia, essendo pontefice di tal religione nella propria casa, serbasse o adottasse que’ riti che meglio a lui fossero piaciuti. Ora è evidente che la fanciulla che andava a nozze dovesse rinunciare alla religione del proprio focolare, per abbracciar quella del focolare del marito. Così doveva dimenticare quelle cerimonie, quelle preghiere, quelle pratiche nelle quali era fin allora cresciuta, per apprenderne altre, e per dirla con Stefano di Bisanzio: «a datar dal matrimonio, la donna ha nulla più di comune colla religione domestica de’ suoi padri; ella sacrifica al focolare del marito.» E Fustel de Coulanges che cita codesto scrittore nell’opera sua La Cité Antique[84], soggiunse: «Così [101] quando si penetra nel pensiero di questi uomini antichi, si capisce di qual importanza dovesse essere per essi l’unione conjugale e quanto l’intervento della religione vi fosse necessario. Non era forse mestieri che la fanciulla avesse ad essere da qualche sacra cerimonia iniziata al culto che doveva quind’innanzi seguire? Per divenire sacerdotessa di questo focolare, al quale la nascita non l’aveva legata, non le occorreva forse una specie di ordinazione o di adozione?»

Il matrimonio era dunque la cerimonia santa che doveva produrre questi grandi effetti. Gli scrittori infatti, latini e greci, indicano il matrimonio con parole esprimenti un atto religioso. Polluce, che viveva al tempo degli Antonini, istruttissimo ne’ vecchi usi e nella antica lingua, dice che ne’ primi tempi, in luogo di designare il matrimonio col suo nome particolare (γάμος), lo si designava semplicemente colla parola τέλος, che significa cerimonia sacra[85], quasi il matrimonio fosse stato la cerimonia sacra per eccellenza.

E tal cerimonia non si compiva ne’ templi degli Dei, ma nella casa, ed era il Dio domestico che vi presiedeva. Certo che in seguito, quando la religione degli dei del cielo, divenne preponderante, si adottò di adire preventivamente i templi e di offrire a questi [102] Dei sacrifici che si chiamavano preludii del matrimonio; ma la parte principale ed essenziale della cerimonia dovevasi sempre compiere davanti il focolare domestico.

Il matrimonio romano, quello almeno che si considerò per più legale e fu il più usitato, perchè procedente dal mutuo consenso, mutuus consensus, somigliava d’assai al matrimonio greco, e comprendeva com’esso tre atti: traditio, deductio in domum, confarreatio.

La prima si compiva dal padre, che distaccando la figliuola dal domestico focolare e dalla propria autorità, la consegnava al marito che l’assumeva nella propria.

Quindi la sposa veniva condotta a casa dello sposo, velata, recinta il capo d’una corona, mentre una face nuziale precedeva il corteggio, e si cantava un inno col ritornello Io! Hymen, Hymenee, e coll’altro Talassia, parola quest’ultima della quale i Romani del tempo di Orazio non comprendevano tampoco il senso. Il corteggio giungeva avanti la casa del marito, dove veniva alla sposa presentato il fuoco e l’acqua; il primo, il lettore già lo sa, emblema della divinità domestica: la seconda è l’acqua lustrale che serve alla famiglia per tutti gli atti religiosi. Allora lo sposo, a simulare il ratto, sollevava la sposa nelle sue braccia e la portava in casa, senza che i piedi di lei toccassero la soglia.

[103]

Finalmente ella è condotta davanti il focolare, dove sono i Penati, gli dei domestici e le immagini dei maggiori: gli sposi fanno un sacrificio, versano la libazione, profferiscono preghiere e mangiano insieme il panis farreus, o focaccia di fior di farina; onde il nome al matrimonio di confarreatio.

Codesta grave e solenne cerimonia produceva così importanti effetti giuridici e sociali, da non potersi ammettere la poligamia.

La bigamia pertanto era severamente proibita: principale impedimento al matrimonio era la parentela e l’affinità: il divieto fra cognati e cognate non fu introdotto che sotto Teodosio. Si proibiva pure il matrimonio fra liberi e schiavi, e nell’antico diritto anche fra liberi e liberti; ma la proibizione di sposare liberti fu ristretta dalla legge Giulia ai senatori ed ai loro discendenti, nè fu soppressa che sotto Giustiniano.

Altre proibizioni esistevano, come fra una patrona e il suo liberto, una donna libera e il colono d’un terzo — e colono era un uomo libero sì, ma vincolato al suolo, tal che il proprietario del fondo avesse una sorta di potestà su di lui, un diritto di correzione, non potesse da lui esser tratto in giudizio e lo potesse, fuggitivo, trattar come schiavo fuggiasco. — Era pur conteso il matrimonio tra il tutore e la sua pupilla, l’adultera ed il suo complice, il rapitore e la rapita, Romani e barbari, il governatore e una [104] donna della sua provincia; a meno che non ne avesse ottenuto dispensa dal Senato, e più tardi dall’imperatore.

Più sopra ho detto del divorzio, ora veggiamo come seguisse la separazione de’ coniugi.

Quando il matrimonio era seguito per confarreazione, la separazione si compiva con una cerimonia detta diffarreatio. Siccome la religione aveva operata la confarreatio; così anche la diffarreatio doveva essere compiuta dalla religione, perchè essa sola poteva slegare ciò che aveva congiunto. I due sposi che volevano dividersi comparivano per l’ultima volta davanti il focolare: presenti un sacerdote e i testimonj. Si presentava ai conjugi, come al dì del loro matrimonio, una focaccia di fior di farina ed essi in luogo di spezzarla e mangiarla, la respingevano, quindi in luogo di preghiere pronunciavano formule d’un carattere strano, severo, odioso e spaventevole, come assicura Plutarco[86], una specie insomma di maledizione per la quale la moglie rinunciava al culto ed agli dei del marito. Da quel punto il legame religioso era rotto e cessando la comunanza del culto, cessava pure di pieno diritto ogni altra comunanza e il matrimonio era disciolto. Ma il divorzio vi succedette di poi, talmente che bastò la volontà d’un solo conjuge a far cessare il matrimonio dietro la semplice formula, Res tuas tibi habeto, cioè [105] pigliati le tue robe. Anche la donna sottomessa alla manus era libera di divorziare, mandando al marito il libello del repudium e forzandolo ad affrancarla dalla manus: se la donna divorziava senza motivo, il marito riteneva il sesto della dote per ciascun figlio sino alla concorrenza di tre sesti, il marito adultero perdeva il beneficio del termine alla restituzione della dote.

Il marito investito della manus aveva sulla moglie il diritto più esteso di correzione, poteva ucciderla persino quando colta in flagrante adulterio: ne’ casi gravi dovea pigliar avviso da’ parenti. Il marito che non aveva la manus, dovevasi limitare al repudium, perchè il diritto di correzione spettasse soltanto al padre di lei od a’ parenti.

La moglie, andando a marito, poteva portare la dote, a minorazione delle spese del matrimonio, anzi le leggi Giulia, Papia e Poppea ne imposero l’obbligo al padre. Essa poteva eziandio costituirsi da un terzo o dalla sposa medesima, quando fosse stata sui juris. Costituivasi la dote in tre modi, colla dizione, colla stipulazione, o colla dazione, ossia collo sborso reale della stessa. Doveva farsene il pagamento, pei mobili entro dieci mesi, per denaro in uno, due, o tre anni; e circa i lucri e la restituzione, potevasi convenire, come si fa pur oggidì. Libera la donazione per causa di matrimonio, donatio propter nuptias: era nulla e revocabile fino alla morte del donatore, se fatta fra sposi.

[106]

La vedova, pena l’infamia, non poteva rimaritarsi che dopo dieci mesi dalla morte del marito; gli imperatori portarono questo tempo ad un anno.

Esisteva poi un altro modo di convivenza della donna coll’uomo autorizzata dalla legge e in ispecie dalle suddette leggi Giulia, Papia e Poppea, e dicevasi concubinato, ed aveva d’ordinario luogo fra quelle persone che non potevano sposarsi fra loro. La concubina era stata per consueto la donna di cattiva fama, la liberta o la schiava. Il concubinato tra il patrono e la liberta era il più frequente e il più protetto dalle leggi.

Or tocchiamo qualche cenno sulla patria podestà.

Il Padre era quello, dissero i romani giureconsulti, che è dimostrato tale da giuste nozze: pater est quem justæ nuptiæ demonstrant: il figlio legittimo era dunque colui che derivava da queste giuste nozze. Fuori di queste, il figlio non poteva invocare che la figliazione materna. Se vi era stato connubium, il figlio seguiva la condizione del padre; se no, quella della madre: nel primo caso era sottomesso alla potestà del padre; ma conveniva per ciò che padre e figlio fossero e restassero cittadini romani, e allora essa podestà durava tutta la vita dell’investito, ed estendevasi a tutti i discendenti in linea diretta, senza distinzione di grado.

Aveva il padre diritto di vita e di morte sul figlio, poteva giudicarlo in caso di crimine e condannarlo, [107] escludendo i tribunali publici; e la severità dei costumi stava mallevadrice che il colpevole non sarebbe impunito. Più tardi fu imposto a’ padri il concorso de’ magistrati nei casi gravi; ma così restò sempre il potere de’ padri, che giammai si accordasse l’azione d’ingiuria ne’ figli contro di essi.

Potevan essi vendere i figli; ma cessava il potere paterno dopo la terza vendita, per le figlie dopo la prima: i figli non perdevano però la loro qualità di ingenui.

Tutto quanto i figli acquistassero era pel padre, ma esercitandone un mestiere diverso, per consueto il padre loro abbandonava quel peculio, che per altro non potevano senza il di lui consenso alienarlo a titolo gratuito o per testamento. Augusto tuttavia concesse a’ figli disporre liberamente per testamento ed anche tra’ vivi del peculium castrense, ossia del peculio guadagnato all’armata.

Uno speciale diritto trovasi ricordato dagli storici concesso alle famiglie che fossero numerose di figliuolanza, e veniva perciò denominato jus trium, quatuor, vel quinque liberorum, o natorum, diritto, cioè, dei tre, dei quattro o dei cinque figli.

Importa se ne dica qui alcuna cosa.

A Roma, fin dal tempo della repubblica, come altrove in questa mia opera ho già scritto, le continue guerre avevano d’assai diminuito la popolazione, e tale diminuzione di cittadini era venuta crescendo [108] in ragione diretta del lusso e della corruzione. Metello Numidico censore tenne, appunto in vista di una tale straordinaria diminuzione di popolazione, a’ suoi concittadini una allocuzione tendente ad esortarli a pigliarsi moglie, e se le parole da lui dette e riferite da Aulo Gellio furono veramente le sue, ebbe questo scrittore ragione di soggiungere che fossero poco proprie a conseguirne l’intento, perocchè enumerando esse le cure e gli inconvenienti del matrimonio, non fosse il modo più conveniente per persuaderlo. Tito Castrico invece, opinando che il linguaggio d’un censore dovesse essere ben diverso da quello di un retore, trovò che Metello avesse la sua concione debitamente conformata al soggetto. Giudichi ora il lettore a qual dei due la ragione.

«Romani — avrebbe così parlato il Censore — se noi potessimo vivere senza moglie, tutti noi eviteremmo tal noja; ma poichè la natura abbia voluto che non ci fosse dato nè vivere tranquillamente con una moglie, nè viverne senza, occupiamci allora della perpetuità della nostra nazione anzi che della felicità d’una vita che è sì corta. La potenza degli Dei è grande, ma la loro benevolenza a riguardo nostro non deve andar più in là di quella de’ nostri parenti. Questi, se noi perfidiamo nella via dell’errore, ci diseredano: che dovremmo attenderci dagli Dei immortali, se noi non imponiamo un fine a’ nostri traviamenti? L’uomo, per meritare i favori loro, non deve [109] essere il suo proprio nemico. Gli Dei debbono ricompensare la virtù ma non darla»[87].

Ciò che le guerre esterne ed il lusso avevano incominciato, le guerre civili compirono; de’ pochi cittadini rimasti, la più parte non erano ammogliati; onde Cesare, pervenuto alla dittatura, sua prima cura era stata di studiare il modo di por freno al male. Parvegli dapprima potessero giovare le ricompense, epperò, come riferisce Svetonio, distribuì le terre della Campania fra venti mila cittadini padri di tre o più figli e vietò alle donne al disotto de’ quarantacinque anni e che non avessero nè marito nè figli di portar giojelli e di valersi di lettiga.

Dopo di lui, Augusto nel 736 u. c. pubblicò la legge De Maritandis Ordinibus, che ventisette anni poi si rifuse nella legge Papia Poppea, così denominata dai suoi due proponenti Marco Papio Mutilo e Quinto Poppeo Secondo, e nuovi oneri vennero imposti a quelli che non fossero ammogliati e nuovi privilegi aggiunti per contrario a’ matrimoni fecondi. De’ due consoli, a cagion d’esempio, colui che avesse avuto numero maggiore di figli prendeva pel primo i fasci; tra più candidati veniva accordata la preferenza al padre di più numerosa figliuolanza. Ma tra i più importanti capitoli di questa legge e di cui l’applicazione era la più frequente, era quello che esentava [110] da ogni carico il padre che in Roma avesse avuto tre figli; in Italia, il padre di quattro; nelle provincie, il padre di cinque.

Altri molti privilegi erano consentiti a questo jus trium, quatuor, quinque natorum, ed appetiti assai eran quelli che apportavano a chi ne fosse investito la triplice porzione di frumento nelle distribuzioni che si facevano dagli imperatori e la facoltà di sedere in un posto distinto negli spettacoli.

Pel contrario, eranvi pene per coloro che si fossero serbati celibi. Così costoro non potevano raccogliere eredità, nullo era il legato a lor favore disposto, che però devolvevasi al fisco; ed è a coteste disposizioni della legge Pappia Poppea che l’acre Giovenale allude in que’ versi:

Nullum ergo meritum est, ingrate ac perfide, nullum

Quod tibi filiolus vel filia nascitur ex me?

Tollis enim et libris actorum spargere gaudes

Argumenta viri. — Foribus suspende coronas,

Iam pater es: dedimus quod famæ opponere possis:

Iura parentis habes; propter me scriberis hæres,

Legatum omne capis, nec non et dulce caducum

Commoda præterea jungentur multa caducis;

Si numerum, si tres implevero[88].

[111]

Ma siccome non v’abbia cosa, per savia che possa essere, della quale non venga abusato; così ben presto le eccezioni a questa provvida legge divennero numerose più che non fossero le applicazioni e il jus trium natorum con tutti gli inerenti privilegi vennero concessi anche a persone che non contassero tre figli e vivamente sollecitati.

Sappiam dagli epigrammi di Marziale come egli avesse ottenuto questo diritto dei tre figli da Tito e da Domiziano, esso annunziandolo alla moglie siccome ottenuto in mercede de’ suoi poetici studi[89]; e dalle Epistole di Cajo Plinio Cecilio Secondo, denominato il Giovane, com’egli lo avesse sollecitato da Trajano ed anche conseguito a favore di Svetonio Tranquillo, lo storico dei Dodici Cesari.

Quanta importanza si aggiungesse a cotale diritto è agevole comprendere, oltre che dal valore dei surriferiti privilegi che vi erano annessi, dalla risposta altresì che l’Imperatore faceva a quella domanda del suo diletto Plinio e che mette conto di riferire nella fedele e buona versione del Paravia.

[112]

«Trajano a Plinio.

«Quanto sia parco nel conceder sì fatte grazie, tu lo sai certo, o mio carissimo Secondo, protestando io di continuo anche in Senato di non averne mai trapassato quel numero, che io dissi bastarmi dinanzi a quell’illustre consesso; ciò nondimeno io satisfeci al tuo desiderio, ordinato avendo che si noti ne’ miei registri, aver io conceduto a Svetonio Tranquillo il privilegio de’ tre figliuoli con le solite condizioni»[90].

Forse di questi scrupoli di Trajano, non ebbero gli altri imperatori.

La patria podestà poteva risultare anche dall’adozione, e dalla legittimazione. Quest’ultima aveva luogo quando il padre pigliava la concubina per legittima sposa, quando faceva inscrivere il figlio sulla lista de’ curiali, e quando, come poi fu disposto da Giustiniano, l’imperatore l’accordava con suo rescritto.

Quanto all’adozione, essa era altro necessario effetto di quel principio che ho già ricordato, o piuttosto dovere che vi era di perpetuare il culto domestico. Adottare, disse Cicerone nell’orazione Pro Domo sua, è chiedere alla religione ed alla legge ciò che non si è potuto ottenere dalla natura; e tanto era ciò vero, che si compiva mediante una sacra cerimonia, [113] che sembra essere stata eguale a quella che facevasi al nascere di un figlio. Così, divenendo al figlio adottato comuni col padre adottivo numi, oggetti sacri, riti e preghiere, dicevasi di lui in sacra transiit, come l’Oratore potè dire nella succitata arringa amissis sacris paternis, per rinunziare coll’adozione al domestico culto paterno. L’adottato addiveniva poi così affatto straniero alla sua antica famiglia, che morendo, il padre naturale di lui non aveva il diritto d’incaricarsi de’ suoi funerali o di condurre il mortoro, precisamente perchè adoptio naturam imitatur, come si esprimono i romani giureconsulti, e dei diritti, come degli obblighi paterni, diveniva l’adottante assuntore.

L’emancipazione era poi l’atto che sottraeva il figlio alla patria podestà, affinchè potesse accettar l’adozione. Precipuo effetto di essa era la rinunzia al culto della famiglia, nella quale s’era sortito i natali, e l’abdicazione a tutti gli inerenti doveri. Consuetudo, scrisse Servio, apud antiquos fuit ut qui in familia transiret et prius se abdicaret ab ea in qua natus fuerat[91]. Si chiamava però l’emancipazione da’ Romani, secondo Cicerone e come abbiam veduto, amissio sacrorum[92], e secondo Aulo Gellio, sacrorum detestatio[93].

[114]

Le persone sui juris, che per l’età si fossero trovate incapaci d’esercitare i loro diritti, ricevevano un tutore. D’ordinario veniva designato dal padre; la madre lo poteva del pari eleggere nel testamento, ma conveniva intervenisse l’approvazione del magistrato. In difetto di tutore testamentario, la tutela passava agli agnati. La tutela de’ liberti spettava al patrono ed a’ suoi discendenti. In difetto anche di essi, devolvevasi ai gentiles, cioè, come dice Cicerone citando l’autorità di Scevola, a quelli che hanno lo stesso nome e discesero da’ maggiori che mai non furono schiavi[94], e questi puro mancando, su domanda delle parti interessate, si conferiva da’ magistrati competenti. Le donne, eccettuata la madre, i pupilli, e dopo Giustiniano, i minori de’ venticinque anni, erano incapaci ad assumere la tutela. Se lo schiavo venisse per testamento nominato tutore, per ciò solo significava ch’esso veniva fatto libero, non potendo come schiavo esercitar l’ufficio di tutore.

Il tutore amministrava i beni del pupillo e completava col proprio intervento ciò che a quest’ultimo mancasse per compiere validamente i diversi atti della vita civile. Circa l’educazione del pupillo, questa non era cosa che spettasse al tutore. La tutela finiva per gli uomini a quattordici anni; la legge Pletoria accordò nondimeno l’azione penale e infamante contro [115] chi avesse abusato della inesperienza de’ minori di 25 anni.

La tutela delle femmine era d’una durata indeterminata: le Vestali però e la madre prolifica erano prosciolte dalla medesima.

Eravi anche la curatela. Il pazzo e il prodigo tenevansi incapaci di far alcun atto della vita civile; epperò o tra gli agnati o tra i gentili eleggevasi il curatore e in loro mancanza eleggevalo il pretore.

Ma nella casa romana, o pompeiana che si voglia dire, non erano soltanto codesti gli individui che vi abitavano; anzi, fin dal primo ingresso, non era nei padroni, nelle persone, cioè, che finora abbiam considerato, che si scontrava; ma nell’ostiarius, nello janitor, nel nomenclator, nell’atriensis, ecc., in esseri infelici insomma, che la civiltà, ajutata dal Vangelo, tolse di mezzo, negli schiavi intendo dire, servi, i quali reclamano adesso da me particolari cenni.

Tutti i popoli dell’antichità avendo avuto schiavi, i giureconsulti collocarono la schiavitù fra le istituzioni del diritto delle genti. Diventando lo schiavo un membro della famiglia, e dovendo però parteciparne al culto, la sua prima introduzione in casa era accompagnata da cerimonia religiosa. Comuni ai due popoli greci e latini molti riti e consuetudini, lo schiavo entrava in famiglia mettendolo in presenza della divinità domestica: quindi gli si versava sulla testa dell’acqua lustrale e divideva colla [116] famiglia la focaccia e le frutta. Prendeva poscia parte alle preghiere ed alle feste della casa, come Cicerone ricordò in quelle espressioni Ferias in famulis habento[95], e così il focolare proteggeva pur esso, e la religione dei Lari apparteneva tanto a lui che al padrone: quum dominis, tum famulis religio Larum[96], di qui il diritto dello schiavo ad essere sepolto nel sepolcreto della famiglia.

Lo schiavo apparteneva come cosa al padrone, il quale però poteva venderlo, punirlo e uccidere perfino. Ecco il conto che ne faceva Giovenale e che riassume la generale estimazione che si aveva di essi:

Pone crucem servo. Meruit quo crimine servus

Supplicium? quis testis adest? quis detulit? audi:

Nulla satis de vita hominis cunctatio longa est.

O demens! ita servus homo est? Nihil fecerit: esto

Sic volo, sic jubeo; stet pro ratione voluntas[97].

Non poteva lo schiavo scendere in giudizio, non contrar matrimonio; e l’unione sua era come semplice relazione di atto e dicevasi contubernium, nome [117] che, secondo Columella, significava anche il domicilio di una coppia di schiavi, maschio e femmina[98].

Tuttavia ho già in addietro reso conto della legge Petronia, forse del tempo d’Augusto, perocchè non mi consti che gli scrittori ne accertassero l’epoca di sua promulgazione, e la quale comminava severe pene a chi vendesse schiavi per farli combattere contro le belve nel circo e vietava punirli di morte, senza permesso di magistrati, classificandolo anzi come crimen publicum: qui era l’opportunità di ricordarla di nuovo.

E fu il principio d’un miglior trattamento, finchè Ulpiano ebbe a consegnare nelle sue opere questa ancor più umana sentenza: ipsi servo facta injuria inulta a prætore reliqui non debuit[99].

Nondimeno, malgrado però che la giurisprudenza riconoscesse in progresso di tempo che lo schiavo fosse un uomo, in pratica non poteva togliersi di dosso mai la qualità di schiavo, nè considerarsi eguale all’uomo libero.

Eranvi molti modi di diventare schiavo. Lo si era per nascita, quando la madre al momento del parto fosse schiava; lo divenivano i prigionieri di guerra, come già dissi altrove; i cittadini che non si prestavano [118] al censimento od alla leva; la persona libera che si lasciava vendere per frode onde rivendicare in seguito la libertà e finalmente, pel senato-consulto Claudiano, la donna libera che viveva in concubinato collo schiavo d’un terzo e rifiutava separarsene malgrado gli avvertimenti del padrone. I condannati a morte, alle miniere, alle bestie, al circo, diventavano schiavi della pena, servi pœnæ.

Tutto ciò che acquistava lo schiavo, l’acquistava per il padrone; ma come già narrai nel capitolo delle Tabernæ, essendo la gran parte della popolazione industriale schiava, i padroni trovavano di loro convenienza di interessare i loro schiavi nei profitti delle loro industrie e di lasciar loro la libera disposizione d’un peculio, il qual valeva ad alimentare il lavoro loro. Se lo schiavo agiva in suo proprio nome, in caso di frode veniva perseguitato coll’actio tributoria; ma se agiva come mandatario del suo padrone, era obbligato come qualunque altro mandatario.

Gli schiavi si compravano sul mercato, ivi portati dagli speculatori e dai pirati e, se provenienti da nazione indipendente, godevano di miglior favore. Gli schiavi spagnuoli e côrsi costavano poco, perchè facili al suicidio per sottrarsi alla schiavitù; ma i Frigi lascivi e le gentili Milesie erano in comparazione carissimi. Fu stabilita in seguito una tariffa secondo l’età e la professione; sessanta soldi d’oro per un [119] medico, cinquanta per un notaio, trenta per un eunuco minore de’ dieci anni, cinquanta se maggiore.

Ho detto più sopra che anche speculatori recavano gli schiavi al mercato; ne recherò due esempj di reputati uomini: Catone li comperava gracili ed ignoranti e fatti gagliardi ed abili, li rivendeva; Pomponio Attico, l’amico di Cicerone, faceva altrettanto, per rivenderli letterati.

Nella casa gli schiavi compivano tutti gli uffizii dai più elevati agli umili; sed tamen servi, come diceva ne’ paradossi Cicerone, parlando di quelli che erano applicati a’ più nobili servigi; epperò ve n’erano varie classi. Vernæ chiamavansi gli schiavi nati nella casa del padrone; ascrittitii quelli che per lo spazio di 30 anni stavano in un campo e non potevano vendersi che col fondo; consuales quelli che servivano al Senato; ordinarii quei dell’alta servitù, e avevan sotto di essi altri schiavi; vicarii, mediastini, quelli che esercitavano opere vili nella casa. Ciascun uffizio dava il nome allo schiavo: nomenclator era quello che ricordava ed annunziava i nomi di coloro che giungevano, ed alla cena il nome e i pregi delle vivande; ostiarius e janitor il portinajo, atriensis quello che stava a cura dell’atrio ed aveva la sorveglianza degli altri schiavi; tricliniarchas il servo principale a cui spettava la cura di ordinare le mense e la stanza da pranzo, archimagirus il maestro de’ cuochi o sovrintendente alla cucina, dispensator il credenziere, pronus [120] il cantiniere, viridarius e topiarius lo schiavo il cui officio particolare consisteva nell’occuparsi dell’opus topiarium, che comprendeva la coltura e conservazione delle piante e degli arboscelli, la decorazione dei pergolati e de’ boschetti, anagnostæ erano i lettori, notarii o librarii gli schiavi segretari del padrone, silentiarius quel che manteneva il silenzio e impediva i rumori: per servigio poi delle dame, la jatromæa era la schiava levatrice; le cosmetæ e le psecæ le schiave il cui ufficio era attendere alla toaletta delle signore ed ajutarle a vestirsi ed ornarsi, come sarebbero le nostre cameriere; sandaligerulæ quelle che portavano le pantofole delle loro padrone, seguendole quando uscivan di casa; vestispicæ quelle che curavano e rimendavano gli abiti della padrona; vestisplicæ quelle che le custodivano, o come diremmo noi, guardarobiere; ornatrices le schiave che attendevano all’acconciatura del capo della padrona, focaria la guattera, ecc.

V’erano poi i pædagogiari, giovani schiavi scelti per la bellezza della persona ed allevati nella casa dei grandi signori a’ tempi dell’impero per servir da compagni e pedissequi dei figliuoli de’ loro padroni, come anteriormente v’erano i pædagogi, che vegliavan alla cura ed agli studj de’ medesimi, i flabelliferi, giovinetti d’ambo i sessi, che portavano il ventaglio della padrona, i salutigeruli che recavano i saluti e i complimenti agli amici e famigliari del padrone; i nani e nanæ, pigmei cui si insegnavano musica ed [121] altre arti per diletto de’ padroni; fatui, fatuæ e moriones erano quelli idioti deformi che si tenevano per ispasso, i quali

acuto capite et auribus longis

Quæ sic moventur, ut solent asellorum

come li descrisse Marziale[100]; il coprea, o giullare per movere a riso; perfino gli ermafroditi, che talora erano artificiali.

Nè son qui tutti, perchè il Gori nella sua Descriptio columbarii, il Pignario De Servis e il Popma, De servorum operibus, enunciassero con particolari nomi almeno ventitre specie di ancelle e più di trecento di schiavi.

Quale poi gli schiavi ricevessero trattamento, può essere immaginato, ricordando solo che Antonio e Cleopatra sperimentassero sui loro schiavi i veleni, che Pollione ne facesse gittare uno alle murene per avergli rotto un vaso murrino, e che Augusto, che di ciò lo ebbe a rimproverare, non ristasse tuttavia di farne appiccare uno che gli aveva mangiata una quaglia. Negli ergastuli poi si accatastavan la notte schiavi e schiave a rifascio, i più cattivi destinati alla fatica de’ campi e incatenati, epperò detti compediti; e Seneca rammenta i molti ragazzi schiavi, che dovevano [122] aspettare da’ loro padroni, usciti alterati dalle orgie, infami oltraggi. Vecchi poi, od impotenti, si abbandonavano barbaramente a morire d’inedia.

Ho già detto altrove in questa opera il numero strabocchevole di essi; ma a persuaderci della quantità, giovi il citare quel detto di Seneca che avrebbesi dovuto paventar gran pericolo se gli schiavi avessero preso a contare i liberi: quantum periculi immineret si servi nostri nos numerare cœpissent[101]; ed era per avventura ad ovviare un tale pericolo, che non venne adottato che gli schiavi avessero abito particolare e distinto dai liberi. Infatti sa già il lettore, per quanto n’ebbi già a dire, delle diverse insurrezioni di schiavi e delle guerre servili che diedero grande travaglio ed a moltissimo temere di propria sicurezza e libertà a Roma.

Ma la condizione miserrima di schiavo poteva in più modi cessare. La legge rendeva libero lo schiavo che indicava l’assassino del suo padrone, un rapitore, un monetario falso, od un disertore. Claudio imperatore dichiarò libero lo schiavo che era stato vecchio ed infermo abbandonato dal proprio padrone. Così diveniva libera la donna che il padrone avrebbe voluto prostituire. Anche la prescrizione era un modo di vindicarsi in libertà. Ma il modo più comune era l’affrancamento, ed anche questo operavasi in tre guise: vindicta, [123] censu, testamento. La prima era una rivendicazione simulata dello schiavo che il pretore abbandonava all’assertor in libertatem, rinunziando il padrone a sostenere il suo diritto; le altre due consistevano a dichiarare come affrancato lo schiavo, quando si compiva l’operazion del censimento, od a legargli la libertà per testamento. Quattro anni dopo l’era volgare, la legge Ælia Sentia e quindici anni dopo di questa, la legge Junia Norbana crearono una mezza libertà per gli schiavi fatti liberti senza aver esaurite le pratiche legali.

In quanto alla formula dell’affrancamento per vindicta, consisteva nel condurre il padrone avanti il pretore od altro magistrato competente lo schiavo che voleva affrancare e ponendogli la mano sulla testa che aveva fatto prima radere, o sovr’altra parte del corpo e pronunciare le parole sacramentali: «Io voglio che quest’uomo sia libero e goda dei diritti di cittadinanza romana» e così dicendo lo faceva girar su di sè stesso come per scioglierlo colle sue mani, e il magistrato, o per lui il pretore, lo toccava tre o quattro volte colla bacchetta, vindicta, segno del potere, alla testa e con ciò restava ratificato l’atto del padrone e lo schiavo era libero. Questa che dicevasi manumissio gli conferiva i diritti di cittadino in modo irrevocabile, ma aveva vincoli indistruttibili verso il suo antico padrone. Se questi doveva difenderlo in giustizia e proteggerlo contro ogni abuso del potere; il liberto [124] doveva personalmente a lui deferenza ed assistenza, non intentargli azione diffamatoria; venirgli in ajuto di denaro, e se lo avesse ingiuriato, veniva multato d’esiglio, e di condanna alle miniere, se avesse contro lui commesso atto di violenza, e di ricaduta in ischiavitù, se colpevole di atti più gravi.

Finalmente partecipavano alla famiglia i Clienti. Ho già altrove in quest’opera detto qualcosa di loro istituzione facendola rimontare ai tempi di Romolo: ma forse a chi considera che la clientela sussisteva dapprima in Grecia e nel restante d’Italia, parrà che essa fosse una istituzione ancora più antica. Uopo è peraltro non si confondano i clienti del primo tempo con quelli dell’epoca di Orazio. Quelli erano piuttosto una specie di servi attaccati al padrone e quindi associati alla religione ed al culto della famiglia. Avevano però le stesse cose sacre del patrono, del quale anzi dividevano il nome, quello aggiungendo della famiglia di lui. Nascevano per tal modo cotali relazioni di reciprocanza e doveri, che il patrono non poteva persino testimoniar in giudizio contro il cliente, mentre non lo fosse conteso contro il cognato, perchè costui essendo legato da vincoli solo di donna, non ha parte alla religione della famiglia, giusta il concetto di Platone che la vera parentela consiste nello adorare gli stessi dei domestici. Il patrono aveva pertanto l’obbligo di proteggere in tutti i modi il cliente, colla sua preghiera come sacerdote, [125] colla sua lancia come guerriero, colla sua legge come giudice, e l’antico comandamento diceva: se il patrono ha fatto torto al suo cliente, sacer esto, ch’ei muoja.

I clienti del tempo d’Orazio erano invece gente che si legava alla fortuna del patrono, non propriamente servi, ma persone che speravano protezione da lui, che gli porgevano offerte e sportule e che ne assediavano la casa dai primi albori del giorno e gli facevano codazzo d’onore quando appariva in publico: ma a vero dire, per quel che ne ho detto più sopra, non c’entravano punto colla vera famiglia.

Abbiamo così passato in rassegna gli individui tutti, ed abbiamo menzionate le discipline che regolavano la famiglia; abbiamo sentito un riflesso di quanto era quel calore di vita morale che animava la casa; or vediamone gli usi e le consuetudini della vita materiale.

Già il lettore conosce come si impiegasse la giornata e la sua ripartizione generalmente accettata: conosce come il facoltoso e il patrono avessero i proprj clienti e ricevesseli fin dalle prime ore del mattino, questo comprendendo gli offici antelucani: sa del tempo degli affari, di quello del pranzo, della pratica al foro e alla basilica, del bagno, degli esercizi corporali, della cena e del passeggio, per quanto ne ho già detto in addietro; resta a completarsi il quadro domestico, col far assistere il lettore al triclinio, additandogli, [126] come si costituisse, che cosa vi si mangiasse, cosa il rallegrasse; col dirgli degli abiti degli uomini e poscia co’ sollevare la cortina del gineceo, per farlo spettatore della toletta d’una dama pompejana, e quando dico pompejana, dico anche romana, perocchè si sappia — e l’ho già più volte ripetuto — che uomini e donne delle provincia e delle colonie si fossero perfettamente conformati ai costumi ed abitudini dell’urbe, della città, cioè, per eccellenza, Roma.

Vi sarebbe tutto un trattato a comporre per dire convenientemente dei pasti e banchetti de’ Romani, sì publici che privati, e infatti la nostra letteratura vanta fra i testi di lingua le lezioni di Giuseppe Averani Del vitto e delle cene degli antichi[102], delle quali mi varrò alquanto pur io in queste pagine, e malgrado la molta erudizione di lui e il sapere, non fu tutto da lui scritto nell’argomento. Io vedrò modo di riassumere in breve quello che meglio importi di sapere.

Anzi tutto non posso passarla dallo accennare come il pasto si ritenesse l’atto religioso per eccellenza. Opinione eguale o di poco difforme è quella di parecchi padri della Chiesa Cristiana, che dissero che mangiare è pregare e che pur il soddisfare a queste necessarie pratiche abbiasi a fare alla maggior gloria di Dio. Era inteso che a’ domestici prandj intervenisse [127] sempre il genio tutelare della casa, i lari o penati che si voglian dire. Era il focolare che aveva cotto il pane e preparati gli alimenti; così a lui si doveva una preghiera tanto al principio che alla fine del pasto. Prima di esso si deponevano sull’altare le primizie del cibo, prima di bere si spargeva la libazione del vino. Era la parte dovuta al dio. Erano antichissimi riti: Orazio, Ovidio, Petronio cenavano ancora davanti al loro focolare e facevano la libazione e la preghiera[103].

Come in tutti i popoli primitivi, anche i primi Romani eran sobrii e frugali, paghi della sola polenta, ciò che in seguito si tenne per indizio di barbarie:

Non enim hæc pultiphagus opifex opera fecit barbarus[104]

e dopo, la questione del mangiare venne poco a poco così crescendo, da costituire una preoccupazione continua della loro esistenza, ed anzi da considerare i varii pasti come altrettanti atti di pietà. È inutile osservare come in questo punto di religione fossero esatti e scrupolosi osservatori. Ebbero quindi il pasto del benvenuto pel viaggiatore che arrivava; quello d’addio pel viaggiatore che partiva; [128] banchetto di condoglianza nove giorni dopo i funerali, banchetto dopo i sacrificj, banchetto anniversario della nascita, banchetto d’amici, di famiglia, di cortigiani, insomma banchetti per tutte le occasioni. Persino la gioventù, la procace gioventù romana, tanto dedita alle lascivie, al dir di Orazio, era tuttavia ancor più ghiottona:

Donandi parca juventus

Nec tantum Veneris, quantum studiosa culinæ[105].

Tanto, in una parola, si trasmodò, che si dovette dal governo imporre de’ freni alla gola. Già ho detto più sopra che fosse obbligatorio il cenare a porte aperte sotto gli occhi di tutti; poi le leggi Orchia, Fannia e Didia e Licinia, Anzia e Giulia prescrissero il numero di convitati e la spesa dei banchetti privati, e il genere delle vivande, esclusa l’uccellagione. Tiberio allargò meglio la mano e lasciò che le spese fossero alquanto maggiori; ma con tutti questi freni, ognun sa quanto lusso e quanta spesa si facesse da’ facoltosi romani. Basti per tutti rammentare L. Lucullo. Egli aveva diversi cenacoli, e ognuno di essi importava una determinata spesa quando [129] vi si doveva cenare. Quando ciò seguiva e. g. nella sala d’Apollo, era prefisso che la cena costar dovesse trentaduemila lire della moneta di oggi. Che si dirà poi de’ pazzi imperatori che, morta la republica, ressero le sorti romane? Caligola in una cena gittò un milione e cinquecentosessantaduemila lire delle nostre, il tributo cioè di tre provincie; Nerone e Vitellio intimavano cene a’ loro cortigiani che costavano circa settecentomila lire, e quel più pazzo imperatore che fu Eliogabalo non ispendeva meno di lire sedici mila nella cena di ciascun giorno.

L’asciolvere chiamavanlo essi jentaculum e facevanlo al mattino; il pranzo, prandium, che sarebbe piuttosto la nostra seconda colazione, seguiva all’ora sesta del giorno, cioè sul meriggio; per taluni ghiottoni e per gli operai eravi più tardi la merenda, specie di colazione che di poco precedeva la cœna, che era il pasto più abbondante della giornata, il nostro pranzo odierno, verso l’ora nona o la decima, cioè tra le tre e le quattro pomeridiane; ciò che non toglieva che molti vi facessero succedere anche la commissatio, colazione notturna, quella che noi chiamiamo la cena.

Poichè siam sull’argomento del mangiare, credo dir qualcosa dapprima de’ conviti publici de’ Romani, quantunque, a vero dire, non si contenga ciò nell’argomento delle case, di cui principalmente trattiamo.

[130]

Si facevano essi da’ sacerdoti, da’ magistrati e poi si fecero talvolta dagli imperatori.

I primi si chiamavano adiciali, perchè s’aggiungevano a’ banchetti consueti molte vivande e avvenivano allora che i sacerdoti imprendevano l’ufficio. Le più sontuose eran quelle de’ Pontefici, come è detto in Orazio:

Absumet heres cœcuba dignior

Servata centum clavibus, et mero

Tinget pavimentum superbo

Pontificum potiore cœnis[106].

Nè minori eran quelle de’ Salii, testimonio lo stesso Orazio:

. . . nunc Saliaribus

Ornare pulvinar Deorum

Tempus erat dapibus, sodales[107].

[131]

Imbandivano le cene i magistrati al popolo quando conseguivan la carica, come ho già fatto conoscere ne’ capitoli del teatro, e come nota Cicerone nella quarta Tusculana in quelle parole: Deorum pulvinaribus, et epulis magistratuum fides præcinunt[108]. Averani ricorda che Marco Crasso sublimato al consolato, sacrificando ad Ercole, apparecchiasse diecimila tavole, onde i convitati non dovessero essere meno di cencinquantamila.

Più superbi e costosi erano i banchetti offerti al popolo da’ trionfanti. Prima però si convitavano i soli amici, come nel libro Delle Guerre Cartaginesi scrisse Appiano, parlando di Scipione, che arrivato in Campidoglio, terminò la pompa del trionfo, ed egli, secondo il costume, banchettò quivi gli amici nel tempio. Lucio Lucullo distribuì al popolo oltre a diecimila barili di vino greco, allora in gran pregio, che si beveva parcamente, e ne’ più lauti conviti una volta sola. Giulio Cesare, che menò cinque magnificentissimi trionfi, banchettò sempre il popolo, e in quelli che furono dopo il ritorno d’Oriente e di Spagna imbandì ventidue mila tavole o triclini, come riferisce Plutarco, con isquisite vivande e preziosi vini, sedendovi, cioè, non meno di trecentotrentamila persone. Plinio, in aggiunta di questo trionfo [132] e di quello di Spagna e nel terzo consolato afferma che Cæsar dictator triumphi sui cœna, vini Falerni amphoras, Chii cados in convivia distribuit. Idem Hispaniensi triumpho Chium, et Falernum dedit. Epulo vero in tertio consulatu suo Falernum, Chium, Lesbium, Mamertinum[109].

Svetonio poi ricorda di lui che banchettasse il popolo anche in onoranza della morte della propria figliuola.

In quanto agli imperatori, si sa di Tiberio che mandando a Roma gli ornamenti trionfali, banchettò il popolo, e Livia e Giulia banchettarono le donne: si sa degli altri che convitavano i senatori, cavalieri e magistrati nella loro esaltazione, come Caligola e Domiziano, secondo cantò Stazio:

Hic cum Romuleos proceres, trabeataque Cæsar

Agmina mille simul jussit discumbere mensis[110].

V’erano anche, oltre i surriferiti, de’ banchetti di cerimonia, detti epulæ, ma erano, a vero dire, banchetti sacri, dati in onore di numi in certe feste [133] religiose. Dicevansi triumviri æpulones i sacerdoti incaricati di tali banchetti. Silla e Cesare istituirono poi, il primo de’ settemviri, il secondo dei decemviri, onde ammanire siffatti banchetti sul Campidoglio in onore di Giove. Dapes appellavansi più propriamente gli alimenti che durante la festa s’offrivano agli dei.

Veniamo ora alle cene private.

Triclinium chiamavasi, come già sa il lettore, la sala da pranzo, e le mense costituivansi di tre letti, lecti tricliniares, riuniti insieme in guisa da formare tre lati di un quadrato, lasciando uno spazio vuoto nel mezzo per la tavola e il quarto lato aperto, perchè potessero passare i servi a porre su quella i vassoi. V’erano anche i biclinii o lettucci da adagiarvisi due persone a’ lor desinari, e Plauto menziona il biclinium nella commedia Bacchides, atto IV, sc. 3, vv. 84-117.

Diverse stanze tricliniari si scoprirono, come vedemmo, in Pompei, quasi tutte piccole ed offriron la particolarità che, invece di letti mobili, avessero stabili basamenti per adagiarvisi i convitati.

Questi triclinii ammettevano raramente molte persone: sette il più spesso, nove talvolta; onde il vecchio proverbio Septem convivæ, convivium; novem, convicium; ossia: sette, banchetto; nove, baccano.

Ecco, ad esempio, la forma del triclinium, o tavola, e la distribuzione del banchetto di Nasidieno, secondo la descrizione che ne è fatta nella satira VIII del libro II d’Orazio:

[134]

2       3
V. Turinio       Porcio
1       2
Fundanio       Nasidieno
3       1
Vario       Nomentano
Lec. summus 3 1 2 Lectus imus
  S. Batatrone Mecenate Vibidio  
  Medius Lectus.  

Da ciò si vede, come non sedessero, ma giacessero a tavola, e per istare alquanto sollevati si appoggiavano col gomito sinistro al guanciale. Solo le donne stavano prima assise, ma poi imitarono presto gli uomini: i figli e le figlie pigliavano posto a piè del letto; ma sino all’epoca in cui ricevevano la toga virile restavano assisi.

Queste mense erano spesso di preziosa materia e di ingente lavoro. Così le descrive Filone nel Trattato della vita contemplativa, citato dall’Averani: «Hanno i letti di tartaruga o di avorio, o d’altra più preziosa materia, ingemmati per lo più, coperti con ricchi cuscini broccati d’oro e mescolati di porpora o tramezzati con altri vaghi e diversi colori per allettamento dell’occhio.» — Che ve ne fossero anche d’oro lo attesta Marziale nel libro III de’ suoi Epigrammi, epigr. 31:

[135]

Sustentatque tuas aurea mensa dapes[111].

Eguale era la ricchezza nelle altre suppellettili e nei vasi: usavano bicchieri e coppe di cristallo egizii e di murra, — che molti dotti e gravi scrittori reputano possa essere stata la porcellana, ciò potendosi confermare coi versi di Properzio:

Seu quæ palmiferæ mittunt venalia Thebæ

Murrheaque in Parthis pocula cocta focis[112], —

tazze d’argento e d’oro, cesellate o sculte mirabilmente e tempestate di gioje e il vasellame tutto di non dissimil lavoro.

Nè bastavano queste preziosità, perocchè si giungesse anche a disporre le soffitte de’ triclini in modo che si rivolgessero e rinnovassero, come si adoprerebbe da noi degli scenari in teatro, e l’una appresso all’altra si succedesse ad ogni mutar di vivanda. Ce lo dice Seneca: Versatilia cœnationum laquearia ita coagmentat, ut subinde alia facies, atque alia succedat et toties tecta quoties fercula mutentur[113]. Come reggessero a tutte queste infinite portate, ciascuna [136] ricca di molte vivande, lo spiega l’invereconda costumanza, pur menzionata da Cicerone ad Attico, di provocarsi con una piuma il vomito.

Poichè sono a dire de’ Fercula, o portate, uopo è sapere fossero essi come barelle piene di piatti di diverse vivande. Petronio, nel Satyricon, alla cena di Trimalcione, ne descrive una che conteneva dodici statue, da’ nostri scalchi addimandate trionfi, ciascuna delle quali portava varii piatti. Ma Eliogabalo, scrive Averani, siccome uomo per golosità e prodigalità sovr’ogn’altro mostruoso, in un convito mutò ventidue volte la mensa di vivande: e vuolsi osservare che ciascheduna muta di vivande era per poco una splendida cena; e però ogni volta si lavavano, come se fosse terminata la cena. Questi ventidue serviti rispondevano alle lettere dell’alfabeto, venendo in tavola prima tutte le vivande, delle quali i nomi cominciano per A, e poscia quelle i cui nomi principiano per B e simigliantemente le susseguenti fino a ventidue. Si legge una simile bizzarria nelle cene di Geta; e pare che Giovenale per avventura accennasse che l’usassero i golosi del suo tempo, scrivendo nella satira undecima:

Interea gustus elementa per omnia quærunt

Numquam Animo pretiis obstantibus[114].

[137]

Tornando alle soffitte, Nerone immaginò di far iscendere dalle medesime una pioggia d’unguento e di fiori, per diletto de’ convitati. Svetonio lo ricorda nella vita di questo Cesare, e il costume fu adottato, e come nei teatri, pioggia di croco e d’altre profumate essenze tolsero alle nari de’ voluttuosi conviva i graveolenti odori dei diversi cibi.

Per mettersi a tavola non si tenevano tampoco gli abiti ordinarj: ognuno vestiva una toga leggiera, detta synthesis, o cœnatoria, che veniva fornita o dal padrone di casa, o che il convitato si faceva recare dal proprio schiavo. I bassorilievi e i dipinti di banchetti, che si trovarono o giunsero sino a noi, spiegano com’essa lasciasse o la parte superiore del corpo nuda, o più abitualmente non avesse cintura, talvolta avesse e talvolta non avesse maniche. Ne’ pasti dimettevansi persino gli abiti di lutto, acciò la mestizia non producesse indigestione. Si levavano i calzari, calcei, per mettere dei sandali, soleæ, che poi si abbandonavano, a miglior pulitezza de’ preziosi tappeti, atteso che nel cavare i calzari, che Petronio dice alessandrini, giovani schiavi versassero sì alle mani che ai piedi acqua fresca ed anche gelata, sovente profumata. E profumi, come essenze di nardo e di croco, spargevansi su’ capegli, che poi incoronavan di rose, fiori ed erbe odorose che serbavano durante tutta la cena. Anche il pavimento era tutto sparso di fiori e credevasi che questi fossero altrettanti [138] preservativi contro l’ebrietà. Dopo spiegavansi le tovaglie, mantilia, portavasi i tovagliolini, mappæ, che troviam ricordati da Marziale nel seguente epigramma:

Attulerat mappam nemo, dum furta timentur:

Mantile e mensa surripit Hermogenes[115].

Le tovaglie erano talvolta bianche come le nostre, molti nondimeno le avevano di porpora o di broccato d’oro.

Fatti questi preparativi, ne’ banchetti più solenni, costumavasi eleggere il re del festino: si portavano i dadi od astragali, tali, e si gettavano le sorti per la scelta. Non avevano i dadi che quattro faccie piane; 1 e 6 su due faccie opposte; 3 e 4 sulle due altre; 2 e 3 non erano segnati; ma quattro tali si gettavano insieme. Il miglior tiro, chiamato venus, avveniva quando ciascuna faccia presentava un numero differente, come, 1, 3, 4, 6 e chi l’otteneva veniva dichiarato re. Era il tiro peggiore detto canis, quando tutti e quattro i numeri riuscivano gli stessi. Fritillus dicevasi il bossolo, entro cui agitavansi gli astragali e da cui si gittavano sulla tavola.

Eletto il re, tutti gli altri convitati dovevano, sotto [139] pena d’ammenda, eseguire gli ordini suoi. Egli fisserà il numero delle coppe che si dovranno bevere, comanderà ad uno di cantare, all’altro, se poeta, di improvvisar versi, designerà la persona, in onor della quale si dovrà brindare. Se taluno infrangeva gli ordini, veniva dal re multato nel bere un nappo di più e dicevasi cuppa potare magistra. Non si confonda il re del convito col Tricliniarcha, che era quegli che aveva su tutti gli altri servi addetti al banchetto la maggioranza e l’amministrazione della mensa.

La cena regolare, cœna recta, componevasi, oltre del pane che portavansi ne’ canestri, come c’insegna Virgilio

. . . . Cereremque, canistris

Expediunt, tonsisque ferunt mantilia villis[116],

[140] il più spesso di tre serviti, talvolta fin di sei. Valeva il primo a solleticar l’appetito e cominciavasi per consueto colle ova, onde venne l’espressione d’Orazio cantare ab ovo usque ad mala, cantar dalle ova alle frutta, e la attuale nostra cominciare ab ovo, per significare che si pigliavan le mosse del dire dal principio più lontano; ma poi si capovolse e le ova si recarono in fine. Poi seguivan lattuche, fichi, olive, radici, ortaggi e salse acri e stimolanti la fame, secondo avverte Orazio:

Acria circum

Rapula, lactucæ, radices, qualia lassum

Pervellunt stomachum, siser, alec, fæcula coa[117].

Cicerone conta in questo primo servito, ch’ei chiama promulsidem, dal vin melato, mulsum, che si beveva, Petronio gustationem, Apuleio antecœnia, Varrone principia convivii e Marziale gustum, come noi appelleremmo antipasto e i francesi hors-d’œuvre; conta, dicevo, anche la salsiccia, nell’epistola 16 del libro IX: I[118].

[141]

Il secondo servito, o anche secunda mensa, costituiva il pasto sodo, e componevasi d’arrosti di vitella, di lepre, di oche, tordi, pesci, gigotti e cosiffatte leccornie, delle quali parla distesamente Ateneo nel libro XIV delle Cene dei Savi. E contavansi in esse le pasticcerie, i latticinj, e mille cose dolci, che comprendevano sotto il nome di bellaria. Non essendo ancor conosciuta la manipolazione dello zuccaro, sebbene se ne avesse notizia come esistente presso gli Indiani, servivansi in quella vece del miele, che sapevano impiegare maravigliosamente[119]. — Noto qui che se aveansi coltelli e cucchiai, non consta che conoscessero la forchetta; onde avendo a prender tutto colle mani, Ovidio raccomanda agli amanti, che il faccian con grazia affine di non lordarsi il viso.

Qui potrebbesi tutto distendere un trattato di gastronomia romana e pompejana, ricordando i piatti più succulenti e peregrini di carni, di selvaggina e di pesci, rammentando gli eroi della cucina, gli Apicii[120], [142] (i Carême e i Vatel di allora), onde anzi fu detta l’arte culinaria arte d’Apicio, da quello principalmente vissuto sotto Augusto e Tiberio, che consumò per la gola un ingente patrimonio, e giunto alle ultime duecentocinquantamila lire, preferì uccidersi di veleno, anzi che non potervi più soddisfare e lasciando dietro di sè un partito fra i cuochi; ma cadrei troppo in lunghezze. Oltre di che già sa il lettore dei cinghiali che Antonio faceva ad ogni ora cucinare per averne uno pronto ad ogni istante; sa del garo pompejano, di cui già gli tenni parola; delle murene che si ingrassavano ne’ vivai ed alle quali Pollione gittò uno schiavo; e persino della grossa perla che il figliuol del comico Esopo, strappata dall’orecchio della sua amica Metella e stemprata nell’aceto, e che Orazio tramandò ricordata a’ posteri ne’ versi che piacemi rammentare:

Filius Æsopi detractam ex aure Metelli

(Scilicet ut decies solidum exsorberet), aceto

Diluit insignem baccam[121].

[143] Gusto del resto pur diviso da Cleopatra e da Caligola, di cui narra Svetonio: Pretiosissimas margaritas aceto liquefactas serbabat[122].

Egualmente dovrei dire de’ vini; ma già il lettore non ha dimenticato che ne’ capitoli della Storia io l’avessi ad erudire dei tanti e celebrati vini che produceva la Magna Grecia, del Falerno, del Sorrentino, del Massico, del Celene, del Cecubo, del Pompejano, che bevean in coppe coronate di fiori, sicchè allora aveva ragione di chiamarsi questa nostra Italia Ænotria, quasi regione dei vini; ma non pareva bastassero alla gola di que’ ghiottoni che furono i Romani, se ne tirassero da Grecia, se dalla Rezia che comprendeva i vini del Benaco e bresciani, i quali oggidì, se meglio conosciuti, rivaleggerebbero co’ meglio rinomati di Germania e di Francia, dalla Spagna, dalle Baleari, dalla Linguadoca e dalle Gallie, e tutti ambissero di vecchia data, sì che si contassero per consolati e ne tracannassero all’ubbriachezza uomini e donne, come lasciò Seneca scritto: Non minus potant et oleo et mero vires provocant, atque invitis ingesta visceribus per os reddunt et vinum omne vomita remediuntur[123]. Nè priverò di commemorazione a questo [144] punto quel mio concittadino Novellio Torquato milanese[124], ricordato da Plinio, ammesso a que’ tempi in Roma a’ primi onori della città, il quale fu cognominato Tricongio[125], dal bere che faceva tre cogni di vino tutto d’un fiato, senza nè riposarsi, nè respirare, nè lasciarne pur una gocciola nel boccale da gittare in terra per far quel rumore che addimandavano cottabo.

E a tutte queste sontuose mense private servivano molti schiavi, al cenno del tricliniarca.

Prima era il coquus, che nella cucina confezionava le vivande e il cui valore, al dir di Plinio, fu tempo che s’agguagliò alla spesa d’un trionfo; poi il lectisterniator, che sprimacciava i letti su cui giacevano i commensali; il nomenclator che annunziava le vivande e i loro pregi, il prægustator, cui era commesso di gustare i piatti a tavola, onde conoscere se fatti a dovere ed a tutela che non ascondessero veleno, lo structor che disponeva le vivande su’ vassoi nei diversi serviti e collocavali sul portavivande, che [145] Petronio chiama repositorium, e fungeva altresì da scalco, lo scissor che trinciava le vivande, il carptor che le tagliava in parti; il pincerna o coppiere che mesceva a’ convitati il vino ed erano per lo più eletti a tale ufficio i meglio avvenenti e lindi giovinetti schiavi, e il vocillator che compiva suppergiù la stessa cosa.

I banchetti poi rallegravansi con musicali istrumenti, come alla cena, già ricordata, di Trimalcione descritta nel Satyricon; con danze di leggiadre e lascive fanciulle, saltatrices, celebri in questo le ballerine gaditane, ossia venute da Cadice, come le più avvenenti e procaci. Donne simili veggonsi rappresentate nelle pitture pompejane, e per lo più apparivano vestite d’un ampio e trasparente pezzo di drappo, che sapevano avvolgere talora attorno alla persona in pieghe graziose, talora lasciavano spandersi a modo d’un velo su parte del corpo, e tal altra affatto rimovendo dalle membra e facendo svolazzare per aria così da mostrarle tutte all’occhio degli spettatori. Costume codesto pur in Grecia vigente allora ed esercitato dalle auletridi, o suonatrici di flauto, che pria durante il banchetto facevano intendere i suoni delle loro tibie e quindi, allorchè le vivande e i vini avevano mandati i fumi alla testa e convertito in orgia il banchetto, si mescolavano a’ lubrici conviva.

Quando poi, per dirla col Parini,

Vigor dalla libidine

La crudeltà raccolse,

[146]

si spinse il pervertimento fino a darsi a mensa spettacolo di lotte gladiatorie, non ischifando avanti il pericolo che il sangue avesse zampillato fin sulla sintesi e sul mantile o sovra il piatto medesimo.

A tutte queste distrazioni che allietavano le mense, Plinio il Vecchio, secondo ne scrisse il nipote nelle sue Epistole, sappiamo com’egli preferisse udir buone letture d’alcun autore greco o latino. Ma pochi erano allora del gusto e dell’onestà dell’insubre magistrato e letterato.

Finita la cena, se ne dividevano gli avanzi dell’ultimo servito fra i convitati; ciascuno era libero d’inviar quanto gli fosse piaciuto a’ parenti od agli amici. Qualche parasita, che fornì materia alle arguzie di Marziale, li serbava per goderseli l’indomani.

V’erano poi di quelli che non avevan portato seco il tovagliolo alla cena, e che poi si intascavano quello che aveva loro fornito il padrone di casa: e il medesimo Marziale li ha personificati in Ermogene, quello stesso che già ricordai, il quale non avendo potuto involare i tovaglioli, perchè nel timore di vederseli rubati, nessuno gli aveva portati, pur d’esercitare l’industria sua, aveva pensato di rubar la tovaglia:

Ad cœnam Hermogenes mappam non attulit umquam

A cœna semper retulit Hermogenes[126].

[147]

Ciò fatto, si recavano dagli schiavi i calzari, si accendevano le torcie per rischiarare i convitati che toglievan congedo dall’anfitrione e, quand’erano in senno, salutavansi fra loro augurandosi la salute del corpo e dello spirito.

Sovente erano alla porta attesi da’ loro schiavi con le lanterne di Cartagine, non tanto per illuminare le tenebre, giacchè allora per le vie non fosse illuminazione, o per proteggerli dai ladri, quanto per respingere gli attacchi de’ giovinastri, perocchè a que’ tempi anche figli di buone famiglie si recassero a piacere di assalire i viandanti in ritardo, di applicar loro una buona bastonatura, o far loro qualche cattivo scherzo, come nel primo quarto del nostro secolo vedemmo praticarsi egualmente in Milano dalla Compagnia della Teppa. Si sa che Nerone imperatore aveva pure di simili gusti, e si camuffava perfin da schiavo, affine d’abbandonarvisi le notti, e di brutti pericoli egli corse per ciò, e la sua vita stessa fu posta a repentaglio più d’una volta.

Rivelati i misteri della mensa antica, cerchiamo adesso di indagare quelli della toaletta, nè forse riusciranno meno interessanti. Dovendo ricordare anche le vesti femminili, farò pur un cenno di poi delle maschili e di quelle particolari agli schiavi e così imporrò fine a questo capitolo, nel quale la sovrabbondante materia mi affaticò a contenermi nei limiti proporzionati dell’opera.

[148]

Ho già superiormente accennate le diverse schiave od ancelle addette al servizio delle matrone: ora veggiamole in movimento intorno a queste. — Sono tutte silenziose e nude fino alla cintura ad attendere il cenno della padrona che si risvegli sul suo letto d’avorio incrostato d’oro e di gemme nel cubiculo vicino. Si risveglia finalmente, e, vinta l’inerzia lasciatale dal sonno, facendo crepitare le dita, le chiama, e senza far rumore entrano le più favorite cubiculari e l’aiutano a scendere dalle sofici piume. La sua faccia è ancora tutta impiastricciata della mollica di pane inzuppata nel latte di giumenta, che nel coricarsi si è applicata onde serbar morbida e liscia la pelle, suppergiù come le moderne signore, pel medesimo scopo, si ungono della inglese pomata, il cold cream. Gli adoratori del giorno non la ravviserebbero in quel punto. Oltre quella maschera screpolata di disseccata mollica, invano le cerchereste il volume di sua superba capellatura, nè le ben arcuate sopracciglia, nè le perle della bocca. A ricostruire la sua bellezza, ella entra nel gabinetto attiguo. Una schiava ne custodisce l’ingresso, perocchè occhio profano non debba sorprendere i misteri della sua artifiziata toaletta, giusta il precetto d’Ovidio, erudito maestro nell’arte d’amare:

Hinc quoque præsidium læsæ petitote figuræ:

Non est pro vestris ars mea rebus iners.

Non tamen expositas mensa deprendat amator

Pyxidas: ars faciem dissimulata juvet.

[149]

Quem non offendat toto fex illita vultu

Cum fluit in tepidos pondere lapsa sinus?[127]

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Multa viros nescire decet; pars maxima rerum

Offendat, si non interiora tegas[128].

Anzi, aggiunge il Poeta:

Tu quoque dum coleris, nos te dormire putemus[129].

E le cosmete si pongono all’opera. Con tepido latte di giumenta appena emunto l’una rammollisce le arse molliche della faccia e la lava; l’altra mastica le pastiglie greche che debbonsi applicare, dopo avere sullo specchio di metallo fiatato e provato [150] aver ella sano e profumato l’alito; una terza l’imbelletta col rossetto, fucus; una quarta, sciolto in una conchiglia il nero, le tinge le sopracciglia; poi v’ha chi pulisce col dentifricium i denti e colloca i posticci nelle gengive, assicurandoli con un filo d’oro. Il medesimo Ovidio dell’artificio del liscio ne dettò un poema: De Medicamine faciei, che non ci giunse per altro completo.

Succedono alle cosmete le parrucchiere, Calamistræ, ajutate dai ciniflones, dai cinerarii e dalle psecas[130]. L’opera loro è tutto un faticoso lavorio. Scelgono esse il colore ai capelli che richiede la moda, e però usavan del sapo, pallottole di sego e semi di faggio, per colorirli di un color bruno chiaro; o si facevano giungere capellature sicambre, quando il color favorito era il rosso e vi spendevano di grosse somme; oppur si tingevano a celare la canizie. È sempre lo stesso Ovidio che di tutto ciò ne ammonisce:

Femina canitiem Germanis inficit herbis;

Et melior vero queritur arte color.

[151]

Femina proceda densissima crinibus emptis;

Proque suis alios efficit ære suos[131].

Talvolta disponevano i capelli a ricevere la tintura, lavandoli con acqua di calce, estirpando prima i canuti colla volsella, che noi diremmo pinzetta. Pettinati, poscia calamistrati, unti e profumati, il pettine o quello più precisamente detto il discerniculum[132] e la mano industre acconciano in mille fantasie le chiome ed i ricci, spesso raccolti in reticelle o nastri di seta o di porpora. Vi raffigurano elmi, galeri, grappoli od eriche, corymbia, mitre orientali; vi infiggono spilloni aurei ed effigiati, acus domatorio, e topazj e rubini e ametiste e perle e, dopo tutto, la dama si specchia nel lucidissimo disco d’argento. Pompei offrì esempi di siffatti specchi d’argento; uno si rinvenne di forma circolare il più usuale, con un manico per reggerlo quando si adoperava; altro di forma oblunga rettangolare, che doveva esser tenuto davanti alla padrona da uno schiavo, mentre altri aggiustavano la [152] toaletta. Mantenevasi lucente la superficie dello specchio con una spugna, per consueto attaccata al telajo dello specchio stesso con una corta cordicella e con polvere di pomice. Guai alla schiava se le treccie non saranno state ben rannodate! guai se non ben foggiato il galerus, se alcun capello sfuggirà indisciplinato, se verrà usata lentezza! perocchè la crudele elegante le punzecchierebbe il seno o le braccia a colpi di spillone, o la schiaffeggerebbe, quando pure non la rimetterebbe al lorario, che sospesa la sventurata penzolone pe’ capelli, la flagellerebbe finchè non piacesse alla padrona di cessare.

Quindi è alle ugne che dona le sue cure e insomma ogni istrumento è adoprato a diversi altri ufficj, non escluse le essenze, gli olj, i diapasmi o polveri fine di fiori odorosissimi istropicciati sul corpo, respingendo l’epilimna, perchè unguento della qualità più comune.

Visitando la casa delle Vestali in Pompei, in una camera della terza corte, si trovò una quantità di questi oggetti di toaletta femminile, che i Romani compendiavano col nome di mundus muliebris: uno dei suddetti specchi di metallo, decorato nel rovescio d’arabeschi, dei fermagli d’oro di forma rotonda, degli spilloni d’avorio per i capelli, un pettine, una cassettina di manteche, vasetti di vetro che contenevan belletto, boccette d’acqua d’odore, braccialetti d’avorio, orecchini, dentiscalpia o stuzzicadenti, monili, forbici, ecc., ecc.

[153]

Da ultimo entrano i paggi numidi che recano l’uno un vassoio d’argento con latte per lavarsi le dita che la dama asciuga ne’ capelli ricciuti di lui, gli altri i cibi dello jentaculum, o colazione, e il vin di Cipro, o retico; e, mentre ella asciolve, si intrattiene o col filosofo di casa, o col mercante, o coll’unguentario che ha trovato nuove pomate, o colla sua segreta veneria, la schiava che presiede ai piaceri de’ suoi amori, ed alla quale dischiude le confidenze de’ suoi adoratori, chiedendo se costoro abbian mandato nella mattina i salutigeruli, o tal altro messaggio per lei.

Una breve parola adesso di queste veneriæ, perocchè in Pompei più d’una iscrizione vi faccia cenno. E basti per tutte citare quella di una Tiche, che fu venerea di Giulia, figlia di Augusto, e allora nel vederne consacrata la memoria fra tombe cospicue, si è indotti a conchiudere che la qualità di tali femmine o schiave non dovesse essere ignobile e turpe, come dovrebbe parere a prima giunta. I costumi del tempo portavano che le schiave favorite, o liberte, fossero destinate a tale officio di osceno lenocinio. I lessici non recano, e neppur quello del Forcellini, spiegazione di sorta di tal nome applicato a schiava avente incarichi quali ho mentovati; ma, come dissi, ciò avrebbero rivelato gli scavi pompejani. Notarono per altro i lessici il venereum come luogo addetto a’ bagni e destinato per avventura alle amorose voluttà, e si riferirono all’iscrizione da me riportata nel dire [154] dell’annunzio d’appigionarsi nei predii di Giulia Felice, dove, fra gli altri molti locali, presso al balneum, si ricorda il venereum. E le venereæ erano esse particolarmente addette al servizio di codesti venerei? Nulla di più probabile. Veggasi più avanti il Capitolo delle Tombe, dove è ricordata quella di Tiche venerea di Giulia, la figlia di Augusto.

La volta è venuta delle sandaligerulæ, delle vestisplicæ, e delle ornatrices, le funzioni delle quali ho già al lettore spiegato. Vediamo adesso i diversi abiti ed abbigliamenti ond’erano chiamate a vestire ed adornare la loro padrona.

La tunica era per le donne il primo e più indispensabile de’ vestimenti di sotto, e la portavano sempre ed anche in casa. Fu dapprima di lana, ma dopo le frequenti relazioni coll’Egitto, si mutò in lino. Gli abiti di seta e i fini e trasparenti tessuti di Cos, che Petronio chiamò nel suo Satyricon vento tessile, divennero un oggetto di lusso e di civetteria. Tunica interior, chiamata eziandio intima, era quella che vestivasi sotto un’altra tunica, portandosene fin quattro dalle persone dilicate. Dicevasi anche intusiasta una specie di camicia o veste che portavano in casa.

La stola, ho detto altrove come fosse una lunga veste bianca, che si portava sopra la tunica, e si attaccava sulla spalla a mezzo di un fermaglio: discendeva fino a terra coprendo ben anche i piedi, ed aveva fimbrie d’oro e di porpora. Ho già riferito i versi di Ovidio, che così la ricordano:

[155]

Scripsimus hæc istis, quarum nec vitta pudicos

Contingit crines, nec stola longa pedes[133].

Nell’altro poema De Arte amandi, vi accenna in questo distico del pari:

Este procul villa tenues, insigne pudoris;

Quæque tegit medios, instita longa pedes[134].

La calthula era un piccolo mantello d’una stofa color della caltha, la calendula officinalis di Linneo, fiore di color giallo.

Il cerinum era un abito di stofa pur gialla.

La crocota era la veste di gala del colore del zafferano, imitata dalle greche, che la portavano alle feste Dionisiache. Dicevasi anche in diminutivo crocotula.

La cymatilis, abito del color dell’acqua marina e di stofa marezzata, come potrebbe essere il moderno moerro.

La impluviata era veste di color bruno, riquadrata a’ quattro lati, come appunto l’impluvium d’una casa. Sebbene Varrone parli dell’impluvia come di un mantello contro la pioggia, pure vi doveva essere anche l’impluviata o l’impluvium come veste, se [156] così lo noma Plauto nella scena seconda del secondo atto dell’Epidicus.

Ecco in qual modo fa narrare l’incontro di una cortigiana col suo ganzo:

EPIDICUS

Sed vestita, aurata, crocote ut lepide! ut concinne! ut nove!

PERIPHANES

Quid erat induta an regillam induculam, an mendiculam,

Impluviatam? ut istæ faciunt vestimentis nomina.

EPIDICUS

Utin’impluvium induta eat?

PERIPHANES

Quid istuc est mirabile?

Quasi non fundis exornatæ multæ incedant per vias?[135]

Vi è dunque ricordato l’impluvium, ma con esso anche la regilla. Plauto nella stessa scena ricorda altresì le seguenti vestimenta:

. . . vesti quotannis nomina inveniunt nova:

Tunicam vallam, tunicam spissam, linteolum cæsicium,

[157]

Indusiatam, patagiatam, callulam, aut crocotulam!

Supparum, aut subminiam, ricam, basilicum aut exoticum,

Cumatile, aut plumatile, cerinum aut melinum gerræ maximæ

Cani quoque etiam ademptum ’st nomen.

EPIDICUS

Qui?

PERIPHANES

Vocant laconicum[136].

La patagiata era veste ricca del patagium, ossia della larga striscia di porpora e d’oro sul davanti, simile al clavus che avevano gli uomini.

La plumatilis era un abito, la cui stofa in certi punti di luce offriva come piume d’uccelli, nel modo [158] stesso che la Cymatilis illudeva vedersi, come già dissi, onde marine.

Ralla dicevasi il mantello di una stofa chiara e leggiera, o di velo.

Rica era un pezzo rettangolare di panno lano orlato di frangia, vestimentum quadratum, fimbriatum, como lo ha descritto Festo, portato a modo di velo sulla testa: il suo diminutivo ricinium, recinium, ricinus, o recinus, era pure a modo di velo portato sulla testa, più specialmente assunto come segno di lutto. Trovansi pure mentovati nei surriferiti versi il basilicus, l’exoticus, il laconicum, il linteolum cæsicium, il melinum, la mendicula, la spissa, il supparum come altri effetti di vestiario, ma forse non saprebbesi precisarne il rispettivo uso.

Flammeum nomavasi il velo di color giallo carico e brillante che copriva tutta la persona, e portavasi dalle giovani spose nel giorno delle nozze.

Palla, come spiegai altrove in quest’opera, era l’ampio mantello in cui s’avvolgeva la dama romana, che vietava vedersi il disegno della persona, e s’aggiustava mediante un fermaglio sopra le spalle. La statua della sacerdotessa Livia ritrovata in Pompei, e di cui già feci menzione, offerse esempio della stola, della palla e dell’amiculum, o velo della testa.

Ho già detto nel capitolo delle Tabernæ della calzatura delle donne, non che in molte parti dell’opera de’ giojelli e preziosità onde le donne si [159] fregiavano, e tanto poi e in una parola dirò essere stato il lusso e la ricercatezza nel vestiario e nell’abbigliamento muliebre, che non alle sole cortigiane, come fece Plauto nel surriferito brano della commedia l’Epidico, ma a tutte applicar si potesse quel verso, che testè ho riportato, che, cioè, camminassero per le vie adorne di case e di terre.

Più spiccio sarò nel dire del vestiario degli uomini.

La toga era il vestito distintivo del cittadino romano, che sempre si portava da tutti in tempo di pace: coprendo tutto il corpo, nè lasciando libero che un braccio, non potevasi tenerla durante il lavoro, nè in casa. Era di lana e bianca, e per lavarla davasi a’ fulloni, de’ quali gli intrattenni il lettore; onde argomentare è dato quanta fosse la importanza di costoro. Quelli che brigavano una carica publica, presentavansi al popolo colla toga resa d’un candore più brillante, usando di una preparazione cretacea, onde mettersi in rilievo maggiore, e ne venne perciò agli aspiranti il nome di candidati pervenuto infino a noi. Della toga bruna, pulla, usavano solo i poveri, detti perciò anche pullati, come ci avvenne di ricordare nel trattar de’ teatri, o quelli eziandio che si trovavano nel corrotto. Sotto gli imperatori, cresciuto il lusso, si adoperò la seta per la toga.

La toga prætexta, lunga veste bianca e tutta unita, bordeggiata di porpora, d’origine etrusca, portavano i fanciulli ingenui d’ambo i sessi, l’abbigliamento [160] de’ quali compivasi colla bulla o piccolo globo o cuore d’oro pei ricchi, di cuojo pei poveri, sospesa al collo. Fu istituita la bulla da Tarquinio Prisco, che donolla al figliuol suo, il quale, pretestato ancora, ebbe in guerra ad uccidere un nemico: nell’uscir di puerizia, cioè nell’entrare dell’anno decimosettimo, la dimettevano colla pretesta per assumere la toga, offerendola ai Lari, secondo Persio ricorda:

Cum primum pavido custos mihi purpura cessit,

Bullaque succinctis Laribus donata pependit[138].

Indossavano la pretesta anche i principali magistrati, dittatori, consoli, pretori, edili, re, e certi sacerdoti.

Trabea era la toga di porpora vestita dagli imperatori. Vedemmo già, parlando dell’ordinamento guerresco, cosa fosse la toga palmata, detta anche picta, portata dai trionfatori.

Meno lunga che la toga, era la tunica, che pur gli uomini indossavano immediatamente sul corpo. Fu prima senza maniche, poi le ebbe, ma non giunsero fino al gomito: più lunghe, la toga dicevasi manicata, ed era propria de’ disonesti. La mollezza fece [161] adottare più d’una tonaca. Il portarla dimessa fino ai talloni, ciò che dicevasi tunica dimissitia, come il tener rilasciata la toga, era indizio d’animo effeminato e libidinoso. Leggesi infatti in Plauto:

Sane genus hoc muliebrosum est timide dimissitiis.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Heus tu, tibi dico mulier[139].

La tonaca ordinaria non aveva distintivo; ma i senatori portavano il laticlavium, che era una tonaca bordeggiata dal petto fino al basso d’una larga striscia di porpora. Angusticlavium fu detta la tonaca de’ cavalieri; la striscia di porpora che la frangiava era più stretta.

Penula, era il mantello con cappuccio, che in luogo della toga portavasi in viaggio, o in tempo di pioggia; lacerna era un altro mantello aperto sul davanti come il pallium de’ Greci, ed aveva pure cappuccio: già riportai l’epigramma di Marziale che la lasciò ricordata. La læna era un largo mantello d’inverno e di colore scarlatto, coccinea, pei ricchi e dignitari; purpurea pei sacerdoti. Abolla, un ferrajuolo di panno a due doppi attaccato con fibbia di sotto al collo o in [162] cima alla spalla: era lo stesso che il sagum, tranne che questo era di più ampia dimensione e di stofa più grossolana. Endromis appellavasi un mantello, o piuttosto una coperta di panno lano, in cui s’avviluppava dopo i giuochi ginnastici a prevenire il pericolo d’una infreddatura. Della synthesis, detta anche cœnatoria, ho già detto che fosse l’abito per il pasto: Nerone che si mostrava con essa in pubblico, veniva biasimato come di grave sconvenienza.

De’ calzari de’ Romani ho già informato il lettore nel capitolo delle Tabernæ, nè occorre però aggiungere verbo. In testa nulla portavano d’ordinario, solo coprivanla nelle solennità religiose. Ne’ saturnali portavano il pileus, più berretto che cappello; il petasus, che usavasi in viaggio e che Caligola permise portarsi in teatro per difendersi dal sole, aveva le tese larghe: galerus era una specie di elmo di pelle; apex, fu quello de’ sacerdoti. A difesa della testa solevasi altresì recare un lembo della toga su di essa, ma si toglieva tosto in segno di rispetto, abbordando alcuna persona distinta.

In quanto al vestito degli schiavi, all’infuor della toga, propria dell’uom libero, della stola e della palla delle matrone, era eguale a quello delle donne e degli uomini che ho finito di descrivere: la tonaca avevano peraltro più stretta e bruna, e coprivan la testa col cappuccio della lacerna o della penula. Vuolsi notare tuttavia che gli schiavi degli imperatori, [163] massime nei servizio della tavola, vestivano bianco.

Varrone ricordò tuttavia come i citaredi si servissero della stola: apud Q. Hortensium, cum in agro Laurenti essem, Orphea vocari jussit: qui cum eo venisset cum stola et cithara, et cantare esset jussus, buccinam inflavit, ubi tanta circumfluxit cervorum, aprorum et cæterarum quadrupedum multitudo, ut non minus formosum mihi visum sit spectaculum, quam in circo maximo aedilium, sine africanis bestiis, cum fiunt venationes, etc.[140] Le meretrici poi portavano la toga, interdetta loro la stola.

Detto così del vestire, i lavori femminili, che si compivano nel gynæceum, o appartamento delle matrone, chiuderanno il capitolo.

Abbiam veduto gli uomini nei fori, nella basilica, nella guerra, e gli schiavi nelle tabernæ e nelle industrie: veggiam le donne adesso nell’interno della casa.

Si imbiancava da esse, si nettava, e cardava la lana, che traevan di poi dalla conocchia in filo. Quindi tessevano su proprii telaj e ne facevano stole e vestimenta [164] per sè, e tonache e toghe per gli uomini, e già notai che l’occuparsi in siffatti lavori muliebri, ai primi tempi della republica, e l’incumbere alle cure domestiche, costituisse la miglior lode della donna: domum mansit, lanam fecit. L’imperatore Augusto non volle mai vestirsi d’altro che di quel che lavoravano le donne di sua famiglia. Poi si esercitavano le matrone anche al ricamo, che dicevano acupingere, pitturar coll’ago; e da ultimo, al dir di Tertulliano, nel suo trattato sulla Esortazione alla Castità, si aggiunsero altre occupazioni: l’amministrazione, cioè, della famiglia, la direzione della casa, la custodia delle chiavi, la cura e la distribuzione del lavoro tra gli schiavi, la compera delle provvigioni; cure tutte che le sterminate ricchezze e la effeminatezza del popolo fecero poscia consegnare agli schiavi. Laonde la matrona non pensò più quind’innanzi che alla toletta e agli adulteri amori e, scassinata così la famiglia da’ suoi cardini, si preparò la corruzione sociale, la decadenza e la irreparabile rovina di quel gran popolo e di quel maraviglioso impero.

[165]

CAPITOLO XXI. I Lupanari.

Gli ozj di Capua — La prostituzione — Riassunto storico della prostituzione antica — Prostituzione ospitale, sacra e legale — La Bibbia ed Erodoto — Gli Angeli e le figlie degli uomini — Le figlie di Loth — Sodoma e Gomorra — Thamar — Legge di Mosè — Zambri, Asa, Sansone, Abramo, Giacobbe, Gedeone — Raab — Il Levita di Efraim — David, Betsabea, la moglie di Nabal e la Sunamite — Salomone e le sue concubine — Prostituzione in Israele — Osca profeta — I Babilonesi e la dea Militta — Venere e Adone — Astarte — Le orgie di Mitra — Prostituzione sacra in Egitto — Ramsete e Ceope — Cortigiane più antiche — Rodope, Cleina, Stratonice, Irene, Agatoclea — Prostituzione greca — Dicterion — Ditteriadi, auletridi, eterìe — Eterìe celebri — Aspasia — Saffo e l’amor lesbio — La prostituzione in Italia — La lupa di Romolo e Remo — Le feste lupercali — Baccanali e Baccanti — La cortigiana Flora e i giuochi florali — Culto di Venere in Roma — Feste a Venere Mirica — Il Pervigilium Veneris — Traduzione — Altre cerimonie nelle feste di Venere — I misteri di Iside — Feste Priapee — Canzoni priapee — Emblemi Itifallici — Abbondanti in Ercolano e Pompei — Raccolta Pornografica nel Museo di Napoli — Sue vicende — Oggetti pornografici d’Ercolano e Pompei — I misteri della Dea Bona — Degenerazione de’ misteri della Dea Bona — Culto di Cupido, Mutino, Pertunda, Perfica, Prema, Volupia, Lubenzia, Tolana e Ticone — Prostituzione legale — Meretrici forestiere — Cortigiane [166] patrizie — Licentia stupri — Prostitute imperiali — Adulterii — Bastardi — Infanticidi — Supposizioni ed esposizioni d’infanti — Legge Giulia: de adulteriis — Le Famosæ — La Lesbia di Catullo — La Cinzia di Properzio — La Delia di Tibullo — La Corinna di Ovidio — Ovidio, Giulia e Postumo Agrippa — La Licori di Cornelio Gallo — Incostanza delle famosæ — Le sciupate di Orazio — La Marcella di Marziale e la moglie — Petronio Arbitro e il Satyricon — Turno — La Prostituzione delle Muse — Giovenale — Il linguaggio per gesti — ComessationesMeretrices e prostibulæProsedæ, alicariæ, blitidæ, bustuariæ, casoritæ, copæ, diobolæ, quadrantariæ, foraneæ, vagæ, summenianæ — Le delicatæ — Singrafo di fedeltà — Le pretiosæ — Ballerine e Ludie — Crescente cinedo e Tyria Percisa in Pompei — Pueri meritorii, spadones, pædicones — Cinedi — Lenoni — Numero de’ lupanari in Roma — Lupanare romano — Meretricium nomen — Filtri amatorii — Stabula, casaurium, lustrum, ganeum — Lupanari pompejani — Il Lupanare Nuovo — I Cuculi — Postriboli minori.

Sa il lettore, per quel che gliene ho detto nel capitolo de’ Templi, come in Roma, massime a’ tempi dell’impero e quindi a’ giorni in cui specialmente lo richiama quest’opera, meglio che a Venere celeste, si sagrificasse alla Venere Pandemos, la Iddia dal facile ed osceno costume, e già sa del pari della lussuria campana, onde Plauto, facendosi eco della brutta riputazione che s’avean fatta, designava gli abitatori di quella zona molles et libidinosi[141]. Egli sa pure di quegli ozj passati in proverbio, duraturo anche adesso, [167] e che riuscirono tanto fatali al massimo capitano cartaginese, Annibale, che prima d’abbandonarsi ad essi era stato invincibile. Tutta questa plaga ridentissima del Tirreno, e massime le città in riva alla marina, avevano inoltre accolto, come delle buone istituzioni, così il contributo eziandio delle cattive, che portava seco quella immigrazione la quale avean causato le romane guerre in Grecia, in Africa e nelle Gallie, o l’andirivieni de’ mercatanti che accorrevano a recar merci all’Italia; onde agli ingeniti costumi e vizi del paese si fossero venuti annestando i vizii pur dello straniero. Il culto di Iside, venendo dall’Egitto, vi aveva dedotto la prostituzione sacra: i misteri di Eleusi importati da Grecia lo avevano più intristito, e la Grecia già alla sua volta li aveva avvalorati de’ riti osceni dei popoli asiatici. Di tutto ciò io dissi già a suo luogo.

È agevol cosa accorgersi, comparando la prostituzione greca colla romana, che entrambe si avessero per avventura una comune origine, nell’Asia; vale a dire che Grecia avesse direttamente derivato di là le pratiche della sua dissolutezza e che Roma e l’Italia le avessero adottate coi molti altri costumi dalla vinta Grecia; con questo solo di divario peraltro, che l’asiatico costume così assunse un tal carattere in Grecia da, per così dire, divinizzarsi e farsi perfino simpatica talvolta e recinta di poesia, mentre in Roma restò brutale e schifosa. Indarno quindi si cercherebbe a Roma la storia della sua prostituzione tale da poter esser [168] letta, senza arrossir sin nel bianco dell’occhio. Invano le domandereste le Targelie, le Aspasie, le Frini, le Diotime, le Glicere, le Bacchidi e le cento altre cortigiane, che la Grecia salutò ispiratrici o di savia politica, o di dottrina o di poesia, e che anzi segnano, puossi dire, il progresso della greca civiltà: la cortigiana di Roma, ignorante e vendereccia, volubile e lussuriosa, segna invece il precipizio della gloria e della dignità della nazione.

Quanta differenza fra la Via Sacra, i boschetti di Pompeo, il portico di Livia di Roma e il Ceramico, od anche il Pireo d’Atene, fra il dicterion greco e il lupanare romano!

Gli scavi pompeiani dovevano portare una luce e costituir quasi un commento sul lupanare romano descritto da Giovenale, dove la imperial consorte dello stupido Claudio faceva copia di sè, come la più abbietta meretrice, alla feccia della plebe che vi traeva, e d’onde non partiva la svergognata che sfiaccata, ma non satolla:

Et lassata viris nec dum satiata recessit[142].

La mia mano deve adesso sollevare un lembo della cortina del lupanare pompejano, per iscriverne i possibili particolari, e dico possibili, perocchè tutto non sia lecito ripetere, da che l’età nostra siasi fatta [169] estremamente pudibonda, se non dei fatti, certo delle parole: il contrario di quel diceva Catullo dovesse essere il poeta, al quale correva obbligo d’essere casto, mentre poi non fosse necessario che casti fossero i suoi versi:

Non castum esse decet pium poetam

Ipsum: versiculos nihil necesse est[143].

Ardua impresa io mi assumo: lo farò con quel riserbo che il lettore domanda, al quale per altro non ispiacerà che a larghi tratti io gli narri la storia dapprima e la condizione di questo abbrutimento dell’uomo, contro il quale finora invano lottarono la sapienza de’ legislatori e la civiltà dei tempi per diradicarlo, paghi soltanto d’averlo infrenato; ond’esso si accampi nella società sotto l’egida delle leggi, quasi una professione ed un diritto, e si convenne nomarsi prostituzione legale. Per ciò appunto che già notai che lo svolgimento più ampio e sfrenato di questa lebbra in Roma dati dall’epoca delle sue conquiste e dall’affluirvi delle diverse nazionalità, uno sguardo retrospettivo sulla storia, in cotale materia, degli altri popoli, varrà a notarne i punti di contatto [170] ed a illustrare, quella che più presso riguarda il mio soggetto.

Ogni traffico osceno del proprio corpo è quanto corrisponde alla parola prostare, d’onde è derivata quella di prostituzione. Questo traffico, questo infame commercio ha pur troppo la sua storia, antica quanto il mondo, nè interrotta mai nelle sue più orribili tradizioni; nè, per quanto si ingentiliscano i costumi, per quanto splenda lume di civiltà, non può nutrirsi speranza che siffatta mala pianta si divella di mezzo agli uomini; solo essendo dato di credere che possa venir meglio infrenata e disciplinata. Importa altresì seguirne le fasi storiche, potendo giovare il conoscerne i particolari, i suoi periodi più accentuati e quelli di decrescimento, onde dallo studio delle medesime dedurne gli accorgimenti utili al miglioramento del costume.

Gli scrittori — e fra questi anche il Dufour nella sua Storia della Prostituzione, alla quale mi è impossibile non ricorrere, massime in queste prime pagine nelle quali ne indago le origini, — si accordano nel considerare tre distinte forme sotto cui si manifestò la prostituzione e la distinsero in prostituzione ospitale, in prostituzione sacra o religiosa e in prostituzione legale o politica. Originò la prima dalla prevalenza della forza dell’uomo sulla donna, per la quale questa fu presto ridotta sotto la sua schiavitù; ond’essa, perduta ogni dignità e divenuta all’uomo, cui era compagna, indifferente [171] col tempo, nel primitivo stadio sociale in cui la face non brillava della civiltà, passò fra le concessioni dell’ospitalità. Perocchè vediamo presso tutti i popoli primitivi l’ospitalità spesso elevarsi a dogma e legge inviolabile, e la prostituzione divenire parte integrante della medesima. I doni che in ricambio la donna riceveva dall’ospite straniero e che soddisfacevano la cupidigia del marito, valsero a generalizzare la prostituzione ospitale. E l’ospite straniero, a rendere più ardenti, anzichè obbligatorie o di cerimonia, le carezze, lasciava talvolta credere la propria origine celeste e così poco a poco si venne a dare a codesta prostituzione il carattere di sacra. La mitologia infatti reca più esempi di numi presentatisi alle dimore ospitali di semplici mortali ed ivi avere beate di loro amplessi divini le mogli degli ospiti loro. Gli eroi più celebrati del poema omerico, quelli della storia greca ed anche della romana, fino a Cesare, che voleva da Venere esser disceso, tutti vantano origine divina. Non re, non capo di tribù potè far senza di questi fasti di famiglia; finchè tra le offerte che si facevano ne’ templi, la religione pagana accolse anche la prostituzione, il cui prodotto manteneva l’avarizia e la libidine sacerdotale. Facile allora era il passaggio della prostituzione dalla religione nei costumi e nelle leggi. Certo è tuttavia che tra l’esistenza della prostituzione antica e anteriore al Cristianesimo e quella posteriore corra una differenza [172] enorme. Se ora la religione la vietò, se la morale la condannò; la legge, autorizzandola, la ridusse nondimeno entro determinati confini: mentre prima, se la sola filosofia la proscriveva, i costumi la consacravano ai dogmi religiosi.

Tutte queste transizioni appariranno dalle seguenti storiche narrazioni che rapidamente accennerò.

È nella Caldea, nella patria di Abramo, che si riscontrano le prime traccie della prostituzione ospitale e sacra e ce le additano da una parte la Bibbia ed Erodoto dall’altra.

Per la prima, sappiamo come gli angeli discesi sulla terra per conoscere le figlie degli uomini, ne avessero avuto figliuoli, ch’erano i giganti. A questa credenza avevan dato luogo i seguenti versetti del capo IV della genesi:

«Or avvenne, che gli uomini cominciarono a moltiplicare sopra la terra, e che furono loro nate delle figliuole:

«I figliuoli di Dio veggendo che le figliuole degli uomini erano belle, si presero per mogli quelle che si scelsero d’infra tutte»[144]. Poi ci fa sapere del corrotto costume e della malvagità così cresciuta, che pentissi il Signore d’aver creata la terra onde [173] ebbe a mandar il diluvio a sterminare la razza umana; salva solo la famiglia di Noè. Vediam poi, sempre nella Genesi, che è il primo libro della sacra Bibbia, neppur rispettata più l’ospitalità; perocchè vi leggiamo che in Sodoma gli angeli che si fermarono nella casa di Loth per passarvi la notte, vi fossero fatti segno agli assalti de’ Sodomiti, che circondando la casa ne li reclamavano sì che Loth offrisse loro, a rispetto dei suoi ospiti, le due figlie, che non avevano conosciuto ancora gli uomini. Le quali figlie, ci dice poi lo stesso libro santo, come abusassero un giorno, a cagion di libidine, dell’ebbrietà del loro padre. L’incendio di Sodoma e Gomorra provano il traffico, più osceno ancora, contro natura; l’episodio di Thamar che si prostituisce a Giuda suo suocero per averne un figlio e il modo cui è narrato pongono in sodo che la prostituzione legale esisteva, sedendosi le meretrici perfino a capo delle vie ad attendere i loro avventori. Mosè poi, il grande legista, dovè ricorrere a penalità terribili pei crimini di bestialità e di sodomia; prova indubbia che gli Ebrei si abbandonassero troppo a questi brutti peccati.

I lupanari tuttavia degli Ebrei non erano che di meretrici straniere, avendole Mosè escluse dalla prostituzione legale. La lebbra onde s’affliggeva quel popolo altro non era che un male, conseguenza dello abuso e delle diverse forme d’impurità, e le frequenti abluzioni ordinate dalla legge erano prescrizioni igieniche per chi pativa di taluno de’ malefici [174] effetti, come argomentasi da quanto è detto nel Cap. XV del Levitico. Così la pena di morte comminata contro gli Ebrei, che in onore di Moloch commettevano impurità, prova come si fosse generalizzato l’onanismo. La dissolutezza degli Ebrei aveva generato terribile malattia: Mosè e i giudici ne erano gravemente preoccupati e Finea nipote d’Aronne, saputo che Zambri giaceva con una meretrice madianita, li coglie e li uccide. Lo stesso Mosè fa sgozzare 24,000 de’ suoi seguaci, perchè uno di loro aveva bazzicato con una Madianita; ciò che per altro non aveva impedito che quel grande legista si fosse tolta per moglie una figliuola di quel popolo. Asa, re, caccia perfino la madre sua che sacrificava a Priapo e ne distrugge l’oscena statua. Nè pure i capitani più eletti d’Israello andavano immuni da tal peccato. Sansone nelle braccia di Dalila perdeva la forza che gli aveva data il Signore. Abramo aveva la sua concubina e prostituiva due volte per denaro a re stranieri la moglie, facendo loro credere fosse sua sorella. Giacobbe ebbe la sua; Gedeone del pari. La Raab che tradì Gerico, la propria città, a codesto condottiero del popolo Ebreo, vuolsi fosse una cortigiana. Pietosa è la storia del Levita di Efraim, che nella città di Guibha, ospitando presso un buon vecchio, i cittadini ne assalirono la casa per abusare di lui. Egli e l’ospite suo cercarono stornarli; poi a nulla valendo le preci, concesse il levita a que’ miserabili [175] la propria concubina, che alla dimane, rotta da quelle bestiali lussurie, non appena potè ridursi presso l’amante levita, che miseramente spirava e fu causa codesta che Israello, a vendicar tanta infamia, si armasse a fiera guerra contro i Beniamiti. David, il santo re Profeta, a saziar la sua lussuria, invaghitosi di Bath-Scebah o Betsabea, come è chiamata per lo più, da lui veduta ignuda nel bagno, la fa rapire e la rende madre; poi fa che Uria marito di lei venga esposto nella furia maggiore della battaglia sì che vi perisca e così si appropria la moglie. Non altrimenti aveva fatto il santo patriarca con Nabal, cui saccheggiava la casa, e toglieva la moglie per farla sua. Lascierò poi agli spiriti più ingenui l’apprezzare il rimedio suggerito da’ servitori suoi allo stesso re David, quando vecchio non poteva per copertura di vestimenta riscaldarsi, collo avergli cercato una giovinetta vergine, la bellissima Abisag, perchè si tenesse davanti a lui e gli dormisse in seno. Buon per la vezzosa Sunamite ch’ei non abbia potuto conoscerla. Che diremo di Salomone, del sapientissimo re? Egli ebbe settecento donne e trecento concubine e il suo cuore, già sì saggio, si pervertì, tanto da assassinare il fratello Adonias, che gliene aveva domandata una, della qual s’era invaghito.

Finalmente la prostituzione, dietro l’esempio dei grandi, si popolarizzò e si portò perfin nel tempio, come si legge nel libro de’ Maccabei. Ciò che poi [176] apparirà incredibile si è il leggere in Osea queste strane parole poste in bocca dell’Eterno stesso: dixit Dominus ad Oseam: Vade, sume tibi uxorem fornicationum, et fac tibi filios fornicationum[145] ed egli infatti, sposò la meretrice Gomer figliuola di Debelaim e n’ebbe un figlio, cui impose il nome di Gesraele. Ma non basta: lo stesso Dio dice al medesimo Profeta di poi: Et dixit Dominus ad me: Adhuc vade, et dilige mulierem, dilectam amico et adulteram... et fodi eam mihi quindecim argenteis et coro hordei[146], e, già s’intende; il Profeta obbedisce all’Eterno.

[177]

Lascio che se la sbrighino i commentatori della Bibbia, che essi sapranno giustificare questi bei Comandamenti che un delirante ebbe ardimento di dire gli venissero dal Signore.

E per lasciare i libri santi, della prostituzione caldaica ho detto come informi Erodoto. Hanno i Babilonesi, egli scrive, una legge infame. Ogni donna nata nel paese è obbligata una volta almeno nella sua vita di andare al tempio di Venere ed ivi abbandonarsi ad uno straniero. Gli stranieri vi passeggiano e scelgono le donne che più gli piacciono ed esse non ponno tornare a casa, se prima qualche forestiero non le abbia avute, invocando la dea Militta, piacendo agli Assiri di dare a Venere questo nome. Nè gli stranieri ponno ricevere rifiuto, perocchè ciò vieti la legge e sacro essendo il denaro che ne è frutto. Quelle che hanno in dote bellezza, non fanno lunga dimora nel tempio; le brutte vi restano fin tre o quattro anni, finchè non abbiano soddisfatta la legge. È agevole capire allora come facilmente avesse ragione Quinto Curzio, quando nella vita d’Alessandro Magno ebbe a dire che nessuna nazione fosse più corrotta della Babilonese; la prostituzione sacra ingenerando l’altra dei costumi. E il fatale esempio si diffuse colle guerre e la prostituzione attecchì presto nella Grecia. Nacque allora il culto di Venere e di Adone, a personificare la passione, perchè gli uomini tendano a divinizzare i loro affetti, e questi poi degenerando nelle diverse [178] manifestazioni, originarono l’Astarte, il dio ermafrodito, che rappresentava i due sessi ad un tempo stesso.

E si fecero misteri e feste a Venere, ad Adone, ad Iside ed alle altre divinità, che con diverso nome rappresentavano la medesima cosa. Pafo, Amatunta, Cipro, Eleusi furono teatro a queste sacre lascivie, che poi ebbero tempio in ogni città greca e quindi in ogni città romana. Nè meno sfrenate furono le sacre orgie dei Persiani in onore di Mitra, i quali del resto, afferma Plutarco, le avessero dedotte dai Parti, passate di poi nella Cilicia, e più tardi, al tempo di Trajano, in Roma, secondo l’opinione di Fréret.

Ho detto che Iside ebbe i suoi misteri; essa era quanto la Venere degli Egizi[147], che sotto quel nome e quello d’Osiride avevano divinizzato la natura fecondante e generatrice.

[179]

Il phallus, distintivo della virilità, veniva dalla sacerdotessa d’Iside nelle sacre cerimonie portato chiuso in una teca d’oro. La prostituzione sacra era dunque nel massimo vigore sulle sponde del Nilo; ma ciò che non parrà vero e che proverà ognor più com’essa passasse agevolmente ne’ costumi, si è che Ramsete, re dell’Egitto, 2244 anni prima di Cristo, prostituì nel lupanare la propria figlia, come mezzo politico per discoprire il ladro del suo tesoro, e Ceope fece altrettanto dodici secoli avanti l’era volgare, per provvedere alla spesa d’una piramide, e narra Erodoto che quella brava figliuola volendo inoltre erigerne un’altra per proprio conto, pregasse quelli che la visitavano fornissero ciascuno una pietra per compirne l’opera, e la nuova piramide sorse infatti accanto a quella del padre. — A’ matematici il computare quanti potessero essere gli erotici visitatori di quella virtuosa figlia di re.

Io non posso ricordare il nome delle cortigiane tutte de’ tempi i più remoti, che si resero celebri; pur di taluna farò il nome. L’Iliade cantò le conseguenze del rapimento di Elena, l’infedele consorte di Menelao, nella cui casa Paride violò l’ospitalità, onde ne derivò la Guerra di Troja. Negli episodi di quel divino poema, massime in quelli di Briseide, di Tecmessa e di Cassandra, appartenenti ad Achille, ad Ajace e ad Agamennone, vediamo la prostituzione cui eran sottoposte le schiave, ancor che figlie di re, ma venute [180] per le vittorie in servitù. Poi la storia dei tempi eroici ricordò ancora in Grecia gli adulterj di Clitennestra e d’altre eroine, e i bestiali accoppiamenti di Pasife ed altre molte lussurie infami ed incesti, che parvero perfino parti dell’immaginazione e si confusero colle leggende incredibili della mitologia.

Solo volendo pertanto ricordare quelle che di sè trafficarono a cagion di lucro, terrò conto di Rodope, cortigiana di Tracia, che 600 anni prima di Cristo, fu celebre in Egitto e cui si deve un’altra delle piramidi. La sua bellezza e riputazione è rivelata al re Amasi da un’aquila, che avendole rapita una pianella, ebbe a lasciarla cadere a’ piedi di lui, il quale, fatte le indagini a chi appartenesse, scopriva essere di Rodope e se la volle per amante.

Ma la grande epoca delle cortigiane d’Egitto fu quella de’ Tolomei, tre secoli cioè avanti l’era volgare, e si rammentano i nomi di Cleina cui furon rizzate statue, di Stratonice greca, cui ne onorò Tolomeo Filadelfo la memoria, rizzandole, morta, un mausoleo: Irene, che volle morire col suo reale amante Tolomeo Evergete; e Agatoclea, che appartenne a Tolomeo Filopatore e resse per lui l’Egitto.

Dalla egizia passando alla prostituzione greca, vi troviamo del pari quella sacra; ma cessando questa ben presto, lasciò nei riti le sue traccie. Varie furono le Veneri che si crearono a rappresentare le diverse forme della bellezza e dell’amore; ma Socrate le [181] riassunse in due; nella Venere celeste o dell’amor casto e nella Venere Pandemos o popolare, che ricordai al principiar del capitolo, ossia dell’amore impudico e criminoso. Solone, il severo legislatore, fondò il dicterion o lupanare e coi prodotti di esso eresse un tempio alla Venere Pandemos. E templi sorsero in tante altre città di Grecia a questa Dea, perfino sotto il nome di Eteria o cortigiana e di Peribasia, qualificativo che descriveva l’azione del più svergognato amor fisico. E a questa Dea si consacravano speciali eterie e il culto veniva da esse esercitato. La prostituzione in Grecia si poteva dividere in tre classi: alla prima appartenevano le ditteriadi o le meretrici del popolo; alla seconda le auletridi, o suonatici di flauto, che dopo avere colle tibie rallegrati i banchetti, si mescevano alle orgie che vi ponevano fine; alla terza le eterie. Queste ultime erano bensì cortigiane, ma elette, di peregrina bellezza o d’ingegno, le quali si abbandonavano non a tutti, ma a chi credevano, a seconda del capriccio o della simpatia e il più spesso per ammirazione del talento. Queste tre classi non avevano alcuna relaziona fra loro e le eterie serbavano la loro fierezza, come a un di presso farebbero le lorettes parigine oggidì. Esse infatti frequentavano il Ceramico, dov’erano boschi e portici, giardini e sepolcri dei cittadini morti in guerra e dove traeva la parte ricca e intelligente d’Atene; [182] mentre alle ditteriadi ed alle auletridi riserbavasi il Pireo. Quelle, quantunque non venissero considerate come cittadine, vivevano nondimeno tra uomini eminenti e letterati; queste invece considerate come schiave, liberte o straniere.

Celebri fra le eterie furono Glicera, amante del primo dei poeti comici, Menandro; Lamia amante di Demetrio Poliorcete re dei Macedoni; Taide amata da Alessandro il Grande e che lo seguiva nelle sue spedizioni militari; Cleonice amata da Pausania, che fu anche filosofa, come lo fu Targelia amante ed emissaria di Serse e sposa di poi del re di Tessaglia; Leonzia amata forsennatamente da Epicuro; Archippe e Terride amanti di Sofocle; Archeanassa di Platone, Laide di Diogene, Frine di Iperide, Bacchide di Procle, Teodota di Socrate e più che tutte, che sarebbe troppo lungo enumerare, Diotima la cui saviezza fu encomiata da questo grande filosofo, Erpilli che passò la sua vita con Aristotile ed alla quale ei legò la casa de’ suoi padri, e Aspasia, che bella e filosofa, maestra prima di retorica a Socrate, amica di Alcibiade e Fidia, fu poi amatissima da Pericle, in guisa che l’avesse a sposare, e cui la Grecia andò debitrice di progresso e incivilimento.

Tanto era costei considerata in Atene, che la sua casa divenisse il convegno de’ più dotti e celebrati uomini d’allora, come i filosofi Anassagora e Socrate, Sofocle ed Euripide i due sommi tragici, Iclino l’architetto [183] del Partenone e Fidia lo scultore degli Dei, e gli si assegnasse tanta dottrina, che per molti si tenne che i discorsi che Pericle pronunciava nello Pnice, e alla cui eloquenza nulla resisteva, fossero composti da Aspasia, come il discorso in commemorazione dei morti ne’ primi anni della guerra del Peloponneso e riferito da Tucidide. L’aristocrazia, nemica di Pericle, così ne temeva l’influenza e il consiglio, che a perderla facesse accusare Aspasia di empietà da Ermippo, poeta comico, e tratta avanti agli Eliasti, avrebbe corso gravissimo pericolo d’esserne condannata a morte, se per lei non avesse perorato Pericle stesso, il qual fu visto piangere per la prima volta.

È strano il vedere codeste eterie amare e darsi ad uomini unicamente per le virtù di essi, come la Teodota di Socrate e la Laide dello schifoso Diogene: la loro storia sarà però sempre più poetica e simpatica che non quella delle cortigiane di altri paesi. E più strano parrà che Aspasia venga raffigurata nei dialoghi di Platone come propugnatrice della più pura morale e, in capo d’ogni altra cosa, della morale della famiglia.

E così savii infatti ne erano gli ammonimenti, che le più rispettabili matrone vedevansi condurre a lei le proprie figliuole; onde non saprebbesi poi comprendere come colla retorica si facesse altresì maestra d’amore a Socrate, come taluni scrissero di lei, che [184] si scostasse della virtù, e meno ancora che servisse mezzana agli impudici ardori di lui per il bello Alcibiade. Molto di lei si favoleggiò, si scrisse contrariamente a verità e si calunniò, massime da Aristofane nelle sue commedie-libelli e credo rimanga ancor molto a studiarsi per rivendicarla interamente dalle brutte accuse, motivate unicamente forse da ire di parte.

Nè le altre classi della greca prostituzione mancarono di nomi celebri e basti il ricordare Boa auletride, che fu madre di Filetario re di Pergamo e Abrotone ditteriade tassata un obolo, che in onta a ciò, fu madre di Temistocle.

Prima di congedarmi dalla prostituzione greca, dovrò far cenno della poetessa Saffo, che nacque da distinta famiglia di Lesbo e ricca e la quale, se non prostituivasi a denaro, teneva tuttavia scuola di prostituzione la più dannosa, predicando l’amor delle donne, detto perciò l’amor lesbio. Platone la disse bella; Massimo di Tiro, seguito pure da Ovidio, nera e piccola: vi fu chi avrebbe voluto riabilitarne la dottrina e i costumi; ma Dionisio Longino, avendoci conservata l’ode di lei, capolavoro di passione isterica, tolse ogni attendibilità alla difesa[148].

L’Egitto, la Fenicia, la Grecia, colonizzando l’Italia, vi importarono coi costumi anche la religione e il culto di Venere vi attecchì primo fra tutti. La [185] prostituzione ospitale regnava tra’ monti e nelle foreste, la sacra nelle città. I dipinti e vasi etruschi che si rinvennero, sono altrettanti monumenti che attestano in Etruria la prostituzione. Altrettanto nei primordi di Roma. Romolo e Remo allattati da una lupa, Aurelio Vittore e Aulio Gellio spiegano che la lupa non fosse che una meretrice, Acca Laurenta denominata, amante del pastore Faustolo. In memoria di questa lupa o meretrice, si istituirono le feste Lupercali, che per rispetto si attribuirono al Dio Pane. Giustino e Servio con più ragione pretendono che Romolo altro non abbia fatto se non che dar forma più decente e regolare alle grossolane istituzioni di Evandro. Tuttavia non modificaronsi di molto le indecenti azioni de’ Luperci, ovveramente arguir si deve che ben fossero scandalose ed oscene, se rimasero, sebben modificate, rozze e invereconde cose e che Cicerone medesimo trattasse il corpo de’ Luperci come agresta società anteriore a qualunque civiltà. In queste feste lupercali alcuni giovani e i sacerdoti preposti al culto di Pane, correvano per le vie affatto ignudi tenendo da una mano i coltelli di cui si eran serviti per immolare le capre e dall’altra delle sferze, colle quali percuotevano tutti coloro che incontravano. L’opinione che si aveva che quelle percosse contribuissero a render feconde le donne o rendessero felice il parto, faceva sì che lungi dall’evitarne l’incontro, esse si avvicinassero loro per [186] ricevere de’ colpi, a’ quali attribuivano una sì grande virtù.

Feste e riti congeneri reclamava in Roma anche il culto del Dio Bacco, epperò designaronsi col nome di Baccanalia, come in Grecia, da cui vennero, chiamavansi Dionysia. Si appellarono eziandio Orgiæ ad indicare lo strepito o baccano che si soleva fare ne’ tre giorni di loro durata. Non altrimenti che in Grecia, anche in Italia venivano accompagnate dalle più sfrenate dissolutezze. Dapprincipio si celebravano tre volte all’anno; quindi quasi mancassero le occasioni alle baldorie ed alle lascivie, si ripetevano più spesso. Seguendo le tradizioni greche, ed anche egizie, Erodoto e Diodoro Siculo vogliono che le feste dionisiache procedessero dalle sacre terre fecondate dal Nilo, non erano che le donne chiamate in Roma a celebrarne i misteri: poscia, bandito ogni ritegno, si mescolarono i due sessi, e orribili disordini ne conseguitarono, tal che il Senato nell’anno 568 di Roma, emise decreto che tali orgie proscrisse in tutta Italia. L’abolizione dei Baccanali formò soggetto ad una tragedia di Giovanni Pindemonti, al suo prodursi applaudita.

Come pratichiamo noi pure di presente nelle feste cristiane di Madonne e Santi, nelle quali si portano i sacri simulacri processionalmente, nelle feste di Bacco recavasi la statua del nume in processione seguita da canefore o portatrici di panieri, coperte di pampini e da saltanti Tiadi o sacerdotesse con cimbali [187] e trombe, e da Baccanti con tirsi, dette pur Menadi o furibonde, come si argomenta dal seguente brano onde si chiude il Carme XVIII del Lib. 1. delle Odi di Orazio:

.... Non ego te, candide Bassareu,

Invitum qualiam: nec variis obsita frondibus.

Sub divum rapiam: sæva tene cum Berecynthio

Cornu tympana, quæ subsequitur cœcus amor sui,

Et tollens vacuum plus nimio gloria vorticem,

Arcanique Fides prodiga, perlucidior vitro[149].

Sopra molte pitture in Pompei ed Ercolano si riconobbero rappresentati Baccanali e Baccanti, soggetto del resto usitatissimo in bassorilievi antichi e su vasi greci.

Il nome di Baccanti, per le oscene loro opere, diventò presto sinonimo di femmine rotte ad ogni dissolutezza.

Nè questi erano i soli nomi, che valevano di pretesto alla sacra prostituzione.

[188]

La cortigiana Flora, sotto Anco Marzio, morta ricchissima, avendo lasciato erede di sua fortuna il Popolo Romano, questi in riconoscenza ne celebrò la memoria coi giuochi Florali, confondendoli con quelli istituiti in onore della Dea dei fiori. Quanto fossero lascivi ed infami, sì che gli attori dei medesimi ne vergognassero alla presenza dell’austero Catone, ho già in questa mia opera narrato, nè ho quindi bisogno ritornarvi sopra.

Venere ebbe in Roma molti templi sotto tutti i nomi, di libertina, di salace, di volupia, di verticordia, ecc., secondo le diverse forme di lascivia che la fantasia intendeva di divinizzare, e tutti cotali templi erano ridotti di dissolutezza. Venere Mirtea, così nomata dai boschetti di mirto che ne circondavano il delubro, era un convegno alle maggiori lubricità e le veglie che vi si facevano nell’aprile, a’ banchetti, balli e canti si mescevano le oscenità della più sfrenata prostituzione.

Già nel Capitolo ottavo di quest’opera, il quale tratta dei Templi, io dissi di queste vigilie che si facevano in onore di Venere, celebrandosene le feste al primo d’aprile, che per ciò appellavasi il mese di Venere; narrai come le donzelle vegliassero pel corso di tre notti consecutive, si dividessero in parecchie schiere e in ognuna di queste si formassero parecchi cori, aggiungendo come tutto un tal tempo si impiegasse nel danzare ed inneggiare alla Dea e citai [189] un brano di un ritmo antico che ne aveva lasciato memoria. Esso non era che il Pervigilium Veneris, intorno al quale si stancarono gli eruditi per ricercarne l’Autore. Aldo Manuzio ed Erasmo il dissero di Catullo, l’amante di Lesbia, ma è troppo casto per esser suo; Giusto Lipsio l’attribuiva a penna del secolo d’Augusto; Scaligero lo vorrebbe assegnare ad altro Catullo dei dintorni di Roma, e del quale parlano Giovenale e Marziale; Boullier, riconoscendovi i segni della decadenza del gusto, non senza ragione, il credette di Anneo Floro, del tempo di Adriano, e con lui lo opinò Wernsdorf, ritrovandovi il metro eguale ad altro poema attribuito allo stesso Autore e intitolato De Qualitate Vitæ. Vossio finalmente vorrebbe che questo Floro fosse il medesimo Lucio Anneo Floro, che dettò il Compendio della Storia Romana, e che io ho pur qualche volta citato in quest’opera.

In ogni modo, se questo Pervigilium Veneris accusa la decadenza, se non ne è sempre squisita la latinità, reputo opportuno farne luogo alla traduzione che ne ho condotta, perchè porge i dati acconci a darne l’idea delle feste di Venere, che si celebravano in Roma e nelle Colonie, e prima che altrove in Pompei, dove la città stessa chiamavasi Colonia Veneria e vi aveva culto ed altare. Non è poi fuor di luogo osservare come, malgrado il libertinaggio più sfrontato che presiedeva a cotali feste, pure il Pervigilium Veneris [190] si riduca ad essere un Canto sulla Primavera, senza che vi sia concetto od immagine, che offender possano il pudore.

PERVIGILIUM VENERIS[150].

Cras amet, qui nunquam amavit,

Quique amavit, cras amet.

Ver novum, ver jam canendum:

Vere natus est orbis.

Vere concordant Amores,

Vere nubunt alites,

Et nemus comam resolvit

Ex maritis imbribus.

Cras Amorum copulatrix,

Inter umbras arborum,

[191]

Implicat casus virentes,

Et flagella myrtea;

Cras Dione jura dicit,

Fulta sublimi toro.

Cras amet, qui nunquam amavit;

Quique amavit, eras amet.

Tum cruore de superno, ac

Spumeo pontus globo,

Cærulas inter catervas,

Inter et bipedes equos,

[192]

Fudit undantem Dionen

In paternis fluctibus.

Cras amet, qui nunquam amavit;

Quique amavit, cras amet.

Ipsa gemmeis purpurantem

Pingit annum floribus;

Ipsa turgentes mamillas

E Favoni spiritu

Mulget in toros tepentes;

Ipsa roris lucidi,

Noctis aura quem relinquit,

Spargit humentes aquas.

Lacrymæ micant trementes

A caduco pondere:

[193]

Gutta præceps orbe parvo

Sustinet casus suos.

Hinc pudorem florulentæ.

Prodiderunt purpuræ.

Humor ille, quem serenis

Astra rorant noctibus,

Mane virgines papillas

Solvit hærenti peplo:

Ipsa jussit, mane ut udæ

Virgines nubant rosæ

Facta Cypridis cruore,

Atque Amoris osculo,

Facta gemmis, atque flammis,

Atque cotte purpura,

Cras ruborem, qui latebat

Veste tectus, igneum

[194]

Invido, marita, nodo

Non pudebit solvere

Cras amet, qui nunquam amavit;

Quique amavit, cras amet.

Ipsa nymphas Diva luco

Jussit ire myrteo.

It puer comes puellis;

Nec tamen credi potest

Esse Amorem feriatum,

Si sagittas gesserit:

Ite, Nymphæ; ponit arma,

Feriatus est Amor.

Jussus est inermis ire,

Nudus ire jussus est,

[195]

Ne quid arcu, neu sagitta,

Ne quid igne læderet.

Sed tamen, Nimphæ, cavete,

Quod Cupido pulcher est:

Totus est, inermis, idem,

Quando nudus est Amor.

Cras amet, qui nunquam amavit.

Quique amavit, cras amet.

Compari Venus pudore

Mittit ad te virgines;

Una res est, quam rogamus;

Cede, virgo Delia,

[196]

Ut nemus sit incruentum

A ferinis stragibus

Ipsa vellet te rogare,

Si pudicam flecteret;

Ipsa vellet ut venires,

Si deceret virginem.

Jam tribus choros videres

Feriatos noctibus

Congreges inter catervas

Ire per saltus tuos,

Floreas inter coronas,

Myrteas inter casas.

Nec Ceres, nec Bacchus absunt

Nec poetarum Deus.

[197]

Te sinente, tota nox est

Pervigilanda canticis.

Regnet in sylvis Dione:

Cede, virgo Delia.

Cras amet, qui nunquam amavit;

Quique amavit, cras amet.

Jussit Hyblæis tribunal

Stare Diva floribus.

Præses ipsa jura dicet:

Adsidebunt Gratiæ.

Hybla, cunctos mitte flores,

Quidquid annus attulit;

[198]

Hybla, florum rumpe vestem,

Quantus Ennæ campus est.

Ruris hic erunt puellæ,

Et puellæ montium,

Quæque sylvas, quæque lucos,

Quæque fontes incolunt.

Jussit omnes adsidere

Mater alitis Dei,

Jussit et nudo puellas

Nil Amori credere.

Cras amet, qui nunquam amavit;

Quique amavit, cras amet.

[199]

Cras recentibus Venustas

Ridet ipsa floribus;

Cras et is, qui primus Æther

Copulavit nuptias,

Ut paternis recrearet

Vernus annum nubibus,

In sinum, maritus imber;

Fusus almæ conjugis,

Inde vitam mixtus ardet

Ferre magno corpore.

Ipsa, venas atque mentem

Permeante spiritu,

Intus occultis gubernat

Procreatrix viribus;

Perque cœlum, perque terras

Perque pontum subditum,

[200]

Pervium sibi tenorem

Seminali tramite

Imbuit, jussitque mundum

Nosse nascendi vias.

Cras amet, qui nunquam amavit

Quique amavit, cras amet.

Ipsa Trojanos penates

In Latinos transtulit;

Ipsa Laurentem puellam

Conjugem nato dedit,

Moxque Marti dat pudicam

E sacello virginem.

Romuleas ipsa fecit

Cum Sabinis nuptias;

[201]

Unde Rhamnes, et Quirites,

Proque gente postera

Romuli, Patres crearet,

Ac nepotem Cesarem.

Cras amet, qui nunquam amavit;

Quique amavit, cras amet.

Rura fæcundat voluptas;

Rura Venerem sentiunt:

Ipse Amor, puer Diones,

Rure natus dicitur.

Hunc ager, quum parturiret

Illa, suscepit sinu,

Atque florum delicatis

Educavit osculis.

[202]

Cras amet, qui nunquam amavit;

Quique amavit, cras amet.

Quisque cœtus continetur

Conjugali fœdere:

Ecce jam super genistas

Explicant tauri latus:

Propter undas cum maritis

Ecce balantum gregem

Et canoras non tacere

Diva jussit alites:

Jam loquaces ore rauco

Stagna cycni perstrepunt.

Adsonat Terei puella

Subter umbram populi;

[203]

Ut putes motus amoris

Voce dici musica,

Et neges queri sororem

De marito barbaro.

Illa cantat; nec tacerem,

Quando ver venit meum,

Quando feci et ut Chelidon,

Meque Phœbus respicit.

[204]

Perderem Musam tacendo;

Ni tacere desinam:

Sic Amyclas, dum silebant,

Perdidit silentium.

Cras amet, qui nunquam amavit;

Quique amavit, cras amet.

Ovidio, nel quarto libro dei Fasti, forse prima dell’autor del Pervigilium, aveva splendidamente descritte le feste e le veglie di Venere, e data la ragione dell’essersi scelta la primavera a celebrarle. E narra in tal libro come, fra l’altre cerimonie, madri e spose latine traessero al mirteto di Venere, dove sorgeva il simulacro della Dea e quivi sciogliessero [205] dal di lei candido collo il monile d’oro e le gemme e la lavassero interamente, e prosciugata poi di loro mano la riornassero di quelle preziosità e fregiassero di corone; poi dovessero esse medesime lavarsi pure, in memoria di quando la bella Iddia uscita dal mare e ignuda, tergendo gli umidi crini, sorpresa da impura frotta di satiri, ebbe a riparare appunto sotto un bosco di mortella. E il lavacro che tutte le vedeva denudate era presso il tempio della Fortuna Virile, quasi a dire ch’esse le dovesse proteggere dagli sguardi degli uomini e intanto, pur in memoria di quel che Venere bevve, quando fu condotta al marito, bevessero esse bianco latte con pesto papavero e miele; e tutte queste supplicazioni e cerimonie compissero, a renderla propizia, perchè reputassero procedere dalla Dea, bellezza, costume e buon nome:

Supplicibus verbis illa placate; sub illa

Et forma et mores, et bona fama manent[157].

Nè erano le peggiori inverecondie quelle che si commettevano in onore di Venere: i misteri d’Iside ho già detto altrove quanto fossero peggiori ed orribili, e come avessero, per le loro infami oscenità, [206] a provocare ben dieci volte il bando da Roma il culto dell’egizia Dea; nè qui pertanto mi farò a ripetere le stesse cose, rinviando il lettore a quelle pagine[158].

Oltre le feste di Flora e di Pane, di Bacco, di Iside e di Venere, tutte invereconde, celebravansi eziandio le Priapee in onore di Priapo. Sa già il lettore come in Egitto si portasse in processione il phallus, suo primo attributo e distintivo, e i mitologi anzi affermano che Oro colà fosse quanto in Grecia e in Italia Priapo. Se tale l’origine, il suo culto passò quindi in Grecia, dove naturalizzando il dio, lo fecero nativo di Lampsaco, frutto degli adulteri amori di Venere e di Bacco. Grecia ne fe’ dono all’Italia ed ebbe tempio in Roma sul colle Esquilino. Come in Grecia, anche in Roma, gli impotenti mariti faceangli offerte e sagrifici e le donne dissolute tributavangli un particolare culto, nel quale la licenza era spinta all’ultimo eccesso.

Poscia crebbe in venerazione, perchè a questo nume si assegnò la speciale protezione e custodia degli orti e inalberavasi a spauracchio degli uccelli voraci, onde Virgilio il chiamasse custos furum ed avium[159] e fu ben anco tenuto come scongiuro contro le male [207] influenze e detto perciò Fascinus, come già m’avvenne di dire, e così gli emblemi itifallici portati perfin da fanciulli e da donzelle al collo, come farebbesi ora del più innocente gingillo, e publicamente esposti su’ fondaci e botteghe. Si sa inoltre che le nuove spose fossero dal rito obbligate disporsi a cavalcione d’un priapo, di che è memoria in una piccola statua che si conserva in Roma, e forse vi accenna quel grande fallo di bronzo rivestito di lamina d’argento, rinvenuto in Pompei e che si conserva nel gabinetto degli oggetti riservati al Museo Nazionale di Napoli, e il quale è in forma di quadrupede itifallico, avente le sole gambe posteriori, e la coda di cui termina pure in fallo. Esso è cavalcato da una donna. Pendono dalle zampe, affidati a piccole catene, due tintinnabuli quadrati, ed è sospeso ad una catena con anello[160].

Le feste Priapee celebravansi dalle donne soltanto. Un basso rilievo fatto incidere da Boissart, che riproduce la cerimonia, rappresenta la sacerdotessa che asperge la statua del Dio, mentre le altre donne gli presentano canestri di frutta ed anfore di vino. Altre ancora sono in atto di danzare suonando uno strumento molto somigliante ad un cerchio: due suonano [208] la tibia, una tiene il sistro, in che manifesta l’origine egizia; un’altra vestita da Baccante porta sulle sue spalle un fanciullo; altre quattro sono occupate al sagrificio dell’asino che veniagli offerto, questo essendo l’animale appunto odioso al Dio, per avergli co’ suoi ragli più volte turbati i suoi impudici tentativi sulla ninfa Lotide dormiente e sulla Dea Vesta egualmente addormentata. E priapee dicevansi pure certe oscene composizioni fatte in onore del Dio di Lampsaco, che s’appendevano alle statue di lui, per lo più in esse rappresentato sotto la forma di Erme con corna di becco, orecchie di capra e con corona di foglie di vite o d’albero, e collocate ne’ giardini ne’ boschetti e presso le fontane.

Ma se in Roma aveva l’impuro nume culto ed altare, maggiore venerazione otteneva nella Campania. Ercolano e Pompei ne fornirono irrecusabili prove. Io pure ho qualche segno itifallico di quei luoghi: l’opera mia ha già di tali prove più d’una volta tenuto conto al lettore.

Odasi Winkelmann che ne dica:

«Gli amatori e gli intelligenti dell’arte distinguono a Portici (nel Museo), nel numero delle figure, un Priapo che è veramente degno di tutta l’attenzione. Non è egli più lungo di un dito, ma è desso eseguito con tant’arte che si potrebbe riguardarlo come uno studio di notomia, tanto preciso che Michelangelo, per quanto fosse egli gran notomista, [209] nulla di meglio avrebbe potuto eseguire. Sembra che questo Priapo faccia una specie di gesto comune agli italiani, ma affatto ignoto agli stranieri, quindi difficilmente potrò far loro intendere la descrizione che m’accingo a farne. Questa figura tira al basso l’inferiore palpebra coll’indice della destra mano appoggiato all’osso della gota, mentre la testa verso la stessa è inclinata. Convien credere che un tal gesto fosse usato dagli antichi pantomimi e che avesse diversi espressivi significati. Quello che lo faceva stava in silenzio e parea che mediante quel muto linguaggio volesse dire: non fidarti di lui; egli è scaltro e ne sa più di te; oppure: ei crede di prendermi per giuoco: io l’ho colto: o finalmente: tu t’incammini bene! Tu hai trovato pane pei tuoi denti. Colla mano sinistra, la figura medesima fa quello cui gli italiani appellano far castagne, gesto il quale consiste nel collocare il pollice fra l’indice e il dito di mezzo, per far allusione alla fessura che si fa alla scorza delle castagne, prima di arrostirle.

«Nello stesso gabinetto, si vede un Priapo di bronzo, attaccato con una piccola mano facendo il medesimo gesto. Tal sorta di mani frequentemente s’incontrano ne’ gabinetti, e tutti sanno che presso gli antichi tenean luogo di amuleti, oppure, lo che è lo stesso, si portavano siccome preservativi contro gli incantesimi e le cattive occhiate. Per quanto ridicola fosse quella superstiziosa pratica, nulladimeno [210] si è essa conservata sino a’ nostri giorni nel basso popolo del regno di Napoli. Io ho vedute parecchie di queste mani, che alcuni hanno la semplicità di portare appesa al braccio o al petto. Il più di sovente si attaccan eglino al braccio una mezzaluna d’argento chiamata nel loro vernacolo la luna pezziara, vale a dire la luna puntata, e che essi riguardano come un preservativo contro l’epilessia; ma è d’uopo che quella luna sia stata fabbricata coll’elemosina raccolta da quella persona stessa che dee farne uso; e che poscia venga portata a un sacerdote affin ch’egli la benedica. Potrebbe darsi che il gran numero di mezze lune, le quali trovansi nel gabinetto di Portici servissero allo stesso oggetto di superstizione. Gli Ateniesi le portavano al cuojo del tallone della loro calzatura sotto la cavicchia del piede.

«Nel gran numero dei Priapi, alcuni se ne veggono con ali e con campanelli appesi a catene intrecciate, e spesse volte la parte superiore in una groppa di un lione, il quale si gratta colla sinistra zampa, come fanno i piccioni sotto le loro ali, quando sono in amore, e per eccitarsi, da quanto dicasi, al piacere. I campanelli sono di metallo, legati in argento; il loro suono doveva produrre probabilmente un effetto a un di presso somigliante a quello de’ campanelli che veniano posti sugli scudi degli antichi; questi erano per ispirare terrore; [211] quelli avevano per iscopo di allontanare i cattivi geni. I campanelli facean parte eziandio del vestimento di coloro che ai misteri di Bacco erano iniziati.»

Ora, visitando il Museo Nazionale in Napoli, dove tutti gli oggetti più importanti degli scavi, sì d’Ercolano che di Pompei, sono stati diligentemente radunati e si vanno illustrando sotto la direzione dell’illustre Fiorelli, si può visitare il gabinetto dove furono rinchiusi tutti gli oggetti d’arte pornografici, come pitture erotiche, statuette lubriche, emblemi itifallici ed altre congeneri curiosità, ed anzi dagli studiosi, che pur da tutto argomentano per la storia del costume antico, può essere acquistata separatamente presso l’Economo della Amministrazione la Raccolta Pornografica, che forma una sezione del Catalogo del Museo Nazionale.

Mette conto di qui far cenno delle sorti subite dalla Raccolta Pornografica, epperò lascerò che parli il Fiorelli nello speciale proemio mandato innanzi da lui al Catalogo summentovato di essa.

— La Raccolta Pornografica, scrive egli, fondandosi anche su quanto ne scrisse il suo predecessore Marchese Arditi, venne costituita nell’anno 1819, a richiesta di Francesco I, Duca di Calabria, il quale nel visitare il Museo osservò che sarebbe stata cosa ben fatta di chiudere tutti gli oggetti osceni, di qualunque materia essi fossero, in una stanza, alla quale avessero [212] unicamente ingresso le persone di matura età e di conosciuta morale[161]. Essa fu composta di 102 oggetti, ed ebbe nome di Gabinetto degli oggetti osceni, che il 28 agosto 1823 mutò in quello degli oggetti riservati, con l’assoluta inibizione di mostrarsi a chichessia, senza averne prima ottenuto il permesso dal Re. Durò in tal guisa più o meno visibile sino al 1849, quando la ipocrita religiosità degli agenti del Governo provocò ordini severi, onde fossero chiuse e ribadite le porte di quella Raccolta, e tolte dalla vista dei curiosi tutte le Veneri ed altre figure ignude dipinte o scolpite, qualunque ne fosse l’autore.

E questo sacro fervore andò tant’oltre, che nel 1852 il Direttore del Museo, dopo aver trasportati in un antro tutti i monumenti che già avevano formata quella collezione e murata la porta di esso, chiedeva che si distruggesse qualunque esterno indizio della funesta esistenza di quel Gabinetto e se ne disperdesse, per quanto era possibile, la memoria. Nè contento di ciò, nel marzo 1856 espulse dalla Pinacoteca e rinchiuse con triplice e diversa chiave in luogo umido ed oscuro la Danae del Tiziano, la Venere che piange Adone di Paolo Veronese, il cartone di Michelangelo con Venere ed Adone, le Virtù di Annibale Caracci ed altri 29 dipinti, insieme a 22 statue di marmo, [213] giudicate corrompitrici della morale, tra cui la Nereide sul pistrice, che sarebbe stata distrutta, se lo scultore Antonio Calì non si fosse ricusato più volte ad occultare con restauri di marmo le nudità della figura.

Finalmente, il giorno 11 settembre 1860, per ordine del Dittatore, gli oggetti riservati rividero la luce, e si procedette al riscontro dell’antico inventario nel 19 dicembre dello stesso anno. Fu allora che molti se ne rinvennero non descritti, perchè trovati in Pompei posteriormente alla chiusura di quelle sale, e furono aggiunti all’antica collezione, che venne più opportunamente denominata Raccolta Pornografica.

Un accurato esame di tali oggetti avendo dimostrato che non tutti erano veramente osceni, e che molti di essi avrebbero potuto ritornare alle rispettive collezioni senza offendere per nulla il pudore de’ riguardanti, alcuni di questi furono restituiti alle varie classi, onde per tal ragione non fanno più parte del Catalogo pornografico.

Il quale enumera 206 oggetti, divisi in due classi principali: la prima de’ Monumenti greci ed etruschi; la seconda de’ Monumenti romani; suddivisa quest’ultima in varie sezioni: a, dipinture e musaici; b, sculture; c, amuleti; d, utensili: e di tutti questi oggetti descritti dal Fiorelli, ben centocinque furono raccolti dagli scavi di Ercolano e di Pompei. Io mi dispenso [214] dallo scenderne a maggiori particolari e il discreto lettore ne comprenderà di leggieri la ragione.

Faccio ora ritorno al più concreto argomento della prostituzione sacra, per compiere il quale, finalmente debbo dire della festa che si celebrava in onore della Buona Dea, i cui misteri già narrai come fossero stati violati da Publio Clodio introducendovisi sotto spoglie femminili, quando essi celebravansi nell’anno di Roma 678, nella casa sul Palatino di Giulio Cesare pretore. Forse codesta dea rappresentava la terra, la dea Tellure, e quantunque il suo tempio veramente sorgesse tra Aricia e Bovilla, secondo si raccoglie dall’orazione di Cicerone pro Tito Annio Milone, la sua festa avveniva in Roma prima nel dicembre, e dopo la riforma del calendario fatta dallo stesso Giulio Cesare, nel primo di maggio. Si celebrava essa al chiaror delle torce, nella casa de’ primi magistrati, come consoli, pretori, o del primo Pontefice. Non si ammettevano che donne, intervenivano anche le Vestali. Perfino si escludevano gli animali maschi e la cautela d’escluderne il sesso giugneva a tale da velare statue o quadri che avessero alcun maschio rappresentato.

La superstizione insinuava che un uomo che avesse assistito a questi misteri, anche senza intenzione di sorta, sarebbe rimasto cieco; quegli che vi fosse studiosamente penetrato, se patrizio, voleva la legge fosse multato di un quinquennio di carcere mamertino e quindi di perpetuo esiglio; se plebeo, di morte. Clodio [215] provò il contrario rispetto alla cecità, e alla pena seppe sottrarsene per corruttela di giudici.

La narrazione di questo curioso episodio è splendidamente pennelleggiata da quel robusto ed originale ingegno ed amicissimo mio che è Giuseppe Rovani, nella sua dotta, amena e squisitissima opera La Giovinezza di Giulio Cesare, testè uscita per le stampe alla luce a soddisfare la universale legittima aspettazione, e vi rimando il lettore che amasse gustarvi la leggiadria di tutto quanto il racconto: io credo far cosa grata al lettore collo spiccarvi qui almeno quelle eleganti pagine le quali forniscono la descrizione della festa:

«Varcato il pronao e un ampio spazio che divideva l’antico palagio dal nuovo, un lucente vestibolo biancheggiava delle conteste ossa di elefanti indiani; cinque porte rivestite di ebano davano accesso all’aula magna, e su quelle erano intarsiati i dorsi di testuggini eoe, dagli occhi delle quali usciva la verde luce degli smeraldi. Il procinto vi si aggirava dentro un cerchio; a quello facevan corona binate colonne a capitelli d’oro, sulle quali rispianava un dorato architrave che sosteneva tre colonne riproducenti in aria il giro delle sottoposte. Le pareti interne erano di serpentino con intrecci d’armi. Gli onici e le sarde lastricavano il pavimento, nel mezzo del quale sfolgorava un mosaico d’Eraclito, che Cesare aveva fatto trasportar là dai giardini di Servilio. Non [216] v’eran lacunari, ma l’azzurro del cielo e le stelle e la luna mandavano i loro raggi là dentro a mettere gara tra il cielo e la terra.

«Le vestali, siccome voleva il rito, agli ornati architettonici avevano aggiunti a profusione quelli della più fragrante flora romana, con frutti e fiori d’ogni albero, escluso il mirto, siccome quello che pareva interdire i pensieri della castità, chè le donne si preparavano alla festa colle più rigorose astinenze; così almeno era creduto. Le mogli per una settimana s’involavano agli amplessi maritali. Le fidanzate e le fanciulle dovevano affannarsi a liberare la testa e il cuore dai desiderj tentatori.

«Il simulacro della dea sorgeva nel mezzo del recinto. Una ghirlanda di pampini ne cingeva la testa; un serpente era attortigliato intorno a’ suoi piedi. Innanzi alla base del simulacro stava un gran vaso colmo di vino. Quel vino significava la religiosa tradizione, che ricordava essersi la dea ubbriacata, mentre dimorava ancora in terra; onde Fauno l’uccise con un bastone di mirto, facendola degna in così strano modo dei doni immortali della divinità.

«Pure quel vino, che poscia veniva bevuto senza ritegno, chiamavasi latte, a conciliare l’idea dell’astinenza coi protervi effetti che produceva, e Mellario il vaso che lo conteneva, onde è a sospettare che quelle donne stessero innanzi alla dea, velate di devota incontinenza, preparando così la frase al poeta futuro.

[217]

«Quando la vestale damiatrice s’inginocchiò davanti al simulacro, tutte le vestali, candide come cigni depurati dal rio, s’inginocchiarono, e con esse quante matrone e spose e fidanzate e fanciulle eran là convenute. Più presso al semigiro delle vergini sacre stava l’insigne Aurelia, la madre di Cesare, venerata in Roma per l’alto senno e le virtù volute e le consuetudini sante. Aveva raggiunto il nono lustro: pure il freddo raggio lunare, turbato dalla calda luce delle resinose faci, così beneficamente la vestiva, che due lustri parevano scomparsi dal suo nobile volto. Accanto a lei stava genuflessa Pompea, la moglie di Cesare, non amante della suocera, che non amava lei. La beltà tramontante di Aurelia, dall’occhio espanso, lento e solenne, e dai contorni che Tullio chiamò scientifici, e li dicea segnati dal geometra Euclide, faceva contrasto colla diversa severità della olimpica Pompea, severità ostentata per dissimulare le intime accensioni.

«Non lungi da Pompea, vestita come una regina asiatica, coi piropi al collo, alle braccia, ai brevi orecchi, si vedeva Servilia, la moglie del penultimo Bruto, la madre dell’estremo. Peccatrice nata, pure il peccato ella rendea perdonabile coll’intensità dell’affetto concesso ad un uomo solo. Accanto a lei, volgevasi alla dea una giovinetta adolescente della casa Imperiosa. Colla chioma biondissima e l’alba pelle e l’occhio tinto di cielo e lucentissimo per la [218] gagliarda fosforescenza del cervello, sembrava accennasse alle Gallie, alla Bretagna, alla Germania, e invitasse a non ancor noti connubii la cæruleam pubem.

«Ma la damiatrice pronunciò la preghiera, maritandola ad una antichissima cantilena del Lazio:

«Castissima dea, che le assidue ripulse al Fauno procace, a te, ancora terrestre, costaron sangue innocente; onde l’Olimpo ti accolse pietoso nella propria luce, inspira e consiglia e sgomenta il senso delle mortali che qui ti adorano. Rinnovella le virtù prische della neonata Roma, e dalla muliebre purezza sia redento e salvo e fatto glorioso e invitto il popolo romano.»

«Queste ultime parole, affidate alla stessa cantilena, vennero ripetute in coro da quante donne erano là inginocchiate, alcune delle quali si ribellavano all’alto concetto della preghiera.

«Quando tacquero i canti, la damiatrice s’accinse a compiere il sagrificio che chiamavasi Damium, da Damia, altro nome che teneva la dea, donde venne l’appellativo alla sagrificatrice. Questa immolò alcune galline di varii colori, tranne il nero; dopo di che, dodici tra le più giovani vestali, immersero nel Mellario altrettante coppe d’oro, e così colme le recarono in giro. Tutte le donne ne bevettero, e le vergini ivano e redivano colle coppe ognora vuotate e ognora ricolme, continuando in tale servizio, finchè il Mellario rimase esausto. Allora la sagrificatrice [219] esclamò ad alta voce e in lingua greca. Evviva il frutto di Bacco — e tosto cominciarono le danze bacchiche, e alquante donne, tra le più giovani e formose, e indarno devote alla moglie del Fauno, travestitesi in Menadi e Tiadi e Bassaree, le seguaci assidue di Bacco, si sciolsero le chiome, svestirono le stole e i pepli prolissi e apparvero in pelli succinte, scuotendo cimbali e tirsi e spade serpentine. Forse è perciò che agli uomini era interdetta quella solennità sacra, perchè i fumi vinosi esaltando nella danza vorticosa talune di quelle che eran sazie della settimana oziata, le eccitavano ad imitare le ignude baccanti, fors’anche per rivelare alle invide amiche le nascose bellezze»[162].

Ignorasi ciò che veramente accadesse in questi misteri della Bona Dea. Clodio v’andò in tutti i modi sospinto da soli intenti di lussuria, e come che scoperto, si vociasse per Roma, che a tanto avesse trascorso per amor di Pompea, figliuola del magno Pompeo e moglie di Cesare, questi, sebbene nell’orgoglio suo diniegasse la cosa, pur l’addusse a causa di divorzio, con quelle parole, delle quali pur a’ dì nostri si usò tanto ed abusò, che la moglie di Cesare non debba tampoco venir sospettata, adoperandosi per altro alla assoluzione del dissoluto profanatore dei sacri misteri.

[220]

Nell’epoca imperiale, il velame di questi si squarciò, e quali cerimonie si compissero non fu più uomo che ignorasse. Giovenale, l’implacabile poeta satirico, così li rese noti alla posterità:

Nota Bonæ secreta Deæ quam tibia lumbos

Incitat et cornu pariter vinoque feruntur

Attonitæ crinemque rotant ululantque Priapi

Mænades. O quantus tunc illis mentibus ardor

Concubitus! quæ vox saltante libidine! quantus

Ille meri veteris per crura madentia torrens![163]

Lo stesso caustico poeta più giù nella stessa satira constata che l’esempio di Clodio trovò imitatori di poi, nè i misteri della Bona Dea soltanto venissero profanati, ma quelli pure d’altri numi ed ogni altare:

Sed nunc ad quas non Clodius aras?

Audio quid veteres olim moneatis amici:

[221]

Pone seram, cohibe. Sed quis custodiet ipsos

Custodes?[164]

La memoria della festa della Buona Dea dovevasi per tali ragioni e invereconde costumanze nel presente capitolo dell’opera mia menzionare e molto più ancora perchè si sappia che certamente degenerasse sempre più col tempo in licenza ed in abbominazioni; tanto così che il medesimo Giovenale, parlando dei sacerdoti di essa, li avesse a paragonare a quelli di Cotitto, che si celebravano egualmente di nottetempo in Grecia fra le più sconce dissolutezze, onde i Bapti, che così nomavansi i suoi ministri, fossero venuti nel generale disprezzo de’ concittadini, ed Alcibiade che s’era fatto iniziare a’ loro misteri, avesse ad uccidere il poeta comico Eupoli, che di ciò l’aveva canzonato in una sua commedia.

In quel luogo Giovenale accenna che i misteri della Buona Dea si fossero anzi fin da’ suoi giorni così sconvolti, che non più alle donne, ma agli uomini si aprissero solamente.

Accipient te

Paulatim, qui longa domi redimicula sumunt

Frontibus, et toto posuere monilia collo,

[222]

Atque Bonam teneris placant abdomine porcæ,

Et magno cratere Deam. Sed more sinistro

Exagitata procul non intrat fœmina limen.

Solis ara Dea maribus patet. Ite, profanæ!

Clamatur: nullo gemit hic tibicine cornu.

Talia secreta coluerunt orgia tæda

Cecropiam soliti Baptæ lassare Cotytto[165].

Dissi finalmente, nel cominciar a parlare della festa della Buona Dea, non già perchè fosse ultimata la storia della prostituzione sacra in Roma, ma perchè si assomigliassero poi tutti gli altri molti abbominevoli culti che le più abbiette passioni avevano potuto immaginare, ed ai quali piegavano anche quelle matrone romane che pur affettavano schifiltose di non volersi mescere alle orgie di Venere. Cupido, a cagion d’esempio, aveva i suoi riti; li aveva Mutino [223] e Pertunda, Persica e Prema, Volupia e Lubenzia, Tulana e Ticone, ed altri infiniti quanti erano i modi di estrinsecar la lascivia, tutti oscenissimi iddii che si facevano presiedere ad uffici che il pudore vieta di qui spiegare.

Alla prostituzione religiosa, tenne dietro ben presto la legale, per l’affluenza a Roma delle donne forestiere in cerca di fortuna e massime delle auletridi greche condotte schiave; ma le donne che vi si dedicavano erano notate d’infamia. Imperocchè le leggi cercassero sempre di proteggere il costume, tal che le adultere venissero ne’ primi tempi ad essere condotte all’asino, e dopo essere state vittima di questo animale, andassero abbandonate al popolaccio. Ho nel capitolo della Basilica, parlando delle pene dell’adulterio, fatto cenno di quelle specialmente in vigore in Pompei, d’una specie di gogna, cioè, che all’adultera si infliggeva costringendola a percorrere le vie della città a cavalcion d’un asino col dorso volto alla testa e rimanendo così perpetuamente notate di indelebile vitupero. Ma il marchio d’infamia non impedì che ne’ tempi del basso impero femmine libere e di nobile schiatta, si dedicassero alla prostituzione, conseguendo dagli edili il brevetto relativo, che si chiamava licentia stupri, il qual consisteva nel farsi iscrivere nei ruoli meretricii col nome di nascita e con quello che adottavano nell’infame commercio, e che dicevasi nomen [224] lupanarium e tale iscrizione che le assoggettava alla vigilanza dell’edile, implicava tal nota indelebile di infamia, che anco il ritorno alla vita onesta, il matrimonio, o qualunque potere non avevan forza di riabilitarle interamente o di farne cancellare il nome dal libro infame.

Il dichiararsi cortigiana e farsi iscrivere tale nei registri dell’edilità sottraeva l’adultera alle severe pene dell’adulterio, e sotto l’impero — incredibile a dirsi — furon viste figlie e mogli di senatori inscrivervisi sfrontatamente. Le matrone poi per abbandonarsi alla vita dissoluta e sottrarsi al rigore delle leggi, vestivansi da schiave e prostitute, esponendosi a que’ publici oltraggi cui le schiave e le prostitute non avevano dritto a reclamo. Si sa di Messalina moglie di Claudio imperatore, per l’episodio che di sfuggita accennai più sopra, narrato da Giovenale, ch’essa, togliendosi al talamo imperiale, sotto le vesti ed il nome di Licisca, si offerisse nel più lurido lupanare di Roma agli abbracciamenti di schiavi e mulattieri, e così spinse la impudenza nella libidine, che durante un viaggio dell’imbecille marito, immaginò di contrarre publicamente un secondo imeneo con Silio, lo che peraltro costò a quest’ultimo la testa. Nè più savia fu l’altra moglie di Claudio, Urgalanilla; nè migliori erano state quelle altre impudiche imperiali, che furono Giulia, Scribonia e Livia; nè la Ippia, moglie del senatore Vejentone, che abbandonando marito e [225] figli seguì delirante Sergio, il guercio gladiatore, comunque coperto di schifose deformità; nè Domizia, adultera con Paride istrione.

Giovenale, nella succitata Satira sesta, denunzia che non poche mogli di cavalieri, di senatori e di più illustri personaggi si abbandonassero a’ gladiatori ed istrioni, che avevano saputo piacer loro, e nella terza satira accenna alla deplorevole introduzione nelle primarie famiglie de’ frutti di questa infame prostituzione, quando toccando della legge d’Ottone che nell’anfiteatro aveva assegnato i posti alle varie classi di spettatori, grida:

Exeat inquit,

Si pudor est, et de pulvino surgat equestri,

cujus res legi non sufficit; et sedeant hic

Lenonum pueri quocumque in fornice nati.

Hic plaudat nitidi præconis filius, inter

Pinrirapi cultos juvenes, juvenesque lanistæ[166].

[226]

L’adulterio pertanto era divenuto comune, la vera piaga sociale: è ancor Giovenale che la proclama un’antica cancrena:

Antiquum et vetus est alienum, Postume, lectum

Concutere, atque sacri genium contemnere fulcri[167].

Se spurii rampolli si mischiavano così alle famiglie, d’altro maggior disordine erano gli adulterj cagione, negli infanticidi e nelle esposizioni. Tenevan mano agli uni e alle altre le sagæ, venditrici di filtri tessalici e di unguenti afrodisiaci troppo spesso perniciosi. I luoghi che più d’ogni altro vedevano codeste esposizioni erano alla Columna lactaria nel Foro Alitorio, e più ancora sulle rive del Velabro, da dove poi la Fortuna, più mite e compassionevole delle loro madri, vegliando su gli infelici bambini, raccogliendoli, prestavali alle sterili matrone che simular volevano un parto, od a coloro che si volevan di essi giovare ad altri fini inonesti. Non puossi a meno che ricorrere a Giovenale ancora, che ha lasciato della incontinenza di allora la più fedele pittura:

Transeo suppositos, et gaudia vota que sæpe

Ad spurcos decepta lacus, atque inde petitos

[227]

Pontifices Salios, Scaurorum nomina falso

Corpore laturos. Stat fortuna improba noctu,

Arridens nudis infantibus; hos fovet ulnis

Involvitque sinu: domibus tunc porrigit altis,

Secretumque sibi mimum parat: hos amat, his se

Ingerit, ut que suos ridens producit alumnos[168].

Davanti a sì enormi fatti che minacciavan turbare l’ordine sociale, dovevansi le leggi risentire e se più non si tornò alle esorbitanti penalità di un tempo, e che più sopra ho ricordato, della legge Giulia, la Papia Poppea vi provvide nell’anno u. c. 762, emanata nell’occasione che si dovette pensare al modo di accrescere una popolazione che le guerre civili e le sedizioni avevano decimata.

Questa legge prescrisse pene severe contro coloro che si rendevano colpevoli di incesto e di adulterio.

[228]

Come facilmente può essersene accorto il lettore, la prostituzione romana non porse spettacolo di quello spiritualismo, per così dire, che presentò la prostituzione greca. Invano, ho già detto, si cercherebbe nè un’Aspasia, nè una Leena, nè una Cleonice filosofe, nè una Saffo poetessa, nè una Nicarete matematica; invano una bellissima Laide, che per reverenza alla scienza ama e si prostituisce al cinico e sordido Diogene, nè una politica Targelia, nè una buona e virtuosa Bacchide e va dicendo: è appena appena se troverete le famosæ, che per solo il desiderio di pubblicità e fama affettano d’essere amiche di Tibullo, di Orazio, di Catullo, di Properzio e di Ovidio, ai quali saranno, dopo d’averli ben innamorati o spiumati, infedelissime.

Nè per altro tutte costoro appartenevano alla classe volgare delle sciupate, date per lucro alla prostituzione, ma ben anco uscivano da patrizie e rispettate famiglie; epperò i loro appassionati poeti, per una certa reverenza al casato, ne’ loro canti sostituivano ai veri, simulati nomi. Così la Lesbia di Catullo, forse così nomata dal suo Poeta per la particolarità de’ suoi gusti erotici, vuolsi altra non fosse che la Clodia, discendente da una delle più cospicue famiglie di Roma, la Claudia, alla quale appartennero e il tribuno Claudio e Appio il Cieco, che ambo Cicerone circonda di tutta venerazione nella sua arringa Pro Marco Cœlio, per quel giovine Celio, cioè, ch’egli difese [229] calorosamente appunto dalle accuse dategli da Clodia d’averle preso dell’oro e di avere tentato d’avvelenarla, accuse che si conobbero effetto di vendetta per essersi veduta da lui abbandonata. Era ella inoltre sorella di quel Publio Clodio, che più sopra ho ricordato come l’eroe della profanazione de’ misteri della Bona Dea e che fu l’acerrimo nemico del Romano Oratore, e moglie di Quinto Metello, cui Cicerone stesso tributò gli encomj maggiori come chiarissimo, valorosissimo uomo ed amantissimo della patria. Comunque lo sventurato Poeta avesse ogni dì prova delle lascivie di lei, sì che scendesse a commetterle in quadriviis et angiportis[169], com’ei ne scrive al suddetto Celio, e venisse designata coll’infame nomignolo di Quadrantaria, a significare il vil mercato che faceva di sè medesima, non seppe tuttavia levarsene l’amore dal cuore, tanto da morire amandola ancora del più costante amore:

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.

Nescio; sed fieri sentio et excrucior[170].

[230]

Anche la Cinzia di Properzio pretendesi fosse una Ostilia, che si vorrebbe da’ commentatori far discendere da Tullo Ostilio terzo re di Roma, certo da un Ostilio, che dicono erudito scrittore, autore d’una storia della guerra dell’Istria. Ella stessa di maestosa ed elegante statura, di bionda capellatura e di man delicata e aristocratica, come Properzio medesimo la dipinge, era appassionata assai dell’arti belle e più che tutto della poesia, onde a lei pure rendessero omaggio quelli altri esimii che furono Cornelio Gallo, Orazio e Virgilio, i quali a lei leggevano gli immortali loro carmi e ne chiedevano il suffragio. Tuttociò non impedì che la leggiadra e capricciosa Cinzia, per recarsi a’ notturni convegni col suo Poeta, si calasse giù poco maestosamente da’ balconi della propria abitazione[171]; non impedì che gli facesse infedeltà frequenti [231] e che traesse in casto Isidis, agli esercizi non sempre spirituali, soventissime volte pretesto ad orgie oscenissime; onde Properzio a quest’anniversario Isiaco avesse ben ragione d’imprecare e maledire, come già ne appresi al lettore nel metterlo a parte de’ misteri di quella Dea nel capitolo de’ Templi.

L’episodio tuttavia della gelosia di Cinzia verso Properzio, quale è da quest’ultimo descritto nell’elegia ottava del Lib. IV, allorchè ella il sorprende alle Esquilie colle cortigiane Fillide e Teja in mezzo alle coppe del vin di Lesbo, è tal gustosissimo quadretto di genere, che mette conto di riferirlo, riducendolo dallo splendido verso originale all’umile mia prosa.

Cinzia, nell’occasione che a Lanuvio, antico municipio del Lazio tra Riccia e Velletri, ove esisteva un santuario singolare pel culto di un drago, che poteva essere per avventura il Genio del luogo, si celebrava la festa del drago stesso e ad un tempo quella di Giunone Sospita, ossia della salute, tratta in un carpento d’un suo vagheggino da due gallici corridori bai, volle pure recarvisi. Ella medesima guidava i cavalli e via trapassando per chiassi impuri, la gentaglia che si trovava in una bettola sul suo passaggio, ne fece argomento di discorso e tale come ben si meritava. Quindi i parlari e gli alterchi sulla bellezza, sull’età, sui costumi di lei, sull’oggetto della sua gita, e tuttociò alle spalle del suo [232] povero amatore. Properzio, a vendicarsi di cotale perfidia, volle renderle pan per focaccia e invitate seco certa Fillide, che abitava presso il tempio di Diana Aventina e cui i fumi del vino crescevano vaghezza,

Sobria grata parum; quum bibit omne decet[172],

e certa Teja, che dimorava nel boschetto Tarpeo e che ne’ bagordi avrebbe sfidato il più fiero bevitore,

Candida; sed potæ non satis unus erat[173],

si pose con esse sul letto tricliniare a mensa, serviti dallo schiavo Ligdamo di vino di Metimno, e facendo accompagnar l’orgia dai suoni della tibia e dal tamburello, suonata la prima da garzone egizio, il secondo da donzella di File, isola tra l’Egitto e l’Etiopia. Non mancava nell’intermezzo il nano buffone co’ suoi lazzi, colle sue capriole e colle castagnette che scuoteva.

Ma la lampada non dava la fiamma vivace, la tavola cadde, e quando si pose a giuocar coi dadi, sempre gli usciva il cane, cioè il punto più disgraziato: indizii tutti codesti di non lieto augurio.

Intanto le baldracche, eccitate dal vino, cantavano [233] alla distesa e si scoprivano il petto lascivamente a provocare il Poeta; ma Properzio, sempre il pensiero alla sua Cinzia, non curante di esse, viaggiava col cuore a Lanuvio.

Quand’ecco, stridono i cardini della porta, s’ode un parapiglia, è Cinzia, ella stessa che rovescia l’uscio, furibonda si scaglia in mezzo all’orgia, e primieramente caccia le unghie in faccia a Fille. Teja non attende che la tempesta si scaraventi pur su di lei, si precipita a fuga gridando acqua, quasi si trattasse d’incendio, ed a Properzio, che attonito aveva lasciato cader tosto la tazza colma, Cinzia fa sfregio al volto colle mani, addenta e sanguina il collo e più specialmente, come quelli che sieno i più rei, cerca offendergli gli occhi. Quindi fa sbucar dal letto, dove disotto s’era accovacciato, Ligdamo lo schiavo, gli strappa di dosso gli abiti e chi sa cosa gli stava per toccare, se il Poeta supplichevole non ne avesse frenata la furia. Cinzia allora porge a Properzio, in segno di perdono, a toccare il piede; ma detta al tempo stesso le seguenti condizioni di pace:

Tu neque Pompeja spatiabere cultus in umbra,

Nec quum lascivum sternet arena forum.

Colla cave infectus ad summum obliqua theatrum,

Aut lectica tuæ sidat operta moræ.

[234]

Ligdamus in primis omnis mihi causa querelæ

Veneat et pedibus vincula bina trahat[174].

Properzio sottoscrive alle condizioni, Cinzia sorride della vittoria, quindi fa dappertutto fumigazioni, quasi a cacciare ogni miasma lasciato dalle partite meretrici, solfora i panni del Poeta, poi tre volte descrive un cerchio intorno al capo di lui coll’acceso zolfo, e quando la purificazione è compiuta, suggella seco lui la pace.

Dopo tutto, ella lo amava profondamente: fu vista dopo una lunga malattia di lui, prosternata al piè degli altari, propiziar Iside e ringraziarla della riavuta salute del suo fedele.

Ma Cinzia, la gentile amante ed ispiratrice di Properzio, [235] nel fior dell’età moriva, avvelenata da Nomade, laida cortigiana, per non so quale affronto ricevuto, e lui non presente: egli ne fu inconsolabile, ne onorò con dolenti elegie la memoria, sparse di fiori la sua tomba, anche quando altri per tema di possenti vendette non l’osava, e di poco le sopravvisse.

Anche la Delia di Tibullo, vuole Apulejo che velasse il proprio nome di Plania, la quale varii commentatori additano come un’illustre patrizia romana, mentre altri la vorrebbero semplicemente liberta. Vogliono pure che una sola fosse quella che il Poeta nominò nelle sue elegie come Delia, come Nemesi, come Neera, come Sulpicia e come Glicera. Che se fossero invece tante distinte amanti, avremmo allora la prova della sua incostanza.

Preferisco credere al sentimentalismo delle sue elegie e ritenere che la sua Delia gli abbia veramente tutto rapito ed occupato il cuore, come la Lesbia tenne quello di Catullo e Cinzia quello di Properzio.

Se non che, se la Sulpicia fu amante di Tibullo, se non forma che una sola persona colla Delia, non sarebbe più la patrizia Plania, come vorrebbe Apulejo, ma la figliuola di Servio Sulpicio, uno de’ più grandi personaggi della sua epoca, e la quale peraltro si sa non arrossisse di dire essere stanca di comporre il suo volto per la cura del suo buon nome.

I rigori poi di Glicera, di cui si lagna il Poeta, [236] potevano essere causati da quel suo decadimento di forze fisiche, le quali prima, per testimonianza di Orazio, interamente possedeva, congiunte alla bellezza, alla grazia, alla nobiltà dell’animo ed all’abbondanza dei beni di fortuna; e forse trovavano altresì la loro ragione d’essere nella dissipazione di questi ultimi, che l’avevan ridotto, se non all’indigenza, certo alla povertà; e queste famosæ avevan davvero animo di dar fondo a ben più che un ricco patrimonio.

Vengo ora al poeta maestro in amore, al cantor delle Eroidi e delle Metamorfosi, del Rimedio d’Amore e del Liscio.

Non è dato scoprire chi si celasse sotto il nome della Corinna di Ovidio. Aveva ella marito, ma ciò, stando al Poeta, nulla ostava a’ suoi amori con lei, s’egli lo chiama lenone marito. Ovidio la canta e fervidamente mostra di amarla; ma ella non è più pudica delle altre sue pari, nè più fedele; ond’egli, soventi volte posposto ad altri, passava le notti davanti la porta di lei, quando pure non lasciavasi consolare dalla bella Cipassi. Ma finalmente gli amici suoi, ponendogli sotto gli occhi la impudente prostituzione di Corinna, ch’egli aveva continuato a immortalar ne’ suoi versi, non impedito dall’affetto casalingo per la moglie, casto e freddo così da non esserne seguitato nell’esiglio del Ponto, — ne lo distolsero, ma fu grande cordoglio pel suo cuore, perchè [237] egli avevala fortemente amata; onde il Petrarca nel Trionfo dell’Amore, potesse Ovidio mettere così giustamente insieme agli altri tre poeti, degli amori dei quali ho testè narrato:

L’uno era Ovidio, e l’altro era Catullo,

L’altro Properzio, che d’amor cantaro

Fervidamente, e l’altro era Tibullo.

E buttossi allora ad altri e più volgari amori, senza che per altro ne impegnasse seriamente il cuore. Scrisse sulle ginocchia di queste figlie del piacere quel codice di voluttà, che intitolò Artis Amatoria, ma eran lascivie estranee al sentimento; perocchè ai teneri amori avesse, come dissi, veramente detto addio per sempre e chiusa la carriera di essi, dicendo:

Quære novum vatem, tenerorum mater amorum[176].

D’un suo episodio giudiziario d’amore avanti ai Treviri, e del quale fu egli per avventura il protagonista, ho già informato chi legge, recando nel capitolo della Basilica i suoi versi medesimi che lo descrivono e sono altresì prezioso documento di storica giurisprudenza.

[238]

Taluni attribuirono ad Ovidio un altro amore, e più illustre, cagione del suo esiglio a Tomi nel Ponto Eusino, da dove invano ebbe a supplicare tanto da Augusto che da Tiberio, d’essere richiamato, e lo dedussero da’ seguenti versi della Elegia I. del libro II. dei Tristi:

Cur aliquid vidi? cur noxia lumina feci?

Cur imprudenti cognita culpa mihi?

Impius Actaeon vidit sine veste Dianam,

Præda fuit canibus non minus ille suis[177].

Voltaire istesso si lasciò andare per ciò a questa sua conghiettura: «Il poeta acceso di segreta fiamma per la moglie di Augusto, ebbe la sventura di vederla nel bagno e ciò indusse il geloso marito a relegare a Tomi l’indiscreto osservatore de’ fatti altrui.» Ma Voltaire, osserva a tale proposito Ermolao Federico[178], dimentica al certo che la bella Livia quando lasciavasi così incautamente sorprendere dal novello Atteone, era madre di un figliuolino di anni cinquanta.

Meglio è avessero essi avuto di mira gli altri versi [239] di Ovidio nella Elegia V, lib. III dei medesimi Tristi:

Inscia quod crimen viderunt lumina plector

Peccatumque oculos est habuisse meum[179]

e l’altro:

Perdiderint cum me duo crimina: carmina et error[180],

ed altri ancora, e l’Ermolao che vagliò a fondo la questione, così stabilisce nel modo che segue i fatti, che io pure riferendo, credo illustrare ognor più le nozioni storiche della prostituzione.

Il giovane Postumo Agrippa, nipote di Augusto, era stato in pena delle sue stramberie relegato verso la fine dell’anno di Roma 761 dall’avo in Sorrento. Giulia, sorella di lui, giovane donna al pari della madre di coltissimo ingegno e di questa al pari sfrenatissima ne’ costumi, veniva pure pei molteplici adulterii esiliata da Augusto nell’isola di Tremiti dapprima e poscia sul continente. Arbitra dunque la moglie di Paolo Emilio delle proprie azioni, non ci meraviglia che le prendesse desiderio di visitare in Sorrento il giovane fratello, che forse da due anni ella non aveva veduto.

[240]

E non ripugna alla ragione, scrive l’Ermolao Federico, che a quella visita il vecchio Augusto consigliasse la nipote, acciocch’ella potesse conoscere l’indole feroce del giovinetto; o per lo meno vi acconsentisse. Comunque ciò fosse, non poteva al certo quel divisamento rimanere ascoso alla Livia, alla quale stava troppo a cuore tuttociò che riguardava il giovane Agrippa, che quantunque allora in disgrazia dell’avo, pure era il solo che avesse potuto contrastare al suo diletto Tiberio la successione al trono imperiale. Nè credette forse opportuno di porre impedimento a quella visita, sperando anzi che dalla unione di quei due capi sventati fosse per uscirne un qualche grave disordine favorevole a’ suoi disegni: riserbandosi però l’usato diritto di spiarne tutte le mosse attentamente.

Essendo Ovidio familiarissimo della giovane Giulia, come può credersi di uomo famoso per le opere del poetico ingegno e per la gentilezza de’ costumi, e che trovavasi allora in età abbastanza avanzata per poter esser considerato quasi a lei padre, non è maraviglia ch’ella il prendesse a compagno in quel viaggio, proponendosi forse nel suo bizzarro pensiero che l’animo rozzo e brutale del giovane relegato potesse inclinare a gentilezza, udendo forse per la prima volta la dolcezza dei versi di quel provetto maestro dei teneri amori. Il giovane prigioniero, annoiato dalla lunga solitudine, accoglie lietamente gli [241] ospiti amabili. Siedono a lauta mensa in numero non maggiore delle Grazie ed allontanata l’incomoda turba di servi, il precettore degli amori viene eccitato dalla Giulia a recitare innanzi al rustico giovinetto quei versi che gli procacciarono tanta fama presso al gentil mondo romano. In mezzo agli spumanti bicchieri, il poeta s’abbandona liberamente a tutte le ispirazioni della Sotadica musa[181]. Gode la Giulia di osservare il rustico fratello commoversi ad amabili sensazioni, e non che reprimerle, le fomenta. Troppo tardi il poeta s’accorge del periglioso effetto de’ suoi versi, imperciocchè gli sfrenati giovani tra le fiamme di Venere e di Bacco, spinti inoltre dalla pravità dell’indole loro, non rispettano la presenza del vecchio cantore per differire ad altro momento lo sfogo de’ loro infami desiderj.

Questo fu il delitto al qual Ovidio trovossi mal suo [242] grado testimonio, e del quale a lui ripugnò farsi per avventura ad Augusto delatore.

Le tante ragioni che rendono probabile questa essere stata la causa della sua disgrazia chi vuol conoscere parte a parte, vegga i suddetti discorsi di Ermolao Federico, che l’Antonelli di Venezia mandò inanzi alla sua edizione dei volgarizzamenti dei poemi d’Ovidio col testo a fronte.

Progredendo a dire delle famosæ de’ poeti, non lascerò senza menzione la Citeride di Cornelio Gallo, figliuola forse di quella Citeride che amò Giulio Cesare, e alle libere comessazioni della quale non isdegnò il grave Marco Tullio Cicerone di intervenire conviva, e che Gallo cantò sotto il nome di Licori, perocchè omai uopo sia riconoscere che fosse un vezzo di sostituire ai veri, nomi supposti ne’ carmi che dovevano correre per le mani del pubblico. Ma eguale sventura che agli altri poeti, toccò in amore anche a Gallo. Reduce dalla guerra coi Parti e ferito, non trovò più fedele la sua Licori, ch’egli aveva sì amorosamente cantato: onde cercò allora altri affetti nelle due sorelle Genzia e Cloe, poi nella giovinetta Lidia leggiadra e ingenua; ma per quanto si studiasse di esaltarne i pregi, mai i nuovi amori non raggiunsero la forza del primo, fenomeno consueto in codesta passione, che ricusa ogni logica di ragionamento. È un vero peccato che il poema in quattro canti sugli amori per Licori non sia giunto infino a noi, se veramente [243] ha meritato che Quintiliano ne paragonasse l’autore a Tibullo, a Properzio ed Ovidio e del suo vivente godesse dell’universale rinomanza come degno di star fra costoro. Anche le poche poesie che a lui sono attribuite, son soggetto di molte controversie tra i filologi, e la parte che gli è attribuita con meno di inverosimiglianza consiste in una elegia, della quale parecchi versi sono per soprammercato taluni incompiuti e taluni distrutti ed in tre soli epigrammi.

Le Delie, le Lesbie, le Neere, le Corinne, le Cinzie e le Lidie se ispirarono canti leggiadri a’ loro poeti amanti, strapparono altresì da essi imprecazioni e maledizioni, che ci sono pervenute del pari ne’ loro mirabili versi.

Accennai delle infedeltà di Lesbia a Catullo: l’infelice poeta invocava dagli Dei d’essere liberato da questo amore che chiamava la sua peste, perocchè tanto più sentiva d’amarla, quanto meno sentiva di stimarla:

Nulla potest mulier tantum se dicere amatam

Vere, quantum a me, Lesbia, amata mea es.

Nulla fides ullo fuit umquam fœdere tanta,

Quanta in amore tuo ex parte reperta mea est.

Nunc est mens adducta tua, mea Lesbia, culpa,

Atque ita se officio perdidit ipsa pio;

[244]

Ut jam nec bene velle queam tibi, si optima fias,

Nec desistere amare, omnia si facias[182].

La Cinzia, tuttochè la provai gelosa e colta e stimata da Properzio non solo, ma pur dagli altri illustri di allora; non ne procacciò meno colle sue incostanze gli sdegni, e senza dir delle altre elegie, nelle quali sfoga i suoi risentimenti contro di lei, leggasi l’elegia XXV del Lib. III, che altro non è che un addio di maledizione ch’egli le manda per averlo reso la favola di tutti.

Bastino al mio proposito questi versi:

Risus eram positis inter convivia mensis

Et de me poterat quilibet esse loquax[183].

Delle querimonie per i rigori di Delia e di Glicera e di Nemesi son piene le elegie di Tibullo; e [245] quelle di Cornelio Gallo per l’infedeltà della Licori, e in difetto del suo poema, che perì come dissi, dobbiamo starcene alle allegazioni di Donato biografo di Virgilio, di Servio scoliaste di Virgilio stesso e di Quintiliano.

Ma chi più di tutti lasciò imperituri monumenti d’ira e di maledizione per le amanti sue, è Orazio Flacco, il più epicureo de’ poeti latini, ma in ricambio principe della lirica della sua lingua.

Se non che Orazio, che aveva detto amare la facile Venere e le cortigiane più alla mano e sguaiate:

. . . . namque parabilem amo Venerem facilemque

Illam, post paulo, sed pluris, si exierit vir[184],

parmi avrebbe perciò appunto dovuto essere più ragionevole e attendersi queste infedeltà ed epicureo com’era, volando da questa a quella simpatia, appare assurdo che pretender volesse da quelle donne costanza negli amori.

Seguendo i suoi carmi, si può ritessere la storia della sua vita voluttuosa ed erotica. La prima che [246] si affacci è Neera, che tenne per oltre un anno, ed era valente cantatrice. Povero scriba e non anco famoso per le sue poesie e non ancora protetto da Mecenate discendente da atavi regi, nè però avendo di che pagarla, tornava assai difficile legarla a sè con vincolo di costanza e da lei abbandonato per correre agli amplessi di più facoltoso, si fa di necessità virtù e se ne ricatta predicando egual sorte al proprio successore.

Cominciando poi a farsi conoscere letterariamente, gli avvenne di stringere conoscenza con una illustre patrizia, della quale non si sa il nome, ma pare che putisse alquanto di poesia come di dissolutezza. Costei seppe accalappiarlo e l’ebbe alcun tempo nella sua soggezione, finchè egli seppe scuoterne il giogo e quand’ella a ricuperarlo si faceva a ingiuriare la nuova amante di lui, questi allora ne rintuzzò gli strali co’ più sanguinosi epigrammi.

Poi è alla buona Cinara che volge il suo cuore e di lei si rammenta anche quando le brine dell’età presero a imbiancarle il capo. Ma egli l’abbandonava per cedere agli artifici di Gratidia, bella, ma vile profumatrice e saga, che spacciava filtri afrodisiaci ed esercitava magia, ma che però non seppe valersene tanto da rattenerlo a lungo. Egli anzi, per sottrarsi a tutti i suoi maleficj, la designò a comune disprezzo, rivelandone co’ suoi terribili versi le esecrabili pratiche libidinose all’Esquilino, e le turpitudini [247] tutte sotto il nome di Canidia, che quind’innanzi per lui passò nel volgare linguaggio come sinonimo di avvelenatrice, accusandola perfino che a’ suoi nemici ella cercasse propinare veleno, del quale egli, che le si era nimicissimo dichiarato, non ne morì per altro:

Canidia, Albuti, quibus est inimica, venenum[185].

La dipintura ch’egli ne fa nella Satira VIII, lib. I è orribile: sarebbe troppo lungo il riferirla.

Ebbe di poi Inachia, quindi Lice tirrena, che molto amò e alla porta della quale, facile per tutti, rigorosa a lui, sollecitò lungo tempo i favori e sembra inutilmente; ma dopo alcun tempo, venuta meno la di lei bellezza, prese a vituperarla. Sfiorò appena l’amore di Pirra, senza neppure commoversi nel sorprenderla in braccio ad altro giovane amatore. Delirò poi per la giovinetta Lalage, liberta e amante del suo amico Aristio Fusco; poscia per Giulia Varina, liberta della famiglia Giulia e che cantò sotto il nome di Barina.

Dichiarò a Tindaride cantatrice vaghissima la sua passione e le profferse il suo cuore; ma la madre di lei, amica di Gratidia, volle sconsigliarla dall’accoglierlo, [248] come quegli che sì indegnamente avesse trattato coll’amica sua, esponendola alla universale abominazione: onde il poeta pensò ammansar la ritrosa, esaltandone la bellissima madre e riuscì.

Dalla vezzosa Tindaride passò a Lidia che gli fu resa più appetibile dalla concorrenza di Telefo, a cacciarle il quale dal cuore, non valsero consigli e carmi; che anzi conseguì contrario effetto, perchè fu messo alla porta. Non si diè ciò malgrado per vinto ancora e curato che Telefo fosse alla sua volta scalzato da Calaide, ritornò a lei e seguì infatti la riconciliazione. L’interregno non lo aveva tuttavia tenuto inoperoso; esercitò gli affetti con Mirtale liberta, indi con Cloe, la bella schiava di Tracia.

Ma Lidia tornò a Calaide e Orazio a Cloe, che presto abbandonò per Fillide liberta di Santia, e questa pure per la Glicera, ch’era stata, come vedemmo, di Tibullo. Ed ammalò anzi per lei per irritabilità di nervi e a lei sagrificò parecchie delle passate amanti, vituperandole ne’ suoi versi, giusta il suo mal vezzo, spesso diviso dal genus irritabile vatum[186], lo che non impedì che venisse dall’attempata cortigiana un bel dì congedato.

Volle ritornare a Cloe, ma ne fu dispettato, perocchè ella si fosse invaghita di Gige, che alla sua [249] volta correva presso di Asteria, e Orazio, a vendicarsi del rifiuto, incoraggiava co’ suoi carmi gli amori di Gige ed Asteria.

Si volse allora a Lida, auletride, ma l’amore che li stringe qualche tempo risente dell’età, la qual più si piace dell’orgia che non del tenero sentimento, e con questa passione tutt’altro che gentile chiuse l’immortale poeta degli Epodi e delle Satire la poco dicevole carriera de’ suoi amori libertini.

Più inanzi dirò di altri più depravati gusti di Orazio, ch’ei divideva d’altronde coll’età ed anche cogli altri poeti più teneri e sentimentali, come quelli che prima di lui ho ricordato; con ciò vedendosi come al libertinaggio del tempo, in essi si congiungesse quello di una più ardente fantasia.

Dovendomi ora arrestare in questo storico compendio della romana prostituzione a dire degli uomini e delle cose infino all’epoca della catastrofe pompejana, con che per altro ritraesi più che abbastanza per fornirne quasi completo il quadro, tutto il restante non essendo che varianti di epoca e di nomi, non mi posso dispensare dall’accennare a Petronio Arbitro, ed a Marziale, del Satyricon del primo e degli Epigrammi del secondo già m’occorse di allegare in quest’opera l’autorità, da che que’ due volumi costituiscano, colle storie di Tacito e di Svetonio, i documenti più autentici e irrecusabili della romana dissolutezza al tempo dell’impero.

[250]

Sa già il lettore essere il Satyricon di Tito Petronio Arbitro un romanzo, o dipintura dei tempi e de’ costumi della Roma dell’impero, e l’universale consenso de’ commentatori ed interpreti ha determinato, sulla fede di Tacito, che Nerone ne sia il protagonista sotto il nome di Trimalcione, uomo estremamente appassionato d’ogni sorta di voluttà e fornito di vivacità e di cognizioni confusamente ammassate. Avendo Petronio avuto il sopranome di Arbitro, perchè fosse a comune notizia esser egli il direttore de’ piaceri del Principe, può farsi agevolmente ragione ognuno se viva e verace dovesse riuscire la descrizione ch’egli ha fatto di essi.

Marco Valerio Marziale venuto verso l’anno 40 dell’era volgare dalla nativa sua Bilbili — piccola città della Spagna nel regno d’Aragona e poco lungi dalla moderna Calatayud — a Roma, ebbe eziandio forse nella sua concittadina Marcella, della quale celebra l’ingegno, le grazie e la gentilezza nell’Epigramma 21 del lib. XII, la sua famosa, se pure ella non fosse, come opinò lo Scaligero, la moglie sua. Ma di questa Marcella non sappiamo di più dalle indiscrezioni del poeta, all’infuori che nella villa di lei egli andasse a passare gli ultimi suoi anni. Della moglie poi che realmente egli ebbe, se in più d’un epigramma ne parlò, e se Domiziano gli ebbe a concedere in mercede de’ suoi poetici studi il così detto diritto dei tre figli, il che implicava la concessione di diversi privilegi, [251] come già ebbi ad esporre nel capitolo antecedente delle Case, trattando della famiglia, ed egli, il poeta, togliesse da ciò pretesto per congedarla:

Natorum mihi jus trium roganti

Musarum pretium dedit mearum,

Solus qui poterat: valebis uxor:

Non debet domini perire munus[187].

Il volume degli Epigrammi di Marziale ribocca di oscenità, quantunque non lo disdegnassero perfino le matrone padovane, che andavano celebrate per castigatezza di morale, e così aperte e senza velo esse sono, che il Pontano ebbe ragione di dire che taluni epigrammi sono tanto impudenti e inverecondi, che neppure sveglino concupiscenza. Avviene infatti lo stesso delle pitture e delle statue, che meno impudiche appajono quando rappresentino senza adombramento di sorta il nudo, mentre, pel contrario eccitino vieppiù a lascivia, se qualche parte appena della figura sia dall’artefice lasciata ignuda.

Nondimeno, ripeto, in questi brevi componimenti sono ricordate tutte le forme di libidini famigliari a quel tempo depravato, e l’italiano traduttore [252] infatti, — il cavaliere P. Magenta — pel maggior pudore della lingua nostra, com’egli avvisa, dovette omettere espressioni od usare circolocuzioni, o sostituirvi anche sentimenti proprii, a palliare l’osceno.

Aveva allora veramente ragione Turno, il poeta satirico del tempo di Marziale, quando lamentava nel suo poema In Musas infames (del quale non abbiamo sventuratamente che un frammento), che la poesia e i poeti contribuissero a tutta questa depravazione, rilegando le vergini muse al Lupanare. Sola reliquia e di breve proporzione di quel disdegnoso poeta, stimo riesca gradito al lettore il presentargliene il testo e in nota l’intero volgarizzamento, da me stesso espressamente condotto. È d’altronde così strettamente connesso al tema che svolgo nel presente capitolo, che parmi vi abbia tutta l’opportunità.

IN MUSAS INFAMES[188].

Ergo famem miseram, aut epulis infusa venena

Et populum exsanguem, pinguesque in funus amicos,

Et molle imperii senium sub nomine pacis,

[253]

Et quodcunque illis nunc aurea dicitur ætas,

Marmoreæque canent lacrymosa incendia Romæ,

Ut formosum aliquid, nigræ et solatia noctis.

[254]

Ergo re bene gesta, et leto matris ovantem,

Maternisque canent cupidum concurrere Diris,

Et Diras alias opponere, et anguibus angues,

Atque novos gladios, pejusque ostendere letum!

Sæva canent, obscena canent, fœdosque hymenæos

Uxoris pueri, Veneris monumenta nefandæ!

Nec Musas cecinisse pudet, nec nominis olim

Virginei, famæquæ juvat meminisse prioris.

Ah! pudor exstinctus, doctæque infamia turbæ.

[255]

Sub titulo prostant: et quis genus ab Jove summo.

Res hominum supra evectæ, et nullius egentes,

Asse merent vili, ac sancto se corpore fœdant.

Scilicet aut Menæ faciles parere superbo,

Aut nutu Polycleti, et parca laude beatæ;

Usque adeo maculas ardent in fronte recentes,

Hesternique Getæ vincla et vestigia flagri.

Quin etiam patrem oblitæ et cognata deorum

Numina, ed antiquum castæ pietatis honorem.

[256]

Proh! Furias et monstra colunt, impuraque turpis

Facta vocant Titii mandata, et quidquid Olympi est

Transcripsere Erebo. Jamque impia ponere templa,

Sacrilegasque audent aras, cœloque repulsos

Quondam Terrigenas superis imponere regnis,

Qualicet, et stolido verbis illuditur orbi.

Nè solo Turno alzava la poderosa voce a stimmatizzare quel tempo: perocchè non meno terribile scagliasse il giambo d’Archiloco il severo Giovenale, del quale ben disse il Nisard che basterebbe con Tacito alla completa storia del costume d’allora. Tutte le satire da lui lasciate e massime la prima, la sesta e la nona rimarranno monumenti più durevoli del bronzo della infame prostituzione dell’epoca. Le altre pingono e stigmatizzano altre piaghe non meno deplorevoli, altri uomini non meno ributtanti; e sa il lettore [257] quante volte dovessi ricorrere alle citazioni di questo poeta per aggiungere autorità e fede a cose che altrimenti sarebbero sembrate incredibili. Svetonio, nella vita dei Cesari, la Storia Augusta e la Vita d’Eliogabalo lasciata da Lampridio, forniscono solo diversi osceni particolari, il parossismo della depravazione spinta alla demenza: il fondo rimanendo pur sempre lo stesso.

L’austerità nondimeno di Giovenale mal saprebbesi conciliare coll’impudicizia di Marziale, entrambi essendo da franca amicizia legati. Il poeta epigrammatico con alcuni versi gli accompagna il dono delle noci ch’ei chiama saturnalizie[195]; con altri diretti ad un Maledico si scaglia contro costui, perchè avesse tentato mettere discordia fra lui e l’amico suo Giovenale[196]; e con altri finalmente gli descrive la vita che conduce a Bilbili[197]; lo che dimostra come col satirico poeta avesse fino agli ultimi giorni conservata l’amicizia. — Or come va che lo sboccato poeta degli epigrammi, che non conosce pudore di concetti e di parole, s’accordasse col poeta delle satire, che denunziava terribilmente alla posterità le infamie e le lussurie de’ suoi tempi? Nisard vorrebbe tutto ciò spiegare dicendo: non essere vero che la satira sia [258] sempre la espressione fedele del carattere dell’autore, nè che a prima giunta scuoprasi l’uomo sotto il poeta; che in Giovenale la indignazione venga piuttosto dall’intelletto che dal cuore, e il fondamento della sua filosofia sia la noncuranza professata da Orazio, con un’anima più superba e forse con più pratica onestà[198]. Nell’ultimo epigramma succitato di Marziale diretto a Giovenale, come ne’ due precedenti, vi sono infatti imagini oscene, ciò che prova sempre più che i due poeti furono buonissimi amici, e che Giovenale non era così rigido nel conversare come si mostra ne’ suoi libri. Egli non si faceva scrupolo poi di frequentare il rumoroso rione della Suburra, dove dimoravano le cortigiane, nè di stancarsi sul grande e piccolo Celio a far la corte ai grandi, nè farsi vento alla faccia col panno della sua toga sulla soglia dei loro palazzi, come dice ancora il suo amico Marziale. Ed io v’aggiungo: che per quanto potesse essere stato castigato il costume di Giovenale, pur tuttavia, essendo di depravazione così costituita e satura quell’epoca e per così dire l’aria perfino, che dovesse riuscire affatto impossibile ad individuo qualunque il non parteciparvi in qualche porzione. Catone, il severo e rigido Catone, sebben di qualche generazione [259] antecedente, e quindi di secolo non così corrotto come quello di Domiziano e de’ suoi successori, quante colpe e peccati non avrebbe a confessare! Ma eran colpe e peccati più del tempo che non dell’uomo.

Non entrerò poi qui in maggiori particolari della satira di Giovenale, perocchè dai frequenti brani che ne son venuto citando in questo capitolo ed anche altrove, il lettore ne sa già le cose più saglienti che han tratto al tema della prostituzione e de’ lupanari, e mi prema d’altronde di procedere più spedito in questa rapida rassegna delle antiche vergogne.

Sembrerà incredibile questo quadro che io sono venuto abbozzando della dissolutezza di quell’epoca; ma pur troppo io vi tolsi anzi che aggiungervi; perocchè se la riverenza verso il lettore non mi frenasse, assai e assai più dovrei dire. Era infatti così generale la scostumatezza, che la prostituzione si esercitasse sfrontatamente sulle pubbliche vie, e tanto anzi fosse entrata negli usi comuni e tutto respirasse, come dissi, prostituzione, che allora più non se ne facesse gran caso.

L’invito alla lussuria era pubblicamente fatto più con gesti che con parole. Ovidio, nel poema De Arte Amandi, che pare scritto sotto dettatura della più raffinata cortigiana, chiama questo infame linguaggio furtivæ notæ, e Tibullo dell’abilità in esso concede il vanto alla sua Delia:

[260]

Blandaque compositis abdere verba notis[199].

Ed anzi vuolsi citare al proposito di questo muto e inverecondo linguaggio, che anche i più licenziosi usassero del gesto assai più che della parola ad esprimere un lussurioso pensiero. Svetonio ci rammentò di Caligola che nell’atto di presentare la sua mano a baciare le desse una forma oscena: formatam commotamque in obscenum modum; e Lampridio, di quel mostro che fu Eliogabalo, che mai non si fosse permessa una parola oscena, anche allora che la esprimevano le sue dita: nec umquam verbis pepercit infamiam, quum digitis infamiam ostenderet. Non si comprende come si fosse adottata la frase parcite auribus, risparmiate le orecchie, ed egual reverenza non si fosse poi concessa agli occhi.

Se tale era la scostumatezza in publico, le scene più libidinose e tutte le evoluzioni della prostituzione compivansi nelle orgie e festini notturni, detti comessationes, o da comes, compagno, o da comedere, mangiare, e nelle quali perfino le coppe erano foggiate a phalli, e le ciambelle a figure oscene, e che però Cicerone mette a fascio cogli adulteri amori: libidines, amores, adulteria, convivia, commessationes[200]; ciò [261] che per altro non tolse che egli pur non isdegnasse seder commensale, presso la greca cortigiana Citeride.

Come codeste orgie nuocessero a’ corpi non se lo dissimulavano; pur nondimeno non avrebbero saputo scompagnarne l’esistenza, chè loro non avrebbe sembrato di vivere senza di esse. Petronio, che fu, come già ne informai più sopra il lettore, il direttore della voluttà di Nerone, suggellò questo concetto nel seguente distico:

Balnea, vina, Venus corrumpunt corpora sana,

Et vitam faciunt balnea, vina, Venus[201].

In Roma le donne che trafficavano del loro corpo distinguevansi in meretrices e prostibulæ, e il grammatico Nonnio Marcello ne dà la differenza dicendo che la meretrice esercita con più decenza il mestiere non disponendo di sè che la notte; mentre la prostituta trae il suo nome dallo stare davanti al suo stabulum, o abitazione per mercanteggiarvi e di notte e di giorno. V’erano poi altre particolari distinzioni, come le prosedæ e le alicariæ che ponevansi, come Plauto ricordò, alle botteghe de’ panattieri:

[262]

. . . . . an te ibi vis inter istas vorsarier?

Prosedas, pistorum amicas, reliquias alicarias

Miseras scæno delibutas, servolicolas sordidas[202].

le blitidæ ch’erano della razza più vile, abbrutite dal vino e dalla dissolutezza, giusta il medesimo Plauto;

Blitea et lutea est meretrix, nisi quæ sapit in vino ad rem suam[203].

le bustuariæ che attendevano alla prostituzione nei cimiteri; le casoritæ, prostitute dei tugurii; le copæ o taverniere; le diobolæ che non domandavano più di due oboli o di un dupondio, le quadrantariæ perchè si contentavano d’un quadrante, ossia di qualunque vile moneta[204], e Quadrantaria appunto veniva, per cagion [263] di dispregio e di sue lascivie, generalmente chiamata la sorella di Publio Clodio, che è la Lesbia che già conosciamo essere stata di Catullo; le foraneæ, campagnuole che venivano per vendersi alla città; vagæ, le erranti, summentanæ, quelle de’ sobborghi, ecc.

Per la prostituzione elegante, oltre le famosæ che già ricordai e potevan essere patrizie, madri di famiglia e matrone, come pur troppo ha già veduto il lettore, ve n’avevan di quelle fra costoro che si prostituivan ne’ lupanari sia per libidine, sia per denaro; v’eran ben anco le delicatæ che non si concedevan che ai cavalieri e ricchi d’ogni condizione.

Anzi sovente si stipulavano da codeste mantenute co’ loro amatori contratti di fedeltà a tempo, e la scritta che si redigeva a firmare da esse chiamavasi syngrapha ed anche syngraphus, perocchè in ambe le maniere io trovi questo libello così denominato dal medesimo Plauto nella sua commedia dell’Asinaria. Questo poeta e fedele dipintore de’ costumi di quelle basse classi, ne dà contezza del singrafo nella scena terza dell’atto primo di tale commedia:

ARGIRIPPUS

Non omnino jam perii: est reliquum quo peream magis,

Habeo, unde istuc tibi quod poscis dem: sed in legis meas

Dabo, ut scire possis, perpetuum annum hunc mihi uti serviat,

Nec umquam interea alium admittat prorsus quam me, ad se virum.

CLEÆRETA

Quin si tu voles, domi servi qui sunt castrabo viros.

Postremo ut voles nos esse syngrapham facito afferas.

[264]

Ut voles, ut tibi lubebit, nobis legem imponito:

Modo tecum una argentum afferto, facile patiar cœtera.

Portitorum simillime, januæ lenoniæ:

Si affers tum patent: ei non est quod des, ædes non patent[205].

DIABOLUS

Agedum, istum ostende quem conscripsit syngraphum

Inter me et amicam et lenam: leges perlege

Nam tu poeta es prortus ad eam rem unicus[206].

E pare che di cosiffatti mercimoni o singrafi non si smettesse così presto il vezzo, ma se ne serbasse l’usanza sin presso a’ dì nostri, se quel dotto critico che è Eugenio Camerini, della cui amicizia altamente [265] mi onoro, nell’interessantissimo suo libro Precursori del Goldoni, me ne avverte l’esistenza riferendo in una nota del suo studio intorno a Giovan Battista Porta il Contratto fra Gostanzo amoroso e Andriana lena, che sta nella commedia Gli Inganni del Secchi, atto terzo, scena IX[207].

[266]

V’erano anche le pretiosæ che imponevano alle loro grazie un alto prezzo. Tutte queste meretrici affluivano a’ bagni massime di Baja, di Clusio e di Capua, dove era più facile, pel concorso dei fannulloni e de’ più sfondolati ricchi, l’andare a caccia di generosi amatori.

La prostituzione poi si esercitava da ballerine, massime le Gaditane, ossia giovani donne di Cadice, della più provocante lascivia; le Sirie, le lesbie e le jonie, chiamate, come narrai nel capitolo precedente, a rallegrar i banchetti, al pari delle greche auletridi, di suoni e di balli, e ad incitar la lussuria de’ banchettanti, [267] alla quale prestavansi istromento, imitate più tardi dalle corrottissime matrone, giusta quanto ne disse l’inesorabile poeta che le satireggiò nei versi della Satira VI (314-319) che ho superiormente riferiti, parlando dei misteri della Dea Bona. Le Commessazioni poi erano l’arringo più frequente alle lubricità di queste svergognate.

Quella che per altro fu la più vergognosa prostituzione, era quella de’ cinedi: uomini, schiavi, fanciulli prestavansi alla dissolutezza de’ romani, e fu un tempo, [268] quello dell’Impero, che s’era così generalizzata da impensierire a tanta concorrenza la prostituzione femminile. Chiamavansi pueri meritorii quelli che volenti o no prestavansi alla vergognosa passione del loro padrone: v’erano poi gli spadones, per lo più eunuchi che erano pazienti ed agenti, e pædicones, coloro che avevano subìto l’evirazione completa. Catullo ne’ suoi carmi, che certamente non van lodati per riservatezza di linguaggio, bollò a fuoco i nomi di Tallo, Vibennio [269] e di quei due sciagurati libertini, Furio ed Aurelio, notissimi in Roma per tale vizio; ciò che non gli impedì ch’egli medesimo, il poeta, fosse intinto dell’egual pece, che più d’uno sono i carmi da lui lasciati in cui sono espressi i suoi delirii pel vago giovinetto Giovenzio. Così del resto era nel mondo romano una cotal bruttura invalsa da non mandarne immune perfino quel grandissimo uomo che fu Giulio Cesare, alla fama del quale nuoceranno mai sempre le indecenti libertà avute con Nicomede re di Bitinia, a lui rimproverate da Cicerone in Senato. Così bruttò Orazio la sua virilità cogli spasimi per Licisco e Ligurino, a cui la sua musa non isdegnò bruciare incensi; così quella di Cornelio Gallo, testimonio Properzio, spasimò per Ila; come quella più casta di Virgilio non aveva rifuggito in un’egloga di poetizzare i trasporti del pastor Coridone per il vago Alessi:

Formosum pastor Corydon ardebat Alexin

Delicias domini[208].

È poi opinione di alcuni che Virgilio sotto il nome del pastore Coridone ascondesse le proprie fiamme per Alessandro, fanciullo di Asinio Pollione.

[270]

Tutto il Satyricon di Petronio ha per eroi cinedi e per soggetto i loro laidi amori, e Marziale osa perfino giustificarsi colla moglie, perchè divida egli pure col cinedo i proprii abbracciamenti.

E come no, se a fianco di Giove, la loro religione aveva posto il leggiadro Ganimede?

Sclamiam noi pure coll’Oratore Romano: O tempora! o mores!

In Pompei, recenti scavi, mettendo in luce, nella Regione IX, Isola II, la casa che si designò col n. 18 all’entrata sul vicolo che forma il prolungamento di quello d’Augusto, offrì, dopo l’androne d’ingresso, la seguente iscrizione graffita sulla parete:

CRESCENS
PVBLICUS
CINÆDVS

oltraggiosa iscrizione, che attesta nondimeno dell’esistenza della oscena piaga in codesta città, come attesta infame lussuria l’iscrizione graffita nella casa di Gavio Rufo scoperta nel 1868 e che così è ripetuta

TYRIA PERKISA
TYRIA PERCISA

lo che vale pedicata, per non dir l’altre molte congeneri sconcezze[209].

Tanto personale della prostituzione completavasi coi lenoni, uomini e donne ch’erano mediatori di [271] lascivie. Esercitavasi il lenocinio eziandio dalle schiave, dalle veneree, ch’erano assai spesso liberte, dalle fantesche e dalle prostitute vecchie, che avevan perduta la clientela per conto proprio.

Publio Vittore conta quarantasei lupanari in Roma, senza tener conto che il meretricio si esercitasse nei bagni, nelle terme, nei pistrini o botteghe da fornaj, nelle tonstrine o botteghe da barbieri, negli enopolj o botteghe da vinaj, nelle ganeæ o taverne sotterranee, e nelle cellæ e fornices, intorno ai circhi e durante i ludi.

Ma a che numerare i lupanari, quando Giovenale ci dice nella sua implacabile Satira che fosse per così dire Roma intera un solo lupanare; che nobili o plebee fossero tutte depravate del pari, che colei che calcava la polvere non valesse più della matrona portata sulle teste de’ suoi grandi soriani; questa poi peggiore della vile e scalza baldracca?

Nec melior silicem pedibus qua conterit atrum,

Quam quæ longorum vehitur cervice Syrorum[210].

La disposizione dell’interno d’un lupanare era stato dapprima un soggetto di controversia e cercavasi coll’aiuto degli scrittori antichi e massime di Giovenale, [272] che ne disse alcuni particolari nell’episodio della imperiale prostituta che sotto il mentito nome di Licisca lo bazzicava, di ricostruirli fantasticamente, ma oramai gli scavi di Pompei hanno risoluta la questione. — Costituivasi di molte cellette o cubiculi angustissimi che aprivansi in un cortile od atrio, aventi appena lo spazio d’un letto formato di materia laterizia su cui si saran posti materazzi o stuoje. A sera una lampada itifallica accesa sull’esterno della porta, annunziava il luogo impuro, il cui ingresso era difeso da una coltrina. Sugli usci dei cubiculi stava sospeso il cartello recante il nome della prostituta che vi operava dentro, il quale spesso era nome di battaglia, meretricium nomen, come quello di Licisca era di Messalina, e quando il cubiculo veniva occupato si voltava il cartello. Allora la camera, al dir di Marziale, si chiamava nuda. Camere e cortile avevano poi sporche le pareti di figure e di iscrizioni oscene. In uno de’ lupanari pompejani, in quello detto nuovo, lessi fra le altre inverecondie la seguente graffita: Phosforus hic f....

Vedremo più avanti come, oltre le camere terrene ad uso delle più abbiette, vi potessero essere anche quelle di un piano superiore pei lussuriosi disposti a maggiore spesa.

Le meretrici avevano poi un proprio abbigliamento, distinte principalmente dalla parrucca bionda, avendo presso che tutte le romane nera la capellatura, [273] vietato poi loro di portare la benda alla fronte e la stola o tunica che scendeva al tallone, come portavano le matrone. Petronio nel suo Satyricon, che è il quadro, come sappiamo già, de’ cattivi costumi di Roma imperiale, ce le presenta nel lupanare nude affatto e perfino in questa guisa sulla porta di esso. Avrebbesi tutto un trattato a scrivere per dire di tutti gli artifici per destare la lussuria, e procacciarsi amori: de’ filtri afrodisiaci, degli unguenti, de’ fascini, che Ovidio nel Remedium Amoris affermò nuocere alle fanciulle grandemente, contenendo i germi della pazzia furiosa, non che degli ausiliari della prostituzione nelle medicæ juratæ o levatrici, nelle sagæ, nelle profumatrici e nelle cosmete. Ci son rimasti i nomi di alcuni fra i più usitati filtri afrodisiaci: Orazio menzionò il poculum desiderii che preparava Canidia, Marziale le aquæ amatrices, Giovenale l’hippomane in quel verso:

Hippomanes carmenque loquar colcumque venenum[211].

Voglion taluni fosse l’ippomane un liquore virulento, che eccitava gli ardori amorosi; altri invece che fosse un’escrescenza di carne nera che talvolta si forma sulla fronte d’un puledro appena nato e [274] che gli antichi credevano materia a filtro potente. Teofrasto dice essere una composizione immaginata dagli Arabi; Esiodo e Teocrito che fosse invece una pianta che produce il furore ne’ cavalli, ed altri pel contrario vi almanaccarono su altre supposizioni. Buffon ne parla nel vol. IV dell’edizione in quarto dell’opera sua e riferisce tutte queste diverse opinioni.

La plebaglia poi rinveniva eziandio lo sfogo a’ propri sensuali appetiti in altri peggiori e più schifosi luoghi, come nelle tabulæ sullo strame, nel casaurium o baracca per lo più fuori di città, nel lustrum o ritrovo isolato, e vie via altri nomi immaginati dalla depravazione.

Diversi furono i lupanari che gli scavi pompejani misero alla luce, e siccome la parte scoperta di questa città, come già dissi più volte, doveva essere la più nobile perchè prossima alla marina e perchè ricca di pubblici edifizi e templi e delle case dei maggiorenti, così è dato arguire che altri e più se ne scopriranno negli scavi venturi, come che siffatti infami ritrovi fossero più frequentati dalle classi infime della società, ciò rivelando eziandio la nessuna eleganza od agiatezza loro. Non è augurio, nè importa, da che quanto fu a quest’ora trovato può sopperire alle indagini nell’argomento.

Una casetta che fu detta dei Cinque scheletri, per gli avanzi di cinque infelici colti dalla catastrofe nel punto che cercavano involarsene col loro piccolo [275] tesoro che si rinvenne ad essi vicino, consistente in armille, anelli d’oro e monete, scoperti nel 1872, in novembre, permise che nel successivo mese si trovasse la comunicazione con una taverna e unito lupanare, forse quella località che i latini denominavano ganeum, e già al lettore ho detto come ganeum o ganæa fosse appunto una taverna sotterranea, ove commettevansi oscenità, ed anche bottega che si prestava alla prostituzione. Il proprietario allora della casetta de’ Cinque scheletri non sarebbe stato anche il proprietario o conduttore di quell’infame ritrovo? È permesso trarne l’induzione. La taverna si apre nella via di Mercurio, ha un davanzale rivestito di marmi con una lastra di porfido verde, sventuratamente spezzata in due. Sono incastrate in esso tre urne di terra cotta, ed uno scalino di marmo che doveva servire alla mostra de’ comestibili e de’ vasi. A destra della stanza è un fornello per cuocervi le vivande e nel profondo s’aprono due porte, conducenti l’una in una specie d’anticamera, che doveva essere stata dipinta grossolanamente, ma che di presente nulla lascia intravedere che mai vi potesse essere un dì rappresentato, dove eran due usci, che davan accesso questo alla casetta de’ cinque scheletri suddetta, e quello ad un salotto pei bevitori; l’altra porta ad una camera che dava sul vicolo di Mercurio e che serba tutte le apparenze di uno sconcio postribolo. Pitture da imbianchino e [276] sporche eran distribuite sulle sue pareti: sopra di una raffigurante un garzoncello d’osteria che versa a bere ad un soldato, si lessero queste parole scritte con qualche arnese a punta:

DA FRIDAM PUSILLVM[212]

Nel Vicolo degli Scienziati, che è in continuazione con quello che si noma Vico Storto, nel tempo che i Dotti erano riuniti pel settimo congresso in Napoli, e sotto i loro occhi, veniva sterrata quella casa, dai particolari della quale fu concesso imporle il tristo nome di Grande Lupanare. Le più oscene iscrizioni confermano la giustezza della denominazione: il possibile riserbo che mi sono proposto mi toglie di riferirle. Taluna tuttavia ho già desunto infra quelle che son leggibili anche da occhi pudici e riferite altrove di quest’opera, come la seguente che suona:

Candida me docuit nigras odisse puellas[213].

coll’arguta risposta che altro bizzarro spirito vi scrisse di sotto.

Altre si lessero non indecenti del pari, come questa gentile:

NOLANIS FELICITER
STABIANAS PUELLAS[214].

[277]

L’atrio di questa casa è d’ordine toscano, ed ha un compluvium di marmo bianco, sovra il quale vedesi ancora il tubo di bronzo da cui versavasi l’acqua piovana.

Il peristilio è per metà recinto da portici sostenuti da quattro colonne joniche ed ha nel fondo una fontana di musaico ben conservato e conchiglie, avente in mezzo un piedistallo, che un giorno avrà servito a reggere qualche figura, forse di bronzo. Sotto il portico è un larario o sacello per gli dei della casa e vi sta dipinto un serpente che divora una sacra offerta. Da questa casa così poco poetica vennero nondimeno tolte alcune non ispregevoli pitture come Dedalo e Pasife e Arianna abbandonata, che furono trasportate al Museo di Napoli.

Dalla Via degli Augustali s’entra per quella tortuosa, però più acconcia ai libertini, denominata del Lupanare, a cagione di altro lupanare che si scavò nel 1862 e che prese il nome di nuovo, a differenziarlo dall’altro, del quale ho appena parlato. È quello medesimo di cui mi son valso non ha guari per descrivere l’interno d’un postribolo romano, perocchè sia forse l’unica località che si presenti con carattere spiccato e tale da non ammettere una diversa supposizione di destinazione.

Non a tutti i quali visitano la esumata città è dato di liberamente penetrar nel Lupanare Nuovo: il guardiano l’apre agli uomini soltanto. S’entra in una specie [278] di vestibolo o corridojo che non raggiunge due metri di larghezza, e sei e mezzo di lunghezza, e doveva essere tanto di giorno che di notte rischiarato da lampade, perchè altra luce non vi potesse giungere che dalla porta d’ingresso, coperta anch’essa dalla coltrina che già accennai. Le parti di questo corridojo che da un leggiero fregio rosso son divise a comparti, in mezzo a’ quali stanno ippocampi e cigni, mette a cinque cellette, cellæ, come le chiama Giovenale, tre a destra e due a sinistra, sull’uscio delle quali doveva affiggersi il cartello col nome della sciupata che vi stava. Siffatte cellette maraviglia come fossero tanto anguste, misurando cioè due metri quadrati di superficie, e tanto più ciò sorprende in quanto vi sussista ancora il letto, rialzato dal lato della testa per l’origliere, di materiale laterizio, sul quale si sarà disteso alcun materasso, che vi occupa quello spazio per settanta centimetri.

Superiormente agli usci delle cellette, nel vestibolo o corridojo, stavano, come in ispecchi, delle pitture oscene e rispondenti per lo appunto al luogo, oltre le varie iscrizioni graffite del genere stesso, fra cui quella surriferita di Fosforo che ricorda le proprie erotiche prodezze.

Le cellette del lato sinistro più irregolari sono poveramente arieggiate da alte finestrelle munite di inferriate e respicienti sul Vico del Balcone, nel quale si usciva a comodo degli avventori, che amavano [279] per avventura essere meno veduti a procedere di là e che a cagione d’ingiuria, si dicevano cuculi, parola codesta eziandio, secondo spiega Erasmo commentando quel verso:

At etiam cubat cucullus: surge, amator; i domum[215],

che si applicava una volta pur a coloro i quali venissero sorpresi in casa che fosse poco onesta.

Così un tal Vico si denomina del Balcone, da una specie di mœnianum, che sporgendosi all’infuori del piano superiore e chiuso, valeva a rendere più grande lo spazio del piano stesso. Là vi dovevano esercitare il loro traffico infame cortigiane di maggior considerazione di quelle rilegate al pian terreno: infatti e le camerette vi si veggono più del doppio spaziose, nè deturpate, come vedemmo in basso, da oscene pitture ed iscrizioni.

Argomentasi che questo lupanare sia stato frugato dopo la catastrofe, perchè non vi si scoprissero che pochi oggetti, fra’ quali, per altro, un bellissimo candelabro di bronzo, un gran cacabus, contenente cipolle e fagiuoli, che dovevan costituire la povera cena di quelle sciagurate, qui devolute alla venale prostituzione.

[280]

Sulla parete di una casa vicina a questo lupanare si lesse una iscrizione che avvertiva della presenza del luogo infame:

HIC NON EST OTIOSIS LOCVS, DISCEDE VIATOR[216].

Negli scavi di questi ultimi due anni, praticati sempre verso la marina e nella parte occidentale della città, un altro luogo venne ritenuto siccome abitazione meretricia alle sue proprie particolarità. Ma una speciale vi fu riconosciuta in una specie di podio laterizio a lato dell’ingresso, al quale evidentemente assisteva il lenone o la lenona che teneva il postribolo, per esigere il prezzo della prostituzione dagli avventori che vi capitavano.

È codesta una particolarità illustrativa del lupanare romano e che però mostra come piuttosto all’ingresso, anzi che all’uscita da esso si dovesse il detto prezzo pagare.

Altri postriboli si trovarono negli scavi pompejani, ma ancora più angusti ed ancor meno decenti: anzi si può credere che quel vico nel quale si è trovato il lupanare, del quale ho finito di parlare, non fosse che una serie continuata di essi, od almeno di ganei, come del resto fino ai nostri giorni, parve essere la via Capuana a Napoli. Pur un postribolo era, a mo’ d’esempio, quel bugigattolo che era dirimpetto alla [281] panetteria che è sull’angolo del Vico Storto, e dalla quale originò il nome della via su cui si apre e però detta del Panatico: una oscena pittura che vi si distinse non lascia dubbio sulla sua destinazione.

Tale deve dirsi pure, perchè serba tutti i caratteri di una cella meretricia, la camera che si apre sola e senza comunicazione con altre sul Vico del Balcone; e tali devonsi pur dire quelle tre celle, isolate egualmente, che si trovano nella Via degli Scheletri prima di giungere al vicolo d’Eumachia. In vicinanza ad esse sull’angolo del Vicolo della Maschera, quasi a loro indicazione, sta una grossa pietra angolare avente in rilievo una imagine fallica e scrittovi presso il nome di Dafne.

Che fosse stata così spinta la spudoratezza del meretricio in Pompei, da mettersene i richiami perfino agli angoli delle vie, come farebbesi d’una vantaggiosa ed importante officina l’esistenza della quale importasse grandemente che si conoscesse da tutti?

I costumi dell’epoca imperiale, omai noti al lettore che mi ha seguito fin qui, ne danno autorità a credere per possibile anche questo.

Ma la poco simpatica peregrinazione per questi volgarissimi luoghi di peccato parmi m’abbia serrato le fauci, quasi vi si respiri ancora il pestifero aere pregno del graveolente puzzo del fumo della lucerna che li schiarava miseramente, onde quella sozza baldracca che fu Messalina risentiva, allorquando, [282] lasciando la cella, l’abito e il nome di Licisca, reddiva al talamo imperiale:

Obscurisque genis turpis fumoque lucernæ

Fœda, lupanaris tulit ad pulvinar odorem[217].

Epperò usciamo all’aperto. Meglio è che affrettiamo al fine del nostro lungo cammino.

Solo chiuderò il delicato argomento, esternando un pensiero, quasi cenno a chi possa meditarvi sopra più di proposito e farne subbietto di studi. Nello esame delle religioni pagane, vedesi troppo frequentemente credenze, riti e sacerdozio degenerare nelle lubricità della prostituzione, o questa anzi ammantarsi, a proprio sfogo maggiore, di religione. Il phallus è emblema sacro che entra ne’ misteri di esse, e i segni itifallici accompagnano le cerimonie più serie e solenni. A’ sepolcri perfino, intorno al rogo sorgono i cipressi e gli scrittori indicandoli come alberi di dolore e di morte e sacri a Dite, li designano ben anco come alberi itifallici: or, perchè ciò?

Gli è forse perchè accanto alla morte sta il mistero della riproduzione?

La mitologia è presso che tutta costituita di episodii, di deificazioni di persone e cose, che noi registriamo nella storia della prostituzione. Il Tonante [283] medesimo non isdegna convertirsi in pioggia, in cigno, in toro per isfogare i suoi erotici appetiti: gli altri numi si modellano su di lui e gli uomini danno loro adorazione ed incenso: i savii pur dei nostri tempi pretesero e pretendono ascondere tutto ciò reconditi veri; ed io medesimo in quest’opera ho toccato di che cosmico significato sieno state intese le fatiche di Ercole, di quale non meno profondo i misteri elusini e di Iside, e così d’altri grandi avvenimenti della pagana mitologia.

Che più? Pur nel presente capitolo ho menzionato personaggi e passi biblici, le azioni de’ quali e il cui senso non appajon migliori degli uomini e delle cose del paganesimo: e nondimeno trovarono reverenza o interpretazione diverse da quelli apprezzamenti che a prima giunta sembrano provocare. Tutto poi è superato da quel canto epitalamico che è il Cantico de’ Cantici, e che malgrado l’aperto senso letterale e le più carnali immagini che esse esprimono, pur tuttavia permise che i più timorati padri del cristianesimo vi trovassero santissime cose adombrate e condannassero alla riprovazione maggiore i profani che osarono, attenendosi al solo valore delle parole, maravigliarsi ch’esso fosse accolto tra libri santi.

Monsignor Martini, al suo volgarizzamento di questo libro, premise una prefazione tendente a rilevare la sublimità di esso, e dopo avere invocata l’autorità di gravissimi scrittori e santi, così si [284] esprime: «Per le quali cose non sia meraviglia se lo Spirito Santo volendo alcuni secoli avanti non di passaggio, ma specificatamente, e pienamente annunziare e predire, e quasi direi dipingere questa divinissima unione del Verbo colla umana natura, e colla Chiesa, e gli effetti di essa; se essendo annunziare a tutti i venturi tempi l’altissima carità dello stesso Verbo, verso quel mistico corpo, il quale dovea da lui aver l’essere e il nome, ordinò e dispose che in questo Cantico con bella continuata allegoria, e con immagini prese dalle nozze terrene dipinto fosse questo mistero, perocchè avvenimento sì nuovo, e sopra ogni umana espettazione conveniva (come osservò S. Agostino) che in molte guise fosse annunziato, affinchè ora repentinamente si effettuasse, non cagionasse negli uomini stordimento e terrore, ma si aspettasse con fede, e con fede e amore si abbracciasse quando fosse eseguito. In Psal. CIX.»

Se così è, l’argomento che ho svolto in questo capitolo doveva richiamare, a petto degli altri, maggiore estensione di trattazione da parte mia, nè credo aver detto tutto; come penso abbia ad essere veramente materia di più profondo studio, come ebbi a dire più sopra, per la ricerca di que’ veri che si nascondono

Sotto il velame delli versi strani.

[285]

CAPITOLO XXII. La Via delle Tombe.

Estremi officii ai morenti — La Morte — Conclamatio — Credenze intorno all’anima ed alla morte — Gli Elisii e il Tartaro — Culto dei morti e sua antichità — Gli Dei Mani — Denunzia di decesso — Tempio della Dea Libitina — Il libitinario — Pollinctores — La toaletta del morto — Il triente in bocca — Il cipresso funerale e suo significato — Le imagini degli Dei velate — Esposizione del cadavere — Il certificato di buona condotta — Convocazione al funerale — Exequiæ, Funus, publicum, indictivum, tacitum, gentilitium — Il mortoro: i siticini, i tubicini, le prefiche, la nenia; Piatrices, Sagæ, Expiatrices, Simpulatrices, i Popi e i Vittimari, le insegne onorifiche, le imagini de’ maggiori, i mimi e l’archimimo, sicinnia, amici e parenti, la lettiga funebre — I clienti, gli schiavi e i familiari — La rheda — L’orazione funebre — Origine di essa — Il rogo — Il Bustum — L’ultimo bacio e l’ultimo vale — Il fuoco alla pira — Munera — L’invocazione ai venti — Legati di banchetti annuali e di beneficenza — Decursio — Le libazioni — I bustuari — Ludi gladiatorii — La ustrina — Il sepolcro comune — L’epicedionOssilegium — L’urna — Suffitio — Il congedo — Monimentum — Vasi lacrimatorj — Fori nelle tombe — Cremazione — I bambini e i colpiti dal fulmine — SubgrundariumSilicerniumVisceratioNovemdialiaDenicales feriæ — Funerali de’ poveri — SandapilaPuticuli — Purificazione della casa — Lutto, publico e privato — Giuramento — Commemorazioni funebri, Feste Parentali, Feralia, Lemuralia, Inferiæ — I sepolcri — Località — Eccezioni [286] e privilegi — Sepolcri nelle ville — Sepulcrum familiareSepulcrum comune — Sepolcro ereditario — Cenotafii — Columetiæ o cippi, mensæ, labra, arcæ — Campo Sesterzio in Roma — La formula Tacito nomine — Prescrizioni pe’ sepolcri — Are pei sagrifizj — Leggi mortuarie e intorno alle tombe — Punizioni de’ profanatori di esse — Via delle tombe in Pompei — Tombe di M. Cerrinio e di A. Vejo — Emiciclo di Mammia — Cippi di M. Porcio, Venerio Epafrodito, Istacidia, Istacidio Campano, Melisseo Apro e Istacidio Menoico — Giardino delle colonne in musaico — Tombe delle Ghirlande — Albergo e scuderia — Sepolcro dalle porte di marmo — Sepolcreto della famiglia Istacidia — Misura del piede romano — La tomba di Nevoleja Tiche e di Munazio Fausto — Urna di Munazio Atimeto — Mausoleo dei due Libella — Il decurionato in Pompei — Cenotafio di Cejo e Labeone — Cinque scheletri — Columelle — A Iceio Comune — A Salvio fanciullo — A Velasio Grato — Camera sepolcrale di Cn. Vibrio Saturnino — Sepolcreto della famiglia Arria — Sepolture fuori la porta Nolana — Deduzioni.

Abbiamo, o paziente lettore, assistito insieme alla vita, anzi alla vita più rigogliosa del mondo romano, interrogando più spesso gli scavi e i monumenti pompejani: ora, percorso quanto fu disumato della infelice città, visitiamo l’ultima parte che ci siam di essa riserbata, la Via delle Tombe che faceva parte del Pagus Augustus Felix, e quindi tocchiamo di tutto quanto riguarda la morte, le pompe funebri, cioè, i sepolcri ed i riti. Non sarà certo privo d’interesse l’argomento, se l’esempio antico rammemorato a’ presenti da Foscolo nel suo carme immortale de’ Sepolcri, potè condurre la generazione attuale egoista a più onesta e dicevole religione e venerazione delle tombe.

[287]

Prima però che mettiamo il piede nel pompejano sobborgo, demandiamo a’ libri antichi le costumanze che precedevano la tumulazione: la visita a’ sepolcri non sarà che il complemento del nostro tema. E avanti tutto, ricostruendo colla nostra fantasia sui ruderi d’una di queste case l’intero edificio e animandolo de’ suoi antichi abitatori, conduciamoci al cubiculum, dove sul ricchissimo letto giace il pater familias in preda a morbo letale.

Sul monopodium marmoreo, o tavola di un sol piede, di cui gli scavi offersero un esemplare, stanno i vasi e le ampolle del seplasarius, o farmacista e che il medico ha prescritte; ma l’aspetto dei congiunti accusa che poco oramai si attenda da que’ farmachi studiati.

Quando il medico o la natura avvertivano finalmente che all’infermo più non restava speranza di vita, e che era prossimo al suo estremo fato, la famiglia e i parenti di lui gli si raccoglievano intorno al letto, come se si trattasse di dar l’ultimo saluto a chi fosse per partire per un lungo viaggio. Era infatti per il viaggio che non aveva ritorno. Essi iscongiuravano altresì la morte ed impetravano da Mercurio la grazia che volesse servire di guida all’anima che stava per entrare nella regione de’ morti. E quando l’agonia pareva incominciata, si aveva cura di chiudergli gli occhi, acciò non fosse egli contristato dallo spettacolo che precede la morte, o perchè meno [288] formidabile gliene apparissero le dimostrazioni. Il figlio, o il più prossimo parente, dandogli l’ultimo bacio, ne raccoglieva l’estremo sospiro, e tale era un conforto che auguravansi le madri di ciò fare coi loro figli, giusto quanto Cicerone afferma: Matresque miseræ nihil orabant nisi ut filiorum extremum spiritum excipere sibi liceret[218]. Nè altrimenti era in Grecia fin da più remoti tempi e ce ne persuade Omero nell’Odissea, dove Agamennone si lagna di Clitennestra:

. . . . al marito,

Che fra l’ombre scendea, non chiuse il ciglio

E non compose colle dita il labbro[219]:

e Virgilio attesta dell’uso recato in Italia, quando mette sulla bocca della madre d’Eurialo il lamento:

. . . . nec te, tua funera, mater,

Produxi, pressive oculos...[220]

uso continuatosi sempre dipoi; onde Lucano nella Pharsalia disse pure:

. . . . tacito tantum petit oscula vultu,

Invitatque patris claudenda ad lumina dextram[221].

Reso il quale, per tre volte, a distinti intervalli, si chiamava ad alta voce il morto, ciò che dicevasi [289] conclamatio; e conclamatum est, significava adunque che una cosa più non esisteva.

Ma per apprezzare convenientemente questa cerimonia e le numerose altre che praticavansi in occasione di morte presso i Romani, gioverà vedere dapprima quali fossero presso di essi le credenze sull’anima e sulla morte.

E mi affretto a mettere in sodo come il non omnis moriar non fosse già un principio suggerito al poeta dalla coscienza della immortalità delle sue concezioni intellettuali, sibbene la radicata credenza che si aveva in una seconda vita, dopo questa terrena. Non fu quindi il portato d’una dottrina speculativa o filosofica qualunque, ma fu veramente una credenza questa di lunga mano anteriore all’almanaccar de’ filosofi, anzi precorritrice d’assai alla loro esistenza; di modo che la morte venisse considerata come una semplice mutazione della vita.

Dove poi versasse questa seconda esistenza al di là della tomba, variò la credenza.

Secondo le più antiche opinioni de’ Greci e degli Italioti, che per lo più divisero costumi e credenze insieme, come veramente usciti d’un solo ceppo, per testimonianza di Cicerone: sub terra censebant reliquam vitam agi mortuorum[222], ed anzi pensavano restasse [290] l’anima tuttavia consociata al corpo; onde così spiegar ci possiamo l’espression di Virgilio ne’ funerali di Polidoro:

animamque sepulcro

Condimus, et magno supremum voce ciemus[223].

E l’iscrizione che apponevasi al sepolcro diceva infatti: hic jacet, qui giace, qui posa il tale, non già solo la spoglia del tale, dicitura che, malgrado le ben diverse credenze, pur a’ dì nostri è pervenuta e l’usiamo pure nei nostri ipogei. Era pertanto ragione che si curasse allora di chiudere nel sepolcro dallato al cadavere gli oggetti di cui reputavasi potesse sentire necessità e si spargesse al di sopra vino, latte e miele e si immolassero vittime, come vedremo più avanti, allo scopo di soddisfargliene la fame e la sete, ed anche a quello che avesse il defunto a valersi nella tomba di quel che sulla terra godeva.

Dopo ciò, non è più lecito credere che negli spiriti delle popolazioni greco-italiche avesse potuto attecchire l’idea della metempsicosi ossia della trasmigrazione [291] dell’anima da un corpo all’altro. Nè di meglio credevasi che l’anima, lasciando il corpo, volasse al cielo; perocchè cotale credenza non trovò seguaci che assai più tardi, tutt’al più reputandosi che il soggiorno celeste convenisse, come straordinaria ricompensa a certi eroi, o benefattori della umanità.

Le più antiche generazioni credevano adunque unicamente che l’anima non si separasse dal corpo, che rimanesse fissa a quella parte di suolo, dove erano sepolte le sue ossa; che non dovesse rendere conto alcuno di sua vita anteriore, che non avesse ad attendere nè ricompensa, nè punizione.

Comunque più innanzi s’allargasse la fede e si credesse nel Tartaro, e ne’ Campi Elisi, come luoghi di punizione il primo e di premio i secondi per i fatti della vita terrena, i riti funerarii che mi faccio ora ad esporre risentirono sempre delle primitive credenze, le quali sebbene ci possano sembrare viete e perfino ridicole, secondo giustamente osserva Fustel de Coulanges, hanno tuttavia esercitato l’impero sull’uomo durante gran numero di generazioni: esse hanno governato le anime, rette le società, e la più parte perfino delle istituzioni domestiche e sociali degli antichi sono prevenute da questa sorgente[224].

[292]

Ma ho ricordato ora gli Elisii e il Tartaro: debbo darne alcuna nozione, perchè, come dissi, la credenza in essi divenne poi generale e costituì il mistero pagano d’oltretomba.

Secondo i Greci, i Campi Elisi o l’Elisio era la quarta divisione dell’inferno; secondo i Romani invece era la settima.

Vi regnava, per quanto ne testimoniò Pindaro ne’ suoi inni immortali, eterna la primavera, vi alitavano zefiri profumati, vi sfolgoravano sole e astri perpetuamente, vi crescevano fiori e frutta, v’era bandita la vecchiaja, ignoti i mali, senza fine la vita e l’onda di Lete, che tutt’all’intorno circondava quel beato soggiorno, procurava l’obblio delle dolorose memorie del passato. Lo stesso Pindaro ne fa re dell’Eliso Saturno: altri lo volle retto dalle leggi di Radamanto. Diverse pure le opinioni sulla località di esso: Omero ed Esiodo lo collocarono nel centro della terra e sulle rive dell’Oceano.

L’inferno, o Tartaro, era pei Greci un luogo sotterraneo, ove scendevano le anime dopo la morte per esservi giudicate da Minosse, Eaco e Radamanto, e Plutone vi regnava sovrano. Aveva vari spartimenti: l’Erebo ove stava il palazzo della Notte, quello del Sonno e dei Sogni, il soggiorno di Cerbero, cane ringhioso dalle tre gole, delle Furie e della Morte; l’inferno delle anime prave punite nel fuoco o nel ghiaccio; il Tartaro propriamente detto, dove i nuovi [293] Numi avevano precipitato gli antichi, i Ciclopi, i giganti e i titani.

I Romani lo dividevano in sette scomparti: nel primo soggiornano i bambini; nel secondo gli innocenti stati condannati a morte; nel terzo i suicidi; nel quarto gli amanti spergiuri o sfortunati; nel quinto gli eroi che si macchiarono di crudeltà; nel sesto, detto più propriamente il Tartaro, stavano i martiri; nel settimo i Campi Elisii che già vedemmo essere luogo di riposo e di beatitudine pei giusti.

Facile è qui constatare come la dottrina pur del Cristianesimo ammettesse suppergiù, con quasi identità di nome e di destinazione, la credenza dell’Eliso e dell’Inferno, e il Cattolicesimo vi aggiungesse un terzo luogo di depurazione, cioè il Purgatorio, ammettendo in certo qual modo una tal qual legge di progresso, secondo anche la dottrina spiritica moderna, che cioè permettesse alle anime non al tutto superiori ed elette di espiare le colpe non gravi, prima d’essere ammesse nella sede dei santi.

È poi curioso osservare da ultimo, intorno a tale argomento, come i tre più grandi poeti dell’Umanità, Omero, Virgilio e Dante, l’abbiano consacrato nelle loro immortali epopee: perocchè il primo, nel canto undecimo dell’Odissea, guidasse Ulisse ne’ luoghi inferni a trovarvi i campioni della guerra trojana: il secondo vi conducesse, nel canto sesto dell’Eneide, il suo eroe, dove appunto divise tutti quegli scompartimenti che [294] ho più sopra accennati, così lasciandovi memoria di tutte le antiche dottrine circa il soggetto; e l’Alighieri poi, della credenza dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, costituisse anzi tutta la macchina della sua Divina Commedia, nella quale agli scomparti pagani sostituisce di suo capo le bolge ed i gironi, dove pure colloca, secondo il maggiore o minor merito, la maggiore o minore pravità, gli spiriti de’ suoi personaggi, tra’ quali con nova fantasia vede taluni degli uomini del suo tempo ancor viventi.

I morti poi ebbero sempre tra’ Romani una religione: il culto che loro si prestava divenne anzi così obbligatorio, che nelle XII Tavole i relativi diritti degli Dei Mani, — che con questo nome chiamavano generalmente i morti, — vennero positivamente sanciti, secondo il testo conservato di questa particolare legge da Cicerone: Deorum Manium jura sancta sunto; hos leto datos divos habento: sumptum in illos, luctumque minunto[225]. Il medesimo Cicerone, nel Libro De Legibus, rammentò come fosse stato volere de’ maggiori che gli uomini che avevano lasciato questa vita, fossero annoverati tra gli Dei[226].

L’uomo ch’era stato del suo vivente tristo, morto [295] era egualmente un dio: solo serbava nella seconda vita le malvagie tendenze della prima.

Se non che Apulejo lasciò detto che quando i Mani fossero malevoli, si dovessero chiamare larvæ, e quando benevoli, lares; perocchè infatti Manes, Genii e Lares si dicessero promiscuamente. Udiam lui stesso: Manes animæ dicuntur melioris meriti, quæ in corpore nostro Genii dicuntur; corpori renuntiantes, Lemures; cum domos incursionibus infestarent, Larvæ; contra ei faventes essent, Lares familiares[227].

Questa religione de’ morti, scrive il dotto Fustel, che ho già citato, sembra essere stata la più antica in questa razza d’uomini. Prima di concepire e d’adorare Indra o Zeus, l’uomo adorò i morti: ebbe paura di essi e indirizzò loro preghiere. Sembra così che il sentimento religioso abbia di là avuto la sua origine. È forse alla vista della morte che l’uomo ebbe per la prima volta l’idea del soprannaturale e che volle sperare al di là di quel che vedeva. La morte fu il primo mistero: ella mise l’uomo sulla via degli altri misteri: essa sollevò il suo pensiero dal visibile all’invisibile, dal passeggiero all’eterno, dall’umano al divino.

[296]

Pur Ugo Foscolo ne’ suoi Sepolcri fe’ rimontare il culto de’ morti allo istituirsi del contratto sociale:

Dal dì che nozze, tribunali ed are

Diero alle umane belve esser pietose

Di sè stesse e d’altrui, toglieano i vivi

All’etere maligno ed alle fere

I miserandi avanzi che Natura

Con vece eterna a sensi altri destina[228].

Era forse anche per questo culto che gli Dei Mani si chiamassero Dii patrii ed anche Dii sacri, come si veggono così, indicati sovra alcuni monumenti. — Più avanti toccherò di feste ed onoranze istituite per gli Dei Mani.

Come facciamo oggidì che denunziamo al Municipio l’avvenimento d’una morte, e trattiamo della spesa de’ funerali, allora veniva denunciato il decesso al tempio della dea Libitina, istituito da Numa, nel quale si custodivano tutti gli apparati ed addobbi richiesti per mettere in ordine un funerale e quivi col libitinario, o intraprenditore delle pompe funebri, convengasi sull’indole di quella che ricercavasi e sulla spesa.

Il libitinario spacciava alla casa del morto i suoi schiavi, detti pollinctores, dal polline, dice Servio, o fior di farina onde lievemente spargevasi la faccia del defunto, dopo che il corpo fosse stato dalle donne [297] con acqua calda lavato. — Tale costume di preparare, imbiancandolo, il viso agli estinti si conserva tuttavia in Rumenia, dove lo portarono i Romani antichi, che vi lasciarono indelebili tracce di loro soggiorno e colonizzazione in altre molte consuetudini, nel linguaggio e perfino nella denominazione del paese, che fino a’ dì nostri vanta con noi comune le origini. — Quindi i medesimi pollinctores l’ungevano e imbalsamavano con appositi aromi:

. . . corpusque lavant frigentis et ungunt[229].

Ciò eseguito, lo si rivestiva dell’abito ch’era solito portar vivo, colle insegne che s’era meritato. Così il semplice cittadino d’una toga bianca, il magistrato della pretesta, i censori della porpora; d’una semplice tonaca invece gli abitanti della campagna e i plebei. Gli si poneva in bocca un triente, cioè la terza parte di un’asse, la moneta di rame corrispondente a due centesimi di lira italiana con cui intendevasi pagare Caronte,

Il nocchier della livida palude,

pel tragitto di essa, pur descritto nella Cantica dell’Inferno da Dante, e come il rammenta Giovenale:

[298]

. . . . at ille

Jam sedet in ripa, tetrumque novicius horret

Porthmea, nec sperat cænosi gurgitis alnum

Infelix, nec habet quem porrigat ore trientem[230].

Le leggi delle XII Tavole vietando di seppellire l’oro nelle tombe, — osserva giustamente quel dotto scrittore e orientalista che è il prof. Angelo De-Gubernatis, confermano soltanto la esistenza dell’uso nell’antica Roma[231].

Coronandogli di fiori la testa, lo si deponeva su d’un alto letto, d’avorio, se ricco, e coperto di preziose stofe, nel vestibolo, co’ piedi rivolti verso l’uscita di casa, quasi ad indicarne la partenza. Persio così ricorda sommariamente, nella satira III queste funerali cerimonie:

[299]

Hinc tuba, candelæ; tandemque beatulus alto

Compositus alto lecto, crassisque lutatus amomis,

In portam rigidos calces extendit[232].

Quest’uso di collocare i cadaveri che si dovevano trasportare, co’ piedi vôlti all’uscita della casa, nota a questo passo Vincenzo Monti, era antichissimo. Omero ne fa menzione nel XIX canto dell’Iliade, ove Achille addolorato per l’estinto amico (Patroclo), così parla:

D’acuto acciar trafitto egli mi giace

Nella tenda co’ piè vôlti all’uscita.

Davanti la porta si piantava il funerale cipresso, l’albero consacrato a Plutone, perocchè esso una volta tagliato più non ripulluli, secondo lasciò ricordato Plinio il vecchio. La presenza del cipresso era indizio di lutto patrizio, come avvertì Lucano nel seguente verso:

Et non plebejos luctus testata cupressus[233].

[300]

Di tal guisa restava avvertito il pontefice di tenersi lontano da quella casa, da cui sarebbe stato polluto; così evitavanla coloro che disponevansi a compiere alcun sagrificio, perocchè quell’impuro contatto non avrebbe più loro concesso d’accostarsi agli altari. Così all’eguale intento, e per tutto il tempo che duravano le funebri cerimonie, si solevano velare le immagini degli Dei.

Per sette giorni lasciavasi esposto il cadavere, acciò si avesse tutto l’agio di riprendere i sensi dove un letargo avesse simulato la morte, e vegliava a studio di esso uno schiavo della casa e durante un tal tempo facevansi da que’ della famiglia le maggiori dimostrazioni di dolore:

. . . it clamor ad alta

Atria; concussam bacchatur fama per urbem;

Lamentis, gemituque et fœmineo ululatu

Tecta fremunt; resonat magnis plangoribus aether[234].

L’ottavo giorno un pubblico banditore, percorrendo le vie principali adiacenti alla casa mortuaria, convocava [301] il popolo per celebrare i funerali. Terenzio ci lasciò nelle sue commedie rammentata la formula di tale convocazione:

Quirites exsequias... quibus est commodum ire jam tempus est[235].

Siccome poi, giusta quanto superiormente dissi, le anime delle persone buone si consideravano ricevute nel novero degli Dei benefici, comunque d’ordine inferiore; così ci restò qualche documento che prova come si ponesse nel feretro, presso il cadavere, un attestato di buona condotta, rilasciato dal Pontefice, perchè fosse agevolato il compito de’ giudici eterni. Bannier ne riferisce un esempio in quello che fu posto accanto ad un cadavere dal Pontefice Sesto Anicio, ch’io pur trascrivo, acciò si conosca anche di questo curioso documento la formula. Eccolo: Ego Sextus Anicius Pontifex testor hunc honeste vixisse: Manet ejus inveniant requiem[236].

Funus dicevasi il funerale, a cagione che negli [302] antichi tempi i romani seppellissero di notte al lume di candele, o torcie, che si formavano di funi ritorte, funalia, intrise di pece, portate dai piagnoni. Non fu che più tardi che l’uso di seppellire di notte si restrinse alle classi più povere, le quali non potevano sostener la spesa di splendide esequie.

Ed oltre di tal distinzione, diverse altre erano le specie di funerali. Publicum era quel funerale che si faceva a spesa dello Stato, come in quest’anno in cui scrivo (1873, 29 maggio), Milano praticò a riguardo di Alessandro Manzoni, morto il 22 dello stesso mese e riuscì così imponente e pomposo da potersi dire per lo appunto quel che Plinio scrisse a Romano del funerale pubblico di Virginio Rufo, il quale, se non come Manzoni ebbe a vivere ottantotto anni, ne visse nondimeno ottantatre, compiuti in una beatissima quiete e in non minore venerazione, che stato console per tre volte, arrivò all’apice degli onori privati e sopravvivendo trent’anni alla sua gloria, lesse versi, lesse storie, scritti in suo onore e conversò in certa guisa co’ posteri: Post aliquot annos insigne, atque etiam memorabile populi romani oculis spectaculum exhibuit publicum funus Virginii Rufi maximi et clarissimi civis, perinde felicis[237]. Il [303] Paravia in nota a questa lettera di Plinio, affermò chiamarsi anche censoria questi publici funerali, rimettendo circa alle cerimonie, al lusso ed anche alla stravaganza di queste funebri solennità alle antichità Romane di Adam (vol. III e IV) che ne fece la descrizione. Ma il funerale publico, fatto a spesa dello Stato, che in quest’anno medesimo rimase più memorabile ancora, fu quello che si celebrò in Roma nel 7 giugno 1873, per Urbano Rattazzi, il più eminente uomo di Stato che aveva l’Italia, stato sei volte ministro di re Vittorio Emanuele, morto il 5 dello stesso mese in Frosinone, e il cui nome, come quello di carissimo e venerato amico, io rammenterò nelle lagrime finchè vita mi rimarrà. Non fu pompa solo ufficiale, ma, come fu egregiamente detto, fu vero plebiscito: poichè tutte le città vi partecipassero nel lutto, e con essa i principi reali, i più alti dignitari, senatori e deputati, illustri stranieri e d’ogni ordine cittadini. Splendidissimi del pari poi, ed a spesa del Municipio, Alessandria sua patria gli rinnovò l’undici giugno successivo, quando essa ebbe il cadavere che reclamò e che venendo da Roma ebbe lungo il viaggio le ovazioni delle popolazioni in mezzo alle quali passava.

Funus indictivum appellavasi quel grande funerale in cui veniva invitato il popolo a’ ludi gladiatorii ed alle militari rassegne, che si offerivano ad onoranza di illustre defunto; mentre tacitum o translatitium [304] dicevasi il funerale comune ed ordinario senza veruna ostentazione di potenza. Funus gentilitium era poi quello nel quale si recavano in processione le imagini de’ maggiori della medesima prosapia, gens.

Fatta dal banditore l’ultima conclamazione, il designator, o maestro della funebre cerimonia, assistito da’ suoi littori, o da un suo accolito, accensus, ordinava che la processione si incamminasse per trasferire il cadavere all’ultima dimora, tutti recando, comunque fosse di giorno, torcie accese nelle mani, in memoria dell’antico costume. Apriva la marcia una banda di musicanti, siticines, che suonavano la tibia longa, o flauto funebre, accompagnando con essa un canto lugubre in lode del trapassato, come ci spiegò Novio Marcello: Siticines dicti sunt qui funeratos et sepultos canere soliti erant causa honoris cantus lamentabiles[238].

Il mortoro de’ grandi e delle persone attempate, quando il publico era stato convocato, veniva accompagnato da trombettieri, tubicines, i quali annunciavano che il defunto non era stato tolto di vita dal ferro o dal veleno.

Dietro i musici venivano le prefiche, præficæ, schiave del libitinario incaricate di fare il piagnisteo; [305] ed esse, mediante pagamento, percuotevansi il petto, mandavano grida strazianti e strappavansi i capelli, ostentando un dolore fierissimo che erano ben lungi dal sentire. Così Lucilio nelle satire ci descrive la loro simulata desolazione:

Mercede quæ

Conductæ fient alieno in funere præficæ

Multo, et capillos scindunt et clamant magis[239].

L’uso delle prefiche, comune a quasi tutte le nazioni, si protrasse tardissimo anche fra noi. Nella diocesi di Milano vennero proibite dall’Arcivescovo S. Carlo Borromeo. — E celebravano esse talvolta le lodi del defunto col canto, nænia, e tal altra recitando passi de’ poeti più rinomati che avessero qualche analogia colla circostanza. Erano così insinceri siffatti canti laudativi, che passò di poi nænia per sinonimo di nugæ, ossia bagatelle od inezie. Il nostro Porta, l’insuperabile poeta del nostro vernacolo, disse alla sua volta bosard come on cartell de mort, bugiardo come un cartellone da morto, o, come potrebbesi anche dire, al pari di un epitaffio. Guasco ricorda che dietro le prefiche venissero altre donne: Piatrices, Sagæ, Expiatrices, Simpulatrices, ed erano sacerdotesse che presiedevano a’ sacrificj impetratorj per ottenere [306] l’ingresso del defunto negli abissi, ed espiatorj per purgarsi dai peccati[240].

Seguivano i Popi e i Victimarii: ufficio dei primi era di abbattere gli animali più diletti al defunto padrone, come cavalli, cani, ed uccidere uccelli alla pira funebre: dei secondi di predisporre gli arredi necessarii all’uopo. Essi apparivano nudi fino alla cintura.

Poi quelli che portavano le insegne onorifiche del morto, come le spoglie prese al nemico, i distintivi ed i premii conseguiti dal suo coraggio, ogni cosa però capovolta a dimostrazione di lutto. Portavansi pure le imagini degli avi illustri disposte per ordine cronologico su’ carri, pilenta, le insegne delle magistrature e delle dignità coperte da essi, e siffatto privilegio spettava pure alle donne ne’ loro funerali, dove avessero avuto negli antenati loro taluno che avesse sostenuto una magistratura curule.

Teneva dietro tutto ciò una schiera di mimi e l’archimimus o capo di essi. I primi ballavano danze grottesche al suon de’ crotali, le quali danze chiamavansi sicinnia, i cui salti regolavansi in misura co’ piedi dattili dell’anapesto, metro simile a un dipresso al quinario nostro e del quale eccone esempio tolto a Seneca il tragico:

[307]

Fundite fletus,

Edite planctus,

Fingite luctus,

Resonet tristi

Clamore forum, ecc.[241]

Il secondo, imitava coll’incesso e co’ gesti il costume, i modi più spiccati e la persona del defunto, come viene attestato dallo storico de’ Cesari, Svetonio[242].

Venivano ultimi i parenti e gli amici, spogliate le dita d’anelli e colla barba intonsa, vestiti tutti della penula oscula, abito di rigore nelle funerali pompe, nelle quali non era permesso portare la toga e comprendevasi essa fra i vestimenta clausa. I figliuoli incedevano colla testa coperta, le figlie invece a capo scoperto: queste poi, la madre e la moglie senza ornamento, colle chiome disciolte ed in nere gramaglie. Le donne solevano mostrare un vivo dolore, straziandosi il seno nudo ed il volto, tanto da spicciarne il sangue, e invocando l’amato defunto ad alta voce, come Properzio desiderava avesse a fare per lui la bella Cinzia:

[308]

Tu vero nudum pectus lacerata sequeris.

Nec fueris nomen lassa vocare meum[243]

e ciò non a vana dimostrazione di duolo, ma perchè, secondo spiegano i commentatori, i mani amano il latte ed il sangue.

Dopo di costoro, procedeva la bara, capulum, feretrum, lectica funebris, come poteva venire con tutti questi nomi designata, ed era un letto od anche una lettiga coperta da più o men ricco drappo, a seconda della varia dignità dell’estinto e portata da’ più prossimi parenti o dagli amici, in numero di sei o di otto, e per ciò detta anche exaphorum, od octophorum. Talvolta sorreggevasi essa dagli schiavi dichiarati liberi nel testamento, e tenevano allora in segno di loro recente libertà coperto il capo. I personaggi alto locati erano portati da dignitarj o funzionarj dello stato; la bara di Lucio Cornelio Silla dalle Vestali, quella di Giulio Cesare dai magistrati, quella di Augusto da’ senatori, quella di Tiberio da’ soldati, e Tacito ricorda che il feretro di Germanico venisse portato sulle spalle de’ tribuni e de’ [309] centurioni[244]; ma poi e più innanzi l’urna dell’imperatore Severo fu portata per mano dei consoli medesimi.

Dietro la bara succedeva la caterva de’ clienti, degli schiavi e de’ familiari, conducendo a mano gli animali che dovevano essere sagrificati al bruciamento del cadavere, e finalmente chiudevasi la processione colla carrozza vuota, rheda o carpentum, del defunto e colla turba de’ curiosi e sfaccendati che mai non mancano agli spettacoli che si offrono gratuitamente.

Il funerale corteggio, quando trattavasi di persona illustre o ricca, soffermavasi un tratto nel foro, dove, posto il funebre letto sulla tribuna, un prossimo congiunto, o l’erede beneficato, pronunciava l’orazione funebre in mezzo ai suoni lugubri di una musica mesta, ciò che diede origine alla frase latina laudare pro rostris. Ricorda il lettore come Svetonio, nella vita di Cesare, lasciasse memoria aver questi alla sua volta arringato dai rostri l’orazion funebre per la sua zia (amita) Giulia e per la moglie Cornelia, cogliendo il destro così di vantarsi disceso per una parte da regale prosapia e per l’altra da Venere, affine poi d’inferirne: est ergo in genere et sanctitus [310] regum, qui plurimum inter homines pollent, et cærimonia deorum, quorum ipsi in potestate sunt reges[245].

Il De-Gubernatis nella sua opera sullodata degli Usi Funebri Indo Europei[246], ricorda come Plutarco nella vita di Valerio Publicola riferisca a questo console l’origine della istituzione delle orazioni funebri romane. «Ebber cari i Romani — queste son le parole dello scrittore delle Vite degli uomini Illustri — quegli onori che fece Valerio al suo collega (Bruto) coi quali illustrar ne volle il mortorio, e specialmente l’orazion funebre che recitò in di lui lode egli stesso, la quale riuscì di tanta soddisfazione e fu sì grata ai Romani medesimi, che introdotto indi venne il costume di encomiarsi dopo morte, in tal guisa, tutti i grandi, e valentuomini dai personaggi più insigni. Questa orazion funebre, secondo si dice, fu più antica anche di quella de’ Greci, se pure anche ciò non fu una istituzione di Solone, come lasciò scritto il retorico Anassimene.» Dionigi d’Alicarnasso, nel libro quinto delle sue Antichità Romane, scrive non poter affermare se Valerio sia stato il primo a pronunciare in [311] Roma un discorso funebre, o s’egli abbia invece seguito un costume già invalso tra i re; ma in ogni modo ritiene il costume come romano e rimprovera i tragici ateniesi per averne voluto fare un merito alla loro città, che non conobbe, a suo avviso, le orazioni funebri, se non dopo la battaglia di Maratona, che fu posteriore di sedici anni alla morte di Bruto.

Ripigliava quindi la processione il suo corso e uscendo dalla città[247] pel Circo Massimo e la porta Capena per mettersi nella via Appia, ch’era quella delle tombe, si avviava al rogo, rogus, ed anche grecamente pira, πυρά, che era una specie di altare, o catasta, piuttosto costruita nel recinto sepolcrale detto bustum, o contiguo alla tomba, di ciocchi d’alberi resinosi, non digrossati ne’ squadrati, in masse ad angoli retti, adorna di ghirlande e ramoscelli di cipresso, sulla cima della quale collocavasi dallo schiavo, detto Ustor, il cadavere, asperso di preziosi liquori e avvolto in un lenzuolo di amianto. Dapprima il più prossimo congiunto o l’erede ne aveva riaperto gli occhi, come voleva il rito, reputandosi sacrilegio il privare il cielo degli sguardi di un morto, e curavasi [312] che portasse al dito il suo anello e prima di avvilupparlo nel sudario la moglie e i figli deponevano sulle gelide labbra di esso l’estremo bacio, tributo ultimo che pur a sè stesso augurava ricevere dalla sua Cinzia Properzio:

Osculaque in gelidis pones suprema labellis

Quum dabitur Syrio munere plenus onyx[248].

E si staccavano dalla cara spoglia colle parole consacrate dal rito: Vale. Nos te ordine quo natura voluerit cuncti sequemur[249].

Ciò fatto, il più prossimo congiunto, stornando la testa, appiccava colla rovescia torcia il fuoco alla pira e mentre questa ardeva, gittavansi su d’essa incensi, profumi, vino, capelli e fiori, e lo stesso Poeta or ricordato, pone in bocca alla sua Cinzia, che morte gli toglieva anzi tempo e l’ombra della quale gli era ne’ sogni apparsa, il lamento perchè nè di profumi, nè di vino e neppure di giacinti avesse egli onorato il suo rogo:

Cur ventos non ipse rogis, ingrate, petisti?

Cur nardo flammæ non oluere meæ?

[313]

Hoc etiam grave erat nulla mercede hyacinthos

Inficere, et fracto busta piare cado[250].

Altri buttavan su quella fiamma le armi, le phaleræ[251] e le vestimenta preziose del defunto, i cavalli a lui prediletti, i molossi, i papagalli e quanto in vita aveva di meglio amato, e accadde ancora che in mezzo ad essi si slanciassero gli schiavi stessi, come per essere compagni al trapassato nel viaggio d’oltre tomba. Così Virgilio menzionò nell’Eneide il devoto costume:

Hic alii spolia occisis direpta Latinis

Conjiciunt igni, galeas, ensesque decoros

[314]

Frænaque, ferventesques rotas: pars munera nota,

Ipsorum clypeos, et non felicia tela[253].

perocchè munera appunto si chiamassero le preziose cose avute in pregio del suo vivente dal defunto.

Nè il popolo restava inoperoso in mezzo alla cerimonia; ma pregava i venti spirassero secondi, giusta il costume de’ Greci rammentato nell’Iliade nei funerali di Patroclo:

Ma del morto Patròclo il rogo ancora

Non avvampa, allor prende altro consiglio

Il divo Achille. Trattosi in disparte,

Ai due venti Ponente e Tramontana

Supplicando, solenni ostie promette,

E in aurea coppa ad amendue libando,

Di venirne li prega, e intorno al morto

Sì le fiamme animar, che in un momento

Lo si struggano tutto esso e la pira[254].

Se il funerale era di condottiero di esercito, cavalieri e fanti riccamente ornati tre volte giravano intorno al rogo, ciò che chiamavasi decursio, mandando dolorosi lai:

[315]

Ter circum accensos, cincti fulgentibus armis,

Decurrere rogos: ter moestum funeris ignem

Lustravere in equis, ululatusque ore dedere

Spargitur et tellus lacrymis, sparguntur et arma[255].

Così leggesi anche in Svetonio nella vita di Claudio, come intorno al tumulo di Druso Germanico corresse ogni anno un soldato; e Tacito scrive: Chatti tumulum super varianis legionibus structuri, ad aram Druso sitam disiecerant. Restituit Cæsar arum honorique patris princeps ipse cum legionibus decucurrit[256].

Ed intanto che il fuoco divampava, si facevano le libazioni di vino, di latte e di sangue, alla quale ultima fornivanlo le vittime immolate, i prigionieri, gli schiavi od anche i gladiatori detti bustuari, per ciò che innanzi al rogo combattessero combattimento [316] mortale, avendosi fede, come già notai, che i mani si placassero col sangue.

I più ricchi e prestanti cittadini, siccome m’accadde di mentovare nel capitolo dell’Anfiteatro nel dire de’ ludi gladiatorii, crescevano onoranza con gli spettacoli di gladiatori, che si offerivano gratuitamente al pubblico, e il dittatore Lucio Cornelio Silla li dispose grandiosissimi pe’ suoi funerali nel proprio testamento, secondo si raccoglie nell’orazione di Cicerone, pur da me già citata nei capitoli della Storia Pompejana, recitata pro Publio Sylla.

Ma ad onorare la memoria dei defunti altri modi vi erano. La lettera XVIII del Lib. VII. delle Epistole di Plinio il Giovane ci apprende come Caninio Rufo, per eternare la memoria della propria moglie, disponesse un annuale convito a’ suoi concittadini Comaschi e in un rottame di lapide conservatoci dal Giovio si legge che altri due Caninii della stessa città lasciassero similmente una somma per celebrare un annuale banchetto: eccone il frammento:

ORNAMENTVM ET ROSA PONERETVR
RELIQ. INTER SE SPORTVLAS DIVIDERENT
IN CVIVS TVTEL. DEDERVNT CANINIVS VIATOR
ET CANINIVS EVPREPES HS.

Più munificente e assennato appare dalla medesima lettera XVIII Plinio stesso, quando ci dice aver assegnato 500 mila sesterzi alla sua patria Como per educare i giovani.

[317]

Le persone povere, o quelle non così facoltose e in grado di comperarsi il bustum, portavansi all’ustrina, terreno publico destinato a bruciare i cadaveri, le ceneri de’ quali venivano quindi trasportate ne’ sepolcreti di famiglia se l’avevano, o se non l’avevano, al sepolcro comune, al quale accenna Orazio nel verso:

Hoc miseræ plebi stabat comune sepulcrum[257];

perocchè la legge proibisse di appiccare il fuoco ad un rogo sul terreno d’altrui proprietà.

Consumatasi la salma, estinguevansi le fiamme col vino: il più prossimo parente, cantandosi da’ musici l’epicedum o poemetto funebre in onore del morto, (da ἐπὶ sopra, e κὴδος, funerale), raccoglieva le ossa ancora ardenti, le lavava in vecchio vino e nel latte e le asciugava con un lino, ciò che chiamavasi ossilegium.

Siffatta costumanza di lavare nel vino, nel latte e [318] talvolta anche nell’olio le ossa, era stata vietata come inutile scialaquo dalle leggi delle XII Tavole; ma non per questo era stata meno e sempre in vigore e in Roma e presso tutte le nazioni a’ Romani soggette. Giova anzi a tal proposito ricordare il grazioso epitaffio che uno schiavo aveva scolpito sulla tomba da lui fatta erigere al giovinetto padrone suo, che così si chiudeva:

Ossibus infundam quot numquam vina bibisti[258].

alludendo al divieto de’ Romani che i fanciulli avessero a bever vino.

Riponevansi da ultimo le ossa in un’urna talvolta di bronzo, il più spesso di terra cotta, di marmo, di alabastro o di vetro, del quale ultimo materiale è l’urna cineraria, scoperta in Pompei, riempita per metà di un liquido e nel quale si discernono ancora i resti di ossa e di ceneri. Oltre di tale liquido si sa vi ponessero rose e piante aromatiche. Un sacerdote per ultimo aspergeva d’acqua lustrale i parenti onde purificarli, ciò che dicevasi suffitio, e dopo, il capo della cerimonia, designator, od anche la prefica, diceva loro: I licet, cioè potete ardarvene e la comitiva si discioglieva. Allora chiudevasi l’urna [319] nella tomba, sulla quale ponevasi la pietra detta monimentum, onde fu poi generalizzato il nome di monumento agli edifizi funebri e sovr’esso l’inscrizione predisposta. Più avanti ne recherò parecchi saggi di quelle trovate e lette negli scavi della Via delle Tombe in Pompei.

E i vasi lacrimatorj, mi si chiederà, a che non li avete voi accennati, prima di chiudere col monimentum il sepolcro?

È di fatto che ne’ sepolcri antichi, e pur in quelli di Pompei si rinvenissero vasi e cucchiai detti lagrimatorii; ma servivano essi davvero a raccogliere, come fu preteso, le lagrime de’ veraci dolenti e delle prezzolate prefiche?

Il Baruffaldi lo credette nella sua Dissertazione De Præficis e lo credettero il Fabbretti nel suo libro delle Iscrizioni ed altri ancora; e il Fabbretti volle anzi da certi fori praticati sovente sul coperchio delle antiche tombe, argomentare l’usanza d’introdurvi per essi le lagrime de’ congiunti ne’ giorni anniversarii o nelle feste commemorative de’ loro cari defunti, molto più che in taluni vasi si sieno vedute delineate le orbite degli occhi, e sui monimenta si riscontrino scolpite tazze ed espresse le lagrime negli epitaffi; ma colla dovuta reverenza a questi dotti, io non mi sono mai capacitato che tal costume avesse potuto un giorno sussistere. Piagnone prezzolate, artifici di dolore per quanto sottili, lagrime di [320] dolenti, versate dopo parecchi giorni dal decesso del caro parente, come avrebbero potuto fornir tanta materia a’ cucchiai e vasi lacrimatorii? Questi arnesi, queste fiale di vetro o di terra cotta, di alabastro o d’altro, non sarebbero stati piuttosto adoperati a raccogliere balsami ed aromi che gittavansi sul rogo, o libazioni di latte e di vino, che si facevano sulle tombe?

Il Grutero, nella eruditissima sua opera, recò più d’una iscrizione, fra le cui parole vedevansi scolpite cucchiaj o patere, come più propriamente dicevansi, le quali erano appunto vasi circolari con manichi, atti a contenere liquidi, ma più specialmente usati, dice Rich, a contenere il vino con cui era fatta una libazione[259].

I fori adunque praticati ne’ coperchi delle tombe debbono indubbiamente aver servito a far penetrare le libazioni di vino e di latte, di che Foscolo pur tenea conto in que’ versi de’ suoi Sepolcri:

Le fontane versando acque lustrali,

Amaranti educavano e viole

Su la funebre zolla; e chi sedea

A libar latte e a raccontar sue pene

Ai cari estinti, una fragranza intorno

Sentia qual d’aure de’ beati Elisi[260].

Questi fori si praticavano ad esempio nei loculi, o bare, quando i cadaveri non si abbruciavano ancora [321] ma si collocavano in essa interi. Entro codesta bara spesso di terra cotta, eravi ad una estremità una soglia elevata per adagiarvi il capo e dallato un foro tondo pei balsami aromatici, che si versavano dentro per mezzo d’un corrispondente orificio nella parete esterna della cassa.

Il costume della cremazione de’ cadaveri, del cui procedimento presso i Romani ho intrattenuto il lettore, non era antico a’ tempi di Plinio, voglio dire al tempo della catastrofe di Pompei, siccome egli l’attesta. Era la cremazione usata solo in Grecia fin dai tempi di Cecrope, dicendo Luciano che il Greco abbrucia i cadaveri, il Persiano li sotterra, l’indiano li avvolge di grasso porcino, lo Scita li divora, l’Egizio li imbalsama. L’essersi adottata da Romani originò dall’oltraggio che veniva fatto alle tombe, quando i romani morivano in lontane contrade, e che però vi si voleva ovviare. Lucio Cornelio Silla, che a cagione delle tante proscrizioni aveva ragione a temere l’insulto al proprio cadavere, com’egli stesso aveva fatto a quello di Mario, dissotterrandolo e facendolo gittare nel Teverone, fu il primo che ordinasse di ardere, dopo morte, il proprio corpo, e così invalse il costume passato in legge, e Ovidio lo rammenta nel verso:

Corpora debentur mæstis exanguia bustis[261].

[322]

Siccome poi essi pensassero che l’anima fosse della natura del fuoco, e che il rogo le facilitasse l’uscita dal corpo e però l’onore del rogo non s’avesse a concedere che alle persone dotate di ragione e sentimento; così, per testimonianza dello stesso Plinio il Vecchio, non s’accordava a’ bambini, a’ quali non fossero ancora spuntati i denti, perocchè sarebbe stata considerata siccome empietà che contaminerebbe la casa e vi allude pur Giovenale nella Satira XV ne’ seguenti versi:

Naturæ imperio gemimus, quum funus adultæ

Virginis occurrit, vel terra clauditur infans,

Et minor igne rogi[262].

Seppellivansi quindi la notte allo splendore delle faci. Le loro ossa poi deponevansi in luogo detto subgrundarium, sotto di un tetto, cioè, o gronda sporgente, a modo di nido di rondine[263].

Nè abbruciavansi tampoco i corpi di coloro che erano colpiti dalla folgore: Hominem ita exanimatum, cremari fas non est; condi terra religio tradit, disse il medesimo Plinio[264].

[323]

Ora il costume della cremazione divien soggetto alle più serie investigazioni e discussioni in Italia, che lo si vorrebbe sostituire a quello della sepoltura de’ cadaveri. Ragioni specialmente di igiene lo pongono innanzi e lo propugnano calorosamente, e se adottato, come pare dall’Italia, verrà seguito pure dalle altre nazioni incivilite, avrà avuto una volta di più suggello l’osservazione del francese Ipp. Lucas dell’Istituto di Francia che «all’Italia è affidata per diritto l’iniziativa del progresso umanitario[265].» È principalmente nella mia Milano che l’importante questione si agita, sicchè egregiamente quell’ottimo uomo che è Giuseppe Sacchi, osservava che la cremazione è per Milano il ritorno ad un’antica usanza, additando una località nei pubblici giardini che era ad essa destinata, e rivendicando per tal modo alla nostra città il doppio merito di aver sempre spento con la violenza della sua riprovazione i roghi della Inquisizione, e di avere all’opposto innalzato pei cadaveri il rogo purificatore. Fra noi, a tale scopo, si istituì un comitato promotore sotto la presidenza dell’illustre medico e chimico prof. Giovanni Polli e del qual fan parte quei chiari suoi colleghi che sono il Pini, lo Strambio, il Dell’Acqua, il Griffini e il Tarchini-Bonfanti. E solenne conferenza indissero costoro [324] nel giorno 6 aprile 1874, per trattarvi dell’argomento e del modo migliore di cremazione, dove appunto si udirono le suddette parole del Sacchi, dove Amato Amati espresse il concetto che la nuova usanza, restaurando coll’urna cineraria domestica il culto della famiglia, vi alzerà il carattere morale della nazione, e il dotto prete prof. Bucellati in una bella sua lettera diretta per quell’occasione al Comitato, scaltrì di pregiudizio la credenza che essa possa ledere i diritti della cristiana religione[266]. Concesse queste brevi parole ad un argomento di tutta attualità, faccio ritorno al mio tema.

La dimane del rogo i parenti e gli amici venivano invitati ad un banchetto funebre. Prima di mettersi a tavola si purificavano col lavarsi. Se ricco il defunto, davasi tale banchetto anche al pubblico ed appellavasi silicernium. A differenza di Grecia, dove il [325] Silicernium compivasi nella casa del parente più prossimo del defunto e subito dopo l’esequie, come si trova ricordato in Demostene (De Coron.); in Roma e nella romana colonia questo convivio aveva luogo presso il sepolcro stesso; e le camere squisitamente decorate, che così comunemente s’incontrano nelle loro tombe, come accessorie di queste, ma non mai adoperate a ricevere urne, erano senza dubbio intese a questo fine. In Pompei, nella Via delle Tombe, troveremo un Triclinium funebre stabile presso le tombe, costituito da un recinto, con entro tre letti triclinarii di materia di fabbrica, su cui, a renderli più comodi, si saranno all’occasione distesi materassi, pulvinares.

Il più spesso il silicernium misuravasi dalla entità dell’asse redato o dalla gratitudine dell’erede; Persio lo attesta:

Sed cœnam funeris hæres

Negliget iratus si rem curtaveris, urnæ

Ossa inodora dabit: ceu spirent cinnama surdum,

Seu ceraso peccent casiæ, nescire paratus[267].

[326]

Se poi l’erede limitavasi a sola distribuzione al pubblico di carni crude, dicevasi essa visceratio. Esempio celebre del primo fu il silicernio imbandito da Cesare per la morte di Giulia a ventiduemila persone; altri dicono sessantaseimila.

Un altro banchetto funebre famigliare facevasi nove giorni dopo e designavasi col nome di novemdialia e nel dì susseguente, denicales feriæ[268], purificavasi la casa mortuaria contaminata dalla presenza del morto e quindi per consueto distribuivansi ancora largizioni alla plebe.

Non era per altro così de’ funerali de’ poveri. Non sorgeva cipresso avanti la porta, non difilava processione, non intendevansi suoni, non celebravansi le altre cerimonie e solennità.

Tre giorni dopo la morte, giungevano quattro necrofori, vespillones, sul cader della notte, a levarli di casa in una cassa da nolo, detta sandapila, ed a portarli nella fossa pubblica oltre le mura, in luoghi detti puticuli ed anche putiluci, a causa, disse il dotto Turnebo, della profondità delle fosse, nelle quali, non altrimenti che in pozzi, non poteva scendere luce, e tutto era presto finito.

Reduce la famiglia dal funerale, si purificava la casa contaminata dalla presenza del cadavere spazzandola [327] con iscopa di tamerigia o di palma ed invocando Deverra (da verrere, spazzare), divinità che presiedeva appunto alla pulitezza delle case.

A tutte le predette cerimonie teneva dietro il lutto: per gli uomini ristretto a dieci giorni di isolamento o ritiro nella propria casa; per le donne ad un anno o a dieci mesi almeno.

Eravi poi il lutto publico, quando si volevano onorare grandi virtù di illustri trapassati o piangere la perdita di qualche grande battaglia, come fu quella toccata a Canne, in cui perirono quarantacinque mila romani, il Console Paolo Emilio e ottanta senatori. Esso indicevasi dal Senato ad ogni ordine di cittadini.

In tal tempo sospendevasi dal rendere giustizia, i consoli non sedevan sulle loro sedie curuli, i littori portavano capovolti i fasci, i senatori deponevano il laticlavio, gli anelli d’oro, nè radevan la barba, o tagliavano i capelli, proibiti i conviti festosi, l’accender fuoco nelle case e il fabbricare.

Nel lutto privato poi esponevansi le imagini del defunto ad incitamento di virtù, come s’esprime al proposito Sallustio: Sæpe audiri præclaros civitatis nostræ viros solitos dicere, cum majorum imagines intuerentur vehementissime sibi animum ad virtutem accendi: scilicet non ceram illam, neque figuram, tantam vim in se habere: sed memoriam rerum gestarum eam flammis egregiis viris in pectore crescere, neque prius [328] sedari quam virtus eorum famam atque gloriam adæquaverit[269]. Doveva Foscolo di certo aver rammentato questo passo, del quale serbò perfino qualche parola, quando cantava ne’ Sepolcri:

A egregie cose il forte animo accendono

L’urne de’ forti[270].

E il medesimo nostro grande Poeta aveva poco prima cantato come tanto venerata e sacra fosse la memoria de’ cari defunti, che venisse perfino giurato su di essa:

. . . . e fu temuto

Su la polve degli avi il giuramento[271].

Properzio presta uno di tali giuramenti, per le ossa del padre e per quelle di sua madre:

Ossa tibi juro per matris, et ossa parentis.

E Quintiliano, più tardi, così esprime il dolore provato [329] per la moglie e pel figlio statigli da morte immatura rapiti: io giuro pei loro mani, divinità del mio dolore,

Per illos manes, numina doloris mei.

Nè con queste dimostrazioni aveva fine il lutto.

V’erano commemorazioni funebri altresì durante l’anno, come nelle feste Parentali che seguivano in febbrajo e in giorni fasti detti anche Feralia, e come nelle feste Lemuralia, e, com’altri dice, Remuralia, perchè istituite da Romolo in onore del fratello Remo da lui ucciso, che avvenivano in maggio, nelle quali la famiglia recavasi ad onorare il sepolcro del diletto defunto e là nel vicino triclinio, fra le dapi del banchetto, non dovevan mancare l’appio, il sale, il miele, le lenti, il farro, le uova e le fave.

La cerimonia incominciava a mezza notte: il padre di famiglia alzavasi dal letto, e tacito e invaso da sacro terrore, a piedi scalzi, solo facendo scricchiolare le dita per allontanare le ombre dal luogo pel quale passava, incamminavasi a una fontana. Quivi lavate per tre volte le mani, rifaceva il cammino gittando al di sopra del suo capo delle fave nere che aveva in bocca e mormorando questo scongiuro: con queste fave io mi riscatto insieme con quelli della mia famiglia. Tali parole doveva ripetere per ben nove volte senza guardare dietro di sè, supponendosi che l’ombra dalla quale era seguitato raccogliesse [330] non vista le fave. La festa lemurale chiudevasi dal medesimo padre di famiglia, prendendo dell’acqua un’altra volta, battendo su di un vaso di bronzo e pregando l’ombra di uscire dalla sua casa, ripetendo ancor nove volte le parole: uscite, o mani paterni.

Le offerte poi che si facevano sulle tombe in codeste funebri commemorazioni, che feralia appunto si chiamavano da questo pio costume di donativi ai morti, come lasciò scritto ne’ Fasti il già citato Poeta latino:

Hanc, quia justa ferunt, dixere Feralia lucem[272];

si vennero poco a poco aumentando. Pur nondimeno tenevasi che non eccessive fossero le esigenze degli Dei Mani. Udiamo Ovidio:

Est honor et tumulis. Animas placate paternas,

Parvaque in extinctas munera ferte pyras.

Parva petunt Manes: pietas pro divite grata est

Munere; non avidos Stix habet ima Deos.

Tegula projectis satis est velata coronis,

Et sparsæ fruges, parcaque mica salis.

Inque mero mollita Ceres violaque solutæ;

Hæc habeat media testa relicta via.

[331]

Nec majora veto: sed et his placabilis umbra est.

Adde preces positis et sua verba focis[273].

Non lascerà il lettore in codesta citazione di rilevare la costumanza d’offrire ai morti i doni su d’una tegola o coccio. Venivano sporti anche su d’una pietra.

Anche Giovenale accennò alla tenuità delle offerte che si facevano a’ defunti, nella Satira V, dicendola Exigua feralis cœna patella[274].

Chiudevansi in questi giorni i templi degli Dei celesti, erano interdette le nozze e vietato l’uso del fuoco, perocchè si reputassero giorni immondi: di che pure ne avvisa il succitato Ovidio, nel medesimo libro secondo Fastorum, dove pure ricordò che in [332] quelle feste, feralia, facevasi altresì sagrificio alla dea Tacita o Muta, della quale canta la sventura e i casi avventurosi, per avere garrula rivelato ella alla ninfa Giuturna gli amorosi intendimenti del Tonante verso di lei e accesa pur colla sua indiscrezione le furie gelose di Giunone, onde Giove resola muta e affidata a Mercurio perchè la scorgesse a’ regni inferni, venisse da questo Dio fatta madre dei gemini Lari, divenuti poi questi custodi della romana città.

V’erano poi anche le Inferiæ, e sacrifizi in onore degli Dei d’Averno, che celebravansi a notte dal sagrificatore seguito dagli Editui, o guardiani, che avevano la cura de’ templi, dai Camilli e Camille, giovanetti che assistevano ai sagrifzi, dai popi o ministri che menavan le vittime, le quali erano in tale occasione un bue ed una pecora, e dai vittimarj, e talvolta anche dai littori preceduti dal suono dei siticini e dai præclamitatores, che ingiungevan la sospensione del lavoro. Accoltisi questi intorno all’ara uno de’ præclamitatores bandiva alla accorsa plebe silenzio, acciò non isfuggisse pur una voce di sinistro augurio:

. . . . Vos pueri et puellæ

Iam virum expertæ, male ominatis

Parcite verbis[275].

[333]

E il sacerdote compiva allora il sagrificio, invocando i nomi terribili di Ecate e di Proserpina, ed aspergeva di vino il sepolcro.

Da’ riti funerarii è naturale il passaggio a ragionar de’ sepolcri, che i romani ergevano a memoria ed onoranza de’ loro cari ed illustri defunti. Dirò di essi prima di particolareggiar di quelli che troveremo schierati lungo la Via delle Tombe di Pompei, per la quale mi sono proposto di condurre il mio benevolo lettore.

Come semplici erano stati i primi costumi di Roma; semplici e modeste erano pure state le loro tombe; ma poichè ebbero i nipoti di Romolo a fare prima cogli Etruschi e poi colla Grecia, impararono così dall’un popolo e dall’altro solennità e pompe che vennero ogni dì più, anche per loro aggiunzioni, crescendo. Già dissi de’ ludi gladiatorj introdottisi ne’ funerali allorchè volevansi splendidi e solenni: ora delle sepolture, le quali furono grandiose spesso, maravigliose talvolta, a seconda delle fortune del trapassato.

La legge delle XII Tavole vietò il seppellire in città: epperò convien rintracciare le tombe e i mausolei fuori di essa, lungo le vie più frequentate e vaste. Così sorsero sulla via Appia principalmente, sulla Aurelia, Lavicana, Ostiense, Flaminia, Prenestina, Salaria e Tiburtina, e a’ nostri giorni ancora trovansi molti cippi e colonne sepolcrali che attestano dell’estensione [334] del terreno, in antico consacrato all’inumazione, ed anche Giovenale chiude la Satira I coi versi che ricordano la via Flaminia e la Latina come frequentatissime di sepolture:

Experiar quid concedatur in illos,

Quorum Flaminia tegitur cinis atque Latina[276],

alludendo appunto a siffatto costume.

Se, al dir di Varrone, i monumenti si collocavano lunghesso le vie per tenere continuamente viva nel pensiero del viandante l’idea della loro fralezza: sic monimenta quæ in sepulcris; et ideo secundam viam quo prætereuntes admoneant et se fuisse et illos esse mortales[277]; non mancavano tuttavia di coloro che aborrissero avere loro tomba in luoghi così publici e rumorosi; e tra questi il già più volte citato Properzio fa voti perchè la sua Cinzia, lui morto, non gli abbia ad alzare in essi la tomba.

Dî faciant, mea ne terra locat ossa frequenti,

Qua facit assiduo tramite vulgus iter.

[335]

Post mortem tumuli sic infamantur amantem;

Me teget arborea devia terra coma.

Aut humet ignotæ cumulus vallatus arenæ:

Non juvat in media nomen habere via[278].

Non altrimenti, se mi è lecito esprimere qui il mio proprio sentimento, io direi per me de’ moderni cimiteri monumentali, dove la curiosità e l’arte sostituiscono sempre il dolore e il religioso raccoglimento.

Fuor di Pompei, la Via delle Tombe s’aprì nel sobborgo Augusto Felice, cioè immediatamente fuori della città, nè più nè meno dunque che in Roma e in tutte le città, si può dire, del mondo romano.

V’erano per altro eccezioni: le Vestali avevano il privilegio del sepolcro entro le mura e l’ebbero, per singolar privilegio, Valerio Publicola, Tuberto, Fabrizio, Cesare; e Trajano fu il solo degli imperatori [336] cui venisse concessa la sepoltura in città. La famiglia Claudia aveva pure tal privilegio della sepoltura sotto il Campidoglio. I discendenti di Publicola, che con lui avevano ottenuto il diritto della sepoltura in città, in fatto non se ne valsero, poichè, al dir di Plutarco, contentavansi di mettere un ardente torchio sulla tomba di famiglia al verificarsi d’ogni morte, facendo del resto i loro congiunti seppellire nella contrada di Velia.

Di grandi e spesso enormi spese, come dissi, profondevano ne’ sepolcri e ne’ monumenti i Romani e ne stanno a testimonianza ancora la piramide di Cajo Cestio, la tomba di Cecilia Metella e la Mole Adriana e non era sempre un pensiero di sfarzo e d’orgoglio che presiedeva a queste opere, ma più sovente il sentimento di pietà e d’amore che li animava e ciò leggiadramente espresse il francese Roucher ne’ seguenti versi che reco nel loro idioma:

Ce respect pour les morte, fruit d’une erreur grossière,

Touchait peu, je le sais, une froide poussière,

Qui, tôt ou tard s’envole éparse au gré des vents,

Et qui n’a plus enfin de nom chez les vivants;

Mais ces tristes honneurs, ces funèbres hommages

Ramenaient les regards sur des chères images;

Le cœur près des tombeaux traissaillait ranimé

Et l’on aimait encore ce qu’on avait aimé.

Epperò i ricchi fabbricavano nelle proprie ville i sepolcri in forma di edicole di buona e severa architettura e le quali decoravano di statue, di pitture e musaici, [337] di vasi e di urne di eletti marmi. E siccome sa il lettore che degli estinti non serbavansi che le ceneri leggiere, come Paolo Emilio in Properzio dice alla consorte:

En sum quod digitis quinque levatur onus[279];

così non ad un solo defunto destinavasi ciascun sepolcreto, ma a tutti i defunti d’una famiglia, compresi pure i liberti, collocandosi le ceneri in altrettante nicchie; onde appellavasi sepulcrum familiare, perchè sibi quis familiæque suæ constituebat[280], di che se ne trovò esempio in Pompei; Sepulcrum comune dicevasi quella stanza che riceveva le ceneri di più persone appartenenti a più famiglie, disposte a due ollæ cinerariæ per colombajo.

Sepolcri ereditarj eran poi quelli quæ sibi hæredibusque suis, o quæ paterfamilias jure hæreditario aquisivit[281]; ma se dovevan servire per determinate persone, solevano apporvi le lettere H. M. H. N. S. cioè Hoc monumentum hæredes non sequitur, o alle tre ultime lettere sostituivansi queste A. H. N. T., vale a dire [338] Ad Hæredes non transit[282], come se ne ha memoria in quel passo di Orazio:

Mille pedes in fronte, trecentos cippus in agrum

Hic dabat, heredes monumentum ne sequeretur[283].

Co’ sepolcri propriamente detti non voglionsi confondere i cenotafi, monumenti onorarii, che venivano dal popolo eretti alla memoria di quegli illustri uomini ch’erano morti per la patria; onde egregiamente e con tutta ragione poteva Ugo Foscolo nel succitato suo Carme de’ Sepolcri dire:

Testimonianza a’ fasti eran le tombe,

e le annuali feste e le cerimonie religiose che inoltre vi si praticavano valevano veramente a tramandare a’ posteri la memoria de’ nomi e delle gesta gloriose:

Religïon che con diversi riti

Le virtù patrie e la pietà congiunta

Tradussero per lungo ordine di anni[284].

Nondimeno questi monumenti che si elevavano a [339] spesa pubblica e per cagione d’onore, rispondendo al significato delle due parole greche onde il nome si componeva, non contenevano le ceneri o gli avanzi del corpo della persona che si voleva onorare: erano costruzioni semplicemente commemorative, come sono oggidì talune di quelle che sorgono nel tempio di Santa Croce in Firenze, che si vorrebbe fare il Panteon degli illustri italiani; onde Virgilio nel lib. III dell’Eneide appellò eziandio tal sorta di tumuli tumulus inanis, o vuoto, là appunto dove ricorda il cenotafio rizzato da Andromaca ad Ettore suo marito.

I luoghi per altro, sui quali si innalzavano i cenotafi non erano sacri, come quelli de’ sepolcri.

Ma se a sepolcri e monumenti di ricchi e maggiorenti erigevansi cenotafii, mausolei, vôlte sepolcrali, piramidi ed altrettali opere architettoniche e scultorie; per cittadini minori, o poveri, adottavansi corrispondenti segni meno dispendiosi. Tali erano le columellæ, dette anche dai Latini cippi; le mensæ, le tavole quadrangolari più lunghe che larghe; i labellæ o labra, che erano pietre a forma di bacino; le arcæ somiglianti a forzieri, sorrette per lo più su’ piedi di lione o d’altro animale.

Ageno Orbico ricordò varii luoghi ne’ sobborghi di Roma, dove stavano moltissimi sepolcri di persone del volgo e di schiavi. Sestertium denominavasi il campo, pure fuori delle mura, dove seppellivansi le [340] persone ch’erano state per ordine degli imperatori mandate a morte; nè a me è dato ricordarle, senza ad un tempo rammemorare la interessantissima scena che vi fa svolgere nel suo bello e dotto romanzo Tito Vezio il patriotta Luigi Castellazzo, cui una straordinaria modestia ha consigliato ascondersi sotto il pseudonimo di Anselmo Rivalta.

Allorchè sulle iscrizioni de’ sepolcri leggevansi le parole tacito nomine, sottacendosi ad un tempo il nome delle persone alle quali appartenevano, significavano esse che racchiudessero persone dichiarate infami.

A’ sepolcri de’ semplici cittadini era espressamente vietato di aggiungere fregi, ove non fossero o una colonna di non oltre i tre cubiti di altezza, statue ed emblemi della professione che il defunto aveva esercitata.

Le iscrizioni incominciavano colle due lettere greche Θ Κ, che corrispondevano a Diis Manibus, come assai sovente usiam pur noi sostituendo, secondo la nostra credenza, le lettere D. O. M. cioè, Deo Optimo Maximo, o pΧ il monogramma di Cristo.

Era poi concesso piantare presso le tombe olmi e cipressi, perchè alberi non producenti frutti; ed educarvi olezzanti fiori, come testimonia Ugo Foscolo nel lodatissimo suo Carme già citato:

Ma cipressi e cedri

Di puri effluvii i zefiri impregnando,

[341]

Perenne verde protendean sull’urne

Per memoria perenne....

Le fontane versando acque lustrali

Amaranti educavano e vïole

Su la funebre zolla[285].

Frequenti poi erano le piccole are accanto alle tombe pei sacrifici, che nelle feste summentovate facevansi da congiunti ed eredi, a placar l’ombre dei diletti loro morti.

Era tutta adunque una religione, venerata e profonda questa verso i defunti, e dinnanzi alla quale s’arrestavano le disquisizioni ed i dubbi anche de’ filosofi più miscredenti.

Nulla quindi di più consentaneo a tale comune reverenza pei defunti e per le loro dimore, che l’esistenza di apposite leggi, le quali guarentissero l’inviolabilità e il rispetto delle tombe. Troviamo infatti nel Corpus Juris, prima nel Lib. XLVII il Tit. XII; poi tutto il Titolo XIX che trattan De sepulcro violato. Nel primo è comminata l’infamia come conseguenza dell’azione di violato sepolcro, oltre diverse altre pene inflitte a chi manomettesse cadaveri, ossuarj e tombe: nel secondo è irrogata la condanna alle miniere allo schiavo colto a demolire sepolcri, ed alla relegazione se il faceva d’ordine od autorità del padrone. Chiunque poi avesse violato i sepolcri domos [342] defunctorum, sottraendovi sassi, marmi, colonne, od altro qualunque materiale, per servirsene ad uso di fabbrica, o turbando corpi sepolti o reliquie, multato di ingente pena pecunaria; punito il giudice perfino in venticinque libre d’oro quando avesse negletto di castigare i violatori di sepolcri. E come per legge antica codesti profanatori di tombe punivansi della pena del sacrilegio; così anche ai tempo del basso impero si fu costretti a richiamare la medesima severa sanzione penale; argomento codesto a ritenere che si fosse infiltrato poco a poco ne’ degeneri nipoti la mancanza di rispetto a’ sepolcri. Così era assolutamente vietato l’impedire, sotto pretesto di debito, la sepoltura del defunto, colla comminatoria di cinquanta libre di multa, e in difetto pagasse di sua persona avanti il giudice competente; non potendosi tampoco nè molestare il moribondo, nè turbare il funerale, pena l’infamia, e posta al bando la terza parte de’ beni del disturbatore.

Nel libro XLVIII Digestorum, Tit. XXIV De cadaveribus Punitorum, apprendiamo come non si potessero negare a’ congiunti i corpi di coloro che fossero stati condannati nel capo, citandosi l’autorità del divo Augusto, che nel libro X De Vita sua, ebbe a scrivere aver egli ciò voluto che si osservasse. Il giureconsulto Paolo poi lasciò ricordato che i cadaveri de’ condannati, dietro domanda di chicchessia, si lasciasse che venissero dati alla sepoltura; solo i [343] deportati nelle isole ed i relegati, restando anche dopo la morte la pena, non fosse lecito che venissero trasferiti e sepolti senza licenza del Principe; ciò che del resto il Principe soventissime volte accordava.

Finalmente, nel Lib. I. Receptarum sententiarum di Giulio Paolo, Tit. XXI, che versa De sepulcris et Lugendis, è sancito come allora che per invasione di fiume, o timore alcuno abbiasi a togliere un cadavere già consegnato a perpetua sepoltura, compiuti prima solenni sagrifici, abbiasi a compiere la traslazione di notte tempo; che a non funestare i luoghi sacri della città, non sia lecito portar cadaveri dentro di essa sotto minaccia di punizione; che colui che trovasi in tempo di corrotto astener si debba dai convivii, dagli ornamenti e dalle vesti bianche; che la spesa funeraria debbasi imputare avanti tutti i debiti ereditarj, e per ultimo quegli che abbia spese per seppellire un morto od a cagione de’ funerali di lui, possa rivalersi appo l’erede, il padre od il padrone.

Il giureconsulto Paolo, alla legge ff. de injuriis, contemplò il fatto di chi avesse lapidato la statua di un defunto, e non ammettendo nè distinzioni, nè limitazioni, perchè l’animo maligno fosse evidente; rispose doversi quel fatto punire siccome ingiuria: nè a lui fece velo il vantaggio qualunque che da simile fatto ritenesse la storia, registrando che le male opere di [344] quel cittadino avessero condotto a tanto sdegno il paese da meritare che dalla furia del popolo la sua statua saxis cæsa fuisset venisse da’ sassi abbattuta.

Intorno a che l’illustre scrittore di penale diritto prof. Francesco Carrara, nella sua dotta memoria Sulle ingiurie ai defunti, letta nello Ateneo di Brescia, nella tornata del 15 giugno 1873 e pubblicata nella Temi Zanclea, a modo di epifonema commenta: «Così ragionavano gli antichi e così si durò a ragionare per secoli in Italia ed in Germania, dove lo spirito non usurpa le veci della sapienza, e dove una questione giuridica non si scioglie con un motto brillante.» E venne con copia d’argomenti a conchiudere, pur tenendo conto dell’interesse della storia, che sì sovente si invoca a diffamazione de’ defunti, che ultima conseguenza alla quale meni diritto un tale interesse sia che le calunnie lanciate contro i defunti nei fatti relativi alla vita pubblica dovrebbero dichiararsi perseguitabili ad azione popolare, cioè ad azione pubblica esercitata dal Pubblico Ministero nella sua rappresentanza dei contemporanei e dei posteri, cioè della società tradita ed ingannata da maligno calunniatore; osservando che Platone come moralista ci avrebbe guidato a questa conclusione con la sua nota formula dei doveri che legano i vivi verso gli estinti[286].

[344b]

Via delle Tombe in Pompei. Vol. III, Cap. XXII.

[345]

Poichè li lettore sa tutto ciò, che sull’argomento de’ trapassati e de’ sepolcri praticavasi in Roma e fuori di essa ne’ luoghi ad essa soggetti, restringendomi ora più presso al mio tema di Pompei, usciamo insieme dalla Porta Ercolanese ed inoltriamo nella Via delle Tombe di questa città, della quale era parte, anzi attraversava, com’egli già conosce, il Borgo Augusto Felice, dissotterrato dalle ceneri dal 1763 al 1770 e dal 1811 al 1814. La vista è imponente, presentandosi tutta fiancheggiata da sontuosi monumenti. E monumenti eziandio debbono essere stati sparsi per tutto il pendio della collina, tanto essendoci dato d’argomentare dalle varie elevazioni verdeggianti di essa.

È da questo punto, in cui s’è posto il piede nel sobborgo, il qual potrebbesi dire dei morti, che è dato comprendere in un sol colpo d’occhio tutto il corso della via antica infino ad oggi scoperta e di ammirare nel suo complesso l’elegante magnificenza di tanti ipogei, de’ quali fu detto a ragione presentare forme sconosciute all’architettura attuale ed all’arti moderne.

È all’uscire del pari di questa porta, che m’avvenne di ricordare altrove esservisi scoperto lo scheletro della sentinella, qui morta fedele alla sua consegna. Era eziandio prossima a tal luogo la tomba di M. Cerrinio Restituto, come ce lo appresero le due seguenti iscrizioni, di cui l’una è la fedele ripetizione dell’altra:

[346]

M. CERRINIVS
RESTITVTVS
AVGVSTAL. LOC. D. D. D.

Nel mezzo della cappella, sacellum, era una piccola ara, avente l’iscrizione medesima, ripetuta come dissi, ma disposta in questo modo:

M. CERRINIVS
RESTITVTVS
AVGVSTALIS
LOCO DATO
D. D.[287].

Un semicerchio a manca, che dicevasi schola, perchè ad uso di sedile, di tufo e pietre pomici, recava la seguente iscrizione, che chiarisce aver appartenuto al sepolcro di Anio di Marco Vejo:

A. VEIO M. F. II VIR. I. D.
ITER QVINQ. TRIB. MILIT. AB. POPVL. EX D. D.[288].

Più grande è l’emiciclo detto di Mammia, scoperto nell’anno 1763, che racchiudeva il sepolcro di questa donna, che fu sacerdotessa pubblica, e al quale s’ascendeva per un passaggio aperto alle spalle dell’emiciclo. Era il sepolcro meglio costruito che siasi scoperto in Pompei. Aveva già un ordine di colonne joniche al di sopra di altro ordine dorico, [347] su cui posavano alcune statue. L’interno era decorato da nicchie e pitture: in una delle prime stavano le ceneri di Mammia in un’urna di terra cotta chiusa in altra di piombo. L’iscrizione, in caratteri forti, così fu letta:

MAMMIAE P. F. SACERDOTI PVBLICAE LOCVS
SEPVLTVRAE DATVS DECVRIONVM DECRETO[289].

Su d’un piccolo pilastro a fior di terra e non discosto dal sepolcro di Mammia, leggevasi l’iscrizione, che rammenta i versi che ho appena riferiti del Venosino Poeta:

M. PORCI
M. F. EX DEC.
DECRET. IN
FRONTEM
PED. XXV
IN AGRVM
PED. XXV[290].

Avanti a questa tomba venne trovata una statua in abito consolare, forse quella di Porcio stesso, il quale era per avventura il padre della sacerdotessa Mammia.

Fra la tomba e l’emiciclo si rinvennero sedici [348] cippi funerarii, parecchi di essi di marmo, su taluno dei quali si decifrarono le seguenti iscrizioni:

C. VENERIVS
EPAPHRODITVS

ISTACIDIA. N. F.
RVFILLA SACERD. PVBLICA

N. ISTACIDIO
CAMPANO

CN. MELISSAEVS
APER

ISTAC....
MENOIICI

Nello stesso luogo si trovarono frammenti di statue ed una lucerna in terra cotta con una figuretta avente nelle mani un fiore in basso rilievo, e colla iscrizione:

ANNVM NOVVM FAVSTVM FELICEM MIHI[291].

È da questa parte sinistra della via che si incontra quella casa che comunemente vien detta essere il Pompejanum, o villeggiatura di Cicerone, ch’egli col Tusculum prediligeva sovra tutte l’altre sue ville, se per ornarla con magnificenza ebbe a incontrar debiti, come lasciò scritto in una sua lettera ad Attico[292]. [349] Ne ho già parlato altrove, nè però mi ripeterò: solo piacendomi far notare al lettore come a ogni modo, sia questa od altra la casa del grande Oratore Romano, sarebbe sempre stata una ricca abitazione, che non tolse al suo proprietario di abitarla e decorarla riccamente. L’essere nella non lieta via delle tombe, dimostrerà ognor più come la religione de’ sepolcri non fosse accompagnata allora quanto adesso, per forza di superstizione, da alcun pensiero di orrore. Ove poi si rifletta aver Cicerone difeso Publio Silla, che fu il primo patrono della Colonia Veneria Cornelia, nulla di più probabile apparirà che ne abbia ricevuto in guiderdone il terreno di quella casa e poi anche la casa stessa, che per essere nel Pagus Felix, spettava alla Colonia militare, la quale, giusta quanto m’accadde di più volte notare, Lucio Cornelio Silla vi aveva dedotta, e che però avesse appartenuto a lui.

Lungo questo lato è pur il sepolcro di Scauro, della tribù Menenia, che vuolsi dal punto di vista archeologico considerare siccome il più interessante, di quanti sepolcri si sono scoperti a Pompei. La base è quadrata ed è di tufo vulcanico: essa poggia con tre gradini sovra altra base più grande della stessa forma e materia, e nella quale è praticata la camera sepolcrale, o columbarium, con quattordici nicchie, come quadrato ne è il cippo. Il lato che è ora rivestito d’un ampio tavolo di marmo, il cui angolo superiore sinistro, essendo spezzato e perduto, [350] lasciò imperfetta la iscrizione, che completata non a guari dallo studio, suona così:

A VMBRICIO A. F. MEN
SCAVRO
II VIR. I. D.
HVIC DECVRIONXES LOCVM MONVM.
ET HS ∞ ∞ IN FVNERE ET STATVAM AEQUESTR
FORO PONENDAM CENSVERVNT
SCAVRVS PATER FILIO[293].

Il gran basamento inferiore offriva già rappresentazioni a basso rilievo di stucco, oggi pel gelo compiutamente scomparse. In uno de’ quadri vedevansi due bestiarii con lance: l’un d’essi combatteva contro di un lupo, l’altro contro di un toro. Alcuni cani inseguivano de’ cinghiali furiosi, cervi e lepri correvano a precipitosa fuga. In un quadro superiore scorgevansi gladiatori armati di tutto punto che battevansi a oltranza, altri a cavallo che scagliavano lance a costoro; era curioso che dovessero menar [351] botte all’orba, perchè le visiere de’ loro elmetti mancassero delle fessure per gli occhi. Interessa il vederne ricordati in grossolani caratteri neri i nomi con una cifra accanto; indicante il numero delle vittorie riportate. L’uno è nominato Bebrix, cioè della Bebricia in Asia e riportò quindici vittorie, il suo avversario è Nubilior e ne conta undici; di altri due non è leggibile il nome. Degli altri quattro gladiatori, due secutores e due retiarii, alle prese fra loro, leggesi il nome di Nitimus, reziario vittorioso cinque volte, e di Hippolitus, secutor, degli altri due no. Quello che pugna con Nitimus vedesi ferito, cadere implorando la pietà degli spettatori, offerendo ad un tempo la gola al ferro del vincitore, come era la pratica già da me esposta nel capitolo dell’Anfiteatro. Superiormente a questi bassi rilievi stava una iscrizione, nella quale si lesse il nome di Quintus Ampliatus, il capo forse di questa famiglia gladiatoria, ed al quale per avventura spettava la tomba, perocchè si creda da molti che la tavola di marmo colla iscrizione di Scauro surriferita, trovatasi bensì di poco discosta, non le appartenesse, ma là venisse collocata, perchè scomparsa, per la rovina del tempo, ogni decorazione.

Eravi un terzo quadro sulla porticina con cinque figure di gladiatori armati, di cui l’uno egualmente ferito a morte.

Sepolcro circolare è quello che segue subito, con [352] base quadrata e torre rotonda su di essa. Sulle piccole piramidi del recinto sono i bassirilievi di stucco rappresentanti una donna che fa l’offerta su di una acerra, e un’altra che depone un lino sul suo bambino caduto sulle rovine, forse quelle del tremuoto del 63.

Appresso a questi sepolcri elevasi a poca altezza un cippo, sulla cui sommità figura una testa, sotto la quale si allargano le spalle, rendendo da lunge la figura d’uomo, quasi significasse l’ombra d’un defunto. Sul ventre, o specchio che vogliasi altrimenti dire, di essa, è questa iscrizione:

IVNONI
TYCHES IVLIAE
AVGVSTAE VENER[295].

Questa Tiche è la stessa Tiche Nevoleja che ha altro maggiore monumento in questa medesima funerale campagna? Taluni il pensarono: altri la vogliono una sorella di essa: ambe poi furono certamente addette al servizio di Giulia figliuola d’Augusto.

Non credasi qui che la parola Junoni accenni alla Dea di questo nome, come erroneamente interpretò l’abate Romanelli, ma sì al genio tutelare di Tiche; perocchè Junones si dicessero appunto le fate e gli angeli custodi di sesso femminino, dei quali si credeva [353] che uno nascesse insieme a ciascuna donna, destinato a vegliarla tutta la vita ed a morire con lei. Sono figurate, dice Rych nel suo Dizionario delle Antichità, come giovani donzelle, colle ali di pipistrello o di falena e vestite da capo a piedi come è in una dipintura di Pompei; mentre l’angelo maschile (Genius, Silvanus) fosse abitualmente rappresentato nudo, o pressochè nudo e colle ali d’un uccello.

Tibullo consacra alla Giunone, o angelo custode di Delia e in nome di costei, l’elegia sesta del Lib. IV, che comincia appunto:

Natalis Juno sanctos cape thuris honores

Quos tibi dat tenera docta puella manu[296].

In quanto all’ultima parola della iscrizione, Vener, io seguii la comune interpretazione, leggendo Venerea; altri però lessero Augustæ Veneri, cioè a Venere Augusta: meglio sarebbe stato allora il dire Augustæ Veneris, perchè sapendosi che la famiglia Giulia si faceva scendere da Venere, si avrebbe una spiegazione allora più razionale.

Che per altro Venerea fosse una condizione di schiava o di liberta, ho già toccato nel Capitolo precedente e potevasi legare al Venerium o luogo aggiunto [354] al bagno destinato non tanto a nettezza ed igiene del corpo, quanto a studio di piacere; onde abbiam già veduto considerato il Venerium nell’annunzio già riportato da una parete pompejana: In prædiis Juliæ Sp. F. locantur balneum, Venerium et nongentum tabernæ, pergulæ, cœnacula. Rosini nella già citata Dissertatio Isagogica, trattando di altre due iscrizioni, nelle quali si nominano i Venerii, li crede schiavi che servissero a coloro che usavano del gabinetto venerio[297].

Si fecero maraviglie perchè questa Tiche fin nella propria tomba si vantasse d’essere stata mezzana di voluttà alla figliuola di Augusto; ma v’è da sorprendersi di ciò in tempo in cui Gajo Petronio, viceconsolo in pria in Bitinia e poi consolo, al dir di Tacito, fu fatto maestro delle delizie: niuna ne gustava a Nerone in tanta dovizia che Petronio non fusse arbitro?[298]

Un sepolcro incompiuto cui s’è dato il nome di Servilia e che succede a quello di Tiche, reca infatti questo frammento d’epigrafe, che per sè solo esprime gentilissimo affetto: SERVILIA AMICO ANIM...[299]; ma appunto per ciò non poteva essere la tomba di Servilia. Nel columbarium si trovò un cippo colla [355] iscrizione LVCCEIA IANVARIA. La struttura del mausoleo è simile quasi a quello di Calvenzio Quieto, che è pur da questa parte, costruito da marmi bianchi e di bello stile. Appartiene al genere de’ cenotafi, non avendo nè porta, nè columbarium, vuoto e fatto, cioè, a solo titolo di onoranza. Nella parte anteriore del quadrato è la seguente epigrafe:

C. CALVENTIO QVIETO
AVGVSTALI
HUIC OB MVNIFICENT. DECVRIONVM
DECRETO ET POPVLI CONSENSV BISELLII[300]
HONOR DATVS EST.

Sotto di essa vedesi sculto il bisellio, più compiuto ed elegante di quel di Munazio Fausto, del quale già parlai nella Storia e dirò ancora fra breve. Alle corone di quercia che i due lati del cippo recano, si argomentò che Calvenzio avesse anche conseguito l’onore della corona civica, ciò potendo essere autorizzati a ritenere dalle tre lettere O. C. S. (ob civem servatum) che si leggono sullo scanno. Le muraglie del recinto hanno basso rilievi in istucco, i quali or [356] più non si distinguono: quelli dell’ara in marmo, leggiadramente decorata, vennero spiegati rappresentare Edipo in meditazione per indovinare l’enigma della Sfinge, Teseo in riposo, e una fanciulla che incendia il rogo.

Del triclinium funebre, che è pur a sinistra formato da tre panchi di fabbrica e servienti al silicernium o banchetto funerale, dissi più sopra.

Dal destro lato della via vuolsi riguardare alla abitazione che si designò col nome di Giardino delle colonne in musaico od anco di Sepolcro del Vaso blu, da quattro colonne in musaico, che sono uniche finora nel genere e però del più grande interesse, e da una magnifica anforella di vetro azzurro sulla quale è, in basso rilievo di bianco smalto, espressa una scena bacchica, per la quale vien considerata come il capo più importante della collezione de’ vetri antichi del Museo Nazionale. Questa tomba fu scoperta il 29 dicembre 1837. Di faccia all’ingresso è una fontana entro una nicchia di musaico a conchiglie e in mezzo alle stesse sorgeva un amorino in marmo che stringeva un’oca, dal cui becco bellamente zampillava l’acqua.

Segue la tomba detta delle Ghirlande da alcuni festoni sorretti da tre pilastri corintii. Essa è costruita di grossi massi di piperno rivestiti di stucco e due muri di fabbrica reticolata hanno a’ capi due are, denominate acerræ secondo Pompeo Festo, o aræ turicremæ, [357] come vengono dette da Lucrezio (11, 353) e da Virgilio (Æneid. IV, 453), perchè vi si bruciava, ad onoranza de’ morti l’incenso; onde Ovidio (Heroid. 2. 18) chiamò turicremi foci le vampe che levavansi da esse e Lucano (Phars. lib. 9. 989) turicremi ignes.

L’albergo e scuderia che si rinviene da questa parte e di cui tenni già conto a suo luogo, è novello argomento del come indifferentemente gli antichi abitassero, senza il sacro orrore che pur inspirano oggidì le tombe, in mezzo alle stesse. L’assenza de’ cadaveri, la presenza delle sole ceneri vi doveva contribuire d’assai ad eliminarlo, l’impossibilità della corruzione non turbava la salubrità dell’aere.

Il sepolcro dalle porte di marmo è in opus reticulatum, cioè in materia di fabbrica ad aspetto di maglie di rete, ricoperta di stucco. La piccola porta nel basamento scorge ad una camera quasi sotterranea che riceve luce da piccolo spiraglio, sotto cui è una nicchia in cui si rinvenne un gran vaso d’alabastro orientale con ceneri ed ossa, un grande anello d’oro con zaffiro, sul quale era inciso un cervo, ambi ora al Museo Nazionale.

In un recinto che segue, due ceppi si trovarono che lo fecero chiamare il sepolcreto della famiglia Istacidia o Nistacidia, come altri scrivono, unendo la N. che i primi leggono separata sulle tre seguenti iscrizioni:

[358]

N. ISTACIDIVS
HELENVS PAG.

N. ISTACIDIAE
SCAPIDI[302].

Sul muro di faccia alla via era scritta quest’altra iscrizione:

N. ISTACIDIO HELENO
MAG. PAG. AVG.
N. ISTACIDIO IANVARIO
MESONIAE SATVLLAE IN AGRO
PEDES XV IN FRONTE PEDES XV[303].

Bréton trae occasione da questa iscrizione per determinare la lunghezza del piede in uso a Pompei, fissandola a 0 m, 287, stabilendo così la prova che i Campani avevano adottato il piede romano, del quale è tale appunto la lunghezza indicata da molti monumenti antichi.

Secondo poi le nuove ricerche del comm. L. Canina, di cui la scienza lamenta ancora la recente morte, la lunghezza reale del piede romano sarebbe stata di 0 m, 296.35. Il miglio romano componendosi di 5000 piedi, sarebbe stato per conseguenza di 1,481 m 75.

[359]

Tien dietro la Tomba di Nevoleja Tiche e di Munazio Fausto, de’ quali ho già riferita, nel Capitolo IV che tratta della Storia, la iscrizione ed al quale però rimando, a scanso di ripetizione[304]. È fra i più interessanti mausolei. Si compone di un gran basamento quadrilungo di marmo che posa per due gradini su altra gran base di pietre vulcaniche: ha un’elegante cornice, pregevoli ornati e termina ai lati estremi con un ravvolgimento di fogliami. Nella base superiore evvi scolpito il busto di Nevoleja: al disotto, dopo l’iscrizione, v’è in bassorilievo un sacrificio con diciotto figure in due gruppi; è la consacrazione del monumento. L’un gruppo è costituito dai magistrati municipali, colleghi di Munazio; l’altro da Nevoleja stessa e dalla sua famiglia. Dal lato verso la città è effigiato il bisellio, o seggio d’onore del quale trattai pur lungamente nel detto capitolo; dall’altro lato verso Ercolano una nave con due alberi, l’un diritto, traversale l’altro alla sommità del primo; da cui si sostiene una vela quadrata. Sta il pilota al timone: due giovanetti sono in atto d’ammainare la vela, mentre altri due si arrancano sulle corde, che un uomo va riunendo. Era codesta un’allegoria della vita umana, arrivata dopo la tempesta in porto, o piuttosto un simbolo della mercatura nella quale Munazio si sarebbe [360] arricchito? Significhi ciò che voglia: i particolari del naviglio non riescono meno interessanti allo studio della navigazione antica. La prora di questa nave è decorata da una testa di Minerva, la poppa termina in collo di cigno.

A mezzo d’una porta a sinistra del monumento e dietro di essa s’entra nella camera sepolcrale, di due metri in lunghezza e larghezza, con due fila di nicchie per le urne cinerarie che si trovarono al loro posto, ed erano in terra cotta, all’infuori d’una più grande olla d’argilla contenente le ceneri di Nevoleja stessa o di Munazio Fausto, o fors’anco d’entrambi. Tre belle urne di vetro chiuse ermeticamente contenevano al tempo di loro scoperta (1813), ceneri ed ossa galleggianti in un liquido che fu dall’analisi giudicato una mistura d’acqua, olio e vino, avanzo certo delle libazioni fatte nelle esequie.

Nelle urne di terra cotta si rinvennero altresì picciole monete, pel passaggio sulla palude stigia a Caronte e qualche lucerna di terra comune.

Chi fosse questa Nevoleja, può essere fantasticato, ma nulla si sa di positivo, all’infuori di quel che ne dice l’iscrizione; una liberta, cioè, di Giulia, figliuola dell’imperatore Augusto, forse concubina dipoi di Munazio Fausto, col quale certo per la primitiva sua condizione non avrà potuto vincolarsi in giuste nozze con Munazio, augustale e maestro del sobborgo Augusto Felice, lo che equivarrebbe a sindaco o confaloniere de’ nostri giorni.

[361]

Dentro il recinto di questo sepolcreto si trovò un’urna coll’epigrafe:

C. MVNATIVS ATIMETVS
VIX. ANNIS LVII[305].

Un bel mausoleo scoperto nell’anno 1812 in forma di ara, con zoccolo e cornice eleganti, sormontata quest’ultima da un plinto e da un bel fogliame d’alloro, sorge, perfettamente conservato, in travertino e la iscrizione che si ripete eguale nei due lati meridionale ed occidentale, lo dice spettante a Marco Allejo Lucio Libella padre e Marco Allejo Libella figlio. Eccola:

M. ALLEIO LVCIO LIBELLAE PATRI AEDILI
II. VIR PRAEFECTO QUINQ. ET M. ALLEIO LIBELLAE F.
DECVRIONI VIXIT ANNIS XVII LOCVS MONVMENTI
PVBLICE DATVS EST ALLEIA M. F. DECIMILLA SACERDOS
PVBLICA CERERIS FACIVNDVM CVRAVIT VIRO ET FILIO[306].

Questa iscrizione dà motivo a sorprendersi come mai a soli diciasette anni il figlio Marco Allejo Libella potesse essere già decurione in Pompei. Perocchè ognun rammenti che lesse le Epistole di Cicerone, come questi constatasse essere i pompeiani [362] assai gelosi dell’onore del decurionato. Avendo uno de’ suoi amici sollecitato presso di lui perchè gli ottenesse una tal carica, egli rispose: Romæ si vis, habebis. Pompeis difficile est[307], significando essere più difficile cosa diventar decurione in Pompei, che non divenire Senatore in Roma.

Presso i Romani, non si poteva essere decurione in età al disotto de’ venticinque anni, come si può raccogliere nel libro secondo del Digesto: De Decurionibus: tuttavia potevasi derogare a questa legge in virtù di privilegio accordato a determinata famiglia che se ne fosse resa meritevole. Di questo novero doveva certamente essere stata la famiglia dei Libella in Pompei.

Da questo monumento dei due Libella, eretto dalla pietà di sposa e di madre, si passa al cenotafio di Cejo e Labeone, epperò senza colombaio. Guasto assai di presente, un dì, attese le sue proporzioni grandiose quantunque irregolari, deve essere stato di non dubbia importanza. Vi dovevano essere bassorilievi di stucco e statue: forse quelle medesime che vennero rinvenute presso ed erano un personaggio in toga e parecchie matrone egregiamente palliate. Eranvi nel zoccolo del gran piedistallo delle iscrizioni in grossi caratteri rossi, ma così sbiaditi che non si [363] poterono leggere. Si lesse invece quella nello stesso monumento, che fu poi trasferita al Museo. Eccola:

L. CEIO L. F. MEN. L. LABEON
ITER D. V. I. D. QVINQ.
MENOMACHVS L.[308].

Come superiormente ho fatto, nel leggere l’iscrizione sul monumento di Scauro, interpretando la parola MEN, abbreviatura della prima linea, per della Tribù Menenia; io pure, in questa di Lucio Cejo, interpretai con Mazois ed altri l’egual abbreviatura nella stessa maniera: Bréton nondimeno la dichiarò per Menomachus, adducendone una ragione abbastanza plausibile. Un usage, scrive egli, presque constant, était que les affranchis empruntassent le nom ou le surnom de leurs patrons, et que c’est sans doute ce qu’avait fait Menomachus fondateur du monument[309].

Nella camera mortuaria del monumento si raccolsero due balsamari di terra cotta e un’urna bellissima di vetro con ossa.

Il Bonucci afferma che qui presso, a piccola distanza l’uno dall’altro, si rinvenissero cinque scheletri, tra’ quali quello d’una donna di ricchissima taglia. Recavano sopra di sè monete di argento e di bronzo [364] e un materozzolo di chiavi con de’ grimaldelli; lo che lascia supporre che fra di essi vi fosse qualche ladro rimasto nella città per esercitare il suo infame mestiere e che il Vesuvio lo abbia giustamente sorpreso e punito[310].

Dietro di tal monumento scopronsi le rovine di due grandi sepolcreti, ed evvi un recinto sepolcrale, ove erano diversi cippi che dicevansi columellæ, perchè appunto erano colonnette, columella essendo diminutivo di columna. Su d’una di essa era scritto:

ICEIVS COM
MVNIS

Una columella che sta avanti una nicchia con un frontispizio segna il sepolcro di Salvio, fanciullo di anni 6, come lo fa sapere l’iscrizione:

SALVIVS PVER
VIX. ANNIS VI.

Presso è altra nicchia in fondo della quale era dipinto un giovane, su cui pendevano ghirlande di fiori: era il sepolcro del fanciullo dodicenne, Numerio Velasio Grato, giusta l’epigrafe:

N. VELASIO GRATO
VIX. ANN. XII.

Poichè sono a dire delle columelle, ne trovo ricordata [365] una nel Viaggio a Pompei dell’Abate Domenico Romanelli, la quale terminava in un busto marmoreo con testa di bronzo e della quale parlarono gli Accademici Ercolanensi nella Dissertazione Isagogica. Si esprimeva nell’epigrafe essere il simulacro di Cajo Norbano Sorice attore delle seconde parti nelle tragedie, maestro del pago suburbano Augusto Felice, cui fu assegnato il luogo per decreto de’ decurioni.

Così almeno traduce il Romanelli il seguente testo dell’epigrafe

C. NORBANI SORICIS
SECVNDARVM
MAG. PAGI AVG. FELICIS
SVBVRBANI
EX D. D. LOC. D.

Ed una tale traduzione egli eseguì dopo certo aver veduto le illustrazioni fattene dal signor Millin che appella erudito e dal signor De Clarac in due dissertazioni stampate in Napoli. Ma a me è pur lecito di domandarmi come mai ad un attore delle seconde parti nelle tragedie si potesse concedere l’onore dapprima di essere maestro del pago, e poscia l’onor del posto speciale, per decreto de’ decurioni, se noi sappiamo che se a’ più grandi attori non isdegnavano i più eminenti uomini intimità ed affetto come a Roscio ed Esopo, agli altri, massime se minori, riserbavasi l’ignominioso titolo di istrione, la fustigazione del larario e il trattamento servile?

[366]

L’iscrizione d’altronde tace della qualità di Cajo Norbano Sorice, nè la parola secundarum parmi, congiuntamente al resto dell’epigrafe, non autorizzi a sottintendere le parole che le si affibbiano actoris secundarum partium in tragœdiis.

Scoperta nel 1775, succede la camera sepolcrale di Gneo Vibrio Saturnino figlio di Quinto, della tribù Falerina, come si leggeva al di fuori del triclinio funebre unito, ci avverte la seguente iscrizione:

CN. VIBRIO Q. F. FAL.
SATVRNINO
CALLISTVS LIB.

Dissi che si leggeva, perchè ora l’iscrizione fu trasferita al Museo di Napoli. Piace anzitutto constatare nell’atto pietoso del liberto Callisto che a propria spesa rizza un monumento all’antico padrone come la riconoscenza fosse, più che del nostro, virtù de’ secoli andati; siffatti omaggi di liberti non erano infrequenti. Io ne ho già recati più d’uno.

Dopo di questo, ci troviam dinnanzi alle sepolture della famiglia Arria o di Diomede, state scoperte nell’anno 1774, le quali, per trovarvisi di fronte, diedero il nome alla casa di campagna, che già ho descritta, e fu ritenuta essere proprietà di Marco Arrio Diomede liberto.

La tomba di Diomede, il padre, è la prima e la più importante che esamineremo. La fronte del monumento la indica nella seguente iscrizione:

[367]

M. ARRIVS I. L. DIOMEDES
SIBI SVIS MEMORIAE
MIGISTER PAG. AVG. FELIC. SVBVRB[311].

La sigla che segue al nome di Arrius, che io d’un tratto supplii con un I, ma che nel marmo ben non si comprende, fu interpretata diversamente. La più parte ritennero significare Arrii, seguendo l’ermeneutica adottata da Bréton nel leggere l’iscrizione di Cejo; ma Bréton è poi curioso che, abbandonandola in questa iscrizione, abbia voluto leggere nella sigla una J, che interpretò per Juliæ. La ragione sola che costei potesse essere la Julia Felix, una de’ più ricchi proprietarj di Pompei, non pare nè seria, nè da accettarsi. Piuttosto dovrebbesi essere meglio inclinati a ritenerlo liberto di Giulia la figliuola di Augusto, che avanti la morte del padre chiamavasi Livia, e così sarebbe stato conservo di questa imperiale matrona colle due Tichi, di cui menzionammo più sopra le tombe. Greche di nome codeste due liberte, parimenti greco sarebbe il nome di Diomede: forse quindi tutti compatrioti.

Il monumento pompeggia sull’altezza d’un muro con un terrapieno che serve di base a questa tomba di famiglia; esso si costituisce di un frontispizio con pilastrini d’ordine corintio ai lati ed è in cattivo stato ed ha nulla di rimarchevole fuor che alcuni [368] fasci nella facciata, e due teste di marmo l’una di uomo, l’altra di donna, appena abozzate, che gli antichi avevano costume di collocar nei sepolcri per distinguerli.

Dietro la testa d’uomo, era questa iscrizione:

M. ARRIO
PRIMOGENI

e ricordava il primogenito della famiglia di Diomede. Dietro la testa della donna eravi quest’altra:

ARRIAE M. L.
VIIII

e ricordava la nona figlia di Marco Arrio Diomede liberto.

Sul detto muro inferiore poi che serve di monumento sepolcrale ad un’altra figlia del medesimo, sta questa iscrizione:

ARRIAE M. F.
DIOMEDES L. SIBI SVIS

Tutta insomma una famiglia.

Presso questo sepolcreto di famiglia è un vasto recinto che si prolonga verso la strada ed è tutto circondato da un solido muro che sosteneva un terrapieno, nel quale si videro de’ tubi per lo scolo delle acque: forse era tal luogo il sepulcrum comune o cimitero delle classi inferiori, ed anche l’ustrinum. Vi si riconobbero infatti ossa umane in copia e reliquie di funebri banchetti.

[369]

E qui ha fine tutto quanto la Via delle Tombe in Pompei può presentar di rimarchevole e giova ad illustrare quanto m’accadde di dire intorno alla religione de’ morti nell’antichità romana.

Solo mi corre obbligo adesso, a pieno compimento e prima di congedarmi da questo capitolo onde si chiude il mio qualunque lavoro, di segnalare al buon lettore che mi ha seguito fin qui, una particolarità, che vale egualmente a confermare l’uso romano che tutti i sobborghi d’una città servissero a sepolture. Gli scavi eseguiti ne’ mesi di maggio e giugno 1854 fuori dell’altra porta pompejana detta di Nola hanno condotto a scoprire molte urne in terra cotta contenenti ceneri di bruciati cadaveri, e chi sa che altrettanto non venga forse di constatare negli scavi ulteriori fuori delle altre porte? Questo verificandosi, sarebbesi tratti allora a mettere in sodo che non solo a Roma, ma fuori quasi tutte le porte di tutte le città conformate agli usi di Roma, e più specialmente nelle colonie, si praticasse seppellire i defunti; cioè riporre le loro ceneri — perocchè non si costumasse inumarli — e rizzare monumenti funebri ed ipogei.

La quale consuetudine rispondeva al bisogno che provavasi e che son venuto dimostrando di onorare la memoria dei cari trapassati, avendone le dilette reliquie in vicinanza delle abitazioni, nè punto comprometteva la pubblica igiene. Non era come de’ nostri cimiteri [370] suburbani, che raccogliendo non le ceneri, ma i cadaveri, saturano delle loro decomposizioni la terra, corrompono di loro esalazioni l’aere e infettano le acque che vi filtrano e via trascorrono seco traendo i tristi elementi della putrefazione, germi ignorati di epidemie e d’altri mali: il fuoco invece lasciava ceneri purificate ed innocue, e spogliava le tombe di quell’orrore — sia pur sacro — che adesso ispirano, malgrado vadano i sacri recinti eretti con superbe architetture e decorati di splendidi e marmorei monumenti.

Ond’è che naturalmente son condotto a chiudere l’argomento coll’associarmi al voto di chi in oggi si fè apostolo del ritorno al sistema della cremazione, come quello che sia per essere il solo che ci permetterà d’aver per sempre e senza nocumento a noi vicini i preziosi avanzi dei nostri cari.

[371]

CONCLUSIONE

Mi fu detto, all’apparire del primo volume di questa mia opera, come il tuono spigliato e leggero col quale l’avevo incominciata nullamente annunziasse che poi sarebbesi mutato sì presto per diventare accigliato talvolta e grave sempre; che d’un libro, il qual sarebbesi creduto di solo amena lettura, quale avrebbe potuto essere se unicamente di impressioni e ricordi di un viaggio, ne sarebbe poi uscito fuori un gazofilacio di classica erudizione. L’osservazione, od appunto che si voglia appellare, era giustissimo, e a dir vero non era stato pure ne’ miei primi intendimenti di riuscire al lavoro che solo adesso ho ultimato; ma, come con ragione sentenziarono i nostri vicini di Francia c’est en mangeant que l’appetit vient, toccando cose ed argomenti che furono sempre l’amore e lo studio miei fin da’ più giovani anni di mia vita, m’era stato impossibile farlo senza lasciarmi andare a percorrere tutto intero l’arringo.

M’addiedi allora di poter mirare anche a proficuo fine. Addentrarmi nelle questioni di pura archeologia e impancarmi co’ suoi campioni, nè avrei avuto la forza, nè parevami perdonabile tampoco [372] l’ardimento, da che allora avrei dovuto, come gli altri fecero, eleggermi per lungo tempo a soggiorno i luoghi medesimi delle mie indagini ed intraprendere studj che le peculiari mie condizioni mi contendevano, per non giungere forse, in ultimo risultamento, a recar qualsiasi buon contributo alla scienza, alla quale sopra luogo attendono diggià nobilissimi intelletti pur del nostro paese. Mi sembrò quindi più profittevole scopo convergere quanto già l’archeologia aveva degli scavi pompejani illustrato, a chiarire più direttamente la vita pubblica e privata degli antichi Romani, da che Pompei ne fosse stata una colonia e così quanto era stato esumato della gentile città porre in armonia con quanto scrittori, storici e poeti di quell’età avevano lasciato a’ posteri ricordato a giovarsi così reciprocamente di commentario e illustrazione.

I giovani uscenti dalle scuole carico il capo di quella indigesta erudizione che loro infarciscono antologie e crestomazie, presto la dimenticano, perchè appunto confusamente e forse a mala voglia appresa ne’ brani scelti degli autori latini o greci che loro pongonsi avanti. Carità mi pareva venire loro in soccorso con opera che ordinata e distribuita seriamente, servisse a collocare tutta quella farragine di nozioni a proprio posto e rendere queste per tal guisa indimenticabili e di utilità efficace; onde per dirla con un concetto dantesco, moleste nel primo gusto, [373] lasciassero, digeste, vital nutrimento[312]. Quello che in qualche modo avevano il barone di Theis ottenuto col suo Policleto a Roma, e Barthelemy coll’Anacarsi in Grecia, ed altri coi Viaggi di Antenore e di Trasibulo nella Grecia e nell’Asia, io vagheggiai poter fare con Pompei e le sue Rovine in Italia, discorrendo alla mia volta delle romane istituzioni[313].

Vi sarò io riuscito?....

Non chieggo la risposta nè a Fiorelli, nè a Minervini, nè agli altri severi cultori delle archeologiche discipline. Il mio libro non è fatto per essi: v’ha un altro pubblico e più numeroso, quello che sulle opere loro irte di greco e di osco si addormenterebbe, il quale ha pur d’uopo d’essere confortato di buoni studj, ma che s’acciglierebbe e darebbe addietro [374] davanti a forma troppo severa, a discettazioni troppo erudite, e il cui fine e la cui utilità non si vedon poi sempre coronate da esito felice.

La forma quindi leggiera stessa e per avventura amena colla quale aveva il mio lavoro esordito, così stando le cose, disponeva, a mio avviso, acconciamente l’animo de’ miei giovani lettori ad accostarsi più volonteroso al medesimo, s’egli è vero quel che cantò l’immortale Torquato:

Sai che là corre il mondo, ove più versi

Di sue dolcezze il lusinghier Parnaso

E che il vero condito in molli versi

I più schivi allettando ha persuaso:

Così all’egro fanciul porgiamo aspersi

Di soave licor gli orli del vaso:

Succhi amari ingannato intanto ei beve,

E dall’inganno suo vita riceve[314].

Avranno essi forse notato soverchie le citazioni degli autori; ma con quanto or dissi ne troveranno la giustificazione: non era il ripeto, un libro di solo amena lettura che intendevo di fare, ma opera quasi di complemento di classica educazione. E perchè più generale ne fosse il vantaggio, curai apporre in calce la traduzione delle testuali citazioni, approfittando all’uopo delle migliori e più conosciute versioni. Vero è che più d’una volta mi occorse di sostituire a quelle i miei volgarizzamenti; ma il feci allora o [375] che si trattasse di traduzioni non ancor suggellate dalla fama, o di quelle che fatte alla libera, riproducendole, non avrebbero giustificata la ragion della citazione. Il più spesso ne avvisai con particolare mia nota il lettore.

Havvi poi un interesse ancor più generale in questi studj che mi sono proposto ed è che una più profonda conoscenza della antica società romana avesse a valere ad aprire gli occhi de’ presenti sovra erronee credenze ed estimazioni che si son venute facendo di essa infino ad ora e che tuttavia non sono senza discapito nostro.

Precettori e scrittori non hanno ancor cessato di mezzo a noi di mettere i tempi e le istituzioni dell’antica Roma a raffaccio coi nostri tempi e colle istituzioni nostre, di giudicare l’antica storia coi criterii dell’attuale, e di spiegare persino le storie dei nostri politici rivolgimenti colla storia di quel gran popolo, dicendosi continua la riproduzione degli eventi, identiche le passioni, virtù e vizi eguali in tutti i tempi. Epperò argomentarono essi possibile ed utile il risuscitare i provvedimenti di allora, mentre la nostra intelligenza, che s’è venuta di età in età modificando, e in continuo movimento di progresso, esiga che leggi della umana associazione non abbiano ad essere più le medesime.

Come vorreste voi conciliare infatti le antiche istituzioni, che sì strettamente si collegano colle credenze [376] religiose, colle moderne che tendono a emanciparsi da ogni vincolo religioso? Come spiegarci tante leggi adesso, che allora avevano la ragion d’essere nelle istituzioni di patrizii e di plebei, di patroni e di clienti, di signori e di schiavi? Come invocare al nostro tempo, giusta quanto adoperiam sì sovente noi avvocati, seguiti anche troppo spesso da’ giudici, l’autorità de’ romani giureconsulti, quando la patria podestà antica non era che una mostruosa tirannide del diritto di vita e di morte, e di vendita per tre volte perfino del figlio; quando sproporzionata la successione tra il fratello e la sorella; quando, per non dir d’ogn’altra anomalia, il patriotismo stesso toglieva di mezzo ogni sentimento naturale e la libertà veniva così compresa da escludere qualsiasi guarentigia per quella individuale?

Richiamare pertanto adesso, in cui non è cessato ancora in Italia il periodo della incubazione legislativa, l’attenzione allo studio dell’epoca romana, mi sembrò di non lieve importanza ed anche di assai pratica utilità.

Dopo enunciati cotali intenti, avanti di congedarmi dal lettore, mi sia concesso rivolgere un ultimo sguardo agli scavi di Pompei. Essi procedono sotto la intelligente e dotta direzione di quell’illustre che è il summentovato comm. G. Fiorelli e sta bene, e sono con amore e studio seguiti da egregi cultori delle dottrine archeologiche, che li vengono illustrando [377] principalmente nel Giornale degli Scavi che si publica in Napoli, ma che sventuratamente è in mano di pochi, ed al quale ho io sì di sovente ricorso in questa mia opera, e sta bene ancora; ma intanto che si affatica da una parte ad esumare quanto è ancora sepolto, che fa dall’altra il Tempo? Prende la sua terribil rivincita di quanto non ha potuto distruggere sinchè la terra che vi stava sopra gli vietò l’opera demolitrice. Smantellati i tetti delle case, distrutti i piani superiori, arsi e caduti gli impalcati, spezzate e giacenti le colonne, disperse le pietre sepolcrali, la pioggia, il sole, il vento hanno presa sui ruderi antichissimi e già in più luoghi essi non serban pur l’ombra di quel che furono in addietro. Invano si ricorre a riparazioni, proteggendo alcune muraglie con tegole, ricoprendo di tetti recenti taluni edifici; invano si procura lasciare quanto si può in luogo, acciò ne sia conservato il carattere[315]; invano si creano regolamenti e discipline; il tempo, più [378] potente di tutto, permette intravvedere, in epoca non lontana, che pria che tutta la restante città venga dissepolta, quella che già lo è abbia a ridursi a un monte di indistinte macerie e si avveri quel che Foscolo constatò degli antichi monumenti, che

Il Tempo colle fredde ali vi spazza

Fin le rovine[316].

Già più pareti di camere delle loro dipinture non hanno che qualche traccia appena: altre l’hanno perduta affatto; già segni ed emblemi caratteristici scomparvero, caddero graffiti, scomparvero iscrizioni, rovinarono muri, da che la distruzione dei tetti fosse già opera del cataclisma vesuviano, e chi visita con interesse Pompei se ne preoccupa e tanto più in quanto la parte primamente scoperta si giudichi, come provai, la più interessante.

[379]

Che avrebbesi dunque a fare?

V’ha chi crede che por mano a riparazioni e ristauri sia opera profana poco meno di empia e si ha forse ragione: epperò per que’ tratti almeno, ne’ quali la rovina si determina così da togliere ogni ulteriore interesse per l’archeologo e pel curioso osservatore, non potrebbe mo’ cavarsene partito, purchè ceduti, dietro apposite discipline e dicevoli corrispettivi, a ricchi privati, si imponesse ai cessionari di ricostruire sulla originaria architettura pompejana? Delle migliaja di ricchi sfondolati che visitano ogni anno gli scavi, chi può dire non si trovi alcuno che ami avere in questo ridentissimo ed ubertoso pendio che il Vesuvio sogguarda, al par di Cicerone, il suo vaghissimo Pompejanum?

Come Cuvier ha dalle ossa fossili rinvenute ricostruito perfino animali preistorici e da più secoli scomparsi dalla terra, più facilmente potrebbesi dalla pianta degli edifici rifare gli alzati e l’architetto governativo e la commissione che si dovrebbe creare fornirebbero le architetture e così mano mano sull’antico verrebbesi riedificando il novello Pompei, perenne e non indegno scopo di curiosità e di studio a nazionali e forestieri.

È un’idea codesta siccome un’altra.

Una ne emise assai prima l’illustre autore dei Martyrs e del Génie du Christianisme nel suo Voyage en Italie nel brevissimo cenno che vi dettò su d’Ercolano, [380] di Portici e di Pompei, e parmi che giovi di riferire, perocchè al medesimo fine essa miri della mia proposta. «En parcourant cette cité des morts — scrive il visconte di Chateaubriand, une idée me poursuivoit. A mesure que l’on déchausse quelque édifice à Pompeïa, on enlève ce que donne la fouille, ustensiles de ménage, instruments de divers métiers, meubles, statues, manuscrits, etc., et l’on entasse le tout au Musée Portici. Il y auroit selon moi quelque chose de mieux à faire: ce seroit de laisser les choses dans l’endroit où on les trouve et comme on les trouve, de remettre des toits, des plafonds, des planchers et des fenêtres, pour empêcher la dégradation des peintures et des murs; de relever l’ancienne enceinte de la ville; d’en clore les portes, afin d’y établir une garde de soldats avec quelques savants versés dans les arts. Ne seroit-ce pas là le plus merveilleux Musée de la terre, une ville romaine conservée toute entière, comme si ses habitants venoient d’en sortir un quart d’heure auparavant?

«On apprendroit mieux l’histoire domestique du peuple romain, l’état de la civilisation romaine dans quelques promenades à Pompeïa restaurée, que par la lecture de tous les ouvrages de l’antiquité. L’Europe entière accourroit: les frais qu’exigeroit la mise en œuvre de ce plan seroient amplement compensés par l’affluence des étrangers à Naples. D’ailleurs rien n’obligeroit d’exécuter ce travail à la fois, on continueroit [381] lentement, mais régulièrement les fouilles; il ne foudroit qu’un peu de brique, d’ardoise, de charpente et de menuiserie pour les employer en proportion da déblai. Un architecte habile suivroit, quant aux restaurations, le style local dont il trouveroit des modèles dans les paysages peints sur les murs mêmes des maisons de Pompeïa.»

Come si può accorgere il lettore, di poco la mia idea si discosta da codesta di Chateaubriand, la quale per altro, limitandosi ad una semplice opera di restauro, oltre che è combattuta fieramente dagli archeologi, è forse di poco pratica attivazione, avuto riguardo alla condizione delle muraglie in generale che mal sopporterebbero la sovrapposizione di quell’altra parte di muro che valesse a completarla, senza dire che in più luoghi il salnitro e altre ragioni di degradazione vieterebbero il ritorno delle dipinture.

Qualunque sia il pensiero tendente alla conservazione di Pompei, di questa così interessante città che si va ogni dì più evocando dal suo sepolcro in cui giacque presso a due mila anni, mette conto esser preso in considerazione ed esame, principalmente da chi è preposto alla pubblica cosa. Se lo stato trova di sua convenienza e decoro di consacrare alla conservazione de’ monumenti e de’ cimelii antichi disseminati per tutta Italia, istituti e somme ragguardevoli, per ragione maggiore volger [382] deve le sue cure alla conservazion di questa antica città, perocchè ben dicesse l’inglese Taylor, scrivendo a Carlo Nodier intorno appunto ad essa e ad Ercolano:

«Roma non è che un vasto museo; Pompei è un’antichità vivente.»

Bacone, parlando di antichità, di storie sfigurate e di storici frammenti sfuggiti per avventura alla distruzione del tempo, li paragona alle tavole che galleggiano dopo il naufragio; ebbene le Rovine di Pompei sono preziose reliquie di un naufragio che meritano essere ad ogni costo salvate, che vogliono ad ogni modo essere strappate al continuo e latente processo di loro completa distruzione e allora soltanto potremo sclamare con Schiller:

L’are

Sorgono ancor. Venite e il sacro foco

Raccendete agli dei, chè troppo lunghi

Secoli di votiva ostia l’han privi[317].

FINE.

[383]

APPENDICE PRIMA I busti di Bruto e di Pompeo[318].

La lentezza colla quale ha proceduto, senza alcuna mia colpa e contro anzi ogni mia volontà, la stampa di quest’opera ha prodotto, fra gli altri, anche questo inconveniente, che si avesse a smarrire quella parte di manoscritto che recava la dichiarazione dei due busti di Pompeo e di Bruto, che doveva avere il suo luogo nel capitolo XVIII, che tratta dell’Arti Belle, e là proprio dove io venni intrattenendo il lettore della statuaria e ne notai lo scadimento allo invalere più frequente di questo genere di scultura che sono i busti, e avrei voluto recar esempi pompejani di questo genere. I disegni di tali busti furono tuttavia collocati a quel posto e li avrà veduti il lettore nel secondo volume: ora occorre che al difetto involontario sopperisca la presente appendice.

Nelle ultime stanze della casa di Lucio Popidio [384] Secondo in Pompei nella Regione seconda ed alla altezza di pochi metri dal suolo vennero in questi ultimi anni (19 e 24 novembre 1868) ritrovati i due busti de’ quali è argomento[319]. Gli archeologi non esitarono a sentenziare raffigurare l’uno Cneo Pompeo, il gran capitano che rivaleggiò con Giulio Cesare, epperò denominato Magno, e il qual fu vinto da quello nella battaglia di Farsalia e quindi ucciso; e l’altro le sembianze di Marco Bruto, ultimo repubblicano di Roma e uccisore di chi aveva alla sua volta uccisa la romana libertà.

Comunque io abbia dovuto notare che la furia de’ busti in Italia segnasse l’era della decadenza dell’arti; pur tuttavia questi che si esumarono in Pompei sono ben lungi dallo accusare degenerazione [385] di gusto. I migliori giudici e buongustai affermarono arditamente che considerevole sia il valore artistico di queste opere, e che appartengono a greco scalpello. Sono esse del più puro e fino marmo pario; ma ciò non tolse che la moda di allora non li avesse a colorire, come è dato di convincersene per alcune traccie che vi si riconoscono tuttavia di colore: lo che è importante per la storia dell’arte di tener conto.

E venendo prima a dire del busto del magno Pompeo, dinanzi ad esso è mestieri ammettere che dove la storia non ci avesse nel narrare le gesta di questo illustre appreso il carattere di lui, questa opera elettissima del greco artista sarebbe venuta opportuna a riempiere la lacuna, perocchè l’espressione che vi assegnò attesterebbe di quella nobiltà naturale, di quella piena coscienza di sua nobiltà onde andava altamente distinta questa grandiosa figura storica sin dalla sua giovinezza. «Molte erano le cagioni, scrisse Plutarco di lui, che amar lo facevano: la temperanza nella maniera del vitto, l’esercitarsi che faceva nell’armi, l’attività di persuadere che aveva nel suo ragionare, la fermezza de’ suoi costumi e la gentilezza e l’affabilità nell’accogliere e nel trattar le persone; non essendovi alcun altro che men di lui molesto fosse in pregare, nè che s’impiegasse con più di piacere in servizio di chi nel pregava; mostrando egli alacrità nel far benefizii, e [386] ritegno e gravità mostrando in riceverli. Da principio aveva egli ben anche l’aspetto che non mediocremente cooperava a cattivargli la propensione degli animi e che parlava in di lui favore prima ch’ei movesse parola. Imperciocchè l’aria amabile, che in esso appariva, maestosa era ad un tempo stesso e soave; e dalla sua giovine e florida età a tralucer cominciaron ben tosto i suoi onorevoli ed augusti costumi»[320]. Anche Vellejo Patercolo e Plinio il Vecchio, attestarono di questa sua decorosa bellezza dicevole alla grandezza del suo stato ed alla sua fortuna[321].

Qual maraviglia allora, che Lucano, nella sua Farsaglia, lui apostrofando nei giorni che la Fortuna aveva preso in fastidio i suoi trionfi, così gli dicesse:

Cum conjuge pulsus,

Et natis, totosque trahens in bella penates,

Vadis adhuc ingens, populis comitantibus exul?[322].

[387]

Questo busto pompejano che lo rappresenta vuolsi d’assai superiore, così per sentimento, che per esecuzione, alla statua di Pompeo che si trova nel palazzo Spada a Roma, e che si pretende essere quella a’ cui piedi, come ci raccontò e riferisce il succitato Plutarco, Giulio Cesare venne in senato assassinato da Marco Bruto.

Il secondo busto, quello cioè che raffigura la testa di quest’ultimo, fa al primo degnissimo riscontro per merito d’arte: epperò ha naturalmente una espressione ben diversa dall’altro. Il suo carattere è per lo appunto quello che Cicerone ed altri autori attribuirono a Marco Bruto; e poichè parlando di Pompeo m’avvenne di invocar l’autorità dello Scrittore delle Vite degli uomini illustri, farò la stessa cosa trattando di quest’altro personaggio.

«Bruto, scrive egli, modificando i costumi suoi cogli studi delle belle discipline e colla ragione per mezzo della filosofia, ed eccitando ad intraprendere grandi azioni il proprio suo naturale, che grave era e mansueto, sembra che avesse un’ottima e affatto acconcia temperatura al bello e all’onesto: cosicchè anche quelli che in odio lo hanno per la congiura [388] contro Cesare, se in quella operazione v’ha pur nulla di generoso, lo attribuiscono a Bruto; e rivolgono quanto v’ha di dispiacevole addosso a Cassio, che famigliare era ed amico di Bruto, ma non già simile ad esso nella semplicità e gravità de’ costumi[323]

Fra codesto busto di Bruto esumato a Pompei e quello che si conserva al Museo Capitolino di Roma non si riscontra soverchia differenza; perocchè perfettamente eguali nella loro espressione di risoluzione profonda e concentrata. Della quale così testimonia il medesimo Plutarco: «Si racconta che Cesare la prima volta che il sentì disputare, disse verso gli amici: Io non so quello che questo giovane si voglia; ma tutto ciò che ei si vuole, il vuol con gran forza. Imperciocchè per la ferma costanza sua e pel suo non accondiscendere di leggieri ad ognuno che lo pregasse, ma voler operare, mosso da buon ragionamento e da determinazion di consiglio, tutto ciò che onesto fosse, avveniva che dov’ei rivolgevasi, uso faceva della più forte ed efficace energia per effettuar ciò che voleva».[324] Cicerone del pari così rammenta il summentovato detto di Cesare a riguardo di Bruto: quidquid vult valde vult[325].

In quanto alla parte che riguarda in questo busto [389] l’esecuzione, questa non è solo valentissima, ma si attrae tutta la maggiore considerazione, e direbbesi fors’anco, nel sentimento de’ più competenti uomini, superiore a quella del busto di Pompeo.

E poichè nel dir più sopra di quest’ultimo, ho richiamato il confronto d’altro ritratto di lui contemporaneo, piacemi far altrettanto a riguardo del busto di Bruto, giovandomi all’uopo d’una nota di quell’eccellente studio sulla Società Romana, che è Cicéron et ses Amis di Gastone Boissier[326].

Nell’antico museo Campana in Roma era una statua assai curiosa di Bruto. L’artista che la scolpì non vi aveva cercato di idealizzare il suo modello e sembra non avesse aspirato che ad una volgare realtà; pur tuttavia vi si riconosceva Bruto. A quella fronte bassa, a quelle ossa facciali pronunciate con tanta pesantezza, vi si indovinava uno spirito ristretto e un’anima ostinata. Il volto ha un’aria febbrile e malaticcia, è giovane e vecchio ad un tempo, come avvien di coloro che non hanno avuto giovinezza. Vi si sente principalmente una strana tristezza, quella d’uomo accasciato sotto il peso d’un destino grande e fatale. Nel bel busto invece di Bruto conservato nel museo del Campidoglio, il volto è più pieno e più bello. Vi stanno la dolcezza e la tristezza, l’aria malaticcia è sparita. I lineamenti vi rassomigliano [390] affatto a quelli che si veggono sulla famosa medaglia che fu coniata negli ultimi anni di Bruto e che porta al suo rovescio un berretto frigio fra due pugnali colla leggenda: Idus Martiæ.

Michelangelo aveva pure cominciato un busto di Bruto, del quale si può vedere il magnifico abozzo agli Offici di Firenze. Non era certo uno studio di fantasia, ma si scorge ch’ei s’era valso di ritratti antichi, idealizzandoli.

Queste due preziosissime reliquie della statuaria antica, che sono i busti di Pompeo e di Bruto, che son venuto illustrando andarono, come la più parte delle opere trovate ad Ercolano e Pompei, ad impreziosire il nazionale Museo di Napoli, dove io pure le ho ammirate.

L’egregio artista scultore cav. De Crescenzo di Napoli, potè eseguire il restauro nelle parti rotte e scheggiate, e il dotto archeologo G. De Petra, che nel Giornale degli Scavi[327] ne fece una ragionata dichiarazione, lodandonelo, avverte che «ci è piuttosto motivo di congratularsi, anzi che di dolersi intorno allo stato di conservazione, in cui ci sono pervenuti questi due monumenti. Il carattere di realtà e di verità, sì profondamente scolpiti in tutti i loro lineamenti, li fa senza alcun dubbio definire per ritratti.»

[391]

APPENDICE SECONDA L’eruzione del Vesuvio del 1872 detta del 26 aprile[328].

Nel Capitolo primo di questa mia opera, ebbi a notare come ne’ giorni del mio soggiorno in Napoli, verso, cioè, la metà del dicembre 1869, il ch. cav. Luigi Palmieri, direttore dell’Osservatorio Vesuviano, avesse segnalato agitazioni nel sismografo, le quali dovessero essere precorritrici di sotterranee commozioni. Notai del paro come infatti si avessero a tradurre in iscosse di tremuoto in qualche città italiana e nella catastrofe poscia toccata all’isola di Santa Maura, l’antica Leucadia, la cui capitale Amaxichi, stando a’ dispacci telegrafici ed ai giornali dell’ultima settimana del dicembre di quell’anno, avesse ad essere interamente rovinata[329].

Queste agitazioni, queste scosse e codesti considerevoli guasti erano i prodromi d’un periodo di commovimento vesuviano, che offrì nel 1871 spettacolo [392] di accensione e di infocate lave, non che nel successivo anno 1872, dove aveva la sua massima attività e intensità, periodo che pur ai giorni che scrivo non è per avventura ancor chiuso, come n’abbiamo prova in alcune importanti manifestazioni avvenute nel mese di marzo ed anche successivamente nel corrente anno 1873.

Io reputo conveniente, avanti impor termine a questo lavoro, di raccogliere in poche pagine la terribile e lagrimosa storia della eruzione vesuviana suddetta seguita nello andato anno 1872; perocchè, al giudizio dei dotti, essa annoverare si debba tra le più celebri e disastrose, e sarà compimento della rapida monografia, che del Vesuvio ho nel detto primo Capitolo dettata.

Nè far di meglio io credo quanto spiccare dalle varie pubblicazioni avvenute in Napoli a que’ giorni, nelle quali sentesi ancora tutta l’impressione di chi fu spettatore di quei formidabili furori vesuviani, tenendo conto per altro di que’ giorni soltanto, in cui la furia del monte fu maggiore e l’eruzione al colmo.

Questa eruzione vien designata del 26 aprile 1872, perchè fu in tal giorno che si manifestò nella sua maggiore violenza. Ma se questa maniera di distinguere le conflagrazioni del monte, disse il Palmieri nella Conferenza tenuta in Napoli pubblicamente il 9 maggio di quell’anno, è commoda per la storia, [393] è invece falsa innanzi alla scienza; poichè questi grandi incendii non sono che fasi e manifestazioni di più o meno lunghe durate de’ grandi periodi eruttivi. L’eruzione quindi di che ora tratto, secondo l’illustre professore, rimonterebbe al 1 gennajo 1871.

«Io al primo gennajo 1871, soggiunse egli, annunziava sulla stampa che un periodo eruttivo era definitivamente stabilito, che sarebbe di lunga durata, e le cui fasi non poteva prevedere; al 13 gennajo comparve il piccolo cono come un piccolo fanale che sembrò poi fare sosta: era il finale del primo atto. Nel gennajo 1872 ricomparve il piccolo cono ed accanto ad esso delle bocche tonanti, con tutta la serie degli avvenimenti vesuviani che occorsero in quest’anno... Deve però dirsi che quello che abbiamo noi veduto è veramente la fase ultima della lunga eruzione che ha avuto incominciamento il gennajo del 1871»[330].

La notte del 21 aprile incominciava splendidissimo lo spettacolo delle lave incandescenti che scendevano dal cono del Vesuvio. Tale spettacolo si poteva ammirare anche in Napoli e a Santa Lucia, infinita era la gente che stava a contemplarlo; ma moltissimi ben anco coloro che dalla città facevansi colle carrozzelle trasportare alle falde del monte. Ma prima [394] che il giorno spuntasse le lave avevano arrestato il loro corso, una sola avvanzavasi nell’Atrio del cavallo maestosa.

Un telegramma del Palmieri del mattino (ore 6 ant.) del 25 aprile così l’annunziava: «Grande incremento nella eruzione del Vesuvio, coincidente col tempo dal plenilunio, siccome avvenne nello scorso mese. Il fuoco si mostra per quattro bocche, ma la lava esce più copiosa per quella che si aprì alla fine di ottobre dello scorso anno. Essa scende pel lato meridionale del cono occupando la sabbia che serviva alla discesa.

«La maggiore attività dei crateri si notava da jeri l’altro con agitazione dei soliti strumenti.»

La notte che seguì un tal giorno è così descritta da Martino Cafiero in una lettera al signor Zerbi, redattore del giornale Il Piccolo di Napoli:

«Giunti, dopo un cammino di due ore almeno, a pie’ dell’Eremitaggio e dell’Osservatorio, smontammo di carrozza, e cavalcando, il mio amico ed io, due cavalli che avevamo fatti venir da Resina, ci dirigemmo, accompagnati da due guide con fiaccole, alla volta del monte. Dall’Osservatorio un sentieruzzo erto, arenoso, sfranato di qua e di là, conduce a piè d’un gran piano di vecchia lava — lava del 1871 — sul quale piano la nuova eruzione si riversa. Lasciammo i cavalli là; e c’inerpicammo su per quei massi ineguali, ancora caldi dopo un anno che furono [395] spenti. Sai la superficie d’un mare in tempesta, che s’eleva, s’abbassa, s’increspa in flutti e gobbe ed avvallamenti tutti intorno per l’ampio spazio? Ebbene fa di pietra quella superficie di mare sconvolto; falla nera, rotta e ferrigna, ed aspra, e sonante sotto i passi, d’un suono schiacciato ed acre: e ti sarai fatta l’imagine del luogo pel quale condotti passavamo. A stento, saltando di picco in picco, incespando nei crepacci e nelle screpolature, sorretti dalle guide, poggiandoci sopra lunghi bastoni a punta, giungemmo in un luogo ch’era discosto dalla punta d’una lava quanto è il largo della Carità dallo Spirito Santo. Le guide volevan condurci sino al foco: io però mi sentiva rotto tutto, e volli sostare; ci ponemmo a sedere su d’uno di quei massi pungenti e rivolgemmo lo sguardo al monte.

«Vedevamo, alla nostra destra, in alto alla montagna un centro di foco vivissimo, dal quale uscivano, a sbuffi violenti, ora fiamma, ora fumo, ora massi, lanciati, come enormi carboni accesi, ad una altezza portentosa. Da quel centro, in una lunghissima linea zig-zag sulla schiena del monte, vedevasi scendere la lava: questa però luminosa in alcuni punti e già oscura in altri, pareva proceder lentamente e quasi star immobile, ad onta della gran vivacità ed attività dei cratere originario. Il cielo non era limpido, ma sparso di nubi leggere e bianche; nessun’aura di vento, un gran silenzio ed [396] una quiete pressochè sinistra tutto intorno: da quell’alto monte tutto valli nere sino a quel mare in cui si rifletteva, come in un cristallo opaco, una velata luna. Lo stesso vulcano non dava nè boati nè tuoni, e solo l’alta bocca che t’ho detto facea sentir come l’ebollizione d’una mostruosa caldaia. La scena non era imponente tanto, quanto sinistra; quel mare di pietre e di ferrigne schiume su cui stavamo seduti, pallidamente rischiarate da una triste luna annebbiata, metteva, nella sua immane vastità, raccapriccio e spavento; nè si poteva guardare senza brivido quel tetro monte con quella fiammaccia in cima, sovra cui, a guisa di schiuma sanguigna che circondasse le infocate fauci d’una belva sovrannaturale, un fumo bianco, qua e là macchiato di chiazze rossicce.

«Ed ecco che come noi, taciti e tutti compresi da quel tremendo spettacolo, guardavamo lungamente il cielo e il monte e quella valle fosca, tutto ad un tratto una vista improvvisa e rapida ci colpì. Al disotto non molto del cratere di cui t’ho parlato, inopinatamente una gran macchia di foco comparve; la quale, senza strepito, senza rumore, silenziosamente, come una immensa cortina di foco s’allargò sulle spalle del monte, con un movimento laterale e perpendicolare insieme. Vedemmo allora come una gran muraglia di fiamma viva; e il calore e il riverbero ci percosse tutt’ad un tratto il viso, e vedemmo [397] l’immenso foco ripercosso dal fumo, dal cielo, dalle nubi circostanti, e laggiù laggiù era il mare immobile, di cui un pezzo divenne come di sangue. La luna era uscita fuori dalle nubi, e splendeva limpidissima; e quella luce candida e quella luce infocata, quell’astro, quel vulcano, quel cielo, quel mare, che riflettevano a gara l’uno e l’altro; tutti quegli splendori, tutti quei riflessi; que’ terreni, quelle mitezze, quella vastità di spazii e quella selvaggia, indomita, superba potenza di fenomeni, fecer subitamente magnifico l’indescrivibile spettacolo e spiegarono sotto i nostri occhi stupefatti un quadro che avrebbe fatto poeti sin certi scrittori di versi del tempo presente.

«Delle nostre due guide una, la migliore, era andata presso l’estremità della prima lava per recare, come usa, pezzi di quella con monete conficcatevi dentro.

«L’altra guida stava presso di noi e ci spiegava, col buon senso d’una guida, come tutto quel nuovo foco, il quale in un attimo aveva allagata la montagna, non potesse in meno di tre ore giungere sino a noi.

«La spiegazione non ci parve evidente e volemmo tornare. Prendemmo infatti la via, insieme a tre nostri amici, nei quali ci abbattemmo, e che ci debbono la vita poichè li dissuademmo dall’andare innanzi; e saltando e dirupandoci balzelloni su per [398] quelle pungenti e scoscese rocce, in mezz’ora fummo là dove avevamo lasciato i cavalli.

«Come tornavamo, lungo quegli aspri greppi, in molti ci scontrammo, che andavan su come noi eravamo andati, e che forse non tornarono come noi tornammo. Molte forestiere favelle colpirono i nostri orecchi, e mi si stringe il core pensando ora a chi venne forse di lontane terre, e cercando i diletti della vita e gli spettacoli della diversa natura, incontrò lontana dai cari suoi, la morte.

«In un punto, su d’un alto masso, seduti l’uno accanto all’altro, vedemmo una donna ed un uomo.

«Si tenean per mano e non si parlavano; ma su’ loro visi giovani era dipinta l’estasi della contemplazione e dell’amore. Gli occhi dell’uno scintillavano come quelle fiamme vulcaniche, quelli dell’altra eran dolci, immobili e puri, come quell’astro d’argento che tutta la circondava de’ suoi bianchi splendori.

«La vista dei due amanti m’è rimasta immobile nella mente. Vorrei saper di loro, e pure, se lo potessi, come chiederne notizie? non oserei farlo! Tornarono? o......? Ed erro e mi tormento in questo dubbio, e non so se essi vivono, o se, morendo, furon degni d’alta pietà o d’infinita invidia.

«..... Ad un tratto un suono basso e cupo ci fece girar l’occhio indietro. E vedemmo come se tutta la montagna s’incendiasse. Le nere macchie che prima vedevansi tra le due grandi lave, scomparvero [399] in un baleno; e non si vide che tutta una fiamma che s’avanzava e si dilargava sul piano di vecchia lava, su cui poco innanzi eravamo.

«Non era ancor nato nell’animo nostro lo spavento di quella terribile vista, quando già essa ci fu tolta. E vedemmo irromperci innanzi alla faccia quasi una nuova montagna più fosca della prima, ed incalzarci ed esserci sopra con movimento precipitoso. Era orribile sbuffo di fumo così fitto che fece la tenebra dove poco innanzi era tanta la luce d’incendio; e da quello si svolgeva tale puzzo di zolfo e di bitume che subito rivolgemmo altrove il viso e quasi il respiro ci venne meno.

«Cercammo scampo nella fuga e dietro di noi s’udiva il grido disperato, pompeiano, d’altri fuggenti...

«Era già l’alba ed il cielo era diventato limpido e sereno. Splendeva ancora la luna e spirava un venticello di primavera pei vigneti vesuviani. Tanto sorriso da una parte; dall’altra tanto disastro: e mentre l’immensa colonna di fumo, elevandosi in un estremo dal vertice del monte e piegandosi con l’altro estremo nella vallata sottostante, formava un arco come di roccia nera, solcato in lungo da strisce sanguigne, nel mezzo di quell’arco vedevasi un lembo di cielo azzurro che lentamente s’illuminava nei chiarori d’un’alba incantevole[331]

[400]

Il Palmieri dall’Osservatorio mandava queste due parole:

Ore 6 a. m. Nuove bocche verso Nord; molti feriti. A domani il resto. — Questi feriti erano vittima della curiosità che li avea spinti sulle falde del monte, che ognora più si andava rendendo pericoloso.

Spaventevole era la vista della sterminata fornace anche per chi la guardava da Napoli. La nuvola che si levava e copriva parte dell’orizzonte era quale Cajo Plinio la descrisse dopo l’eruzione che seppellì Pompei; «bianca e talvolta sordida e macchiata, a seconda che sorreggesse terra o cenere»; e fin nelle ultime spire dei densi vortici. Si avvertiva ogni respiro del monte, poichè questi si muovono come il fumo ch’esce dalla bocca d’un cannone. Più volte s’udì il tremare dei vetri in molte case di Napoli; in parecchi edifici si fecero screpolature; e quasi tutto il giorno dalle terrazze e dall’interno delle case si udivano boati spaventevoli pari al rumore che fa la locomotiva quando vi passi dappresso.

Dinanzi all’Ospedale dei Pellegrini grandissima folla accorreva per vedere i feriti ed i morti che arrivavano. Ogni tanto ne arrivava uno. Questi nudo, arso dal capo alle piante, messo in un lenzuolo mandava grida strazianti. Quegli colle vesti intatte era presso alla morte, avea le carni rosse quasi fosse stato tirato fuori da una caldaia d’acqua bollente.

Otto giovani studenti di medicina sparvero sotto [401] le lave: erano giovani di liete speranze e tutti pugliesi. Ecco i loro nomi, che il Palmieri scrisse aversi a ricordare in nera lapide marmorea da collocarsi presso l’Osservatorio: Girolamo Sargini, Antonio e Maurizio Fraggiacomo, Vitangelo Poli e Francesco Binetti di Molfetta, Giuseppe Carbone di Bari, Francesco Spezzaferri da Trani e Giuseppe Busco da Casamassima.

Indescrivibile il terrore a Resina, San Giovanni, Torre del Greco e in tutti i paesi alle falde del Vesuvio. I ruggiti spaventevoli del monte, l’avvicinarsi della lava, l’allargarsi della densa caligine, il tremare della terra, tutto incute timore grandissimo. Piangendo, urlando, cercando i loro cari con le voci, fuggono ricchi e poveri abbandonando le case, chi raccomandandosi a Dio, chi bestemmiandolo. Vedonsi povere vecchie trascinarsi a stento ed affrettare il passo più che la grave età nol consenta, appoggiata al bastone una mano, con l’altra portando un fardello; vedonsi madri con un bambino in braccio e con un altro per mano accanto al marito carico di fardelli e masserizie correre disperate verso Napoli. Da Portici, da Somma, da Resina, da San Giovanni, da Torre tutti cercano scampo a Napoli, dove li precede la densissima nuvola, che s’avanza vorticosa sull’orizzonte.

Poco dopo il meriggio si ripetevano molte dolorose notizie. Chi parlava di dugento morti, chi di [402] trecento. Dicevasi che molti forestieri mancassero agli alberghi. Assicuravasi che una ventina di persone fossero circondate dalle lave e gridassero invano chiedendo soccorso.

Alle ore 2 pom. il prefetto di Napoli marchese D’Afflitto mandava il seguente telegramma:

«Vesuvio screpolato vomita fuoco da molte bocche. Per ora non si può determinare direzione che lave prenderanno. Punto più minacciato San Sebastiano. Feriti già trasportati ospedale Pellegrini sono dodici: tre morti. Molti sono rimasti morti sotto lave. Qui non fa bisogno d’altri soccorsi da Napoli.»

Il chiarissimo professore Palmieri assicura che a tutti i curiosi che la sera del giovedì, 25, erano accorsi per visitare la lava, egli avesse sconsigliato di inoltrarsi dopo l’Osservatorio dov’egli si trovava, non essendo prudente lo avventurarsi di notte per luoghi impraticabili e lontani; una nube stessa bastando per non farli tornare: se fosse stato ascoltato l’avviso, non sarebbonsi lamentate vittime.

Ma lasciando gli episodj dolorosi ed occupandoci soltanto del fatto dell’eruzione, la fenditura aperta nell’Atrio del Cavallo, che accennai più sopra, era in continuazione della fenditura del cono, e in essa si vide alzata una collina, o piccola catena di montagne, formata dalle lave precedenti, e dalla base di questa collina uscivano le lave in modo tranquillo, perchè tutti gli oneri della conflagrazione se li aveva serbati [403] il cratere centrale. Queste lave si condussero nel fosso della Vetrana, e come questo si fosse quasi riempito, presentava allora una larghezza di circa un chilometro.

«Su questa valle, notò il Palmieri, nelle sue conferenze, ebbi a contemplare de’ fenomeni, i quali attiravano l’attenzione dei geologi. Nel seno stesso della lava si stabilivano delle bocche d’eruzione, dei piccoli crateri, sicchè era la lava che faceva l’eruzione; queste bocche emanavano globi di fumo cinereo, gittavan proiettili, insomma erano come crateri in mezzo alla lava. Dunque la lava esplode per conto suo, dunque abbiamo svelato i misteri dell’interno del cono, dunque i fenomeni eruttivi dipendono dalla lava. Noi adunque possiamo dire di non sapere come questa materia fusa possa prodursi in eruzione, ma non possiamo dire che sia un mistero la eruzione nell’interno de’ coni[332]».

Questa dimostrazione che l’illustre Palmieri fa ed è certo una scoperta importantissima, era implicitamente preceduta dalle esperienze fatte e ripetute col suo plutonio dal nostro Paolo Gorini. Pure il di costui plutonio, raffreddandosi, si determina in monticuli, in avvallamenti, e dalle punte assodate del suo liquido eruttasi la lava che, sovrapponendosi strato a strato, forma le montagnole stesse.

[404]

Questa lava scesa nel fosso di Faraone, divergendo per altro in parte sulle Novelle, altra fra Massa e S. Sebastiano, altra abbatte e copre case e ville, fra le quali quella che apparteneva al celebre pittore Luca Giordano, altra si dirige verso la Favorita, ed altra scendendo dall’alto del cono volge verso i Camaldoli di Torre.

Fu un momento nel quale si sospettò che il cono sarebbe crollato; perocchè tante piccole fumarole si fossero venute aprendo tutto all’intorno di esso, le quali di notte, diventando tanti fori, di giorno sembravano avessero reso insostenibile il cono.

Ma la forza di projezione da cima del cono diminuiva; le lave la mattina del 27 o cessarono o scemarono di loro attività e apparvero le ceneri, indizio che il periodo igneo fosse finito. E infatti cessava prima di sera, quantunque continuasse il fragore de’ crateri con forza maggiore, il fumo erompesse misto a proiettili, e in mezzo ad esso guizzassero belle e frequenti le folgori, che ne’ dì susseguenti le ceneri seguirono così da annuvolare il giorno e in Napoli e circa otto miglia all’intorno, cadde spessa, fitta e nera così da coprire le campagne e le strade dell’altezza di parecchi centimetri.

Il 28, la cenere e i lapilli, sempre in mezzo al fragore, cadevano in copia e ne furono sgominati i circostanti paesi; il 29, col lapillo caddero scorie grosse che ruppero i vetri delle finestre non difese da [405] persiane: verso la mezzanotte cessò il mugolar dei crateri, solo a quando a quando facendosi udire isolate detonazioni. Al tempo stesso, come fu notato in tutte le più terribili eruzioni, orribili temporali si scatenarono sulla Campania con poca pioggia; ma non per questo la desolazione fu minore in tutti i colti, che sembrò ricondotto il verno. Il 30 fumavano i crateri tuttavia, ma scemati i fragori, e il 1 maggio l’incendio era finito e diradato il giorno, onde fu dato riconoscere mutata la configurazione del cono e sparito quello in cui nel 1821 il francese Luigi Contral vide finire i suoi giorni. Dalla dottissima Relazione pubblicata nel corrente anno dall’illustre professore Palmieri Sulla Conflagrazione Vesuviana del 26 aprile 1872[333], e della quale il ringrazio pubblicamente pel dono onde mi volle gentilmente onorare di un esemplare, piacemi togliere le seguenti cose importanti a sapersi per completamento di questa mia narrazione intorno all’eruzione dello scorso anno.

«Non solo il cono vesuviano, ma tutta la campagna sotto l’azione del sole si facea bianca quasi fosse coperta di neve: era il sal marino contenuto nella cenere, che veniva a fiorire alla superficie di essa.

«Gran copia di coleotteri si raccolsero sul tetto dell’Osservatorio, che a milioni si toglievano insieme con la cenere e col lapillo che quivi si elevava per [406] 15 centimetri. Lo stesso trovai sul cono, ove mancavano molte specie altre volte notate, come la Cuccinella 7-punctata, la Crysomelia populi, ec. essendovene invece delle altre. Questo fenomeno di straordinario concorso di alcuni animali sulla cima del Vesuvio, per andare a morire nelle fumarole più di tutto prima o dopo le grandi eruzioni, è per me un fatto, di cui non mi so dare ragione.

«Si trovavano per la campagna animali morti o feriti: uccelli, volpi, ec.

«Tutte le lave uscite in questo incendio occupano una superficie di circa 5 chilometri quadrati, cui dando una grossezza media di 4 metri si ha una mole di 20 milioni di metri cubici. Quasi i 35 di queste lave non hanno recato danni, perchè sonosi soprapposte ad altre lave. Pure quelle che nelle Novelle sono andate a soprapporsi alle lave del 1868 hanno coperto gli scavi di ottima pietra che da quelle si era cominciata a tagliare, hanno coperti molti sentieri aperti sopra di esse, ed hanno sepolta la nuova chiesa di S. Michele con alcune case che la circondavano, la quale era stata edificata sopra quella sepolta nel 1868.

«Il danno pe’ terreni occupati, pe’ fabbricati distrutti e pel raccolto perduto oltrepassa tre milioni di lire.

«Le mofete solite ad apparire alla fine delle grandi conflagrazioni verso i luoghi più bassi, salvo rare [407] eccezioni, questa volta sono cominciate a manifestarsi alcuni giorni dopo la fine totale dell’incendio, quando i crateri non davano più fumo.

«Coteste mofete sonosi mostrate tra la Favorita e il Palazzo reale di Portici. Le più elevate le ho trovate alle cave di Sabato Aniello ed a’ Tironi. Si contano tre o quattro casi di morte di persone per aver respirato l’acido carbonico delle mofete.

«Le acque de’ pozzi questa volta non mancarono, ma sonosi in alcuni siti alquanto alterate con l’apparizione delle mofete.

«La luttuosa conflagrazione del 26 aprile è stata da me considerata come l’ultima fase di un lungo periodo eruttivo, cominciato nel mese di gennaio del 1871.»

Ma il dottissimo professore, dalla eruzione del 26 aprile dedusse osservazioni, studi ed esperienze importantissimi, ed io rimando il lettore che li vuol conoscere e approfondire a leggere la di lui Relazione, che reputo aver recato nuovo e preziosissimo contributo alla scienza.

Il prof. Palmieri diede, in questi ultimi mesi, cioè della prima metà del 1874, del Vesuvio le seguenti notizie:

«Dopo il memorabile e luttuoso incendio del 26 aprile del 1872, sulla cima del Vesuvio restò un ampio e profondo cratere, diviso in due compartimenti da una specie di muro ciclopico di grossi [408] pezzi di lava compatta, alternati con sottili letti di scorie. Il diametro medio di questo gemino cratere era di circa 300 metri e la profondità di 250, e però aveva una capacità di circa 17 milioni di metri cubici. La parte superiore delle pareti era composta di materia frammentaria, rigettata dall’attività eruttiva, e le parti inferiori erano compatte. Dall’orlo perciò del cratere spesso si staccavano scorie e lapilli, i quali finora non avevano sensibilmente scemata la profondità di quelle ampie voragini. Ora in pochi giorni il muro ciclopico è sparito, ed il cratere, senza fenomeni eruttivi, è quasi ripieno. È stato scoscendimento delle pareti franate entro il cratere o sollevamento del fondo di questo? Il fumo e la stagione non hanno permesso di vedere bene tutto ciò che conveniva esaminare per risolvere la questione. Se si dovesse accettare una elevazione del cratere, si troverebbe un indizio di conato eruttivo, in quello che una semplice frana non avrebbe un significato.

«I forestieri che volessero entrare nel cratere potranno farsi condurre non pel solito sentiere, ma per la linea di N. O. ove la fenditura del 1872 presenterà loro un ampio varco per siffatta esplorazione.»

Con questi cenni, la monografia del Vesuvio giunge infino alle sue ultime e interessanti manifestazioni e colle quali impongo fine a questa appendice.

[409]

IL GUARDIANO POMPEJANO o

L’ITINERARIO PER LA VISITA DELLA CITTÀ

Il lettore che ha avuto la longanimità di percorrere dal principio al fine questa mia opera, rammenterà avergli io detto, come sceso dal vagone della ferrovia che mi condusse da Napoli a Pompei, dopo pochi passi, giunto alla Porta della Marina o, come fu recentemente denominata, della Strada Ferrata, pagate le due lire all’ingresso della città, mi si accompagnasse un guardiano, per essermi guida nella visita delle interessanti ruine. Ma di lui non mi sono più occupato, rapito dagli studj onde quella vista mi fu occasione e una volta cintami la giornea a dir di tante cose, non era sì facile lo smetterla presto.

Giunto al fine del mio lavoro adesso, m’accorgo che a rendere più utile e accetta l’opera, mi sia proprio d’uopo riedere al mio bravo guardiano, bastevolmente istrutto e cortese per farmi pago delle prime e più necessarie inchieste.

Supponendo ora che taluno almeno di coloro ai quali quest’opera mia verrà alla mano, valer si voglia [410] per prepararsi a vedere, o fors’anco per averla a compagna nella peregrinazione di sua curiosità per Pompei, riprodurrò suppergiù per lui quanto a me avesse ad indicare il buon guardiano che mi seguiva a fianco, rimettendo, per ciò che spetta alle più ampie dichiarazioni, a’ capitoli e pagine de’ miei volumi.

Porta della Marina.

La porta per la quale entriamo dicesi della Marina: essa venne scoperta nel 1863 dal comm. Fiorelli. Reputavasi dapprima che per declinare appunto la città al mare, dalla Porta d’Ercolano a quella di Stabia non corresse cinta di mura, ma essa doveva indubbiamente esistere; la porta ne fa fede: la guerra l’avrà smantellata e distrutta, l’eruzione confuse le ruine.

Come ebbi a dirlo più volte nel corso dell’opera, è da questa parte che sorgono i più interessanti edifici pubblici e privati.

E prima di tutto, eccoci entrati nel Foro, intorno a cui si accoglievano i principali.

La Basilica, o luogo nel quale si rendeva la giustizia. Vedine la descrizione. Vol. I. cap. X pag. 525.

A sinistra la Casa di Championnet, perchè scoperta del generale di questo nome, in onore del quale fu detta. Vol. III. cap. XX pag. 83.

Il tempio di Venere è nel mezzo. Vol. I. cap. VIII pag. 228.

Dietro di questo tempio, volgendo a destra, si vede [411] il Modello di capacità per gli aridi, o Mensa Ponderaria, in una pietra di tufo vulcanico rettangolare con tre cavità coniche. Vol. I, cap. IV pag. 103.

Il tempio di Giove. Vi si conservavano gli archivii e il tesoro della colonia. Contigua al lato sinistro è la Casa di Cissonio descritta nel n. 10 del 1871, del Giornale degli Scavi nuova serie, ma della quale non m’intrattenni specialmente nel Capitolo delle Case, come di altre, perocchè a dir di tutte sarei ito in soverchie lunghezze, senza beneficio del mio compito, e avrei dovuto ripetere spesso le medesime cose. Del tempio vedi invece Vol. I, cap. VIII pag. 240.

Foro Civile, in cui i Pompejani vi trattavano gli affari pubblici. All’epoca della catastrofe era in ricostruzione pei gravi guasti del tremuoto del 65. Vol. I, cap. IX pag. 313.

Il tempio d’Augusto. Vol. I, cap. VIII pag. 283.

Subito presso è la Sala del Senato in un edificio semicircolare. Vol. I, cap. XI pag. 366.

A fianco è il Tempio di Mercurio. Vol. I, cap. XI pag. 274.

Edificio di Eumachia o Calcidico. Vol. I, cap. XI pag. 373.

Scuola di Verna. Vol. II, cap. XVI pag. 232.

Le tre curie, o sale di Consiglio, dipendenza della Basilica. Vol. I, cap. XI pag. 366.

Le vie, qual più qual meno lunghe e larghe, bordeggiate di marciapiedi rialzati, con fontane, frequenti. [412] Veggansi in parecchi luoghi sulle pareti esterne delle case affissi pubblici di spettacoli, d’appigionasi e richiami elettorali in rosso ed in nero. Vol. I, cap. VII pag. 189.

Via dell’abbondanza prima dei mercanti. Vol. I, cap. VII pag. 196.

Casa del cinghiale così denominata dal musaico del vestibolo che raffigura un cinghiale inseguito da due cani. Vol. III, cap. XX. pag. 83.

Viottola dei dodici dei, ricordati nel verso di Ennio, Vol. I, cap. VII, pag. 197.

Viottola del Calcidico, Id. Ibid.

Nuova casa della caccia. Vol. III, cap. XX pag. 83.

Vicolo del balcone pensile, da un balcone appunto di una casetta che vi esiste. Vol. I, cap. II pag. 197.

Via del lupanare. Vol. I, cap. VII pag. 196.

Casa di Sirico. Vol. III, cap. XX pag. 84.

Lupanare. Vol. III, cap. XXI pag. 277.

Fabbrica di sapone, lutus fullonicus. Vol. II, cap. XVII pag. 357.

Via d’Augusto. Vol. I, cap. VII pag. 197.

Casa della nuova fontana, detta anche dell’orso. Vol. III, cap. XX pag. 84.

Casa di Marte e Venere. Vol. III, cap. XX pag. 84.

Forno publico. Vol. II, cap. XVII pag. 307.

Terme Stabiane. Vol. II, cap. XV pag. 214.

Casa di Cornelio Rufo. Vol. III, cap. XX pag. 84.

Piedistallo della statua di Marco Olconio Rufo. Vol. III, cap. XX pag. 84.

[413]

Casa N. 4. Vol. III, cap. XX pag. 84.

Foro triangolare o nundinario. Vol. I, cap. IX pag. 319.

Ludo gladiatorio o quartiere de’ soldati. Vol. III, cap. XIX pag. 4.

Teatro comico. Vol. II, cap. XII pag. 4.

Teatro tragico. Vol. II, cap. XIII pag. 53.

Tempio d’Iside. Vol. I, cap. VIII pag. 244.

Dietro di esso è la Curia Isiaca, detta anche Trebus secondo l’indica l’iscrizione osca che vi si trovò. Vol. I, cap. VIII pag. 268. A sinistra montando è

Il Tempio d’Esculapio o di Giove e di Giunone. Vol. I, cap. VIII pag. 269.

Casa del Citarista. Fu così denominata dalla statua in bronzo d’Apollo colla cetra rinvenutavi. Vol. III, cap. XX pag. 84.

Di fronte è forse più propriamente a dirsi la Casa di Lucio Popidio Secondo. Vedi n. di dicembre 1868 del Giornale degli Scavi, e che però fa ritenere che l’isola I della Regione I in cui si trovava si appellasse Popidiana Augustiana. La Regione VII isola II di Marco Epidio Sabino che è sulla via dell’Anfiteatro, così fu detta per una casa principale appartenente a proprietario di tal nome.

Casa di Marco Lucrezio. Vol. III, cap. XX pag. 85.

Forno e casa di Paquio Proculo. Vol. II, cap. XVII pag. 308.

Tintoria. Vol. II, cap. XVII pag. 332.

Vicolo fra la via Stabiana e vicolo Storto.

[414]

Via della Fortuna.

Casa degli Scienziati, perchè scoperta nel 1845 alla presenza dei dotti riuniti al settimo congresso in Napoli.

Casa della caccia, a sinistra. Senza ripetere il rimando alla pagina per ogni casa, veggasi il cap. XX nel vol. III dalla pag. 83 alla 89.

Casa dei capitelli colorati, id.

Casa del gran duca, id.

Casa della parete nera, id.

Casa del Fauno, a destra. Vol. II, cap. XVIII pag. 399 e vol. III, cap. XX pag. 83. Vi si trovò il famoso Fauno di bronzo.

Tempio della Fortuna. Vol. I, cap. VIII pag. 278.

Via di Mercurio.

Edificio del Fullone. Vol. II, cap. XVII pag. 333.

Casa della gran fontana in musaico.

Casa della piccola fontana.

Quadrivio e fontane a sinistra. Vol. II, cap. XV pag. 226.

Casa d’Adone.

Casa d’Apollo.

Casa di Meleagro.

Casa del Centauro.

Casa di Castore e Polluce, detta anche del Questore merita essere particolarmente osservata, come una delle più belle, come fu anche fra le più ricche di cose artistiche.

[415]

Osteria. Vol. II, cap. XVII pag. 298.

Casa dell’Ancora.

La Casa di Cajo Vibio, scoperta in questi ultimi anni, è nella Regione VII isola II N. 18: si distingue dalle altre per la solidità e la buona conservazione delle mura. Vedine l’illustrazione nel numero d’Agosto 1868 del Giornale degli Scavi, nuova serie. Quella di Gavio Rufo è vicina: porta il n. 16 ed è illustrata nello stesso giornale, numero di settembre. Quella di Caprasio Primo è al N. 48. Di fronte è la taberna di M. Nonio Campano. Vol. II, cap. XVII pag. 327.

Via delle Terme.

Terme pubbliche. Vol. II cap. XV pag. 207.

Casa del poeta. Vol. III cap. XX pag. 83.

Son presso de’ termopolii o venditorii di bevande calde. Vol. II, cap. XVII.

Casa di Pansa edile, e secondo alcuni, di Paratus. Vol. III cap. XX pag. 62.

Casa del maestro di musica, in cui v’è il musaico all’ingresso, raffigurante il cane col motto Cave Canem. Id. pag. 85.

Fontana. Vol. II, cap. XV 226.

Forno e Mulini. Vol. II, cap. XVII.

Casa di Cajo Sallustio. Vol. III cap. XX.

Forno pubblico. Vol. II, cap. XVII pag. 307, passim.

Cisterna pubblica. Vol. II, cap. XV.

A destra è un vicolo che mette capo alla Via di [416] Mercurio, e di fronte a tal vicolo presentasi un atrio con all’intorno alcune camere, nelle quali è installata la Scuola archeologica di Pompei.

Scheletri di una madre e di una figlia, di una matrona e d’un uomo. Vol. I, cap. V.

Telonium o Dogana. Vol. I, cap. IV pag. 103.

Casa detta del Chirurgo.

Casa delle Vestali.

Termopolio. Vol. II.

Albergo. Idem.

Fortificazioni e porta d’Ercolano a tre archi colle traccie della saracinesca nell’arcata di mezzo. Vol. I, cap. VII pag. 187.

Via delle Tombe. Vol. III, cap. XXII pag. 345.

A sinistra:

Tomba di M. Cerrinio. Id. Ibid. pag. 346. A schivare ripetizioni, da questa pagina in avanti stanno, fino a pag. 368, le dichiarazioni delle pur seguenti tombe.

Tomba di Vejo e suo emiciclo.

Monumento ed emiciclo di Mammia.

A destra:

Tomba delle ghirlande.

Gran nicchia per riposo dei visitatori.

Giardino delle colonne in musaico.

Albergo e scuderia.

A sinistra:

Il Pompejanum, o casa di Cicerone. Non soltanto [417] in questo capitolo XXII, ma anzi più largamente è trattato di essa anche nel Vol. I, cap. III pag. 83.

Tomba di Scauro.

Tomba circolare.

A destra:

Tomba della porta di marmo.

A sinistra:

Mausoleo di Cajo Calvenzio Quieto. Anche nel Vol. I, cap. IV pag. 101.

Cippi della famiglia Istacidia.

Tomba di Nevoleja Tiche e di Munazio Fausto. Vedi anche nel Vol. I, cap. VI pag. 101.

Triclinio funebre.

Tomba di Marco Allejo Lucio Libella padre e Marco Libella figlio.

Tomba di Cajo Labeone.

Tomba del fanciullo Velasio Grato.

Tomba del fanciullo Salvio.

Chiudesi la Via delle Tombe e la serie quindi di esse coi sepolcri della famiglia Arria di Marco Arrio Diomede, di Marco Arrio primogenito, di Arria l’ottava figlia di Marco, di un’altra Arria e di quelli tutti della famiglia di Diomede.

Casa di campagna di Marco Arrio Diomede. Vedi anche Vol. I, cap. V pag. 143, Vol. II, cap. XV e Vol. III, cap. XX pag. 87.

Visitata così tutta la parte della città che è esumata, alla estremità di essa, al fianco opposto a quello [418] delle Tombe che abbiamo appena lasciato, al basso della Via di Stabia, dopo alcuni passi oltre gli scavi, e a traverso de’ campi coltivati, che celano ancora parte della città, si giunge all’Anfiteatro, del quale si son date in questa edizione incise la fronte esterna nel titolo del secondo volume dell’opera e nel corpo, la veduta interna. Vol. II cap. XIV.

Questa rapida corsa potrà durare quattro ore e, se appena il lettore ha sentimento artistico, ne ritrarrà di certo da una prima visita il desiderio di altre, le quali certo gli verranno rivelando nuove cose degnissime di osservazione e di nota, e sarà allora, io spero, che gli torneranno più accetti questi miei studi, nel compire i quali, non fatica e stanchezza, ma diletto e conforto ho ricavato sempre contro la cospirazione del silenzio e la viltà di politici avversari, le codarde compiacenze di insipienti Eliasti e la stupidità degli Iloti onde abbonda la nostra terra, Saturnia tellus, che mantien vivo l’appetito del vecchio Nume divoratore de’ suoi figliuoli e che così ne compensa le veglie sudate e le opere generose.

Non mi mancarono tuttavia i plausi de’ buoni e gli onesti ed onorevoli incoraggimenti e poichè nel pigliar le mosse di questi miei studj, io ne proclamavo auspice quel fior di senno e d’onestà che è il mio carissimo Pietro Cominazzi; così piacemi chiuderli ancora nel suo nome e il lettore non ascriva a mia vanità, ma al volere di quell’egregio, se finisco qui [419] riferendo i versi de’ quali egli per quest’opera mi voleva onorato

A P. A. CURTI

Sonetto

Lascia ch’io teco ammiri a parte a parte

Le combuste rovine, e di Pompei,

Col sagace poter delle tue carte,

L’immagine si desti agli occhi miei!

Qui s’ergeano i delubri, e qui dell’Arte

Del bello eternatrice e degli Dei

Immortale custode, ecco le sparte

Reliquie, onde il disìo pungi e ricrei.

Del suo classico peplo rivestita,

— Tanta innanzi mi scorre onda di vero, —

Pompei ne’ marmi e nello spirto ha vita.

Tu la vorace ira del tempo hai doma...

Nel passato io risorgo, e col pensiero

Teco son fatto cittadin di Roma.

FINE DEL VOLUME III E DELL’OPERA.

[421]

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

Volume primo.
 
I. Il Vesuvio, nel frontispizio.
II. La tomba di Virgilio, pag. 1.
III. Strada all’Eremitaggio del Vesuvio, pag. 61.
IV. Mensa Ponderaria, pag. 91.
V. Bilance Pompejane, pag. 104.
VI. La Catastrofe di Pompei, pag. 140.
VII. Scenografia degli Scavi nel 1868, pag. 161.
VIII. Porta d’Ercolano a Pompei, pag. 181.
IX. Via Consolare, pag. 195.
X. Arco trionfale alla Via di Mercurio, pag. 210.
XI. Il tempio di Venere, pag. 228.
XII. Il tempio di Iside, pag. 244.
XIII. Veduta generale del Foro Civile, pag. 313.
XIV. Foro Nundinario, pag. 319.
 
Volume secondo.
 
XV. Veduta esterna dell’Anfiteatro, nel frontispizio.
XVI. Odeum, o Teatro comico, pag. 20.
XVII. Anfiteatro interno, pag. 101.
XVIII. Tepidarium delle antiche terme, pag. 222.
XIX. Fontane, Crocicchi di Fortunata, pag. 226.
XX. Busto di Pompeo, pag. 400.
XXI. Busto di Bruto, Id.
XXII. La Battaglia d’Isso, musaico, pag. 410.
 
Volume terzo.
 
XXIII. Il quartiere de’ soldati, nel frontispizio.
XXIV. La Casa del Poeta tragico, p. 85.
XXV. Il Lupanare, pag. 227.
XXVI. Via delle Tombe, pag. 345.
XXVII. Pianta del Vesuvio, pag. 391.

INDICE

CAPITOLO XIX. — Quartiere de’ soldati, e Ludo gladiatorio?Pagus Augustus Felix — Ordinamenti militari di Roma — Inclinazioni agricole — Qualità militari — Valore personale — Formazione della milizia — La leva — Refrattarj — Cause d’esenzione — Leva tumultuaria — Cavalleria — Giuramento — Gli evocati e i conquisitori — Fanteria: Veliti, Astati, Principi, Triarii — Centurie, manipoli, coorti, legioni — Denominazione delle legioni — Ordini della cavalleria: torme, decurie. — Duci: propri e comuni — Centurioni — Uragi, Succenturiones, Accensi, Tergoductores, Decani — Signiferi — Primopilo — Tribuni — Decurioni nella cavalleria — Prefetti dei Confederati — Legati — Imperatore — Armi — Raccolta d’armi antiche nel Museo Nazionale di Napoli — Catalogo del comm. Fiorelli — Cenno storico — Armi trovate negli scavi d’Ercolano e Pompei — Armi dei Veliti, degli Astati, dei Principi, dei Triarii, della cavalleria — Maestri delle armi — Esercizj: passo, palaria, lotta, nuoto, salto, marce — Fardelli e loro peso — Bucellatum — Cavalleria numidica — Accampamenti — Castra stativa — Forma del campo — Principia — Banderuole — Insegne — Aquilifer — Insegna del Manipolo — Bandiera delle Centurie — Vessillo della Cavalleria — Guardie del campo — Excubiæ e Vigiliæ — Tessera di consegna — Sentinelle — Procubitores — Istrumenti militari: buccina, tuba, lituus, cornu, timpanumTibicen, liticen, timpanotriba — Stipendj militari — I Feciali, gli Auguri, gli Aruspici e i pullarii — Sacrifici e preghiere — Dello schierarsi in battaglia — Sistema di fortificazioni — Macchine guerresche: Poliorcetiæ: terrapieno, torre mobile, testuggine, ariete, balista, tollenone, altalena, elepoli, terebra, galleria, vigna — Arringhe — La vittoria, Inni e sacrificj — Premj: asta pura, monili, braccialetti, catene — Corone: civica, morale, castrense o vallare, navale o rostrale, ossidionale, trionfale, ovale — Altre distinzioni — Spoglia opima — Preda bellica — Il trionfo — Veste palmata — Trionfo della veste palmata — In Campidoglio — Banchetto pubblico — Trionfo navale — Ovazione — Onori del trionfatore — Pene militari: decimazione, vigesimazione, e centesimazione, fustinarium, taglio della mano, crocifissione, fustigazione leggiera, multa, censio hastaria — Pene minori — Congedo Pag. 5
 
CAPITOLO XX. — Le Case. Differenza tra le case pompejane e romane — Regioni ed Isole — Cosa fosse il vestibulum e perchè mancasse alle case pompejane — Piani — Solarium — Finestre — Distribuzione delle parti della casa — Casa di Pansa — Facciata — La bottega del dispensatorPostes, aulæ, antepagamentaJanua — Il portinajo — ProthyrumCavædiumCompluvium ed impluviumPuteal — Ara dei Lari — I Penati — Cellæ, o contuberniaTablinum, cubicula, fauces, perystilium, procœton, exedra, œcus, tricliniumOfficia antelucanaTrichila — Lusso de’ triclinii — Cucina — Utensili di cucina — Inservienti di cucina — Camino: v’erano camini allora? — Latrina — Lo xisto — Il crittoportico — Lo sphæristerium, la pinacoteca — Il balineum — L’Alæatorium — La cella vinaria — Piani superiori e recentissima scoperta — Cœnacula — La Casa a tre piani — I balconi e la Casa del Balcone pensile — Case principali in Pompei — Casa di villeggiatura di M. Arrio Diomede — La famiglia — Principio costitutivo di essa — La nascita del figlio — Cerimonie — La nascita della figlia — Potestas, manus, mancipiumMinima, media, maxima diminutio capitis — Matrimonii: per confarreazione, uso, coempzione — Trinoctium usurpatio — Diritti della potestas, della manus, del mancipiumAgnati, consanguineiCognatioMatrimonium, connubiumSponsali — Età del matrimonio — Il matrimonio e la sua importanza — Bigamia — Impedimenti — Concubinato — Divorzio — Separazione — DiffarreatioRepudium — La dote — Donatio propter nuptias — Nozioni sulla patria podestà — Jus trium liberorum — Adozione — Tutela — Curatela — Gli schiavi — Cerimonia religiosa nel loro ingresso in famiglia — Contubernium — Miglioramento della condizione servile — Come si divenisse schiavo — Mercato di schiavi — Diverse classi di schiavi — Trattamento di essi — Numero — Come si cessasse di essere schiavi — I clienti — Pasti e banchetti romani — Invocazioni al focolare — Ghiottornie — Leggi alla gola — Lucullo e le sue cene — Cene degli imperatori — Jentaculum, prandium, merenda, cœna, commissatio — Conviti publici — Cene sacerdotali — Cene de’ magistrati — Cene de’ trionfanti — Cene degli imperatori — Banchetti di cerimonia — Triumviri æpulonesDapes — Triclinio — Le mense — Suppellettili — Fercula — Pioggie odorose — Abito e toletta da tavola — Tovaglie e tovaglioli — Il re del banchetto — Tricliniarca — Coena recta — Primo servito — Secunda mensa — Pasticcerie e confetture — Le posate — Arte culinaria — Apicio — Manicaretto di perle — Vini — Novellio Torquato milanese — Servi della tavola: Coquus, lectisterniator, nomenclator, prægustator, structor, scissor, carptor, pincerna, pocillator — Musica alle mense — Ballerine — Gladiatori — Gli avanzi della cena — Le lanterne di Cartagine — La partenza de’ convitati — La toletta d’una pompejana — Le cubiculares, le cosmetæ, le calamistræ, ciniflones, cinerarii, la psecae — I denti — La capigliatura — Lo specchio — Punizioni della toaletta — Le ugne — I profumi — Mundus muliebris — I salutigeruli — Le VeneræSandaligerulæ, vestisplicæ, ornatrices — Abiti e abbigliamenti — Vestiario degli uomini — Abito de’ fanciulli — La bulla — Vestito degli schiavi — I lavori del gineceo 57
 
CAPITOLO XXI. — I Lupanari. — Gli ozj di Capua — La prostituzione — Riassunto storico della prostituzione antica — Prostituzione ospitale, sacra e legale — La Bibbia ed Erodoto — Gli Angeli e le figlie degli uomini — Le figlie di Loth — Sodoma e Gomorra — Thamar — Legge di Mosè — Zambri, Asa, Sansone, Abramo, Giacobbe, Gedeone — Raab — Il Levita di Efraim — David, Betsabea, la moglie di Nabal e la Sunamite — Salomone e le sue concubine — Prostituzione in Israele — Osea profeta — I Babilonesi e la dea Militta — Venere e Adone — Astarte — Le orgie di Mitra — Prostituzione sacra in Egitto — Ramsete e Ceope — Cortigiane più antiche — Rodope, Cleina, Stratonice, Irene, Agatoclea — Prostituzione greca — Dicterion — Ditteriadi, auletridi, eterìe — Eterìe celebri — Aspasia — Saffo e l’amor lesbio — La prostituzione in Italia — La lupa di Romolo e Remo — Le feste lupercali — Baccanali e Baccanti — La cortigiana Flora e i giuochi florali — Culto di Venere in Roma — Feste a Venere Mirtea — Il Pervigilium Veneris — Traduzione — Altre cerimonie nelle feste di Venere — I misteri di Iside — Feste Priapee — Canzoni priapee — Emblemi itifallici — Abbondanti in Ercolano e Pompei — Raccolta Pornografica nel Museo di Napoli — Sue vicende — Oggetti pornografici d’Ercolano e Pompei — I misteri della Dea Bona — Degenerazione de’ misteri della Dea Bona — Culto di Cupido, Mutino, Pertunda, Perfica, Prema, Volupia, Lubenzia, Tolano e Ticone — Prostituzione legale — Meretrici forestiere — Cortigiane patrizie — Licentia stupri — Prostitute imperiali — Adulterii — Bastardi — Infanticidi — Supposizioni ed esposizioni d’infanti — Legge Giulia: de adulteriis — Le Famosæ — La Lesbia di Catullo — La Cinzia di Properzio — La Delia di Tibullo — La Corinna di Ovidio — Ovidio, Giulia e Postumo Agrippa — La Licori di Cornelio Gallo — Incostanza delle famosæ — Le sciupate di Orazio — La Marcella di Marziale e la moglie — Petronio Arbitro e il Satyricon — Turno — La Prostituzione delle Muse — Giovenale — Il linguaggio per gesti — ComessationesMeretrices e prostibulæProsedæ, alicariæ, blitidæ, bustuariæ, casoritæ, copæ, diobolæ, quadrantariæ, foraneæ, vagæ, summenianæ — Le delicatæ — Singrafo di fedeltà — Le pretiosæ — Ballerine e Ludie — Crescente cinedo e Tyria Percisa in Pompei — Pueri meritorii, spadones, pædicones — Cinedi — Lenoni — Numero de’ lupanari in Roma — Lupanare romano — Meretricium nomen — Filtri amatorii — Stabula, casaurium, lustrum, ganeum — Lupanari pompejani — Il Lupanare Nuovo — I Cuculi — Postriboli minori 165
 
CAPITOLO XXII. La Via delle tombe. — Estremi officii ai morenti — La Morte — Conclamatio — Credenze intorno all’anima ed alla morte — Gli Elisii e il Tartaro — Culto dei morti e sua antichità — Gli Dei Mani — Denunzia di decesso — Tempio della Dea Libitina — Il libitinario — Pollinctores — La toaletta del morto — Il triente in bocca — Il cipresso funerale e suo significato — Le imagini degli Dei velate — Esposizione del cadavere — Il certificato di buona condotta — Convocazione al funerale — Exequiæ, Funus, publicum, indictivum, tacitum, gentilitium — Il mortoro: i siticini, i tubicini, le prefiche, la nenia; Piatrices, Sagæ, Expiatrices, Simpulatrices, i Popi e i Vittimari, le insegne onorifiche, le imagini de’ maggiori, i mimi e l’archimimo, sicinnia, amici e parenti, la lettiga funebre — I clienti, gli schiavi e i familiari — La rheda — L’orazione funebre — Origine di essa — Il rogo — Il Bustum — L’ultimo bacio e l’ultimo vale — Il fuoco alla pira — Munera — L’invocazione ai venti — Legati di banchetti annuali e di beneficenza — Decursio — Le libazioni — I bustuari — Ludi gladiatorii — La ustrina — Il sepolcro comune — L’epicedionOssilegium — L’urna — Suffitio — Il congedo — Monimentum — Vasi lacrimatorj — Fori nelle tombe — Cremazione — I bambini e i colpiti dal fulmine — SubgrundariumSilicerniumVisceratioNovemdialiaDenicales feriæ — Funerali de’ poveri — SandapilaPuticuli — Purificazione della casa — Lutto, publico e privato — Giuramento — Commemorazioni funebri, Feste Parentali, Feralia, Lemuralia, Inferiæ — I sepolcri — Sepulcrum familiareSepulcrum comune — Sepolcro ereditario — Cenotafii — Columellæ o cippi, mensæ, labra, arcæ — Campo Sesterzio in Roma — La formula Tacito nomine — Prescrizioni pe’ sepolcri — Are pei sagrifizj — Leggi mortuarie e intorno alle tombe — Punizioni de’ profanatori di esse — Via delle tombe in Pompei — Tombe di M. Cerrinio e di A. Vejo — Emiciclo di Mammia — Cippi di M. Porcio, Venerio Epafrodito, Istacidia, Istacidio Campano, Melisseo Apro e Istacidio Menoico — Giardino delle colonne in musaico — Tombe delle Ghirlande — Albergo e scuderia — Sepolcro dalle porte di marmo — Sepolcreto della famiglia Istacidia — Misura del piede romano — La tomba di Nevoleja Tiche e di Munazio Fausto — Urna di Munazio Atimeto — Mausoleo dei due Libella — Il decurionato in Pompei — Cenotafio di Cejo e Labeone — Cinque scheletri — Columelle — A Iceio Comune — A Salvio fanciullo — A Velasio Grato — Camera sepolcrale di Cn. Vibrio Saturnino — Sepolcreto della famiglia Arria — Sepolture fuori la porta Nolana — Deduzioni 285
 
CONCLUSIONE 371
 
Appendice Prima. I busti di Bruto e di Pompeo 383
Appendice Seconda. L’Eruzione del Vesuvio del 1872 391
Sonetto a P. A. Curti di P. Cominazzi 419
Indice delle Incisioni sparse nell’opera 421
Indice Generale 422

[422]

INDICE GENERALE DELL’OPERA

VOLUME PRIMO
 
Dedica Pag. V
Intendimenti dell’Opera VII
Introduzione 1
 
CAPITOLO I. — Il Vesuvio. — La carrozzella napoletana — La scommessa d’un inglese — Il valore d’uno schiaffo — Pompei! — Prime impressioni — Il Vesuvio — Temerità giustificata — Topografia del Vesuvio — La storia delle sue principali eruzioni — Ercole nella Campania — Vi fonda Ercolano — Se questa città venisse distrutta contemporaneamente a Pompei — I popoli dell’Italia Centrale al Vesuvio — Combattimento di Spartaco — L’eruzione del 79 — Le posteriori — L’eruzione del 1631 e quella del 1632 — L’eruzione del 1861, e un’iscrizione di V. Fornari — L’eruzione del 1868 — Il Vesuvio ministro di morte e rovina, di vita e ricchezza — Mineralogia — Minuterie — Ascensioni sul Vesuvio — Temerità punita — Pompejorama 13
 
CAPITOLO II. — Storia. Primo periodo. — Divisione della storia — Origini di Pompei — Ercole e i buoi di Gerione — Oschi e Pelasgi — I Sanniti — Occupano la Campania — Dedizione di questa a Roma — I Feciali Romani indicon guerra a’ Sanniti — Vittoria dell’armi romane — Lega de’ Campani coi Latini contro [423] i Romani — L. Annio Setino e T. Manlio Torquato — Disciplina militare — Battaglia al Vesuvio — Le Forche Caudine — Rivincita de’ Romani — Cospirazioni campane contro Roma — I Pompejani battono i soldati della flotta romana — Ultima guerra de’ Sanniti contro i Romani 41
 
CAPITOLO III. — Storia. Periodo secondo. — La legione Campana a Reggio — È vinta e giustiziata a Roma — Guerra sociale — Beneficj di essa — Lucio Silla assedia Stabia e la smantella — Battaglia di Silla e Cluenzio sotto Pompei — Minazio Magio — Cluenzio è sconfitto a Nola — Silla e Mario — Vendette Sillane — Pompei eretto in municipio — Silla manda una colonia a Pompei — Che e quante fossero le colonie romane — Pompei si noma Colonia Veneria Cornelia — Resistenza di Pompei ai Coloni — Seconda guerra servile — Morte di Spartaco — Congiura di Catilina — P. Silla patrono di Pompei accusato a Roma — Difeso da Cicerone e assolto — Ninnio Mulo — I patroni di Pompei — Augusto vi aggiunge il Pagus Augustus Felix — Druso muore in Pompei — Contesa di Pompejani e Nocerini — Nerone e Agrippina — Tremuoto del 63 che distrugge parte di Pompei 61
 
CAPITOLO IV. — Storia. Periodo Secondo.Leggi, Monete, Offici e Costume — Il Municipio — Ordini cittadini — Decurioni, Duumviri, Quinquennale, Edili, Questore — Il flamine Valente — Sollecitazioni elettorali — I cavalieri — Gli Augustali — Condizioni fatte alle Colonie — Il Bisellium — Dogane in Pompei — Pesi e Misure — Monete — La Hausse e la Baisse — Posta — Invenzione della Posta — I portalettere romani — Lingua parlata in Pompei — Lingua scritta — Papiri — Modo di scrivere — Codicilli e Pugillares — Lusso in Pompei — Il leone di Marco Aurelio — Schiavi — Schiavi agricoltori — Vini pompejani — Camangiari rinvenuti negli scavi — Il garo o caviale liquido pompejano — Malati mandati a Pompei 91
 
CAPITOLO V. — Storia. Periodo secondo. — Il Cataclisma — T. Svedio Clemente compone le differenze [424] tra Pompejani e Coloni — Pompei si rinnova — Affissi pubblici — La flotta romana e Plinio il Vecchio ammiraglio — Sua vita — La Storia Naturale e altre sue opere — Il novissimo giorno — Morte di Plinio il Vecchio — Prima lettera di Plinio il Giovane a Tacito — Diversa pretesa morte di Plinio il Vecchio — Seconda lettera di Plinio il Giovane a Tacito — Provvedimenti inutili di Tito Vespasiano Pag. 127
 
CAPITOLO VI. — Gli Scavi e la Topografia. — I Guardiani — Un inconveniente a riparare — Ladri antichi — Vi fu una seconda Pompei? — Scoperta della città — Rinvenimento d’Ercolano — Preziosità ercolanesi — Possibilità d’un’intera rivendicazione alla luce di Ercolano — Scavi regolari in Pompei — Disordini e provvedimenti — Scuola d’antichità in Pompei — C. A. Vecchi — Topografia di Pompei — Le Saline e le Cave di pomici — Il Sarno 161
 
CAPITOLO VII. — Le Mura — Le Porte — Le Vie. — Le Mura, loro misura e costruzione — Fortificazioni — Torri — Terrapieno e Casematte — Le porte — Le Regioni e le Isole — Le Vie — I Marciapiedi — Il lastrico e la manutenzione delle vie — La via Consolare e le vie principali — Vie minori — Fontane pubbliche — Tabernacoli sulle vie — Amuleti contro la jettatura — Iscrizioni scritte o graffite sulle muraglie — Provvedimenti edili contro le immondezze — Botteghe — Archi — Carrozze — Cura delle vie 181
 
CAPITOLO VIII. — I Templi. — Fede e superstizione — Architettura generale de’ templi — Collocazione degli altari — Are ed altari — Della scelta dei luoghi — Tempio di Venere — Le due Veneri — Culto a Venere Fisica — Processione — Descrizione del tempio di Venere in Pompei — Oggetti d’arte e iscrizioni in esso — Jus luminum obstruendorum — Tempio di Giove — I sacri principj — Tempio d’Iside — Culto d’Iside — Bandito da Roma, rimesso dopo in maggior onore — Tibullo e Properzio — Notti isiache — Origini — Leggenda egizia — Chiave della leggenda — Gerarchia Sacerdotale — Riti — Descrizione del tempio [425] d’Iside in Pompei — Oggetti rinvenuti — Curia Isiaca — Voltaire e gli Zingari — Tempio d’Esculapio — Controversie — Cenni mitologici — Il Calendario Ovidiano concilia le differenze — Descrizione — Tempio di Mercurio — Controversie — Opinioni sulla sua destinazione — Ragioni perchè abbiasi a ritenere di Mercurio — Descrizione del tempio — Tempio della Fortuna — Venerata questa dea in Roma e in Grecia — Descrizione del suo tempio — Antistites, Sacerdotes, Ministri — Tempio d’Augusto — Sodales Augustales — Descrizione e Pittura, Monete — Tempio di Ercole o di Nettuno — Detto anche tempio greco — Descrizione — Bidental e Puteal — Tempio di Cerere — Presunzioni di sua esistenza — Favole — I Misteri della Dea Bona e P. Clodio — Il Calcidico era il tempio di Cerere? — Priapo — Lari e Penati — Cristianesimo — Ebrei e Cristiani 219
 
CAPITOLO IX. — I Fori. — Cosa fossero i Fori — Agora Greco — Fori di Roma — Civili e venali — Foro Romano — Comizj — Centuriati e tributi — Procedimento in essi per le elezioni de’ magistrati, per le leggi, per i giudizii — Foro Civile Pompejano — Foro Nundinario o Triangolare — Le NundineHecatonstylon — Orologio solare 305
 
CAPITOLO X. — La Basilica. — Origine della denominazione di Basilica — Sua destinazione in Roma — Poeti e cantanti — Distribuzione della giornata — Interno ed esterno delle Basiliche — Perchè conservatone il nome alle chiese cristiane — Basiliche principali cristiane — Basilica di Pompei — Amministrazione della giustizia, procedura civile e penale — Magistrati speciali per le persone di vil condizione — Episodio giudiziario di Ovidio — Giurisprudenza criminale — Pene — Del supplizio della croce — La pena dell’adulterio — Avvocati Causidici 323
 
CAPITOLO XI. — Le Curie, il Calcidico, le Prigioni. — Origine ed uso delle Curie — Curie di Pompei — Curia o Sala del Senato — Il Calcidico — Congetture di sua destinazione — Forse tempio — Passaggio [426] per gli avvocati — Di un passo dell’Odissea d’Omero — Eumachia sacerdotessa fabbrica il Calcidico in Pompei — Descrizione — Cripta e statua della fondatrice — Le prigioni di Pompei — Sistema carcerario romano — Le Carceri Mamertine — Ergastuli per gli schiavi — Carnifex e Carneficina — Ipotiposi 365
 
VOLUME SECONDO
 
CAPITOLO XII. — I Teatri — Teatro Comico. — Passione degli antichi pel teatro — Cause — Istrioni — Teatro Comico od Odeum di Pompei — Descrizione — Cavea, præcinctiones, scalae, vomitoria — Posti assegnati alle varie classi — Orchestra — Podii o tribune — Scena, proscenio, pulpitum — Il sipario — Chi tirasse il sipario — Postscenium — Capacità dell’Odeum pompeiano — Echea o vasi sonori — Tessere d’ingresso al teatro — Origine del nome piccionaja al luogo destinato alla plebe — Se gli spettacoli fossero sempre gratuiti — Origine de’ teatri, teatri di legno, teatri di pietra — Il teatro Comico latino — Origini — Sature e Atellane — Arlecchino e Pulcinella — Rintone, Andronico ed Ennio — Plauto e Terenzio — Giudizio contemporaneo dei poeti comici — Diversi generi di commedia: togatae, palliatae, trabeatae, tunicatae, tabernariae — Le commedie di Plauto e di Terenzio materiali di storia — Se in Pompei si recitassero commedie greche — Mimi e Mimiambi — Le maschere, origine e scopo — Introduzione in Roma — Pregiudizi contro le persone da teatro — Leggi teatrali repressive — Dimostrazioni politiche in teatro — Talia musa della Commedia 5
 
CAPITOLO XIII. — I Teatri — Teatro tragico. — Origini del teatro tragico — Tespi ed Eraclide Pontico — Etimologia di tragedia e ragioni del nome — Caratteri — Epigene, Eschilo e Cherillo — Della maschera tragica — L’attor tragico Polo — Venticinque specie di maschere — Maschere trovate in Pompei — Palla [427] o Syrma — Coturno — Istrioni — Accompagnamento musicale — Le tibie e i tibicini — Melpomene, musa della Tragedia — Il teatro tragico in Pompei — L’architetto Martorio Primo — Invenzione del velario — Biasimata in Roma — Ricchissimi velarii di Cesare e di Nerone — Sparsiones o pioggie artificiali in teatro — Adacquamento delle vie — Le lacernæ, o mantelli da teatro — Descrizione del Teatro Tragico — Gli Oleonj — ThimeleAulaeum — La Porta regia e le porte hospitalia della scena — Tragici latini: Andronico, Pacuvio, Accio, Nevio, Cassio Severo, Varo, Turanno Graccula, Asinio Pollione — Ovidio tragico — Verio, Lucio Anneo Seneca, Mecenate — Perchè Roma non abbia avuto tragedie — Tragedie greche in Pompei — Tessera teatrale — Attori e Attrici — Batillo, Pilade, Esopo e Roseio — Dionisia — Stipendj esorbitanti — Un manicaretto di perle — Applausi e fischi — La claque, la clique e la Consorteria — Il suggeritore — Se l’Odeo di Pompei fosse attinenza del Gran Teatro 53
 
CAPITOLO XIV. — I Teatri — L’Anfiteatro. — Introduzione in Italia dei giuochi circensi — Giuochi trojani — Panem et circenses — Un circo romano — Origine romana degli Anfiteatri — Cajo Curione fabbrica il primo in legno — Altro di Giulio Cesare — Statilio Tauro erige il primo di pietra — Il Colosseo — Data dell’Anfiteatro pompejano — Architettura sua — I Pansa — Criptoportico — Arena — Eco — Le iscrizioni del Podio — Prima Cavea — I locarii — Seconda Cavea — Somma Cavea — Cattedre femminili — I Velarii — Porta Libitinense — Lo Spoliario — I cataboli — Il triclinio e il banchetto libero — Corse di cocchi e di cavalli — Giuochi olimpici in Grecia — Quando introdotti in Roma — Le fazioni degli Auriganti — Giuochi gladiatorj — Ludo Gladiatorio in Pompei — Ludi gladiatorj in Roma — Origine dei Gladiatori — Impiegati nei funerali — Estesi a divertimento — I Gladiatori al Lago Fucino — Gladiatori forzati — Gladiatori volontarj — Giuramento de’ gladiatori [428] auctoratiLorarii — Classi gladiatorie: secutores, retiarii, myrmillones, thraces, samnites, hoplomachi, essedarii, andabati, dimachæri, laquearii, supposititii, pegmares, meridiani — Gladiatori Cavalieri e Senatori, nani e pigmei, donne e matrone — Il Gladiatore di Ravenna di Halm — Il colpo e il diritto di grazia — Deludia — Il Gladiatore morente di Ctesilao e Byron — Lo Spoliario e la Porta Libitinense — Premj ai Gladiatori — Le ambubaje — Le Ludie — I giuochi Floreali e Catone — Naumachie — Le Venationes o caccie — Di quante sorta fossero — Caccia data da Pompeo — Caccie di leoni ed elefanti — Proteste degli elefanti contro la mancata fede — Caccia data da Giulio Cesare — Un elefante funambolo — L’Aquila e il fanciullo — I Bestiarii e le donne bestiariæ — La legge Petronia — Il supplizio di Laureolo — Prostituzione negli anfiteatri — Meretrici appaltatrici di spettacoli — Il Cristianesimo abolisce i ludi gladiatorj — Telemaco monaco — Missilia e Sparsiones 103
 
CAPITOLO XV. — Le Terme. — Etimologia — Thermae, Balineae, Balineum, Lavatrina — Uso antico de’ Bagni — Ragioni — Abuso — Bagni pensili — Balineae più famose — Ricchezze profuse ne’ bagni publici — Estensione delle terme — Edificj contenuti in esse — Terme estive e jemali — Aperte anche di notte — Terme principali — Opere d’arte rinvenute in esse — Terme di Caracalla — Ninfei — Serbatoi e Acquedotti — Agrippa edile — Inservienti alle acque — Publici e privati — Terme in Pompei — Terme di M. Crasso Frugio — Terme publiche e private — Bagni rustici — Terme Stabiane — Palestra e Ginnasio — Ginnasio in Pompei — Bagno degli uomini — Destrictarium — L’imperatore Adriano nel bagno de’ poveri — Bagni delle donne — Balineum di M. Arrio Diomede — Fontane publiche e private — Provenienza delle acque — Il Sarno e altre acque — Distribuzione per la città — Acquedotti 183
 
CAPITOLO XVI. — Le Scuole. — Etimologia — Scuola di Verna in Pompei — Scuola di Valentino — Orbilio e la [429] ferula — Storia de’ primordj della coltura in Italia — Numa e Pitagora — Etruria, Magna Grecia e Grecia — Ennio e Andronico — Gioventù romana in Grecia — Orazio e Bruto — Secolo d’oro — Letteratura — Giurisprudenza — Matematiche — Storia naturale — Economia rurale — Geografia — Filosofia romana — Non è vero che fosse ucciditrice di libertà — Biblioteche — Cesare incarica Varrone di una biblioteca publica — Modo di scrivere, volumi, profumazione delle carte — Medicina empirica — Medici e chirurghi — La Casa del Chirurgo in Pompei — Stromenti di chirurgia rinvenuti in essa — Prodotti chimici — Pharmacopolae, Seplasarii, Sagae — Fabbrica di prodotti chimici in Pompei — Bottega di Seplasarius — Scuole private 231
 
CAPITOLO XVII. — Le Tabernæ. — Istinti dei Romani — Soldati per forza — Agricoltori — Poca importanza del commercio coll’estero — Commercio marittimo di Pompei — Commercio marittimo di Roma — Ignoranza della nautica — Commercio d’importazione — Modo di bilancio — Ragioni di decadimento della grandezza romana — Industria — Da chi esercitata — Mensarii ed Argentarii — Usura — Artigiani distinti in categorie — Commercio al minuto — Commercio delle botteghe — Commercio della strada — Fori nundinari o venali — Il Portorium o tassa delle derrate portate al mercato — Le tabernae e loro costruzione — Institores — Mostre o insegne — Popinae, thermopolia, cauponae, anopolia — Mercanti ambulanti — Cerretani — Grande e piccolo Commercio in Pompei — Foro nundinario di Pompei — Tabernae — Le insegne delle botteghe — Alberghi di Albino, di Giulio Polibio e Agato Vajo, dell’Elefante o di Sittio e della Via delle Tombe — ThermopoliaPistrini, Pistores, Siliginari — Plauto, Terenzio, Cleante e Pittaco Re, mugnai — Le mole di Pompei — Pistrini diversi — Paquio Proculo, fornajo, duumviro di giustizia — Ritratto di lui e di sua moglie — Venditorio d’olio — Ganeum — Lattivendolo — Fruttajuolo — Macellai — Myropolium, profumi e profumieri — Tonstrina, o barbieria — Sarti — Magazzeno [430] di tele e di stofe — Lavanderie — La Ninfa Eco — Il Conciapelli — Calzoleria e Selleria — Tintori — Arte Fullonica — Fulloniche di Pompei — Fabbriche di Sapone — Orefici — Fabbri e falegnami — Praefectus fabrorum — Vasaj e vetrai — Vasi vinarj — Salve Lucru 271
 
CAPITOLO XVIII. — Belle Arti. — Opere sulle Arti in Pompei — Contraffazioni — Aneddoto — Primordj delle Arti in Italia — Architettura etrusca — Architetti romani — Scrittori — Templi — Architettura pompeiana — Angustia delle case — Monumenti grandiosi in Roma — Archi — Magnificenza nelle architetture private — Prezzo delle case di Cicerone e di Clodio — Discipline edilizie — Pittura — Pittura architettonica — Taberna o venditorio di colori in Pompei — Discredito delle arti in Roma — Pittura parietaria — A fresco — All’acquarello — All’encausto — Encaustica — Dipinti su tavole, su tela e sul marmo — Pittori romani — Arellio — Accio Prisco — Figure isolate — Ritratti — Pittura di genere: Origine — Dipinti bottegai — Pittura di fiori — Scultura — Prima e seconda maniera di statuaria in Etruria — Maniera greca — Prima scultura romana — Esposizione d’oggetti d’arte — Colonne — Statue, tripedaneae, sigillae — Immagine de’ maggiori — Artisti greci in Roma — Cajo Verre — Sue rapine — La Glìttica — La scultura al tempo dell’Impero — In Ercolano e Pompei — Opere principali — I Busti — Gemme pompejane — Del Musaico — Sua origine e progresso — Pavimentum barbaricum, tesselatum, vermiculatumOpus signinumMusivum opusAsarola — Introduzione del mosaico in Roma — Principali musaici pompejani — I Musaici della Casa del Fauno — Il Leone — La Battaglia di Isso — Ragioni perchè si dichiari così il soggetto — A chi appartenga la composizione — Studj di scultura in Pompei 345
 
[431]
VOLUME TERZO
 
CAPITOLO XIX. — Quartiere de’ soldati, e Ludo gladiatorio?Pagus Augustus Felix — Ordinamenti militari di Roma — Inclinazioni agricole — Qualità militari — Valore personale — Formazione della milizia — La leva — Refrattarj — Cause d’esenzione — Leva tumultuaria — Cavalleria — Giuramento — Gli evocati e i conquisitori — Fanteria: Veliti, Astati, Principi, Triarii — Centurie, manipoli, coorti, legioni — Denominazione delle legioni — Ordini della cavalleria: torme, decurie. — Duci: propri e comuni — Centurioni — Uragi, Succenturiones, Accensi, Tergoductores, Decani — Signiferi — Primopilo — Tribuni — Decurioni nella cavalleria — Prefetti dei Confederati — Legati — Imperatore — Armi — Raccolta d’armi antiche nel Museo Nazionale di Napoli — Catalogo del comm. Fiorelli — Cenno storico — Armi trovate negli scavi d’Ercolano e Pompei — Armi dei Veliti, degli Astati, dei Principi, dei Triarii, della cavalleria — Maestri delle armi — Esercizj: passo, palaria, lotta, nuoto, salto, marce — Fardelli e loro peso — Bucellatum — Cavalleria numidica — Accampamenti — Castra stativa — Forma del campo — Principia — Banderuole — Insegne — Aquilifer — Insegna del Manipolo — Bandiera delle Centurie — Vessillo della Cavalleria — Guardie del campo — Excubiæ e Vigiliæ — Tessera di consegna — Sentinelle — Procubitores — Istrumenti militari: buccina, tuba, lituus, cornu, timpanumTibicen, liticen, timpanotriba — Stipendj militari — I Feciali, gli Auguri, gli Aruspici e i pullarii — Sacrifici e preghiere — Dello schierarsi in battaglia — Sistema di fortificazioni — Macchine guerresche: Poliorcetiæ: terrapieno, torre mobile, testuggine, ariete, balista, tollenone, altalena, elepoli, terebra, galleria, vigna — Arringhe — La vittoria, Inni e sacrificj — Premj: asta pura, monili, braccialetti, catene — Corone: civica, morale, castrense o vallare, navale o [432] rostrale, ossidionale, trionfale, ovale — Altre distinzioni — Spoglia opima — Preda bellica — Il trionfo — Veste palmata — Trionfo della veste palmata — In Campidoglio — Banchetto pubblico — Trionfo navale — Ovazione — Onori del trionfatore — Pene militari: decimazione, vigesimazione, e centesimazione, fustinarium, taglio della mano, crocifissione, fustigazione leggiera, multa, censio hastaria — Pene minori — Congedo 5
 
CAPITOLO XX. — Le Case. Differenza tra le case pompejane e romane — Regioni ed Isole — Cosa fosse il vestibulum e perchè mancasse alle case pompejane — Piani — Solarium — Finestre — Distribuzione delle parti della casa — Casa di Pansa — Facciata — La bottega del dispensatorPostes, aulæ, antepagamentaJanua — Il portinajo — ProthyrumCavædiumCompluvium ed impluviumPuteal — Ara dei Lari — I Penati — Cellæ, o contuberniaTablinum, cubicula, fauces, perystilium, procœton, exedra, œcus, tricliniumOfficia antelucanaTrichila — Lusso de’ triclinii — Cucina — Utensili di cucina — Inservienti di cucina — Camino: v’erano camini allora? — Latrina — Lo xisto — Il crittoportico — Lo sphæristerium, la pinacoteca — Il balineum — L’Alæatorium — La cella vinaria — Piani superiori e recentissima scoperta — Cœnacula — La Casa a tre piani — I balconi e la Casa del Balcone pensile — Case principali in Pompei — Casa di villeggiatura di M. Arrio Diomede — La famiglia — Principio costitutivo di essa — La nascita del figlio — Cerimonie — La nascita della figlia — Potestas, manus, mancipiumMinima, media, maxima diminutio capitis — Matrimonii: per confarreazione, uso, coempzione — Trinoctium usurpatio — Diritti della potestas, della manus, del mancipiumAgnati, consanguineiCognatioMatrimonium, connubiumSponsali — Età del matrimonio — Il matrimonio e la sua importanza — Bigamia — Impedimenti — Concubinato — Divorzio — Separazione — DiffarreatioRepudium — La dote — Donatio propter nuptias — Nozioni sulla patria podestà — Jus trium [433] liberorum — Adozione — Tutela — Curatela — Gli schiavi — Cerimonia religiosa nel loro ingresso in famiglia — Contubernium — Miglioramento della condizione servile — Come si divenisse schiavo — Mercato di schiavi — Diverse classi di schiavi — Trattamento di essi — Numero — Come si cessasse di essere schiavi — I clienti — Pasti e banchetti romani — Invocazioni al focolare — Ghiottornie — Leggi alla gola — Lucullo e le sue cene — Cene degli imperatori — Jentaculum, prandium, merenda, cœna, commissatio — Conviti publici — Cene sacerdotali — Cene de’ magistrati — Cene de’ trionfanti — Cene degli imperatori — Banchetti di cerimonia — Triumviri æpulonesDapes — Triclinio — Le mense — Suppellettili — Fercula — Pioggie odorose — Abito e toletta da tavola — Tovaglie e tovaglioli — Il re del banchetto — Tricliniarca — Coena recta — Primo servito — Secunda mensa — Pasticcerie e confetture — Le posate — Arte culinaria — Apicio — Manicaretto di perle — Vini — Novellio Torquato milanese — Servi della tavola: Coquus, lectisterniator, nomenclator, prægustator, structor, scissor, carptor, pincerna, pocillator — Musica alle mense — Ballerine — Gladiatori — Gli avanzi della cena — Le lanterne di Cartagine — La partenza de’ convitati — La toletta d’una pompejana — Le cubiculares, le cosmetæ, le calamistræ, ciniflones, cinerarii, la psecae — I denti — La capigliatura — Lo specchio — Punizioni della toaletta — Le ugne — I profumi — Mundus muliebris — I salutigeruli — Le VeneræSandaligerulæ, vestisplicæ, ornatrices — Abiti e abbigliamenti — Vestiario degli uomini — Abito de’ fanciulli — La bulla — Vestito degli schiavi — I lavori del gineceo 57
 
CAPITOLO XXI. — I Lupanari. — Gli ozj di Capua — La prostituzione — Riassunto storico della prostituzione antica — Prostituzione ospitale, sacra e legale — La Bibbia ed Erodoto — Gli Angeli e le figlie degli uomini — Le figlie di Loth — Sodoma e Gomorra — Thamar — Legge di Mosè — Zambri, Asa, Sansone, Abramo, Giacobbe, Gedeone — Raab — Il Levita di [434] Efraim — David, Betsabea, la moglie di Nabal e la Sunamite — Salomone e le sue concubine — Prostituzione in Israele — Osea profeta — I Babilonesi e la dea Militta — Venere e Adone — Astarte — Le orgie di Mitra — Prostituzione sacra in Egitto — Ramsete e Ceope — Cortigiane più antiche — Rodope, Cleina, Stratonice, Irene, Agatoclea — Prostituzione greca — Dicterion — Ditteriadi, auletridi, eterìe — Eterìe celebri — Aspasia — Saffo e l’amor lesbio — La prostituzione in Italia — La lupa di Romolo e Remo — Le feste lupercali — Baccanali e Baccanti — La cortigiana Flora e i giuochi florali — Culto di Venere in Roma — Feste a Venere Mirtea — Il Pervigilium Veneris — Traduzione — Altre cerimonie nelle feste di Venere — I misteri di Iside — Feste Priapee — Canzoni priapee — Emblemi itifallici — Abbondanti in Ercolano e Pompei — Raccolta Pornografica nel Museo di Napoli — Sue vicende — Oggetti pornografici d’Ercolano e Pompei — I misteri della Dea Bona — Degenerazione de’ misteri della Dea Bona — Culto di Cupido, Mutino, Pertunda, Perfica, Prema, Volupia, Lubenzia, Tolano e Ticone — Prostituzione legale — Meretrici forestiere — Cortigiane patrizie — Licentia stupri — Prostitute imperiali — Adulterii — Bastardi — Infanticidi — Supposizioni ed esposizioni d’infanti — Legge Giulia: de adulteriis — Le Famosæ — La Lesbia di Catullo — La Cinzia di Properzio — La Delia di Tibullo — La Corinna di Ovidio — Ovidio, Giulia e Postumo Agrippa — La Licori di Cornelio Gallo — Incostanza delle famosæ — Le sciupate di Orazio — La Marcella di Marziale e la moglie — Petronio Arbitro e il Satyricon — Turno — La Prostituzione delle Muse — Giovenale — Il linguaggio per gesti — ComessationesMeretrices e prostibulæProsedæ, alicariæ, blitidæ, bustuariæ, casoritæ, copæ, diobolæ, quadrantariæ, foraneæ, vagæ, summenianæ — Le delicatæ — Singrafo di fedeltà — Le pretiosæ — Ballerine e Ludie — Crescente cinedo e Tyria Percisa in Pompei — Pueri meritorii, spadones, pædicones — Cinedi — Lenoni — Numero de’ lupanari in Roma — Lupanare [435] romano — Meretricium nomen — Filtri amatorii — Stabula, casaurium, lustrum, ganeum — Lupanari pompejani — Il Lupanare Nuovo — I Cuculi — Postriboli minori 165
 
CAPITOLO XXII. La Via delle tombe. — Estremi officii ai morenti — La Morte — Conclamatio — Credenze intorno all’anima ed alla morte — Gli Elisii e il Tartaro — Culto dei morti e sua antichità — Gli Dei Mani — Denunzia di decesso — Tempio della Dea Libitina — Il libitinario — Pollinctores — La toaletta del morto — Il triente in bocca — Il cipresso funerale e suo significato — Le imagini degli Dei velate — Esposizione del cadavere — Il certificato di buona condotta — Convocazione al funerale — Exequiæ, Funus, publicum, indictivum, tacitum, gentilitium — Il mortoro: i siticini, i tubicini, le prefiche, la nenia; Piatrices, Sagæ, Expiatrices, Simpulatrices, i Popi e i Vittimari, le insegne onorifiche, le imagini de’ maggiori, i mimi e l’archimimo, sicinnia, amici e parenti, la lettiga funebre — I clienti, gli schiavi e i familiari — La rheda — L’orazione funebre — Origine di essa — Il rogo — Il Bustum — L’ultimo bacio e l’ultimo vale — Il fuoco alla pira — Munera — L’invocazione ai venti — Legati di banchetti annuali e di beneficenza — Decursio — Le libazioni — I bustuari — Ludi gladiatorii — La ustrina — Il sepolcro comune — L’epicedionOssilegium — L’urna — Suffitio — Il congedo — Monimentum — Vasi lacrimatorj — Fori nelle tombe — Cremazione — I bambini e i colpiti dal fulmine — SubgrundariumSilicerniumVisceratioNovemdialiaDenicales feriæ — Funerali de’ poveri — SandapilaPuticuli — Purificazione della casa — Lutto, publico e privato — Giuramento — Commemorazioni funebri, Feste Parentali, Feralia, Lemuralia, Inferiæ — I sepolcri — Sepulcrum familiareSepulcrum comune — Sepolcro ereditario — Cenotafii — Columellæ o cippi, mensæ, labra, arcæ — Campo Sesterzio in Roma — La formula Tacito nomine — Prescrizioni pe’ sepolcri — Are pei sagrifizj — Leggi mortuarie e intorno alle [436] tombe — Punizioni de’ profanatori di esse — Via delle tombe in Pompei — Tombe di M. Cerrinio e di A. Vejo — Emiciclo di Mammia — Cippi di M. Porcio, Venerio Epafrodito, Istacidia, Istacidio Campano, Melisseo Apro e Istacidio Menoico — Giardino delle colonne in musaico — Tombe delle Ghirlande — Albergo e scuderia — Sepolcro dalle porte di marmo — Sepolcreto della famiglia Istacidia — Misura del piede romano — La tomba di Nevoleja Tiche e di Munazio Fausto — Urna di Munazio Atimeto — Mausoleo dei due Libella — Il decurionato in Pompei — Cenotafio di Cejo e Labeone — Cinque scheletri — Columelle — A Iceio Comune — A Salvio fanciullo — A Velasio Grato — Camera sepolcrale di Cn. Vibrio Saturnino — Sepolcreto della famiglia Arria — Sepolture fuori la porta Nolana — Deduzioni 285
 
CONCLUSIONE 371
 
Appendice Prima. I busti di Bruto e di Pompeo 383
Appendice Seconda. L’Eruzione del Vesuvio del 1872 391
Sonetto a P. A. Curti di P. Cominazzi 419
Indice delle Incisioni sparse nell’opera 421
Indice Generale 423

FINE DELL’INDICE.


NOTE:

1.  Saturn. I, 1.

2.  Pompeja. Pag. 136.

3.  Pag. 9.

4.  Sat. 6:

O villa, e quando io rivedrotti?

Trad. Gargallo.

5.  Lib. 3. 22:

Terra nata dell’armi all’alta gloria

Non al crudo terror.

Trad. Vismara.

6.  Ann. 2-14. «Quelle targhe e pertiche sconce de’ barbari fra le macchie e gli alberi non valere, come i lanciotti e le spade e l’assettata armatura. Tirassero di punta spesso al viso.» Tr. di Bernardo Davanzati.

7.  Lib. IX, 5.

8.  Tit. Liv., lib. XXXV, 2 e 23.

9.  Rosini, Antiquit. Roman. Lib. X, cap. 4.

10.  Lib. VII, cap. 4.

11.  Plin. Nat. Hist., lib. X, 5.

12.  Sc. II. 16. — «Osserva dapprima qual regime abbiano gli eserciti nostri, quindi qual fatica e quanta cibaria portino in campo per mezzo mese ed attrezzi d’uso; perocchè il portar il palo, lo scudo, il gladio, e l’elmo i nostri soldati non contino nel peso, più che gli omeri, le mani e le altre membra, afferman essi le armi essere le membra del soldato, le quali così agevolmente portano, che dove ne fosse il bisogno, gittato il restante peso, potrebbero coll’armi, come colle membra proprie combattere.»

13.  Ep. 57.

14.  Nelle nostre provincie, massime nella Bresciana, esiste un pane dolciato che si chiama bussolà, dal bucellatum romano, ma il bucellatum, come esprime il nome, era nel mezzo bucato, onde portarlo all’uopo sospeso o infilzato, viaggiando, sull’asta.

15.  

Ed aste scisse in quattro parti, e pali

Acuminati.

Georgica II, v. 25.

16.  Hist. Rom. Lib. XXVII.

17.  

Movendo aquile, insegne, aste latine

Contro latine insegne, aquile ed aste.

Lib. I. v. 7. Trad. del conte Franc. Cassi.

18.  

Eran di fieno: ma quel fieno istesso

Da ciascun riscotea tanto rispetto,

Quanto l’aquila tua ne esige adesso.

Si stava in cima a lungo palo eretto

Un manipol di fieno, onde di fanti

Certo drappel manipolar fu detto.

Trad. di G. B. Bianchi.

19.  Tacito, Ann. XV. 29.

20.  Svetonio, In Vespasianum, 6.

21.  Lib. I. 43.

22.  De Bello Jugurt. LXV.

23.  

«La tessera dà il segno

Ove di guardia scritte son le veci.»

Lib. X.

24.  Just. Lips. De Milit. Rom. v. 9.

25.  Lib. IV. II. 79:

Or del tardo pastore entro le mura

La buccina risuona.

26.  Lib. XI. 475:

E già la roca

Tromba ne va per la città squillando

De la battaglia il sanguinoso accento.

Tr. Annibal Caro.

27.  

Non la tuba diretta e non il corno

Di ricurvo metal.

28.  v. 734:

Con il corno ricurvo

Il richiamo squillò e il lituo adunco

Colla stridula voce i suoni emise.

29.  Thebaid. 2. 78;

S’udian per tutto rimbombare i vuoti

Bossi e di bronzo i timpani sonanti.

Trad. di Selvaggio Porpora,

pseud. del Cardinal Guido Bentivoglio.

30.  Dion. d’Alicarn. II, 73.

31.  Servio, X, 14.

32.  Vol. I, cap. III.

33.  Trad. di Felice Bellotti.

34.  Così Cicerone nel Lib 2, Divin, 34: Attulit in cavæ pullos, is qui ex eo nominatur pullarius.[35]

35.   «Portò nel sotterraneo i polli, quegli che per tale officio dicesi appunto pullario.»

36.  Varie iscrizioni lo attestano. Grutero riferisce sotto il n. 557, 6, la seguente. M. Pompejo, M. F. Ani. Aspro, 7 Leg. XV Apollinaris Alimetus Lib. pullarius fecit. E Muratori sotto il n. 788, 4, la seguente: L. Avillius L. F. Asperinus pullarius Leg. VI Claudiæ.

37.  «Non aver egli abbastanza atteso, per avviso de’ pullarii, agli auspicii.»

38.  

Lega le curve mura una corona

Fortificata.

39.  Lib. III, 7. «Con duplice corona di fanti circondano la città e pongono una terza fila di cavalleria esternamente.»

40.  De Architect. lib. X, c. 15.

41.  Lib. 20. «In questa persuasione il soldato percuoteva con l’asta lo scudo, facendo grande strepito, quasi un sol uomo approvava i detti ed i fatti.»

42.  In Grecia questo inno sacro del trionfo appellavasi θρίαμβος. Diodoro Sic. IV, 5.

43.  Virgil. Æneid. 6. 670.

44.  De laudib. Stilic. III. Così traduco:

Degli antichi nel campo era costume

Cinger di quercia glorïosa il fronte

Del valoroso che fugato avesse

Il suo nemico e un cittadin caduto

Sottratto avesse a inevitabil morte.

45.  Silius Italicus, Lib. XIII:

Abbi l’onore, o vincitor, cingendo

Le tempia tue della mural turrita

Corona.

46.  Elegia, Lib. I, 153:

A te, Messala, e sovra il mare e in terra

Pugnar s’addice, onde le spoglie mostri

La casa tua dei debellati in guerra.

47.  Plutarco in Marcello.

48.  Trist. IV. 11, 20:

Leggerà dunque ne’ trionfi il popolo

I vinti capitan, le città prese.

Tr. di P. Mistrorigo.

49.  Idem, ibid.:

Vedrà carchi di ferri i re precedere

A’ destrier coronati e baldanzosi.

50.  Tibullo, Lib. 1. Eleg. 8:

. . . . lo porterà l’eburneo cocchio

E gli aggiogati candidi cavalli.

51.  

E mentre tu, vivi! Trionfa! esclami;

Tutti ripeterem: Trionfa! Vivi!

E arderemo odorosi timiami

A fausti Divi.

Lib. IV. 2, Trad. Gargallo.

52.  «A te, o Giove Ottimo Massimo, e a te Giunone regina, e a voi dii tutti custodi e abitatori di questa rocca, volonteroso e lieto io rendo grazie, e supplichevole, prego perchè, salva meco in questo giorno per le mie mani la Romana Repubblica e ben sostenuta, abbiate a conservarla eguale, siccome fate, a favorirla e proteggerla benigni.» Rosini. Antiqu. Rom. Lib. X. Cap. XXIX.

53.  Cicero. In Verrem.

54.  Lib. 2. c. 8.

55.  «Sancirono i nostri maggiori pertanto che dove un reato militare si fosse da molti commesso, si dovesse castigare a sorte in alcuni, acciò il timore a tutti, la pena a pochi toccasse.» Orat. pro Cluentio.

56.  «Il tribuno prendendo la bacchetta, lievemente toccava il condannato. Allora quanti trovavansi nel campo, chi con bastoni, chi con sassi lo uccidevano.»

57.  Vitruv. VI, 7, 5. A. Gell. XVI, 5.

58.  

Il vestibolo ancora è per mia idea

Detto da Vesta: invochiam lei venuti

Quivi, che i primi tien luoghi tal Dea.

Fastorum, Lib. VI. Trad. G. B. Bianchi.

59.  «Parato prega sia fatto Pansa edile.» Altri invece tradussero: Parato invoca Pansa edile. Colla prima versione ch’io pongo potrebbe rovesciarsi la supposizione generalmente fatta colla seconda, che, cioè, la casa appartenesse a Pansa, e farla ritenere invece, come vorrebbe Marc Monnier, di Parato, perchè non sarebbe credibile allora che Parato siasi recato a esprimere il proprio voto precisamente sull’uscio di Pansa: questi almeno per pudore non lo avrebbe permesso. Ma l’opinione di Monnier sarebbe tolta, se fosse vero ciò che qualche archeologo sostenne che Paratus fosse sinonimo di institor o dispensator, dello schiavo, cioè, incaricato della vendita delle derrate del padrone. Non saprei in tal caso con quale autorità di scrittura antica avvalorare quest’ultima pretesa.

60.  «Fabio Euporio capo de’ liberti, invoca l’edile Cuspio Pansa.» Pomp. Antiq. Hist. 1. 109.

61.  

Già mi fan da padroni i miei vicini,

E quanto in casa mia si fa, per entro

Dell’impluvio mi guardano.

Att. II. ist. 2.

62.  

E questa Dea, che chiamiam Vesta, credi

Esser null’altro che la fiamma viva.

Fast. Lib. VI, 291. Tr. G. B. Bianchi.

63.  

Non han Vesta, nè il foco effigie alcuna.

Id. Ibid. v. 298.

64.  

«Ha più vigore il rinnovato foco.»

v. 143.

65.  

O, disse, infelicissimo consorte,

Qual dira mente, o qual follia ti spinge

A vestir di quest’armi? Ove t’avventi

Misero? Tal soccorso e tal difesa

Non è d’uopo a tal tempo: non s’appresso

Ti fosse anche Ettor mio. Con noi piuttosto

Rimanti qui. Che questo santo altare

Salverà tutti: o morrem tutti insieme.

Lib. II, 523-528. Tr. Caro.

66.  In Æneid. Lib. III, 134. Vedi Æneid. IX, 259 e V. 744.

67.  «Ciascuno faccia i sagrificj secondo il proprio rito.» — De Lingua Latina, VII, 88.

68.  

... Non più ci vuol di tanto

A far che Trebio e rompa il sonno, e corra

Con le corregge penzolon, temendo

Che al baglior delle stelle, o sin da l’ora

Che dal pigro Boote il freddo plaustro

Ricircolando volgasi, l’intera

Salutatrice turba abbia già tutto

Del salve mattutin l’orbe compiuto.

Sat. V. 19-23. Tr. Gargallo.

69.  Lib. VII, 23.

70.  «Acciò un luogo più recondito non desse adito alla licenza».

71.  Satyricon XXVIII: «Questi, disse, è Menelao, presso il quale appoggiate il gomito.»

72.  Adelph. Att. II. sc. 5:

Stender per noi comanda i letticciuoli

Ed apprestar ogn’altra cosa.

73.  Epist. Lib. I. X. 22:

Pur tra recinto di colonne fassi

Fronteggiar bosco, e lodasi magione,

Che a l’occhio apre di campi ampio prospetto.

Trad. Gargallo.

74.  «Dinnanzi al crittoportico c’è un sisto olezzante di viole. Il calore del sol che vi batte è accresciuto dal riflesso del crittoportico, il quale come mantiene il sole, così vi scaccia e mantiene i venti boreali; e quanto è il caldo che si ha sul davanti, tanto è il fresco che si gode di dietro. Esso arresta del pari i venti australi, e così rompe e doma i venti più opposti, gli uni da un lato, gli altri dall’altro. Ameno nel verno, lo è ancor più nella state. Poichè prima del mezzogiorno, il sisto, dopo di esso lo stradon gestatorio e la vicina parte dell’orto sono confortati dalla sua ombra, la quale, secondo che cala o cresce il giorno, qua e là cade or più corta, or più lunga. Lo stesso crittoportico non è mai tanto privo del sole, quanto allora, che il più cocente raggio di esso cade a piombo sovra il suo colmo. Oltre a ciò per le aperte finestre vi entrano e giuocano i zefiri; nè il luogo è mai molesto per un’aria chiusa e stagnante.» Epist. Lib. II. 17. Trad. Paravia.

75.  Liv. XXXIX. 14.

76.  Vol. secondo. Puntata 18.ª, pag. 347.

77.  «A Marco Lucrezio Flamine di Marte, Decurione in Pompei.»

78.  È ben inteso che qui si parla del diritto più antico: in seguito queste leggi si vennero modificando ed erano già da tempo mutate quando a Pompei toccò l’estrema rovina.

79.  Fustel de Coulanges: La Cité Antique, Liv. II, ch. 1.

80.  Vedi Aulo Gellio IV, 3, Valerio Massimo II, 1, 4, e Dionigi d’Alicarnasso II, 25.

81.  Governo degli Spartani.

82.  In Solone, 20.

83.  Cantù. Stor. degli Italiani. Vol. I. Cap. XXIII.

84.  Liv. II, La Famille, Chap. II, Le Mariage, Pag. 43. Paris. Librairie Hachette e C. 1872, 4.me edit.

85.  Lib. III, 3, 38.

86.  Questioni Romane, 50.

87.  Notti Attiche.

88.  

Niun merito è dunque, o misleale,

Nïuno, o ingrato, che da me ti nasca

O bimba, o figliuolin? La gioja intanto

De l’educar, e imprimer su’ registri

Le prove d’uom prolificante, è tua.

L’uscio inghirlanda, sei papà; ti ho dato

Incontro a’ detrattor scudo e cimiero.

Di padre i dritti hai già; se’ scritto erede

Per me: d’ogni legato or se’ capace,

E di fiscal caducità ti ridi.

Beni ancor giungerai molt’altri a questo,

Di tre se arrivo il novero a fornirti.

Sat. IX, v. 82-90. — Tr. Gargallo.

89.  Lib. II, epig. 92.

90.  Epistolar. C. Plinii Cæcilii Secundi. Lib. X. ep. XCVI. Ediz. Venezia, Tip. Antonelli.

91.  «Fu consuetudine presso gli antichi che colui il quale passasse in altra famiglia, avesse prima ad abdicare a quella nella quale era nato.» Ad Æneid. 11. 156.

92.  Perdita delle cose sacre.

93.  Detestazione delle cose sacre. XV. 27.

94.  Top. 6.

95.  De Legibus, 11, 8.

96.  Id., ibid. 11.

97.  Sat. V, 289 e segg.

— Olà! quel servo in croce. — E per qual fallo?

Chi accusa? chi testifica? Rifletti;

Non tardasi mai troppo, ove si tratti

Della morte d’un uomo. — È uomo un servo?

Sciocco! È innocente? E sia; io così voglio,

Così comando; il mio volere è legge.

Trad. Gargallo.

98.  De Re Rustica. XII. 1. 2.

99.  «L’ingiuria fatta anche allo schiavo non si deve dal Pretore lasciare inulta.»

100.  Lib. VI, 39:

.... che la testa ha aguzza e in moto

Tien sempre i lunghi orecchi al par d’un asino.

Trad. Magenta.

101.  De Clementia I, 24.

102.  Milano. E. Daelli e C. 1863 nella Biblioteca Rara.

103.  Oraz. Sat. 11. 6. 66; Ovid. Fast. 11. 631; Petronio, Satyricon, 60.

104.  

«Quest’opera non fe’ barbaro artiere

Mangiator di polenta.»

Plaut. Mostellaria. Act. 3, sc. 2 v. 14º.

105.  Sat. II, 5, 79. Non raccapezzandomi sulla versione del Gargallo, mi provo io:

Parca nel regalar, della cucina,

Assai più che di Venere, curante

La gioventù si mostra.

106.  Od. XIV. Lib. II. Ad Posthumum.

«L’erede tuo que’ cecubi

Dissiperà più saggio,

Che cento chiavi or serbano

Del sole ignoti al raggio.

Tal vin facendo scorrere

Pe’ pavimenti alteri,

Cui non spumeggi il simile

Ne’ salici bicchieri.»

Trad. Gargallo.

Orazio dice nelle cene dei Pontefici; Gargallo vi sostituisce i salici bicchieri. Il lettore s’avvede tosto che il traduttore ha mutato il pensiero del poeta, e la citazione, nella traduzione, non farebbe al mio caso. I Salii erano i dodici sacerdoti di Marte che custodivan gli ancili o scudi sacri, mentre i Pontefici eran bensì sacerdoti, ma sopraintendevan alla religione dello stato e alle cerimonie di essa.

107.  Od. XXXVIII. Lib. I. Ad Sodales.

«.... compagni a Divi

Con saliari — cibi festivi

I pulvinari — tempo è d’ornar.»

108.  «Son citaredi a’ pulvinari degli Dei ed a’ banchetti de’ magistrati.»

109.  «Cesare dittatore nella cena del suo trionfo, distribuì anfore di vin Falerno nel banchetto e cadi di Chio. Lo stesso nel trionfo ispanico largheggiò Chio e Falerno. Al convito poi del suo terzo consolato diè vin Falerno, Chio, Lesbio e Mamertino.»

110.  

Qui i Romulei magnati e i trabeati

Cesare volle colle mille schiere

Che sedessero insieme a laute mense.

111.  

. . . . i cibi apprestansi

Alla tua mensa in aurei piatti accolti.

Trad. Magenta.

112.  

«Se i ricchi nappi onde l’Egitto abbella

I conviti di Roma, o quei che tinge

Partico fuoco d’iride sì bella.»

Lib. IV. Eleg. V. Trad. Vismara.

113.  «Così crebbe il numero de’ versatili soffitti delle cene, che d’un tratto l’uno appresso all’altro succeda e si mutino tanti quante sieno le portate.»

114.  

Frugan costor per gli elementi tutti

Come appagar la gola; nè al capriccio

Mai d’ostacolo è il prezzo.

Tr. Gargallo.

115.  

A un pranzo u’ niun (temendone

L’ugne) il mantil recò;

Via la tovaglia Ermogene portò.

Ep. Lib. XII, 29. Trad. Magenta.

116.  Æneid., lib. I, 703. — Il Caro poco fedelmente traduce:

. . . . Con Cerere a le mense

Gli aurati vasi e i nitidi canestri,

E i bianchissimi lini eran comparsi.

Avremmo avuto meglio serbato il costume d’allora se avesse tradotto:

Distribuiscon da’ canestri il pane

E recan le tovaglie, a cui fur rasi

I velli,

e avremmo appreso che le tovaglie potevan essere di pelli levigate; ma i traduttori soglion mirare più all’eleganza che alla precisione. Eppure, volgarizzando dall’antico, non si dovrebbe mai perdere di vista il concetto storico, pel quale anche i poemi diventano documenti di storia importanti. Giova il ripeterlo.

117.  

Piccanti rape e rafani e lattuche

Gli fean corona: intingoli che stuzzicano

Lo stomaco impigrito. Eranvi acciughe,

Carote ed acquerello di vin coo.

Serm. VIII. Lib. 2. Trad. Gargallo.

118.  «Nè riporre speranza nell’antipasto, perocchè tutto ora ho soppresso: mentre per lo addietro soleva deliziarmi d’olive e delle tue salsiccie.»

119.  Lucano vi allude nel verso:

Quippe bibunt tenera dulces ab arundine succos.

Però che bevan gli Indi

Della tenera canna i dolci succhi;

e Domiziano di queste canne di zuccaro ne fe’ gitto alla moltitudine fra tante altre squisite cose.

120.  Tre furono gli Apicii e tutti celebri per la loro ghiottornia. Il primo visse al tempo di Silla; il secondo sotto l’impero di Augusto e Tiberio e fu il più famoso e venne celebrato da Giovenale, da Seneca e da Plinio; il terzo sotto Trajano e rinomato inventore del marinar le ostriche, delle quali mandava all’imperatore desideratissime giare, quando quest’ultimo trovavasi a guerreggiare tra i Parti. Tanto impose l’abilità degli Apicj, che i cuochi si divisero persino in Apicj ed Antiapicj, come trovasi menzionato in Plinio il Giovane.

121.  

D’Esopo il figlio insigne margherita,

Già di Metella da l’orecchio svelta,

In aceto stemprò, mille migliaja

Per bere di sesterzj in pochi sorsi.

Satira III. Lib. II. Trad. Gargallo.

122.  «Sorbiva preziosissime perle liquefatte coll’aceto.»

123.  «Nè bevon meno e coll’olio e col vino sfidano le forze, e giù cacciatili nelle svogliate viscere, lo rimettono per la bocca e rigettan col vomito tutto il vino.»

124.  Negli archi, volgarmente detti Portoni di Porta Nuova di Milano, recentemente raffazzonati, veggonsi tuttavia incastrate due teste antiche con iscrizioni che leggonsi: Quintus Novellius Lucii filius Vatia sevir quæstor, Cajo Novellio Lucio filii Rufo fratri, che ricordano adunque la famiglia Novellio, cui appartenne quel gran beone.

125.  Vedi nel I. vol. alle misure dei liquidi: il congio conteneva sei sextarii.

126.  

Mai col mantile Ermogene

A cena non andò;

Da cena col mantil sempre tornò.

Ep. Lib. XII. 29. Trad. Magenta.

127.  De Arte Amandi. Lib. III, v. 207-212.

Quindi riparo alla figura offesa

Cercate, che non è per gli usi vostri

Inefficace l’arte mia. L’amante

Non miri apertamente i vasi esposti

Che l’arte ascosa giova alla beltade.

A chi non piaceria mirar sul volto

Stendere quella feccia, e lentamente

Cader pel peso suo nel caldo seno?

Trad. di Cristoforo Bocella.

128.  Idem, Ibidem, v. 229.

Molte cose ignorar gli uomini denno,

Di cui gli offendon molte, se non copri

Ciò che fa d’uopo di tener celato.

Idem, Ibidem.

129.  

Fa che pensar possiam che dormi allora

Che tu ti adorni.

Idem, Ibidem, v. 225.

130.  Ciniflones eran gli schiavi incaricati di tingere i capelli soffiandovi sopra determinate polveri, cinerarii quelli che riscaldavan nelle ceneri i calamistri o ferri da arricciare: calamistri appellavansi anche gli schiavi che usavano di quel ferro per arricciare; psecas finalmente le schiave che profumavano i capelli e li ungevano d’olj odorosi.

131.  Idem, Ibidem, 163-166.

Con le Germanich’erbe asconder puote

La donna la canizie, e può con l’arte

Miglior del vero altro cercar colore.

Vanne la donna con la chioma folta

Per i compri capelli, e col denaro,

In mancanza de’ suoi, compra gli altrui.

Idem, Ibidem.

132.  Discerniculum era il pettine che si usava per far la divisa dei capelli sin giù alla fronte.

133.  Ex Ponto, III: 3, 51:

Io la scrissi per quelle, a cui l’onesta

Chioma non è dentro la benda inserta,

Nè lunga giunge infino al piè la vesta.

Trad. di G. B. Bianchi.

134.  Lib. I, v. 31:

Gite lungi, o Vestali, e voi matrone,

Che i piè celate sotto lunga veste.

Trad. Cristoforo Bocella.

135.  

Epid. Come leggiadramente era vestita

E dorata e fregiata! e che eleganza!

Qual novità!

Perif. Di che mai si vestiva?

Forse della regilla o di mendicula

Impluvïata, come queste danno

Nome alle loro vestimenta?

Epid. Come,

Va d’impluvio vestita?

Perif. E maraviglia

Questo ti fa? E non van molte intorno

Di terre adorne?

136.  Epidicus, act. 2, sc. 2, v. 45-50.

Nuovi nomi al vestir trovano ogn’anno:

E la tonaca valla e quella spessa,

E il linteolo cesicio e l’indusiata,

La patagiata, callula, crocotula,

Il suppar, la summinia, oppur la rica,

L’esotico, il basilico, il cumatile,

Il melino, il piumatile o il cerino

E dal cane perfin tolgono il nome

A prestanza.

Epid. E qual mai?

Perif. Quel di laconico.[137]

137.  Infatti v’eran certi cani detti Lacones o Laconici, come ce lo apprende Orazio nell’Ode 6 degli Epodi:

Nam qualis aut Molossum aut fulvus Lacon.

Era la laconica un genere di veste assai succinta. Lo stesso Orazio rammenta la Laconicas purpuras, 2, Od. 18.

138.  Sat. V, v. 30:

Ratto che paventoso abbandonai

La custode pretesta, ed ai succinti

Lari la borchia puëril sacrai.

Tr. Vinc. Monti.

139.  

Certamente è codesta effeminata

Moda il portar la tonaca dimessa.

. . . . . . . . . . . . . .

Vergogna a te, e femmina ti dico.

Pœnulus, Act V. Sc. V.

140.  De Re Rustica 3, 13: «Quando mi trovava presso Ortensio nel territorio di Laurento, comandò venisse Orfeo, il quale essendosi presentato in lunga ruba (stola) e colla cetera, ed avendo ricevuto l’ordine di cantare, sonò la tromba, al cui suono fummo tosto circondati da sì grande quantità di cervi, di cinghiali e di altri quadrupedi, che tale spettacolo non mi parve men bello di quello che danno gli Edili nel grande circo, quando si fanno le cacce, ma senza pantere.»

141.  «I Campani gente molle e libidinosa.» Trinummus, Act. II, sc. 4, v. 144.

142.  Satira VI, v. 130.

143.  Carmen XVI. Ad Aurelium et Furium. Traduco:

Che il costume del poeta

Sia pudico, a voi sol basti;

Ma i suoi versi nessun vieta

Ch’esser possano men casti.

144.  V. 1 e 2. Thomas Moore, lavorò su di tale credenza, un leggiadrissimo poemetto Gli Amori degli Angeli, che il cavaliere Andrea Maffei recò in versi italiani.

145.  Profezia di Osea. Capo 1 e 2: «Va prendi per moglie una peccatrice, e fatti dei figliuoli della peccatrice.» Traduzione di Monsignor Antonio Martini, del quale non è inopportuno riferire il commento: «Con questo straordinario comando fatto al santo Profeta di sposare una sordida donna, la quale era stata di scandalo nella precedente sua vita, il Signore prova ed esercita la pazienza e la ubbidienza di Osea e provvede alla salute spirituale di questa donna, e principalmente indirizza questo fatto profetico a rinfacciare a tutta Samaria il suo obbrobrio, ecc.» Non c’è più nulla a dire!

146.  Osea. Cap. III. V. 1, 2: «Or il Signore mi disse.: Va ancora ed ama una donna amata dall’amico e adultera.... ed io me la cavai per quindici monete d’argento e un coro di orzo e mezzo coro di grano.» Trad. Martini, il quale, non si sgomenta punto del fodi eam e commenta che: per ritrarla dalla sua cattiva vita le dà il profeta quindici sicli d’argento ed il resto. E soggiunge: «Questa non è la dote con cui egli si comperi costei per sua moglie perocchè egli non la sposò, ma tutto questo si crede dato a colei pel vitto di un anno, e tutto questo messo insieme è sì poca cosa, che dimostra la vile condizione di essa e l’orzo serviva pel pane delle persone più meschine.»

147.  Così Apulejo fa parlare la Dea stessa: «Io sono la natura, madre di tutte le cose, padrona degli elementi, principio dei secoli, sovrana degli Dei Mani, la prima delle nature celesti, la faccia uniforme degli Dei e delle Dee. Io son quella che governa la luminosa sublimità dei cieli, i salutari venti dei mari, e il cupo e lugubre silenzio dell’inferno. La mia divinità unica, ma multiforme, viene onorata con varie cerimonie e sotto differenti nomi. I Fenici mi chiamano la Pessinunzia, madre degli Dei; quelli di Creta, Diana Dittina; i Siciliani, Proserpina Igia; gli Eleusini, l’antica Cerere; altri Giunone, altri Bellona, ed alcuni Ecate. Evvi ancora chi mi chiama Ranunsia; ma gli Egizii mi onorano con cerimonie che mi sono proprie, e mi chiamano col mio vero nome, la regina Iside.»

148.  Trattato del Sublime. Sezione X. pag. 25. Edizione Mil. 1822. Soc. Tip. de’ Classici Italiani.

149.  

Te mal tuo grado scuotere,

Buon Bassareo, non vo’,

Nè ciò che i sacri pampini

Celano, al dì trarrò.

Il frigio corno, e i timpani

Deh! frena, il cui fier eco

In noi di noi medesimi

Desta amor folle e cieco;

E con tropp’arduo vertice

Ne segue Orgoglio il metro

E sè di arcani prodiga,

Lucida più del vetro.

Trad. Gargallo.

150.  

LA VEGLIA DI VENERE

Inno

Chi non provò mai palpito

Finor d’affetto in core,

Doman lo dee dischiudere

Al più fervente amore.

Giunta è la primavera:

Cantiam, che s’apre intera.

In primavera a esistere

Incominciato ha il mondo:

Gli Amori ora s’accordano

In nodo più giocondo;

Melodïosi e belli

S’accoppiano gli augelli.

Dalle carezze, l’albero,

Delle pioggie feconde

Tutto dispiega il nobile

Onor delle sue fronde,

E degli Amor la Madre,

In fra l’ombre leggiadre

De’ bei boschetti splendere

Doman vedrem più bella

Intrecciar i tugurii

Di rami di mortella

E dal suo letto altero

Dione avrà l’impero[151].

CORO

Chi non provò mai palpito

Finor d’affetto in core,

Doman lo dee dischiudere

Al più fervente amore.

Le spume dell’oceano

Fecero in tal stagione

Nascer, commiste al sangue

Di un’immortal, Dïone,

Del mar tra i numi fieri

E i bipedi corsieri.

CORO

Chi non provò mai palpito

Finor d’affetto in core,

Doman lo dee dischiudere

Al più fervente amore.

L’anno ella tinge in porpora,

Veste di fior smaglianti,

Delle sue poppe, turgide

Pei soffii fecondanti

Di Favonio, ogni dove

Soave il latte piove.

Versa le stille roride

Della notturna brezza,

Tremule a lei le lagrime

Brillano per grossezza,

E sembra ognor che cada

La goccia di rugiada.

Ella i color purpurei

Dona al pudico fiore,

Spremuto in ciel da’ limpidi

Astri il notturno umore,

Le verginali spoglie

Alla diman gli scioglie.

S’accoppieran le vergini

Rose al suo forte grido,

Dal sangue già di Venere,

Dal bacio di Cupido

Nata e di sol vestita,

Di fiamma e margarita.

Il suo rossor che ascondere

Vuol nella veste, ontosa,

L’invido nodo a sciogliere

Più non sarà ritrosa:

Sposa ella pur fra poco

Il mostrerà di fuoco.

CORO

Chi non provò mai palpito

Finor d’affetto in core,

Doman lo dee dischiudere

Al più fervente amore.

Per lei le ninfe volgono

Al bosco di mortella;

Un bel fanciul le seguita:

Se avesse le quadrella,

Voi non lo credereste

Partecipe alle feste.

Ite, o Ninfe, nell’ozio

Amor l’armi depose:

Inerme e ignudo mostrasi.

Siccome a lui s’impose,

Perchè l’arco non tenda,

Nè colta face offenda.

Pur rimanete in guardia,

O Ninfe, al vostro core;

Senz’armi ancor, bellissimo

Come le avesse, è Amore

E allor non vale scudo

Se si presenta ignudo.

CORO

Chi non provò mai palpito

Finor d’affetto in core.

Doman lo dee dischiudere

Al più fervente amore.

Simili a te, noi vergini

Venere a te c’invia,

Noi ti preghiamo, o Delia

Vergine, acciò non sia

Brutta la sacra selva

Da sangue mai di belva.

Solo di questo supplici

Noi ti moviam preghiera;

Ella medesma a chiederlo

Verrebbe lusinghiera;

Se a vergin fia decente,

Qui ti vorria presente.

Per tre notti continue

Gli spensierati cori,

Scelti fra tanto numero,

Coronati di fiori,

Correr vedresti lieti

Pe’ tuoi boschi e mirteti.

Qui saran Bacco e Cerere

E de’ poeti il Dio:

Noi veglierem tra i cantici,

Se tale è il tuo desio:

Dïone alle foreste

Regni, o Delia celeste[152].

Ella si elesse il seggio

Sovra de’ fiori iblei,

Recinta dalle Grazie,

Darà i responsi bei;

Ibla, dà tutti i tuoi

Fior che produci a noi[153].

Ibla la veste spoglia

De’ fior che son tua cura

Per quanto lunga estendesi

Dell’Enna la pianura:[154]

Qui saran forosette

E montanine schiette.

Quante ninfe soggiornano

Bosco, foresta o fonte,

La Madre dell’Aligero

Nume le vuol qui pronte.

Vuol che, se nudo incede,

Si neghi a Amor la fede.

CORO

Chi non provò mai palpito

Finor d’affetto in core,

Doman lo dee dischiudere

Al più fervente amore.

Fia che dimani irradii

Del suo sorriso amico

I nuovi fiori e l’Etere

Sposo alla terra antico,

Che colle nubi ognora

Paterne le ristora.

Si scioglierà benefica

In sen dell’alma sposa,

Onde nell’ampie viscere

La vita rigogliosa

S’agita, si commove

A creazioni nove.

Dell’universo Venere

Col soffio suo possente

Entro le vene penetra

E n’occupa la mente;

Procreatrice eterna,

Il mondo ella governa.

Ella pei campi eterei,

In terra, al mare in fondo

Il creator suo spirito

Infonde ovunque, al mondo

Obbedïenti addita

Le sorgenti di vita.

CORO

Chi non provò mai palpito

Finor d’affetto in core,

Doman lo dee dischiudere

Al più fervente amore.

Ella portò nel Lazio

I Trojani Penati,

Di Laurento la vergine

Del figlio univa ai fati.

Lei dal suo tempio tolse

Che sposa Marte accolse.

Diè alle Sabine vergini

I Romulei mariti,

Onde i Ramnesi uscirono,

Uscirono i Quiriti,

Di Romolo la gente

E Cesare possente.

CORO

Chi non provò mai palpito

Finor d’affetto in core,

Doman lo dee dischiudere

Al più fervente amore.

Sentono i campi Venere,

Voluttà li feconda:

Ebbe tra i campi il figlio

Di Dion culla gioconda

E crebbe ai delicati

Baci de’ fior’ più grati.

CORO

Chi non provò mai palpito

Finor d’affetto in core,

Doman lo dee dischiudere

Al più fervente amore.

Tutti si legan gli esseri

Col vincolo d’imene:

Sulla giovenca spingesi

Il toro, ed ecco viene

Mosso da questa legge

Lungo i ruscelli il gregge.

Vuole la Dea dispieghino

Gli augelli i loro canti,

Per le paludi stridono

I cigni e i proprii vanti

Moduli invidïata

Di Terëo la cognata[155].

La voce sua melodica,

Sarà d’amore invito,

Nè la sorella piangere

S’udrà pel reo marito:

Taccio al canto gentile,

Finchè verrà il mio aprile.

Come la rondin garrula,

Allor canterò anch’io,

Onde la Musa arridami

E l’Eliconio Dio;

Però che già Amiclea[156]

Sè col tacer perdea.

CORO

Chi non provò mai palpito

Finor d’affetto in core,

Doman lo dee dischiudere

Al più fervente amore.

151.  Tradussi Dione, come nel testo: forse più giustamente dovea dire Dionea, da Dione che Omero dà per madre a Venere. Esiodo la dice figlia dell’Oceano e di Teti, e fa nascere Venere dalle spume del mare.

152.  Delia, soprannome di Diana, dall’isola di Delo, ove era nata. Vedi Virgilio, Eglog. 3, v. 67.

153.  Ibla, monte della Sicilia, celebre per lo squisito miele che vi si raccoglieva. Due città sicule portavano questo nome, Hybla major e Hybla parva, sulla costa orientale, le cui rovine veggonsi tuttavia in riva al mare. I colli che la circondano, lungo il fiume Alabus, sono in tutte le stagioni coperti di fiori, di piante odorifere, di timo e di sermolino, d’onde le api traggono anche presentemente il più squisito miele. Già induce a credere che il miele d’Ibla, tanto vantato dagli antichi, fosse raccolto presso d’Ibla la piccola.

154.  Enna, città in luogo eminente in mezzo della Sicilia. Le praterie dei dintorni, inframmezzate da limpidi ruscelli, indorse di sempre verdeggianti boschi e di fiori odorosi, erano considerate come il soggiorno prediletto di Cerere. Fu in quella bellissima campagna che venne rapita la di lei figlia Libera, più nota sotto il nome di Proserpina.

155.  Tereo, dice la Mitologia, fu re di Tracia, figliuolo di Marte e della ninfa Bistonide. Ebbe per moglie Progne, figlia di Pandione re di Atene, la quale dopo alcun tempo, mostrò desiderio di rivedere la propria sorella Filomela. Tereo per compiacerla si recò in Atene, ed ottenne da Pandione che lasciasse partire secolui Filomela; ma invaghitosene cammin facendo, la violò in una casa pastoreccia, ed affinchè non palesasse il suo delitto, le tagliò la lingua facendo credere alla moglie che la sorella era morta in mare. Filomela giunse però a poter disegnare sopra una tela la sua disgrazia, e la fe’ poscia per mezzo d’una fantesca a Progne pervenire. Questa trasse astutamente la sorella dal luogo ov’era rinchiusa e seco la condusse nella reggia; indi per vendicarsi, prese il bambino Iti, partorito da Filomela, e dopo di averlo ridotto in pezzi, li diè a mangiare al padre. Tereo di ciò avvedutosi, prese ad inseguire con isguainato brando le due sorelle, le quali furono dagli Dei per compassione trasformate Progne in rondine, Filomela in usignuolo, Iti in fagiano e Tereo in upupa. — Vedi Ovid. Met., lib. 6. Mitologia di tutti i Popoli. vol 6.

156.  Amiclea od Amicla, città antica italiana, che dissero fabbricata dai compagni di Castore e Polluce, i cui abitanti astenevansi da ogni nutrimento animale. Furono distrutti dai serpenti, de’ quali abbondava il suo paese. Erano grandi osservatori del silenzio, onde taciti li chiamò Virgilio: Tacitis regnavit Amiclis (Æneid. lib. 10, v. 565) e qui pure nel Pervigilium vien designata Amicla d’essersi perduta col silenzio: forse non avendo invocato soccorso a tempo quando era devastata dai serpenti.

157.  

A placarla con suppliche voi chiama

Tutte il dover: dipendon dal suo nome

E onestade e bellezza e buona fama.

Tr. G. B. Bianchi.

158.  Vedi nel Vol. I. il Cap. VIII. — I Templi, dove si parla di quello di Iside.

159.  «De’ ladri e degli augei vigil custode.»

160.  N. 176 del Catalogo del Museo Nazionale di Napoli, Raccolta Pornografica. — Napoli, 1866. Stabilim. Tip. in S. Teresa.

161.  Arditi, Il Fascino, pag. 45, nt. 2.

162.  Vol. II. Cap. XII, p. 106-113. Milano, 1873. Presso Felice Legros, editore.

163.  

Omai palesi della Buona Dea

Fansi gli arcani, allor che il flauto i lombi

Comincia a stuzzicar: del corno al suono,

Del vino all’estro, di Priapo attonite

Le Menadi, rotondo il crin, volteggiano.

Oh quanta allora in que’ cervelli accendasi

Libidinosa rabbia! Oh con qual impeto

Guizzano, scoppian, s’agitan, vociferano!

Del vecchio vin che bevvero, qual circola

Acre vapor nel trasudante femore.

Sat. VI, v. 314-319.

164.  V. 346-49:

Ed or qual ara del suo Clodio è priva?

Vecchi amici, a l’orecchio il nostro avviso,

Già datomi una volta, ancor mi sona:

Chiudila, custodiscila. — Benissimo,

Ma de’ custodi chi sarà il custode?

165.  

. . . . a poco a poco

Te aggregheranno del bel numer uno

Quei che accerchian la fronte in lunghe bende,

E tutto avvolgon di monili ’l collo.

Ne’ penetrali lor, con ampie tazze

E ventraia di tenera porcella

Placan la Bona Dea. Ma quelle soglie,

Con rito inverso, or non avvien che tocchi

Piè femminile: a’ soli maschi l’ara

Apresi de la Dea. Lungi, o profane!

Alto s’intona; no, che qui non geme

Tibia ispirata da femmineo labbro.

Tal’orgie i Batti usar fra tede arcane

Solean, stancando l’Attica Cotitto.

Id., Ibid. Trad. di Gargallo.

166.  

. . . Via, fuori

. . . . qual vergogna! S’alzi

Da l’equestre cuscin, chi non possiede

L’equestre censo; e de’ mezzan d’amore

Vi sottentrino i figli, in qual sia chiasso

Nati pur sien. Costinci applauda il figlio

Del grasso banditor tra la ben nata

Da’ rezïari giovinaglia, e quella

Degli accoltellatori.

V. 153-158. — Tr. Gargallo.

167.  

È vecchia usanza, o Postumo, ed antica

Far cigolar gli altrui letti, e il santo

Genio schermir che a talami presiede.

V. 21-22.

168.  

Lascio i parti supposti, i gaudi, i voti

Spesso appagati dal Velabro. Oh quante

Volte raccolti son dalle sue fogne

Gli ignoti bimbi, sul cui falso corpo

Nome di Scauri apponsi, e poi ne ottiene

Suoi pontefici Giove, i salî Marte.

Capricciosa fortuna ivi la notte

A que’ nudi bambin volteggia intorno,

E con l’alito suo tutti gli scalda,

E in grembo se li avvolge. Allor tra gli alti

Palagi li dispensa, e ne prepara

Segreta farsa a sè: l’amor son questi,

Questi son la sua cura; e che sien detti

Figli delle Fortuna ella gioisce.

Sat. VI, vv. 602-609.

169.  «Nei quadrivii e ne’ chiassi.» Carmen LVIII, Ad Cœlium.

170.  

Amo ed odio insiem, se chieda

A me alcun come succeda?

Io l’ignoro, eppure il sento

E ne provo un gran tormento.

Carmen LXXXV. — Mia trad.

171.  

Iam ne exciderunt vigilatis furta Suburræ

Et mea nocturnis trita fenestra dolis?

Per quam demisso quoties tibi fune pependi,

Alterna veniens in tua colla manu.

E già i bei furti di Suburra e il caro

Trescar notturno, e il mio

Balcon per te socchiuso, agli altri avaro,

Ti caddero in obblio?

Il mio balcon, d’onde alla fune appesa

Spesso vêr te calai,

E con alterna delle mani offesa

Al collo tuo sbalzai?

Trad. Vismara.

172.  

Pria della mensa è poca cosa assai,

Ma il vin le dona mille grazie e mille.

173.  

Bianca e fredda a veder, ma tra i bicchieri

Un di goderne, un di sfidarne ha petto.

Trad. Vismara.

174.  

Non più vezzoso ad occhieggiar qual fai,

O fra i spettacol’ del lascivo Foro,

O sul passaggio di Pompeo n’andrai.

E d’ora innanzi non ti dar la pena

Di torcer suso il collo agli alti scanni[175]

Ne l’affollata teatrale arena.

Nè per la via farai fermar lettica

O aprir portiera onde ficcarvi il capo

E parlottar colla passante amica.

Ma pria di tutto fuor di casa, fuori

Ligdamo, fonte d’ogni mal; si venda,

E con i ferri ai pie’ serva e lavori.

175.  Dissi già nel capitolo de’ Teatri come le cortigiane fossero nel quattordicesimo gradino del teatro, citando all’uopo il Satyricon di Apulejo.

176.  Amorum, Lib. III. Eleg. XV:

Madre di amori teneri,

Cerca novel poeta.

Trad. di Francesco Cavriani.

177.  

Che vidi incauto? perchè i fati vollero

Che arcana colpa il guardo mio scorgesse?

Vide a caso Atteone ignuda Cinzia;

Pur de’ suoi cani pasto egli è rimaso.

Trad. di Paolo Mistrorigo.

178.  Sopra la Vita di Publio Ovidio Nasone, Discorsi. Discorso I.

179.  

Punito io son, chè un turpe fatto videro

Gli incauti occhi; son reo che gli occhi ebb’io.

Trad. di Paolo Mistrorigo.

180.  

Versi ed error, due colpe mi perdettero.

Id., Ibid.

181.  Fu Sotade poeta di Tracia, che scrisse in verso ogni sorta di libidini, e sembra che scrivesse in quel genere che i Francesi chiamano poesie fuggitive e che in latino diconsi commatæ, cioè incise, spartite. Così le chiama Quintiliano; e pare che a’ tempi di lui fossero conosciute, perciocchè egli proibisse agli istitutori di parlarne a’ giovinetti. Intitolavansi quelle poesie del poeta Sotade Cinaedos, per cui Marziale lo chiama Cinedo, ed altri chiama Jonico quel poema, giacchè l’epiteto di jonico davasi a tutto ciò ch’era molle e lascivo. Visse questo poeta a’ tempi di Tolomeo, che il fece gittare in mare entro una cassa di piombo.

182.  Molti de’ carmi di Catullo tengo da me volgarizzati inediti; epperò mi valgo sempre per questo poeta della mia traduzione non edita per anco.

Donna non fu che tanto

Amata fosse, come or tu da me;

Nè mai servata, quanto

Da me lo fosse, la giurata fè.

Lesbia, or tu m’hai condotto,

Fossi pur buona, a più non ti stimar:

Nè, s’anco più corrotto

Tu avessi il cor, ti lascerò d’amar.

183.  

Abbastanza io fui la favola

De le mense scioperate,

E di me ciascun fe’ ridere

A sua posta le brigate.

Tr. Vismara.

184.  Sat. 2, lib. I:

Facil Venere e pronta amo e colei

Che ti dice: fra breve; e fia maggiore

La voluttà, se partirà il marito.

Mi son sostituito nella traduzione al Gargallo, che questa volta non ho proprio capito che dir si volesse.

185.  Sat. I. Lib. 11.

. . . . . Canidia, figlia

D’Albuzio, a’ suoi nemici erbe e veleno.

Tr. Gargallo.

186.  «Irritabil genia quella dei vati.» Oraz.

187.  

Il diritto dei tre figli mi diede,

De’ miei studi poetici in mercede,

Chi potea darlo: addio consorte: vano

Il don sortir non dee del mio sovrano.

Trad. Magenta.

188.  

LA PROSTITUZIONE DELLE MUSE[189]

Or la misera fame, ed i sottili

Distillati veleni entro le dapi,

Tutto un popolo esangue e amici pingui

Per ricchi funerali, ed un impero,

Che sotto il nome della pace infinto,

Mollemente si solve e si consuma,

Quanto fa dir la nostra età la bella

Età dell’oro, canteran le Muse.

E canteranno i lagrimosi incendi

Della marmorea Roma[190], agli occhi loro

Vaghi sollazzi della negra notte,

Egregie gesta di colui che baldo

Dell’assassinio della madre esulta,

Che alle Furie materne altre ne oppone,

Alle serpi altre serpi, ognor la mano

Pronta a nuovi pugnali e di peggiori

Stragi a far tutto esterrefatto il mondo.

Canteranno esse scellerati carmi,

Oscene voluttà, sozzi imenei

D’un favorito della sposa infami[191],

Di Venere nefandi monumenti;

Nè l’onta proveran de’ loro canti

Le svergognate Muse, e di lor nome

Verginal, di lor fama immacolata

Fatte immemori adesso. Ah! via gittato

Ogni pudor, sotto color bugiardo

Di lor saver, prostitüir sè stesse,

E le figliuole dell’olimpio Giove

Sovra gli umani eccelse, ancor che nulla

Sentan necessità, fanno a vil prezzo

Di lor sacra persona empio mercato.

Esse al capriccio dei superbo Mena[192]

Piegan codarde, ovver di Policleto

Obbedïenti al cenno, anco beate

D’esigua lode, appassionate, ardenti

Delle recenti impronte, onde una fronte

Va maculata, o delle ree vestigia

Che lasciò la catena od il flagello

A un Geta[193], che da jer fatto è liberto.

Immemori, che più? del divo padre

E de’ numi cognati e dell’antico

Onor di casta e verginal pietate.

Oh dolor! Alle Furie e a mostri orrendi

Hanno eretto l’altare e i cenni impuri

Dell’ignobile Tizio[194] osano voci

Del Destino appellar: quanto ha l’Olimpo

Consacrarono all’Erebo; già templi

Osaron scellerati ergere ed are

Sacrileghe, e per quanto è di lor possa,

I cacciati dal cielo empi Titani

Tentan ripor nelle superne sedi

E stolto crede a’ loro accenti il mondo.

189.  Con una sacra indegnazione e con maggior calore per avventura di Persio, Turno, vissuto sotto il regno di Nerone e vecchio sotto quello degli imperatori di casa Flavia, compose satire che quello imperante stigmatizzarono a fuoco. Vuolsi che le sue composizioni non publicasse finchè visse quel tiranno; ma se ciò fosse, sarebbe stato minore il suo coraggio, nè di lui avrebbe Marziale potuto dettare il seguente epigramma:

Contulit ad satyras ingentia pectora Turnus:

Cur non ad Memoris carmina? Frater erat.

Turno piegò l’ingegno suo sovrano

Al satirico stil: perchè di Memore

Non i versi emular?... Gli era germano.

Epigr. lib. XI, 11. — Tr. Magenta.

Da tal epigramma apprendiamo adunque che Turno fosse fratello di un Memore, poeta tragico, come nel precedente epigramma lo stesso Marziale lasciò ricordato:

Clarus fronde Jovis, Romani fama cothurni.

Del romano coturno illustro e cinto

Della fronda di Giove.

Id. ib. 10.

L’unico frammento rimasto delle Satire di Turno è, come dissi, codesto che traduco: taluni vollero perfino attribuirlo a Lucano, ma i più lo assegnano a Turno.

190.  È chiara in questo verso l’allusione all’incendio di Roma avvenuto sotto il regno di Nerone, il quale ne fu ritenuto autore.

191.  Son note le pazze e infami nozze di Nerone con Sporo, celebrate publicamente in Roma. Questo verso ricorda quello della Sat. II di Giovenale:

Dives erit, magno quæ dormit tertia lecto.

. . . . Sposa che in ampio letto

Terza a dormire adattisi, fia ricca.

V. 60. Trad. Gargallo.

192.  Mena fu liberto e favorito del giovane Pompeo; fu vanitoso sino al ridicolo, e di sua perfidia andò famigerato nella guerra di Augusto e di Sesto Pompeo. Orazio lo berteggia in una satira. Morì nella guerra che Ottavio sostenne contro gli Illirii.

193.  Geta è altro favorito, che eccitò sotto Nerone una sedizione a Roma. Di lui parla Tacito nel lib. II, cap. 72 delle Storie.

194.  Tizio, cavalier romano, preposto a guardia di Messalina. Di lui pure fanno menzione gli Annali di Tacito lib. II, cap. 35.

195.  Lib. VII, ep. 21.

196.  Lib. VII, ep. 24.

197.  Lib. XII, 18.

198.  Études de moeurs et de critique sur les Poètes latins de la décadence. M. D. Nisard. Bruxelles 1834.

199.  

..... Ascondere

Con segni intelligenti

I lusinghieri accenti.

200.  Cic. Pro Cælio. «Libidini, amori, adulterii, banchetti e commessazioni.»

201.  

I Bagni, i vini e Venere

Riducon l’uomo in cenere,

A’ mortali gradita

Fan nondimen la vita.

202.  

Vuoi tu forse ch’io segga in fra codeste

Prosede e avanzi d’Alicarie, amiche

A’ panattier’, sciupate e infette serve?

Pœnulus. Act. I, sc. 2, v. 53-55.

Noti il lettore come Plauto usi della parola scœno, invece di cœno, come dai Sabini si usava allora sostituire nella pronunzia la s al c. Così scœlum per cœlum, scœna per cœna. La medesima cosa si fa oggidì, in alcune parti d’Italia e massime in Toscana.

203.  

La Blitea è una sporca meretrice

La qual non pute che di vino.

204.  Il comico latino che di queste femmine se ne intendeva, nella già citata commedia del Pœnulus non dimenticò la scorta diobolaria, che retribuivasi di due oboli, che è la stessa moneta del dupondium, e a siffatte sciagurate accenna pur Seneca nel Lib. VI Controversiarum, in quel passo: Itane decem juvenes perierunt propter dupondios duos?

205.  

ARGIRIPPO

Non sono morto affatto, ancor mi resta

Qualche poco di vita, e quel che chiedi

Ancor darti poss’io; ma darò solo

Che tu rimanga in mio possesso e sappia

Che un anno intero tu mi serva e intanto

Presso di te nessun altro tu ammetta.

CLEERETA

E se tu il vuoi, quanti ho in mia casa schiavi

Evirerò; ma se d’avermi brami,

Il singrafo mi reca, e come chiedi

E come piace a te, dettane i patti:

Ma insiem portami il prezzo, agevolmente

Il resto accetterò. Son dei lenoni

Pari alle porte de’ gabellieri,

S’apron se paghi, se no, restan chiuse.

206.  

DIABOLO

Fra me, l’amica mia e la mezzana

Leggine i patti, perocchè poeta

In codesti negozi unico sei.

Suvvia, mostrami il singrafo che hai scritto.

207.  Pag. 70. Milano, Edoardo Sonzogno editore, 1872.

Non so trattenermi dal riferire un tale contratto, simile in tutto a’ singrafi di fedeltà di cui sopra è parola.

Gostanzo, il Procuratore, il secondo Notaio.

Pro. Presto, Alessandro, quei patti obbligatorî: state ad ascoltare.

Gos. Ascolto.

Ales. In Christi nomine amen. Millesimo quingentesimo quinquagesimo primo.

Pro. Etc. vieni al merito: lascia stare le clausole generali.

Ales. M. Gostanzo figliuolo di M. Massimo Caraccioli, parte una, e Madonna Andriana da Spoleti parte altera omnibus modis etc. etiam con consentimento di Madonna Dorotea sua figliuola, tutti presenti, e che accettano volontieri etc. son divenuti agl’infrascritti patti, videlicet che la detta donna Andriana lascerà Madonna Dorotea sua figliuola al detto M. Gostanzo un anno intero da star seco dì e notte.

Gos. A lui solo e non ad altri.

Pro. Gliel’aggiungo io. Presto, Alessandro.

Gos. Sì in ogni modo: vedete di grazia d’imbrigliami sì bene quest’asina, non le voglia il trarmi de’ calci.

Pro. Udite pur, seguita.

Ales. E che nel detto tempo non metta in casa nessun amico, parente, o innamorato suo antico, moderno, imaginario, quovis modo.

Gos. Se non me solo.

Pro. Intendo; che non dicesse poi che sete escluso ancor voi; passa oltre.

Ales. Non ricevi nè mandi lettera, non abbi in casa carta e inchiostro per scrivere; non tenghi ritratto degli innamorati vecchi, e passato il terzo giorno gli sia lecito impune et de facto abbruciarli; non vada a festa, a banchetti, nè a chiesa; non inviti nessuno a mangiare, non stia in porta, non facci trebbe, non guardi giù dalle finestre, non oda cantilene o sospir di gente che passi per la strada, e sia lecito al detto M. Gostanzo di chiuder le porte e tenerle chiuse quanto gli piace senza alcuna replica.

Gos. Oh mi piace; oh come va bene!

Pro. Aspettate pur, seguita.

Ales. Levi tutte l’occasioni di farlo sospettare; non calchi il piede a nissuno, non tocchi la mano, non pizzichi, non si levi, non si muova.

Gos. Piano, anzi voglio ch’ella si muova e scherzi meco in camera.

Pro. Con altri, con altri, s’intende.

Gos. Passate oltre.

Ales. Non alzi un occhio, non starnuti, non fiati senza suo consentimento, non rida dietro alla finestra a nessuno, non si lasci baciar la mano, o veder gli anelli, non facci cenno, non motteggi, non guardi, non mostri di tossir e quando è sforzata, non faccia vezzi nè favore a nessuno; di più non si finga ammalata per farsi ungere, stropicciare e sia lecito al detto M. Gostanzo durante il detto termine per qualsivoglia minima occasione di gelosia ch’ella gli dia, chiuder la detta Dorotea in camera, in cucina, in sala, di sotto, di sopra e in qual parte più gli piacerà della casa, quomodocunque et qualitercunque et ella accetti ogni cosa per bene.

Gos. Benissimo; ma voi mi lasciate il meglio e più importante.

Pro. Che cosa?

Gos. Preti, Frati, Scapuccini, Guastallini, Pinzocheri, Chietini, Giovanelli, Riformati, Gabbadei, Zoccolanti, Collitorti nè per confessione, nè per visita, nè per altro non mettano il piede in casa sotto alcun pretesto.

Pro. Buon ricordo per mia fè. Presto, Alessandro.

Gos. Aggiungeteglielo in ogni modo, perchè non sono al mondo lenoni più veementi di queste canaglie.

Pro. Mi meraviglio che la somma Orlandina non ne faccia menzione, donde ho cavato questo estratto. Hai spedito, Alessandro? seguita.

Ales. E che nel sopradetto termine la detta Andriana non abbi alcuna autorità in casa, ma si stia cheta e goda e taccia et attenda solamente a covar il fuoco, cuocer castagne, ber vin dolce, sputar nella cenere, e se pur vuol gridar gridi alla gatta, solleciti il desinare e si faccia legger dal ragazzo qualche leggenda; del resto lasci il dominio della casa in podestà del detto M. Gostanzo, sotto la pena di non ber vino, e di esser staffilata all’arbitrio del detto M. Gostanzo.

Gos. O buono! seguita.

Ales. Dall’altra banda sia obligato il detto M. Gostanzo numerargli subito, senza alcuna dilazione, sessanta scudi d’oro, de’ quali possono disporre a lor modo, senz’alcun obbligo di restituirli.

Gos. Andiam dentro.

208.  

Il pastor Coridon d’Alessi ardea,

D’Alessi bel fanciul, delizia prima

Del suo signor.

Egloga II. Tr. di Prospero Manara.

209.  Vedi Giornale degli Scavi, Nuova Serie n. 13, 1870.

210.  

Nè già di lei, che nuda il piè, calpesta

L’aspra selci, è miglior l’altra che ’l collo

Preme d’assiri lettighier giganti.

Satir. VI, 350. Tr. Gargallo.

211.  

L’ippomane, gli incanti, i beveraggi,

Colchici dovrò dir?

Sat. VI. 133. — Tr. Gargallo.

212.  «Porgi l’acqua fredda, o ragazzo.» Notisi il fridam per frigidam quanto s’accosti alla nostra parola fredda.

213.  «Una bianca m’apprese a odiar le brune.» Vedi Vol. I. Cap. Le Vie, ecc.

214.  «Agli uomini di Nola augurano felicità le fanciulle di Stabia.»

215.  Vedi Plauto: Asinaria Att. V, Scena 2, v. 76 e 84.

Ma dorme ancora il cuculo, o amatore,

Su ti leva e va a casa.

Il cocolo mio, vezzeggiativo delle amanti veneziane, ne sarebbe forse la traduzione e l’applicazione, senza l’idea del disprezzo?

216.  «Non è questo il luogo agli oziosi: passa oltre, o passeggiero.»

217.  

Così del fuoco di sozza lucerna,

Brutta e incrostata il viso, il tetro odore

Del bordello al guancial recò d’Augusto.

Giovenale, Sat. VI. 130-131. Trad. Gargallo.

218.  «E le misere madri di null’altro più pregavano se non che fosse loro concesso di raccogliere l’estremo sospiro de’ figli.»

219.  Trad. di Paolo Maspero.

220.  Æneid. Lib. IX. 486. 487:

Ed io tua madre,

Io cui l’esequie eran dovute, e ’l duolo

D’un cotal figlio, non t’ho chiusi gli occhi.

221.  Lib. III, v. 539-540.

Sol col tacito volto invoca i baci

E del padre la man che i rai gli chiuda.

222.  «Affermavano passarsi sotto terra l’altra vita dei morti.» Tuscul. 1, 16.

223.  

. . . . e con supremi

Richiami amaramente al suo sepolcro

Rivocammo di lui l’anima errante.

Æneid. Lib. III, 67, 68. Tr. Ann. Caro.

L’espression di Virgilio animam sepulcro condimus, resa letteralmente, appoggia meglio la credenza da noi riferita, ed io però tradurrei:

L’anima sua chiudemmo entro il sepolcro.

224.  La Cité Antique, Cap. 1.

225.  «I diritti degli Dei Mani sono santi: questi datici da morte abbiansi come numi e si onorino di spesa e di lutto.»

226.  Lib. II, 22.

227.  «Le anime di virtù maggiore si chiamano Mani, quelle che son nel nostro corpo diconsi Genii; fuori di esso, Lemuri; se infestano colle loro scorrerie le case, Larve; ma se pel contrario ci son favorevoli, si chiamano Lari famigliari.» De Deo Socratis.

228.  V. 91-96.

229.  Virgilio, lib. VI, v. 219:

. . . . intorno al freddo corpo intenti

Chi lo spogliò, chi lo lavò, chi l’unse.

Trad. Ann. Caro.

230.  Satira III. v. 261-267:

. . . . la buon’anima,

Che già siede novizia in riva a Lete,

Trema del tetro barcajuol, nè spera

Varcar su la sua barca il morto stagno;

Miser! nè il può senza il triente in bocca.

Tr. Gargallo.

231.  Storia Popolare degli Usi Funebri Indo-Europei. Milano, Fratelli Treves, 1873, pag. 19. — Perchè alla vera dottrina è sempre gentilezza d’animo congiunta, l’illustre scrittore mi volle onorato del dono di questa sua opera, che mi tengo cara e della quale pubblicamente il ringrazio. E come no, se a’ dì nostri solo compenso a chi si pasce di studio sono o la noncuranza o la calunnia? Oggi è vezzo di portar la politica anche ne’ giudizi letterarii, e chi non s’imbranca coi gerofanti della politica è punito colla cospirazione del silenzio.

232.  Satira III, v. 103-105:

Quindi le tube e le funeree cere.

Steso e beato alfin nel cataletto,

E d’aromi inzuppato, irrigiditi

Slunga vêr l’uscio i piè...

Tr. Vinc. Monti.

233.  

Di lutti non plebei teste il cipresso.

Pharsal. III, 442.

Spiacquemi non usar qui della versione notissima del conte F. Cassi, perchè in questo passo si cavò d’impiccio, col dire semplicemente i funebri cipressi.

234.  Virgilio, Æneid. Lib IV, v. 665-668:

. . . . In pianti, in ululati

Di donne in un momento si converse

La reggia tutta, e insino al ciel n’andaro

Voci alte e fioche, e suon di man con elle.

Tr. A. Caro.

235.  

. . . . Quiriti, a cui fa commodo

D’assistere alle esequie, è questa l’ora.

Phorm. 5. 8. 37.

Ecco per altro la formula più completa della convocazione al funerale: exequias... (E . G . LUCII. LUCII. FILII) quibus est comodum ire, tempus est: ollus (ille) ex ædibus effertur.

236.  «Io Sesto Anicio Pontefice attesto avere costui onestamente vissuto.» Bannier, Spiegazione delle favole.

237.  «Da qualche anno in qua non si offerse altro sguardo del popolo romano una pompa così solenne e memorabile, come i publici funerali di Virginio Rufo, non meno egregio ed illustre, che fortunato cittadino.» Lib. II. epist. 1, Tr. Paravia.

238.  «Detti furono siticini coloro che solevano cantare canti lamentevoli a titolo d’onore, quando a taluno si facevano i funerali e recavansi a seppellire.»

239.  

Le prefiche che seguano pagate

Nell’altrui funeral e piangon molto

E si strappano i crini e ancor più forti

Alzan clamori.

240.  Riti funebri di Roma. Lucca, 1758.

241.  

Spargete lagrime,

Querele alzate,

Lutto e gramaglie

Or simulate,

Del triste coro

Echeggi il Foro.

242.  In Vespasianum, 19.

243.  Lib. II, Eleg. XIII:

Tu verrai dietro lacera

E petto ignudo e chiome,

Nè cesserai ripetere

Del tuo Properzio il nome.

Tr. Vismara.

244.  Annali, III, 2.

245.  «La nostra prosapia di tal guisa congiunge alla santità dei re, che assai possono in mezzo agli uomini, la maestà degli dei che sono i padroni dei re.» Svetonio, In Cæs. VI. Giulio Cesare da parte di madre si diceva discendere da Anco Marzio, re.

246.  Pag. 83.

247.  La legge vietava la cremazione del cadaveri in città a prevenire gli incendj. La basilica Porcia di Roma infatti erasi incendiata per le fiamme dal rogo di P. Clodio.

248.  

Sul freddo labbro gli ultimi

Baci tu allor porrai

Quando versar dall’onice

Assiri odor vedrai.

Id. Ibid.

249.  «Addio: noi ti seguiremo tutti nell’ordine nel quale la natura avrà voluto.»

250.  Lib. IV. Eleg. VII:

Perchè il favor su la mia pira, o ingrato,

Non invocar del vento?

Perchè non arder su l’estremo fato

Stilla di caro unguento?

E t’era grave ancor non compri fiori

Gittar sul mio feretro,

E al cenere libar del vin gli onori

Da lo spezzato vetro?

Trad. Vismara.

251.  Phaleræ. Erano piastre d’oro, d’argento o altro metallo lavorate che si portavano sul petto, come attesta Silvio Italico nell’emistichio:

. . . . phaleris hic pectora fulget,[252]

da persone di grado, che venivano accordate per fatti di valore, come si farebbe oggidì colle decorazioni cavalleresche. Erano anche bardamenti di cavalli.

252.  «Di falere ha costui splendido li petto.»

253.  

. . . . . Altri gridando

Le pire intorno, elmi, corazze e dardi

E ben guarnite spade e freni e ruote

Avventaron nel fuoco e de’ nemici

Armi d’ogni maniera, arnesi e spoglie;

Altri i lor proprii doni, e degli uccisi

Medesmi vi gittar l’armi infelici

E gli infelici scudi, ond’essi invano

S’eran difesi.

Lib. XI, 193-196. Tr. Caro.

254.  Libro XXIII, 257-265. Trad. V. Monti.

255.  

. . . . . in ordinanza

Tre volte armati a pie’ la circondaro

E tre volte a cavallo, in mesta guisa

Ululando, piangendo, e l’armi e ’l suolo

Di lagrime spargendo.

Lib. XI, 188-190.

256.  Annal. Lib. II. VII. Il Davanzati così traduce: «Nè Cesare combattè gli assedianti (i Catti), perchè al grido del suo venire sbandarono, spiantato nondimeno il nuovo sepolcro delle legioni di Varo, per onoranza del padre si torneò.» In nota a questo passo, Enrico Bindi, nell’edizione del Le Monnier 1852 vol. I. p. 65, pose: «Di questo costume antichissimo detto decursio, vedi Senofonte nel sesto di Ciro, Dione, 55; Svetonio in Nerone. Il Lipsio cita Omero, Virgilio, Livio, Lucano e Stazio.»

257.  Sat. Lib. I Sat. 8:

. . . . il camposanto

De la plebaglia...

Così traduce il Gargallo: ma non aveva proprio altro vocabolo da sostituire a quello che la religion nostra ha consacrato?

Non potevasi, a mo’ d’esempio, esser più fedeli all’originale traducendo:

Alla misera plebe era codesto

Il comune sepolcro?

258.  Gruter, Iscriz.:

Sull’ossa tue io verserò quel vino,

Che non bevesti mai, giovanettino.

259.  Dizionario delle Antichità, alla voce Patera.

260.  V. 124-129.

261.  Epist. Ex Ponto, 1, Lib. III:

Uopo è che i corpi esangui ai mesti roghi,

Vengano dati.

262.  

. . . . E di natura impero

Ma il pianto impon, se di fanciulla adulta

C’incontriam ne l’esequie, e se bambino,

Negato al rogo da l’età, si infossa.

Tr. Gargallo.

263.  Pha. Hist. Nat. VII, 15.

264.  Hist. Nat. Lib. II, 55. «Non è lecito ardere un uomo privato in questo modo di vita; la religione ci tramanda doversi seppellire sotto terra.»

265.  La peine de mort, 1871.

266.  Il mio dotto amico dott. Gaetano Pini, fra i più strenui propugnatori della cremazione, perchè la conferenza del 6 aprile riuscisse di pratico vantaggio, propose il seguente ordine del giorno, che ne concreta lo scopo e che venne unanimemente accolto. «L’Assemblea fa voti che nella prossima discussione, la quale avrà luogo in Parlamento, intorno al progetto del nuovo Codice sanitario, già approvato dal Senato del Regno, venga ammesso all’art. 185, come facoltativa, la cremazione dei cadaveri, lasciandone ai sindaci dei Comuni la sorveglianza.» L’altro amico mio, Mauro Macchi, deputato, promise appoggiare tale mozione in Parlamento.

267.  Sat. VI, 33 e segg.

La cena

Funebre irato obblia l’erede, e fetide

Dà l’ossa all’urna, il cinnamo svanito

Non curando, e le casie ammarascate.

Trad. V. Monti.

268.  Vedi Cicerone, De Legibus. Lib. 2, c. 55.

269.  «Essersi sovente ascoltati uomini preclari della nostra città avvezzi a dire: allorquando vedevano le immagini de’ maggiori, queste gagliardissimamente accendere l’animo loro a virtù: vale a dire non tanta efficacia aver quella cera o figura, quanto crescere in petto agli egregi uomini la memoria delle loro gesta con ardente incitamento, nè questo mai sedarsi, finchè la loro virtù non ne abbia raggiunta la fama e la gloria.»

270.  Vv. 151-152.

271.  Vv. 99-100.

272.  

Dal portar dono ai morti il nome prese

Di Feralia quel dì.

Fastorum. Lib. II. Tr. Bianchi.

273.  Fasti. Lib. II:

Hanno il suo onore anche i sepolcri: imponi,

L’ombre avite a placar, qual che tu sii,

Sul rogo alzato non pregiati doni.

Poco chieggono i Mani: ufficii pii

Presso loro a un gran dono han peso eguale.

Non ha la bassa Stige ingordi iddii.

Ad appagar lor brame un coccio vale

Di serti a biotto ivi gettati ornato,

E sparse biade intorno e poco sale:

E sciolte vïolette e pan bagnato

Nel vin pretto: abbia pur cose sì fatte

Il coccio in mezzo della via lasciato.

Nè vieto il più; ma queste ancor sono atte

L’ombre a placare: al posto altar vicino

Aggiunger dei preci e parole adatte.

Tr. G. B. Bianchi.

274.  «Cena ferale in picciola scodella.» V. 85.

275.  Orazio, Lib. III, Od. XIV.

. . . . Di fresche spose o nuova

Schiera, o fanciulli, il vostro infausti detti

Labbro non muova.

Trad. Gargallo.

276.  

Vedrò almen ciò che dir mi fia permesso

Di color le cui gelide faville

La via Flaminia e la Latina asconde.

Trad. Gargallo.

277.  «Così i monumenti sepolcrali, acciò ammoniscano coloro che passano lungo la via sè essere stati, ed essi essere parimenti mortali.» De Lingua Latina, Lib. VI, 1, 5.

278.  

Tolgalo il ciel dal collocar mia fossa

Lungo il rumor di popoloso calle

Che turbi il sonno a le mie placid’ossa.

Così degli amator l’alme più fide

E le tombe si fan favola al vulgo

Che gusta i nomi più famosi e ride.

Copra me pure in solitario canto

Terren, defunto, e sovra lui distenda

Arbor frondosa di bell’ombra il manto:

Me ancor di sabbia inosservato acervo

Chiuso a le belve: sol che il nome mio

Non sia bersaglio al passeggier protervo.

Lib. III, Eleg. 16, vv. 25-30.

Trad. Vismara.

279.  

. . . . ecco, una mano

De’ miei resti sostiene il pondo intero.

Lib. IV, Eleg. XI. — Trad. id.

280.  «Taluno costituiva a sè ed alla propria famiglia.»

281.  «Quelli che il padre di famiglia acquistò per sè e suoi eredi, o per diritto ereditario.»

282.  «Questo monumento non segue gli eredi; o non passa agli eredi.»

283.  Lib. I. Sat. 8:

Mille il ceppo da fronte e lungo l’agro

Piedi trecento ivi assegnava: esclusi

Dal monumento rimanean gli eredi.

Trad. Gargallo.

284.  I Sepolcri, v. 101-103.

285.  Vv. 114-117; 124-125.

286.  Fu riprodotta la bella memoria del Carrara dal Giornale del Tribunali di Milano, Anno II, N. 225 e 226, ossia 20 e 21 settembre 1873.

287.  «Marco Cerrinio Restituto, Augustale, in terreno concesso da decreto de’ Decurioni.»

288.  «Ad Anio Vejo di Marco, Duumviro per la giustizia, quinqueviro per la seconda volta, tribuno de’ soldati eletto dal popolo; per decreto de’ Decurioni.»

289.  «A Mammia figlia di Publio (oppure di Porcio se il monumento vicino è di suo padre o d’alcuno della sua famiglia) sacerdotessa pubblica, luogo di sepoltura dato per decreto de’ Decurioni.»

290.  «Questo spazio di venticinque piedi quadrati fu accordato a Marco Porcio figlio di Marco per decreto de’ Decurioni.»

291.  «Mi sia il nuovo anno fausto e felice.»

292.  Ep. 1, lib. 2. Vedi anche la lettera sua a Marco Mario, Epist. 3, lib. 7.

293.  «Ad Aulo Umbricio Scauro Menenio figlio di Aulo, duumviro di giustizia, i Decurioni decretarono il collocamento d’un monumento, duemila sesterzi[294] pe’ suoi funerali e una statua equestre nel foro. Scauro padre al proprio figlio.» Taluni, in luogo di Umbricio, la incompleta parola ...RICIO, lessero per Fabricio; altri per Castricio: io ho seguito chi lesse Umbricio.

294.  Appena questa somma, che corrisponderebbe a 400 lire, poteva bastare alla spesa del rogo e della cerimonia funebre. Certo le altre spese, come i ludi gladiatorj, sarannosi sopportati dalla famiglia.

295.  «Al genio protettore di Tiche venerea di Giulia figliuola d’Augusto.»

296.  

Oggi, o Giunone, nel tuo dì natale

Accogli i santi dell’incenso onori

D’un’esperta fanciulla e genïale.

Mia trad.

297.  Tab. 10, n. 1, e 2.

298.  Lib. XVI degli Annali. Trad. Davanzati.

299.  «Servilia all’amico dell’anima.»

300.  «A Cajo Calvenzio Quieto Augustale, venne per la sua munificenza concesso da decreto dei Decurioni e per Consenso del popolo l’onor del bisellio.[301]»

301.  Questa munificenza non lascerebbe supporre che avesse comperato l’onor del bisellio? Stando a un’iscrizione edita da Grutero, un C. Titus Chresimus a Suessa l’avrebbe pur comperato col dono di mille sesterzi, pari a L. 200.

302.  «A N. Istacidio Eleno maestro del Borgo Augusto.» «A N. Istacidia figlia di Scapido.»

303.  «A N. Istacidio Eleno maestro del Borgo Augusto.» «A Istacidio Gennaro.» «A Mesonia Satulla. In profondità 15 piedi; di fronte 15 piedi.»

304.  Vol. I. Capit. IV, pag. 101.

305.  «Cajo Munazio Alimeto visse anni 57.»

306.  «A Marco Allejo Lucio Libella padre, edile, duumviro, prefetto quinquennale ed a Marco Allejo suo figlio, decurione che visse diciassett’anni. Il suolo pel monumento è stato loro publicamente concesso. Alleja Decimilla figlia di Marco, sacerdotessa publica di Cerere, lo fece erigere allo sposo ed al figlio.»

307.  «Se vuoi esserlo in Roma, otterrai: in Pompei è malagevole cosa.»

308.  «A Lucio Cejo figlio di Lucio, Menenio: a Lucio Labeone per la secondo volta duumviro di giustizia e quinquennale, Menonaco liberto.»

309.  Pompeja. Pag. 92.

310.  Pompei descritta da Carlo Bonucci.

311.  «M. Arrio Diomede liberto di ... Maestro del sobborgo Augusto Felice, alla sua memoria ed a quella de’ suoi.»

312.  Paradiso XVII: 130.

313.  Ho già ricordato e circondato di somma lode in questa mia opera il romanzo storico di Luigi Castellazzo, che si ascose sotto il pseudonimo di Anselmo Rivalta, dal titolo Tito Vezio: ebbene qui m’occorre di rammentarlo ancora come quello che con tale suo magnifico lavoro pose in bella e appassionata azione la vita pubblica e privata de’ Romani. Coloro che si faranno a leggerlo — ed io auguro che meglio sia conosciuto dagli italiani senza abbadare alla irruente consorteria che tenta mettere lo spegnitoio sugli ingegni e sulle opere di chi non è di sua parte, poichè il Castellazzi è strenuo campione della italiana democrazia — oltre l’ognor crescente diletto, vi raccoglieranno messe di ottimo insegnamento.

314.  Gerusalemme Liberata. C. I, st. 3.

315.  Chateaubriand aveva già raccolto la censura da molti fatta al sistema di tutto quanto asportare e chiudere nei musei che si rinvenga d’interessante negli scavi. «Ce que l’on fait aujourd’hui me semble funeste, ravies à leurs places naturelles, les curiosités les plus rares s’ensevelissent dans des cabinets, ou elles se sont plus en rapport avec les objets environnants» (Voyage en Italie vol. XIII pag. 88). Ma poi il medesimo autore, immemore di questa sua censura, sulla fine dello stesso volume, così mostra l’inconveniente dell’opposto sistema che sembrava aver egli suggerito nelle sue prime parole. «Quelques personnes n’avoient pensé qu’au lieu d’enlever de Pompei les diverses objets que l’on y a trouvés, et d’en former un museum a Portici, l’on auroit mieux fait des les laisser à leur place: ce qui auroit représenté une ville ancienne avec tout ce qu’elle contenoit. Cette idée est spécieuse et ceux qui la propoient n’ont pas réfléchi que beaucoup de choses se seroient gatées par le contact du l’air, et qu’indépendamment de cet inconvénient on aurait couru le risque de voir plusieurs objets dérobés par des voyageurs peu délicats: c’est qui n’arrive que trop souvent.» A tuttociò si cercò d’ovviare col mettere in Pompei talune opere in copia, trasportando nel Museo gli originali.

316.  I Sepolcri, v. 231.

317.  Ercolano e Pompei.

318.  Appendice al Capitolo XVIII.

319.  Così ne resero conto i Soprastanti agli Scavi nella loro Relazione ufficiale dei lavori eseguiti dal 1 novembre al 31 dicembre 1868.

«19 (novembre). Proseguendosi tuttora lo scoprimento della su cennata località, nella penultima di esse, accosto al muro esterno, ed all’altezza di circa quattro metri dal pavimento, si è rinvenuta una testa virile in marmo di grandezza naturale, scheggiata al naso ed alle orecchie...

«24. Nella stessa località indicata il giorno 19, all’altezza di circa tre metri dal suolo, si è rinvenuta un’altra testa virile in marmo, anche di grandezza naturale, un poco scheggiata al naso, e mancante della parte anteriore del collo, ov’era stata restaurata dagli antichi, osservandosi un pernetto di bronzo che sosteneva il pezzo che manca.» Giornale degli Scavi. Nuova serie, n. 5, p. 119.

320.  Plutarco. Vita degli uomini illustri, vol. 4. Vita di Pompeo. Versione italiana di Gerolamo Pompei.

321.  Vell. Paterc. Lib. II; Plin. Hist. Nat. lib. VII, cap. 10.

322.  Il Conte Cassi, parafrasando al solito, così rende questi versi del libro II. 728-730.

Ma suo (della Fortuna) malgrado ancor se’ Magno. E mentre

Te e la tua donna, e i figli tuoi percuote

Un bando indegno, in ogni cor dimori

Con pietosa memoria: e in quel che cerchi

Un rifugio fra l’armi a’ tuoi penati.

In sulla poppa stessa ove t’assidi,

Esule glorioso, a te fan cerchio

I Consoli, il Senato, Italia e Roma,

E ovunque movi è a te seguace il mondo.

323.  Id. Vita di Marco Bruto; vol. 5.

324.  Id. ibid.

325.  Ad Atticum; lib. XIV, ep. I.

326.  Paris, Librairie Hachette, terza ediz. 1874.

327.  Nuova Serie n. 6, pag. 133.

328.  Appendice al Capitolo primo.

329.  Volume I, pag. 38.

330.  L’incendio vesuviano del 25 aprile 1872. Conferenza, ecc. — Napoli Stabilim. Tip. Partenopeo 1872.

331.  Il Piccolo di Napoli del 26 Aprile 1872.

332.  Incend. Vesuv. pag. 11.

333.  Napoli. Stamperia del Fibreno, 1873.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.