Title: Storia degli Italiani, vol. 10 (di 15)
Author: Cesare Cantù
Release date: June 2, 2023 [eBook #70898]
Language: Italian
Original publication: Italy: Unione Tipografico-Editrice
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)
STORIA
DEGLI ITALIANI
PER
CESARE CANTÙ
EDIZIONE POPOLARE
RIVEDUTA DALL'AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI
TOMO X.
TORINO
UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
1876
[1]
La vitalità de’ tempi repubblicani sopravvivea, portando all’attività e alla creazione; mentre dai modelli classici, che allora o si discoprivano, o meglio fissavano l’attenzione, imparavansi eleganza e correttezza. Da questo felice temperamento trae carattere il secolo di Leon X; secolo di tante miserie per l’Italia, eppure di bocca in bocca qualificato come d’oro, come un meriggio, sottentrato alle tenebre del medioevo: ma l’altezza a cui si spinsero le arti del disegno e quelle della parola, anzichè creazione de’ Medici, fu effetto dell’antica vigoria, che agitava l’Italia anche sul punto di perire.
Il bisogno di contemplare e imitar la bellezza visibile siccome scala alla suprema e immutabile, e di farla specchio alla coscienza meditatrice, alimentò sempre le arti fra noi: tanto che, ridotte quasi una parte della liturgia, si prefiggevano certi tipi e forme rituali, volendo esprimere piuttosto la visione dello spirito che la corretta imitazione della natura, raggiungere l’evidenza efficace dell’emblema piuttosto che la squisitezza della forma; piuttosto ispirare devozione e raccoglimento, che destare vaghezza e meraviglia; atti di fede insomma, meglio che prove d’abilità. All’ispirazione accoppiasi poi lo studio; dalle immobili rappresentazioni [2] bisantine si passa alle libere e variate d’un’arte indipendente, la quale infine prevalse fin a proporsi anzitutto la plastica squisita, lasciva però di sembianze, scarsa d’affetto; traducendo la realtà della fisica, non interpretando i misteri della morale natura. Infine si torna a tipi convenzionali, non desunti dalla liturgia, ma da un maestro; e l’imitazione vaga o servile scostasi dal vero e dal bello, mentisce alla natura, mentre lascia perire ogni tradizione.
L’arte che il medioevo esercitò insignemente è l’architettura, mantenendole il predominio sopra le altre. L’ordine gotico, nato a piè degli altari, era giganteggiato in erigere chiese e conventi, sede e simboli della podestà preponderante allora; e il duomo di Milano, la Certosa di Pavia, San Petronio di Bologna ne sono tardi e insigni monumenti. Ma oggimai la civiltà e ricchezza de’ laici aumentate domandavano edifizj, che non potevano improntarsi di quel carattere jeratico; e come le lettere rifaceano i classici, così nelle costruzioni cominciò quel ritorno verso l’antico, che s’intitola risorgimento. Se la originale inventiva si fosse attemperata ai modelli antichi per ragionare meglio l’insieme, proporzionare le parti, ingentilire gli ornamenti, poteva uscirne un’arte cristiana e nazionale. E di fatto que’ nostri che primi si conformarono ai modelli dell’antichità, non rassegnaronsi alla servile imitazione; ma appurando la parte ornamentale, sbizzarrirono in modiglioni, candelabri, gemme e marmi colorati, ed animali e fiorami finissimi, intrecciati a fantastiche capresterie, dette grotteschi e arabeschi. Tali occorrono spesso a Venezia, tali ne’ Miracoli di Brescia, nel mausoleo Coleoni a Bergamo, sulle cattedrali di Como e di Lugano, nella Certosa di Pavia: e fregi a porte, a pulpiti e pilastri, e candelabri in luogo di colonne, e finestre a somiglianza di compiuti edifizj sono finiti col fiato, anche se in [3] posizione meno visibile; sempre di gusto squisito, anche quando d’artefici innominati: l’eleganza delle impronte rileva l’umiltà della terra cotta, della quale si compiacquero i quattrocentisti, e che resistendo al tempo meglio che la pietra, unisce alle variate forme quell’apparenza policromatica, che solo gli accademici sentenziarono di barbarie[1].
Dell’architettura romana, la quale attestava la maestà del gran popolo più originalmente che nol facesse la letteratura, non crederà che avessimo smarrite le tradizioni chi abbia posto mente alle costruzioni gotiche: pure al fiorentino Filippo Brunelleschi (-1444) assegnano il merito d’aver ricondotta quell’arte dall’immaginazione all’intelligenza, migliorata col volgere de’ secoli. Di Roma non istudiò soltanto gli avanzi classici, per rinnovare i calcoli delle forze, de’ materiali, delle spinte, e trarne esatto concetto de’ metodi di costruire, e di quel punto ove confinano l’ardimento e la temerità; ma meditò pure sui monumenti cristiani, e cercò la divina melodia del ritmo visibile.
L’appello fatto dai Fiorentini agli architetti d’ogni paese per voltare la cupola sopra Santa Maria del Fiore, lasciata scoperta da Arnulfo, fece sottigliare gl’ingegni; e che bizzarri spedienti non furono suggeriti! Uno diceva di ergere in mezzo un pilastro, cui attaccare le volte a maniera di padiglione; uno di empiere la chiesa di terra, con monete per entro, affinchè l’avidità di trovare queste inducesse a sgombrarla dopo cessatone il bisogno; e tali altri armeggiamenti, che, forse abbindolati dai cortigiani de’ Medici, furono raccolti dal Vasari. Vero è che nessuna cupola fin allora avea coperto un ottagono del diametro di quarantatre metri. Nelle antiche [4] del Panteon, della Minerva Medica, delle terme imperiali, della villa Adriana, la calotta posa immediata sopra i muri di sostegno, senza pennacchi. La cupola di San Marco a Venezia misurava il diametro di quattordici metri, di diciotto quella di Siena, minore la pisana; tutte poi erano circolari, elevate sovra pendenze, che ripartivano il loro peso sui punti d’appoggio, disposti secondo il quadrato circoscritto al circolo della base. I concorrenti conosceano le forme, gli effetti, il pittoresco dell’architettura, non i mezzi scientifici di costruzione, ed ajutavansi con rinfranchi esterni; mentre il Brunelleschi ideò una mole che si reggesse da sè, e invece di rinunziare all’arco acuto, conquista del medioevo, comprese come la spinta in su venga corretta dalla sovrapposta lanterna, e da quella massa di marmo ne derivi la solidità. Vinte l’invidia oculata e la miope diffidenza, s’accinse attentissimo all’opera[2]; sopra gli archi d’Arnolfo elevò un tamburo alto otto metri, e con aperture circolari, sicchè la volta insistesse sopra i sostegni con doppio sistema d’arcate; una calotta esteriore incatenavasi all’interna con una robustezza qual non raggiunsero altre, benchè minori. Dal calcolo scientifico doveva scaturire la forma artistica e quel grandeggiare maestoso, che sembrava privilegio delle guglie gotiche; e ancora la casa di Dio sovrastette alle abitazioni degli uomini, e costituì la fisionomia della città.
È del Brunelleschi anche Santo Spirito, la più bella chiesa di Firenze, ideata sulle basiliche antiche: in San [5] Lorenzo, già avviato su piano timido, piegò il contorno delle cappelle fin a terra, gotico avvedimento, dissonante dal resto. Le costruzioni appropria alla destinazione senza arroganza, con più severità che grazia, più armonia nell’insieme che nei particolari. Cosmo de’ Medici, che, colla spesa di centomila scudi romani, gli aveva già commesso la badia a Fiesole, il richiese di un palazzo; ma trovò il disegno troppo magnifico per un privato qual egli voleva parere. Non se ne fecero riguardo i Pitti, e sul suo modello fabbricarono quel che oggi ancora stordisce per una forza come di costruzioni ciclopiche, con bugne non interrotte per centottanta metri, senza studio di gentilezza e varietà.
Cosmo preferì il disegno di Michelozzo (palazzo Riccardi), il quale accoppiò il lusso alla solidità, conservando le bugne ma variando il prospetto esteriore, e nell’interno distribuendo con opportuna magnificenza gli appartamenti; ed oltre il palazzo Cafagi a Mugello, uno a Fiesole, quel de’ Tornabuoni a Firenze, e la villa di Careggi, disegnò un ospedale per Costantinopoli, un acquedotto per Assisi, la cittadella di Perugia, la biblioteca di San Giorgio a Venezia, a Milano una porta in via dei Bossi, tutti per Cosmo, di cui pure fece la tomba ne’ Serviti.
Leon Battista Alberti fiorentino (n. 1401), bello, robustissimo, destro a giuochi, a cavalcate, alla musica, versatissimo nel diritto civile e canonico, autore del Philodoxeos, commedia che fu creduta antica, dettò libri latini e italiani sul dipingere; dei ritratti reputava merito primo la somiglianza, onde ne cercava il giudizio a’ bambini. Avendo l’accorgimento d’imparare dagli ignoranti, travestito girava le botteghe, informandosi dell’arti e involandone i segreti per migliorarle. Fece una cassa, in cui guardando per breve pertugio vedeansi monti e piani e notturni aspetti di costellazioni; cioè la camera [6] ottica, che suole attribuirsi a Giambattista Porta. Elaborò Vitruvio, malconcio dal tempo e dai copisti; e conoscendo che il migliore commento n’erano gli antichi edifizj, andò ad osservarli, disegnarli, misurarli per tutta Italia, viaggiando con Lorenzo Medici, Bernardo Rucellaj, Donato Acciajuoli; e riscontrate le teoriche dell’arte, ne scrisse pel primo (De re ædificatoria, 1485).
Era però rimasto inedito un trattato di Averulino Filarete fiorentino verso il 1450; il quale nel divisare una città non perde mai di vista il concetto simbolico, e il Nisi dominus ædificaverit civitatem. Fa la chiesa in forma di croce con cupola e decorazioni a modo del San Marco, e vuole che, come l’uomo, sia bella, utile, perpetua. La casa del principe resti inferiore, ma più ricca di pitture religiose, simboliche, allegoriche, storiche, sicchè egli ritragga continue istruzioni sui proprj doveri verso Dio, verso i popoli, verso se stesso: v’avrà un portico per la storia sacra, uno per la profana, e tutto dai migliori pennelli. Vicino staran le memorie degli eroi cristiani, cioè le chiese de’ santi Francesco, Domenico, Agostino, Benedetto, e una casa di Carmelitani, una di Clarisse. Vengono poi gli ospizj in forma di croce; la casa d’un patrizio, quadrata con una torre a ciascun angolo; e circo, e porta, e anfiteatro, e ponte, e una carcere dove tenere i condannati, invece di farli morire; e un ginnasio per la gioventù, che principalmente venga avvezzata alla preghiera, al digiuno, ai sacramenti. Le fanciulle s’insegnino a cucire, filare, tessere, ricamare. La città, oltre le fortificazioni, avrà sentinelle avanzate che la custodiscano coll’arma migliore, la preghiera; cioè santi eremiti.
Tali concetti mistici cedevano all’arte più materiale; e l’Alberti, occupati i primi libri intorno al terreno, alle misure, ai materiali, agli operaj, ai modi di costruzione, alle cerimonie degli antichi, nel quinto dà norme [7] pei castelli dei cattivi e i palazzi de’ buoni principi, per tempj, accademie, scuole, spedali e gli altri edifizj civili e militari, campagnuoli. Empiono il sesto la storia dell’arte, e la scienza delle macchine; il settimo gli ornamenti architettonici, in particolare per le chiese. Nell’ottavo son notevoli le sue idee religiose e morali intorno alle tombe; nel qual libro e nel nono informa delle vie, de’ sepolcri, delle piramidi e d’altri pubblici edifizj, e sul decorare i palazzi. L’ultimo s’aggira sulle acque: ed a lui crediam dovuto l’ingegno delle chiuse o conche, non a Leonardo da Vinci, nè a Dionigi e Pierdomenico Orologieri di Viterbo, poichè esso le descrive quali appunto oggi le usiamo, e non come trovato nuovo[3].
Semplicità, grandezza, variata invenzione, solido costruire, convenienza d’ornamenti egli aveva imparato dagli antichi, se non la castigatezza. Dei principi favorito, non cortigiano, gli innamorava del bello. Dal signore di Mantova, cui la protezione delle arti valse il titolo di Augusto, applicato a molti lavori d’architettura in quella città già ricca di opere antecedenti, disegnò San Sebastiano [8] a croce greca (1460), e Sant’Andrea (1472), regolare di pianta e ben distribuita; imitato nella facciata l’arco di Rimini, nell’interno volea dar lume soltanto dalle finestre della facciata, della cupola e dello sfondo del coro, siccome egli avea dimostrato convenire agli edifizj religiosi. Da Nicola V fu molto adoprato a Roma; a Firenze fece la porta di Santa Maria Novella, il palazzo Rucellaj colla loggia rimpetto, e migliore quella dell’altro palazzo Rucellaj strada della Scala, ove non voltò l’arco sopra colonne, il che tenne pure nella cappella d’essa famiglia in San Pancrazio.
Sigismondo Malatesta, che ornava Rimini col fiore d’uomini e donne e colle arti, destinò alle ceneri degli illustri la chiesa di San Francesco, già ben avanzata alla gotica, e con altissimi pilastri tripartiti, a teste d’elefanti, e nicchie ed altri fregi di eletto lavoro. L’Alberti, chiamato a ridur quella fabbrica, cercò dare maestà all’insieme, rialzando con uno stilobate e guidando lunghe linee di portico, le quali ai lati sono interrotte da sarcofagi, lavorati alla classica.
Simile mistura del classico col gotico ricorre nel palazzo d’Ancona, e a tacere altri, nell’ospedale di Milano, condotto dal Filarete con egregia distribuzione e proporzioni[4], e con finestre gotiche a fregi classici. La quale unione del pieno sesto coll’acuto, dell’arte medievale colla romana e con ricchi ornati di cotto, ove, pretendendo rifarsi all’antico, si secondava però l’alito nuovo e cercavasi l’effetto pittoresco delle masse, forma un genere più proprio della Lombardia.
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Lo intitolano bramantesco, da un Bramante, di cui e casato e patria e tempo sono mal sicuri: nè è fuori probabilità che vengano attribuite ad un solo le opere di tre, o natii od oriundi milanesi. Finchè il dubbio non sia chiarito, ripeteremo colla vulgata che Bramante de’ Lazzari d’Urbino (1444-1514?), da Lodovico Moro chiamato a Milano, vi eseguì l’elegante canonica di Sant’Ambrogio, la pittoresca cupola delle Grazie, il cortile peristilo di San Celso, il Lazzaretto, la sacristia di San Siro, e a Pavia la chiesa di Canepanuova. Serbando dell’architettura gotica l’indipendenza, la sveltezza ardita delle elevazioni, la maestria delle volte, dai classici deduceva l’euritmia, la decorazione regolata, che accompagna la costruzione senza mascherarla, e la prudente scelta delle proporzioni, che dà rilievo ai più semplici edifizj. Così fosse rimasto più fedele al medioevo, anzichè surrogare simboli, allegorie, teste ideali alle sante sembianze! Chiamato a lavorare a Roma, i diruti della villa Adriana e le vestigia antiche della Campania lo resero più severo nel palazzo della Cancelleria, nel tempietto a San Pietro Montorio, nel chiostro della Pace, ove però non si fece scrupolo d’interporre una colonna sul falso ai pilastri del secondo ordine troppo distanti: come alla Consolazione di Todi, croce greca di quattro tribune semicircolari, variò ne’ capitelli e negli ornamenti. Alessandro VI gli fece eseguire la fontana di Transtevere e quella di San Pietro ed altri lavori. Giulio II gli diè campo di giganteggiare in Vaticano, dove la valle fra il palazzo e i due casini del Belvedere ridusse a cortile, dissimulando la china con ingegnosa combinazione di terrazzi e scale; e vi diede aspetto teatrale mediante due ale di gallerie, svolgentisi per trecencinquanta metri; a un estremo del cortile la gran nicchia con galleria circolare; all’altro un anfiteatro per giuochi.
La scala spirale, sostenuta da colonne di ordini succedentisi, [10] è accessibile sino a cavalli. Ma, forse per secondare la furia di Giulio II, talvolta difettò di solidità.
Gli fan merito dei ponti da fabbrica sospesi, non attaccati alla volta; e delle centinature portanti l’impronta de’ rosoni, che così trovatisi begli e finiti, e incorporati colle volte. Scriveva e improvvisava versi; onesto e retto, amò gli emuli, incoraggiò i talenti nuovi. Il suo allievo Ventura Vitoni pistojese in patria eseguì il gentilissimo tempio ottagono dell’Umiltà, che, quantunque poi guasto dal Vasari, forma la compiacenza di quella città, ricca d’altri monumenti sì romanzi sì del risorgimento.
Scolaro del Bramante s’intitola Cesare Cesariano milanese (-1542), che primo vulgarizzò ed illustrò Vitruvio, pretendendo riscontrarne le regole negli edifizj gotici. Con più bizzarra idea Francesco Colonna, nato a Venezia da famiglia lucchese, volle rendere famigliari le dottrine di Vitruvio, mediante uno strano romanzo (Cap. CXXI, fine), dove illustra molte antichità, iscrizioni e pietre incise. Anche frà Giocondo veronese commentò l’architetto latino ed altri scrittori d’arte, quali Frontino, Catone, Cesare, Aurelio Vittore, l’Ossequente, e venne in riputazione nel fabbricare ponti, come forse a Verona quel di pietra, e a Parigi il Piccolo e quel di Nostra Donna di sasso a pieno sesto[5]; ove pure fece la corte dei Conti, la villa di Gaillon, e forse quella di Blois. Di Venezia specialmente ben meritò, sia fortificandola contro la lega di Cambrai, sia regolando il Brentone; divisò un bel ponte colle fabbriche a Rialto: ma avendo i soliti intrighi fatto preferire lo Scarpagnino, egli indispettito migrò a Roma, dove, morto Bramante, fu posto architetto di San Pietro[6].
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Di Giuliano da Majano è il palazzo a Roma ordinato da Paolo II e da lui regalato a Venezia, estesissimo e pesante, con grandiosi compartimenti: come anche Poggio Reale presso Napoli, con giardini, boschetti, giuochi d’acqua, insidie d’uccelli, e quanto può lusingare una regia residenza. Benedetto, suo fratello ed ajuto, fece lavori di tarsia, e l’altare dell’Annunziata a Montoliveto nella stessa città; operò alla corte di Mattia Corvino in Ungheria; a Firenze eseguì il pulpito in Santa Croce colla storia di san Francesco, e cominciò il palazzo Strozzi, finito da Simone Pollajuolo, detto il Cronaca, il quale vi pose il cornicione più bello che ancor siasi eseguito. Al Cronaca deve pure Firenze la elegante sacristia ottagona di Santo Spirito, il salone dei Cinquecento, ed il San Francesco al Monte.
Non ancora si erano segregate le tre arti del disegno, e in tutte dovea valere chi alto aspirasse. Andrea Orcagna alle pitture sottoscriveasi sculptor, alle sculture pictor, e fu inoltre poeta, architetto, orafo; raccomandò il suo nome alla loggia dei Lanzi, che, se girasse l’intera piazza, non avrebbe la pari al mondo; ai Novissimi del cimitero di Pisa, invenzioni severe dantesche, con contorni rigidi ma non senza prospettiva; al Giudizio, che servì di tipo per quello di Signorelli a Orvieto, e [12] per quel di Michelangelo nella Sistina; in fine al tabernacolo in Or San Michele, capolavoro di quel secolo, indipendente da modelli classici, e con facile e maestosa ricchezza. In questa chiesa il corpo de’ mercadanti fiorentini sfoggiò una magnificenza, che i principi posteriori non emularono; ed oltre il Battista, il Santo Stefano ed il San Matteo del Ghiberti, bronzi ammirati, v’ha fatture insigni di Nicola d’Arezzo.
Pietro e Paolo aretini, allievi di Angelo ed Agostino senesi, primi (1346) eseguirono opere grandi a cesello, e per un arciprete del loro paese condussero una testa d’argento quanto il vivo. Poco poi, Cione faceva l’altare d’argento in San Giovanni di Firenze, cavando molte storie ragionevolmente in argento a mezzo rilievo, e che fu poi ornato dal Finiguerra, da Antonio Pollajuolo e da altri. Ugolino di maestro Pieri senese aveva già prima finito un preziosissimo reliquario pel santo Corporale d’Orvieto, di seicento oncie d’argento, con graziosi dipinti sopra smalto. Insigne è pure l’altare di san Giacomo nella cattedrale di Pistoja, lavorato da molti fra il 1314 e il 1466.
A Perugia ben da antico fioriva l’oreficeria, se fin dal 1296 il consiglio concedeva a quell’arte di eleggersi il proprio rettore, purchè sotto la tutela dell’arte del Cambio, sicut fuerunt in temporibus retroactis. La tazza dell’insigne fontana, le tre ninfe del piede, i due grifi, i due leoni di bronzo portano Rubeus me fecit A. D. MCCLXXVII, indictione V: il tabernacolo in Santa Giuliana, di rame dorato a smalti e figure rilevate, è del secolo XIV uscente: poi nel cinquecento Cesarino Roscietto non la cedeva a qualunque miglior cesellatore per abilità e gusto[7]. A Lanciano nel regno di Napoli [13] ammiravano una croce del 1360, coperta di lamina d’argento, con figure sbalzate ad alto rilievo e smalti.
Come Nicolò ebbe soprannome dall’arca di San Domenico a Bologna, da lui ornata, così Jacopo della Quercia dalla fonte di Siena. Quivi un elegante tabernacolo eseguì nel duomo Lorenzo Vecchietta nel 1492, e un Redentore in croce, oltre compire il fonte battesimale in San Giovanni. Il Brunelleschi col Filarete condussero le porte di bronzo della basilica Vaticana.
L’arte spiegò le ale quando i Fiorentini decretarono mettere al battistero porte di bronzo che accompagnassero quelle disegnate da Giotto ed eseguite da Andrea di Pisa. In concorso col Brunelleschi, con Jacopo della Quercia e con quattro altri, ebbe la preferenza Lorenzo Ghiberti; e la meritò. Decretate nel 1400, solo nel 1413 furono compiute, avendovi egli adoprato con diligente lentezza, tutto copiando dal vero, ogni pezzo esponendo al pubblico, ascoltando i pareri, distruggendo i modelli meno perfetti, e così con purezza di forme, nobile semplicità d’espressione, naturale varietà di pose, movenze eleganti, felice aggruppamento de’ fatti e chiarezza ad esprimerli, sostenne la poesia della composizione. Il metterle in posto fu una solennità per Firenze; alla casa dell’artista si portò trionfalmente il gonfalone della giustizia: un secolo più tardi, Michelangelo le diceva degne dell’entrata del paradiso; e dopo quattro secoli e mezzo noi le ammiriamo come il primo giorno.
Il Ghiberti, non che superare gli antichi nella prospettiva lineare ed aerea, pretese raggiungere gli effetti della pittura: e quivi e nel sarcofago di san Zanobi in duomo avventurando molte figure in profondità, e mescolando l’alto, il basso, il mezzano rilievo, come gli antichi mai non aveano osato. A siffatte illusioni aspirò pure il Donatello fiorentino, lodato pei pulpiti in San Lorenzo, i putti cantanti con sì gaja ingenuità nel Santo di Padova, [14] a Napoli l’adorazione de’ Pastori in Montoliveto e altri nella cappella de’ Brancacci. Invaghitosi del vero, cercò l’anatomia e la forza muscolare: del che se lo ammirava poi Michelangelo, il Brunelleschi, a cui mostrò un suo Crocifisso fatto di quel gusto, lo trovò somigliare a un facchino; e tolse a far quello che sta in Santa Maria Novella; veduto il quale, Donatello sclamò: — Tu sai fare dei Cristi, io dei villani». D’allora pose maggiore studio all’espressione, come si vede nella Maddalena, nel San Giovanni, nel San Giorgio d’Or San Michele, nello Zuccone sul campanile, e nella Giuditta.
Statue equestri, che sono il monumento eroico per eccellenza, non s’erano fatte da Giustiniano in poi[8], ed ecco in trent’anni eseguirsene quattro da fiorentini: da Donatello quella di Gattamelata a Padova nel 1453; da Antonio di Cristoforo e da Giovanni Baroncelli quelle di Nicolò e Borso d’Este a Ferrara nel 1445, abbattute poi nel 1799; e nel 1479 il Coleone in Venezia, modellato da Andrea Verocchio, fuso da Alessandro Leopardi, che vi sottopose elegantissima base[9].
Andrea Verocchio, valoroso orefice, insegnò ad accurar un giojello quanto una statua; introdusse di formare di gesso sul vivo, col che poi si levarono le maschere [15] de’ morti, e si fecero anche figure intere di cera; cioè al naturalismo s’immolava interamente il concetto. Di Andrea, oltre molti argenti e bronzi, sono l’Amore abbracciante il delfino per la fontana di Palazzo vecchio, il san Tommaso di bronzo d’Or San Michele, il mausoleo ornatissimo di Giovanni e Pietro di Cosmo de’ Medici in San Lorenzo, con flessibili festoni fusi.
Desiderio da Seltignano impresse alle figure il riso e la capricciosa finezza che più tardi rinnovò il Correggio. Di Matteo Civitali ammirano a Lucca il San Sebastiano, l’altare di san Regolo con statua e bassorilievi accurati, il sepolcro di Pier da Noceto segretario di Nicola V, con grandiosa architettura e ornamentazione finita: l’elegantissimo suo tempietto ottagono in duomo, ov’è riposto il santo Volto, precede di diciassette anni l’ammirato di Bramante a San Pietro Montorio[10]. Antonio Pollajuolo pittore e orefice, vivace e sicuro disegnatore, dall’anatomia imparò a dar movimento e posa alle figure, come si vede in Vaticano nei depositi d’Innocenzo VIII e Sisto IV, quello più semplice, questo più faticato. Lavorò attorno alle porte del Ghiberti, e massime una quaglia ammirata, e molti nielli e medaglie: ed è rinomato un suo grande intaglio di dieci uomini nudi combattenti colla spada.
Chi abbia veduto il coro di fanciulli cantanti che sta nella galleria degli uffizj a Firenze, e le porte di bronzo alla sacristia del duomo, non esita a porre in prima altezza Luca della Robbia. Inventò di vetriare le terre cotte, e se ne ammirano per tutta Toscana, e le migliori ne’ SS. Apostoli e sulla porta maggiore d’Ognissanti a Firenze e sullo spedale di Ceppo a Pistoja[11], se pur [16] non sono della sua famiglia o d’alcuno dei tanti imitatori che ebbe, finchè il magistero perì nel 1565 con Sante Buglione. Il Vasari non rifina di lodar quell’arte: e divenuta oggetto da commercio, se ne posero fabbriche principalmente ad Urbino, a Pesaro, a Casteldurante, massime ducando Guidubaldo II, ove stoviglie e piatti erano condotti or sopra soggetti di Rafaello e Giulio Romano, ora con modelli appositi di Rafael del Colle e Battista Franco; e la maggior raccolta è quella che dai duchi d’Urbino passò alla pia casa di Loreto.
Di Mino da Fiesole nel duomo della sua patria, oltre un altarino d’ineffabil grazia, la testa di Leonardo Salutato vescovo è vera pelle e carne. Bello è pure il cenotafio di Paolo II nella cripta della basilica Vaticana, e in badia a Firenze il monumento di Ugo marchese, svelto nell’insieme, con una Madonna ed angioletti graziosissimi. Il mausoleo di Bernardo Giugni vogliamo accennare per l’iscrizione che lo chiama publicæ concordiæ semper auctori et civi vere populari.
Questi esempj fecero estendere i sepolcri suntuosi, e anche da vivi se li prepararono i cardinali, principalmente gli spagnuoli venuti coi Borgia; e può indursene il più certo e originale andamento della scoltura. Sono per lo più composti architettonicamente con zoccolo e frontone, il morto disteso, angeli che sorreggono un panneggiamento, molli ornati, qualche bassorilievo, e in alto madonne e santi, e spesso fiori che di tranquillità e speranza consolano la morte. Non v’è chiesa che non se n’abbelli; ed oltre i menzionati sono insigni i depositi del Coleone a Bergamo per Antonio Amedeo [17] pavese, d’Ilaria del Carretto a Lucca per Jacopo della Quercia, a Roma del cardinale Consalvi in Santa Maria Maggiore, e di Bonifazio VIII per Giovanni Cosmate, a Verona de’ Torriani in San Fermo per Andrea Ricci, architetto di Santa Giustina di Padova, e autore del più ricco e grandioso candelabro di bronzo nel Santo. Bernardo Rosellini in Santa Croce fece il deposito del cancelliere Leonardo Bruni, Desiderio da Settignano quello de’ Marsuppini; quasi riscontri l’un dell’altro, abbandonando l’arco acuto, sdrajando il morto sopra un letto, in alto due angeli che sorreggono la Madre della misericordia. Un più magnifico eseguì Antonio Rosellini in San Miniato al Monte per un cardinale portoghese, morto di venticinque anni il 1459, occupando l’intera cappella, ricchi marmi il pavimento, smalti la volta, il defunto giacente in abito vescovile sopra un letto sostenuto da due angioletti, in alto l’urna, e più in su la Madonna fra gli angeli; tutto marmi a vario colore, festoni e ornati, la cui sobrietà è offesa dallo smanioso drappo funereo aggiunto nel secolo seguente.
Fin allora ai monumenti e alle pitture s’accompagnavano iscrizioni, che insinuassero le virtù pie e le patriotiche, e soprattutto raccomandassero la pace e la concordia. Nel palazzo della repubblica di Siena[12], sotto Curio Dentato leggesi la sua lode per aver disprezzato l’oro, che adesso, ahimè! corrompe il mondo (Et spretum auram, proh! quod nunc inficit orbem): sopra una porta di Padova il podestà Giovanni Ardizzo metteva il consiglio di evitar le discordie, per le quali le città sono disfatte[13]: al tribunale di Milano un’iscrizione [18] rammentava ai litiganti come dai processi nascano nimicizie, si perda denaro, si cruci l’animo, si stanchi il corpo, ne derivino disonestà e colpe, e oblio delle buone e utili opere; e quei che credono vincere, spesso soccombono; o se vincono, alla fine non hanno che un pugno di mosche[14]: a Siena suddetta, sotto a Cesare e Pompeo è rammentato come la costoro rivalità traesse a ruina Roma[15]; e fra le immagini d’altri grandi romani, una scritta insiste perchè da loro s’impari come fu grande il popol di Marte per l’unione, e scadde per le scissure[16]; ma insieme un’altra intìma: Quodcumque [19] facilis in verbo aut in opere, in nomine domini nostri J. C. facite.
Ormai però le belle arti, intimamente associate nel medioevo, si disunivano, e quelle del disegno raffinavansi una separatamente dall’altra. La pittura ai vivi colori e ricisi della orientale ne preferiva di degradati e misti; alla convenzione surrogavasi la realtà; a’ segni delicati ma fantastici de’ fondi, il paesaggio e le architetture; e Giotto (tom. VII, pag. 199), pur conservandosi monumentale, staccavasi dai tipi jeratici per accostarsi al ritratto, non cercando però nella materia un maestro troppo grossolano, nè dipartendosi dal sentimento di pietà. Quai gli mancarono qualità di gran maestro? I visi femminei più pudicamente colora; piega elegantemente gli abiti; disegna a meraviglia, come può vedersi ne’ monocromi della cappellina degli Scrovegno a Padova; studiò caratteri, donde scaturisce la forza delle rappresentazioni simboliche, di cui egli si piaceva; e infatti variatamente gli espresse nella Cena di Santa Croce, con guisa meno scientifica di Leonardo, non meno sentita. Se non dava ancora profondità ai quadri, nè posa ben equilibrata alle figure, le composizioni sue, siano le minute sugli armadj della sacristia di Santa Croce, o le gigantesche di Assisi e di Padova, sono bene aggruppate ad un’azione comune, con altitudini espressive e scorci arditi, quali il San Giovanni che alla vista di Lazzaro resuscitato gitta indietro le braccia: e Michelangelo affermava «non poter esser dipinta più simile al vero di quel ch’era» la sua morte della Madonna.
Estesa influenza esercitò per tutt’Italia, ma presto cominciarono a dividersi quei che voleano esprimere il sentimento e quei che miravano all’effetto, e per esso all’anatomia. Paolo Uccello, così detto per l’abilità in ritrarre bestie, considerava merito supremo il situar figure su piani diversi, e farle scortare; e tanto s’affaticava [20] in tirar di prospettiva cerchi armati di punte, triangoli differentemente combinati, palle a settantadue faccie, che la moglie facevagliene serj rimproveri, e Donatello gli diceva: — Cotesta tua prospettiva ti fa lasciare il certo per l’incerto».
I pittori, quando, mercè di lui e di Pietro della Francesca, trovaronsi in possesso della prospettiva, la credettero mezzo supremo di ben esprimere le forme vere, alle apparenze esatte della realtà, agli scorti ben indovinati, al rilievo evidente posponendo l’espressione. Masolino da Panicale in Val d’Elsa, avvezzo all’arte dell’orafo, diede insigne rilievo ai dipinti per mezzo delle ombre, e morendo a soli trentasette anni lasciò imperfette nella cappella Brancacci al Carmine le storie, ritratte con maestà di sembianze e morbido panneggiare. Le compì Masaccio (Tommaso Guidi 1402-43) con belle attitudini, vivaci movenze, contorni sinuosi, toni robusti di colorito forte e ricco, felici combinazioni di chiaroscuro, per cui i suoi gruppi movonsi liberamente anche su spazj ristrettissimi: al che vuolsi aggiungere la buona rappresentazione degli affetti[17].
Dalla devozione unicamente ispirato, il beato Giovanni Angelico da Fiesole (1387-1455) la pittura guardava come un’elevazione della mente a Dio, e commoveasene fin al pianto. Sebbene fin nella dolcezza ponga austerità, innamora colla soavità de’ volti, e con que’ santi che anche fra i crucci del martirio serbano la pace che il mondo non può rapire. Coprì il convento di San Marco d’affreschi da cui non si staccherebbe mai l’occhio, e nella grandiosa storia del Capitolo unì maravigliosamente [21] il sentimento antico con un disegnare che nessuno eguagliò fino a Rafaello. Per la storia dei santi Stefano e Lorenzo in Vaticano il papa gli offerse l’arcivescovado di Firenze, ed egli preferì la povertà del convento. Semplice uomo e santissimo ne’ suoi costumi, volendo una mattina papa Nicola V dargli desinare, si fece coscienza di mangiar della carne senza licenza del suo superiore, non pensando all’autorità del pontefice (Vasari).
La finitezza di Masaccio col sentimento del beato Angelico cercò accoppiare Benozzo Gozzoli, che nel camposanto di Pisa rappresentò ventiquattro grandi storie, tutte movimento e fantasia, ed altre altrove con serenità e vaghezza sbizzarrendo in accessorj. Frà Filippo Lippi (1412-69) cede appena a Masaccio nelle figure al Carmine, nella tribuna di Spoleto, e nell’Assunta, con toni vigorosi, aria grande, proporzioni eroiche; ma secondò il genio voluttoso del rinascimento col sostituire alle ascetiche i ritratti di belle, sviato com’era da avventure romanzesche. Offerto frate a otto anni, fuggì di convento; caduto schiavo de’ Barbareschi, col ritrarre il suo padrone guadagna la libertà; rimpatriato, dipinge nelle monache di Santa Margherita da Prato, e ne rapisce una educanda, e n’ebbe un figlio cui trasmise il nome e l’arte sua, e ne fu superato per scioltezza di composizione, dignità e grazia, qual si ammira ne’ due grandi affreschi della cappella Strozzi in Santa Maria Novella.
Domenico Ghirlandajo (1485-1560) pose un’accuratezza direi fiamminga agli accessorj e all’esatta imitazione della natura[18]; e colle severe forme architettoniche rialzò i suoi affreschi, pure mostrando maschia nobiltà e varietà [22] nelle composizioni estese, quali la gran Cena della cappella Sistina, ove dipinse con Filippino, figlio non degenere di Filippo Lippi, con Luca Signorelli e con Cosimo Roselli. Quest’ultimo in Sant’Ambrogio di Firenze frescò gruppi rafaelleschi, ma poi si voltò ai guadagni sì col lavorare in fretta, sì col darsi alle ciurmerie degli alchimisti.
La dipintura a fresco predominava sull’altre, obbligando a studiare le vaste proporzioni, le leggi della disposizione e la prospettiva. I quadri di solito faceansi sul legno, scegliendo tavole compatte e capaci di fina levigatura; se occorresse commetterle di varj pezzi, vi si stendeva una tela, sopra cui uno smalto finissimo, o talvolta una foglia d’oro che diveniva il campo; alla quale si surrogarono paesaggi o cieli. Vuolsi derivato dai Greci, vale a dire che è molto antico fra noi l’uso di dipingere i cassoni e cassapanchi che si teneano nelle camere da piè del letto, e massime quelli in cui la sposa portava il suo corredo; con soggetti semplici dapprima e generalmente devoti, poi recati ad ampiezza dai gran maestri: ne fece Andrea Tafi, poi Spinello di Arezzo, Taddeo Gaddi, e di più grandi Mariotto Orcagna, Dello fiorentino, il Lippi, l’Uccello, il quale pure dipingeva certi taglieri, sopra i quali si offrivano doni alle puerpere. Sui mobili della camera di Pierfrancesco Borgherini, magistralmente intagliati da Baccio d’Agnolo, più tardi esercitarono a gara il pennello Andrea del Sarto e Jacopo Pontormo; Neri di Bicci pitturò l’armadio ove a Firenze si custodivano le Pandette; l’Angelico quello dei vasi sacri in Santa Maria Novella e all’Annunziata; Antonio Razzi a Siena i cataletti; altri le predelle degli altari.
Ricchezza di colori già possedeano i Bisantini; e crebbe poi così, che alla tavolozza di Masaccio non mancava alcuna gradazione. Che gli antichi non istemperassero [23] i colori coll’olio ce n’è prova il silenzio di Plinio: nel medioevo sì; e Teofilo, monaco del XIV secolo, vivente in Lombardia, suggerisce l’olio di linseme per pitturare case e porte; se non che, essendo il dissolvente meno essicabile, riusciva lungo e difficile il ripassarvi sopra. Il Cennino, nel trattato, della pittura del 1437, «insegna a lavorar d’olio in muro o in tavola, che usano molto i Tedeschi»; e suggerisce di cuocer l’olio di lino, e valersene a stemperare i colori e velarli. Giovanni Van-Eyck surrogò olio di noce e di papavero, mescendovi un essiccante che permettesse di immediatamente passare sopra lo stesso colore. Fu dunque considerato inventore della pittura a olio; e aggiunsero che Antonello da Messina, presa con lui dimestichezza, ne succhiellasse il secreto, che poi recò in Italia, insegnandolo a Domenico veneziano, che nol tacque ad Andrea del Castagno fiorentino, il quale l’ammazzò per rimaner unico possessore d’un artifizio che «ancora in Toscana non si sapeva»[19], e che fu surrogato alla tempera.
[24]
A Venezia fin dal secolo VI una colonia bisantina ornava di musaici le chiese di Grado e di Torcello; una migliore fu chiamata dal doge Orseolo a decorare San Marco nel 1000; altri artisti vi accorsero dall’espugnata Costantinopoli: de’ musaici in San Marco, se alcuni sono di mano greca, altri s’accertano di nazionale; è memoria d’una confraternita di pittori, erettavi sin dal 1290; e in tutte le città venete ricordansi dipinti in muro o in tavola anteriori a Giotto. Del quale poi appare l’influsso in Giovanni e Antonio padovano, nel Semitecolo, nel Giusto, nell’Altichieri, nel Guariento, che dipinse il palazzo ducale, e tutto cura ed espressione il Crocifisso a Bassano.
I Vivarini di Murano, che per quasi un secolo fiorirono attorno al 1400, han bello e schietto fare, ma stecchito, formato men sugl’italiani che su Fiamminghi e Tedeschi, molti de’ quali operarono a Venezia, e massime Giovanni da Brugia e l’Hemmelink, il più grazioso pittore mistico di quel secolo[20]. Di maniera propria lavorarono Paolo veneto e Lorenzo; e Carlo Crivelli sfoggiò di colorito in gemme e rabeschi.
Gentile, da Fabriano nella marca d’Ancona, formatosi sul beato Angelico e sulle tradizioni dell’Umbria, fu invitato dalla Signoria a dipingere il palazzo dogale, decretandogli un ducato al giorno, e il diritto di portar la toga senatoria. Egli educò Giacomo Bellini, e questo i due suoi figliuoli Giovanni e Gentile; i quali a concorrenza [25] con Luigi Vivarini, col Carpaccio, col Pisanello rappresentarono nel palazzo dogale i patrj fasti. Ricchi di pratica, pittori insieme e architetti, miniatori, orefici, armonizzavano i loro quadri coll’ordine della chiesa per cui li facevano, colle cornici di cui gli ornavano, sicchè lo spostarli è un corromperli. Gentile (1421-1507) fu chiamato a Costantinopoli; e narrano che, per dargli un modello di decollazione, Maometto facesse balzar la testa d’un paggio. Più acconcio alle scene popolose e alle cose di prospettiva, come si vede nel miglior suo quadro che sta in Brera, egli cercava l’arte classica, benchè non fallisse alla poesia religiosa[21]: mentre Giovanni (1426-1516), disegnatore più savio, più intelligente del chiaroscuro, tutto devozione, escludeva qualunque leziosità potesse frastornare il patetico severo, la dignitosa gravità e l’intensa espressione; nella lunga vita andò sempre migliorando, talchè immenso divario corre dalle prime alle ultime opere sue, e fu dei primi a dare colla pittura a olio vigor nuovo ai dipinti. Aveva ottant’anni quando fece la mirabile tavola in San Zaccaria, e divenne contemporaneo ai rinnovatori dell’arte.
Capitava in quel tempo a Venezia (1506) Alberto Dürer, insigne pittore e incisore tedesco, per domandar riparazione di certe sue stampe, contraffatte da Marc’Antonio. I Veneziani, innamorati del colorito, in lieve conto presero lui incisore, ma Giovan Bellini il suffragò presso i patrizj. — Deh poteste voi esser qui!» (scriveva Dürer a un amico). Quanto amabili sono gl’Italiani! mi si fecero attorno, e ogni dì più mi s’affezionano; di che in cuor mio provo indicibile contentezza. Sono gente educata, [26] istruiti, eleganti, bravi sonatori di liuto, tutti spirito e dignità, affabili e buoni con me oltre ogni dire. Vero è che non vi è difetto di sleali, mentitori, bricconi, che non hanno i pari sotto il cielo; e a vederli li scambiereste pei migliori del mondo; ridono di tutto, fin della loro cattiva reputazione. Io fui avvertito in tempo da’ miei amici di non mangiare nè bere con costoro, nè coi pittori del loro mazzo. Tra questi alcuni si sono messi a farmi guerra, e copiano sfacciatamente i miei quadri nelle chiese e ne’ palazzi, mentre gridano ch’io rovino il gusto allontanandomi dall’antico. Ciò non tolse a Gian Bellini di largheggiarmi elogi in numerosa brigata; inoltre egli volle qualche cosa di mio, venne a trovarmi in persona e domandarmi un disegno, aggiungendo ch’era geloso di pagarlo bene. Egli è amato, riverito, ammirato da tutti, e non si parla che della bontà e dell’ingegno suo; e benchè vecchio, ha pochi uguali».
Il sentimento di Giovan Bellini si trasfuse nel Cima da Conegliano, non inferiore a verun quattrocentista per bella convenienza ed intensa espressione, mentre la grazia di Vittore Carpaccio commove anche gl’ignari dell’arte in molti soggetti leggendarj, e principalmente nelle storie di sant’Orsola, piene di popolo e di addobbi, come doveva esser Venezia allora.
Pellegrino da San Daniele udinese, scolaro di Gian Bellini, così povero che chiese dalla città sua il posto di portiere, promettendo, se gliel concedessero, di dipinger le arme de’ luogotenenti, il pallio della comunità e gli stemmi su tutte le fabbriche nuove, le porte, gli stendardi ove occorressero, lavorò principalmente a San Daniele; e in Sant’Antonio (1497) una Crocifissione è grandemente ideata, ben colorita e piena d’espressione, non men che altri soggetti evangelici.
Anche Marco Basaiti friulano, Giovanni Mansueti, [27] Bartolomeo Montagna vicentino si tennero alla castigatezza antica. Cominciò a traviare il padovano Francesco Squarcione, che li superava in dottrina, in prospettiva, in espressione, quanto n’era dissotto nel colorito, nella dolcezza di contorni, nelle arie gentili e nel sentimento religioso. Dal Levante, ove trovava intatte molte opere, da poi mutile o distrutte, recò in patria la più bella raccolta di disegni, statue, urne, bassorilievi, e sostituì il culto classico alle tradizioni cristiane, coadjuvato in ciò dai professori dell’Università padovana; sicchè vene e muscoli diligentati, pieghe architettate, pose artifiziose parvero merito supremo.
Tali effetti spinse al massimo grado Andrea Mantegna (1430-1506), il quale, negligendo la leggiadria dei frammenti greci per non vederne che l’esattezza, riuscì secco come il suo maestro, fin quando sui bronzi del Donatello acquistò un segno più libero e men convenzionale, e pareggiò i migliori, mentre a tutti sorvolava per l’accorta convergenza delle linee al punto di vista, non solo negli edifizj, ma nelle varie posizioni e mosse del corpo umano: della qual maestria è il colmo il suo scorcio del Cristo morto in Brera a Milano. Per Luigi Gonzaga a Mantova dipinse molte opere in castello, e a chiaroscuro il trionfo di Cesare, divenuto per l’incisione il suo più celebre lavoro, come lo stupendo trittico della tribuna degli Uffizj, condotto con diligenza da miniatore. Con larga erudizione e buona estetica scrisse sopra i giganti, dipinti in chiaroscuro da Paolo Uccello nel palazzo Vitaliani a Padova, e ottenne fama e lodi più di qualfosse contemporaneo.
Dall’ingenuità affettuosa e dalla mistica ispirazione più sviò Giorgione Barbarelli da Castelfranco (1477-1511): come uomo che conosce la propria possa e l’adopera senza misura, superò tutti nell’impeto, negli impasti cacciati terribilmente di scuro, e nell’anatomia; lusingando i [28] sensi, non il sentimento. Di tal passo la scuola veneta erasi avviata allo sfarzo e a non vedere il concetto se non traverso al colorito; e la moda dei ritratti, invalsa ne’ patrizj, fe cercare più ch’altro la materiale imitazione del vero.
Già da pezza si sapeva stampare con legni carte da giuoco e immagini sacre, al qual modo si formavano iniziali, fregi, contorni ai libri fin da quando esemplavansi a mano, e più dopo che si stamparono; e a tale artifizio, ampliandolo a grandi composizioni, si applicarono Mecherino da Siena, Domenico delle Greche, Domenico Campagnola ed altri. I nostri però non raggiungono il merito del Dürer e dei Tedeschi, poco accurando la perfezione tecnica, e piuttosto conducendo schizzi[22]. Solo nel chiaroscuro, che imita l’inchiostro della Cina, primeggiarono Andrea Andreani ed Ugo da Carpi, pittor mediocre, di cui nella sacristia de’ Beneficiati in Vaticano è un sudario fato senza penelo, cioè colle dita; e che inventò o piuttosto introdusse di stampare a chiaroscuro; cioè in due, poi tre pezzi, sicchè esprimessero tre tinte; col che pubblicò varie invenzioni di Rafaello, con evidenza maggiore di Marcantonio.
Un gran passo fu il sostituire al legno il rame. Il Tractatus lombardicus di Teofilo anzidetto descrive a punto il nigellus, «fusione d’argento puro, rame, [29] piombo, solfo, che si fa entrare negli incavi fatti in una lamina d’argento, indi si leviga, e ne risulta una lastra lucente col disegno nero». Di siffatti nielli si ornavano scrigni d’ebano, paliotti, calici, messali, reliquie, paci; e vi spiegarono maestria Forzone Spinelli aretino, il Caradosso e l’Arcioni milanesi, Francesco Francia da Bologna, Giovanni Turini da Siena, e i fiorentini Matteo Dei, Antonio Pollajuolo ed altri. Compito l’intaglio, per vedere l’effetto del nero, se ne cavava l’impronta con terra finissima, sulla quale gittavasi solfo liquefatto, ne’ cui incavi insinuato del nerofumo, imprimevasi su carta umida, a mano o col rullo. Si conservano alcuni di quei solfi e di quelle prove, esordj d’un nuovo magistero. Poichè, notatone il bell’effetto, si pensò a tirarne molte copie, e così nelle botteghe degli orefici ebbe culla la calcografia. Si cambiò di materia, preferendo alfine il rame; s’introdussero i torchi, si variarono le tinte; e pare che Corrado Schweinheim, editore dell’elegantissimo Tolomeo di Roma, insegnasse qui l’inchiostro più opportuno.
Di questo o trovato o passo deve gloriarsi Maso Finiguerra fiorentino? Quand’anche si accertasse che la prima impressione della sua Pace su carta appartenga al 1452, i Tedeschi ne producono di anteriori al 50; certo al 66 n’aveano di più belle de’ nostri[23]: dei quali poi fu carattere il maggior rilievo, l’accuratezza de’ contorni, poi l’ombrare robusto perchè tondeggiassero le forme. Si applicarono all’intaglio artisti di nome: Baccio Baldini sopra disegni di Sandro Botticelli ha lavori certi del 1477, poi il Pollajuolo, e meglio il Mantegna cinquanta lastre lavorò, tirando alla plastica antica. [30] In questa pendenza lo seguirono Giannantonio e Giammaria da Brescia, Giulio e Domenico Campagnola, Nicoletto da Modena, Girolamo Mozzetto, Benedetto Montagna. A tutti sorvolò Marcantonio Raimondi bolognese (1488-1546?), allevato nel niellare dal Francia, poi imitatore del Dürer, finalmente raffinato nel disegno sotto Rafaello, col cui spirito prese un movimento, corrispondente allo slancio dell’arte d’allora. Lo ajutarono e seguirono Agostino veneziano e Marco ravignano, l’innominato Maestro col Dado, Enea Vico, i Ghisi, che moltiplicarono le opere degli artisti d’allora; talvolta disegnarono di proprio, o variavano le composizioni dei maestri, o toglieanle da pensieri di questi; come principalmente fece Giulio Bonasone bolognese, sicchè venivano imitati come originali. Il fare leggero di quest’ultimo introdusse il manierato, nel quale caddero i susseguenti.
Tutto era dunque predisposto a grandiosi progressi; la scienza dava braccio alle arti; il Brunelleschi e l’Alberti porgevano canoni matematici di costruzione e di prospettiva; l’incisione divulgando le opere, cresceva l’imitazione, non restringendo più l’azione su pochi maestri; l’immobilità monumentale delle fisionomie faceasi varia e morbida; più studiate e ragionevoli le composizioni. Se non che lo studio dell’antico portava a vagheggiare la correttezza delle forme meglio che l’espressione, più ad eccitare meraviglia ai sensi che affetto al cuore; sicchè l’arte, quanto guadagnava vigore e leggiadria, tanto perdeva d’innocenza e dignità, divenendo manualità di stile, e la cura di questo riducendo a puro effetto. Poi i privati per ornamento delle case, i principi per le loro residenze chiedeano soggetti mitologici o scene naturali; laonde gli artisti si staccarono dai pensieri affettuosi e devoti e dai tipi tradizionali, che erano nella pittura quel che il dantesco nella poesia.
Se la derivazione dell’arte bisantina è evidente in Firenze [31] e Venezia, città cresciute dopo caduto l’impero romano, in altri paesi d’antica grandezza gli artisti poterono formarsi su modelli rimasti dall’età latina, e fin anco dalla etrusca; e scuole distinte ebbero i paesi già etruschi, poi aggregati alla Romagna. Piero della Francesca di Borgo Sansepolcro dipinse in patria e pei signori di Feltre e di Ferrara, con grazia, semplicità e difficili scorci; valse nelle matematiche, e primo introdusse di fare modelli di terra, e coprirli di panni per ritrarre le pieghe e le pose. Lo superò il suo scolaro Luca Signorelli di Cortona (1440-1521), che dalle immagini commoventi e terribili passò ad ormare i nuovi nel nudo e nel movimento, e ghiribizzò d’anatomia nel finimondo in quel duomo d’Orvieto, nel quale apparve la robusta giovinezza dell’arte, come l’adolescenza nel camposanto di Pisa e nel tempio d’Assisi.
E quasi le spirasse l’alito di questo, la scuola dell’Umbria serbò le devote concezioni e i tipi mistici, meglio il cuore appagando che i sensi. Ivi crebbe Pietro Vannucci perugino (1446-1514), e venuto a Firenze, coi bei paesaggi e coi fondi calmi su cui rilevano persone agili, con piccole teste, fisionomie soavi ed espressive, contorni fin aggraziati, pastoso rivestimento della muscolatura, destò meraviglia; mentr’egli a vicenda vi contraea le mode che allora invaleano della forza e del movimento, e la ricerca dell’abilità e dell’anatomia. Quindi la diversità del suo fare; e dove nelle teste ovali così studiate, in occhi da colomba, nelle fine labbra, sublima il sentimento; dove invece palesa il convenzionale e gli spedienti stereotipi, non variando le composizioni, e tirando via di pratica. Pitagora, Orazio Coclite, Pericle, Catone, altri eroi nel Cambio di Perugia hanno pose arcaiche e uniforme dolcezza di visi, disdicente dal loro carattere; nè lodevoli ci pajono gli Dei della vôlta, ai quali accompagnò sibille, profeti, il Padre Eterno, la natività, [32] la trasfigurazione. Stupendamente riuscì quando non cercò espressioni istantanee, ma si attenne ai tipi devoti e alle pose riposate de’ santi: che se pare povero ne’ vestimenti e secco negli atti, con somma grazia arieggia le teste, e colorisce con leggiadria e con un dorato, forse troppo uniformemente diffuso per naturale sentimento dell’armonia, ma che anima i quadri d’un dolce calore. Sisto IV lo chiamò ad ornare la sua cappella, immortalata poi da Michelangelo: si ammirano la Pietà del palazzo Pitti e l’affresco in Santa Maddalena de’ Pazzi: l’Assunta meritò d’essere collocata fra i pochissimi del museo Vaticano. I dipinti fastosi di Città della Pieve sono l’anello tra lui e Rafaello, il quale forse v’ebbe mano, certo gl’imitò.
Il quale Rafaello (1483-1520), nato da Giovan Santi pittore e poeta d’Urbino, cominciò a lavorare in Civita di Castello e ne’ Camaldolesi di San Severo a Perugia, e nel 1504 creò lo Sposalizio[24], di componimento (che che vi appuntino) sobrio e di celestiale purità, come uomo che produce il bello quasi per istinto. Quelle testoline su corpi svelti, quelle proporzioni delicate, quella graziosa euritmia, que’ tempietti che sembrano incorniciare la bellezza delle figure, quell’incantevole chiarezza diffusa pertutto, rilevano affatto del maestro. Quando poi a Firenze vide gl’idolatri dell’antico e del naturale, fuse i tipi coll’individualità, l’ispirazione colla finitezza; e trattando le figure con maggior pienezza e dignità, attrasse l’universale ammirazione.
Da Bramante presentato a Giulio II, com’ebbe commissione di coprire le vaste pareti delle camere vaticane, maggior volo prese; e colà vuolsi seguirlo nelle [33] varie sue maniere, che altri chiama progresso, altri il contrario, secondo che più s’attenne all’ingenua grazia del Perugino, o al sapiente disegno de’ Fiorentini, o al caldo colorire de’ Veneziani. Ritraendo dalla primitiva scuola l’essenza dell’arte cristiana, ancorchè sostanzialmente differisca nel modo di rappresentare, scelse soggetti simbolici, la Teologia, la Filosofia, la Giurisprudenza, la Poesia, rappresentando le idee colle figure, sfoggiando la poetica bellezza, tanto diversa dalla simmetrica; e se minore finitezza, ha maggiore sentimento che nella seconda maniera. Le Sibille alla Pace non rivelano il divino spavento misto a una vaga contentezza di concepire le verità future! Il conversare cogli eruditi, l’ammirare gli stupendi avanzi di Roma, massime da che Leon X lo sovrappose a tutte le antichità, lo innamorarono del classico, di più caratteristiche forme, di più vigoroso chiaroscuro, di quello insomma che diceasi il far grande, col che, staccandosi dalle tradizioni, indulse alla fantasia; non si restrinse nell’unità del soggetto; alle composizioni tipiche ne surrogò di accademiche, le quali nè forza traevano nè unità da concetti elevati e generali. La voluttà antica purificare colla grazia, parve il compito di Rafaello; e la serie della bellezza migliorantesi, il progressivo affinarsi del tipo medesimo può seguirsi nella Madonna de’ Constabili, nella Giardiniera di Parigi, in quella del Cardellino alla Tribuna, in quella del granduca, in quella della Seggiola, nella Madonna di San Sisto ora a Dresda, in quella di Foligno nel Vaticano. Ma se sorpassarono quanto si fosse mai fatto, non raggiungono quella bellezza di pacato soddisfacimento, che da Dio viene e a Dio conduce; e mentre prima, interrogato donde traesse quelle sue divine effigie, rispose, — Da una certa idea che mi vien in mente», da poi le cavò da certe persone.
Agostino Chigi senese, ricchissimo e voluttuoso negoziante, [34] lo richiedeva di lavori continui, compiacendogli a segno, che, saputolo invaghito d’una fornarina, se la tolse in casa acciocchè il pittore non isvagasse fuori. E la Fornarina divenne il modello delle sante di Rafaello, alle quali manca spesso dignità, mentre agli uomini tale la imprime, che pajono cosa più che umana, e nel ritrarli rivela potenza interiore; affabilità intelligente in Leone X, vivacità arguta nel Bibiena, in se stesso grazia dolce insieme e focosa. Nella storia di Psiche sfoggiò d’arte pagana, eppure nel nudo non riusci mai eccellente[25]. Com’egli accurasse le opere lo attestano i suoi cartoni; e in quelli a Milano della scuola d’Atene fin sette volte ripassa su linee, che altri avrebbe tenute perfette alla prima. Più tardi, pressato da commissioni, abbozzava le tele; fattele tingere da Giulio Romano, egli vi dava quella tranquilla chiarezza e quel finimento, oltre il quale non si poteva pretendere; poi lasciavale copiare da scolari di seconda mano, riservandosi gli ultimi tocchi. Ecco perchè tante le opere attribuitegli, e tante dispute su quali siano originali: ma quanta immaginazione, quanta prontezza si voleva per idearne e finirne tante, e anche di vaste dimensioni; oltre dirigere feste, e disegnare cartoni per tappeti da eseguirsi in Francia.
Di quelle stranianze, di quel fare selvatico e astratto che gli artisti affettano quasi segno di genio, non peccava Rafaello; benignissimo di naturale, amabile quanto le sue pitture. Instancabile a crescere in cognizioni, traeva a sè con una specie di fascino i migliori intelletti; de’ cui consigli si giovava, e spesso per genio antiveniva i trovati faticosi della scienza. I giovani dirigeva amorevolmente, e fin cinquanta pittori di nome [35] gli facevano corteo come a maestro allorchè andava a corte. Non che detraesse agli emuli, s’ingegnava profittare del merito di ciascuno; quindi cerco da tutti, e la sua vita fu una serie di trionfi; fortunato sempre, anche nel morire prima di perdere le illusioni. A trentasette anni, spossato da voluttà cui traevalo la sua sensibilità al bello, fu salassato, e dovette soccombere. Il quadro della Trasfigurazione ch’egli avea sul cavalletto, quasi la parola incompiuta d’un morente che lasciando indovinare raddoppia l’emozione, fu la più splendida orazione alle sue esequie.
A parte a parte si troveranno pittori che lo superino; nessuno che come lui congiunga disegno, colorito, forza di chiaroscuro, effetto prospettico, immaginativa, condotta, quella grazia che è più cara della bellezza, e l’armonia della vita esteriore coll’interna; egli divoto ne’ santi e voluttuoso nelle Galatee; egli grazioso a finire un quadretto, magnifico nelle epopee della sacristia di Siena e dell’incendio di Borgo, patetico nello Spasimo. Il suo disegnare non è il supremo grado della delicatezza e giustezza? dove trovar mani e piedi meglio rilevati che nel Battista della Tribuna? dove chiaroscuro più efficace che nella liberazione di san Pietro? l’Eliodoro e il miracolo di Bolsena sono pel colorito i migliori affreschi del mondo, anche a fronte di quei del Giorgione e di quei del Tiziano a Padova. Nè altri mai colse la natura sul fatto come lui; mirabilmente esprimendo le particolarità della vita morale e fisica, cioè l’individualità, senza pregiudicare all’insieme; e in quegli ampj componimenti potè estenderla alle età, agli affetti, ai caratteri tutti, non in situazioni esagerate, ma in gradazioni composte, alla profondità congiungendo flessibilità meravigliosa, nulla trattando alla leggera, e dalla graziosità delle forme non iscompagnando la giustezza del pensiero; sicchè, come Apelle [36] dell’antica, così egli offre il tipo della bellezza moderna e del mistico ideale[26].
Scolpiva anche ed architettava; e composizioni di gusto castigato e non servile pose per isfondo dei quadri. A Firenze i palazzi Uguccioni in piazza del granduca, e Pandolfini in via San Gallo disegnò con purezza e nobiltà d’elevazione e di fregi; in Roma rimpetto della Farnesina del Peruzzi pose un palazzino elegantissimo pel Chigi; e principalmente lodano quello vicino a Sant’Andrea della Valle. Nel cortile in Vaticano le loggie aperte a tre piani, e vi storiò cinquantadue fatti sacri, con arabeschi ai quali innestò figure umane e simboliche, cosa non usitata nè da Cristiani nè da Arabi, ma che poi si riscontrò nelle terme di Tito, e ch’egli potea aver conosciute: e quel lusso fu adottato a ornare regalmente i palazzi, e diffuse il gusto di purissimi ornamenti; tanto più che, essendosi allora perfezionata l’incisione, Marcantonio non credette adoprar meglio il magistrale suo bulino che sulle opere di Rafaello, le quali così potevano rapidamente essere ammirate dai lontani.
Per altre vie che dell’ordine e della castigatezza giganteggiò Michelangelo Buonarroti (1475-1564), da Caprese aretino. Allogato a Firenze col Ghirlandajo, il dipintore allora più famoso, tanto se l’affeziona, da farsene perdonare [37] le correzioni che fa ai disegni di lui, ridintornandoli fieramente. Per dare la baja a cotesti che non sanno ammirare se non ciò ch’è antico, finge avere scoperto un Cupido, e come l’ode lodato a cielo, palesa d’esserne autore egli, giovane sui vent’anni. Il conversare con Lorenzo de’ Medici e coi letterati della costui Corte, e le preziosità di quella galleria l’iniziano ai precetti della scuola; ma diceva che chi non sa far bene da sè, non può ben servirsi delle cose altrui.
Vedendo insigni antichità allora venute in luce, quali il torso del Belvedere, l’Ercole e Anteo, l’Ercole Farnese, il Laocoonte, giudicò inespressiva la calma dei moderni: e mentre prima di lui usavansi inflessioni sobrie e maestose, cercando nel disegno piuttosto il decente che il miracoloso, dell’anatomia valendosi solo per dar ragione delle movenze; nell’architettura volendo accoppiare la forza colla convenienza, Michelangelo pensò bisognasse alle figure dare vita dal capo ai piedi, anzichè concentrarla nel solo volto; preferì i nudi e le musculature; e pigliata fiducia dalle vive lodi e dalle grandiose commissioni, lanciossi ad ardimenti che solo il suo genio può giustificare; e colla imitazione della natura arrivò a surrogare all’antico ideale un altro, ch’è l’apoteosi della forza dell’uomo.
Dapprima baldanzoso ad abbracciare tutte le arti sorelle, come si vide cerco e vantato fu preso da subito sgomento di se stesso e dell’arte; e gittato lo scalpello, senz’altro che la Bibbia e la Divina Commedia si ritirò a gemere in versi desolati; avvicendamenti d’esaltazioni e di sconforti, che le anime grandi conoscono. Gli restituì la fiducia Giulio II, commettendogli un mausoleo, degno del committente e dell’artista, con grande architettura e ben quaranta statue, delle quali il Mosè non era che una[27]. Ne strillarono i competitori, e [38] attesero a torgli l’amor del papa; ma avendolo questo un giorno fatto aspettare in anticamera, egli lasciò detto all’usciere: — Quando mi domanda, rispondigli che son ito altrove». E detto fatto, monta sulle poste e torna in Toscana; vani i corrieri a spron battuto spacciati sull’orme di lui dal pontefice; vane le lettere a lui, i brevi minacciosi alla Signoria; dice voler recarsi al granturco, che lo richiede d’un ponte fra Costantinopoli e Pera. Alfine rivenne a Roma, e il monsignore che l’introdusse volle scusarlo presso Giulio II della sua scortesia; ma il papa, costretto a fargli buon viso, fu lieto d’avere su cui sfogare il suo rancore, strapazzando il prelato; poi all’artista commise la statua sua per Bologna. «Maestà, forza, terribilità» v’avea egli espressa, talchè il papa gli domandò, — Dà la benedizione o la maledizione?» I Bolognesi ammutinati la mandarono a pezzi, e Alfonso d’Este ne fece un cannone.
I cartoni della guerra di Pisa, che in venti mesi [39] terminò a Firenze, avevangli dato fama del più grande disegnatore. Vorrebbesi che Bramante, per mortificarlo, insinuasse a Giulio II di fargli storiare la cappella di Sisto IV, sperando, nell’insolito artifizio del fresco, resterebbe inferiore a Rafaello e agli altri. Invano scusatosene, Michelangelo si rinchiuse senza veder nessuno, nè a nessuno fidarsi; non potendo escludere le distraenti officiosità del papa, or gli faceva cascare una tavola ai piedi, or lo impolverava, quasi fosse caso; e se l’impaziente gli chiedeva — Quando avrai finito?» rispondeva: — Quando potrò». Vorrebbero che in venti mesi compisse quel suo capolavoro. Rispettando le architettoniche forme, come opportune a dare anch’esse solidità e vita, divise in altrettanti comparti la storia, dalla prima colpa sino a’ preludj della redenzione. I profeti e le sibille, gigantesche cariatidi ne’ pennacchi, sembrano appoggiare non meno la vôlta della sala che l’edifizio dell’antica legge; e negli atti nuovi, ne’ volti, ne’ panneggiamenti mostrano quel vigore di spirito che sa tenere viva la speranza in un mondo pervertito: mentre con moltissime difficoltà d’esecuzione è espresso l’incanto del bello nella creazione, e la calma nelle scene patriarcali.
Compiva egli i sessant’anni quando Paolo III con dieci porporati gli venne a casa pregandolo di ripigliare a dipingere una faccia della cappella stessa. Accettò, ma cascato dal palco e fiaccatasi una gamba, per nuovo scoraggiamento avea deliberato lasciarsi morire; pure distolto dal proposito, in otto anni compì il famoso Giudizio. Quella simmetria che s’ammira negli affreschi precedenti, qui è dissimulata fino a somigliare alla varietà della natura: eppure senza che verun interstizio palesi una distribuzione sistematica, il pensiero si eleva di giro in giro dal primo rifluire della vita, dalle prime angosce dell’inferno, dalle prime aspirazioni verso il [40] bene supremo, fino alle ultime lotte della speranza, o dalla calma delle schiere beate fino all’esultanza del trionfo e alla gloria di Colui, che sovra i maledetti fa terribilmente inclinare le sfere rotanti.
Ebbe così ritratti in quella cappella i due punti estremi della vita del genere umano; e niuno seppe meglio rapire alla natura il segreto delle ineguali proporzioni, in modo d’imprimere sulle membra i differenti destini; nè rivelare più sentitamente la robusta espressione meditabonda. Come Fidia ad Omero e alle tradizioni poetiche dell’età sua, così egli s’ispirò alla Bibbia e alla Divina Commedia per nobilitare la natura umana: ma Dante, dopo gli spasimi dell’inferno, ricrea coll’eterno riso e l’ineffabile dolcezza del cielo; Michelangelo subordina l’etereo e il sovrumano ai materiali spedienti del disegno; vuole il nudo e l’anatomia, senza riflettere a modestia o a convenienze, senza ricordarsi che, nell’arte non meno che nella morale, si trova vero quel proverbio, — Non osservar troppo sotto la pelle». E coloro che si avventano contro Paolo IV che fece da Daniele di Volterra velare i nudi della Sistina, sappiano che l’Aretino, l’Aretino io dico, disapprovò tali indecenze, il cui abuso in un’anima così bella mostra quanto si fossero incarnate coll’arte le idee pagane[28].
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Vogliono che dalle opere di lui Rafaello traesse l’ultima sua maniera larga: ma mentre Michelangelo diceva, — Quanto Rafaello sa di pittura, sono io che glie [42] l’ho insegnato», questi, senza tenersi offeso dell’esagerazione, si chiamava felice d’essere nato al tempo di Michelangelo. Mentre Rafaello infrena il proprio genio, s’acconcia ai varj maestri, e tiene della grazia primitiva anche quando s’avventura al robusto e al teatrale, il Buonarroti sovverte le nozioni del bello, rende incerti, arbitrarj, convenzionali i limiti dell’arte. Rafaello, col segreto delle simpatie esprime il carattere, il patetico ancor più che il bello; in invenzioni che appagano il giudizio e toccano il cuore, si può dir veramente trasfonda la vita e il sentire e il visibile parlare. Gli studiosi dei segreti dell’arte e delle difficoltà materiali stordiscono innanzi alle opere di Michelangelo; ma chi non vuole disgiunto il bello dal ragionevole, appunta quella fantasia senza moderazione, quel grandioso esagerato, quella robustezza posta ne’ santi come ne’ demonj, quei gruppi d’abilità, d’apparato, d’ostentazione, che comandano la meraviglia, non ispirano l’affetto.
In mano di Michelangelo ogni cosa giganteggia; sempre originali i concepimenti, grandiose le forme, larga la maniera; magnificenza di piani e varietà di accessorj accoppiate a profondità e semplicità. Nel Mosè io non vo ad ammirare quel braccio nè a censurare quella barba, e i muscoli da facchino o il non istorico [43] panneggiamento; neppure mi ricordo che dovea figurare fra tante altre statue e in piano diverso dal presente: ma a quell’indefinibile di melanconico e di venerando impressogli nel viso che cosa potrebbe mettere a petto l’antichità? Se non che l’anima sua tutt’azione mal tollerava i freni dell’arte, quasi neppur quelli della materia: di qui la natura de’ suoi lavori, tanti eppure tutti staccati da ogni tradizione di scuola, e sempre con potente personalità, e aventi per carattere indefettibile la forza. Architetture bizzarramente complesse carica di statue in posizioni faticose, quasi potenti volontà incatenate da una forza prevalente, e costrette a mestizia eterna o ad una meditazione prossima al disperare: fino i suoi colori sono così ricisi, così taglienti i contorni, che li credi destinati a rilevarsi in marmo.
Soggiogando la materia alla sua fantasia, pretendeva dare corpo al sentimento, ridurre le statue ad esprimere generose concezioni, possibile fosse o no; onde molte incominciò e non finì; altre ferì di colpi sì risoluti, da venirgli poi meno il marmo; i nudi sdrajati sulle tombe de’ Medici, doveano essere allegorie, nate nella concitata immaginazione per significare tutt’altro che le glorie dei Medici; e in Lorenzo di Pietro, il più inetto e tristo di quella razza, atteggiava un’idea intitolandolo il Pensiero, e mettendo l’anatomia a servizio di questa. E sempre egli vagheggiava una forma indipendente, che traesse importanza unicamente da sè e per sè, che comandasse lo stupore colle ardite combinazioni: ma cercando l’effetto senza riguardo alla convenienza, aperse la via alla corruzione, e coll’abuso dell’astratto spuntò il sentimento della castigatezza. Sarebbe però ingiustizia apporre all’iniziatore il trasmodare degli imitatori.
Anche nell’architettura ridestò lo stile colossale e l’unità d’ordine: ma poichè il modo antico non si [44] confaceva più coi bisogni e colle idee presenti, gli si surrogava il convenzionale. La sacristia di San Lorenzo, cappella funeraria de’ Medici, maestosa nelle masse, pecca di licenze e magrezze: nella biblioteca Laurenziana si trovava legato da troppe convenienze: al palazzo Farnese di Roma, disegnato dal Sangallo, pose il cornicione più bello dopo quel del Cronaca a Firenze. Commessagli da Pio IV una chiesa sulle terme di Diocleziano, seppe valersi delle ossature antiche con un rispetto che neppure in quella chiesa usarono a lui i successivi architetti. Riordinò il Campidoglio sul declive opposto al primitivo, con un balaustro tutto a pezzi antichi, e col Marc’Aurelio equestre; la spianata fiancheggiò di due ale di palazzo, e cominciò quello del Senatore, alzato poi da Giacomo della Porta e dal Rainaldi con infelici variazioni. Ivi egli inventò il capitello jonico colla voluta in fuori, per quel desiderio d’originalità che il traeva a innovamenti non necessarj di disposizione e di decoramento; come nella porta Pia, mescolanza illaudevole di classico e di nuovo, da cui furono spinti a tante bizzarrie gl’imitatori.
La basilica di San Pietro in Vaticano, malgrado i difetti, resta il capolavoro delle arti, delle quali offre la storia dal tempo che Proba nel IV secolo v’ergeva un tempietto a suo marito Anicio, infino al Tenerani. Ideata al tempo di Costantino sul tipo di San Giovanni Laterano e di San Paolo, ebbe atrio quadrifario al vestibolo; internamente cinque navi; erte mura di mattoni; pavimento di marmi varj di figura, di grandezza e colore; finestre colorate in telaj di bronzo; bronzo le imposte della porta principale, tolte a qualche tempio, come n’erano tolti altri membri. In appresso fu modificata, e aggiuntivi altari e monumenti di forma e destinazione diversa, oratorj, sacristie, cappelle, biblioteca, monasteri, mausolei; varianti di stile secondo i [45] passi dell’arte. Dite altrettanto delle pitture e de’ musaici, sì internamente come sulla facciata, alla quale sovrastava una croce di marmo con a’ piedi Cristo seduto, avente alla destra la Madonna, alla sinistra san Pietro, da piè Gregorio IX inginocchiato, e ai lati i quattro animali simbolici.
Riedificare quella basilica in modo che, sorpassando i monumenti eretti dai padroni del mondo, rappresentasse la grandiosità cattolica, pensò Nicola V, e ridurre il palazzo Vaticano bastante a tutti i cardinali, che circonderebbero il papa quasi un concilio permanente; ivi tutti gli uffizj della curia; ivi grandioso ricinto del conclave; immenso teatro per la coronazione; sontuosi appartamenti pei principi; il colle, tutto sparso di edifizj, comunicherebbe colla città per lunghi portici a botteghe; attorno giardini, fontane, cappelle, biblioteca. Morte interruppe il disegno datone da Nicolò Rosellini; e il piano di Leon Battista Alberti per la chiesa conosciamo solo dalla descrizione del Bonanni.
Fatto che sarà il mausoleo di Giulio II, dove collocarlo? Michelangelo propose di compiere la tribuna, dal Rosellini divisata in testa all’antica basilica; non vi vorrebbero meno di centomila scudi. — Ducentomila se occorrono», rispose Giulio; e si cominciò a discuterne; e come di cosa nasce cosa, quel papa, a cui nulla parea troppo grande, sentì nascersi il desiderio di dare degna occupazione ai valenti artisti col ricostruire San Pietro. Bramante prevalse ai competitori, ma i disegni andarono perduti, salvo quel che Rafaello raccolse e che il Serlio pubblicò. Davanti, un peristilio a triplici colonne; dentro, croce latina terminante in tre semicircoli, donde l’occhio s’alzerebbe alla cupola, per la quale, sopra le volte gigantesche del Tempio della Pace, proponevasi collocare la rotonda del Panteon.
Niuno dunque può contendergli il merito del gran [46] concetto, benchè non effettuato: e quella perfetta unità, con armonia delle linee e delle parti, avrebbe fatto parere San Pietro più grande del vero, come ora accade il contrario. Postovi mano, della fretta apparvero risentimenti nei crepacci; e i contrafforti con cui Michelangelo rinforzò i deboli piloni, alterarono l’economia dell’edifizio. Morti Giulio e Bramante; morto il Sangallo che aveva compilato tutti gli edifizj di Roma antica in un disegno che sarebbe riuscito interminabile; morti frà Giocondo e Rafaello, cui Leone X l’avea successivamente affidato, l’ebbe Baldassarre Peruzzi. Costui disegnò una croce greca, finita in quattro emicicli, sopra cui quattro campanili: entrandovi per quattro porte, l’occhio da ogni parte cadeva sopra l’altare posto in mezzo, sotto alla cupola. Bello e armonico disegno, ma al quale sarebbe stato mestieri altro coraggio e vivacità che non n’avesse il Peruzzi, meglio opportuno a disporre piccoli palazzi e facciate eleganti.
Paolo III nel 1546 affidò la fabbrica a Michelangelo, il quale di settantadue anni si accinse a coprire San Pietro. L’età e più il carattere toglievano ch’e’ pensasse, come altri, a perpetuarsi l’impiego eternando il lavoro; ricusò l’assegno di seicento zecchini; e mentre un modello complicatissimo del Sangallo era valso cinquemila centottantaquattro scudi, egli finì il suo in quindici giorni, e con venticinque scudi, sopprimendo le particolarità dispendiose, e con ciò aumentando maestà, grandezza, facilità. Preferì la croce greca, corintia dentro e fuori, con un ordine solo, e colla più possibile unità. Il papa gli concesse di mutare quel che voleva, ma nulla alterasse il modello; ond’egli, vinte le cabale, superando le maldicenze coll’unico mezzo da ciò, il disprezzarle, inoltrò di pari passo tutto l’edifizio. La cupola doveva costituirne la parte principale, e dai quattro bracci godersene la vista; e il grandioso stilobate, sovra cui rilevò [47] tutto l’edifizio, accenna qual sarebbe riuscita la fronte se i successivi non l’avessero guasta.
Tra questi lavori morì a novant’anni. Al suo mortorio in San Lorenzo soprastavano il Vasari e il Bronzino pittori, l’Ammanato e il Cellini scultori: Benedetto Varchi recitò l’orazione funebre, molti poetarono, altri fecero una quantità d’iscrizioni. V’assisteano da ottanta fra pittori e scultori: molti aveano fatto mostra di abilità nel catafalco, ornato di storie a chiaroscuro e di statue: e Fame ed Eternità, e l’Odio e la Sproporzione e la Pietà, tutti i fiumi del mondo che venivano a condolersi coll’Arno; tutti i pittori da Cimabue in poi che incontravano l’ombra di Michelangelo; e varj atti della vita di questo, e massimamente gli onori rendutigli da principi; ed altre invenzioni ed allegorie, perdonabili ad apparati effimeri[29].
Certo egli fu uno de’ caratteri più nobilmente improntati. Molto doveva ai Medici, pure ne aborrì la tirannia; munì di difese Firenze, ma prima che assediata fosse partì per Venezia. Reduce poi, e perdonato da Clemente VII, s’adoprò per quelli che aveano resa serva la sua patria; ma sulla statua della Notte scrisse, « — È bene ch’ella dorma per non vedere i mali e l’obbrobrio»[30]: rifiutò d’architettare la fortezza; e chi dicesse che poco monta perchè altri la farebbe, non merita di capire cosa sia la dignità. Di profondità morale e religiosa son monumento le sue lettere al Vasari, che gli narrava le feste per la nascita d’un nipotino di lui: — Mi dispiace tal pompa, perchè l’uomo non deve ridere quando il mondo tutto piange; e mi pare che [48] Lionardo a un che nasce non abbia a fare quella allegrezza che s’ha a serbare alla morte di chi è ben vissuto». Austero di condotta, frugale e perciò incorruttibile, amò quei che gli stavano attorno, la morte d’un fedel servo l’accorò come fosse d’un figlio, e scriveva al Vasari: — Voi sapete come Urbino è morto, di che m’è stata grandissima grazia di Dio, ma con grave mio danno e infinito dolore. La grazia è stata che, dove in vita mi teneva vivo, morendo m’ha insegnato morire non con dispiacere, ma con desiderio della morte. Io l’ho tenuto ventisei anni, e hollo trovato carissimo e fedele; e ora che lo avevo fatto ricco, e che io lo aspettavo bastone e riposo della mia vecchiezza, m’è sparito, nè m’è rimasta altra speranza che di rivederlo in paradiso. E di questo m’ha mostro segno Iddio per la felicissima morte che ha fatto, chè, più assai che ’l morire, gli è rincresciuto lasciarmi in questo mondo traditore con tanti affanni, benchè la maggior parte di me n’è ita seco, nè mi rimane altro che un’infinita miseria».
Amò Vittoria Colonna d’amor casto e profondo, e nella morte di lei risentì tutta la poesia del dolore; «e mi ricorda d’averlo udito dire che d’altro non si doleva, se non che, quando l’andò a vedere nel passare di questa vita, non così le baciò la fronte o la faccia, come baciò la mano»[31]. Agli emuli non rispondeva, dicendo: — Chi combatte con dappochi non vince a nulla». La persuasione del suo merito s’avvicinava all’arroganza, eppure tratto tratto ricadeva nella diffidenza, non delineava più che soggetti della Divina Commedia, e rifuggiva sotto l’ale della misericordia eterna[32], e credevasi insufficiente all’arte, mentre gli fioccavano onori.
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Con sì splendide, anzi uniche commissioni abbracciando l’intero ciclo delle arti, sopravvivendo a quanti aveano levato grido, colla robustezza di un genio che ne’ suoi vortici trascinava quanto l’avvicinasse, colla nobiltà d’un carattere incontaminato, colla franchezza nel dar precetti e sentenze, coll’aver creato modelli in ciascuna delle arti e nelle due città che n’erano centri, dovea naturalmente eccitare l’entusiasmo del suo secolo, che lo proclamava «più che mortale angel divino»; entusiasmo alimentato anche dagli scrittori d’arte, fiorentini i più, e dai successivi che voleano innestare la nascente loro gloria sul nome del maestro di cattiva scuola. Perocchè, amico siccom’era del singolare più che del vero, proponendosi che le produzioni dell’arte riuscissero più belle che quelle della natura, e mirando agli effetti anche dove il soggetto non li domanda, avviò ad un bello di convenzione, e a quel precipizio di cui egli accorgevasi di camminare sull’orlo, quando, nel compiacersi della cappella Sistina, esclamava: — Quanti quest’opera mia ne vuole ingoffire!»
Fu nel maggior trionfo di Michelangelo che tornò a Firenze il Perugino, e mentre le sue figure erano dichiarate goffe da quello, egli trovava dure e senz’anima quelle di Michelangelo: ne derivarono ingiurie e risse, [50] e il tribunale degli Otto interpostosi, die’ torto al Perugino. Il quale allora scredette in se stesso, volle emulare la scuola naturalista, e mal riuscendo, era bersagliato dai Michelangioleschi con epigrammi e pasquinate, come secco di stile, duro e povero nel drappeggiare, monotono ne’ caratteri e nelle pose, scarso e ripetuto nelle invenzioni; aggiungevano fosse avaro[33]; le quali maldicenze raccolsero e tramandarono il Vasari per piaggiare a Michelangelo, e Paolo Giovio, pel cui museo egli non volle tributare. Il Perugino difendevasi male, come chi un tempo si vide lodatissime le qualità che allora gli si rinfacciavano; uscì di Firenze per sempre, ma continuò a lavorare; e attorno a lui fiorivano Giovanni [51] spagnuolo, Gaudenzio Ferrari lombardo, Girolamo Genga d’Urbino eccellente prospettista, Pierino da Pistoja, il Boccaccini di Cremona, il Pinturicchio, il Rossetti, l’Ingegno, come era soprannominato Andrea Luigi d’Assisi, che divenuto cieco, visse fino a ottantasei anni, consolandosi che sol questa miseria l’avesse impedito d’eguagliare Rafaello.
Coi due sommi s’accompagna Leonardo da Vinci (1452-1519), pittore, scultore, poeta, musico, geometra, architetto; talento universale, eppure in niuna parte leggero; se non che quel suo bisogno di cercar sempre novità gli lasciò eseguire poche cose, poche finirne. Carattere puro e fermo, a’ suoi scolari largheggiava soccorsi; a chi non fosse contento de’ suoi quadri, restituiva il prezzo convenuto; e quanto fosse disinteressato lo attestano le centinaja di disegni che lasciò, la cui finitezza prova pure quanto e come studiasse. Comprava uccelli per diletto di liberarli: sbizzarriva d’invenzioni; e per sorprendere gli amici or diffondeva esalazioni fragranti, ora fetide; or disponeva un immenso budello, e riempiendolo d’aria con un soffietto, ravviluppava gli astanti fra quelle inaspettate spire; or dava il volo ad uccelletti meccanici, trastulli di mente bisognosa di creare.
Lodovico il Moro, «il quale molto si dilettava del suono della lira», lo chiamò a Milano «perchè sonasse uno stromento, di sua mano fabbricato»; ma datosi a conoscere per meglio che sonatore, fu adoperato in opere di meccanica e idrostatica. Mentre però tanto ardimento mostrava in queste, «pareva che di ogni ora tremasse quando si poneva a dipingere; e però non diede mai fine ad alcuna cosa cominciata, considerando la grandezza dell’arte, talchè egli scorgeva errori in quelle cose che ad altri parevano miracoli» (Lomazzo). Sedici anni si ostinò attorno al modello della statua equestre di Francesco Sforza, e indugiossi a fonderla [52] tanto, che i Francesi di Luigi XII venuti a Milano la presero a bersaglio. Nel refettorio delle Grazie dipinse con lunghissima attenzione il Cenacolo[34]; dove, escludendo i materiali indizj della santità e divinità e i simboli tradizionali degli apostoli, volle che ciascuno restasse conosciuto dall’aria e dall’emozione natagli all’udire le patetiche parole: onde in quel dramma armonico e ragionevole presentò la scala ascendente nella bellezza della forma, usandola come pacata manifestazione di sentimenti profondi. E dipinger la passione fu la sua gran lode, e col rappresentare i caratteri elevò l’arte al patetico che n’è il trionfo. Duole che, oltre l’infelice situazione, egli abbia compromesso quest’insigne lavoro col dipingerlo non a fresco, ma a olio; sicchè ormai non si va che a deplorarne gli smunti avanzi. Con sentimento ragionato coglie felicemente l’insieme e i particolari, unendo l’ideale e il reale penetra nella vita del corpo e dello spirito; giovasi di tutte le scuole per vestir forme perfette a concetto assegnato e profondo, nè cede a veruno de’ contemporanei per isquisito disegnare e fermezza di linee e forme. Sommo nel magistero del colorire, colla grazia e il giuoco dell’impasto dava ai lumi uno splendore misurato che [53] portasse rilievo alle figure, sicchè divenne maestro del tingere ai Veneziani stessi, e al Giorgione[35] non meno che a frà Bartolomeo.
Caduto Lodovico il Moro, Leonardo tornò a Firenze, e per quattro anni carezzò il ritratto di madonna Lisa, dove il sorriso della voluttà antica è rialzato dall’intelligenza moderna, e che fu da re Francesco comprato quattromila scudi; come la bellezza misteriosa e il riso fugace si ammirano in quella sua Gioconda, attorno alla quale s’industriò vent’anni il bulino del Calamatta, per offrirla come un giojello all’esposizione universale del 1855. Preparò il cartone della battaglia d’Anghiari, che a concorrenza con Michelangelo dovea dipingere, tutto impeto e vita d’uomini e di cavalli: ma nato un tumulto, gli invidiosi o gli ammiratori (spesso per vie diverse riescono al medesimo fine) lo fecero in brani per disputarseli: quasi fosse destino l’andar a male le opere di lui più studiate. Aveva allora cinquantadue anni; e incontentabile com’era, non potè più reggere a fronte de’ Michelangioleschi, che a vedere e non vedere finivano le loro opere; onde volentieri accettò la chiamata di re Francesco, ma non pare compisse alcun lavoro in quella Francia, che or tanti possiede dei quadri e degli scritti suoi[36].
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Quanto profondo scrutatore fosse della natura, lo attestano gli scritti di variatissima scienza, che lasciò confusi ed informi, e gli estratti o raccozzamenti che se ne stamparono; dove la qualità che campeggia è la sagacità. Il suo trattato della pittura è delle prime disquisizioni intorno ai canoni dell’arte, solendo dire che la teorica è il capitano, la pratica i soldati: meditato scientificamente il corpo umano, diede una teorica precisa d’anatomia pittoresca. Pose prima di Bacone che, «senza la sperienza, nulla dà di sè certezza»; e vuole per mezzo di questa si scopra la ragione: essa è interprete della natura, nè mai s’inganna, bensì il giudizio nostro coll’aspettare effetti ch’essa non porge; la si consulti dunque, variando di modi, finchè possano trarsene conseguenze generali. Mancano di certezza le scienze cui non possa applicarsi qualche parte delle matematiche. Quelli che non consultano i fatti ma gli autori, non sono figli della natura, ma nipoti, poichè essa sola è maestra de’ veri ingegni. Benchè essa cominci dal ragionamento e finisca colla sperienza, via opposta dobbiamo tener noi; citare prima lo sperimento, poi dimostrare perchè i corpi sieno costretti operare a quel modo.
La meccanica chiamava «paradiso delle scienze matematiche, perchè con quella si viene al frutto d’esse scienze»: onde fece moltissime macchine per le arti o per le occorrenze domestiche, e v’applicò la geometria. Conobbe la teorica delle forze obliquamente applicate [55] alla leva, e il contrasto delle travi; tenne conto degli sfregamenti, con metodi ingegnosi che poi Amontons perfezionò; dichiarava impossibile il moto perpetuo e la quadratura del circolo; inventò un dinamometro; applicò a molti casi il teorema delle celerità eventuali; primo de’ moderni si occupò del centro di gravità e dell’influenza sua sui corpi in riposo e in moto; spesso ripete che i corpi pesano nella direzione del loro movimento, e che il peso (oggi diremmo la forza) cresce in ragione della velocità; sa che, nella discesa per piani inclinati di eguale altezza, il tempo sta come le lunghezze; che un corpo discende per l’arco d’un circolo, piuttosto che per la corda; e che calando per un declive, risale con altrettanta velocità come fosse caduto perpendicolarmente da altezza eguale.
Scrisse sulle fortificazioni; d’idrostatica stese un compiuto trattato con un concatenamento di problemi, e prevenne d’un secolo il Castelli posando le basi della teoria delle onde e delle correnti; conobbe la forza del vapore, e pensò fin applicarlo ai cannoni da guerra[37]. A lui è dovuto il pensiero d’incanalar l’Arno dopo Pisa, opera compiuta due secoli appresso da Vincenzo [56] Viviani; insegnò le colmate, o almeno le descrisse esattamente e ne diede la teorica; descrive la camera oscura prima del Porta; prima del Maurolìco spiega lo spettro solare in un buco angoloso; prima di Argand osserva che, se il lucignolo d’una lampada fosse forato, il colore della luce riuscirebbe uniforme; insegna la prospettiva aerea, la natura delle ombre colorate, i movimenti dell’iride, gli effetti dell’impressione visuale e altri fenomeni dell’occhio, ignoti a Vittelion.
In un capitolo Sull’antico stato della terra confuta coloro che diceano la natura e l’influenza degli astri aver potuto formare le conchiglie d’età differenti che si trovano nelle roccie, e indurire le sabbie a varie altezze, in varj tempi; ma supponendo il mare abbia coperti i terreni, non solo spiega per via di sedimenti le stratificazioni orizzontali o diversamente inclinate, ma accenna anche il sollevamento de’ continenti. Attribuì alla forza del sole l’esser le acque sotto all’equatore più elevate che ai poli, affine di «ristabilire la perfetta sfericità»; errore, ma che indica come conoscesse la disuguaglianza degli assi. Prima di Copernico sostiene la rotazione della Terra, in grazia della quale considera come composto il movimento de’ corpi nel cadere. La luce cinerica della parte oscura della Luna spiega colla riflessione della Terra, come gran tempo di poi asserì Mästlin[38]. Capì che l’aria atta alla respirazione doveva alimentare la fiamma. All’universalità di cognizioni univa quella potenza magistrale, che non solo trova la perfezione, ma sa trasmetterla, e alle due scuole distinte che lasciò a Firenze e in Lombardia insegnava a dipinger la vita, il movimento, farvi concorrere alla rappresentazione tutte le abilità, disegno, colorito, carattere, e tutte regolate dalla ragione.
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Collochiamo dunque il Vinci tra i restauratori della scienza e della filosofia, col rincrescimento che le occupazioni troppo variate gli abbiano impedito di trarre a compimento o di far pubbliche tante sottilissime e capitali invenzioni. E agl’ineducati artisti dei giorni nostri non si finisca di ripetere come i tre più grandi fossero addottrinati così che sarebbero immortali se anche non avessero dipinto e scolpito. L’intelligenza dà all’arte l’ultima forma e grandezza.
Meno per genio proprio che per fatica perseverante e armoniosa imitazione si schiera coi sommi Andrea del Sarto (1488-1530), il quale la devozione di frate Angelico e la meditazione di Leonardo riprodusse nella Madonna di San Francesco, e in quella del Sacco, che Rafaello non avrebbe finita più delicatamente, nè Michelangelo più largamente disegnata. La storia del Battista nello Scalzo del 1514 ha disegno puro e facile, semplice disposizione di figure, pôse assicurate, angeli e bambini deliziosi a vedersi, e inarrivabile contrasto di luce e d’ombre. Nel cortile dell’Annunziata cominciò, il 1510, la vita di san Filippo Benizzi, ridente sempre e grazioso, con ischietta dignità, pur già piegando verso la monotonia e la negligente facilità: che se meritò il nome di Andrea senza errori, difettò nella poesia di grandiosi concetti, e nel robusto aggruppare. Chiamato in Francia, e avuto da quel re denari per venir qui a comprare quadri, se li tenne per passione della Lucrezia del Fede; dalla quale bassezza avvilito, si rimpiattò; ebbe a soffrire dei disastri ultimi della sua patria, infine morì di quarantadue anni, derelitto perfino dalla Lucrezia. Quando, per l’assedio del 1529, si demolivano i sobborghi di Firenze, non si osò porre il martello ad una parete di San Salvi, dove Andrea avea dipinto la Cena.
Furongli amici e ajuto il Franciabigio e il Puligo; e migliore Jacopo Carducci, detto il Pontormo, che, [58] vedute le incisioni di Alberto Dürer, chinò a quel fare, poi al michelangiolesco, e così variando sempre senza proprio carattere, l’altrui imitava per modo di farsi scambiare. Del Bronzino suo scolaro lodano l’Adultera e il Sagrifizio d’Abramo; gentile ne’ volti e vago nelle composizioni, ma con poco rilievo e colorire giallastro e scarsa varietà. La Deposizione alla Trinità de’ Monti, uno dei tre migliori quadri di Roma, loda Daniele Ricciarelli di Volterra, indipendente scolaro di Michelangelo, come la strage degli Innocenti alla galleria di Firenze. L’intimo sentimento religioso, ricavato dalla venerazione pel Savonarola, salvò frà Bartolomeo della Porta (1469-1517) dalle invenzioni voluttuose, allora domandate, e colla tranquillità dignitosa che infuse nelle sue figure meritò un posto nella tribuna di Firenze. A lui Pier Soderini gonfaloniere commise un quadro da collocare nella sala del gran consiglio, dove fossero tutti i santi e protettori di Firenze, e quelli nel cui giorno ebbe vittorie. Sommo coloritore e maestro nel panneggiare, dai Michelangioleschi era motteggiato come inetto alle grandi proporzioni e inesperto d’anatomia; al che rispose trionfalmente col colossale San Marco e col nudo San Sebastiano: ma la moda e le statue antiche lo trassero negli ultimi tempi in crudezze di linee e di tinte[39].
Fede all’arte cristiana conservarono l’incisore Baldini, devoto al Savonarola, Giannantonio Sogliani, che ne’ visi dei santi esprimeva «un riverbero della gloria [59] del cielo», e dell’inferno in quelli dei ribaldi; Lorenzo di Credi, puro, ingenuo, tutto soave melanconia; Ridolfo del Ghirlandajo, che spira pietà nella Madonna in San Pietro di Pistoja, e nei due miracoli di San Zanobi alla galleria de’ Pitti. Ebbe carissimo un Michele, per ciò detto di Ridolfo, che seco lavorò in molte chiese di Firenze. Le costoro botteghe prendeano spesso apparenza di oratorj; e deposto il pennello, or recitavano passi di Dante, ora sul liuto accompagnavano qualche sacra cantilena, o ragionavano della morte; mentre la bellezza delle modelle, le braverie, le canzoni amorose spassavano quelle del Cellini o del Peruzzi.
Fra gli aneddoti, di cui è tessuta e forse travisata la storia artistica d’allora, vien raccontato che Michelangelo, volendo emulare Rafaello nelle temperate invenzioni e nel colorire armonico, desse i proprj disegni a tingere a Sebastiano del Piombo (1485-1547), imitatore del Giorgione, e diligente nel finire. A questo modo la Risurrezione di Lazzaro fu contrapposta alla Trasfigurazione; e Sebastiano, invanito, pretese pareggiarsi a Michelangelo e Rafaello: ma quando egli accompagnava Tiziano alla visita delle pitture, questi vedendo i restauri fatti nelle stanze vaticane dopo i danni del sacco, proruppe, — Chi fu il presuntuoso ignorante che guastò quelle faccie?» Era stato Sebastiano.
Di Francesco Rustici, scolaro di Leonardo, e morto in Francia, sono le statue di bronzo sopra il battistero di Firenze, dove lavorò pure Andrea Contucci da Sansovino, scultore, fonditore, architetto, che lasciò opere a Genova, a Roma nella chiesa del Popolo, in Portogallo, e principalmente l’esterno della Santa Casa di Loreto. Molti Fiesolani continuavano la disciplina del Ferruccio e del Boscoli.
E già pareva non si potesse far meglio che imitare [60] o le delicatezze di Rafaello o le grandiosità di Michelangelo; ma, come disse ad altro proposito il Guicciardini, «l’imitazione del male supera sempre l’esempio, siccome, al contrario, l’imitazione del bene rimane sempre inferiore». Gli scolari di Raffaello ne seguirono principalmente il lato sensuale; e cacciati dalla peste e dai Tedeschi, si diffusero per tutta Italia propagatori del buon gusto, che modificò le qualità primitive delle varie scuole.
A Giulio Pippi (1492-1546), di storia ignota, pien d’estro e celerità più che scelto nelle idee, Rafaello dava a compire le invenzioni architettoniche appena schizzate; donde nacquero varj casini di Roma, e la elegantissima villa Madama a monte Mario, colle decorazioni più gentili dopo le loggie vaticane. Dal marchese Gonzaga fu chiamato a Mantova, dove la scuola del Mantegna era sopravvissuta in due suoi figliuoli, nei Monsignori, in altri che scolpendo e pitturando modificarono la maniera di quel maestro, poi il ferrarese Costa avea formato eccellenti scolari, fra cui il Leonbruno e il Febus. Giulio di robuste dighe vi frenava il Po ed il Mincio, sanò le bassure, intere vie rifece, restaurò antichi e pose edifizj nuovi, tra cui principale è il palazzo del Te, quadro di sessanta metri di lato, con immenso cortile; ed egli stesso lo storiò imitando l’antico, massime nei bassorilievi di stucco[40], e nella sala de’ Giganti mascherando la forma architettonica colla pittura, e sempre decrescendo di nobiltà e purezza con invenzioni gentilesche, conformi alla sensuale sua vita, nè sdegnò prostituirsi alle infamie dell’Aretino. La cattedrale di Mantova rifece sul gusto antico; nella facciata ineseguita [61] di San Petronio a Bologna tenne il mezzo fra il gotico e il greco.
Baldassarre Peruzzi (1481-1556), abbandonato a Volterra da un Fiorentino fuoruscito, per vivere copiò quadri, finchè potette fare di suo. Come ajuto di Rafaello dipinse in Vaticano, poi sostentato da Agostino Chigi, perfezionò la prospettiva da teatro, dipingendo scene per le feste di Giuliano de’ Medici, e per la Calandra del Bibiena. Opere temporanee, di cui possiamo farci un’idea nella galleria della Farnesina, dipinta con tanta illusione, che Tiziano la credette rilievo[41]. Nel sacco di Roma bistrattato, e costretto a fare il ritratto dell’ucciso Borbone, fugge ignudo a Siena. Ivi fabbricò, e principalmente le fortificazioni; ricusò assistere Clemente VII nell’assedio di Firenze; pure da quel pontefice e da altri ebbe lavori a Roma più che denari, e conduceva il palazzo Massimi, capo suo, quando morì.
Il Fattorino (Francesco Penni) andò a ravvivare la scuola napoletana. Perino, figlio abbandonato da un de’ Francesi di Carlo VIII, fu posto a dipingere sotto il Vaga, da cui prese il nome; e adoperato da Rafaello ad eseguire a fresco, al fare di questo s’attenne poi sempre, ma declinando al materiale. Anche Polidoro da Caravaggio, capitato a Roma come manovale, e da Rafaello avviato alla pittura, con Maturino dipinse di chiaroscuro al modo del Peruzzi, perciò copiando l’antico. Fuggendo dai Tedeschi ripararono a Napoli, ove Maturino morì, nè a Polidoro badavano i nobili, dediti a caccie e comparse: in Sicilia abbondarongli commissioni, fin quando il servo per rubarlo l’assassinò. Da Rafaello e dal Pinturicchio, che vi effigiò le imprese di [62] Paolo II, di bei paesaggi variando il fondo, Siena conobbe l’arte moderna, che la fece infedele alle caste ispirazioni, conservate fino a quell’ora.
Fu detto che Rafaello visse poco per le arti, e il Buonarroti troppo; e in fatto già sul costui sepolcro in Santa Croce le statue, atteggiate in aria di farsi copiare, preludono ai difetti de’ suoi scolari. I quali, dimenticando quel suo detto che «chi va dietro non passerà mai avanti», copiavano dalle sue figure il rilievo muscolare, non la morbidezza de’ rivestimenti, nè sovrattutto l’impetuoso immaginare e il profondo sentire. L’esecuzione era migliorata, modellavasi e scolpivasi vivo e ben composto, meglio foggiavansi le prospettive, ma più sempre dalla pia semplicità si sviava alla mera apparenza; stil grande voleasi; nulla di magro, di secco; movimento, muscoli, appariscenza, grazia; dimenticando che questa è schiva di chi la cerca, e che il bello degli antichi non salta agli occhi con pretensione, ma esce a forza di contemplarlo. Quindi dappertutto atteggiamenti ostentati, arida anatomia, giganti, statue sdrajate su cartelloni: quindi una spensata facilità d’invenzioni, tanto più che i Medici, piuttosto generosi che savj mecenati, soggetti mitologici o adulatorj surrogarono alla devozione e al sentimento; e il profano Paolo Giovio sceglieva e divisava quei della villa di Poggio a Cajano. Fra quella turba, improntata d’un’aria di famiglia, distingueremo il Granacci fiorentino; Battista Franco, che emulò Giovanni da Udine nel dipingere le majoliche di Castel Durante; Mariotto Albertinelli, avverso al Savonarola per ligezza ai Medici, che non fece scelta fra’ suoi tipi, e morì d’intemperanza; Bernardino Poccetti, che il miracolo dell’Annegato nel chiostro dell’Annunziata farebbe porre tra i sommi se all’estro e al tocco risoluto avesse unito la pazienza.
Pier di Cosimo, idolatro della natura fino a non [63] soffrire che l’uomo la modificasse, stizziva quando fossero potate le piante o svelte le erbaccie dal suo verziere; non teneva ora fissa al mangiare, vagolava in luoghi strani, e contemplava le figure disegnate dalle nubi e dagli sputi; onde riuscì sommo nell’imitare, nella prospettiva e nel chiaroscuro, quanto scarso nel sentimento. Il Battista nel duomo di Firenze, e il monumento di san Giovanni Gualberto, disperso nel 30, lodano Benedetto da Rovezzano. I mausolei dei Doria a Genova e del Sannazaro a Posilipo, e la fontana di Messina di frate Montorsoli sono macchinose esecuzioni di poveri concetti. Nelle porte di San Petronio a Bologna il Tribolo seppe schivare le esagerazioni. Vincenzo Danti perugino del fondere lasciò ragionevolissimi suggerimenti e opere finissime, comechè peccanti di leziosaggine. Giacomo della Porta milanese voltò la cupola di San Pietro, finì i lavori di Michelangelo in Campidoglio, e fece palazzi, facciate, fontane in Roma, a Frascati il Belvedere degli Aldobrandini, a Genova la bella cappella del Battista. Suo nipote frà Guglielmo, addestratosi alla Certosa di Pavia e a Genova, abbandonò le sobrie finitezze de’ Lombardi per ormare Michelangelo; e il suo deposito di Paolo III è delle migliori opere in San Pietro, chi guardi all’atto soltanto, alla grazia, alla carnosità: ma ai due lati del bellissimo papa son coricate una giovane e una vecchia che, sotto il simbolo di non so quali virtù, ritraggono l’amica del papa e la madre di lei, inverecondamente ignude, sicchè l’un corpo raggrinzito eccita schifo, l’altro voluttà e peccato.
Tra gl’Italiani si schiera Gian Bologna, di Fiandra venuto giovanissimo in Firenze, dove lavorò assai marmi e bronzi, fra cui il Mercurio volante, di componimento ardito e d’esecuzione gentile; il ratto della Sabina, ove s’intrecciano con arte le figure di tre differenti età; la bella statua equestre di Cosmo I; e preparò quella di [64] Enrico IV, terminata poi da Pietro Tacca. Molto gli giovò il valente fonditore Domenico Portigiani fiorentino, principalmente nella grandiosa cappella di Sant’Antonio ne’ frati di San Marco, i quali vi spesero ottantamila scudi; e nelle porte della cattedrale di Pisa.
Ai Michelangioleschi e all’emula stizza di Benvenuto Cellini fu bersaglio Baccio Bandinelli, inventore scorretto ma robusto, qual si vede nell’Ercole e Caco, opera non inferiore alle contemporanee. Il Nettuno in piazza del granduca, fatto da Bartolomeo Ammanato a concorso con Gian Bologna, col Danti e col Cellini, fu preferito perchè le decisioni non dipendeano più dal popolo, ma da Cosmo (1490-1559). Quell’edificatore di colossi fece il Giove Pluvio a Pratolino, che rizzandosi sarebbe alto sedici metri; a Roma fabbricò il palazzo Ruspoli, che doveva avere quattro faccie, e il vastissimo collegio de’ Gesuiti; finì il palazzo Pitti, adattando l’interno alla facciata con opportuni abbellimenti. I ponti soleano voltarsi su pile massiccie fin d’un quarto o un terzo della luce dell’arco, col che restringevasi il letto, e tanto più quanto più crescea la piena; mentre la curva a tutto sesto crescea la ripidezza del pendìo. L’Ammanato in quello di Santa Trinita a Firenze aprì i tre archi circa trenta metri, e sopra le pile, grosse otto, li curvò in ellissi molto scema. Vecchio si raccolse a Dio, e pentivasi delle figure nude[42].
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Infervorato di Michelangelo, Giorgio Vasari aretino (1512-74) ancor giovinetto diceva a se stesso: — Chè non poss’io procacciarmi le grandezze e i gradi che hanno acquistato tant’altri?» Misero scopo per un artista, e il conseguì dipingendo a furia per la coronazione di Carlo V, poi a Roma pel cardinale Medici una Venere con le Grazie; e quell’impudica composizione tanto aggeniò [66] al prelato, che diede una veste nuova al pittore, e la commissione di un gran baccanale, per cui entrò nelle grazie di Clemente VII, e fu l’artista di que’ dinasti dopo ch’ebbero impugnata Firenze. Valoroso architetto si palesa nell’ardita fabbrica degli Uffizj e negli appartamenti di Palazzo Vecchio, ch’egli poi coprì di storie medicee, tirando via di pratica e a giorni contati. In quanto si dice, dipinse la sala della cancelleria, sempre con concetti superficiali o frivole allegorie e fisionomie insignificanti, colorito abjetto e disarmonico, scarso rilievo, negletta prospettiva aerea, studio delle statue e di Michelangelo, non della natura. Egli cavaliero, egli pittor di corte, egli in grado di dare occupazione alla gioventù, col suo esempio avvezzò al toccare audace e negligente, allo stile manierato.
Più che dall’arte trasse lode dalle sue Vite de’ Pittori. Affatto incerto di cronologia, quasi solo di cose toscane vi ragiona, anzi di fiorentine, e colle passioni di contemporaneo e d’artista; encomiasta de’ recenti, dimentica che essi aveano ammirato e studiato i quattrocentisti[43], quasi volesse adulare i Medici col cancellare anche in ciò le memorie, come restaurando Santa Maria Novella avea cancellato affreschi di Masaccio e dell’Angelico; e prendendo per canone unico la scuola propria, pone mente soltanto alla forma, alla materialità del disegno, alla collocazione dei piani, al muscoleggiare, al rilievo delle teste, armonizzino poi o no collo stato dell’animo; mai un istante non elevasi alla poesia, a contemplare il concetto; innanzi al mirabile componimento di Giotto ad Assisi non vede che «il grandissimo e veramente meraviglioso effetto d’uno che beve stando [67] chinato in terra a una fonte»; non calcola i tempi in cui l’artista fiorì, e le circostanze che il poterono soccorrere o disajutare; quasi a un gran pittore bastasse essere abile operajo, non interprete del pensiero morale de’ suoi contemporanei.
Pure egli dissodava un campo vergine; vide infinite opere co’ proprj occhi, e giudicolle da esperto; per la seconda edizione moltissime correzioni e mutamenti gli suggerirono il tempo, gli amici, la prudenza e un nuovo viaggio per Italia; e sebbene non vi sia storico che non abbia dovuto ad ogni piè sospinto confutarlo, pure rimarrà sempre uno de’ più cari testi per l’ingenuità del parlare; per la copia di aneddoti che ci dànno vera e spirante la vita d’allora; sovrattutto per la passione che mette nella descrizione di quadri. Con quale evidenza non ritrae la Crocifissione del Gaddi in Arezzo, la cappella Spinelli in Santa Croce, le pitture della beata Michelina in Rimini! come si esalta per la Maria in gloria del frate Angelico[44], pel ritratto di Leone X e per lo Spasimo di Rafaello! con che impeto ritrae i capolavori di Michelangelo! Solo l’artista può innamorarsi così; e chi ha gustato le delizie stesse esulta di riprovarle con esso. Si gode pure del suo piacersi nell’amicizia de’ grandi, e del vantarsi che «nessuno abbia praticato Michelangelo più di lui, e gli sia stato più [68] amico e servitor fedele; nessuno possa mostrare maggior numero di lettere, scritte da lui proprio, nè con più affetto». Aggiungete ch’egli non è costretto alla polemica, nella quale s’imbroncano perpetuamente i successivi scrittori d’arte, anche per colpa de’ molti errori di lui.
Pareri scrisse Bernardino Campi; Veri precetti Giambattista Armenini di Firenze, appoggiandosi agli esempj; Rafaele Borghini estrae dal Vasari per esporre in dialoghi, che sono lunghissimi discorsi di stentati tragetti, coll’assurdità di far recitare a memoria tante notizie positive. Trattò di pittura anche Federico Zuccari, che col fratello Taddeo dipinse i palazzi Farnesi a Roma e Caprarola, poi l’Escuriale di Spagna, e fu presidente all’accademia di San Luca; la quale, fondata sotto Gregorio XIII, ottenne che nessuno scritto sulle belle arti si pubblicasse in Roma senza sua licenza; spediente sicuro d’impedire che si conoscessero ed emendassero gli abusi.
Gianpaolo Lomazzo milanese, buon pittore quanto vedesi principalmente a Tradate, e che a trentun anno perdè la vista, avea dettato precetti dell’arte sua[45], che considerava come un sacerdozio privilegiato a rappresentare Dio e i santi. Da queste idee, rinvolte in astruserie e circonlocuzioni e metafore secentiste e osservazioni di stelle, deduce alti concetti e devote pratiche; [69] più che lo studio degli antichi e de’ Tedeschi vuole si cerchi d’avere nell’idea quel che poi s’ha da ridurre in tela; molta cura domanda dei caratteri, e in quelli dei santi vuol combinate maestà e bellezza, onde crescere in noi i sentimenti di pietà e venerazione; mostrasi arguto osservatore nell’esprimere le passioni, principalmente nelle delicate, battendo il mal gusto, e gli sfoggi teatrali de’ Michelangioleschi, e la predilezione per soggetti lubrici e il rappresentar la donna sol come oggetto sensuale, o villanamente nelle cariatidi; predilige la venustà infantile, sin a credere che senz’essa un quadro non possa essere bello; nell’architettura e nella decorazione preferisce il modo antico e il bramantesco a quegli introdotti dagli idolatri di Vitruvio. Dopo di che fa meraviglia come secondi i pregiudizj correnti nel giudicar degli autori, nell’ammirare la muscularità, nello sprezzo del medioevo. Ma oltrechè men superficiale del Vasari ne’ giudizj, giova alla storia in quanto i suoi precetti appoggia d’esempj anche lombardi, altronde ignoti.
La scuola lombarda rimontava fino ai giotteschi Andrino d’Edesia e Giovan da Milano, che lasciò bei dipinti in Firenze, e fu seguito da Vincenzo Foppa bresciano, dal Crivelli, da Nolfo di Monza, imperfetti di forme, non senza grandezza di carattere. I due Civerchi, Bernardino Zenale e il Buttinoni da Treviglio poterono profittare degli esempj del Bramante. Sull’orme di questo, Bartolomeo Suardi, detto il Bramantino, delicato modellatore, valse assai nella prospettiva, studiò gli effetti più che il carattere, lavorò pure a Roma, e scrisse sulle antichità greche e romane, come il Foppa e lo Zenale sulla prospettiva lineare e le proporzioni del corpo umano. Anche dopo che il Mantegna vi aveva recato le pratiche prospettiche, Gentile Bellini le tradizioni dell’Umbria, poi le raffinatezze fiorentine Leonardo, [70] una fisionomia particolare conservarono i migliori; quali Francesco Melzo prediletto del Vinci, ma più grazioso che robusto; Gianantonio Boltraffio, che della scuola arcaica mantenne la gravità e le vigorose concezioni, pur diffondendovi freschezza di vita, magia di chiaroscuro, finezza di modello, ed esatta traduzione della fisionomia. Marco d’Oggiono rimane inferiore, massime per disegno, quando non copiò il maestro; ma è maggior di sè nel quadro in Sant’Eufemia a Milano.
E fa meraviglia come la scuola lombarda continuasse a fiorire, malgrado di tante sventure pubbliche e quasi a consolazione della perduta indipendenza; ma non fortunata di storici come le altre, restò quasi ignorata di fuori. Eppure gli affreschi di Bernardino Luini (-1528?), abbastanza frequenti in Lombardia, non iscapitano dai migliori, e le sue tele sono dai forestieri scambiate con quelle di Leonardo, sul quale egli avea studiato a segno, da farne propria la sublime schiettezza, la purità del concetto, la vereconda soavità, sebbene di quell’iniziatore non raggiunga la veemenza e l’espressione grandiosa e profonda, prevalendo nella dolcezza di spirito e nella grazia armonica. Ma egli non fu protetto dai re, bensì da quei che piangevano e pregavano nelle sopravvenute miserie, e lavorò quasi soltanto in chiese e conventi. Della Santa Caterina, leggenda prediletta dei pittori lombardi, non è possibile trovare una composizione e un’esecuzione più felice che il trasporto del cadavere per man degli angeli, qual si vede a Brera. Nulla di più soave e patetico degli affreschi nel Monastero Maggiore. Nell’età piena dipinse a Saronno la disputa di Cristo, e a Lugano la Crocifissione, vero poema, con infinite persone in atti e panni ed affetti tutti varj e veri, con teste spiccanti, e quella magia di guardatura che pajono chiederti risposta. Eppure sembra non avesse veduto i sommi contemporanei se non [71] forse per via delle stampe; ed era retribuito a miseria[46].
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Cesare da Sesto (-1524) tiensi nella ragionevolezza del soggetto come il maestro, e come lui si prepara con lunghi studj e attenti disegni; e se non l’eguaglia in ricchezza d’idee e costanza di correzione, e se spesso abbandonasi alla sicurezza dell’applauso, non si torrebbe mai l’occhio dalle tele dove ha voluto esser grande. Passò poi a vedere modelli differenti in Sicilia e a Roma, dove ajutò Rafaello, il quale vuolsi gli dicesse: — Non comprendo come, essendo noi tanto amici, ci usiamo così pochi riguardi». Il suo carissimo Bernazzano spesso gli lavorava i fondi con paesaggi, ne’ quali era eccellente. Quando si scoperse il quadro di Antonio Salaino della sagristia di San Celso, tratto da cartone di Leonardo, tutta Milano concorse ad ammirarlo.
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Gaudenzio Ferrari di Valdugia (-1550), educato a Vercelli da Girolamo Giovenone, poi ajuto di Rafaello quand’ancora attenevasi alle maniere dell’Umbria, ma soprattutto studioso del Vinci[47], ancor meglio di questo unì la forza alla grazia, sebbene al fine s’ingrandisse, cioè degenerasse dietro ai Michelangioleschi. Singolarmente accurò l’espressione de’ volti, e la pia affezione; e il Lomazzo sfida chiunque a rappresentare la divina maestà meglio che nella sua morte di Cristo, al sacro Monte di Varallo. Quel santuario e quel di Saronno, allora frequentati a proporzione delle pubbliche miserie, furono il campo dell’abilità di Gaudenzio, e d’ogni parte eragli chiesto qualche episodio del gran dramma della redenzione, che a Varallo avea rappresentato intero.
Bernardino Lanini vercellese, più che nel disegno e nel chiaroscuro valse nel buon comporre anche in grande, come nella Santa Caterina presso San Nazaro. Di Giannantonio Bazzi da Vercelli (1477-1519), detto il cavaliere Soddoma, peniamo a credere le turpitudini che il Vasari racconta, poichè la bellezza de’ suoi dipinti in Lombardia tiene del leonardesco, anzi nelle Madonne supera per grazia naturale il maestro; i Senesi, della cui scuola ridestò lo spirito, gli affidarono a dipingere le storie di san Bernardino e santa Caterina, e gonfaloni veneratissimi; altre pie immagini fece altrove, leggiadre insieme ed elevate e gravi principalmente a Napoli, e veramente di Rafaello mostrasi scolaro ne’ puttini e anche negli adulti: vero è che non sa comporre storia, e invecchiando declinò verso i manieristi.
Con questi pittori va una eletta di scultori, massime ornatisti. Maestri di muro e di pietre, venuti dai laghi [74] di Lugano, di Como, di Varese, divenivano scultori e architetti; e le cattedrali lombarde e Venezia s’allietano d’opere di autori non nominati, o appena col titolo di Lombardi, di Campioni, di Bregni. Gaspare e Cristoforo Pedoni luganesi assai lavorarono d’ornato a Cremona, e a Brescia il vestibolo de’ Miracoli; i fratelli Rodari di Maroggia con incantevole pulizia nel duomo di Como, e probabilmente nella semicattedrale di Lugano; Bonino da Campione il mausoleo di Cansignorio a Verona, una delle più belle opere gotiche, a sei faccie con sei colonne d’eleganti capitelli, e con bellissimo serraglio di ferro; Antonio Amedeo pavese in Bergamo quel del Coleone.
Gian Galeazzo avea dotato lautamente i monaci della Certosa di Pavia perchè continuassero la fabbrica (tom. VII, pag. 185); finita, quella somma dovesse compartirsi ai poveri. La distribuzione cominciossi nel 1542; ma i grandi miglioramenti recati ai terreni lasciarono ai monaci di che proseguire, e farne, come il Guicciardini lo chiamava, «il monastero il più bello che alcun altro non sia in Italia».
Fu architettata da Giacomo da Campione milanese nel 1396, non dal fiorentino Nicolò de’ Galli, cui molti l’attribuiscono. Disposta al modo bramantesco e policromatico, senz’archi acuti, sessanta medaglioni sulla base della facciata offrono ritratti di imperatori e re, stemmi, simboli, fatti scritturali, la più parte d’eccellente gusto: i quattro finestroni direbbonsi incomparabili, se non li vincesse la porta, con un incantevole complesso di sculture, storianti la fondazione del tempio, i funerali di Gian Galeazzo, le vite de’ santi Ambrogio, Siro ed altri: e l’infinità delle figure, la finitezza di tutte, l’espressione di qualcuna incantano gli occhi, per quanto il vandalismo rivoluzionario e la villania irreligiosa le abbiano mutile e guaste. Dentro, la maestà [75] delle ampie arcate, le volte ad oltremare stellato e a fregi, la cupola ottagona a gallerie, le quattordici cappelle ornate a gara, gli avanzi d’alcune vetriate dipinte, le ricche balaustrate di ferro e ottone, toccano di meraviglia prima che si venga ad ammirare le particolarità.
A tacere altri lombardi, Andrea Solaro, che lavorò a Venezia e in Francia[48], e Bernardino Campi meritano lode di vivace espressione e vigorosa tavolozza in un quadro della sacristia nuova, ora spoglia delle ricchezze religiose e artistiche. Aggiungi le prospettive felicissime e le riquadrature, con qua e là alcuni monaci, che si direbbe veramente sporgano e ti guardino, e solo non parlino perchè la regola lo vieta[49]. Ma qui è a conoscere ed ammirare come pittore il Borgognone, cioè Ambrogio da Fossano, quasi ignoto alle storie[50], e che per vigor di disegno, artifizio di ombre, varietà di scorci va co’ migliori, mentre per espressiva e castigata dolcezza, pel posare grazioso, per la mistica delicatezza può dirsi il frate Angelico lombardo. Sempre mosso da pie ispirazioni, e ascetici ricordi, senza perdersi in allusioni e simboli, imprime carattere serafico agli angeli, grave devozione ai santi, aura divina alla [76] Madonna, come può vedersi nel coro di San Sebastiano a Milano, e a Bergamo nell’Assunta di Santo Spirito, con quegli apostoli d’estatica espressione, irradiati dall’alto.
Ne’ tempi di decadenza vi si proseguirono i lavori, ed enormi colossi ingombrarono le arcate minori; gli altari furono sopraccarichi di tarsie, di marmi, d’intagli, diligentissime esecuzioni principalmente dei Sacchi, famiglia che restò per secoli addetta a questa chiesa. I quadri del Procaccino, del Cornara, del Fava, gli affreschi del Lanzani, de’ Carloni, del Ghisolfi, del Bianchi, del Montalto, del Vairone, del Cerano, del Morazzoni, le sculture del Begarelli, del Bussola, del Simonetta, del Brambilla, del Rosnati, per quanto stacchino dalla cara semplicità dei primitivi, non mancano di merito, e formano una galleria tutta lombarda, che a noi non parve fuor di luogo descrivere.
Su disegno del Borgognone gli stalli del coro della Certosa furono intarsiati da Bartolomeo Dalla Porta o da Pola nel 1486, con atteggiamenti semplici. Nella sacrista vecchia un trittico di denti d’ippopotamo in sessantasette bassorilievi e ottanta statuine presenta storie sacre, opera pazientissima di Bernardo degli Ubriachi di Firenze. Nel mausoleo del fondatore, cominciato il 1490 a disegno d’un Galeazzo Pellegrini, e finito solo nel 1562, con lautezza di ornati, Antonio Amedeo ne espresse la storia in sei medaglioni: la statua è stesa sul proprio avello, dove impropriamente si aggiunsero due statue simboliche di Bernardino da Novi, sedute sul monumento come aveano introdotto i Michelangioleschi. Nè minore miracolo è il sarcofago della duchessa Beatrice d’Este, opera di Cristoforo Solaro il Gobbo. Capolavoro d’architettura è il chiostro, disegno di Francesco Richino, portico a cenventi campate con colonnette di marmo sostenenti bassorilievi di terra cotta, busti, statuine, [77] fogliami, arabeschi che danno la più vistosa varietà policromatica, e tutt’attorno al gran cortile, ventiquattro cellette, ciascuna disposta come un compiuto quartiere, e con giardinetto ove ricrearsi dall’obbligata solitudine.
Un’altra è il duomo di Milano, del quale manca una descrizione, che per sentimento d’arte e giustezza d’erudizione convenga ai tempi. Il Martino V, lavorato da Jacopino da Tradate, e alcune guglie dell’Omodeo, son di gotico grazioso. Oltre il Gobbo Solaro, ricordiamo il Bambaja che mettea per tutto rabeschi, fiori, recami e nettissimamente conduceva i capelli, le barbe, le pieghe; e prova di prospettiva più da ammirare che da imitare fece nella Presentazione al tempio, scorciando una scala, in cima alla quale sta Simeone, ed al piede Maria. S’abbandonò al gusto ammodernato nel deposito del Caracciolo; ma più memorabile era quello di Gastone di Foix, che, cambiati i dominatori, andò dissipato, e i pezzi che sopravanzano si direbbero di cera, sicchè il Vasari «mirandoli con istupore, stette un pezzo pensando se è possibile che si facciano con mano e con ferri sì sottili e meravigliose opere»[51].
Annibale Fontana, Andrea Biffi, Andrea Fusina, chinavano al manierato: Francesco Brambilla ornò la cappella dell’Albero, e fuse le cariatidi del pulpito, squisitamente condotte, ma tormentate di minuzie; Marco Agrati volle scaltrito il pubblico non esser opera di Prassitele[52] quell’ammirato suo San Bartolomeo [78] scorticato che panneggia la propria pelle, senza espressione nè idealità. Altri bellissimi lavori de’ suddetti offrono le facciate di San Paolo e di San Celso in Milano. È fra i più notevoli lavori di Napoli la cripta dell’arcivescovado, fatica di Tommaso Malvita comasco; sala tutta marmo, col più bel lacunare a mezze figure, sostenuto da colonne e pilastri squisiti.
Noi ci diffondiamo sul Lombardi perchè i patrioti, con vezzo non più disimparato, neglessero le glorie compaesane, e i forestieri gl’ignorano. Il Vasari, che solo per incidente li nominò, confessa che il Bambaja, il Solaio, l’Agrati, Gaudenzio, Cesare da Sesto, Marco d’Oggiono, il Luini «farebbero assai se avesser tanti studj quanti n’ha Roma; onde fu bene che Leon Leoni vi recasse tante opere antiche e modelli». Intende dello scultore Leon Leoni d’Arezzo, che a Milano fuse pulitissimamente il mausoleo del Medeghino in duomo, sopra disegno di Michelangelo alquanto manierato; e per sè costruì un palazzo colla facciata sostenuta da grandi cariatidi (gli Omenoni), e l’aveva empito di gessi e modelli che propagarono il gusto delle prominenze musculari e delle manifestazioni esagerate della forza vitale, sempre più spegnendo l’ideale artistico.
E artisti e scuole avea si può dire ciascuna città d’Italia; ma troppo spesso i paesani trascurarono di darcene contezza, o svisarono. Bergamo, fra molti che vi chiamò o nutrì il patronato del Coleone e dei Martinengo, ci mostra il suo Lorenzo Lotti, che quando da Alessandro Martinengo ebbe commissione di un quadro per la chiesa di San Domenico, «pubbliche preci si fecero alla Madonna e ai santi perchè l’ispirassero; e finito che fu, venne portato in processione per le vie» (Tassi). Lodi aveva in San Francesco pitture vecchie d’eccellente maniera, quando la pietà e la scienza del [79] santo vescovo Carlo Sforza Pallavicino fece erigere il tempio dell’Incoronata dal Battaggio lodigiano bramantesco, e chiamò a dipingerla il Borgognone, con Giovanni e Matteo della Chiesa, e a scolpirvi Ambrogio e Gianpietro Donati milanesi. Forse da loro prese scuola la famiglia Piazza, che diede molti artisti, fedeli alla tradizione affettuosa, finchè Calisto, quasi unico nominato fuor di patria, si gettò al giorgionesco, pur qualche volta raggiungendo l’affetto, come nell’Assunta di Codogno e nel monastero Maggiore di Milano.
Nulla in Piemonte fino al 1488, il che fa strana la pretensione del Galeani Napione, che la scuola senese, la genovese, la milanese devano i cominciamenti a tre piemontesi, Antonio Razzi di Vercelli, Lodovico Brea di Nizza, Gaudenzio Ferrari[53]. A Genova nel 1481 gli statuti de’ pittori sono detti antichissimi; poi si costituirono come arte distinta, pel cui esercizio si chiedevano sette anni di tirocinio. Dal 1475 al 1525 v’ebbe ottantatre pittori, non contando quei che lavoravano nelle Riviere, e v’appartenevano alcuni de’ Grimaldi, dei Calvi, dei Da Passano, d’altre casate illustri. Un Damiano dei Lercari sopra un osso di ciliegia scolpì tre santi, e sopra uno di pesca la passione di Cristo. Daniele Téramo nel 1437 vi fece la bella cassa di san Giovanni Battista d’argento dorato, colle storie in rilievo; collocata nel tempietto, splendido di marmi e d’oro, cominciato il 1451.
Napoli imparò la scultura da Nicolò e Giovanni di Pisa, i cui lavori nel duomo e nelle cappelle de’ Minutoli e Caraccioli furono finiti da Masuccio primo: il secondo rifabbricò Santa Chiara, San Giovanni a Carbonara ed altre chiese, ed eseguì i farraginosi depositi dei re in San Lorenzo e Santa Chiara. Se la torre di quest’ultima [80] chiesa, fondata il 1318, fosse del primo Masuccio, un secolo prima di Bramante avrebbe tornato in uso gli ordini greci[54]; ma ogni occhio avverte il diversissimo modo con cui al rustico del primo ordine si sovrapposero il dorico e lo jonico, che aspettano ancora il finimento. Sembra dovuto a Pier di Martino milanese[55] l’arco di marmo bianco erettovi pel trionfo di Alfonso I, il migliore dopo i romani, e non copiato da essi: sebbene disacconciamente serrato fra le due torri del Castel Nuovo, ne sono ben disposte le parti e gli accessorj, rigogliosa la generale decorazione. Di venti anni posteriori, assai meno lodevoli sono le porte di bronzo, da Guglielmo Monaco poste ad esso castello.
Il macchinoso e complicato mausoleo di re Ladislao in San Giovanni a Carbonara loderebbe Andrea Ciccione se fosse del trecento. Poco migliore, ma di più interesse è l’altro deposito suo in quella cappella Caracciolo, nella quale Silla e Giannotto milanese ritrassero guerrieri, col vestire di que’ tempi[56]. Nella [81] cappella di Tommaso d’Aquino in San Domenico, Angelo Aniello Fiore mostrò abilità e purezza; mentre disordinatamente cariche sono le composizioni di Antonio Bamboccio da Piperno.
La scuola giottesca fu colà propagata da maestro Simone napoletano, di cui nessun’opera certa. Antonio Salario, di Civita degli Abruzzi o più veramente veneto, detto lo Zingano, s’invaghì della figlia di Colantonio pittore[57], e per ottenerla si mutò da pentolajo in dipintore, e si segnalò per colorir fresco e buone mosse, principalmente nella storia di san Benedetto a San Severino. Incerti e poco degni di nota gli altri di quella scuola, finchè allo stile nuovo dal Fattorino e da Polidoro di Caravaggio furono allevati Andrea di Salerno, il Lama, il Ruviale detto Polidorino; poi altri dal Vasari e dal Soddoma. Simone Papa il giovane si scevera da tutti codesti per nobile semplicità. Giovanni Marliano [82] da Nola finì scolture eccellenti in Montoliveto, in San Domenico Maggiore e al monumento di tre Sanseverino avvelenati dalla zia, di Antonio Gandino in Santa Chiara, di Pier Toledo in San Giacomo degli Spagnuoli. A gara con lui Girolamo Santacroce fece le pale di marmo alle Grazie, e altri lavori a Montoliveto, al sepolcro del Sannazaro, e alla cappella dei Vico in San Giovanni a Carbonara.
A Modena, Properzia de’ Rossi, rejetta dall’amante, per allusione ai proprj casi, scolpì egregiamente il casto Giuseppe. A Bologna Lorenzo Costa mantegnesco, di vigoroso colorito e lieta fantasia, frescò pei Bentivoglio favole greche; datosi a quadri di chiesa, e visti i buoni a Roma, depose le durezze, e ben avviò una scuola ricca di ducento allievi. Simone dei Crocifissi e Lippo Dalmasio delle Madonne trassero il soprannome dai soggetti di cui si piacquero. Jacopo Davanzi a dipingere preparavasi col digiuno e colla comunione. Anche Francesco Raibolini, detto il Francia, abilissimo in far nielli e medaglie, passato di quarant’anni alla tavolozza e al fresco, dipinse quasi sempre Madonne, con pazienza più che dottrina e varietà. Rafaello quando spedì a Bologna la santa Cecilia, il pregò a ritoccarla se alcun guasto v’avvenisse: complimento di modestia; ma è favola che il Francia ne morisse d’invidia, giacchè sopravvisse fino al 1533. Il suo san Sebastiano della Zecca fu il tipo dei Bolognesi; mentre altri formavansi sui nuovi, come Ippolito Costa, che empì Mantova di manierati dipinti; come il Sabbatini, grazioso nel comporre, debole nel colorire; come Orazio Sammachini, suo grand’amico, che nei santi infonde dignitosa e tenera pietà, mentre seppe esser robusto nella volta di Sant’Abbondio in Cremona. Tommaso Vincidor, pittore e scultore di Carlo V, che lasciò insigni monumenti nelle Fiandre, non è tampoco citato dal Vasari, dallo Zani è [83] dato per forestiero: ma l’Accademia Belgica negli atti del 1854 lo provava bolognese.
Poichè i principi aveano il sentimento del bello anche mancando dell’intelletto del buono, la trista genìa degli Estensi fece lavorare gli artisti a Ferrara; e il marchese Nicola, oltre la gran chiesa votiva a san Gotardo, fabbricava Belriguardo, le cui trecensessanta camere furono dipinte da un Giovanni da Siena: come in quello di Schifanoja il duca Borso fece da Piero della Francesca effigiare principalmente uccelli e caccie, la meno ignobile delle sue passioni: poi il duca Ercole di pitture coprì palazzi e chiese. Francesco Cossa devotamente dipinse la miracolosa Madonna del Baracano a Bologna, e vi allevò Lorenzo Costa. A Bologna si drizzarono gli artisti ferraresi, quali Ercole Grandi, dal Vasari appajato ai migliori, il Vaccarini, l’Ortolano, il Cortellini, Girolamo Marchesi da Cotignola. Il Garofolo (Benvenuto Tisi) da Rafaello, da Leonardo e dal Boccaccino trasse gentilezza, perfezione di modello dalle statue antiche; ma ripete gli stessi tipi, gli stessi partiti di pieghe, collo stesso valore di toni: che se l’eleganza e soavità il fanno encomiare, e quella finitezza da miniatura ne’ piccoli lavori, e la devota idealità di molti suoi quadri, in altri sacrificò alla moda o alle commissioni ducali; collocò in paradiso l’Ariosto fra santa Caterina e san Sebastiano; fece il bambin Gesù che si diverte con una scimmia sulle ginocchia di Maria. In vecchiezza votò di lavorare tutte le domeniche a ornare il convento di San Bernardino, dove s’erano consacrate due sue figliuole; finchè divenne cieco.
Nel Giudizio universale della metropolitana, Sebastiano Filippi, detto il Bastianino, seppe riuscir grande e nuovo anche dopo Michelangelo. Sigismondino Scarsella suo competitore fu superato dal figlio Ippolito, gentile nelle fisionomie e nelle velature, e di agile [84] disegno. Il Bastarolo (Giuseppe Mazzola), dipintor lento e studiato, è conosciuto men del merito. Alfonso ed Ercole d’Este, che facevano dipingere nudità mitologiche e le imprese d’Ercole, trovavano compiacenza nell’estro pagano di Giambattista Dossi paesista e di Dosso Dossi figurista e coloritore vantato, fratelli sempre in rissa, e che pure lavorarono sempre insieme ai palazzi ducali e altrove, e non meritavano certo che l’Ariosto gli affastellasse coi sommi.
La forma, la grazia, l’armonia pareano incarnate in Leonardo, Michelangelo, Rafaello, eppure con questi trova posto originale Antonio Allegri di Correggio (1494-1534). I documenti odierni smentiscono quanto ne disse il Vasari, benchè scrivesse appena ventott’anni dopo lui morto, ma non rendono bastante conto degli atti e del genio di lui. Formato sui Lombardi, anzichè sul Mantegna, istruitosi nelle lettere e nella storia, si fa stile indipendente e grazioso, e insieme potente e ardito, benchè non paja essersi mai mosso da Parma, ove non ebbe larghezze di lodi e compensi, ma non è vero languisse nell’inedia[58]. La Madonna di Sant’Antonio fatta a diciott’anni è forse il quadro suo più bello, elegante e puro. Nell’appartamento della badessa [85] di San Paolo scene più che mondane ritrasse colla libera facilità e la limpida grazia degli antichi, ammirate per leggerezza di capelli, labbra femminili, sorrisi innamorati. Chiesto a dipingere in San Giovanni la cupola, fece miracolo nuovo, giacchè non esisteva ancora il Giudizio della Sistina, colla quale gareggia per grandezza d’espressione e ardimento d’attitudini, principalmente negli apostoli de’ pennacchi. Ben gli sta a fianco l’Assunta della cupola del duomo, composizione fin troppo ricca, sicchè la celestiale purità è confusa dal desiderio di ostentare abilità.
Nell’espressione degli affetti il Correggio possiede una tenerezza qual neppure Rafaello conobbe, sebbene talora l’esageri quando domanderebbe tranquillità: e desta la maraviglia degli accademici collo scortare di sotto in su, e colla prospettiva della figura umana, ove contorna sempre con curve eleganti fino alla leziosaggine. Ma o dipinga momenti sereni come le sacre Famiglie e il riposo in Egitto e la Notte, o dolorosi come Cristo all’orto e davanti a Pilato, o colla mitologia non miri che alla vita esterna, sempre primeggia, sempre vi si ammira la sovrana intelligenza de’ chiaroscuri, l’armonica fusione della luce coll’ombra, le tinte impercettibilmente graduate in modo da parer sobrio quel ch’è trattato con una ricchezza, valutabile solo da chi tenta copiarla; come la facilità che sembra d’improvvisatore dileguasi a chi esamini la varietà delle pose e la ragionevolezza degli atti. Testimonio ch’egli associava l’immaginazione all’erudizione, l’eleganza alla ricchezza.
Francesco Mazzola, detto il Parmigianino (1503-40), ingegno precocemente maturo, la grazia di lui esagerò fin al lezioso. Attento alle sue tele, non s’accorse quando le bande del Borbone devastavano Roma, e lui come tanti altri ridussero alla miseria. Cominciò a dipingere alla [86] Steccata di Parma, poi non finendo benchè avesse tocchi i denari, dovette fuggire a Casalmaggiore, dove ne vive la memoria in popolari tradizioni e in quadri grandiosi, di buon concetto e di miglior esecuzione[59]; dappertutto ottenendo onori e non ricchezze, queste cercò all’alchimia, e finì di rovinarsi, e morì all’età del suo Rafaello. Abilissimo nell’incidere, pare v’introducesse l’acqua forte. Girolamo Beduli viadanese, marito di Elena sua cugina, bene impasta e colorisce, felice nelle prospettive, vario nelle composizioni ma dalla fretta pregiudicato.
I Farnesi, nuovi dominatori di Parma, non vi suscitarono alcun grande; quando poi il Sammachini ed Ercole Procaccino furono chiamati a dipingervi, poi l’Aretusi e Annibale Caracci, la correggesca fu modificata dalla maniera bolognese, come si vede nel Tinti e nel Lanfranco.
Nella depravazion generale galleggiò la scuola veneta. Tiziano Vecelli cadorino (1477-1576) cominciò la sua reputazione dal terminar opere di Giovan Bellini, fosse il Federico Barbarossa nella sala del gran consiglio, fosser quelle nel palazzo di Ferrara; e lo studio di tal maestro, poi l’emulazione del Dürer lo fecero attentissimo alle particolarità, e fin minuto quando volesse. Dicea dover il pittore esser padrone del bianco, del nero, del rosso, benchè non sia vero che soli questi adoprasse; e per virtù de’ contrapposti ottenne un ombreggiar robusto di stupendo effetto. Nelle invenzioni non mostra gran fantasia; agli uomini impronta dignità ed espressione ben meglio che negli angeli e santi; nè le composizioni sacre anima di devozione affettuosa, sempre i concetti [87] subordinando all’effetto, e questo cercando dal colorito, fin a trascurare il segno.
Han riflesso che le opere sue per la patria son meno accurate di quelle commessegli di fuori; forse perchè erangli retribuite scarsamente. In fatto ben poco guadagnava, sinchè non capitò a Venezia l’infame Aretino, il quale, sprezzatore di Dio e adoratore dei potenti, non potea che contaminare una scuola educata nella fede. Tiziano n’ebbe l’amicizia e le lodi, e sua mercè la commissione di ritrarre Carlo V; e subito, entrato di moda fra i cortigiani, divenne il pittore dei re, e gli chiesero l’immortalità del ritratto Francesco I, Paolo III, Solimano II, Filippo II, l’imperator Ferdinando, il duca e la duchessa d’Urbino, il Farnese, varj dogi e cardinali. Cresciuto di gloria e denaro, a Venezia in palazzo ricchissimamente addobbato, riceveva principescamente; ottenne trionfi a Roma, alla corte dell’imperatore, in Ispagna, ove lasciò le opere sue più encomiate. Non potea dunque tenersi sempre alle ispirazioni de’ suoi maestri, la patria, e la fede; sfoggiò maestria in soggetti di mera e inespressiva bellezza naturale, come le tante sue Veneri e Danae e Diane; dal quale naturalismo deriva la sua abilità nel paesaggio. Lunghissimi giorni menò e tranquilli, sopravvissuto agli amici; e senza conoscere nè tardità nè decrepitezza, moriva in tempo di peste, e il senato dispensava il suo cadavere dall’esser bruciato come gli altri.
Poco paziente all’insegnare o forse geloso, non formò scolari; pure una famiglia di pittori gli si cacciò dietro, con composizioni macchinose e trascurate. Mentre Michelangelo cerca espresso le difficoltà, il Tiziano le declina, volendo imitar la natura senza che vi paja stento: e però gl’imitatori del primo peggiorarono esagerando, quei dell’altro dall’apparenza di semplicità furono strascinati nel triviale. Perocchè le scuole apparvero distintissime [88] quando ciascuna si sforzò d’elevare sopra la natura l’ideale a cui propendeva; a Firenze sottoponendola alla dottrina delle proporzioni coll’armonia delle tinte e le soavi gradazioni; a Roma dandole espressione leggiadra, col disegno fino e la squisitezza dei contorni e delle forme, derivati dalle statue antiche, pel cui studio si deteriorò nel sentimento, non già nell’esecuzione: la scuola lombarda, meno attenta alla regolarità dell’arte, forzò l’espressione; la veneta, corrispondente alla tedesca per fedeltà alla natura, volle esprimerne tutta la forza mediante il colorito sereno e splendidamente armonioso, fin al punto di negligere il concetto e il disegno. Nei frequentissimi ritratti non avendo campo a inventare, i veneti si raffinavano sulle particolarità; donde la loro maestria in riprodurre panni, velluti, metalli, oltre le architetture, le mense ed altri accessorj.
Francesco I fece ritrarre le principali damigelle della sua Corte a Paris Bordone trevisano, di colorito ridente e variatissimo, di teste vivaci, di decente composizione, ma che sfumando sagrifica il contorno, nè vale dove si richiede forza. Licinio da Pordenone, nei tre Giudizj del palazzo ducale, al colorito tizianesco unisce il chiaroscuro e il fuso modellare lombardo, ma dà nel caricato: vivea selvatico, figurandosi continuamente nemici, dai quali dicesi fosse avvelenato. Il Tintoretto (Giacomo Robusti 1512-91), avea scritto sul suo studio il disegno di Michelangelo e il colorito di Tiziano, e su tali modelli più che sul vero s’esercitava. Dicendo non potersi trovare corpo perfetto, disponeva figurine di cera o creta, e le illuminava secondo l’occorrenza, per copiarle, ottenendone un ombreggiare tetro, lontano dal chiaro e vivace di Tiziano. Dell’acquistata facilità abusò per precipitare i lavori, sicchè alcuni quadri pajono appena sbozzi, e diceva che accurandoli li fredderebbe. Buon [89] uomo, ambiva la gloria, purchè senza macchia: gli scolari ne imitarono i difetti, non la potenza.
Verona, non dimentica dei modi di frà Giocondo, più che del Brusasorci manierista deve gloriarsi di Paolo Cavazzola, che l’affetto esprimeva secondo le migliori tradizioni, e fu il più corretto disegnatore dell’arte veneta. Paolo Caliari (1528?-88) s’ingrandì dietro al Tiziano e al Tintoretto, e sulle stampe e le statue antiche, il cui studio accoppiando a quel della natura, tradusse piena ed esultante la vita con pompose architetture, gente briosa, metalli e vetri smaglianti, giojelli, festivi banchetti, e più d’ogni altro rivela i meriti e i difetti della scuola veneziana. A dipinger la vôlta della libreria vecchia di Venezia concorsero il Salviati, il Franco, Andrea Schiavone, lo Zelotti[60], il Licinio, il Varotari, facendo ciascuno tre dei ventuno compartimenti; e per giudizio di Tiziano, la palma fu data a Paolo, che dai procuratori di San Marco ebbe allora la commissione de’ quattro suoi quadri migliori: due Maddalene a’ piedi di Cristo, Gesù coi pubblicani, e le nozze di Cana. In quest’ultimo, di ben centrenta figure, tutti ritratti, fin il cane di Tiziano, finge una suntuosità, degna solo dello sfarzo del XVI secolo; tra sfoggiato vestire e cani e mori e nani e infinito servidorame fingendo un concerto, ove ciascun artista suona lo stromento che simboleggia la sua qualità; e Carlo V siede da imperatore a quel banchetto de’ mal provvisti artigiani galilei: tanto il naturalismo soffocava e convenienze e tradizioni[61]. Nè Paolo badava a costume o carattere; la stalla di Betlemme pareggiava a una reggia; le donne di Dario [90] svisava col guardinfante. Ester si presenta ad Assuero col corteggio d’una dogaressa: ma tutto si perdona a quella gaudiosa serenità, a quell’inarrivabile freschezza e trasparenza di colorito.
A malgrado di questo irrazionale naturalismo, il palazzo ducale, che è la vera galleria veneta con tanta profusione di dipinti, di stucchi, d’oro, d’intagli, respira dappertutto devozione e patriotismo. I ventidue quadri della sala del maggior consiglio, ove il Pisanello, il Guariento ed altri aveano dipinto il convegno di Alessandro III col Barbarossa, essendosi guasti precocemente, [91] nel 1474 si decretò fossero rinnovati da Giovanni e Gentile Bellini, Alvise Vivarini, Cristoforo da Parma ed altri, fin a Giorgione, Tiziano e Tintoretto; ma l’incendio del 1577 li mandò in rovina. Quelli che si vedono ora, esaminati distintamente, accusano la ricerca dell’effetto, eppure formano un grandioso complesso.
Francesco da Ponte, piantatosi a Bassano, vi cominciò una scuola rinomata. Giacomo suo figlio (1510-92) imitò Tiziano e il Parmigianino, ma con semplicità naturale; preferì soggetti di modica forza, lumi di candela, lustri di rame, capanne, paesaggi; tutto quello che poi si caratterizzò per fiammingo, e dove il soggetto si smarrisce negli accessorj. Lavorò moltissimo, e meglio di tutto il Presepio a Bassano. Vivere in pace, non intrigare, non accattare o invidiar lodi, fu il suo piacere. Francesco suo figlio, al contrario, si piaceva di soggetti tragici, e n’ebbe alterata la mente a segno che credevasi sempre assalito, e una volta balzò dalla finestra. Altri di quel cognome empirono le botteghe di loro quadri, ai quali mancava anche la spontaneità, essendo manuale riproduzione di anteriori. Giacomo Palma emulò Giorgione nella vivacità del colore e nello sfumare: fu detto il Vecchio per distinguerlo dall’omonimo suo nipote, che mal pretese gareggiare con Paolo Veronese e col Tintoretto finchè vissero; morti, diè al pessimo. Non è inferiore al Vecchio il Verla, benchè poco dipingesse, e fu dimenticato da tutti gli storici dell’arte.
In Cremona, che già sul fine del quattrocento mostrava abilissimi artisti, poi il pittore Bonifazio Bembo, e l’architetto Bartolomeo Gazzo, acquistarono grido Altobello Melone e Boccaccio Boccaccino, «il miglior moderno fra gli antichi e il miglior antico fra i moderni» di quella scuola, e che, quanto grandioso nel Cristo dell’abside in duomo, tanto grazioso si mostrò in minori soggetti. Il fare veneziano vi dominò da che [92] la città venne a San Marco; e Camillo suo figlio, «acuto nel disegno, grandioso coloritore», come dice il Lomazzo che lo appaja ai sommi, a quella guisa carpì l’ammirazione. Dicevasi che ogni merito ne fosse dovuto alla verità degli occhi; ond’esso fece il Lazzaro resuscitato e l’Adultera senza pur un occhio: bizzarria imitata da un nostro contemporaneo nel supplizio di Giovanna Grey. Galeazzo Campi, e Giulio Antonio e Vincenzo suoi figli, e Bernardino parente ebbero colorito morbido, disegno corretto e grandioso; ma nobiltà ed eleganza perdeano man mano che acquistavano le qualità per cui gli esalta il Vasari. Di quattro sorelle Anguissola pittrici, la Sofonisba, dal duca d’Alba condotta in Ispagna, ottenne favore presso la regina, e adulazioni da esso Vasari[62].
Il Moretto (Alessandro Buonvicino), venuto quando le sventure disponevano Brescia alla pietà, mentre usava un sugo tizianesco, propendette alla scuola milanese per le ispirazioni, e alla soavità di Rafaello, che conobbe sol dalle stampe; e in patria lasciò dipinti, che i maestri ammirano per scelto e variato panneggiamento, magnifici accessorj e tinte di grand’effetto; noi per graziosa espressione di volti, per elevatezza e soavità devota. Gli vanno di brigata i suoi compatrioti Girolamo Romanino e Giambattista Morone sommo ritrattista, a cui la condotta studiata non toglie l’ingenuità.
Per decorare palazzi, molti Veneti si diedero alla quadratura, con buon intendimento di prospettiva; altri al paesaggio e agli ornati, del che avevano esempio [93] domestico in Giovanni da Udine, inarrivabile ne’ chiaroscuri, negli arabeschi, ne’ vasi, ne’ paesaggi.
L’architettura si corruppe men presto che la pittura; ma la venerazione pei classici ridestati e per Vitruvio fece considerar barbarie i lavori del medioevo, e scorrezione ogni novità; alla convenzionale purezza sacrificare l’esperienza di molti secoli, gli ardimenti ignoti agli antichi, e le forme generate da idee e da abitudini nuove. Smarrite allora le esoteriche tradizioni, tolti i reciproci sussidj, ripresi l’ordine e la regolarità classica, lo stile nuovo rimase disgiunto dai nuovi bisogni; copie senza relazione coll’originale, imitazioni senza vita, dove non si rinnovava già l’antico, ma se ne adottavano superficialmente le apparenze, mal conciliabili col vivere moderno.
Antonio Sangallo, di famiglia d’architetti, pel fiorentino cardinale Farnese disegnò in Roma il gran palazzo, che passa pel più perfetto che si conosca, massime il cortile, terminato poi da Michelangelo e dal Vignola. Varie parti del Vaticano eseguì, e principalmente belle scale; le cittadelle di Civitavecchia, Ancona, Firenze, Montefiascone, Nepi, Perugia, Ascoli: in quella d’Orvieto riparò al difetto d’acqua con un pozzo, per la cui doppia scala anche bestie da soma scendono e risalgono senza incontrarsi. Diresse a Roma le feste per Carlo V che tornava da Tunisi; e guardano come un modello la sua porta a Santo Spirito non finita.
Pirro Ligorio napoletano, ingegnere civile e militare, che fece l’originale casino del papa in Vaticano, e riparò Ferrara dal Po, pubblicava il primo libro sui costumi dei popoli; ci conservò disegnati i monumenti romani, ove spesso nelle iscrizioni erra, spesso nelle misure geometriche; pure giova tanto più perchè molti di que’ fabbricati più non sussistono. Anche Sebastiano [94] Serlio bolognese levò disegni e misure degli edifizj di Roma, su’ quali formò lo stile corrompitore dell’estetica tradizionale, e lo applicò in Francia a fabbriche e ad un buon trattato d’architettura.
Giacomo Barozzio da Vignola (1507-73) molte regole di prospettiva scoprì, e trovò ingegnose soluzioni. Nella Regola dei cinque ordini ridusse l’architettura a misure fisse e principio costante; nè pago agli esempj, indagò le ragioni, e proclamò che degli edifizj antichi più lodati il merito consiste nell’offrire una intelligibile corrispondenza di membri, convenienze semplici e chiare, e un complesso ove le minime parti vengono comprese e ordinate armonicamente nelle più grandi; lo che costituisce il fondamento delle proporzioni. La guerra non lasciò eseguire veruno dei progetti ch’e’ fece in Francia, nè quello pel San Petronio di Bologna; ma gli sono vanto immortale il palazzo ducale di Piacenza, varie chiese e nominatamente quella degli Angeli d’Assisi, eseguita poi dall’Alessi e da Giulio Santi. La chiesa del Gesù e la Casa professa in Roma avea disegnate con eleganza di profili e regolare distribuzione, guastata poi da Giacomo della Porta. Giulio III gli affidò l’acquedotto di Trevi, e la villa, sulla via Flaminia, a lui più cara che non gli affari, col vicino tempietto rotondo. Al palazzo di Caprarola pel cardinale Alessandro Farnese, in pittoresca situazione, diede aria di castello con pianta pentagona e bastioni al piede, mentre opportunissimi ne sono l’interna distribuzione e i disimpegni. Annibal Caro vi dirigeva le pitture, eseguite dagli Zuccari e da altri con prospettive del Vignola stesso. Allora Filippo II ergeva l’Escuriale, e da ventidue disegni di artisti italiani il Vignola ne compilò un nuovo; ma non volle andare ad eseguirlo, preferendo lavorare a San Pietro, ove continuò le idee di Michelangelo, alzando le due cupole laterali.
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In Venezia con maggiore indipendenza s’architettava, desumendo molti concetti anche dal Levante, abbellendo il gotico[63], e variando in guise originali, quanto può vedere chi scorra il Canalgrande. Precoci frutti di buona scoltura e distinta dalla toscana sono le statue che nel 1393 Jacopo e Pier Paolo delle Masegne posero sopra l’architrave dell’abside di San Marco; e i capitelli del palazzo dogale, lavoro forse del malarrivato Filippo Calendario[64]. Da poi vi vennero molti Lombardi, fra’ quali Guglielmo bergamasco nella cappella Emiliana a Murano merita posto fra gl’insigni. Alessandro Leopardi fece nel deposito di Andrea Vendramin in San Giovanni e Paolo i migliori bassorilievi d’arte veneziana, il monumento Coleone e i pili di bronzo in [96] piazza San Marco. D’Antonio Rizzo da Bregno sono il monumento Tron ai Frari, di ricchezza non esuberante, l’Adamo ed Eva or posti rimpetto alla scala de’ Giganti da lui architettata, come anche il prospetto interno del palazzo dogale, e forse l’esterno verso il rio. A lui, a Paolo, a Lorenzo pur da Bregno, cioè comaschi, sono dovuti altri monumenti, e singolarmente quelli del doge Foscari e di Dionigi Naldo da Brisighella; altri a Pietro, Antonio, Tullio Lombardo, che segnano il passaggio fra l’ingenuo scolpire di quei delle Masegne e la raffinatezza già leziosa nel ricco deposito del doge Pier Mocenigo in San Giovanni e Paolo. Pietro Lombardo[65] fece Santa Maria de’ Miracoli con decorazioni francamente graziosissime. Altri di quella piuttosto colonia e scuola che famiglia operarono di decorare e d’architettare al modo dell’alta Italia; e nominatamente la cappella Zeno, ammirata in San Marco[66], alla quale preferisco il vicino altare; e a tacer altro, il palazzo Vendramin, la ricca torre dell’orologio, e il fianco del cortile ducale verso San Marco, «esempio d’aurea ed elegante ordinanza». Di Martino Lombardo basti accennare la scuola di San Marco, di bellissimo effetto. Dello Scarpagnino sono le fabbriche [97] vecchie a Rialto e l’incantevole facciata dell’arciconfraternita di San Rocco. Bartolomeo Buono fabbricò le Procuratie vecchie. Gianmaria Falconetto veronese (-1524), mutatosi dal pennello alle seste, e nudritosi degli antichi, di cui disegnò e descrisse pel primo i teatri e anfiteatri, servì all’imperatore Massimiliano che allora aveva conquistato Verona; poi rimessa la pace e avuto perdono, di begli edifizj empì lo Stato, in Padova pose la bellissima e ornatissima loggia dei Cornaro, le porte di San Giovanni e Savonarola, quella sotto l’oriuolo in piazza de’ Signori, e gli ornamenti di stucco alla cappella del Santo.
Mutò l’andazzo il Sansovino (Giacomo Tatti di Firenze 1479-1570). Già era chinato allo stile michelangiolesco quando dalla saccheggiata Roma ricoverò a Venezia, e nominatovi protomastro, sgombrò la piazzetta e vi pose l’ammirata loggetta, riparò le cupole di San Marco, fece la chiesa di San Geminiano, e più semplice, l’interno di San Francesco della Vigna, la scala d’oro, i bellissimi palazzi Cornaro presso San Maurizio, e Dolfin a San Salvadore; e nella facciata della Libreria, uno de’ migliori edifizj moderni, pretese sciogliere il problema difficilissimo, e nato da mala interpretazione del testo vitruviano, del far cadere la metà d’una metopa nell’angolo del fregio dorico. L’aveva appena finita, quando ne crollò la vôlta; ond’egli fu messo prigione, poi rilasciato, la eseguì di legno e cannuccie. Nelle scolture diede al gonfio; e i due suoi giganti che impiccioliscono la scala da essi denominata, sebbene non pecchino degli atteggiamenti teatralmente triviali, che allora usavano il Baldinelli e simili, mancano di significazione e di opportunità, e cedono a gran pezza alla dignitosa statua di Tommaso da Ravenna sulla porta di San Giuliano, alla Madonnina, e agli altri bronzi nelle nicchie della loggetta, e a quelli della squisita [98] porta, da lui soltanto disegnata, della sacristia di San Marco[67].
Andrea Palladio vicentino (1518-80), deliberato a non dare mai passo fuor dei canoni di Vitruvio, divenne modello del buon gusto per coloro che nol riscontrano fuori del greco e romano. A Roma postosi a misurare e disegnare le fabbriche antiche, sui loro restauri stampò un’opera, e un trattato d’architettura che fu voltato in tutte le lingue[68]. Avvertiva ch’è «comoda quella casa, la quale sia conveniente alla qualità di chi l’ha ad abitare»; e perciò «a gentiluomini e magistrati si richiedono case con loggie e sale spaziose e ornate, acciocchè in tai luoghi si possano trattenere con piacere quelli che aspetteranno il padrone per salutarlo e pregarlo di qualche ajuto e favore... Le sale servono a feste, a conviti, ad apparati per recitar commedie, nozze e simili sollazzi; e però devono esser molto maggiori degli altri, ed aver forma capacissima... Le stanze devono essere compartite dall’una e dall’altra parte dell’entrata e della sala... Ma si badi che le case siano comode all’uso della famiglia, senza la qual comodità sarebbero degne di grandissimo biasimo»; e qui segue a divisare le opportunità delle stanze grandi, mediocri e piccole, delle estive e invernali.
La gotica basilica di Vicenza, cominciata il 1444, e che già rovinava, egli rinfiancó di portici a stile nuovo, con prodigalità di colonne. Ammirando quell’opera, i signori vicentini gli diedero commissione di palazzi, che [99] restarono poi incompiuti; fece la rotonda del Capra, e per l’Accademia Olimpica un teatro disposto all’antica per rappresentazioni di soggetto classico; e nell’entrata del vescovo Priuli coprì di disegni architettonici tutto il corso di Vicenza dal ponte degli Angeli fino alla cattedrale. Chiesto a gara per fregiare Venezia e le rive del Brenta, tutte le combinazioni di ordini e di materiali sperimentò ne’ palazzi, dove più che la magnificenza appare l’eguaglianza di molte fortune, e la gara di non parere inferiori al vicino. Belli sono gli atrj suoi, perchè tali li trovava ne’ Romani, ma appiccia quelli de’ tempj alle ville; negli appartamenti riesce discomodo, meno delle convenienze brigandosi che del gusto classico, dell’esecuzione corretta, delle forme scelte. Succeduto in Venezia al Sansovino, nel chiostro della Carità effettuò il piano dato da Vitruvio per le case romane; ma il fuoco lo distrusse, come il suo teatro. Nella chiesa e refettorio di San Giorgio Maggiore, anzichè il tempio gentilesco imitò le basiliche. Suo capolavoro è il Redentore, voto del senato per la peste del 1576: ma i pochi elementi offertigli dagli antichi lo costrinsero a riprodurre tre volte quella medesima facciata in Venezia, senza riguardo alla distribuzione interna, nè alla differenza tra due chiese di poveri Cappuccini ed una di lauti Benedettini. Concependo poi separate l’architettura e la scultura, lasciava le opere sue deturpare dagli stucchi e dalle statue farraginose del Vittoria e del Ridolfi.
A Brescia lavorò pel duomo e pel pretorio; a Torino pel parco reale; avea dato disegni per la cattedrale di Bergamo, e per altri edifizj non eseguiti; in somma non faceasi opera d’importanza, ch’egli non ne fosse sentito. Amò murare di mattoni, vedendoli durare più che la pietra. Edificando riccamente senza soverchia spesa, adoprando ogni sorta materiali a decorare, meritò essere studiato come classico, non dai contemporanei, che [100] anzi allora ruppero al peggio, ma dai moderni, e quando principal bellezza si considerò ancora la regola.
Il ponte di Rialto, studio di frà Giocondo, del Sansovino, del Palladio, fu dato a fare a Giovanni da Ponte, che offrì il disegno men costoso, e insieme così ardito che si dubitò della solidità, ora attestata da due secoli e mezzo. Fosse altrettanta la bellezza[69].
Vincenzo Scamozzi da Vicenza (1552-1616), recato all’arte dagli esempj del Palladio suo concittadino, e conoscendo i libri e i lavori degli antichi, si mostrò valente costruttore e ingegnoso a Venezia, vero campo dell’architettura civile; ma trovando già i primi seggi occupati, pensò sbizzarrire in novità o palliare l’imitazione, protestandosi indipendente da maestri, nè parlandone che per vilipendio. Il suo mausoleo del doge Nicola da Ponte nella Carità, più architettonico che altro, gli ottenne di lavorar la fronte della libreria di San Marco e le Procuratie nuove. Nella prima superò con lode l’ineguaglianza dello spazio; nelle altre adottò il disegno del Sansovino, peggiorandolo col sovrapporgli un altro piano, e adoprandovi i tre ordini, nel qual modo fu terminato da Baldassarre Longhena. Nessun lavoro volea ricusare per quanti gliene fioccassero, ma di molti non ci restano che i disegni. A Bergamo fece il bel palazzo del Comune: però al suo disegno per ricostruire quella cattedrale, fabbrica di Antonio Filarete, fu preferito quello del Fontana; a quello per la cattedrale di Salisburgo uno di Santino Solari comasco.
Nell’Idea dell’architettura universale lo Scamozzi intendeva a precetti unire esempj, raccolti da tutta Europa. [101] Per averne i disegni teneasi bene coi nobilomini veneti che andavano ambasciadori, coi quali potè far lontani e ripetuti viaggi senza spesa, e tutto scrivendo, tutto delineando. Ma sarebbesi richiesto troppo più di cognizioni e di viaggi; ed egli riuscì confuso, prolisso, ingombro di digressioni, oltre la noja di vederlo sempre posporre alle sue le opere altrui, per quanto insigni. — Le fatiche le abbiam fatte molto volentieri, e per studio nostro particolare e per benefizio degli edificatori, e anche per lasciar qualche esempio del bel modo di edificare alla posterità; chè veramente nulla aveano lasciato ad esempio Palladio, Buonarroti, Vignola, Sanmicheli, Sansovino, ecc.»; così nell’Idea: e perfino nel testamento scriveva: — Ho procurato di restituire alla sua antica maestà questa nobilissima disciplina...; con molta fatica e spesa ho ridotto a perfezione i miei libri...; ho adornato Venezia d’infinite fabbriche, le quali in bellezza e magnificenza non cedono a qualsivoglia delle antiche... Non dubito che li miei scritti di tante fabbriche fatte da me non sieno per conservare la memoria del mio nome a pari dell’eternità».
La loggia di Brescia basta a lode del Formentone vicentino, come il palazzo ducale di Modena a lode del romano Bartolomeo Avanzini.
A Milano già eransi fatti il canale della Muzza e il Grande, i maggiori del mondo, eppure guidati senz’altra arte che quella d’un agrimensore di genio. Ora Giuseppe Meda ideò i navigli di Paderno e di Pavia con nuovi congegni, e architettò il maestoso cortile del seminario grande. Per quello così teatrale del collegio Elvetico e per la biblioteca Ambrosiana s’immortalò Fabio Mangone; Martino Bassi architettò la porta Romana e San Lorenzo; Vincenzo Seregni molte fabbriche attorno alla piazza de’ Mercanti e alcuni chiostri; Francesco Richini molte chiese e varj palazzi, tra cui quello di Brera, notevoli [102] per grandiosità, apparenza scenica e bei cortili: eppure son nomi ignoti agli storici.
Pellegrino Pellegrini di Tibaldo (1527-92), milanese nato a Bologna, rammaricato di mal riuscire nella pittura, volea lasciarsi morire, poi meglio si consigliò a voltarsi all’architettura. Tra molti suoi lavori grandiosi e scorretti sono i santuarj di Ro e di Caravaggio, l’arcivescovado di Milano, la casa professa dei Gesuiti a Genova. Dichiarato ingegnere dello Stato di Milano e direttore della fabbrica del duomo, ne disegnò il pavimento e la facciata, dove Martino Bassi s’oppose a molte sue bizzarrie, appoggiato dal voto di buoni maestri[70]. Da Filippo II chiamato ad architettare l’Escuriale, ne fu rimunerato con gran somma e col feudo di Valsolda.
Genova, sentendosi ricca, volle anche esser bella, e i suoi signori quasi d’accordo presero ad ornarla, e non potendo estenderla in quartieri nuovi, rifecero i vecchi, nel che si esercitarono Andrea Vannone comasco, Bartolomeo Bianco, Rocco Pennone lombardo, Angelo Falcone, il Pellegrini, altro di bel nome. Anima di tutti fu Galeazzo Alessi perugino, che in patria avea compiuta la fortificazione cominciata dal Sangallo, e molti palazzi, e in Genova aperse la strada Nuova, fronteggiata dei superbi palazzi Grimaldi, Brignole, Lercari, Carega, Giustiniani, pei quali la natura chiedea distribuzione diversa, e offriva marmi e colonne. Quello de’ Sauli va fra’ meglio intesi d’Italia, tutte colonne d’un sol pezzo di marmo. Tacendo alcune ville ne’ contorni, eseguì la Madonna di Carignano, una delle più finite e solide chiese; prolungò il molo, abbellì il porto e i granaj; nell’arditissimo edifizio de’ Banchi, con pochissimi materiali coperse la lunghezza di trentacinque metri e la larghezza di ventidue. Anche altrove lavorò, e a Milano [103] il palazzo di Tommaso Marino, sfoggio degli ordini e delle decorazioni più appariscenti, e la troppo carica facciata di San Celso.
Michele Sanmicheli (1481-1559) apprese l’arte dal padre e dallo zio, e dai resti dell’antichità, prima in Verona sua patria, poi in Roma, ove presto salì in rinomanza. Nella cattedrale d’Orvieto, lavorata dai migliori architetti precedenti, s’uniformò al loro stile; a quella di Montefiascone, trovandosi più libero, fece una cupola ad otto spicchi, la cui circonferenza costituisce il tempio. D’altre opere abbellì la sua patria e Venezia, e non imprendea lavoro senza avere fatto cantare messa.
Il suo nome è specialmente affisso all’architettura militare, la quale avea dovuto riformarsi col cambiar delle armi. Già se n’erano occupati il Brunelleschi, che lavorò di fortificazioni per Filippo Maria Visconti, e a Pisa, a Pesaro, a Mantova; Mariano Jacopo Taccola e Giorgio Martini senesi, Leon Battista Alberti, Lampo Biraghi milanese, che fu de’ primi a parlar d’artiglierie, proponendole per liberare Terrasanta. Il trattato, che Roberto Valturio stese ad istanza di Sigismondo Malatesta, portò in queste costruzioni il lume, che nelle civili quel dell’Alberti; e può vedervisi il passaggio fra le armi da tiro antiche e le nuove. Ne scrissero pure per incidenza Pietro Cattaneo da Siena, Daniele Barbaro, il Filarete, Antonio Cornazzano, Francesco Patrizio, Vannoccio Biringucci, e per tacere d’altri, Leonardo da Vinci.
Il Sanmicheli, quando ebbe da Clemente VIII l’incarico delle fortificazioni dello Stato papale, e principalmente di quelle di Parma e Piacenza con Antonio Sangallo seniore, s’innamorò di tal genere, e ne conformò il sistema al mutato modo di guerra. Sin allora una robusta mura, largo fossato, torri quadre o rotonde che proteggessero la frapposta cortina, distanti due trar [104] d’arco, bastavano per proteggere una città. Introdotte le armi da fuoco, colle rotonde si richiesero torri angolose, che precedettero i baluardi propriamente detti[71], e che, al comparire di questi, bisognò demolire, perchè, sporgendo dalla cortina, impacciavano la difesa. Il Sanmicheli fece i bastioni a triangolo saliente più o meno ottuso, appoggiato sui due fianchi che proteggono le cortine, con camere basse ai fianchi, che raddoppiano il fuoco, e schermiscono la cortina e la fossa. Mentre nel modo antico la fronte restava scoperta, qui tutte le parti venivano tenute in riguardo dai fianchi de’ bastioni.
Alle difese piombanti sostituivansi così le fiancanti, alle mura perpendicolari quelle a scarpa; l’artiglieria, dando ad angolo obliquo nei muri, facea minor colpo che percotendo a retto; e se anche smuri la camicia esteriore, il terreno si regge per se medesimo. A questo modo il Sanmicheli fabbricò a Verona il bastione della Maddalena ed altri, demoliti ai dì nostri per condizione della pace di Lunéville; e quelli di Legnago, Orzinovi, Castello; poi a Sebenico, Cipro, Candia, Napoli di Romanìa, buone barriere contro gli Ottomani. Della fortezza di Lido a Venezia, sopra terreno molliccio e flagellato dalla marina, si fece la prova collo sparare da quelle mura tutta l’artiglieria grossa a un tratto.
Dalla forza il Sanmicheli non dissociava la bellezza, ornando le entrate cogli accorgimenti che il Vauban [105] suggeriva dappoi: e le porte Nuova, del Pallio, di San Zenone a Verona mostrano quanto giovi l’accordo di molteplici cognizioni.
Galeazzo Alghisi da Carpi inventò di applicare la cortina a tanaglia a qualsiasi poligono, e volle sperimentare la bontà delle cortine addietro, riflesse in angolo quanto più acuto tanto migliore; ma la prova stette contro di lui. Nicolò Tartaglia prevenne i tiri di rimbalzo, che si credono inventati un secolo e mezzo più tardi; primo disputò intorno ai gradi d’inclinazione dei pezzi, all’effetto de’ projetti, alle distanze dei tiri ragguagliate all’inclinazione ed alla carica; e molti miglioramenti propose circa la forma de’ baluardi e cavalieri. Giambattista Bellucci da San Marino, che servì al Marignano nell’oppugnazione di Siena, a Francesco I e ad altri, perfezionò le fortificazioni. In tempo che tanta fiducia si riponeva in queste, Giambattista Zanchi dimostrò che contro l’offensiva non danno altro vantaggio se non del tempo che gli assediati ebbero per provvedersi: e null’altro che traduzione dell’opera sua è quella del La Treille[72], che i Francesi adducono come la prima di tale materia in lor favella.
Jacopo Lentieri bresciano scrisse dialoghi su questo proposito e sul levare le piante delle fortezze; e primo vestì di matematiche la scienza delle fortificazioni. Carlo Theti insegnò varj contrafforti, recinti doppj, controguardie continue, bastioni distaccati. Pierantonio Fusti da Urbino, detto il Castrioto, osteggiò Siena, munì San Quintino, Calais e tutta quella frontiera con un campo trincerato, fece tre forti in Navarra, e morì ingegnere generale di Francia il 1563. Egli avea stampato Della [106] fortificazione delle città (Venezia 1564), insieme con Girolamo Maggi che difese Famagosta, dove preso dai Turchi, dopo dura cattività fu strozzato. Gabriele Tadini di Martinengo restaurò le fortificazioni di Bergamo; operò per Venezia nella guerra contro la Lega, onde meritò d’esser fatto soprantendente alle fortificazioni di Candia; fu de’ più attivi difensori di Rodi, indi granmaestro dell’artiglieria di Carlo V; infine provvide a fortificare le isole dell’arcipelago contro i Turchi.
Vuolsi saper grado a questi ingegneri d’aver opposto un riparo ai nuovi Barbari che minacciavano la civiltà europea, e contro cui i re litigiosi lasciavano Venezia a combatter sola.
Aristotele Fioravanti, che in Bologna trasportò la torre della città, lavorò molte fortezze per la Moscovia. Rodolfo, dopo fatti i baluardi di Camerino, sua patria, in Transilvania e in Polonia servì al re Stefano Batori, e v’insegnò l’uso delle palle roventi. Nelle Fiandre il Paciotto alzò la cittadella di Anversa, e diede disegni per quelle d’America: altre ne fortificò nelle Fiandre Ascanio della Cornia. Girolamo Bellarmati, fuoruscito senese e autore di una Corographia Thusciæ, fu ingegnere maggiore di Francesco I, costruì il porto dell’Havre de Grace allo sbocco della Senna, e bastionò Parigi; e volendo il re mandarlo coll’ammiraglio conte dell’Anguillara ad assalir Barcellona, ricusò, perchè con quello era stato costretto due volte a fuggire[73].
Con Caterina de’ Medici andarono in Francia Girolamo e Camillo Marini, il Campi, il Befani, ingegneri militari, e il cavalier Relogio che fortificò sapientemente la città di Brouage. Antonio Melloni da Cremona, dopo difesa Vienna e ajutato a prendere molte fortezze sul [107] Reno, ove allestì un campo trincerato per quarantaquattromila Francesi, ne fabbricò altre in Picardia, prima che Calais fosse presa dal nostro Strozzi; poi ottomila Italiani con esso guidati dal principe di Melfi, combatteano altrettanti Italiani che, al soldo d’Inghilterra, in Boulogne si munivano per opera dell’ingegnere Girolamo Pennacchi da Treviso, che vi perdè la vita nel 1544.
Bourg-en-Bresse fu munito dal Busca milanese. Alessandro del Borro aretino, allievo del Piccolòmini, utilissimo all’Impero, massime per avere fortificato Vienna, già prima munita da altri Italiani, quali il Floriani di Macerata, Pietro dal Bianco, lo Scala, Giovan Peroni, intervenne alle principali battaglie di quel tempo; a servigio di Venezia, sottomise Egina, occupò Tenedo e Lenno, e morì dalle ferite tocche nel difendersi con una sola nave contro tre barbaresche[74].
Ostilio Ricci toscano fortificava le isole di If e Pommiers: Agostino Ramelli milanese serviva al re di Polonia, e morì sotto la Roccella, da lui munita: il Pasini ferrarese fortificò Sedan: nel Portogallo lavorò Vincenzo Casali, autore della darsena di Napoli: e a Saragozza Tiburzio Spannocchi faceva un ponte levatojo che bastava un soldato ad alzarlo, e non se ne vedeano le catene. Francesco Giuramella munì Custrino; il Bosio genovese fondeva artiglierie pei Russi; il Solaro costruiva due castelli a Mosca; Simone Genga nel 1581 muniva le sponde della Duina.
Più segnalato nella pratica e nelle teoriche fu Francesco Marchi bolognese, ingegnere di Alessandro de’ Medici, poi di Pierluigi Farnese e di Paolo III, indi passato in Fiandra colla costui vedova Margherita, dove attese trentadue anni a munimenti militari, e introdusse [108] le carrozze all’italiana. D’un suo lavoro esteso su molte scienze e molte macchine, restato imperfetto e inedito, porse ampia informazione il Fantuzzi negli Scrittori bolognesi. Inventò molte guise di bastioni, cavalieri, rivellini, aloni, tanaglie semplici e doppie, grande varietà di linee magistrali, fossi, strade coperte. Cercò innanzi tutto di elevare il carattere e la morale dell’uomo. Gli si accerta il merito dei tre metodi attribuiti a Vauban, al quale forse solo spetta la gloria delle applicazioni sistematiche, e dell’alleare l’arte delle fortificazioni colla strategia.
Nè a sostenere la priorità degli Italiani è inutile il riflettere che i nomi delle fortificazioni nuove sono la più parte d’origine nostrale anche nel parlar francese, e a tacere piattaforma, mina, rivellino, ingegnere, possiamo addurre bastione, cittadella, baluardo, orecchione, merlone, parapetto, gabbioni, casematte, caserme, banchetta, cannetta, lunetta, contrascarpa, palizzata, spianata, bomba, artiglieria...
Altri s’occuparono dell’architettura nautica, come Camillo Agrippa milanese[75] e Mario Savorgnano conte di Belgrado[76]. Nell’idraulica molti ebbero ad esercitarsi e a scrivere, fra cui il longevo Luigi Cornaro tratta delle lagune venete come difesa[77].
Come in queste grandi opere, così in minori s’addestravano i nostri. La scrittura e la pittura, uscendo insieme dal santuario, continuarono lungo tempo affratellate; e la miniatura de’ libri dove procedeano di conserva, mantenne a lungo i tipi, che gli artisti abbandonavano. Che se la stampa e l’incisione le aveano tolto importanza, ne abbiamo ancora stupendi esempj in [109] libri devoti e in corali, anzi può dirsi che i migliori fossero degli ultimi tempi. A Venezia il codice di Marciano Capella, alluminato dal fiorentino Atavanti sul finire del Quattrocento, con tale ricchezza d’oro, di minio al modo antico, di oltremare al modo nuovo, e tanta varietà di figure e di fregi, dedotti dalla natura materiale, dalla fantastica e dalla simbolica, impone l’ammirazione anche ai più ritrosi. Meravigliosi corali dalla Certosa di Pavia passarono in Brera a Milano: di bellissimi Antonio Cicognara ne miniò pel duomo di Cremona, e nel 1484 un mazzo di tarocchi pel cardinale Ascanio Sforza. E come che questa minuta maniera fosse considerata di povero gusto, fatta per denari, ristretta a copiare materialmente il vero, molti cultori trovò, fra’ quali primeggiarono Girolamo de’ Libri, Liberale da Verona, don Giulio Clovio croato, e Felice Ramelli suo scolaro, frà Eustachio, frà Filippo Lapaccini ed altri Domenicani. Il breviario della Marciana, che fu del Grimani, opera dell’Hemmeling, disputa il primato colle miniature di Stefano Fouquet di Tours, oggi possedute dai Brentano di Francoforte.
Benvenuto Cellini, orefice e fonditore di cui altrove discorreremo, unicamente a Michelangelo soffriva d’essere considerato inferiore; nel suo Perseo risente dell’esagerazione dominante, ma è considerato inarrivabile nel niello e nelle orificerie. Usavano allora ai berretti medaglie d’oro, e Caradosso Foppa milanese le facea pagare non meno di cento scudi l’una. Il Cellini, che lo reputava «il maggior maestro che di tali cose avesse visto, e di lui più che di nessun altro aveva invidia», ne fece di molte, e vezzi per gli arredi papali e per le belle della Corte francese. La preziosità della materia fece perdere molte delle opere sue; le rimaste non è prezzo che le adegui. E forse tutti i grandi artisti si esercitarono anche in piccoli getti e giojelli.
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Le gemme non pareano lusso bastante se non fossero lavorate; e Giovanni delle Corniole s’immortalò sotto il Magnifico Lorenzo, e fece uno stupendo ritratto di frà Savonarola; Domenico de’ Cammei milanese ritrasse Lodovico Moro in un rubino; Giovan Antonio milanese nel più gran cammeo moderno ritrasse fin alle ginocchia Cosimo duca, Eleonora sua e sette figli; il Raggio intagliò sopra una conchiglia l’inferno di Dante, colle bolgie e i diversi supplizj. Una meraviglia sembrarono i cristalli dei cinque fratelli Saracchi; uno dei quali pel duca di Baviera fece una galea legata in oro e gioje, con schiavi negri, artiglieria che sparava, vele e tutto; un vaso gli fu pagato seimila scudi d’oro, oltre duemila lire di regalo. Jacopo da Trezzo scolpì in diamante lo stemma di Carlo V, e per l’Escuriale di Madrid un tabernacolo con otto colonne di diaspro e sanguigno e dovizia di statue d’oro, di gemme.
Valerio vicentino (-1546) in gemme fece composizioni difficili, «con una pratica così terribile, che non fu mai nessun del suo mestiere che facesse più opere di lui» (Vasari). Una sua cassettina, con nove compartimenti nel coperchio e nove nell’urna, storiati della vita di Cristo, gli fu pagata duemila scudi da Clemente VII, che la regalò a Francesco I in occasione delle nozze con Caterina de’ Medici. Una d’argento con fregi e statue michelangiolesche e molti soggetti in cristallo di rôcca, che come del Cellini mostrasi nel museo di Napoli, è fatica di Giovan Bernardi di Castelbolognese. Matteo del Nazaro veronese in un diaspro sanguigno fece una Deposizione dalla croce, ove le macchie rosse figuravano il sangue; comprato a gran valuta da Isabella d’Este marchesa di Mantova. Francesco I lo chiamò in Francia, pensionato come artista non meno che come sonatore, poi gli diede a lavorare alla zecca. Una serie d’intagliatori nostri continuò a quella Corte, e di loro certamente [111] sono i braccialetti in conchiglie di Diana di Poitiers, che or s’ammirano al gabinetto imperiale di Parigi. Girolamo del Prato cremonese, detto il Cellini lombardo, fece nielli, medaglie, oreficerie, e un giojello che Milano donò a Carlo V. In commessi di pietre dure lavorarono altri milanesi a Firenze e in Francia: e sin dai Fiorentini erano allogate opere ad orefici milanesi[78].
Molti mostrarono eccellenza nelle medaglie[79], altra imitazione degli antichi; e ve n’ha de’ primi artisti, e principalmente del Pollajuolo. Vittore Pisanello da Verona si applicò affatto a questo genere, che può dirsi da lui creato, con teste finitissime e variate, e nel rovescio belle invenzioni, trattate con vita e con ardito disegno. Gianpaolo Poggi fiorentino lavorò alla corte di Filippo II: così Leon Leoni aretino, e Pompeo suo figlio. Ma a migliorare le monete correnti si pensò tardi, e coll’uso dello stampo.
Alcuni, preponendo il guadagno alla gloria, davansi a contraffare l’antico, e Giovanni Cavino da Padova empì il mondo di medaglioni falsi, mentre avrebbe potuto insignemente far di proprio. Michelangelo disse essere giunta al colmo l’arte, quando vide una medaglia di Alessandro Cesari, detto il Grechetto, che nel diritto rappresentava Paolo III, nel rovescio Alessandro Magno che s’inchina al gran sacerdote a Gerusalemme: il costui Focione non cede ad antichi. Anche il baccanale, detto sigillo di Michelangelo, fu per un pezzo creduto antico, ma si sa lavorato da Maria di Pescia.
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Il magistero della tarsia (1549) fu vôlto principalmente a stalli di coro e sacristia. Gli armadj di Santa Maria del Fiore di Benedetto da Majano sono ammiratissimi, e più le opere ch’egli mandò a Mattia Corvino. Frà Damiano da Bergamo, converso in quell’ordine de’ Domenicani, che di tanti artisti segnalossi, lavorò insignemente in patria, ma più a Bologna pel coro di San Domenico, migliorando la maestria de’ colori e degli scuri, tanto da emulare il dipinto[80]. A suo fratello Stefano pajono da attribuire le tarsie ne’ Benedettini di Perugia, su disegno del Sanzio o di Rafaellin del Colle o forse di lui stesso. Altri compaesani lo imitarono, quali Lorenzo Zambelli nel coro della cattedrale di Genova, a Bergamo i fratelli Capodiferro da Lovere in quel di Santa Maria Maggiore, e Piero de’ Maffeis, e i Belli: così furono lodati i Legnaghi e frà Rafaello da Brescia, i Genesini da Lendinara, gl’Indovini da Sanseverino, in Milano Cristoforo Santagostino, Giuseppe Guzzi, Giambattista e Santo Gorbetti. Padova, Verona, Treviso, Venezia ebbero stupende tarsie da tre frati Olivetani, il più celebre de’ quali, frà Giovanni da Montoliveto veronese, chiamato da Giulio II, al Vaticano intagliò una bellissima porta su disegno di Rafaello; oltre gli stalli di cui ora si vanta la cattedrale di Siena. Fra varj che mostrano a Napoli, il coro di San Severino e Sossio per Bartolomeo Chiarini e Benvenuto Tortelli di colà, dal 1550 al 65, è meraviglioso per varietà ed eleganza. Con [113] quest’arte si posero ai quadri cornici bellissime; e Rafaello fece lavorare porte e soffitte in Vaticano da Giovanni Barile.
Sto per chiamare tarsie i chiaroscuri di pietre commesse, arte forse nata, certo perfezionata a Siena nel meraviglioso pavimento del duomo, da Duccio cominciato rozzamente, proseguito dai migliori, via via raffinando sin al Beccafumi. I musaici di San Marco furono una scuola continua in Venezia; ma di migliori se ne compirono a Roma.
Nell’arte delle finestre colorate ci vinceano Francesi e Fiamminghi. Bramante chiamò maestro Claudio e frà Guglielmo di Marcillac per ornare il palazzo Vaticano e Santa Maria al Popolo: l’ultimo arricchì d’altre opere Arezzo, Firenze, Perugia, e fu maestro del colorire al Vasari, che nel ripagò con un’affettuosa biografia. Artisti nostri in tal genere troviamo Fabiano di Stagio Sassoli e Battista Porro aretini, Pastorino Micheli da Siena, Maso Porro da Cortona, Visconti e Andrea Postanti all’Incoronata di Lodi, un Alessandro fiorentino che fece quelli di Santa Maria Novella a Firenze: ma non son certo de’ Vivarini quelli in San Giovanni e Paolo a Venezia. Molti Gesuati applicaronsi a questo artifizio.
Neppure negli smalti non raggiungemmo i forestieri; ma mentre questi asseriscono che di translucidi se ne fecero soltanto nel cinquecento, noi possiam mostrarne sin dal 1350 a Orvieto ed a Venezia.
L’arte delle majoliche, come accennammo (p. 15), fiorì a Urbino, Pesaro, Gubbio e Casteldurante. In Pesaro l’artifizio era antico, giovato dalla fina terra del Foglia (Isauro), ma risorse sotto gli Sforzeschi, tanto che questi regalarono vasi, nel 1478, a Sisto IV. Hanno la particolarità d’un lustro meraviglioso di vernice, quasi di perla, che cangia di riflessi a ogni voltarsi. Dal 1500 al 1540 gli artisti lavoravano su cartoni di [114] Rafaello, comprati da Guidubaldo, che ne fece disegnare anche da altri artisti, massime da Rafaele del Colle e Battista Franco veneto. Giacomo Lanfranco trovò di mettervi l’oro vero, e ne fece di forma antica con rilievi, ond’esso e la famiglia ebbero il privilegio di tali manifatture. Francesco Maria donò alla spezieria della Madonna di Loreto 300 vasi, la più parte disegnati dal Franco, e che passano pei più belli: altri mandavansi a varie Corti, storiati con fatti d’allora, o del Testamento, o della mitologia, e talora con versi, ovvero con frutti, con amori, con allusioni, con oscenità; o sbizzarrivasi in calamaj, gruppi, vasi magici, rinfrescatoj: faceansi anche pavimenti a disegni.
Delle fabbriche d’Urbino la prima menzione cade nel 1477, poi nel 1501. Giorgio Andreoli forma la gloria di Gubbio, eccellente non solo ne’ modelli, ma nella pittura e scultura, e introdusse il buono stile, mentre quivi insegnava il segreto de’ colori rosso, verde, aureo e argenteo, che aveva imparato in Lombardia. Morì dopo il 1552.
Di Casteldurante le produzioni erano grossolane finchè da Luca della Robbia non s’imparò la maravigliosa vernice. Si valsero di disegni di Rafaello, e dal 1535 all’80 ebbero i principali artisti, molti de’ quali andarono in colonia in altri paesi, ad Anversa, alle Jonie, in Venezia. I fratelli Orazio e Camillo Fontana raggiunsero l’eccellenza, e dietro loro il Piccolpassi, Luzio Dolce, Giustino Episcopi, Tommaso Amantini, Taddeo Zuccari, che disegnò una credenza da donare a Filippo di Spagna. Quivi le fabbriche durarono anche dopo che ne’ paesi anzidetti erano cadute dopo il 1560, perchè mancò l’incoraggiamento, e perchè s’introdussero le porcellane della Cina, superiori al certo per finezza e colore, ma spoglie d’ogni merito artistico[81].
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Altre majoliche lodatissime fabbricavansi ad Atri negli Abruzzi e principalmente dai Grue.
Artisti italiani e l’italiano esempio diffusero il moderno gusto e la correzione oltr’Alpi, e fecero abbandonare il gotico: del che il primo esempio è forse nella sala della coronazione a Praga, e in una fabbrica di Solesmes nella Turena del 1493. In Francia lo stesso Luigi XI, in mezzo all’ignobile suo corteggio, apprezzò i meriti di Giovan Bellino. Carlo VIII, invaghito della nostra coltura, menò di là dall’Api artisti e artieri[82]; fece eseguire molti lavori, principalmente ad Amboise, «da operai eccellenti scarpellini e pittori che avea menati da Napoli» (Commines); e la sua tomba di marmo nero con figure di bronzo dorato è del modenese Paganini. Francesco I, svegliato dal funesto suo sogno della conquista d’Italia, si fece a Fontainebleau un’Italia artifiziale, raccogliendovi i rottami del paese, al cui naufragio avea troppo contribuito; e il maresciallo di Chaumont, che governando il Milanese, avea procurato alleviare la servitù col proteggere le arti, chiamò di quivi Andrea Solaro, che dipinse il castello di Gaillon. Leonardo da Vinci avrebbe potuto educare i Francesi non a contraffare i nostri, ma a studiare in che modo operassero; non abbagliarli coll’entusiasmo, ma secondare la qualità in essi dominante, l’intelligenza. Al contrario, col recare di colpo la Francia a copiar l’Italia, le fu tolto il vantaggio del noviziato, e affogata l’originalità nell’imitazione. Rosso de’ Rossi fiorentino, quasi non esistesse pittura prima del grande stile, e non comprendendo se non quella che sapeva, operava di pratica, e pretendendo non seguire alcuno, cadeva nel [116] fantastico; nella Trasfigurazione a Città di Castello, collocò a’ piè del quadro una zingarata. Costui impiantò a Parigi la scuola italiana, compatendo cotesti Francesi secchi, poveri; pochi accettava a scolari, e a patto che rinnegassero le tradizioni nazionali e ingenue, per assumere il teatrale, il lezioso; a compagni preferiva i mediocri, onde adoperò Lorenzo Naldini allievo di Francesco Rustici, il quale pure aveva lavorato colà; Antonio Mimi, Domenico del Barbiere, Luca Penni, Bartolomeo Miniati, Francesco Caccianimici.
Il Primaticcio di Bologna, che gli succedette nella sovrantendenza ai reali edifizj, derivava da Rafaello, ma erasi cambiato dopo visto Michelangelo e sotto Giulio Romano, con cui lavorò nel palazzo del Te; conservava dell’eleganza, ma credeva ai metodi di scuola. Decorò la villa di Fontainebleau, e vi pose molte statue e modelli antichi: v’ebbe a collaboratori Bagnacavallo, Ruggeri di Bologna, Prospero Fontana, Nicolò dell’Abbate modenese, che tutti lasciarono opere in Francia. Girolamo della Robbia, itovi nel 1530, ornò il palazzo di Madrid nel bosco di Boulogne, con terraglie dipinte magnificamente, alcune grandissime e con rilievi: ma tutto fu diroccato nel 1792, e le opere vendute a un terrazziere, che le macinò per farne cemento. Domenico Boccadoro di Cortona, nel disegnare il palazzo di città a Parigi, non dimenticò i bisogni e il gusto del paese, onde le larghissime finestre del pian terreno, la tettoja molto inclinata, con forma monumentale. Il Vignola stette due anni a Parigi, il Serlio vi morì, il Bellarmati, il Bellucci, Gianangelo da Montorsoli, altri ed altri chiamati o venuti; sicchè Fontainebleau fu un museo d’opere italiane e di copie, su cui si formarono alcuni buoni, quali Pietro Lescot, Goujon, Cousin, Delorme, che per incarico di Caterina de’ Medici alzò il Louvre.
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Contucci da Montesansovino fu in Portogallo; in Inghilterra Jacopo Aconzio, Girolamo da Treviso e Toto della Nunziata; in Ispagna Leon Leoni, l’Anguissola, il Pellegrini. Matteo Pietro Alesio romano dipinse a Siviglia un san Cristoforo, le cui gambe al polpaccio han quattro piedi di larghezza. Fu ammirato dagli anatomisti, ma egli, veduto un Adamo di Luigi di Vargas, dichiarò: — Una gamba di questo vale ben più che tutto il mio Cristoforo».
Pier Torrigiani, allevato negli orti di Lorenzo de’ Medici con Michelangelo, prese ira contro di questo, e gli ruppe il naso; fuggito, militò nelle truppe del Valentino, poi da mercanti si lasciò condurre in Inghilterra, ove fu ammirato pel mausoleo di Enrico VII nell’abbadia di Westminster. Per un grande di Spagna lavorò un bambin Gesù, che fu trovato mirabile; e il committente per pagarlo gli mandò a casa alcuni sacchi di denaro: ma svolgendoli trovò ch’erano piccole monete, sommanti appena a trenta ducati; onde stizzito diè del martello nell’opera propria. Il grande, in luogo di vergognarsi, ne volle vendetta, e l’accusò come oltraggiatore d’immagine sacra; onde preso dall’Inquisizione e messo allo spasimo, lasciossi morire.
Il czar Ivan, che allora tentava introdurre la Moscovia nella società europea, chiese artisti nostri: e nel kremlin di Mosca, Aristotele Fioravanti fabbricò la chiesa; Pierantonio Solaro nel 1487 il palazzo detto di granito, terminato da Paolo Bossi genovese, da Marco ed altri; Aloisio milanese vi fece il Belvedere, e finì l’Assunta con nove cupole, e altre fabbriche, dove l’orientale era modificato secondo il tipo italiano, che collocavasi a fianco alle piramidi del Messico e alle pagode dell’India[83].
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L’andamento medesimo che nelle arti, ricorre nella letteratura: alcuni ricalcano l’antico, altri s’avventano al nuovo qual ch’egli sia; i migliori temperano l’un coll’altro in sì felice accordo, da esser posti fra’ classici anche dagli stranieri.
Già salutammo quel restauramento della retorica, che i pedanti venerano come risorgimento dello spirito umano. Lo studio del latino viepiù necessitava in Italia, donde occorreva di carteggiare con tutte le nazioni, in tempo che scarsamente si conosceano i vulgari altrui: oltre che quella lingua ci era una specie di vanto nazionale, portandoci verso que’ gloriosi, che noi chiamiamo progenitori; e lo scrivere pretto ciceroniano pareva avvicinasse ai tempi quando quelle parole dalla tribuna esprimevano liberi sensi, e dal senato imperavano ai Barbari, da cui adesso ci troviamo calpesti. Qui dunque fiorivano solenni latinisti. Jacopo Sannazaro napoletano (1458-1530) seguitò vent’anni a visitare tutti i giorni il cieco Francesco Poderico sagacissimo critico, e leggergli i versi che avea composti, fin dieci mutazioni facendone prima che n’uscisse uno approvato[84]. Purezza, eleganza e virgiliana armonia spira il suo poema De partu Virginis: ma Ninfe e Protei e Febi che hanno a fare coi dogmi più venerabili? Chiede perdono alle Muse se le trae a cantare uno nato nel presepe; [119] l’Arcangelo che annunzia la beata Vergine, non è diverso da Mercurio; il Giordano personificato narra l’ascensione di Cristo, qual la udì da Proteo: arte pagana insomma attorno a soggetto sacro, alla guisa stessa che sul suo sepolcro sorgono Apollo e Minerva, Fauni e ninfe, in chiesa cristiana.
Miglior partito dal soggetto medesimo trasse il vescovo Girolamo Vida cremonese, che nella Cristiade (1566), se nol raggiunse in dolcezza e dignità, mostra pietà verace, eppure ancora il Cristo è poco più che un ricalco di Enea, l’uomo soffrente, non il Dio riparatore; e non che tutta la natura sembri risentirsi alla grand’opera della redenzione, e l’alito d’amore si spanda sovra le ire procaci, gli Angeli vorrebbero far la vendetta del loro Dio. Insomma, nel mentre i poeti profani formavano gli eroi più che uomini, e Giove e Plutone ingrandivano accostandoli al tipo divino, i poeti sacri impicciolivano Cristo nelle proporzioni d’un eroe.
Il Vida verseggiò pure con molta agevolezza l’arte poetica, il giuoco degli scacchi, il baco da seta, affrontando la difficoltà di precetti aridi e non mai espressi in latino; e dettò un buon trattato De optimo statu civitatis. Girolamo Frascatoro veronese (-1553), da medico e poeta volle figurare nella Sifilide, tema ributtante ch’e’ rese tollerabile con belle digressioni e coll’armonia costante, quantunque lontana dalla soavità di numero e dalla parsimonia di Virgilio, a cui i retori lo assomigliano. Il Navagero talmente aborriva dalle arguzie e dalle lambiccature di Marziale, che ogn’anno bruciava alle Muse un’ecatombe di esemplari di quel poeta. Da lui intitolò il Fracastoro un dialogo sopra la poesia, dove elevandosi sopra la meschinità precettiva, ne colloca l’essenza nell’ideale, qual viene inteso da una recentissima scuola filosofica.
Gabriele Faerno di Cremona, di cui si ignora ogni [120] altra particolarità che la sua modesta virtù e la protezione largitagli da Pio IV e da Carlo Borromeo, stese cento favole esopiane in versi latini, destinate alla gioventù quando Fedro non era stato scoperto; con tale limpidezza e semplicità, che si credettero plagio di qualche antico. Il Flaminio veronese gareggia coi lirici antichi.
Pier Angelo Bargeo canta la caccia coi cani e col vischio, e la Siriade o le crociate. Marcello Palingenio (Zodiacus humanæ vitæ), in versi men belli de’ concetti, flagella la corruttela clericale. Aggiungiamo Basilio Zanchi bergamasco, che per accuse ereticali morì prigione di Paolo IV; tre fratelli Capilupi; cinque Amaltei, egregii fratres queis julia terra superbit; Andrea Marone bresciano improvvisatore, che l’Ariosto paragonò all’omonimo antico, e che morì di fame nel sacco del 27; Aurelio Augurelli, che presentò a Leone X la Crisopeja o arte di far l’oro, e Leone spiritosamente il ricambiò con una borsa vuota, acciocchè vi mettesse il metallo che creava.
Le lettere papali erano sempre state le meglio stese, e gli scrittori di esse consideravansi successori legittimi dei retori antichi, anzi perfino di Cassiodoro e di Virgilio, e presero luogo vicino ai canonisti. Molti ne trattarono espresso[85], e distinguevano dodici stili curiali [121] oltre gli stili poetici, fra cui principali il Gregoriano, poi il Tulliano, l’Ilariano, l’Isidoriano, de’ quali noi abbiamo smarrito la chiave. Ora potersi scriverle con purissima eleganza dimostrarono il Sadoleto e il Bembo, al qual ultimo si attribuisce l’avere insegnato ad imitar solo Cicerone, lasciando via gli scrittori di bassa latinità: ma per quanto lodato, egli mi pare aspro, e nella sua magnificenza ben lontano dalla schiettezza de’ classici.
Lazaro Bonamici da Bassano (-1552), filologo ai servigi del cardinal Polo, nel sacco del 27 perdette i libri; poi a gara domandato a Padova, a Vienna, in Polonia, in Francia, formò valentissimi scolari; con criterio censurava le opere altrui, repugnava dallo scrivere italiano, e diceva di amare men tosto esser papa, che parlare come Cicerone. Al Beazzano da Treviso, autore di meschine poesie e spertissimo negli affari, dopo che fu [122] ridotto infermo dalla podagra, accorrevasi da tutta Italia per consigli letterarj. Più tardi, i Volpi padovani furono correttori della stamperia del Comino di Cittadella.
Giulio Cesare Scaligero (1484-1558) volea farsi frate sulla speranza di diventar papa, onde ritorre ai Veneziani la sua Verona, da’ cui antichi dominatori pretendeva discendere. È il primo moderno che nella interminabile sua Poetica pensasse ridurre a sistema l’arte dei versi con copiosissimi esempj. Più di gusto che di genio, con amore dell’eleganza non sentimento della forza, preferisce a Omero l’Eneide, e fino l’Ero e Leandro; Orazio e Ovidio ai Greci, e con molto artifizio sostiene un assunto che, preso alla spicciolata, non è sempre paradossale. Rivede anche i moderni, fra i quali dà la palma al Fracastoro, poi al Sannazaro e al Vida.
Francesco Arsilli, nell’elegia De poetis urbanis, loda più di cento poeti latini viventi a Roma sotto Leone X. Dai loro contemporanei erano paragonati ai classici: ed anche il facile Roscoe, che figurò buono come lui il secolo di Leone X, ma nè il conobbe nè il fece conoscere, pareggia que’ nostri umanisti e Giovian Pontano ai contemporanei d’Augusto; come quando intitola grande il Bojardo, e pone l’Arcadia del Sannazaro sopra quanto l’Italia avesse fin allora prodotto; l’Italia di Dante.
I fantasticatori recenti d’una letteratura europea potrebbero trovarla già in cotesti latinisti, che costituivano veramente una repubblica universale, potente per questa medesima lingua e per l’accordo: ma il latino non essendo più la lingua del pensiero, ne veniva uno sciagurato divorzio tra questo e le parole; e lo studio della frase e dello stile riusciva a scapito della naturalezza. Erasmo derideva i nostri latinanti che non avventuravano parola la quale non fosse in Cicerone; [123] mentre (siccome qualche nostro contemporaneo pretese saper la storia romana meglio di Tito Livio) egli presumea saper meglio di Cicerone come scrivere latino. Ma essi stessi confondevansi; e intanto che Lipsio e Aonio Paleario portano a cielo il latino di Paolo Giovio, lo Scaligero il giudica affettato e lussuriante anzichè puro[86].
Quell’ostinazione di studj conduceva facilmente alla presunzione, ad amare dell’antico fino la ruggine e le scorie, annichilare la propria personalità per camuffarsi alla greca e alla romana. Abbagliati non sapevano che ammirare; tutto vi ritrovavano bello ed uno; e viepiù sprezzavano la bizzarra varietà e la complessità laboriosa del medioevo e quel mondo di contrasti; vergognandosi d’essersi inginocchiati a quell’idolo misto di [124] fango e diamanti. E per vero la scienza e la filosofia v’erano mancanti d’ogni gusto artistico, sicchè allo svegliarsi della letteratura classica fu vantaggio il considerarla principalmente dalla bellezza dello stile, e ravvivar così il sentimento estetico. Sebbene si esagerasse, continuando diveniva necessario volger lo studio de’ classici a sviluppare e crescere la conoscenza dell’uomo, e non solo dello scrivere, ma del pensare chieder loro lezioni; dall’esame della forma passare a quello della sostanza.
La purezza dello scrivere costava viepiù perchè dovea ciascuno per fatica propria accattar voci, frasi, regole, ed accertarle; finchè l’agostiniano Ambrogio Calepino da Bergamo diede fuori il vocabolario (Reggio 1502), che d’edizione in edizione cresciuto, in quella di Basilea del 1581 comprese ben undici lingue. E poichè non v’ha genìa più litigiosa dei pedanti, ne pullulavano rinfacciamenti scambievoli, e battaglie che s’appigliavano a tutto il regno letterario, tra il Poliziano e Bartolomeo Scaligero, tra Fiorentini e Napoletani, in proposito sempre di parole e parole.
Continuavasi a far buone edizioni, e stampatori eruditi apparvero il Minuziano a Milano, i Giunti a Firenze e Venezia, il Torrentino a Firenze e Mondovì, il Paganino a Venezia e Tusculano, il Viotto a Parma. I Ferrari di Piacenza erigono stamperia a Milano e a Trino, donde a Venezia; e perchè un d’essi, Gabriele, ito in Francia, fu soprannomato Joli, prese il cognome di Giolito, e per impresa la Fenice[87]. Costui non guardava [125] a spesa per avere buoni correttori e buone opere, e per lui lavoravano il Dolce, il Domenichi, il Doni, il Brucioli, il Turchi, il Sansovino, il Fiorentino, il Bettussi, il Toscanelli, il Baldelli; fece vulgarizzare Diodoro Siculo, Dione Cassio, Onesandro, Appiano, Cicerone, Plinio; stampò un Ariosto con begli intagli; eseguì la collana degli Storici greci, ideata dal Porcacchi; in sua casa accoglievansi i principali Veneziani e forestieri; Carlo V il fece nobile, re e papi gli concessero grazie. Aldo Manuzio romano, stipite d’una famiglia di tipografi celebri a Venezia, continuava a stampar Aristotele mentre le palle di Francesi e Tedeschi sgomentavano la città; pubblicava Platone l’anno dell’eccidio di Ravenna e di Brescia; poi mutatosi a Roma, formò una Neoacademia dove ragionare di letteratura, e scegliere i lavori da stamparsi e lezioni da preferire, e pose sulla porta del suo gabinetto: — Se vuoi nulla, spicciati, e subito va; se pur non vieni come Ercole allo stanco Atlante, per sottopor le spalle; chè in tal campo sempre vi sarà da fare per te e per chiunque venga» (tom. VIII, pag. 367). Anche Pier Vettori procurò eccellenti edizioni e vulgarizzamenti di classici.
Dilatavasi lo studio del greco; e Giovanni Lascari, Francesco Porto, Marco Musuro e altri Greci qui formarono numerosi scolari, principalmente a Firenze, che parea un’Atene risorta[88]; Varino Favorino ne fece il primo dizionario dopo quello imperfetto del Crestone (tom. VIII, pag. 325). La prima grammatica in latino scrisse Urbano Valeriano, che lunghissimi viaggi avea compito sempre a piedi. Anche le lingue orientali [126] aveano cultori, e non vogliamo dimenticare il dizionario perso-comano-latino, che il Petrarca lasciò alla repubblica veneta, forse trascritto di suo pugno. A spese di Giulio II, Gregorio Giorgi di Venezia pose a Fano la prima stamperia arabica che al mondo fosse, e nel 1514 ne uscirono le Sette ore canoniche, e poco poi il Corano per Paganino da Brescia. Pier Paolo Porro milanese stampò in Genova nel 1516 il Salterio in greco, ebraico, arabo e caldeo per cura di Agostino Giustiniani vescovo in Corsica, che possedeva ricchissima biblioteca orientale, della quale fece dono a Genova; e che da re Francesco chiamato a Parigi, primo v’introdusse le lingue orientali. Il cardinale Ferdinando de’ Medici ne aprì a Roma stamperia; a Venezia il Pomberg impresse la Bibbia in ebraico, assistito dal dottissimo frà Felice da Prato. Angelo Canini d’Anghiari pubblicò gli Ellenismi, e istituzioni per le lingue siriaca, assira, talmudica[89]. Teseo Ambrogio pavese imparò moltissime lingue, e preparava un salterio in caldaico, ma dal saccheggio di Pavia del 27 dispersi i libri e gli apparecchi suoi, non potè dar fuori che l’introduzione alle lingue caldaica, siriaca, armena e diciotto altre, con quaranta alfabeti, fra i quali comprese i caratteri che adopera il demonio, mostratigli da un adepto: opera che toglie la priorità a quella del Postel, [127] giudicata il primo tentativo di filologia comparata, e la vince in ampiezza ed erudizione.
Anton Maria Conti detto Majoragio, che avvivò l’eloquenza a Milano e vi eresse l’accademia de’ Trasformati (1555), accusato d’irreligione per aver mutato il suo nome in Marcantonio, si scagiona davanti al senato col dire che, mancando esempj classici di Anton Maria, non avrebbe potuto scriverlo in latino pretto. Qual era più ridicola, l’accusa o la discolpa? Moltiplicò opere d’erudizione, impugnò i Paradossi di Cicerone, di che ripicchiollo caninamente Marco Nizolio, autore del Thesaurus ciceronianus.
La principale biblioteca era sempre la Vaticana; vi tenea dietro quella di San Marco a Venezia, dono del Bessarione; poi quelle di Urbino, di Modena, di Torino.
Molti applicavano alle antichità, specialmente romane, Lorenzo de’ Medici pose una cattedra per insegnarle; Pomponio Leto e Rafaele di Volterra scrissero sui magistrati, Marliano sulla topografia dell’antica Roma, Robortello sul nome delle famiglie, Manuzio delle leggi e della cittadinanza, Francesco Grapaldi delle case; della milizia Francesco Patrizj, e meglio Gianantonio Valtrini gesuita romano; il Panciroli delle dignità; Lucio Mauro, Andrea Fulvio, Lucio Fannio e altri delle antichità di Roma. Benchè nato a Scio, Leone Alazis o Allacci può arrogarsi all’Italia, ove sempre visse. Archeologi zelanti voleano tutto spiegare, descrivere tutto: ma più pazienti che ingegnosi, più di buon volere che di critica e di cognizioni sulla vita degli antichi, facilmente erravano, o sminuzzavansi in meschinità; i più non miravano che alla migliore intelligenza di Cicerone: tutti poi ligi all’autorità, veneratori della virtù romana, e d’inconcussa fede in Livio e Dionigi, che sì poco vagliono nelle antichità; in Pomponio e Gellio, che ignorarono le istituzioni repubblicane; in Tullio, ch’era men [128] intento a vagliare la verità che a vincer le cause. Pure un giudice rigoroso e competente, il Niebuhr, dà lode a que’ nostri, che raccogliendo a gran fatica una moltitudine di particolarità isolate, giunsero a trarne ciò che nessun’opera avanzataci della letteratura antica offriva, un’esposizione sistematica delle antichità romane. Quanto fecero, conchiude egli, è prodigioso, e basterebbe per assicurarli di fama immortale[90].
Piaceva radunare senza discernimento medaglie, iscrizioni, arnesi, cimelj d’ogni sorta, d’ogni età, d’ogni nazione; nel qual genere levò fama il Museo, dove Paolo Giovio, accattando e blandendo, avea disposto di bellissime rarità e ritratti, dei quali stampò la prima raccolta che si vedesse, intagliati in legno. Enea Vico da Venezia primo trattò sulle medaglie degli antichi; e Sebastiano Erizzo, suo compatrioto, pose i fondamenti della numismatica.
Onofrio Panvinio veronese (1529-68) fu de’ primi a sentire l’importanza delle iscrizioni; interpretò alcune non prima intese, e pubblicò le più importanti, ben avanti del Grutero, che non gli rese giustizia; fu anzi il primo a ideare una collezione generale delle epigrafi antiche, e ne dedusse la cronologia de’ tempi romani, la serie de’ consoli e degli imperatori, e notizie sulla religione, i costumi, il governo, le dignità, gli uffizj, le tribù, le legioni, le vie, gli edifizj pubblici, i magistrati municipali, i giuochi; conobbe falsi i frammenti di Annio da Viterbo (tom. VIII, pag. 341); aggiungete una cronaca [129] universale dalla creazione fin a’ suoi tempi, un ritratto del mondo abitabile, ed altre opere viepiù maravigliose a chi guardi la brevissima sua vita. Da Marcello Cervino esortato poi a volgersi alle antichità sacre come più convenienti ad ecclesiastico, raccolse immensi materiali; di cui furono stampati il Primato di San Pietro contro i centuriatori di Magdeburgo, le note alle vite dei papi del Platina, le sette basiliche di Roma, delle sepolture cristiane; altri giaciono inediti[91] o incompiuti, fra cui gli Annali ecclesiastici.
Con maturità e più accertate cognizioni Carlo Sigonio da Modena (1520-84) illustrò le romane antichità, i fasti consolari, il diritto romano (italico) e provinciale. Dopo la storia dell’impero occidentale da Domiziano ed Augustolo, primo ardì quella del regno d’Italia dai Longobardi sino al 1286; non traendo lume che dagli archivj, sicchè, malgrado gli errori, vuolsi venerare qual rinnovatore della diplomatica. Descrisse la repubblica degli Ebrei, quasi specchio alle costituzioni moderne. Premesso con Aristotele, che scopo d’ogni civile consorzio è conciliare l’utile col giusto, vuole si abbiano consigli occupati dei vantaggi della nazione, magistrati che non permettano di disgiunger da questi la giustizia, un capo che gli uni e gli altri convochi, distribuisca loro gli affari; il che tutto pargli fosse tra gli Ebrei felicemente combinato[92].
Pirro Ligorio napoletano per tutta Italia raccolse e disegnò iscrizioni, formando trenta volumi d’antichità, rimasti inediti e preziosi, malgrado i troppi errori. [130] Mariangelo Accorso di Aquila, che visse trentatre anni alla corte di Carlo V, e per suo servizio viaggiò nel Settentrione, fu de’ più attenti antiquarj; adunò parecchi monumenti, che pose in Campidoglio; corresse molti passi di autori. Celso Cittadini avea pur fatto una raccolta d’iscrizioni: altre particolari di paesi servirono di fondamento alle storie municipali di Verona, Brescia, Como, Faenza, e alla milanese di Andrea Alciato (1492-1550).
Quest’ultimo, scolaro degli altri celebri Giasone del Maino e Carlo Ruino, a ventun anno pubblicò le note sui tre ultimi libri degli Istituti di Giustiniano, poi i paradossi del diritto civile, che lo fecero da alcuni riprovare come novatore, da altri levar a cielo. Ricco d’onnimoda letteratura, come ne diè prova in opere variatissime, rappresenta il progresso della giurisprudenza dall’autorità al raziocinio. Quanto alla Bibbia i teologi, tanta venerazione i giuristi professavano pei codici romani; riverendone il testo, senza osar più che qualche correzione o variante (glossa interlinare). Si procedette poi alla interpretazione logica (glossa marginale), che diede prevalenza al criterio personale sopra l’objettivo, passando dalla scuola d’Irnerio a quella d’Accursio, ma sempre con una specie di fede nell’accordo tra la parola e il senso logico della legge. Questa fede diminuisce allorchè Bartolo crea il Commento, dove la dialettica è considerata come mezzo per ottenere la vera conoscenza del diritto. Ma della dialettica si abusò, con interminabili teoriche, definizioni, cautele degenerando nella sofistica. Di questa l’Alciato rivela gli abusi, e come i professori insegnassero le industrie di fare, con parole, sembrar forte una causa debole, e sottoporre la verità all’interesse: Barbazia, Giason del Majno, Parisio davano consulti, dove il sofisma facilmente si scopriva; ma Decio e Bartolomeo Socino [131] mentivano con finezza tale da ingannare i pratici. Decio poi a’ suoi consulti metteva soltanto la soscrizione, perchè così diceva non avere già affermato che quello fosse il diritto, ma scritto solo perchè la materia si prestasse meglio alla meditazione. Sannazaro, tanto per contentare il cliente, mutava qualche circostanza del fatto, sicchè il consulto procedeva legalmente, ma inutile. Paolo di Castro e Lupo asserivano d’avere scritto non consulti, ma allegazioni, nè in conseguenza doversi esigerne il vero a puntino (Parergon juris, lib. XII, c. 12).
Siffatto abuso della logica rendeva inestricabili le liti, irreperibile il vero. Si cercò orizzontarsi mediante l’autorità de’ grandi giureconsulti, ma con ciò la scienza sottometteasi alla tradizione scientifica, e non si facea che accumulare autorità, fra le quali la legge veniva sagrificata all’opinione collettiva: e Giason del Majno, campione di questa scuola, diceva che, dove urtino la verità e l’opinione comune, questa deve preferirsi a quella... l’errore comune costituisce diritto e si ha per verità (Lib. I, § testes cod. de Testamento). Di questo sottoporre il vero a un criterio legale dolevasi l’Alciato, e che si consumasse un intero semestre a porre in bilancia le opinioni dell’Aretino, di Socino, di Carlo Ruino, e confutare una sentenza accettata, con molta ambizione e pochissimo senno (Prælatio in bononiensi schola, an. 1550). Ma quell’ardimento che il raziocinio veniva prendendo anche nelle cose di fede, s’applicò alla giurisperizia, e l’Alciato n’ha il merito (per dirlo alla moderna), proclamando la superiorità della ragione individuale nel conoscere la vera realità del diritto positivo nella sua idealità, e tradurlo a tutte le conseguenze teoriche e pratiche della vita sociale in armonia colla religione. «Omesse (dic’egli nella prolusione di Pavia) le ambagi degli entimemi, più atte a [132] ostentare ingegno che a compier la dottrina, riferirò in breve quel che s’abbia a sentire, e francheggerò l’interpretazione nostra con ragioni che bastino a rimuover le contraddizioni altrui». Opponeva dunque al formalismo dialettico la libera ragione. Per iscoprire poi il senso intimo della legge, ricorreva all’erudizione, che pondera i tempi, gli usi, le circostanze da cui ne fu accompagnata la formazione; colla storia migliorando il criterio objettivo.
Nascea da ciò la necessità di studiare i classici; onde gli derivò una inusitata bellezza di forme. E della filologia si valse a emendar varj passi del Corpus juris; industrie frammentarie, che avviavano alle sistematiche de’ moderni. Il testo rettificato volea costantemente premesso al commento, affinchè mai non se ne dimenticasse la realità, come era avvenuto agli scolari di Bartolo. La ragione è la perfezionatrice della realtà del diritto; del quale il senso più che la parola deve considerarsi. In conseguenza dedusse dai commentatori molti principj scientifici sconnessi, che coordinò sotto tre regole capitali intorno alle presunzioni.
In questo sforzo di emancipar la ragione dalla tradizione, l’individualità dall’autorità, s’inchinò sempre al dogma, e pose il diritto canonico per limite al romano. Che se le forze d’un solo non bastavano a compiere il passaggio dal medioevo ai moderni, aprì la via ai tre grandi lavori che restavano a fare d’archeologia storica, di filosofia del diritto positivo, di conciliazione fra i due elementi predetti; imprese serbate a Cujaccio, Donello, Domat[93].
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L’Alciato godette di fama estesissima; ad Avignone ebbe seicento scudi di stipendio, settecento scolari e le divise di conte palatino; professò a Bourges per seicento scudi, e volendo partirne, il re gliene aggiunse trecento, il Delfino gli regalò una medaglia che ne valea quattrocento, e Francesco I sedè qualche volta fra’ suoi uditori. Non ancora contento, l’Alciato si partì, e lesse a Pavia per millecinquecento scudi, poi a Bologna, a Ferrara, senza mai chiamarsi soddisfatto. — Son richiesto (scriveva egli) da tutte le parti del mondo, da Inglesi, da Sassoni, da Belgi, da Pannoni; tanto non v’è luogo, che dagli scritti o dalla fama non conosca l’Alciato: testè mi scrisse Giovan Caspiano presidente al senato in Austria, testè Claudio Metense da Basilea, ed altri dotti».
Alcuni delle forme e del linguaggio degli antichi valeansi a materie nuove, come gli storici, i filosofi, e coloro che agitavano vive quistioni civili, ai quali ben tosto aprì vastissimo arringo la Riforma. Allora quest’erudizione, che placidamente armeggiava sui classici [134] e in disquisizioni di parole, venne sospetta dacchè i novatori la spinsero nei campi della fede: poi studj più attuali le tolsero il primato; mentre dal 1491 al 1500 eransi stampate quattromila cencinquantotto opere, appena settecento ventitre ne comparvero fin al 1513; e Aldo Manuzio racconta che, nell’ora di far lezione, egli stava passeggiando davanti alla vuota Università romana, attesochè le lingue vive aveano occupato il posto delle classiche, ridotte a erudita curiosità.
Quegli studj aveano certamente giovato anche all’italiano, come la grammatica ai bambini; ma vi introdussero l’artifiziato periodare, le disdicevoli trasposizioni, la mescolanza di congiunzioni latine; e l’ermafrodita pedanteria guastava fin lo stile epistolare e domestico, e insegnava un’aria pomposa e cortigiana, e ciò che più rincresce, adulazioni svergognate; perchè lo scrivere consideravasi come un’arte, non come una manifestazione. Tanto le colpe letterarie toccano alle morali.
Coloro che dallo studio del latino traevano il pane, n’esageravano l’importanza a segno, da pretendere che l’italiano fosse indegno delle scienze. È noto che il Bembo suggeriva all’Ariosto di scrivere il suo Orlando in latino. Alla coronazione di Carlo V, Romolo Amaseo, arringando davanti a questo e al papa, sostenne doversi lasciar l’italiano ai trecconi e al vulgo da cui trae il nome. Gli fecero eco Pietro Bargeo in un’orazione allo studio di Pisa, Celio Calcagnini e Bartolomeo Ricci ne’ trattati dell’imitazione, Francesco Florido nell’apologia di Plauto, Giambattista Gorneo in un paradosso agli Infiammati di Mantova, altri ed altri, fin all’illustre Sigonio.
Siffatta preminenza avea fatto negligere l’italiano; dico dai dotti, perocchè vi fu sempre chi l’adoprò; e a non nominare Leonardo da Vinci e l’Alberti e qualche [135] altro scienziato, più alle cose intenti che alle parole, bastino le soavissime prose di Feo Belcari, nobile fiorentino che si serbò semplice in tempo di stile latineggiante e intralciato. Qual carissima semplicità nella sua vita del beato Colombini! e la castissima dettatura delle molte sue laudi e rappresentazioni convince come fosse tutt’altra che perita la poesia italiana.
A questa Lorenzo de’ Medici giovò con una protezione meglio ragionata che il padre, e col proprio esempio. Per imitare il Petrarca, anzichè per passione, celebrò egli la Lucrezia Donati con sottilità platoniche; non infelicemente tentò le pastorali e la satira, e canti carnascialeschi per le feste, che, a spesa e direzione sua, rallegravano il carnevale. L’Ambra sua villa encomiò in un poema; nella Nencia da Barberino in dialetto contadinesco amoreggiò una campagnuola con inarrivabile vivacità e naturalezza; nell’Altercazione espose concetti di filosofia platonica, e ne’ Beoni una satira dell’ubbriachezza. Inspirato dalla madre, compose anche laudi sacre, che si cantavano come quelle di frà Savonarola (tom. VIII, pag. 299).
Dalla scuola di Angelo Poliziano (1454-94), il quale vantavasi che da mille anni nessun maestro d’eloquenza latina ebbe tali e tanti scolari, uscirono Guglielmo Grocin, da poi professore di greco ad Oxford; Tommaso Linacre, amico del cancelliere inglese Tommaso Moro; Dionigi, fratello dell’eruditissimo Reuclin; i due figli di Giovanni di Tessira cancelliere di Portogallo; ed altri, esaltati da Erasmo. Chi la prima volta vedesse il Poliziano in cattedra con naso sformato, occhio losco, collo tozzo, pigliavane disgusto: ma se schiudesse una voce dolce e vibrante, quella parola simile a un mazzo di fiori, quella frase tutta sali attici, faceano ben tosto dimenticare i torti di natura (Giovio); mentre egli s’infervorava, e sapea trasfondere le proprie emozioni nell’anima [136] degli uditori. Gran gusto prendeva ai Bucolici; e incontrandovi lodata la felicità campestre, deponeva il libro e improvvisava su questa, non dimenticando nè il susurro dell’aria che fa ondeggiar le coniche vette del cipresso, nè la voce mormorante dei pini, nè quella del rivo serpeggiante sui ciottoli coloriti, nè l’eco che ripete le armonie. E tutti accorrevano alla chiesa di San Paolo dove egli era priore; uno con una spada alla mano, di cui non sapea leggere le sigle misteriose; uno a chiedergli un’epigrafe pel suo studio; un terzo una divisa; un quarto epitalamj o canzoni. «Appena mi rimane tempo da scrivere (esclama): fin il breviario bisogna ch’io interrompa».
Di mezzo agli studj filosofici e filologici, egli compose con maggior arte d’italiano le Stanze per la giostra di Giuliano Medici, con bellezza compassata ed elegante, non nerboruta e impetuosa; da paragonare a Cosimo Rosselli e alla scuola sua, staccata dalla prisca ingenuità per copiare il vero e l’antico. Le lasciò incompiute, ma dopo alzata l’ottava a magnificenza degna de’ grandi epici che vennero dietro. Ad istanza del cardinale Gonzaga, distese in due giorni il più antico melodramma, l’Orfeo, dove alla dolcezza dei Bucolici di Virgilio unì la spettacolosa libertà delle rappresentazioni medievali (tom. VIII, pag. 438).
Giusto de’ Conti al modo petrarchesco cantò la Bella mano della sua donna. Girolamo Benivieni l’amor divino espose con idee elevate, ma stile incondito. L’inno alla morte, di Pandolfo Collenuccio, s’invigorisce di civile filosofia.
Il Sannazaro suddetto fece quel che in Portogallo già si usava, il romanzo pastorale in prosa numerosa mescolata di versi; ma versi manierati, a cui volle aggiungere l’inarmonica difficoltà delle rime sdrucciole; e prosa rabberciata di latinismi, a zeppe, a parentesi, a [137] trasposizioni; per quanto vive esprima alcune pitture, e veraci alcuni affetti. Studiò Teocrito, il quale non avea studiato la natura; e figurò i pastori colti d’ingegno e raffinati di sentimento. Poi alle Camene lasciar fe i monti ed abitar le arene, inventando le egloghe pescatorie, ancor più artifiziate, sebbene ispirar lo dovessero le spiaggie della sua Mergellina, le più belle che il sole indori.
L’italiano colto era dunque ridesto, ma non vi si tornava coll’ingenuità primitiva, sibbene colla riflessione, collo studio, coll’imitazione; e in conseguenza camminò manierato, pretensivo, anzichè analitico e svelto qual si parla da chi parla bene. Considerata la lingua come una fattura de’ letterati, ne conseguiva che i letterati potessero a voglia regolarla; onde comparvero grammatiche[94] e discussioni e sofisticamenti sull’indole e sugli usi di quella che due secoli innanzi era stata adoperata insignemente. Il Boccaccio, in grazia spesso di quel che n’è meno imitabile, fu preso per canone, posponendo la casta semplicità de’ suoi predecessori ai costrutti singolari e alle eleganti giaciture. Sovra lui sottigliò Pietro Bembo nobile veneto (1470-1547), che chiamarono balio della lingua. Avea quaranta portafogli, dall’un all’altro dei quali passava le sue carte, correggendole man mano; e ci ripetono, — Egli è una prova che può scriversi pretto senz’essere nato sull’Arno». Ma (oltre sapersi che suo padre, letterato dottissimo e operoso magistrato, il portò seco a Firenze in età di otto anni), quel suo non ismontar mai da’ trampoli, non dettar mai naturale, rivela che non ha nativa la lingua; fin le epistole egli lavora a tessello di frasi altrui e strascico di [138] periodi e ricorrenti latinismi, senza vigore mai. Le sue Regole grammaticali ebbero quattordici ristampe, ma trovarono molti contraddittori; il Castelvetro, il Caro, il Sannazaro, gli Accademici Fiorentini le appuntarono, e chiarirono che neppur esso autore vi si atteneva: e di fatto non posano su verun fondamento razionale, nè allargansi a comprensioni generali.
Caterina Cornaro, rinunziato il regno di Cipro alla Repubblica veneta, si ritirò ad Asolo, castello sopra Treviso, alle prime falde dell’Alpi, e fattane signora con un assegno di ottomila ducati, vi spiegava qualche lembo avanzatole del manto regio, alla corte fastosa di ottanta servi e dodici damigelle, e giuliva di mille delizie, aggiungendo la compagnia di letterati e artisti, visitata or da Teodora d’Aragona moglie d’un Sanseverino, or dal marchese di Mantova, ora dal cardinale Zeno, più spesso da Pandolfo Malatesta di Rimini, che venivano a godervi caccie, pesche, corse, balli, o le nozze di qualche a lei prediletta. E v’interveniva giovinetto galante il Bembo, e v’ideava i dialoghi degli Asolani «per esortar i giovani ad amare»; introducendo però un Dardi Giorgio, pio solitario, che dal terreno li solleva all’amor divino. Danno per isquisita la canzone sua in morte del fratello, e i sonetti in morte della Morosini, madre de’ suoi figliuoli: ma il cuore non mel disse. Insomma, di tanti che il lodano, quanti lo lessero? Guarda un’opera sua, tu credi sempre che tanta fama sia dovuta a un’altra; ogni encomio si conchiude nella compassata eleganza: ma a questa si può giungere colla fatica, e perciò molti lo tolsero ad imitare fra que’ tanti che cercavano, non qual cosa dire, ma come dirla.
Non sarà superfluo l’avvertire come gli Italiani, ogniqualvolta peggio soffrivano e si trovavano precluse le disquisizioni politiche, si buttarono sopra quelle della [139] lingua, quasi una protesta della nazionalità che ad essi voleasi strappare. E il fecero allora. Il Giambullari nel Gello tolse a derivar la nostra dall’etrusca, che è ignota, ma che supponeva affine all’ebraica, donde i suoi fautori si dissero Aramei. Celso Cittadini la facea vissuta fin ai tempi di Roma antica; ma la filologia comparata era sì bambina da non recar a distinguere la maternità dalla fratellanza. Peggio litigarono sul nome. Il Trissino vicentino la voleva detta italiana; fiorentina il Varchi e il Bembo; senese il Bargagli e il Bulgarini; toscana Claudio Tolomei; il Muzio, ribattendo l’Amaseo che la rilegava nel trivio, voleva che la lingua fosse desunta da ciascuna città e provincia d’Italia «come un’insalata di diverse erbe e di diversi fiori», asserendo che «non i fiumi toschi, Ma il ciel, l’arte, lo studio e ’l santo amore Dan spirito e vita ai nomi ed alle carte»: contro Bartolomeo Cavalcanti, che trovava lo stile del Machiavelli incomparabilmente superiore a quel del Boccaccio, sostenne che questo s’addice ad ogni maniera di componimento: contro il Varchi lanciò deboli ragioni con violenza, e quasi sapesse la lingua meglio di loro, appunta modi del Ruscelli, del Dolce, del Castelvetro, del Machiavelli, del Guicciardini: contro Dante pure s’avventò, nel che lo contraddisse il Cittadini. E su tutto ciò si compilarono libri senza fine, che meglio avrebbero sciolto il nodo adoprando essa lingua ad alcun che di elevato e degno.
Il Salviati[95] rabbuffa il Muzio e il Trissino e gli altri forestieri, «i quali pronunziando la loro favella in maniera che scrivere non si possono le loro parole nè senza risa ascoltare, ci motteggiano nella pronunzia, e dannano in noi la virtù che si disperano di poter mai ottenere... A tutte le cose che da coloro contro la nostra lingua si son volute dire, bastata sarebbe questa [140] risposta sola, che essi niuna cosa propongono, niuna ne vogliono provare, che mai allegano uno scrittore che di Firenze non sia. E che nuovo linguaggio, che inaudita rimescolanza, che centauro, che chimera, che mostro sarebbe quello, quando pur anche far si potesse, un mescuglio di vocaboli di forse trenta diverse lingue? E dove mai e quando mai fu veduta scrittura di questa guisa, o come la siffatta dir si potrebbe lingua, se lingua non è quella, la quale o da alcun popolo non si favelli, o la quale alcun popolo per alcun tempo non abbia mai favellata? Chi sarebbe che la intendesse pur mediocremente? dove s’avrebbe a far capo, dove a ricorrere per le proprietà? e in qual guisa maravigliosa andarono questi nostri per tutto il corso della loro vita passeggiando per tutta Italia a prendere cento vocaboli di Romagna, trecento di tutte le terre di Lombardia, altrettanto di Napoli e suo reame, e finalmente dieci di quel paese e quattro di quel castello? Che fatica, che stento, che infelicità convenne che fosse la loro in quel tempo!» Insomma vorrebbe lo scrittore fosse nato in Firenze, poi studiasse in Dante, Petrarca, Boccaccio e negli altri trecentisti la legatura delle parole e lo stile: lo che rese tanto difficile lo scriver bene, all’imitazione degli antichi dovendosi aggiungere l’imitazione dei moderni.
Sono le controversie che si rinnovano di tempo in tempo, discutendo sulle parole, invece d’occuparsi di cose; rimestando la tavolozza, invece di dipingere. Parve poi fatale da que’ primordj fino alla umanità odierna, che contraddittori e apologisti credessero ragioni le villanie, non s’elevassero mai alla natura dei linguaggi e al paragone di ciò che negli altri paesi intervenne, e, per angusto municipalismo, negassero la preminenza ai Toscani quegli stessi che pescano toscane eleganze per parer belli; impugnando così, almeno in [141] teorica, quell’unità della lingua che ad altre unità è scala e suggello.
Già il Tolomei avea proposto di levare l’h da hora, dishonore, havea; ma con più senno voleva il Trissino distinguere l’i dall’j, l’u dalla v, smettere la ph per f, il th per z; e coll’η, ed ε, coll’ο e ω greci discernere il suono stretto o largo di queste due vocali. Sciaguratamente egli adoprò quest’ortografia in un poema illaudabile, e non essendo toscano, errò nell’applicazione, onde gli si levarono addosso le beffe, massime dal Firenzuola; eterno modo anche questo d’impacciare le cose buone! Alcune di siffatte innovazioni prevalsero, le altre rimangono desiderate.
Particolare attenzione alle regole della lingua si applicò quando cadde la libertà fiorentina, cioè quando cessarono i grandi scrittori; e fu istituita anche una cattedra di italiano per Diomede Borghese, il quale con quarant’anni di studio pretendeva avere ottenuto il titolo di arbitro e regolatore della toscana favella. I malcontenti dei Medici, per avere un pretesto di adunarsi, proposero di emendare il Decamerone, guasto nelle varie stampe; e l’edizione fatta dal Giunti nel 1527 è cercata come un lavoro di partito. E perchè il Decamerone si teneva pel libro più utile, ma insieme pericolosissimo al buon costume, fu commesso al Salviati di prepararne una lezione castigata, per la quale gli toccarono i vituperj che al pittore Braghettone.
Continuò quella fratellanza nell’accademia degli Umidi, la quale adunavasi in casa di Giuseppe Mazzuoli, «cittadino (com’egli diceva) senza stato, soldato senza condizione, profeta come Cassandra», che avea combattuto nelle Bande nere, poi all’assedio; poi fatto vecchio, ma sempre sollazzevole ed amoroso dei giovani, molti ne univa, i quali «ancorchè fussino la maggior parte in esercizj mercantili occupati, pure si promettevano [142] tanta grazia dalle stelle e dalla natura, che bastava lor l’animo a render conto dei casi loro in simile professione»[96]. Cosmo, conoscendo l’astuzia del farsi serve le lettere col proteggerle, cominciò a dare a questi giovani il titolo più lauto di Accademia Fiorentina, poi stanza nel suo palazzo, e pubblicità, e prebende, e fin privilegio di fôro; per quanto il Mazzuoli si dolesse di questo voler il duca tirare tutto a sè. Propostosi a studio speciale la lingua, i membri di essa si buttarono a leggere dissertazioni sopra un sonetto, un verso, una parola di qualche classico, e principalmente del Petrarca; e poichè ciascuno voleva avere esordio, perorazione e congrua lunghezza, considerate quanto sciupìo di parole in un secolo già tanto verboso! Saviamente pensando che gioverebbe alla lingua l’esercitarla in traduzioni, il duca ne commise molte ad essi accademici, come di Aristotele al Segni, di Boezio al Varchi, di Platone al Dati, e via là.
Nojati dallo stillar quintessenze, i membri di essa Giambattista Dati, Anton Francesco Grazzini, Bernardo Canigiani, Bernardo Zanchini e Bastiani de’ Rossi fecero scisma, e raccoglieansi ad altre tornate che chiamavano stravizj, perchè rallegrate dall’amenità del luogo, da festivo cicalare, da squisite cenette[97]. Pier Salviati gli esortò a dare a quei ritrovi alcuno [143] scopo certo, senza abbandonare l’originaria giovialità; onde formarono un’accademia che per celia battezzarono della Crusca, togliendo per emblema il frullone, per seggiole le gerle del pane rovesciate cui serve di spalliera una pala da grano, per sedia dell’arciconsolo tre macine, e ognuno un nome da tali simboli, l’Infarinato, l’Inferigno, il Rimenato, l’Insaccato; Grazzini volle ritenere il titolo suo primitivo di Lasca, perchè questo pesciattolo a friggerlo s’infarina. Continuarono così a mandar fuori cicalate bizzarre, finchè assunsero di compilare il vocabolario della Crusca, sgomento dei pedanti, beffa dei frivoli, che non vogliono conoscerne l’intento e l’uso.
Quantunque persuasi che la favella d’una nazione sia un dialetto elevato alla dignità di lingua scritta, e che in Italia il fiorentino meriti questo vanto, gli Accademici non s’accontentarono (come poi col parigino fecero quelli di Francia) di dare tutte le voci dell’idioma toscano, ma le rinfiancarono d’esempj. I filologi, che allora s’abbaruffavano sopra il valore di parole latine, non poteano risolvere che per esempj scritti; l’illustrazione de’ Classici era l’oggetto di moltissime opere, di moltissime accademie, e singolarmente della fiorentina; il quale andazzo portò i Cruscanti a voler munire ogni voce e i varj significati di essa con testi, credendo dare autorità ai modi, e chiarire il senso degli autori[98].
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Ma poichè negli autori non si trova che la minor parte della lingua, i Cruscanti ricorsero a scritture ove abbondano le parole d’uso famigliare, come ricettarj, zibaldoni da bottega, e somiglianti. Di più si fece; e alcuno prese a scrivere componimenti col preciso scopo d’inserirvi voci di cui gli esempj mancassero, quali furono la Fiera e la Tancia del Buonarroti. Non sarebbe tornato più speditivo il mettere a catalogo le voci stesse, quali s’udivano dal popolo? io lo credo; e crederò sempre rimanga ancora questo bel compito a qualche Toscano, che voglia offrire un vocabolario non voluminoso e da pochi, ma usuale e da tutti. Quale però fu fatto dagli Accademici, ha il merito, per quel tempo rilevantissimo, di spiegare i Classici.
In tal lavoro essi errarono spesso, non sempre usarono testi corretti, benchè l’emenda di questi fosse una delle loro applicazioni; non registrarono a pezza tutte le voci neppur d’essi autori; diedero per vivo ciò che era quattriduano, per comune ciò che era d’un luogo o d’un tempo particolare; fin errori e storpiature registrarono, pel proposito di spiegare gli autori. Sovrattutto erano vacillanti nella grammatica, allora in fasce, scarsi nella critica, nata appena. Quindi pecche vere, confessate da essi medesimi nella prefazione, riparate via via nelle stampe successive, ma lasciandone altre che diedero facile messe a chi volle appuntarneli, o supplirne le dimenticanze. Sensatissime e pizzicanti e miniera ai futuri sono le postille che vi pose Alessandro Tassoni, appena uscito il Vocabolario, con frizzo più pungente che non si dovesse aspettare da un accademico. Benedetto Fioretti pistojese (che, con vocabolo composto di tre idiomi, s’intitolò Udeno Nisieli, cioè uomo di nessuno se non di Dio) pose saviissime note in margine a una copia che, comperata a caro prezzo, giovò alle posteriori edizioni del Vocabolario. Il quale resterà [145] come bel monumento storico: e noi, aborrendo le scurrilità lanciategli, lo abbandoneremo solo quando ci abbiano forniti d’uno migliore.
Ma a ciò si richiedono condizioni, che non sono letterarie. E del resto le quistioni della lingua si vincono coll’adoprarla a qualcosa di utile e di grande; e quel secolo abbondò di scrittori che parvero rinfrescare il Trecento, ingentilendolo. Bizzarria, disordine, spirito religioso sopravviveva ancora nei meno accurati, e una fecondità quale di giovinetti appena buttati nel mondo; ma tutto veniva alterato dall’educazione, e poco a poco la coltura sottentrava all’originalità, il lenocinio alla robustezza: la prosa, non più abbandonata al caso e al sentimento, prendeva ordine, e spogliavasi dell’affettazione latina, pur vestendo graziosi costrutti ed eleganti giaciture.
Monsignor Giovanni Della Casa da Mugello (1503-56), il migliore de’ periodanti artifiziosi, scrive qual si conviene a precettore di buone creanze. Di magniloquenza sono tipo le sue orazioni: ma chi in quello strascico cortigianesco può riconoscere il modo di persuadere e di muovere? Aggiungi lo sconcio variare di sentimenti, sicchè nell’una sublima quel medesimo Carlo V[99], [146] che in due altre aveva mostrato peste d’Italia e rovina d’ogni libertà; in quella confonde perfino la giustizia [147] colla volontà di esso[100], in queste ne esagera l’avidità nell’invadere l’altrui; qua predica la libertà d’Italia, altrove esorta a ridur Siena in dominio della famiglia Caraffa.
Orazioni si facevano allora per ogni occasione, ma qual raggiunge l’eloquenza vera? Sonorità di periodi, ridondanza d’epiteti, verbosità, descrizioni, enfasi invece di forza e concisione, nessuna arte di incalzare cogli argomenti, di penetrare l’intimo degli animi per isnidarne il vizio o indur la persuasione. Non un buon predicatore sorse in quel meriggio delle lettere. Per via severa camminò frà Girolamo Savonarola, tutto impeti e con movimenti qua e là di vera eloquenza: ma quella che arte chiamiamo gli manca, e troppo spesso converte il pulpito in tribuna. D’orazioni profane funebri, di complimento, di persuasione, un migliajo rimane, ma chi leggerebbe quel cicaleccio inane, se non per ripescare fra un diluvio di parole qualche notizia?[101]
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Vuolsi coraggio a trangugiar quelle di Leonardo Salviati con tanto profluvio di voci oziose, tanto viluppo di membri e membretti. Questa palma mancante all’Italia, pretese cogliere Alberto Lollio con arringhe di assiderante eleganza, sovente sopra soggetti immaginarj, e puntellate di figure retoriche e luoghi topici uno infilato all’altro; talchè somministrano abbondanti esempj ai precettisti, e noja insuperabile ai lettori. Buoni favellatori possedette Venezia, ma scarsi d’arte e di lingua incerta; robuste e spigliate procedono cinque orazioni che si hanno stampate di Pietro Badoero; e lodatissime furono le arringhe giudiziarie di Cornelio Frangipane friulano.
Deh potessimo avere i ragionamenti onde i Fiorentini ed altri repubblicani persuadevano al meglio della patria!; ma quelli intarsiati ai racconti dal Bembo, dal Nardi, dal Varchi e peggio dal Guicciardini, sono esercitazioni compassate, di niuna spontaneità, e guaste spesso dall’imitazione. Bartolomeo Cavalcanti è più vero, e per ciò più robusto. Unite il discorso di Giambattista Busini al duca di Ferrara pei profughi di Firenze perseguitati da Clemente VII, quello di Giacomo Nardi a Carlo V sulle tirannie del duca Alessandro, e se vogliasi l’apologia di Lorenzino; e avrete tutta l’eloquenza politica di quell’età, prima che le fosse tolto il parlare. E il non essere sorto un grand’oratore fu non ultima causa del mancarci una prosa nazionale; prosa svelta, propria, concludente, che in tutti gli scrittori apparisca unica di fondo, variata di colore secondo la materia, la persona, gli studj; prosa approvata dai dotti e insieme gradita al popolo, che vi riscontri le forme sue ma nobilmente atteggiate, le sue parole ma con arte disposte. E restammo fra una lingua colta e morta, usata spesso a materie inette; ed una viva, ma creduta solo acconcia a frivolezze, a commedie, [149] a novelle, che saranno sempre il più ricco tesoro di bei modi, d’animosi tragetti, di frasi calzanti.
Gli storici (t. IX, p. 254) sono i migliori scrittori, ma neppure essi evitano l’espansione smodata e la prolissità, nè le parole rinzeppate o le particelle superflue, che stornando l’attenzione, fanno o meno o male intendere l’idea. Alcuni all’arte unicamente posero pensiero, come Pier Francesco Giambullari, che i fatti generali d’Europa dopo il IX secolo espose con bellissima retorica; caro alle scuole dove si separa il pensiero dalla parola. L’irremediabile amplificare di Francesco Guicciardini, que’ periodi intralciati di tante fila, che dianzi un editore faticò per distrigarli in qualche modo, possono correggere il moderno sfrantumare, ma troppo distano dalla rapidità che il racconto esige[102]. In fatto [150] egli non erasi mai esercitato a scrivere; ma la profonda intelligenza e il buon senso, cui unisce sperienza e calcolo, gli valgono a gran pezza meglio che i precetti.
Bernardo Davanzati mercante fiorentino (1529-86), indispettito dal forestierume che s’infiltrava col commercio e colla Corte, per rimedio suggeriva di «spolverare i libri antichi, e servirsi delle gioje nostre che ci farebbero onore»: preferiva la lingua fiorentina alla comune italica, che «quasi vino limosinato a uscio a uscio, non pare che brilli ne’ frizzi». Ristrettosi a Tacito, Orazio e Dante, maestri dello scolpire i pensieri, egli solo, fra tanto sproloquio in cui smarrivansi i pensieri, propose di mostrare come la nostra favella possa emulare la madre in nervosa brevità; e traducendo Tacito, ridusse più conciso il concisissimo fra gli storici antichi. Che se [151] licenziossi a qualche ribobolo che detrae al signoresco narratore, le più volte l’intende a meraviglia, e lo riproduce colla vera fisionomia, coll’efficace semplicità afferra il punto e picca; e noi lo teniamo inarrivabile modello del vulgarizzare[103].
Rimane sempre vero che i libri più pregevoli di quel secolo sono i meno artifiziati, le lettere del Caro, la vita del Cellini, e quelle del Vasari. Ben hanno preteso i letterati d’aver abbellito queste ultime; ma la storia li smentisce, quand’anche nol facessero esse medesime. Chiarezza, brevità, vigore son lodi costanti dello stile del Machiavelli, più pregevoli quanto al suo tempo più rare; del resto va senz’arte: ne’ periodi zoppica non di rado, mirando unicamente alla forza; è ricco d’idiotismi; ma quei che supposero non sapesse di latino, badino come l’imitazione latina lo traesse a costruzioni o falsate o contorte; e, malgrado i molti difetti, merita gran lodi da chi sappia non solo ammirare ma osservare. Come poeta, oltre le commedie ove mostrò quanto poteva migliorarsene il gusto, stese i Decennali, meschina imitazione di Dante, narrando i fatti del suo tempo. Nell’Asino d’oro, che solo pel titolo rammenta la spiritosa fatica di Apulejo, finge essersi smarrito in una foresta, ove da’ mostri lo campa una donna, che lo conduce a un serraglio di bestie allegoriche.
Nell’imbratto che fece della lingua di Dante e del Villani, il Boccaccio ebbe troppi imitatori; sicchè i novellieri sentono tutti di quella puzza. D’interesse, di color locale, d’affetto mancano in generale, si dilatano in uno stile spento e languido, e connettono i racconti con filo ancor più tenue che il loro modello. Nella peste del [152] 1374, una brigata d’ogni condizione viaggia per Italia, distraendosi con cencinquantasei racconti, la più parte osceni, tutti incolti, che Giovan Sercambi lucchese raccolse. Dall’Aretino, da Speron Speroni, da Ercole Bentivoglio ed altri, sorpresi dalla pioggia alla pesca, suppongonsi narrate le diciassette novelle dei Diporti di Girolamo Parabosco, musicante piacentino e poligrafo. Cinque uomini e altrettante donne, spinti da egual accidente in una casa, vi ingannano la sera novellando; del che sono formate le Cene del Lasca speziale fiorentino, procedenti con sintassi naturale, periodo disinvolto, espressione tersa propria; e con molta varietà, nè senza tragico interesse, che poi l’autore volge dispettosamente in riso. Egli avea pure composto pungentissimi scherzi e commedie di candidissima dettatura, di scarso intreccio, d’invereconda morale.
Agnolo Firenzuola fiorentino (1493-1548), tutto fiori e grazie, deh perchè quell’insuperabile trasparenza di stile adoprò solo in frivolezze e scurrilità? Era monaco vallombrosano; e appassionato della materiale bellezza femminile, ne stese un trattato fra lubriche particolarità e sogni cabalistici. In una brigata fa ragionar d’amore, e raccontare laide novelle innanzi alla «regina del suo cuore... bella e pudica quant’altre mai». Anche dagli animali fa dare precetti ed esempj; sul soggetto di Apulejo forma un Asino d’oro, acconciato ad altre idee.
La Filena di Nicolò Franco fu messa un momento di sopra del Decamerone, poi dimenticata. Giovanni Sabadino degli Arienti bolognese dettò neglettamente settanta Novelle Porrettane. Masuccio Salernitano nel Novellino moltiplica avventure a scorno de’ frati e in istile boccaccevole. Delle ottanta novelle latine trivialmente oscene di Girolamo Morlino napoletano si valse Gianfrancesco Strapparola di Caravaggio, che le divise in notti, zeppe di meraviglioso e d’inverosimile, e benchè [153] da postribolo, le suppone esposte da oneste fanciulle. Alle consuete immoralità vollero sottrarsi Sebastiano Erizzo, che fece sei giornate di racconti prolissi, e Giraldi Cintio, che negli Ecatomiti, narrati da giovani fuggenti a Marsiglia dal sacco di Roma, pretese insegnar la morale, e non fu letto; eppure somministrò il soggetto a più d’una composizione di Shakspeare.
Matteo Bandello da Castelnuovo di Scrivia (1480-1561), generale dei Domenicani in Milano, ostentò amori e cortigianerie a Napoli e Firenze, eppure ottenne da Enrico II il vescovado d’Agen. Tra le occupazioni, raccolse piuttosto aneddoti che vere novelle, alle quali non si brigò tampoco di dare qualsiasi legame, ma a ciascuna prepose una dedica adulatoria, unica e misera originalità; chè del resto va con parlate prolisse, dialogo sgraziato, insulse particolarità, scarsa fantasia, caratteri sparuti, nè mai drammatico movimento. «Dicono i critici che, non avendo io stile, non mi doveva mettere a fare questa fatica: io rispondo loro che dicono il vero, ch’io non ho stile, e lo conosco pur troppo: e per questo non faccio professione di prosatore». Così egli; e di fatto la sgraziataggine del suo scrivere rende viemeno tollerabile con lardellarlo di frasi classiche[104]. «Dicono i critici che le mie novelle non sono oneste...: io non nego che non ce ne siano alcune, che non solamente non sono oneste, ma dico e senza dubbio confesso che sono disonestissime...; ma non confesso già ch’io meriti di essere biasimato; biasimarsi devono... coloro che fanno questi errori, non chi li scrive». Muove nausea la sguajatezza con cui, egli vescovo e di settant’anni, espone sconcezze, da cui ebbero sciagurato appiglio i Protestanti: eppure il marchese Luigi Gonzaga gli affidò [154] ad educare sua nipote Lucrezia; e monsignore se ne innamorò, ma platonicamente, e la cantò in molte liriche e in un poema di undici canti!
I trattatisti di morale, oltre non aversene pur uno originale, peccano del massimo dei difetti, l’esser nojosi. I Ragionamenti di monsignor Florimonte, la Vera bellezza di Giuseppe Beluzzi, i Ricordi di monsignor Saba da Castiglione, i Ritratti di donne illustri d’Italia del Trissino, sono per lo più dissertazioni in tono retorico, rinzaffate di erudizione e prive d’attualità. Benedetto Varchi, prolisso, allenato, cascante sempre anche nella storia, empì le sue Lezioni di futilità aristoteliche; pure dagli stranieri erano ristampate e lette come delle migliori. Mattia Doria fece la Vita Civile, ed aveva preparato l’Idea d’una perfetta repubblica, ma se ne sospese la stampa; e conosciutovi immoralità e concetti panteistici, fu arsa.
Di Sperone Speroni, che fece arringhe ciceroniane, e che giudicano armonioso e grave, sono gracilissimi e di concetti generici i dialoghi intitolati il Guevara, il Marcantonio, l’Orologio dei principi, molte volte ristampati: al più si possono leggere i suoi Consigli alla figlia. Molto da lui copiò Alessandro Piccolòmini senese nelle Istituzioni di tutta la vita dell’uomo nato nobile e in città libera: professava a Padova, e nelle opere di filosofia considera Aristotele come suo «principe e guida e più che uomo», eppure osa scostarsene; e secondo l’andazzo, distingue la verità filosofica dalla teologica. Francesco Piccolòmini della patria stessa, nel Comes politicus pro recta ordinis ratione propugnator, discute la morale (de moribus) e la sociale (de republica), considerando come un dovere de’ magistrati il diffondere la virtù nella città e nello Stato. Altri scritti sull’educazione e sulla morale stanno nelle biblioteche, non più fra le mani: solo vive il Galateo di monsignor [155] Della Casa, libro condiscendente più che retto, che la cortesia confonde colla moralità. Delinea o adombra i costumi d’allora, in alcun lato ancora grossolani, mentre già si mescevano a puntigli e smancerie spagnuole; e molto insiste sul modo di raccontare accidenti e novelle, il che era ingrediente primario del conversare di quel tempo. Nei Doveri fra amici di stato diverso riduce a precetti la servilità; l’inferiore mai non intacchi il suo patrono; ne soffra piacevolmente persin le impertinenze. Pur troppo va così: ma perisce la civiltà vera d’un paese quando la moralità svapora in cerimonie, e il dovere in convenevoli, che non vagliono se non sgorgando dal cuore.
Analisi dell’uomo e degli affetti intimi, efficacia di particolarità, la profonda riflessione di Pascal o l’ingenua sensualità di Montaigne mancano sempre ai nostri, che offrono soltanto modelli generici e astrazioni; del qual falso sistema la maggior riprova sta nell’allegoria anteposta da Torquato Tasso al suo poema; come i difetti di questo rivelano l’assurdità del metodo. Esso Torquato; il Varchi, il Muzio, altri ed altri discussero alcuni punti particolari di condotta, e massime dell’onore e della scienza cavalleresca. Questa cominciava a prender piede, per divenire poi quasi unica norma a’ portamenti de’ gentiluomini; e sul duello, punto essenziale, scriveano i teologi per disapprovarlo, gli altri per darvi regole. Tutto ciò pei gentiluomini, reggentisi in un’atmosfera affatto artifiziale; ma al grosso della nazione avvilita, al popolo escluso dagli interessi, chi provvedea più fuorchè i preti?
Pietro Martire d’Angera milanese, del 1488 portato in Ispagna, col Mendoza conte di Tendilla vi attese alle armi, e dopo presa Granata si ordinò ecclesiastico, e la regina Isabella il pose maestro de’ paggi. Avendo il soldano d’Egitto spedito a re Ferdinando il padre [156] Antonio da Milano, guardiano de’ Francescani al Santo Sepolcro, per intimargli cessasse di molestare i Mori, se no egli tratterebbe all’eguale stregua i Cristiani in Terrasanta, Ferdinando gli mandò Pietro Martire, che ottenne quanto chiedeva, e in quell’occasione vide il Cairo e le piramidi, che descrisse; come poi l’Oceano ed il Mondo nuovo da che fu consigliere reale per gli affari dell’India, onde potè avere in mano i documenti della navigazione di Colombo, opera tradotta in tutte le lingue. Fin al 1525 dettò ottocentotredici lettere sugli uomini e sui fatti contemporanei, perciò cercate dagli storici, quantunque paja certo che non furono dettate al tempo proprio degli avvenimenti. Approva l’Inquisizione e l’intolleranza, pressente l’importanza della Riforma appena nata, descrive egregiamente le fazioni di Firenze, la battaglia di Pavia.
Altri dei nostri si occupavano di paesi forestieri. Girolamo Faletti di Ferrara (De bello sicambrico) narrò le guerre di Carlo V coi Francesi ne’ Paesi Bassi, e contro la lega Smalcaldica; Orazio Nucula in latino non inelegante la spedizione di esso in Africa. Paolo Emili veronese, chiamato da Luigi XII a Parigi per iscrivere la storia di Francia, la stese latina in quattro libri, dall’antichità fino al 1489, qualche ordine portandovi colla critica allora possibile[105]: fu la prima ragionevole di quel paese, e lodatissima, tradotta, per lungo tempo [157] rimase di testo, e Giusto Lipsio diceva che pene unus inter novos veram et veterem historiæ viam vidit....; genus scribendi ejus doctum, nervosum, pressum...; non legi nostro ævo qui magis liber ab affectu[106]. Lucio Marineo siciliano a Salamanca dettava la storia di Spagna ad esaltazione di Fernando e d’Isabella; Polidoro Vergilio di Urbino, autore d’un esile trattato De inventoribus rerum, ebbe da Enrico VII l’incarico di scrivere quella d’Inghilterra: sicchè anche gli storici di que’ paesi cominciano da un nostro. Così Ciro Spontoni scrisse quella d’Ungheria; Alessandro Guagnino veronese quella della Polonia; il padre Antonio Possevino quella di Moscovia; Gian Michele Bruto quella dell’Ungheria e di Stefano Batori; Luigi Guicciardini fratello dello storico, Commentarj delle cose di Europa specialmente ne’ Paesi Bassi dal 1529 al 60, e una descrizione di questi, ne’ quali egli abitò quarant’anni come negoziante.
Valeriano Pierio trattò de’ geroglifici come allora si poteva, delle antichità di Belluno sua patria; e sull’infelicità dei letterati raccolse aneddoti che ora potrebbero triplicarsi, anche tralasciando, come egli non fece, le miserie inseparabili dall’umanità. Luca Contile senese, segretario al cardinale Trivulzio e a Ferrante Gonzaga governatore di Milano, al cardinale Trento, al capitano Sforza Pallavicino, al marchese Pescara, fu storico diligente e chiaro più che coraggioso, e nel trattare delle divise e insegne si elevò a qualche intendimento generale. Corteggiò la marchesa Del Vasto e Vittoria Colonna, cui dedicò la Nice, poema non casto, assomigliando le virtù di lei al vello d’oro e ai pomi esperj, custoditi, invece di drago, da’ suoi begli occhi, lo spavento de’ quali non potrebbe superarsi che da Giasone od Ercole.
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Altri speculavano sulla vanità tessendo genealogie, e spesso inventandole, all’appoggio principalmente di frate Annio da Viterbo e simili. Scipione Ammirato storiò le famiglie napoletane e fiorentine, il Morigi quelle di Milano, il Sansovino le illustri d’Italia, Marco Barbaro la discendenza delle patrizie famiglie, e moltissimi di particolari parentele. Alfonso Ceccarelli da Bevagna con autorità e documenti falsi formò le genealogie dei Monaldeschi, de’ Conti e d’altre; e infine meritò che Gregorio XIII gli facesse tagliar la mano e impiccare.
Il più bel campo ai letterati sarebbe stata la storia: ma molti valendosi della lingua latina perchè più divulgata, ne veniva nocumento alla verità, costretta ad un linguaggio non suo, ed a sopprimere quelle particolarità che le danno vita. Ricorrere alle fonti immediate, raccogliere gli svariati materiali, vagliarli severamente, valersene con intelligenza, e ridurli ad un complesso omogeneo, non si pensava ancora. Presi gli autori precedenti meglio reputati, se ne compievano i racconti o supplendo l’un coll’altro, od osservandoli sotto aspetto diverso, o inserendovi documenti nuovi, senza farsi coscienza di copiar lunghi brani, e talvolta quasi solo traducendo: come assai fosse l’indurvi nuova veste, e unificarne lo stile col resto dell’opera propria.
Ma già la storia riduceasi classica, cercando al racconto attribuire eleganza ed ordine, nettezza di stile, interesse di ritratti e quadri. Si volle dunque analizzarne l’arte, e Giovian Pontano, che primo ne trattò, la considera come una specie di poesia; nota che Livio comincia col mezzo verso (Facturus ne operæ pretium), e Sallustio con un esametro spondaico (Bellum scripturus sum quod populus romanus), e va mettendo a fronte passi di questi autori e di Virgilio. Insieme però raccomanda la brevità, posta nelle parole, e la rapidità posta nel movimento dello stile; quanto al fondo, desidera [159] le particolarità, massime le biografiche, e descrizioni topiche, e le arringhe.
E la storia alla poesia confronta pure Francesco Patrizi in dieci dialoghi, nojosi di digressioni e appoggiati al trattato di Luciano. Eccetto le storie sacre, s’avvisa che nelle antiche si va troppo tentone, nelle moderne manca libertà; lo storico non differisce dal poeta che nel non alterare i luoghi e i tempi; noi siamo spettacolo agli Dei, e verità non avvi se non nelle opere di Dio e della natura.
I precetti dati dal Foglietta nell’introduzione alla sua storia genovese, e dal Viperano (De scribenda historia), sono trivialità o plagi, che che ne paja al Tiraboschi. Quel genio universale di Bernardino Baldi disputò pure della storia, ponendo per fine di essa non l’ammaestrare che spetta alla filosofia etica, ma il rappresentare altamente e secondo le leggi sue la verità delle cose succedute. Nell’esporre i consigli, lo storico deve esprimere il proprio giudizio, non solo in universale, ma scendendo allo speciale, e dire qual cosa lodi o vituperi; perciocchè il narrare i fatti nudi e non esternare che cosa ne senta, è da uomo che non discerne il bene dal male. Il parlar dello storico sia grave e chiaro[107].
Annibal Caro (1507-66), uno de’ più simpatici scrittori, nato poveramente a Cittanova nella Marca, si direbbe vero toscano; con tanta proprietà adopera i modi più calzanti della lingua viva; professando riconoscere tutto quel poco che ne sa dalla pratica di Firenze[108]. Servì ai Farnesi, e scrisse le loro lettere: ma veri modelli son quelle in proprio nome. Si lagna più d’una volta che gli fiocchino versi ed encomj di gente sconosciuta, che poi pretende risposta; e che i libraj mettano a stampa le [160] sue epistole[109]: nuovo argomento della passione universale allora per gli studj, e dell’importanza attribuita agli scriventi.
Pure l’ufficio più sociale a cui questi fossero chiamati, era lo stender lettere per signori: Giambattista Sanga e il Sadoleto scrissero quelle di Clemente VII; il Berni quelle del Bibiena pei Farnesi; il Flaminio pel datario Ghiberti; Bernardo Tasso pei Sanseverino, il Muzio per don Ferrante Gonzaga ed altri; Luigi Cassola piacentino, forse il maggior madrigalista di quell’età, pel cardinale Santafiora; altri per altri. Da ciò una prodigiosa ricchezza di epistole, dettate colla scorrevolezza e precisione che mancano nei lavori più studiati. Molto si scrisse intorno alla confezione delle lettere; e benchè il buon senso riprovasse il dirigere il discorso all’altezza, eccellenza, signoria d’un altro, queste spagnolesche ostentazioni rimasero. In quelle del Bembo e di Paolo Manuzio sentesi l’intenzione di stamparle: Bernardo Tasso è retore di sterile abbondanza: dignitose e d’artifizio velato son molte del Casa, e quelle di Claudio Tolomei, inventore de’ versi alla latina[110]. Jacopo Bonfadio di Salò (t. IX, p. 267) fu caro al Bembo e al Flaminio, ma anche al ribaldo Franco e agli ereticali Valdes e Carnesecchi; in Genova ebbe cattedra di filosofia: ma si lagna che colà «letterati non ci sono, [161] dico che abbiano finezza»; confessa che «gl’ingegni sono belli», ma si contenterebbe di più «se fossero tanto amici di lettere quanto sono di traffici marinareschi»: coltissimo nelle due letterature, poeta migliore in latino, stese le lettere con dignitosa affabilità, non senza lambiccature e lungagne. Forse la fama di lui restò ingrandita dal supplizio del fuoco, al quale Genova lo condannò, dicesi per amori infami.
Letterati di mestiere, quali il Porcacchi, l’Atanagi, il Dolce, il Ruscelli, il Sansovino, lo Ziletti raggranellavano ogni frivolezza de’ migliori, per farcirne volumi da guadagno: ma da quella farragine di carteggi alcun paziente potrebbe stillare pochi volumi, rilevanti non solo alla letteraria, ma alla politica storia. Quelle d’artisti splendono di meriti particolari e maggior libertà, e fanno conoscere quali fossero più o men colti, e come l’animo si trasfonda non men nelle tele che nelle carte. I secretarj doveano anche inventare imprese e motti, dar idee di pitture e di feste, accompagnare di versi le principesche solennità.
Il Caro tutta la vita elaborò le opere sue, senza mai pubblicarle; ridottosi poi in riposo, pensò fare un poema, e per addestrarvisi prese a tradurre qualche cosa dell’Eneide; e vi si piacque tanto, che la trasse a fine, sentendosi vecchio per un’epopea. Son versi sciolti cinquemila cinquecento più dell’originale; onde il compatto del parlare antico scompare, talvolta la fedeltà è tradita o per errore o per negligenza, ma conservata la ricchezza e la lucidità dell’autore; vi è fatta prelibare la potenza del verso sciolto, arricchendolo d’infinita vaghezza di armonie, e di frasi e giri nuovi; sicchè, dopo tanti tentativi e tante censure, rimane la migliore veste che siasi data all’impareggiabile Virgilio. Il Caro con greca venustà vulgarizzò gli Amori di Dafne e [162] Cloe secondo Longo Sofista; e con grandiloquenza alcun che de’ santi Padri.
D’ordine de’ suoi padroni aveva egli scritto in lode dei Reali di Francia la canzone Venite all’ombra dei gran gigli d’oro, dove, togliendosi alla monotona sobrietà dei petrarchisti, avventuravasi nell’immaginoso, nel ricercato, in quella gonfiezza che si scambia per sublimità. Ai servidori di quella casa e ai molti amici di lui nessuna lode parve bastante a un componimento che usciva dalle vie ordinarie; ma altrimenti ne parve a Lodovico Castelvetro, arguto e schizzinoso modenese, e ne mandò attorno una censura. Al Caro parve più ostica quanto maggior dolciume di lodi avea gustato, uscì con apologie e risposte, or sue, or d’altri, or sue in nome d’altri, massime fingendo ciancie degli scioperoni che frequentavano la via de’ Banchi a Roma. L’altro risponde, e come avviene nelle dispute, si travalica ogni moderazione, e si divulga una delle liti più clamorose di questa litigiosa repubblica letteraria. Il Castelvetro ebbe il torto d’essere provocatore; indi trovò gusto a mostrare acume, e con illustri nimicizie guadagnarsi celebrità. Scriveva egli le censure con tocco impetuoso e colla vivacità di chi attacca, sottile talvolta, ma con maggior gusto che non si aspetterebbe in un tempo in cui il bello era sentito più che ragionato: il Caro era sussidiato da amici, e principalmente dal Molza e dal Varchi ricevea pareri e correzioni: villanie da piazza mai non furono dette con maggior eleganza che nell’Apologia e nei sonetti de’ Mattaccini, ove la bile lo fece poeta; nè celie più spiritose si potrebbero opporre a ragioni ben rilevate. Donne gentili, cardinali, il duca di Ferrara s’interposero pacificatori, ma inutilmente; i partigiani del Castelvetro obbrobriarono il Caro a principi e cardinali; essendo ucciso un amico di questo, se ne pose colpa al Castelvetro; si pose colpa al Caro d’aver [163] lanciato sicarii contro il Castelvetro. Certamente il Caro avea scritto: — Credo che all’ultimo sarò sforzato a finirla per ogni altra via, e vengane ciò che vuole»; e fu chi sostenne che, coll’arte infame onde anche oggi cotesti manigoldi dell’arte subillano i Governi contro il censurato, denunziasse all’Inquisizione il Castelvetro: imputazione alla quale egli fece piede col dirlo «filosofastro, empio, nemico di Dio, che non crede di là dalla morte», e «agl’inquisitori, al bargello e al grandissimo diavolo vi raccomando». Fatto è che il Castelvetro stimò prudenza rifuggire tra i Grigioni e morì a Chiavenna (1571).
Chi non si sgomenti delle lungagne, trova nella costui Poetica d’Aristotele molta erudizione, riflessi sottili, critica assennata, e franchezza di appuntare anche là dove i commentatori non sanno che applaudire. Spesso egli censura Virgilio; a Dante imputa la pedanteria di parole scientifiche, ingrate e «inintelligibili a uomini idioti, per li quali principalmente si fanno i poemi»; incolpa di plagio l’Ariosto, oltre l’infedeltà storica sino ad inventare a capriccio i nomi dei re.
Non era più il tempo che l’Italia splendesse unica al mondo; e Francia poteva opporle Montaigne, Balzac, Voiture e l’altra plejade non duratura; Spagna e Inghilterra gl’immortali nomi di Calderon, Lope de Vega, Camoens, Shakspeare. Questi conoscevano e usufruttavano la letteratura italiana; e da Andrea Navagero ambasciator di Venezia presso Carlo V, che molto viaggiò e ben vide e ben descrisse, fu ispirato l’amore pei nostri classici a Giovan Boscano Almogaver, che postosi sull’orme del Petrarca, introdusse la correzione nella poesia spagnuola; alle fonti nostrali attinsero Garcilaso de la Vega imitatore del Sannazaro, e Diego Hurtado de Mendoza (t. IX, p. 482); il principe de’ poeti francesi Ronsard traduceva sonetti del Bembo; il maggior tragico dell’Inghilterra e del mondo, Shakspeare, [164] dai nostri novellieri deduceva alcuni soggetti da drammatizzare, come più tardi Milton scriveva sonetti italiani, e Molière razzolava ne’ nostri comici per trovarvi o temi o caratteri o scene; Grangier traduceva Dante, e tutti i Francesi leggevano il Petrarca, come poi il Tasso.
Al contrario, i nostri mai non danno segno di conoscere i grandi contemporanei[111]; e allorchè il Castelvetro, che pur esso forse ne avea contezza solo per udita, osò dire che in Francia e in Ispagna si trovavano scrittori grandi quanto in Italia, se ne scandolezzarono i pedanti, che mai non gli aveano saputi; e rabbuffollo il Varchi, il quale poi sosteneva Dante esser superiore ad Omero. Dal che pullularono nuove quistioni; e per puntiglio Belisario Bulgarini senese s’aguzzò a spulare difetti nella Divina Commedia, in una serie di lettere e risposte e dissertazioni, dimostrando che non era vero poema perchè mancava alle regole d’Aristotele: il Mazzoni scese nella lizza a difenderla.
Ma quel poeta, il più ispirato insieme e calcolato, il più lontano dall’orpello e dal gergo convenzionale, che reggesi soltanto su nome e verbo senza epiteti nè frasi, mal s’affaceva all’arte raffinantesi; la sua simbolica cristiana diveniva meno intelligibile all’irruente classicismo; studiavasi, ma non come ritratto di cose cittadine e incarnazione di credenze vive; e posponevasi al Petrarca, a cui si usava la venerazione che più non s’aveva per la Bibbia, togliendo a disputar delle parole, stillarne ogni voce, ogni verso, ogni sentimento, ogni atto. A tacere gl’infiniti commenti, dei quali sopravvissero [165] quelli di Bernardino Daniello e d’Alessandro Velutello, Simon della Barba perugino, a proposito del sonetto In nobil sangue vita umile e cheta, dichiarava qual sia stata la nobiltà di madonna Laura; Lodovico Gandini lungamente indagò perchè messer Francesco non avesse mai encomiato il naso di lei; poi disputavasi se fu donna vera; se allegoria, cosa rappresentasse: e si prese scandalo quando il Cresci osò crederla maritata. Così da lite nascea lite, mentre Carlo V spegneva l’indipendenza d’Italia, e Lutero squassava la potestà di Roma.
Di mezzo al culto che prestavasi alle lettere, ecco il ferrarese Giglio Gregorio Giraldi sostenere, non solo la vanità, ma il pericolo del sapere (Proginnasma); la medicina incertissima, garbugliona la giurisprudenza, bugiarde e sofistiche l’eloquenza e la dialettica, piacentiera al vizio la poesia; i letterati inetti a governare le città e le famiglie; Roma, grande finchè rozza, essersi corrotta a misura che ingentiliva. Sono i paradossi che a Rousseau furono poi suggeriti da accessi di superbia, come al Gregorio da accessi di pogadra; il quale, del resto, conchiude avere scritto per pura mostra d’ingegno. Forse per penitenza ordì la storia degli Dei, poi ancor più quella scabrosa de’ poeti anteriori e de’ viventi.
Girolamo Muzio (1496-1576) nato a Padova, ma che s’intitolava justinopolitano perchè oriundo e cittadino di Capodistria, buon’ora attaccatosi a persone illustri lodandole e ad esse dirigendo lettere e componimenti, a Venezia lega pratica coi giovani studiosi: nel concorso apertosi per la cattedra di retorica, dove gli aspiranti doveano ciascuno leggere per tre o quattro giorni sopra alcun classico, egli menò la briga fra gli studenti perchè fosse preferito Giambattista Egnazio, che perciò lo alloggia e nutre: agli spettacoli che da natale a tutto carnovale [166] ogni domenica davansi ora sull’uno ora sull’altro campo delle chiese, con balli e improvvisatori, vagheggia un’alta donna, che presto gli è tolta da morte: poi coi nobiluomini visita varie parti d’Italia, soffrendo dall’insolenza militare, ed ora ai militari si unisce al soldo del conte Claudio Rangone: ito in Francia con questo, vi conosce la Corte: serve a Galeotto Pico, usurpatore della Mirandola, poi al duca di Ferrara, ove canta la celebre Tullia d’Aragona, per la quale, dopo ammogliato, dettò il trattato intorno al matrimonio. Col Varchi, col Cittadini, col Cavalcanti, col Tolomei si rissò per cose di lingua (pag. 141); con Fausto da Longiano, coll’Attendolo, coll’Averoldo, con Giambattista Suzio, con altri per punti e giudizj cavallereschi; giacchè, vedendo non poter fare abolire il duello (dic’egli), volle almeno porvi regola, e le opere sue in tal proposito, stampate con privilegio di Pio V, passavano per classiche: poetò anche[112], e divisava un’epopea su Goffredo Buglione, che forse avrebbe distolto il Tasso dalla sua. Talento universale, diplomatico e guerriero, letterato e teologo, prosatore e poeta, instancabile disputatore, diede egli stesso il catalogo degl’innumerevoli scritti che poterono «uscir dalla penna ad uomo che, dal ventesimoprimo [167] anno della sua età fin al settantesimoquarto ha continuamente servito, ha travagliato a tutte le corti di cristianità, e vissuto fra gli armati eserciti, e la maggior parte del suo tempo ha consumato a cavallo, e gli è convenuto guadagnarsi il pane delle sue fatiche». La sua Arte poetica ha merito di non servili giudizj, appuntando l’Alighieri per durezza, per mollezza il Petrarca, il Boccaccio perchè prosastico ne’ versi e poetico nella prosa: all’Orlando preferisce le commedie dell’Ariosto; e di certe verità gli daremmo lode se non venissero dal farnetico d’accattar brighe, che l’accompagnò quanto visse.
Alfonso de Ulloa, figlio d’un capitano di Carlo V, e soldato egli stesso sotto Ferrante Gonzaga, tradusse in italiano un’infinità di opere spagnuole, tra cui principalmente la vita di Colombo scritta da Ferdinando suo figlio, preziosa perchè l’originale andò perduto: scrisse pure la vita di Carlo V, di don Ferrante, e altre storie di pochissimo valore.
Fra cotesti scarabocchiatori, che a forza di lodarsi a vicenda si creavano una reputazione, novereremo anche Francesco Sansovino figlio dell’architetto, che tradusse, raccolse, compose, raffazzonò orazioni, lettere, poesie, una storia dei Turchi, l’arte del secretario, le famiglie illustri, il ritratto delle città, osservazioni sulla lingua e sul Decamerone, Venezia descritta, del governo dei regni e delle repubbliche, e ortografia, retorica, arte oratoria; molte altre opere promise, ne stampò d’altrui col proprio nome, e di sue con nome finto; ebbe amicizie ed inimicizie, doni, titoli accademici, lode di contemporanei e anche di posteri; e maggiori lodi si diede da se stesso, o le finse dategli in lettere[113].
Siamo entrati con costoro nelle fogne della letteratura [168] militante, corrispondente alla giornalistica d’oggi, fin d’allora chiassosa, intrigante, vaniloqua, superba, carezzatrice de’ mediocri e di chi paga, implacabile a chi mostra ingegno o dignità. E ce ne verrà a mano di tali, che il classare fra i letterati sarebbe vergogna, come il mettervi la plebe degli odierni giornalisti.
Nella Divina Commedia, solida e sistematica struttura di compatta unità, avente per fine assoluto l’amor divino, per teatro l’inferno, il purgatorio, il paradiso, per attori le passioni e le azioni dell’uomo, assorte già nell’esistenza che più non si muta, per istromento quanto allora si sapeva, l’individualità è rappresentata nella interezza, siccome già compita dalla retribuzione che il poeta vi assegna in nome di Dio, condannatore o purgatore o glorificatore delle anime. La collera dell’onest’uomo contro i vizj, l’espressione sobria, lo stile rattenuto, la meravigliosa intelligenza della natura, quelle melanconie che, dal cuore traducendosi nell’opera del poeta, vi aggiungono il diletto d’una conversazione intima, quell’accordo delle ragioni del calcolo colle ragioni del bello, formano pregi immortali a quel dramma ove atteggia l’universo, a quella gran sinfonia dove si rispondono tutti i toni, a quella vera epopea del medioevo, dove s’intrecciano storia e favola, teologia e libero pensare, Olimpo e paradiso. È insomma il pensiero fatto arte; ma già questa separavasi da quello; e gli uni vagheggiavano il pensiero senza mondo, siccome i [169] devoti e gli eretici; i più il mondo senza pensiero negli interessi, nella politica, nella guerra. All’amor della regola e della correzione soccombeva quel simbolismo che richiede freschezza di idee, diffusa nelle moltitudini e da queste passata nello spirito de’ vati e degli artisti, eredi di quella poesia popolare che tutti fanno e non è fattura di nessuno: l’allegoria e la fede cedevano il campo alla mitologia, che introdotta non più come accessorio, ma come essenza, conduceva la gentilesca individualità colla chiarezza serena.
Era dunque naturale la preferenza data al Petrarca, il quale versa in un sentimento universale. Ma se il poetare sopra tutti gl’incidenti della vita è facile quanto lo scriver lettere, difficile è l’uscire dalla vulgarità, vedere il lato profondo o bello o lepido di ciò che tutti vedono, animare le situazioni, identificarsi con quelle, e trarne l’originalità sia nel modo di concepirle, sia nel modo d’esprimerle. Il Petrarca avea saputo, nelle mille contingenze dell’amor suo, conservare la libertà del suo sentimento e le nobili aspirazioni, e difendere i tesori del suo genio ne’ piaceri della creazione artistica. I suoi imitatori no, appunto perchè imitatori; e su lui nelle poesie, come sul Boccaccio nella prosa si modellò il Bembo; e dietro a questo imitatore divenne universale il poetare imitando, sicchè abbiamo raccolte rime di principi, rime di artigiani, di calzolaj, di tessitori, di fruttivendoli; raccolte secondo le provincie, secondo le città, secondo le accademie o le famiglie. Giambattista Giraldi Cintio cantò le Fiamme amorose, e Lodovico Paterno vi soggiunse le Nuove fiamme, egli che già avea pubblicato il Nuovo Petrarca. Il Muzio in dieci canzoni celebrò distintamente il viso, i capelli, la fronte, gli occhi, le guance, la bocca, il collo, il seno, la mano, la persona della sua amata. Luca Contile, dietro alle canzoni sorelle del Petrarca, fece le Sei sorelle [170] di Marte, per le quali il Patrizj, non che agguagliarlo al suo modello, lo anteponeva a qualsifosse erotico latino e greco. Frà Girolamo Malipiero veneziano fece il Petrarca spirituale.
In questi scritti a musaico, imitanti sino al plagio, si smarrisce la personalità degli autori, che avendo impressioni, non s’accorgono d’aver anima; guardano al modello non mai alla natura: cantano un amore senza progresso o regresso, e tutto generalità di visi e costumi angelici, ovvero di empie tigri in volto umano, e la crudeltà delle coetanee della Imperia e della Borgia, e il morire per metafora. C’è alcuno cui sa di insulso questo sbadigliare pastorellerie? sottiglia di spirito celebrando i miracoli dell’amore che di due forma uno, o fa gelare il fuoco, e divampare il ghiaccio. Pompeo della Barba di Pescia ha «l’esposizione d’un sonetto platonico fatto sopra il primo effetto d’amore, ch’è il separarsi l’anima dal corpo dell’amante». Angelo di Costanzo chiama la donna sua dolce mia morte e dolce male; ed evita d’accostarsele, per paura che la forza degli occhi di lei nol guarisca; e che, se quella il risana al comparirle davanti, essa non creda che la salute sua sia altro che un riflesso della divina sua beltà. Altrove si querela che amore per torgli la vita s’annidò negli occhi della sua dama; il cuore ferito chiama l’anima al soccorso; l’anima non ascolta, perchè dalla bellezza di lei rimase stordita; e quando la donna parli, l’anima che voleva rientrar nel cuore, ne trova chiusa la porta; torna dunque alla dama, ma questa non l’accoglie, talchè non vive più nel poeta nè in lei; prega la penna di spargere intorno il suo dolore, a cui le pareti domestiche sieno e culla e tomba. Si beffano le cronicacce del medioevo: ma forse sono esse scipite quanto i petrarchisti?
Marin Brocardo, poeta non infimo, avendo osato [171] sparlare del Bembo, i dotti principalmente di Padova levarono contro di lui un rumor tale, che ne morì di crepacuore. Pure non mancò chi disapprovasse e deridesse quell’inesausta fecondità, come il Muzio e il Lasca; Nicolò Franco imputava al Petrarca le miserie de’ suoi pedissequi; Ortensio Landi diceva, il meglio de’ costoro libri essere i fogli bianchi; il Doni scorbacchiava coteste girandole dei poeti, e capei d’oro, e sen d’avorio, e spalle d’alabastro. In quella caratteristica frivolezza, tra quell’entusiasmo a freddo d’innamorati di testa, si possono ammirare le difficoltà superate e l’armonica espressione, il gusto corretto e l’equa misura; se non quando diffondendosi nel descrittivo, abilità dei semipoeti, cadono nel manierato. Ma il tema sovente abbassa l’ingegno; di rado l’ingegno nobilita il tema; e in secolo così fecondo per le belle arti, il sentimento poetico scarsamente si manifestò, e in poche anime si raccoglieva. Quali di tanti sonettisti passò nel cuore della nazione? e se de’ medesimi si facesse un fuoco, poco patirebbe la letteratura, e ne guadagnerebbe la gloria italiana.
Per scernere i migliori, Francesco Maria Molza modenese, cercatissimo dall’amicizia dei dotti, buono in molti generi, grande in nessuno, riponeva il colmo dell’arte nel ben imitare, e cantò licenziosamente gli amorazzi suoi, che dopo molte tribolazioni il consumarono. Monsignor Della Casa diede allo stile poetico la vigoria che nel Bembo gli mancava, e al verso la sprezzatura che gli cresce varietà e maestà; nol potendo di dolcezza, il lodano di nobili pensieri e immagini vivaci. Francesco Beccuti detto il Coppetta schivò le asprezze, ancora non infrequenti benchè l’impasto del verso fosse assai migliorato. Angelo di Costanzo sviluppava un pensiero con continua progressione, filando i sonetti a maniera di sillogismi; e se ne compiaceva egli stesso, e [172] dagli altri n’era lodato, e imitato da Bernardino Rota, il quale celebrò la donna sua, prima di sposarla e dopo morta, non senza verità d’affetto; dal Tansillo, che il disonesto Vendemmiatore riparò colle Lacrime di san Pietro, gelato sempre; e in generale dai Napoletani. Suoni cui risponde la nazionale simpatia, fece intendere monsignor Giovanni Guidiccioni di Lucca, robustamente deplorando l’Italia che «Giace vil serva, e di cotante offese Che sostien dal Tedesco e dall’Ibero Non spera il fin».
A brevi componimenti, fatti e letti per passatempo, potrebbe compatirsi la frivolezza, ma trovandola in opere che richiedono intera la vita e l’attività, quali i poemi epici, corre al labbro la condanna di Marziale, Turpe est difficiles habere nugas, Et stultus labor ineptiarum.
Per la vera epopea, quella che in un personaggio o un’impresa ritrae un popolo, un’epoca, una civiltà, i tempi erano troppo innanzi, e nè tampoco cascava in mente questo elevato concetto, che pure era stato attuato dall’Alighieri. Neppure l’epopea cristiana addicevasi alle capresterie di quel secolo; Vida e Sannazaro vedemmo fallirvi, non intendendone l’essenza, e a vicenda non intesi dal popolo. Nè si prese amore all’intemerata bellezza di Virgilio, benchè come lui si cercasse squisitezza di forma e perfetta regolarità. I nobili sentimenti di patria, i severi di religione, i profondi della vita intima, sfuggivano ad una poesia, che era tema retorico non ispirazione; scelto fortuitamente o imposto; da autori che non se n’erano fatti per molt’anni macri, nè lasciavano dir la gente, ma voleano applausi e denari, non importando se vital nutrimento rimarrebbe dopo digerito.
Dei due elementi dell’epopea, tradizione e immaginativa, i nostri neglessero la prima per buttarsi sull’altra, [173] ma nemmeno qui con originalità. Dovunque il genio nazionale spieghi i vanni, apresi alla facoltà del bello che è una delle primordiali dello spirito umano, e si manifesta in concezioni poetiche conformantisi al grado della civiltà. Tale era stata nel medioevo la poesia cavalleresca, che nelle sue assurdità valse pure a dirozzare i baroni, di cui allettava la solitudine e riempiva gli ozj.
Dalla mistura del carattere bellicoso colla devozione e colla storia religiosa, quando la nobiltà sentivasi superiore ai vulghi, e credeva all’onnipotenza della forza e volontà propria sovra le turbe, che le andavano dietro nelle battaglie, e pensava che Dio e i Santi assistessero anche materialmente gli eletti, era derivato nel medioevo un eroismo, differente da quello dell’epopea greca e latina, eroismo d’onore, d’amore, di fedeltà, non incarnato in qualche tipo reale, ma finzioni forse provenute da Levante, certo modificate all’indole nostra. Quegli eroi sono prodi come gli antichi; ma il coraggio non mettono a servigio d’un interesse reale, bensì della fantasia e d’un sentimento profondo di personalità, svolgendosi in fatti rischiosi. L’onore, ignoto agli antichi, si fonda sull’opinione che l’uomo ha di sè, e sul valore che si attribuisce: e poichè esso è infinito, d’ogni cosa si risente, ogni cosa riferisce a sè.
L’amore, istinto ridotto a sentimento, che fantastica un mondo destinato solo a servirgli d’ornamento, concentra tutta la vita intellettuale e morale, di modo che non è o leggerezza o colpa, ma un identificarsi colla persona amata; in conseguenza starebbe in opposizione coll’onore, se non si riducesse ancora alla personalità che vuol trovare tutto se stesso nell’oggetto amato. La fedeltà d’un vassallo verso il signore non somiglia al patriotismo nè all’obbedienza del suddito; ma in una società dove il diritto e la legge esercitano debole [174] impero, fondasi sulla libera scelta, sulla personale promessa, lasciando interi l’indipendenza e l’onore dell’individuo, il quale può resistere al suo signore, disdirne la fedeltà, non essendo un dovere che possa pretendersi davanti a un tribunale. Sin l’amore della patria o del principe, l’attuazione della giustizia si considerano sol come impegni personali; arbitrarj sono i fini, nè s’indaga se un’azione sia moralmente buona, ma se conforme all’onore; e poichè questo dipende dall’opinione, è estremamente puntiglioso; altera a voglia la gravezza dell’offesa e della riparazione; anche nell’offensore non considera un reo, ma un uom d’onore, giacchè riparazione non si potrebbe ricevere se non da un proprio simile. Insomma è la coscienza d’una libertà illimitata, che ritrae unicamente da se stessa.
L’interesse dunque delle invenzioni cavalleresche versa tutto sull’uomo indipendente, perfino nei casi ove molti seguono un impulso mistico, come nelle crociate; sono azioni individuali, aventi per iscopo la sola persona. Ma a quella grande indipendenza manca la realtà sostanziale ch’è propria de’ personaggi di Omero, e non è possibile ridurla all’unità artistica di questo e de’ suoi imitatori.
In Italia, dove i baroni non soverchiarono i mercanti, la poesia d’amore e di fede prevalse alla cavalleresca, di cui poche tradizioni rimasero[114]; ma queste rivissero quando appunto lo spirito della cavalleria degradavasi nelle piccole Corti. L’ingegno arguto dei nostri prese in beffa quelle imprese iperboliche; pure nel bisogno di espandere l’amore del bello, e non volendo faticare in cerca di soggetti meditati, da quei romanzi si dedussero poemi. La fantastica rappresentazione dell’assoluta [175] indipendenza individuale attagliavasi al rinnovato paganesimo; a quelle azioni tutte personali non facea mestieri di connessione, cominciate ove si vuole, finite ove si può, atteggiando personaggi di cui erano tradizionali i caratteri e i precedenti, come avvien nelle maschere: vi s’innestò l’adulazione, altra peste di quel secolo, traendo genealogie principesche o da Troja o dai paladini di Carlo Magno. Dai Reali di Franza, scritti o tradotti in italiano fin dal Trecento, rampollò una delle prime epopee, il Buovo d’Antona, canti XXIV in ottava rima; dalla supposta cronaca di Turpino, la Spagna historiata di Sostegno di Zanobi fiorentino, la Regina Ancroja e centinaja d’altri nojosamente prolissi. Ma nessuno penetrò nella vita cavalleresca, nel culto della donna, nell’entusiasmo della prodezza; fermandosi alla sopravvesta, desumendone i nomi e poco più, e le bravure stravaganti, e un incondito soprannaturale, colle persone stesse e le stesse valenterie: e fossero pur bizzarre e stravaganti, erano permesse non solo, ma lodate a scapito del buon senso; riuscendo ridicoli senz’esser buffi, giacchè affettano buona fede, e mescolando il devoto all’osceno.
Alla Corte de’ Medici, mentre si rintegrava la cultura classica, non erasi ancora dimenticata quella del medioevo; e come piacea leggere Virgilio e Terenzio, così godeasi de’ Misteri, de’ Carnevali e delle finzioni cavalleresche. E forse i concetti cavallereschi si discutevano nelle sale di Lorenzo de’ Medici, quando Lucrezia Tornabuona sua madre domandava: — Non potrebbesi da quelle leggende cavar della brava e originale poesia?» Luigi Pulci, fiorentino (1432-87), di famiglia tutti poeti, si fa legge di quel desiderio, e fra pochi giorni porta il primo canto d’un poema, il Morgante. Forse alla lettura assistevano il Poliziano, il Bruno, il Rucellaj, certamente il Magnifico Lorenzo; e risero di quella mistura di sacro e profano, [176] di frasi classiche con riboboli fiorentini, dell’evangelio di san Giovanni con panzane di Turpino; trovarono bella quella veste, fantastici que’ passaggi, e il poeta incoraggito seguitò, senza un disegno nè un fine nè una orditura, come l’usignuolo che canta pel bisogno di cantare: non conoscendo altro canone che la fantasia, non altra regola che di dar nel genio degli uditori, e allo spirito, alla celia sacrifica l’arte e il sentimento, fin il gusto e la creanza e il pudore, benchè canonico e di cinquant’anni; moltiplicando valenterie di eroi nient’altro che forti, cuor di draghi e membra di giganti, non curasi più che tanto di ragguagliare le parti col tutto, d’acquistarvi interesse, e nè tampoco credenza; mette in riso e le imprese e il modo onde le canta; balza dal patetico allo scurrile; pazzescamente accumula trivialità e scienza; diavoli scipiti ravvolge in dispute interminate sopra ciò che di più astruso presentano la teologia e la filosofia; invoca i celesti in capo di canti ne’ quali mena a strapazzo le cose più sacre. Come doveva esser l’uso de’ cantastorie, poeti che per le piazze e nelle sale declamavano quelle imprese, volgesi all’auditorio, e nel finire lo congeda. Forse è il primo che la epica sembianza di Carlo Magno travestì da infingardo credenzone. Se gli chiedi come fosse tanto balordo da lasciarsi abbindolare da Gano, le cui tranellerie costituiscono la parte prevalente del poema, egli risponde ch’era fatalità[115]. Quando ne sballa di troppo sonore, le rigetta sul conto di Turpino. Tratto tratto ti vien di domandare s’e’ beffa o dice serio; poi al fine non sai quel ch’abbiasi voluto con quell’incoerenza d’invenzioni, con quel delirio d’immaginativa. Eppure il fa delizioso a leggere [177] quell’ingenuità di lingua ch’e’ tenea dalla cuna, nè dallo studio fu guasta.
Ne difettò invece Matteo Bojardo conte di Scandiano (1434-94), che in latino e in greco lasciò liriche, di pensieri e di modi peregrini. L’Orlando Innamorato dedusse dal solito Turpino, ma volle raccogliere il ciclo romanzesco in un gran tutto attorno ad Orlando, pretendendo alla simmetria delle antiche epopee sottoporre queste storielle, per lor natura balzane e interminabili. Riuscì dunque troppo vario pel genere classico, troppo grave pel romanzesco; però caratterizza i suoi personaggi, espone con forza; d’immaginativa supera l’Ariosto: ma è disarmonico, inelegante, frondoso, mentre sol dall’incanto dello stile le opere d’immaginazione possono sperare immortalità. Alcuno pretese vedervi allusioni argute di morale e politica, e censure alla Chiesa corrotta: ma egli non voleva se non quel che gli altri del suo tempo, divertirsi e divertire. Alle avventure applicò i luoghi del suo feudo e i nomi strepitosi de’ suoi villani, di modo che i Rodomonti, i Mandricardi, i Sacripanti furono scritti indelebilmente coi grand’uomini che veramente patirono e fecero patire. — Strani capricci della gloria!
De’ cento canti che dovean essere, soli ottantasei finì, lasciando così in tronco le favole; onde molti s’accinsero a raffazzonarlo e proseguirlo. Fra essi Lodovico Ariosto di Reggio (1471-1533), il quale, per la lode de’ primi canti conosciuto e conoscendosi poeta, prosegue, e ne forma un poema, cui la posterità conservò il titolo di divino. Il prosastico trascinarsi in piccoli impieghi, in minute ambascerie, in servidorie di corti, svigorì questo grande ingegno, che le contraddizioni e la sventura avrebbero sublimato; disavvezzo d’ogni attività interiore, lasciando fare, e vivacchiando alla spensierata, instabile non solo in amore ma in ogni sentimento, quell’incomparabile suo istinto poetico non diresse a scopo veruno, [178] o ad un solo, l’adulazione[116]. Se questo accattapane dei fiacchi disabbellì le scritture ne’ cortigiani de’ Tolomei e ne’ Latini della decadenza, nei grandi non s’era ancor veduta mai così meretricia. Virgilio canta gli eroi per cui Roma crebbe e stette, e deriva da loro la gente Giulia, ma gli encomj dati a quelli sono encomj a Roma; nè inventa avi al nuovo Augusto; prostrandosi all’ara di questo che gli restituì il camperello, pur gli dipinge lo squallore de’ poderi da lui donati al veterano, e il guerriero che usurpa i colti novali e soppianta i possessori dai paterni vigneti. Orazio celebra Augusto, ma perchè riordina in pace la patria; e non dimentica o l’intrepido Regolo, o l’invitto animo di Catone. Lo stesso Lucano sotto Nerone esalta le repubblicane virtù. Ma l’Ariosto non altro loda che casa d’Este, «il seme fecondo che onorar dee l’Italia e tutto il mondo; il fior, la gioja d’ogni lignaggio ch’abbia il ciel mai visto». Or chi fossero costoro, chi il giusto Alfonso o Ippolito benigno, chi Lucrezia Borgia, da lui messa più in su della romana, la storia cel disse.
Tre fatti principali camminano di fronte nel suo Orlando Furioso: Carlo Magno assediato in Parigi; la pazzia d’Orlando; gli amori di Bradamante e Ruggero. Ma il primo direbbesi piuttosto l’imprimitura su cui dipingere; il secondo è un episodio, che comincia a poema inoltrato e finisce prima di questo; rimane prevalente l’amor di quei due, inventato per glorificare gli Estensi, di cui quella coppia dovea fingersi capostipite. Sicchè soggetto è l’adulazione; adulazione bassa a principi immeritevoli, e per la quale inventa quegli Enrichi, [179] quegli Azzi, quegli Ughi, che mai non esistettero se non nelle elucubrazioni di qualche genealogista.
Italia boccheggiava sotto il calcagno straniero, il tradimento era diritto, il manto di Pietro stracciato, i Turchi minacciosi, i costumi pervertiti. Qual dignità per un poeta che fosse comparso a rialzar la coscienza nazionale; ed elevandosi nelle serene regioni dell’eterna bellezza, avesse espresso il lato serio della vita, gl’impeti sublimi del cuore, la grandezza morale dell’uomo e della nazione, celebrato le benefiche virtù, il ben usato valore!
Orlando, il quale non dà il titolo al poema se non per fare riscontro a quel del Bojardo, comincia con lamenti bellissimi, ma da vagheggino; abbandona Carlo quando di lui avrebbe maggior uopo; le sue pazzie il rendono un flagello di Francia; senza di lui si vince la guerra; nè rinsavisce che per distruggere le reliquie del nemico e uccidere Agramante, re che fugge senza esercito più nè regno, e già mal condotto da Brandimarte; del resto non una battaglia dirige, non un assalto, salvo consigliare Astolfo nell’impresa d’Africa, agevole impresa contro un regno sprovveduto e con esercito creato per miracolo. Avvegnachè tanto valore de’ paladini non approda se non sostenuto da continui prodigi, di soccorsi arrivati alla guida d’angeli, di sassi conversi in cavalli, di foglie in navi.
Dal nome di Carlo Magno in fuori, tutto v’è favoloso; Carlo stesso non era imperatore quand’ancora non era calato in Italia[117]; e somiglia a un tralignato rampollo di razze vecchie, sprovvisto di carattere proprio, amico del far nulla; uno scaltro lo corbella grossolanamente, impunemente l’insulta un valoroso; spada e scettro abbandona a chi li sa ghermire; dà ordini che [180] non sono obbediti; trova in discordia i suoi paladini, e non vale a ricomporli in pace; ha bisogno estremo di loro, ed essi, invece di accorrere alla chiamata, esercitano coll’armi le private querele; nè egli ricupera la sdruscita potenza se non sacrificando la propria dignità. Tanti dotti splendeano alla corte di Carlo, e l’Ariosto non sa rammentare che un Alfeo, il quale dorme al campo, non si sa perchè (c. XVIII). Vuol imitare il Niso ed Eurialo di Virgilio, e li trasporta fra Mori, ove l’amicizia di Cloridano e Medoro non è meno spostata che la libertà onde vagano Angelica, Marfisa, altre donne orientali. Nè Parigi era allora città di conto, nè fu mai assediata da Mori; nè i Mori avevano in mano Gerusalemme, nè già fondato era il regno d’Ungheria; e non che tutti quei re mori, sono baje l’imperator greco Costantino e suo figlio Leone, che han per insegna l’aquila d’oro a due teste, e che pugnavano per ricuperare Belgrado dai Bulgari.
Vivendo in sì gran lume d’arti belle e di scienze, in queste vaneggiò affatto, di quelle mostrò ignorare e pratica e teorie. I suoi palagi sono bizzarre mostruosità; le pitture esprimono azioni successive[118]. Conducendo Astolfo nella luna, falla negli elementi di cosmogonia; crede quell’astro eguale o poco minor della terra perchè non ha luce. Altri viaggiatori «lasciando Tolemaide e Berenice e tutta Africa dietro, e poi l’Egitto, e la deserta Arabia e la felice, sopra il mar Eritreo facean tragitto» (1º dei cinque canti).
Della cavalleria, al tempo suo, si vedevano ancora [181] scene serie, come le sfide di Carlo V con Francesco I, come il torneo dove fu ucciso Enrico II di Francia; e appena un anno prima che il suo poema si stampasse, Bajardo armava cavaliero il re Francesco dicendo, — Venga come se fosse Orlando od Oliviero, Goffredo o Baldovino». Non poteva egli dunque proporsi di metterla in discredito; oltrechè, nel mentre in un canto egli la beffa, nell’altro ne ragiona seriamente; e qualora c’inebbria di sangue e dipinge il macello di migliaja d’inermi, noi restiamo indignati contro gli eroi non meno che contro il poeta, il quale ha coraggio di ridere fra carnificine di ottanta e centomila il giorno, ove molti dei cristiani e quasi tutti gli eroi musulmani finiscono a morire, ove le stragi sono così continue che il poeta stesso pare talvolta stancarsene e grida: — Ma lasciamo perdio, signore, omai di parlar d’ira e di cantar di morte» (c. XVII); noi fa però che per cantare altre ire ed altre uccisioni.
Gli dan lode d’immaginoso: ma nei precedenti, e massime nel Bojardo, già erano ordite le favole ch’egli tessè, e che talvolta sciolse, per verità, stupendamente, e abbandonando (eccetto nelle avventure di Ruggero con Alcina) l’allegoria, con cui il Bojardo avea creduto dover sorreggere l’immaginazione[119]. Comincia con versi di Dante, finisce con versi di Virgilio; dai predecessori imitò i rapidi e crudi passaggi, e la sconnessione, e il mancar d’un cominciamento e d’uno snodo.
D’altra parte, qual cosa è più facile delle invenzioni fantastiche, quando non devano essere riscontrate dalla ragione? E coll’Ariosto versiamo in un mondo perpetuamente [182] falso, tra eroi che si tempestano di colpi senza mai ferirsi, che randagi per foreste selvagge, pure conoscono le cortesie del Cinquecento; fra donne che avvincendano l’amore e le battaglie; fra maghi ed angeli che alternamente sovvertono l’ordine della natura, sicchè nelle buffe inverosimiglianze il fantastico distrugge se medesimo. Eroi uccisi in un canto, ne’ seguenti ricompajono ad uccidere. Angelica, causa di tante risse, scompare a mezzo del poema; e inerme bella, va da Parigi alla Cina, siccome il poeta andò astratto da Modena a Reggio in pianelle. Direste che col balzar di meraviglia in meraviglia, voglia torre alla riflessione di appuntarne le sconvenienze; nè comprende che la grand’arte d’ogni poesia sta nell’ammisurare la finzione al vero in tal guisa, che il meraviglioso s’accordi col credibile.
Rinaldo e Astolfo vanno traverso agli spazj del cielo e all’Italia, eppure non s’imbattono mai in arti, in mestieri, in leggi, in quello di che vive l’umanità, in quello di che era pieno il Cinquecento. D’Italia insigne vanto sono Colombo, Americo, il Cabotto; e l’Ariosto, parlando della scoperta di nuovi mondi, non accenna che a Portoghesi e Spagnuoli, e ne trae occasione di encomiare Carlo V, «il più saggio imperatore e giusto che sia stato e sarà mai dopo Augusto» (c. XV). Una sola volta e’ ricorda d’avere una patria, per rimbrottare i Cristiani che esercitano l’ire fra sè e contro la terra nostra, invece di respingere l’irruente Musulmano. Poi, come uno di quei meschini che mendicano la lode col prodigarla, nell’ultimo canto affastella ai gloriosi contemporanei altri bassi nomi, talchè gran lamento se gli levò incontro, quali lagnandosi d’essere dimenticati, come il Machiavelli, quali credendosi mal qualificati, quali confusi alla turba o male accantati.
E poemi e ogni altro libro, in tanto son lodevoli in [183] quanto porgono un concetto utile e grande: sparpaglia il sentimento, e n’avrai impressioni diverse, che, come i circoli dell’acqua percossa con una pietra, l’una cancella l’altra, nessuna rimane. Ora l’Ariosto, ridendo di sè, del soggetto, de’ lettori, diresti siasi proposto distruggere i sentimenti man mano che li suscitò: ti vede atterrito? eccoti una scena d’amore; commosso? ti fa il solletico; devoto? ti lancia una lascivia. E celiasse solo degli uomini; ma non la perdona alle cose sante; mette in beffa Iddio (c. XIV) facendogli dare puerili comandi; l’Angelo, servo balordo e villano, vistosi tradito e ingannato dalla Discordia, cerca questa, e «poste a lei le man nel crine, e pugna e calci le dà senza fine, indi le rompe un manico di croce per la testa, pel dorso e pelle braccia» (c. XXVII). Continua empietà è quell’aereo viaggio, dove san Giovanni ad Astolfo mostra le Parche, il Tempo ed altrettali gentilità, e dove esso evangelista è paragonato agli storici che travoltano il vero (c. XXXV); e Dio a Mosè sul Sinai insegna una erba, «che chi ne mangia, fa che ognun gli creda» (IIIº dei cinque canti). Motti degni dell’Aretino.
Triviale è la moralità de’ capocanti, allorchè non sia ribalda. Or t’insegna che il simulare è le più volte ripreso (c. iv); ora che «il vincere è sempre mai laudabil cosa, vincasi per fortuna o per ingegno» (c. XV). Se esorta le donne a non dare orecchio agli amadori, i quali, conseguito il desiderio, volgon le spalle, tosto se ne ripiglia spiegando ch’esse devono dunque fuggire i volubili giovanetti, e attaccarsi alla mezza età. Stranissime idee del vizio e della virtù: unica gloria la forza militare; talchè Ruggero, Marfisa, che più? Gradasso, Sacripante, Rodomonte, le cui carnificine non sono tampoco discolpate dal dovere della difesa, pajongli «drappello di chiara fama eternamente degno» (c. XXVII). Il buon Ruggero di virtù fonte, ama colla [184] volubilità di un sergente; appena Bradamante sua con tanti affanni lo liberò dal castello di Atlante, egli vola ad Alcina, e dimentica «la bella donna che cotanto amava»; poi dalla maga non si spicca per ragioni, siccome da Armida Rinaldo, sibbene perchè altri incantesimi gliela discoprono vecchia e sformata. Guarito n’esce, e campa Angelica dal mostro; ma non istà da lui di toglierle il fiore, che ad una donzella è seconda vita. Quella sua cortesia di gettar nel pozzo lo scudo incantato, che vale, s’egli ritiene l’altr’arme e la spada, tutte fatate al par di quelle d’Orlando, e che tolgono ogni merito al valore? Fin la donna egli abbandona, per restar leale ad Agramante; poi quando gli è affidato il duello con Rinaldo, decisivo di quella guerra, combatte lento, più difendendosi che aspirando alla vittoria. O ricusar doveva, o non mancar dell’usato valore. Bella è l’azione sua verso Leone, ma egli s’era dritto colà per torgli le corone, e così esser degno sposo: ottima ragione di rovesciare troni! Poi, come il magnanimo Leone in un subito divenne così vilissimo da mandare altri a combattere per sè? Quando Ruggero e Bradamante tengono in mano lo scelleratissimo Marganorre, il difendono da chi volea dargli la morte, ma per qual fine? perchè «disegnato avean farlo morire d’affanno, di disagio, di martire» (c. xxxvii). Zerbino di virtù esempio, gravissimamente offeso da Oderico, pregato da questo di perdono, pare v’inchini l’animo riflettendo «che facilmente ogni scusa s’ammette quando in amor la colpa si riflette»: voi credete di applaudire finalmente a un atto di virtù; niente! egli non l’uccide per obbligarlo a girare un anno con Gabrina, certo che «questo era porgli innanzi un’altra fossa, che fia gran sorte che schivar la possa» (XXIV).
Se i duchi d’Este aveano senso morale, doveano stomacarsi di discendere da razza, ove, non gli uomini [185] solo, ma le donne erano ferocemente micidiali. Bradamante, per consiglio di Melissa, uccide Pinabello; vendetta inutile: e poniam fosse giusta secondo la guerra, è di buona cavalleria il trucidarlo mentre fugge, nè si difende che con alti gridi e con chiedere mercede? (c. XXIII). Nè solo ella e Marfisa sono fiere nel combattere per la loro causa, ma pigliano vera dilettanza del sangue; e quando Ruggero e Rinaldo combattono per la risoluzione del gran litigio, elle tengonsi in disparte, frementi che il patto le freni dal metter la mano nelle prede adunate (c. XXXIX); e appena vedono rotte le tregue, liete si tuffano nella strage.
Io non amo si spogli la donna delle naturali sue qualità per cacciarla fra l’armi; ma se tale fantasia sorride ai poeti, non dimentichino almeno la gentilezza d’un sesso fatto per l’amore e la pietà.
Altri indaghi perchè generalmente i lirici, dai siculi cominciando, abbiano velato l’amore, mentre agli epici, come ai novellieri, piacque voluttuoso ed osceno, e persino il Tasso, anima candidissima e in poema sacro, non isfuggì lascivia di pitture ed epicureismo di consigli. Ma nessun peggio dell’Ariosto, zeppo di lubriche ambiguità e d’immagini licenziose qui come nelle commedie. Chi ci tacciasse di non collocare l’uomo in mezzo a’ suoi tempi, sarebbe smentito da tutta l’opera nostra, e noi conosciamo i vizj di quell’età mezzo pagana e mezzo superstiziosa: ma dietro agli errori e ai pregiudizj sta il genio dell’uomo e la poderosa sua volontà; poi scagionando l’autore, rimane il difetto dell’opera, nè alcuna apologia potrà togliere che sia giudicata bellissima e perversissima.
Dissero che l’Ariosto abbraccia tutti gli stati e le condizioni: ma per entro quel barbaglio di meraviglie perde di vista l’uomo, fallisce ed esagera il linguaggio della passione, e la donna virtuosa, la madre di famiglia, [186] l’amante casta o in lotta con se stessa non t’offre mai; sibbene sozze Gabrine e Origille, o tirannesche madri di Bradamante, o voluttuose amiche, fra le quali è a relegare fino Isabella, che resiste alla violenza, ma nulla ha negato all’amore.
Dopo la prima edizione del 1516, un’altra ne fece l’autore nel 1532, dopo vissuto lungamente a Firenze[120], con moltissime mutazioni e indicibili miglioramenti, massime di stile; e corrente quel secolo, sessanta volte fu ristampato, sì caro diventò. Perocchè, se pochissimo quanto ai fatti, moltissimo inventò l’Ariosto quanto allo stile, e alle particolarità che sono la vita d’un racconto e ch’egli sceglie con finissima arte, come pittore che storie vecchie riproduce con disegno e colorito nuovo; onde quel ritrarre così vivo, così vario, che lo renderà miniera inesaurabile di quadri. Ridendo con una dabbenaggine arguta, a guisa d’un beffardo che racconta stravaganze tenute per serie da altri, ma che non vuol parerne nè complice nè zimbello; signore delle armonie quanto il Petrarca; mirabilmente versatile nell’espressione, senza la pretendenza, troppo ordinaria negl’Italiani, senza la frase tessellata, senza abuso di classiche rimembranze, discernendo per istinto le eleganze dall’affettazione, il vezzo natìo dell’idioma parlato dal ribobolo mercatino; falseggia qualvolta tocca il figurato, ma quando procede per la piana e fuor di metafora, meravigliosamente produce quel piacere che nasce dal conversare alla domestica con uno de’ più begl’ingegni, non d’Italia solo, ma del mondo. È la maggior prova che i libri vivono per lo stile; e da questo il Galilei [187] confessava avere appreso a dar chiarezza e grazia a’ suoi dettati filosofici; un uomo di buon senso dichiarava la lettura dovrebbe concedersene soltanto a quelli che fecero alcuna bella azione a pro della patria: ma Silvio Pellico lo qualificò un uom vulgare con sommo ingegno. E degli ingegni è grande, è incalcolabile la potenza; e guaj a chi la sconosce, peggio a chi l’abusa! L’uomo, allorchè si accinge a scrivere, tremi delle conseguenze d’ogni sua parola. Ai pensamenti del Machiavelli è debitrice Italia di lutto e d’infamia oh quanta! Dagli scherzi dell’Ariosto, che stravolge le idee di virtù, che divinizza la forza, che fa delirare il raziocinio, che imbelletta il vizio e seconda gl’istinti voluttuosi, forse la patria trasse più mali ch’ella stessa nol sospetti.
E noi giudichiamo inesorabilmente i sommi, non per menomarne la gloria, ma per iscaltrire la gioventù, che speriamo c’intenda, e che chiediamo giudice altrettanto austera di noi e de’ contemporanei[121].
Rigorosissimi verso questo grande, che diremo de’ suoi imitatori, sprovvisti del genio che tanto a lui fa perdonare? Luigi Alamanni da Firenze (1495-1556), oltre la Coltivazione, una sequenza di poemi cavallereschi compose non per altro che per secondare il gusto d’Enrico II; il Girone Cortese, versificazione d’un romanzo francese; l’Avarchide, o l’assedio di Bourges (Avaricum), dove [188] Agamennone, Achille, Ajace traveste da Arturo, da Lancilotto, da Tristano, ricalcando interamente i fatti e i detti e le descrizioni omeriche; onde la sua condanna sta nella lode datagli da suo figlio, di toscana Iliade. Aggiungete satire, stanze, elegie, salmi, tutto mediocre. Alfine si ritirò in Provenza, povero di fortuna, e perciò rifiutato da una fanciulla di cui invaghì[122].
Lodovico Dolce veneziano, scrittore instancabile di grammatiche, retoriche, orazioni, storia, filosofia, satira, lirica, traduttore, editore, commentatore, correttor della stamperia del Giolito, fece sei poemi, fra cui le Prime Imprese d’Orlando, che sarebbero i precedenti del Bojardo. Il seguito ne sarebbe l’Angelica Innamorata di Vincenzo Brusantini ferrarese; e mettetevi insieme i Reali di Francia dell’Altissimi, la Morte di Ogero danese, la Trebizonda, Dama Rovenza dal Martello, Marsiglia Bizzarra. D’ogni dove pullulavano imitatori dell’Ariosto, fin tra’ ciabattini; e l’Aspramonte, il Dragoncino, l’Altobello, Anteo Gigante, l’Antifior d’Albarosia, l’Oronte Gigante, il Falconetto delle battaglie, i Fioretti de’ Paladini, lo Sfortunato, e le Marfise, e le Bradamanti, e i Ruggeri, e tutti i paladini della favola ariostesca ebber poemi che vissero quanto i romanzi de’ nostri giorni. Il Bernia fece l’Artemidoro, dove si contengono le grandezze degli Antipodi, e l’Erasto, le Pazzie amorose di Rodomonte secondo, Parigi e Vienna. Giambattista Pescatore di Ravenna scrive in venticinque canti la vendetta, e in quaranta la morte [189] di Ruggero; «giovanile fatica fatta in breve tempo, piuttosto per esercizio di mente che per vaghezza di fama»: eppure più volte ristampata, benchè flacida di stile e povera d’armonia. Francesco de Lodovici veneziano volle qualche novità coll’abbandonare l’ottava, e cantò i trionfi di Carlo Magno in due parti di cento canti ciascuna, e ciascun canto di cinquanta terzine: a Dio surrogando l’Amore, il Vizio, la Natura, la Fortuna, Vulcano; alle lodi dei re quelle del doge Andrea Gritti.
In quella folla d’epopee, fatte tra il riso e lo sbadiglio, per reminiscenze ed imitazione, come si facevano sonetti amorosi perchè Petrarca fece l’innamorato, e dove alle adulazioni e alle lascivie si trovava scusa nell’esempio dell’Ariosto, non si toglieano di mira che le industrie materiali di mestiero. Il bisogno di creare, d’innovare, non si sentiva; perduta l’intelligenza del medioevo, nè ancora all’ingenua contemplazione della natura surrogata quella finezza di osservazioni, quell’analisi dell’uman cuore che costituisce la poesia dei secoli colti; i personaggi sono o ribaldi o virtuosi tutti d’un pezzo, con vizj e virtù generiche, non quella mistura che è propria della povera nostra umanità.
Poniamo tra questa pula anche l’Anguillara, che traducendo le Metamorfosi[123] con espressione facile al par del suo testo, potè riuscire più prolisso e più sconcio di quello; eppure ebbe in quel secolo trenta edizioni. Morì di miseria e libidine.
La memoria del miglior figlio conserva quella di Bernardo Tasso (1443-1569). Alcuno trarrebbe la famiglia di lui dai Della Torre di Valsassina, che signoreggiavano a Milano, e che al prevalere de’ Visconti ricoverati nelle montagne di Tasso fra Bergamo e Como, v’ebbero in [190] signoria Cornello. Al 1290 un Omodeo Tasso stabilì le poste, invenzione perdutasi nel medioevo, e che da’ suoi discendenti diffusa in Germania, in Fiandra, in Ispagna, valse a quella casa un’illustrazione di genere particolare e il titolo di principi, conservato finora nei signori Della Torre e Taxis. Un Agostino Tasso era generale delle poste d’Alessandro VI, e da un suo fratello nacque Gabriele, da cui Bernardo. Questi, senz’altro patrimonio che la nobiltà e una diligente educazione datagli dallo zio vescovo di Bergamo, s’affisse di buon’ora alle Corti; e prima servì da secretario e da messo a Guido Rangone generale della Chiesa, poi alla duchessa Renata di Ferrara, indi a Ferrante di Sanseverino principe di Salerno; e colmo d’onorificenze e di pensioni, partecipò alla spedizione di Carlo V contro Tunisi e a quelle del Piemonte e di Fiandra. Ma il Sanseverino, essendo deputato a Carlo V da’ Napoletani per isviare il flagello dell’Inquisizione spagnuola, cadde in disfavore a questo, sicchè gettossi coi Francesi. Bernardo il seguì; come ribelle ebbe confiscati i beni; e mentre il Sanseverino andava a Costantinopoli a sollecitare il Turco, Bernardo a Parigi in prosa e in versi confortava Enrico II all’impresa di Napoli, ma invano. Tornato in Italia, vi perdette la moglie Porzia de’ Rossi[124], e ne’ disastri della guerra d’allora si trovò sul lastrico, finchè Guidubaldo duca d’Urbino non l’accolse, e gli diede agio a finire il suo poema: di poi visse a Mantova, e governò Ostiglia.
Vita sì tempestosa non interruppe il suo poetare. Fra le altre, fu amoroso d’una Ginevra Malatesta, e quando [191] essa sposò il cavaliere degli Obizzi, egli espresse la sua disperazione in un sonetto che tutte le colte persone d’Italia ebbero a mente. Compose poi due poemi, il Floridante, di cui più non si parla, e l’Amadigi. Il soggetto gli era dato dalla moda, e dalle lodi attribuite all’Amadigi, settant’anni prima pubblicato dallo spagnuolo Montalvo. Volea farlo in versi sciolti, ma gli amici e i principi lo persuasero all’ottava; volea farlo aristotelicamente uno, ma avendo letti i dieci canti alla corte, gli sbadigli e il diradarsi dell’uditorio attribuì alla regolarità, onde intrecciollo di tre azioni e moltissimi episodj. Finito, lo sottopose a varie persone: col qual modo non si cerca profittare d’un buon giudice, ma avere consenso e lode, comprata con condiscendenze. I cento suoi canti cominciavano tutti con una descrizione del mattino, con una della sera si chiudeano, se gli amici non l’avessero indotto a sopprimerne alcune. Avendo dapprima diretto il poema a onor e gloria di Enrico II e della Casa di Francia, cui derivava da Amadigi, di poi, per secondare il duca d’Urbino, lo dedicò a Filippo II, cambiando moltissime parti ed episodiche ed essenziali. Non era egli dunque trascinato da genio prepotente, ma deferiva all’opinione altrui, e tanti cambiamenti elisero ogni spontaneità del primo getto. Alfine il Muzio, l’Atanagi, Bernardo Cappello, Antonio Gallo furono a Pesaro convocati dal duca per esaminare l’opera, la quale era aspettatissima: l’accademia di Venezia il pregò lasciarla stampare da essa, ma egli preferì farlo per proprio conto. Eleganza e morbido stile ne sono il carattere, ond’egli medesimo diceva: — Mio figlio non mi supererà mai in dolcezza». E veramente d’immagini e d’espressioni è ricco quanto n’è indigente Torquato; ma sempre vi scorgi studio e non natura, artifizio non ispontaneità; esatto ai precetti grammaticali e retorici, corregge ed orna lo stile, ama le descrizioni, [192] ripiego de’ mediocri, ma non interessa mai, mai non palesa il vigore che viene dalla semplicità. Lasciamo che Sperone Speroni lo anteponga all’Ariosto, come il Varchi facea col Girone Cortese; sta a mille miglia da quella smagliante varietà d’intrecci e da quella limpidezza di stile; tu il leggi da capo a fondo senza che un’ottava ti resti in memoria o ti lasci desiderio di rileggerla.
Non nelle laidezze de’ poemi consimili, ma si bruttò nelle adulazioni comuni; e al cardinale Antonio Gallo scriveva il 12 luglio 1560: — Mando a S. E. due quinterni dell’Amadigi, dove sono i due tempj della Fama e della Pudicizia: nell’uno laudo l’imperatore Carlo V, il re suo figliuolo, molti capitani generali illustrissimi, così de’ morti come de’ vivi, e altri illustri nell’arte militare; nell’altro lodo molte signore e madonne italiane. E Dio perdoni all’Ariosto che, coll’introdur questo abuso ne’ poemi, ha obbligato chi scriverà dopo lui ad imitarlo. Che, ancora ch’egli imitasse Virgilio, passò, in questa parte almeno, i segni del giudizio, sforzato dall’adulazione che allora ed oggi più che mai regna nel mondo. Conciossiachè Virgilio nel VI, conoscendo che questo era per causar sazietà, fece menzione di pochi; ma egli dimora nella cosa, e di tanti vuol far menzione, che viene in fastidio. E pur è di mestieri che noi che scriviamo da poi lui, andiamo per le istesse orme camminando. A me perchè d’alcuni bisogna ch’io parli per l’obbligo di benefizj ricevuti, d’alcuni per la speranza ch’io ho di riceverne, d’alcuni per la riverenza, d’alcuni per merito di virtù, d’alcuni mal mio grado... tanto mi sarà lecito dire, che in questa parte fastidirò meno che l’Ariosto».
Ma da quel Carlo V ch’egli sollucherava, eragli stato tolto il pane pe’ suoi figliuoli; e invece d’acconciarsi a un onorato mestiero, colle cortigianerie ne invocava le [193] misericordie, e al cardinale Gallo scrivea, il 18 maggio di detto anno: — Se la magnanimità del cattolico re, al quale ho dedicato questo poema, non si move a pietà delle mie disgrazie, e in ricompensa di tante mie fatiche non fa restituire a’ miei figliuoli l’eredità materna, e non ristora in alcuna parte i miei gran danni, io mi trovo a mal partito».
Chi c’intende sa perchè abbondiamo in queste particolarità, nè crederà superfluo l’avvertire come Bernardo Tasso compose que’ cento canti senza tampoco sapere se il suo Amadigi fosse di Gallia o di Galles, cioè nè dove nè quando succedano que’ fatti; poi gliene viene rimorso, e — Non sarebbe egli peccato veramente degno di riprensione; peccato, non di trascuraggine, ma d’ignoranza, o di quelli che Aristotele vuole nella sua Poetica sieno indegni di escusazione, se io pubblicassi questo poema sotto il titolo d’Amadigi di Gaula, senza sapere dove fosse questo regno? Non volete voi che io nomini qualche porto? qualche città principale?» e sta persuaso che Gaula sia uno sbaglio dell’ignorante scrittore invece di Gallia, e che l’erede del trono inglese s’intitoli principe di Gaula per le antiche pretensioni sopra la Francia; e propenderebbe ad intitolare il suo Amadigi di Francia, e ne interroga Girolamo Ruscelli, pregandolo a chiederne l’ambasciator d’Inghilterra od altro pratico[125].
[194]
Pochi s’avventurarono a cantare fatti contemporanei, come nel Lautrecco Francesco Mantovano, nella Guerra di Parma Leggiadro de’ Gallani, nell’Alemanna ossia la Lega Smalcaldica l’Olivieri di Vicenza: ma non si leggono se non i Decennali del Machiavelli pel nome dell’autore.
Gian Giorgio Trissino vicentino (1478-1550), ornatissimo di lettere, s’indignò al vedere ogni cosa risolversi in buffonerie, sulla scena come nell’epopea; e determinato d’opporvi soggetti serj e patrj, compose l’Italia liberata. Tema infelice, perocchè l’Italia non guadagnò nulla dalla liberazione gota, onde manca l’interesse nazionale; mancano pure gli eroi, giacchè a Belisario la fama derivò dalle imprese d’Africa, e a Giustiniano dalle leggi. Doveva però solleticare la curiosità sì pel verso sciolto a cui egli primo si perigliava[126], sì per la nuova ortografia: ma troppo difettava di vena poetica, e trapiantare la greca semplicità mal presunse in un secolo pomposo e in lingua di ben altra indole: a tacere quella refrattaria tepidezza, manca sempre d’inventiva [195] e d’affetti; ignaro delle convenienze di stile, frasi prosastiche e plebee annesta fra discorsi di eroi; a Giunone attribuisce un linguaggio da merciaja, come nella sua Sofonisba non dialoga altrimenti che ne’ Simillimi. Sperava l’immortalità, come tutti i verseggianti d’allora[127]; poi vedendo cascata nell’oblìo quella sua prosa misurata, l’attribuiva al non avere anch’egli cantato le follìe cavalleresche[128]: ma in fatto poteva accorgersi come (per usar la sua frase) magistro Aristotele ac Homero duce si può fare una meschinissima epopea.
Questo mal esito svogliò ancor più dal compor serio, e fece prevalere le composizioni leggere e la lepidezza; onde Dionigi Atanagi scriveva: — Gli Stoici ed i Catoni ai nostri giorni sono assai rari. Anzi, se alcuna età giammai amò il riso, o che ’l numero delle molestie sia fatto maggiore, o che la natura sia divenuta più tenera, o qual altra se ne sia cagione, questa veramente par che sia dessa»[129].
Francesco Berni da Lamporecchio (-1536) conferì il nome alla poesia burlesca, che ben prima di lui avea fatto sue prove. Stette egli ai servigi del cardinale Bibiena, che «non gli fece mai nè ben nè male»; poi del Ghiberti datario, che l’inviò a far «quitanze e diventare fattore d’una badia»; fu carissimo a Clemente VII, finchè si ritirò a Firenze sopra un canonicato. Egli ci [196] si dipinge come un giovialone, dilettantesi soprattutto del non far nulla[130] e dello star sulla berta; innamorato sempre, discretamente libertino: eppure qualche volta tocca alle miserie correnti; or compiange i cortigiani, usciti dalle mani dei Medici per cadere in quelle di Tedeschi e Spagnuoli e di Adriano papa avaro[131]; or impreca al duca Alessandro e a chi fa per lui[132]. Anzi affermano che da questo fosse richiesto di avvelenare il cardinale Ippolito, e l’aver ricusato gli costasse la vita.
Quella pigrizia trapela dal compor suo alla carlona, con un tal quale timido coraggio e buona dose di libertinaggio e d’inurbanità: ma chi lo legge per ridere, non vi trova lepidezza maggiore che in altri molti contemporanei, e l’arguzia sua consiste men tosto nel frizzo che nell’espressione, qual eragli data dal parlare natìo[133]. Per questa medesima accidia, invece d’ideare [197] un poema nuovo, tolse a rifondere l’Orlando innamorato del Bojardo; all’espressione ingenua e calzante surrogando la generica; all’indipendenza di una natura doviziosa e vivace sovrapponendo il decoro richiesto da società più raffinata e meno spontanea; eppure, senza crear nulla, fece dimenticare il predecessore. Tanta è l’importanza dello stile!
I capitoli furono la consueta forma, e il paradosso il fondo dei berneschi; e per non perdermi a nominarne mille, accennerò Giovanni Mauro dei signori d’Ariano nel Friuli, appartenente all’accademia de’ Vignajuoli, che univasi presso Uberto Strozzi: fu amico ed emulo del Berni, colle cui poesie vanno spesso unite le sue. Cesare Caporali perugino, cercando uscir dalle peste, verseggiò un Viaggio al Parnaso ed una Vita di Mecenate, modelli quello al Boccalini e questo al Passeroni, con episodj continui, con un misto di bonarietà e malizia, di particolarità moderne e fatti antichi. L’Arrighi nella Gigantea non vuol altra musa che la pazzia: — Venga l’alma Pazzia dolce e gradita, — Ch’io la vo sempre mai per calamita»; e il Grassini gli oppone la Nanea, ove i giganti vincitori degli Dei sono vinti dai nani. Veramente tempi da piacevoleggiare erano quelli! Eppure, quasi la lingua natìa non bastasse alle celie, inventarono la pedantesca, italiano latineggiante introdotto da Fidentio Glottochrysio Ludimagistro, cioè Camillo Scrofa vicentino, che non dissimula i suoi gusti pederasti; e la maccheronica, latino italianeggiante.
Teofilo Folengo (-1544), nato a Cipada presso il lago di Mantova, professatosi benedettino, poi per amore gittate via la tonaca e la vergogna, errò pel mondo, e mentre poteva con poesie serie farsi salutare emulo di Virgilio, col nome di Merlin Coccaj s’imbrodolò nel maccheronico, componendo con quel mimico innesto non epigrammi soltanto ed egloghe, ma interi poemi, celebrando [198] bagordi e sguajataggini ed un’epica voracità; buffoneria inesauribile, sostenuta da squisito sentimento dell’armonia[134]. Rabelais lo cita spesso e più spesso lo copia, ma dirigendosi a qualche intento o buono o cattivo, mentre il Folengo altro non fece che uccellare a farfalle. Pentito, ritornò frate, e gli errori e l’oscenità tentò redimere componendo in ottave la vita di Cristo e varie rappresentazioni sacre.
Altri sui vizj di quel secolo avventaronsi indignati. Le satire già erano messe in moda dai Beoni e dai Canti carnascialeschi: la terza rima vi fu applicata da Antonio Vinciguerra, segretario della repubblica fiorentina, nelle sei contro i peccati capitali che impestavano Italia e la Chiesa; rozze e dure, eppur sapute a mente da tutti. Quelle dell’Ariosto meglio si direbbero epistole; pedestri, individuali, di rado accostate alla quistione civile e di fuga; frizzi di vivace letterato che, desideroso di viver bene, d’avere miglior abito, maggiore libertà di arte, delle traversie non prende rabbia ma impazienza; spiritoso sempre, violento talora ma senz’asprezza, al modo d’Orazio partendo sempre da se medesimo, e dipingendosi come un epicureo di placidi godimenti. Tutto fuoco invece e biliose invettive, il fuoruscito Alamanni senza riguardo passa in rassegna i governi d’Europa; e si sveleniscono pure Gabriele Simeone e Pietro Nelli: il Bentivoglio procede meglio, così da beffa e da senno: il Lasca celebra la piazza imprecando a cotesto tedio del pensare.
Frequente bersaglio a’ satirici è il vivere lauto dei cherici e de’ prelati, e la scostumatezza de’ monaci. [199] Giovanni Mauro va in estasi davanti a questo dolce guadagnare il paradiso colle mani in mano, e tesse la storia della bugia, che nata in Grecia, tragitta a Sicilia, a Napoli, infine a Roma, dove nessuno ancora la sturbò dal trono, e dove essa è lo scorciatojo per arrivare agli onori dopo venduto il caldarrosto per la via. Francesco Molza predica felice lo scomunicato perchè non ha più nulla a partire con Roma.
Con altrettanto ardore si coltivò un genere diametralmente opposto, il pastorale; ma anche questo senza verità. Aveano dinanzi agli occhi una natura ridente d’ogni bellezza; potevano esaminare la vita rustica, così varia dalle cascine delle Alpi alle vallate di Sonnino; dalle incolte pascione di Sicilia, divise da siepi di fico opunzio, a quelle di Roma pittorescamente sparse di grandiose rovine: ma no; per ispirarsi ricorreano alle corti di Tolomeo e di Augusto, soffiavano nella zampogna di Teocrito e di Titiro.
L’amore del descrittivo fece coltivare anche un altro genere della decadenza greca, il didattico. Luigi Alamanni e Giovanni Rucellaj cantarono la Coltivazione dei campi e quella delle api, ma non come chi si appassiona per la natura e per le semplici diligenze pastorali, testimonio di cuor buono: la sazievole monotonia del primo e la prosastica cascaggine del secondo non rattengono i pedanti dall’offrirceli come esemplari del verso sciolto. Erasmo di Valvasone friulano scrisse della Caccia, oltre l’Angeleide, poema sulla caduta degli angeli, che non desta interesse perchè tutt’altre passioni che le nostre s’incontrano fra esseri perfetti come Dio od orribili come i demonj: ma il Milton ne desunse alcuna cosa, e nominatamente l’infelice fantasia del cannone, adoprato in guerra dai demonj[135]. Bernardino [200] Baldi urbinate, studioso delle lingue e delle matematiche ed uno de’ talenti più universali, soprantendendo alle fabbriche ducali d’Urbino, vi fabbricò Santa Chiara, creduta di Bramante; imprese la storia di Guastalla, d’ond’era abate ordinario; fece molte versioni dal greco, tentò introdurre nuove misure di versi, dettò egloghe pescatorie, e il poema della Nautica, diffuso e spesso prosastico; e sonetti sopra Roma, benchè la contemplazione di quella città «pur nelle sue ruine anco superba» non gli ecciti che idee di morale comune.
Donne molte salsero in fama di lettere e di coltura. La Cassandra Fedele, tutta entusiasmo e pietà, volta dall’infanzia ad elevati studj senza scapito della grazia e dell’ingenuità, ori o gemme mai non portò, mai non comparve altrimenti che con un vestitino bianco e velata il capo; ammirata per tutta Italia, venerata dai Veneziani, che faceva stordire coll’erudizione sua classica e teologica, e che rapiva coll’incanto e la vigoria del suo improvvisare musica e versi. Quando Isabella d’Aragona volle attirarla a Napoli con magnifiche promesse, il senato non sofferse che «la repubblica fosse privata de’ suoi più begli ornamenti». Gian Bellini ebbe commissione di riprodurne i lineamenti quando essa non finiva i sedici anni, quando cioè per cogliere al vero una fisionomia quasi infantile eppure già vagamente ispirata, voleasi un pennello, la cui delicata naturalezza fosse in armonia col soggetto.
Alle nozze di Lavinia, figlia di Guidubaldo d’Urbino, col marchese Del Vasto nel 1583, vuolsi intervenissero dodici poetesse italiane: Tullia d’Aragona, Gaspara [201] Stampa, Laura Terracina, Chiara Matraini, Lucrezia Gonzaga da Gazzuolo, Claudia della Rovere, Costanza d’Avalos, Ersilia Cortese e le urbinate Elisabetta Cini, Isabella Genga, Minerva Bartoli, Laura Battiferri.
A Tarquinia, figlia del primogenito di Francesco Molza poeta, il senato romano decretò il titolo di cittadina, onor nuovo per donna, e il soprannome di Unica; il Tasso le intitolò il suo dialogo dell’amore; Francesco Patrizi il terzo tomo delle sue Discussioni peripatetiche, chiamandola «la più dotta fra tutte le più illustri matrone che sono, che furono e che in avvenire saranno».
Gaspara Stampa padovana verseggiò dietro al Collalto, guerriero il quale non prese che tedio de’ rimati piagnistei. Veronica Gàmbara da Brescia, in gioventù amica del Bembo, poi per nove anni moglie a Giberto di Correggio, passò la restante vita in casta e studiosa vedovanza. In maggior rinomo salì Vittoria, figlia del gran connestabile Fabrizio Colonna, di soli quattro anni fidanzata al marchese Alfonso di Pescara che n’aveva altrettanti: a diciassette si sposarono, ma a trentacinque egli perì nella battaglia di Pavia; ed ella disacerbò il dolore cantandolo, poi dandosi a fervorosa religione. Amata da Michelangelo, come cosa divina lodata da Bernardo Tasso, dal Rota, dal Costanzo, dal Minturno, dal Filocalo, dal Musofilo, da Galeazzo di Tarsia, de’ quali era la musa ispiratrice, nessuna nube offuscò l’illibato suo carattere[136].
[202]
Tullia d’Aragona, generata da un cardinale, bellissima, coltissima, cinta dal fiore di letterati e di galanti, gareggiando colle famigerate cortigiane di Bologna, di Roma, di Ferrara, di Venezia, alfine si ritirò a Firenze a vita migliore, e pubblicò molte liriche. Stomacata dalle sconcezze e profanità del Boccaccio, che «è da stupire come nè anche i ladri e i traditori che si facciano pur chiamar cristiani, abbiano mai comportato d’udir quel nome senza segnarsi della santa croce e senza serrarsi l’orecchio come alla più orrenda e scellerata cosa che possano udire le orecchie umane», compiangeva le altre sudicerie de’ suoi contemporanei, i Morganti, le Ancroje, gl’innamoramenti d’Orlando, i Buovi d’Antona, le Leandre, i Mambriani, l’Ariosto, i [203] quali contengono «cose lascive, disoneste, e indegne che non solamente monache o donzelle o vedove o maritate, ma ancora le donne pubbliche le si lascino veder per casa»; onde, scaltrita per proprio esempio «di quanto gran danno sia nei giovanili animi il ragionamento, e molto più la lezione delle cose lascive e brutte», scrisse il Guerrino detto Meschino, coll’intenzione «di dar lode a Dio solo, e colla persuasione d’aver procurato al mondo un libro da essergli gratissimo per ogni parte». Non si può encomiarla se non del retto volere. E per verità fa scandalo non meno che stupore l’inverecondia dominante nelle composizioni d’allora; nei canti carnascialeschi, che ripeteansi dalle mascherate; nei capitoli, ove troppi riscontri trova monsignor Della Casa; nelle satire, nelle novelle, nelle commedie.
Non erano ancora dimenticati i misteri del medioevo[137], anzi continuarono assai tardi. Nel 1585 capitarono a Roma alcuni, probabilmente finti, principi Giapponesi, mostrandosi nuovi e convertiti ammiratori della nostra religione. Tornando per Venezia, la repubblica volle dar loro lo spettacolo d’una delle magnifiche sue processioni, nella quale le grandi confraternite rappresentarono alcuni misteri. Quella di san Marco atteggiò il miracolo avvenuto nel 1242 quando (un pescatorello l’attestò al doge) una turba di demonj avventava la più sformata procella sopra la città, se san Marco, san Giorgio e san Nicolò non l’avessero sviata. La scuola della Misericordia rappresentò Venezia circondata dalle Virtù, e con vesti e gioje che costavano più di cinquecentomila ducati. La scuola della Carità figurò [204] la decollazione del Battista e i tre fanciulli nella fornace. La scuola di san Giovanni rappresentava gli Evangelisti, l’Abbondanza, le quattro Stagioni. Più ricca delle altre, quella di San Rocco era preceduta da quattro demonj, poi vedevansi su differenti palchi il peccato d’Adamo, il sacrifizio d’Abramo, vari atti di Mosè, una Samaritana che dal secchiello d’argento spruzzava i circostanti, e molti altri fatti dei due Testamenti; poi allegorie, poi il giudizio finale. Alla confraternita di San Teodoro precedeva uno che dall’inaffiatojo spargeva acqua rosata; poi il giudizio di Salomone, la Sibilla che ad Augusto addita il neonato bambino, Costantino battezzato, le beatitudini del paradiso, gli strazj dell’inferno; e non serve dire la quantità di preti, di confratelli, di angeli, di argenterie. Una processione consimile si fece nel 1598 in occasione della pace fra Enrico IV e Filippo II[138]. Anche Roma godeva di spettacoli più somiglianti ai misteri, che non ai drammi moderni, come la storia di Costantino rappresentata il carnevale del 1484 nel palazzo pontifizio.
Ma qui pure si vergeva al classico; e in qualche Corte, e massime a Ferrara, si recitavano componimenti antichi: Pomponio Leto espose davanti a Sisto IV commedie di Plauto e Terenzio, e nel 1486 in Ferrara i Menecmi tradotti. Non andava festa senza rappresentazioni drammatiche; e per dirne una, Lucrezia Borgia quando sposò il duca di Ferrara, vi giunse con tale accompagnamento, ch’erano quattrocentoventisei cavalli, ducentrentaquattro muli, settecentocinquantatre persone. Legga in Marin Sanuto chi vuole le particolarità di quell’entrata[139], splendida se altre mai, e i giuochi [205] di funambuli e le giostre e i balli: noi diremo come centodieci commedianti rappresentarono cinque commedie di Plauto, con intermezzo di moresche, ossia di danze pirriche e pantomime di fatti mitologici, con musica del Tromboncino. A Venezia l’11 febbrajo 1514 si rappresentò l’Asinaria di Plauto in terza rima[140].
In questa città al principio del secolo XV per le rappresentazioni si formarono molte Compagnie dette della calza, perchè la loro divisa consistea nel colore d’una delle brache. Ciascuna distinguevasi con nomi particolari, degli Accesi, dei Pavoni, dei Sempiterni, dei Cortesi, dei Floridi, degli Eterei, ecc., con priore, sindaco, secretano, notajo, cappellano, messaggio[141]. Gli statuti, approvati dai Dieci, venivano solennemente giurati; e imponevano fratellevole benevolenza, non contese, non propalare le decisioni, festeggiare alle nozze di ciascun compagno; sposandosi far donativi a questi; accompagnarne il mortorio, e portare il lutto. Prendeano a stipendio artisti valenti per dirigere le loro feste; e il Tiziano ebbe soldo dai Sempiterni; una ordinò al Palladio un teatro nel grand’atrio corintio del monastero della Carità, e a Federico Zuccaro dodici scene per rappresentare l’Antigone, tragedia del conte Dalmonte vicentino. Quel teatro era di legno e poco poi bruciò, ed esso Palladio, dall’accademia Olimpica invitato a costruirne uno stabile a Vicenza, lo modellò sugli [206] antichi, in una semiellissi poco favorevole all’acustica e meno alla visuale. Il palco offre in iscorcio sette vie, con palagi, tempj, archi in rilievo: ma, a tacerne lo stile moderno, essendo per necessità sproporzionati al vero, danno sgraziato vedere; e poco si tardò a conoscere inopportune decorazioni stabili, le quali non poteano valere se non ad un solo componimento. Il teatro di Sabbioneta fu da Vincenzo Scamozzi modellato più rigorosamente sull’antico, semicircolare, col palco visibile da tutti gli astanti. Ranuccio I Farnese nella Pilotta di Parma ne fondò un vasto, a disegno di Giambattista Aleotti, reso poi capace di quattordicimila spettatori, e dove potea condursi acqua per le naumachie. Dappoi si moltiplicarono; surrogaronsi palchetti alle scalee; e al tempo del Bibiena già teneano forma odierna.
In una rappresentazione alla Corte d’Urbino, descritta da Baldassarre Castiglioni, la scena fingeva una via remota tra le ultime case e il muro della città, dipinto sul dinanzi del palco, mentre la platea figurava la fossa. Sopra i gradini degli spettatori girava un cornicione rilevato, in cui lettere bianche su campo azzurro mostravano questo distico del Castiglioni, allusivo al duca Guidubaldo:
Bella foris, ludosque domi exercebat et ipse
Cæsar; magni etenim utraque cura animi.
Mazzi e festoni di fiori e d’erbe pendevano dal cielo della sala; attorno alla quale due ordini di candelabri, tanto majuscoli da portar ciascuno fin cento torcie, rappresentavano le lettere Deliciæ populi. Sulla scena era disegnata una bella città, parte in rilievo, con un tempio ottagono di stucco, lavorato a finissime storie, finestre finte d’alabastro, architravi e cornici d’oro e oltremare, e finte gemme e statue e colonne e bassorilievi, che in quattro mesi non le avrebbero finite quanti artisti nutriva Urbino. Musica emanante da luoghi nascosti ricreava una [207] commedia tutta di fanciulli, e la Calandra del Bibiena. Più si ammirarono gl’intermezzi, nel primo de’ quali Giasone, armato all’antica, uscì ballando, poi côlti due tori ignivomi, gli obbligava all’aratro; allora dai seminati denti del dragone rampollavano uomini armati a danzare una moresca, sinchè l’un l’altro si uccidevano. Nel secondo, Venere appariva sul carro tratto da due colombe, cavalcate da amorini; altri amorini coi simboli proprj carolavano, sinchè colle faci metteano fuoco ad una porta, donde uscivano nove coppie di amanti affocati a ballare. Nel terzo, atteggiarono Nettuno e otto mostri marini: nel quarto, Giunone coi pavoni e i venti. E un amorino spiegava l’intenzione degli intermedj con versi composti dal Castiglioni, che riducevanli a significazione unica e morale[142].
Passando Leone X per Firenze, il Rucellaj ne’ suoi famosi orti fece recitare la Rosmunda: poi nel palazzo de’ Medici si atteggiavano due commedie oscene, la Mandragora del Machiavelli e l’Assiuolo di Gianmaria Cecchi, disponendo nella sala due palchi per modo che, finito che fosse un atto dell’una, sull’altro cominciavasi un atto dell’altra, con questa alternativa ingannando la lunghissima durata[143].
[208]
Nè qui vogliamo dimenticare il famosissimo atto della Pinta, rappresentato in Santa Maria della Pinta a Palermo il 1562, l’anno appunto in cui nasceva Lope de Vega, a’ cui atti sacramentali tanto somiglia. Aveva composto il libretto Merlin Coccaj, compiutolo Gaspare Licco, musicatolo il Chiaula: rappresentava la creazione e l’incarnazione, e costava ogni volta dodicimila scudi; onde il vicerè Colonna ebbe ad esclamare: — È troppo per questa terra, poco pel paradiso».
La prima tragedia regolare e in versi sciolti fu la Sofonisba del Trissino, modellata sopra Sofocle[144], dove il coro non solo riempie gl’intervalli, ma rappresenta la parte morale. Nel carattere dell’eroina, non mai tentato da altri, abbastanza si commisurano la realtà coll’ideale; ma i colori sono pallidi e uniformi, la semplicità greca portata all’eccesso, misero l’intreccio, troppi gli sfoghi d’un dolore rimesso, soprattutto squallida la dicitura. La Rosmunda e l’Oreste del Rucellaj, l’Antigone di Luigi Alamanni, la Tullia del Martelli son pitocchi ricalchi degli antichi, sull’esempio de’ quali voleansi giustificare le prolisse narrazioni, il dialogo esanime, la triviale moralità de’ cori. Moltiplicaronsi poi quando invalse di recitarne all’entrata de’ principi; e forse la migliore di quel secolo, sebbene sconosciuta nè credo stampata, è l’Orazia dell’Aretino, primo esempio dei drammi storici ad azione ampia e spettacolosa, che formarono poi la gloria di Shakspeare.
Dalla pittura degli affetti si fe pronto passaggio a quella dei delitti; e nella Canace di Speron Speroni la protagonista compare sulla scena un istante prima del parto, consultando la nutrice sul come nasconderne il [209] frutto; entra a partorire due gemelli, che per ordine del padre son gettati ai cani[145]. Nella Selene di Cintio Giraldi ferrarese la regina e sua figlia per un atto intero tengono alla mano, dinanzi al senato egizio, due teschi, che credono del figlio e del marito: un incesto, un parricidio, un suicidio, e qualch’altre uccisioni secondarie empiono il suo Orbecche. Gli va di costa l’Arcipranda, posta fra le migliori del secolo; soggetto di atrocità romanzesca, con cadaveri strascinati, ed altri fatti a brani, e pur mescolata a pitture voluttuose; opera di Antonio Decio, amico e lodato dai migliori d’allora e da Torquato Tasso. Nella Semiramide Muzio Manfredi cesenate sceneggia sfacciatamente l’incesto. Frate Fuligni espone sul palco le torture inflitte dai Turchi al Bragadino; l’atteggiamento delle quali atrocità rivela l’abitudine di vederle nella vita, e la fomentava.
Noi primi avemmo dunque un teatro colto e regolare, ma nulla di nazionale e spontaneo, giacchè l’ammirare le produzioni antiche stoglieva dall’aprir nuove vie colla forza propria. Il modello trascelto era cattivo, cioè Seneca, atteggiatore ciarlero d’intrighi romanzeschi; Lodovico Dolce tornò verso Euripide, ma con una semplicità priva d’arte e d’interesse. La tragedia vuole il popolo; e il popolo restava sequestrato dalla letteratura come dalla politica: e veramente nella drammatica sentivasi viepiù il difetto endemico della letteratura d’allora, il mancarvi il popolo.
Chi più della commedia dovrebbe far ritratto del vivere presente? eppure la buttavano a imitare le poche latine, che sono imitazione delle greche. Di là traevano i caratteri, di là la tresca e gli accidenti, e quella inevitabile catastrofe de’ riconoscimenti: v’aggiungevano la [210] prurigine di nuove immoralità, quasi tutte versando sopra un intrigo salace, e l’oscenità mettendo sotto agli occhi o agli orecchi degli astanti. La mezzana è personaggio obbligato, come lo scroccone, la meretrice, lo scemo, il bargello; sempre l’avaro che ha nascosto il tesoro, dopo uscito ritorna indietro per assicurarsi di aver chiusa la porta; e amici che si accusano d’aver ciuffato l’uno all’altro la ganza; e fratelli somiglianti; e poverette che scopronsi figlie di gran signori; e amanti che vogliono introdursi entro casse, e invece sono sequestrati alla dogana; e vecchie che rimpiangono gli anni dov’era possibile peccare. Questi caratteri generici e perciò senza interesse nè verità, acconciavansi alla giornata coll’innestarvene altri parziali; ora il Senese, prototipo dell’imbecille, va a Roma per diventar cardinale, e dettogli che in prima bisogna farsi cortigiano, cerca lo stampo con cui i cortigiani si formano, siccome nella Cortigiana dell’Aretino; or si dipingono i vizj di Ferrara e se ne tempestano i magistrati, come ne’ Suppositi dell’Ariosto; or il sacristano di San Pietro o il guardiano di Ara Cœli spacciatori di miracoli; ora donnicciuole sgomentate dall’arrivo del Turco; ora Spagnuoli tagliacantoni fugano gli eserciti coll’ombra propria o col barbaglio dello scudo, eppure alla cantoniera abbandonano per paura il mantello o la cappa; ora l’Ebreo cacciato di Spagna viene a spacciare alchimie e truffare; più spesso vi son messi in iscena i frati o che vendono per cento scudi l’assoluzione al ladro, il quale esita fra la borsa, la coscienza e il buon senso; o che dicono alle Comari l’appunto dei giorni che un’anima deve stare in purgatorio, e quanto vuolsi a riscattarla. Comuni vi sono le maschere, caricature di se stessi e volontarie esagerazioni.
La prima tra le moderne, nostrali e forestiere, è la Calandra del cardinale Bibiena, comparsa a Venezia [211] il 1513[146], ricalcata sui Menecmi, sfavillante di festivi motti, di riboboli e d’impudicizia. Gli Straccioni del Caro, la Trinuzia e i Lucidi del Firenzuola, riscattano i comuni difetti colla coltura degli autori e col dialogo di impareggiabile leggiadria. Chi meglio dell’Ariosto, stupendo pittore di costumi nel poema, poteva riuscire insigne comico? ma sebbene i soggetti desunti da Plauto e Terenzio arricchisca di graziose particolarità e di stile facile e vivo, li disabbella colla lubricità frequente e col verso sdrucciolo. La Mandragora del Machiavelli mostra che avrebbe potuto formare un teatro nazionale chi avesse ardito togliersi dalle orme antiche.
Il Cecchi, come il Gelli calzajuolo, hanno vanto di naturalezza e atticismo. Il Parabosco, e meglio Ercole Bentivoglio, e Francesco d’Ambra, fra gl’intrighi che ne formano il fondo, lanciano care vivezze di stile. L’Aretino cede in gusto quanto vantaggia in arguzia. Il Lasca conosceva i difetti delle commedie «tutte nuove di panno vecchio, come la gamorra di monna Silvestra»; censura gl’intermezzi spettacolosi, i lunghi discorsi, gli a solo, gl’inverosimili riconoscimenti; vorrebbe la commedia «immagine di verità, esempio di costumi, specchio di vita»; osa ricordare che «Aristotele e Orazio videro i tempi loro; i nostri son d’altra maniera: abbiamo altri costumi, altra religione, altro modo di vivere, e però le commedie bisogna fare in altro modo. In Firenze non si vive come si viveva già in Atene e in Roma: non ci sono schiavi, non ci si usano figliuoli adottivi, non ci vengono a vendere le fanciulle; nè i soldati del dì d’oggi nei sacchi delle città e dei castelli pigliano più le bambine in fascia, e allevandole per loro figliuole fanno loro la dote; ma attendono a rubare [212] quanto più possono»[147]. Ma all’atto e’ non fa meglio degli altri, ricasca negli stessi intrecci; sebbene getti qualche sprazzo di costumi nostrali, massime mordendo le pinzocchere.
Angelo Beolco, detto il Ruzzante di Padova, imparò sì bene i modi de’ contadini, che pareva un di loro, e quando usciva mascherato, gli si faceva intorno folla per ridere delle sue lepidezze: combinò una compagnia di giovani padovani coi quali recitava; introdusse sulle scene varj dialetti, oltre il padovano; e attribuiscono a lui le maschere del Pantalone, dell’Arlecchino, del Dottore. Antonio Molin soprannominato il Burchiello, di Levante tornato alla patria Venezia verso il 1560, cominciò a fare commedie ove s’introduceano dialetti varj, il bergamasco, lo schiavone, il greco; e vi traeva tanta folla che le sale non bastavano a capirla[148]. Andrea Calmo veneziano, nato e cresciuto pescatore, rappresentava maravigliosamente il personaggio di Pantalone, e nel patrio dialetto dettava ghiribizzi in lettere, con sali che or ci sanno di scipito. Francesco Cherrea, fuggito dal sacco di Roma, introduceva allora stesso a Venezia la commedia a soggetto.
Giovan Giorgio Arione nel dialetto astigiano pubblicò dieci farse piene di laidezze e di frizzi contro i frati, per le quali fu lungamente prigione, poi scarcerato a patto che le correggesse. Si introdussero anche lingue forestiere, parlate a sproposito, e nell’Amor costante di Alessandro Piccolomini, rappresentato a Siena quando ne passò Carlo V il 1536, v’ha tedesco e spagnuolo, con napoletano e senese, oltre un boccaccevole. Inoltre si variavano i metri, s’intrammezzavano cantari e balli; la durata non misuravasi, nè il numero [213] de’ personaggi; insomma v’avea libertà. Presto poi le commedie a soggetto tolsero agli autori la fatica del comporre, e agli ascoltanti la possibilità del criticare. Però anche i comici improvvisatori posero arte e connessione nei loro piani; Flaminio Scala pel primo fece stampare le sue tessere di commedie, feconde e ingegnose; e secondato da attori vivaci e osceni, superò tutti i contemporanei. Fama europea acquistavano gli Arlecchini e i Pantaloni; e Mattia imperatore conferiva la nobiltà all’arlecchino Cecchino, prova che del successo di que’ componimenti gran parte era dovuta alla gesticolazione[149].
Appunto per ciò commedie che tanto divertivano recitate, or pajono esangui e grossolane; in tutte il ridicolo solletica i sensi, anzichè eccitare l’intelletto con que’ motti arguti che sono altrettanti giudizj. L’oscenità non vi è solo condimento, come in Aristofane, ma il fondo, raffinata, senza vergogna; nè sfoggiata solo da cortigiane, ma da figliuole e mogli. Quell’arbitraria giocosità di personaggi di convenzione troppo palesa il proposito di eccitare il riso; un riso tutto di sensi e di fantasia, non di ragione, non fondato su pittura evidente della vita, su opposizione di caratteri e di sentimenti: pare che evitino a studio le situazioni patetiche, condotte dal soggetto proprio; all’azione preferiscono il racconto; tolgono effetto alla satira collo sparpagliarla ed esagerarla; barcollanti fra la noja e la lascivia, non ti offrono una scena, una situazione, un carattere imitabile, o che diano traccia de’ costumi d’allora. Ci presentano uomini disoccupati, non un atto di cuore, un nobile tratto, una [214] parola che annunzi o desti un pensiero. I nostri cataloghi ne contano fino 6000, e nessuna buona, nessuna caratteristica. Eppure erano quel che l’Europa possede di meglio, largamente vi attinsero i maggiori comici forestieri, e più felicemente il Molière[150].
Ma il teatro nostro rimase troppo discosto e dalla originalità spagnuola, che, propostosi un fine, un sentimento, un fatto, lo svolge sotto tutti gli aspetti possibili, qualunque sia il mezzo adoperato; e dalla regolarità francese, che dà ragione d’ogni passo, arruffa la matassa pel solo piacere di ravviarla; e dalla grandezza inglese, che presenta l’uomo coll’intimità delle virtù e de’ vizj suoi.
Miglior vanto trae l’Italia dalla musica: questa espressione dell’ordine nel tempo emulò i trionfi della scultura e della pittura, espressioni dell’ordine nello spazio. Al par di esse fu educata nel tempio; ma il sentimento musicale era proprio anche del popolo, e [215] il popolo inventò le intonate, le ballate, le maggiolate, i canti carnascialeschi e altre melodie, delle quali non sarebbe facile indovinare la natura; giacchè quel che ce ne rimane è lavorato in contrappunto. In questo seguivansi le regole stesse della musica sacra, ma con maggior libertà, il che recò a miglioramenti che dalla sacra vennero poi adottati.
Nel 1274 il Marchetti di Padova, nel Lucidarium artis musicæ e nella Musica mensurabilis, pel primo parlò di diesis accidentale, del contrappunto cromatico, della preparazione e risoluzione degli accordi dissonanti, delle armoniche e del temperamento; col che diede lo sfratto agli errori più grossolani. Anche dopo Guido d’Arezzo restavano imperfettissime le note, segnando bensì i gradi dell’intonazione, ma non le differenze di durata; finchè da Giovanni Muris parigino, che notò diversamente le massime, lunghe, brevi, semibrevi, minime, può dirsi cominciasse l’armonia moderna. Anche la dissonanza s’introdusse, ma timidamente e quasi ritardo d’una consonanza: nelle armonie del XIV secolo si trovano accordi di quarta e quinta, terza e settima, e fin di terza e nona: sbocciò di poi il contrappunto doppio, che divenne armonia a quattro parti, dopo che gl’intervalli del contrappunto furono condensati in accordi.
Migliori andamenti pigliò la musica nel secolo XV. Franchino Gaffurio, lodigiano, maestro di cappella a Milano, procuratosi copie e traduzione dei trattati di musica antica, si perdè in ricerche sulla tonalità antica, che più non era in relazione coi bisogni del tempo: ma riportò fama colla Pratica musicæ in quattro libri[151], ove tratta dei principj e della costituzione dei toni nel canto fermo, con varie intonazioni giusta il rito ambrosiano; [216] poi del contrappunto, della proporzione delle note e dei tempi.
I Fiamminghi erano considerati maestri e chiamati anche in Italia, dove in singolar pregio aveansi i madrigali francesi. Di Spagnuoli principalmente fornivasi la cappella papale; e Bartolomeo Ramos Pereira di Salamanca, chiamato da Nicola V a professar musica nell’università di Bologna, mostrò l’insufficienza del sistema di Guido d’Arezzo, e propose un temperamento che, quantunque combattuto dal Gaffurio e da altri, venne adottato. Esso Gaffurio e i fiamminghi Bernardo Hycart, Giovanni Tintore, Guglielmo Guarnerio, chiamati da re Ferdinando, a Napoli fondarono un’accademia, donde uscirono i migliori maestri.
Il Gaffurio già adoprava la massima, la lunga, la breve, la semibreve, la minima; al principio del secolo XVI, si trovano la nera, la croma e la biscroma; Enrico Isacco, verso il 1475, notava a Firenze i canti carnascialeschi di otto, dodici e fin quindici voci. Il suono e il canto furono vera passione di quei tempi: per sentire Antonio degli Organi fiorentino organista venivasi fin d’Inghilterra e dal Settentrione[152]; Leonardo da Vinci fu chiamato alla Corte milanese per sonare: Benvenuto Cellini si gloria della sua abilità al liuto, quanto del bulino; principi e re vi si esercitavano.
Girolamo Mei trattò della musica antica e moderna e dei modi: ma molte opere d’antichi si ignoravano, altre mal interpretavansi. Giuseppe Zarlino da Chioggia, per le istituzioni e le dimostrazioni armoniche è considerato ristoratore della musica. Vincenzo Galilei, padre di Galileo, nel Fronimo ed altri dialoghi sulla musica, ha erudizione copiosa e buone riflessioni; ed essendone nata controversia fra don Nicolò da Vicenza e Vincenzo [217] Lusitania, tutti i dotti vi presero parte, e se ne disputò nella cappella papale. Il primo sosteneva, la musica greca non essere che una confusione dei nostri generi cromatico, diatonico ed enarmonico; l’altro, non comprendere che il diatonico, e riportò la palma.
I cori e intermezzi delle commedie e tragedie erano madrigali a più voci: la compagnia dei Rozzi a Siena ne inframmettea spesso alle sue rappresentazioni, cantati da un personaggio che chiamavano l’Orfeo: ai Filarmonici di Verona, istituiti da Alberto Lavezzola pel miglioramento della musica, era imposto a certi tempi d’uscire colla lira in mano divertendo la città.
Forse nell’Orfeo del Poliziano, che fu rappresentato in Mantova, i cori si cantavano, recitavasi il resto. Molti drammi pastorali gli vennero dietro, innovazione condannata dai puristi; e tali furono l’Aretusa d’Alberto Lollio, lo Sfortunato di Agostino Argenti con note di Alfonso della Viola, che forse fu il primo ad unire il canto alla declamazione[153].
Al Sagrifizio di Agostino Beccari, rappresentato a Ferrara il 1554 a spese degli studenti, assisteva Torquato Tasso, e dagli applausi dati all’autore incitato ad emularlo, compose l’Aminta, che poi fu esposta nel 73 e superò tutti. Ivi i fiori poetici sono profusi; e l’uniforme lindura, e quel parlare tutti con altrettanta forbitezza, perfino il satiro, tempera agli amatori del vero l’ammirazione, che nei cercatori del bello suscita quella lambiccatissima composizione.
Pensò emularlo Giambattista Guarini, il cui Pastor fido fu recitato a Torino nell’85. L’arte, suprema nella [218] drammatica, di tener in susta la curiosità e connettere le scene gli è ignota; in seimila versi stempera l’azione, ritardata da dialoghi lenti, da riflessioni vane, da luoghi comuni; pure il frequente calore, il tutt’insieme della favola (tratta dall’avventura di Coreso e Calliroe di Pausania), la padronanza dello stile, la pietosa dipintura dell’amore, il rendono pregevole. Ma porlo a petto dell’Aminta è ingiustizia, giacchè ai difetti medesimi, alla maggior raffinatezza nei pastori tramutati in personaggi di anticamera, alle arguzie più lambiccate, unisce l’evidente imitazione di Torquato, il quale a ragione diceva: — E’ non sarebbe giunto a tanto se non avesse veduto me».
Nel bisogno universale di scrivere e di cantare, uno stormo di poeti si applicò anche a questo genere; e al fine del Seicento già si numeravano dugento drammi pastorali.
Il canto era sempre serbato a solo alcuna parte lirica; ma avendo qualche erudito opinato che gli antichi cantassero i drammi, si volle imitarli. Il cavaliere Giovan Bardi de’ conti del Vernio, presso cui conveniva il meglio di Firenze, per le nozze di Ferdinando Medici con Cristina di Lorena nel 1589 fece rappresentare in sua casa il combattimento d’Apollo col serpente. Di poi con magnifico apparato don Grazia di Toledo, vicerè di Napoli, la pastorale del Tansillo; e così l’Aminta del Tasso con intermezzi del gesuita Marotta.
Ma nella pratica la musica restava ingombrata e bizzarra, disattenta delle parole a tal punto, che si cantò il primo capitolo di san Matteo con quei nomi sì poco armonici. Anzi lavoravasi un canto, poi vi si accomodava sotto la prosa. Vincenzo Galilei si oppose a tal guasto, e trovò un nuovo modo di melodie ad una voce sola, puntando l’Ugolino di Dante, poi i Treni di Geremia. Giulio Caccini, nella brigata del Bardi suddetto, [219] tolse a perfezionare quest’invenzione del Galilei, massime coll’applicare l’armonia a parole passionate. E poichè quelle dei classici mal s’addicevano alla musica, e i madrigali bilicavansi s’un pensiero arguto, poco opportuno alla passione, si chiesero strofe apposta, e don Angelo Grillo fece i Pietosi affetti, altre esso conte del Vernio. Essendosi questo mutato a Roma, l’adunanza si trasferì in casa di Jacopo Corsi; il quale, col Caccini e con Ottavio Rinuccini, pensò accomodare la musica alle parole, credendo avere scoperto il vero recitativo degli antichi. La Dafne del Rinuccini vi fu rappresentata con note di esso Caccini e di Jacopo Peri; e meglio riuscì l’Euridice, esposta in occasione che Enrico IV sposava Maria Medici, e puntata dal Corsi, dal Peri e dal Caccini[154]. Così Firenze, che sembra dal cielo privilegiata a tutte le iniziative, vide prima accoppiato nell’opera la scelta della favola, la squisitezza della poesia, l’espressione della musica, l’illusione delle scene.
Altri drammi furono poi rappresentati, massime l’Arianna del Rinuccini, con scene magnificamente preparate, e con musica del Monteverde, musica scarsa di note, poco variata, e che ben non distingue il tempo, ma di mirabile semplicità, e rispettosa ai diritti della [220] parola. Quantunque il recitativo del Peri e quello del romano Emilio del Cavaliere nella Rappresentazione di anima e di corpo, fossero poco meglio d’una declamazione notata, pure, veduta la necessità di porre sui versi un’accentuazione, e perfezionandosi la frase poetica, ne uscì la vera frase melodica, poi quella del periodo che ne è lo sviluppo.
Gli strumenti si erano perfezionati. Alcuno attribuisce ai Crociati l’aver portato il violino dall’India: ma in un bassorilievo della porta maggiore di San Michele a Pavia, che, se non longobardo, è di poco posteriore al Mille, una rozza figura suona questo stromento; in un manoscritto dell’VIII secolo trovasi pure uno stromento ad archetto, foggiato come un mandolino ad una corda sola. La rebeca era usata dai menestrelli. La viola portava sette corde, col manico a tasti divisi per semitoni come la ghitarra, e se n’aveano infinite varietà, viola di gamba, di braccio, di bordone con quarantaquattro corde, d’amore con dodici, di cui sei sopra un cavalletto alto, sei sovra uno basso sovrapposto. Generalissimo era il liuto, e sue varietà la pandora, la mandòla, il mandolino, con corde d’ottone e doppie, il colascione, il pantalone, il salterio, il timpano. Nicolò Vicentini inventò un archicembalo, Francesco Nigetti il cembalo onnicordo, Bernhard l’organo a pedali. Il clavicembalo fu poi perfezionato, nel secolo scorso, da Giovanni Sebestiano Bach in Germania, in Italia da Domenico Scarlatti, in Francia da Francesco Couperin; destinato poi, come la spinetta, a soccombere ai pianoforti, de’ quali il primo fu fabbricato da Silbermann, organista sassone. Eccellenti liuti fabbricavansi a Cremona, massime dagli Amati. Il violino alla francese divenne comune, e se ne valsero i compositori ne’ primi saggi drammatici. Il canonico Afranio dei conti d’Albonese in Lomellina, ch’era ai servigi del cardinale Ippolito d’Este, ci è dato [221] per l’inventore o perfezionatore del fagotto, che portò a ventidue voci[155].
Invece però di quell’unità che noi diciamo orchestra, gli stromenti ne costituivano diverse parziali, ciascuno riservato ad accompagnare un tal personaggio o un tal coro. Nell’Orfeo del Monteverde rappresentato il 1607, due gravicembali sonavano i ritornelli e gli accompagnamenti del prologo cantati dalla musica; dieci soprani di viola facevano i ritornelli al recitativo d’Euridice; Orfeo accompagnavano due contrabassi di viola; l’arpa doppia, un coro di ninfe; due violini francesi a quattro corde, la Speranza; due ghitarre, Caronte; due organi di legno, il coro degli spiriti infernali; con tre bassi di viola cantava Prosperina, con quattro tromboni Plutone, coll’organo di regale Apollo, il coro finale di pastori era sostenuto dallo zufolo, dai corni, dalla chiarina e da tre trombette a sordina.
I ritornelli, conosciuti importanti a preparar lo spirito degli uditori, vennero perfezionati ed allungati; indi si fece preceder l’opera da una sinfonia: talchè la musica, subordinata fin allora al canto e al ballo, giungeva a vita indipendente, facendosi puramente istromentale.
Si moltiplicarono le scuole musicali. In Napoli furono istituite quella di Santa Maria di Loreto nel 1537, della Pietà dei turchini e di Sant’Onofrio nell’83, de’ Poveri di Gesù Cristo nell’89: e in quella città si cominciò la musica popolare a più voci, consistente in melodie, dette arie, villotte, villanelle o simili: Denticio al 1554 descrive un concerto nel palazzo di Giovanna d’Aragona, dove le voci erano accompagnate da orchestra, e ciascuna cantava su diverso stromento. Dalla scuola veneta, fondata da Adriano Willaerst di Bruges, uscirono Giovanni Gabriel e Costanzo Porta, capo della Lombarda. [222] A Milano nel 1560 Giuseppe Caimo componeva madrigali; ballate Giacomo Castoldi da Caravaggio, e Giuseppe Biffi: e famoso organista vi fu Paolo Cima. Potremmo aggiungere il Festa, pieno di grazia, di ritmo, di facilità; il Corteccia, maestro di cappella di Cosmo granduca; altri ed altri.
Nell’opera si predilesse il meraviglioso, come quello che si presta a maggiori situazioni e a sfoggiate decorazioni, e rendea men deformi le inverosimiglianze. La prima buffa che si conosca è l’Amfiparnaso, musica e parole del modenese Orazio Vecchi, dedicata a don Alessandro d’Este il 1597; dove le maschere parlavano ciascuna il proprio dialetto, con musica bizzarra quanto il soggetto. San Filippo Neri introdusse gli oratorj, che tentavano ritornare alla musica di teatro quell’alito religioso, che avea rinnegato.
Aveasi dunque la letteratura in conto d’una distrazione o d’un’industria, nè tampoco sospettandovi la missione sociale che l’Alighieri le avea sì ben conosciuta. Verun alto scopo proponendo ai desiderj e alla volontà, e unicamente sollecita delle forme, non s’abbandonò all’ispirazione, non sentì bisogno d’originalità, nè un genere nuovo trovò, nè ebbe i lanci inconditi ma spontanei dell’età antecedente. Da principio gli studj si piantarono sull’antichità, ma per oltrepassarla; meditavansi Aristotele e Platone, ma ribattendone gli errori ed ampliandone gli intendimenti; i politici prendean [223] norme dagli antichi, ma serpeggiando pei labirinti della società più che quelli non avessero fatto; dai classici deducevansi le poetiche, ma scrivendo poemi che tutte le violavano. E da quel misto d’imitazione e di spontaneità si dedusse uno stile naturalmente puro e buono in tutte le scritture come in tutte le arti, quel sentimento dell’elegante sobrietà che sa scegliere e condensare le idee e le particolarità; in modo che i Cinquecentisti riescono classici quanto si può essere senza genio. Ma lo studio sugli antichi degenerò ben presto in contraffazione, lasciando infingardire l’intima attività degl’intelletti. Dato alla lingua nazionale correzione e dignità insolita, la tormentarono colle reminiscenze e colle forme accademiche; invece di maneggiare la favella del popolo con artifizio dottrinale, si produssero pensamenti triviali in istile dilavato, periodar vuoto, prolisso, rinvolte circonlocuzioni, frasi pedantesche, in quel purismo affettato che applica alla società moderna le idee dell’antica. Per l’abitudine contratta nel far i latini, i quali non potevano esser dettati se non dalla memoria, i versi sono centoni del Petrarca, del quale alcuno raggiunge la serenità, nessuno la creazione. Il Rucellaj lucida la Rosmunda sulle tragedie antiche, le Api su Virgilio; il Sannazaro, che ha sott’occhio il più bel golfo del mondo, canta l’Arcadia, o trasferisce gli Dei dell’Olimpo nella casta cella di Nazaret; la commedia ritesse gli orditi di Plauto, strascinandoli a costumanze moderne; come nelle belle arti il Palladio edificava un teatro alla greca, e il Vaticano era ridotto a palazzo delle Muse.
La politica, la teologia, le altre severe ispirazioni di Dante, le ampie sue allusioni, le macchine jeratiche più non si riscontrano: l’elevazione ideale che penetra nell’intelligenza divina, più non si cura: al soprannaturale del concetto si surroga il soprannaturale della fantasia: [224] ai concetti, impacciati in forme non loro, manca calore di sentimento, profondità di pensiero, potente concisione, accorta sagacia: la scienza si limita ad ammirare i sommi antichi, e per rispetto a loro sentenzia di barbari i tempi incolti ma robusti, in cui erasi mutato il nuovo incivilimento. Arguti a conoscere i difetti della società e svelarne le ridevolezze o l’infamia, accettano poi opinioni vanissime, errore da verità non discernendo o essendovi indifferenti; e l’imitazione toglie quel ch’è principal merito alle produzioni dell’intelletto, l’indipendenza d’un pensiero ingenuo, o il giro d’un’espressione originale. La letteratura di lusso mai non sorge a grandezza vera: trastullo, non culto; attenta a piacere ai dotti e alle Corti, per ciò abbandonasi a frivolezze e adulazioni, mette entusiasmo unicamente nel fare bei versi, a segno che Mariano Buonoscontro palermitano si divertì a comporre sonetti di bellissime parole e senza senso, e furono ammirati non solo, ma commentati; e singolarmente a una sua ode in morte del duca d’Urbino, in quattro libri si facea dire ciò che mai non avea sognato[156]. Ammirando la forma de’ migliori Cinquecentisti, deploriamo di dover porre studio in gente che separò il vero e il buono dal bello; deploriamo un progresso tutto a vantaggio dell’eloquenza, in tempo che di là dell’Alpi diventava acquisto di ragione.
L’amore dell’arte fa prosperar l’arte; e il popolo risorto ne’ Comuni, il popolo credente, l’avea risuscitata dalla barbarie, e spinta per sentieri nuovi ad una maniera, scorretta se volete, ma ardita e originale e consona ai nuovi bisogni. Allora sorsero magnifiche cattedrali in ciascuna città; allora Dante cantava. La cognizione e lo studio sopravvenuto degli antichi, avrebber potuto ripulire quelle forme conservando l’intima ispirazione; [225] nel che coraggiosamente vedemmo progredire gl’ingegni nel secolo precedente. La pratica dell’arte esige cultura intellettuale; nè l’artista può elevarsi all’ideale se non in una società ove sia delicato il sentimento, appurato il gusto; e per essere capace d’ammirarne le opere richiedonsi cognizioni proprie d’una civiltà avanzata. Quel prosperare delle arti indica dunque un’estesa cultura ne’ nostri compatrioti: ma artisti senza fede ne’ costumi, amatori eleganti, impudichi modelli, prelati spenderecci, principi che, avendo il sentimento del bello, mancavano del sentimento del buono, le trassero ben presto al decadimento.
Intaccata la grande unità cattolica, disperse le società massoniche e con esse i loro segreti, l’architettura si ravviò sulle più facili pratiche dell’antico. La pittura, educata dal cristianesimo e dalla libertà, s’era fatta educatrice del popolo, manifestazione di nobili affetti e soavi, scorretta ma spontanea, leccata ma limpida come derivante dalle miniature, calma senza artifizj di scorci, di sott’in su: or eccola ripudiare il medioevo a nome dell’antichità; e se in prima tentò rivestire il nuovo suo ideale co’ prestigi classici, ben presto i segni jeratici paragonava alla natura che imitano, piuttosto che alle verità che rappresentano; da liturgica che era quando la scelta dell’artista sottoponeva all’autorità del teologo, profanossi in una libertà che ben presto le tolse dignità ed efficacia; e dimenticata la sostanza per l’inviluppo, il gusto surrogò all’entusiasmo, posponendo la devozione al blandimento de’ sensi, non attendendo più a tradurre dogmi, ma a seguire la moda e le commissioni. Affinata nell’abilità tecnica, e divenuta mestiere, variò da paese a paese, da maestro a maestro, qui prediligendo il disegno, là il colorito, altrove la composizione o lo scorto, e sempre mirando a piacere, a imitar la natura e l’arte antica, a ottener l’illusione [226] quand’anche si sacrificassero all’evidenza e al movimento il decoro e la grazia, alla bellezza l’espressione; ben ritraendo muscoli, nervi e vene, e altri sfoggi di scienza; affollando persone in modo che si smarrisse il soggetto principale; toccando risolutamente; e intanto negligendo il concetto che vivifica, l’espressione che eleva il sentimento e ajuta la contemplazione.
L’artista non fu più pel popolo, ma dovè cercare compensi e protezione alle Corti, onde si fece piacentiero: e l’intento morale e l’espressione, anima delle belle arti, non possono che scapitare allorchè non obbediscano all’intimo sentimento, ma a commissioni. E in fatto le arti scaddero dall’importanza storica, perchè cessò l’opportunità di quei reggimenti tra cui erano rinate: allora, tornato il predominio della materia, e l’idolatria della forma, che si raffina a scapito dell’idea, come la moltiplicità de’ lavori detrae all’originalità; insozzate le fantasie, svanito l’affetto sublime e religioso, si fecero ministre a lascivie e adulazioni, e contribuirono a crescer le nostre vergogne e perpetuare l’avvilimento.
Non s’insisterà mai troppo sulla deficienza di moralità, mentre si ammira quello splendore delle lettere e dell’arti. Dal quale abbagliati, taluni lo attribuiscono alla protezione dei grandi. E certo onori ed eccitamenti mai non vennero così splendidi, così universali. Carlo VIII, Luigi XII, Francesco I, Caterina de’ Medici, invitavano i nostri ad accendere la fiaccola del bello in Francia, e Leonardo, il Primaticcio, il Cellini, Andrea del Sarto, una colonia d’artisti, vi lasciarono opere e scolari; Guido Guidi fiorentino era medico di Francesco I; Italiani dettavano dalle cattedre, e scienze nuove portavano nell’Università di Parigi, della quale l’Aleandro trevisano fu anche rettore, benchè gli statuti n’escludessero i forestieri. Publio Andrelini da Forlì, coronato poeta [227] latino a ventidue anni, di stile facile ma negletto e caldissimo disputatore, fu intitolato poeta del re e della regina (regius et reginus), e riccamente donato da Carlo VIII e dai successori suoi. Francesco Vimercate, illustre aristotelico, chiamato da Francesco, restò venti anni a Parigi, e fu il primo che professasse filologia greca e latina in quell’università; nella qual pure ebbe invito Angelo Canini d’Anghiari, lodato grammatico; mentre Jacopo Corbinelli e gli Strozzi innamoravano di quella lingua, in cui a Valchiusa era stata cantata la bella Avignonese. L’Alamanni ripagava con bei versi l’ottenutavi ospitalità, e felicitava la Senna di scorrere pacifica tra popoli concordi, mentre
Il mio bell’Arno, ah ciel! chi vide in terra
Per alcun tempo mai tant’ira accolta
Quant’or sovra di lui sì larga cade?
Il mio bell’Arno in sì dogliosa guerra
Piange soggetto e sol, poi che gli è tolta
L’antica gloria sua di libertade.
E a Paolo Emili veronese, chiamatovi da Luigi XII, la Francia deve la prima sua storia, che fu continuata da Daniele Zavarisi del paese stesso.
Giovanni Grolier di Lione, posto da Francesco I, nel 1515, gran tesoriere a Milano, benchè forestiero e in tal impiego, si fece amare, almeno dai letterati, coi quali mostravasi tanto munifico, che avendone un giorno molti a pranzo, donò a ciascuno un par di guanti, e si trovò ch’eran pieni di monete d’oro[157]. Pietro Tomai ravegnano, di portentosa memoria, sopra la quale scrisse egli stesso un’operetta latina (la Fenice, 1491), insegnò leggi per molte città fin quando Bugislao duca di Pomerania vedutolo a Venezia, il pregò a seguirlo a [228] Gripswald. Ivi egli insegnò, poi vecchio volle rimpatriare: ma il duca di Sassonia per via mandò pregandolo a venir a lui, e gli usò grandissime cortesie: cercato a gara dai principi di Germania, fu un trionfo il suo passare di città in città: poi ritrattosi ne’ Francescani, pare morisse il 1511.
Al naturalista Mattioli levavano un figlio al battesimo l’imperatore di Germania e i re di Francia e Spagna; ad Agostino Nifo papa Leone X concede il titolo di conte palatino e di portare il cognome e lo stemma de’ Medici; a Rafaello vuole il cardinal Bibiena dare sposa una nipote. Perfino il disdegnoso Carlo V consuma lunghe ore a Bologna nell’ammirare la bella e minutissima scrittura di Francesco Alunno, e massime il credo e il principio del vangelo di san Giovanni scritti sullo spazio d’un denaro[158]; festeggiò in ogni guisa il Castiglioni, lo naturalizzò spagnuolo, gli diede un vescovado, e morto l’onorò di splendide esequie, professando «aver perduto un de’ migliori cavalieri del mondo»; s’abbassa a raccorre il pennello caduto a Tiziano; al venire di Michelangelo si leva esclamando: — Imperatori ve n’ha di molti, ma pari a voi nessuno»; ai cortigiani che s’arricciano degli onori renduti al Guicciardini, risponde: — Con una parola io posso fare cento cavalieri, e con tutta la mia potenza non un pari a questo»; richiese Giannello della Torre cremonese raccomodasse a Pavia l’orologio fatto da Giovanni Dondi; e avendo quegli risposto non potersi più ripararlo, e fattone un nuovo, Carlo V sel menò in Ispagna, ove a [229] Toledo lavorò macchine ingegnosissime, sicchè fu detto l’Archimede di quel tempo; e lo volle seco nel ritiro di Just.
Carlo V, vincitore dell’Africa, sbarcando a Napoli, riceveva in pubblica udienza Laura Terracina poetessa, e dalle mani di lei la petizione perchè alla città fosse concesso il titolo di Fedelissima. Al domani poi recavasi alla casa di lei a Posilipo, e sulle treccie della giovinetta deponeva la corona di lauro tolta dal proprio capo, dicendo convenir essa del pari ai trionfanti e ai poeti. Poco poi dall’Inghilterra le giungeva l’ordine della Giarrettiera.
Il fiero Giulio II spaccia corrieri sopra corrieri per richiamare Michelangelo e scende seco a scuse d’avergli fatto fare anticamera: papi, principi se lo faceano seder accanto: profugo dalla patria a Venezia, invano si ritira alla Giudecca per cansar visite e cerimonie, chè subito la Signoria gli manda due gentiluomini a onorarlo e offrirgli ogni comodità, gli esibisce seicento scudi l’anno senza verun obbligo e sol pel piacere di possedere un tanto maestro delle tre arti[159]: Francia e il granturco lo domandano del pari: da Roma ne fu rapito il cadavere, perchè riposasse non nella basilica del cristianesimo, ma a Firenze nel sacrario degli uomini grandi.
Nel nome di Leon X si compendia quanto ha di segnalato l’amore delle lettere; impieghi, benefizj, dignità ecclesiastiche, denari suoi proprj metteva a disposizione dei dotti; usava per segretarj il Bembo e il Sadoleto, i più tersi scrittori latini; al Tibaldeo di Ferrara, venutovi dalla corte dei Gonzaga, diede trattamento e ricchezze e cinquecento zecchini per un epigramma; riconosciute felici disposizioni nel Flaminio giovinetto, sel [230] tenne accanto; stava attonito agli improvvisi del Marone; pagò cinquecento zecchini i primi cinque libri degli Annali di Tacito, venuti di Westfalia; e nel privilegio conceduto per istamparli, glorifica le lettere come il più bel dono che, dopo la vera religione, Iddio abbia fatto agli uomini, loro vanto nella fortuna, conforto nell’avversità; e al fine dell’opera promette ricompensa a chi gli porterà vecchi libri ancora inediti. Adopera Fausto Sabeo a cercarne, il quale percorse a piedi mezz’Europa, affrontando (canta egli) fame, sete, pioggia, soli, polvere onde liberar di schiavitù qualche antico scrittore. A Giovanni Heytmers diede incarico di rintracciar le Deche di Tito Livio pagandole a qualsifosse prezzo, e dicendo che «importante porzione dei doveri pontifizj è il favorire i progressi della classica letteratura». Concedeva privilegi alle edizioni più accurate, e ad Aldo Manuzio, colla riserva che non le vendesse troppo care: affidava la biblioteca Vaticana al Beroaldo: a Nicola Leoniceno scriveva chiedendogli licenza di fare qualcosa per lui, e gli offriva un’abbadia, una villa presso Roma, alloggio sull’Esquilino, ch’egli però pospose alla studiosa quiete: fissava a Roma Giovanni Lascari e Marco Musuro filologi famosi, il primo dei quali prepose a un collegio apposito per l’insegnamento del greco, con alquanti giovani condotti di Grecia e con stamperia: più di cento professori soldava nel ginnasio romano, che volle emulasse le migliori Università[160]; esortando [231] agli studj serj, non a quella filosofia mendace che si chiama platonismo, e a quella folle poesia che corrompe l’anima.
Quest’amore ereditato da’ suoi maggiori trasmise egli ai discendenti: il cardinale Ippolito a Bologna teneva trecento famigliari, la più parte letterati; e avendogli Clemente VII rimostrato ch’erano troppi per lui, rispose: — Non li tengo a corte perchè io abbia bisogno di loro, ma perchè essi l’hanno di me». Cosmo granduca scriveva di proprio pugno agli artisti, sollecitava Michelangelo a ritornare da Venezia, e che gli portasse del pesce sôla che gli piaceva. Francesco suo figlio, istrutto d’ogni letteratura, crebbe le Università di Pisa, Firenze, Siena e l’accademia Fiorentina, fondò quella Crusca e la stupenda galleria, aumentò la biblioteca Laurenziana, promosse la botanica, sostenne chiunque avesse valore, e a Gian Bologna scriveva: — Non potevano più che quel che hanno fatto soddisfarci le due figurine che ci avete mandate, non potendo essere altrimenti d’opera che esce dalla vostra mano»; e Ferdinando granduca allo stesso: — Desideriamo che, nella voglia di lavorare, vi ricordiate principalmente d’avere una buona cura alla vostra sanità, chè questa importa più di tutto»[161]. Esso Ferdinando comprò la Venere Medicea, cominciò la ducale cappella di San Lorenzo, pose la stamperia di caratteri orientali.
I principi considerano come un altro lusso di loro Corti il possedere i più celebri letterati: siffatti vedemmo i principi di Milano e di Napoli, sinchè non furono sbalzati dai forestieri; il duca di Mantova tenne lungamente [232] il broncio col Castiglioni perchè gli chiese di passare dalla sua alla Corte d’Urbino; il Tasso era disputato agli Estensi dai Medici; Alfonso I d’Este, benchè continuo in guerre, nè d’artista e letterato avesse che la pretensione, e lavorasse da mestierante in tornire e fare stoviglie, fabbricò dispendiosamente e rifiorì l’Università di Ferrara, dove Lucrezia Borgia, Lucrezia ed Anna d’Este, Isabella de’ Medici erano cortesi al bel sapere fin coll’amore; come Isabella d’Este marchesa di Mantova. Alfonso II teneva in corte Matteo Casella, Lodovico Cato, Jacopo Alvarotti giureconsulti rinomatissimi, il medico Nicolò Leoniceno, l’erudito Celio Calcagnini, e quel che fa per mille, l’Ariosto; e conferì a Girolamo Falletti piemontese il titolo di conte di Frignano e varj assegni, coll’obbligo feudale di dargli ogni anno due opere nuove di piacevol lettura, altrimenti pagherebbe il doppio delle sue rendite[162].
Pico della Mirandola diede i fondi ad Aldo Manuzio per istabilire la stamperia, e voleva assegnargli un podere affinchè Carpi divenisse il nido di quelle edizioni; ma le proprie sfortune gliel’impedirono. Il cardinale di Trento promette dar mantenimento per tutta la vita all’Anguillara s’e’ traduce l’Eneide; e gli regala tante braccia di velluto quanti ha terzetti un capitolo assai piaciutogli. Il valente condottiero Vespasiano Gonzaga, che fece rifabbricare Sabbioneta, con vie allineate e larghe, e bellezza di case, di tempj, di piazze, statue e fortificazioni, pose scuole, e ricercava letterati ed artisti. Era della casa stessa Scipione cardinale, che fondò a Padova l’accademia degli Eterei, amico del Guarini e [233] del Tasso; del quale scriveva fin le lettere e copiò tutto il poema, e volea comune con lui la camera, la tavola, il bicchiere. Udito Pier Vettori, uno dei più famosi retori del suo tempo, il cardinale Alessandro Farnese gli mandò un vaso pieno di monete d’oro; Francesco Maria duca d’Urbino una catena d’oro; una Giulio III nel riceverlo a Roma, e i titoli di conte e cavaliere. Esso duca d’Urbino, di mezzo alle armi, avea della sua Corte formato il ritrovo delle persone erudite e colte[163].
Gonzalvo di Còrdova e Pier Navarro a Napoli profusero segni di benevolenza al poeta latino Pietro Gravino. L’Alviano, nel respiro delle battaglie, radunava a Pordenone, borgata regalatagli dai Veneziani, il Fracastoro, il Cotta, il Navagero ed altri, che chiamava sua accademia, e che il ricreavano ed istruivano. Gian Giacomo Trivulzio, anche vecchio, traeva a udir professori. Alfonso d’Avalos si circondava di letterati; e Girolamo Muzio racconta che, viaggiando con esso da Vigevano a Mondovì il 1543, ragionarono continuo di poesia, ed esso compose per via sin venti sonetti e un’epistola di cento versi a rime libere. Sin l’infame Valentino, sin il turpe Alessandro Medici ambivano fama di bella educazione. E tutti a Michelangelo, al Puccini, al Bandinello, al Bronzino dirigeano lettere famigliarissime, discutendo i progetti, pregandoli di qualche lavoro; Francesco I di Francia scriveva di proprio pugno [234] a Michelangelo perchè gli mandasse alcuna sua opera; Filippo II scriveva al Tiziano: — Mi farete sommo piacere e servizio se vi occuperete di questo quadro colla maggior possibile sollecitudine».
Anche ricchi privati voleano mostrarsi protettori; e mentre i nobili transalpini si gloriavano della propria ignoranza, e firmavano con una croce, «non sapendo scrivere perchè baroni», i nostri abbellìvansi di arti e di lettere. Che non dovettero Rafaello al Chigi, Gian Bologna a Bernardo Vecchietti di Firenze, a Marco Mantova Benavides padovano, l’Ammanati ed altri? Angelo Collocci, nell’antica villa di Sallustio, raduna cippi, busti, statue, medaglie, tra cui i fasti consolari. Il conte Gambara di Brescia, padre della poetessa Veronica, proteggeva i letterati, e da Mario Nizzoli fece comporre le celebri Osservazioni su Cicerone, e stamparle nel suo feudo. Le case de’ Sauli a Genova, de’ Sanseverino a Milano erano aperte ai dotti. I tesori d’erudizione raccolti dal Pinelli divennero fondamento d’insigni biblioteche. Tommaso Giannotto Rangoni da Ravenna, scrittore d’opere mediche di lieve conto, d’un libro sul campare centovent’anni e d’altri astrologici, arricchito colla sua scienza, istituì a Padova un collegio per venti giovani ravegnani che andassero a quella Università, provvedendoli dell’occorrente, e ponendovi anche una biblioteca con molti libri, specialmente orientali, e strumenti e quadri e rarità opportune agli studj; riedificò la chiesa di San Giuliano in Venezia, restaurò quella di San Geminiano, ed ebbe monumenti onorifici, decorazioni, medaglie. In casa di Domenico Venier si adunavano a Venezia Bernardo Tasso, Triffone Gabriele, Girolamo da Molino, Gian Giorgio Trissino, Pietro Bembo, Bernardo Cappello, Daniele Barbaro, Domenico Morosini, Aluisi Priuli, Fortunio Spira, Bernardo Navagero, Speron Speroni ed altri.
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A questi esempj conformavasi la folla. I masnadieri assaltano l’Ariosto, ma appena sanno chi fosse, gli fan riverenza. Centinaja di sonetti venivano affissi alle statue, quando compite erano esposte in pubblico, giudicandole con isquisito sentimento del bello, e con una severità di gusto che i maestri rispettavano e la posterità approvò. Quando nei giardini di Tito fu dissepolto un gruppo, che il Sadoleto riconobbe pel Laocoonte descritto da Plinio, le campane di Roma sonarono tutte a letizia, e il marmo coronato di fiori traversò la città fra musiche e parati; i poeti lo cantarono a gara, mentre ascendeva al Campidoglio tra una solennità, memorabile nel paese delle solennità. Il Tartaglia facea bandire le sue scoperte matematiche a suon di trombe, e d’ogni parte riceveva problemi da sciogliere. A Vittore Fausto, che pretendeva avere scoperto la forma delle galere antiche, la repubblica veneta somministrava i mezzi di costruire una quinquereme, e ordinò una gara, nella quale Fausto vinse. Il Sansovino propose di trovare il modo di far cadere esattamente il mezzo della metopa sull’angolo del fregio dorico, e tutta Italia s’agitò intorno a questo problema, e non solo gli architetti, ma il cardinal Bembo, monsignor Tolomei ed altri. Romolo Amaseo udinese era disputato fra principi e università; e il cardinal Bembo a Padova, il governatore Gonzaga a Milano, il cardinale Wolsey in Inghilterra, Clemente VII a Roma, il richiedevano a gara a professare eloquenza. Bernardo Accolti d’Arezzo, detto l’Unico, usciva circondato di prelati e colle guardie svizzere, fu dichiarato duca di Nepi, e onorato d’illuminazione dove arrivasse; aveva a declamare suoi versi? chiudevansi le botteghe di Roma; avendo recitato un ternale in lode di Maria davanti al papa, gli uditori proruppero esclamando: — Viva lungamente il divino poeta, l’incomparabile Accolti»; apoteosi da ingannare la posterità, se per sciagura [236] que’ versi non fossero sopravvissuti[164]. Al Sannazaro, per l’epigramma in lode di Venezia, il senato regalò seicento zecchini: Giambattista Egnazio e Marco Antonio Sabellico furon fatti esenti di imposte essi e i loro beni, e pensionati: ad Antonio Campi, per avere disegnato Cremona, questa città concedette esenzione d’ogni gravezza personale e reale a lui ed a’ suoi figliuoli[165].
Se voltiamo il quadro, scema d’assai il merito di quei protettori. Leone X non pareva comprendere se non la bellezza dello stile; commette un lavoro a Leonardo, ma udendo che s’è messo a stillar vernici e piante, — Ah costui non farà mai nulla, perchè pensa al fine dell’opera prima d’averla cominciata»: forse Leonardo non conosceva le blandizie onde s’accattavano le commissioni, nè fu favorito dai Medici, i quali del resto, se blandivano i letterati, non onoravano la letteratura. L’Ariosto lamentava che, dopo essere disceso sin a baciarlo[166], il papa l’avesse poi lasciato nella miseria, tanto da non avere di che rinnovarsi un manto; e dal duca di Ferrara suo mecenate fu messo governatore nell’alpestre Garfagnana; dal cardinale Ippolito fu tenuto quindici anni in continuo moto per faccende di niun conto «da poeta mutandolo in cavallaro»; poi quando ebbe svilita la propria riputazione col levare a cielo una stirpe immeritevole, udì da costui domandarsi: — Messer [237] Lodovico, dove avete preso tante castronerie?» e perchè seco non volle andare in Ungheria, si vide congedato, e privo delle venticinque corone che gli retribuiva ogni quattro mesi[167]. Pietro Medici teneva Michelangelo a fare statue di neve, e si vantava d’aver alla Corte due portenti, Michelangelo e un corridore spagnuolo; Cosmo preferiva il Vasari al Tiziano; nè essi nè i loro successori osarono terminare le grandiose opere cominciate quando ancora non era spento l’alito della repubblicana libertà; neppure il monumento di Giulio II e la cappella funeraria. I rabbuffi del cardinale Farnese fecero morire consunto Onofrio Panvinio, come quelli del duca d’Este impazzire il Tasso. Le pensioni spesso erano decretate ma non pagate[168].
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Federico Badoaro nel 1557 istituiva l’accademia veneziana della Fama, con cento e più socj, che doveano leggere d’ogni scienza, ricevere notizie d’ogni parte, dotata di libri e di sostanze, rallegrata da conviti: repente la repubblica la chiude, volendo che sin il nome «sia del tutto casso, talchè sotto pena di bando perpétuo di tutte le terre e luoghi dello Stato nostro non possi più essere usato d’alcuno»[169]. Illustre era pure l’accademia dei Pellegrini, con cene e beneficenze al modo de’ Franchimuratori, e buona biblioteca, e fondi per pubblicare libri che si regalavano, e dare doti a zitelle; ed essa pure venne proibita nel 1557, quarantacinque anni dopo istituita, forse per ombra del segreto che vi dominava.
Invece dunque d’invidiarli perchè trovavano protezione, parmi a deplorare la condizione di quei letterati e artisti che non potevano attendersi la ricompensa disinteressata del favor popolare e la gloria spontanea. Poteva dirsi che pubblico non v’avesse, ma due sole classi di lettori, ecclesiastici e Corte; onde la funesta necessità di rassegnarsi ad essere protetti, e d’invocare non già tolleranza e perdono all’utile verità, ma sicurezza d’ozj a prezzo della dignità del carattere e del pudore dell’arte.
Sicuramente un artista non potrà mai fabbricare Santa Maria degli Angeli o la cupola di San Pietro, nè dipingere le stanze vaticane se non ne sia comandato; [239] e il genio che concepisce ha mestieri di allearsi colla ricchezza che fa eseguire: ma che questa basti a suscitare grandi uomini o a formare un’età, non dirò di genio, ma nè tampoco di buon gusto, è ciancia di cortigiani. I Medici trovarono già formati que’ grandi, ed ebbero il merito o la scaltrezza di valersene; ma quando le lettere, le arti e la poesia che è l’arte stessa, cioè il bello rivestito di forme sensibili, furono salariate dai principi, staccaronsi dai bisogni e dai sentimenti della nazione, perdettero in genio quanto acquistavano in forbitezza, divennero un ornamento aristocratico anzichè un’espressione nazionale; e posti fra il trivio donde uscivano e le Corti che li salariavano, i letterati non raggiunsero la raffinatezza di queste, e perdettero l’efficacia feconda e geniale della popolarità, e furono tenuti di qua dall’eccellenza, a cui soltanto può arrivarsi col felice accordo di tutte le facoltà dell’anima e dell’intelletto. E noi, ammirando l’esecuzione, deplorando l’intento, più volte ci compiacemmo di considerare quel che sarebbe riuscito l’Ariosto, se, invece degli inonorevoli dinasti di Ferrara, avesse preso per tema la nazione o la cristianità; se il Guicciardini non avesse dovuto scagionare se stesso de’ turpi servigi prestati alla tirannide; se Machiavelli non avesse scritto la storia per comando di Clemente VII, e il Principe per ottenere un impiego; se Michelangelo non fosse stato trabalzato dallo scalpello al pennello, al compasso, nè costretto a stizzirsi col marmo acciocchè sulle tombe de’ Medici esprimesse un’idealità, repugnante agli ordini e al merito dei committenti.
Fra i precetti dettati da molti, fra le censure rimbalzate in quelle rivalità clamorose e accannite, appare egli mai che si credesse l’arte obbligata ad alcuna cosa più elevata che l’arte stessa? Piacere; piacer alla Corte, ai letterati, era l’unico intento. Vedeasi lacerare il manto [240] della religione, e si credea rattopparlo facendo scrivere diatribe dal Muzio: si tassavano le sconvenienze insinuatesi nella liturgia, e Leone X faceva emendare gli inni e il breviario secondo le frasi di Cicerone e di Tibullo: periva la patria, e cantavasi; periva, e pochi animarono la storia con quei magnanimi dispetti, che rimangono come una protesta indelebile delle nazioni; periva, e nessun grande avea voce per intonare l’epicedio, il quale rimbombasse nei sepolcri, per risonare un giorno qual tromba della risurrezione.
Il primo soggetto che si presentasse coglievasi, purchè opportuno a sfoggiare bellezza ed arte. Almeno nell’età seguente il Tasso dibattè lungamente seco stesso qual eleggere al suo poema: l’Ariosto non vi fu indotto da altra ragione che di far la continuazione d’un altro. Chiedi al Vida e al Fracastoro perchè cantarono il baco e la sifilide; risponderanno, — Per mostrare che latinamente si possono dire cose non mai da Latini trattate». L’Alamanni: — Scrissi poemi, perchè que’ soggetti cavallereschi garbavano ad Enrico II». Bernardo Tasso compone cento canti prima di chiedersi se il suo Amadigi sia di Galles o di Gallia.
Di qui la nessuna dignità nella morale e negli argomenti, la nessuna cura di conservare alle composizioni quell’unità che degli scritti fa un’azione. Il Sannazaro, congratulato di sua pietà da Leone X e Clemente VII, volge a carmi lascivi la musa che avea cantato il parto della Vergine; monsignor Della Casa encomia quel Carlo V, cui aveva imprecato come a peste d’Italia; e l’encomiava l’Alamanni, il quale, mandatogli ambasciadore, e sentendosi da lui rinfacciare versi d’altro tenore, lanciati già tempo contro l’aquila grifagna e divoratrice, se ne scagionò col riflettere ch’è uffizio della poesia mentire. Machiavelli va ambasciatore al duca Valentino come ad un capitolo di frati; Leonardo [241] fa statue pel Moro, e archi trionfali pel vincitore del Moro; notando nel suo taccuino la caduta del primo, non riflette se non che «nessuna delle sue opere compì»; e dopo dipinta la Cena, va a fabbricar fortezze pel Valentino; Rafaello compunge collo Spasimo quanto seduce colle Psichi e le Galatee; Michelangelo fortifica la sua patria contro i tiranni, e immortala questi nel marmo; tutti pensano quel che Cellini dice: — Io servo a chi mi paga».
Tale bassezza trapela dalle lodi che l’un l’altro si rimbalzavano i letterati; e a tacer i tanti nuovi Virgilj e Ciceroni e Livj nuovi, il Varchi collocava il Girone Cortese di sopra del Furioso; lo Stigliani anteponeva i Tansillo al Petrarca; il sommo Ariosto consumava un mezzo canto ad eternare oscuri nomi di suoi contemporanei. Questo bisogno del lodare e d’essere lodato, questo circoscrivere l’approvazione in pochi veniva espresso dal moltiplicarsi delle accademie, dal secolo precedente resuscitate per imitazione dell’antichità nella Platonica di Lorenzo de’ Medici. Burlevoli spesso di nome, puerili d’occupazione, coi pasti, col vino infervoravano l’estro; vi si cantavano e recitavano versi ed orazioni e lezioni e dicerie; principi e vescovi sedeano ad ascoltare, a fianco de’ letterati; e talvolta in mezzo a questi gravi padri sorgeva il Caro a lodare il naso del presidente, «naso perfetto, naso principale, naso divino, naso che benedetto sia fra tutti i nasi, e benedetta sia quella mamma che vi fece così nasuto, e benedette tutte quelle cose che voi annasate»; ovvero il Berni vi lodava le anguille, i cardi, la peste; il Firenzuola la sete e le campane; il Casa la stizza e il martel d’amore; il Varchi le ova sode e il finocchio; il Molza l’insalata e i fichi; il Mauro la fava e le bugie; e chi la tosse, chi la terzana, chi la pelatina, chi qualcosa di peggio. Encomj divisi coi principi mecenati, e applauditi [242] da quegli Assonnati, Infecondi, Filoponi e che mi so io.
Taciamo la frivolezza, n’era pregiudicata l’originalità, atteso che tali corpi sogliono erigere monopolio del buon gusto, e giudicare secondo canoni prestabiliti; nè potendo sperarsi rinomanza senza il loro suffragio, forza era rassegnarsi a quelle norme arbitrarie, anzichè procedere per sentimento e per interna attività.
Unica aspirazione essendo lodi e denaro, si mendicavano e le une e l’altro. — Gli stolti ridono de’ cenci ond’ho coperto il corpo, e de’ sandali bucati che ho in piede; mi celiano che il mio abito perdette il lustro e il pelo, e la corda traditrice mostra i grossolani fili, ultimi resti della pecora tosata sul vivo; ridono, e non m’hanno in verun conto, e dicono che i miei versi non vi piaciono più. Mandatemi dunque una delle vostre vesti migliori». Così il Poliziano al Magnifico Lorenzo; e questo affrettavasi di spedirgliene una, ed esso tal quale se la indossava, e il popolo riconosceva ch’era della guardaroba del principe, e ne inferiva che i versi del poeta n’erano ben degni. Il poeta, nella necessità di ringraziare, invocava l’assistenza di Calliope, la quale scendea dall’Olimpo, ma non riconosceva il suo prediletto dacchè era sì riccamente in arnese, e risaliva al cielo; sicchè il Poliziano batteasi invano la testa, chè i versi riconoscenti non sapeano venire.
Non vi fecero pietà le condiscendenze cui Bernardo Tasso si credette obbligato onde buscar protezione e pane da quell’imperatore, che gli avea tolto ogni bene perchè serbò fede al padron suo? Luigi XII, andato ad ascoltare le lezioni di Giason Del Màino a Pavia, l’interroga perchè non pigli moglie; — Perchè Giulio papa sappia, per testimonio di vostra maestà, che io non sono indegno del cappello di cardinale». Bisognando il Guicciardini d’un poco di dote per le sue figliuole, il [243] Machiavelli l’incoraggia a richiederne Leon X, gli annovera esempj della costui liberalità, gl’insegna come formare la lettera accattona, e «tutto consiste in domandare audacemente, e mostrare mala contentezza non ottenendo». I dispacci del Machiavelli nelle sue missioni chiudonsi sempre col domandare quattrini, e in quella chiave cantano tutti gli altri ambasciatori.
Andrea dell’Anguillara da Sutri (1517-70), conosciuto da tutti per la gran gobba; l’abito tacconato e la ciera ridente, vendeva le sue ottave mezzo scudo l’una, e perciò ne fece tante; e non ricevendo compenso d’una sua canzone al duca Cosmo, ne mosse arroganti querele: — Lo stare sei mesi senza rispondermi è tale disprezzo verso la persona mia, che non ha punto del duca, chè non credo che dei pari miei ne trovi le migliaja per le siepi della Toscana, come delle more selvatiche. Ed io sarei tentato di far sentire le mie querele con una satira in versi; ma ho dovuto scrivere in prosa, perchè mi ricordo che un Fiorentino mi disse una volta in Francia ad un certo proposito, che se le lettere di cambio fossero in versi, non se ne pagherebbe niuna; ed io desidero che mi sia pagata la presente, almeno d’una risposta, sia quale si voglia»[170]. Traduceva i primi due libri [244] dell’Eneide, e prometteva che Enea nell’Eliseo troverebbe tutti coloro che nel regalerebbero, all’inferno i differenti; e inviandone copia al cardinale Farnese, gli scriveva: — È necessario, acciò ch’io il possa finire, che ella mi mandi quell’ajuto, che si richiede alla sua grandezza e magnanimità ed al mio amore e bisogno. Io ne mando per questo effetto a tutti i principi d’Italia, perchè tutti concorrano ad ajutarmi. E piaccia a Dio che non mi bisogni mandare e lei e gli altri tutti a casa del diavolo, e che Enea non abbia troppo da fare nell’inferno a parlare con tante anime dannate, quante io son per mandarvene se non fanno il debito loro». Con tutto ciò morì povero, del morbo allora divulgantesi.
Novidio Fracchi, poeta latino, dedicò a Paolo IV un poema Sacrorum fastorum, cui precede una stampa, figurante il papa in trono fra l’imperatore di Germania e il re di Francia, e l’autore in ginocchi offre loro il suo poema; ai piedi è scritto: Hos ego do vobis, vos mihi quid dabitis?
Paolo Giovio, venale dispensiero di gloria e di strapazzi, diceva tener due penne, una d’argento, una d’oro per proporzionare la lode ai regali; e, — Io ho già temperata la penna d’oro col finissimo inchiostro... Io mi costituisco obbligato a consumare un fiaschetto di finissimo inchiostro con una penna d’oro per celebrar [245] le opere di vostra santità... Io starei fresco se gli amici e padroni mei non mi dovessero esser obbligati quando gli faccia valere la sua lira un terzo più che ai poco buoni e mal costumati. Ben sapete che, con questo santo privilegio, ne ho vestito alcuni di broccato riccio, e al rovescio alcuni, per loro meriti, di brutto canevaccio, e zara a chi tocca; e se essi avranno saette da bersagliare, noi giocheremo d’artiglieria grossa. So ben io ch’essi morranno, e noi camperemo dopo la morte, ultima delle controversie»[171].
Fa stomaco l’insistenza con cui egli cerca or una pelliccia, ora un cavallo, ora confetti; a Luca Contile chiede «pomi cotogni e pesche confette, che ne son provenute da Napoli alla signora principessa un diluvio»; a Isabella di Mantova settanta risme di carta per istampare le sue opere[172]; a monsignor Farnese scrive: — Io comincio a lucubrare, e farò cosa ad onore di vossignoria che i posteri la leggeranno, e basta. Ma vossignoria si disponga a fare che Alessandro mio nipote sia vescovo di Nocera»; al marchese del Vasto, che gli fece intendere voler venire al suo Museo, villa a Como, dove avea raccolte belle rarità e i ritratti degl’illustri [246] contemporanei: — L’aspetto con desiderio grandissimo, e so che non uscirà dell’uso suo magnanimo e liberale, ricordandomi, quando ella per suo diporto va alle Grazie, ovvero a San Vittore, dove, benchè sia perpetua la grassezza e l’abbondanza, andando per quattro giorni vi porta provvisioni per un mese. Che spererò io se quella viene al Museo fra tanti uomini immortali che se ben non mangiano, allettano però infiniti mangiatori? Voglio che Pitigiano sappia che le botti del suo magazzino favorito fanno querciola, e suonano il tamburo. Farebbe anco bel vedere se vostra eccellenza accompagnasse il fornimento che vi lasciò, con un altro bello e simile». E s’impazienta se i doni tardano o vengono scarsi alla sua avidità; e chiama perduti i lavori cui mancò quella mercede, che unica l’avea mosso. Principi e ricchi gliene profondevano a gara; e tanto si temea l’azione di siffatti scribacchianti sull’opinione, che perfino Adriano VI pregava il Giovio a dir bene di lui; il quale lo compiacque nella Storia, salvo a vituperarlo nel trattato dei Pesci quando più non avea nulla a sperarne o temerne. E Carlo V, che chiamava lo Sleidan e il Giovio i suoi due bugiardi, uno dicendone troppo male, troppo bene l’altro, pure, sapendo che uno scrittore, per quanto poco coscienzioso, è letto purchè mostri talento, accarezzava il Giovio e donava, poi facealo confutare da Guglielmo Van Male, massime a proposito della spedizione di Tunisi.
Come gli odj dall’amore, così i vituperj germogliano dalle lodi: quindi le risse schiamazzanti di quel tempo. — I letterati (scrive Girolamo Negro) sono in guerra; Pietro Cursio combatte con Erasmo sopra il vocabolo bellax, se pigliarlo in cattiva parte per cosa precipua alla guerra, o vero s’egli è verbum merum; ogni dì vengono fuori libri nuovi ed invettive sopra questa cosa; sono alcuni che in nome d’Erasmo rispondono [247] a questo Cursio, e costui va in collera». Da polverosi scaffali abbiamo dissotterrato due invettive contro Giovanni Parrasio cosentino, famoso maestro di retorica in Milano, una intitolata contra Janum Parrhasium asinum archadicum, e l’altra in Janum Parrhasium scarabeum fœdissimum et vespam aculeatam. I Medici pigliavano spasso d’udire i sonetti che si avventavano Luigi Pulci e Matteo Franco. Girolamo Ruscelli s’accapiglia con Lodovico Dolce, due pedanti a una, i quali non acquistano calore che per l’ingiuria. A proposito del libro De nominibus Romanorum, Francesco Robortello da Udine cominciò invelenato litigio con Carlo Sigonio, e se non bastarono le ingiurie latinamente prodigatesi, il primo pubblicò un cartello di sfida contro l’altro, cioè cedole dove proponeva un nuovo metodo d’insegnare il latino; il Sigonio ne oppose un altro, il Robortello replicò, il Sigonio diè fuori una filippica potentissima, sinchè l’autorità v’impose silenzio. Giraldi Cintio entrò in baruffa col Pigna; Paolo Manuzio col Lambino perchè volea stampare consumtus senza il p; e avendogli l’emulo portato un marmo ove leggevasi consumptus, gliel’avventò alla testa. Il Varchi litiga col Lasca e col Pazzi, che lo invita a mandargli i suoi manoscritti per farne impannate, sicchè vedano la luce almeno per un inverno, poi egli tocca pugnalate da signori che pretendeansi maltrattati nella sua Storia, ed egli stesso assale con un coltello Alfonso de’ Pazzi che lo satirizzava; ma questo gli disse: — Rimettete l’arma a suo luogo, ch’io non pretendo vincervi per assalto ma per assedio».
Pietro Angeli, detto Bargeo, per versi mordaci è costretto fuggir di Bologna, poi uccide in duello un Francese; Anton Francesco Raineri poeta milanese è morto da un suo amico; Diomede Borghesi da Siena per risse dovette fuoruscire; Dionigi Atanagi usurpa una traduzione [248] a Mercurio Concorezio, che lo assalta e ferisce; il celebre grecista Prividelli reggiano, professore a Bologna, scelto da Enrico VIII a patrocinar la causa del suo divorzio, fu ucciso da uno di cui avea difeso l’accusato; Michelangelo portò in perpetuo l’impronta del pugno avuto da Pier Torrigiano; Tiziano dipingeva spesso col corazzino; Pietro Facini insidia alla vita d’Annibale Caracci; Lazzaro Calvi avvelena Giacomo Baregone; credesi che così finisse il Domenichino. Girolamo Parabosco sonatore, nell’insegnar musica alla Maddalena famosa cortigiana di Venezia, cerca cattivarsene l’amore, ma i vagheggini di essa, un giorno ch’e’ batteva alla porta, gli buttarono sul capo acqua calda e brage, onde restò segnato tutta la vita. Giambattista Sanga poeta s’innamorò d’una giovane; e la madre di lui, non potendo distornelo altrimenti, stabilì avvelenarla; fintasele amica, le imbandì un’insalata, della quale sopraggiungendo mangiarono pure il Sanga e Aulerio Vergerio segretarj di Paolo III, e tutti morirono (Ziliolo).
Scorrete la vita di que’ letterati, e a nessuno mancano vicende: alcuni primeggiano per isfolgorata ciarlataneria. Giulio Bordone, soprannomato della Scala dall’insegna della paterna bottega, fattosi nome nelle lettere e nella medicina, passava in Francia, e intitolavasi Giulio Cesare Scaligero (pag. 122); e non che asserirsi discendente dai signori di Verona, spacciava un’infinità di imprese guerresche compite da suo padre e da lui; e il mondo credeva; e mentre è scrittor mediocrissimo, il Tuano lo chiama hujus seculi ingens miraculum, e vir quo superiorem antiquitas vix habuit, parem certe hæc ætas non videt[173]; e Giusto Lipsio lo pone quarto con Omero, Ippocrate e Aristotele.
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Gian Francesco Conti, scolaro poi emulo di Giovan Britannico bresciano, prese il nome di Quinzano o dal villaggio dove umilmente nacque presso Brescia, o da quell’amico cui Marziale faceva correggere i proprj versi; e vi aggiunse quello di Stoa, perchè i suoi condiscepoli lo dicevano portico delle Muse. Risoluto d’entrare in grazia ai grandi, quando Luigi XII vinse ad Agnadello, celebrò questa vittoria, e ne chiese in compenso la corona poetica, che il re gli decretò: mandò odi al cardinale d’Amboise, e ne fu chiamato a professare a Parigi e ad educare Francesco I: da questo è messo professore a Pavia, ma cadute le fortune francesi, si ritira in patria. Molti lo levano alle stelle, altri gli trova trecento sbagli di grammatica, o l’accusa d’aver usurpato fatiche altrui. Bisogna sentirlo deplorare l’insufficienza degli onori concessigli! — Molte opere pubblicai; molte più ancora ne pubblicherò. Non si stamparono più di seimila versi miei? non fui visto comporne mille ottocento in un sol giorno? quante tragedie, commedie e satire, concepite nella mia testa, fan ressa per isbucarne? Enumererò gli epigrammi, i monostici, i distici, i miei dubbj su Valerio Massimo, le mie opere sulle donne, i miei panegirici, le orazioni pubbliche, le favole, le epistole, le odi, la mia vita di re Luigi XII, i miei libri sui miracoli dei pagani, i miei endecasillabi, le mie selve, la mia Eraclea (la guerra veneta), il mio Orfeo, e seicento altri? Non fui dall’invitto re di Francia decorato della corona d’alloro? è poco onore per me che codesta laurea poetica, che pochi altri ottennero in vecchiaja, siami stata concessa quando appena compivo la quinta olimpiade»[174].
A Leone X fu presentato un fanciullo di sei anni come un portento; ed era Gabriele Simeoni fiorentino, [250] che poi invece di studj mostrò presunzione, e insaziabile avidità di doni e mecenati. In Francia sollucherò la duchessa d’Etampes, ganza di Francesco I, onde ottenne fin la pensione di mille scudi[175]; a Firenze, a Roma impieghi, che poi riperdeva. Reduce in Francia, carezzò la duchessa di Valentinois: poi servì al principe di Melfi, accompagnò il vescovo di Clermont al concilio di Trento, ma cadde in sospetto dell’Inquisizione, che il tenne in ferri un anno: militò col Caracciolo nella guerra di Piemonte, col duca di Guisa in quella di Napoli; singolarmente egli sperava da don Ferrante Gonzaga, allora vicerè di Sicilia, e più volte tornò a ricordargli che Achille ed Augusto non sarebbero in sì alta fama se non si fosser mostrati generosi con Omero e Virgilio. Saputo che Pierluigi Farnese avea regalato cencinquanta scudi all’Aretino, e’ gli scrisse «sperando che la sua liberalità e favore abbia a condurre così lunga, rara, onorevole e faticosa impresa, quale è il mettere tutta l’astrologia giudiziaria in versi sciolti a felice fine, e consegnarla al nome suo»: ma il Farnese non accettò. Emanuele Filiberto di Savoja bensì accettò la dedica delle Imprese, e gli die’ ricovero a Torino, ove morì il 1570. Fa di se stesso gli elogi più sguajati; quando trovasse monumenti antichi, vi scolpiva il proprio nome; lagnavasi che sì pochi fossero «inclinati a giovare ad un uomo virtuoso, il quale in un momento poteva rendere immortale il suo benefattore»; e paragonandosi a Dante, sulla tomba di questo cantava:
E facciam fede al secolo futuro
Tu qui coll’ossa, io con la vita altrove,
Ch’uom di virtù, poco alla patria è grato.
La sua Tetrarchia di Vinegia, Milano, Mantova, Ferrara è un aborto di storia. Nella prefazione alle [251] Satire alla bernesca sostiene esser questo genere il solo ove possa mostrarsi ingegno, perocchè «mille si trovano poeti capaci di cantare i gesti d’un eroe, ma pochi assai capaci di celebrare le oneste qualità di una fara, d’un forno, d’un’anguilla»; e ne mandava copie manoscritte ai principi in essa lodati. In un’altr’opera figurata rappresenta enigmaticamente i varj Stati d’Italia, esortando Enrico II a conquistarla, derivando i re francesi da Franco figlio d’Ettore, mentre i Romani, discesi da Enea, non erano che un ramo cadetto. Altrettanto presuntuose e ignoranti sono le tante altre sue opere, illustrate anche di belle stampe; alcune in francese; sempre rifriggendo le poche sue cognizioni, promettendo opere grandiose che mai non cominciò.
Come Raimondo Lullo aveva inventato un’arte di ragionare, così altri volle inventare una meccanica di scriver bene. Camillo Delmino da Portogruaro, autore di varie opere retoriche, diceva a chi nol volesse ascoltare, di aver l’idea d’un teatro, nel quale entrerebbero tutti gli oggetti sensibili, tutti i concetti umani, e quanto spetta alle scienze, all’eloquenza, all’arti belle e meccaniche. Dal conte Giulio Rangone suo protettore menato in Francia, spiegò il suo divisamento a Francesco I e ad altri principali, e n’ebbe in dono seicento scudi, ma non effettuò mai la sua idea; bensì voleva stamparla e dedicarla al re purchè gli assegnasse duemila scudi di pensione, e Francesco non stimò d’esaudirlo. Tornato in patria, il Muzio suo ammiratore lo presentò ad Alfonso d’Avalos; e questi per cinque mattine di seguito lo ascoltò esporre la generalità e i particolari di cotesto teatro, ch’era omai la favola del mondo, e ne prese tal meraviglia, che gli assegnò quattrocento scudi di rendita, oltre cinquecento pel viaggio; e volle che al Muzio dettasse l’idea. Dormivano il Muzio e Camillo nella stessa camera, e ogni mattina quegli scriveva sotto [252] dettatura, e così nacque il libro stampato col titolo di Idea del teatro. Osceni eccessi trassero al sepolcro il Delmino di sessantacinque anni, e fu sepolto nelle Grazie a Milano: il nome di lui visse alcun tempo, le opere sue furono ristampate, e il Muzio ci descrive l’estro che sfavillava dal volto di esso quando parlava, simile a quel della sibilla sul tripode; ma chi cercasse quell’opera sua, nel poco che potrebbe intendere troverebbe le vanità d’un ciarlatano e una miscea di cabala, d’astrologia, di mitologia, di tutto insomma, eccetto quello che il titolo promette.
Giacomo Critonio (Crichton) nato altamente in Iscozia, e detto l’Ammirabile, a vent’anni sapea quanto conosceasi del suo tempo, sonava molti stromenti, parlava venti lingue, primeggiava negli esercizj cavallereschi. Di tali sue abilità volle dar mostra all’Europa, e dopo Parigi venne a Roma, affiggendo una cedola dove sfidava chiunque fosse versato in una qualunque scienza a disputar seco in qualsifosse lingua; e intanto si diede alla caccia, ai giuochi, alla cavallerizza, alla scherma. Pasquino lo canzonò dunque come un ciarlatano, ond’egli se n’andò a Venezia, ove divenne amico di Aldo Manuzio e d’altri eruditi; davanti al doge e ai pregadi orò con tanta eloquenza, da colmar tutti d’ammirazione, e la gente affollavasi a vederlo e udirlo. Passato a Padova, vi recitò le lodi di questa città; sei ore disputò coi più valenti professori sopra ogni varietà d’argomenti, confutò gli errori aristotelici, poi finì con uno stupendo elogio dell’ignoranza. Di gloria onusto, capitò a Mantova mentre il duca trovavasi dolente di aver concesso la sua protezione a uno spadaccino rinomato che già aveva ucciso tre persone: e Critonio si esibì di combatterlo, e di fatti lo trafisse a morte. Il duca pertanto, oltre mille cinquecento pistole già promessegli, il chiese maestro di suo figlio Vincenzo [253] Gonzaga. Ma ecco una sera del 1583 è assalito da dodici persone mascherate; esso tien testa a tutti, finchè il loro capo, ridotto alle strette, scopre esser il principe suo allievo. Critonio se gli butta a’ piedi domandandogli scusa, ma quegli stizzito o ubriaco il passa fuor fuori. Tali e molte più avventure furono certo esagerate; ma di lui abbiamo varj componimenti di bella latinità, e di lodi altissime l’onora Paolo Manuzio.
Altro ingegno bizzarro, Ortensio Landi milanese (1500-60), porge di se medesimo la più trista pittura ne’ Cataloghi e nella Confutazione dei Paradossi: contraffatto, di volto tisicuccio e macilento, sordo, benchè sia più ricco d’orecchie che un asino; mezzo losco, piccolo di statura, labbra d’etiope, naso schiacciato, mani storte, color di cenere, favella e accento lombardo, quantunque molto s’affaticasse di parer toscano; pazzarone, superbo, impaziente ne’ desiderj, collerico sin alla frenesia, e composto, non come gli altri uomini di quattro elementi, ma d’ira, di sdegno, di collera e d’alterizia. Le opere sue lo scoprono temerario, arguto, vigoroso; batte tutte le verità, non con serrato argomentare, ma con scettica burla; sputacchia gl’idoli del suo tempo; dice il contrario di quel che pensa la comune e che forse pensa egli stesso, e maschera di pazzia la libertà. Il Boccaccio è la bibbia dei pedanti? ed esso lo conculca come imbecille, incolto, ruffianesco, spregevolissimo, e amar meglio il parlar milanese e bergamasco che il boccaccevole. Bestemmia quell’animalaccio d’Aristotele, lodando Lutero che se n’emancipò. Muore Erasmo, e tutti l’elevano al cielo come si fa sulle tombe recenti: ed esso lo mette in canzone. Se la piglia coi Toscani per fatto della lingua; encomia l’infedeltà conjugale, il libertinaggio e i pregiudizj. Eppure non gli mancano nobili aspirazioni; nel Commento delle cose più notabili e mostruose d’Italia mena una specie di [254] viaggio burlesco traverso al bel paese, mostrandone il decadimento; contro i vizj che lo producono s’irrita fin all’invettiva; e torna ogni tratto, e principalmente nel libro De persecutione Barbarorum, a scagliarsi contro i principi e prelati, solleciti a nodrir buffoni, più che uomini dotti. Fastidito de’ costumi italiani, e desideroso «d’una patria libera, ben accostumata e del tutto aliena dall’ambizione», andò in Isvizzera e fra’ Grigioni: ma se quivi sulle prime «fu allettato da un soavissimo odore d’una certa equalità troppo dolce e troppo amabile», ben presto vi scôrse «tanta ambizione e tanto fumo, che fu per accecarne».
Che importa qualche goccia di senno in un mar di follie, d’immoralità, d’empietà? Egli medesimo disdiceasi, contraddicevasi, e sempre con pari sicurezza; i suoi Paradossi confutò egli stesso coll’accannimento d’un nemico; nella Sferza degli antichi e moderni scrittori mena a strapazzo non solo gli autori, ma le scienze stesse; eppure finisce coll’esortare i giovani allo studio. Conosceva ben addentro gli autori antichi, e, come dice Giannangelo Odoni, volea Cicerone e Cristo; ma quello nei libri non avea; se questo avesse in cuore, Dio lo sa[176].
Insomma costoro personificano la parte rivoluzionaria della letteratura, in lizza colla madrigalesca e accademica, però in nome soltanto del materialismo, con fantasie sbrigliate, invocando il privilegio della pazzia[177], drappeggiandosi nella propria abjettezza [255] per isfuggire la persecuzione; e niuna fidanza ponendo nell’efficacia riparatrice della letteratura, l’ardor razionale non esercitavano nell’esame, ma svampavano nel riso.
Ed ecco farcisi innanzi il più sguajato esempio del domandare, del lodare, del censurare. Per un sonetto contro le indulgenze merita costui d’essere cacciato da Arezzo, dov’era nato in un ospedale, non avendo altro nome che di Pietro, cui aggiunse quel della patria (1492-1557). A Perugia vede dipinta una Maddalena che tende le braccia verso Cristo, ed egli nottetempo vi dipinge un liuto che essa in quell’atto sembra sonare; vive alcun tempo di legar libri, col che conosce opere e letterati; poi spintosi fin a Roma pedone e senza bagaglio, dal Chigi, mecenate di Rafaello, è ricevuto per valletto, poi cacciato per ladro; ma egli campa di scostumatezze, si fa cappuccino, si sfrata, adula, sparla; busca un bell’abito, e con quello si presenta a Leone X offrendogli un elogio, e ricevendone un pugno di ducati; offre elogi a Giuliano Medici, e n’ha un cavallo, e ottien rinomanza collo scrivere in quel modo, che non richiede altro che sfacciataggine.
E la sfacciataggine è l’unica scienza di costui. Ingegno naturale non educato, «come un asino (diceva) io non so nè ballare nè cantare, ma far all’amore». Guardatosi attorno, s’avvide che sfrontatezza e ribalderia gli procaccierebbero gloria meglio che le placide virtù; e traendo al peggio la potenza della stampa, di mezzo ai sonetti sospirosi e ai torniti periodi si pone ad avventare limacciosi strapazzi in istile bislacco; simile all’assassino, apposta la gente inerme sulla via, e intima, — La borsa, o vi ammazzo con uno scritto». Cuculiando gli studiosi e gl’imitatori, vantavasi di non somigliarli; sapea vilipendere le lettere allorchè tutti le idolatravano; scaraventare metafore tra la forbitezza [256] eunuca degli umanisti; metter impeto ed estri ove gli altri accuratezza e gelo. E diceva: — Ascoltate, acciò chiaro s’intenda se più meritano in sè lode di gloria della natura i discepoli, ovvero gli scolari dell’arte. Io mi rido dei pedanti, i quali si credono che la dottrina consista nella lingua greca, dando tutta la riputazione allo in bus in bas della grammatica... Io non mi son tolto dagli andari del Petrarca e del Boccaccio per ignoranza, che pur so ciò ch’essi sono; ma per non perdere il tempo, la pazienza e il nome nella pazzia di volermi trasformare in loro. Più pro fa il pane asciutto in casa propria, che l’accompagnato con molte vivande su altrui tavola. Imita qua, imita là; tutto è fava, si può dire alle composizioni dei più... Di chi ha invenzione, stupisco; di chi imita, mi faccio beffe: conciossiachè gl’inventori sono mirabili, gl’imitatori ridicoli. Io per me d’ognora mi sforzo di trasformarmi talmente nell’uso del sapere, nella disposizion dei trovati, che posso giurare d’esser sempre me stesso, ed altri non mai. Non nego la divinità del Boccaccio; confermo il miracoloso comporre del Petrarca; ma sebbene i loro ingegni ammiro, non però cerco di mascherarmi con essi: credo al giudizio dei due spiriti eterni, ma credendoli vado prestando un po’ di fede al mio»[178].
Con uno scrivere contorto e scarmigliato, con frasi affettate e fuor di luogo, con metafore sbardellate[179], stupiremmo che fosse salito a potenza così irrefrenata, se anche ai dì nostri non la vedessimo usurpare nelle gazzette da chi ha la fronte di dire e fare ciò che [257] onest’uomo non ardisce. Su quel tono dunque egli scriveva satire, commedie, lettere, libelli, e li dedicava a persone virtuose e a sacre; e alla vita e genealogia di tutte le cortigiane di Roma, al dialogo di Maddalena e Giulia, a libri di cui neppur il titolo si può trascrivere, alternava prediche e i sette salmi e il Genesi e dell’umanità di Cristo e vite di santi e opere d’asceticismo esagerato, nelle quali c’era di che bruciarlo quanto nelle laide.
Così divenne terribile; cerco e scacciato da chi imitava o aborriva la scapestrata sua vita, o ne temeva gl’irreparabili assalti[180]. — Io mi trovo a Mantova appresso il signor marchese, e in tanta sua grazia, che il dormire e il mangiare lascia per ragionar meco, e dice non aver altro intero piacere, ed ha scritto al cardinale cose di me, che veramente onorevolmente mi gioveranno; e sono io regalato di trecento scudi, e gran cose mi dona. A Bologna mi fu cominciato ad esser donato; il vescovo di Pisa mi fe una casacca di raso nero, che fu mai la più superba; e così da principe io venni a Mantova». Avendo Giulio Romano dipinti, e Marc’Antonio Raimondo incisi sedici voluttuosi atteggiamenti, l’Aretino impetra ad essi il perdono da Clemente VII, e intanto li correda di altrettanti sonetti descrittivi; e quest’infame alleanza di belle arti corse il mondo, e crebbe la deplorabile fama di [258] Pietro. Cacciato allora da Roma «che sembra con esso perdere la vita», va e ricovera al campo di Giovanni dalle Bande nere, e v’arriva mentre questi avea concesso a’ suoi una notte franca, cioè di potere abbandonarsi ad ogni lor voglia; sicchè pensate gli stravizzi, le risse, i furti, gli amori rapiti o pagati o conquisi, le violenze, la scena d’inferno, e come l’Aretino vi si trovasse nel proprio terreno. E Giovanni, ribaldo quanto qualunque de’ suoi ribaldi, si compiace di sì bell’acquisto, lo vuol sempre a tavola, spesso a letto seco, pensa farlo principe[181], e gli scrive: — Il re jeri si dolse ch’io non t’avea menato meco al solito; diedi la colpa al piacerti più lo stare in corte che in campo. Mi replicò che ti scrivessi, facendoti qui venire. So che non manco verrai pel tuo benefizio che per veder me, che non so vivere senza l’Aretino». Questo re gli regalò una catena d’oro; ed esso il Dialogo delle corti, «come l’ostia della virtù sull’altare della fama consacrò al nome del glorioso Francesco I, creatura saggia ed anima piena di valore».
Don Ferrante Gonzaga gli passava una pensione. Luigi Gonzaga gli spediva versi e denaro; e l’Aretino rispondevagli trovandoli scarsi: — Se voi sapeste sì ben donare come sapete ben versificare, Alessandro e Cesare potrebbero andare a riporsi. Attendete dunque a far versi, poichè la liberalità non è vostr’arte»[182]. Guido Rangone e sua moglie Argentina Pallavicini anch’essi gl’inviavano lettere e doni; ed esso ringraziando lei d’uno scatolino con una medaglia e ventiquattro puntali d’oro, — Quanto è (soggiunge) che io [259] le ebbi le due vesti di seta, che vi spogliaste il dì che ve le metteste? quanto è che mi daste i velluti d’oro e le ricchissime maniche e la bellissima cuffia? quanto è che mi mandaste i dieci e dieci e otto scudi? quanto è che faceste porre il trebbiano nella cantina? quanto è che mi accomodaste dei fazzoletti lavorati? quanto è che mi poneste in dito la turchina? Sei mesi sono, anzi non pur quattro»[183].
Vuol vivere, come sguajatamente scriveva, «col sudore de’ suoi inchiostri»; e denari, gioje, vesti gli fioccavano; «più di venticinquemila scudi l’alchimia del suo calamo ha tratto dalle viscere dei principi»; duemila n’aveva di pensioni; mille all’anno ne guadagnava, dic’egli, con una risma di carta e un’ampolla d’inchiostro; più di ottantamila dicono ne buscasse in tutta la vita. Eppure non gli pajono abbastanza quegli onori e quelle ricchezze. Al tesoriere di Francia che gli pagava una somma, — Non vi meravigliate se tacio; ho consumata la voce nel chiedere, e non me ne resta per ringraziare». A tanto arrivava per pura sfacciataggine, e intitolandosi per divina grazia uom libero, e vituperando i principi in generale mentre li loda ciascuno, o vituperando come gli giova per istigare le reciproche gelosie: — Emmi forza di secondare l’altezza de’ grandi con le grandi lodi, tenendomi sempre in cielo con l’ali delle iperboli. A me bisogna trasformare digressioni, metafore, pedagogerie in argani che movano e in tenaglie che aprano: bisogna far sì che le voci de’ miei scritti rompano il sonno all’avarizia».
E voi, re della terra, che vantate di non curvar più la fronte dinanzi al vicario di Dio, abbassatela al masnadiere della penna. Enrico VIII gl’invia trecento corone d’oro in una volta; mille Giulio III per un sonetto ricevutone, [260] oltre la bolla di cavaliere di San Pietro, e lo bacia in fronte. Ma altro e’ voleva, e non ottenendo quanto le sue speranze, tornò a Venezia dicendo non aver voluto accettare il cappello rosso. Sì; fin alla speranza di diventar cardinale s’elevò costui, fiancheggiato dal duca di Parma; poi prese il nome di divino e flagello dei principi; fu ritratto dai primi artisti, ebbe medaglie per sè, per la moglie, per la figlia, pei bastardi, e sul rovescio d’una leggevasi: I principi tributati dai popoli il servo loro tributano.
Carlo V gl’inviò una collana del valore di cento zecchini, dopo sconfitto in Barberia, perchè nol beffasse, ma egli rispose: — È cosa ben piccola per una sciocchezza sì grande». E Carlo, che aspirava alla monarchia universale, tributò onori e una pensione al divino; se lo fece cavalcar alla destra a Bologna, ond’egli scriveva: — Gran cosa che, non pur mi sia il di lui favore successo siccome a me il divisate, ma la mansuetudine del religioso imperadore ha d’assai avanzato l’opinione di voi nello affermarvi che, riscontrandolo per ventura per il cammino, m’imporrebbe il cavalcare con seco, fin a darmi la man destra che mi diede, atto tanto degno della sua clemenza, quanto indegno della mia condizione. Io certamente sono uscito di me in udirlo e in vederlo; conciossiachè chi non l’ode e nol vede, immaginarsi non può l’inimmaginabile senno della umana famigliaritade di quella piacevole grazia...»
E con che arti gli s’insinua? col protestargli che i pittori gli han fatto torto ne’ ritratti, col parlargli d’Isabella sua moglie defunta; «nel poi dirgli io, che non pensava che le mie carte fossero lette da lui che tiene in sè le faccende del mondo, rispose che tutti i grandi di Spagna aveano copia di quanto gli scrissi sulla ritirata d’Algeri, la cui impresa minutamente contandomi, mi scoppiò l’anima nel pianto, sì mi commosse la tenerezza [261] udendogli dire: E a che fine voleva io più venirci, se in cotal fatto moriva tanta gente per me! Ancora sento il timido della sonora favella augusta... Il mio non esser punto vano mi faceva dimenticare il suo aver chiamato a sè cavalcando i miserabili veneti ambasciadori, alle cui solenni spettabilitadi disse: Amici onorati, certo che non vi sarà grave dire alla Signoria ch’io le chieggo in grazia di tener rispetto alla persona dell’Aretino, come cosa carissima alla mia affezione».
Altra volta scriveva: — Leone e Clemente, in cambio d’asciugarmi il sudore della servitù colle pronte mani del premio, le intinsero con presta crudelità nel mio sangue, non per altro che per esser io senza inganni, perchè l’adulazione non mi guasta, perchè la crapula fuggo, perchè procedo alla libera, perchè conosco i ribaldi, perchè aborrisco gl’ingrati, e perchè non lo vuo’ dir per modestia, eppure si sa nè si nega, per sì môre offesa e sì turche non manco di battezzata credenza alla Chiesa; del che fanno pubblica fede i libri che di Cristo ho scritto e dei santi... Intanto è manifesto ch’io son noto al Sofì, agl’Indiani ed al mondo, al pari di qualunque oggi in bocca della fama risuoni. Che più? i principi, dai popoli tributati, di continuo me loro schiavo e flagello tributano. Io non allego la forza dello incredibil miracolo per superbia che n’abbi o per vanto; ma ne favello per confessare a me stesso l’obbligo che ho con Dio, che mi ha fatto tale»[184].
Tardasi a donare? minaccia di porre Cristo in man de’ Turchi: — Intanto comincio a metter la penna in tutto il leggendario dei santi, e tosto ch’io abbia composto, vi giuro, caso che non mi si provvegga da vivere, che al sultano Solimano lo intitolo, facendo in sì nuova maniera la epistola, che ne stupirà ne’ futuri secoli il [262] mondo; imperocchè sarà cristiana a tal segno, che potria moverlo a lasciar la moschea per la chiesa». È regalato scarsamente? rifiuta: — Ho rimandato i dieci ducati, pregandolo che si degni, nel ritor del suo dono, di rendermi le lodi da me dategli; imperocchè non mi pare onesto di onorare chi mi vitupera nel modo che mi vituperebbe lo aver accettato cotal piuttosto limosina da mendici che presenti da virtuosi. Certo che a quelli che comprano la fama, conviene esser larghi da senno, dando, non secondo il grado del loro animo, ma come richiede la condizione di chi gliene rende; conciossiachè i poveri inchiostri hanno che fare a sollevare un uomo impiombato in terra da ogni demerito». A Francesco I scriveva: — Astenetevi dal promettere almeno ai virtuosi, acciò consumati dietro a la speranza, non abbino con che mordervi la fama... Non sapete voi, sire, che non si conviene al grado della vostra altezza il non rammentarvi dei seicento scudi che, con il moto proprio della reale lingua, diceste al messo mio che qui mi si pagherebbero da lo imbasciatore?... E perciò la gloria vostra riguardi la ingiuria che fa a se medesima, mentre indugia la mercede offerta da se stessa a me che la predico».
Se talora indignati lo caccino, restagli aperta Venezia, «ricevitrice d’ogni bruttura», come dice il Boccaccio, dove il vivere licenzioso è in moda, e libera ogni cosa fuorchè il parlar di Stato. — Io (scrive al doge Gritti) io, che nella libertà di cotanto Stato ho fornito d’imparare a esser libero, refuto la corte in eterno, e qui faccio tabernacolo in perpetuo agli anni che ne avanzano; perchè qui non ha luogo il tradimento, qui il favore non può far torto al diritto, qui non regna la crudeltà delle meretrici, qui non comanda l’insolenza degli effeminati, qui non si ruba, qui non si sforza, qui non si ammazza. Perciò io che ho spaventato i rei ed [263] assicurati i buoni, mi dono a voi, padri dei vostri popoli, fratelli dei vostri servi, figliuoli della verità, amici della virtù, compagni degli strani, sostegno della religione, osservatori della fede, esecutori della giustizia, eroi della caritade, e subjetti della clemenza. Per la qual cosa, principe inclito, raccogliete l’affezion mia in un lembo della vostra pietà, acciò ch’io possa lodare la nutrice dell’altre città, e la madre eletta da Dio per fare più famoso il mondo, per raddolcire le consuetudini, per dare umanità all’uomo, e per umiliare i superbi perdonando agli erranti... O patria universale! o libertà comune! o albergo delle genti disperse!» Torna a Roma? — Fuori da me sempre fui, non per altro che per dubitare che le smisurate accoglienze con cui il papa abbracciandomi baciommi con tenerezza fraterna, col concorso di tutta la corte a vedermi, non m’incitassero a finir la vita in palazzo, nel quale mi si diedero stanze da re, non da servo. Veramente si è visto il tumulto de’ popoli, che in ciascuna terra che siam passati, hanno dimostrato nel caso miracoloso del contemplarmi, dell’onorarmi e presentarmi di sorte che la peste dello stesso veleno ha sprofondato sotterra l’invidia... Il comune giudicio afferma che, tra ogni meritata felicità di sua beatitudine, debbe il pastor sommo mettere il mio esser nato al suo tempo, nel suo paese e suo divoto».
Qual meraviglia se gonfiavasi in superbia? — Tanti signori mi rompono continuamente la testa colle visite, che le mie scale son consumate dal frequentar de’ loro piedi, come il pavimento del Campidoglio dalle ruote di carri trionfali. Nè mi credo che Roma, per via di parlare, vedesse mai sì gran mescolanza di nazioni, come è quella che mi capita in casa. A me vengono Turchi, Giudei, Indiani, Francesi, Tedeschi e Spagnuoli. Del popol minuto dico nulla; perciocchè è più facile di tor voi dalla divozione imperiale, che veder me un attimo [264] senza soldati, senza scolari, senza frati e senza preti intorno: per la qual cosa mi par essere diventato l’oracolo della verità, da che ognuno mi viene a contare il torto fattogli da tal principe o da cotal prelato; onde io sono il segretario del mondo, e così m’intitolate nelle soprascritte... Qual dotto in greco e in latino è pari a me in vulgare? quali colossi d’argento e d’oro pareggiano i capitoli, ne’ quali ho scolpito Giulio papa, Carlo imperatore, Caterina regina e Francesco Maria duca? Se io avessi predicato Cristo nel modo che per me si è laudato Cesare, avrei più tesori in cielo, che non ho debiti in terra»[185].
Per onore dell’umanità vorremmo crederli nulla più che un bugiardo galloriarsi di quel vituperoso briffaldo, se non ce ne rimanessero documenti; e principi più elevati, quei delle lettere e delle arti, gli porsero tributo. Il Bertussi dedicava i madrigali del Cassola al divinissimo signor Pietro Aretino: Alessandro Piccolomini, scrittore moralista, gli professava stima, e lo fece iscrivere tra gli Infiammati di Padova. Quando Adria sua bastarda andò sposa a Bernardino Rota, gli Urbinati le furono incontro per otto miglia, e poichè era notte quando tornarono, si posero i lumi a tutte le finestre. Frà Bellandini gli mandava un’elegia sull’Assunzione, e quattro sonetti al sepolcro di Cristo, per averne il parere: ne accettava le lodi il piissimo Beccadelli. Fausto da Longiano, precettore e poligrafo, che moltissimo si mosse, ed ebbe qualche somiglianza e grand’amicizia coll’Aretino, nelle lettere a questo loda sguajatamente se stesso e lui, fin a dire che un suo fratello predicatore avea terminato una predica coll’asserire che se la natura e Dio voleano riformar la razza umana, non poteano far meglio che produrre molti Aretini. Aldo Manuzio gli scriveva: — Non [265] mi meraviglio che i maggiori principi e re del mondo temano ed onorino le forze della vostra eloquenza, nè che i pontefici vi bacino in fronte, nè che gl’imperatori vi pongano a man dritta; maravigliomi piuttosto che non dividano le signorie con voi, comprando l’immortalità che può dar loro la virtù vostra, per quanto ella vale». E la pia e casta Veronica Gambara: — Divino messer Pietro mio, mio figliuolo mi pregò in nome vostro ch’io fossi contenta di far un sonetto in lode della avventurosa donna novellamente amata da voi... Ve lo mando qui incluso»[186]. L’Ariosto il collocò fra quelli onde Italia si onorava: Ferdinando d’Adda, rettore dell’Università di Padova, gli dirigeva un epigramma ove il mette di sopra di Carlo V e Francesco I: nessun’accademia voleva esser senza il suo ritratto, il quale vedeasi ne’ gabinetti de’ principi come nelle bettole e ne’ lupanari: la città d’Arezzo lo dichiara nobile e gonfaloniere onorario: c’è un volume di lettere in sua lode: che più? lo denominarono persino il quinto evangelista.
Diciamo altrettanto degli artisti. Il Sanmicheli era frequente bersaglio di sue celie, onde montava sulle furie, ma essendo timorato di Dio, pentivasene tosto, e gli mandava frutti e leccornie, ch’egli poi godeva col Tiziano e col Sansovino. Il Vasari si loda ogni tratto di esso, e gli scrive: — Se nello intervallo di qualche mese non vi ho visitato, non è per questo che ogni minuto d’ora non vi ricordi e ancora non visiti con l’animo riverentemente quella gran presenza ch’è in voi; e così come il ricordarvi e il vedervi mi fa sentore nella memoria [266] di riguardare la divinità della vostra virtù, dove si specchia ogni persona rara, che delle cose mirande che la natura produce fa che la vostra è più colma di meraviglia; e ben gloriare mi poss’io nell’età sì giovane essere stato da un Pietro tale chiamato figlio, a aver meritato dalle virtù sue esser messo nelle sue opere»[187].
Il Tiziano ne prendeva consigli, lo dipinse[188] più volte, e da Augusta nel novembre 1550 scriveagli d’avere presentata una sua lettera all’imperatore, e avergli [267] soggiunto che «a Venezia, in Roma e per tutta Italia si confermava dal pubblico che sua santità teneva buona mente circa il farvi cardinale. In questo, Cesare mostrò segno d’allegrezza nel viso, dicendo che molto gli piaceria, e che non potrà mancare di farvi piacere, ed anche soggiungendo altre parole nel caso di voi, onorate e grandissime»; e tutto ciò in presenza di suo figlio, del duca d’Alba, e d’altri gran signori. «Il duca d’Alba non passa mai giorno che non parli meco del divino Aretino, perchè molto vi ama, e dice che vuol esser agente vostro appresso sua maestà. Io gli ho raccontato che spendereste un mondo, e che ciò che avete è di tutti, e che date ai poveri fino i panni di dosso, e che siete l’onor d’Italia».
A Michelangelo «bersaglio di meraviglie, nel quale la gara del favor delle stelle ha saettato tutte le freccie delle grazie loro», l’Aretino domandava licenza di dir le sue lodi, perchè «il mondo ha molti re, e un sol Michelangelo»; e questi gli rispondeva: — M. Pietro mio signore e fratello», lo esortava a scrivere di lui, e — Non solo l’ho caro, ma vi supplico di farlo, dacchè i re e gli imperatori hanno per somma grazia che la vostra penna li nomini». L’Aretino gli mandava suggerimenti sulla cappella Sistina, e consistevano in quelle allegorie della Speranza, la Disperazione, la Vita, la Morte, il Tempo, la Fama e altrettali, che i letterati trovano sulla punta della penna, ma che mal rispondono al dovere della pittura, che è di rappresentare delle forme. E Michelangelo se ne scusa come si farebbe oggi con un giornalista, desolato di non potere dargli ascolto perchè già avanzato il lavoro.
Non crederete se la passasse liscia coi tanti che malmenava. Il Berni in un sonetto caudato gli avventò un tal risciacquo d’ingiurie e sconcezze, che dovette rimanerne ancor più ingelosito che offeso, e disperò di poterlo [268] sorpassare. Altrettanto fecero il Muzio e Bernardo Tasso; e a chi gli mostrasse il dente, esso s’acchetava; anzi il Boccalini lo chiamava «calamita de’ pugnali e de’ bastoni». Un Volta, con cui rivaleggiava nel corteggiare una contessa, gli appoggia cinque coltellate: Pietro Strozzi, nominato in un sonetto, gli manda dire che, se lasciasi uscir mai il suo nome, lo farà freddare, ed egli sel tiene per detto: l’ambasciadore d’Enrico VIII, da lui sospettato di frode nel trasmettergli i doni del re, lo fa bastonare, ed egli ringrazia Dio che gli concede forza di perdonar l’offesa. Il Tintoretto, da lui pizzicato, chiamosselo nello studio col pretesto di fargli il ritratto, e cavato un pistolese, l’andò misurando pel lungo e pel largo, e infine gli disse: — Voi siete lungo due pistolesi e mezzo, ve ne ricordi»; e lo rimandò collo spavento, e l’ebbe da poi lodatore.
Si raccolse infine a Venezia, quivi scapestrando in amori, e insieme facendo del bene a partorienti, a pitocchi; finchè, ridendo all’ascoltare dalle sue sorelle, che tenevano postribolo, le salacità da tal luogo, cascò dalla scranna, e si percosse a morte. Ricevuto l’olio santo, sclamò: — Guardatemi dai topi or che son unto», e morì in luogo e modo degni di sua vita.
Contro di lui era diretto il «Terremoto del Doni fiorentino, colla rovina di un gran colosso, bestiale anticristo della nostra età, opera scritta ad onor di Dio e della santa Chiesa per difesa non meno dei buoni Cristiani», con una prefazione «al vituperoso, scellerato e d’ogni tristizia fonte ed origine Pietro Aretino, membro puzzolente della pubblica falsità, e vero anticristo del secol nostro».
Questo Anton Francesco Doni da Firenze (-1574), servita, poi prete secolare, «vivendo di kyrieleison e di fidelium animæ», bizzarrissimo come uomo e come scrittore, stampava opere, che poi riproduceva sotto mutato [269] titolo, e lavori altrui pubblicava col proprio, sempre variando di mecenati, per buscare. Le sue Librerie sono cataloghi e giudizj di opere, ma talora fine o mutate a capriccio, e sempre inesatti. La Zucca, i Marmi, i Mondi, le Pitture, i Pistolotti, e l’infinità de’ libercoli suoi riboccano di capresterie pazzesche, non ben discernendosi quando burli o parli da senno. Volle sin fare una dichiarazione sopra il terzo dell’Apocalisse contro gli Eretici.
Ferocissimamente lo nimicò Lodovico Domenichi (-1564), scrittore spiritoso e vuoto, vissuto in corte de’ Medici e sotto i cui auspizj si formò a Piacenza sua patria un’accademia, che avea per patrono Priapo e le costui insegne. Egli stampò come originali alcune traduzioni, e come sue delle opere altrui, fra le quali un dialogo, che dieci anni prima era comparso fra i Marmi, e a cui allora aggiungeva tre invettive contro il Doni. Il quale, oltre la taccia di plagiario, allora molto comune, in una lettera che rimane a suo perpetuo vitupero[189] [270] lo accusava con infamie da spia, ed ebbe il dispetto di non vedere esaudita la sua ira. Eppure fin medaglie si coniarono al Domenichi[190].
Amico, nemico, imitatore dell’Aretino, Nicolò Franco beneventano (-1569) cerca incessantemente e ottiene, e ne’ suoi sonetti l’accocca a re, a papi, a cardinali, a letterati, al concilio di Trento, con vomito di rabbia e di sudiceria. L’Aretino lo adoprò per iscrivere satire e per farsi correggere i proprj scritti, come dotto che era di latino e greco: poi guastatisi, Nicolò intitolossi flagello del flagello, con oscenità grossolane il serpentava, «agli infami principi dell’infame secolo» diresse un virulento rimbrotto de’ favori a un tal mostro conceduti, e — Principi, io v’ho parlato in rima, ed ora vi parlo in prosa. Che parte aggiate fra tante infamie vel potrete conoscere, se la vostra trascuraggine non sia così cieca [271] in leggere com’è stata in donare». Fece i commenti alla Priapea, e toccò anch’egli pugnalate eroiche, come diceva l’Aretino: ma avendo pizzicato persona potente, o piuttosto a punizione delle scritture ed azioni infami, Pio V il condannò alla forca. Il Franco esclamò: — Questo è poi troppo», e fu strozzato.
Di perversità men profonda, ma non meno bizzarro a conoscersi è Benvenuto Cellini da Firenze (1500-70), che direste un disutile millantatore, se nol conosceste uno de’ più lodati artisti. Suona di cornetto e di flauto, e se ne vanta non men che del suo bulino; tutto ammirazione pe’ bei colpi degli spadaccini, e per coloro che ne’ duelli versano la bravosissima anima; onde guaj a chi gli tocca un dito, o vien con esso a paragone di mestiere! non ha parole bastanti per denigrarlo, e nella sua jattanza non comporta d’essere posposto che al divinissimo Michelangelo. Vengono i Tedeschi del 27? in quella infernalità crudele egli serve d’artigliere; a credergli, da lui partono i colpi che uccidono il Borbone e feriscono il principe d’Orange; e si lagna gli abbiano impedito un tiro, col quale avrebbe schiacciato i capi nemici, radunati a parlamento; s’inginocchia al papa pregandolo di ribenedirlo degli omicidj fatti in servizio della Chiesa, e «il papa, alzate le mani e fattogli un potente crocione sulla figura», lo manda assolto. I principi lo hanno famigliarissimo; il granduca capita tratto tratto nella sua bottega; i principotti d’Italia, i cardinali, le mogli e le ganze di questi e di quelli gareggiano per averne qualche lavoro. Il papa gli dice: — Se io fossi un imperator ricco, donerei al mio Benvenuto tanto terreno quanto il suo occhio scorresse; ma perchè noi del dì d’oggi siamo poveri imperatori falliti, ad ogni modo gli daremo tanto pane che basterà alle sue piccole voglie». Ma i doni o non vengono o sempre inadeguati al suo merito ch’era grande, o alla [272] sua presunzione ch’era più grande ancora; le lodi gli sono contrastate: onde egli adopera una lingua che fora e taglia, e quello schioppetto «col quale e’ dà in un quattrino», e una spada eccellente con cui assalì più volte i suoi nemici e sgominò i birri.
Un oste esagera lo scotto? Benvenuto «vien in pensiero di ficcargli il fuoco in casa, o di scannargli quattro cavalli buoni ch’egli aveva nella stalla»; ma si contenta di tritargli col coltellino quattro letti. Un’altra volta tira stoccate, e il nemico gli cade morto, «qual non fu mia intenzione, ma li colpi non si danno a patti». Al papa froda bravamente l’oro, salvo a farsene assolvere; ruba fanciulle, corrompe ragazzi; e le sue ribalderie racconta con tale sicurezza, come fossero atti di giustizia; e pretende che «gli uomini come Benvenuto, unici nella loro professione, non hanno ad essere obbligati alle leggi»; e trova un gran torto quando, a trentanove anni, per la prima volta è messo prigione. Eppure ha la sua morale anch’esso, a’ servigi della passione; e se muore un suo nemico, «si vede che Iddio tien conto de’ buoni e de’ tristi, e a ciascuno dà il suo merito». È religioso, è credulo; nel Coliseo gli è fatta vedere la tregenda de’ diavoli, dov’egli solo non ha paura; messo prigione, legge continuo la Bibbia italiana, ed ha apparizioni di Dio e di santi, onde ne porta una fiammella sulla sommità del capo, «la quale si è evidente ad ogni sorta d’uomo a chi io l’ho voluto mostrare, quali sono stati pochissimi». Alfine, lieto di fuggire di Castel sant’Angelo «a dispetto di colui che in terra e in cielo il vero spiana, liberamente perdona alla santa madre Chiesa, sebben gli abbia fatto questo scellerato torto». Poi nel terribile momento della fusione del Perseo, momento le cui convulsioni non può immaginare se non chi sia artista, invoca Dio, e a questa devozione attribuisce la buona e inaspettata riuscita, e perciò va in [273] pellegrinaggio ai santuarj «nel nome di Dio sempre cantando salmi e orazioni».
E «sempre cantando e ridendo» era ito da Firenze a Parigi tra molti pericoli della vita. Ivi si mette a vivere magnificamente con tre cavalli e tre servitori; è alloggiato in una villa reale: ma l’invidia si solleva contro di lui, ed egli si compiace di nemici potenti. Tale a Firenze era la duchessa, tale è quivi madama d’Etampes: e s’arrovella coi cortigiani scannapagnotte di colà; e sempre sono i subalterni che gli mandano attraverso le buone fortune, guastando le intenzioni dei re. Ivi trova «una certa razza di brigate, le quali si domandano venturieri, che volontieri assassinano alla strada; e sebbene ogni di assai se ne impicca, quasi pare che non se ne curino». Un altro impaccio v’incontra, le liti, perchè «subito ch’ei cominciano a vedere qualche vantaggio nella lite, trovano da venderla, e alcuni l’hanno data per dote a certi, che fanno totalmente quest’arte di comperare liti[191]. Hanno un’altra brutta cosa, che gli uomini di Normandia hanno, quasi la maggior parte, per arte loro il far testimonio falso; di modo che questi che compran la lite, subito istruiscono quattro di questi testimonj o sei, secondo il bisogno; e per via di questi, chi non è avvertito a produrne tanti in contrario, e che non sappia l’usanza, subito ha la sentenza contro». Ma quand’egli vede la causa pigliar mala piega, ricorre per suo ajuto a una gran daga, e «all’uno tronca le gambe, l’altro tocca di sorte, che tal lite si fermò»; ringraziando sempre di questa e d’ogni altra ventura Iddio.
Il suo racconto, tutto brio e bugie, non lo scrisse lui, [274] ma lo dettava, e ben te n’accorgi all’enfasi e alle vanterie; sotto aspetto d’ingenua confidenza lo svisa, come tutte le autobiografie, coi sentimenti d’autore e con un’insaziabile jattanza, per la quale si dà vanto fin del delitto. Terribile agli altri, era o credeasi in continui pericoli; più volte assaltato, più altre avvelenato: porta i denari in dosso «per non essere appostato o assassinato come è il costume di Napoli»; il papa lo fa avvelenare con diamante in polvere, ma l’avaro orefice pesta invece un berillo; le altre volte la sua robusta costituzione trionfa. E scapola da processi di delitti orribili, talvolta col solo far fracasso, come con colei che l’accusava di peccato infame, di cui non fece altra discolpa che col gridare cominciassero dal bruciar lei, complice e paziente.
Leon Leoni tenta per invidia avvelenare il Cellini, sfregia il viso a un tedesco giojelliere di Paolo III, ond’è condannato alla galera; in Venezia fa da un sicario attentare alla vita d’un Martino suo discepolo; nella propria casa a Milano assalì col pugnale il pittore Orazio Vecellio per ammazzarlo e derubarlo; eppure egli è carezzato da Annibal Caro, chiesto e largamente rimunerato dal governatore di Milano, dal duca di Parma, da Carlo V.
Non ci s’imputi di confondere con coteste un’esistenza molto più nobile, ma che tanto ritrae del suo secolo. Nicolò Machiavelli, nato d’illustre sangue fiorentino, entra giovane agli affari; e presto nominato segretario ai Dieci della guerra, vi si mantiene quattordici anni, finchè mutata signoria è deposto: sopraggiunti i Medici, per sospetto vien messo in prigione e alla tortura; resiste al manigoldo, ma non alle blandizie del principe buon padre, al quale dal carcere dirige versi supplichevoli e scuse[192]. La repubblica ristabilita lo trascura [275] come ligio ai Medici: quando questi ritornano, e’ mette di mezzo amici e donne per ottenere impiego; e non contentato, piagnucola e bela, senza sapersi acconciare colla fortuna e colla propria dignità.
Capace di vedere quanto v’avea di moderno nell’antichità e d’antico nel medioevo, venuto in tempo che la assolutezza dello Stato pugnava colla democrazia sovrana, a quella s’affisse, e precorse l’età dell’onnipotenza dello Stato, oggi stabilita dappertutto fuorchè in Inghilterra. Che bizzarre origini, che strani intenti non si attribuirono al suo Principe! Udiamo lui stesso confessarceli: — Io mi sto in villa, e poichè seguiono quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad accozzarli tutti, venti dì a Firenze. Ho insino a qui uccellato ai tordi di mia mano, levandomi innanzi dì; impaniavo, andavane oltre con un fascio di gabbie addosso, che pareva il Geta quando torna dal porto con i libri d’Anfitrione; pigliava al meno due, al più sette tordi. Così stetti tutto settembre; di poi questo badalucco, ancorachè dispettoso e strano, è mancato con mio dispiacere; e quale la vita mia dipoi vi dirò. Mi levo col sole, e vommi in un mio bosco che io fo tagliare, dove sto due ore a riveder le opere del giorno passato, ed a passar tempo con quei tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mani o fra loro o coi vicini. Partitomi dal bosco, io me ne vo ad una fonte, e di qui in un uccellare, con un libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come dire Tibullo, Ovidio e simili. Leggo quelle amorose passioni, e quelli loro amori ricordanmi de’ miei, e godomi un pezzo in questo pensiero. Trasferiscomi poi in sulla strada nell’osteria, parlo con quelli che passano, domando delle nuove dei paesi loro, intendo varie cose, e noto varj gusti e diverse fantasie di uomini. Viene in [276] questo mentre l’ora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi, che questa mia povera villa e paulolo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell’osteria: qui è l’oste per l’ordinario, un beccajo, un mugnajo, due fornaciaj. Con questi io m’ingaglioffo per tutto il dì giuocando a cricca, a tric trac, e dove nascono mille contese e mille dispetti di parole ingiuriose, ed il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Così rinvolto in questa viltà, traggo il cervello di muffa, e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne vergognasse. Venuta la sera, mi ritorno a casa, ed entro nel mio scrittojo; ed in sull’uscio mi spoglio quella vesta contadina, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandare della ragione delle loro azioni: e quelli per loro umanità mi rispondono, e non sento per quattro ore di tempo alcuna noja, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte, tutto mi trasferisco in loro.
«Perchè Dante dice Che non fa scienza senza ritener lo inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto un opuscolo De principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subjetto, disputando che cosa è principato, di quali spezie sono, come e’ si acquistino, come e’ si mantengono, perchè e’ si perdono; e se vi piacque mai alcun mio ghiribizzo, questo non vi dovrebbe dispiacere; e ad un principe, e massime ad un principe nuovo, dovrebb’essere accetto; però io lo indirizzo alla magnificenza di Giuliano.
[277]
«Io ho ragionato con Filippo Casavecchia di questo mio opuscolo, se gli era bene darlo o non lo dare; e se gli è ben darlo, se gli era bene ch’io lo portassi, o che io ve lo mandassi. Il non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano non fussi, non che altro, letto: il darlo mi faceva necessità che mi caccia, perchè io mi logoro, e lungo tempo non posso stare così, che io non diventi per povertà contennendo. Appresso, il desiderio avrei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso; perchè se io poi non me li guadagnassi, io mi dorrei di me: e per questa cosa, quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni che io sono stato a studio dell’arte dello Stato, non gli ho nè dormiti nè giucati; e dovrebbe ciascuno aver caro servirsi d’uno, che alle spese di altri fussi pieno di esperienza. E della fede mia non si dovrebbe dubitare, perchè, avendo sempre osservato la fede, io non debbo imparare ora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatre anni, che io ho, non debbe poter mutar natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia».
Finì l’opera al modo che conosciamo (t. IX, p. 150), e la dirigeva all’inetto Lorenzo dicendogli: — Pigli vostra magnificenza questo piccolo dono con quell’animo che io lo mando; il quale, se da quella fia diligentemente considerato e letto, vi conoscerà dentro un estremo mio desiderio che ella pervenga a quella grandezza che la fortuna e le altre sue qualità le promettono. E se vostra magnificenza dall’apice della sua altezza qualche volta volgerà gli occhi in questi luoghi bassi, conoscerà quanto indegnamente sopporti una grande e continua malignità di fortuna».
Che glien’incontrò? I tiranni nol curarono; solo alla fine il cardinale de’ Medici lo deputò al capitolo de’ frati di Carpi, e il fratello di quello gli fece un assegno affinchè [278] scrivesse le storie di Firenze. Nella qual opera stava ben sull’avviso di non offendere, e al Guicciardini scriveva: — Essendo per entrare in certe particolarità, avrei duopo sapere da voi s’io mettami a rischio di dispiacere sia rivelando, sia rappicciolendo gli avvenimenti; consiglierommi del resto meco medesimo, e m’ingegnerò a far sì che, pur dicendo la verità, a niuno debba ella rincrescere». Fortuna fu dunque che morte il togliesse dall’impaccio di narrare i casi contemporanei, ove impossibile l’orzeggiare.
Che se lo ammiravano i politici, la sana cittadinanza gli volle male di quella sregolata politica[193], la quale [279] dovea non liberare l’Italia dagli stranieri, ma buttarla in loro braccio pervertita e derisa.
Intanto conosciuto per bizzarro e d’opinioni singolari[194], detta sconcie commedie, e da Firenze gli scrivono: — Ora che non ci siete voi, nè giuoco nè taverne nè qualche altra cosetta non ci s’intende». A cinquant’anni spasima d’una fanciulla, e, fra altre sudicie lettere, nel gennajo 1514 scriveva al Vettori, inviandogli un sonetto amoroso: — Io non saprei rispondere all’ultima vostra lettera con altre parole che mi paressino a proposito, che con questo sonetto, per il quale vedrete quanta industria abbia usato quel ladroncello d’Amore per incatenarmi. E sono, quelle che ha messo, sì forti catene, che io son al tutto disperato della libertà. Nè posso pensar mai come io abbia a scatenarmi: e quando pur la sorte, o altro aggiramento umano, mi aprisse qualche cammino a uscirmene per avventura, non vorrei entrarvi; tanto mi pajono ora dolci, or leggiere, or gravi quelle catene; e fanno un mescolo di sorte, che io giudico non poter vivere contento senza quella qualità di vita. Io mi dolgo che voi non siate presente per ridervi ora dei miei pianti, ora delle mia risa; e tutto quel piacere ne avreste voi, se lo prova Donato nostro, il quale insieme coll’amica, della quale altre volte vi ragionai, sono unici porti e refugi al mio legno, già rimaso per la continua tempesta senza timone e senza vele». Vive discolo sempre, corifeo de’ bontemponi; e nelle regole che dettava per [280] una brigata compagnevole, imponeva che tutti intervenissero puntuali ai perdoni, alle feste, alle cerimonie ecclesiastiche, e insieme a tutti i balli, le colazioni, le cene, gli spettacoli, le veglie ed altri spassi, sotto comminatoria d’essere relegati gli uomini in un convento di monache, le donne in uno di frati.
Poi di mezzo a questa vita godereccia dava arguti pareri intorno alla situazione dell’Italia, o andava ad una delle tante confraternite devote, e alla sua volta vi recitava una predica sul De profundis, conchiudendo coll’esortare a penitenza, e ad «imitare san Francesco e san Girolamo, i quali per reprimere la carne e torle facoltà a sforzarli alle inique tentazioni, l’uno si rivoltava su per i pruni, l’altro con un sasso il petto si lacerava... Ma noi siamo ingannati dalla libidine, incôlti negli errori, e inviluppati ne’ lacci del peccato, e nelle mani del diavolo ci troviamo; perciò conviene, ad uscirne, ricorrere alla penitenza, e gridare con David, Miserere mei Deus, e con san Pietro piangere amaramente». Così predicava forse prima d’uscire a cantar la serenata:
Apri all’amante le serrate porte...
Pon giù quella superbia che tu hai;
Segui il regno di Venere e la corte...
Usa pietà, e pietà troverai.
Perocchè questi ritorni dalla dissipazione e dalla corruttela a sentimenti pii e religiosi son naturali in tempo che l’educazione vi predisponeva; e non c’è artista, compresi l’Ariosto e il Cellini, che non sentisse rinascer il bisogno di raccogliersi talvolta a Dio, e rinnovare quelle pratiche in cui gli avea nodriti la madre. Di Michelangelo già lo vedemmo; e compreso d’ammirazione per la natura semplice, al Vasari scriveva: — Io ho avuto questi dì nelle montagne di Spoleto a visitare que’ romiti, in modo che io son tornato men che mezzo a Roma, perchè veramente non si trova pace [281] se non ne’ boschi». Esso Vasari, tutto arte, pur a tratto sentivasi preso dalle bellezze naturali e dalle ispirazioni della pietà; e quando, alla morte del duca Alessandro[195], vide interrotti i suoi lavori, sicchè preso da melanconia temeva un cattivo fine, risolse darsi alla solitudine e all’arte sua, «e così offenderò meno Iddio, il prossimo e me stesso. La solitudine sarà in cambio dello stuolo di coloro che, per lodarti e per metterti innanzi, sei obbligato a temerli, amarli e presentarli; dove in essa contemplazione d’Iddio, leggendo si passerà il tempo senza peccato, e senza offendere il prossimo nella maldicenza». Avendogli poi Giovanni Pollastra suggerito di ricoverare fra i monaci di Camaldoli, di là gli scriveva: — Siate voi benedetto da Dio mille volte, poichè sono per mezzo vostro condotto all’ermo [282] di Camaldoli, dove non potevo, per cognoscer me stesso, capitare in luogo nessuno migliore; perchè, oltre che passo il tempo con util mio in compagnia di questi santi religiosi, i quali hanno in due giorni fatto un giovamento alla natura mia sì buono e sano, che già comincio a conoscere la mia folle pazzia dove ella ciecamente mi menava, scorgo qui in questo altissimo giogo dell’Alpe, fra questi dritti abeti, la perfezione che si cava dalla quiete; così come ogni anno fanno essi intorno a loro un palco di rami a croce, andando dritti al cielo; così questi romiti santi imitandoli, ed insieme chi dimora qui, lassando la terra vana, con il fervore dello spirito elevato a Dio alzandosi per la perfezione, del continuo se gli avvicina più; e così come qui non curano le tentazioni nemiche e le vanità mondane, ancorchè il crollare de’ venti e la tempesta gli batta e percuota del continuo, nondimeno ridonsi di noi, poichè nel rasserenar dell’aria si fan più dritti, più belli, più duri e più perfetti che fussero mai, che certamente si conosce che ’l cielo dona loro la costanza e la fede; così a questi animi che in tutto servono a lui. Ho visto e parlato sino a ora a cinque vecchi di anni ottanta l’uno in circa, fortificati di perfezione nel Signore che m’è parso sentir parlare cinque angioli di paradiso; e stupito a vederli di quell’età decrepita, la notte per questi ghiacci levarsi come i giovani, e partirsi dalle lor celle, sparse lontano centocinquanta passi per l’ermo, venire alla chiesa ai mattutini ed a tutte l’ore diurne, con un’allegrezza e giocondità come se andassero a nozze. Quivi il silenzio sta con quella muta loquela sua, che non ardisce appena sospirare, nè le foglie degli abeti ardiscono di ragionar co’ venti; e le acque, che vanno per certe docce di legno per tutto l’ermo, portano dall’una all’altra cella de’ romiti acque, camminando sempre chiarissime, con un rispetto maraviglioso».
[283]
Confessiamo che le nostre storie letterarie tennero sempre dell’aristocratico, e quand’anche badarono all’efficienza degli scrittori sul popolo, non posero mente all’efficienza di questo su quelli. Or come fosse possibile scrivere il Principe del Machiavelli, l’Orlando dell’Ariosto e le innominabili sguajataggini dell’Aretino, non può spiegarsi senza esaminare i costumi di quel tempo. E noi le lungagne che gli altri spendono dietro a battaglie, le occupammo piuttosto intorno all’arte e al progresso del pensiero, non solo per predilezione a questi studj, ma perchè meglio rappresentano ciò che noi cerchiamo, gli uomini di ciascun’età.
Stabilite le lingue, distintivo delle nazionalità, agevolati i trasporti, diffuse colla stampa le scoperte dell’intelligenza, quella splendidezza delle arti, quelle ricchezze e delizie improvvisateci da un nuovo mondo, diffusero su quel tempo un bagliore, che il fa dagli altri singolare. Ma chi discerne la coltura dalla civiltà, avvisa che questa non ingrandisce stabilmente se non per l’armonico svolgersi delle facoltà umane. Ora nei tempi che descriviamo, l’immaginazione esuberava sopra il raziocinio, e i frutti di quel seme abbellirono ed uccisero la patria nostra. Come nelle arti e nelle lettere, così nei governi e nei costumi, il paganesimo rinnovato cercava seduzioni sensuali dal puro bello, immolando quel vero di cui esso dev’essere splendore e manifestazione. Leone X con una bolla protegge l’edizione d’immoralissimo poema; Clemente VII predilige il [284] Berni, e privilegia la stampa delle opere di Machiavelli, non eccettuato il Principe; Giulio III bacia l’Aretino, il quale dedica la più infame delle sue commedie al cardinale di Trento; un altro cardinale aspirante alla tiara scrive la Calandra...; immorali, oscene, micidiali composizioni; ma che importa? erano belle e bastava; l’immaginazione n’era ricreata, abbagliata la ragione.
Il dubbio scientifico non s’era gettato sui dogmi della fede; i dotti non vi faceano attenzione; i mediocri credevano che il migliore omaggio a prestarle fosse il non parlarne; fra il popolo si direbbe più allora che mai viva la devozione, e sentito il bisogno di cercar nel cielo ristoro alle miserie della terra; onde una serie di miracoli si propalò e frequentissime apparizioni della madonna. I Fiorentini, «quando dubitavano che i Lanzichenecchi col duca di Borbone dovessero passare in Toscana, facevano ogni venerdì processione del corpo di Cristo, e tutta la città andava dietro con grandissima devozione»[196], e la pietà rincalorita da frà Savonarola ispirava gli eroi dell’assedio di Firenze: i Milanesi chiedevano con universali supplicazioni l’alleviamento dei mali cagionati dai re: colle processioni i Senesi s’incoravano a resistere agli oppressori della patria. Fra i grandi stessi non restava spenta la devozione neppur dalle iniquità; e Cicco Simonetta scriveva sul suo libro di Ricordi: — Oggi fui a Santa Maria delle Grazie di Monza, e v’udii due messe dai frati, e feci voto non mangiar di grasso il venerdì; al mercoledì pure feci voto non mangiar carni, e dopo d’allora non fui più tormentato da podagra»; Lodovico Sforza moltiplicava chiese, e la notte prima di fuggir da Milano la passò in quella delle Grazie a far la veglia sul sepolcro dell’estinta sua donna; voti faceva Carlo VIII il giorno [285] della battaglia di Fornovo; Vitellozzo, preso dal Valentino, «prega ch’e’ supplicasse al papa che gli desse de’ suoi peccati indulgenza plenaria» (Machiavelli); fin chi accingevasi alle iniquità si premuniva di reliquie ed assoluzioni.
Tacio i buoni che dell’altrui lascivire pareano assumersi la penitenza in rigidissime macerazioni e pellegrinaggi e sanguinose discipline, e farsi poveri volontarj, e anticiparsi il sepolcro col rimanere per anni fra quattro anguste pareti. A Venezia è frequente memoria di recluse, donne che faceansi murare in cellette sopra tetto o sotto ai portici delle chiese, vivendovi in astinenze ed orazioni, spettatrici dei divini uffizj per un fenestrino che dava nella chiesa, donde riceveano pure i sacramenti e le limosine[197].
Chi non ricorda i mirabili effetti prodotti da frà Savonarola? A tutt’uomo egli erasi opposto alla recrudescenza del paganesimo, dalla quale andarono stravolte non solo le idee di pudore, ma quelle pur di giustizia, ostentandosi francamente l’immoralità nei costumi, nelle azioni, nei libri. I prelati si tenevano, non che senza vergogna, ma senza riguardo i proprj figliuoli; le aule principesche erano popolate di cortigiani, genìa che, come diceva Alessandro Allegri, «accenna in coppe e dà in ispade, e bacia e morde insieme, e ride e rade», e di cui correva in proverbio che nell’infanzia servivano da buffoni, da mogli nella puerizia, da mariti nell’adolescenza, da compagni nella gioventù, da mezzani nella vecchiaja, da diavolo nella decrepitezza. Lentati i legami di famiglia, soffogata la benevolenza dalla riflessione, l’uomo era adoprato come stromento persin nell’amore. Nel 1534 il Comune di Lucca prendea grand’interessamento per le meretrici; e dolendosi che per gli [286] strapazzi fattine non ne fosse provvista la città quanto è conveniente[198], le favoriva di privilegi non pochi, e fin quello di cittadine originarie, tanto ambito. A Venezia se ne contavano undicimila seicencinquanta[199]; eppure il lenocinio de’ servi e le facilità della gondola si prestavano alle tresche; poi rapivasi, poi si irrompeva contro natura; i chiostri erano in pessima nominanza, e il panegirista del doge Andrea Contarini gli facea pubblico merito dell’aver resistito alle tentazioni delle monache[200].
Atene non aveva idolatrato Aspasia? in commemorazione di questa venivano onorate le cortigiane; e a Roma la Imperia fu «senza fine da grandissimi uomini e ricchi amata», dal Sadoleto, dal Campari, dal Colocci; convegno di amori insieme e di gentilezze e studj era la costei casa; e in una somministratale dal Bufalo «era tra le altre cose una sala ed una camera ed un camerino sì pomposamente adornati, che altro non v’era che velluti e broccati, e per terra finissimi tappeti. Nel camerino ov’ella si riduceva quando era da qualche gran personaggio visitata, erano i paramenti che le mura coprivano, tutti di riccio sovra riccio, con molti belli e vaghi lavori. Eravi poi una cornice tutta messa a oro ed azzurro oltramarino, maestrevolmente fatta; sovra la quale erano bellissimi vasi di varie e preziose materie formati, con pietre alabastrine, di porfido, di serpentino e di mille altre spezie. Vedevansi poi attorno molti cofani e forzieri riccamente intagliati, [287] e tali che tutti erano di grandissimo prezzo. Si vedeva poi nel mezzo un tavolino il più bello del mondo, coverto di velluto verde. Quivi sempre era o liuto o cetra, con libretti vulgari e latini, riccamente adornati ecc.»[201]. Morta a ventisei anni il 1511, fu sepolta in San Gregorio, coll’epitafio: Imperia cortisana, quæ digna tanto nomine, raræ inter homines formæ specimen dedit.
Altrettanta fama ebbe la Tullia d’Aragona a Venezia (pag. 202), corteggiata da Bernardo Tasso e da altri valenti, i quali Speron Speroni introduce a ragionare con essa nel suo Dialogo d’amore. Non serve ripetere le infami glorie di Rosa Vanozza e di Lucrezia Borgia, cui seguirono dappresso i fasti di Bianca Capello: ben deve far colpo, che donne di famigerata libidine fossero assunte a nozze principesche; ma quei principi, non frenati da potere superiore nè dal formidabile dell’opinione, credeansi lecito ogni talento. Della Franco già parlammo, ed è curiosa una lettera in cui dissuade una signora veneta dal render cortigiana la propria figlia; curiosa dico per gli argomenti che vi adopera, singolarmente insistendo sui pericoli cui espone la vita e le facoltà[202].
Nei diarj manoscritti del Sanuto leggiamo sotto il 1497: — Pochi zorni fa don Alfonso (poi marito di Lucrezia Borgia) fece in Ferrara cosa assai liziera, che andoe nudo per Ferrara con alcuni zoveni in compagnia, di mezo zorno». Il Baglione di Perugia vive in pubblico amore colla sorella. Una signora di Ferrara amata dal cardinale Ippolito d’Este, il mecenate dell’Ariosto, essendosi abbandonata al costui fratello Giulio, ne incolpa la gran bellezza degli occhi di questo; e Ippolito glieli fa cavare. Allora Giulio trama col fratello [288] Ferdinando per ispodestare Alfonso, ma scoperti, son presi, mandati al supplizio; poi sul palco graziati, e chiusi in perpetua prigione. Si rifugge dall’oltraggio di Pierluigi Farnese nel vescovo di Fano.
Paolo Giovio, in un dialogo latino manoscritto presso la sua famiglia in Como, si lagna che, «traboccando il lusso e la licenza, le più nobili matrone ruppero a libidine sfacciata; e mentre i Francesi, uomini subiti, liberali, violenti in amore, già n’aveano parecchie contaminate, gli osceni Spagnuoli, astuti, importuni, con assidui corteggi e scaltri artifizj salirono al talamo di molte. Giacchè altre per cattiveria e lascivia, quali per gran prezzo, le più per ambizione, per tema, per rivalità delle altre, fanno getto del pudore. Che se alcuna savia e pudica rifiuta gl’ignominiosi propositi, non è da nobili cavalieri corteggiata, si mandano soldati a far sacco nelle sue ville e nelle campagne, nè si finisce finchè i mariti stanchi non se ne ricomprano colle notti delle mogli. Casa alcuna non è sicura dalla militare avarizia, se la padrona non si spalleggi della brutta lascivia di alcun insigne uffiziale».
A pugnali e veleni ricorreano o credeansi ricorrere non solo il Valentino e suo padre, ma anche persone in voce di oneste; e li adoprava Alessandro Farnese, reputato dolce e umano, e quando udiva essersi attentato contro la vita del principe d’Orange, mandava circolari d’esultanza; talmente gli assassinj erano parte della tattica d’allora. Di avvelenamenti fra gente d’ogni condizione son piene le biografie e le novelle, e sarebbesi detto fossero il pudore di chi si vergognava dell’assassinio manifesto: fin que’ lietissimi umori del Bibiena e del Berni furono, o si dissero uccisi di veleno: frà Paolo Sarpi consigliava alla Signoria veneta di ricorrervi per tor di mezzo gli uomini pericolosi, stante che il veleno sia men odioso e più utile che il carnefice. Le [289] scene tragiche, onde restò funestata la corte di Cosmo di Toscana, forse vennero esagerate dall’odio dei fuorusciti; ma non meno della lettura del Machiavelli sgomenta il giornale ove il Burcardo notò freddamente misfatti orrendi eppur giornalieri. Nel 1514 la città di Piacenza sporgeva supplica al papa contro del governatore Campeggi, il quale permetteva ogni iniquità, al punto che sotto gli occhi di lui cittadini de’ primarj, e non pochi, sono trafitti impunemente, matrone strozzate nelle proprie case, donne rapite in città, botteghe e officine predate di pieno giorno, ville saccheggiate, rivissute le fazioni, ogni casa piena d’armi e d’armati[203].
Di mezzo a tanta corruzione e atrocità sopravviveano rimembranze cavalleresche: Francesco I combatteva come un antico paladino; venivano a morire di qua dell’Alpi Bajardo e Gastone di Foix; questi mentre assedia Marcantonio Colonna in Verona, udito che trovasi malato, gli spedisce il suo medico, e guarito, lo prega uscire un momento perchè possa vederlo. Ma piuttosto che ad imprese di guerra, la gentilezza ora volgeasi al vivere delle Corti, divenuto una necessità pei poveri di spirito, a cui fanno di mestieri il fasto e le blandizie, e una palestra di belle creanze e di spiritoso conversare.
Il conte Baldassarre Castiglioni mantovano, mandato a raffinarsi presso i principi milanesi, accompagnò nelle armi Francesco Gonzaga di Mantova e Guidobaldo d’Urbino; sostenne ambascerie in Francia, in Inghilterra, in Ispagna; a Roma godette l’amicizia de’ migliori; e quando morì, Rafaello gli fece il ritratto, Giulio Romano ne disegnò la tomba, Pietro Bembo ne preparò l’iscrizione. Stette egli lungamente nella corte d’Urbino, ove esso Guidobaldo, infermo di podagra, «sopra ogni altra cosa procurava che la casa sua fosse di nobilissimi e [290] valorosi gentiluomini piena, coi quali molto famigliarmente viveva, godendosi della conversazione di quelli: nella qual cosa non era minore il piacere che esso ad altrui dava, che quello che d’altrui riceveva, per essere dottissimo nell’una e nell’altra lingua, ed aver insieme con l’affabilità e piacevolezza congiunta ancor la cognizione d’infinite cose: ed oltre a ciò, tanto la grandezza dell’animo suo lo stimolava, che, ancor che esso non potesse con la persona esercitare l’opere della cavalleria come avea già fatto, pur si pigliava grandissimo piacere di vederle in altrui; e con le parole, or correggendo or laudando ciascuno secondo i meriti, chiaramente dimostrava quanto giudizio circa quelle avesse; onde nelle giostre, nei torneamenti, nel cavalcare, nel maneggiare tutte le sorti d’arme, medesimamente nelle feste, nei giuochi, nelle musiche, insomma in tutti gli esercizj convenienti a nobili cavalieri, ognuno si sforzava di mostrarsi tale, che meritasse esser giudicato degno di così nobile commercio.
«Erano tutte l’ore del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizj così del corpo come dell’animo: ma perchè il signor duca continuamente, per la infermità, dopo cena assai per tempo se n’andava a dormire, ognuno per ordinario dove era la signora duchessa Elisabetta Gonzaga a quell’ora si riduceva. Quivi i soavi ragionamenti e le oneste facezie s’udivano, e nel viso di ciascuno dipinta si vedeva una gioconda ilarità, talmente che quella casa certo dir si poteva il proprio albergo dell’allegria: nè mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la dolcezza che da un’amata e cara compagnia deriva, come qui si fece un tempo; chè, lasciando quanto onore fosse a ciascuno di noi servire a tal signore, a tutti nasceva nell’animo una somma contentezza ogni volta che al cospetto della signora duchessa ci riducevamo; e parea che questa fosse una [291] catena che tutti in amor tenesse uniti, talmente che mai non fu concordia di volontà o amore cordiale tra fratelli maggiore di quello, che quivi tra tutti era. Il medesimo era tra le donne, con le quali si aveva liberissimo ed onestissimo commercio; che a ciascuno era lecito parlare, sedere, scherzare e ridere con chi gli parea: ma tanta era la riverenza che si portava al volere della signora duchessa, che la medesima libertà era grandissimo freno; nè era alcuno che non estimasse per lo maggior piacere che al mondo aver potesse il compiacere a lei, e la maggior pena il dispiacerle. Per la qual cosa, quivi onestissimi costumi erano con grandissima libertà congiunti, ed erano i giuochi e i risi al suo cospetto conditi, oltre agli argutissimi sali, d’una graziosa e grave maestà; che quella modestia e grandezza che tutti gli atti e le parole e i gesti componeva della signora duchessa, motteggiando e ridendo, facea che ancor da chi mai più veduta non l’avesse, fosse per grandissima signora conosciuta. E così nei circostanti imprimendosi, parea che tutti alla qualità e forma di lei temperasse; onde ciascuno questo stile imitare si sforzava, pigliando quasi una norma di bei costumi dalla presenza d’una tanta e così virtuosa signora...
«Tra l’altre piacevoli feste e musiche e danze che continuamente si usavano, talor si proponevano belle questioni, talor si faceano alcuni giuochi ingegnosi ad arbitrio or d’uno or d’un altro, nei quali sotto varj velami spesso scoprivano i circostanti allegoricamente i pensieri suoi a chi più loro piaceva. Qualche volta nasceano altre disputazioni di diverse materie, ovvero si mordea con pronti detti; spesso si facevano imprese, come oggidì chiamiamo; e sempre poeti, musici, ed ogni sorta d’uomini piacevoli, ed i più eccellenti in ogni facoltà che in Italia si trovassero, vi concorrevano»[204].
[292]
Queste colte e decenti eleganze volle il Castiglioni ritrarre con uno stile senza frasche, fingendo ragionamenti in cui si delineano le condizioni del Cortigiano, come allora chiamavasi il gentiluomo. Secondo l’andazzo, troppo spesso egli imita, e principalmente nelle introduzioni ricorda Cicerone. Come questo, anzichè sulla stoica austerità, si regge sulla media condiscendenza socratica, che riduce la virtù alla scienza, il vizio all’ignoranza. Nè s’approfonda egli nella natura umana come dovrebbe chi detta precetti; sbiadisce lo spicco delle fisionomie; nulla vuole si operi con originalità e di primo lancio. Per raggiungere il tipo ideale del cortigiano dà precetti del vestire, del parlare, far riverenze, se mentire e fin a qual punto; sovrattutto sappia bene di scherma, oltre il ballo, il nuoto, il salto, e sonare e gli esercizj piacenti; non abbia poi particolarità, cioè carattere. Vuole «che il cortigiano si volti con tutti i pensieri e forze dell’animo suo ad amare e quasi adorare il principe a cui serve, sopra ogni altra cosa, e le voglie sue e costumi e modi tutti indirizzi a compiacerlo» (lib. II); e insegna l’arte di lodare il principe senza che paja adulazione, di lodar se stesso senza che paja vanità, di mostrar renitenza agli onori e posti che più s’ambiscono, di spassare la brigata con bisticci e coll’esagerare un motto; l’arte insomma d’essere immorale e grazioso. Eppur vuole che il suo cortigiano eviti le piacenterie e le condiscendenze smodate, non dissimuli le opportune verità; del che offre esempio egli stesso, disapprovando le arti troppo comuni fra i principi.
Ammiratore dell’età sua come tutti i contemporanei, deride i lodatori del passato. «Che gl’ingegni di quei tempi fossero generalmente molto inferiori a que’ che son ora, assai si può conoscere da tutto quello che d’essi si vede, così nelle lettere come nelle pitture, statue, edifizj ed ogni altra cosa. Biasimano ancora [293] questi vecchi in noi molte cose che in sè non sono nè buone nè male, solamente perchè essi non le faceano; e dicono, non convenirsi ai giovani passeggiare per la città a cavallo, massimamente sulle mule, portar fodre di pelle, nè robe lunghe nel verno; portare berretta, finchè almeno non sia l’uomo giunto a diciott’anni, ed altre tai cose: di che veramente s’ingannano; perchè questi costumi, oltre che siano comodi ed utili, son dalla consuetudine introdotti, ed universalmente piaciono, come allor piaceva l’andare in giornea con le calze aperte e scarpette pulite, e, per essere galante, portare tuttodì uno sparviero in pugno senza proposito, e ballare senza toccar la mano della donna, ed usare molti altri modi, i quali, come ora sariano goffissimi, allor erano prezzati assai. Però sia lecito ancor a noi seguitare la consuetudine de’ nostri tempi, senza essere calunniati da questi vecchi, i quali spesso, volendosi laudare, dicono: — Io aveva vent’anni che ancor dormiva con mia madre e mie sorelle, nè seppi ivi a gran tempo che cosa fossero donne; ed ora i fanciulli non hanno appena asciutto il capo, che sanno più malizie che in que’ tempi non sapeano gli uomini fatti»; nè si avveggono che, dicendo così, confermano i nostri fanciulli aver più ingegno che non avevano i loro vecchi» (lib. II).
La conversazione piacevoleggiavasi con racconti e con facezie, sulla qual materia egli si dilata; e molto intorno alle donne di palazzo, facendole ispiratrici del suo cortigiano; tocca con delicatezza l’amore, e se convenga corteggiare, e se piuttosto una pulzella o una maritata, e come impedire che l’amore degeneri in effeminatezza, contro della quale si avventa.
Educato il suo gentiluomo, lo colloca a fianco al principe, e qui l’interesse diviene più largo, l’autore più franco nel deplorare quelli abbandonati alla licenza [294] e all’adulazione, mentre vorrebbe si presentasse loro la verità sotto il velo del piacere. Vero è che i consigli ch’e’ porge al principe riduconsi a generalità inconcludenti, o al più dicevoli a piccoli signori, e col patto che sieno buoni. «Non si può forse dare maggior laude nè più conveniente ad un principe, che chiamarlo buon governatore. Però, se a me toccasse instituirlo, vorrei che egli avesse cura non solamente di governar le cose già dette, ma le molto minori, ed intendesse tutte le particolarità appartenenti a’ suoi popoli quanto fosse possibile, nè mai credesse tanto, nè tanto si confidasse d’alcun suo ministro, che a quel solo rimettesse totalmente la briglia e lo arbitrio di tutto ’l governo; perchè non è alcuno che sia attissimo a tutte le cose, e molto maggior danno procede dalla credulità de’ signori che dall’incredulità, la quale non solamente talora non nuoce, ma spesso sommamente giova: pur in questo è necessario il buon giudizio del principe, per conoscere chi merita essere creduto e chi no. Vorrei che avesse cura d’intendere le azioni, ed esser censore de’ suoi ministri; di levare ed abbreviare le liti tra i sudditi; di far fare pace tra essi, e legargli insieme con parentadi; di fare che la città fosse tutta unita e concorde in amicizia come una casa privata, popolosa, non povera, quieta, piena di buoni artefici; di favorire i mercatanti ed ajutarli ancora con denari; d’essere liberale ed onorevole nelle ospitalità verso i forestieri e verso i religiosi; di temperare tutte le superfluità; perchè spesso per gli errori che si fanno in queste cose, benchè pajano piccoli, le città vanno in ruina. Però è ragionevole che il principe ponga meta ai troppo suntuosi edificj dei privati, ai convivj, alle doti eccessive delle donne, al lusso, alle pompe nelle gioje e nei vestimenti, che non è altro che un argomento della lor pazzìa; chè, oltre che spesso, per quell’ambizione ed invidia che si portano [295] l’una all’altra, dissipano le facoltà e la sostanza dei mariti, talora per una giojetta o qualche altra frascheria vendono la pudicizia loro a chi la vuol comperare» (lib. IV).
L’opera del Castiglioni divenne la più diffusa in Europa. L’avea preceduto Agostino Nifo[205], il quale, riducendo l’arte del cortigiano a disannojar i grandi con facezie e novelle, ne apre loro le fonti, a scapito della carità e del pudore. In tal senso vanno la Donna di Corte di Lodovico Domenichi; gli Uffizj dell’uomo di Corte di Pelegro Grimaldi e Giambattista Giraldi; del Muzio il Gentiluomo, ove sostiene la libertà essere personale, e perciò maggiore nel letterato che nel guerriero, e le Cinque cognizioni necessarie a giovin signore che entra alla Corte, le quali sono, ricordarsi d’esser uomo, cristiano, nobile, giovane, signore; ed altre operette di questo andare, i cui precetti tendevano a togliere più sempre quell’impronta individuale, così propria delle creazioni moderne, che primeggia in Dante, mentre scompare nell’Ariosto e nel Tasso, e che spiccava ancora negli uomini del principio del secolo; e il togliere la quale fu il còmpito della seconda metà di esso, per consegnare l’uomo mutilo e schiomato alle vergogne del seicento.
L’Italia ne’ suoi bei giorni avea speso ad erigere quelle cattedrali, di cui altrove è una per regno, e qui in ciascuna città; quei canali, che portavano la fertilità sui campi e il commercio. Adesso più non era il popolo che pensasse alle glorie e ai comodi proprj, ma duchi e signori che volevano ostentare magnificenza per abbagliare e stordire, e dar a credere ai vicini che i loro popoli fossero beati perchè aveano feste e magnificenza di Corti. Chi, scorrendo le storie di quel tempo per [296] meglio che per mera curiosità, non è preso da un senso singolare al vedere tanta pompa accanto a tante sofferenze, tanta allegria fra sì cocenti infelicità? Il gusto dei godimenti materiali, tanto pregiudicevole alla libertà, quanto opportuno a quei che la vogliono rapire, aveva invaso i mortali; i prodotti tributati dai nuovi paesi erano accolti colla spasmodica ingordigia d’un recente acquisto; la ridesta erudizione porgeva soggetti a briose mascherate e a composizioni teatrali; il medioevo proseguiva i suoi tornei; sicchè mescolavansi misteri di santi, comparse di numi, arcadiche semplicità. Nel Berlingaccio a Roma ogni cardinale mandava maschere in carri trionfali e a cavallo, con suoni e ragazzi che cantavano, e buffoni che lanciavano arguzie lascive, e commedianti ed altri, vestiti non di lino e lana, ma di seta di broccato d’oro e d’argento, spendendo ducati a josa[206]. Nozze, battesimi, ingressi di principi o di papi spesseggiavano occasioni di tripudj sontuosi.
Han rinomanza i carnevali di Roma, de’ quali il corso e i moccoletti durano tuttora. Più chiassosi erano un tempo, e singolarmente abbiamo ricordi di quello del 1545, detto di Agone e di Testaccio. Dal Campidoglio si diressero a piazza Navona molti trombetti a cavallo vestiti di rosso, poi i ministri della giustizia, da 7000 artieri, tutti in compagnie e divise con trombe e tamburi e bandiere, trammezzati da soldati e carri. Dei quali il primo diceasi massimo, ed apparteneva al rione di Transtevere; l’altro al rione di Ripa, portando la Fortuna; il terzo al rione di Sant’Angelo, figurante Costantinopoli, e così de’ varj rioni, con varie significazioni, fra cui un cervo inseguito, Abila e Calpe, il Mongibello, Prometeo sul Caucaso, Turchi, Italiani, Tedeschi in zuffa, un Concilio che condannava gli eretici; i connestabili [297] dei tredici rioni, i gentiluomini di Sutri e Tivoli, e cori all’antica, e musici, infine il carro del papa, colla statua in abito pontificale, e virtù simboliche e attorno le cariche, e staffieri e paggi, poi il gonfaloniere di Roma, ornato di gioje perfin gli sproni, e da ultimo i conservatori della città e il senatore del Campidoglio. Nei palazzi lungo il giro tutto era folla e parati; sulla piazza Navona schieraronsi come un battaglione, poi ripresero la marcia; e la festa costò 100,000 scudi, oltre i vestimenti.
La festa di Testaccio fu a modo simile, eccetto i carri. Le alture che circondano il prato eran piene di gente, e palchi e carri e attorno fanterie e cavalli. Vi si rinnovò la pompa suddetta, poi la caccia dove furono uccisi tredici tori, e lanciate sei carrozze, ciascuna con pallio rosso e un porco vivo. Qui gran livree di varj cardinali, con divise variatissime e a gara ricche; si corsero pallii, anche d’asini e di bufale, e bagordi e tumulti, poi alla sera commedia. E il narratore[207] avverte che il primo giorno di quaresima fu la stazione a Santa Sabina, la [298] quale fu tanto solenne, che molti vennero in disputa chi fosse più bello, il carnevale o la quaresima di Roma.
Alle feste di Roma doveano contribuire gli Ebrei, la cui università pagava 1130 fiorini d’oro pel carnevale, inoltre mandar alcuni deputati al magistrato della città, implorando che il popolo romano ne continuasse la protezione, e offrendo un mazzo di fiori con una cedola da 20 scudi per addobbare i palchi d’essi magistrati.
Lo slanciar polvere, farina, razzi cagionava molti disordini, finchè Sisto V, che alzò forche e torture in cospetto di tali divertimenti, represse gli eccessi, e introdusse di scagliare confetti.
Firenze, come già Atene, vi accoppiava squisitezza d’arti; e veramente lungo tempo si mantenne paradiso degli artisti, i quali formavano quasi un mondo distinto, tutto vivacità e studio e gare ed anche invidie, siccome manifestano sovrattutto gli scritti del Cellini e del Vasari. Già a lungo ne divisammo; e non finirono colla libertà, anzi di nuovo tutte le arti si congiunsero per celebrare le nozze di Cosmo de’ Medici con Eleonora di Toledo. La prima sera, fra splendidissimo apparato, Apollo celebrò gli sposi, e le muse risposero una canzone in otto parti; seguì una dopo l’altra ciascuna città di Toscana personificata, e cinta di ninfe e di fiumi, cantando una strofa agli sposi. La seconda sera, fu rappresentata una commedia di cinque atti in prosa, con prologo e intermezzi in verso cantati, dove figuravano l’aurora e le varie ore del giorno, finchè la notte riconduceva il sonno; ma un coro di satiri e baccanti collo strepito, le danze, il riso, eccitava l’ilarità. Giambattista Gelli avea composto la musica del primo giorno, Giambattista Strozzi del secondo, Sebastiano Sangallo dipinte le scene, e il Giambullari ce ne lasciò la descrizione: come il Vasari diè quella degli apparecchi [299] per le nozze di Francesco de’ Medici con Giovanna d’Austria[208].
Se le maggiori magnificenze si vedevano a Roma e a Firenze, nè Ferrara nè Napoli voleano lasciarsi togliere il passo. Di Venezia continuavano ad essere rinomati i carnevali; e allo sposalizio del mare, e all’altre patriotiche commemorazioni, il popolo illudevasi di partecipare ancora a un governo che lo invitava alle feste e ai pranzi. Quando Zilia Dandolo sposò il doge Lorenzo Priuli nel 1557, i senatori, passando sotto una serie di archi trionfali, mossero alla casa della novizza, e come salirono le scale e posero il piede in quelle stanze fornite a gran ricchezza, si fece loro bellamente incontro la sposa vestita alla ducale, con sulle spalle un bianchissimo velo di Candia, fissato a sommo la testa al diadema. Dopo salutazioni ed ossequj, le fecero giurare l’osservanza del suo capitolare; ella rese grazie, donò a’ consiglieri una borsa d’oro riccio, e un’altra al cancelliere grande. Correvasi poscia la regata in canale, mentre convenivano da ogni lato barche e gondole, di gran vista pei damaschi e ricchi velluti onde andavano adorne, e lustravano da lunge per molto oro. In queste erano tutte le arti, con tal pompa che gli orefici traevano quattordici gondole; e tutte insieme solcavano la laguna al suono di pifferi, e tra allegri balli e viva, e sotto archi e trionfi; ultimo il bucintoro che trasportava in trono la dogaressa. Allorchè la pompa fiottante approdava alla piazza San Marco, tutta a parati bianchi, calavano prima le arti con innanzi i mazzieri e la musica, indi gli uomini più ragguardevoli, e seguiti da trombetti e donne, fra le quali sei spose, diffusi sulle spalle i capelli intrecciati [300] d’oro; indi ventuna matrone in nero e velate; poi i senatori, il cancellier grande, i parenti del doge; finalmente tra due consiglieri e gran corteggio la principessa, la quale, cantate grazie e rinnovato il giuramento in San Marco, salì negli appartamenti, passandovi a rassegna nelle ricchissime sale le arti, che per mezzo de’ loro castaldi offrivano ciascuna complimenti e doni. Pervenuta alla gran sala, andava assidersi sul trono ducale. Le facevano corona i grandi dello Stato, e per la sala s’aggiravano signori e maschere di bizzarrissime guise.
Caduta la notte e fatta gran luminaria per tutto il palazzo, apparvero in giro sulla piazza trecensessanta uomini divisati a un modo, ciascuno sollevando un piatto d’argento riboccante di confetti e dolci, e accompagnati da cento torcie portate da giovinetti in seta, seguiti da venticinque gentiluomini con mazzieri e musica: poichè ebbero condotto un lungo giro fra la plaudente moltitudine, si condussero in palazzo, ed entrati nel salone, offrivano quelle delicatezze al corteggio e alla principessa; intanto davasi fuoco a una macchina d’artifizio. Indi cominciava la danza, intramezzata da splendida cena; nè si cessava dal ballo fino al nuovo giorno, in cui ritornavasi alla festa ed in ispecie i macellaj vi facevano la caccia de’ tori. E durarono molti giorni quelle allegrezze[209].
[301]
Superò ogni anteriore magnificenza la festa fatta nel 1574 a Enrico III, quando fuggiasco dalla mal governata Polonia, passava a governar peggio la Francia. Nell’arsenale gli fu imbandita una colazione di frutti canditi, ove forchette, cucchiaj, piatti erano di zucchero: stavano allora in lavoro ducento galee sottili, sei galeazze e molti piccoli legni; e mentr’egli girava visitando, si compaginò e allestì una galea. Alla festa nella sala del maggior consiglio intervennero da ducento gentildonne, biancovestite con ricchissime gioje, e tutte ebbero cena nella sala dello Squittinio. Il re prese gran divertimento delle recite e invenzioni di mascherate e musiche di Andrea Calmo; visitò le belle, e le ville signorili: peccato che tanta splendidezza siasi sciupata per chi non la meritava[210].
Quando a Milano il magno Trivulzio sposò Beatrice d’Avalos, il banchetto fu siffatto. Data alle mani acquarosa, cominciossi da pasticci di pignuoli e zuccaro e focaccia di mandorle e altre delicature, tutte messe a oro; vennero poi belli asparagi, più ammirati perchè fuor di stagione; indi polpe e fegatelli, carne di starne arrostita, teste di vitelli intere, colla pelle messa a oro e argento; capponi e piccioni con salsiccia e presciutto e vivande di cinghiali con potaggi delicati; un castrato intero arrosto con savore di cerase; tortore, pernici, fagiani e altri uccelli arrosto, con olive per concia; pollastri con zuccaro, aspersi d’acquarosa; un porchetto intero arrosto con agro dolce, un pavone arrosto, una miscela d’ova, latte, salvia, zuccaro; pomi cotogni con zuccaro, pini e carciofi; altre dolcezze pruriginose; infine dieci maniere di torte e molte confetture; ogni [302] cosa in piatti d’argento e oro, accompagnata ciascuna da fiaccole e trombe; e in esse fiaccole v’avea gabbie di tutti quegli uccelli e quadrupedi che si servirono cotti. Si finì al solito con commedianti, saltatori, musici e funamboli»[211].
Nel febbrajo 1515 Prospero Colonna, quando divenne capitano della gente d’arme del duca di Milano, fece al duca, a’ cortigiani, ed a trentasei damigelle un mirabile convito e festa da ballo, sotto un atrio di legname dipinto e indorato, di gran bellezza e misteriosità, dice il Prato, che prosegue: «Stavano gli uomini alle sue tavole, e le donne altresì, con sì lunga varietà di cibi, che per quattro ore durò il portare. E a ogni bocca si serviva un intiero fagiano, una pernice, un pavone e altre cose: portando per ogni imbandigione una cosa di zuccaro indorata, somigliante a quella che si offeriva; ed in compagnia altri tanti pesci: e tre volte fu levato e rimesso la tovaglia e mantili, con tanti adornamenti di acque e di foglie, che l’Arabia ne avria avuto scorno. Venuto il fine della cena, venne un giovine, il quale s’infinse di esser giojelliero, molte collanette, braccialetti e altre fantasie d’oro mostrando: onde le damigelle con maraviglia cominciorno tante bellezze a vedere, e domandavano il prezzo d’una cosa e d’un’altra, finchè sopraggiunse esso signor Prospero, mostrando d’intromettersi; e alla fine ogni cosa finse comprare, e a quelle damigelle le donò, talchè niuna partì che non avesse presente per venti scudi d’oro, e chi trenta; e dicesi che questo fece, solo per potere la sua amata, senza biasimo d’infamia, con le proprie mani presentare. Poi la mattina seguente a tutte mandò un cesto inargentato, con entro la sua colazione; e al duca fece portare venticinque cariche di salvaggine, a lui avanzate»[212].
[303]
Avvertiremo di nuovo come un lusso di tanta ostentazione andasse scompagnato da quelle comodità che fanno confortevole il vivere. Pure di molte n’erano state introdotte. In Santa Maria Maggiore a Firenze leggeasi sopra un sepolcro: Qui diace Salvino l’Armato degli Armati di Firenze, inventor degli occhiali, Dio gli perdoni le peccata. Anno D. MCCCXVII. Altri ne nominano inventore fra Alessandro da Spina pisano, morto il 1313, che forse non fece che divulgare quest’arte tenuta in prima secreta; poichè nel Trattato del governo della famiglia di Sandro di Pipozzo fiorentino, nel 1299, già si legge: — Mi trovo così gravoso d’anni, che non avrei valor di leggere e scrivere senza vetri appellati occhiali, trovati novellamente per comoditate de li poveri vecchi quando affiebolano dal vedere»; e il famoso frà Girolamo da Rivalta predicava in Firenze nel 1305: Non è ancor vent’anni che si trovò l’arte di far gli occhiali... ed io vidi colui che fece gli occhiali, e favellaigli».
Il primo oriuolo da torre che si ricordi fu a Padova per un Dondi, la cui famiglia conserva il titolo dell’Orologio; poi a Milano quelli di Sant’Eustorgio nel 1306 e di San Gotardo nel 1335; nel 1328 Wallingford n’avea posto uno a Londra, e da quel tempo si estesero. A Firenze nel 1512 «si mise in palazzo de’ Signori un nuovo oriuolo, che cominciò a sonar l’ore in calen di febbrajo 1512 a dodici ore: dove prima sonava da un’ora per insino ore ventiquattro, ch’è il dì e la notte, lo ridussero a ore dodici per volta, che vengono a dividere la notte e il dì per metà a uso di ponente» (Cambi). Anche gli oriuoli da tasca divulgaronsi; venivano di Germania, e dalla forma erano detti ova di Norimberga.
Le strade pure miglioravano, ad alcuna si posero cartelli indicatori: ma viaggi e passeggiate faceansi a [304] cavallo o in bussola, finchè le carrozze divennero più comuni; in qualcuna la cassa fu sospesa a cinghie per diminuire le sciacche; ma non v’avea mantice nè vetri, e al più erano protette da cortine, mentre le dorature, le pitture, gl’intagli le rendevano dispendiose. Nella facilità odierna è curioso leggere come lord Russell, incaricato di pagare al connestabile di Borbone i sussidj di Enrico VIII, dovette da Genova a Chambéry portar il denaro a schiena di muli entro ballotti e sacchi, sotto forma di biancheria vecchia e di legumi venderecci. Da Chambéry scrisse a quel re qualmente il duca di Savoja «da nobile e generoso principe» degnò permettere si trasportasse il denaro a Torino «sui proprj muli nel forziere della casa reale, ove stanno di solito gli ornamenti della sua cappella; sovra ciascuno compartimento di esso baule è scritto il contenuto, affinchè nessuno dubiti che v’abbia altra cosa»[213]. Sotto tale artifizio viaggiò a salvamento il sussidio, che doveva fomentare la guerra in Francia. Il cardinale Bibiena rimprovera Giuliano de’ Medici che era in Torino, di non dar notizie sue al papa; «nè si scusi con dire che per essere il loco fuor di mano, non ha saputo ove indirizzare lettere; perciocchè a Genova o a Piacenza si potevano ad ogn’ora mandare per uomo a posta»[214]. La comodità delle poste fu introdotta prima che altrove in Italia, mediante corrieri a cavallo, regolarmente stabiliti agli opportuni ricambi, per servizio de’ negozianti, ancor prima che de’ principi e del pubblico. Noi dicemmo (pag. 190) come i signori Della Torre portassero fuori quell’uso.
Dovette certamente scompigliare le abitudini l’affluenza del metallo d’America, che alterò i salarj, [305] agevolò le transazioni e il modo di pagare i debiti; ma sul principio angustiò i poveri, pei quali erano rincarite tutte le necessità, nè ancora cresciuti i compensi. Insieme vennero diffuse molte droghe, lo zuccaro principalmente e il caffè. Il Redi nel Bacco loda Antonio Cadetti fiorentino di aver dei primi fatto conoscere la cioccolata in Europa, aggiungendo che la corte toscana v’introdusse scorze fresche di cedrati e odore di gelsomino insieme colla cannella, la vaniglia, l’ambra. Allora pur venne la sudiceria del tabacco, indarno contrastata dall’igiene e dalla buona creanza[215].
In Italia, più che negli altri paesi, mangiavasi bene, abitavasi comodo: le vesti, impreteribile distintivo delle condizioni, non erano cenciose nelle infime classi, mentre nelle superiori caricavansi di pelliccie e ricami e ori e perle: straordinaria la profusione dei profumi. Il Bandello[216] riferisce d’un Milanese che «vestiva molto riccamente e spesso di vestimenta si cangiava, ritrovando tutto il dì alcuna nuova foggia di ricamo e di strafori ed altre invenzioni. Le sue berrette di velluto[217] ora una medaglia ed ora un’altra mostravano; tacio le catene, le anella e le maniglie. Le sue cavalcature, o mula o ginetto o turco o chinea che si fosse, erano più pulite che le mosche: quella che quel giorno [306] doveva cavalcare, oltre i fornimenti ricchi e tempestati d’oro battuto, era da capo a piedi profumata, di maniera che l’odore di muschio, di zibetto, d’ambra e d’altro si faceva sentire per tutta la contrada... Teneva un poco anzichè no del portogallese, che ogni dieci passi, o fosse a piedi o cavalcasse, si faceva da uno dei servitori nettare le scarpe, nè poteva soffrire di vedersi addosso un minimo peluzzo».
Francesco I in una spettacolosa festa di Corte ricevette sul capo un tizzone ardente, e per medicare la ferita fecesi rasare i capelli, tenendo invece la barba prolissa come gli Svizzeri e gl’Italiani; i cortigiani, che si fanno merito de’ morbi del re, subito adottarono le lunghe barbe; l’Università e il Parlamento non vollero accettarle. Leone X ordinò che i preti smettessero le barbe; e tutta Roma fece scene sul dolore che provò Domenico d’Ancona nel tagliarsi la sua, immortalata dal sonetto del Berni quanto la chioma di Berenice da Callimaco.
I mobili domestici, se mancavano di quell’opportunità che oggi reputiamo dote prima, erano magnifici, intagliati maestrevolmente, dipinti dai migliori pennelli. Girolamo Negro[218] scrive, il cardinal suo padrone trovarsi in estrema povertà pel suo grado; «tiene circa venti cavalli, perchè le facoltà sue non gli bastano per più, e bocca quaranta; vivesi mediocremente a guisa de’ religiosi senza pompe; e il papa gli ha assegnato scudi duecento al mese per il suo vivere, la qual provvisione, con gli emolumenti del cappello, basta per l’ordinario della spesa; e scorrerassi così finchè Dio mandi altro». Quale splendido e ricco cardinale d’oggi raggiunge la costui povertà?
Gli oratori spediti da Venezia nel 1523 ad Adriano VI, [307] in Roma furono festeggiati dal cardinale Cornér, che diè loro un «pasto bellissimo, da sessantacinque portate, e per ciascuna venivano tre sorta di vivande, che erano mutate con gran prestezza, sì che appena si aveva degustata una, che ne sopraggiungeva un’altra, il tutto in bellissimi argenti e in gran quantità. Finito il pasto, si levarono stufi e storditi e per la copia delle vivande, e perchè vennero ogni sorte di musici; pifferi eccellenti sonarono di continuo; erano clavicembali con voci dentro mirabilissime, liuti a quattro, violoni, lironi, canti dentro e fuori, una musica dietro all’altra[219].
Luigi d’Este cardinale, fratello del duca di Ferrara, una volta mandò al re di Francia in dono quaranta superbi cavalli da guerra di grandissima valuta, con selle e gualdrappe a oro, e condotti da quaranta palafrenieri vestiti di seta con oro alla levantina. Non meno di ottocento persone componeano la sua famiglia; ed essendo venuto a Roma il granmaestro de’ Giovanniti con trecento cavalieri per purgarsi d’un’accusa, esso li ricevette e trattò tutti nel suo palazzo.
Eppure non di rado uscivano prammatiche severissime contro il lusso, e potremmo addurre quella che il consiglio generale di Cremona emanò il 1547, e fece approvare dal senato di Milano e da Carlo V. Proibiva essa di portar collane, braccialetti o altro ornamento d’oro, salvo una medaglia al berretto di non più che dodici scudi d’oro, e anelli; sugli abiti nessun ricamo o intaglio di seta; alle cavalcature non fornimenti con oro o argento o ricami. Le donne maritate abbiano negli abiti oro o argento, nè ricami, trine, cordoncini; non più di tre vesti di seta, e una sola di cremisino; non perle o gioje, fuorchè due anelli d’oro con pietre alle dita, una collana d’oro di [308] scudi venticinque non più, un’altra al ventaglio di scudi quindici al più; non guanti ricamati o zibellini, non berrette fuorchè la notte e in viaggio. Le fanciulle non mettano vesta di seta, nè gioje od oro, salvo un vezzo di coralli al collo del valore al più di scudi quattro; nè vadano a ballo che i tre ultimi giorni di carnevale. Ai banchetti, vietati assolutamente pavoni e fagiani, una sola o due sorta di selvaggina, non più di tre sorta di lessi domestici, escludendo la salsa reale, il biancomangiare, i pasticci, e i pesci e le ostriche o altre frutte di mare, nè più di due maniere di torta; ne’ pranzi di magro una sola qualità di pesce, escluse le ostriche. Le vivande si diano semplici, senza ornamento di pitture, intagli, banderuole ed altre frascherie trovate dagli scalchi. Ai battesimi non si doni cosa alcuna a compadri e comadri. Ai mortorj non si attacchino in chiesa insegne, scudi, pitture, nè si faccia banchetto.
Ciascuna città potrebbe mostrarne di consimili, più convenienti alla curiosità municipale che alla storica erudizione. Alla quale neppur so se sia duopo soggiungere che sempre erano delusi. In Venezia era vietato ai cittadini vestir altrimenti che nero. Ma che? aspettavano i giorni di carnevale per isfoggiar pompe e forestierie, e massime diamanti; attesochè le gioje non si vendevano dalle famiglie patrizie, ma trasmettevansi agli eredi accumulate. Colà sappiamo che le fanciulle non uscivano mai di casa, salvo che per andar alla messa e alla comunione a pasqua e a natale, ed anche allora velate; e contraevano nozze senza essere conosciute[220].
[309]
Dopo la calata di Carlo VIII si propagò l’uso delle imprese, che erano o figure o motti, e spesso figure e motti personali, a differenza degli stemmi; e che uno [310] adottava per indicare lo stato o l’inclinazione propria; e si ricamavano o scolpivano sui mobili, sulle vesti, sulle arme. Di inventarne erano richiesti i letterati, e massime i secretarj; e dall’Ariosto fu trovata una pel duca di Ferrara, dal Molza pel cardinale De’ Medici, dal Santuario varie pei Colonna, dal Giovio pei Medici, pei Pescara, per gli Adorni. Esso Giovio in un Dialogo trattò ampiamente delle imprese militari e amorose, del modo di farle e delle loro significazioni; sulla qual ingegnosa arguzia dettarono pure il Simeoni, il Buommattei, il Ferri, il Contile; e Scipione Bargagli n’era reputato l’Aristotele. Le mille accademie d’allora aveano ciascuna la loro impresa, e ciascun accademico una particolare.
Cesare Borgia tolse per impresa Aut Cæsar aut nihil. Lodovico il Moro, un’Italia in sembianza di regina, davanti a cui un Moro con una scopetta in mano; e all’ambasciator fiorentino che gli chiedeva a che servisse questa, rispose: — Per nettarla d’ogni bruttura»; al che il Fiorentino: — Bada che questo servo scopettando tira la polvere addosso a sè». Federico re di Napoli ebbe un libro bruciato col motto Recedant vetera, ad indicare l’oblio de’ torti ricevuti. Il cardinale Sforza, ad esprimere l’ingratitudine di Alessandro VI, che da lui fatto papa, avea poi depresso il duca suo fratello, adottò la luna che eclissa il sole col motto Totum adimit quo ingrata refulget. Alfonso di Ferrara, una bomba che scoppia a tempo e luogo. Vittoria Colonna, uno scoglio contro cui l’onde spumavano, e il motto Conantia frangere franguntur. L’Ariosto, una [311] bugna di pecchie cui il villano uccide col fumo per cavarne i favi, e il motto Pro bono malum. Il Burchelati letterato trevisano, un granchio colla zampa aperta, e Melius non tangere, clamo. Il Bembo, un Pegaso in atto di levarsi a volo, e Si te fata vocant. Il Davanzati, un cerchio di botte, e Strictius arctius, alludendo al suo stile stringato. Il grancapitano Gonzalvo ebbe una leva a corde che tende una balestra, col motto Ingenium superat vires. Carlo Orsini un pallone sbalzato dal bracciale, col motto Percussus elevor. Francesco Gonzaga di Mantova, accusato d’aver lasciato sfuggire Carlo VIII a Fornovo, poi giustificatone, prese la divisa Probasti me, domine, et cognovisti. Alludendo ai proprj omonimi, Muzio Colonna adottò una mano che arde, e Fortia facere et pati romanum est; e Fabrizio, un vaso di monete d’oro, con Samnitico non capitur auro. Pel duca Cosmo succeduto ad Alessandro si scrisse Uno avulso, non deficit alter. Il magnifico Lorenzo aveva un lauro sempreverde, e Ita et virtus. Luigi Marliano medico milanese inventò per Carlo V le colonne d’Ercole coll’aquila in mezzo, e Plus ultra.
Delle magnificenze italiane presero gusto i Francesi, sì dal vederle qui, sì dalle donne che per matrimonio passarono a quella reggia. Eppure ancora il Castiglioni diceva che «i Francesi solamente conoscono la nobiltà dell’arme, e tutto il resto nulla estimano, di modo che non solamente non apprezzano le lettere, ma le aborriscono, e tutti i letterati tengono per vilissimi uomini, e pare dir gran villania a chi si sia quando lo chiamano clerco». Ma di là già venivano arguti osservatori e beffardi a esaminare i nostri costumi: Rabelais, che doveva alla corte romana affiggere il ridicolo; Montaigne, che col suo buon senso rilevava le stranezze di alcuni costumi italiani: il poeta Marot, che «in questo paese alberato, fertile di beni, beato di donne» imparava a [312] parlar poco, far buona cera, non parlare di Dio, poltrire, e fermarsi un’ora sopra una parola[221]. E certamente moltissimo ci comunicarono i Francesi, dotati del genio della divulgazione, prodighi delle idee proprie quanto vaghi delle altrui, che danno e ricevono a piene mani senza far ragguaglio, che non arrossiscono d’esser obbligati, anzi sembrano credere che gli stranieri devano ringraziarli d’essersi lasciati beneficare.
L’amor de’ piaceri e delle comparse doveva crescere il desiderio dell’oro e dei doni, e la facilità del vendersi. Il cardinale d’Amboise ministro di Francia ricevea cinquantamila ducati di provvigione da varj principi e repubbliche d’Italia, di cui trentamila dalla sola Firenze. A Giovanni Micheli, ambasciador veneto alla Corte inglese, ricercava molti doni mistress Clarenzia cameriera della regina Maria «per bisogno e servizio di sua maestà, oltre un cocchio con i cavalli e tutti li apparecchi, presentato per la voglia che ne aveva la detta cameriera, alla quale la regina il donò: il quale cocchio fatto venire d’Italia, tenevo per mia comodità, avendolo usato tutta questa stagione, che non voglio per modestia dir quello che mi costasse; basta ch’era tale che non disonorava il grado d’ambasciatore»[222].
Tra questi godimenti dell’immaginazione, Italia consolavasi o stordivasi della servitù, o si divezzava dall’aborrirla; e come solennità e allegrie accoppiava alle miserie e ai patimenti, così a quel meriggio d’arti e di [313] lettere accompagnava molti delirj, e le superstizioni che mai non abbondano quanto allo svanire del giusto sentimento religioso. Più delle altre funesta e universale fu la credenza a relazioni immediate fra l’uomo e gli esseri soprannaturali, e che la magia possa legare la potenza divina e la libertà umana, e romper l’ordine morale e fisico del creato con atti materiali senza intelletto nè amore.
Si manifestò essa in forma scientifica e in forma vulgare, e l’una diede mano all’altra per riuscire a spaventosi effetti. Dal neoplatonismo, cioè da quell’impasto mezzo poetico e mezzo filosofico di dottrine indiane, egizie, greche, ebraiche, che la scuola d’Alessandria pretendeva sostituire ed opporre al cristianesimo, vennero inoculate alla società moderna le arti teosofistiche. Conservatesi traverso al medioevo, rinvalidate dal contatto coll’Asia nelle crociate, parve che il rinnovato studio degli antichi, che pur doveva invigorire il pensiero, trascinasse a credenze, ove da principj falsi deducevansi logicamente errori sciagurati. Alla ricerca dei tre maggiori beni del mondo, salute, oro, verità si dirigevano tali scienze.
Guardate gli scrittori più spregiudicati, e sarete chiari come si credesse generalmente all’astrologia, ai pronostici, ai sogni. Il Pomponazzi, che impugna l’immortalità dell’anima, sostiene (De incantationibus) gl’influssi dei pianeti, ai quali non a demonj è dovuta la facoltà di alcuni d’indovinar l’avvenire; e secondo il loro ascendente, l’uomo può scongiurar il tempo, convertire in bestie, far altre meraviglie[223]. Credettero all’astrologia [314] il Campanella e il Fracastoro, Machiavelli e Lutero: Melantone la difendeva contro Pico della Mirandola, mostrando molti casi predetti da congiunzioni di pianeti. Carlo VIII acquistava fiducia alla sua spedizione col far correre una profezia promettitrice d’insigni vittorie. Del valente astrologo Galeotto Marzio di Montagnana è manoscritta nella biblioteca di Padova una Chiromanzia del 1476: accusato d’eresia, fu obbligato a pubblica ammenda, bruciato un suo libro che aveva portato in Ungheria e Boemia; cascando poi da cavallo fuor d’Italia, s’uccise. Ebbero pur grido il veronese Lionardo Montagna autore d’un Breviarium vaticinii, Lodovico Lazarelli da San Severino, Luca Guaríco napoletano, che molte opere scrisse, e fece fortuna; ma predetto al Bentivoglio di Bologna che per le sue crudeltà sarebbe espulso, questi fece dargli cinque tratti di corda, de’ quali risentì tutta la vita, e imparò ad esser meno preciso e più cauto. Jacopo Zabarella padovano, il cui trattato di logica fu adottato nelle Università di Germania, era invasato dell’astrologia, fece moltissime predizioni, e anche della propria morte.
Più tardi il buon matematico Cavalieri nella Ruota planetaria pretese rivelar ciò che fanno nelle loro sfere le stelle, e come in bene e in male influiscano; il Borelli dettò una difesa dell’astrologia per Cristina di Svezia; Marcantonio Zimara di Otranto, famoso medico, pubblicò Antrum magico-medicum, in quo arcanorum magico-physicorum, sigillorum, signaturarum et imaginum medicarum, secundum Dei nomina et constellationes astrorum, cum signatura planetarum constitutarum, ut et curationum magneticarum, et characteristicarum ad omnes corporis humani affectus curandos, thesaurus locupletissimus, novus, reconditus etc., con un trattato del conservar la bellezza, e uno del moto perpetuo senz’acqua nè peso.
[315]
Tiberio Rossiliano Sesto, astrologo calabrese, avea sostenuto potersi, per mezzo dell’astrologia, prevedere il diluvio universale; e fu confutato nel 1516 da Gerolamo Armellini faentino, famoso inquisitore di quei tempi[224]. Sul qual proposito frà Giuliano Ughi nella cronica di Firenze scriveva: — A quel tempo si conobbe falsa una lunga opinione, la quale quasi da tutti gli astrologi era tenuta per vera; e questa fu, che per alcune congiunzioni di pianeti dovesse nell’anno 1524, di febbrajo e di marzo, venire in Italia e vicini paesi tanta quantità di pioggie, che dovesse distruggere e rovinare tutti o gran parte degli edificj e case propinque a’ fiumi o in luogo basso poste. Lo messono in scritto e nei pubblici pronostici: e furono tali che, per fare sollecita provvisione, le case loro fornirono di vittuaria per più tempo; alcuni altri di barchette e legnami; altri imbottarono il vino nei palchi, o vero in su i monti: ed era in tutte le parti d’Italia quasi un comune timore[225]. Ma Dio, che la notizia delle future cose ha a sè riservata, mostrò l’umano vedere esser di poca certezza; imperò ch’io non mi ricordo mai un febbrajo ed un marzo il più bel tempo, nè manco piovve, e fu un anno abbondantissimo d’ogni bene, e di buona sanità. Ben è vero che in molti seguenti anni, per sei o sette anni, seguitarono pioggie più che il consueto; onde dal 1525 in là, seguitò tre anni assai carestia e peste. E pensavasi che la divina Bontà misericordiosamente avesse le pioggie, che nel 1524 dovevano naturalmente con nocumento del mondo venire, in più anni scompartite, non senza qualche nocumento. E così nell’anno 1524 fu molto dileggiata e schernita l’astrologia [316] da quelli che non pensavano che Dio fusse ai cieli superiore: ma quelli che credevano che Dio fusse moderatore de’ celesti corsi, pensarono esser vera l’astrologia; sicchè secondo il corso de’ cieli, tal diluvio dovesse venire, ma che la misericordia di Dio l’avesse impedito».
Singolare contesto di pregiudizio e buon senso! Eppure quando lo Stöffer di Tubinga pronosticò che, per la congiunzione dei tre pianeti superiori, il mondo andrebbe a diluvio nel 1554, tutta Europa fu in pensiero di prepararsi uno schermo, e Carlo V ne stava in grand’apprensione, per quanto Agostino Nifo il rassicurasse. Altri parziali spaventi eccitarono i dotti compilatori degli almanacchi[226], or una peste minacciando, or la venuta dei Turchi, ora il mal anno; e poichè indicavano [317] non pure la stagione, ma i dì precisi in cui conveniva fare il salasso, molti morivano piuttosto che farsi trar sangue contro tale indicazione.
Tutte le vite son piene di strologamenti. Al Bembo erasi predetto sarebbe amato e accarezzato più dagli estranj che da’ suoi, e su quest’aspettazione egli regolava le proprie determinazioni. Una notte sua madre sognò che Giusto Goro, lor avversario in un processo, lo feriva nella destra mano; e di fatto costui, per istrappargli un libello che andava a presentar al tribunale, gli diè una coltellata, sicchè poco mancò gli tagliasse via l’indice della dritta. Una suor Franceschina monaca di Zara gli avea vaticinato non sarebbe mai papa.
Due mercanti milanesi, mentre passavano per le foreste di Torino andando in Francia, incontrarono un uomo che ordinò loro di tornare in patria a presentare una lettera a Lodovico Sforza; e soggiunse lui essere Galeazzo Sforza, nipote defunto di questo. Obbedirono: ma come impostori furono incarcerati e posti al tormento; persistendo però essi all’affermativa, dopo lungo discutere del senato si aperse la lettera, e fu letto: — O Lodovico, guardati, perchè Veneziani e Francesi stanno per allearsi a’ tuoi danni, e annichilare la tua stirpe. Ma se mi darai tremila scudi, vedrò di conciliare gli spiriti, sicchè i destini siano sviati». Il duca non credette, e ne seguì quel che sapete.
Anche un secretario di Lodovico Alidosi signor di Imola incontrò il fantasma del padre di questo, che gli ordinò di dirgli al domani si trovasse in quel luogo stesso, e gli rivelerebbe cose di supremo rilievo. Lodovico mandò in sua vece altri; a cui affacciatosi lo [318] spettro, si lagnò della disobbedienza, e gli commise di annunziare a Lodovico che, dopo ventidue anni, il tal giorno perderebbe la città. E così fu appuntino, per quanto l’Alidosi se ne fosse tenuto in guardia[227].
Francesco Guicciardini, mentre governava Brescia per Leone X, scrisse a Firenze qualmente, in una pianura colà vicina, si vedeano di giorno venir a parlamento un gran re da una parte e un altro dall’altra con sei o otto signori, e stati così un pezzo, sparivano; poi venivano in battaglia due grandi eserciti per un’ora; e ciò accadde più volte a qualche intervallo; e alcun curioso che si volle appressare per vedere cosa fosse, dalla paura e dal terrore cascò malato, e stette in fin di morte[228]. Benvenuto Cellini vede diavoli, come li vedeva Lutero. Machiavelli consuma uno de’ capitoli sulle Deche intorno ai segni celesti che precorrono le rivoluzioni degl’imperj, assegnando alle stelle le cause che egli aveva sì a fondo meditate nella nequizia degli uomini e col desolante pensiero del continuo peggiorare della stirpe umana.
In quel sensualismo tra cui smarrivasi la legge morale, l’oro diveniva suprema potenza; e come Spagnuoli e Portoghesi lo cercavano nelle viscere di migliaja d’Americani scannati, i re nello smungere i popoli con nuovi arzigogoli di finanze o intrepidi furti, i letterati mendicando, i soldati rapendo, i preti mercatando le cose sacre, gli eretici invadendo i beni della Chiesa, così gli alchimisti persistevano a rintracciarlo in fondo ai crogiuoli, struggendosi ai fornelli ed ai lambicchi, o andando imparare la grand’arte fra gli Orientali, o a strapparla alla natura ne’ monti magnetici della Scandinavia.
Bernardo Trevisano, nato il 1406 da famiglia di conti, a quattordici anni già si occupava nell’alchimia, [319] e ispiratosi da Geber e Rases, spese da tremila scudi in esperienze; poi si volse a quegli altri gran maestri Archelao e Rupescissa, e in quindici anni di prove «tanto in ciurmadori, che per me onde conoscerli, spesi circa seimila scudi». Cominciava a scoraggiarsi quando un suo paesano insegnogli a far la pietra con sal marino: ma in un anno e mezzo tentatala quindici volte invano, adottò un altro metodo, qual era di sciogliere separatamente in acquaforte, argento e mercurio; e lasciatele un anno, mescolò le soluzioni e le concentrò su ceneri calde in modo da ridurle a due terzi; questo residuo pose al sole in una storta, poi lasciavalo cristallizzare durante cinque anni; ma non ne seguì l’effetto atteso. Bernardo, giunto a quarantasei anni, si mise per altra via, insegnatagli da mastro Goffredo cistercese: comprarono duemila ova di gallina, le fecero sodare, e levato il guscio, lo calcinarono al fuoco; separarono i torli dall’albume, e li fecero fermentare a parte entro concio di cavallo; poi li distillarono trenta volte, finchè n’ebbero un’acqua bianca ed una rossa; si rifecero più volte da capo, variarono, ma senza frutto; onde Bernardo abbandonò anche questa via, dopo seguitala otto anni. Nè però disilluso, lavorò con un gran teologo e protonotaro, che pretendeva cavar la pietra filosofale dalla coperosa; calcinavasi per tre mesi, poi metteasi in aceto distillato otto volte; il misto passavasi al lambicco quindici volte il giorno per un anno. Qual meraviglia se la fatica e l’ansietà gli diedero una febbre che durò quattordici mesi, e fu per torgli la vita?
Guarito appena, ode da un cherico del suo paese che maestro Enrico, confessor dell’imperatore, sapea preparare la pietra filosofale. Detto fatto, eccolo in viaggio per la Germania, e con difficili mezzi introdottosi presso di quello, n’ebbe dieci marchi d’argento e il processo che era siffatto. Mesci mercurio, argento, olio d’ulivo, [320] solfo; fondi a fuoco moderato; cuoci a bagnomaria, rimenando continuo. Dopo due mesi, si secchi in una storta di vetro coperta d’argilla, e il prodotto si tenga per tre settimane sulle ceneri calde; vi si unisca piombo, si fonda al crogiuolo, e il prodotto si sottometta alla raffinazione. Quei dieci marchi doveano allora trovarsi cresciuti d’un terzo: ma ohimè! al fine di tanto lavoro non erano più che quattro.
Il Trevisano desolato giurò d’abbandonare quelle fantasie; i parenti esultavano della risoluzione sua; ma dopo due mesi rideccolo al lambicco. Persuaso però che gli occorressero i consigli di gran sapienti, andò a interrogarli in Ispagna, in Inghilterra, in Iscozia, in Germania, in Olanda, in Francia; e viepiù in Egitto, in Palestina, in Persia, sede di quelle dottrine; a lungo si badò nella Grecia meridionale, visitava principalmente i conventi, coi monaci più rinomati travagliando alla grand’opera. Così arrivò ai settantadue anni, avendo dissipato il ricavo del venduto patrimonio, e giunse a Rodi senza denari, ma colla fiducia nella polvere cercata tutta la vita. Deh perchè una fede altrettanto viva non hanno i cercatori di ben più utili spedienti?
A Rodi tenea stanza un religioso, rinomato in tutto Levante come possessore del gran secreto; ma d’avvicinarlo il conte perdea la lusinga, se un mercante veneziano, conoscente di sua famiglia, non gli avesse prestato ottomila fiorini, e raccomandatolo a quel savio. Tre anni costui lo tenne in studj e speranze onde preparare il magistero per mezzo d’oro e argento amalgamati a mercurio; e alfine gli aperse i secreti della scienza ermetica. Perocchè gli indicò che tutto era frode, lo persuase a cessare dalle illusioni, nel codice della verità mostrandogli questo assioma, — Natura si fa giuoco di Natura, e Natura contiene la Natura». Qui sta il gran secreto, significando in linguaggio comune [321] che per far oro ci vuol oro; e tutta l’alchimia non giunse mai a ottenerne di più di quello che adoperò.
Perdere a settantasett’anni l’illusione di tutta la vita, è pur penoso. Ma il conte Trevisano volle almeno giovare agli innumerabili adepti della scienza ermetica, occupando i sette anni che ancor sopravvisse a scrivere diversi trattati su quella scienza, il più celebre de’ quali è intitolato Il libro della filosofia naturale de’ metalli; e ognuno può leggerlo, e certo pochissimi il leggeranno nel tomo II della Bibliothèque des philosophes chimiques. Opera inutile anch’essa, giacchè, invece di confessar chiaro i suoi inganni a scanso degli altrui, si rinvolse in modo che molti cercarono in esso la scienza ermetica, molti perseverarono a crederlo maestro della grand’opera. Altrimenti pare a noi, sia per quell’assioma fondamentale, intorno a cui si raggira sempre, sia per questo passo del libro suddetto: — Ondechè io conchiudo, e credetemi; lasciate le sofisticazioni e chiunque vi crede; fuggite le loro sublimazioni, congiunzioni, separazioni, congelazioni, preparazioni, disgiunzioni, connessioni ed altre decezioni; e taciano quelli che offrono qualsiasi altra tintura diversa dalla nostra, non vera nè di alcun profitto; e taciano quei che van dicendo e sermonando altro solfo che il nostro, il quale è latente nella magnesia, e che vogliono trarre altro argento vivo che dal servitore rosso, od altra acqua che la nostra, la quale è permanente, e non si congiunge che alla propria natura, e non bagna altra cosa se non l’unità della propria natura; e non vi è altro aceto che il nostro, nè altro regolo che il nostro, nè colori altri che i nostri, nè altra sublimazione che la nostra, nè altra soluzione che la nostra, nè altra che la nostra putrefazione»[229].
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La lezione per verità non sembra abbastanza evidente: d’altra parte sarebbe stata inutile, giacchè qual avvi evidenza alla quale ceda la passione? E certamente allora si continuò in tali ricerche, formandosi una scienza tutta distinta, il cui canone fondamentale era che ogni metallo si compone di solfo e mercurio; per mercurio però intendendo il principio metallico, variante secondo i diversi corpi; e per solfo il principio combustibile[230]. Eppure nella ricerca del grande incognito e dell’immortalità in terra, questa scienza scontrava per via il gas acido carbonico, il fosforo, l’antimonio, l’arsenico, quella chimica insomma che oggi aspira ad essere la scienza delle scienze.
Sciagurata nominanza ne acquistò Marco Bragadin veneziano, che pretendeasi nato a Candia dal famoso Bragadino, segato dai Turchi. Gittata la tonaca per darsi tutto all’alchimia, e protetto da Giacomo Contarini [323] nobiluomo, spacciava aver trovato il secreto filosofale, s’intitolava conte di Mammona, cioè genio dell’oro, e menava seco due cani col colletto d’oro, che doveano credersi due demonj a suo servizio. Molte tramutazioni di metallo effettuò egli al cospetto del pubblico per mezzo d’una polvere che vendeva carissima: in fondo però il suo secreto consisteva in un amalgama di mercurio e d’oro, e facendo svaporar quello, restava questo. Ben avvedeansi che il peso era diminuito, eppure se ne faceano le meraviglie; il doge comprò a gran valsente il suo secreto, con uno scritto che trovasi nel Trattato chimico di Manget; Enrico IV gli scrisse per averlo a sè; altri principi lo domandavano, ed egli splendidamente vivea corteggiato da tutti. Vero è che non mancava chi ne ridesse, e una brigata di giovani veneziani mandò in giro una mascherata di alchimisti con tutti i loro arnesi, e un tra loro, figurando il [324] Mammona, gridava: — A tre lire il soldo l’oro fino». L’elettore Guglielmo II di Baviera l’ebbe poi; ma quando ne sperava ricchezze, trovatosi illuso, lui fece impiccare alla forca d’oro destinata agli alchimisti, e i suoi cani uccidere a schioppettate.
Non appartengono alla nostra nazione nè Teofrasto Paracelso (1501-70), predicato come testa divina, e creduto autore di miracolose guarigioni e di trasformazioni soprannaturali; nè Cornelio Agrippa di Colonia, consigliere dell’imperatore, deputato dal cardinale Santa Croce ad assistere al consiglio di Pisa, fatto professore di teologia a Pavia, chiesto a gara astrologo da gran re, dal marchese di Monferrato, dal cancelliere Gattinara, e che diede lo stillato delle teorie e delle pratiche delle scienze occulte. Ma a questo entusiasta e scettico insieme possiamo raffrontare il milanese Girolamo Cardano da Gallarate, teosofista e insieme scienziato illustre, di variatissima erudizione e fecondo di pensamenti strani ma indipendenti, talvolta elevato come il genio, talaltra dissotto del senso comune, e come disse lo Scaligero, suo nemico acerrimo, in molte cose superiore ad ogni umana intelligenza, in altre inferiore ad un bambino. Lasciò le proprie memorie, preziose come delle scarse che francamente rivelino il cuore, e curiosa pittura d’uomo vivente nel mondo poeticamente disposto dalla dottrina cabalistica. Se tu gli credi, e’ poteva a sua voglia cadere in estasi; vedeva quel che gli piacesse; degli avvenimenti era premunito in sogno, e da certe macchie sull’unghie. Il piacere, secondo lui, non è che la cessazione del dolore, e il male giova, se non altro, perchè s’impara a schivarlo: anzi per lui era un bisogno il penare o far penare altrui; flagellava se stesso, e morsicavasi le labbra o si pizzicava. Giocatore e perciò dissestato, ricorre a bassezze; un suo figlio fu attossicato dalla moglie, che perciò venne strozzata; a un [325] altro dovette far tagliare un orecchio per reprimerlo; e tutta la sua vita andò bersagliata da sciagure. Conoscevasi invido, lascivo, maledico, spensierato? ne riversava la colpa sulle stelle, ascendenti al suo natale[231]. Del resto credesi oggetto d’una predilezione speciale del cielo; sa più lingue senz’averle imparate; più volte Iddio gli parlò in sogno; più spesso un genio famigliare, lasciatogli da suo padre, il quale l’avea tenuto per trent’anni[232]; può in estasi trasportarsi da luogo a luogo a sua volontà, ode quel che si dice lui assente, e prevede l’avvenire. Appena ogni mill’anni nasce un medico par suo; nè rifina di vantare le sue cure e l’abilità nel disputare; infine, per avverare il pronostico fatto, lasciasi morir di fame.
Scrisse maestrevolmente sui giuochi delle carte e dei dadi; bizzarri elogi sulla podagra e di Nerone; pubblicò centotrentun’opere, ne lasciò centundici manoscritte, e ne’ dieci volumi in foglio[233] a stampa m’ha [326] l’aria di un giornalista ch’è obbligato ad empiere le pagine, e più tira in lungo meglio è pagato, meno riflette più lavora. Chi volesse ridurre ad unità filosofica quel suo balzellare, troverebbe ch’egli dichiarava la natura essere il complesso degli enti e delle cose. In essa tre principj eterni e necessarj, lo spazio, la materia, l’intelligenza del mondo, cui funzione è il movimento. Lo spazio eterno, immobile, non è mai senza corpi; cioè, come poi disse Cartesio, non si dà vuoto in natura. La materia è pure eterna, ma mutasi di forma in forma mediante due qualità primordiali, calore e umidità. Non può concepirsi veruna porzione di materia senza forma. Ogni forma è essenzialmente una ed immateriale, laonde tutti i corpi sono provveduti d’anima; tant’è vero, che sono suscettibili di movimento. Le anime particolari sono funzioni dell’anima del mondo; nella quale stanno rinchiuse tutte le forme degli esseri, come i numeri nella decade; e somiglia alla luce del sole, una ed eguale nell’essenza, infinita nella diversità d’immagini.
Non potea dunque sottrarsi al panteismo se non col sospendere le conseguenze, o col variare egli stesso quanto all’unità dell’intelligenza. L’uomo, organo di quest’intelligenza universale, ha però un carattere distinto, la coscienza. Questa il mena a distinguere dal corpo l’anima, di cui mostra l’immortalità mediante gli argomenti de’ predecessori; ma crede questo dogma abbia prodotto gran mali, come le guerre di religione. La fisica sua fonda sulla simpatia generale fra i corpi celesti e le parti del corpo umano.
Di tutte le scienze occulte favella con intima persuasione, [327] altamente riprovando quei professori inesperti, «per cui vizio resta infamata» una scienza, nella quale la certezza non è minore che nella nautica e nella medicina. Per vendicarla da tali ingiurie, e mostrare «come sieno manifesti i decreti delle stelle in noi», esso non procede che per raziocinio e sperimento, e riduce quella dottrina ad aforismi, distinti in sette sezioni, donde s’intende come ogni paese, ogni colore, ogni numero avesse il suo astro soprantendente. La magia naturale insegna otto cose: prima i caratteri dei pianeti, e a far anelli e sigilli; secondo, il significato del volo degli uccelli; terzo, le voci loro e d’altri animali; poi le virtù dell’erbe, la pietra filosofale, la conoscenza del passato, del presente, del futuro per tre viste; la settima parte mostra gli sperimenti proprj sì del fare, sì del conoscere; l’ottava, la virtù d’allungare molti secoli la vita.
Chi reggerebbe ad accompagnarmi nell’indicazione de’ varj canoni di queste dottrine? Il Cardano, che le conosceva tutte a fondo, non ne fa mistero: anzi insegna a comporre sigilli per far dormire o amare, rendersi invisibili, non istancarsi, aver fortuna; e ciò combinando quattro cose, la natura della facoltà, della materia, della stella, dell’uomo che fa: al qual uopo egli divisa la natura delle varie gemme e degli astri che vi corrispondono. Fra i talismani il più potente era il sigillo di Salomone. Una candela di sego umano, avvicinata a un tesoro, crepita fin a spegnersi; e la ragione è che il sego è formato di sangue, il sangue è sede dell’anima e degli spiriti, i quali entrambi concupiscono oro e argento finchè l’uom vive, e perciò anche dopo morte ne rimane turbato il sangue. Vuoi i presagi da dedursi da tutte le arti e dai casi naturali? vuoi la chiromanzia? o quel che significhino le macchie sulle unghie? e come interpretare i sogni, ed ottenere [328] responsi? chiediglielo, e te n’insegnerà con sicurezza.
E responsi da lui impetravano insigni personaggi, tra cui Edoardo VI d’Inghilterra; il primate di Scozia affidò le sue malattie a’ costui strologamenti; san Carlo il propose maestro nell’Università di Bologna. Cento geniture egli formò d’illustri personaggi, dall’oroscopo di loro nascita deducendo le cause delle loro qualità. Alle stelle convien avere riguardo nella medicazione; infallibile esaudimento ottengono le preghiere a Maria, fatte il primo aprile alle otto del mattino; che più? spinse l’audacia fin a tirare l’oroscopo di Cristo. Insegna a chi soffre d’insonnia d’ungersi col grasso d’orso; a chi vuol far tacere i cani del vicinato, tenere in mano l’occhio d’un cane nero. A volta a volta si ride della chiromanzia, della stregoneria, dell’alchimia, della magia, dell’astrologia; eppure le esercita per compassione: i fantasmi reputa illusioni di fantasia scompigliata; eppure è pieno d’apparizioni e di spiriti, crede gl’incubi generare bambini, e deporre il vero le streghe nei processi. Eppure egli ha luogo durevole nella storia delle scienze per osservazioni sottili ed argute, e per più scoperte, fra cui la formola cardanica e la possibilità d’educare i sordimuti.
Giambattista Della Porta napoletano (1540-1615) istituì in propria casa un’accademia de’ Secreti, ove non ammetteasi se non chi avesse trovato qualche rimedio o qualche macchina nuova. Nella Magia naturale espone tutti i sogni, le forme sostanziali delle intelligenze, emanazione della divinità; darsi uno spirito mondiale, che genera anche le anime nostre, e ci rende capaci della magia, al modo che per esso gli astri influiscono sul corpo umano. Non è maraviglia se gliene vennero accuse presso l’Inquisizione, per le quali chiamato a Roma si scagionò, e fu dimesso, con ordine che in avvenire non s’impacciasse di far predizioni, avvegnachè il volgo [329] ignorante non sappia distinguere se siano effetto di accorgimento o di sovrumana potenza. Pure egli svelava le arti onde altri producevano effetti, creduti soprannaturali; mostrò che l’unguento delle streghe fosse una mescolanza d’aconito e belladonna, i quali per efficacia naturale esaltano le fantasie; a suo figlio consigliava: — Non opporre resistenza ai potenti nè alla plebe; quand’anche avessi ragione. Invitato a un banchetto, tien d’occhio a chi ti mesce il vino. Quando parli con un malvagio o un disonesto, guarda alle sue mani più che alla sua faccia».
Insomma le scienze occulte formavano la parte astrusa delle umane cognizioni. Considerando la natura come una successione di prodigi, alla magia chiedevasi la spiegazione d’ogni fenomeno; un fanciullo malato, una donna consunta, il subito arricchirsi; i temporali, e vie meglio le combustioni spontanee, le illusioni ottiche, le esaltazioni nervose; che più? il male più ordinario, il mal d’amore e della gelosia, parevano effetti oltra naturali; e per chiarirli si ricorreva a patti che conchiudesse l’uomo col diavolo, dandogli carte segnate col proprio sangue, e scritte col sacrosanto calice.
Come i dotti toglievano dal vulgo il fondamento degli errori, così questo dal voto dei dotti v’era semprepiù ribadito, e ne nasceva una orrida congerie di pubblica forsennatezza. Nella Bibbia ricorrono fatti di demoniaci; gli esorcismi, se talvolta erano semplici cure igieniche, o rimedj all’inferma fantasia, doveano però convalidare l’opinione della diretta efficacia de’ demonj sugli uomini, e persuadevano che il contatto e la presenza delle cose sacre raddoppii i sofferimenti degli ossessi, la cui intelligenza scintilla a volte a volte di luce più viva, danno risposte meravigliose, parlano latino, ebraico, vedono le cose lontane e le future.
Quel bisogno essenziale alla natura umana d’ampliare [330] il mondo visibile mediante la fantasia, bisogno maggiore in tempi o fra persone dove l’istruzione non dilata la vista sulla storia e sull’universo, avea creato e qui trasferito dall’Oriente quelle fate benevole, e che appiacevolivano i racconti e le fantasie, anzichè sgomentassero, come la Melusina, la Morgana, che il sabbato convertivansi in serpi, gli altri giorni godevano della loro bellezza e d’una vita che partecipava all’immortale: anche il genio famigliare e i folletti spesso mostravansi amorevoli e serviziati. Un padrone superbo comandò a un villano di trasportare a casa una quercia grossissima, o guaj a lui: l’impresa eccedeva le forze del misero, che se ne desolava, quando un folletto gli si esibì, e presa in collo la pianta come un fuscello, la collocò attraverso la porta del padrone, indurendola talmente, che nè accetta nè fuoco valsero a intaccarla, sicchè fu forza aprire un’altra porta: ciò fu appunto nel 1532. L’inquisitore Menghi sa d’un folletto famigliare ad un garzone sedicenne mantovano, che inseparabilmente l’accompagnava or da servo, or da facchino, or da mastro di casa. E nel 1579 un altro in Bologna era innamorato d’una fantesca; e se mai i padroni la sgridassero, di moltissimi guasti disturbava la casa: e chi vuole, guardi lo strano esorcismo con cui i padroni se ne liberarono. L’anno appresso nella città medesima si rinnovò la scena con una fanciulla trilustre: e il folletto faceva le più bizzarre burle; or rompere i vassoj del bucato, or lasciare tombolar dalle scale grosse pietre, or di piccole lanciarne a romper i vetri, e nel pozzo gettare secchi di legno o di rame, e gatti. Un predicatore raccontò ad esso Menghi che, mentre dispensava la parola divina in una città del Veneto, gli si presentò uno stregone, accusandosi di tenere due spiriti in un anello, coi quali esso il farebbe parlare; ma come egli esortollo a buttar via l’anello, [331] ecco gli spiriti a piangere e pregare ch’esso predicatore li ricevesse a proprio servizio, promettendo farlo il maggior oratore del mondo: egli con gravi scongiuri gli indusse a confessare che questa era un’orditura per mettersegli accanto, farlo cadere in qualche eresia, ed acquistarlo all’inferno.
Più tardi fu stampato il Palagio degli incanti, coll’approvazione dell’inquisitore, che li commenda «come dilettevoli per vaga et varia lettione et non meno ferma che recondita dottrina»; e sono a leggervi innumerevoli storielle di demonj, di incubi e succubi, sulla fede d’autori accreditatissimi. Il più piacevole è d’un giovane, contemporaneo di Ruggero re di Sicilia, che nuotando una sera in mare, prese pei capelli una figura che gli veniva dietro, credendola uno dei suoi compagni: ma alla riva trovatala una bellissima fanciulla, l’ebbe seco, e ne generò un figlio, e vivea lieto di essa, se non che mai non parlava. Avvertito da un compagno ch’egli erasi menato a casa un fantasma, colla spada minacciò uccidere il bambino se essa non parlava: onde rotto il silenzio, ella gli disse che perdeva un’eccellente moglie con questa violenza, e subito sparve. Il fanciullo dopo alquanti anni trastullavasi in riva al mare, quand’essa lo prese ed affogò.
Se non fossersi rinnovate ai dì nostri la raddomanzia e qualcosa di peggio, non accennerei di don Antonio Lavoriero arciprete di Barbarano, che con la virtù di Dio faceasi obbedienti i diavoli. Costui narrò allo Strozzi Cicogna, che un frate Egidio, ad istanza del duca di Ferrara, aveva scoperto un tesoro, ma nol si potè mai cavare perchè gli spiriti rompeano le funi e spegneano i lumi: il frate fece da don Antonio ascondere una moneta, promettendo trovarla; e presi quattro rametti d’oliva benedetta e incisane la scorza, vi scrisse entro «Emanuel Sabaot Adonai, e un altro nome che non si [332] può rammentare», poi recitò il miserere, e quando fu all’incerta et occulta manifestasti mihi, don Antonio si sentì tratto verso la porta del giardino, e giunto ov’era sepolta la moneta, le bacchette voltarono la punta in giù, come fossero tirate. Lo stesso don Antonio gli narrò che in Noventa sul Vicentino a una fanciulla mandavasi un fazzoletto del malato, ed essa il faceva venir grande grande, poi piccolo piccolo; che se tornasse alla primitiva dimensione, era segno di guarire; se no, di morte: egli le mandò il suo fazzoletto, fingendo fosse d’un’inferma; nè la fanciulla se n’accorse, perchè egli era esorcista, ma visibilmente lo fece ingrandire e impicciolire, poi tornar di misura. Ed altre belle ne raccontò quel don Antonio allo Strozzi[234].
Questi fatti, accertati non meno di altri su cui si fondano anch’oggi altre teoriche, meriterebbro soltanto il riso se fossero rimasti nel campo della speculazione: ma la natura umana ha una terribile inclinazione a tradurre le credenze in fatti. E così avvenne delle streghe, uno dei tanti errori che la civiltà moderna ereditò dall’antica (Cap. XXXIV in fin.). Nel medioevo la pascolarono leggende, nelle quali si confondeano il misticismo e l’empietà, il tremendo e il buffo; però fu repulsato dai legislatori, fin da’ rozzissimi Longobardi; e se comminavasi qualche pena, consisteva nel sottoporre le maliarde alla prova dell’acqua fredda, mandando assolte quelle che non restassero a galla; il che forse era un artifizio per salvarle tutte. Quanto alla Chiesa, adducevasi un canone di papa Damaso, or repudiato per falso, dove sono attribuiti a mera illusione i traslocamenti delle streghe; sicchè alcuni teologi dichiaravano peccato [333] mortale ed eresia il credere ai notturni congressi[235].
Tanto è falso che nel bujo del medioevo imperversasse una credenza, la quale non dirò nacque, ma si estese col rinascimento degli studj, e viepiù nel secolo d’oro[236] dopo mescolatasi colla fungaja delle scienze occulte; e fu un altro sintomo della riviviscenza del paganesimo. Già il famoso giureconsulto Bartolo consigliava al vescovo di Novara di far morire a lento fuoco una, imputata di aver adorato il diavolo, e con sortilegi mandato a morte de’ fanciulli[237]. Sul fine del quattrocento, secondo Antonio Galateo, credevasi che alcune malefiche ungendosi si tramutino in animali, e vaghino o piuttosto volino in lontani paesi, menino carole per paludi, s’accoppiino a demonj, entrino ed escano a porte chiuse, uccidano animali[238]. E di fatto si divulgò l’opinione che le streghe, masche, buonerobe, o con che altro nome si chiamassero, andassero in corso, si congregassero in certi luoghi, come al monte Tonale [334] in Lombardia, al Barco di Ferrara, allo spianato della Mirandola, al monte Paterno di Bologna, al noce di Benevento..., e sotto la presidenza di Erodiade, di Diana si dessero a balli e a sozzi amori, trasformandosi in lupi, gatti e altre bestie. Empietà e lascivia formano il fondo di quelle congreghe; splendidi banchetti il sabbato; frati vi ballavano, tutt’in onta della Chiesa; e vi si vilipendeva ciò ch’essa ha di più venerando, le croci, le reliquie, il sacrosanto pane.
Eravi qualche vecchia di bruttezza insigne con alcun marchio particolare? avea risposto con imprecazioni ad insulti fattile? bastava per sospettarla strega. Moltissime processate aveano confessato, — Abbiam veduto il diavolo, siamo andate a cavalcione della scopa alla tregenda, vi conoscemmo il tale e la tale»: come dubitare della loro veridicità? Se l’uomo può impetrare dal diavolo le colpevoli gioje che non osa chiedere a Dio, se v’è modo di patteggiare con una potenza sovrumana, perchè sol pochi v’avrebbero ricorso? Si venne dunque nella credenza che moltissimi fossero, e massime donne, e formassero tra sè una specie di società secreta, con capi e adunanze, e piaceri carnali, e voluttà di vendette.
Frà Bernardo Rategno comasco, zelante inquisitore, ci lasciò un libro De strigiis[239], dove si scandalizza di chi le metta in dubitare. Le masche (così egli) fanno congrega principalmente la notte del venerdì, rinnegano in presenza del Diavolo la santa fede, il battesimo, la beata Vergine, conculcano la croce, prestano fedeltà al [335] diavolo toccandogli la mano col dosso della loro sinistra, e dandogli alcuna cosa in segno di ligezza. Qualvolta poi tornano al giuoco della buona compagnia, fanno riverenza al diavolo, che assiste in forma umana. Nè vi vanno già per illusione, ma corporalmente e sveglie e in sentimento, a piedi se la posta è vicina, se no sulle spalle al diavolo; il quale talvolta le abbandonò a mezzo del cammino, onde si trovarono fuorviate: tutte cose che constano dalle loro spontanee confessioni agl’Inquisitori per tutta Italia. Anzi, a chiuder del tutto le labbra agli avversarj, adduce esempj di se stesso, che istruendo processi in Valtellina, ebbe deposizione da uomini d’intera fede, i quali veramente le aveano vedute. Niuno poi era in Como che non sapesse che, un cinquant’anni prima, in Mendrisio Lorenzo da Concorezzo podestà e Giovanni da Fossato indussero una strega a menarli al giuoco; essa gli esaudì, e videro le congregate; ma il diavolo, accortosi di loro, li fece battere in malo modo[240]. Riducono poi la cosa ad evidenza e l’esserne bruciati tanti, e l’avere i papi stessi consentito.
Per verità quest’argomento era perentorio, stantechè l’Inquisizione gravò sopra i siffatti con legali carnificine, delle quali ingloriavansi gli autori, come gli eroi di sanguinose battaglie. Massime nella Germania la proclività al misticismo avea diffuso il timore delle streghe; onde Innocenzo VIII nel 1484 le fulminò di severissima bolla, dietro la quale si moltiplicarono e processi e supplizj. Ma anche in Italia quest’errore era comune, e nella diocesi di Como Bartolomeo Spina asserisce che oltre mille in un anno se ne processavano, e più di cento bruciavansi.
Dinanzi a tanto numero di processi e di vittime, [336] l’uomo è preso da un terribile sgomento della propria ragione, interrogandosi se tutto fu menzogna o delirio? tutto invenzione di tribunali, sitibondi di sangue?
Che l’uomo si creda pel male maggior potenza che realmente non ha, casi giornalieri ce lo attestano; che i delitti si moltiplichino col punirli, è un fatto troppo chiarito a chi studia le malattie dell’intelletto e le passioni; e che a forza di sentir dire che una cosa si fa, alcuno persuadasi di farla. Poteano operare sull’immaginazione delle streghe i suffumigi e le unzioni, che, secondo il Porta e il Cardano, si faceano con solano sonnifero, giusquiamo, oppio, belladonna, datura stramonio, mandragora, laudano. Alcuni fenomeni ricevono ora spiegazione dalle inalazioni dell’etere e del magnetismo animale, arcano che gl’insulsi devono beffare, gli astuti usufruttare, ma gli scienziati verificare e studiare. Fin a qual punto un uomo può operar sul corpo o lo spirito d’altr’uomo per sola forza dell’immaginazione, spinta sin al punto ove va la fede, non è ben chiarito: nè quanto possa l’effetto delle passioni, e massime della paura, causa preponderante delle malattie nervose. L’ipocondria fa considerar le immaginarie sofferenze come un prodotto della volontà dell’altra o frutto di lor ira o vendetta. L’insensibilità di certe parti o di tutto il corpo è spiegata or che si distinguono due ordini di nervi, uno che presiede alle sensazioni dolorose, gli altri a condurre al cervello le impressioni di contatto; e ciò toglie la vulgare teoria della simulazione: e in generale soppresse le entità demoniache, la maga vien considerata come dipendenza dello studio delle facoltà dell’anima. Tralascio casi stranissimi in medicina, affezioni nervose ed isterismi che, come un tempo si curavano coi pellegrinaggi, allora si dichiaravano malattie demoniache[241]. Vedeasi una propagare le [337] sue convulsioni a un collegio, a un convento, attribuivasi a fatucchieria quel che ora sappiamo esser istinto di imitazione.
Chi serbava intero il senno proponeva talvolta rimedj efficaci, ma non prudenti. Se un vampiro venisse a suggere il sangue, l’autorità faceva bruciare il cadavere, e il male cessava, per fede di Montaigne. Ad una signora mantovana che credevasi ammaliata, il medico Marcello Donato dispose che tra gli escrementi si facessero comparire chiodi, piume, aghi; ella credendo averli cacciati di corpo, sanò: sì, ma dunque il fatto era vero; ma la donna avea visto quegli oggetti, nè potea più dubitarne, e la persuasione sua trasfondeva in tutti i suoi conoscenti, e questi ai loro. I fatti dunque sussistevano; erano fuor del naturale; le cause venivano esibite dalla scienza e dalle opinioni del tempo; dalla giurisprudenza di allora le procedure.
L’esistenza però de’ notturni congressi non era così generalmente creduta che non trovasse contraddittori. Samuele De Cassini tolse a provare che il demonio non trasporta effettivamente queste donne, e solo in esse produce un’estasi, per la quale credono volare o trovarsi fra la moltitudine; ma Giovanni Dadone domenicano sostenne il volo talora avvenir realmente[242], e con lui sono frà Bartolomeo Spina maestro del sacro palazzo[243], frà Silvestro Mazzolino detto Priero, Paolo Grillandi legista fiorentino che dapprima le aveva negate[244], e fino Gianfrancesco Pico della Mirandola[245] [338] in un libro, la cui occasione è così esposta da frà Leandro degli Alberti che lo vulgarizzò: — Essendosi scoperto l’anno passato qui quel tanto malvagio, scellerato e malefico giuoco della donna, dove è rinnegato, bestemmiato e beffato Iddio, e ancor conculcata con i piedi la croce santa, dolce refrigerio dei fedeli cristiani e sicuro stendardo, e dove ancor vi sono fatte altre biasimevoli opere contro della nostra santissima fede; il perchè essendo stato integramente investigato e ponderatamente conosciuto, e ancor proceduto giuridicamente dal savio e provvidente censore ed inquisitore degli eretici, furono da lui consegnati al giudice molti di questi maledetti uomini, i quali, secondo il comandamento delle leggi, fece porre sopra d’uno grandissimo monte di legne, e bruciarli in punizione delle loro scelleraggini ed anco in esempio degli altri. Or così di giorno in giorno procedendosi per estirpare e svellere questi cespugli di pungenti spine di mezzo delle buone e odorifere erbe de’ fedeli cristiani, cominciarono molti con ingiuriose parole a dire non esser giusta cosa che questi uomini fossero così crudelmente uccisi, conciossiachè non avevano fatto cosa, per la quale dovessino ricevere simile guiderdone; ma ciò che dicevano di detto giuoco, lo dicevano o per sciocchezza e mancamento di cervello, ovvero per paura degli aspri martirj. E non pareva verisimile che fossero fatti dagli uomini tanti vituperj all’ostia consacrata, nè alla croce di Cristo, e alla nostra santissima fede. E questo facilmente potevasi confermare, perchè molti di loro prima avendolo detto, di poi costantemente lo negavano. Per questi biasimevoli ragionamenti di giorno in giorno crescevano nel popolo simili mormorii: la qual cosa intendendo lo illustre principe signor Gianfrancesco, uomo [339] certamente non manco cristiano che dotto e letterato, deliberò di voler intenderne molto integramente, e con sottili investigazioni conoscere così il fondamento come tutte le altre minime cose che erano formate sopra di esso, prima intervenendovi e ritrovandosi alle esaminazioni di quelli avanti dell’inquisitore, poi interrogandoli da sè a sè, parte per parte di detto scellerato giuoco, e degli abominevoli riti e profani costumi e scomunicati modi e maledette operazioni che ivi continuamente si fanno, e non solamente da uno di quelli, ma da gran numero; e ritrovandoli accordarsi nelle cose di maggior importanza, cioè sommersi in tanti sozzi vizj, siccome vero servo di Gesù Cristo, acciò che ciascuno si deva ben guardare dalle fraudi dell’antico nostro nemico, ed ancora per poterlo meglio in ogni luogo perseguitare, si pose a scrivere di questa rea, scellerata e perversa scuola del demonio...»
Gianfrancesco introduce la Strega a dialogar con uno che non vi crede (Apistio), il quale fa le objezioni del buon senso a tutte le confessioni di lei, mentre il giudice (Dicasto) adopera le formole giuridiche per provare che non sono illusioni, e sostenere la verità delle deposizioni di lei intorno al trasporto delle persone, ai sozzi convivj, alle infande nozze, all’abuso del sacrosanto pane. E da altri processi egli raccolse d’un prete Benedetto, innamorato del diavolo in carne col nome d’Armellina, i cui piaceri esso preferiva a qualunque altro, e con essa discorreva fin per le piazze, sembrando mentecatto agli altri che non la vedeano; per amor di lei non battezzava i bambini, non consacrava le ostie, e all’elevazione le alzava capovolte, così eludendo i sacramenti. D’altri ancora egli sa, così presi d’un demonio in forma di donna, che voleano abbandonar piuttosto la vita; finchè quella gran fiamma ne era cacciata coll’altra fiamma destata d’una catasta di legna. E questi [340] fatti sono comunissimi, tanto che confessano andare alla tregenda oltre due migliaja di persone.
La strega introdotta da Pico conviene d’aver mandato la gragnuola sui campi di suoi malevoli, uccisone il bestiame, succhiato il sangue di sotto le ugne de’ bambini, finchè morivano se essa medesima non vi desse rimedj, insegnatile dal demonio. L’incredulo insiste principalmente sul perchè dal demonio non domandasse denari; ed essa risponde averne anche avuti, ma che scomparvero, e l’attrattiva maggiore consistere sempre ne’ piaceri del senso. Il demonio permetterle tutti gli atti di cristiana, ma mentre assisteva ai divini uffizj dovesse sottovoce protestare come a menzogne, stralunare gli occhi, far atti di scherno, e la particola trarsi di bocca e conservare per profanarla poi alla tregenda.
Uno dei più persuasi in tal fatto è il padre Girolamo Menghi di Viadana, che empì l’opera sua di fatterelli curiosi[246]. Nel tempo che i signori Veneziani mossero guerra al duca di Ferrara, stando Alfonso d’Aragona duca di Calabria in Milano con molti illustrissimi signori, tennero lungo ragionamento intorno agli spiriti, ove diversamente fu da quei signori parlato e discorso, recitando ciascheduno le loro opinioni; il che avendo udito il predetto duca, rispose in questo modo: — È cosa verissima e non finzione umana quello che si parla di questi demonj»; e narrogli, che stando lui un giorno a Carrone città di Calabria, dopo le cure e spedizioni regie cercando qualche spasso e ricreazione, gli fu detto che ivi era una donna vessata di spiriti immondi. Il che intendendo esso, se la fece condurre, e cominciando [341] il duca a parlare con essa, niente rispondeva nè movevasi, come se fosse senza spirito. Vedendo questo il principe, e ricordandosi d’una crocetta che con certe reliquie portava al collo, datagli da Giovanni da Capistrano, segretamente la legò al braccio della spiritata; la quale subito cominciò a gridare, e torcere la bocca e gli occhi. Allora quel signore le domandò il perchè, ed ella rispose, dovesse levarle dal braccio quella crocetta «perchè (diss’ella) ivi è del legno della croce consacrata, dell’agnus benedetto, e una croce di cera del mio grandissimo nemico». Le quali cose levando il duca, di nuovo divenne come morta. La notte seguente andando quel principe a dormire, incominciò udire fortissimi strepiti e rumori nel palagio e nella propria camera, di maniera che fece chiamare alcuni servitori per sicurezza, coi quali stette fino al giorno senza punto dormire. Venuto il giorno, un’altra volta si fece menare davanti la donna, la quale sorridendo interrogò il duca s’egli avesse avuto spavento la notte passata: e riprendendola egli come spirito infernale nojoso ai mortali, e addimandandogli — Ove eri tu nascosto?» rispose lo spirito: — Io era nascosta nella sommità dello sparaviero che circonda il tuo letto; e se non fossero state sopra di te quelle cose sacre che porti al collo secretamente, con le mie mani io ti levavo di peso, e ti gettavo fuori del letto. Anzi ti dico di più, che tutto quello che jeri ragionasti e trattasti coll’ambasciatore de’ Veneziani, ti saprò narrare, perchè il tutto ho udito e saputo». Il duca per chiarirsi mandò fuori tutti quelli che ivi si ritrovavano, poi comandò allo spirito che dovesse narrargli quanto era passato tra l’ambasciatore e lui; il quale, come se fosse stato presente, per bocca della donna narrogli tutto il fatto di parola in parola; di maniera che empiè quel signore di tanta meraviglia, che d’indi in poi sempre credette che gli spiriti maligni [342] andassero vagabondi tanto nell’aria, quanto nei corpi umani.
Paolo Grillando inquisì una donna che, mentre era riportata a casa dal diavolo amante, udì sonar l’ave della mattina, ond’esso fuggì lasciandola nuda sul terreno, ove fu scoperta. Un marito spiò sua moglie tanto, che s’accôrse dell’ungersi e dello scomparire, e a forza di bastonate obbligatala a confessare, volle menasse lui pure alla tregenda, ove sedutosi a mensa, tutto trovava insipido, onde chiese del sale, inusato ai loro banchetti. Quando dopo lunga istanza gli fu portato, sclamò: — Lodato Dio che finalmente il sale è venuto»; e bastò quell’esclamazione perchè tutto andasse in dileguo, ed egli rimase colà ignaro del luogo, finchè la mattina da pastori sopravvenuti seppe trovarsi in quel di Benevento, a cento miglia dalla patria sua. Dove tornato, fece processar la moglie e condannare[247].
Altri fatti egualmente certi aveva in pronto Bartolomeo Spina predetto. Una fanciulla, che dimorava colla madre a Bergamo, fu una notte trovata a Venezia nel letto di un suo parente; chiesta del come, vergognosa raccontò aver visto sua madre ungersi, e trasformata uscir dalla finestra; ed ella volle far prova dell’unto stesso, e seguì la madre, cui vide tender insidie al fanciullo parente; di che ella spaventata invocò il nome di Gesù, e tosto ogni cosa sparve: l’inquisitore ne stese processo, e la madre alla tortura confessò ogni cosa. Antonio Leone di Valtellina, carbonajo dimorante a Ferrara, narrava d’un marito che parimente vide la moglie ungersi, ed uscir dalla finestra, ed egli imitatala, trovolla in una cantina: essa, come il vide, fece un segno pel quale tutto sparì, ed egli rimasto colà, fu côlto per ladro, se non che si sgravò narrando il fatto, pel quale la moglie fu mandata al supplizio[248].
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Basta il buonsenso più triviale a spiegar questi fatti: ma non tutti così chiari sono quelli che adducono gli apologisti; l’insistenza dei quali mostra che v’avea contraddittori. Nel 1518 il senato veneto, disapprovando le esorbitanze degl’inquisitori nella Valcamonica, rinomatissima per tale fastidio, revocò a sè i processi e statuì che in tali materie i rettori delle città si unissero agli ecclesiastici. Combatterono l’opinione vulgare il francescano Alfonso Spina[249], il cavaliere Ambrogio Vignato giureconsulto lodigiano[250], Gianfrancesco Ponzinibio giurista piacentino, negando possa il demonio generare come incubo o come succubo, e i voli delle streghe e le tregende essere illusione[251]. Andrea Alciato[252] scrive: — Appena ornato delle insegne dottorali, mi si offrì la prima causa in cui rispondere del diritto. Era venuto un inquisitore nelle valli subalpine, per inquisire le streghe: già più di cento n’avea bruciate, e quasi ogni dì nuovi olocausti a Vulcano ne offeriva, delle quali non poche coll’elleboro piuttosto che col fuoco meritavano essere purgate; finchè i paesani colle armi si opposero a quella violenza, e recarono la cosa al giudizio del vescovo. Egli, spediti a me gli atti, chiese il mio parere»; e fu diretto a sottrarre queste sciagurate ai supplizj; dichiarò di sole donnicciuole siffatta credenza, e chiedeva perchè non potrebbe il demonio aver preso le sembianze di esse donne? e come mai scomparisse tutta la tregenda all’invocare Gesù?
Pietro Borboni arcivescovo di Pisa consultò i dotti di quell’Università intorno a certe monache ossesse, se il fatto fosse naturale o soprannaturale; Celso Cesalpino, [344] famoso naturalista, rispondendovi espone a lungo i portenti attribuiti alla magia, senza mostrare impugnarli; di poi argomentando con Aristotele, asserisce esistere intelligenze medie fra Dio e l’uomo, ma non poter queste comunicare con noi[253]. Forza era conchiudere non poter essere reali gli esaminati invasamenti: ma egli, per riguardi al tempo, non dichiara se non che non sono naturali, e volersi applicarvi i mezzi della Chiesa.
Traviata così l’opinione del vulgo e dei dotti, farà più dispiacere che meraviglia il vedere membri rispettabilissimi della Chiesa trascinati dalla corrente. Nel 1494 papa Alessandro VI, avendo udito in provincia Lombardiæ diversas utriusque sexus personas incantationibus et diabolicis superstitionibus operam dare, suisque veneficiis et variis observationibus multa nefanda scelera procurare, homines et jumenta ac campos destruere, et diversos errores inducere, commette agl’inquisitori di perseguitarli. Pure egli avea vietato s’intrigassero di sortilegi, malìe, fatucchierìe, se non v’intervenissero abuso di sacramenti o atti contro la fede. Nel 1521 Leone X, all’occasione de’ molti sortilegi scopertisi in Valcamonica, parlava agl’inquisitori della Venezia d’una genìa perniciosissima che rinunzia al battesimo, e dà il corpo e l’anima a Satana, e per compiacergli uccide fanciulli, ed esercita altri malefizj[254]. [345] Nel 1523 Adriano VI al Sant’Uffizio di Como scriveva essersi trovato persone d’ambo i sessi, che prendono signore il diavolo, e con incantagioni, carmi, sacrilegj ed altre nefande superstizioni guastano i frutti della terra e commettono altri eccessi e delitti[255]. Più tardi Gregorio XV si scagliava contro quei che fanno malefizj, donde, se non morte, seguono malattie, divorzj, impotenza di generare, altri danni ad animali, biade, frutti, ecc., e vuole che siano immurati.
Ben centotre bolle di pontefici servivano di norma agl’inquisitori, e fra tutte famosa la lunghissima Cœli et terræ creator Deus del 1585, con cui Sisto V[256] condannò la geomanzia, idromanzia, aeromanzia, piromanzia, oneiromanzia, chiromanzia, necromanzia; il gettar sorti con dadi o chicchi di frumento o fave; il far patto colla morte o coll’inferno per trovare tesori, consumar delitti, compiere stregherie, ed al demonio ardere profumi e candele; come pur quelli che negli ossessi e nelle linfatiche e fanatiche donne interrogano il demonio sul futuro; le donne che entro ampolle serbano il diavolo, ed [346] untesi con acqua od olio la palma o le unghie, lo adorano: quindi proibisce tutti i libri d’astrologia, il far l’ascendente, descrivere pentagoni, e le altre superstizioni allora in credito. San Carlo nel suo primo concilio provinciale ordinava che maghi, malefici, incantatori, e chiunque fa patto tacito o espresso col diavolo sia punito severamente dal vescovo, ed escluso dalla società dei fedeli[257]. Nel 1588 Agostino Valerio, vescovo di Verona e cardinale, pubblicava una pastorale compiangendo come «si trovino alcuni, sebbene di vile e bassa condizione, che hanno fatto patto coll’inferno, cioè col demonio infernale, attendendo a superstizioni, incanti, stregherie e simili abominazioni».
I rimedj della Chiesa avrebbero dovuto consistere in preghiere e ammonizioni, al più nell’esorcizzare; del che il vescovo Filippo Visconti impartì molte regole per ovviare gl’inconvenienti: — A pochissimi se ne conceda licenza; e questi s’informino prima dal medico se l’infermità provenga da mala disposizione del corpo, o da umori malinconici, o da molestia del demonio, o da capriccio: e trovando il caso d’esorcizzare, lo faccia nella chiesa parrocchiale con cotta e stola; se son donne, vi assistano sempre due loro parenti o altre persone buone, nè l’esorcista le tocchi, se non al più colla mano sul capo: non dia medicine, non interroghi il diavolo di materie curiose e superstiziose».
Ma già vedemmo come, allo scemar della fede, si fosse radicata l’Inquisizione, e come ne’ processi si fossero assottigliati i legulej, e introdotta la procedura [347] secreta, riprovata dal diritto canonico, e colla quale non è onest’uomo che non possa andar condannato. L’uomo, e più la donna, abbandonati al terrore della solitudine e alla pertinacia di processanti incalliti allo spettacolo del dolore e ponenti gloria e talvolta guadagno nel convincerli, come se ne poteano sottrarre? Non pochi dunque, nella persuasione di dovere a ogni modo morire, e che, se anche campassero, rimarrebbero in un obbrobrio peggior della morte, confessavano spontaneamente, e ne restava convalidata l’opinione.
I processanti medesimi erano superstiziosi quanto i processati; teneano per norma di far entrare la strega nella stanza per indietro, onde veder lei prima d’essere da lei veduti; badare ch’essa non li tocchi, «e portare del sale esorcizzato, della palma ed erbe benedette, come ruta ed altre simili»[258]. Un altro insegna che, se il paziente non regge all’odor del solfo, dà indizio di essere indemoniato; poi lo facevano denudare e purgare, chè mai non avesse sul corpo o dentro alcun malefizio che impedisse di rivelare la verità.
Non vi fu codice che non stampasse pene contro le stregherie; e per dirne un solo, lo statuto di Mantova dei Gonzaghi, che durò quanto la loro dominazione, cioè fin al 1708, impone che i malefici, incantatori, fatucchieri, e chiunque fa incantagione, o dà pozioni per sottoporre il cuore altrui, e trarre all’amore o ad altro fine pernicioso, in modo che uomo o donna sia rimasta malefiziata, e condotta all’insania o a malattia e morte, sieno bruciati. Se nessun effetto ne seguì, vadano alla frusta e al taglio della lingua, ed espulsi dal [348] territorio. Chi ha l’abitudine di tali cose in secreto o in pubblico, sia arso. Possa chiunque denunziarli, e si creda a chi con un testimonio di buona fama giuri d’aver visto, o con quattro testimonj giuri che tal è la pubblica voce. Si eccettua chi faccia tali incantagini all’intento di guarire.
Che poi i processi dall’Inquisizione orditi fossero reputati regolatissimi e legali, n’è prova l’averne stampato i codici, anzichè tenerli arcani[259]; e del resto qual necessità di nasconderli, poichè procedevano non altrimenti che tutti i tribunali, tutti i giudizj?
Eliseo Masini[260], parlando di maghi, streghe e incantatori, contro cui deve procedere il Sant’Uffizio, dice: — Perchè simili sorta di persone abbondano in molti luoghi d’Italia e anche fuori, tanto più conviene [349] essere diligente; e perciò s’ha da sapere, che a questo capo si riducono tutti quelli che hanno fatto patto, o implicitamente o esplicitamente, o per sè o per altri col demonio;
«quelli che tengono costretti (com’essi pretendono) demonj in anelli, specchi, medaglie, ampolle o in altre cose;
«quelli che se gli sono dati in anima ed in corpo, apostatando dalla santa fede cattolica, e che hanno giurato d’esser suoi, o glien’hanno fatto scritto, anco col proprio sangue;
«quelli che vanno al ballo, o (come si suol dire) in striozzo;
«quelli che malefiziano creature ragionevoli, o irragionevoli, sagrificandole al demonio;
«quelli che l’adorano o esplicitamente o implicitamente, offerendogli sale, pane, allume o altre cose;
«quelli che l’invocano, domandandogli grazie, inginocchiandosi, accendendo candele o altri lumi, chiamandolo angelo santo, angelo bianco, angelo negro, per la tua santità, e parole simili;
«quelli che gli domandano cose ch’egli non può fare, come sforzare la volontà umana, o saper cose future dipendenti dal nostro libero arbitrio;
«quelli che in questi atti diabolici si servono di cose sacre, come sacramenti, o forma e materia loro, e cose sacramentali e benedette, e di parole della divina scrittura;
«quelli che mettono sopra altari, dove s’ha da celebrare, fave, carta vergine, calamita o altre cose, acciocchè sopra essi si celebri empiamente la santa messa;
«quelli che scrivono o dicono orazioni non approvate, anzi riprovate dalla santa Chiesa, per farsi amare d’amor disonesto, come sono l’orazione di san Daniele, [350] di santa Maria e di sant’Elena; o che portano addosso caratteri, circoli, triangoli, ecc., per essere sicuri dall’armi de’ nemici, e per non confessare il vero ne’ tormenti; o che tengono scritture di negromanzia, e fanno incanti, ed esercitano astrologia giudiziaria nelle azioni pendenti dalla libera volontà;
«quelli che fanno (come si dice) martelli, e mettono al fuoco pignattini per dar passione e per impedire l’atto matrimoniale;
«quelli che gittano le fave, si misurano il braccio con spanne, fanno andare attorno i sedazzi, levano la pedica, guardano o si fanno guardare sulle mani per sapere cose future o passate, ed altri simili sortilegi».
Contro siffatti delinquenti vediamo alcuni canoni della procedura, desunti dalla Lucerna Inquisitoris del Rategno. Pochi indizj bastano a presumere un eretico; un lieve segno, anche il sospetto e la fama. Non è mestieri che i costituti de’ testimonj concordino; se diranno sapere quell’infamia per udita, non sono tenuti a provarlo; non infirma i testimonj l’essere scomunicati e criminosi. Chi vuol camminar di piede sicuro, fa così; se alcuno è diffamato o sospetto di eresia, si citi e si esamini; confessa? bene quidem; se no, pongasi in carcere; gli avvocati non prestino ajuto o consiglio agli eretici; possono ben processarsi senza strepito di avvocati. È tolto l’appellarsi; la confessione purga ogni vizio del processo; l’inquisitore non è obbligato mostrare il processo all’autorità secolare, che deve solo eseguirne i cenni; non è viziato il processo sebbene non si pubblichi il nome de’ testimonj, nè se ne dia copia al reo.
— Come scoprire le streghe?» domanda il Rategno stesso; e risponde: — O per conghiettura, o per confessione delle compagne che tra loro si conoscono al giuoco, benchè il diavolo può in tregenda averne assunto [351] le forme. Si conoscono anche se facciano spregi al santissimo sacramento, torcano il volto dalla croce, minaccino ad alcuno che male gli accadrà, che si troverà malcontento, e in fatti così avvenga». Mattia Berlica narra d’un bifolco che, per conoscere le streghe, metteva in un sacco tanti fili aggruppati quante erano donne nel suo villaggio, e dette certe parole, bastonava ben bene il sacco, poscia andava di casa in casa, e se alcuna donna scoprisse ammaccata, la denunziava per rea, e messa alla tortura dovea confessare.
Due leggieri indizj bastano per sottoporre uno alla tortura, segue il Rategno; non fa pur mestieri che per questo convengano l’inquisitore ed il vescovo o il suo vicario. È in arbitrio del giudice lo stimare gl’indizj per torturare: sia più facile nelle colpe più segrete. Si tenti prima se v’ha alcuna più agevole via di scoprire il vero; poi si tormentino primi quelli da cui sia maggiormente a sperare la verità, le femmine più deboli, il figlio prima del padre, e al cospetto di questo. L’occhio del giudice dà arbitrio e misura al tormento. Non vi sia sottoposto chi è dissotto de’ quattordici anni, quand’anche non si possa estorcergli la verità colla sferza o collo staffile; nè i vecchi oltre settant’anni; nè le donne che sieno veramente riconosciute incinte.
«Quante volte può torturarsi il reo per le confessioni revocate? — Due o tre», risponde il Pegna[261]. E il Rategno soggiunge: — Ma se il reo negasse da poi quel che confessò ne’ tormenti? Rispondo: il reo è tenuto a perseverare in quella confessione, se no si ripeta il martoro fino alla terza volta.
Cessiamo; chè già il lettore sa di troppo per intendere che cosa significassero i processi, i quali per eresie e stregherie si moltiplicavano allora, quanto oggi quelli [352] di Stato[262]. Nella Mesolcina, valle italiana appartenente ai Grigioni, abbondavano le streghe, che faceano malìe, affascinavano fanciulli, inducevano temporali, e adunavansi ai sabbati, ove dal diavolo erano sollecitate a calpestare la croce. San Carlo, legato pontifizio in que’ paesi, mandò a farne processo; e si trovò il male ancor peggiore dell’aspettazione: centrenta streghe abjurarono, altre furono arse, fra cui Domenico Quattrino prevosto di Rovereto, che da undici testimonj era stato visto alle tregende menar un ballo coi paramenti da messa, e recando in mano il santo crisma[263].
Un tal padre Carlo (forse il Bescapé), sotto gli 8 dicembre 1583, descriveva al suo superiore il supplizio [353] d’alcune fra queste: — In un vasto campo costrutto un rogo, ciascuna delle malefiche fu sopra una tavola dal carnefice distesa e legata, poi messa boccone sulla catasta, a’ lati della quale fu appiccato il fuoco; e tanto fervea l’incendio, che in poco d’ora apparvero le membra consunte, le ossa incenerite. Dopo che il manigoldo l’ebbe avvinte alla tavola, ciascuna riconfessò i suoi peccati, ed io le assolsi: altri sacerdoti le confortavano in morte, e le affidavano del divino perdono... Io non basto a spiegare con qual intimo cordoglio, e di quanto pronto animo abbiano incontrato il castigo. Confessate e comunicate, protestavano ricevere tutto dalla mano di Quel lassù, in pena de’ loro traviamenti; e con sicuri indizj di contrizione offrivangli il corpo e l’anima. Brulicava la pianura di una turba infinita, stivata, intenerita a lacrime, gridante a gran voce, Gesù! e le stesse miserabili poste sul rogo, fra il crepitare delle fiamme udivansi replicare quel santissimo nome; e pegno di salute aveano al collo il santo rosario... Questo volli io che la tua riverenza sapesse, perchè potesse ringraziare Iddio, e lodarlo per li preziosi manipoli da questa messe raccolti»[264].
[354]
Il padre Carrara, nella storia di Paolo IV, l. II, § 8, riferisce che in quel tempo i demonj fecero l’estremo di lor possa, come chi si sente alle strette. Fra gli altri nel 1558 invasero un luogo pio d’orfanelle in Roma, di modo che il papa istituì una congregazione di ragguardevoli prelati, alla cui testa il cardinale decano Bellay, e Giambattista Rossi generale de’ Carmelitani, perchè riconoscessero il fatto e cogli esorcismi riparassero la repentina perturbazione di quelle zitelle. Una maga africana abitante in Trastevere promise guarire un certo Cesare, sellajo pontifizio, che diventava acatalettico, e credeasi indemoniato; ma voleva averne la permissione dal papa, onde non incorrere le pene da esso minacciate contro le superstizioni. Il padre Ghislieri non solo negò tal licenza, ma fe carcerare la strega, e sebbene non si riuscisse a provarla rea, la esigliò, e il sellajo raccomandò agli esorcismi del padre Rossi. Questi lo trovò veramente indemoniato; e ordinò alla madre di lui facesse minute indagini per casa, massime nelle còltrici, e sotto i limitari delle porte, ove gli streghi sogliono riporre lor malefizj: e di fatto sotto un mattone si trovò un pentolino sudicio e polveroso, e in esso un battufolo di carte e cenci, un circoletto di capelli biondi come l’oro, con un nodo lento: due unghie di mulo, due penne di gallina piegate a triangolo; due aghi fitti in un cuore di cera; un ritaglio d’unghia umana, grani di cicerchia e d’altri legumi; e nel fondo tre carte piegate; in una delle quali una rozza effigie d’uomo, trafitto da due dardi incrociati a modo di x; nell’altra tredici nomi ignoti, probabilmente di demonj; nella terza era scritto: «Cesare, come qui sopra passerai, per dieci anni in gran pena sarai» e parole inintelligibili.
Subito il pentolino fu messo nell’acqua santa e riposto in luogo sicuro; e intanto Cesare si trovò liberato [355] e tornò florido e tranquillo. Tutto ciò il padre Carrara, per attestar come il mondo fosse contaminato da diavolerie, e come vi rimediasse il santo rigore di Paolo IV.
Nel 1586 Daniele Malipiero senatore veneziano fu arrestato come negromante, e così i nobili Eustachio e Francesco Barozzi, e condannati all’abjura. Questo Francesco, di cui si hanno molti trattati matematici e filosofici, persistette al niego, finchè promessogli salva la vita e la roba, confessò aver praticato diavolerie con profanazione d’olj santi e d’altri sacramenti; costretto le intelligenze con circoli; fatto la statua di piombo conforme alle regole dell’Agrippa; saper fare venir persone dalle estremità del mondo; con una lamina fabbricata sotto l’ascendente di Venere, costringere alla benevolenza, e stare preparandone altre sotto l’influsso di diversi pianeti per conseguire oro, dignità, onorificenze; confidarsi di potere con sortilegi istruire in tutte le scienze il proprio figlio; avere scoperto il senso de’ geroglifici esistenti sulla piazza di Costantinopoli, secondo i quali al 1590 doveva estinguersi la casa Ottomana e la potenza de’ Turchi; trovandosi in Candia durante una lunghissima siccità, vi fece piovere, ma insieme versossi tal gragnuola, che devastò i campi ch’esso v’aveva. Perocchè egli era abbastanza ricco, ma pe’ vizj e il disordine spesso si trovava sprovvisto. Fu condannato a dare pochi denari di che far crocette d’argento, e a praticare alcuni atti di pietà «esortandoti anche a tener sempre acqua benedetta nella tua camera per difesa contra tanti spiriti infernali con li quali hai avuta famigliarità»[265].
Ben peggio andavano le cose fuori d’Italia. In Francia, regnante Francesco I, centomila persone furono condannate [356] per fatucchiere[266]; e da seicento accusate nel 1609 sotto Enrico IV. Dite altrettanto dell’Inghilterra e della Germania; e da Soldam, che recentemente trattò dei processi di stregheria[267], raccogliamo che a Nördlingen, cittaduola di seimila abitanti, dal 1590 al 94 furono arse trentacinque streghe. Tra i Riformati usavasi altrettanto, anzi più ferocemente che tra i Cattolici; e da penna straniera, quella di Martin Delrio, uscì la più seria dimostrazione e il più compito codice di siffatte credenze e procedure.
Così durò tutto il XVI e XVII secolo[268], e gran parte di quel che precedette il nostro. Ma le scienze progredendo portavano spiegazione a molti fenomeni, riputati fin allora miracoli; la medicina additò le naturali analogie di assai casi; la giurisprudenza persuadevasi non dover bastare alle condanne la confessione del reo; il fatto che più colpiva, cioè l’accordo delle varie deposizioni, si trovava ridursi alle sole generalità, delle quali tutti aveano inteso parlare, e dove, le interrogazioni dirigendosi in tal senso, spesso non restava che rispondere sì o no. Alcuni diedero intrepidamente di cozzo all’ubbia popolare, e principali fra questi i gesuiti Adamo Tanner e Federico Spee, le cui opere lasciarono ben poca novità a quella, più efficace perchè breve e vulgare, del Beccaria; se non che essi trattavano la quistione per via di testi e canoni, ad uso dei dotti, lasciando che la plebe covasse i proprj inganni.
Primo recò la querela davanti al pubblico il roveretano [357] Girolamo Tartarotti[269] negando le tregende, e ribattendo specialmente il Delrio: eppure non solo accettò, ma sostenne la verità della magìa; col che concedendo l’immediata potenza del demonio, come potea ricusargli la potestà di trasferire anche le maliarde? Riducevasi dunque a conchiudere che, nei casi speciali, ripugnava al buon senso il credere a queste, e sovrattutto al loro numero. E non che questa fosse una concessione da lui fatta ai pregiudizj del suo secolo, allorchè Gian Rinaldo Carli e Scipione Maffei[270] estesero quella negativa ad ogni immediata arte diabolica, egli protestò che, tacciando d’illuse le streghe, non aveva inteso mettere dubbio sulla potenza del demonio; tanto la ragione umana ha bisogno di forza per sottrarsi alle opinioni nelle quali fu educata. E il padre Cóncina, nella vasta sua teologia pubblicata dopo il 1750, accettava i prodigi delle streghe e dei concumbenti come sentenza comune[271].
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Sovra i beati e ridenti uomini del Cinquecento pendeva dunque da una parte il terrore delle potenze malefiche, dall’altra la spada di orribili quanto irreparabili processi, che dirigevansi pure contro gli eretici, e ne colpivano persino i figliuoli. Il Rategno sancisce che i figli d’eretici, quantunque buoni cattolici, sono privati del retaggio paterno; gli eredi, obbligati adempire la penitenza imposta al reo; possono privarsi degli uffizj e delle dignità i fautori, i figli, gli eredi degli eretici; uno si può dopo la morte dichiarare eretico, e confiscarne i beni; poichè il delitto d’eresia non s’estingue neppur colla morte. Dei beni confiscati il diocesano non tocca: se ne dà un terzo al Comune ove segue la condanna, l’altro agli uffiziali del Sant’Uffizio, il resto s’adopera ad incremento della fede ed estirpazione delle eresie.
Secolo singolare il Cinquecento, misto di tanta grandezza con tanta miseria, tanto splendore con tanti errori, tanta civiltà con tanta fierezza; secolo che tutto cominciò, nulla finì; e che di particolari attrattive riesce per noi, atteso che, come oggi, ogni cosa vi era in moto, e possiamo trovarvi esempj, consolazioni, speranze. Mescolato tuttora l’antico col nuovo, non godevansi più i vantaggi dell’uno, nè ancora quei dell’altro; del passato tenevasi un’energia selvaggia che, qualora dal carattere passi nelle idee, fa guadagnare in forza e dimensione quanto si scapita in delicatezza e misura: ma erasi perduto la fede e la docilità; verso il futuro [359] spingeasi coll’intelligenza, ma non n’avea la pulitezza e la regolarità.
Colombo scrive ad Isabella: — Il mondo conosciuto è troppo piccolo», e altrettanto pare s’intimi da ogni parte anche pel morale; nè in verun altro periodo erasi ampliata cotanto la sfera delle idee relative al mondo esteriore, o l’uomo avea sentito sì vivo bisogno d’interrogare la natura; in verun altro fu messa in giro tanta copia e varietà d’idee nuove. Come in Grecia Platone, Aristotele, Fidia, così in Italia Ficino, Michelangelo, Falloppio concorrono a scoprire la natura dell’uomo sotto il triplice aspetto intellettuale, artistico, materiale: quasi a un tempo fioriscono sette artisti a cui non sorsero i pari, Leonardo, Michelangelo, Rafaello, frà Bartolomeo, Correggio, Tiziano, Andrea del Sarto: sedettero contemporanei principi grandissimi, quali Carlo V, Leone X, Francesco I, Enrico VIII, Andrea Gritti, Andrea Doria, Solimano II: non c’è strada che lo spirito umano non batta da gigante; indagine dell’antichità e smania del nuovo; lanci del genio e longanimità dell’erudito; poesia e calcolo; e ogni facoltà umana trovasi rappresentata da insigni personaggi.
Intanto, splendidezza d’abiti, di Corti, di apparati; dall’Occidente e dall’Oriente nuove ognidì squisitezze vengono a lusingare i sensi; oggi Brescia ode proclamare per le vie, a suon di tromba, che il suo Tartaglia scoperse un nuovo teorema matematico; domani non si parla che del nuovo canto dell’Orlando, letto jeri dall’Ariosto nel palazzo di Ferrara; un giorno allocuzioni, sonetti, scampanìo, luminarie annunziano che s’è dissotterrato il Laocoonte, o che Michelangelo aperse la cappella Sistina, o Gian Bologna espose la Sabina.
Il dominante spirito aristocratico cerca nelle scoperte quello che può dar gloria alla nobiltà, anzichè quello che migliori ed arricchisca le plebi. Una politica egoista che [360] dell’astuzia si fa merito più che della forza, un’inettitudine irrequieta, un viluppo di maneggi, fanno e contrasto e lega con una malvagità or ipocrita ora sfrontata, e cogli abusi della forza, che, dalla grande migrazione in poi, non aveva mai così inverecondamente proclamato la sua morale onnipotenza, quanto nelle guerre pel Milanese e per la Toscana, nel sacco di Roma, negli assedj di Firenze e di Siena. L’acquisto di cognizioni e di libertà era ancora a servizio delle passioni; innestate l’ispirazione colle reminiscenze, il genio colla pedanteria, il paganesimo colle esaltazioni devote, la santimonia coll’empietà, l’azione colla meditazione, la moralità col machiavellismo.
Del medioevo durano ancora gl’incidenti, in bizzarro contrasto coi nuovi costumi. Tutte le fasi delle repubbliche sussistono accanto a tutte quelle del principato, esse decadendo, questo assodandosi; le secrete tranellerie de’ gabinetti trovansi a fronte con impeti di generosità cavalleresca; i condottieri rompono ancora le ordinanze delle fanterie stanziali, e pretendono opporre le armadure di un tempo alle bocche di fuoco; principi eroi sono uccisi a Ravenna perchè fecero voto all’amante di non coprirsi; o ne’ tornei s’avventurano re moderni, mentre la tragedia regolare chiama a piangere sulle simulate sventure degli antichi.
Strigatisi dai ceppi del medioevo, ma senza aver assunto ancora quelli che impongono le convenienze, abbandonavansi agli istinti od alle ispirazioni della fantasia o della coscienza; ribaldi o virtuosi ma francamente, senza insuperbire nè vergognare. Quindi nella vita tradizioni di lealtà insieme con un epicureismo non dissimulato; scetticismo micidiale, e fanatismo sterminatore; l’entusiasmo e l’ironia; l’assiderante regolarità del Trissino, e il geniale sbizzarrire dell’Ariosto; il ghigno sguajato dell’Aretino, e il belare dei Petrarchisti; [361] la silvestre semplicità de’ Bucolici, e l’insaziabile accattare di Paolo Giovio; la bizzarria spensante di Benvenuto e l’austerità di Michelangelo, forse unico artista in cui appaja la lotta dello spirito colla materia; il sarcasmo del Pomponazzi e la convinzione del Savonarola, le orgie di Lucrezia Borgia e i roghi di Pio IV, Machiavelli e Filippo Neri, Leone X e Adriano VI, Carlo V e Francesco I: stampasi il Corpus juris, mentre ogni dritto è calpestato: la serenità della scuola di Rafaello fa contrasto al ceffo del Borbone e del Frundsperg. Di qui l’immensa difficoltà di giudicare della moralità delle azioni e della grandezza dei personaggi, dipintici da passione e da spirito di parte, convulsi fra idee così disparate, fra pregiudizj inumani e servili, fra l’insuperabile efficacia degli esempj e quel che chiamasi senso comune.
Aggiungiamo la desolazione che entra negli spiriti allorchè un gran dubbio gettato nella società rimette in problema tutto quello su cui essa riposava.
Tanto sovvertimento di costumi e d’opinioni crescea forza ai Protestanti, i quali con ispaventosa celerità propagaronsi dai Pirenei all’Islanda, dall’Alpi alla Finlandia, occupando le menti pensatrici, allettando le frivole, trasformando nazioni intere. Vi sono errori antichi, [362] i quali, col resistere alla prova del tempo, mostrano essere compatibili col bene; vi sono verità nuove che, balzando su calle insolito la società, le riescono micidiali: laonde ogni rivoluzione, e per ciò che demolisce e per ciò che erige, cagiona perturbamenti e guerre.
Al disordine, che dagl’intelletti trasfondevasi nelle volontà, da queste nella politica, avrebbe dovuto rimediare la Chiesa; ma da principio i suoi capi parvero non accorgersi dell’intensità del male, e con frecce di legno e lance di piombo repulsavano un attacco decisivo. Fra i campioni da lei scelti, Silvestro Mazzolini da Priero presso Mondovì[273], maestro del sacro palazzo, raffinì tra le mani per modo che parve spediente comandargli di cessare; pur costituendolo vescovo, e giudice di Lutero. Girolamo Muzio (pag. 165) ne’ viaggi avendo osservato i costumi de’ Protestanti, non gli parvero quali da’ lodatori erano vantati, e la loro dottrina confusione ed abusione; e accintosi a combattere la comunione del calice a’ laici, il matrimonio de’ preti, e le altre novità, sostenne che non era necessario adunare un concilio, dissuase Lucrezia Pia de’ Rangoni dall’abbracciar gli errori diffusi tra i Modenesi. L’Inquisizione [363] romana aveagli dato incarico di far bruciare tutte le copie del Talmud nel ducato d’Urbino, e d’informarla di quanto scoprisse di men religioso, principalmente a Milano. Quivi udendo predicare Celso Martinengo, lo chiamò ad esame, e lo incarcerava se non fosse fuggito a Ginevra, dove fu assunto pastore de’ Protestanti in Ginevra, e l’effigie del Muzio chiassosamente bruciata. Del Vergerio, vescovo di Capodistria, era stato amico d’infanzia; ma non che lasciarsene sedurre, non lasciò strada intentata per ritrarlo al vero, e frustrati i consigli amichevoli, scrisse contro di lui al popolo di Capodistria, e più dopo che apostatò. Nei tre testimonj fedeli esaminando le dottrine de’ santi Basilio, Cipriano, Ireneo, convince di falsità Erasmo ed altri: Pio V gli affida la riforma dell’ordine di san Lazzaro, e di rispondere all’Apologia Anglicana e alle Centurie Magdeburghesi: a sostegno del concilio di Trento scrisse principalmente il Bullingero riprovato; l’Eretico infuriato contro Matteo Giudice professore di Jena; la Cattolica disciplina de’ principi contro il Brenzio. L’Antidoto cristiano, la Selva odorifera, la Risposta a Proteo, il Coro pontificale, le Mentite Ochiniane, le Malizie Bettine, la Beata Vergine incoronata sono i bizzarri titoli d’opere sue, buttate giù con violenza e scarsa critica, svelenendosi colle persone, anzichè teologicamente incalzar l’errore; modo di farsi leggere dal vulgo, non di vantaggiare la causa del vero.
Erasmo, che fra i dotti d’allora rappresenta il cattivo moderato, avea dato spinta e spirito alla Riforma colle lepidezze e cogli epigrammi, sebbene poi ricusasse farsene campione per amor di pace, onde era blandito dai prelati: ma Alberto Pio signore di Carpi, delle lettere e delle arti e di Aldo Manuzio protettore, benchè attivamente involto negli affari, scrisse contro di lui e di Lutero, con qualche eleganza, ma scarsa forza.
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Non di tali difese era tempo, e meglio operarono Girolamo Amedei, servita senese spedito in Germania; il padre Silvestri domenicano, che fece un’Apologia della convenienza degli istituti cattolici colla evangelica libertà; Ambrogio Fiandino da Napoli, agostiniano, che già avea confutato il Pomponazzi, senem delirium, hominem maledicum, patriæ vituperium, e dettò contro Lutero tre opere, che non furono stampate; Cristoforo Marcello veneziano, vescovo di Corfù, e famoso per dottrina non meno che per disgrazie (t. IX, p. 371); e principalmente Ambrogio Caterino domenicano, che nel secolo era stato Lancellotto Politi senese, uomo di molta dottrina ma litigiosa[274], per la quale s’abbaruffò anche co’ teologanti cattolici, e massime col cardinale Gaetano, ch’egli imputava d’interpretazioni nuove e opinioni singolari.
Girolamo Aleandro della Motta trevisana, lodatissimo da Aldo e da Erasmo per conoscenza del greco e dell’ebraico, da Alessandro VI dato segretario al duca Valentino, poi spedito per affari in Ungheria, da Leone X tenuto al fianco in alti impieghi, chiesto da Luigi XII professore all’Università di Parigi, quando fu deputato in Germania contro i Luterani parve esorbitare di zelo. Invece parve condiscendervi troppo il veneziano Gaspare Contarini, ne’ più difficili momenti mandato nunzio di Paolo III in Germania per indurre i Protestanti a riconoscere almeno i principj fondamentali, cioè il primato della santa Sede, i sacramenti ed altri punti appoggiati alla Scrittura e all’uso costante della Chiesa. Eruditissimo di filosofia, matematica, politica, avea scritto contro Pomponazzi e Lutero sopra la giustificazione per mezzo della fede, e due libri dei doveri del vescovo con [365] semplice gravità e con minori triche scolastiche che non solessero i teologi[275].
Spesso lo zelo dava ombra; e Andrea Bauria ferrarese agostiniano, vigorosissimo predicatore contro i vizj, fu messo in sospetto a Leone X, il quale fece sospendere la stampa del suo Defensorium apostolicæ potestatis contra Martinum Lutherum, comparso poi dopo la morte di esso. Frà Girolamo Negri di Fossano, che con abbondevole frutto missionava nelle subalpine valli di Luserna e d’Angrogna, fu impinto d’eresie, e sospeso dal predicare, finchè si provò innocente, e scrisse una delle migliori difese della messa contro Lutero (Torino 1554).
Ma una vigorosa ed assoluta confutazione non apparve allora; nè tampoco fu tra noi chi facesse quel che Erasmo tedesco tentò e lo spagnuolo Melchior Cano compì, di ristabilire le vere nozioni sulla teologia e le prove di cui essa si vale: dissertavasi sovra punti particolari, non si toccava al fondamentale qual è l’autorità della Chiesa; si discuteva davanti al tribunale inferiore della ragione individuale; si filavano sillogismi de’ quali era impugnata la maggiore; non erasi scoperto il lato debole della Riforma, nè incalzati gli avversarj entro barriere saldamente posate col mostrare che il dogma fondamentale di essi, l’individuale interpretazione, distrugge l’essenza della società spirituale, distruggendo la fede. Togli alla verità il carattere obbligatorio, essa rimane indistinta da qualsivoglia errore, e il protestante non può condannare l’ebreo, il deista, l’ateo, giacchè nol potrebbe che coll’opporre alla ragione di questi l’autorità.
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Tutto poi esponeasi con tecnico gergo, argomentazioni opponendo ad argomentazioni; i teologi sprezzando i letterati come gente da frasi, ed essendo sprezzati da questi come pedestri scolastici. Il sant’uomo Gregorio Cortese da Modena benedettino, riformatore del famoso monastero di Lerins, vescovo d’Urbino, poi cardinale, contro Ulrico Velenio dimostrando che san Pietro fu veramente a Roma, deplora la scurrile polemica allora usitata[276], ed alla quale egli porgeva sì diverso esempio.
Si scusi quanto si vuole Leone X, ma dicano i leali credenti se fosse un papato opportuno a richiamare all’ovile gli erranti quando le divinità dell’Olimpo erano evocate ad esilarare il Vaticano. Gli successe (1522) Adriano VI, il quale, convinto per argomenti scolastici delle verità rivelate, non poteva supporre buona fede ne’ Protestanti, al tempo stesso che deplorava fossero stati spinti all’eccesso col serrar loro le porte in faccia. D’altra parte, venuto da contrade forestiere, restò colpito dagli abusi della Corte romana, e sgomentò coll’annunzio di volerli svellere di colpo; mentre col confessarli e promettere di ripararvi porse soggetto di trionfo ai nemici. Alla dieta di Norimberga dal nunzio Cheregato fece dichiarare ai principi tedeschi «conoscere il papa che l’eresia luterana era supplizio di Dio per le colpe spezialmente de’ sacerdoti e dei prelati, e che però il flagello avea [367] cominciato dal tempio, volendo prima curare il capo che le altre membra del corpo infermo; che in quella sedia già per alcuni anni eransi viste abominazioni, turpi usi nello spirituale, eccessi nei comandamenti, il tutto insomma pervertito»[277]. Sta nella biblioteca Vallicelliana a Roma il discorso che Bernardino Carvajal, cardinale ostiense, gli recitò all’entrata in Roma, esponendogli sette ricordi, che sono: 1. eliminare le arti antiche, che sono simonia, ignoranza, tirannide e gli altri peccati; aderire a buoni consiglieri; reprimere la libertà de’ governatori; 2. riformare la Chiesa sicchè più non paja una congrega di peccatori; 3. i cardinali e gli altri ecclesiastici amare d’amor reale, esaltando i buoni, e provvedendo ai bisognosi perchè non s’avviliscano; 4. amministri la giustizia senza divario; 5. sostenti i fedeli, massimamente nobili, e i monasteri nelle loro necessità; 6. faccia guerra ai Turchi; 7. compia la basilica di San Pietro[278].
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Gli scrittori d’allora gareggiano nell’esaltare sopra quanti predicatori viveano frate Egidio da Viterbo; il cardinale Sadoleto lo vanta per facilità di parlar toscano, profondi studj di teologia e filosofia, talchè sa nelle prediche piegar le menti, serenare le turbate, accendere le languide all’amor della virtù, della giustizia, della temperanza, alla venerazione di Dio e all’osservanza della religione; e senza divario di giovani o vecchi, d’uomini o donne, di primati o vulgari tutti scotea con forza di ragionamento, fiume d’elettissime parole, d’eccellenti sentenze[279]. Non v’era solennità cui non fosse invitato, sicchè Giulio II riservò a sè il destinarlo: e sebbene il pochissimo ch’e’ ci lasciò non giustifichi tanti encomj, tutti sono d’accordo nell’esaltarne la virtù e l’integrità, per le quali Leon X, che gli scriveva colla famigliarità d’amico, lo ornò della porpora.
Egli dirigeva ad Adriano VI un commentario sulla corruzione della Chiesa e le guise di ripararvi. A dir suo, la depravazione s’insinuò dacchè la facoltà di sciogliere e legare fu adoprata più a vantaggio degli uomini che a gloria di Dio. Convien dunque limitarla, considerandola come uno de’ principali uffizj del pontefice, e quindi adoprarvi il consiglio d’uomini integri ed esperti; escludere le aspettative de’ benefizj, che fanno desiderar la morte, quand’anche non la procurino; evitare quell’avaro e ambizioso accumulamento di benefizj; reprimere l’ambizione dei monaci, che sotto la giurisdizione [369] de’ loro conventi tengono infinite parrocchie, affidandole a qualche prete amovibile e mal provveduto. La turpe vendita di cose sacre, ammantata col titolo di composizioni, repugna ai canoni, ispira invidia a’ principi, e dà ansa agli eretici; sicchè dovrebbe restringersi l’uffizio del datario, che smunge il sangue dei poveri come dei ricchi. Nè le riserve di benefizj gli pajono oneste. Prima di conceder le grazie, si facciano da persone savie esaminare secondo la giustizia e l’equità; e così prima di promuovere a benefizj vacanti. A tutti poi gli uffizj si scelgano quei che più buoni, abili, fedeli, si diano uomini alle dignità e alle amministrazioni, non queste ad uomini: le concessioni, gl’indulti, i concordati con principi si rivedano esattamente, acciocchè questi non usino e abusino verso secolari e verso ecclesiastici. Indecoroso e imprudente fu il modo di maneggiar le indulgenze; sicchè voglionsi richiamare le commissioni date ai Minori Osservanti, per le quali riesce svilita l’autorità vescovile. Nessuna cura paja soverchia nell’amministrare la giustizia; un cardinale robusto e savio riveda le suppliche sporte al papa; scelgansi con somma diligenza gli auditori di Rota, man destra del pontefice, ed abbiano un soldo fisso, anzichè impinguar sulle sportule, le quali sono cresciute a segno, che le cariche vendute un tempo a cinquecento ducati l’anno, or si comperano a più di duemila; come quelle degli auditori di Camera pagansi trentamila ducati, mentre dianzi valutavansi quattromila. Via via determina gli uffizj della giustizia; se ne rivedano le giurisdizioni e gli statuti, che buoni dapprima, poi depravaronsi; abbia riforma il governo delle Legazioni, dove vorrebbe che i legati non rimanessero oltre due anni, come pure i governatori e prefetti e gli altri uffiziali; tutti lasciassero garanzia del loro operare, finchè subissero un sindacato; e a chi n’esce con lode, si attribuissero [370] onori e comodi. I debiti onde Leone X gravò la sede col creare tanti nuovi uffizj che consumano l’anno centrentamila ducati delle rendite della Chiesa, si cercasse redimerli, e se ne esaminassero attentamente i titoli; non si surrogassero i vacanti, e gl’investiti medesimi si compensassero con altri benefizj. Si potrebbe pure alleggerire il debito col riservarsi una parte delle rendite di tutte le chiese ed un sussidio caritativo massime dai monasteri[280].
Una riforma conciliativa sarebbe ella stata ancora possibile?
Roma nel concilio Tridentino confessò col fatto che Lutero in molti appunti avea ragione; e se ella immediatamente avesse corretta la disciplina, receduto dalle pretensioni meramente curiali, non trasformate in dogmatiche le quistioni giurisdizionali, ceduto in somma di voglia ciò che poi dovette per necessità, avrebbe almeno levato pretesto alle declamazioni più popolari. Tuttodì noi vediamo le temporalità togliersi alle chiese senza scisma; circa alcuni riti s’era già condisceso coi Greci e cogli Ussiti; nè sul conto delle indulgenze, dei dogmi essenziali e dei misteri non parea fin allora stesse interposto l’abisso. Potè dunque Adriano VI sperare ancora un ravvicinamento, e vi si accinse: ma la luce di quel pontefice rivelò la profondità dell’abisso. Entrando in Roma, non volle le burbanze e lo spendio che si soleva; un arco di trionfo fece sospendere dicendo, — Le son cose da Gentili, e non da Cristiani e religiosi»; come il nome, così serbò i costumi prischi; si menò dietro la dabbene fantesca, che il servisse al modo [371] di prima; per pranzo non spendea meglio d’un ducato, che ogni sera dava di propria mano allo scalco, dicendogli, — Te’ per la spesa di domani»; richiesto di prendere dei servi, rispose voler prima sdebitare la Chiesa; e udendo che Leone X tenea cento palafrenieri, si fece la croce, e disse che quattro basterebbero[281]. Essendogli mostrato il Laocoonte, esclamò: — Idoli pagani», e torse gli occhi dalle classiche nudità. Avendo dato un benefizio di sessanta scudi a un suo nipote, che poi gliene chiese uno vacato di cento, gli rispose con un gran rabbuffo che quello bastava a mantenerlo; e quando, vinto da molti preghi, glielo concesse, volle prima rassegnasse l’altro. Si fece promettere dai cardinali che deporrebbero le armi, non darebber ricetto ne’ loro palazzi a sbanditi e birbi, lascerebbero che il bargello v’entrasse per esecuzione della giustizia.
«Se gli ecclesiastici aveano barba grande alla soldatesca o abito non lecito a preti, ei riprendevali, perchè era tanto scorsa la cosa che portavano i prelati la spada a cavallo e cappa corta e barba. Ed io scrittore vidi in Firenze un nostro fiorentino, ch’era arcivescovo di Pisa, d’anni ventiquattro in circa, fattogli avere da papa Leone da un altro arcivescovo di Pisa ch’era ancor vivo con dargli uffizj di Roma in compenso e altri benefizj, in fatti comperato a dirlo in brevi parole, vederlo andare per Firenze il giorno a spasso a cavallo con una cappa nera alla spagnuola che gli dava al ginocchio, e la spada allato, e il fornimento del cavallo o mula di [372] velluto a onore di Dio e della santa Chiesa: e il cardinale Giulio de’ Medici sopportava tal cosa, e andava sempre alla chiesa col rocchetto scoperto senza mantello o cappello, con una barba a mezzo il petto, e assai staffieri colle spade attorno, e senza preti e cherici: e a questo era venuta la Chiesa, d’andar in maschera cardinali e prelati, a conviti, a nozze e ballare»[282].
La semplicità di Adriano, il suo dir la messa e l’uffizio tutti i giorni eccitarono le risa nel palazzo abituato con Giulio II e con Leone X. Da un pezzo non v’erano papi forestieri, e questo neppur sapeva la lingua italiana; di che s’arricciava il patriotismo de’ nostri. Egli, che oltr’Alpe era reputato protettore degl’ingegni, e che aveva rimossi gli ostacoli dalla fondazione del collegio trilingue a Lovanio[283], fu reputato un barbaro da cotesti umanisti che più non salariava, e che presero la fuga beffando e bestemmiando: tutti i Sesti (diceva un epigramma) han rovinato Roma[284]; il Negro querelavasi che tutte le persone da bene se ne partissero; il Berni avventava un capitolo violento contro di lui e dei quaranta poltroni cardinali che l’aveano eletto; e Pasquino il dipinse in figura d’un pedagogo, che ai cardinali applicava la disciplina come a scolaretti. Molti interessi offendeva, perocchè, volendo togliere le vendite simoniache, pregiudicava quelli che le avevano legalmente [373] prese in appalto: gravi nimicizie si suscitò coll’abolire le sopravvivenze delle dignità ecclesiastiche: privo d’appoggi di famiglia come straniero, di nuovi non se ne creò, perchè innanzi di conferir benefizj ponderava a lungo, e così lasciava scoperti i posti: diffidando dei più come corrotti, era costretto porre il capo in grembo ai pochi cui credeva, e che lo tradivano; onde fu inteso esclamare: — Quale sciagura che v’abbia tempi, in cui il miglior uomo è costretto soccombere». In fatti egli pio e zelante fu reputato un flagello non minor della peste che allora correva; la morte sua fu pubblica esultanza, e alla porta del suo medico si sospesero corone civiche ob urbem servatam.
Per verità il peggior momento a riformare è quando sia impossibile il differirlo. Ora, solo col tempo si poteva riparare ai guasti recati dal tempo: ma intanto la Riforma procedeva colla violenza di chi distrugge; nei popoli s’introduceva l’abitudine dei riti nuovi, e lo sprezzo dei dogmi vecchi; i preti ammogliati v’erano avvinti col doppio legame dell’interesse e degli affetti; e i figliuoli s’educavano nel nuovo credo.
Qualunque volta una grave eresia le lacerò il grembo, la Chiesa erasi adunata in concilio attorno al successore di san Pietro, onde profferire secondo il sentir suo e dello Spirito Santo. Questo rimedio, efficacissimo allorchè non era messa in quistione l’autorità della Chiesa, fu proposto al cominciamento del male, e primi i Protestanti dalle scomuniche del pontefice appellarono al concilio, e i Cattolici confidavano potere in siffatta adunanza opporre il sentimento universale e antico alle opinioni particolari e nuove. Clemente VII (1523), succeduto pontefice, mandò fuori lettere, ove coi treni consueti deplorando le jatture della cristianità, ne accagionava la discordia dei principi e lo sformamento dell’ordine ecclesiastico; dovere la correzione cominciarsi dalla [374] casa di Dio; egli emenderebbe se stesso, i cardinali facessero altrettanto; visiterebbe in persona tutti i principi onde concordar una pace, fatta la quale, celebrerà un concilio per restituirla anche alla Chiesa. E persuaso che la suprema importanza consistesse nell’opporsi al Turco e sopire l’incendio germanico, rassegnavasi a qualunque transazione coi novatori: stile delle autorità minacciate, che si riservano di eluderle quando siansi rimesse in assetto. «Sua santità (scriveva il Muscetola) ha fatto esaminare da varj teologi nostri le confessioni stese da’ Luterani; e n’ebbe in risposta che molte delle cose ivi contenute erano del tutto conformi alla fede cattolica; altri poi capaci d’un’interpretazione non contraria alla fede se i Luterani volessero prestarsi a un accomodamento, il quale per altri rispetti ancora non sarebbe impossibile»[285].
Carlo V, che la Riforma guardava principalmente dall’aspetto politico, come imperatore potea desiderare l’umiliamento di questi papi che aveano tenuto al freno i suoi precessori, e che con Giovanni XII aveano proclamato il distacco dell’Italia dall’Impero, e con Giulio II la cacciata degli stranieri. Ma d’altro lato prendea dispetto che un frate cacciasse i suoi sillogismi traverso alle smisurate ambizioni di lui; e che i principi dell’impero profittassero delle innovazioni religiose per emanciparsi non meno dall’imperatore che dal pontefice; diversione disastrosa quando i Turchi sovrastavano. Stette dunque cattolico anche per calcolo, e con Leone X conchiuse un accordo pieno d’interessi mondani: ma quando uscì vincitore dell’emulo Francesco a Pavia, non sentendo più bisogno nè di Lutero come spauracchio dei papi, nè de’ papi come contrappeso alla potenza francese, mutò linguaggio; tacciò il [375] papa di voler solo tergiversare; un poco ancora che tardasse, egli stesso adunerebbe il concilio.
Ma un concilio generale, che al modo di quel di Basilea potrebbe dichiararsi superiore al pontefice stesso, maggior ombra dava a Clemente VII, nato illegittimamente e poco legittimamente eletto; sicchè abbindolò soprattieni e objezioni, dicendolo inutile e pericoloso: inutile, perchè l’eresia di Lutero essendo condannata dagli editti imperiali, bastava far questi eseguire; pericoloso, perchè parrebbe si revocassero in dubbio le antiche decisioni della Chiesa, e radunamento di tante teste torbide potrebbe al papa o all’imperatore strappare concessioni, di cui si pentissero poi. Se l’imperatore lo credeva opportuno, l’intimasse pure a nome del pontefice, patto però che gli eretici promettessero obbedirvi, e i punti a discutere si ponessero prima in iscritto, onde non perder tempo. Uberto Gámbara nunzio pontificio spiegò più chiaro che i Luterani domandassero il concilio, e promettessero sottoporvisi; dovesse unicamente occuparsi della guerra col Turco e dell’estinguere l’eresia, non già del riformare la Chiesa; si tenesse in Italia; vi avessero suffragio quei soli a cui spettava per gli antichi canoni.
Carlo mostrò aderirvi: ma Francesco I pretese che il concilio fosse libero di trattar quanto e come volesse. Intanto Clemente VII disgustava anche i Cattolici; per le ambizioni di sua casa esigeva decime dal clero, e le appaltava; e avendole il clero di Ferrara ricusate, egli pose all’interdetto la città. Altrettanto fecero, due anni dopo, i preti di Parma, esclamando contro i rigori esorbitanti; quand’ecco arrivare Vincenzo Canina canonico d’Imola commissario papale, e tutto in collera esporre cedoloni minacciosi: ma i preti stanno al niego, anzi insorgono, il popolo li seconda, e il canonico è ammazzato [376] a strazio. Fatti simili si riprodussero altrove. I Riformati poi ebbero di che ridere al vedere, sotto il nome imperiale, saccheggiata Roma, e provocato uno scisma.
Di Paolo III succedutogli (1534) severamente giudicammo il nepotismo e la versatile politica; ma come pontefice comprese che lo spirito cattolico, assonnato nella tranquillità, pel contrasto raddrizzava gl’ingegni e i costumi; e secondandoli con sincerità, si cinse di ottimi cardinali, Caraffa, Contarini, Sadoleto, Polo, Ghiberti, Fregoso, tutti che avevano cominciato per fatiche particolari la ristaurazione della Chiesa. Incaricati della riforma, essi col modenese Tommaso Badia maestro del sacro palazzo, virilmente levarono rimproveri contro i papi che «spesso avevano scelto non consiglieri, ma servidori, non per apprendere il dover loro, ma per farsi dichiarare permesso ogni desiderio»[286]; denudarono gli abusi della curia; e poichè alcuno gli appuntava di eccedente vivacità, — E che? (disse il Contarini) dobbiam darci pena de’ vizj di tre o quattro papi, e non anzi correggere ciò che è guasto, e a noi medesimi procacciare fama migliore? Arduo sarebbe lo scagionare tutte le azioni dei pontefici; è tirannide, è idolatria il sostenere ch’essi non abbiano altra regola se non la volontà loro per istabilire o abolire il diritto positivo».
Paolo III riformò la camera apostolica, la sacra rota, la cancelleria, la penitenzieria: e i Protestanti, che volevano la morte non l’emendazione di Roma, ne menarono vampo quasi ella si confessasse in colpa.
Ma oltrechè negli abusi profondamente radicati può temersi che colla zizzania si svelga anche il buon frumento, gl’interessi personali impedivano i buoni e pronti [377] effetti. Il clero superiore s’era invecchiato fra abitudini aliene dalla religiosa austerità: il basso (lasciam via le eccezioni) si conformava a quegli esempj, nè l’educazione lo aveva addestrato ad armeggiare nella lotta decisiva. Negli Ordini monastici alcuni per gli ozj opulenti destavano scandalo; altri le beffe per la povertà degenerata in sudicieria, per la semplicità ridotta a grossolanità, per lo stesso zelo ingenuo, dissonante da tempi di dubbio e di controversia. Venne dunque a grand’uopo l’istituzione di un Ordine vigoroso di gioventù, addottrinato e pulito come il secolo.
Ignazio di Lojola, gentiluomo di Guipuscoa in Ispagna, paggio alla Corte di Fernando e Isabella, poi uffiziale, distinto per valore non meno che per belle forme, nel respingere dalla patria gli stranieri è ferito (1521): stando a letto prende a leggere alcune vite di santi, e commosso da quelle austere virtù, vota la sua castità a Maria coi riti cavallereschi ond’altri dedicavasi a una donna, e strappatosi alla famiglia, mendicando s’avvia pedestre a Gerusalemme. A stento indotto a surrogare al sacco un ferrajuolo e cappello e scarpe, naviga da Barcellona a Gaeta, fra i ributti serbati a un pezzente, a uno straniero, e in tempo di peste. Baciati i piedi di Adriano VI, arriva a Venezia, sozzo, macilento, rejetto, donde in Terrasanta. Nel pellegrinaggio risolve di fondare una nuova cavalleria, che combatta, non giganti e castellani e mostri, ma eretici, maomettani, idolatri; e con sei amici entrati nel suo disegno fa voto di mettersi all’obbedienza del papa per le missioni. Tornando in Italia, e agitando le ampie tese de’ patrj cappelli, predicano penitenza in quell’italiano spagnolesco, in cui i nostri erano troppo avvezzi a udire minaccie e improperj.
È solito de’ tempi di setta attribuire ad uno i vizj più opposti a’ suoi meriti. Si prese dunque sospetto che costoro fossero eretici mascherati; il vulgo soggiunse [378] avessero un demonio famigliare, che gli avvertiva quando convenisse mutar paese; fu divulgato che fossero stati arsi dall’Inquisizione. Ma il nunzio pontificio e Gian Pietro Caraffa, sant’uomo, ne compresero la virtù, della quale davano prova assistendo agl’incurabili; Paolo III, trovatili dotti e pii, gli ammise al sacerdozio, preparati con rigorosi esercizj; quando poi gli presentarono il disegno d’un Ordine, diretto ad assodare la fede, propagarla colle prediche, cogli esercizj spirituali, coll’assistere a prigionieri e malati, l’approvò, chiamandoli Cherici della Compagnia di Gesù, come testè dicevasi della compagnia del conte Lando o di frà Moriale. Ignazio, militarmente designatone generale, ben tosto la sua milizia diffonde per tutta la cristianità; ed egli la governa senza uscire dal collegio di Roma, fuorchè due volte per ordine del papa: una onde rimettere in pace gli abitanti di Tivoli coi loro vicini di Sant’Angelo; una per riconciliare il duca Ascanio Sforza con Giovanna d’Aragona sua moglie. Francesco Strada, suo discepolo, cento e più giovani guadagna a Dio in Brescia; e a Ghedi, ove si solea prendere in burletta i predicatori, egli col lasciar via i fioretti oratorj, e col venir alle strette, ottiene copiosissimi frutti. A disciplinare la difficile Corsica faticarono i padri Silvestro Landino di Lunigiana ed Emanuele di Montemayor. In Sicilia il vicerè di Vega gli ajutò a porre la prima casa di novizj: il padre Domenecchi gl’introdusse a Messina, poi a Palermo, ove presto ottennero l’Università. Il doge di Venezia ne chiese due ad Ignazio, fra i quali il Laynez che fu poi generale, e che ivi predicò ai tanti eretici chiamativi dal commercio: alloggiava nello spedale di San Giovanni e Paolo, ma tanti doni vi affluivano, ch’egli protestò dal pulpito non riceverebbe più nulla. Poi il priore Lippomani provvide d’una casa i Gesuiti, che n’ebbero pure a Padova, a Belluno, a Verona. Degl’italiani [379] ascritti pei primi a quella società ricorderemo Paolo Achille, Benedetto Palmia, oltre Paolo da Camerino e Antonio Criminale, che apersero l’India alla fede[287].
Quando Ignazio morì (1556), contavansi più di mille Gesuiti in dodici provincie: Portogallo, Italia, Sicilia, Germania alta e bassa, Francia, Aragona, Castiglia, Andalusia, Indie, Etiopia, Brasile.
Le loro costituzioni portano i tre voti soliti: ma alla povertà si obbliga il privato, mentre i collegi e i noviziati ponno possedere onesta agiatezza. Legavansi ai voti solo a trent’anni, e dopo che lungo e scabroso noviziato avesse prevenuto le incaute professioni e i tardivi pentimenti. Non che isolarsi, vivono in mezzo alla società, pur senza mescolarvisi; non hanno chiostri ma collegi ben fabbricati; abito ecclesiastico, non monacale, e che possono mutare con quello del paese ove dimorano; vita tutta diretta ad azioni reali, efficienti, avendo per ogni condizione un posto, per ogni capacità una destinazione. Ciascuna provincia aveva un luogotenente e gradazione d’impieghi, dipendenti dal generale, che, a differenza degli altri Ordini, era perpetuo, sedeva nella capitale del mondo cristiano, e conoscendo ciascuno per le relazioni trasmessegli dai capi, sorvegliava l’amministrazione de’ beni, disponeva dei talenti e delle volontà. Acciocchè l’ubbidienza fosse più intera, non cercavano dignità, anzi da principio asteneansi da qualunque impiego permanente. La Riforma avea tolto a pretesto l’ignoranza e la corruttela del clero? ed essi mostransi studiosi e d’una costumatezza che i maggiori avversarj non poterono se non dire ipocrisia. Si sono paganizzati i costumi e la disciplina? essi li emendano cogli spedienti migliori, cioè l’esempio e l’educazione. [380] L’alto insegnamento è negletto? essi se ne impadroniscono. Vedono ottenere lode la poesia latina? essi formano a quella gli scolari. Piaciono le rappresentazioni? ed essi ne danno di sacre. È tacciata la venalità e l’ingordigia del clero? ed essi insegnano gratuitamente, gratuitamente si prestano alla cura delle anime, istituiscono scuole pei poveri, esercitano la predicazione, e ne colgono mirabili frutti, sin a portare all’entusiasmo della devozione. Non stitichezza nel confessare, non vulgarità nel predicare, non eccessiva disciplina che maceri un corpo destinato a servigio del prossimo; non istancar i giovani, nè prolungarne l’applicazione più che due ore, e ricrearli in villeggiature ed esercizj ginnastici. Liberi pensanti e scopritori di nuove verità, porgeansi officiosi, affabili, l’un l’altro coadjuvanti, staccati da ogni personale interesse a segno, che vennero imputati d’affievolire gli affetti domestici.
I letterati d’allora sono una voce sola a magnificarne le scuole; e per tutto erano cerchi a maestri, a predicatori, e massime a confessori. Al tempo che contro del papa s’elevano l’esame e la resistenza, essi professano obbedire incondizionatamente ad ogni suo accenno; e propugnarne l’autorità, non la temporale già crollante, ma quella che poneva Roma a capo dell’incivilimento; combattere i Protestanti con ogni modo, eccetto la violenza; avendo anzi impetrato il privilegio d’assolvere gli eretici dalle pene temporali. Mentre poi i re ed i mercanti mandavano nel Nuovo mondo a uccidere e conquistare, essi vi corsero a convertire le Indie, il Giappone, la Cina, le Americhe. Non v’è forte pensatore che i meriti de’ Gesuiti non confessasse; non v’è ciarliero da caffè che non ne esagerasse le colpe, sicuro d’esser creduto, come l’accertava due secoli fa il maggiore scettico[288], e come ne diè prova fin il secolo [381] della tolleranza, ricusandola solo a costoro e a chi osasse non bestemmiarli. E per vero una società che proponeasi per canoni il sentimento e l’esempio dell’unità, il rassegnare la propria alla volontà superiore, la propria ragione al decreto altrui, urtava talmente cogli istinti rigogliosi e coll’irruente fiducia dell’uomo in se stesso, che non è meraviglia se fu segno d’inestinguibile odio, e se ogni lampo di libertà portò un fulmine sul loro capo. La podestà secolare poi armavasi allora per reprimere lo spirito di rivolta, e Casa d’Austria, costituitasi guardiana dell’ordine, spingeasi alle riazioni; onde i novatori nell’avversione a questa confusero i Gesuiti, che ne pareano o incitatori o stromenti. Ma la storia vive d’indipendenza e libertà; se esecra i persecutori forti, peggio ancora i persecutori pusilli; e pronta a lodare le virtù perchè non disposta a dissimulare i vizj, non può contentarsi di beffe e leggerezze nel giudicare quest’associazione, fusa e robusta come l’acciajo, in mezzo alle moltitudini che perdevano ogni altra coesione fuorchè quella de’ governi; questa milizia che mette brividi di paura perfin nel suo sepolcro, e che allora, baldanzosa di gioventù e di sagrifizj, offrivasi ai pontefici per la giornata campale.
Perocchè Roma era convenuta anch’essa sull’opportunità d’un concilio, non più nella speranza che ravvivasse i rami disseccati, ma che con nuovo succhio rinvigorisse il tronco indefettibile. Chi non ricorda le assemblee o legislative o costituenti, volute dai popoli e promesse dai principi nel 1848? Con altrettanta lealtà l’imperatore, il re di Francia, gli ecclesiastici, Lutero aveano chiesto il concilio: altri il tragiversavano col solito sotterfugio del chiedere troppo, pretendendo che il papa vi comparisse non capo ma membro, e che [382] anche i novatori avessero voce deliberativa; lo che equivaleva a dare già per concesso lo scisma. Paolo III, che da senno il voleva, e che all’uopo spedì in Germania Ugo Rangone quantunque contrariato dalla lega Smalcaldica e da mille ostacoli[289], intimò il concilio (1545) a Trento, sul limite dell’Italia e della Germania. Inviando a presederlo come angeli della pace Gianmaria Ciocchi Dal Monte e Marcello Cervini, italiani che divennero papi, e Reginaldo Polo inglese che ne fu ad un punto, dichiarava scopo del concilio l’estirpazione delle eresie, l’emenda dei costumi e della disciplina, e la concordia fra i principi cristiani.
Ma oltre avere i Protestanti ricusato intervenirvi, ogni passo era reso scabroso da puntigli dei re cattolici e dei prelati delle nazioni: e la prima adunanza (13 xbre), con venticinque vescovi, si logorò in dispute sui convenevoli, sul cerimoniale, sulle forme, sul modo di votare, perfin sul titolo del sinodo: perditempi che noi vedemmo rinnovarsi pur jeri, e non da frati e cardinali. Sospese le tornate in pericolo di peste, poi riassunte, quando Maurizio di Sassonia marciò sovra Trento per sorprendere l’imperatore, i padri sgomentati si dissiparono.
Non vi si doveano mettere in dibattimento quistioni parziali come a Costanza, bensì l’essenza stessa della Chiesa; e in tanto bollimento degli spiriti quanto non era pericoloso il raccorlo, difficile il tenerlo ne’ limiti! Nè il divisarne il procedimento appartiene al nostro [383] racconto, bastando toccare quei sommi capi che valsero sull’avvenire.
Dopo settantacinque giorni di baruffe tra la fazione imperiale e la francese, Gianmaria Ciocchi Dal Monte per via di promesse e transazioni ottenne la tiara col nome di Giulio III (1550), e subito dalla lodatissima operosità cascò nell’infingardaggine, e abbandonando gli affari al cardinale Crescenzio, sciupava tempo e denari in una deliziosa vigna fuor di Roma, divenuta proverbiale. Di titoli e beni fece prodigalità ai parenti; diede Camerino in governo perpetuo a Balduino suo fratello, al costui figlio Giambattista il titolo di gonfaloniere della Chiesa, e Novara e Civita di Penna in signoria, e «maggior grandezza in Roma che se fosse stato duca o signore naturale e antiquato in qualsivoglia parte d’Italia» (Segni). Donn’Ersilia, moglie di Giambattista, lussureggiava di tal fasto, che la duchessa di Parma figlia dell’imperatore penava a ottenerne udienza. Ai nipoti per sorelle diè stati e titoli di signori, ed ornolli di cardinalati, di titoli di capitan generale, e li fece simili a veri signori, essi di cui jeri s’ignorava la stirpe. A un pitocchetto raccolto e che lo spassava giocolando con un bertuccione pose tal amore, che il fece adottare da suo fratello, lo colmò di benefizj, e per quanto zotico fosse, e i prelati vi repugnassero, lo ornò della porpora: ma il mal allevato riuscì alla peggio, e finì per le prigioni.
Erano andamenti da togliere pretesti ai Riformati? anzi il costoro apostolato si diffondeva anche in Italia. Ci fu veduto come qui prima che altrove se ne svolgesse il seme, tra per senno di pensatori, tra per arguzia di letterati. La estesa reputazione de’ nostri dotti fece che i novatori forestieri ne bramassero l’adesione, e cercassero qui divulgare le loro scritture, mentre la vivacità degli ingegni nostrali inuzzoliva delle nuove [384] predicazioni. Veramente nella libertà con cui qui si disapprovava la romana curia, svampavano quelle stizze che compresse invigoriscono, e la vicinanza facea che coi traviamenti delle persone non si confondesse la santità delle istituzioni. Gl’Italiani, la cui immaginazione non era inaridita dal raziocinio, mal poteano gradire un culto senza bellezza, senza vita, senz’amore, che riprovava le esteriorità, e sbandiva dal santuario le pompe tanto popolari, e quella liturgia or festante e trionfale, or tenera e melanconica, grave sempre e maestosa; quelle cerimonie derivate dalle idee più sublimi unite ai simboli più graziosi, dai sentimenti più puri manifestati colle forme più splendide e variate, e che nutrivano le arti, sì gran parte della gloria nazionale. Sentivano poi come il papato conservasse all’Italia l’importanza che sotto ogni altro conto smarriva, e vi traesse denaro, persone, affari; tutti i principi e le case magnatizie tenevano parenti nelle prelature e nel sacro collegio, i quali e godevano pingui benefizj, ed esercitavano influenza: molti contavano dei santi fra i loro antenati: i letterati chiamavansi riconoscenti ai papi e ai cardinali, che gli aveano per secretarj o clienti: insomma l’interesse che spingeva i forestieri, distoglieva i nostri dal volere la Riforma; oltrechè li vegliava più dappresso l’autorità ecclesiastica.
Lutero avrebbe avuto efficacia sopra le profonde convinzioni di Dante; non sopra i contemporanei dell’Ariosto che di tutto ride, e ride dei dogmi più che Lutero.
Ma se l’amore della novità non invase nè le plebi nè i principi, e se quelli che si occupano di regolare la propria fede son pochissimi a fronte di coloro che ne usano e ne vivono, erra chi crede la Riforma non abbia qui avuto ed estensione e conseguenze civili e politiche[290]. [385] Alcuni nostri teneansi in corrispondenza coi dotti tedeschi; e i cardinali Bembo e Sadoleto scriveano all’erudito Melantone, il principale apostolo di Lutero. Gli studenti tedeschi che qui venivano a raffinarsi, o i nostri che s’addottoravano nelle Università tedesche, servivano di conduttori alle nuove dottrine. Francesco Calvi da Menaggio (Minicio), librajo a Pavia, andò a cercare dal Froben di Basilea le opere di Lutero, e le propalò in Lombardia[291]: a Venezia si ristamparono la spiegazione del Pater di Lutero anonima, i Luoghi comuni di Melantone col titolo di Principj della teologia d’Ippofilo da Terranegra, poi il catechismo di Calvino, e il commentario di Bucer sui salmi col nome d’Arezio [386] Felino, e le opere di Zuinglio sotto quello di Corisio Pogelio; pseudonimie che eludevano la superiore vigilanza.
Con apostolato diverso, la negazione era stata sparsa dai guerrieri, qui scesi a straziarci; fra i quali il fanatico Giorgio Frundsberg, inventore de’ lanzichenecchi (t. IX, p. 367), portava allato una soga d’oro colla quale vantavasi volere strozzare in Clemente VII l’ultimo dei papi. E poichè i partiti non sottigliano sulla moralità dei mezzi purchè giungano al fine, vi fu chi esultò dello strazio che que’ ribaldi recarono all’Italia e al papa; e un frate Egidio della Porta comasco, il quale con Zuinglio divisava i modi di diffondere la protesta evangelica di qua dall’Alpi, esclamava: — Dio ci vuol salvare; scrivete al Borbone che liberi questi popoli; tolga il denaro alle teste rase e lo faccia distribuire al popolo famabondo; poi ciascuno predichi senza paura la parola del Signore; la forza dell’Anticristo è prossima al fine»[292].
In quella corte di Ferrara, dove s’era veduta ogni bruttura, e dove il duca Alfonso fece dipingere dal Lotti la sua Laura Dianti in figura di Madonna col versetto Fecit mihi magna qui potens est, Renata di Francia figlia di Luigi XII era venuta moglie d’Ercole figlio di esso duca, che le regalò gioje per centomila zecchini. Aveva essa imbevute le dottrine di Calvino, e la troviamo lodata come santissima anima dal Brucioli nella dedica della Bibbia, per gran religione dal Betussi nella giunta alle Donne illustri del Boccaccio, e da Gianfrancesco Virginio bresciano nel dedicarle le sue Lettere, che al Fontanini (rigoroso giudice) parvero seminate di frasi eterodosse, e la Parafrasi sulle epistole di san Paolo. Essa formò della Corte ferrarese un focolajo di pratiche anticattoliche; vi imbandiva grasso [387] ne’ giorni di digiuno; vi ricoverò alcun tempo Calvino e Marot, traduttore francese dei salmi, e quanti per religione fossero spatriati; e istituì una piccola chiesa riformata.
Il marito, sollecitato dal padre Pelletario, per alcun tempo tenne essa ed i suoi chiusi nel castello di Consandolo; ma e quivi e ad Argenta essi diffusero le loro dottrine, sicchè il duca riferiva al re di Francia i traviamenti della moglie, narrando come dovette interporre prelati e ambasciatori perchè lasciasse far la pasqua alle proprie figlie; onde esorta il re a vincere un’ostinazione, la quale non potrà che recare disgustosissimi frutti[293]. In fatto, non venendone a capo, la rimandò in Francia.
Colla Renata vivea Francesco Porto cretese, insegnatore di greco nelle nostre città, poi ricoverato nel Friuli, in fine a Ginevra, dove Teodoro Beza ne compose l’epitafio. Emanuele Tremelli ferrarese, dal giudaismo convertito per cura del poeta Flaminio e del cardinal Polo, ben presto in patria e a Lucca sorbì le opinioni protestanti, e piuttosto che rinunziarvi, passò con Pietro Martire Vermiglio a Strasburgo, poi in Inghilterra; insegnò ebraico a Eidelberga, a Metz, a Sedan ove [388] morì, lasciando varie opere e la versione latina della Bibbia siriaca e quella del Testamento Vecchio sul testo ebraico.
Frà Bernardino Ochino da Siena godeva tal rinomanza d’eccellente predicatore, che Carlo V diceva: — Farebbe piangere i sassi»; e il Bembo: — E’ fa girar tutte le teste; uomini, donne, tutti ne van pazzi; qual eloquenza, quale efficacia!» Dedito a quelle eccessive austerità, che non di rado inducono soverchia fiducia in se stesso, dai libri di Lutero imparò a cercare nella sacra scrittura ciò che alla sua passione piacesse, e fin dal 1542 Gaetano Tiene gli fece interdire la predicazione in Roma[294]. Presto gli fu ripermessa, ma forse perchè il papa non gli concedette la porpora cominciò a insultarlo, poi temendolo fuggì a Ginevra, e pubblicò molte opere, fra cui Cento apologhi contro gli abusi della sinagoga papale, de’ suoi preti, frati, ecc.
Filosofo e dialettico non vulgare, insegnava egli che non è possibile giungere al vero colla ragione, ma è necessaria l’autorità divina; e poichè la sacra scrittura non basta se un lume infallibile non ajuti a interpretarla, e avendo ripudiata l’autorità della Chiesa, fu costretto rifuggire nel misticismo e nell’immediata ispirazione[295]. Sarebbesi rassegnato a credere a Calvino, egli che non avea consentito a credere alla Chiesa universale? Fu dunque maledetto e perseguitato a Ginevra; da Zurigo pure sbandito di settantasei anni con quattro figliuoli nel cuor dell’inverno; nè raccolto a Basilea ed a Mülhausen, s’ascose in Moravia, dove perduto due figli e una ragazza dalla peste, morì nel 1564.
[389]
Fu de’ più bei trionfi della Chiesa nel medioevo l’aver sostenuto l’indissolubilità del matrimonio a fronte delle regie lubricità. Ma già Lutero, per favorire il landgravio d’Assia, aveva approvato la bigamia: ora l’Ochino nel XX de’ suoi Trenta dialoghi sostenne che un marito il quale abbia moglie sterile, malescia, insopportabile, deve prima implorar da Dio la continenza; e se tal dono, chiesto con fede, non possa ottenere, può senza peccato seguire l’istinto, che conoscerà certamente provenir da Dio, e prendere una seconda moglie senza sciogliersi dalla prima[296].
In quel centro di studj e di gioventù ch’era Bologna, seminò le novità nel senso zuingliano Giovanni Mollio di Montalcino minorita; e dalla corrispondenza de’ corifei forestieri appare che in molti germogliarono, anzi un gentiluomo esibivasi pronto a levare seimila soldati se si recasse guerra al papa[297]. Al Mollio teneva bordone Pietro Martire Vermiglio fiorentino, predicatore dottissimo, il quale potè stabilire una chiesa a Napoli, una a Lucca, una a Pisa[298], finchè fuggì a Strasburgo, e vi ebbe moglie e la cattedra lasciate dal famoso Capitone, e vien contato fra i loro ministri meglio versati nelle sacre scritture. Seco erano vissuti Paolo Lazise veronese, che a Strasburgo professò greco ed ebraico; Alessandro Citolini da Céneda, autore d’un’Arte di ricordare, nella quale riduce sotto certe categorie tutte [390] le cose escogitabili[299]; Celso Martinengo bresciano; Girolamo Zanchi bergamasco, professore di teologia a Strasburgo, dove non essendovi chiesa italiana, i nostri si radunavano nella casa di lui.
Di Firenze fuggirono Gianleone Nardi, che molto scrisse a difesa delle eresie, e Michelangelo frate predicatore, che apostolò a Soglio ne’ Grigioni, e stampò un’Apologia, nella quale si tratta della vera e falsa Chiesa, dell’essere e qualità della messa, della vera presenza di Cristo nel sacramento della Cena, del papato e primato di san Pietro, de’ concilj e autorità loro ecc. Fuori professarono pure e Alfonso Corrado mantovano, autore d’un commento sull’Apocalisse, violentissimo contro i pontefici, e Guglielmo Grattarola medico bergamasco, e parecchi Napoletani[300]. Girolamo Massari vicentino, a Strasburgo insegnò medicina, e descrisse un processo dell’Inquisizione[301]. Scipione Gentile da San Ginesio nella marca d’Ancona, autore di molte opere legali e di annotazioni sopra il Tasso, morì professore di leggi in Franconia il 1616.
Celio Secondo Curione valente grammatico da Chieri, studiando giurisprudenza a Torino, prese contezza delle innovazioni, e invogliatosene fuggì per la Germania con Giovanni Cornelio e Francesco Guarini. Scoperto in val d’Aosta, dopo due mesi di fortezza fu collocato in un monastero ad esservi istruito nella fede: ma egli a reliquie di santi sostituì una Bibbia, poi sottrattosi, girò [391] molte città d’Italia; a Milano ebbe moglie e cattedra; sinchè udito che di ventitre fratelli e sorelle suoi una sola era rimasta, ripatriò. Quivi udendo un domenicano in pulpito confutar Lutero, gli gridò, — Tu menti!» e cacciò a mano le opere di questo. Scontò l’ardire in carcere a Torino; ma, benchè incatenato, riuscì a sottrarsene tanto miracolosamente, che fu creduto opera di magia[302]. Per la qual evasione «non feci voto (dic’egli) di visitare Compostella o Gerusalemme, che sono idolatrie; nè di castità, perchè Dio solo può darla, ma mi consacrai tutto a Gesù Cristo, unico liberator nostro». Presto ebbe una cattedra a Pavia, e sebbene trapelasse come sentiva, mai per tre anni non si potè arrestarlo, perchè gli studenti vegliavano a sua tutela. Insistendo però il papa acciocchè il senato milanese svellesse quella gramigna, egli si raccolse a Venezia, indi a Ferrara, ove la duchessa gli diè lettere per le quali conseguì a Lucca una cattedra. Ma domandandolo caldamente il papa, la republichetta il consigliò di mutar aria; sicchè entrato negli Svizzeri, fu maestro a Losanna, poi a Basilea, donde più non si scostò, per larghe offerte che ricevesse. Una volta ardì tornare a Lucca per prendervi la moglie e i figli; il bargello si presentò per coglierlo, ma egli con un coltello da tavola alla mano si salvò. Molte opere di libertà protestante lasciò, fra cui è una rarità il suo Pasquino in estasi (Pasquilli extatici de rebus partim superis, partim inter homines in christiana religione passim hodie controversis cum Marphorio colloquium). Anche suo figlio Celio Orazio, [392] professore di medicina a Pisa, latinizzò alcuni sermoni dell’Ochino; e in quel senso pendettero pure Agostino e l’Angelico, fratelli di quello.
Questa connivenza de’ Milanesi indica che fra loro non mancassero fautori ai Riformati. Milanese era frà Giulio da San Terenzio, che imprigionato a Venezia, potè fuggire oltremonti, e stampò opere ereticali col nome di Girolamo Savonese[303]. Di un processo contro sospetti luterani nel 1535 fa memoria il pizzicagnolo Burigozzo, narrando che gl’imputati, fra cui un prete, furono in duomo riconciliati dall’inquisitore e dall’arcivescovo dopo lettone la condanna, obbligandoli per alcune domeniche a stare alla porta maggiore vestiti di sacco, e con una disciplina battersi dal principio della messa fin all’elevazione[304]. Nel 1556 Paolo IV lagnavasi col [393] vescovo di Modena si fossero a Milano scoperte conventicole di persone ragguardevoli d’ambo i sessi, professanti gli errori di frà Battista di Crema[305]. Da Milano era pur fuggito tra gli Svizzeri e i Grigioni quell’Ortensio Landi (pag. 253), le cui opere furono dal concilio di Trento messe fra le condannate in primo grado.
Il cardinale Sadoleto, persuaso che colla mansuetudine si potrebbero ancora ricondurre gli erranti, pure dolevasi che il papa non s’accorgesse della defezione degli spiriti e dell’indisposizione loro contro l’autorità ecclesiastica[306]; e il cardinale Caraffa dichiarava a Paolo III che l’eresia luterana aveva infetto l’Italia, e sedotto non solo persone di Stato, ma molti del clero[307]. Più ancora esprimono le baldanzose speranze d’alcuni apostati.
Troppo vicina di Ferrara era Modena «città piacevolissima d’aere, d’acqua e di belle donne, ed ornata di bellissima gioventù, datasi tutta agli studj delle muse»[308]. Della famiglia de’ Grillenzoni, Giovanni era stato scolaro devotissimo del Pomponazzi, del quale raccolse le lezioni: neppur omettendo gli scherzi di che talvolta le condiva. Tornato in patria, imparò il greco da Marcantonio di Cretone, pel quale fece istituirvi una cattedra; e in casa teneva una specie d’accademia, ove [394] ogni giorno davasi una lezione di latino, una di greco, s’interpretavano autori, e massime Plinio, potendo ognuno recar in mezzo il proprio parere. Vi s’aggiungeano banchetti letterarj, dati per turno da ciascun accademico, con frugalità delicata; e ogni volta si proponeva qualche esercizio d’ingegno, qualche epigramma o sonetto o madrigale; vivande non doveansi domandare se non nella lingua prefissa dal capo del convito, non ripeter le formole già usate da un altro, citare tutti i proverbj relativi a un animale o a una pianta, o a un tal santo o a una tal famiglia, ovvero recitare una novella.
Essendosi nel 1537 divulgato non so qual libro delle nuove opinioni, quell’accademia tolse a difenderlo, onde venne in sospetto; poi nel 1540 capitatovi l’erudito siciliano Paolo Ricci, che faceasi chiamare Lisia Fileno, banditore di dogmi riprovati, con baldanza se ne discuteva nelle piazze, nelle botteghe, da dotti e indotti, e fin dalle donne, allegando testi e dottori che mai non aveano veduti. Preso e menato a Ferrara, costui si ritrattò; ma gli effetti durarono, ed apparivano specialmente nel cuculiare che faceasi i predicatori, e sinistrarne i detti, tanto che più d’uno fu costretto scendere dal pergamo, e il cardinal Morone colà vescovo scriveva: — L’altro jeri un ministro dell’ordine ingenuamente mi disse che li suoi predicatori non voleano più venire in questa città, per la persecuzione che gli fanno questi dell’accademia, essendo per tutto divulgato questa città esser luterana»[309]. Il cardinale Sadoleto a nome del papa ne mosse querele con Lodovico Castelvetro, che n’era il migliore ornamento, e fu mandato un formulario di fede che i sospetti sottoscrivessero, come fecero alcuni, e fra gli altri il vescovo Egidio Foscarari, [395] i cardinali Sadoleto, Cortese, Morone ed esso Castelvetro[310], e poco poi avendovi due Francescani predicato errori, furono puniti.
Il Castelvetro avea tradotto i Luoghi comuni di Melantone, che impressi in Venezia, furono bruciati dal carnefice. Essendosi poi inviluppato nel turpe arruffio che dicemmo con Annibal Caro (pag. 162), fu imputato d’eresia, e affidatane l’indagine a Pellegrino Erri, prelato modenese che avea tradotto i salmi dall’ebraico, e che procedette con zelo rigoroso. Il Castelvetro fu citato a Roma con Filippo Valentino, e suo fratello Paolo prevosto della cattedrale, e lo stampatore Antonio Gadaldino: il prevosto fece pubblica ritrattazione; il Gadaldino, che avea divulgato libri ereticali, fu sostenuto; Filippo fuggì, e con lui il Castelvetro, che si ritirò a Chiavenna. Condannato in contumacia con Gianmaria suo fratello, chiedeva perdono dal concilio di Trento, ma il papa pretendeva si presentasse al Sant’Ufficio di Roma, che aveva iniziata la procedura; onde vagò coi soliti guaj degli esuli, finchè a Chiavenna ebbe dai Salis onorata sepoltura, con un’iscrizione ove ancora si legge: Dum patriam ob improborum hominum sævitiam fugit, post decennalem peregrinationem tandem hic, in libero solo liber moriens, libere quiescit.
Nel 1825, nel basso Modenese, in una casa già dei Castelvetro, si trovarono murati da sessanta libri ereticali di prime edizioni, e furono acquistati dalla biblioteca [396] Estense: i molti manoscritti che gli accompagnavano, lasciaronsi sciaguratamente disperdere.
Chiavenna, come la Valtellina, era allora suddita dei Grigioni, i quali avendo adottato le dottrine zuingliane, nei loro paesi davano pace a chi fuorusciva per religione. La Pregalia e l’Engadina, valli retiche confinanti coll’Italia, aveano avuto predicazione e chiese da frati apostati nostri.
A Chiavenna pure visse e morì Agostino Mainardi agostiniano, che scrisse l’Anatomia della messa e la soddisfazione di Cristo. Francesco Negri da Bassano agostiniano, legatosi con Zuinglio, lo accompagna alla conferenza di Marburgo, alla dieta d’Augusta caldeggia la libertà di coscienza, si asside a Chiavenna come maestro e pastore, finisce cogli Antitrinitarj: nella sua Tragedia del Libero Arbitrio, la Grazia giustificante tronca la testa al re Libero Arbitrio, e il papa è riconosciuto per Anticristo[311]. A Chiavenna stessa fe lunga dimora [397] come pastore Girolamo Zanchi, canonico di Alzano bergamasco, che convertito da Pietro Martire, a Ginevra stampò sei volumi d’opere teologiche, onde salì in tal conto, che Sturmio diceva basterebbe egli solo a tener [398] testa a tutti i padri tridentini. Dolce e conciliante, procurava ravvicinare i dissenzienti, ma le sue concessioni spiacevano ai Luterani. Vedovo d’una figlia di Celio Orione, sposò Livia Lumaca, ricca chiavennesca, e n’ebbe molti figliuoli: professò ad Eidelberga, finchè il successore dell’elettore Federico III suo patrono escluse quei che deviavano dal luteranismo, onde lo Zanchi andò a finire nel Palatinato.
In Trento episcopava Bernardo di Clees nel 1535 quando le idee luterane vi presero piede, non tanto per convinzione, quanto per odio de’ valligiani contro i signori. Il vescovo tentò calmare i capi, e non riuscendo [399] si ritirò a Riva, mentre gli abitanti della val Sugana e della val di Non tentavano prender Trento per forza; ma prevalsero le milizie del principe vescovo, il quale tornato ne fece appiccare e decapitar molti e mutilare e tenere in carcere. Di là era Jacopo Acconzio, giureconsulto rifuggito a Zurigo, poi a Strasburgo, e che alla divina Elisabetta d’Inghilterra, da cui ebbe ripetuti segni di stima, dedicò i famosi suoi Stratagemmi di Satana in fatto di religione (Basilea 1565), tradotti in molte lingue, dove tende a ridurre a pochissimi i dogmi essenziali del cristianesimo, affine d’indurre a vicendevole tolleranza le sêtte. Ma la tolleranza era ignota fin di nome, e tutte le parti lo disapprovavano, quasi menasse all’indifferenza[312].
Compagno eragli stato Francesco Betti romano, segretario del marchese di Pescara, che fuggito a Zurigo poi a Strasburgo, pubblicò una Lettera all’illustrissimo marchese di Pescara, nella quale dà conto della cagione che lo mosse a partirsi dal suo servigio e uscire d’Italia; specie di disfida ai Cattolici. Vi rispose il Muzio colla solita beffarda iracondia (pag. 362); molti si accinsero di richiamarlo all’ovile; ma egli continuò in varie città, e nel 1587, già vecchissimo, stampò a Basilea la traduzione di Galeno.
Pier Paolo Vergerio di Capodistria, nominato vescovo di Madrusch ancora laico, il giorno stesso ricevette tutti gli ordini e l’unzione episcopale da suo fratello Giambattista vescovo di Pola. Spedito nunzio papale in Germania, si lusingò di convertire Lutero, ma parve invece se ne lasciasse pervertire. Reduce, e non compensato [400] quanto sperava, ritirossi vescovo in patria, dove cominciò a introdurre novità, dalle chiese tor via certe immagini e le tavolette de’ miracoli, negare il patronato speciale de’ santi su certe malattie, ed altri partiti che seppero d’empietà ai timorati, e singolarmente al Muzio e a monsignor Della Casa suoi violenti detrattori. Il quale monsignore si mostrò in fatto zelantissimo, non tanto per la santa Sede, diceva egli stesso, quanto per servire all’illustrissimo sangue della casa Farnese; e al famoso Pierluigi, da Venezia ove stava nunzio pontificio nel 1544, scriveva[313]: — Avendo io fatto mettere prigione un Francesco Strozzi, eretico marcio, il quale si tiene traducesse in vulgare il Pasquillo in estasi, libro di pessima condizione e pestifero, essendosegli trovato addosso, quando fu preso, un epitafio mordacissimo e crudelissimo fatto da lui contro la persona di nostro Signore, ed avendo sua santità a Roma con l’oratore di questi signori fatto ogni istanza necessaria, ed io qui non mancato di tutte le diligenze possibili per poter mandare il detto Francesco a Roma, il quale è prete ed è stato frate dodici anni, non si è potuto avere, e finalmente il serenissimo mi ha dato precisa negativa, fondandosi sopra la conservazione della giurisdizione, e mostrando quanto ciascuno Stato deva sforzarsi di mantenerla».
Il Casa instruì il processo del Vergerio, e mentre il papa insisteva per averlo sott’occhio, egli esortava il cardinale Farnese ad impedirlo, perchè «in questo processo è una parte che contiene maldicenza, e spezialmente un particolare di quella calunnia che fu data al duca di Castro sopra il vescovo di Fano; per la quale particolarità, quand’io mandai a vostra signoria reverenda [401] il detto processo, ne levai la parte della maldicenza, acciocchè nostro Signore non avesse a sentire questa calunnia, se forse non l’ha sentita fin qui»[314].
A questo modo s’ingannano i grandi! Intanto il Vergerio continuava con tale impudenza, che dal dotto Egnazio, presso cui ospitava, fu mandato via di casa: mostrava credere che suo fratello vescovo fosse stato avvelenato perchè apostato, poi d’essere in pericolo egli medesimo, tanto più dacchè venne inquisitore il suo compatrioto e nemico Annibale Grisoni. Presentatosi al concilio di Trento, per la cui convocazione egli si era tanto adoperato, non ne ottenne udienza, onde ricoverò in Valtellina, e il dispetto o il bisogno lo trasformò in caloroso novatore. A Poschiavo stampò il Libro ai principi d’Italia, ricco di particolarità storiche; trattò delle superstizioni d’Italia e dell’ignoranza de’ sacerdoti; girò la Germania, «invece di tesori mondani» portando molti scritti de’ novatori[315], e [402] piacendo «per una certa sua eloquenza popolare e audacemente maledica» (Pallavicino); lanciava dardi infocati contro di Paolo III, dei prelati e del concilio, e principalmente di monsignor Della Casa, il quale poi vecchio e scaduto di speranze, ritirossi a Narvesa componendovi sonetti pieni di disinganno, e diceva di sè: Puer peccavi, accusant senem.
Il Vergerio alla Riforma acquistò credito e proseliti coll’autorità di vescovo e lo zelo di apostolo; favorì assai tra i Grigioni gli arrolamenti per Francesco I; ma perduta l’alta sua posizione nel clero nostro, neppure acquistò la fiducia de’ Protestanti, perchè, libero pensatore, non aderiva a Lutero più che a Zuinglio, sicchè dovette andar a morire a Tubinga (1565), dove qualche zelante disperse le sue ceneri.
Con lui stette in corrispondenza il militare Orazio Brunetti di Porcìa, le cui lettere (Venezia 1548) abbondano in senso protestante; in molti opuscoli italiani, nè pregevoli per scienza nè belli di forma, non mostra lealtà o convinzione, combattendo il cattolicismo collo svisarlo.
Simone Simonio lucchese, perchè dal niente non si fa niente, sosteneva che il Verbo era fatto, e vantava d’aver sillogismi che imbarazzerebbero san Paolo, e si dicea credesse nel cielo padre, nella terra madre, e nella forma, cioè nel senso e intelligenza del cielo. Buttatosi or con Calvino, or con Lutero, or cogli Unitarj, imprigionato a Ginevra, esulante per Germania e [403] Polonia finchè visse, è dopo Melantone contato fra i restauratori della scienza dei Protestanti[316], mentre altri lo svillaneggiavano; nemici cui allude nel libro intitolato Scope con le quali si scopano gli escrementi delle calunnie, delle bugie, degli errori.
Alessandro Citolini di Serravalle nel Trevisano rifuggì a Strasburgo, poi in Inghilterra, ed è grandemente lodato da Sturm; ma la sua Tipocosmia, imitazione del Camillo, è una confusione inestricabile.
E molti potremmo indicare, che dalle ricerche scientifiche erano tratti nell’errore. Paolo Mattia Doria napoletano, autore della Vita civile, avea preparato l’Idea d’una perfetta repubblica, ma ne fu sospesa la stampa, e come lorda di immoralità e panteismo fu arsa. Il Panizzi, nell’edizione inglese dell’Orlando innamorato, ripubblicò un opuscolo del vescovo Vergerio (Basilea 1554), dov’è asserito che il Berni al burlesco poema intarsiasse dottrine anticattoliche, espunte dopo morto l’autore, e allega diciotto stanze, prologo al XX canto, donde l’editore conchiude che tali opinioni fossero comuni nella classe educata d’Italia, quanto oggi le liberali. Prova incerta, ma non nuova; chè già altri vollero noverare tra i Riformatori il Manzolli pel Zodiacus vitæ, astiosissimo contro il clero, l’Alamanni, il Trissino, altri ed altri, mal comparando chi riprova gli abusi con chi proclama la ragione individuale per unica interprete del codice sacro[317]. Fra essi è Vittoria Colonna, le cui poesie spirituali rivelano una profonda religione, [404] qual doveva penetrare le anime virtuose, sofferenti dei mali della patria, che attribuivansi alla depravazione de’ costumi, e alla negligenza e peggio de’ prelati. Massime chi era contemplativo più che indagatore doveva restar commosso dai dubbj allora gettati nell’intelligenza della fede, onde furono confusi coi Riformati persone di gran pietà, che colla loro stessa austerità, col congregarsi a ragionar di Dio, coll’occuparsi delle indagini teologiche protestavano contro l’indifferenza dei più. E molti infatto della predicazione luterana non vedeano che il lato morale; una pietà forse inconsiderata, ma invaghita d’una purezza che deploravano perduta nella Chiesa; un compiangere le persecuzioni fatte all’Ochino o a Pietro Martire, mentre si tolleravano l’Aretino e il Franco; una profonda fiducia nei meriti di Gesù Cristo, senza accettare l’autorità e i sacramenti da lui istituiti.
Così di Marcantonio Flaminio, elegante latinista che ridusse i salmi in odi, messe all’Indice, si dà per segno di apostasia l’ardor suo per Cristo, le lettere piene di pietà, e il raccontare egli stesso come, essendo malato, per le preghiere del Caraffa risanò[318]. Lo storico [405] Pallavicino, sebbene appunti il Flaminio di «covare nella mente tali dottrine, per non dover combattere le quali ricusò d’andare secretario del concilio di Trento», soggiunge che, in fine degli anni suoi, la salutevole conversazione del cardinal Polo il facesse ravvedere, e scrivere e morire cattolicamente.
La libertà del Trissino (t. IX, p. 316) prova quanto fossero tollerate le declamazioni contro di abusi, che si confessavano anche quando non si pensava a correggerli. I nostri godeano udirle ripetere dai Protestanti, e di poter esclamare, — Anch’io l’avea detto e prima di loro»: chi vagheggiasse fama di franco pensatore assentiva alla disapprovazione delle cose antiche, a quegli epigrammi, o raziocinj poco migliori d’epigrammi, che vengono facilissimi a chi è mal informato della soggetta materia.
Come oggi il liberalismo politico professa di volere la libertà, nel mentre i conservatori pretendono combatterlo in nome anch’essi della libertà, così era allora del religioso: sparlavasi della Corte romana, senza per questo volerla disfare; chi gridava ad una riforma del clero, chi al depuramento del culto; alcuni [406] o a voce o per iscritto emettevano errori di cui aveva colpa l’intelletto non la volontà, più scusabili quando i dogmi non erano stati nè così ben definiti, nè così popolarmente espressi come dopo il concilio di Trento. E molti potevano lealmente credere che la critica non farebbe che appurar la Chiesa e consolidare il dogma; non essendosi ancora veduto succedersi dottrine tutte cangianti, tutte discutibili in modo, che gli spiriti non si inebbrierebbero più che del dubbio. E in generale si sapeva, o almeno si sentiva che riformare non è distruggere; che le riforme opportune e durevoli denno venir dall’amore non dalla collera, dall’autorità che dirige, non dalla violenza che scompiglia.
Ma già appariva la moltiforme natura della Riforma; in Germania assodatrice del principato, in Francia faziosa, in Inghilterra dispotica e persecutrice, in Iscozia fanaticamente esagerata, regia nella Scandinavia, repubblicana in Isvizzera, deleterica in Polonia. A noi proveniva o da Germania o da Ginevra: i pensatori propendevano piuttosto a Zuinglio che a Lutero, perchè quegli avea scritto in latino, e più serio e più logico. Ma presto anche di qua dell’Alpi si comunicarono i litigi che di là si dibattevano intorno alla presenza reale; e Lutero, interrogatone dai novatori del Veneto, anatemizzava Zuinglio ed Ecolampadio «dottori contagiosi, falsi profeti».
Eppure i dissensi non doveano qui limitarsi; e i nostri, non solo contribuirono a distendere altrove la Riforma, ma ne dedussero più rigorose conseguenze. Lutero aveva mantenuto molti dogmi, e la gerarchia, e il canone dell’autorità, rendendola però servile al potere temporale che solo, rinnegata la scomunica, potea mantenere colla spada quell’unità di fede che appunto erasi spezzata; onde non fece che diroccare l’ecclesiastica disciplina, a segno che più volte si sperò una [407] riconciliazione. Calvino dall’inerte uffizialità del luteranismo avventossi alla critica, negando addirittura la Chiesa nel senso mistico, e facendola sparire in faccia all’individuo, sicchè restava interposto un abisso: eppure nelle vertigini della ragione egli non si spinse fino all’estremo. Furono Italiani che senza ritegno compirono la doppia dissoluzione della disciplina e della gerarchia, unendovi quella delle fondamentali verità; e in nome dell’irrefrenata autorità della ragione intaccarono l’idea stessa, l’ontologia cristiana. Non gente di stola e di tonaca, ma giureconsulti e medici, ammessa unicamente la Bibbia, e in questa non trovando espresso il dogma della Trinità, lo impugnarono, come gli antichi Ariani, negando la divinità di Cristo, la consustanzialità del Verbo, ed altre che diceano introduzioni de’ sofisti greci.
Forse ne dubitavano l’Ochino ed altri Riformati, e probabilmente l’Accademia di Vicenza; ma risoluti antitrinitarj si dichiararono i figli del medico Matteo Gentile, che per seguire la Riforma era spatriato. Alberico professò giurisprudenza a Oxford sinchè morì del 1611. Scipione insegnò ad Eidelberga e altrove, latinizzò i due primi canti della Gerusalemme liberata appena usciti. Giovanni Valentino di Cosenza professò a Ginevra, in Francia, in Polonia; esigliato dalla Svizzera, perchè ruppe il bando, fu decapitato a Berna. Gianpaolo Alciato milanese, che morì a Danzica, da Austerlitz scrisse due lettere (1564-65) a Gregorio Paoli, in sostegno della dottrina unitaria, per le quali dal Beza era detto «uom delirante e vertiginoso», da Calvino «ingegno non solo stolido e pazzo, ma affatto frenetico sin alla rabbia»[319]. Aggiungi l’abate Leonardo, Nicolò Paruta, Giulio da Treviso, Francesco da Rovigo, Giacomo da Chiari, Francesco Negri, Dario Socino.
[408]
Matteo Gribaldi detto Moffa, legista chierese, che professava a Padova collo stipendio fin di mille fiorini, e vi acquistò tal fama che la sala non bastava agli ascoltatori, ne fuggì perchè sospettato d’eresia in grazia di un libro stampato a Basilea nel 1550, ove descriveva la morte di Francesco Spiera, accompagnata, dicevano i Protestanti, da orribile disperazione per avere disertato dalle loro opinioni. Calvino temendolo infetto dell’eresia unitaria, per la quale egli allora faceva processare Serveto, nol volle ricevere. Bruciato poi questo, l’invitò a una conferenza, ed esso vi si condusse; e perchè l’intollerante eresiarca negò stendergli la mano, e voleva costringerlo a una professione di fede, egli credette più sicuro passare a Tubinga, indi a Berna; ma quivi pure perseguito come antitrinitario da Calvino, benchè si ritrattasse, dovè partirne, nè sembra vero che prima di morire (1564) tornasse cattolico[320].
Suo discepolo era Giulio Pacio cavaliere vicentino, fuggito ad altri compatrioti in Ginevra, v’ebbe una cattedra di legge; ed era disputato dalle Università di Francia e di Germania per opere di diritto e di filosofia, ora affatto dimenticate. A Montpellier ebbe scolaro il famoso Peiresc, il quale faticò per tornarlo cattolico, ottenendogli qualche cattedra ben provveduta, e dopo molti anni abjurò in fatto; a Padova insegnò diritto civile, poi finì a Valenza.
Lelio Socino (-1562), discendente da illustri giureconsulti, da Siena passato in Isvizzera e in Germania, si amicò i principali Riformati e Melantone; disgustato dell’intolleranza di Calvino[321], andò in Polonia, professando apertamente le credenze antitrinitarie, alle quali convertì [409] Francesco Lismanin di Corfù, priore de’ Francescani e confessore della regina Bona Sforza. Accolto a gara dai signori polacchi e dal re Sigismondo, morì a Zurigo (-1604). Fausto Socino, nipote e allievo di lui, bello scrittore, facile parlatore, gentile di modi, occupato dodici anni presso la corte di Firenze, quando i suoi parenti furono perseguitati si mutò a Basilea, studiando teologia; e pubblicò opere anonime. Per una disputa con Francesco Pucci, avendo dovuto partirsene, fu chiamato in Transilvania e Polonia, ed ereditati gli scritti dello zio, ne trasse fuori un nuovo simbolo che differiva in punti essenziali dagli Unitarj polacchi. Secondo lui, bene aveano meritato Lutero e Calvino, ma non abbastanza, giacchè era mestieri sbrattar la fede da ogni dogma che trascenda la ragione. La Bibbia è d’origine divina, e voglionsi prendere in senso letterale i passi che si riferiscono a Cristo; il quale a Dio, unico d’essenza come di persone, è inferiore soltanto nella maestà e potenza, ch’esso acquistò colla morte, coll’obbedienza e colla risurrezione. L’uomo fu mortale prima della caduta; altrimenti Cristo abolendo il peccato, l’avrebbe sottratto alla morte; nè si trasmette colpa originale. L’uomo è libero nel proprio arbitrio; l’onniscienza divina non abbraccia le azioni umane; e la dottrina del predestino sovverte ogni fede. Alla giustificazione sono necessarie le opere buone: Cristo non soddisfece pei peccati degli uomini, poichè Dio gli avea perdonati anche prima di lui: il battesimo d’acqua è meramente atto allusivo all’iniziazione.
Socino fu dunque il vero grande eresiarca, poichè non accettò limiti nel proclamare i diritti della ragione: se Lutero e gli altri avevano secolarizzato la religione, egli secolarizzò Dio, e togliendo il soprasensibile, fu il padre del razionalismo, che è l’eresia dei tempi nostri.
[410]
Gravi contraddizioni gli suscitarono queste dottrine, e perseguitato e povero dovette vivere della generosità de’ suoi adepti; i quali crebbero tanto, che le differentissime sêtte di Unitarj si ridussero a quest’una, detta de’ Sociniani. Ma i suoi avversarj eccitarono contro di esso il popolo di Varsavia, che lo strascinò per le vie; a gran fatica salvato, ritirossi in un oscuro villaggio, e alla sua morte gli fu posto quest’epitafio:
Tota licet Babylon destruxit tecta Lutherus,
Calvinus muros, sed fundamenta Socinus[322].
Giorgio Biandrata saluzzese (-1585), dottore nell’Università di Montpellier poi di Pavia, scrisse intorno all’ostetricia e alle malattie muliebri il meglio che fin allora si fosse fatto, e senza conoscere nè il commento del Berengario nè le opere del Pareo. Chiesto a curare Giovanni Zapoly vaivoda della Transilvania, lo portò al grado di prendere moglie Isabella, figlia di Bona Sforza regina di Polonia, alla quale e al bambino, nato poco prima della morte del padre, prestò utilissimi servigi. Non è da annoverare fra i perseguitati di Vicenza[323], perocchè nel 1552 lo troviamo reduce in quiete a Mestre; di là pare fuggisse a Ginevra, dove udì Calvino, [411] ma datosi agli Antitrinitarj, fu dal Vermiglio chiamato a Zurigo, poi capo d’una chiesa istituita da Olesnieski signor di Pinczowia; e quando Sigismondo Augusto di Polonia aperse questo regno agli eretici, Giorgio si trasferì a Cracovia, assistette a due concilj, collaborò alla traduzione polacca della Bibbia sotto la protezione di Nicola Radzivil, e sostenne calorose dispute[324], tenuto come colonna dagli Antitrinitarj, e da quel re fatto archiatro e consigliere intimo. Pure non si staccava affatto dai Cattolici, tornò talvolta alla Corte polacca, che l’adoprò in importanti nunziature: onde Fausto Socino lo mise in sospetto al vaivoda, poi inveì contro di esso, e sparse fosse ucciso dal nipote Bernardino.
In Polonia predicò pure Francesco Stancari mantovano (-1574), che insegnando ebraico in un’accademia eretta a Spilimbergo da Bernardino Partenio, manifestò idee eterodosse, onde dovette fuggire, e da Basilea diresse ai magistrati veneti un trattato della Riformagione. Il concilio di Ginevra preseduto da Calvino lo scomunicò, perchè professava che Gesù Cristo fu mediatore presso l’eterno Padre come uomo non come Dio; e dappertutto venne contrariato per dottrine esorbitanti. A Cracovia seppe dissimularle; ma quando il vescovo insospettito il fece arrestare, i signori ne ottennero la liberazione; ond’egli incoraggiato propose si abbattessero le immagini e tutto l’antico culto, e diede un codice in cinquanta regole per le nuove chiese. Nell’opera contro i ministri di Ginevra e di Zurigo (Cracovia 1562) scrive che «il solo Pietro Lombardo val meglio che cento Luteri, ducento Melantoni, trecento Bullinger, quattrocento Pietro Martiri e cinquecento Calvini; dei quali tutti, se si pestassero in un mortajo non si strizzerebbe un’oncia di vera teologia».
Francesco Pucci fiorentino, stando a Lione per commercio [412] e frequentando i letterati contrasse le opinioni protestanti, e lasciati i traffici, si pose alla teologia in Oxford, dove fu dottorato il 1574. Nel trattato De fide in Deum quæ et qualis, combattè i Calvinisti che prevaleano su quell’Università; onde perseguitato, ricoverò a Basilea, e legato d’amicizia e di credenze con Fausto Socino, pubblicò una tesi che tutto il genere umano fin dall’utero materno è efficacemente partecipe dei benefizj di Cristo e della beata immortalità. Per essa dovette andarsene anche da Basilea; nè maggior tolleranza trovò a Londra, ove anzi fu messo prigione; nè in Olanda, ove con molti disputò. A Cracovia due alchimisti inglesi lo persuasero che poteano, mediante il commercio con certi spiriti, scoprir cose ignote al resto degli uomini; ed egli vi credette, e cercò persuaderne altri. Disingannatone, si ravvide anche de’ suoi errori, in man del vescovo di Piacenza nunzio a Praga si ritrattò, e ordinato prete, servì come secretario al cardinale Pompeo d’Aragona[325].
Da qui siete chiari come la Riforma straziasse se stessa; e qualvolta il senno individuale sottentri al comune, è egli possibile trovar un punto d’accordo, cui si pieghi l’orgoglio della libera interpretazione? Intolleranti come quelli da cui s’erano staccati, e senza avere come questi l’appoggio dell’autorità divina, ognuno presumeva con eguali titoli essere al possesso della verità, sicchè condannava il dissenziente; i sinodi scomunicavano l’un l’altro; l’un predicante cacciava l’altro; il Bullinger, pastore supremo a Zurigo, querelevasi altamente dei tanti Italiani rifuggiti in quella città; Comander li chiamava accattabrighe, insofferenti d’istruzione altrui, della propria opinione tenacissimi[326].
[413]
Risentiva dunque tutta la società le scosse della Riforma, la quale era giunta alle estreme sue conseguenze, cioè fino a rinnegare Cristo, e surrogare al deismo epicureo il deismo razionale; onde i Cattolici aveano bene di che sgomentarsi, e voler riparare con una riforma cattolica. Di questa fu zelantissimo Paolo IV, succeduto (1555) al brevissimo papato del sant’uomo Marcello II. Avea istituito i Teatini, detti così dal vescovado cui egli rinunziò per entrarvi; e avendo a Trento costantemente propugnato la parte più rigorosa, nè mai usato condiscendenza a verun cardinale, si meravigliò al vedersi eletto. Se appuntammo il suo sparnazzarsi in una politica secolaresca, lodiamolo d’aver piantato la politica pratica fondata sui diplomi, e che perciò fu poi detta diplomatica: poichè il cardinale Vitellozzo Vitelli avendone raccolto un gran numero, principalmente concernenti la famiglia Caraffa, chiarì di quant’uso potessero essere, incoraggiò le grandi famiglie a fare altrettanto, e il papa secondò le ricerche. Questo gloriavasi di non aver trapassato un giorno senza fare un ordine per emendazione della Chiesa; onde ben gli si appropriò una medaglia, portante Cristo che caccia dal tempio i profanatori.
La dominazione spirituale ben s’impianta sopra il volontario consenso degli intelletti; e quando ricorre deliberatamente alla forza materiale, palesa un indebolimento già sentito. Nessuno negherà nè che la Chiesa abbia diritto di eliminare e punire chi la contamina, nè che nell’applicazione siasi ecceduto: ma la storia contemporanea non ci spiega abbastanza questi trascorsi, comuni a tutte le nazioni? L’inquisizione come tribunale, ignota ai primi secoli quando pena era la scomunica, cioè l’escludere dalla comunione delle preghiere e [414] de’ sacramenti, fu introdotta in Linguadoca come spediente politico per assodare nella Francia quella nazionalità che altre genti vagheggiano a qualsiasi costo: negli altri paesi, in mancanza d’eretici, vegliava sui costumi e sulla disciplina, puniva le bestemmie anche dette per ira o malvezzo, la bigamia, le superstizioni, lo sparlar del clero. In Ispagna diretta pure in senso della nazionalità, cioè a svellere ogni residuo della dominazione straniera, trascese, come avviene delle nazionali vendette; e quando essa perseguitava i Musulmani, migliaja di famiglie arrivarono a Genova e in altri porti d’Italia in tale sfinimento, che molti soccombettero alla fame e al freddo, costretti sin a vendere i figli per pagare il naulo; e diffusero qui il morbo marano.
Sisto IV, deplorabile pontefice, sin dal primo momento che re Ferdinando la introdusse, ne mostrò tal disgusto, che d’ambe le parti si arrestarono gli ambasciatori, e il Cattolico richiamò i suoi sudditi. Sisto da poi cedette, e confermolla nel 1478; ma udendo lamenti sulla durezza de’ primi inquisitori, dichiarò surrettizia quella bolla, ammonì essi inquisitori, e determinò non procedessero che d’accordo coi vescovi, nè si estendesse il Sant’Uffizio alle altre provincie; poi destinò un giudice d’appello papale, a cui potessero gravarsi i maltrattati; molte sentenze cassò e addolcì; e per quanto i Cattolici e Carlo V procurassero eludere quest’intervenzione della santa Sede, è memoria di condannati a cui quei giudici fecero restituire o i beni o l’onore civile, almeno i figli cercarono salvarne dall’infamia e dalla confisca, e spesso imposero agli inquisitori d’assolverli in segreto, per sottrarli alle pene legali e alla pubblica ignominia. In tali arti perseverarono Giulio II e Leone X, e quali dispensarono dal portare il sanbenito, cioè il sacco di penitente, a quali tolsero d’in sulla tomba i segni di riprovazione: Leone scomunicò l’inquisitore di [415] Toledo nel 1519, ad onta di Carlo V; ed essendo condannato il Vives come sospetto di luteranismo, Paolo III lo disse innocente, e lo pose vescovo delle Canarie: il famoso latinista Marcantonio Mureto, chiesto in patria al rogo come eretico, fu accolto in Roma ad insegnare all’ombra papale: Leone proferì reo di morte chi falso testimoniasse davanti al Sant’Uffizio, e voleva riformare radicalmente l’Inquisizione di Spagna, legandola ai vescovi; ma Carlo V ne lo stornò col solito spauracchio di Lutero[327].
[416]
Fin dal suo tempo il Segni accorgevasi che l’Inquisizione spagnuola «fu istituita per tôrre ai ricchi gli averi e ai potenti la stima. Piantossi dunque sull’onnipotenza del re, e fa tutto a profitto della potestà regia, a scapito della spirituale. Nella prima sua idea e nel suo scopo è un’istituzione politica: è interesse del papa mettervi ostacoli, come fa tutte le volte che può: ma l’interesse del re è di mantenerla in continuo progresso». E che sia vero, il re di Spagna nominava il grande inquisitore, approvava gli assessori, fra cui due dovevano essere del consiglio supremo di Castiglia; il tribunale dipendeva dal re, così padrone della vita e della roba de’ sudditi, e che della cassa dell’Inquisizione faceva un fondo di riserva proprio, a segno che più volte agl’inquisitori non restava tampoco abbastanza per le spese; i grandi e il clero n’erano colpiti egualmente, senza privilegio o eccezione; laonde, mentre esprimeva lo sforzo nazionale contro i Maomettani e gli Ebrei, era pure un artifizio regio per assoggettarsi la Chiesa e la nobiltà.
Ogni autorità minacciata suol esacerbare i rigori, e colla necessità della difesa giustificare la persecuzione: e quel tribunale fu esteso come una legge marziale contro l’irrompere di eresie, che dove prevalsero, cagionarono ben maggior effusione di sangue, che non tutti i roghi del Sant’Uffizio.
Prevalse poi le idee di tolleranza, vengono obbrobriati coloro che propongono spiegazione, non giustificazione alle vecchie persecuzioni, mentre pajono eroi [417] coloro che declamano senza lealtà contro istituzioni di cui più non si ha a temere, o echeggiano senza critica coloro che a carico della religione posero e quei rigori e quegli atti di fede[328].
Fatto è che allora, in nome della religione della misericordia, si rinnovavano gli orrori dell’imperio romano, e al gentilesimo delle voluttà e dell’ingegno credeasi riparare con quello dell’oppressione e de’ supplizj, togliendosi e la sicurezza del vivere e la franchezza del pensare[329]. Paolo IV dando all’Inquisizione un’insolita vigoria, non la volle più dipendente da ciascun vescovo, ma dalla congregazione del Sant’Uffizio, autorizzata a giudicare delle eresie di qua e di là dall’Alpi; laonde pose in ogni città «valenti e zelanti inquisitori, servendosi anche di secolari zelanti e dotti, per ajuto della fede, come verbigrazia dell’Odescalco in Como, del conte Albano in Bergamo, del Muzio in Milano. Questa risoluzione di servirsi di secolari fu presa perchè non solo moltissimi vescovi, vicarj, frati e preti, ma ancora molti dell’istessa Inquisizione erano eretici»[330]. Singolare confessione!
[418]
Allora si estesero le procedure del Sant’Uffizio, il quale doveva inquisire gli eretici o sospetti d’eresia, i fautori loro, i maghi, malefici e incantatori, i bestemmiatori, quelli che si oppongono al Sant’Uffizio ed a’ suoi uffiziali. Sospetto d’eresia è chi lascia sfuggirsi proposizioni che offendono gli ascoltanti o fanno atti eretici, come abusare de’ sacramenti, battezzare cose inanimate, quali sarebbero calamita, cartavergine, fave, candele; percuotono immagini sacre, tengono, scrivono o leggono libri proibiti; si allontanano dal vivere cattolico col non confessarsi, mangiar cibi vietati, e simili.
Le procedure sue, che tanto ci destano orrore, non erano che le consuete; e basti in prova l’essere pubblicamente stampati i suoi codici, secondo i quali, al reo è dato un procuratore, persona intelligente e di buon zelo, col quale egli possa comunicare e che ne faccia le difese; di tutti gli atti e le deposizioni si tenga protocollo; «i vicarj saranno avvertiti di non permettere che i notari diano copia degli atti del Sant’Uffizio, per qualsivoglia causa, salvo al reo, e solamente quando pende il processo; senza il nome de’ testimonj, e senza quelle particolarità per le quali il reo potesse venir in cognizione della persona testificante»[331].
I principi, accortisi che al religioso teneano dietro cambiamenti politici, fecero causa comune con quella Roma di cui aveano avuto gelosia, e per tutto fu invigorita l’Inquisizione, repudiando la connivenza tanto consueta in Italia; con privilegi e indulti si allettavano fraternite d’uomini e donne a servire di famigli al Sant’Uffizio, che non solo investigava l’eretica pravità, ma la negligenza delle pratiche religiose, fiutava le cucine al venerdì, sofisticava qualche parola sfuggita ai [419] professori, insomma avviava alla polizia odierna; superiore a questa solo in quanto supponeva andarne di mezzo, non l’interesse momentaneo d’un principe, ma la salute delle anime. La tolleranza, virtù eminentemente civile, che nell’uomo di credenza diversa non ci lascia considerare se non il fratello e il concittadino e a Dio riserva il giudizio della coscienza, chi conoscevala in quell’età? Lutero invocava le spade regie contro i dissidenti, mentr’esso li perseguitava colle imprecazioni; e tutti potemmo vedere a Dresda la mannaja che i Luterani adopravano contro gli avversarj, dov’è scritto: Hüt dich Calvinist: Calvino facea bruciare Serveto: Enrico VIII ed Elisabetta scriveano col sangue de’ Cattolici tiranniche leggi, come Maria e Filippo II con quello degli Eretici: Ferdinando d’Austria colle stragi d’Ungheresi e Boemi dissidenti vendicava stragi precedenti di costoro: insomma inviperiva una lotta dove chi non uccidesse, sarebbe ucciso.
Fu allora che l’Accademia di Modena andò dissipata come dicemmo, e molti membri di essa fuggirono; molti Ferraresi, tra’ quali Olimpia Morata ch’era stata educata da Giovanni Sinapio, protestante precettore delle figliuole della duchessa, e sposò Andrea Grundler protestante, studente all’Università di Ferrara. Scrisse ella dialoghi latini e poesie greche; e rifuggita ad Eidelberga professò lingua greca, e morì di soli ventinove anni. Di là scriveva: Ferrariæ crudeliter in Christianos animadverti intellexi, nex summis nec infimis parci: alios pelli, alios vinciri, alios fuga sibi consulere[332].
[420]
I Riformati, che ci conservarono il nome de’ loro martiri, descrivono la fierezza de’ supplizj subiti dal Fannio di Faenza in Ferrara, da Domenico Cabianca bassanese, da frà Giovanni Mollio professore di Bologna, da Pomponio Algieri di Nola, da Francesco Gamba di Como, da Goffredo Varaglia cappuccino piemontese, da Luigi Pasquale di Cuneo. Il Poggiali estrasse da vecchia cronaca il nome di molti inquisiti piacentini[333].
[421]
Ogni causa ha tristi apostoli, che credono servirla col mostrare come abbia molti nemici, e in quella generalità di nomi che esclude la critica e la discolpa avvolgono le persone meno meritevoli di sospetto. Così allora avvenne, e nella inflessibilità del suo zelo Paolo IV fe gittare prigioni il cardinale Morone ed Egidio Foscarari vescovo di Modena, reputatissimi prelati, e i vescovi Tommaso Sanfelice della Cava, Luigi Priuli di Brescia, imputati di nutrire opinioni ereticali, o mal difendere le ortodosse. Anche don Gabriele Fiamma veneto, canonico lateranese e vescovo di Chioggia, autore di poesie spirituali, predicando a Napoli il 1562, fu accusato d’eresie[334]. E per verità, se la Riforma, filosoficamente considerata, era un lanciarsi dello spirito verso la libertà, un voler pensare e giudicare secondo la testa propria intorno a fatti e idee che fin allora si erano ricevuti dall’autorità, ne scendea drittamente che divenissero sospetti tutti i pensatori, tutti, anche gli zelanti.
Questo frà Michele Ghislieri alessandrino si segnalò nell’alta Italia per zelo inquisitorio; e l’opposizione che trovò dappertutto ci rivela non tanto il precipitare delle opinioni in senso protestante, quanto l’indispettirsi della violenza. Avuto spia che a Poschiavo, paese italiano [422] appartenente ai Grigioni, si stampassero libri ereticali destinati all’Italia, e che alcune balle erano state spedite ad un negoziante di Como, frà Michele le sequestrò. Il capitolo comasco, spalleggiato dal governatore, voleva fossero restituite; e non riuscendo, il popolo ne levò tal rumore che frà Michele dovette ritirarsi. Anche a Morbegno in Valtellina eresse processo di eresia contro Tommaso Pianta vescovo di Coira, senza citarlo nè nominare i testimonj; sicchè i Grigioni gli fecero vietare di procedere contro chicchefosse senza previa loro licenza: e perchè egli, obbedito alla prima, rinnovò poi le processure, il popolo a pena si tenne che non gli mettesse le mani alla vita.
Ebbe poi ordine d’inquisire Vettore Soranzo vescovo di Bergamo, il quale in conseguenza fu sospeso, ma dopo due anni rintegrato. Maggiori indizj trapelavano contro Giorgio Medolago: ma la costui potenza avrebbe impedito l’inquisitore se a questo non fosse venuto in sussidio Giovan Girolamo Albani. Mercè del quale il Medolago fu preso: ma la Signoria veneta lo fece levare a forza delle carceri del Sant’Uffizio e trasportarlo nelle sue, nelle quali morì. L’opposizione allora obbligò il Ghislieri a partire di Bergamo, del che si dava colpa a Niccolò da Ponte che poi fu doge, e che perciò venne in odore di luterano. Quell’Albani, valentissimo giureconsulto, godea di alto favore presso la Signoria; ma quando due suoi figliuoli nella chiesa di Santa Maria Maggiore uccisero il conte Brembati, egli, come loro complice, fu per dieci anni relegato in Dalmazia. Il Ghislieri però, divenuto papa Pio V, conferì ai figliuoli il titolo di gentiluomini romani, e al padre il governo della marca d’Ancona, poi il cappello cardinalizio, che, non senza eventualità di salir papa, portò degnamente fino ai novantasette anni.
Il decreto del 1558, per cui tutti i frati che fossero [423] fuori venivano obbligati a tornare ai loro conventi e ricevere il castigo meritato, indusse molti a fuggire in Olanda e a Ginevra: e se credessimo a Gregorio Leti[335], più di ducento buttaronsi eretici.
In generale l’Inquisizione, severissima a chi si ostinasse, ai confessi e ricredenti mostrava carità: alquanti furono arsi in Roma e mazzerati a Venezia: molti obbligati a ritrattarsi d’errori, in cui erano incorsi prima di saperli condannati. Ma il popolo ne prese tal disamore a Paolo IV, che appena morto abbattè la sua statua, erettagli poco prima dal troppo labile favore di quella plebe, e ficcò il fuoco al palazzo dell’Inquisizione. Pontefice difficile a giudicare fra atti così disformi; ma certamente coll’alienarsi dall’imperatore per istudio dell’italica indipendenza, tolse che questo il coadjuvasse ad estirpare l’eresia che allora prese consistenza.
Carlo V, che odiava i Protestanti dacchè in Germania l’aveano costretto a concessioni repugnanti al suo orgoglio, s’accorse come le loro dottrine serpeggiassero in Napoli, e con un severissimo editto del 1536, valevole per tutti i suoi regni, v’interdisse ogni commercio e corrispondenza con persone infette o sospette d’eresia, pena la morte e la confisca. Colà avea predicato e fatto proseliti l’Ochino: poi Giovanni Valdes, gentiluomo spagnuolo, dall’imperatore lasciato segretario al vicerè Pier di Toledo, disputò della Giustificazione; sebbene scarso di dottrina, coll’enfasi cattivava gli animi; e gl’inquisitori attestano che fin tremila proseliti si trasse dietro. Fra questi Galeazzo Caracciolo marchese di Vico, figlio d’una Caraffa, parente di Paolo IV, marito d’una duchessa di Nocera, gentiluomo dalla chiave d’oro di Carlo V, le dottrine di Pietro Valdes e di Pietro Martire propagò, poi abbandonando la famiglia, e una [424] splendida fortuna, andò nel 1551 a fondare a Ginevra un concistoro italiano, e chiesa distinta con un formulario proprio. Primo ministro ne fu Massimiliano Martinengo conte bresciano, poi Lattanzio Rangoni profugo di Siena. Invano i parenti procurarono richiamarlo; suo padre, pregatolo ad un colloquio in Venezia, non potè espugnarne la fermezza; trattolo un’altra volta a Vico, il padre, i figliuoli, la moglie ch’esso teneramente amava, il supplicarono rimanesse in patria e nella fede comune, ma egli s’ostinò al niego. Proposto a Calvino, a Pietro Martire, al Zanchi se potesse far divorzio, decisero di sì, ond’egli sposò una dama di Rouen, visse onorato fin al 1586, e Calvino gli dedicò la seconda edizione de’ suoi commenti sull’epistola ai Corintj.
Antonio Caracciolo, figlio del principe di Melfi maresciallo di Francia, lasciò la corte di Francesco I per farsi certosino: ma anche nel chiostro recò l’inquietudine, intrigò in Corte, e fatto vescovo, nè potendo da Sisto V ottenere il cappello rosso, si diede coi Riformati, dapprima continuando a dirsi vescovo e ministro del santo Vangelo: scrisse poesie francesi e italiane; e polemiche religiose, finchè morì nel 1569. Lorenzo Romano di Sicilia, già agostiniano, disseminati occultamente gli errori di Zuinglio qui, poi rifuggito in Germania, tornò a casa nel 1549 insegnando la logica di Melantone, sponendo le epistole di san Paolo nel nuovo senso, e pubblicò anche un’opera intitolata Beneficio di Cristo. Citato all’Inquisizione fuggì, poi venne volontario a costituirsi, si disdisse e ottenne perdono, facendo molte penitenze e pubblica abjura nelle cattedrali di Napoli e Caserta, e confessando d’avere assai proseliti, fra cui molte dame titolate.
Il vicerè Toledo, cui Carlo V nessuna cosa aveva raccomandata più che d’impedire la diffusione dell’eresia, bruciò una gran catasta di libri che la propalavano, [425] e vietò l’introdurre qualunque trattato di materie teologiche non approvato dalla santa Sede, e le accademie che, sotto coperta di letteratura o di filosofia, facilmente invadevano il campo teologico. Poi, spintovi dall’imperatore che vedeva in Germania gli scompigli causati dalla Riforma, cercò introdurre nel regno l’Inquisizione spagnuola, la quale, operando indipendente dai vescovi e da ogn’altra autorità, nè dando contezza de’ testimonj, apriva agevolezza alle vendette e alle false deposizioni, e aggiungeva alle pene anche la confisca. Pertanto i Napoletani vi si oppongono, e non valendo le parole, le piazze insorgono (1547) gridando arme, strappano i cedoloni, surrogano ai vecchi eletti del popolo altri più creduti; i nobili si mescolano co’ plebei aizzandoli e chiamandoli fratelli. Il Toledo citò Tommaso Anello sorrentino plebeo, e il nobile Cesare Mormile, capi del tumulto; ma tal folla gli accompagnò, ch’egli dovette dissimulare, e lasciar che fossero portati in trionfo alle varie piazze onde rassicurare e attutire il popolo; intanto egli, dando buone parole e promettendo che, vivo lui, mai non s’introdurrebbe tal tirannia, chiamava truppe.
Un accidente da nulla dà occasione di far sangue; gli Spagnuoli assalgono i tumultuanti; questi rispondono colle barricate e colla campana a martello; la via Toledo e la Catalana inorridiscono di carnificina; alcuni nobili, non più rei degli altri ma per esempio, sono mandati sommariamente al supplizio, e il Toledo, credendo aver atterrito, passeggia fieramente la città. Nessuno gli fece atto di rispetto; la plebe, a fatica rattenuta dal farlo a brani, formò regolarmente un’unione, considerando per traditore della patria chi non v’entrasse, e prese le armi, guidata dal Mormile e dai Caracciolo; si deputò all’imperatore Ferrante Sanseverino principe di Salerno, con Placido Sangro, per chiarirlo come non fosse ribellione contro lui quell’insorgere contro un rigore [426] illegale, giacchè fra i capitoli del Regno era che non si porrebbe l’Inquisizione spagnuola. Stettesi dunque lungo tempo in aspetto di guerra, nè mancava chi suggerisse o di darsi al papa che all’antica ragione di sovranità univa ora l’odio particolare contro gli Ispani, o di chiamare Pietro Strozzi e i Francesi che allora campeggiavano a Siena. Ma i più perseveravano nelle forme di soggezione, gridando Impero e Spagna: i baroni erano stati domandati in castello dal vicerè a titolo di obbedienza feudale: le buone famiglie si ritirarono, sicchè la feccia prevalendo e i fuorusciti, tutto andava a disordine l’infelicissimo paese, e bisognava blandire alla ciurma coll’esagerazione delle parole e la villania del vestire e del trattare; intanto che i soldati spagnuoli coglievano ogni occasione e pretesto di saccheggiare, e da una parte e dall’altra cercavansi sussidii e munivansi fortezze.
A suggerimento pure del papa e di san Carlo fu deputato all’imperatore il famoso giureconsulto Paolo d’Arezzo con calde suppliche, nelle quali si dà questa strana ragione che, essendo colà troppo comuni i giuramenti falsi, niuno si terrebbe sicuro della vita e dell’avere. L’imperatore a fatica volle concedere udienza ai deputati, e ordinò si deponessero le armi in mano del vicerè; e la città scoraggiata obbedì, implorò misericordia; pure ottenendo che i casi d’eresia fossero giudicati dagli ecclesiastici ordinarj. Trentasei eccettuati dall’amnistia già erano fuggiti; il Mormile con altri ricoverò in Francia, ben visto e provveduto; l’imperatore dichiarò fedelissima la città, e le impose centomila scudi d’ammenda. Il nuovo papa Giulio III vietò per bolla si facessero confische per casi d’eresie, cassando anche le fatte sin allora[336]: e i colpevoli erano diretti a Roma, [427] dove fatta abjura e le penitenze imposte, erano rimandati a casa.
A Carlo V era succeduto nel regno di Spagna e ne’ dominj dell’Asia, dell’America e dell’Italia Filippo II, il cui nome rappresenta proverbialmente la opposizione contro l’eresia, e in conseguenza per taluni una generosa come che inesorabile perseveranza, per altri il tipo della tirannide, della fierezza, dell’ipocrisia. L’Inquisizione, da suo padre in testamento raccomandatagli, fece esercitare coll’inflessibilità di chi crede compiere un dovere. Allora si estesero quelle arsioni di eretici, teatralmente solennizzate, talmente credevansi giuste: e perchè i suoi sudditi non fossero trattati disugualmente, voleva anche a Milano fare l’infausto dono del Sant’Uffizio al modo spagnuolo; ma la città deputò alti personaggi al re, al concilio, al papa che si adombrava di questo tribunale da lui indipendente; e si ottenne di non aggiunger questo ai tanti mali della Lombardia.
Nel Napoletano esacerbati i rigori e i sospetti, delle persone che aveano frequentato le conversazioni di Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga, molte furono citate al vicario dell’arcivescovo; e Giovan Francesco d’Alois di Caserta e Giovan Bernardino di Gargàno d’Aversa decapitati ed arsi, e confiscati i loro beni, malgrado il privilegio di Giulio III. Ciò empì la città di sgomento; molti migrarono; le piazze inviarono al vicerè duca d’Alcala onde sincerarsi se stesse il disegno di piantarvi l’Inquisizione spagnuola, ed egli assicurava di no. Nè però ricusavano l’Inquisizione consueta, esercitata dai vescovi; e nel Seggio di Capuana è detto[337]: — Si faccia deputati, con ordine che devano andare a ringraziare monsignor arcivescovo illustrissimo delle tante dimostrazioni fatte contro gli Eretici e gli Ebrei, [428] e supplicarla che voglia esser servito di far intendere a sua beatitudine la comune soddisfazione che tiene tutta la città, che queste sorte di persone sieno del tutto castigate ed estirpate per mano del nostro Ordinario, come si conviene; come sempre avemo supplicato, giusta la norma de li canoni e senza interposizione di corte secolare, ma santamente procedano nelle cose di religione tantum». Però anche que’ paesi vedremo allagarsi di sangue per cagione religiosa.
I principi trovarono l’Inquisizione spediente a reprimere i germi repubblicani, e sotto il granduca Cosmo si fece a Firenze un atto-di-fede: la processione degli Eretici condannati a far ammenda era preceduta dal gonfalone, colla croce in campo nero tra la spada e il ramo d’ulivo, e colla scritta Exurge, Domine, judica causam tuam; ventidue soggetti seguivano Bartolomeo Panciatichi, già ambasciatore ducale alla corte di Francia, vestiti con cappe e sanbeniti dipinti a croci; e condotti alla metropolitana, vi ottennero l’assoluzione, mentre sulla piazza bruciavansi i loro libri. In San Simone subivano la stessa cerimonia privatamente alcune donne, sospette di novità.
Pure esso granduca non accettò il decreto di Paolo IV sui libri proibiti, se pure non fossero avversi alla religione, o trattassero di magia od astrologia giudiziaria; de’ quali il 3 marzo 1559 fu bruciata una catasta avanti a San Giovanni e Santa Croce. Lodovico Domenichi, per aver tradotto e stampato con falsa data la Nicomediana(?) di Calvino, fu condannato abjurare col libro appeso al collo, e a dieci anni di carcere; ma ne ottenne remissione per istanze di monsignor Giovio. Frà Luca Baglione perugino nell’Arte di predicare (1562), tra molti atti proprj racconta che, inveendo in una, non dice quale città, contro gli eretici, un di costoro gli tirò un’archibugiata, da cui però Iddio preservollo; e un’altra [429] volta assalito da più di quindici siffatti in istrada, potè difendersene colla sola parola di Dio[338].
Presa Siena, i soliti zelanti subillarono Cosmo contro i Socini, eresiarchi di colà; ed egli sulle prime non vi badò, poi li tolse a perseguitare: furono presi alquanti Tedeschi che vi stavano a studio, oltre alcune maliarde, cinque delle quali bruciate nel 1569. Maestro Antonio della Paglia di Veroli che latinizzò il suo nome in Aonio Paleario, scrittore coltissimo d’un poema sull’immortalità dell’anima, che Vossio chiama divino e immortale, attinte a Siena le idee de’ Socini e dell’Ochino, le diffuse a Colle e a San Geminiano; scrisse il Trattato del beneficio della morte di Cristo, dove sostiene la giustificazione per mezzo della fede, che fu confutato da Ambrogio Caterino; e l’Actio in pontifices romanos et eorum asseclas, quando trattavasi di raccorre il concilio di Trento; e lettere a Lutero e Calvino[339]. Perseguitato, [430] indirizzò a’ senatori di Siena una pomposa diceria latina, e, — Non siamo più a’ tempi dove un vero cristiano possa morire a suo letto. Ma ci accusino pure, ci imprigionino, ci torturino, ci strozzino, ci diano alle belve, tutto sopporteremo, purchè ne derivi il trionfo della verità». Allora passò a Lucca e v’ebbe impiego, poi dal senato di Milano fu invitato professore, indi rifuggì a Bologna, infine vi fu consegnato alla romana Inquisizione, che dopo tre anni di carcere il condannò ad essere strozzato ed arso, di settant’anni.
Fu allora che il Torrentino, nitido editore, si mutò dalla Toscana ne’ paesi del duca di Savoja, e stampò le storie di Giovanni Sleidan, probabilmente tradotte dal Domenichi; e i Giunti a Venezia, ove la maggior libertà fece prosperare la tipografia[340]. Antonio Bruciòli, durando ancora la repubblica fiorentina, aveva sparlato dei monaci: a che tante religioni e tanti abiti? tutti dovrebbero ridursi sotto una regola sola; e non impacciarsi d’affari mondani, dove non recano che guasto, come è avvenuto di frà Girolamo; altre volte morendo lasciavasi di che abbellire e fortificare la città, ora unicamente ai frati acciocchè trionfino e poltreggino, invece [431] di lavorare come san Paolo; ed «era tanto costante e ostinato in questa cosa de’ preti e de’ frati, che, per molto che ne fosse avvertito, e ripreso da più suoi amici, mai non fu ordine ch’egli rimanere se ne volesse, dicendo Chi dice il vero, non dice male» (Varchi). Stabilitisi i Medici, e svelenendosi egli anche contro di questi, fu imprigionato; uscitone, si salvò a Venezia con due fratelli stampatori, pei quali pubblicò la Bibbia tradotta in lingua toscana (1538). Sebbene pretenda aver lavorato sul testo originale, pochissimo sapeva d’ebraico, e la sua Bibbia fu trovata riboccante d’eresie, come il prolisso commento che ne stese in sette tomi: non sembra però che egli disertasse la Chiesa cattolica[341].
Monsignor Pietro Carnesecchi, gentiluomo favorito dai Medici in patria, in Francia e a Roma, conobbe in Napoli Pietro Valdes, l’Ochino, il Vermiglio, il Caracciolo, poi in Viterbo il vescovo Vittore Lorenzo, il Vergerio, Lattanzio Rangone, Luigi Priuli, Apollonia Merenda, Baldassarre Altieri, Mino Celsi; ebbe dimestichezza con Vittoria Colonna, Margherita di Savoja, Renata di Francia, Lavinia della Rovere Orsini; con Melantone e con altri eretici trattò di presenza poi per lettere, e col credito e col denaro combattè l’autorità pontifizia, i frati, il purgatorio, le indulgenze, la confessione, la cresima, i digiuni; l’invocazione dei santi, i voti di castità; a salvarsi bastare la fede senza concorso delle opere; nell’eucaristia trovarsi veramente il corpo di Cristo, ma non transustanziato; potersi senza colpa leggere i libri ereticali e mangiar grasso in qualunque giorno. Paolo IV [432] citatolo invano, lo fece scomunicato; ma perchè continuava senza dissimulare, Pio IV ottenne che Cosmo gliel consegnasse. Sì bene si difese, che fu rimandato; nè però tacque, sovvenne di denari Pier Leone Marioni e Piero Gelido da Sanminiato, ecclesiastico di molta dottrina, che scoperti di eresia poterono rifuggire a Ginevra. Cosmo non gli diminuiva la sua famigliarità; ma poi richiesto dal rigido Pio V, il consegnò all’Inquisizione, ove confesso e convinto, fu condannato al fuoco. Il papa sospese dieci giorni l’esecuzione se volesse intanto ricredersi; ma disputando egli in sinistro senso fin col frate che il confortava, venne decapitato ed arso[342] (1567).
[433]
Antonio Albizzi, che in Firenze istituì l’accademia degli Alterati e fu console della Fiorentina, servendo al cardinale d’Austria in Germania prese affetto alle dottrine nuove, e con un amico venne in Italia onde metter sesto agli affari suoi, per poi andare a liberamente professarle. Ma scoperti, l’amico fu côlto e dato al Sant’Uffizio; l’Albizzi fuggì (1626), e tornò ad Innspruck poi a Hempen in Svevia; e quando appunto il Sant’Uffizio gli iterava la citazione, morì. Intanto in Toscana crescevansi i famigliari del Sant’Uffizio, distinti con una croce rossa, esenti dalla potestà secolare ed autorati a portar l’armi. Il granduca temette che quest’abito non servisse di maschera ai molti che avversavano la sua dominazione; pure non potè frenare gl’inquisitori, che a Siena e a Pisa inesorabilmente perseguivano chiunque [434] uscisse in proposizioni ambigue, nè tampoco perdonando a leggerezze di studenti.
Se la paura che si volgesse la critica dalle cose sacre alle politiche faceva rigorosi i governi principeschi, anche l’aristocratica Lucca se n’inquietava. Già fin dal 1525 proibiva i libri di Lutero e di Luterani, e chi n’avesse dovea consegnarli; ma molti proseliti già vi erano, e il cardinale Bartolomeo Guidiccioni da Roma nel 1542 scriveva al governo di quella sua patria: — Qui è nuova per diverse vie quanto siano multiplicati i pestiferi errori di quella condannata setta luterana in la nostra città; li quali, ancorchè paressero sopiti, si vede che hanno dormito per svegliarsi più gagliardi... Fino ad ora si è potuto pensare che il male fusse in qualche pedante e donne; ma intendendosi le conventicole [435] qual si fanno in Santo Agostino, e le dottrine quali s’insegnano e stampano, e non vedendo fare alcuna provvisione da quelli che governano, o spirituale o temporale, nè ricercare che altri la facci, non si puol credere altro se non che tutto proceda con volontà e consenso di chi regge. Onde di nuovo prego le S. V. che ci faccino tal provvigione, che rendi presto tanto buon odore, quanto fetore ha sparso e sparge il male; e chi cacciasse con autorità della sede apostolica quelli frati, autori e nutritori già tanto tempo di quelli pestiferi errori, e desse quel loco a chi facesse frutto bono, e castigasse qualcuno di quella setta, saria forse salutifero rimedio...
«Intanto pareria che le S. V. col loro braccio ordinassero che il vicario del vescovo facesse incontinente prendere quel Celio (il Curione) che sta in casa di messer Nicolò Arnolfini, il quale dicono aver tradotto in vulgare alcune opere di Martino, per dare quel bel cibo fino alle semplici donne de la nostra città, e che ha fatto stampar quei precetti a sua fantasia: oltrechè e da Venegia e da Ferrara se ne intende di lui pessimo odore. Così è da far diligenzia in quei frati di Sant’Agostino, massime di ritener quel vicario, il quale s’intende per certo che ha comunicati più volte molti de’ nostri cittadini con darli dottrina che quello debbon fare in memoria solo della passione di Cristo, non già perchè credino che nell’ostia vi sia il suo santissimo corpo. E custoditi con diligenzia, li potranno mandare a Roma, o vero avvisare come li tengono ad instanzia di S. B.; acciocchè ogni uomo cognosca che le S. V. vogliono cominciare a far qualche dimostrazione, ed essere, come sono stati i nostri avoli, buoni e cattolici cristiani e obbedienti figli della santa Sede apostolica...
«Questa mattina, da poi la partita dell’ambasciatore, in la congregazione fatta dalli reverendissimi deputati [436] sopra queste eresie e errori luterani, dinanzi N. S. sono state lette otto conclusioni luterane e non cattoliche di don Costantino priore di Fregionara, le quali sono tanto dispiaciute a N. S. e alli reverendissimi deputati, che mi hanno commesso che io scrivi a V. S. che lo faccino incarcerare con darne avviso, o che lo mandino con quello altro frate di Sant’Agostino. E così le ricerco che vogliano fare e con diligenzia, perchè sarà grande purgazione del mal nome della nostra città, e mostreranno che tali errori li dispiaciono, e faranno cosa grata a Dio».
Nè tale sollecitudine era senza motivo; perocchè Pietro Martire Vermiglio, dirigendo ai fratelli lucchesi l’apologia della propria fuga, si congratulava che colà i credenti aumentassero. Forse ne esageravano il numero sì Roma per aver ragione di piantarvi l’Inquisizione, sì il signor di Firenze per pretesto di mettere le mani su quell’ambita repubblica, la quale pensò ovviare i pericoli con esorbitanti rigori (1545). Il Consiglio generale «dubitando che siano alcuni temerarj, li quali, con tutto che non abbino alcuna intelligenza delle scritture sacre nè di sacri canoni, ardischino di metter bocca nelle cose pertinenti alla religione cristiana, e di essa ragionar così alla libera come se fossero gran teologi, et in tali ragionamenti dir qualche parola, o udita da altri simili a loro, o suggerita dalla loro diabolica persuasione, la qual declina e tiene della eresia, e leggere anche libretti senza nome d’autore, che contengono cose eretiche e scandalose; donde potrebbe facilmente succedere, che non solo essi s’avvilupassero in qualche errore, ma vi avviluppassero anche dentro delli altri», multa siffatti ragionari, ed ai recidivi sin la galera; assolto chi denunzia altri; i libri d’eretici si consegnino, pena la confisca; non si conservi corrispondenza con eretici, e nominatamente coll’Ochino o con Pietro Martire; [437] tre cittadini siano eletti annualmente per sovrintendere a tali colpe. Nel 1548 rivedeasi la legge mitigando le pene, ma estendendole a qualunque libro di religione non sottoscritto dal vicario del vescovo; ognuno sia obbligato confessarsi e comunicarsi; in quaresima non si macelli, nè si spacci carne se non di capretto, vitello o castrato; niuno tenga a servizio persone uscite di convento; a tutto mettendo comminatorie, e provocando a spioneggi. Nel 1558 si proibiva ogni colloquio o corrispondenza colle persone dichiarate eretiche, o contumaci alle chiamate del Sant’Uffizio.
A tali editti probabilmente la Signoria fu obbligata per dare soddisfazione ai vicini: certo il papa la querelò di cotesto intromettersi di materie ecclesiastiche; ma la Inquisizione romana non fu mai stabilita nella piccola repubblica, che si serbò monda di sangue. Bensì nel 1555, forse perchè si temesse veder ridotte ad effetto quelle che fin allora non erano state che minaccie, molti se n’andarono, tra cui Filippo Rustici che a Ginevra tradusse la Bibbia, Giacomo Spiafame vescovo di Nevers, Pietro Perna, che pose tipografia a Basilea moltiplicando edizioni principalmente di Riformatori, e avendo a correttore Mino Celsi senese, il quale esaminò Quatenus progredi liceat in hæreticis coercendis; il già detto medico Simon Simoni: anche intere famiglie sciamarono, come i Liena, gli Jova, i Trenta, i Balbani i Calandrini, i Minutoli, i Buonivisi, i Burlamacchi, i Diodati, gli Sbarra, i Saladini, i Cenami, che poi diedero alla Svizzera utili cittadini, e alla repubblica letteraria personaggi illustri[343].
[438]
Nel 1561 si raddoppiò d’oculatezza al confine sopra i libri proibiti, dando autorità di aprire i plichi e le valigie provenienti d’oltremonte. Quando Pio IV temette che i molti Lucchesi che viaggiavano in Isvizzera e in Francia non ne contraessero l’infezione, il senato proibì di dimorare in quelle contrade; coloro che abitano a Lione devano tutti insieme comunicarsi il giorno di pasqua; chi alloggi alcun forestiere, e il veda far atti o discorsi meno cattolici, lo denunzii: ai dichiarati eretici dello Stato si proibisce di fermarsi in Italia, Spagna, Francia, Fiandra, Brabante, «luoghi ne’ quali la nazione nostra suole conversare, abitare e negoziare assai»; e se vi siano trovati, «chiunque gli ammazzerà guadagni per ciascuno di loro, de’ denari del Comune, scudi trecento d’oro; se bandito rimanga libero; se no, possa rimettere un altro bandito». Questo decreto attirò al Comune le lodi di Pio e di san Carlo: ma che non abbia spinto nessuno all’assassinio, ce ne dà speranza l’udire l’anno stesso lamenti che molti eretici restassero in questa città, tenessero corrispondenza coi profughi, e ricevessero opere protestanti[344].
[439]
Del famigerato Giangiacomo Medici, marchese di Marignano, era fratello Giannangelo, valente giureconsulto milanese, che successe pontefice col nome di Pio IV (1559). Disapprovava la severità del predecessore, eppure i tre nipoti di quello mandò a processo e a morte, non eccettuando il porporato. Il supplizio d’un cardinale diacono era tal novità che il mondo fu pieno; tutti cercarono conoscerne il processo, nessuno lo vide intero, nemmanco l’imputato o il suo difensore; e vi si volle scorgere una vendetta della Spagna contro codesti suoi avversarj ch’eransi vantati capaci di torle il reame di Napoli. Pio IV espresse allo storico Pallavicino che peggio d’ogni cosa eragli rincresciuta quella condanna, ma averle dovuto lasciare corso per lezione dei futuri nipoti: dappoi Pio V, rivedutane la causa, li dichiarò condannati iniquamente, fece tagliare la testa ad Alessandro Pallentieri, orditore del processo, e questo fu bruciato, così togliendo alla posterità di giudicarne in supremo appello[345].
Pio IV cavalcando ascoltava chiunque gli parlasse, agli ambasciatori dava udienza in Belvedere senza cerimonie; benchè aderente per origine all’Austria, non prese parte alla guerra; procurò a Roma anni quieti ed abbondanti; ridusse a fortezza la città Leonina, dov’è il Vaticano: a questo aggiunse molti abbellimenti, fra [440] cui la sala regia, ove da Giuseppe Salviati fece storiare le geste de’ papi con epigrafi dettate da apposita commissione; ed una di queste ritrae il convegno di Federico Barbarossa con Alessandro III a Venezia, e l’umiliarsegli a’ piedi[346].
Neppur Pio IV si astenne dal favorire i nipoti, e diede l’arcivescovado di Milano, e ben tosto la porpora a un giovinetto di appena ventitre anni (1560) e non ancora sacerdote, e su quello accumulò benefizj e cariche; egli legato a latere di Bologna e Ravenna, poi d’Italia tutta; egli abate e commendatore di almen dodici chiese in varj Stati, arciprete di Santa Maria Maggiore, penitenziere supremo della santa Chiesa, protettore del regno di Portogallo, dei Cantoni svizzeri cattolici, della bassa Germania, degli Ordini francescano e umiliato, dei canonici regolari di Santa Croce a Coimbra, e de’ cavalieri di Malta e del Cristo; sicchè unendovi il contado d’Arona sul lago Maggiore, e il principato d’Oria nel Napoletano, fruiva dell’entrata di almeno novantamila zecchini; e aveva cognata una duchessa d’Urbino, maritate le sorelle una nei Gonzaga principi di Molfetta, una nel principe di Venosa, una nel principe Colonna vicerè di Sicilia. Scialava dunque principescamente, quando la morte che colse il fratello Federico in mezzo al fasto e alle speranze, lo concentrò ne’ gravi pensieri della tomba, e d’allora il nome di Carlo Borromeo indicò uno dei prelati che meglio onorarono la Chiesa e più efficacemente faticarono nel riformarla. Rinunziando a quel [441] cumulo di cariche, onde mortificare col suo esempio la splendida dissolutezza dei principi secolari ed ecclesiastici di Roma congedò ottanta persone di corteggio, non ritenendo secolari presso di sè che nei bassi uffizj; da novanta restrinse a ventimila zecchini il suo spendio domestico; non più sfarzo e spassi, ma ai clamorosi convegni consueti nel suo palazzo sostituì un’accademia settimanale di lettere e morale, detta le Notti Vaticane: eccitò il papa a fabbricare Santa Maria degli Angeli e la superba Certosa di Roma; molte chiese procurò s’edificassero per tutta Italia, e l’Università di Bologna.
Invece di soggiornare a Roma, come troppi vescovi soleano, o alle Corti o nelle nunziature, egli volle al più presto venire alla sua sede di Milano, che da quarant’anni costituiva una commenda per cadetti di casa d’Este. Qual meraviglia se la disciplina vi si era sfasciata, e pietà e costumatezza scomparse dai preti? I quali, non che curare le anime altrui, la propria negligevano a segno, che si credeano dispensati dal confessarsi perchè confessavano; secolareschi nel vestire, nelle abitudini, nelle compagnie, trafficavano, e delle chiese e delle sacristie si valevano come portifranchi per sottrarre le merci e il contrabbando alle imposte e alle perquisizioni; quand’anche non ne facevano ritrovi per conviti e balli. Le solennità e le domeniche porgeano occasione soltanto a bagordi, a feste indecenti e persino feroci; i monaci dati all’ozio in convento, agl’intrighi fuori; le monache, in onta alla clausura, uscivano a far visite e ne riceveano, e l’abilità non manifestavano che in confortini e manicaretti.
Attorniatosi di valent’uomini, de’ quali mai non si mostrò geloso, Carlo si accinse a riformare la sua arcidiocesi: e armato di qualità penetranti e sovrane, di autorità sensibile, direi della verga di penitenza per convertire e costringere allo spirito interno i Cattolici [442] paganizzati, autorevole per parenti e congiunti in tutta Italia, per amici alla Corte di Roma, per illustre nascita e la signorile magnanimità fra i nobili, fra gli ecclesiastici per la dignità, fra il popolo per le ricchezze e per l’uso che ne facea, fra i pii per la bontà e le macerazioni; vigoroso di corpo a sostenere viaggi ed astinenze, e d’animo a reggere le opposizioni dei governatori, le persecuzioni de’ viziosi, l’indifferenza dei beneficati, con que’ decreti che costano poco a farsi ma molto a far eseguire, disciplinò la sua Chiesa nelle materie più importanti, come nelle minime di sacristia. Diceva l’uffizio a testa scoperta; leggeva la Scrittura a ginocchio; poco parlava, pochissimo leggeva e neppure le novità, dicendo che un vescovo non potrebbe meditare la legge di Dio se badasse a vanità curiose; teneva frequentissime conferenze col suo clero; instancabile nell’impedire che dalla vicina Svizzera l’eresia si dilatasse in Italia, perlustrolla come legato pontifizio, vi rincalorì la parte cattolica, e fondò a Milano un collegio Elvetico, semenzajo d’apostoli e parroci a que’ paesi (V. pag. 352).
Principale impegno egli pose nel trarre a compimento il concilio ecumenico. Indicato primamente a Mantova nel 1537, poi a Vicenza, in fine fu aperto a Trento il 13 dicembre 1545: dopo la settima sessione del 3 marzo del 47, se ne decretò la traslazione a Bologna: nel dicembre 1550, Giulio III lo restituì a Trento, ove nel 51 e 52 si tenne fin alla decimasesta sessione, sciogliendolo poi all’appressarsi della guerra. Pio IV ne ordinò la riunione nel 29 novembre 1560; ma si cominciarono le tornate sol nel 18 gennajo del 62, per finirle il 3 dicembre dell’anno successivo. La bolla di conferma uscì il 26 gennajo 1564.
I concilj, da quel di Nicea fino al Tridentino, anche nella storia mondana furono le assemblee più segnalate [443] per la dignità dei personaggi raccolti, per la grandezza delle quistioni che vi si agitarono, per l’elevazione delle idee, superiori a restrizioni di paese, di razza, di tempo, fondate su principj irremovibili, e ispirate da una generosità non d’astrazioni, ma effettiva nè mai smentita. Se fonte viva della vera civiltà è la fede divina, importa conservarla nella sua purezza; i popoli di tutto il mondo congiungere in unità di credenze e di riti, e mondare l’interno di questa società col correggere i costumi e principalmente quelli del clero; fuori difenderla dai nemici comuni, effondere fiumi di verità e di vita sopra quanto v’ha di nobile, di bello, di generoso nella natura umana. So che gli spiriti negativi disputano su questi meriti: noi parliamo ai serj e leali.
Al Tridentino, maestosa assemblea de’ Cattolici più consumati negli affari, nelle lettere, nella santità, viene apposto d’essere stato menato a senno degl’Italiani; ma questa parola, come avviene delle denominazioni di partito, significa chiunque caldeggiasse le prerogative romane. In realtà la discussione dogmatica fu diretta dai gesuiti Lainez e Salmeron spagnuoli, e con loro Le Jay ginevrino, rappresentante del cardinale Turchsess vescovo d’Augusta; uno dei tre presidi n’era il cardinal Polo inglese; Andrea de Vega, Volfango Remio, Genziano Hervet, luminari di quell’adunanza, non erano italiani. Vero è che i vescovi forestieri ogni tratto scarrucolando, era d’uopo mandarne di italiani, più poveri e men pretensivi, e valersi de’ Gesuiti, che allora furono più che mai, come alcun li chiamò, i giannizzeri della santa Sede.
L’importanza che la Chiesa attribuisce a ciascun uomo pei meriti suoi proprj, non per la nascita, dovea condurre al votar per testa, anzichè per nazione; ma ne derivava la prepollenza degli Italiani, giacchè agli ottantatre prelati di tutti insieme gli altri paesi stavano a [444] fronte centottantasette dei nostri. Oltre san Carlo, che non riceveva alcun breve papale se non iscoprendosi il capo, primeggiava tra questi il cardinal Morone, figlio del famoso grancancelliere di Milano, in alta fama di sapere e d’abilità negli affari, che ad istanza di sant’Ignazio promosse la fondazione del collegio Germanico, e perchè il papa mancava di denari, indusse a obbligarvisi i cardinali, e vi diede ordini che poi servirono al concilio di Trento per norma nel regolare i seminarj. Malgrado di ciò, malgrado che avesse adoprato ogni poter suo nel reprimere l’eresia in Germania ed escluderla da Modena, fu sospettato di novatore e fautor de’ novatori, onde Paolo IV lo carcerò in Castel sant’Angelo: ma il nuovo pontefice non solo lo trasse giustificato, ma lo destinò a presedere al concilio.
Fra gli altri cardinali distingueremo il Foscarari bolognese, che a Modena fondò un monte di Pietà e profondea l’aver suo ai poveri in modo, che non si sapeva dove tanto pigliasse; l’eruditissimo Seriprando di Troja, già secretario al celebre cardinale Egidio da Viterbo; il Bertani, autore d’un commento a san Tommaso e d’un trattato sulla podestà del papa; il veneziano Gianfrancesco Comendone[347], di limpida dicitura e abilissimo a trarsi dagli affari più difficili e meno attesi; nunzio in Inghilterra, poi in Polonia, donde ottenne fosse cacciato l’Ochino, poi alla dieta di Augusta per impedire vi si decidesse sopra materie ecclesiastiche; i [445] suoi viaggi sono leggiadramente descritti da Annibal Caro, al quale fu amicissimo, come a Paolo Manuzio, a Basilio Zanchi, a Guglielmo Sirleto, ai migliori d’allora. Per un Antonio Ciurelio di Bari, vescovo a Budua in Dalmazia, che esilarava con profezie e buffonate, severa scienza mostrava il calabrese Guglielmo Sirleto, biblioteca ambulante, che parlava francese, latino, greco, ebraico, non fu eletto papa per tema che gli studj nol distraessero troppo, e sepoltosi nella biblioteca Vaticana, colà pose affatto l’animo in ajutar tutte le opere altrui, benchè di sue niuna pubblicasse, provvedeva testi e argomenti ai campioni del sinodo; eppure non isdegnava raccogliere attorno a sè i bambini che capitavano in piazza Navona co’ fasci della legna per istruirli nel catechismo. In Agostino Valier vescovo di Verona non sapeasi qual più ammirare, la rara erudizione o la coscienza intemerata; scrisse cenventotto opere, ma pochissime ne pubblicò, fra cui una Rethorica ecclesiastica spesso ristampata, e una storia di Venezia; e impugnò la barbarie scolastica e il timor delle comete. Daniele Barbaro d’ordine pubblico scrisse la storia veneta, fece poesie filosofiche lodatissime col titolo di Predica dei sogni, fondò in Padova l’orto botanico e l’accademia degli Infiammati, tradusse e commentò Vitruvio, diede bellissimo ragguaglio della sua ambasciata a Edoardo VI d’Inghilterra. Ivi pure Gianantonio Volpi e Antonio Minturno, letterati di prima schiera; Onorato Fascitello vescovo d’Isola, autore di lettere e poesie lodate; Marcantonio Flaminio e il vescovo Vida, Catullo e Virgilio redivivi; Isidoro Clario, Taddeo Cucchi di Chiari, che emendò la versione della Bibbia vulgata a confronto del testo ebraico e greco, senza trascurare l’esegesi dei Protestanti. Sfoggiavano nelle prediche i più insigni oratori, Alessio Stradella di Fivizzano, Francesco Visdomini ferrarese, Bartolomeo Baffi da Lucignano, Cornello [446] Musso vescovo di Bitonto (t. IX, p. 289), intorno alla cui eloquenza Bernardino Tomitano medico e retore di Padova compose un ragionamento, e gli fece coniare una medaglia con un cigno, e l’iscrizione Divinum sibi canit et orbi.
La Chiesa professa di essere unica depositaria e interprete della parola divina, e quindi infallibile nel profferire ciò che tutti devono credere: i Protestanti arrogano a ciascuno l’intendere come vuole le sacre carte, all’autorità comune sostituendo la capacità individuale. Questo radicale dissenso toglieva qualunque possibilità d’accordo, talchè al sinodo, non potendo mettersi conciliatore, nè decidere altrimenti da quel che avea fatto la Chiesa sin allora, restava soltanto da «far una lunga e coscienziosa recensione del sistema cattolico». E già a quel punto ciascuno avea preso partito; le opinioni religiose eransi interzate cogl’interessi politici; il mondo diviso in due campi, umanamente irreconciliabili.
I punti capitali della divergenza furono risoluti al bel principio, mettendo fine alle ambiguità, mediante le quali per un pezzo erasi cercato di rannodare i dissidenti. I libri dei due Testamenti furono dichiarati canonici, come le tradizioni concernenti la fede e la morale, conservate nella Chiesa. Il peccato originale fu riconosciuto, non con decreto dottrinale[348] ma condannando chi lo negasse; ed esprimendo che, nel dire nati in peccato tutti gli uomini, non comprendeasi la Vergine Madre, per rispettar le bolle che Sisto IV avea emanate in proposito dell’immacolata concezione di lei, controversa fra Scotisti e Tomisti. Sulla Grazia e la giustificazione [447] restava assolutamente condannata la dottrina che Lutero pretendeva appoggiare a sant’Agostino, in sedici capitoli di decreto dottrinale riconoscendo la giustificazione per mezzo della Grazia preveniente e del libero consenso; condannando le false idee sulla predestinazione, e che la Grazia basti senza le opere. I sacramenti furono prefiniti a sette, giusta la dottrina di Pier Lombardo appoggiata alla tradizione; ed espressi canoni sopra ciascuno.
Giacomo Lainez generale dei Gesuiti, nel discorso più celebre di quest’assemblea, sostenne la potestà della giurisdizione essere data unicamente al pontefice, e da lui ogni altra derivare. E vinse; e restò consolidata quella supereminenza del papa, che erasi voluta crollare; egli solo interpretasse i canoni, imponesse le regole della fede e della vita. Già i vescovi, anzichè inuzzolirsi d’ingradire la propria a scapito dell’autorità pontifizia, vedeano necessario di salvarla all’ombra di quella; e i principi vedendo la propria esistenza messa a repentaglio dalle quistioni teologiche, provvedeano men tosto a sottigliare sui limiti del potere ecclesiastico, che ad appoggiarvisi.
Spetta alle storie particolari lo svolgere la rete complicatissima delle pretensioni, dei ritardi, delle domande, delle opposizioni; a noi bastando attestare che, se in alcune decisioni sembrò aver parte la politica, le più comparvero dettate da persuasione e coscienza.
La Riforma, a cui toglievano pretesto gli oracoli di quell’assemblea cui essa aveva continuamente appellato, rimase una manifesta rivolta; e dagli oppositori che si staccavano ed isolavano, la Chiesa non potea difendersi che col fortificarsi entro le barriere della fede antica. Fra’ Cattolici non occorrevano transazioni, nè quasi dibattimenti, restando solo a porre in chiaro l’intero sistema della fede cattolica: e in effetto vi si eliminò [448] una serie di discrepanze, di modo che la teologia trovossi ridotta a scienza positiva, sgombra dalla dialettica; le decisioni tridentine, divenute credenza cattolica, parve superfluo ogni altro concilio; e come chi convalesce da pericolosa malattia, la Chiesa cattolica parve animarsi di vita nuova, e tutta si applicò a migliorare se stessa e la società. Dell’uniformità de’ riti si fece una condizione della cattolicità, mettendola sotto la vigilanza d’una sacra Congregazione.
Pio IV chiamò a Roma Paolo Manuzio, affinchè cogli insuperabili suoi tipi pubblicasse i santi Padri. Le lezioni apocrife, le goffe antifone, i riti burlevoli, introdotti dall’ignoranza e dalla semplicità, domandavano emenda; ma dotti preoccupati della eleganza, cardinali cui facea stomaco san Paolo per l’impulito latino, poteano essere acconci a questo servigio? Gli inni che, per commissione di Leon X, introdusse Zaccaria Ferreri vicentino, vescovo della Guarda, quanto puri di stile tanto erano freddi nel sentimento; e meglio parve di quelli che per Urbano VIII rispettosamente corresse il Sarbiewski[349]. Pio V mandò un nuovo breviario [449] obbligatorio per tutte le chiese che non ne avessero uno almen ducentenario: la quale riserva non tolse che le più adottassero il romano, cui tenne dietro il messale. Sisto V pubblicò una Bibbia, che unica avesse autorità, e v’attese egli medesimo col Nobili, l’Agello, il Morino, Lelio Landi, Angelo Rôcca, il cardinale Caraffa[350]: ma appena uscita vi si conobbero molti errori[351], onde fu ritirata, e un’altra ne diè fuori Clemente VIII.
Non pare che nel medioevo si formassero catechismi, che ad uso del popolo esponessero l’essenziale della religione. Il concilio di Trento ne ordinò uno, incaricandone san Carlo, che prese a collaboratori i domenicani Foscarari suddetto, Muzio Calino bresciano vescovo di Zara poi di Terni, Leonardo Marini genovese arcivescovo di Lanciano; e fu pubblicato italiano e latino[352], poi diviso per capitoli, infine a domande e risposte nell’edizione di Andrea Fabrizio, unendovi una tavola dei vangeli di ciascuna domenica, con una tessera di predica, e coi richiami all’opera stessa per isvolgerla; inoltre i doveri del parroco sopra i diversi punti della Dottrina, in modo che ad esso servisse come corso di teologia, di sermoni, di meditazioni. Questo Catechismo romano, ammirato per eleganza e lucido metodo, provava che la profonda e solida erudizione sacra non ha bisogno di invilupparsi in argomentari e formole da scuole, ma si [450] accorda coll’esposizione chiara e precisa, e colla sublime semplicità del pensiero. I Gesuiti, in punto alla Grazia dissonanti dai Domenicani, gli scemarono credito, ed altri ne pubblicarono, fra cui primeggia quello del Bellarmino.
La Riforma erasi sempre invocata da’ Cattolici in nome dell’autorità, opponendosi all’individualità sia d’opinioni, sia di morale, quand’anche questo individuo fosse pontefice, soggetto anch’egli all’errore e alla debolezza, giacchè in lui si connettono l’autorità e l’uomo. Or la superbia di non volere dar ragione ai dissidenti non distolse dalla riforma morale, e il sentimento religioso fu sovrapposto alla classica idolatria nelle arti, nelle dispute, nelle lettere, nella vita. Nessuna sessione del concilio passò senza decreti di riforma onde restituir alla Chiesa anche la purezza delle opere; proibiti i matrimonj clandestini, o senza le tre pubblicazioni; la comunione sotto le due specie; l’ordinare senza benefizio; i questori e spacciatori d’indulgenze le quali non possono pubblicarsi che dai vescovi; siano gratuite la collazione degli ordini, le dispense, le dimissorie; obbligata la residenza, e perciò impedita la pluralità di benefizj curati; nessuno sia messo in questi prima dei venticinque anni, nè a dignità in chiesa cattedrale prima dei ventuno, e sempre con esame preliminare; i vescovi ogni anno visitino le chiese, dando cura a quanto vi occorre, e provvedendo vi si facciano i necessarj restauri; delle cattedrali e collegiate un terzo delle rendite si eroghi in giornaliere distribuzioni; con dignità e disinteresse si compia il sagrifizio dell’altare, senza canti che destino idee profane. I vescovi avessero ciascuno un seminario, e ne’ sinodi provinciali e diocesani estirpassero i resti delle superstizioni e delle indecenze: e chi ne guardi i decreti direbbe che que’ pii riformatori si fossero lusingati di tornare il mondo all’apostolica [451] purità, neppur evitando gli eccessi che possono guastar le cause migliori.
Il cardinale Ghiberti, già datario, dalla stamperia posta nel suo vescovado di Verona fece riprodurre le opere dei santi Padri, rese quel clero un modello di ecclesiastica disciplina, talchè il concilio non fece quasi che ridurre a decreto ciò ch’egli aveva introdotto.
Di lui teneva in camera l’effigie e seguiva le pedate Carlo Borromeo, vero restauratore del regime ecclesiastico e della direzione delle anime, e tipo di questi cattolici riformatori. Gli Atti sono come la carta costituzionale della Chiesa, l’universalità di questa applicata al governo delle varie diocesi in que’ comizj che si chiamano concilj provinciali, venerabili per la promessa che lo Spirito Santo sarà ove due o tre si congreghino nel santo nome. E sei di questi concilj tenne san Carlo, donde gli Atti della Chiesa milanese, corpo ammirato di disciplina[353]. Instancabile a cercare della estesissima sua diocesi qualunque angolo più invio e remoto, oltre destinarvi visitatori generali e particolari, gran fatica egli sostenne, e consigli, comandi, esempj adoperò per rimettere l’uso quasi dimenticato de’ sacramenti, e la decenza nelle chiese, più ch’altro simili a taverne, senza campane o confessionali o pulpiti o arredi; introdurre devozioni e riti e un regolato cerimoniale; ripristinare l’adempimento de’ legati pii; istituire nuove parrocchie ove prima un solo prete attendeva a vastissimi territorj; circoscrivere meglio le pievi, con vicarj foranei in corrispondenza colla curia; i preti abituare al pulpito, su cui prima non salivano quasi che frati; misurare i diritti di stola bianca e nera; render regolari i registri di battesimi, matrimonj, morti; svellere le superstizioni, sincerare le leggende di santi e miracoli. Istituì le compagnie [452] della dottrina cristiana[354], ove la festa s’insegnasse, oltre le verità della fede, anche il leggere e scrivere; e con espresso divieto ai membri di essa di cercar rendite o vantaggi temporali per questo titolo. Zelò l’osservanza delle feste; cercò purgare dalle profanità carnevalesche le domeniche di sessagesima, quinquagesima e quadragesima: sebbene però in quei giorni esponesse il Sacramento, e facesse processioni, «strepitavano quasi sulle porte della chiesa tamburi, trombe, carrozze di concorso, gridi e tumulti di tornei, correrie, giostre, mascherate ed altri simili spettacoli profani». Niuna donna, qual che ne sia lo stato, il grado, la condizione, entri o stia in chiesa, nè accompagni le processioni se non col velo non trasparente o zendado o tela o altro panno di tal modo che stiano coperti tutti i capelli. Niuno entri in chiesa con cani da caccia o sparvieri, nè con archibugi, balestre, arma d’asta o simili, nè le appoggi alle porte o ai muri di chiesa, nè le deponga ne’ cimiterj o negli atrj[355]. I principi vogliano escludere i ciarlatani, gli zingari, i giuochi, le smodate spese; vietino le taverne al possibile, e vi si possa dar mangiare e bere, ma non alloggiare.
Moltissimo s’incarica della dignità e del contegno dei preti nel vestire, nel radere la barba, nel conversare, nell’abitare. Alla tavola del vescovo si servano due piatti, tre al più, e non confortini o altri delicature di zuccaro. Vuol diligenza nel riconoscere le antiche reliquie e nell’accettarne di nuove o nuovi miracoli; pose ritegni ai troppi che andavano in pellegrinaggio o per devozione o per penitenza; bonissime norme ai predicatori tanto [453] per le materie e la forma de’ discorsi, quanto pel modo di porgere; e al suo clero ripeteva quel della Scrittura, Maledictus homo qui facit opus Dei negligenter. I suffraganei suoi si facessero mandare una volta l’anno una predica da ciascun parroco, e se nol vedesser migliorare, vi spedissero un predicatore. I morti si sepelliscano in campagna, cinta di muro; si tenga cura delle biblioteche, ove le suntuosità de’ vecchi ha raccolto libri d’ogni genere, e principalmente de’ manoscritti. In generale voleva il clero oculato su’ costumi de’ fedeli, sino a tenere in ogni parrocchia un registro della condotta di ciascuno: avrebbe anzi voluto rintegrare le prische penitenze pubbliche, nel suo rituale raccogliendo quelle comminate in antico ai varj peccati, fra cui v’era che, chi consulta maghi, stia penitente per cinque anni; chi getta tempeste, anni sette in pane e acqua; chi canta fascinazioni, tre quaresime; chi fa legature o malìe, due anni; chi sortilegi, quaranta giorni; chi cerca i furti nell’astrolabio, due anni[356]. E fra le penitenze che [454] poteansi imporre, enumera il vietar le vesti di seta e d’oro, i conviti e le caccie; il far limosine, o mettersi pellegrini o servi in ospedali, o visitare carcerati, o chiudersi alcun tempo in monasteri, o pregare in chiesa a braccia tese, o tenervisi bocconi, o flagellarsi, o cingersi il cilizio.
Il commercio dei libri sorveglia; non si tengano bibbie vulgari, nè opere di controversia cogli eretici, senza licenza; non si lascino andar i fedeli ne’ paesi ereticali, nemmeno a titolo di mercatura o d’imparare la lingua; si favorisca in ogni modo il Sant’Uffizio. Gli Oblati di Sant’Ambrogio, preti con voto di speciale obbedienza all’arcivescovo, istituì perchè accudissero alle parrocchie più faticose e povere, e dessero esercizj e missioni. I frati Umiliati, arricchiti colle manifatture della lana (tom. VI, pag. 315), possedeano nel Milanese novantaquattro case, capaci di mantenere cento frati ciascuna, e non ne conteneano due; onde quelle rendite di venticinquemila zecchini, godute da pochissimi, erano fomite d’orribile depravazione. Carlo volle ridurli a disciplina, ma un d’essi gli sparò una fucilata; di che il papa prese ragione per abolire l’Ordine, e delle rendite di esso dotare collegi e seminarj, massime di Gesuiti.
Traversando la val Camonica, ove alcun tempo non si pagavano le decime, Carlo non dà la benedizione, e que’ popolani ne restano sgomenti; nella valle retica della Mesolcina fa processare severamente eretici e maliardi[357]: illusioni che al par di certe esorbitanti pretese [455] di giurisdizione, come d’avere forza armata a sua disposizione, di far eseguire le sentenze del suo fôro anche contro laici i quali non vivessero da buoni cristiani, vorremo perdonare ai tempi, piuttosto proclamando come profondesse ogni aver suo coi poveri, e a sovvenire di corporale e spirituale assistenza gl’infermi d’una terribile peste allora scoppiata, e che, prevalendo l’idea della carità a quella de’ patimenti, oggi ancora in tutta Lombardia è intitolata peste di san Carlo.
Suo prediletto Giovan Francesco Bonomo, patrizio cremonese, vescovo di Vercelli, dove sostituì l’uffizio romano all’eusebiano, fabbricò il seminario affidandolo ai Barnabiti, istituì un monte di pietà colla propria sostanza[358]; tra gli Svizzeri e i Grigioni a tutela della fede pericolò anche la vita, e introdusse Gesuiti a Friburgo, Cappuccini ad Altorf, poi andò nunzio apostolico all’imperatore, indi nelle Fiandre, sempre zelando la causa cattolica. Ed essendo avvenuta la defezione del vescovo di Colonia, fu il primo nunzio ordinario a Utrecht, nunziatura che durò fin ai giorni nostri. San Carlo lasciò a lui i manoscritti delle sue prediche, e n’abbiamo a stampa due poemi, uno in lode di quel santo, uno per la vittoria di Lepanto, e altri versi e molte orazioni e lettere e sinodi.
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Delegato da Gregorio XIII a visitare la diocesi di Como, vi stampava delle prescrizioni[359], dove insieme con evangeliche maniere ed elevati intenti appajono esagerazioni che viepiù risaltano dopo cessata la prevalenza ecclesiastica. I vescovi non abbiano cortine e tappeti a fiori, non lauta mensa, non elegante suppellettile, non vasellame d’argento, col quale potrebbero mantenere dei poveri; lor precipuo uffizio è la predicazione, nè possono mancarvi senza potente motivo. Nel triduo avanti Pasqua il vescovo sieda in confessionale per ascoltare chi si presenti; ogni due anni compia la visita diocesana, non ricevendo a tavola che tre piatti, oltre cacio e frutta: dia facile udienza a tutti, anzi v’incoraggi i poveri; veda e spedisca da sè quanto può. Ogni maestro faccia in man di lui professione di fede: le feste si vogliano osservate coll’astenersi da opere servili e dagli stravizzi. Vieta l’usar figure e anelli magici a curar uomini od animali, le stregherie, le fasciature, il trattar feriti e mali colla recita di certe preci e formole. Il raccoglier felci e loro semi in dati giorni e ore; i maghi e indovini siano puniti dal vescovo, come pure le maliarde che affascinano o uccidono fanciulli, inducono sterilità e gragnuola. Ogni anno si rinnovi l’intimata della scomunica a chi non denunzia fra quindici giorni qualunque eretico o sospetto di opinioni dissenzienti dalle cattoliche; si pubblichi la costituzione di Pio V contro chi offendesse le fortune o le persone del Sant’Uffizio; e ogni settimana il vescovo si affiati coll’inquisitore e con alcuni teologi e avvocati sovra il processare gli eretici. Chi bestemmia Dio o la beata Vergine sia punito in venticinque zecchini, il doppio se ricada, e cento alla terza volta, oltre il bando e l’infamia. Non gli ha? alla prima stia colle mani legate al tergo, [457] genuflesso tutt’un giorno di festa al limitare della chiesa; se ricade, sia per le strade battuto a verghe; alla terza, foratagli la lingua con un acuto, indi condannato in perpetuo al remo. Crescono le pene se il reo è cherico; altre a chi bestemmia i santi; e si pubblichino indulgenze ai denunziatori e ai giudici. I parroci visitino ogni settimana le case per conoscere i bisogni spirituali e temporali, e raccolgano i viglietti della comunione pasquale.
La prebenda de’ parroci si migliori col prelevare dai benefizj inutilmente goduti da cardinali o prelati. Freno all’avarizia de’ curiali; via i borsellini che soleano appendersi ai confessionali; via i sepolcri elevati in chiesa; non si nieghi sepoltura per mancanza di denaro, nè si varii secondo le fortune il suon delle campane o la grandezza della croce. Se le donne in chiesa lascino dal denso velo apparire pur un capello, sia colpa riservata al vescovo. Questo ponga ben mente che nessuna fanciulla venga monacata per forza o per seduzione; i confessori di monache non ne accettino regalo o cibo; esse non tengano nella cella nessun arnese da scrivere, e in caso di necessità lo chiedano alla badessa; v’abbia carceri e ceppi e catene ne’ monasteri per quelle che violano la disciplina.
Istruzioni di tenore somigliante si diedero dappertutto. La Corte e la città di Roma presero aspetto ecclesiastico e spirito di regola, e il cardinale Tosco non fu eletto papa perchè lasciavasi sfuggire certi lombardismi. La residenza fu ingiunta rigorosamente ai vescovi, come a tutti i benefiziati; cessò l’abuso d’attribuire badie, collegiate, vescovadi a secolari e fin a militari, che dicevano la mia chiesa, i miei frati, come avrebbero detto i miei famigli, i miei cavalli. Un gentiluomo tedesco, udendo sempre declamare contro i costumi di Roma, era voluto venire accertarsene co’ proprj occhi, [458] e ad un principe scriveva nel 1566 come avesse invece trovato gli abitanti dediti alle pratiche pie, rigorosi osservatori della quaresima, frequenti alla comunione e alla visita delle chiese; la settimana santa poi dormire per terra, e veglie, e digiuni, e tutti gli artifizj della penitenza adoprati per raggiungere i beni dell’anima. E segue descrivendo quelle commoventi solennità ponteficali del giovedì santo; e le scomuniche lette a gran voce al popolo che le ascolta in venerabondo silenzio, e il bombo de’ cannoni che vi tien dietro, gli davano sembianza del terribile giorno finale. Lunghe file di penitenti disciplinandosi giungeano a San Pietro, ove ad essi mostravansi la lancia di Longino e il volto santo, fra singhiozzi, gridi, preghiere.
Io non accetto a piene braccia queste lodi, perchè, come costui vede tutto santo, così altri tutto scellerato, secondo l’affetto individuale. I carteggi dei residenti veneti di quel tempo annunziano continui rigori contro simoniaci, adulteri ed altri peccatori; ma da Roma scriveano il 25 settembre 1568: — In una terra della Marca, chiamata Amandola, i fuorusciti, con quali si dice che si sono accompagnati molti sfratati, entrati dentro, hanno usate gran crudeltà abbruciando le chiese, e buttando a terra, e rompendo le immagini, con gran dispregio di tutte le cose sacre; onde si dice che sua santità ha animo di fare qualche grande provvisione per quella terra, e per un’altra ancora vicina chiamata San Genese, poichè intende che in esse vi sono molti eretici. Ma non è città della Chiesa che abbia nome di averne più di Faenza: onde sua santità ha avuto a dire, che chiaritasi un poco meglio, la vuole al tutto distruggere con levar via tutti gli abitatori, provvedendo poi per lei di una nuova colonia; e in questi giorni sono stati condotti qua molti di quella città per conto dell’officio dell’Inquisizione».
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Questi sfratati sono i fuggiaschi dai conventi: ma nel carteggio stesso è pur narrato degli Amadeisti, francescani molto depravati che il papa soppresse, surrogandovi i Minori Osservanti; e in molti luoghi, massime nel Bresciano, a Iseo, Erbusco, Quinzano, si opposero armati, rincacciando dai loro conventi gli Osservanti[360].
Il nepotismo non cessò, ma trasformossi, usando i papi mettersi a fianco un nipote cardinale e un laico, che acquistavano gradi e ricchezze ma non dominio, al modo d’un ministro de’ paesi costituzionali. Benedetto, figlio del cardinale Accolti, si credette che a Ginevra attingesse e odio contro i papi e idee repubblicane; conforme alle quali ordì a Roma una congiura con giovani principali per trucidare Pio IV, dopo il quale dicevano verrebbe quel papa angelico, di cui più volte avea discorso il medioevo; pretendevano essere in comunicazione coi celesti, e si prepararono al misfatto colla confessione e l’eucaristia; fallito il colpo e scoperti, sempre ridenti sostennero la morte, esacerbata quanto allora si sapeva, asserendo esservi consolati dagli angeli.
Michele Ghislieri alessandrino da Bosco, di religione rigorosa e d’integerrima vita, non andava mai che pedestre; come priore de’ Domenicani redense molti conventi dai debiti; inquisitore a Bergamo e a Como, affrontò ingiurie e minaccie[361]; il papa l’avea creduto [460] opportuno a reggere la diocesi di Mondovì, sperperata dalle guerre; fatto cardinale, non mutò tenore, nè quando venne assunto pontefice col nome di Pio V (1566).
La sua scelta spiaceva a non pochi, sì perchè creatura dei Caraffa, sì pel noto suo rigore; ma egli disse: — Faremo in modo che ai Romani rincresca più la nostra morte che la nostra elezione». Nella festa inaugurale solea gettarsi denaro alla popolaglia; indiscreta prodigalità, in cui vece Pio V fece distribuire quella somma a’ veramente poveri e vergognosi. I mille zecchini che sciupavansi in far cortesia agli ambasciadori, spedì ai conventi più bisognosi; e dettogli che molti [461] gliene faceano accusa, rispose: — Non me la farà Iddio». Regalò i cardinali, ma li pregò di consiglio e cooperazione nel restaurare la Chiesa, riconoscendo che il disastro di questa era venuto dai cattivi esempj del clero. Dicendo — Chi vuol governare altrui, cominci dal governare se stesso», restrinse le spese, mantenendosi da monaco; nè provava bene che nello stretto adempimento de’ proprj doveri, e nella fervorosa meditazione e adorazione, da cui si levava in lacrime. Solo per calde istanze conferì la sacra porpora a un suo pronipote, frate di gran virtù; un altro ch’era caduto ne’ pirati, riscattò a lieve prezzo, e fattolo comparire a Roma in arnese da schiavo, gli regalò un cavallo e cento scudi. Prodigò invece ai poveri, massime in un’epidemia allora gettatasi.
Siffatto genere di perfezione suol recare gran confidenza nella propria volontà, e pertinacia a domare l’altrui. Inaccessibile a passioni umane, qualora v’entrasse il concetto del dovere più non guardava a chi che fosse; onde i cardinali erano obbligati rammentargli ch’e’ non aveva a fare con angeli[362].
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Nelle cose di religione (diceva l’ambasciador veneto) egli pensa di saperne più degli altri, e di non aver bisogno di consiglio; e dove prende una deliberazione per bene, si ferma; nè ragion di Stato, nè qualsivoglia cosa è per rimoverlo; lascerebbe piuttosto rovinare il mondo che mutarsi d’opinione; anzi un cardinale diceva che, dov’egli si affissava a queste opinioni, per sostenerle sarebbe stato uomo da assalire solo un esercito intiero che fosse contro di lui, sperando che, avendo buona intenzione, Dio lo dovesse ajutare[363].
Imponeva rigori di disciplina, quasi fossero i primordj del cristianesimo; divieto ai medici di visitare tre volte [463] un infermo se non siasi confessato; chi profana la domenica, deva stare un giorno in piedi avanti alle porte della chiesa, colle mani legate al dosso; se ricade, sia fustigato per la città; alla terza volta, abbia la lingua forata e la galera. Espulse le meretrici, poi visto venirne di peggio, le raccolse in un solo quartiere; represse il lusso degli abiti; vietò d’andare alle osterie, salvo i forestieri, e di dare in feudo terre della Chiesa per qual si fosse titolo; andò scarso in dispense e indulgenze; proibì ai curati di scostarsi dalle parrocchie, ripristinò la regola nei conventi, restrinse la clausura delle monache; e secondato da vescovi zelanti migliorò grandemente la chiesa d’Italia, e pubblicò messale e breviario nuovo.
Poichè i Riformati, cresciuti in Francia e divenuti partito col nome di Ugonotti, rompevano a guerra civile, egli soccorse di truppe e denari la Lega che li guerreggiava; non per imposizione ma a preghiere ottenuti centomila ducati da Roma, altrettanti dagli ecclesiastici, e altrettanti dallo Stato, armò quattromila fanti e mille cavalli, da unire con altri mille fanti e duecento cavalli dati dal granduca; e scriveva al re Carlo IX: — Preghiamo il Dio degli eserciti a dare a vostra maestà vittoria compiuta su’ nemici, sperando che, se esso concede questo favore alla maestà vostra, ella se ne varrà gloriosamente per vendicare non solo le sue ingiurie, ma gl’interessi divini, e punire severamente gli orribili attentati, i sacrilegi abbominevoli commessi dagli Ugonotti, mostrandosi così giusto esecutore dei decreti di Dio».
Guidava quell’esercito italico il conte Sforza di Santa Fiora; e i ventisette vessilli, tolti da questo agli eretici, furono sospesi con gran pompa nella basilica Laterana il 1570. Al duca d’Alba che combatteva gli eretici in Fiandra, Pio V spedì il cappello benedetto; contro l’Inghilterra, [464] calda avversaria della santa Sede per opera della regina Elisabetta, avea permesso adoperare tutti gli averi della Chiesa, non eccettuati calici e croci; ed egli medesimo proponeasi d’andar a dirigere la guerra. A tali concetti lo portavano il suo secolo e il suo posto. Egli vedeasi preceduto da ducentoventinove papi, che il voto popolare e lo Spirito Santo aveano fatti capi della cristianità, mentre novatori di jeri, senza missione o miracoli, voleano scindere l’unità gloriosa. Quei papi aveano salvato l’incivilimento col congiungere tutti i Cristiani contro l’islam: ora i Turchi sovrastavano con nuova minaccia, e intanto i regni cristiani si straziavano l’un l’altro. Pio V operava dunque come un generale in guerra, dove il rigore è indispensabile per assicurare la vittoria; poi fissava i pensieri nel riparare all’irruzione dei Turchi; e in un secolo tanto scommesso potè armare un esercito cristiano, e a Lepanto riportare l’ultima vittoria che la cristianità unita ottenesse sopra la mezzaluna.
Pretendeva sostenere nel pieno vigore la bolla In cœna Domini, negando ai principi il diritto d’imporre nuove gravezze ai sudditi; e poichè i tempi e i regnanti più nol soffrivano, serie contraddizioni incontrò: lo stesso Filippo II rifiutava questa bolla, pretendeva necessario l’exequatur regio, ed ebbe a scrivergli non volesse porsi all’avventura di vedere quel che possa un re potente spinto all’estremo.
Saputo che d’eretici formicolava Mantova, vi spedì Camillo Campeggi, teologo del concilio, il quale carcerò e processò molti, e otto condannò a pubblica abjura in San Domenico. I costoro parenti cercarono levar rumore per impedire l’atto, ma non poterono: onde insidiarono la vita dell’inquisitore, e ferirono due frati la notte di Natale. Il duca Guglielmo, ch’erasi professato ligio all’inquisitore sino a fargli da sbirro se occorresse, [465] mandò severo bando contro que’ procaci, ma insieme chiese al papa rimovesse il Campeggi (1568). Il papa non v’assentì, imputò anzi que’ disordini alla tepidezza del duca, e spedì colà san Carlo col cardinale Commendone, per cui opera fu infervorata l’Inquisizione, e procedure gravissime e pubbliche abjure si compirono, non senza que’ supplizj che la libera America oggi ancora infligge ai Negri, e che l’alto concetto della santità della Chiesa ci spinge a deplorare. Anche quelli che di là eransi sparsi pel resto d’Italia perseguitò alacremente, finchè tutti gli ebbe in mano.
Tanta severità non diminuiva nel santo papa la mite semplicità. Con un compagno di fanciullezza avea piantato per trastullo una vigna, dicendo, — Del vino di questa nessun ne berrà». Or ecco comparirgli l’invecchiato compagno con un barlotto, e offrirglielo rammemorandogli quel detto, e — Allora vostra santità non era ancora infallibile». Viaggiando da Milano a Soncino, s’imbattè in un servitorello, che, compassionandone la stanchezza, gli fece deporre sul suo somiere la bisaccia, e gliela recò fin alla destinazione: Pio se ne sovvenne, e mandatolo a cercare, gli conferì un uffizio in palazzo.
Sentendosi morire, Pio visitò le sette chiese, baciò la scala santa per congedarsi da quei sacri luoghi; e la sincerità della sua devozione fece che, malgrado l’austerità, il popolo l’amasse vivo, morto lo venerasse: Bacone meravigliavasi che la Chiesa non noverasse fra i santi questo grand’uomo; e di fatti egli fu l’ultimo papa canonizzato.
Per la solita altalena gli fu dato successore Ugo Buoncompagni bolognese (1572), che volle chiamarsi Gregorio XIII, arrendevole e clemente fin a scapito della giustizia. Le inclinazioni sue mondane dovè reprimere a fronte dell’opinione morale, tanto che a fatica potè favorire un [466] proprio figliuolo, niente i nipoti; esatto del resto ai doveri di capo dei fedeli, ad elevar alla mitra i migliori, a diffondere l’istruzione. Secondo i decreti tridentini, mandò visitatori apostolici che chiedeano i conti delle chiese, de’ luoghi pii, delle fraternite; nel che trascendendo, eccitavano scontentezze. Spendendo quanto Leon X per riparare alle rotte cagionate da questo, fondò e dotò ben ventitre collegi, e all’apertura di quello di tutte le nazioni si pronunziarono discorsi in venticinque favelle; rifondò il Germanico, palestra di futuri atleti; uno pei Greci, che vi erano allevati al modo e col linguaggio e il rito patrio; uno Ungarico, uno Illirico a Loreto, uno pei Maroniti, uno per gl’Inglesi; rifabbricò il collegio Romano, istituì quel de’ neofiti, poi ne seminò Germania e Francia, e fin tre nel Giappone; erogò due milioni di scudi in sussidiare studenti, e un milione per monacare o maritare zitelle bisognose[364]. A suggerimento di lui, il cardinale Ferdinando Medici aprì stamperia di lingue orientali, spedì in Etiopia, ad Alessandria, in Antiochia eruditi viaggiatori, massime Giambattista e Girolamo Vecchietti fiorentini, che ne recarono codici.
Pio IV avea destinato una congregazione di cardinali a correggere il decreto di Graziano, nel quale si trovavano misti il falso col vero[365], canoni confusi o [467] mutili, erronea cronologia. Compito il lavoro sotto Gregorio XIII, uscì in magnifica edizione il Corpo del diritto canonico, migliorato assai, se non affatto scevro d’errori e di false decretali. Il primo Bollario comparve nel 1586, ove Laerzio Cherubini collocò cronologicamente le costituzioni pontifizie da Leone I a Sisto V; Angelo Maria suo figlio lo aumentò, poi Angelo Lantusca e Paolo di Roma: collezioni superate dal Bullarium Magnum del 1727 che va da Leon Magno fino a Benedetto XIII, e dalla collezione di Carlo Coquelines fatta a Roma dal 1789 al 48, a cui Andrea Barberi nel 1835 aggiunse le costituzioni fino a Pio VIII.
Gregorio XIII immortalò il suo pontificato colla riforma del calendario. È noto (vedi Appendice II) come Giulio Cesare lo correggesse, fissando l’equinozio di primavera al 25 marzo, e l’anno di trecensessantacinque giorni e sei ore, cioè undici minuti e dodici secondi più del vero; talchè ogni centonove anni l’equinozio s’anticipa d’un giorno. La Chiesa, che dovette occuparsene a motivo che la pasqua cade nel plenilunio succedente all’equinozio di primavera, al concilio Niceno del 325 trovò questo che rispondeva al 23 marzo, ma non si seppe indovinarne la ragione.
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Nel 1257 la precessione era di undici giorni; e già d’allora si parlò d’una riforma, spesso tentata, non mai riuscita; in tutti i concilj, e più nel Tridentino se ne discorse; e al fine Gregorio XIII, convocati a Roma i personaggi meglio versati in tali materie, e singolarmente il perugino Ignazio Danti domenicano e il gesuita Clavio di Bamberga, fece librare le varie proposizioni; ma la formola vera fu rinvenuta da Luigi Lilio medico calabrese, e compita da suo fratello Antonio. Il papa nel 1577 ne mandò copia a tutti i principi, le repubbliche, le accademie cattoliche; e avutane l’approvazione, nel 1582 pubblicò il nuovo calendario, sopprimendo dieci giorni fra il 5 e il 15 ottobre. L’anno vi è fissato di trecensessantacinque giorni, cinque ore, quarantanove minuti e dodici secondi; e che ogni quattro anni secolari, uno solo sia bisestile; correzione tanto prossima al vero (365g 5o 48m 55s), che solo dopo 4238 anni i minuti residui formeranno un giorno.
Per verità allora si sarebbe potuto, invece del ciclo di quattrocento anni, adottarne uno di trecencinquantacinque, che invece dell’errore di ventisette secondi l’avrebbe dato soltanto di un decimo di secondo sull’effettiva durata dell’anno: sarebbesi potuto concordare il cominciamento dell’anno col solstizio, e di ciascun mese coll’entrata del sole ne’ varj segni dello zodiaco, e assegnare trentun giorno a quelli fra l’equinozio di primavera e l’autunnale, trenta agli altri, e scemo il dicembre.
Più che questi difetti, spiaceva ai Protestanti che il papa comandasse, fosse anche in fatto di calendario; è un attentato alla libertà dei principi; è un invadere l’indipendenza de’ popoli; ne va dell’onore e della dignità dell’impero germanico; compromette le libertà gallicane; è un’ordita de’ Gesuiti; è un primo passo, che chi sa dove menerà! Com’è stile dell’opposizione parlamentare, se non altro voleasi mettervi qualche [469] restrizione; e i Grigioni proponevano di levare cinque giorni invece di dieci; il giusto mezzo! Di fatto furono lenti i principi ad accettarlo; solo nel 1699 vi s’acconciarono i Protestanti di Germania, nel 1700 l’Olanda, la Danimarca, la Svizzera, nel 1752 l’Inghilterra, nel seguente la Svezia, e non ancora i Russi nè i Greci, che perciò trovansi in ritardo di tredici giorni[366].
Poco poi, nella congregazione De propaganda fide, dovuta a Gregorio XV e a suo nipote Lodovico Lodovisi, tredici cardinali, tre prelati, un secretario furono destinati a diffondere la religione e dirigere i missionarj; che con portentosa attività dall’Alpi alle Ande, dal Tibet alla Scandinavia, dall’Irlanda alla Cina si spargono a convertire Protestanti, Maomettani, Buddisti, Nestoriani, Idolatri. Mentre la civiltà non portava ai selvaggi che l’acquavite per ubriacar sè, e le armi per uccider altri, i prodigi dell’apostolato, coll’eroismo più disinteressato e coi miracoli più insigni, si rinnovavano specialmente nelle missioni delle due Indie, sicchè da tante perdite in Europa i papi erano consolati ricevendo ambasciadori dall’Abissinia, dal Giappone, dalla Persia, dagli antichi regni d’Oriente e dai nuovi dell’America, dove s’istituivano vescovadi e conventi, scuole e spedali. Urbano VIII nel seminario Apostolico preparò un vivajo di missionarj e un rifugio pei prelati che la Riforma spogliava: il cardinale Antonio Barberino vi istituì dodici posti per Georgiani, Persi, Nestoriani, Giacobiti, [470] Melchiti, Copti, sette per Etiopi, sei per Indiani o Armeni.
I papi entrarono nella speranza d’acquistare il mondo slavo, quando perdeano il germanico. La Russia era per anco straniera all’Europa, e un viaggio in essa equiparavasi alla scoperta d’un paese nuovo. I granprincipi si lusingavano di farsi accettare nella società europea per mezzo dei papi, fin da quando al vescovo di Modena spedivano pregando inviasse missionarj a diffondere colà il vangelo: e Innocenzo IV ne spediva di fatto nel 1247, dando anche il titolo di re a Daniele Galitsky[367]. Ma quella nazione aderì allo scisma greco: poi quando cadde Costantinopoli, i granprincipi elevarono la pretensione di sottentrare ai Cesari, fomentata dai molti Greci che in Moscovia cercarono ricovero; e Geremia, patriarca esiliato di Costantinopoli, nell’istituire il patriarcato russo diceva: — L’antica Roma è caduta nell’eresia; la nuova sta in mano degli infedeli; vera Roma è Mosca».
Tommaso Paleologo, fratello dell’ultimo imperatore, da Corfù ove regnava era fuggito a Roma portandovi il teschio di sant’Andrea, e donandolo al pontefice, dal quale ebbe cortesie e onorificenze. Sua sorella Sofia principalmente si attirò stima e ammirazione per la bellezza non meno che per le virtù; e il cardinale Bessarione, convertitala alla fede romana, sperò per mezzo di lei acquistare alla Chiesa nostra la Russia, e per tal via estirpare lo scisma. Ivan III aveva allora redenta la Moscovia dalla servitù de’ Tatari: e un Giovanni Franzin monetiere italiano, che viveva a quella corte fingendosi di religione greca, si fece mediatore tra Paolo II e Ivan, il quale accolse le proposte nozze, per cui ereditava ragioni sull’impero d’Oriente: ma ricevuta ch’ebbe [471] la sposa, non che venire alla nostra fede, ne staccò anche Sofia.
Ventott’anni più tardi Alessandro VI ripigliò pratiche onde Ivan s’armasse contro i Turchi. Un capitano Paolo genovese offrì d’aprir nuova via alle Indie traverso la Russia, e Leon X profittò dell’occasione per ispacciare lettere a Basilio IV, esortandolo ad unire le due Chiese, dal che sperava non solo il recupero delle genti slave, ma un contrasto all’invasione musulmana. Confortato da buone risposte, recate da quel capitano, il papa spedì un vescovo a Basilio: e dopo molt’anni, pontificando Clemente VII, giunse a Roma un’ambasciata da Mosca, condotta da esso capitano Paolo; ammirò le pompe sacerdotali, ma ritornò disconchiusa. Carlo V imperatore indusse Giulio III a rannodare trattative con Ivan IV, che desiderava il titolo di re, e al quale il papa lo prometteva se tornasse all’unità cattolica, per fare di concerto guerra a Turchi e Tatari. S’avviarono dunque corrispondenze fra il Vaticano e il Kremlin, ma i principi d’Europa repugnavano dall’accomunare il titolo di maestà a cotesto capo di orde. Pio IV gli scrisse di nuovo perchè deputasse prelati al concilio di Trento; ma monsignor Giovanni Giraldo, portatore dello spaccio, fu attraversato prima dalle gelosie del re di Polonia, poi dalla renuenza dello czar. Questo, allorchè si trovò umiliato da Stefano Batori nuovo re di Polonia, interpose la mediazione della corte di Roma, la quale però avea cessato di confidare in lui, e gli spedì non un prelato, ma il gesuita Possevino, che ce ne lasciò una delle relazioni più interessanti.
Nato a Mantova nel 1534 di nobili poveri, era entrato educatore in casa del cardinale Ercole Gonzaga, presso cui conobbe quanto di meglio fioriva in Italia; e reciprocamente stimato, e costituito abate di Fossano, vedeva aprirsi avanti uno splendido avvenire, [472] al quale preferì lo zelo da Gesuita. E fu de’ più operosi in quell’operosissima società; adoprato in missioni scabrosissime, fondò collegi in Piemonte, in Savoja, in Francia; fu dal papa spedito in Ungheria, in Polonia, in Isvezia, nel che, oltre i servigi resi, giovò col far conoscere i paesi settentrionali. Nel cuore della vernata nel 1582 giunto a Mosca con cinquanta fra interpreti e dottori, lungamente ebbe a lottare colle astuzie e colle brutalità di Ivan IV, che al fasto degl’imperatori bisantini accoppiava la fierezza d’un barbaro: potè rimetterlo in pace col re di Polonia, e menare a Roma una deputazione di lui per trattare dell’unione. Ma il Possevino, la cui relazione è contata anche dai Russi come capitale documento sul loro paese, s’avvide non potere nulla sperarsi fra tanta ignorante docilità del vulgo, tanta presunzione de’ bojari e del czar. E così avvenne[368].
Tanto erasi ravvivata la santa attività dei pontefici! Poi Sisto V, sebbene più gran principe che gran pontefice, fin settantadue bolle pubblicò, tutto zelo per l’interezza della fede e del costume; fulminò gli adulteri, le meretrici, l’astrologia giudiziaria; sull’usura e sui contratti di società diede le norme che regolano ancora i [473] canonisti, prefisse a settanta il numero de’ cardinali, e li voleva irreprovevoli.
Grandi uomini illustrarono allora la porpora e la mitra; ed oltre i già menzionati (p. 443), fra gli italiani menzioneremo il Rusticucci, uomo perspicace quanto retto; il Salviati, vivo tuttora nella lode de’ Bolognesi; il Sartorio, severissimo e degno di star capo dell’Inquisizione; Gabriele Paleotto bolognese, versatissimo nelle leggi e ne’ canoni, sicchè a Trento era consultato continuamente; in concistoro si oppose alla tassa che voleasi levare per ajutare i Cattolici nelle guerre civili in Francia; poi destinato arcivescovo a Bologna, adoprò la vita in istituirvi seminarj, congregazioni, confraternite, raccolse uomini sapienti, quali l’Aldrovandi, il Sigonio, il Pendusio[369]. Il cardinale Lorenzo Campeggi, arcivescovo della stessa chiesa, fu adoperato in affari difficilissimi, e massime in quello del divorzio di Enrico VIII, e nella dieta di Augusta. Altrettanto fu di suo nipote cardinale Tommaso, che nell’opera De auctoritate ss. conciliorum mostra la necessaria dipendenza di questi dal papa, salvo i casi dati. Clemente Dolera genovese, vescovo di Foligno, combattè gli errori correnti, e lasciò un Compendium institutionum theologicarum, molto reputato. Tolomeo Gallio di Como aperse alla sua patria inesausti tesori di beneficenza, fra i quali un collegio, dove i fanciulli della diocesi dovessero educarsi, non in grammatiche solo e retoriche, ma nelle arti e ne’ mestieri; scuole tecniche, quali il nostro secolo le proclama. Fabio Chigi, legato pontifizio per la pace di Westfalia, poi papa, teneva sempre una bara sotto al letto e un teschio sulla mensa non imbandita che di radici. Il beato Paolo d’Arezzo teatino, vescovo di Piacenza che trovò sviatissima, poi di Napoli e cardinale, [474] cooperò con san Carlo. Di Annibale da Capua arcivescovo di Napoli servono ancora di modello le visite diocesane. Giampietro Maffei bergamasco scrisse storie latine di sapore liviano. Tra gli auditori di Rota si nominano tuttora il cardinal Mantica friulano, le cui opere fecero testo nella scuola e nel tribunale; l’Arrigone, men dato ai libri che agli affari, tra cui conservossi intemerato. Serafino Olivieri, le cui decisioni «portano tanto vantaggio sopra l’altre di tutti i comuni fôri, come egli lo godeva sopra gli altri auditori del proprio suo tribunale», dice il cardinale Bentivoglio. Il quale aggiunge che «benchè l’Arrigone (milanese nato a Roma) non eguagliasse Mantica nello strepito esteriore della stampa, non gli cedeva però nella qualità più essenziale della dottrina, e lo superava d’assai nell’abilità dei maneggi».
Feliciano Scosta da Capitone servita adoprò assai contro gli Ugonotti; poi ad istanza di san Carlo e per autorità di san Pio V promosso arcivescovo d’Avignone, salvò questa città dalle dottrine e dalle armi dei Protestanti (1511-77). Lungo sarebbe ripetere quelli che nelle nunziature furono spediti a sfidare o dissipare le procelle di quel tempo. Tale corredo i pontefici s’erano messo attorno, invece dei poeti e dei soldati d’un secolo prima.
Il cardinale Carlo Caraffa, nunzio apostolico in Germania, scrisse la Germania sacra restaurata, ove divisa i progressi della Riforma ne’ paesi tedeschi, e le agitazioni che ne seguirono fino alla guerra dei Trent’anni. Giovenale Ancina di Fossano, amico a Roma de’ gran santi e de’ gran dotti, si sottrasse alle dignità per rendersi oratoriano; e cansato più volte l’episcopato, al fine fu costretto accettare il povero e pericoloso di Saluzzo, ove potè mostrare zelo e dottrina, finchè il veleno gli accorciò la vita. La chiesa di Gubbio fu riformata [475] da Federico Fregoso genovese, dottissimo in greco ed ebraico, e fautore di quanti vi si applicavano; ravvolto nelle vicende della famiglia e della patria sua, e nelle guerre contro i Barbareschi, adoprato in gravissimi negozj, caro ai migliori d’allora, desiderato dai Protestanti che il finsero aderente alle loro opinioni[370]. Luigi Lippomano vescovo di Padova, reduce di Germania nel 1553, stampò Confirmazione e stabilimento di tutti li dogmi catolici con la subversione di tutti i fondamenti, motivi e ragioni delli moderni Eretici; raccolse con critica inusata fin allora le vite dei santi fino ai tempi di Bernardo, conservando così molti preziosi racconti di greci e latini. Lodovico Beccadelli, insigne letterato, amico de’ valenti, e massime del Bembo, del Contarini, del Polo, dei quali scrisse la vita, segretario al concilio di Trento, amministratore di diversi vescovadi, poi vescovo egli stesso di Ragusi, morì in odore di santità prevosto di Prato. Carlo Bescapè barnabita milanese, usato da san Carlo in molti maneggi, poi vescovo di Novara ove fondò il seminario, scrisse molte opere di diritto ecclesiastico e storia.
Quanto il sentimento religioso si fosse ravvivato, lo indicano i tanti miracoli allora proclamati, e le frequenti apparizioni, alla cui storia abbisogna il prolegomeno della fede. La beata Vergine appare a Caravaggio, ai Monti in Roma, a Narni, a Todi, a San Severino, nella val San Bernardo nel Savonese; sul monte Pitone a Brescia ordina a un pastore di fabbricarvi una chiesa. L’effigie di Subiaco suda: davanti al santo Crocifisso di Como si spezzano le catene opposte alla processione. Una Madonna piange a Treviglio (tom. IX, pag. 382); una parla in San Silvestro; una in Sant’Eugenio di Concorezzo dà segni miracolosi; una è prodigiosamente [476] scoperta a Portovenere. Nel 1539 a Castiglione delle Stiviere in casa Bonetti spaccandosi un grosso noce, se ne staccò una grossa scheggia, sulla quale trovossi finamente intagliata un’immagine della Vergine col Bambino: la vista recuperata dalla padrona di casa fece prestarle venerazione, e collocatala ne’ Cappuccini, si illustrò per grazie concedute. Un soldato a Lucca nel 1588, perdendo al giuoco, avventa bestemmiando i dadi a una Madonna, ma in quell’atto gli si rompe il braccio; pel qual miracolo i doni fioccarono, e dugencinquanta processioni in mezz’anno vi accorsero, dalle cui oblazioni si fabbricò la Madonna de’ miracoli. Nel 1503, assediando gli Spagnuoli Oria in Terra d’Otranto, san Barsanofio patrono di quella città apparve in forma di vecchio con abito pontificale, e ordinò ai nemici non molestassero più quella terra, lo che fecero, accettando a dedizione i Francesi.
Un Gesuita nel 1569 sotto il nome di Maria associava i giovani studenti, e da Napoli a Roma, Genova, Perugia quella congregazione si diffuse tanto, che già nell’84 ogni città la possedeva, e Gregorio XIII l’arricchiva di indulgenze. Dalle scuole trapassarono siffatte unioni di spirito alle varie condizioni, artigiani e nobili, mercadanti e magistrati, tutti invocanti Maria in concordia di formole. A Roma s’istituì l’oratorio del Divino Amore, al quale appartenevano Contarini, Sadoleto, Ghiberti, Caraffa, che poi furono cardinali, e Gaetano da Tiene e il Lippomano. In Firenze Ippolito Galantino setajuolo, fin dall’adolescenza applicato ad amare e soccorrere i poveri, col sussidio del cardinale Alessandro Medici fondava la congregazione de’ Vanchetoni o della Dottrina cristiana, che dura fin oggi principalmente a vantaggio de’ lavoranti in seta. Ivi stesso, a persuasione di frate Alberto Leoni, fondavasi una pia casa de’ catecumeni. In Milano un prete Castellini da Castello formò [477] la compagnia della Riforma cristiana, che in somma era quella del catechismo, e che poi prese il nome di Servi de’ puttini. Frate Buono da Cremona vi introdusse la devozione delle quarant’ore, il sonar l’agonia alle ventun’ore, e un asilo per le pentite a Santa Valeria. Potremmo aggiungere le congregazioni del Buon Gesù, della Madre di Dio, della Buona Morte, e d’altri nomi.
I frati aveano cessato la missione politica sostenuta nel medio evo, e al più per obbedienza andavano ambasciadori o pacieri; ma Ordini nuovi o antichi rigenerati tendeano a rintegrare il sentimento religioso, e ringiovanire il monachismo quando i Protestanti lo abolivano. Già prima san Francesco da Paola calabrese avea istituiti i Minimi, che in Ispagna furono detti padri della Vittoria perchè alla loro intercessione s’attribuirono i trionfi sopra i Mori; e in Francia Boni uomini, perchè così era indicato il loro fondatore alla corte di Luigi XI. I Francescani ebbero le varie riforme dette degli Scalzi, de’ Minori conventuali, della stretta Osservanza, poi de’ Cappuccini. Questi impetrarono di venire esentati dalla licenza di poter possedere, che il concilio di Trento avea data anche agli Ordini mendicanti; e come i Gesuiti per la società colta, così essi erano fatti pel vulgo, tra cui si diffondeano a consigliare e predicare, fin triviali e buffi; ma dal deriderli di ciò e delle assurde prove del loro noviziato e delle minuziose osservanze si asterrà chi non dimentichi come mostraronsi eroi nelle pesti ricorrenti allora, e sempre furono spruzzati dal sangue de’ suppliziati. Ambrogio Stampa-Soncino milanese, genero di Anton da Leyva, abbandonò le dignità per vestirsi di quell’abito: udendo per le vie di Milano un che bestemmiava, prese a correggerlo, e percosso da questo con uno schiaffo, gli offrì l’altra guancia dicendo, — Batti, ma cessa di bestemmiare»; col quale atto corresse il violento: andò poi apostolo [478] fra’ Barbareschi, convertendo e riscattando, ove morì il 1601. Alfonso III duca d’Este a trentott’anni depone il dominio, e si fa cappuccino a Merano del Tirolo, dove assiste appestati, converte eretici. Giuseppe da Leonessa, mandato missionario in Turchia, a Pera catechizza i galeotti, onde i Turchi lo appiccano per un piede, poi lo esigliano: roso da un orribile cancro, e dovendosi operarlo, non volle esser legato, dicendo, — Datemi il Crocifisso, e mi terrà immobile più di qualunque legame». Lorenzo da Brindisi, professato a Verona, a Padova si diede a migliorare i costumi dei giovani studenti; chiamato a Roma per procurare la conversione degli Ebrei, discuteva co’ rabbini senza iracondia nè personalità, invitandoli ad esaminare il testo biblico; poi tolse ad esortare i principi tedeschi contro Maometto III, e a capo dell’esercito cavalcò colla croce in mano nella battaglia dell’11 ottobre 1611, che volle attribuirsi a miracolo di esso; indi fu adoperato a stringere leghe e menare ambasciate nella guerra dei Trent’anni.
Già mentovammo Sisto da Siena ebreo, che di buon’ora guadagnato alla Chiesa e vestito francescano, predicò con molto grido e frutto, ma ne prese superbia e cadde in errori tali che fu condannato al fuoco dal Sant’Uffizio. Il Ghislieri, commiserando tanta gioventù e tanta scienza, si propose di convertirlo, e malgrado il puntiglio ch’e’ metteva nel non recedere dalla propria opinione, vi riuscì, ne ottenne la grazia da Giulio III, e messolo ne’ Domenicani, l’adoprò utilmente sì a predicare, sì a convertire ebrei, de’ quali un gran numero s’era raccolto a Cremona, e divulgava libri di loro fede. Sisto sceverò le opere utili, come il Talmud e altre, da quelle che non poteano recar giovamento di sorta, e le mandò alle fiamme; e nella sua Biblioteca sacra trattò de’ libri sacri, de’ loro interpreti, e degli errori [479] che ne derivarono. Di quarantanove anni morì il 1569 a Genova.
Paolo Giustiniani avea riformato i Camaldolesi colla nuova congregazione di Monte Corona detta degli Eremiti; come fuor d’Italia santa Teresa riformò le Carmelitane. Francesco di Sales fondò le Visitandine; Giuseppe Calasanzio le Scuole pie; Giovanni di Dio i Fate-bene-fratelli; Luigia di Marillac le Suore della carità, propagatesi ben presto in Italia. Frà Pietro spagnuolo, carmelitano scalzo, predicando a Napoli, raccoglie quattordicimila ducentottantacinque reali, coi quali compra il palazzo e i giardini del duca di Nocera, e li trasforma in chiesa e monastero della Madre di Dio; mentre le Teresiane scalze vi compravano per sedicimila ducati il palazzo del principe di Tarsia, e ne faceano il loro monastero di San Giuseppe. Il palazzo Caracciolo divenne ospedale de’ Frati della carità; il Seriprando, chiesa de’ Filippini la più sontuosa forse di Napoli; i Camaldolesi vi occuparono quella deliziosa altura, i Cappuccini la Concezione, i Domenicani la Sanità, i Paolotti la Stella.
Francesco Adorno genovese fu il primo rettore del collegio gesuitico di Milano, provinciale di Lombardia, e direttore spirituale di san Carlo. Nel 1581 diventò loro generale il padre Aquaviva, dell’insigne famiglia dei duchi d’Atri, e per trentaquattro anni zelò la gloria dell’Ordine suo, intorno al quale e alla religione stese molti scritti: a lui sono attribuiti i Monita secreta, libercolo assurdo, riconosciuto falso perfin in un libro ostilissimo, stampato poco poi sui Gesuiti moderni[371].
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Da don Ferrante, terzo principe di Castiglione delle Stiviere, prode condottiero di Filippo II contro gl’inglesi e i Mori, nacque Luigi Gonzaga, che lasciate le grandezze per farsi gesuita, ne’ brevissimi anni di vita si rese modello della perfezione interiore, e insieme della carità, per la quale egli principe andava accattando per Roma di che soccorrere ai poveri infermi. Avea avuto direttore spirituale Girolamo Piatti, gesuita milanese di straordinaria virtù, che molti trasse alla vita monastica coll’Ottimo stato di vita del religioso.
La Compagnia fu illustrata pure dal polacco Stanislao Kostka, che moriva a Roma il 1568; e da Francesco Borgia duca di Candia, vicerè di Catalogna, grand’amico del poeta Garcilaso de la Vega, e che venuto a Roma, ne fuggì per paura che Giulio III il facesse cardinale. Il padre Pietro Venosta valtellinese, spedito da sant’Ignazio a ristabilire la religione in Sicilia, vi fu ammazzato nel 1564. A Napoli il padre Salmerone predicava per le piazze, e andava nelle pubbliche librerie cercando i cattivi libri da bruciare. Il padre Palmia convertì molti studenti a Padova, fra cui tre fratelli Gagliardi e Antonio Possevino, divenuti luminari della Chiesa. Achille Gagliardi, le cui opere spirituali vorrebbero mettersi a fianco all’Imitazione di Cristo, con zelo e abilità diresse la gioventù nei collegi di Torino, di Milano, di [481] Venezia, di Brescia; e già più che sessagenario faceva sin tre prediche al giorno. Il padre Landini apostolò la Lunigiana, la Garfagnana, il Lucchese, Spoleto, Modena, Reggio, ove trovava molto luteranismo, «ammorbatine perfino de’ sacerdoti, e professarlo dove più e dove meno alla scoperta» (Bartoli); rabbonacciò ire, principalmente a Careggio in Garfagnana; poi passò con egual frutto nella Capraja e nella Corsica. Bernardino Realino da Carpi, caro alle Corti per bei modi, ai dotti per scienza filologica e legale, lasciò gl’impieghi e gli onori per entrare gesuita, e colla dolcezza, la pazienza, la carità si attirò la pubblica venerazione.
Come gli altri Ordini nuovi, essi vigilavano sui costumi, e fra il resto abbiamo una memoria che i Gesuiti di Parma sporgeano a Pierluigi Farnese contro la immoralità propagantesi «in disonore di Dio, in dannazione delle anime, e molte volte in perdizione di molti corpi e facultadi». Lamentano dunque il poco timor di Dio, manifestato nelle chiese, dove si conversa e negozia e passeggia; usuali le bestemmie, e il lavorare ne’ dì festivi; le bettole infestate da carte e dadi, donde sciupamento di denari e frequenti risse; molti concubinarj anche ecclesiastici, e adulteri pubblici: i ragazzi fanno alle sassate per le strade; altri furfantoni gagliardi oziano per città e sui sagrati, giocando, strepitando, bestemmiando; numerose e sfacciate le meretrici. Domandano pure si temperi il rigore delle pene statutarie, che usurpano denari e tempo ai poveri; si assistano meglio i prigionieri e giustiziati; si prevengano i contratti usurarj[372].
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E in ogni Ordine ci si presentano numerosi operaj della vigna di Cristo, che, nella educatrice vigilanza delle contese, nelle maschie gioje della persecuzione, nella dignità del pericolo permanente, divennero santi. Ma al clero secolare specialmente facea mestieri di riforma. Gaetano Tiene nobile veneto, buona e placida creatura, nel pregare piangeva, e desiderava «riformare il mondo, ma senza che il mondo s’accorgesse di lui». Come l’angelo all’aquila, s’accordò coll’impetuoso Gian Pietro Caraffa vescovo di Chieti, che fu poi Paolo IV, e che, visto come l’abbandonarsi al cuor suo non gli avesse che cresciuto inquietudini, cercò la pace in seno di Dio; e sul monte Pincio, or così ridente e popoloso, allora deserto, nel 1524 istituirono i cherici regolari Teatini, preti con voti monastici, ma senza regole strette affine di liberamente attendere alla predicazione, ai sacramenti, ai malati, ai prigionieri e giustiziati, rendere al culto il lustro antico, indurre frequenza ai sacramenti, predicare senza superstizioni, convertire eretici; professando la povertà eppur senza mendicare, aspettando la limosina dalla mano che veste i gigli de’ campi. Nel sacco di Roma spoglio e torturato, Gaetano ne partì co’ suoi senz’altro che il breviario, e a Venezia furono raccolti in San Nicola di Tolentino. Gran luce ne fu ben tosto Andrea Avellino, il quale nel far l’avvocato avendo commessa una bugia, se ne pentì a segno, che lasciò il mondo. Incaricato di metter riparo agli scandali delle monache di Sant’Arcangelo in Napoli, s’inimicò un giovinastro, che lo fece pugnalare; guarito dalle ferite, si rese teatino, e questa religione andò a fondare a Milano, a Piacenza, a Parma. Vecchissimo, nel cominciare [483] la messa cascò d’apoplessia. Il suo scolaro Lorenzo Scupoli di Otranto fu autore del Combattimento spirituale (1608), che Francesco di Sales tenea sempre a lato.
A Milano sperperata dalle guerre, Anton Maria Zaccaria da Cremona, Bartolomeo Ferrari e Giacomo Morigia patrizj milanesi 1533 istituirono i Barnabiti, per far missioni, dirigere collegi, sussidiare i vescovi, con voto di non brigare cariche nella loro congregazione, nè fuori di essa accettarne se non con dispensa del pontefice. Agostino Tornielli novarese ricusò molti vescovadi per attendere alla devozione claustrale, nella quale compose gli Annali sacri e profani dalla creazione fino alla redenzione, primo buon tentativo a chiarire le difficoltà de’ sacri libri, e serve d’introduzione agli Annali del Baronio.
Domenico Sauli, letterato, filosofo, storico, politico eppur negoziante, da Genova si mutò a Milano, dove nacque Alessandro, che entrato barnabita, fu inviato a Pavia, dov’egli fu de’ primi e meglio meriti nel riformare l’insegnamento filosofico e teologico. Iniziati gli allievi nel greco, al qual uopo compilò una grammatica, mettevali alla Logica d’Aristotele, il libro più opportuno, a sentir mio, per restaurare ciò che dalle rivoluzioni è più guastato, il buon senso. Uno scolaro Alessandro Salvi leggeva il testo, uno volgevalo in latino; il maestro snodava i principi, evitando l’impaccio dei chiosatori. Alla metafisica univa lo studio della geometria. Ai teologi proponeva la Somma del maggior filosofo del medioevo, la quale egli aveva talmente digerita che in Pavia si diceva, — Se si perdesse la Somma di san Tommaso, donn’Alessandro potrebbe dettarla per intero». Sull’insegnamento del diritto, sgombero anch’esso dai chiosatori, si consultò con Marcantonio Cucchi, il quale ivi insegnava i canoni; e il ricambiò con [484] pareri per le lodate sue Istituzioni; e, come dice il Gerdil, aperse la mente degli studiosi disponendoli a raccogliere tutte le forze razionali nella contemplazione di un solo oggetto, principalmente coll’avvezzarli alle matematiche[373]. Collaborò con san Carlo nel riformare la diocesi milanese; poi fu apostolo della Corsica, dove con provvidente assiduità introdusse i sinodi diocesani, e morì nel 1592 vescovo di Pavia.
Filippo Neri fiorentino (1519-95), all’erudizione congiungendo quell’umiltà che di rado le si concilia, cercava il disprezzo con tant’arte, con quanta altri l’ammirazione. Padre spirituale de’ più gran santi, quali gli operosi Carlo Borromeo e Francesco di Sales, e il contemplativo Felice da Cantalíce; amico de’ maggiori studiosi, quali il Tarugi insigne predicatore poi cardinale, Silvio Antoniano poeta che scriveva i brevi papali, il medico Michele Mercati, Filippo adagiavasi fra i cenciosi mendicanti sotto ai portici di San Pietro, come ai banchi de’ cambisti o ai tribunali o nei palazzi, colla soavità inalterabile e colle arguzie fiorentinesche insinuando la carità, persuadendo la giustizia, campando la vacillante virtù; indulgente nelle cose accessorie, quanto irremovibile nelle essenziali, al confessionario dirigeva con mirabile perspicacia le coscienze; facendosi un deserto della popolosa Roma, nottetempo visitava le sette chiese, poi ritiravasi nel cimitero di San Calisto e nelle catacombe di San Sebastiano. Con dilettazione venerabonda si va ancora a sedere sopra un amenissimo poggetto del Gianicolo, donde si domina tutta Roma, e ch’egli avea ridotto ad anfiteatro, ove all’ombra di begli alberi facea recitare ai giovinetti commediole volgenti alla pietà; vera ribenedizione dell’arte e del teatro[374].
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Col Baronio, ch’egli eccitò al gigantesco lavoro degli Annali, e con altre persone di merito, nel 1564 istituì la comunità de’ Preti dell’Oratorio, dove accoglieva la gioventù a devozioni piacevoli, a studj liberali, a una pietà affabile come la sua. Gli Oratoriani possono quando vogliano tornare nel mondo, non avendo altre regole che i canoni, altri voti che il battesimo e il sacerdozio, altri legami che quelli della carità.
San Filippo con Persiano Rosa aprì l’ospizio di Santa Trinità per quei che pellegrinavano alle soglie degli Apostoli; e quattrocenquarantaquattromila cinquecento pellegrini, venticinquemila donne vi furono ospitate per tre giorni in quel giubileo del 1600, pel quale vuolsi concorressero tre milioni di devoti a Roma, e dove [486] principi e cardinali faceano le stazioni indistinti dal vulgo; e si moltiplicarono le conversioni. Tommaso Bozio da Gubbio, gran conoscitore di lingue e di storia, da san Filippo fu persuaso a privarsi della cosa che più tenea cara, i suoi libri, e destinato per umiltà a insegnare la grammatichetta: vestitosi oratoriano, scrisse opere di grand’erudizione, e principalmente la confutazione della politica del Machiavelli[375]; e quei che venivano a riverirlo stupivano che un sì piccol uomo sapesse tanto.
Allora preti in cotta e berrettino si rividero in pulpito, ove dianzi non montavano che tonache e cappucci: e se le esuberanti austerità, le interminabili salmodie, le prostrazioni ripetute convenivano in secoli rigidi, a sensi bisognosi di scosse violente, allora nella ricca varietà de’ sacrifizj si avvisò piuttosto al raccoglimento dell’animo, alla mortificazione del cuore, all’educazione dell’intelletto, ad acquistar dominio sopra la carne mediante il vigore dello spirito.
Fra le guerre di quel secolo era cresciuta deh quanto! la miseria; e il chiudersi di tanti conventi tolse a un’infinità d’uomini non meno il pane spirituale che quello del corpo; ben avea dunque ove esercitarsi la carità cattolica. Girolamo Miani, patrizio veneto, difesa contro i Tedeschi la fortezza di Castelnuovo di Piave dai collegati di Cambrai, e cadutovi prigioniero, tornò sopra se stesso come Ignazio infermo: chè il letto e la prigione sono tremende e fruttifere occasioni a rimeditare il passato e proporre per l’avvenire. Votatosi alla beata Vergine di Treviso e miracolosamente liberato, raduna gli orfani per le isole venete rimasti da quelle guerre [487] e dalla fame del 1528, ove si mangiavano sin gli animali più schifi; e deposta la toga senatoria e vestito da povero, pertutto fonda ospizj a ricovero ed istruzione di quelli e ad emenda delle traviate: assiste in Venezia gl’Incurabili, a cui faticarono pure sant’Ignazio, san Gaetano, il Saverio: fa istituire o sistemare gli ospedali di Verona, Padova, Brescia, Bergamo: poi con amici nel 1531 fonda a Somasca altri cherici regolari, diretti ad istruire nelle lettere, ne’ mestieri, nella virtù. Sul Bergamasco lasciavansi in piedi le biade per mancanza di braccia; ed egli raccoglie falci, e mena attorno mietitori, che invece delle villotte, cantano orazioni.
De’ primi a seguirlo fu Primo Conti milanese, valentissimo letterato, che stabilì andare a riparo dell’eresia in Germania. Lusingandosi di convertire Erasmo, che pareagli propendere a quegli errori, gli scrisse firmandosi Primus comes mediolanensis. Quel dotto olandese lo credette qualche gran principe, e gli si fece incontro tutt’in cerimonia; poi vistolo arrivare in umile arnese, senza tampoco uno staffiere, rise dell’inganno, ma protestò veder ben più volentieri sì gran letterato che non qualsifosse barbassoro. Il Conti non trasse gran pro dal tepido Erasmo, ma giovò ad altri. Rimpatriato, e a Como e a Milano lasciavasi a lui la scelta de’ professori di belle lettere; i conventi faceano gara per averlo lettore di teologia e di lingue orientali; fu adoprato a preparare materie pel concilio di Trento, ove assistè poi come teologo del cardinale Visconti vescovo di Ventimiglia; il dotto vescovo di Como Gianantonio Volpi conosciutolo colà, se ne valse nella propria diocesi, e singolarmente a combattere gli eretici in Valtellina[376].
Ai Somaschi per qualche tempo unita, fu poi distinta la congregazione della Dottrina Cristiana, istituita nel [488] da Cesare de Bussi, milanese nato in Francia, e rivolta a catechizzare i poveri.
Camillo de Lellis da Bacchiano negli Abruzzi, biscazzato ogni aver suo, è ridotto a far da manuale in una fabbrica de’ Cappuccini: ivi tocco nel cuore da Dio, si veste frate: tormentato da un ulcere alla gamba, sente quanto mal giovi agl’infermi la prezzolata assistenza, e nel 1586 fonda i Crociferi che li servano come servirebbero a Cristo stesso.
Dopo la peste del 1528 una società a Cremona fondò un ritiro per orfani d’ambo i sessi, che lavorassero seta, bambage, lana; la compagnia di San Vincenzo vi aprì un conservatorio per vedove o mal maritate, uno per le convertite; una casa di soccorso per le pericolanti; un ricovero pei poveri, al quale il medico Giorgio Fundulo aggiunse un legato onde esimere i mezzajuoli dalle esecuzioni per debiti in causa d’affitto; nel 62 l’ospedale di Sant’Alessio per gl’incurabili, nel 64 uno pei poveri vergognosi. E in quella città il Campi ricorda una Margherita Spineta, terziaria carmelitana, che per trentacinque anni si tenne rinchiusa in una cameretta presso Sant’Antonio: accenna pure l’affollatissimo concorso al giubileo del 1575, venendovi tutti i diocesani in processione vestiti di sacco, e la gara di alloggiarli nelle case: la notte principalmente vedeansi queste lunghe schiere d’uomini e donne andar coi lumi accesi e scalzi anche di stretto verno, flagellandosi e cantando salmi e litanie.
Veronica Franco, che a Venezia teneva convegni rinomati con musica, versi, amori, e stampò lettere e rime[377], contrita aprì per le sue pari il ricovero di Santa Maria del Soccorso; Francesca Longa a Napoli, il famoso ospedale degli incurabili; Mariola Negra di [489] Genova, un reclusorio per le femmine disperse, un altro per le pentite, e intendeva porne uno per ciascun sestiere della città. E Genova, oltre Caterina Fieschi e altri beati, ricorda Battista Interiano che all’Acquasola pose un conservatorio di zitelle che si educassero a lavori femminili; Vittoria Fornari, che vedovata a venticinque anni, votò a Maria i suoi sei figliuoli, e fatta povera per amor di quella, fondò le Annunziate, che sol tre volte l’anno riceveano al parlatorio i più stretti parenti; la venerabile Battista Vernazza, autrice di trattati e poesie spirituali; Agostino Adorno, che con Francesco Caracciolo istituì i Cherici regolari minori, e la devozione dell’Adorazione perpetua al Sacramento. Nè dimenticheremo quei diciotto di casa Giustiniani, che côlti dai Turchi, sostennero il martirio piuttosto che aderire al corano.
In quella città si estesero le confraternite fin a ventuna, dette casaccie per le grandi case ove si radunavano, e che si corruppero poi in gare di lusso e di esercizj atletici. Tre sorelle Gonzaga, nipoti di san Luigi, fondarono a Castiglione delle Stiviere le Vergini di Gesù, nobili, senza clausura, e dedite all’istruzione, per la quale furono risparmiate fin da Giuseppe II e da Napoleone.
Le primarie famiglie fiorentine crebbero lor nobiltà con qualche santo. Maddalena de’ Pazzi e de’ Buondelmonti, sin da fanciulla dilettandosi alla gioja dell’obbedienza, divenne miracolo della perfezione spirituale e della contemplazione delle cose eterne, accoppiate a [490] intensa carità del prossimo. Lorenza Strozzi di Capalle, vestitasi domenicana, molto fu in relazione coll’Ochino e col Vermiglio, la loro apostasia pianse a calde lacrime, e tutta infervorata d’amor divino, compose inni per ciascuna solennità dell’anno, cantati lungamente e tradotti anche in francese e messi in musica. Caterina de’ Ricci, sottrattasi alle lusinghe preparatele dalla domestica lautezza, sacrò a Dio una vita tutta d’amore e di dolori, provata dalle contraddizioni e dalla calunnia, poi dalle lodi e dall’ammirazione: e come la beata Michelina a Giotto, santa Umiltà a Bufalmacco, santa Caterina da Siena al Vanni e al Pacchiarotto, così la Ricci divenne soggetto di pitture al Parenti e al Tosini in Prato.
Suor Angela Merigi di Desenzano, terziaria di san Francesco, a ventisei anni palesò averle Dio ordinato una nuova società, e trovate settantatre compagne di primarie case bresciane, nel 1515 le pose in protezione di sant’Orsola. Non regole austere, non contemplazione, ma presa a modello Marta la sollecita, rimanevano in grembo alle famiglie, intente a scoprire gl’infelici per soccorrerli, visitare spedali e malati, educar bambine. Le fondatrici s’accorsero d’operare una rivoluzione, e dicevano: — Bisogna innovare il mondo corrotto per mezzo della gioventù; le fanciulle riformeranno le famiglie, le famiglie le provincie, e le provincie il mondo». Quest’istituzione di carità e beneficenza esalava tale fragranza di santità, che san Carlo accolse ben quattrocento suore nella sua diocesi: poi diffuse in Europa non solo, ma oltre l’Atlantico, coi miracoli della carità faceano stupire i selvaggi del Canadà, ove predicavano il vangelo del pari che nelle capitali della Francia e dell’Inghilterra: e pur testè faceano invidiare dagli Inglesi i soccorsi ch’elle prestavano ai guerreggianti nella Crimea.
E la carità trovò un magnanimo campione in Vincenzo di Paolo, popolano francese, il cui nome ricorda [491] quanto essa ha di sacro, di spontaneo, di squisito. I suoi Preti della Missione, istituiti nel 1625, ben presto si diffusero nella Corsica, straziata da efferate vendette; e nell’Italia, ove il Piemonte, il Genovesato, la Romagna offrivano tanta materia al loro zelo. I pastori che guidano gli armenti per la campagna di Roma e nelle valli dell’Appennino, mesi e mesi restavano senza sacramenti nè predicazione, ignorando fin le cardinali verità della fede; e i Missionarj li raccoglievano la sera per ammaestrarli nelle stalle o a cielo aperto; e la festa li chiamavano attorno a qualche tabernacolo per rigenerarli coi santi riti[378].
Allora si pubblicarono libri di più regolata devozione, e legendarj di critica migliorata; e quelli di Pietro Natali vescovo d’Equilio, del milanese Bonino Mombrizio, di Luigi Lippomano vescovo di Verona furono sorpassati da Lorenzo Surio, poi dai Bollandisti.
La riforma doveva insinuarsi in tutta la vita, e fu grand’arte l’impossessarsi dell’educazione, come fecero i Barnabiti, i Somaschi, gli Scolopj, e maggiormente i Gesuiti. Del veder a questi affidata dappertutto la gioventù [492] non sapeano darsi pace i letterati; e Giambattista Giraldi, il marzo 1569 scrivendo a Pier Vettori, riprovava Emanuele Filiberto che nell’Università di Torino aveva abolito la cattedra d’eloquenza e poesia, lasciando ne dessero lezione i Gesuiti, così infondendo (diceva egli) la barbarie più vergognosa.
Certo allora l’educazione e nelle pratiche e ne’ precetti prese un’insolita tinta religiosa; ed anche fuor de’ seminarj insinuavasi la venerazione per le cose sacre e l’incondizionata obbedienza ai papi; gli esercizj ignaziani abituavano al meditare, a frequentare i sacramenti, a voler pulite le chiese, decorosi i riti. Il lodato Sadoleto scrisse un buon trattato in latino sull’educazione; e ad istanza di san Carlo in volgare il cardinale Antoniano, ammirato improvvisatore (Dell’educazione cristiana e politica); cui s’accompagnarono poi i Costumi dei giovani di Orazio Lombardelli senese.
Ma qui rampollava una questione che altre volte si ridestò; convien egli formare il gusto de’ giovani sopra i classici gentili? I Padri primitivi di consueto gli escludevano, attesa l’urgenza del pericolo quando il paganesimo non aveva ancora ceduto le armi alla verità, anzi nella società presentavasi colla potenza degl’interessi, dell’abitudine, della legalità. Nel medioevo decaddero quegli studj, ma se ne sopravvisse traccia fu ne’ conventi; e in questi ci vennero conservati tutti i classici che ci rimangono. Li vedemmo poi fin riprendere il passo sovra gli autori ecclesiastici; laonde alcuno per riazione pensava si dovessero sbandire almen dalle scuole, come ispiratori di sentimenti e di morale pagana. La Chiesa qui pure si mostrò tollerante, e più intesa a volgere in bene che a distruggere gli elementi dell’istruzione. A’ suoi seminaristi san Carlo pose in mano i classici, ma insieme suggeriva alcun che de’ santi Padri, cogli Uffizj di Cicerone quelli di sant’Ambrogio, [493] colla retorica di lui quella di Cipriano; di Virgilio si omettessero le dipinture scandalose; si adoprasse Orazio ma castigato.
Alquanto più tardi, il padre Possevino proferiva a Lucca un discorso, dove mostrava come trarne profitto anche per la morale[379], purchè come antidoto vi si accoppiassero le opere di Pantenio, di Giustino martire, di Eusebio, principalmente di sant’Agostino, i quali diedero cristiana interpretazione alla civiltà gentilesca; vorrebbe che i professori avessero alla mano i santi Padri, e se ne ajutassero per cercare la verità anche ne’ profani, e chiarissero qual divario corre fra la luce pura di Dio, e la imperfetta e nubilosa che i Pagani trovavano ne’ loro cuori, e che faceali parlare da fanciulli balbuzienti, anzichè da uomini ragionevoli; nè si dimenticasse che quanto dissero i Pagani della virtù non è che un’ombra a petto della cristiana; a Cicerone riuscivano enigmi quei che la religion nostra mette in evidenza; gli elogi da lui profusi a se stesso o ad altri, non potrebbero accettarsi come tali da cuori cristiani, i quali devono fondare le loro speranze sulle ricompense eterne, e metter le loro corone ai piedi di Cristo, cui appartiene tutta la gloria e la lode. Quel proposito di Marco Tullio che non si dee vendicarsi se non quando provocati, porge nuovo contrasto fra la perfezione cristiana e la difettiva morale gentilesca, e nel confutarla potrà innestarsi la verità sui giovani germogli. Si mostri che quell’abbondanza ciceroniana non conviene a tutti nè sempre. I trattati della Divinazione e del Destino non s’addicono alla prima gioventù; ma agli Uffizj perchè non s’aggiungerebbe qualche estratto di quelli di sant’Ambrogio, o pezzi di Lattanzio per supplire a ciò che Cicerone non conobbe, o emendarlo ove errò? [494] Così si faccia buon uso d’entrambi, desumendo da Tullio lo stile, dai Padri la dottrina e pietà vera. Non si trarrebbe mirabili frutti d’eleganza e proprietà e pietà dal trattato di Cicerone sull’Amicizia se vi si accostassero i precetti di carità che trovansi nel Catechismo romano e in un’epistola di san Paolo ai Corinti? Unendo ai Commentarj di Cesare gli esempj del libro di Giosuè o dei Re, si opporranno i sani intendimenti della storia, e lo studio dei castighi di Dio contro i Pagani. Santi e istruttivi riusciranno i paralleli fra gli eroi di Roma e di Grecia e i guerrieri cristiani, quali Carlo Magno, san Luigi di Francia, santo Stefano d’Ungheria, aggiungendovi quelli che ai dì nostri posero freno alla barbarie orientale, come Vasco de Gama e l’Albuquerque, tanto più che se ne hanno le imprese in buon latino dai padri Emilio, Giovio e Maffei.
Così il Possevino: e chi ripudierebbe tali concetti?
Fra i libri proibiti era giusto comparisse il Decamerone, contro del quale già un pezzo declamavano le anime oneste e i confessori; e fra mille altri, Bonifazio Vannozzi diceva che «questi trattati amorosi, questi discorsi tanto lascivi hanno aperto di gran finestre all’idolatrie ed all’eresie, ed a pessimi costumi, ed a corrottissime e licenziosissime usanze tra di noi cattolici. Chi potesse contare quante traviate ha fatto il Decamerone del Boccaccio, rimarrebbe stupito»[380].
Rincrescendo però di privare gli studiosi d’un libro che si reputava modello del bene scrivere, fu preso il compenso di emendarlo. Il maestro del Sacro Palazzo segnò i passi da levare o correggere; e una deputazione di Fiorentini, in cui principale Vincenzo Borghini, adattò quel libro, che così comparve nel 1573 con approvazione di Gregorio XIII. Gli zelanti non ne rimasero [495] soddisfatti, e ad una nuova emendazione attese Leonardo Salviati; e non è a dire quanto ridere e declamare ne facessero gli umanisti, mettendo questa operazione a parallelo colle brache onde Paolo IV velò gl’ignudi del Giudizio di Michelangelo.
Aveva il concilio Tridentino ordinato non si ponessero immagini nelle chiese se non approvate dal vescovo; sicchè nulla vi fosse di falso, di profano, di disonesto, di contrario alla verità delle Scritture e delle tradizioni, di vulgari superstizioni. Le immagini convengano alla dignità e santità del prototipo, sicchè la loro vista ecciti pietà, non turpi pensieri. San Carlo ripeteva queste prescrizioni, abolendo inoltre la pia ma abusata costumanza di rappresentare la passione di Cristo o atti de’ santi; nè i visi di questi siano ritratti di persone vive.
Ma i teatri sono compatibili colla religione? Molti asserivano di no: e quelli d’allora vi davan troppo ragione, massime le commedie a soggetto. Una banda di cotesti recitava libertinamente a Milano; san Carlo li colpì d’una decretale, e il governatore inerendovi li sbandi; ma essi ricorsero al santo, mostrandogli come ne resterebbero ridotti in ultima miseria; ed esso accolseli con carità, e permise continuassero gli spettacoli, patto però che sottoponessero l’orditura a persone da lui destinate. Simile precauzione fu pigliata altrove.
Vedemmo come Filippo Neri introducesse gli oratorj, che prima erano laudi cantate in chiesa sopra musica di Giovanni Animuccia, maestro in San Pietro; poi crebbero fino a compiute rappresentazioni di fatti morali e sacri. Quando però la musica più non era che studio di superate difficoltà, continue fughe, e imitazioni e combinazioni disparate, e poneva gloria in imitazioni di suoni, prolazioni, emiolie, nodi, enigmi, la voce umana non valutando che come un altro stromento, [496] poteva più convenire alla santità di riti che elevino l’anima al Creatore? In composizioni di quattro, cinque, sei, sette e fin otto parti, le parole si intralciavano, nè più offrivano senso; i compositori si permetteano di intercalarne di italiane e perfino di oscene; gli organisti cercavano l’effetto da arie conosciute, e intere messe furono composte sovra motivi profani. Leon X aveva chiamato da Firenze Alessandro Mellini, per avvezzare i suoi cappellani a conservare la tonica nel canto de’ salmi e la misura sillabica negli inni. I riformatori e cattolici e protestanti ne esclamavano dunque: il concilio di Trento se ne mostrò scandolezzato, come piarum aurium offensio. Paolo IV fece esaminare se dovesse tollerarsi la musica in chiesa; e la commissione a ciò eletta stabilì non si canterebbero messe e mottetti in cui si trovasse quella confusione di parole, nè sopra arie profane, e s’ammetterebbero solo testi adottati dalla Chiesa: ma i maestri assicuravano non si potrebbe in un canto figurato far intendere chiaramente e costantemente le parole, in grazia delle fughe e delle imitazioni, carattere della musica sacra.
— E perchè non si potrebbe?» disse Pier Luigi Palestrina (1529-94). Allievo dei Fiamminghi, che allora tenevano il campo in quest’arte, ed escluso dalla cappella per essersi ammogliato, viveva nella solitudine e nel bisogno, approfondendosi nell’arte sua fino ad elevarsi a composizioni libere e originali. Conosciuto, e posto maestro di cappella a San Giovanni Laterano, puntò i Treni di Geremia, il Magnificat, gl’Improperj, non sagrificando la parola all’armonia. Invitato a comporre una messa che servisse di sperimento, vi si pose come uomo che deve salvar da morte la sua arte: sul suo manoscritto si trovò, Signore, illumina me; e dopo due poco felici tentativi, gli riuscì la famosa missa papalis a sei voci reali nel genere antico italiano, con [497] melodia semplice, rispettando l’espressione rituale, e adattandola alla varia significazione de’ cantici e delle preghiere: onde la paragonava alle celesti che l’Apostolo prediletto udì nelle estasi sue.
Bastò perchè fosse vinta la causa a quest’arte come alle altre; e mentre la Riforma non sapeva che distruggere e abolire, anche in ciò la Chiesa ravvivava e santificava[381]. Preso un motivo, il Palestrina lo svolge con tutto l’artifizio del contrappunto fugato, rimovendo qualunque accompagnamento strumentale. Precisione, chiarezza, severo rispetto dell’armonia, grazia, verità d’espressione unita a gusto delicato, nobile semplicità nella modulazione, il fanno ammirare; e mentre nei Fiamminghi tutto era ritmo e matematica, egli possedeva lo spirito, l’unzione; cantava invece d’argomentare; alle forme materiali dava serenità e vita, quasi volesse effettuare quel concetto di san Bernardo che la musica sit suavis at non sit levis, sic mulceat aures ut moveat corda, tristitiam levet, iram mitiget, sensum literae non evacuet sed faecundet[382]. Non raggiunse la pienezza dell’arte, sicchè possiam paragonarlo al Perugino: e sebbene tuttora povero di melodia, sì possedeva il sentimento puro dell’armonia e della tonalità, che altri non seppe con pari felicità ed eleganza far cantare quattro, sei, fin otto parti distinte. I madrigali suoi sono ancora l’inarrivabile emulazione de’ contrappuntisti; ma chi assistette un venerdì santo alla cappella Sistina, dica se non possa esprimere più al vero l’intimo senso della Scrittura, e la significazione sua simbolica. Handel e poc’altri ne pareggiarono la [498] maestà di stile; nessuno la potenza, il profondo e semplice accento, la mistica tenerezza, l’incantevole soavità delle armonie, per rivelare i dolori della madre d’un Dio o le ambasce dell’Incarnato, o trasportarci in un mondo invisibile ad ascoltare le sinfonie di cui gli angeli circondano il padiglione dell’Eterno.
Mentre dunque, al principio del secolo tutto era paganeggiato ne’ costumi, nelle arti, ne’ governi, nella chiesa, al fine di esso non si operava quasi che per interessi religiosi; in nome del cristianesimo si scriveva, si combatteva, si uccideva, si educava, si nutriva; potenze ecclesiastiche robustissime entrano ne’ consigli dei re a dirigerne i modi e gli atti; i papi, spogliati di mezzo mondo, se ne rifanno coll’acquisto delle due Indie, e mettono soggezione ai re ed ai pensatori con un pugno di cherici, paventati dovunque vi sia rivolta contro l’autorità di Pietro.
Se la Riforma non ebbe divelto il vizio e la corruttela, non mutato la struttura delle Università e dei corpi religiosi cui l’alta istruzione veniva affidata, se anche gli Ordini nuovi s’intepidirono o corruppero, ecco la carità che aveva balsami per ogni piaga, e impediva che la corruzione toccasse all’estremo. Anime stanche dal fortuneggiare del mondo, cercavano ricovero in grembo a Dio: le Suore della carità lanciandosi in mezzo alle miserie, le Carmelitane sepellendosi anticipatamente, parevano invase da una passione cristiana; il clero spandeasi dappertutto; cercando l’ignoranza da istruire, il vizio da correggere, la virtù da sostenere, la povertà da pascere, esposto al quotidiano martirio del disprezzo e della calunnia; e il rinvigorito spirito cristiano combatteva l’effervescenza della carne e la voluttà sensuale.
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Fra tanta divergenza d’accidenti e di dogmi, unico proposito conforme della Riforma si fu l’abolire la centralità papale, opponendo le nazionalità alla cattolicità, il giudizio personale all’unità della fede, subordinar la potestà ecclesiastica alla civile, cioè la coscienza al decreto, il diritto al fatto, la libertà alla permissione; il fôro interno all’esteriore. La cristianità non fu più una contro un nemico comune, gl’infedeli; ma si trovò scissa in due campi ostili, da cui e in cui si avvicendavano le persecuzioni. La Riforma diede importanza agli studj; le lingue antiche si trovarono necessarie per le controversie religiose, ma nel vortice di queste la bella letteratura naufragò; il sospetto fece reprimere la coltura in paesi dove avea preso tanto incremento, come fra noi; l’antichità non considerossi più in connessione coll’intera storia del mondo; e sul greco e sul romano si concentrò l’attenzione di cui parvero men degni i mezzi tempi, che pur erano la fanciullezza e la gioventù delle società moderne; e il ripudiarne ogni provenienza spense l’originalità. L’immaginazione, che addormentatasi fra i popoli classici col restringersi a imitare e compilare, era stata poi ridesta dalla fede, dovette cedere alla ragione positiva, la quale acclamò il pensiero come forza sterminatrice o conservatrice, e travolse in dispute, che più non furono risolte. Separato il mondo della scienza da quello della fede, provveduto [500] piuttosto a opprimere l’opinione falsa che a diffondere la vera, ne seguirono reazioni violente, la tirannide del pensiero nella proclamata sua emancipazione, e la necessità di nuove rivoluzioni.
Più ch’altri ne deteriorò l’Italia, cessando di essere la metropoli del mondo; sicchè più non v’affluivano le ricchezze e cognizioni, sfogo all’attività, stimolo agli ingegni colle speranze prelatizie. A tanti scritti liberissimi fu imposto silenzio o punizione; e per ovviare gli abusi, impacciata la vera scienza. Il papato, nell’aspetto temporale, fu ancora ambizione di famiglie illustri, e spesso più che il sommo sacerdote vi apparve il principe nazionale, intento a restituire lo splendore alla tiara cogl’intrighi e coll’abile schermirsi in situazioni scabrosissime.
Quando Roma ebbe tratti a sè tutti gli elementi della vita morale e intellettuale, e rifattasi vigorosa col chiarire il dogma ed emendare la pratica, represse ne’ meridionali la propensione alla Riforma, in aspetto di conquistatrice s’accinse a ricondurre alla sua autorità i divaganti, e ripigliò l’offensiva, posando come assolute le sue verità, e negando che fuor di queste si dia salute; avrebbe anche voluto togliere ogni diversità interna di chiese nazionali, di riti distinti, credendo prova di forza l’esigere l’unità assoluta. Dissipate le false Decretali, l’autorità pontifizia si trovò più solida perchè più misurata, e il diritto ecclesiastico venne rigenerato. Come le reliquie d’un esercito scompigliato si rannodano attorno allo statomaggiore, così i Cattolici sentirono la necessità di restringersi al papa; e principalmente i Gesuiti, animati dall’alito del ringiovanito cattolicismo, si diedero a sostenere il solo pastore, attorno a cui dovea farsi un solo ovile; e un nuovo grandioso campo s’aperse alla letteratura teologica e storica nel sostenere la verità e le ragioni di Roma.
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Come l’autorità civile proibisce la vendita dei veleni, o provvede ai cani idrofobi, alle esalazioni deleteriche, così l’ecclesiastica si credette in dovere di proibire le cattive stampe. Da qui gl’indici di libri proibiti, de’ quali i primi si fecero a Lovanio e a Parigi: poi Paolo IV, in una costituzione nel 1564, oltre quelli specialmente indicati, proibiva in generale tutti i libri di magia o altre superstizioni e i lascivi ed osceni, eccettuando i classici antichi per riguardo all’eleganza; i libri d’eresiarchi, non quelli di eretici; nè le traduzioni di scrittori sacri fatte da questi, purchè nulla contengano di erroneo. Per la Bibbia vulgare ci vorrà la permissione, e così per le controversie con eretici. Pio V regolò questa materia mediante la Congregazione dell’Indice, alla quale diede norme definitive Benedetto XIV nel 1753, badando men tosto alle opere d’eretici che di cattolici. Quando un di questi sia deferito al tribunale dell’Indice, verrà preso in serio esame dal secretario con due consultori, e se lo trovino condannabile, se ne farà una ragionata informazione, che verrà discussa da sei consultori sotto al maestro del sacro Palazzo; e proferita la condanna o la correzione, sarà sottoposta al papa. Trattasi d’autore illustre e di fama integra? si proibirà finchè sia corretto; se ne comunicheranno all’autore i motivi e le correzioni da farsi; e solo s’e’ ricusi verrà pubblicato il decreto, o se l’opera sia divulgata. Se è d’autore cattolico di bel nome, e la cui opera emendata possa giovare al pubblico, è necessario se ne sentano le difese. A censori poi si assumano persone di pietà e dottrina riconosciuta, la cui integrità non lasci luogo a odio o favore, e credansi destinati non a condannar l’opera, ma ad esaminarla equamente; pesar le opinioni senza affetto di nazione, di famiglia, di scuola, d’istituto, di parte; ricordandosi che molte opinioni pajono indubitabili ad una scuola, a un istituto, a [502] un paese, eppure senza detrimento della fede sono rejette da altri cattolici. Sovrattutto s’abbia a mente che d’un autore non può giudicarsi se non leggendo intera l’opera, comparando i differenti passi, e badando al fine di esso; non proferendo sopra una o due proposizioni staccate; giacchè quel che in un luogo egli dice oscuramente e per transenna, spiega chiaro e abbondantemente altrove.
Quanto ai dogmi, nessun Cattolico poteva impugnare l’autorità inappellabile del concilio: ma v’aveva articoli che toccavano la società secolare; quali sarebbero i privilegi del fôro ecclesiastico, l’esclusione de’ giudici secolari dalle cause di curia; il divieto ai principi di tollerare il duello, di far editti su materie e persone di chiesa, di esigere gabelle e decime, di voler mettere l’exequatur alle bolle pontifizie; e la scomunica minacciata a chi facesse altrimenti, od usurpasse beni e ragioni ecclesiastiche. Anche contro i laici violatori dei precetti divini si comminarono pene; riservato ai vescovi l’approvare i maestri, l’espellere le concubine, l’ispezione sui luoghi pii, i monti, gli spedali; obbligati i parrocchiani a supplire alle prebende inadeguate dei pievani. Da tali decreti parvero lesi molti interessi, ed intaccata quella sovranità indipendente, a cui i principi aspiravano; i quali pertanto reluttarono contro il sinodo. Venezia era stata la prima a dar l’esempio d’adottarlo senza restrizioni; indi Cosmo di Toscana, poi la Polonia e il Portogallo; ma altri potentati fecero riserve per le consuetudini o le leggi de’ loro Stati; la superiorità dei concilj al papa, pretesa in quelli di Costanza e Basilea, fu ritenuta da’ Tedeschi; i Francesi ne fecero il cardine delle libertà gallicane, negando l’infallibilità del papa diviso dal consesso della Chiesa: e ne vennero dissensi che turbarono il seno della Chiesa cattolica; principi che aveano declamato contro gli abusi, non sapeano [503] acconciarsi ai rimedj, e contro le decisioni tridentine accampavano le ragioni del principato.
Che l’autorità deva governare le opere, non già possedere i popoli, di modo che rimangano indipendenti i due poteri nell’ordine della propria competenza, l’avea mal compreso il medioevo, e peggio l’evo moderno: anzi l’atto effettivo della Riforma era consentito nel sovrapporre il temporale allo spirituale, e i papi si rassegnarono a molte concessioni onde salvare la Chiesa. Perocchè di primo achitto i principi s’accorsero qual partito potessero trarre dalla Riforma concentrando in sè i poteri e incamerando i beni; anche quei che restarono cattolici, se ne valsero per isbigottire i papi, e ridurli alle loro voglie colla minaccia di abbandonare la messa per la cena e pel sermone; e alla monarchia cattolica del medioevo parve volessero sostituire la monarchia politica. Le controversie teologiche si risolsero dunque in dispute sull’autorità regia; frangere le barriere opposte dall’immunità e cincischiare la giurisdizione ecclesiastica, divenne l’intento comune; quasi uno Stato, per trovarsi davvero indipendente, non dovesse lasciar veruna ingerenza ad altri, nè autorità che non fosse concentrata nel governo. I Protestanti lo avevano conseguito di colpo coll’aperta ribellione; i Cattolici s’ingegnarono con mezzi termini di accordare la coscienza coll’ambita onnipotenza: a tal uopo fomentavano le ambizioni particolari, e con titolo d’indipendenza tendevano ad isolare i sacerdoti dei loro Stati dagli altri, impedire le comunicazioni dirette col capo spirituale, formando speciali chiese, necessariamente docili al potere che loro permetteva d’esistere; e così passo passo ottennero le attribuzioni ecclesiastiche, che i Protestanti avevano carpite.
Di rimpatto la Chiesa, sentendosi robusta e rinovellata nella precisa espressione del dogma, parve si [504] lusingasse di far rivivere i tempi della sua prevalenza, e anche per questa parte correggere il paganizzamento della società. Adunque ridestò le pretensioni che in un’età organica aveano accampate Gregorio VII e Innocenzo III, e si asserì di nuovo il predominio illimitato della Chiesa sopra lo Stato, il papa essere superiore a qualunque giudizio, e decadere il re che esca dal grembo cattolico.
Il proprio simbolo espresse Roma nella famosa bolla, detta in Cœna Domini perchè doveasi leggere solennemente ogni giovedì santo; la quale ebbe l’ultima mano da Pio V, e suole citarsi come il massimo dell’arroganza papale. Tralasciando i punti di minor rilievo e spogliandola delle frasi conformi al tempo, essa, in ventiquattro paragrafi, scomunica gli eretici di qualsiano nome e chi li difende, o legge libri loro, o ne tiene, stampa, diffonde; chi appella dal papa al concilio, o dalle ordinanze del papa o de’ commissarj suoi a’ tribunali laici; i pirati e corsari nel Mediterraneo, e chi spoglia navi di Cristiani naufragate; chi impone nuovi o rincarisce gli antichi balzelli a’ suoi popoli; chi dà ai Turchi munizioni da guerra o consigli; chi fa leggi contro la libertà ecclesiastica, o turba i vescovi nell’esercizio di loro giurisdizione, mette la mano sopra le entrate della Chiesa, cita ecclesiastici al fôro laico, impone tasse al clero, occupa o inquieta il territorio della Chiesa, compresevi Sicilia, Corsica, Sardegna.
Dopo Lutero e Grozio[383] chi sarebbesi aspettato così elate pretendenze? ma le riazioni trascendon sempre, e nel diritto come nella buona guerra il miglior difendersi è l’attaccare. Se non che poco erano disposte [505] a condiscendere le Potenze; i principi d’oltremonte ripudiarono quella bolla; altri l’accettarono, col proposito di modificarla nell’applicazione; Venezia la ricusò, per quanto il nunzio insistesse; l’Albuquerque governatore di Milano vi negò l’exequatur; a Lucca non si teneano obbligatorj i decreti dei funzionarj papali senza approvazione del magistrato; in Savoja si conferivano benefizj al papa riservati; a Genova erano proibite le assemblee presso i Gesuiti, pretestando vi si facessero brogli per le elezioni; l’Inquisizione vi fu sempre tenuta in freno, e dopo il 1669 sottoposta alla giunta di giurisdizione ecclesiastica; i vescovi di Toscana lasciavano ammollire nell’applicazione la tremenda bolla, ma i frati la zelavano a rigore; e guaj a parlare di tasse sui beni di ecclesiastici; negavano l’assoluzione, donde vennero tumulti ad Arezzo, a Massa marittima, a Montepulciano, a Cortona.
Il regno di Napoli se ne trovava viepiù compromesso per la sua feudale dipendenza; e il vicerè duca d’Alcala fece risoluta opposizione alla bolla, sino ad arrestare i libraj che la stampassero[384]; fu condannato alle galere uno che avea pubblicato l’opera del Baronio contro il privilegio, chiamato la monarchia siciliana, pel quale al re competevano le divise e i diritti di legato pontifizio. Di rimpatto i vescovi pretendeano giurisdizione sui testamenti, e di chi moriva intestato poter qualche tempo tenere i beni applicandone una parte a suffragio del defunto: alcuni scomunicavano chi mettesse ed esigesse [506] imposizioni: la piazza di Nido a Napoli ricusava un dazio nuovo, perchè non approvato dal papa; nei casi misti, cioè sacrilegio, usura, concubinato, incesto, spergiuro, bestemmia, sortilegio, voleasi potesse procedere il fôro ecclesiastico o il secolare, secondo che all’uno o all’altro fosse prima recata la querela; fonte d’inestricabili alterazioni. Il papa dava rinfianco all’opposizione, e minacciava interdire la città; fu respinto dal confessionale, fu privato del viatico chi, ne’ consigli vicereali, aveva opinato in contrario; e i doveri di suddito erano posti in conflitto con quelli di cristiano, nè vedeasi via di comporre. Vi si aggiungevano le citazioni che faceansi alla corte di Roma, e i visitatori apostolici, che il papa mandava nel regno per esigere le decime, esaminare l’uso fatto de’ beni ecclesiastici e le alienazioni indebite. Onde aver denari per costruire San Pietro, Roma aveva instituito in varj luoghi, e nominatamente nel Napoletano, un tribunale, che durò fino al 1647, per esaminare se fossero adempiti i legati pii; se no, trarli a vantaggio d’essa fabbrica; il che attribuiva ai nunzj una giurisdizione molesta e facilmente abusata.
Perchè mancasse stimolo alla declamata avidità dei prelati, era stabilito che delle ricchezze da loro lasciate non redassero i parenti, ma la Chiesa romana; onde il papa mandava collettori per tutto il mondo, ed ecco derivarne controversie e dispute inestricabili cogli eredi e colle chiese stesse, turbarsi i possessi, e viepiù sotto papi rigorosi come Pio V. Dall’ispezione sull’adempimento dei legati pii, i vescovi traevano ragione di vedere i testamenti, e scoprire così i segreti di famiglia, e fisicare sulle frodi supposte. La proibizione del concubinato portava a ricorrere alla forza per sciogliere temporarie unioni, e le curie voleano all’uopo valersi di birri e carceri proprie; i principi non tolleravano [507] questa diminuzione della loro autorità, e giudizj non solo, ma armi indipendenti dall’unità che si andava introducendo. Adunque una concatenazione di litigi, che neppur oggi perdettero senso e importanza; perocchè in fondo erano le quistioni costituzionali d’allora; la libertà, questo Proteo irrefrenabile, compariva sotto le cappe pretesche, come ora in abito di avvocato e di senatore; e non è strano se di siffatte importanze s’empie la storia interna della Chiesa di questo secolo e del seguente[385]. Stefano Durazzo arcivescovo di Genova, martire della peste del 1556, interminabili dispute sostenne col doge sul posto che gli competesse nel presbitero, e sul titolo d’eminenza che allora cominciavasi dare ai cardinali: non soddisfatto, negò coronare il doge, e la lotta si prolungò anche assai tempo dopo che l’arcivescovo ebbe rinunziato. Carlo Borromeo cozzò assai coi governatori di Milano che alle riforme opponevano i diritti regj, come il senato opponeva i privilegi della Chiesa milanese. Peggio ancora suo cugino Federico, che due volte per ciò viaggiava a Roma, e che minacciò di censure chi trafficasse con Svizzeri e Grigioni eretici, e scomunicò il governatore perchè, col proibire le risaje nelle vicinanze della città, arrogavasi giurisdizione sui possessi ecclesiastici[386].
Della politica romana che la supremazia papale professava [508] più alteramente quant’era più minacciata, e pretendeva insegnar doveri ai re e diritti ai popoli, è rappresentante il gesuita Roberto Bellarmino da Montepulciano (1542-1621). A ventidue anni egli saliva già i più celebri pulpiti: da san Francesco Borgia spedito all’Università di Lovanio perchè si opponesse all’eresia serpeggiante, vi fu consacrato sacerdote da quel Giansenio che doveva poi divenire antesignano di famosissimo partito: combattè Bajo che deviava in un punto alla Grazia, e continuò a predicare e istruire finchè per salute si restituì a Roma. Quivi servì da teologo, e produsse le insigni Dispute delle controversie della fede. In queste espone prima l’eresia, poi la dottrina della Chiesa e i sentimenti de’ teologi, rinfiammandoli non con argomentazioni, ma con testi della Scrittura, dei Padri, de’ concilj e colla pratica; infine confuta gli avversi. Modello d’ordine, di precisione, di chiarezza, scevro dalle aridità scolastiche e dal formalismo di scuola, se erra talvolta sul conto degli scrittori ecclesiastici non ancora passati al vaglio d’una critica severa, non di rado arditamente ripudia scritti apocrifi: non inveisce contro gli avversarj, ma li ribatte con chiara e precisa brevità, appoggiato all’autorità dei teologi: e Mosheim, uno dei più accanniti campioni dell’eresia, pretende che «il candore e la buona fede di lui lo esposero a rimbrotti de’ teologi cattolici, perchè ebbe cura di raccogliere le prove e le objezioni degli avversarj e per lo più esporle fedelmente in tutta la loro forza». Ad attestarne il merito, basterebbe la quantità di quelli che lo confutarono[387]; [509] anzi si eressero cattedre a posta per ciò. Anche il suo catechismo non v’è lingua in cui non fosse tradotto.
Nè gli eretici lasciavano quiete, o mostravano tolleranza. Un inglese entrato in San Pietro di Roma, mentre il sacerdote stava per elevar l’ostia, l’assalì per istrappargliela di mano, e sparse per terra il calice; onde assalito dal popolo, fu battuto, poi consegnato all’Inquisizione; e confesso d’essere venuto con altri in Italia per commettere simili atti, fu condannato al fuoco, che subì «con tanta fermezza che ha dato da ragionare assai»[388]. Un altro pubblicò un «Avviso piacevole dato alla bella Italia da un giovane nobile francese», sozzo di bestemmie contro il papa e il papato, e che ebbe confutazione dal Bellarmino.
La Riforma, mentre seminava l’Europa di sanguinose eppur feconde ruine, turbò gli animi con opinioni variabili quanto le teste: dubbj nell’intelletto e scrupoli nella coscienza nascevano dall’essere rotto l’equilibrio fra il sentimento dei diritti e quello dei doveri. Scassinata l’autorità divina, fu forza cercare nuovi fondamenti alle obbligazioni dei privati e delle nazioni: ma i liberali protestanti non giungevano che alla negazione, resistendo al potere in nome del diritto non del dovere, o zelando un patriotismo inesperto, che vede le piaghe, non la difficoltà del rimedio, e incita alla disobbedienza.
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Essi tacciavano i Cattolici di legittimare la resistenza agli arbitrj; di voler anche che la Chiesa partecipasse al potere che essi concentravano tutto ne’ principi; di supporre qualcosa di superiore e anteriore ai patti sociali, là dove essi ponevano nelle leggi l’unica fonte dell’obbligazione; d’insegnare con san Tommaso che l’obbedienza ai re è subordinata all’obbedienza dovuta alla giustizia.
I teologi nostri sostenevano che la prerogativa del pontefice sovrasta alla politica, perchè di diritto divino: se rispondeasi dover essere divino anche il diritto dei principi, altrimente qual ne sarebbe il fondamento? essi non esitavano a rispondere, — Il popolo», sancendo così la sovranità di questo. Secondo il Bellarmino, la podestà civile deriva da Dio; e prescindendo dalle forme particolari di monarchia, aristocrazia o democrazia, fondasi sulla natura umana; e non essendo connessa ad alcun uomo in particolare, appartiene all’intera società; questa non può esercitarla da se medesima, onde è tenuta trasferirla in alcuno od alcuni, e dal consenso della moltitudine dipende il costituirsi un re o consoli o altri magistrati, col diritto di cambiarli[389]. Nell’opera De summo pontifice capite totius militantis Ecclesiæ, la supremazia papale vuole indipendente da qualsiasi giudizio; anima della società, di cui non è che corpo la potestà temporale[390]. Però negli affari civili il papa non deve maneggiarsi, salvo ne’ paesi suoi vassalli; [511] anzi è lecito resistergli se turbi lo Stato, e impedire che sia obbedito. Deporre i re non può ad arbitrio, qual che ne sia la cagione, eccetto i suoi vassalli; ben può mutarne il regno ad altri ove lo esiga la salute delle anime[391]. Alla monarchia pura antepone il Bellarmino la temperata dall’aristocrazia; e se pur dice che il papa può dell’ingiustizia far giustizia, convien ricordarsi che Hobbes attribuiva lo stesso diritto ai re[392]. La sua opera spiacque grandemente a Napoli e a Parigi; ma neppure gradì a Roma, anzi Sisto V la pose all’Indice, ma contro il voto della Congregazione, sicchè ben tosto ne fu depennata.
Fra i tanti libelli usciti contro di lui, uno narrava come, straziato dai rimorsi, fossesi condotto alla sacra casa di Loreto a confessare sue colpe; ma uditene alcune, il penitenziere lo cacciò come irreparabilmente dannato, sicchè cadde per terra, e fra orribili scontorcimenti perì. Ciò stampavasi mentr’egli viveva in umiltà laboriosa; ammirato per disinteresse e umiltà, in tutta Europa volava il suo nome; un Tedesco venne apposta a Roma, con un notaro attese presso la casa dove il Bellarmino abitava finchè questo uscisse, fece rogar atto d’averlo veduto, e di ciò glorioso tornò in patria; il papa lo creava cardinale quia ei non habet parem Ecclesia Dei quoad doctrinam; e morendo santamente, professava non solo la fede cattolica, ma quanto alla Grazia pensare come i Gesuiti.
Volemmo badarci sul Bellarmino perchè in lui si personifica ciò che di più avanzato si rinfaccia alla santa Sede, e perchè quelle dottrine ebbero grande efficienza sulle sorti delle nazioni. Anche l’altro gesuita Santarelli [512] insegnava potere il papa infliggere ai re pene temporali, e per giuste cagioni assolvere i sudditi dalla fedeltà. Invano i suoi confratelli ritirarono tosto quell’opera; il parlamento di Parigi e la Sorbona, cui era stata denunziata, la condannarono ed arsero, obbligando i Gesuiti a far adesione a tale condanna, e dichiarare l’indipendenza dei re[393].
Son queste le opinioni, per le quali i Gesuiti furono dichiarati nemici ai re, fautori del tirannicidio, insomma precursori dell’odierno liberalismo; il quale poi alla sua volta dovea sentenziarli dispotici, oppressori del pensiero e della libertà: e allora e adesso senza esame o senza lealtà. Nè dobbiamo tacere come Clemente VIII, in un’istruzione sull’Indice, raccomanda «si abolisca ciò che sente di paganesimo, e che dietro alle sentenze, ai costumi, agli esempj gentileschi, favorisce la polizia tirannica, e ne induce una ragion di Stato avversa alla cristiana legge». Ecco da qual lato stesse il liberalismo.
Eppure corre opinione che la Riforma introducesse la libertà, e che la Chiesa nostra la bandisse. Vero è bene che questa, ridotta impotente alle più elevate attribuzioni sociali, e ristretta ognor più alla vita individuale e al bisogno di conservarsi, si alleò coi re, a scapito del carattere popolare che l’avea controdistinta nel medioevo; e la tirannide uffiziale, introdotta dai principi protestanti, si estese pure ai cattolici, perchè [513] il clero la pensò opportuno freno al popolo; i principi, minacciati dalla libertà del pensiero, fecero sinonimi eretico e ribelle, e insieme li perseguitarono; a vicenda i fautori della Riforma, vedendo la Chiesa cattolica porsi dal lato della resistenza, la denunziavano come sostegno dell’assolutismo, ottenendo quella confusione di cose umane e divine, che il secol nostro si compiace di rinnovare, e che tanto pregiudica alla vera libertà.
La franchigia di commercio, per cui Armeni, Turchi, Ebrei, v’erano egualmente i ben venuti, favoriva a Venezia l’indifferenza; l’autore del Discorso aristocratico sopra il governo dei signori Veneziani assicura che, venendo a morte un Luterano o Calvinista, permetteano fosse sepolto in chiesa, e i parroci non se ne faceano scrupolo: aggiunge però: — Non ho mai conosciuto alcun Veneziano seguace di Calvino o di Lutero od altri, bensì d’Epicuro e del Cremonini, già lettore nella prima cattedra di filosofia nello studio di Padova, il quale assicura che l’anima nostra provenga dalla potenza del seme, come le altre dell’animal bruto, e per conseguenza sia mortale. Seguaci di questa scelleratezza sono i migliori di questa città, ed in particolare molti che hanno mano nel governo».
Fin dal 1520 Burcardo Scenck gentiluomo tedesco scriveva a Spalatino, cappellano dell’elettore di Sassonia, che Lutero godeva stima a Venezia, e ne correano i libri, malgrado il divieto del patriarca; che il senato penò a permettere vi si pubblicasse la scomunica contro l’eresiarca, e solo dopo uscito il popolo di chiesa[394]; Lutero stesso felicitavasi che tanti di colà avessero accolto la parola di Dio[395], e tenea corrispondenza col dotto Giacomo Ziegler che caldamente vi s’adoperava; [514] come di là erano dirette esortazioni a Melantone affinchè non tentennasse nella fede, nè tradisse l’aspettazione degl’Italiani[396]. Molto oprò a propagarvi la Riforma Baldo Lupatino, per cui consiglio Matteo Flach di Albona in Istria (Flaccius Illiricus) suo compatriota e parente, fuggì in Germania, e fu principal penna nelle famose Centurie Magdeburgensi[397]. Baldassarre Altieri d’Aquila, stabilito a Venezia e agente di molti principi tedeschi, ebbe comodità di diffondervi libri e idee; e tanto crebbero, che nel 1538 Melantone esortava il senato a permettere vi s’istituisse una chiesa[398].
Sappiamo che il Bruciòli pubblicò a Venezia la sua Bibbia vulgare; le opinioni di sant’Agostino sulla Grazia e il libero arbitrio vi furono stampate il 1545 da Agostino Fregoso Sostegno; ivi predicava l’Ochino; a Padova fece lunga dimora Pietro Martire Vermiglio; a Treviso si formò un’accolta di novatori; e in una a Venezia il 1546 tennero conferenze circa quaranta persone che spingeansi ben oltre i confini dei Protestanti; Giorgio Rorario da Pordenone credesi autore delle note marginali alla Bibbia tedesca di Lutero[399]. Jacopo [515] Brocardo veneziano seguì Calvino, e pretese confermare colla santa Scrittura le visioni che dicea d’avere: nel 1565 ritiratosi nel Friuli, scrisse di fisica, ma fu scoperto e arrestato dai Dieci: rilasciato, andò vagando a Eidelberga, in Inghilterra, in Olanda, in Francia, dove il sinodo nazionale della Roccella proibì la sua Interpretazione sopra la Genesi: in Olanda ritrattò i suoi libri mistici e profetici, pure ne fu sbandito e campò miseramente fin dopo il 1594. Da Candia, dominio di Venezia, era Cirillo Lucar, che in Italia e in Germania avuta cognizione della Riforma, dissimulò, finchè a gradi a gradi divenuto patriarca d’Alessandria, poi di Costantinopoli, cominciò ad insinuare le novità: se n’avvidero i vescovi e preti, e lo fecero relegare a Rodi; ma col sostegno dell’Inghilterra e dell’Olanda fu ristabilito, e pubblicò un catechismo calvinico, col quale eccitò turbolenze, che la Porta sopì col farlo strangolare; diversi sinodi anatemizzarono lui e le sue dottrine.
Venezia fin dal 1248 (tom. VI, pag. 354) stabilì si punissero quelli che un concilio di prelati sentenziasse d’empietà; quarantun anno prima che, ad istanza di Nicola IV, introducesse la santa Inquisizione, alla quale tenne poi sempre la briglia, volendo ai processi assistessero tre nobili, le ammende si avocassero all’erario, i beni de’ rei andassero agli eredi, non al fisco, nè potesse giudicare Ebrei e Greci, ai quali fu sempre lasciato libero culto. Essendo denunziato un libro favorevole alle opinioni di Giovanni Huss, lo arsero, e l’autore mandarono attorno colla mitera in capo, indi sei mesi di prigione, e nulla più. Del resto Venezia vi suppliva co’ Savj sopra l’eresia e cogli Esecutori sopra la bestemmia, [516] destinati ad approvare le stampe, vigilare sopra gli eretici, castigare chi celebrasse messa non ordinato, punire chi bestemmiasse o violasse cose sacre.
Anche qui si crebbero i rigori dopo che ne apparvero le conseguenze. Al 29 novembre 1548 il doge Francesco Donato scrive: — Avemo inteso con grandissimo dispiacere nostro che in questa città di Bergamo si ritrovano alcuni eretici, i quali non solo non vivono cattolicamente, ma pubblicamente disputano e cercano di persuadere agli altri le opinioni luterane, cosa che non volemo comportare per modo alcuno»; ed essendosi il papa lagnato che il capitano e il podestà di Vicenza lasciassero predicare l’errore, la Signoria emanò ordini severi e cominciò supplizj. Guido Zanetti fu consegnato all’Inquisizione romana; Giulio Ghirlanda trevisano e Francesco Rovigo condotti a Venezia e strozzati; così Antonio Ricetto vicentino, Francesco Spìnola prete milanese, frà Baldo Lupetino suddetto; i restanti approfittarono del terribile avviso per fuggire, tra cui Alessandro Trissino con altri riparò a Chiavenna, donde a Leonardo Tiene suo concittadino scrisse, eccitandolo ad abbracciare una volta la Riforma, con tutta la città.
Sollecitato da Pio V perchè la Signoria applicasse rigorosamente l’Inquisizione, l’ambasciatore veneto Pietro Tiepolo scrive avergli risposto si farebbe, «ma troverebbe che in quel dominio si vive più religiosamente e cattolicamente che forse in qualsivoglia altra parte; e non sapeva dove più si frequentassero le chiese e i divini ufficj che in quella città. Di che rimase alquanto sopra di sè, forse per l’informazione avuta del contrario». E altra volta: — Venne a trovarmi l’inquisitore di Brescia, e mi disse che il papa l’aveva lungamente esaminato sopra le cose di quella città, e che egli, che conosceva che con sua santità non era bisogno di sperone ma di freno, avea fatto ogni sorta di buon [517] officio, scusando e raddolcendo quelle cose che erano venute alle orecchie della sua santità, affermando che da quei clarissimi rettori gli erano prontamente prestati tutti quegli ajuti e favori che sapea desiderare. Mi soggiunse aver detto a sua santità d’avere sentito che non era ben disposto verso quel serenissimo dominio; ma come devoto della sua santità volea dirle che non sapea Stato che facesse più di quello per la santa Sede; che sebbene in una moltitudine grande si trovasse qualcuno che non avesse mente del tutto netta, non bisognava fare mal concetto di tutta una repubblica così degna e così buona come quella».
Altrove narra come rassicurasse il santo padre che la Signoria veneta stava attentissima contro gli eretici, non solo per zelo religioso, ma per la concordia e unione de’ cittadini, che ne sarebbe turbata; e che «le cose erano in buono stato, e forse migliori che in altra parte della cristianità, non ostante che quel dominio avesse per più di trecento miglia continui confini colla Germania, e per questo rispetto convenisse aver molto commercio con Tedeschi». Aggiunge che il consiglio dei Dieci vi bada attento, «ma che noi usiamo più effetti che dimostrazioni, non fuochi e fiamme, ma far morire segretamente chi merita..., che quelle dimostrazioni palesi, più grandi, severe e terribili, portavano maggior danno che utile; che in Francia e ne’ paesi di Fiandra si erano fatte ammazzare le decine di migliaja di persone, non solo senza frutto, ma con vedere ogni giorno moltiplicar la gente nell’opinione dei morti; che il consiglio dei Dieci aveva ultimamente fatto legge, che chiunque fosse bandito da qualsiasi città per conto di religione, s’intendesse bandito da tutto il dominio, cosa che forse non si avrebbe pututo fare per gli ordinarj termini di giustizia»[400].
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È vero che Venezia si tenne sempre sulle guardie nel trattare coi pontefici, nè si lasciava impacciare da ecclesiastiche immunità[401], anzi professandosi «prima [519] veneziani che cristiani», spingevasi l’ombrosità fino a temere che i preti colla virtù acquistassero influenza sulla plebe. «La ragion di Stato non vuole che i suoi [520] sacerdoti siano esemplari, perchè sarebbero troppo riveriti ed amati dalla plebe»; è scritto nel Discorso aristocratico sopra il governo de’ signori Veneziani[402]. Un Gesuita raccoglieva i gondolieri ogni festa per istruirli nelle cattoliche verità; ma la Signoria riflesse che i gondolieri praticano con persone d’ogni grado, e quindi possono servire allo spionaggio, e proibì quella congregazione, e cacciò il Gesuita. Un altro declamava contro il carnevale, asserendo che quel denaro si spenderebbe meglio in ajutare il papa nella guerra contro i Turchi, minacciosi alla repubblica; e la Signoria lo sbandì.
Il clero indistintamente restava sottoposto alla giurisdizione [521] dei Dieci, ed escluso dagli uffizj civili: qualora si recassero sul tappeto affari relativi a Roma, venivano rimossi dal consiglio i papalisti, vale a dire quelli che tenessero aderenza con quella Corte, o soltanto parentela negli Stati pontifizj: il 9 ottobre 1525 i Dieci risolsero, chi avesse figli o nipoti negli Ordini fosse escluso da qualunque affare concernente Roma. Allegando che il custodire Corfù e Candia, antemurali della cristianità, costava più di cinquecentomila scudi l’anno, Venezia chiedeva un decimo delle rendite ecclesiastiche, non escluse quelle de’ cardinali; e lo ottenne dal papa. Alle trentasette sedi vescovili l’investitura era data dal doge stesso, in nome di Dio e di san Marco; ma dopo la lega di Cambrai la curia romana n’avea tratta a sè la collazione, lasciando alla Signoria solo un quarto delle nomine, sebbene anche le altre non potessero cadere che in sudditi veneti. E quando Innocenzo VIII pretese l’incondizionata elezione dei vescovi di Padova e d’Aquileja, la Signoria si oppose, com’anche alle decime ch’e’ volea levare sopra le istituzioni di beneficenza. Nominato da Pio IV vescovo di Verona Marcantonio da Mula allora ambasciatore a Roma, la Signoria ricusa riceverlo: eletto cardinale, fa altrettanto, mandando scuse al papa, ma ai parenti del cardinale vietando d’assumere la veste purpurea in segno di festa; e si rimase saldi al no, scrivendo al papa: — Noi siamo schiavi delle nostre leggi, ed in ciò consiste la nostra libertà».
Mal dunque si rassegnava Venezia alle pretensioni papali; non volle che il Vendramin, da essa eletto patriarca, dovesse subir l’esame a Roma; la bolla In Cœna Domini proibì di ricevere o pubblicare; non che esercitar giurisdizione sovra persone ecclesiastiche, n’era tanto gelosa che gl’Inquisitori di Stato, avuto spia che in casa del nunzio si discorreva «che l’autorità del principe secolare non si estende a giudicare ecclesiastici [522] se questa facoltà non sia concessa da qualche indulto pontifizio», stabilì che i prelati paesani i quali tenessero simili discorsi fossero notati su libro apposito «come poco accetti, e si veda occasione di farne sequestrare le entrate; e se perseverino, si passi agli ultimi rigori, perchè il male incancrenito vuol al fine ferro e fuoco». Quanto ai curiali del nunzio, se tengono tali propositi fuori della Corte, «sia procurato di farne ammazzar uno, lasciando anche che, senza nome di autore, si vociferi per la città che sia stato ammazzato per ordine nostro, per la causa suddetta»[403].
Un frate a Orzi pubblica un libello contro un magistrato veneto, e questo lo fa arrestare, togliendogli di mano il Santissimo ch’egli avea preso per sicurtà. Condannato un prete marchigiano, la Signoria manda al patriarca che lo dissacri; e poichè questo esitava, alcuni in consiglio propongono di dargliene ordine preciso; altri soggiungono che con ciò s’impaccerebbe in futuro il corso della giustizia, e perciò si mandi al supplizio senza degradazione. Egualmente la Signoria fa carcerare Scipione Saraceno canonico di Vicenza e l’abate Brandolino di Narvesa nel Trevisano imputati di enormi colpe, e rinnova l’antico decreto che gli ecclesiastici non possano acquistare beni stabili, e devano vendere quelli che ricevessero per testamento, nè si fondino nuove chiese senza beneplacito del senato.
Se n’adontò Paolo V, papa di rigorosa virtù e infervoratissimo della primazia ecclesiastica, per la quale lottò con Lucca, Malta, Savoja e Genova non solo, ma con Francia e Spagna sempre prosperamente, e ripetea: — Non può darsi vera pietà senza intera sommessione alla podestà spirituale». Egli scrisse minaccie al doge (1606), e non ascoltato spedì monitorj e scomunica [523] severissima[404]: la Signoria ne mostrò dolore, ma non cambiò guise; intimò guaj a chi «lasciasse pubblicare il monitorio», impose che i preti continuassero le uffiziature; [524] Gesuiti, Teatini e Cappuccini, i quali credettero dover obbedire al papa anzichè al principe secolare, furono mandati via, e partirono processionalmente dallo Stato con un crocifisso al collo e una candeletta in mano; al vicario del vescovo di Padova, che rispose farebbe quanto lo Spirito Santo gl’ispirerebbe, il podestà soggiunse: — Lo Spirito Santo ispirò ai Dieci di far impiccare chiunque recalcitra».
Tutta Europa vi prese parte, in tutta ritrovandosi persone e cause interessate; Enrico IV sosteneva i Veneziani, la corte di Spagna rifiutò il loro ambasciatore come scomunicato; tesi e consulti furono scritti e contro [525] e in favore dai migliori giuristi, e singolarmente dal celebre Menocchio, preside al senato di Milano; i più sosteneano ne’ governi il diritto di esaminar i motivi delle scomuniche e degli ordini pontifizj; e quel che ne sentissero i libertini ci appare da Gregorio Leti, che nella Vita di Sisto V scrive: — I frati veneziani hanno tanto a cuore la riputazione della loro repubblica, che in servizio di questa rinuncierebbero, per maniera di dire, Dio, non che il papa e la religione; ed io trovo che tutti gli altri frati devono far lo stesso in servizio del loro principe, quantunque si veggano molti esempj contrarj e scandolosi».
Il Governo veneto si mostrò allora rigorosissimo, e n’ebbe congratulazioni dai Protestanti, i quali vi sperarono occasione di scattolicizzare l’Italia. Più che in altri essi confidavano in Paolo Sarpi (1552-1623), frate servita, di San Vito al Tagliamento. Fu egli uno de’ maggiori ingegni di quell’età, e settecento suoi pensieri manoscritti mostrano come sentisse addentro in geometria, algebra, meccanica, fisica, astronomia, areometria, architettura. Nell’Arte di ben pensare s’accorge che i sensi non ingannano, riferendo essi all’intelletto ciò che loro si presenta, e che alle scoperte sono inetti gli assiomi. Teologo della Repubblica veneta, nel litigio di questa contro del papa fu condotto ad esaminarne il diritto, e con ragioni ed autorità sminuire l’ingerenza di questo ne’ negozj civili; e sebbene scrivesse per comando e «a norma delle pubbliche mire»[405], venne ad infervorarsene per modo, che personificò l’avversione alla [526] santa Sede. Nella Consolazione della mente nella tranquillità di coscienza, cavata dal buon modo di vivere nella città di Venezia nel preteso interdetto di papa Paolo V, domanda: 1. nel pontefice e nella Chiesa v’è autorità di scomunicare? 2. quali persone sono soggette a scomunica, quali le cause di applicarla? 3. la scomunica è appellabile? 4. è superiore il pontefice o il concilio? 5. per ragion di scomunica il principe legittimo può essere privato de’ proprj Stati? 6. per impedire la libertà ecclesiastica s’incorre giustamente nella scomunica? 7. qual è questa libertà? e si estende solamente alla Chiesa, ovvero anche alle persone di questa? 8. il possesso delle cose temporali spettanti alla Chiesa è di diritto divino? 9. una repubblica come un principe libero può restar privata dello Stato per causa di scomunica? 10. il principe secolare ha legittima azione di riscuotere le decime, e legittima potestà d’ordinare ciò che giovi alla repubblica sopra i beni e le persone ecclesiastiche? 11. ha per se stesso autorità di giudicare gli ecclesiastici? 12. quanto si estende l’infallibilità del pontefice?
A tali quistioni rispondeva in somma, che la podestà del santo padre si limita alla pubblica utilità della Chiesa: il cristiano a quello non dover obbedienza assoluta, e prima esaminare se il comando è conveniente, legittimo obbligatorio; che se obbedisce alla cieca, pecca: quando il pontefice fulmina scomunica o interdetto per comandi ingiusti e nulli, non deve tenersene conto, essendo abuso di podestà: la scomunica è ingiusta e sacrilega quando fulminata contro la moltitudine: non può sussistere se non s’appoggia a peccato anticipatamente minacciato di scomunica: il concilio di Trento, fuoco di sant’Elmo apparso nelle maggiori burrasche della Chiesa, ingiunge estrema circospezione nell’infliggerla, ma erra quando vuole che chi vi persevera un anno, sia dato all’Inquisizione come sospetto d’eresia; e quando [527] vieta al magistrato secolare d’impedire al vescovo di pubblicarla: le immunità ecclesiastiche non sono di diritto divino. La Chiesa greca, sempre povera, patì meno scandali che la latina; ed è patto tra il popolo e i ministri della Chiesa che questi somministrino la parola e i sacramenti, quello il pane corporale. I papi, non che la temporale, neppur sempre ebbero la sopreminenza spirituale, e se la usurparono favorendo principi usurpatori. Mentre le cose umane col tempo svigoriscono, nella monarchia ecclesiastica cresce l’autorità, non già la santità e la riverenza. I principi temporali non dipendono che da Dio: nè Cristo poteva trasmettere al suo vicario la potestà temporale ch’egli non esercitò. Il papa non ne ha veruna sui principi, non può punirli temporalmente, non annullarne le leggi, o spogliarli de’ dominj. A rincontro, gli ecclesiastici non han nulla di esente dalla potestà secolare, e il principe esercita sulle persone e i beni loro altrettanta autorità che sugli altri sudditi.
Del resto l’impugnar Roma non era prova d’eroismo in una repubblica sempre ricalcitrante alle pretensioni curiali; e frà Paolo sbraveggiando il papa umiliavasi a Filippo II, preconizzandogli ridurrebbe schiave Europa ed Africa, e muterebbe Parigi in un villaggio; sommessissimo si mostrava a’ nobiluomini del suo paese, e lusingando ad essi ed alle opinioni interessate, usurpavasi gli onori del coraggio. Come sentisse in fatto di libertà cel dicono certe costituzioni da esso ideate pel suo Ordine, ove non dubita ricorrere fino alla tortura; e l’insinuare alla repubblica provvedimenti tirannici. Che nella Quarentìa si giudicasse per consulti gli spiaceva, e al più li tollererebbe nelle cause civili; le criminali vorrebbe tutte assunte dal consiglio dei Dieci[406], [528] il quale escludeva il dibattimento. Raccomanda di tenere ben depressi i nobili poveri, chè, come la vipera non è buona nel freddo, così i nobili nella bassezza. Suggeriva d’opprimere le colonie levantine; ai Greci, come a belve, limar i denti e gli artigli, umiliarli spesso, togliervi ogni occasione d’agguerrirsi, dar pane e bastonate, serbando l’umanità per altre occasioni; nelle provincie d’Italia industriarsi a spogliar le città dei loro privilegi, fare che gli abitanti impoveriscano, e i loro beni sieno comperati da’ Veneziani; quei che ne’ consigli municipali si mostrano animosi, perderli se non si può guadagnarli a qual sia prezzo; vi si trova qualche capoparte? sterminarlo sotto qualche pretesto, cansando la giustizia ordinaria; e il veleno tenendo come meno odioso e più profittevole che non il carnefice[407].
Altrove denunzia come «da pochi anni in qua escono quotidianamente a stuolo libri, che insegnano non esser da Dio altro governo che l’ecclesiastico; il secolare esser cosa profana e tirannia, e come una persecuzione contro i buoni da Dio permessa: che il popolo non è obbligato in coscienza obbedire le leggi secolari, nè pagar le gabelle e pubbliche gravezze: che, purchè l’uomo sappia far sì che non sia scoperto, tanto basta: che le imposizioni e contribuzioni pubbliche per la [529] maggior parte sono inique ed ingiuste, ed i principi che le impongono scomunicati; insomma i principali magistrati sono rappresentati e posti in concetto dei sudditi per empj, scomunicati ed ingiusti: che sia necessario temerli per forza, ma in coscienza sia lecito fare ogni cosa per sottrarsi dalla loro soggezione». E conchiude suggerendo una rigorosa legge sopra le stampe.
Contro il papa e contro Gesuiti e Cappuccini predicava pure frà Fulgenzio Manfredi minorita, il quale poi andato a Roma con salvocondotto, ottenne l’assoluzione e ricevimento cortesissimo: poi repente fu arrestato dal Sant’Uffizio, e per avergli trovato libri proibiti, scritture ereticali, e carteggi esprimenti intelligenze col re d’Inghilterra, fu appiccato ed arso in Roma. Secondava al Sarpi frà Fulgenzio Micanzio da Passirano presso Brescia, predicando con tale franchezza, che il francese medico Asselineau, caldo di quei maneggi e che spesso scriveva invece di frà Paolo, ebbe a dire: — Pare Dio abbia per l’Italia suscitato un altro Melantone o Lutero»[408]. Egli fece il quaresimale (1609) «con libertà, verità e gran concorso di nobiltà e popolo, a dispetto del nuncio e delle sue rimostranze», come scriveva Duplessis-Mornay; e frà Paolo gradiva che ne pigliassero disgusto i Gesuiti, de’ quali non è male che non dica in [530] ogni occasione, nè lasciò via intentata perchè fossero esclusi prima, non riammessi poi dalla repubblica; procacciavasi sollecitamente i libri contrarj ad essi, e — Non c’è impresa maggiore (scriveva) che levare il credito ai Gesuiti. Vinti questi, Roma è presa; senza questi, la religione si riforma da sè»[409].
Esultavano i Protestanti alle scritture che, in occasione dell’interdetto, pubblicavansi contro Roma; Melchiorre Goldast, Gaspare Waser, Michele Lingeslemio, Piero Pappo ne esprimevano congratulazioni, faceanle tradurre e divulgare; lo Scaligero viepiù, il quale scriveva: — Il signor Carlo Harlay di Dolot m’ha detto di aver portato libri di Calvino a diversi signori di Venezia, dove già molti hanno la cognizione degli scritti nostri»; e divulgavasi la profezia di Lutero nell’esposizione del Salmo XI: — A Venezia riceverassi il vangelo: e i poveri e gli oppressi cristiani liberalmente si sostenteranno e nutriranno, sicchè la Chiesa si moltiplichi».
Del resto chi abbia vissuto appena questi ultimi anni, sa come le controversie con Roma o l’avversione ad un papa infondano ardire e lusinghino speranze di rompere colla Chiesa. E di siffatti non difettava Venezia, quali Ottavio Menino di San Vito, legale lodato e poeta latino, che molto scrisse in proposito dell’interdetto, ed eccitava il Casaubono a fare altrettanto; un Querini, autore dell’Avviso pernicioso; don Giovanni Marsilio, gesuita napoletano apostato, colà fuggito, ove continuava a celebrar messa benchè sospeso dal pontefice[410]; [531] l’erudito Domenico Molino; un Malipiero, «uomo d’una pietà senza fuco e senza superstizioni, che era solito ogni sera accompagnare il Sarpi, a cui portava un amore e venerazione singolare, che era tra loro vicendevole»[411].
Faceano capo all’ambasciatore d’Inghilterra ed al famoso Bedell suo cappellano, il quale tradusse la Storia dell’Interdetto e quella dell’Inquisizione di frà Paolo; e la pratica continuò anche dopo che Venezia si fu rassettata col papa. Giovan Diodati, discendente da profughi lucchesi, dalla Chiesa di Ginevra deputato al sinodo di Dordrecht nel 1618, ed eletto, benchè straniero, a redigerne le deliberazioni, avea tradotto la Storia di frà Paolo; e a lui di queste intelligenze scriveva il Bedell, Ecclesiæ venetæ reformationem speramus, e lo esortava a recarsi colà, dove lo sospiravano l’ambasciator suo e frà Paolo.
Il nunzio Ubaldini nel novembre 1608 avvisava il cardinal Borghese come fossero partiti per Venezia due predicanti ginevrini, sicuri di liete accoglienze da alcuni nobili, poi aveano ricevuto ordine di tornar indietro. Fu per tal occasione che il Diodati pubblicò la sua [532] traduzione italiana della Bibbia e scriveva: — Non sono senza speranza di farne entrare e volare degli esemplari in Venezia, dove la superstizione ha già ricevuto gran breccia, per dove è entrata la libertà, cui Dio santificherà per la sua verità quando ne sia il tempo». E pochi mesi dopo: — A Venezia ne ho già spedito qualche numero di esemplari, e spero ben tosto maggior commissione. Per avviso dell’ambasciator d’Inghilterra in Venezia, io fo attualmente stampare il Nuovo Testamento a parte in piccola gentilissima forma, perchè serva agli avventurosi principj che Dio vi ha fatti apparire. E può essere che questo sarà il meno, di servirli con la penna solamente; poichè bisognerà intraprendere altra cosa più forte ed espressa, e i progetti sono tutti formati, i quali il tempo è vicino molto a dar fuori, siccome io spero in nostro Signore».
Al Duplessis-Mornay, detto il papa de’ calvinisti francesi, e autore del Mistero d’iniquità, esso Diodati porgeva contezza come già da due anni stesse in pratica di riformar Venezia; da lettere di colà venir assicurato che il paese è rinnovato; liberissimi discorsi tenervisi, massime da frà Paolo, da frà Fulgenzio, dal Bedell, in modo che si crederebbe essere a Ginevra; il mal umore contro il papa non acchetarsi; e tre quarti de’ nobili aver già raggiunta la verità. De Liquez, compagno del Diodati soggiungeva: — Frà Paolo mi assicura che nel popolo conosce più di dodici o quindicimila persone, le quali alla prima occasione si volterebbero contro la Chiesa romana. Son quelli che da padre in figlio ereditarono la vera cognizione di Dio, o resti degli antichi Valdesi. Nella nobiltà moltissimi hanno conosciuto la novità, ma non amano esser nominati finchè non venga il destro di chiarirsi. E una prova si è che frà Paolo, quantunque scomunicato, ebbe ordine dal senato di continuare a celebrar messa». Aggiunge che avendo i preti [533] esatto, prima di assolverli, che i loro penitenti promettessero obbedire al papa nel caso d’un nuovo interdetto, il Governo gli ha arrestati, et mis en lieu où depuis ne s’en est ouï nouvelles; tellement que, depuis l’accord, ils ont plus fait mourir de prêtres et autres ecclésiastiques, qu’ils n’avoient fait en cent ans auparavant. Anzi Link, emissario dell’Elettor palatino, del quale si legge la relazione negli Archivj storici del professore Lebret, parla di oltre mille persone aspiranti alla Riforma, fra cui trecento distinti patrizj; avrebbero dunque trecento voti nel gran consiglio, che di rado eccedeva i seicento; e se si aggiungano quelli su cui poteano aver influenza, facilmente potevano conseguire la maggiorità, e quindi l’effetto dei loro desiderj.
Eppure, non che risoluzione, neppur mai proposta ne fu fatta. E come? In Venezia tutto era cattolico, l’origine, il patrono, le feste nazionali, le belle arti; ivi sfoggiatissime le solennità; ivi antica l’inquisizione contro l’eresia; ivi sulla religione innestata la politica, per la crociata perenne contro gl’Infedeli; ivi aggregati quasi tutti alle confraternite, dove anche il plebeo trovavasi non solo pari, ma superiore al nobiluomo e al senatore. Dove lo spirito pubblico era così identificato al cattolicismo, un governo eminentemente conservatore poteva mai pensare alla rivoluzione più radicale? Moltissimi atti noi scorremmo a proposito dell’interdetto, e in tutti gran franchezza ci apparve, ma soggezione cristiana e desiderio di ricomporsi; e chi ha occhio dica se è culto che perisce quello che fabbricava allora tante splendide chiese.
Il Diodati stesso nel 1608 venuto a Venezia, trovò assai meno che non si fosse ripromesso, nè però deponeva le speranze; quei due frati adoprarsi a tutt’uomo, ma ancor troppo radicata esservi la riverenza[412] pei [534] monaci. Alfine egli confessa avere «a fondo scoperto il sentimento di frà Paolo, e ch’e’ non crede sia necessaria una precisa professione, giacchè Dio vede il cuore e la buona inclinazione». Anche l’apostato De Dominis a Giacomo I d’Inghilterra scriveva che il Sarpi «non udiva volentieri le soverchie depressioni della Chiesa romana, sebbene aborriva quelli che gli abusi di essa come sante istituzioni difendessero».
Del quale Sarpi, oltre le Storie, abbiamo e fatti e lettere, che della fede sua fan molto dubitare. Avendo Nicola Vignerio stampato una dissertazione contro il Baronio, Filippo Canaye ambasciatore di Francia in Venezia e amico di frà Paolo scriveva al signore di Commartin, da quell’opera tenersi offesa la Signoria veneta perchè vedeasi noverata fra quelli che si smembrarono dalla Chiesa. Eppure a quell’opera del Vignerio e all’esposizione sua dell’Apocalisse, ove riscontra l’anticristo nel papa, diede applausi e forse ajuti frà Paolo. E da questo crederonsi esibiti i materiali al libello inglese di Edvino Sandis, sullo stato della religione in Occidente, ove riduce a superstizione e inezia la pietà dei Cattolici, e massime degli Italiani[413].
[535]
Quando il Priuli ambasciator veneto tornava di Francia, Francesco Biondi suo segretario imballò moltissimi libri ereticali; il qual Biondi poi passò col De Dominis [536] in Inghilterra, e apostatò. Successe ambasciatore in Francia quell’Antonio Foscarini, che finì decapitato per isbaglio, e ch’era molto legato cogli Ugonotti. Poi diè luogo al cavaliere Giustiniani, che frà Paolo indica come papista, soggiungendo che perciò «conviene servirsi di quello di Torino per far qualche cosa di bene per la religione»[414].
Era costui Gregorio Barbarigo, tutta cosa di frà Paolo, che lo giudicava «una delle più tranquille anime che abbia non solo Venezia ma forse l’Italia»; ma presto fu spedito in Inghilterra, ove morì, surrogandogli il Gussoni, col quale frà Paolo avvertiva il Groslot di non comunicare «le cose di evangelio, se non in quanto fossero congiunte con quelle di Stato e di governo». Coll’eguale bilancia pesa egli i differenti ambasciatori.
Quelli che si lusingavano di veder Venezia protestante, ebbero per buon segno il suo legare intelligenze coi sollevati dei Paesi Bassi e riceverne un ambasciatore[415], [537] così dando credito agl’insorgenti: ma era un provvedimento politico. Confidavano che Enrico IV, per la nimicizia con Casa d’Austria, vi favorirebbe le novità; ma inaspettatamente egli trasmise alla Signoria veneta una lettera del Diodati, il quale al Durand, pastore in Parigi, esponeva per filo e per segno quant’erasi tramato in Venezia; nominava come consenzienti i principali; che fra poco le fatiche sue e di frà Fulgenzio conseguirebbero l’intento; e se il papa si ostinasse, Venezia la romperebbe definitivamente colla Chiesa cattolica, di che già il doge e alquanti senatori erano in desiderio[416]. Questa diretta denunzia costringe il Governo a provvedere; i papalini prevalgono; il Sarpi se ne scoraggia, e geme, ed — È incredibile quanto grande sia [538] stato il male fatto con questa lettera. Se sarà guerra in Italia, va bene per la religione, e questo Roma teme; l’Inquisizione cesserà, e Evangelio avrà corso»[417]; e si duole che «le occasioni sono smarrite, dirò morte e sepolte, e solo Dio può eccitarle, al quale se piacerà così, ho materia accumulata e formata secondo le occasioni»[418]. Nelle lettere di quel torno compiange che il papa proceda lenemente, sicchè i politici s’accomodano alla pace, tanto più che i Turchi minacciavano; e — Non vedo altro rimedio per conservare e nutrire quel poco che resta, se non venendo molti agenti dei principi riformati e massime de’ Grisoni, perchè questi farebbero l’esercizio in italiano[419]. Spagna non si può vincere se non levato il pretesto di religione; nè questo si leverà se non introducendo Riformati in Italia. E se il re di Francia sapesse fare, sarebbe facile e in Torino e qui. La repubblica negozia lega coi Grisoni; per questa strada si potrebbe far qualche cosa, se dimandassero esercizj di religione in Venezia»[420]. Del [539] suo scoraggiarsi lo rimbrottava Mornay, soggiungendogli che, di tal passo, morrà prima di veder compiuta la sua opera[421].
[540]
Fatto è dunque che il litigio col papa poteva incancrenirsi; ne esultavano i Protestanti, e il Casaubono invitava Giuseppe Scaligero e Scipione Gentili a rallegrarsi che, in mezzo a Venezia, fosse sorto un sì magnanimo oppugnatore dei sofisti per manifestare i paralogismi con che illudono il mondo[422]: ma il famoso [541] Sully, benchè ugonotto, compiangeva che si svertasse l’autorità del pontefice fra i Veneziani, i quali se avessero dato segno d’apostatare, subito avrebbero avuto in soccorso Turchi, Greci, Evangelici, Protestanti d’ogni paese, di che si risusciterebbe un incendio, quale al tempo di Leone X e Clemente VII. Laonde egli si concertava coi cardinali di Giojosa e di Perrona per impedire che tali semi si sviluppassero in Italia, e per riconciliare Venezia col papa[423].
Un tale pericolo affliggeva le anime pie, e forse ne morirono di dolore Agostino Valier cardinale di Verona, Matteo Zane patriarca di Venezia; e il Bellarmino lasciò da banda le controversie cogli eretici per ribattere i libelli de’ sette teologi veneziani. Da lui francheggiata e dal Baronio, Roma raccolse anche armi, finchè l’imperatore e i re di Spagna e Francia e i duchi di Savoja e di Firenze interpostisi ripristinarono la pace, consegnando i carcerati al nunzio pontifizio (1607 aprile), che fu mandato con istruzioni moderatissime[424], derogando gli atti lesivi, rimettendo alla quieta i frati, eccetto i Gesuiti; e Venezia non fece verun atto d’umiliazione o ritrattazione, solo usò temperamenti; il doge ritirò la protesta che avea fatta contro l’interdetto; il papa ricevette cortesemente l’ambasciadore Contarini, dicendogli che «dalla buona intelligenza fra la santa Sede e la Repubblica [542] dipende la conservazione della libertà d’Italia; che non voleva ricordarsi delle cose passate, ma nova sint omnia et vetera recedant». Giacomo I d’Inghilterra re teologastro, pubblicata allora l’Apologia pro juramento fidelitatis in senso ereticale, la mandò a tutte le Corti; il re di Spagna e il duca di Savoja non vollero riceverla; il granduca di Toscana la fe bruciare: i Veneziani combinarono fosse presentata dall’ambasciadore in collegio, e dal doge ricevuta come segno della benevolenza reale, poi trasmessa al gran cancelliere, che la chiudesse sotto chiave. Il nunzio apostolico Gessi presentò al collegio la censura che Roma avea proferito contro quel libro, e domandò venisse proibito; onde il collegio gli espose l’operato, e al capo degli stampatori comunicò verbalmente di non venderlo. Se ne indispettì l’ambasciadore, tanto che fu duopo spedir apposta in Inghilterra Francesco Contarini, il quale sì bene discorse, che il re lodò il procedere de’ Veneziani[425].
[543]
Dileguarono dunque le speranze di riforma, e frà Paolo si moderò, benchè non cambiasse sentimenti. Invero egli fu nimicissimo ai Gesuiti; dice che «è sicuro assolverebbero d’ogni colpa anche il diavolo, quando con loro volesse accordarsi»; e «che essi si vantano di dovere fra poco poter tanto a Costantinopoli quanto in Fiandra»[426]; e al signor Dell’Isola scriveva: — De li Gesuiti ho sempre ammirato la politica e le massime nel servar li secreti. Gran cosa è che hanno le loro costituzioni stampate, nè però è possibile vederne un esemplare. Non dico le regole che sono stampate in Lione; quelle sono puerilità; ma le leggi del loro governo, che tengono tanto arcane. Sono mandati fuori, ed escono dalla loro compagnia ogni giorno molti e mal soddisfatti ancora, nè per questo sono scoperti li loro artifizj. Non vi sono altrettante persone nel mondo che cospirino tutte in un fine, che siano maneggiate con tanta accuratezza, e usino tanto ardire e zelo nell’operare».
Si trovò infatti chi finse i Secreta monita, ma l’accannimento non toglieva al Sarpi il lume della ragione sicchè non ne avvertisse l’assurdità: — L’ho scorso, e m’è parso contenere cose sì esorbitanti che resto con dubitazione della verità: gli uomini sono scellerati certo, ma non posso restare senza meraviglia che tante [544] ribalderie sarebbero tollerate nel mondo. Al sicuro, di tali non abbiam sentito odore in Italia: forse altrove sono peggiori; ma ciò sarebbe con molta vergogna della nazione italiana, che non cede a qual altra si voglia».
Chi dunque fa tutt’uno i Gesuiti e santa Chiesa, dovrà sentenziare al rogo frà Paolo: ma vogliasi in lui vedere un patrioto infervorato, perciò nimicissimo alla Spagna, e in conseguenza a’ Gesuiti, che credeva incarnati con questa; mentre ben sentiva de’ Protestanti perchè, nelle guerre d’allora, contrabilanciavano Casa d’Austria. Pur jeri (1856) il mondo non parteggiava pei Turchi, sol perchè nemici alla Russia? inferiremmo da questo che l’Europa propendeva all’islam? Alla curia romana, che bisogna ben distinguere dalla Chiesa, frà Paolo professava un’ostilità, accannita da puntiglio; repugna dal Baronio e dal Bellarmino, campioni di quella, quanto è morbido al Tuano, al Perkinson; celia sui miracoli, mentre applaudisce agli Ugonotti: ma resta ancora un gran passo al rinnegare. La riforma che egli bramava consisteva nella disciplina più che nei dogmi, intorno ai quali, com’è probabile credesse di poter impegnare l’attenzione d’una Signoria tanto positiva, tanto nemica dei cambiamenti? Più che luterano o calvinista, il Sarpi può dirsi razionalista, tendendo a venerare la propria ragione più di qualsiasi autorità, e quindi a cercare continuo la verità, senza trovar mai dove riposarsi.
Bensì a quella ch’e’ chiamava meretrix, bestia babylonica, diede uno de’ colpi più micidiali colla Storia del Concilio di Trento. Da fanciullo dovea sentire discorrere di quel fatto come capitalissimo nella Chiesa; poi a Mantova usò famigliarmente con Camillo Olivo, segretario al cardinale Gonzaga uno dei presidi al sinodo; in Venezia con ambasciadori di principi: e parendogli le storie già stampate, fin quella che a tutte [545] antepone di Giovanni Sleidan, fossero insufficienti per dar a conoscere l’Iliade del secol nostro, si propose di raccontare «le cause e i maneggi d’una convocazione ecclesiastica, nel corso di ventidue anni per diversi fini e con varj mezzi da chi procacciata o sollecitata, da chi impedita e differita, e per altri anni diciotto ora adunata, ora disciolta, sempre celebrata con varj fini, e che ha sortito forma e compimento tutto contrario al disegno di chi l’ha procurata, e al timore di chi con ogni studio l’ha disturbata: chiaro documento di rassegnare li pensieri in Dio, e non fidarsi della prudenza umana. Imperocchè questo concilio, desiderato e procurato dagli uomini pii per riunire la Chiesa che incominciava a dividersi, ha così stabilito lo scisma ed ostinate le parti, che le ha fatte discordi ed irreconciliabili; e maneggiato dai principi per riforma dell’ordine ecclesiastico, ha causato la maggior diformazione che sia mai stata da che vive il nome cristiano. Dalli vescovi sperato per riacquistar l’autorità episcopale passata in gran parte nel solo pontefice romano, l’ha fatta loro perdere tutta intieramente, riducendoli a maggior servitù. Nel contrario, temuto e sfuggito dalla corte di Roma, come efficace mezzo per moderarne l’esorbitante potenza, da piccioli principj pervenuta con varj progressi ad un eccesso illimitato, gliel’ha talmente stabilita e confermata sopra la parte restatale soggetta, che non fu mai tanta nè così ben radicata».
Vi lavorò con attentissima pazienza; come costumavasi allora, si valse a man salva degli storici precedenti, Giovio, Guicciardini, Tuano, Adriani, principalmente dello Sleidan perchè ostilissimo a Roma, e che sovente traduce; ma li completò con documenti preziosi e colle relazioni de’ legati veneti; rialzò i fatti con osservazioni proprie; in tempo d’impetuose diatribe conservò un’apparente calma, quasi non ragionasse che su fatti e su [546] documenti, col che irretisce gl’inesperti; e più con quella sua dettatura limpida e facile, e coi frizzi onde rianima l’argomento; colle mordaci capresterie e colla vivacità continua sbandì la noja che annebbia gli altri, ed abbagliò in modo che non apparissero le ignoranze e le contraddizioni sue; tutto poi dispose non a chiarire la verità, ma ad ottenere effetto, sin alterando i documenti per trarli alla sistematica sua opposizione e ai politici interessi del suo paese. Se in quell’opera non abbraccia risolutamente un simbolo protestante, staccasi dal dogma cattolico, e conduce all’eresia ed al razionalismo volendo la personale interpretazione delle sacre Scritture senza badare alla tradizione; ripudia i libri deuterocanonici; disprezza la vulgata; separa l’esegesi dalla dottrina patristica, come i Riformati; riguardo al peccato originale, alla Grazia, alla Giustificazione, ad altri dogmi, copia alla lettera Martino Chemnitz, uno dei teologi più arrabbiati contro il concilio. Alla Chiesa primitiva, nella quale solo vuol egli trovare il vero cristianesimo, revoca sempre la credenza e la disciplina, condannando come intrusioni umane tutte le istituzioni che essa trae dalla sempre fresca sua vitalità. Vuol la Chiesa sottomessa alla territoriale direzione, come nei primi tempi, nei quali le relazioni fra la Chiesa e lo Stato, o pagano o giudaico, doveano certo essere ben altre da quando acquistò compiuto sviluppo. Perciò nè storica, nè ecclesiastica è la sua intuizione della gerarchia, della giurisdizione spirituale, del primato, della scolastica, del monachismo, e via discorrendo. La gerarchia non si consolidò che per ambizione de’ papi, e debolezza ed ignoranza dei principi; nè portò giovamento ai popoli, bensì oppressione e tirannia; non che il clero favorisse il sapere, l’arte, l’umanità nel medioevo, usufruttava a puro suo vantaggio i collegi e le scuole. Sverta ad ogni proposito la Corte romana e le [547] rinnovate pretensioni di essa, nè tampoco avvedendosi ch’erano l’espressione del restauramento religioso allora iniziato. Prevenne insomma que’ concetti che nel secolo passato ingrandirono, dell’indipendenza de’ principi da ogni autorità ecclesiastica, e che furono dottrinalmente esposti da Febronio e attuati da Giuseppe II: laonde disse il Ranke, che i principi devono aver somma grazia al Sarpi, il quale ne consolidò l’assolutezza; altrettanta i nemici del cattolicismo, cui affilò le armi, più micidiali quanto che somministrate da un Cattolico.
Rappresentante e tipo del partito antiecclesiastico, il sorpassò se non per accannimento, almen per ingegno e per l’originalità di vestire apparenza cattolica a un’opera, dove ogni periodo fosse un dardo contro la cattolica Chiesa: anzi la sua è la prima storia diretta di proposito alla denigrazione, applicata a tutti i fatti, che il narratore non pondera, ma accumula[427]. Onde dal suo esempio può chiarirsi quanto vadano collegati il dogma [548] e la Chiesa, e come s’illudano coloro che questa combattono a fidanza, dichiarando rispetto a quello.
Marcantonio De Dominis dalmato (1556-1624), a vent’anni gesuita, professore a Padova d’eloquenza, filosofia, matematica, da Rodolfo II fu destinato vescovo di Segna in Dalmazia, poi arcivescovo di Spalatro. Le sue vivezze gli procacciavano brighe dappertutto; scrisse a difesa de’ Veneziani contro Paolo V; e vedendo le proprie opere riprovate dall’Inquisizione romana, passò ne’ Grigioni, poi ad Eidelberga, infine a Londra, dicendo voler faticarsi a rannodare le divergenti sêtte cristiane: ma nel fatto vi cercava libertà di studj e di professione. Fu lui che pubblicò la storia del Sarpi col nome anagrammatico di Pietro Soave Polano, e con prefazione e note che l’invelenivano, ed ebbe favorevole accoglienza da re Giacomo I. Ma per rimorsi o per naturale leggerezza, montò un giorno in pulpito disdicendosi; col che scadde d’ogni credito. Gregorio XV, già suo scolaro, l’invitò al ritorno, ed egli venne, ed abjurò in concistoro di cardinali per ricuperare il vescovado. Succeduto però il rigoroso Urbano VIII, come incostante e recidivo il fe chiudere in Castel Sant’Angelo, ove morì durante il processo, e il cadavere ne fu arso col trattato suo Della repubblica ecclesiastica, nel quale impugna la primazia del papa e l’autorità de’ concilj in materia di fede: opera che da molti fu confutata.
Il Sarpi ci è dipinto come uomo integerrimo, continuo allo studio ed a raccogliere da ogni parte, ma per poi pensare a modo proprio. Cinque volte tentato ed una volta colpito da assassini, esclamò, — Conosco lo stile della romana curia»; motto che fece fortuna, onde, non osandosi imputare il papa che n’attestò vivo rammarico, restò vulgare opinione che il colpo venisse dal cardinal Borghese o dai Gesuiti, capri emissarj[428].
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Roma però pensava altro modo di ribattere i colpi di lui, e commise un’altra storia d’esso concilio a Terenzio Alciato gesuita romano. Raccolse egli una congerie di materiali; che, essendo egli morto, furono affidati all’altro gesuita Pallavicino Sforza (1607-67) pur di Roma, uno dei migliori in quello stile leccato che per alcuni è il solo bello. Ebb’egli aperti gli archivj più ricchi, cioè i romani, e, a differenza del Sarpi, indica continuamente la natura dei documenti e i titoli; dà un catalogo degli errori di fatto del Sarpi fin alla somma di trecensessantuno, oltre infiniti altri (dic’egli) confutati di transenna. Il più vantato storico della odierna Germania, il protestante Ranke, confrontò le asserzioni di lui coi documenti a’ quali s’appoggia, e lo trovò di scrupolosa esattezza; bensì alcune volte s’appose in fallo, e come avviene nella polemica, eccedette; vuole scagionar tutto, perchè tutto accagionava frà Paolo; affievolisce dove non può negare; dissimula qualche objezione, qualche documento; sta poi a gran pezza dal brio del Sarpi, oltre il disavvantaggio di chi è ridotto a schermirsi, e [550] ribattere ogni tratto l’opinione altrui. Dove il Sarpi è sottile, maligno e di felice talento nell’esposizione, quantunque scorretto nella lingua, il Pallavicino è ingegnoso, ma fa sentire sempre l’arte, paniccia i pensieri nelle frasi, e per istudio d’armonia casca talvolta nell’oscuro, spesso nell’indeterminato, e convince del quanto l’eleganza resti inferiore alla naturalezza. Frà Paolo suppone sempre distinta la verità dalla probità, donde bassezze e ipocrisie; mentre il Pallavicino rivela caratteri nobili, salde persuasioni, generose resistenze; istruisce meglio, ma il Sarpi è letto più volentieri, come avviene di chi attacca; nè l’uno nè l’altro hanno l’imparzialità di storici, volendo questo denigrare ogni atto, quello difenderli tutti; e ai cercatori della verità riesce doloroso il trovarsi costretti a ricorrere a due fonti, entrambe sospette per opposto eccesso.
La storia era stata chiamata dai Protestanti a coadjuvarli, e nelle Centurie di Magdeburgo pretendevasi osteggiare il cattolicismo, raffacciando le antiche alle credenze e alle pratiche odierne. Vi si oppose dunque una storia ecclesiastica tutta in senso cattolico e propugnatrice della primazia papale, per opera di Cesare Baronio (1538-1607) da Sora nel Napoletano. Dagli archivj pontifizj trasse egli documenti importanti alla storia di tutta la civiltà, della quale Roma era fin allora stata il centro; e noi già l’indicammo come la fonte migliore per la conoscenza del medioevo (tom. VII, pag. 351). Arrivò solo al fine del XII secolo, donde lo continuarono poi il Rainaldi e il Laderchi. Piissimo uomo, lavorava l’intera giornata all’opera sua, e mangiava colla servitù; nè cambiò tenore dopo ornato cardinale. Non iscusa mai il delitto, e ne’ successi vede sempre il castigo o il premio di Dio: tema eccellente per prediche, ma fallace perchè suppone che la retribuzione tocchi quaggiù. Ignorava il greco, e facea tradurre dal Muzio. Frà Paolo [551] esortava il dottissimo Casaubono a scrivere contro del Baronio, del quale non è mal che non dica; lo scaltrisce però di nol tacciare di fraude o malafede, chè nessuno gli crederebbe di quanti il conobbero, essendo uomo integerrimo; se non che bevea le opinioni di chi stavagli attorno[429]. Neppur la venerazione alla santa Sede nol fa dissimulare i vizj di qualche pontefice, e «ben ponderate (dice) le sconvenienze del metterne a nudo le colpe, stimo meglio esporle francamente, anzichè lasciar credere agli avversarj che i Cattolici siano conniventi alle debolezze de’ papi». Anche il cardinale Pallavicino, a chi l’appuntava d’aver rivelato le loro azioni biasimevoli rispondeva: — Lo storico non è panegirista; e lodando meno, loda assai più di qualunque panegirista»[430]. E ai dì nostri il più avventato lodatore dei papi diceva, che a questi non si deve se non la verità.
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La Riforma intanto scorreva ad orme di sangue l’Europa, e un secolo e mezzo si volle prima che questa recuperasse un assetto, che non poteva più consistere se non in un equilibrio tra forze contrastanti. Principale teatro a que’ movimenti fu la Germania, che fra accordi, soprattieni, paci di religione, straziata nelle viscere, cessò d’essere a capo dell’Europa com’era stata tutto il medioevo; gl’imperatori non poteano occuparsi a riparare giorno per giorno il torrente, il quale alfine traboccò in quella che chiamarono guerra dei Trent’anni; guerra per la libertà non de’ credenti, bensì dei principi d’introdurre la religione che volessero e d’obbligarvi i sudditi. Vi fu involta tutta l’Europa continentale; e la ferocia di ducentomila masnadieri impuniti recò la perdita di due terzi della popolazione germanica e di tutto il commercio, finchè la pace di Westfalia nel 1648 rimetteva le cose della religione quali erano al trattato d’Augusta; fossero tollerate, non tutte le credenze, concetto ancora affatto fuor di stagione, ma la luterana e la calvinista; l’Impero ebbe un raffazzonamento debole all’esterno non men che all’interno, ottenendo ciascuno Stato la sovranità territoriale nelle cose ecclesiastiche come nelle politiche; e stabilito un patto che, cancellando il religioso del medioevo, diventava base civile e del nuovo diritto delle genti.
Chi pensi a ciò, e a quanto sangue costasse dappertutto il mutamento di credenze, si rallegrerà anche umanamente [553] che l’Italia siasi conservata nella nave di Pietro: pure le tempeste non vi rabbonacciarono così presto. Coloro che per curiosità letteraria o per incalorimento religioso aveano sdrucciolato e tirato altri allo sdrucciolo, ne furono stornati dai cresciuti rigori: i pertinaci nelle novità uscirono di patria, e fondarono chiese italiane a Zurigo, a Ginevra, a Londra, ad Anversa, a Lione, altrove: in qualche parte del nostro paese il conflitto fu prolungato.
Indicammo (t. IX, p. 451) l’orzeggiare di Carlo III duca di Savoja nella politica, e come aspirasse a cose alte, le quali non seppe raggiungere: fallitegli le altre spedienze, fu chi l’esortava a trar profitto dalla Riforma per assicurarsi grande importanza in Italia, accogliendosi intorno quanti reluttavano al papato. Anemondo di Coct, cavaliere del Delfinato fervorosissimo della nuova fede, esortava Lutero perchè inducesse esso duca ad abbracciarla: — Egli è grandemente propenso alla pietà, alla religione vera[431], ed ama discorrere della Riforma con persone della sua Corte. Sua divisa è Nihil deest timentibus Deum; la quale è pure la vostra. Mortificato dall’Impero e dalla Francia, avrebbe modo d’acquistare somma ascendenza sulla Svizzera, la Savoja, la Francia». E Lutero gli scrisse, ma senza effetto; di rimpatto i tre Stati di Savoja nel 1528 richiedevanlo a tener in pronto milizia che bastasse a reprimere i tentativi de’ Riformati, che temeano si spandessero nel paese. A lui poi rifuggivano i Cattolici d’oltr’Alpe e il vescovo di Ginevra perseguitati, coi quali tenne assediata un anno quella metropoli del calvinismo. Per quest’impresa il papa gli aveva consentito di levare le decime sugli ecclesiastici e gli argenti delle chiese, gli promise anche soccorsi, e ne scrisse ai principi cattolici: [554] ma i cantoni di Berna, Friburgo, Zurigo vennero a liberare la città loro alleata[432].
Carlo III vagheggiava il concetto allora prevalente d’unificare lo Stato, e questo lo traeva a svellere l’eresia dalla patria italiana. Chi da Torino procede a libeccio verso le alpi Cozie, dopo Pinerolo vede fra monti più o meno selvaggi aprirsi una successione di valli: a settentrione quella di Perosa, e più oltre quella di Pragelato; a mezzodì di queste la valle di Rorà più piccola ed elevata; a occidente quella di Luserna, da cui diramasi quella d’Angrogna, e che da un lato chinasi al Piemonte, dall’altro pel col della Croce dà adito al Delfinato, importante passaggio d’eserciti e di merci per Francia. Lungo i torrenti Angrogna e Pellice, che le irrigano e non di rado le devastano, si stendono pingui pascione, da cui a scaglioni si elevano piani studiosissimamente coltivati dagli abitanti, che nella pastorizia, nella caccia, nella pesca, nell’educare i cereali, i gelsi, la vigna, i boschi, e nel cavare lavagne esercitano la forte vita. Alle scene campestri più in su e più in dentro ne succedono di austere, con nevi quasi perpetue e terror di valanghe. Vi si parla piemontese con mistura ancor maggiore di francese.
Colà, medj fra la pianura subalpina e le gigantesche Alpi, gli avanzi di que’ Valdesi che nel secolo xiii ci diedero a ragionare (tom. VI, pag. 340), si erano ritirati sotto la direzione di anziani, detti barba, cioè zii, carezzevole nome di famiglia, donde ebbero nome di Barbetti. Avversi a Roma e ai riti che qualificavano d’idolatrici, pretendeano aver conservata la interezza dell’evangelica predicazione; ma smesse le dispute dogmatiche, stavano paghi di poter credere e adorare come la coscienza loro dettava; e sì poco dissentivano dalle [555] credenze cattoliche, che talvolta in difetto di barbi chiedeano sacerdoti nostri.
Andavano alcuni ad apostolarli, fra cui Antonio Pavoni di Savigliano fu da essi ucciso. San Vincenzo Ferreri nel 1403 scriveva al suo generale come avesse predicato in Piemonte e in Lombardia: — Tre mesi occupai a scorrere il Delfinato, annunziando la parola di Dio; ma più mi badai nelle tre famose valli di Luserna, Argentiera e Valputa. Vi tornai due o tre volte, e sebbene il paese sia zeppo d’eretici, il popolo vi ascoltava la parola di Dio con tal devozione e rispetto, che dopo avervi piantato la fede, Dio soccorrente, credetti dovervi ricomparire per confermar i fedeli. Scesi poi in Lombardia a preghiera di molti, e per tredici mesi non cessai d’annunziarvi il Vangelo. Penetrai quindi nel Monferrato e in altri paesi transalpini, dove ho trovato molti Valdesi ed altri eretici, principalmente nella diocesi di Torino...; e Dio sosteneva visibilmente il mio ministero. Queste eresie derivano principalmente da profonda ignoranza e difetto d’istruzione: molti mi assicurarono che da trent’anni non v’aveano inteso predicare se non qualche ministri valdesi, che soleano venirvi di Puglia due volte l’anno. Di ciò io arrossii e tremai, considerando qual terribile conto avranno a rendere al supremo pastore i superiori ecclesiastici. Mentre alcuni riposano tranquillamente ne’ ricchi palazzi, altri vogliono esercitare il ministero soltanto nelle grandi città, lasciano perir le anime, che sprovviste di chi spezzi loro il pane della parola, vivono nell’errore, muojono nel peccato... Nella valle di Luserna trovai un vescovo d’eretici, che avendo accettato una conferenza con me, aprì le luci al vero, ed abbracciò la fede della Chiesa. Non dirò delle scuole de’ Valdesi e di quanto feci per distruggerle; nè delle abominazioni d’un’altra setta in una valle detta Pontia. Benedetto il Signore [556] della docilità con cui questi settarj rinunziarono ai falsi dogmi, e alle usanze criminali insieme e superstiziose! Altri vi dirà come fui ricevuto in un paese, ove già tempo si erano rifuggiti gli assassini di san Pietro Martire. Della riconciliazione de’ Guelfi e Ghibellini e della generale pacificazione de’ partiti, meglio è tacere, a Dio solo rendendo tutta la gloria»[433].
Così operavano i missionarj: ma il tenersi tranquilli non sempre sottraeva i Valdesi da sospetti e animadversioni de’ governi, massime per parte della Francia, ombrosa della loro vicinanza. Re Carlo VIII gli avea tolti a perseguitare, e papa Innocenzo VIII esortato all’armi contro questi aspidi velenosi: e in fatto nelle placide valli d’Angrogna e Pragelato condusse un esercito il legato; al cui avvicinarsi alcuni abjurarono, altri si ridussero fra monti più inaccessi; ma re Luigi XII, dopo presane informazione, esclamò: — Son migliori cristiani di noi». Quando però essi ebbero contezza della Riforma, alla quale non erano spinti per reazione come gli Svizzeri e i Tedeschi, deputarono (1530) alcuni loro barbi ai capi di quella in atto d’adesione; ma gl’informavano qualmente usassero la confessione auricolare, i loro ministri vivessero celibi, alcune vergini facessero voto di perpetua castità[434]. A chi pretendeva le dottrine [557] riformate essere antiche quanto il cristianesimo, spiacque il trovare che questi pretesi contemporanei degli Apostoli discordassero in punti così dibattuti, e singolarmente che prendessero scandalo dell’opera di Lutero contro il libero arbitrio.
Maggiore conformità si pretese trovarvi colle dottrine di Calvino, il quale, penetrato in val d’Aosta, diede calda opera perchè questa abbracciasse la sua credenza, e togliendosi a Savoja, si fondesse coi Cantoni protestanti svizzeri. Gli Stati però di quella valle, adunatisi nel febbrajo 1536, presero severi provvedimenti per la conservazione della fede cattolica. Meglio riuscì coi Barbetti il celebre ginevrino Farel, e gl’indusse a pubblicare la loro professione di fede, e chiarirsi o divenire calvinisti, abolendo i suffragi pei defunti, i digiuni, il sagrifizio della messa, tutti i sacramenti eccetto il battesimo e la cena, e credendo alla predestinazione e alla salvezza per mezzo della sola fede, nè altri che Cristo esser mediatore fra Dio e gli uomini.
Era questo veramente il loro simbolo antico? o è vero che da prima ammettessero l’efficacia delle opere? Quando ai novatori rinfacciavasi d’esser nati jeri, importantissimo riusciva l’accertarsi di ciò, e quindi se ne discusse con quell’accannimento che sempre inscurisce la verità.
Nelle loro valli cercarono ricovero molti dei perseguitati in Italia, tra cui Domenico Baronio prete fiorentino, che volle comporre una messa, la quale conciliasse il nostro rito con quello de’ Valdesi; ma fu ricusata [558] come di mera fantasia[435]. Scrisse pure diversi libri latini e italiani contro la Chiesa cattolica, in uno dei quali sosteneva, in tempo di persecuzione essere necessario manifestare patentemente le proprie opinioni religiose; nel che venne contraddetto da Celso Martinengo.
Ecco dunque strappati i Valdesi dalla quieta loro oscurità per fortuneggiare nelle procelle d’un tempo sospettosissimo; e subito il parlamento d’Aix e quel di Torino applicarono ad essi le leggi comminate agli eretici, e il rogo e il marchio; poi, perchè maltrattavano i frati spediti a convertirli, si bandì il loro sterminio, e che perdessero figli, beni, libertà. Forte vi s’oppose il Sadoleto vescovo di Carpentras; e re Francesco I, vedutili mansueti e che pagavano, diè loro tre mesi di tempo per riconciliarsi; scorsi i quali, Giovanni Mainier barone d’Oppède, preside al parlamento, l’indusse a dare esecuzione all’editto. Adunque una fanatica soldatesca vi comincia il macello: quattromila sono uccisi, ottocento alle galere, ventidue villaggi sterminati. Il racconto sente delle esagerazioni consuete a tempi di partito; fatto è che, per quanto universale e sanguinaria fosse l’intolleranza, ne fremette la generosa nazione francese, e il re morendo raccomandava a suo figlio castigasse gli autori di quell’eccesso; ma per protezione questi rimasero impuniti, il che i Protestanti recaronsi a grand’onta.
Passarono anni, e sottentrò duca di Savoja Emanuele Filiberto (1553); e poichè i Valdesi prendeano baldanza dall’incremento dei loro religionarj di Svizzera e di Francia, fu deputato l’inquisitore Tommaso Giacomelli che sollecitasse il duca a forzarli all’obbedienza della Chiesa. Allora si vietano con gravi comminatorie l’esercizio pubblico del culto e le prediche dei barbi; sicchè Scipione [559] Lentulo, napoletano di molta dottrina, e Simone Fiorillo, che v’erano ricoverati, trasferironsi a predicare in Valtellina; altri pure abbandonarono quel ricovero, mentre andavano ad apostolarvi pii missionarj, fra cui il Possevino, e si tentavano tutte le vie di conciliazione. Crescendo i rigori, i Valdesi irritati si levano a rivolta; il duca, sì per affetto alla religione avita, sì per timore che i Francesi, accorrenti in gran numero a soccorso dei loro fratelli, non rimettessero in pericolo la nazionale indipendenza, vi spedì truppe, che nella difficile guerra di montagna recarono e soffersero gravi strazj. Alfine vedendo la difficoltà dell’esito e l’inopportunità dei mezzi, egli concesse ai Valdesi perdono (1561 5 giugno), e di tener congreghe e prediche in determinati luoghi; ma non uscissero dai confini, e non escludessero i riti dei Cattolici.
I duchi di Savoja pubblicarono molti editti per sistemarli o per comprimerli; v’andavano spesso inquisitori o missionari, e vi si adoperarono le arti della persuasione e della preghiera, massime quando la Savoja fu illustrata dalle virtù di Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Annecy poi di Ginevra. Il duca Carlo Emanuele I mandò pregarlo venisse a Torino, per divisare i modi di tornare alla verità il Ciablese; e il santo propose che del traviamento era stata causa principale il non conoscer altra religione, sicchè bisognava spedirvi missionarj zelanti, capaci di dissipare le prevenzioni e confutar le calunnie; si escludessero dalla Savoja i ministri calvinisti; ai libri ereticali se ne surrogassero di buoni; s’introducessero i Gesuiti per educare i giovani e sostenere le controversie. Il duca promise tutto, e cooperava col santo nel convertire i Savojardi; li traeva al suo castello di Thonon, e accoltili con grazia, esponeva loro gli argomenti più efficaci a dimostrare l’unità della fede e della Chiesa; molti corrisposero alle sue [560] premure, e quand’egli usciva, la gente faceasegli attorno gridando: — Viva sua altezza reale! viva la Chiesa romana! viva il papa»[436]. Ma fra i ministri di Carlo non pochi inclinavano alle novità; e il Sales ebbe troppo ad esercitare la modesta sua maestà e la dolce persuasione onde rinnovare i riti cattolici nella Savoja, donde alfine i Calvinisti furono esclusi. Cristina di Francia, venuta sposa al principe di Piemonte, volle avere Francesco per limosiniere, ed egli dopo lunghe istanze accettò, a patto di non dover staccarsi dalla sua residenza. Essa gli regalò un bel diamante, e presto il santo lo vendè: gliene diede allora un altro, e facendole esso intendere non gli era possibile conservare preziosità finchè poveri vi fossero, lo pregò di nol vendere, ma impegnarlo, ed ella medesima lo riscatterebbe.
In quel mezzo i Valdesi, principalmente colla protezione del maresciallo Lesdiguières, che da Carlo Emanuele aveva ottenuto per essi un editto di grazia, ripassarono il Pellice, confine prescritto, s’introdussero nelle valli di Susa e di Saluzzo, fabbricarono tempj, celebrarono solenni pasque, e commisero profanazioni e delitti che la storia riceve con gran precauzione, conscia delle assurdità onde i partiti sogliono recriminarsi. Usciti vani i ripetuti editti, e nuove concessioni e rigori di Carlo Emanuele II per ricacciare i Barbetti fra i designati confini, il marchese di Pianezza (1653) accampò in mezzo a loro, e fece occuparne gli abituri. Si ritirarono essi sulle cime più erte, e al Prato del Forno si munirono insuperabilmente.
Amanti la patria come chi l’ha infelice, ribaditi nelle loro credenze dal vederle perseguitate, i Valdesi scrissero ogni loro avvenimento, e il giornale delle fughe, delle vittorie, dell’esiglio con quella passione, che, se [561] scema fede, cresce interesse, e che oggi pure attrae noi lontani, noi dissidenti. Or che doveva essere allora, e tra religionarj? Giovanni Léger, ministro a Prali e Rodoreto, che gli aveva empiti di sospetti contro i Piemontesi, poi al sinodo di Boissel determinati all’insurrezione, descrivendo e (speriamo) esagerando le persecuzioni da loro sofferte, massime nella Storia delle Chiese evangeliche nelle valli del Piemonte (Leida 1669), eccitava l’indignazione de’ Riformati di tutta Europa; narrò le vergini stuprate, le madri impalate, i fanciulli sfracellati contro le roccie, il paese sparso d’incendj dal Pianezza sollecitato da frati; v’aggiunse l’allettativo de’ disegni di que’ martirj; onde fra i coetanei Carlo Emanuele II passò per un Nerone. Rimostranze fioccarono dall’Olanda, dalla Svizzera, principalmente da Cromwell, protettore dell’Inghilterra; il quale ai perseguitati offrì asilo e terre in Irlanda, e decretò a lor sussidio una rendita perpetua di dodicimila sterline. Finalmente interpostasi la Francia, a Torino fu ricomposta la pace (1655 31 luglio) con perdonanza generale e colle concessioni di prima.
Non è vinto un nemico che si lascia intatto di forze; e ben presto nuovi tumulti, principalmente nel 1663, v’attirarono nuove armi e guerre, fomentate dai molti ch’erano rifuggiti in Isvizzera, e che, come tutti i fuorusciti, sommoveano la patria per desiderio di ricuperarla; tanto più che il Léger non cessava d’accannire gli animi imbrunendo ogni atto del Governo, di portar lamenti ai principi protestanti, accumular calunnie, armi, denari con soscrizioni; implacabile finchè non morì ministro a Leyda.
Luigi XIV in quel tempo (1685) rivocava l’editto di Nantes, pel quale Enrico IV avea concesso libero culto in Francia ai Calvinisti, colà detti Ugonotti. Molti profughi da quel reame ricoverarono nelle valli subalpine per sottrarsi [562] al carcere e alle dragonate; onde il gran re persecutore domandò al duca di Savoja spegnesse quel focolajo d’eresia e di ribellione sulle frontiere del Delfinato; e spedì truppe per indurlo ed ajutarlo a cacciarli. Vittorio Amedeo II, per quanto mostrasse ch’erano nel pieno loro diritto, non credette poter negarglielo, e intimò che fra due mesi tutti i Protestanti del marchesato di Saluzzo si rendessero cattolici; se no, morte e confisca. Pertanto di quelli sparsi ne’ Comuni di Paesana, Bioletto, Croesio..., non uno rimase: anche nelle valli privilegiate interdisse quel culto fin nelle case private, fossero demolite le chiese, espulsi i barbi, i bambini si allevassero cattolici; se no cinque anni di galera ai padri e sferzate alle madri: i Riformati stranieri uscissero, vendendo i loro beni, che altrimenti sarebbero comprati dal fisco.
Per eseguire l’intollerante decreto bisognò un esercito, e lo comandò Vittorio Amedeo in persona, forse per farlo meno esiziale. I Barbetti scannarono e salarono il bestiame, e rifuggirono fra le Alpi meno accessibili, mentre i robusti s’accingeano a respingere valorosamente le truppe. Chi, conoscendo la potenza del gran re e il valore del maresciallo Lesdiguières e del Catinat, mal sapesse persuadersi che un pugno di Valdesi vi resistesse e felicemente, mostrerebbe non conoscere la possa di gente che difende la patria e le credenze, l’importanza della guerra di montagna, e sovrattutto le insuperabili posizioni di Balsilla, di Serra il Crudele e d’altre dell’Alpi valdesi, ove due possono resistere a mille, e i sassi sepellire cavalleria e cannoni. Ma la disciplina del nemico e più la fame peggioravano la situazione de’ Barbetti, che furono uccisi, mandati alle carceri, alle galere (1689); a molti concesso di riparare fra gli Svizzeri.
Di là ribramavano la patria; alcuni per forza vollero [563] ricuperarla, e una colonna di novemila penetratavi, sterminò chi resisteva; ma molti di loro furono côlti ed appiccati. Essendosi però in quel tempo il duca di Savoja guastato colla Francia, consentì ai Barbetti il ritorno. I quali, unitisi in reggimenti colla divisa La pazienza stancata divien furore, gravemente danneggiarono il Delfinato. Quando poi Vittorio Amedeo si ricompose in pace con Luigi XIV, e ricuperò Pinerolo e val Perosa, da sessantasei anni obbedienti a Francia, egli riprese l’antica tolleranza, ma vietò ogni comunicazione tra i Valdesi suoi sudditi e quelli di Francia, i quali in numero di duemila cinquecento uscirono allora dal Piemonte per ricoverarsi in Isvizzera, nella Prussia, nell’Assia, nella contea d’Isemberg, nel Würtemberg, nel Baden-Durlach.
I rimasti abitarono poi sempre in pace quelle valli, silenziosi obbedendo ed anche amando il loro principe e oppressore. Nel 1603 aveano pubblicata la loro professione di fede, consentanea alle Chiese riformate; la ripeterono nel manifesto del 1655, e conserva forza legale, benchè da una parte scassinata dal razionalismo, dall’altra dalle esaltazioni dei Moumiers. Dianzi contavano quindici chiese, ciascuna con un ministro, che dev’essere suddito sardo, stipendiato dagli abitanti, i quali per tal uopo ottengono una diminuzione sull’imposta. Le chiese sono dirette da un sinodo che ogni cinque anni si raccoglie, composto di tutti i pastori e di deputati laici. La Tavola, che è una magistratura di tre ecclesiastici e due laici, dirige negl’intervalli fra un sinodo e l’altro, è rieletta ad ogni sinodo, risolve le controversie, ripartisce le limosine. Ogni chiesa poi ha un concistoro suo proprio, composto del pastore, degli anziani, dell’economo, del procuratore, che cura l’amministrazione spirituale e temporale, i buoni costumi, i poveri, le scuole che vi sono frequentate e ben dirette. Poi, a tempi determinati, il ministro va a cercar le [564] popolazioni isolate fra le Alpi, per recar ad esse il ristoro della religione. Allora da tutte le vallee, da tutti i vertici accorrono i mandriani sui passi del ministro; la melodia degl’inni ridesta l’eco delle vallate, e si diffondono nelle ripopolate solitudini le lodi del Signore e i salmi della fede e della consolazione. Il ministro ha pei singoli un consiglio, un conforto, un rimprovero; compone dissidj, concilia matrimonj, sradica scandali; poi a tutti insieme infrange dalla cattedra il pane della parola, e raccomanda loro di vigilare, pregare, star in fede.
Solo entro i loro confini poteano i Valdesi possedere, ed essere anche notaj, architetti, chirurghi, procuratori, speziali, amministratori del Comune. In tal condizione rimasero fin al 17 febbrajo 1848, quando furono dichiarati eguali a tutti gli altri sudditi sardi; allora si estesero dove vollero, e in mezzo a Torino non solo, ma in ogni città han tempio, han predicazione, han giornali, hanno apostolato, e ispirano paure e speranze.
Da queste valli subalpine sin dal 1370 alcuni erano sciamati in Calabria, terreni incolti riducendo popolati ed ubertosi; e crebbero fino a quattromila, esercitando i riti religiosi diversamente dai Cattolici, tollerati dai signori de’ luoghi perchè quieti e pagavano. Udita la Riforma di Germania, mandarono a Ginevra chiedendo dottori, che in fatto vennero e fecero proseliti. Il cardinale Alessandrino, capo dell’Inquisizione a Roma, inviò predicatori, inviò minaccie, ma senza frutto, onde si ebbe ricorso al braccio secolare. Il duca d’Alcala vicerè spedì un giudice e molti soldati, che, secondando i missionarj, costringevano andare alla messa, i disobbedienti punendo nei beni e nella persona. I quali, spinti alla disperazione, impugnarono le armi, e prima alla spicciolata, poi in giuste battaglie combatterono; alfine disfatti (1561), si ricoverarono alla Guardia Lombarda; quivi [565] per forza e per tradimenti presi, furon messi sotto fieri giudizj, e i renitenti a supplizj studiatamente atroci. Serrati in una casa tutti, veniva il boja, e pigliatone uno, gli bendava gli occhi, poi lo menava in una spianata poco distante, e fattolo inginocchiare, con un coltello gli segava la gola e lo lasciava così: di poi, con quella benda e quel coltello insanguinati, ritornava a prender un altro, e farne altrettanto. Ce lo narra un testimonio oculare, che fa perirne così fin a ottantotto. «I vecchi vanno a morire allegri; i giovani vanno più impauriti. Si è dato ordine, e già sono qua le carra, e tutti si squarteranno, e si esporranno di mano in mano per tutta la strada che fa il procaccio fino ai confini della Calabria; se il papa ed il signor vicerè non comanderà al signor marchese (di Buccianico) che levi mano. Tuttavia fa dar della corda agli altri, e fa un numero per poter poi fare del resto. Si è dato ordine far venir oggi cento donne delle più vecchie, e quelle far tormentare, e poi far giustiziare ancor loro, per poter fare la mistura perfetta. Ve ne sono sette che non vogliono veder il crocifisso, nè si vogliono confessare, i quali si abbruceranno vivi. In undici giorni si è fatta esecuzione di duemila anime; e ne sono prigioni mille seicento condannati; ed è seguita la giustizia di cento e più ammazzati in campagna, trovati con l’arme circa quaranta, e gli altri tutti in disperazione a quattro e a cinque; bruciate l’una e l’altra terra, e fatte tagliare molte possessioni»[437]. Luigi Pasquale loro [566] capo fu arso a Roma; altri messi a remare sulle galere spagnuole.
Sappiamo (tom. VIII, pag. 92) come una parte d’Italia, appartenente al ducato di Milano, fosse, nelle vicende del secolo precedente, caduta in dominio degli Svizzeri e dei Grigioni loro confederati. I tre Cantoni elvetici primitivi di Uri, Svitto, Unterwald aveano occupato i baliaggi di Bellinzona, Blenio e Riviera, stendentisi dal Lago Maggiore alle vette del Sangotardo: tutti i dodici Cantoni insieme tennero i baliaggi di Lugano, Locarno, Mendrisio, Valmaggia, attorno ai laghi Ceresio e Verbano. Colla Riforma si inimicarono gli uni agli altri i Cantoni, e mentre colla Chiesa stettero Uri, Svitto, Unterwald, Lucerna, Zug, Soletta e Friburgo, gli altri ne disertarono. Dai Cantoni dominanti venivano balii a governare le podestarie cisalpine, [567] comprando quella carica a denaro, e rifacendosene col rivender la giustizia; e secondo che essi Cantoni ed i balii erano cattolici o protestanti, trovavano persecuzione o favore gli apostati. Gli Orelli e i Muralti, famiglie primarie in Locarno, innestarono alla lor patria le dottrine nuove; e un Baldassarre Fontana carmelitano di là scriveva alle chiese svizzere fedeli a Gesù Cristo perchè pensassero al Lazzaro del Vangelo, che desiderava nutrirsi delle bricciole cadute dalla mensa del Signore; mossi dalle lacrime e supplicazioni di lui mandassero «le opere del divino Zuinglio, dell’illustre Lutero, dell’ingegnoso Melantone, dell’accurato Ecolampadio»: e dessero opera perchè «la nostra Lombardia, schiava di Babilonia, acquistasse quella libertà che il vangelo impartisce».
Colà erano rifuggiti non pochi Italiani; allettati dalla [568] vicinanza, dal clima, dalla lingua, dai costumi ancora italiani; e principalmente un Beccaria milanese, amico dell’Ochino e del Carnesecchi, v’avea diffuso gl’insegnamenti di questi, predicando con altri frati apostati, sinchè venuto un balio cattolico lo cacciò prigione. I suoi devoti nel trassero a forza, ed egli crebbe in baldanza, poi reputò prudenza ricoverare nella valle Mesolcina, ove ammogliatosi tenne a educazione figliuoli d’Italiani che li volessero allevati nella Riforma.
Questa prossimità turbava i sonni del papa e del re di Spagna come duca di Milano. Pertanto Carlo Borromeo, che già aveva istituito il collegio Elvetico a Milano ove preparare pastori a que’ paesi, penetrato nella Svizzera in qualità di legato pontifizio, vi esercitò anche giurisdizione di sangue contro maliardi ed eretici (p. 352). A sua istanza i Cantoni cattolici posero impedimento a quel dilatarsi dell’eresia in Italia, e malgrado l’ostare de’ Cantoni riformati, stanziarono severi divieti, e infine intimarono (1555 marzo) che chi non volesse andar alla messa, abbandonasse la patria coi beni e le famiglie. Pertanto un gran numero di persone colle donne e i figliuoli varcarono il Sanbernardino, e indugiatisi alcun tempo nella Mesolcina, entrarono nei Cantoni riformati, e principalmente a Zurigo. Fra quegli esuli Taddeo Duni locarnese vi si segnalò come medico, amico del famoso naturalista Gesner, stampò varie opere, e tradusse in latino alcune dell’Ochino e dello Stancari. I nostri fecero fiorire a Zurigo l’arte della seta, lasciarono a una strada il nome di Lombardi; alcuni dei Duni, degli Orelli, dei Muralti, de’ Pestalozzi furono benemeriti della scienza e dell’umanità; v’ebbero chiesa italiana, amministrata dapprima dal Beccaria, poi dall’Ochino, e illustrata da Pietro Martire, da Lelio Socino, mal vista però dal Bullinger e dagli altri apostoli della Chiesa svizzera. [569] Anche a Ginevra dimoravano moltissimi dei nostri, e ogni giovedì vi predicavano in italiano[438].
E però forza credere che la pieve di Locarno non restasse ancora mondata, giacchè attorno al 1580 il papa trovò bisogno di commetterla alle particolari ispezioni dello Speziano vescovo di Novara.
Da quel punto un nunzio pontificio sedette sempre nella Svizzera, ove si fondarono scuole di Cappuccini ad Altorf per le classi inferiori, e di Gesuiti a Lucerna per le superiori. Col pretesto di religione, ma con intento politico il re di Spagna, qual duca di Milano, strinse una lega d’oro o borromea coi Cantoni cattolici per conservazione della Chiesa e pace dei rispettivi paesi; ove i collegati consentivano a quel re di condur gli eserciti in Lombardia traverso alle loro terre, e potervi levare uomini, mentr’egli prometteva sostenerli di tutte le sue forze.
Più seria passò la briga fra i Grigioni. Questi discendenti dagli antichi indomiti Reti, e misti con gran numero di Romani che dovettero rifuggirvi al cader dell’Impero, e che vi lasciarono dialetti somigliantissimi al loro, quali sono il romancio e il ladino, abitano valli parallele e confinanti coll’italiana Valtellina, alla quale accedono pel monte Fraele, pel Muretto, per la montagna Giulia e per lo Spluga. E Valtellina chiamasi la valle solcata dall’Adda, che nascendo dal monte Braulio vicino all’Ortlerspitz, scorre per ottanta miglia da levante a ponente fino al lago di Como. Sondrio n’è capoluogo; cittaduole secondarie Morbegno e Tirano: all’estremità orientale formava contado distinto il territorio di Bormio; presso al lago di Como devia verso la Spluga e la val Pregalia l’altro contado di Chiavenna, antichissimo valico del commercio coll’Alemagna.
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La postura rende importantissima la Valtellina, perocchè un suo fianco s’appoggia alle valli venete del Bergamasco e del Bresciano, un’estremità tocca al Tirolo, l’altra alla Lombardia, entrambi possessi della Casa d’Austria. Se questa l’avesse dominata, avrebbe potuto liberamente tragittare eserciti dalla Germania in Italia onde padroneggiarla e sommoverla, e impedire che i Veneziani potessero per di là tirare nelle lor guerre mercenarj, di cui la Svizzera era il vivajo. La politica aguzzava dunque gli occhi su quel piccolo territorio, chiave o catena d’Italia: i Grigioni la tolsero al ducato di Milano nel 1512, e benchè nella pace di Jante l’avessero ricevuta come alleata, presto l’ebbero ridotta a serva, e della servitù più trista, qual è quella a repubbliche. Persone ignoranti uscivano a governarla, non d’altro meritevoli che d’aver comprata quella magistratura all’asta, non d’altro desiderose che d’impinguarsi col vender la giustizia.
Giovanni Comander arciprete di Coira, Enrico Spreiter, Giovan Biasio e Filippo Saluzio avevano diffuso le dottrine di Calvino fra’ Grigioni, laonde essi cercavano innestarle nella Valtellina e ne’ due contadi: negavano al Borromeo di entrarvi come visitatore pontifizio, sorreggevano i Riformati a scapito de’ Cattolici, rapivano chiese a questi, e usavano i soprusi consueti in paesi ove gli interessi de’ sudditi son opposti a quelli degli imperanti. Quindi rancori e litigi, e violenze repulsate colle violenze.
Tra i Grigioni stessi i dissidj religiosi s’erano convertiti in politici, formandosi due fazioni, una detta evangelica, favorevole a Francia e capitanata dai Salis, l’altra cattolica e ligia a Spagna sotto la guida dei Planta; di che peggiorò la condizion del paese; già mal governato dall’aristocrazia, guasto dalla corruzione straniera, e oppressivo de’ sudditi. I Riformati recansi a [571] contrario il partito austriaco, e infervorati dai predicanti, abbattono i castelli dei Planta (1620), carcerano gli avversi, e a Tusis stabiliscono lo Strafgeritch, corte marziale che ergevasi con poteri dittatorj qualora lo statuto patrio pericolasse.
Qui cominciano processi violenti e supplizj e bandi; Nicolò Rusca, santo arciprete di Sondrio, muore sulla corda; molti caporioni cattolici sono uccisi, altri fuggono, e spargesi voce d’una congiura ordita per trucidare tutti i Cattolici della Rezia e della Valtellina, e rendervi dominatrice esclusiva la Riforma. I Cattolici mutano la pietà in isdegno, lo sgomento in furore, e accordatisi, scannano quanti sono Protestanti nella valle (19 luglio), la quale si dichiara indipendente, e ordina governo proprio sotto Giacomo Robustelli, ch’era stato l’anima di que’ movimenti. I Grigioni accorrono alla vendetta; le vittorie s’avvicendano; i Cattolici allora invocano l’Austria, che sempre desiderosa di quella, invade non solo la Valtellina, ma ben anche la Rezia. Però la gelosia di Francia ostava, il papa intromettevasi, e più anni trascorsero fra guerre e trattative e certa infelicità della disputata valle, incapace col proprio coraggio a sostenersi fra quei grossi ambiziosi. Alfine questi a Milano, senza tampoco ascoltare i Valtellinesi, fecero un capitolato che la restituiva ai Grigioni (1637), patto non vi dimorassero Protestanti nè Inquisizione.
Su questi fatti ritorneremo (cap. CLIII), ma qui volemmo accennarli anche trascendendo i limiti del presente libro, onde insieme raccogliere quanto ha tratto alla grande critica religiosa, gittatasi nel XVI secolo; secolo che cominciò nel modo più grandioso, colla scoperta d’un nuovo mondo e la rapida conversione di quello, col massimo fiore dell’arti e delle lettere; poi vide intromettersi la quistione religiosa, e dietro ad essa la confusione degli spiriti, l’anarchia degli atti, la tirannide [572] ammantata dal pretesto di reprimerla, il fanatismo persecutore; sicchè, invece di poter congiungere la libertà cittadina coll’indipendenza religiosa, fu d’uopo combattere dentro e fuori la barbarie che parea rinnovarsi; e fu reso possibile il succedere in Italia d’un secolo d’indecorosa miseria, ove potè giudicarsi perita la civiltà da chi non credesse fermamente che la Provvidenza per la via del male guida l’umanità a continuamente procedere verso idee più vere, costumi più umani, libertà meglio intesa.
FINE DEL LIBRO DECIMOTERZO E DEL TOMO DECIMO
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LIBRO DECIMOTERZO | ||
Capitolo | ||
CXL. | Secolo di Leon X. Belle arti | Pag. 1 |
CXLI. | Lingue dotte. Risorgimento della italiana. La Crusca. La Critica | 118 |
CXLII. | Poeti del secolo d’oro. Il teatro | 168 |
CXLIII. | Indole di quella letteratura. I mecenati. Gli artisti | 222 |
CXLIV. | Costumi. Opinioni | 283 |
CXLV. | La riforma religiosa procede. Opposizione papale. Riformati italiani. Inquisizione | 361 |
CXLVI. | Rimbalzo cattolico. Concilio Tridentino. Riforma morale | 439 |
CXLVII. | Quistioni giurisdizionali. Diritto cattolico. Il Sarpi e il Pallavicino | 499 |
CXLVIII. | Guerre religiose. I Valdesi. La Valtellina | 552 |
1. Quante cose restino ancora a rivelarsi sulle arti nostrali appare dall’opera di Runge, che testè si pubblicò a Berlino, Beiträge zur Kenntniss der Backsteinarchitecture Italiens.
2. Ha il diametro di quarantatre metri, alta cento metri dal suolo, quarantadue dalla cornice del tamburo all’occhio del lanternino; meno alta di quella del Vaticano sol perchè meno elevati i piloni su cui imposta; ma la supera di quattro braccia di larghezza; non ha rinfianchi o gradinate o speroni, bastando alla solidità sua i costoloni degli otto spicchi; eppure non ebbe bisogno di cerchi di ferro, nè diede quelle tante paure, per cui grossi volumi si scrissero e i principali architetti studiarono intorno a quella di Michelangelo.
3. Duplices facito clausuras, secto duobus locis flumine, spacio intermisso quod navis longitudinem capiat, ut, si erit navis conscensura, cum ea applicarit inferior clausura occludatur, aperiatur superior; sin autem erit descensura, contra claudatur superior, aperiatur inferior. Navis eo pacto, cum instar dimissa parte fluenti evehetur fluvio secundo: residuum autem aquæ superior asservabit clausura. — De re ædificatoria, lib. X. c. 12.
Gli Olandesi pretenderebbero il passo sovra gl’Italiani, riportando quest’invenzione fino al 1220: ma chi ponga mente al trattato Della fortificazione per chiuse di Simone Stevin, ingegnere del principe Maurizio di Nassau, stampato nel 1608, sarà chiaro dalle figure, che le chiuse a doppia imposta da lui descritte non servono che a rimontare coll’alta marea ne’ canali che vi sboccano, e non a discenderne dopo il riflusso, come si potrebbe colle nostre. In Francia dovett’essere portata l’invenzione da Leonardo da Vinci al principio del 1500; il quale forse inventò di mettere le porte ad angolo, spediente a farle facilmente servibili.
4. L’ultimo descrittore delle arti italiane ch’io conosca, Jacopo Burckhardt, dice che le finestre dell’ospedale di Milano Sind die reichsten und elegantesten gothischen Fenster, die sich in diesem Stoff bilden liessen. — Der Cicerone; eine Anleitung zum Genuss der Kunstwercke Italiens. Basel, 1855.
5. Donde l’epigramma del Sannazaro:
Jucundus geminum imposuit tibi, Sequana, pontem;
Hunc in jure potes dicere pontificem.
6. Rafaello scriveva a suo zio Simon di Battista Ciarla: — Circa a stare a Roma, non posso star altrove più per tempo alcuno, per amor della fabbrica di Santo Pietro, che sono in loco di Bramante: ma qual loco è più degno al mondo che Roma? qual impresa è più degna di San Pietro? che è il primo tempio del mondo, e che questa è la più gran fabbrica che sia mai vista, che monterà più d’un milione d’oro. E sappiate che ’l papa ha deputato di spendere sessantamila ducati l’anno per questa fabbrica, e non pensa mai altro. Mi ha dato un compagno, frate dottissimo e vecchio di più d’ottant’anni: il papa vede che ’l può vivere poco: ha risoluto sua santità di darmelo per compagno, ch’è uomo di gran riputazione, sapientissimo, acciò che io possa imparare se ha alcun bello secreto in architettura, acciò io diventa perfettissimo in quest’arte. Ha nome frà Giocondo, e ogni dì il papa ci manda a chiamare, e ragiona con noi un pezzo di questa fabbrica».
7. Sulle moltissime opere d’oreficeria di Perugia lesse un discorso Angelo Angelucci nell’accademia di quella città il 18 settembre 1853.
8. L’Oldrado da Tresseno nel Broletto di Milano è ad alto rilievo. È pur a mentovare la statua di Alberto d’Este sulla cattedrale di Ferrara.
9. Si dà per un monumento della riconoscenza de’ Veneziani; ma in fatto il Coicone lasciò di che erigergli questa statua in piazza di San Marco, il che dal senato non fu consentito. Di cavalli ricorderemo quello di Enrico II, per ordine di Caterina de’ Medici fuso da Daniele Ricciarelli da Volterra; e le due statue di Piacenza per Francesco Mocchi di Montevarchi, con svolazzi ed attitudini teatrali. Un gigantesco cavallo stava davanti a Santa Restituta in Napoli, che il vulgo credeva fatto per incanto da Virgilio, e vi si conducevano i cavalli per guarirli o preservarli da malattie. I vescovi credettero bene distruggere cotesta superstizione, e ne fecero le campane del duomo; solo la magnifica testa fu conservata dai Caraffa.
10. Sul Civitali e sulle opere d’altri di sua casa a lui attribuite, vedi Memorie lucchesi, vol. VIII. p. 57 e seg., e due lezioni del marchese Mazzarosa.
11. Lo stile le fa credere più recenti, quand’anche non vi fosse la data del 1515, cioè di ottant’anni dopo che Luca era morto. Suo nipote Andrea cominciò a corromperne la purezza. Seguirono Giovanni, Girolamo, Luca, e frà Ambrogio seguace del Savonarola, che fecero importanti lavori ma sempre deteriorando.
12. Di quel mirabile palazzo è la parte più notevole la cappella, dipinta nel 1407 da Taddeo Bartoli con istorie di Maria e di santi, figure simboliche, eroi, ecc.
13.
Vos, Antenoridæ, si tuti vultis ab hoste
Esse, foris muros, pax vos liget intus amoris.....
Arboreis frustra petitur sub frondibus umbra
Interius morbus si viscera torret acutus.
Ne pereant igitur labor ac impendia muri,
Cives, consilium vestri servate Johannis.
È del 1240.
14. In controversiis causarum corporales inimicitiæ oriuntur, fit amissio expensarum, labor animi exercetur, corpus quotidie fatigatur, multa et inhonesta crimina inde consequuntur, bona et utilia opera postponuntur, et qui sæpe credunt obtinere, frequenter succumbunt, et si obtinent, computatis laboribus et expenses, nihil acquirunt.
15.
Hos spectate viros, animisque infigite, cives.
Publica concordi nam dum bona mente secuti
Majestas romana duces tremefecit et orbem;
Ambitio sed cæca duos ubi traxit ad arma,
Libertas romana perit, scissoque senatu,
Heu licet et puero caput altæ abscindere Romæ.
16.
Specchiatevi in costor, voi che reggete,
Se volete regnar mille e mille anni:
Seguite il ben comune, e non v’inganni
Se alcuna passione in voi avete.
Dritti consigli, come quei, rendete,
Che qui di sotto son con lunghi panni,
Giusti coll’arme ne’ comuni affanni
Come quest’altri che quaggiù vedete.
Sempre maggior sarete insieme uniti
E salirete al ciel pien d’ogni gloria
Siccome fece il gran popol di Marte,
Il quale avendo del mondo vittoria,
Poichè in fra lor si fur dentro partiti,
Perdè la libertà in ogni parte.
17. L’epitafio in onor di esso composto da Annibal Caro dice:
Pinsi, e la mia pittura al ver fu pari;
L’atteggiai, l’avvivai, le diedi moto,
Le diedi affetto: insegni il Buonarroto
A tutti gli altri, e da me solo impari.
18. Nella storia di san Francesco, il Vasari ammira «un vescovo, parato con gli occhiali al naso, che gli canta la vigilia, che il non sentirlo solamente lo dimostra dipinto». Vita del Ghirlandajo.
19. Vasari. Il Cicognara, Storia della scultura, lib. III. c. 2, c il Tambroni nell’edizione del Cennino sostengono averci pitture nostre a olio, anteriori a Giovanni da Brugia. Raspe, A critical essay on oil Painting, cita un manoscritto De artibus Romanorum di un Eraclio romano, che si suppone vissuto nell’XI secolo, ove si parla de omnibus coloribus oleo distemperatis, ma per dipingere muri a somiglianza di marmi.
Nei documenti che Sebastiano Ciampi trasse dalla sagristia pistoiese leggo al 1301 che, per dipingere la maestà (in Lombardia si dà ancora tal nome alle immaginette di foglio) furon date libre XXXIX trementina; e pro pretio centinarum quatuor linseminis ad operam magiestatis et aliarum figurarum quæ fiunt in majori ecclesia. Il padre Marchesi, nel Commentario alla vita di Antonello da Messina, raccolse tutte le ragioni pro e contro, e asserisce a Van-Eyck l’invenzione di stemperare i colori nell’olio vegetale, poi combinarli insieme, e condur francamente il pennello in modo che paja opera d’un sol getto, senza che occorra aspettare che le varie velature si asciughino.
* Il conte Giovanni Secco-Suardo (Sulla scoperta e introduzione in Italia dell’odierno sistema di dipinger ad olio, Milano 1858) tolse a chiarire che lo stemperare i colori nell’olio naturale di linseme non erasi mai fatto prima di Van-Eyck, che lo trovò fra il 1410 e il 1417: che Antonello, nato verso il 1414 da padre pittore, presso re Renato vide un quadro di Van-Eyck a olio, e invaghitosene, andò in Fiandra per apprenderne l’arte, e nel 1445 vi dipinse il Calvario ad Anversa. Tornato in patria, dipingeva ancora nel 1497, cioè avendo ottant’anni.
20. Le molte pitture di Fiamminghi e Tedeschi che trovavansi in Italia nel cinquecento son noverate da Burkhardt, Der Cicerone, pag. 845.
21. Sotto due quadri nell’accademia di Venezia leggesi: Gentilis Bellinus amore incensus crucis 1496. — Gentilis Bellinus pio sanctissimæ crucis affectu lubens fecit 1500. Giovanni, sotto la madonna della sacristia dei Frari scrisse:
Janua certa poli, duc mentem, dirige vitam
Quæ peragam, commissa tuæ sint omnia curæ.
22. È noto che l’intaglio in legno fin al 1795 consistette nell’abbassare col temperino tutte le parti che non fossero disegnate: dopo d’allora vi si adoprò il bulino, e perciò vi si richiede esercizio, come in arte particolare. Nella splendida opera Holzschnitte berühmter Meister, Rodolfo Weigel vuol dimostrare che i grandi pittori d’ogni età amarono e coltivarono l’intaglio in legno.
* Nel Kunstblatt del 1835, nº 58, è riferita un’immagine coll’iscrizione S. Nicola d’Tholentino. Il santo porta un libro ov’è scritto precepta pris mei servavi. 1446. È l’anno appunto in cui quel santo fu canonizzato: e se quella data sogna il tempo di tale incisione, sarebbe un documento antichissimo dell’intaglio in legno, fatto, secondo tutte le probabilità, in Italia.
23. Le ragioni dei Tedeschi sono sostenute principalmente da Rumohr, Untersuchung der Gründe für die Annahme, dass Maso di Finiguerra Erfinder des Handgriffs sei, gestochene Metalplatten auf genetztes Papier abzudrucken. Lipsia 1841.
24. È forse anteriore alla Crocifissione della galleria Fesch. Anche dopo il Vasari, Duppa, Braun, Rumohr, Nagler, Rehberg, Quatremère de Quincy, Passavant (Rafael von Urbino und sein Vater Giovanni Santi), resta a desiderarsi una compiuta monografia di quel genio della bellezza armonica.
25. «Gl’ignudi, che fece nella camera di Torre Borgia, ancorchè siano buoni, non sono in tutto eccellenti. Parimenti non soddisfeciono affatto quelli nella volta del palazzo Chigi». Vasari, Vita di Rafaello.
26. Il parallelo fra i pittori antichi e i nostri fu da molti istituito, e ultimamente con più sistematica erudizione da M. H. Fortoul (Etudes d’archéologie et d’histoire, 1854). Alla prima epoca paragona Polignoto con Giotto; alla seconda, Apollodoro con Masaccio; alla terza, dell’imitazione esatta, Aristide e Pamfilo con Leonardo da Vinci, Eupompo e la scuola Sicionia col Mantegna e coi Veneti, Melanto con frà Bartolomeo, Aetione col Correggio, Pausia con Giorgione; nelle scuole dell’imitazione dotta, Asclepiodoro col Ghirlandajo, Eufranore col Michelangelo, Nicia con Andrea del Sarto; nelle scuole dell’imitazione bella, Apelle con Rafaello, Protogene col Francia; nella quarta epoca, Nealco, Timomaco e gli altri imitatori vanno coi Caracci.
27. Non s’accordano nel descrivere quel monumento. Doveva esser lungo diciotto braccia, largo dodici, isolato; di fuori girava un ordine di nicchie, tramezzate da termini che sostenevano colla testa la prima cornice; e ciascuno con bizzarra attitudine teneva legato un prigione ignudo, posato co’ piedi sul risalto d’un basamento; i quali prigioni rappresentavano le provincie riunite al dominio pontifizio. Altre statue pur legate figuravano le Virtù e le Arti, soggiogate dalla morte come il papa che le favoriva. Sui canti della prima cornice andavano quattro statue grandi, la Vita attiva, la contemplativa, san Paolo e Mosè. Alzavasi l’opera sopra la cornice, diminuendo con un fregio di storie di bronzo, e con altre figure, puttini e ornati diversi. In cima due statue; una il Cielo sostenente sulle spalle una bara, e ridente che l’anima del papa fosse passata alla gloria; l’altra Cibele dea della terra, reggendo anch’essa la bara, ma dolente per la perdita fatta. Si entrava ed usciva per le teste della quadratura dell’opera, di mezzo alle nicchie; e dentro si trovava un tempio ovale, nel cui mezzo il cadavere del papa.
Si tacciano gli eredi di Giulio II di non averlo fatto compire: però aveano con lui stipulato lo finisse per sedicimila ducati. Vedi le prove in Gaye, Carteggio, tom. II.
28. Al Cicognara queste nudità parvero effetto dell’innocente semplicità del cinquecento! Ma che anco allora scandolezzassero, e non solo i pusilli, appare, a tacer altri testimonj, da un manoscritto della Magliabechiana, cl. XXV. 274, ove si legge: «19 di marzo 1549 si scoprì le lorde e sporche figure di marmo in Santa Maria del Fiore di mano di Baccio Bandinello, che furono un Adamo ed un’Eva; della qual cosa ne fu da tutta la città biasimato grandemente, e con seco il duca che comportasse una simil cosa in un duomo dinanzi all’altare, e dove si posa il santissimo Sacramento. — Nel medesimo mese si scoperse in Santo Spirito una Pietà, la quale la mandò un Fiorentino a detta Chiesa, e si diceva che l’origine veniva dallo inventor delle porcherie, salvandogli l’arte ma non la devotione, Michelangelo Bonarruoto. Che tutti i moderni pittori e scultori per imitare simili capricci luterani, altro oggi per le sante chiese non si dipigne o scarpella che figure da sotterrar le fede e la devotione: ma spero che un giorno Iddio manderà i suoi santi a buttare per terra simili idolatrie come queste».
Dell’Aretino una lettera, tra di senno e di baja, è prodotta dal Gaye alquanto diversa dalle edite:
— Signor mio, nel vedere lo schizzo intiero di tutto il vostro dì del giudicio, ho fornito di conoscere la illustre gratia di Rafaello ne la grata bellezza de la inventione. Intanto io, come battezzato, mi vergogno de la licentia sì illecita a lo spirito, che havete preso ne lo esprimere i concetti, u’ si risolve il fine, al quale aspira ogni senso de la veracissima credenza nostra. Adunque quel Michelagnolo stupendo in la fama, quel Michelagnolo notabile in la prudentia, quel Michelagnolo ammirando, ha voluto mostrare alle genti non meno empietà di irreligione che perfettion di pittura? È possibile che voi che, per essere divino, non degnate il consortio degli huomini, haviate ciò fatto nel maggior tempio di Dio, sopra il primo altare di Gesù, ne la più gran cappella del mondo, dove i gran cardini della Chiesa, dove i sacerdoti riverendi, dove il vicario di Cristo con ceremonie cattoliche, con ordini sacri, e con orazioni divine confessano, contemplano et adorano il suo corpo, il suo sangue e la sua carne? Se non fusse cosa nefanda lo introdurre de la similitudine, mi vanterei di bontade nel trattato de la Nanna, preponendo il savio mio avvedimento a la indiscreta vostra conscienza, avvenga che io in materia lasciva ed impudica non pure uso parole avvertite e costumate, ma favello con detti irreprensibili e casti; e voi nel suggetto di sì alta historia mostrate gli angeli e i santi, questi senza veruna terrena honestà, e quegli privi d’ogni celeste ornamento. Ecco i Gentili, ne lo iscolpire non dico Diana vestita, ma nel formare Venere ignuda, le fanno ricoprir con la mano le parti che non si scoprono; e chi pur è cristiano, per più stimare l’arte che la fede, tiene per reale ispettacolo tanto il decoro non osservato nei martiri e nelle vergini, quanto il gesto del rapito per i membri genitali, che anco serrarebbe gli occhi il postribolo per non mirarlo. In un bagno delizioso, non in un coro supremo si conveniva il far vostro; onde saria men vitio che voi non credeste, che in tal modo credendo, iscemare la credenza in altrui. Ma sin a qui la eccellenza di sì temerarie maraviglie non rimane impunita, poichè il miracolo di loro istesse è morte de la vostra laude. Sì che risuscitatele il nome col far de fiamme di fuoco le vergogne de i dannati, e quelle de’ beati di raggi di sole; o imitate la modestia fiorentina, la quale sotto alcune foglie auree sotterra quelle del suo bel colosso, e pure è posto in piazza pubblica e non in luogo sacrato... Ma conciosiachè le nostre anime han più bisogno de lo affetto de la devotione, che de la vivacità del disegno, inspiri Iddio la santità di Paolo, come inspirò la beatitudine di Gregorio, il quale volse in prima disornar Roma de le superbe statue degli idoli, che torre, bontà loro, la riverentia a l’humil imagini de i santi...»
Anche Salvator Rosa tira contro le nudità della Sistina:
Dovevi pur distinguere e pensare
Che dipingevi in chiesa: in quanto a me
Sembra una stufa questo vostro altare...
Dunque là, dove al Ciel porgendo offerte
Il sovrano pastore i voti scioglie,
S’hanno a veder le oscenità scoperte?
29. Sono descritti dal Vasari in lettera 14 luglio 1564 al duca Cosmo.
30.
Grato m’è il sonno, e più l’esser di sasso
Mentre che il danno e la vergogna dura;
Non veder, non sentir m’è gran ventura;
Però non mi destar; deh, parla basso.
31. Condivi, Vita di Michelangelo. Celebrandosene il centenario a Firenze nel 1875, si pubblicarono molte cose di Michelangelo e sopra di lui.
32. Al Vasari dirigeva questo sonetto:
Giunto è già ’l corso della vita mia
Con tempestoso mar, per fragil barca,
Al comun porto, ov’a render si varca
Conto e ragion d’ogni opra trista e pia.
Onde l’affettuosa fantasia,
Che l’arte mi fece idolo e monarca,
Conosco or ben quant’era d’error carca,
E quel che a mal suo grado ognor desia.
Gli amorosi pensier già vani e lieti
Che fien or, s’a due morti mi avvicino?
D’una so certo, e l’altra mi minaccia.
Nè pinger nè scolpir fia più che queti
L’anima volta a quello amor divino
Ch’aperse a prender noi in croce le braccia.
33. Il Vasari, che pur denigra il Perugino, ne racconta questo tratto: — Era il priore (de’ Gesuati a Firenze) molto eccellente in fare gli azzurri oltramarini, e però, avendone copia, volle che Pietro in tutte le sopraddette opere ne mettesse assai; ma era nondimeno sì misero e sfiduciato, che, non si fidando di Pietro, voleva sempre esser presente quando egli azzurro nel lavoro adoperava. Laonde Pietro, il quale era di natura intero e da bene, e non desiderava quel d’altri se non mediante le sue fatiche, aveva per male la diffidenza di quel priore, onde pensò di farnelo vergognare, e così, presa una catinella d’acqua, imposto che aveva o panni o altro che voleva fare di azzurro e bianco, faceva di mano in mano al priore, che con miseria tornava al sacchetto, mettere l’oltramarino nell’alberello dove era acqua stemperata; dopo cominciandolo a mettere in opera, a ogni due pennellate Pietro risciacquava il pennello nella catinella; onde era più quello che nell’acqua rimaneva che quello ch’egli aveva messo in opera; ed il priore che si vedea votar il sacchetto ed il lavoro non comparire, spesso spesso diceva: — Oh quanto oltramarino consuma questa calcina! — Voi vedete», rispondeva Pietro. Dopo partito il priore, Pietro cavava l’oltramarino che era nel fondo della catinella; e quello, quando gli parve tempo, rendendo al priore, gli disse: — Padre, questo è vostro; imparate a fidarvi degli uomini da bene, che non ingannano mai chi si fida, ma sibbene saprebbono, quando volessino, ingannare gli sfiduciati, come voi siete».
Plinio racconta che coll’artifizio stesso i pittori antichi rubavano il minio: Pingentium furto opportunum est; plenos subinde abluentium penicillos; sidit autem in aqua, constatque furantibus. Hist. nat., XXXIII. 40.
34. Il Roscoe, fra tante altre inesattezze, scrive che Leonardo non finì il Cenacolo, e che «non indicando se non per un semplice tratto la testa del suo personaggio principale, ha confessato la sua incapacità, e a noi rimane da compiangere o la poca audacia dell’artista, o l’impotenza dell’arte». Vita di Leone X, cap. 2. Anche il Vasari dice che «la testa di Cristo lasciò imperfetta». Invece il cardinal Federico Borromeo, nel Musæum stampato il 1625, loda tanto quella testa: Salvatoris os altum animi mœrorem indicat, qui gravissima moderatione occultatus atque suppressus intelligitur. Vedasi Gallenberg, Lionardo Vinci, Lipsia 1834. L’opera di Giuseppe Bossi sul Cenacolo è di mera accademia. Interessanti pubblicazioni su Lionardo si fecero quando nel 1871 se ne inaugurò il monumento a Milano. Vedi principalmente il Saggio delle opere di L. Da V., con 24 tavole litografiche tratte dal Codice Atlantico. Milano, Ricordi 1872, in gran folio.
35. Vasari mette fuor di dubbio questo fatto.
36. Dopo i furti fattine all’Ambrosiana di Milano, dove non fu reso che il Codice Atlantico, molti dei suoi manoscritti si conservano alla biblioteca dell’Istituto di Francia, uno a Holkham in Inghilterra dal conte di Leicester.
Francesco Melzo descriveva a minuto la morte di Leonardo in una lettera al fratello: ma non dice spirasse tra le braccia di Francesco I, il quale re sappiam di certo che al 2 maggio 1549 era a San Germano in Laja. Mentisce dunque il Vasari, come probabilmente nelle altre circostanze di sua morte, ove il fa non solo convertito, ma istruito nella fede soltanto in quegli estremi; benchè temperasse quel che avea messo nella prima edizione, che fosse infetto di nozioni eretiche «in modo che non credeva ad alcuna specie di religione, e metteva la filosofia molto sopra il cristianesimo». Abbiamo il testamento, da Leonardo fatto nove giorni prima di morire, tutto pietà; ove «raccomanda l’anima sua a nostro Signore messer Domenedio, alla gloriosa Vergine Maria, a monsignor san Michele»; vuole si dicano trenta messe basse e tre alte per l’anima sua in tre chiese di regolari ad Amboise. Oggi gl’invidiosi, quando non sanno di peggio, tacciano gl’invidiati di illiberalità e servilità: dubito che il Vasari, per lo spirito stesso, tacciasse d’irreligiosi quelli con cui non simpatizzava, come Leonardo e il Perugino.
37. Nel manoscritto B, pag. 33 dei codici parigini di Leonardo, stanno varj disegni di lui, postillati al solito, e sotto l’uno si legge: — Inventione d’Archimede. Architronito è una macchina di fino rame, e gitta balotte di ferro con gran strepito e furore. E usasi in questo modo: la terza parte dello strumento sta infra gran quantità di foco di carboni, e quando sarà bene lacqua infocata, serra la vite b, chè sopra al vaso de lacqua bc, e nel serrare la vite, si distoperà di sotto, e tutta la sua acqua discenderà nella parte infocata de lo strumento, e di subito si convertirà in tanto fumo che parerà maraviglia, e massime a vedere la furia e sentire lo strepito. Questa cacciava una balotta che pesava uno talento». Voi vedete che qui Leonardo non lo dà per suo trovato, ma l’assegna ad Archimede; e quel suo nominare il talento fa credere lo desumesse da qualche antico libro del Siracusano, ora perduto, e che attesterebbe conosciuta in antichissimo la potenza del vapore, la quale è caratteristica del nostro secolo.
38. Nel 1604 nella Astronomiæ pars optica Kepleri.
39. Il suo epitafio sente l’età pagana, che bada solo a forme e colorito:
Apelle nel colore e ’l Buonarroto
Imitai nel disegno; e la natura
Vinsi, dando vigor ’n ogni figura
E carne ed ossa e pelle e spirti e moto.
Invece quella di frate Angelico diceva:
Non mihi sit laudi quod eram velut alter Apelles,
Sed quod lucra tuis omnia, Christe, dabam.
40. Lo coadjuvarono Francesco Primaticcio e Giambattista Mantovano, e alcuno vorrebbe anche Rinaldo da Mantova, scolaro di Giulio Romano.
41. Genere allora usitato: si tracciavano i contorni sullo smalto, poi si adombravano con argilla, carbone e polvere di travertino, che davano aspetto di bassorilievo.
42. Scriveva al granduca Ferdinando:
«I pesi della gioventù mia, gli anni et ogni industria per servigio di cotesta serenissima casa di vostra altezza, e già vicino agli ottant’anni, nè lungi da quella voce colla quale Iddio chiama tutti a sè, sono costretto dalla coscienza a dire a vostra altezza quel che spero di conseguire facilmente. È ito in questo secolo intorno quell’abuso nella scoltura e pittura, che per tutto si vede, di dipingere e scolpire persone ignude, e per questo mezzo, sotto colore e mostra dell’arte, far vivere la memoria di cose sporche, o svegliare una tacita adoratione di quegli idoli, per togliere i quali tenevano per bene impiegata la vita e ’l sangue i martiri et altri santi amici di Dio. Or io, dolentissimo d’essere stato in mia vita instromento di tali statue, nè veggendo come poterle togliere dalla vista de gli occhi molti, scrissi, già alcuni anni, una epistola che si stampò, a gli uomini della profession mia, acciocchè codesto Stato di vostra altezza non ricevesse, fra gli altri vitii a che siamo inclinati, qualche ira da Dio. Et hora che in questa mia vecchiaja debbo sentire l’importanza di questo fatto, e con tanta età mi sento crescere un vivo desiderio della vera grandezza e felicità di vostra altezza, la voglio, prima che muoja, supplicare per l’onore di Dio, che non lasci più scolpire o pingere cose ignude; e quelle, che o da me o da altri sono state fatte, si cuoprano, o del tutto si tolgano, in modo che Dio ne resti servito, nè si pensi che Fiorenza sia il nido degli idoli, o delle cose provocanti a libidine et a cose che a Dio sommamente dispiaciono. E perciocchè ultimamente vostra altezza comandò che quelle statue, che già trent’anni io feci per commissione del serenissimo granduca, vostro padre, in Pratolino, si trasportassero nel giardino de’ Pitti, siccome si è fatto, sento grandissimo rimorso che fatica di mie mani tale debba quivi restare per stimolo di molti disonesti pensieri, che a chi le mira potranno venire. Però anche in questo la supplico con ogni riverenza, per il maggior dono e rimuneratione di ogni mio servigio potessi ricevere, che mi faccia gratia, prima, che io non ci ponga punto di altra cooperatione per assettarle; da poi, che mi conceda ch’io possa vestirle così artificiosamente e decentemente sotto titolo di qualche virtù, che non possano mai dare occasione di brutti pensieri a persona veruna. E questo anco tanto più converrà, quanto a gli occhi della serenissima granduchessa, e della compagnia che menerà con seco, et a tante signore che verranno spesso a visitarla, essa havrà occasione di vedere in ogni parte e luoco di vostra altezza cose, le quali christianamente edifichino una principessa, come è christianissima. Et io in eterno ne resterò obbligatissimo a vostra altezza».
Sono noti i rimorsi che laceravano gli ultimi anni di Agostino Caracci per le sue incisioni lascive. Sel sappiano i giovani.
43. Narra egli stesso che Michelangelo si fermò a riguardare il San Marco di Donatello a Or San Michele, e disse non aver mai visto figura che avesse più aria da uom dabbene; e che se san Marco era tale, se gli poteva creder ciò che avea scritto.
44. Nel descrivere questa gli scappano molte verità di sentimento, e che «devono coloro che in cose ecclesiastiche s’adoperano, essere ecclesiastici e santi uomini, essendo che si vede, quando cotali cose sono operate da persone che poco credono e poco stimano la religione, che spesso fanno cadere in mente appetiti disonesti e voglie lascive, onde nasce