The Project Gutenberg eBook of Storia degli Italiani, vol. 05 (di 15) This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Storia degli Italiani, vol. 05 (di 15) Author: Cesare Cantù Release date: April 6, 2021 [eBook #65006] Most recently updated: October 18, 2024 Language: Italian Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DEGLI ITALIANI, VOL. 05 (DI 15) *** STORIA DEGLI ITALIANI PER CESARE CANTÙ EDIZIONE POPOLARE RIVEDUTA DALL'AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI TOMO V. TORINO UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE 1875 LIBRO SESTO CAPITOLO LVIII. Il medioevo. — Essi e noi. Ponete una gente, la quale consideri suprema felicità il riposo, e perciò affidi ogni cura a un ente astratto, chiamato il Governo; che all'unità, alla costituzione, al poter centrale, ad altre formole vaghe immoli la vera libertà, nel mentre a questa tributa un'idolatria, ricalcitrante ad ogni superiorità, fino a quella del merito; che professi principj assolutissimi, poi nell'applicazione li stringa in una mediocrità, rivelante il contrasto fra assiomi che si adorano e conseguenze che si ripudiano; e questa gente creda che ad attuar riforme basti il decretarle; chiami civiltà il sottomettere le idee ai fatti positivi e materiali, e la misuri dalla quantità dello scrivere; e perchè essa scrive assai, abbia di sè una stima così profonda, quanto sogliono essere i sentimenti non ragionati, e un conseguente disprezzo per ciò che a lei non somiglia; e pensando che ciò che le sta sott'occhio sia la natura delle cose, non s'immagini una società senza re, nè un re che non faccia tutto: qual gente meno di questa sarà capace d'intendere quel che chiamiamo il medioevo? Di sentimenti, di idee, di ordinamento politico e sociale tanto diverso, qual meraviglia se, nel secolo passato e dalla nazione legislatrice dell'eleganza e veneratrice della monarchia, fu giudicato con tanta, non dirò ingiustizia, ma leggerezza? Un villano onesto ma incolto, col vestire di cinquant'anni addietro, colla cortesia ingenua ed espansiva, col parlare cordialmente chiassoso, ma che ignori le mille importanze del cinguettìo cittadino, non sfogli gazzette, sappia scrivere a malapena, moverà nausea alla squisita e frivola attillatura della buona compagnia, e la ruvida scorza impedirà di apprezzare e nè tampoco scorgere quell'onestà a tutta prova, quell'inalterabile fedeltà alla parola, quell'effettivo amor del paese, quella limpidezza di buon senso, quella disposizione ai sagrifizj, che nel suo villaggio lo fanno il consigliere dei dubbiosi, il conciliatore dei dissidenti, il padre dei poveri. Tale ad una coltura cortigiana dovette apparire il medioevo. Al deperire delle cose sottentrano le finzioni; al fiaccarsi delle convinzioni s'ingentiliscono le forme. E di forme qual età fu più raffinata che l'antecedente alla nostra? laonde essa stomacava quell'altra che sì poco le rispettò, cruda di parole, zotica d'atti, stranamente ingenua e scortesemente franca nell'espressione; e che scarseggiando di scienza, lasciava maggior campo al meraviglioso e al soprannaturale. Compassionarono il medioevo perchè mancava delle comodità domestiche: ma ciò è gusto e abitudine, non prova di sociale inferiorità; nè que' raffinamenti di pulizia avanzata entravano nei bisogni o ne' pensieri di alcuna classe, come oggi non ci crediam meno felici perchè non navighiamo sott'acqua o non veleggiamo i campi dell'aria. La letteratura accademica, che annettevasi direttamente all'antica sopprimendo l'intermedia, giudicava bello soltanto ciò che si uniformasse a prefissi modelli, e si esprimesse con certa dignità e certe riserve; e alle cose straordinarie quantunque vere, preferisse le credibili quantunque false; le corrette quantunque mediocri, alle irregolari che possono riuscire sublimi. Intanto la letteratura militante, già preludendo a quella tirannia in cui trucidò tutti i fratelli maggiori, pretendeva dagli scriventi un coraggio che non hanno i lettori; e poichè sarebbe riuscito pericoloso contro ai forti, lo sparnazzava contro agli impotenti, ai papi, ai frati, ai nobili, a ciò che derivava dal medioevo. Monarchica com'è per essenza quella nazione, la quale non sa attestare ammirazione e riconoscenza ad uno se non col darsegli in braccio, esecrò le morali restrizioni agli arbitrj regj, e la costituzione del medioevo, dalla quale furono colpite più volte le fronti de' suoi re, e quelle più superbe de' suoi avvocati; trovò schifoso che in altri tempi vi fossero tante repubbliche quanti Comuni, tanti Parigi quante città; che un vecchio inerme e lontano accettasse i richiami degli oppressi, intimasse ai principi di rendere la giustizia, non rincarire le tasse, non computare gli uomini al ragguaglio di bestie; e chi non obbediva, escludesse dall'accostarsi alla sacra mensa, dal partecipare al tesoro delle preghiere; castighi della natura del potere da cui emanavano, e che perciò non avriano dovuto eccitarla che al riso. Stava, gli è vero, in prospetto un'altra nazione, ricca di senso pratico e di applicazione, la quale rispetta gelosamente le forme del passato, e in un resto di vecchia pergamena trova maggior riparo contro gli arbitrj, che non in tutte le teorie filosofiche: ma la moda facea desumere da altre fonti quella scienza sociale, che da un secolo in qua perdè di vista l'individuo per guardar solo agli Stati; che il principio e la fine dell'ordinamento civile cercò in materiali interessi o in astratte argomentazioni; e a titolo di emancipare gli uomini, li sminuzzò in atomi, fra i quali non si mantiene la coesione se non mediante una pressura esterna. Da qui la venerazione per la forza, espressa o brutalmente dai marescialli, dalle insurrezioni, dai duelli; o legalmente da quel meccanismo che ha per canone i decreti, per mezzo d'attuarli i soldati. Pertanto snervata l'autorità del padrefamiglia, intepidito l'ardore di cittadino, resi di spettanza pubblica tutti i servigi privati, nel Governo si concentrò ogni azione: anzichè limitarlo ad assistere al progresso sociale e a rimoverne gli ostacoli, ad esso si affidarono gli attributi più preziosi dell'umana individualità, ad esso il dar limosina ai poveri, tutela agli orfani, educazione e collocamento ai figliuoli, impiego ai capitali, ispirazione alle belle arti, norme al culto, misure alla morale; e migliore si giudicò quello che a maggiori atti interponesse i suoi regolamenti. Confidando non vi sia miglioramento che con decreti non si possa raggiungere, si fecero a profluvio ordinanze, e codici sempre nuovi, suppliti da quotidiani bullettini, e costituzioni improvvisate, corrette, mutate, abolite; e per applicar tutto ciò, un esercito d'impiegati irrazionale; e per francheggiarlo, un esercito irrazionale di militari; e in conseguenza enormi imposizioni e debiti divoranti; e per farli pagare, escussioni e carceri; cioè la forza. Ma mentre tutto si esige dal Governo, si censura tutto ciò che il Governo fa; si onora la sistematica opposizione, quand'anche, priva del sentimento d'onore pe' suoi avversarj e per se medesima, riducasi affatto individuale, e scassini tutte le opinioni, nessuna ne assodi; quand'anche soltanto di abilità e di teorie, è creduta buona perchè suggerisce spedienti tanto facili quanto è il distruggere e il negare, tanto accetti quanto sono quelli che non subirono la prova della attuazione. Rintronato dalla dottrina che i Governi possano tutto, qual meraviglia se il popolo li imputa di qualunque male succeda? I poveri stentano? le credenze vacillano? le famiglie si sfasciano? che più? intemperie e malattie guastano il paese? se ne accagiona il Governo; e odiandolo come maligno o disprezzandolo come inabile, si cerca abbatterlo per sostituirne un altro, che all'atto non compar migliore. Fallite le prove, sottentra lo scoraggiamento, e l'abbandonare fino i diritti meno contestabili; si piega senza nemmanco la dignità di mostrare che si obbedisce spontaneamente e per stima o persuasione. Tutto ciò rende difficilissimo l'intendere il medioevo, che fu un irregolato sviluppo della personalità, senza le formole generali secondo cui sono disposte le classificazioni di quella pittura o aritmetica che s'intitola filosofia e statistica. I Governi, derivati dall'eguaglianza di molti capi riunitisi per la guerra sotto di un solo, primo tra i pari, non bastavano tampoco alla legittima difesa dei diritti individuali, ch'è la loro razionale attribuzione; e ciascuno, invece di aspettar tutto dalla società, esercitava intere le proprie facoltà. La classe preponderante si diede un sistema mirabilmente opportuno ad arrestare le migrazioni guerresche, da ottocento anni micidiali della civiltà, fissarle ai territorj, e provvedere alla difesa di questi senza il flagello degli eserciti stanziali: mentre gli antichi non conosceano che l'indipendenza dello Stato e della città, nel feudalismo si otteneva l'indipendenza de' singoli; le relazioni fra individui erano determinate da fede, speranza e carità comuni, e i doveri appoggiandosi soltanto su promesse, prendeano aria di lealtà; gli uomini, non tiranneggiati da opprimente accentrazione, si spingeano ciascuno individualmente alla ricerca del vero, all'attuazione del buono, in una libertà (come disse il Sismondi) che avea per iscopo la virtù, a differenza della moderna che ha per iscopo il ben essere; erranti ma originali, e con infinita varietà di centri e di modi. Azione privata però non vuol dire isolata, e si concilia coll'associazione, anzi viemeglio quant'è più libera. La rivoluzione che da settant'anni sobbalza l'Europa, figliata da una filosofia che considera la società come un aggregato convenzionale di individui, predicò dai palchi la particolare indipendenza, la formale eguaglianza, il lasciar fare; e in conseguenza vituperò le istituzioni del medioevo, che quella scarmigliata attività aveano sottoposta a regole, mediante suddivisioni gerarchicamente coordinate, entro le quali ognuno operasse stabilmente, anzichè arrancarsi di continuo a sempre maggiore elevazione. Divenuto adulto quel ch'era bambino, si buttarono via le fascie; sta bene: ma insieme si sciolsero i legami benefici, si tolse ogni difesa togliendo ogni unione morale, e l'uomo ne' bisogni si trovò ridotto ai proprj espedienti, e in balìa della forza e della scaltrezza. Di qui un sospettar reciproco, giacchè in ognuno si vede un emulo, un competitore; s'ignora che cosa pensi, perchè operi, come intenda. Paura e livore rimangono dunque i sentimenti più comuni; fiaccato il coraggio civile, spenta l'operosità interiore, si ha sempre bisogno d'appoggiarsi all'esterno, di cercar l'approvazione altrui. Quindi pertinacia, non costanza d'opinioni, e al chiacchericcio de' circoli, e alle arguzie de' begli spiriti far bersaglio le convinzioni profonde e chi soffriva per esse: quindi il dubbio, padre d'ipocrisia e d'inazione: quindi esitanza a dir ciò che si pensa, e meraviglia e quasi raccapriccio quando alcuno l'esprime senza le complimentose smozzicature: quindi il non procedere mai per slancio; sicchè fra molto intelletto e poca coscienza, il predominio rimane assicurato al ciarlatano, che, deposta ogni vergogna, urla più forte, nella certezza che nessuno oserà opporgli il senso comune, altra parola soggetto di scherni. Coloro che scorgono questi mali traverso alla bassa adulazione di noi stessi, invocano un rimpasto della società, un organamento che nessuno sa quale sia, nessun vede donde verrà, ma certo non potrà venire dal vilipendio del passato; non da questo divorzio dell'anima dal corpo, degli interessi dall'incremento morale; non dal persuadersi che i fatti siano tutto, e nulla le credenze; non dal sottigliarsi a criticar la società, anzichè accingersi a migliorare gli individui. A questo invece si dirigevano le istituzioni del medioevo, come fondate sui dogmi di Chi, per riformare il mondo, non sovvertì la società, anzi ne rispettò fin le patenti ingiustizie, ma le elise col far buoni coloro che doveano applicarle o subirle. A quel modo, poco a poco dalla forza passarono gli uomini civili a reggersi sulla fede, cioè sull'autorità; di cui era e depositaria ed espressione la Chiesa. I pensatori d'oggi vogliono l'attualità, e dicono «A che serve rivangar il passato?» come chi credesse inutile d'un frutto studiar il fiore e la pianta e la radice. Il presente deriva dal medioevo, e molti mali e beni d'oggi vi nacquero; sicchè chi voglia progredire, noi potrà se non meditando seriamente sulle colpe e virtù passate, e cercandovi la morale eterna sotto la varietà de' contingenti. Ora, chi voglia intendere il medioevo, non avrà mai troppo insistito sulla costituzione religiosa, che tra le infinite differenze, unica rimaneva costante, e dava un'unità, mancata ai tempi di dubbio accidioso e di arrogante oscillazione. Nel politeismo, su cui il mondo erasi a lungo adagiato artisticamente, si svolse la splendida e armonica civiltà ellenica, trapiantata poi a Roma. Il cristianesimo gli diede il crollo; dopo tre secoli di battaglie e discussioni rimase trionfante: ma, nell'attuarsi nella società civile, si trovò impacciato da quei sostegni ch'egli stesso nella fanciullezza aveva invocati. Quando però l'imperio romano cadde, e seco tutto l'impianto gentilesco, la Chiesa, che nella fede e nella morale nuova riconciliava i barbari vittoriosi coi civili conquistati, si trovò incomparabilmente superiore a quelli per istruzione, per ordinata gerarchia, per moralità, per generali idee di giustizia e di rettitudine. I popoli nuovi aggradirono questa religione, la quale, non che richiedere sottilità d'argomentazioni e copia di dottrine, sottrae alla critica i dogmi cardinali; e su questi riposava lo spirito e si modellavano gli atti, mentre la ragione de' più colti esercitavasi nell'applicarli e nel trarne induzioni. Questa religione attribuisce l'onnipotenza, la sapienza, la bontà unicamente a Dio; all'uomo il peccato e, punizione di esso, i mali che, mentre necessariamente circondano la vita, servono a prepararne una migliore. L'uomo dunque era un essere decaduto, cui la redenzione avea ravviato al bene coi precetti e con un modello divino, ma senza togliere l'originale disaccordo fra il conoscere e il volere; dato nuovi mezzi alla Grazia, ma senza abolire la concupiscenza: laonde ogni cura dovea drizzarsi a deprimere la materia col rialzare le facoltà morali, invigorir l'anima col mortificare la carne. Sol quando, cessato di credere alla sua duplice unità, meramente al corpo badando, si proclamò l'uomo destinato alla felicità, ogni attenzione si limitò a farlo star bene, e accelerargli il paradiso quaggiù, non essendo certo se altrove vi sia. Invece dunque dell'odierno interminabile lamentarsi, si faceano preghiere a Colui che solo può deviare i mali, ed espiazioni per non meritarli; maniere che alcuno direbbe inefficaci quanto le stizzose querele d'oggidì, se non vi si fosse aggiunta la carità per alleggerirli. Di qui l'importanza de' sacerdoti e de' monaci, le cui preci e le penitenze, attesa la comunione de' fedeli, contribuivano a diminuire i castighi. Che se oggi in Europa quattro milioni di giovani baliosi sono condannati involontarj al celibato in mezzo a tristi esempj, armati, provocatori, ozianti, acciocchè siano pronti a volger l'armi più raffinate, non tanto a sterminio de' nemici, quanto a repressione de' sudditi; allora alquante migliaja di frati inermi si diffondevano tra il popolo, mangiando parte del suo pane, che retribuivano con conforti, benedizioni, assistenza; tanto operosi, che dissodarono mezza Europa, e ci tramandarono tutti i libri che ci restano dell'antichità; tanto amici del vulgo e vulgari essi stessi, che move gli stomachi dilicati il grossolano loro vestire e lo sparecchiato vivere; tanto obbligati alla virtù, che il mondo gli accusava di fingerla, e che metteansi in cronache e canzoni coloro che si mostrassero ghiotti e disonesti; pii così che si fanno caricature della loro santocchieria; così caritatevoli che si imputano d'aver fomentato l'ozio colle limosine, come si imputano perchè frenavano il popolo con rosarj e santini, invece della mitraglia e degli ergastoli. De' tesori che oggi si profondono nell'esercito, allora si donava parte alla Chiesa, ed essa suppliva a quel tanto che oggi nel culto, nella beneficenza, nell'istruzione consumano i Governi; più lodati quanto più tolgono al cittadino di ciò che è suo, per dare gratuitamente servigi che esso forse non chiede. Monasteri e spedali erano gli edifizj meglio situati in campagna e meglio fabbricati in città; sicchè si potette poi adattarli a palazzi dei ministeri, a ville regie, a caserme, a carceri, a quell'altre necessità dell'odierno progresso. Posta come importanza suprema la salute dell'anima, voleansi liberi i modi di conseguirla; e non si sarebbe tollerato che un re ordinasse in qual modo credere, quali culti adottare o respingere, a quali scuole mettersi, quali scienze e con quai libri e da quali maestri imparare. Tale persuasione deducevasi dall'infallibilità della Chiesa, la quale sentenziava come organo dello Spirito Santo, e in concilj composti del fior d'ogni nazione. E quelle sentenze non erano le transazioni di assemblee, mutabili dall'agosto all'ottobre; ma tali che il volger de' secoli e tanto incremento di cognizioni non vi cangiarono un punto di essenziale. Quella persuasione trascendeva sino all'intolleranza; e se unica era la verità, unica la via di giungere alla salute, pretendeasi dovessero tutti crederla e seguirla; e fin castighi corporali si inflissero a chi non volesse abjurare l'eresia. Vero è che allora l'intolleranza, persuasa profondamente, tormentava i corpi nella fiducia di salvar le anime; mentre in altri tempi l'intolleranza politica empì le carceri a mero vantaggio d'un uomo o d'un sistema, e per opinioni che, non solo in altri luoghi, ma in altri giorni menano alle ovazioni; e l'intolleranza scettica applica una pena ben più atroce, l'infamia a chiunque declina da opinioni, che ella stessa domani avrà barattato. La Chiesa, oltre custode, dispensiera e interprete della verità, consideravasi anche depositaria del potere. Unica fonte di questo era Dio; laonde i principi non regnavano perchè figli di re: e se non bastava che nel proprio attuamento esterno ella si costituisse in una repubblica, dove nessun posto era ereditario, e il torzone poteva divenir pontefice, e nulla si risolveva se non in sinodi e concistorj, la Chiesa ungeva i re purchè giurassero ai popoli; cioè sanciva costituzioni, non fissate da una carta e garantite solo dalla forza, bensì fondate sovra la morale eterna e l'inconcusso evangelo. Con tal modo essa creò gli Stati, autorò i principi nuovi, benedisse alle leghe popolari, e consacrò le repubbliche; dava lo scettro ai re di Sicilia, come ai dogi l'anello di sposo del mare, non mettendo divario nelle forme, purchè restasse la libertà. La società non rimaneva dunque abbandonata al fatale arbitrio delle potestà di fatto; nell'economia religiosa e sociale dell'umanità non eransi dispajati il legame intimo che nell'eternità stringe l'uomo a Dio mediante la coscienza, e il legame imperioso universale che nel tempo sottomette a un'autorità esteriore. Allora tutto era fede religiosa nelle cose soprannaturali, dove ora è fede politica nelle cose terrene: allora attribuivasi all'intelligenza e alla rivelazione l'infallibilità, che oggi passò alla forza e allo scettro; allora tutto riponevasi nella religione, oggi tutto nella dottrina, sino a ridurre la scienza del governo ad abilità, l'educazione a istruzione; sino a misurare la prosperità dalle maggiori spese del governo e l'incivilimento dal numero delle scuole; quand'anche a proporzione di queste aumentino i delinquenti, i pazzi, gli esposti, i suicidi. In fondo a tutti i fatti v'è un mistero: l'origine loro, la loro destinazione; giacchè li vediamo andare, e non sappiamo perchè. Questo mistero allora rispettavasi, come il medico applica il chinino alle febbri senza sapere di queste o di quello l'essenza. Sottentrata poi l'indagine, più non si potè arrestarsi; che cos'è il papa? il re? la proprietà? la famiglia? perchè i comandanti e gli obbedienti? perchè i ricchi e i poveri? perchè il bene e il male? Ne deriva la presunzione, la quale non solo beffa opinioni che più non sono le sue, ma non vuol tampoco dubitare che un giorno anche il suo senno possa venire chiamato a scrutinio da qualche futura infallibilità. Eppure, per poco che uno sia vissuto, dovrebbe ricordarsi quanto i giudizj nelle stesse materie e sulle identiche persone s'invertirono in questi otto anni[1], e perciò accettare i sentimenti d'altre età, almeno quale spiegazione di atti che altrimenti mancano di significato. Al ferreo medioevo sottentrò un tempo che, per contrapposto, fu intitolato secol d'oro. Ma l'Italia quanto vi dovette patire, e fra quante vergogne abjettarsi, fin alla suprema di perdere la nazionalità! Certo il medioevo non subì papi quali Alessandro VI e Clemente VII; non abusi della vittoria così avvilenti come il sacco di Roma; non ribaldi così calcolanti come il Valentino; non maestri quali il Machiavelli; nè principi che violassero la morale non solo impunemente, ma quasi con vanto; nè leghe assassine come quella contro Venezia, nè paci sozze come quelle di Cambrai e di Castel Cambrese. Eppure si fa astrazione dai nomi del Medeghino, del Leyva, di Carlo V, per proporre all'invidia il secolo di Rafaello e dell'Ariosto. Perchè non fare altrettanto, non dico affine di encomiare, ma affine di conoscere il medioevo? Anche il nostro secolo si presenterà all'avvenire co' suoi miliardi di debito e milioni di soldati, per attestare che unicamente la forza egli seppe surrogare a idee e ad istituzioni abbattute; coll'incertezza di tutte le opinioni; con un tarantismo di brame, di prove, di sforzi; colla smania del bene senza coscienza per discernerlo dal male; colla perpetua surrogazione dell'intelletto alla coscienza, del fatto al diritto; con quell'inettitudine alla carità, per cui fra la nazione più ricca di denari e d'istituzioni si vedono migliaja di poveri morire ogni anno di pura fame: per cui ai cuori impetuosi invasi dalla noja, esasperati dall'ingiustizia, non sa largire che lo scherno finchè vivi, e compassione dopo suicidi: per cui le inclinazioni perverse diede a punire alla polizia, invece di industriarsi a raddrizzarle, e moltiplicò tante prigioni quanti v'erano conventi, prigioni di condanna, di prevenzione, di correzione, fin d'osservazione, e birri e gendarmi e vigili e guardie e ferri duri e durissimi, e disopra di tutto il carnefice a tutelare la sicurezza pubblica e salvare la civiltà. Eppure chi negherà i meravigliosi suoi avanzamenti? e non dico solo questa dominazione assicurata sopra il mondo fisico coll'applicazione di stupende scoperte; ma questo rispetto all'uomo, quest'acquisto di dignità, questa diffusione degli agi, delle dottrine, della ragione? Pari tolleranza usiamola anche per trasformarci ne' tempi passati, quant'è necessario a intendere un diverso incivilimento. Certo l'età delle incalzantisi rivoluzioni a fatica comprenderà quella delle lente evoluzioni: ma ha torto di rinfacciarle solo gli sconci e il bene che non compì; guardar solo al lato triviale delle cose grandi e al debole delle potenti. Chi il Coliseo di Roma trovi rinfiancato d'informi contrafforti, li befferà o riproverà, se non rifletta che altrimenti la mirabil mole sarebbesi sfasciata. Cura perpetua della Chiesa fu il sostituire l'autorità alla forza. Se non riuscì a rintuzzar le spade, è sua la colpa? e la tacceremo di usurpatrice se in mano dei soli studiosi d'allora traeva i giudizj, strappandoli alle sanguinose e ladre dei baroni? Avendo a fare con uomini, e non potendo annichilare il passato, essa, sprovvista di forze materiali, si contentava di collocarvi accanto qualche cosa che il correggesse. Sussisteva la schiavitù? e la Chiesa istituisce le feste, in cui anche il servo riposi, e l'asilo dove rifugga, e lo riceve agli ordini monastici e agli ordini sacri, mediante i quali si pareggia al padrone, e può divenire capo del mondo. Le fiere pel santo, i mercati attorno al santuario, sono l'unico commercio possibile fra tante prepotenze. Le croci e i tabernacoli sui crocicchi offrono un ricovero al viandante contro alle intemperie e ai masnadieri, e gli servono d'indirizzo, come le lanterne che vi si accendono. Apre i monasteri agli sgomenti d'anime sfiduciate della propria forza, all'espansione di bisognose d'isolarsi col loro Creatore, all'indignazione di disingannate della felicità, alla violenza di inacerbite dalla nequizia, alla prostrazione di logorate d'ogni speranza. Diversi i sentimenti, doveano essere diverse le scritture. Oltre mancare della carta e della stampa, non si aveano tanti ozj da mascherare coll'occupazione da tavolino, nè si credeva che il mondo potesse governarsi colla penna, quando non sapeano maneggiarla Teodorico, Carlomagno, Federico Barbarossa, personaggi sì grandi. Noi beffiamo la loro ignoranza delle scienze mondane; non potrebbero essi deridere la nostra ignoranza di teologia? noi credere che i nostri studj siano più utili; essi chiederci se v'ha cosa di maggior conto che la salute dell'anima? Pochissimi scriveano la storia, e questa per la congregazione, per la città, per la famiglia propria; noi, tutti politica, empiamo le gazzette colla nascita, la salute, i viaggi dei re, coi pensamenti de' magnati, coi preparativi di guerre, cogli affari altrui, con ciò che fanno, dovriano fare o avrebber dovuto fare i ministri e i re: allora si occupavano di ciò che al popolo concerneva; ad una carestia, ad un allagamento, a un'irruzione di cavallette davano l'importanza che noi oggi alla nomina d'un maresciallo o d'un consigliere; la fondazione d'un convento, cioè d'una repubblichetta nella quale ogni plebeo potea trovare asilo e virtù e primato, era tenuta in conto quanto oggi gli atti d'un'accademia e le conferenze di due plenipotenti: oscure virtù d'un benefico, penitenze d'un eremita, pie fondazioni, credeansi degne dello stile istorico, non meno che oggi le parlate che mai non furono dette, le descrizioni di battaglie non viste, e le teoriche umanitarie. Non dirò che que' cronisti avessero dottrina maggiore dei gazzettieri d'oggi: pure a quelli si ricorre con tanto frutto, quanto si disimpara da questi, perchè non proponeansi d'ingannare; e leggendoli si ha da indovinare cosa volessero dire quando oscuri, illusi o passionati, ma non supporre dicessero quel che non pensavano o sentivano. Poi, parliamo di lettere e scienze? il poema nazionale d'Italia in quai tempi fu concepito? e il maggior filosofo suo e teologo a qual secolo diede il nome? e il libro più letto dopo la Bibbia quando fu composto? Parliamo di belle arti? il medioevo seppe creare un ordine nuovo; vanto conteso alla moderna sterilità. Parliamo d'opere pubbliche? basta girare gli occhi per vedere in ogni luogo coltivazione, canali, palazzi, cattedrali, dovuti a quei secoli. Parliamo di libertà del pensiero? non v'è opinione per avanzata, infino al comunismo, che non siasi dibattuta ne' concilj, i quali allora proferivano decisioni su dottrine, su cui in appresso si proferirono sentenze capitali; le fondamentali quistioni della filosofia e della teologia v'erano agitate con un'attualità piena di persuasione e di scienza: se non che ogni età ha le sue forme, nè è ancora dimostrato quali siano le migliori. Che se gli stranieri, i quali ingrandirono coll'uscire dal medioevo, per nazionale pregiudizio lo avversano, pel pregiudizio stesso parrebbe dovesse prediligerlo l'Italia, la cui civiltà vi fu somma non solo, ma unica; «quando (dice lo straniero istorico delle nostre repubbliche) Tedeschi, Francesi, Inglesi, Spagnuoli aveano privilegi municipali, capi feudali, monarchi da dover difendere; ma soli gl'italiani avevano una patria, e lo sentivano; aveano rialzato la natura umana degradata, dando a tutti gli uomini dei diritti come uomini, e non come privilegiati; primi aveano studiato la teoria dei governi, e agli altri popoli offerto modelli d'istituzioni liberali; restituito al mondo la filosofia, l'eloquenza, la poesia, la storia, l'architettura, la pittura, la musica, facendosi istruttori dell'Europa; e a pena si potrebbe nominare una scienza, un'arte, una cognizione, di cui non abbiano insegnato gli elementi ai popoli che poi li sorpassarono: e quest'universalità di cognizioni avea raffinato l'ingegno, il gusto, le maniere; pulitezza che restò loro anche molto dopo ch'ebbero perduto tutti gli altri vantaggi, come l'eleganza e il garbo sopravvissero all'antica dignità che n'era Stato il fondamento». La grandezza politica dell'Italia non equiparò i vantaggi che essa recò all'incivilimento del mondo, nè i grandi suoi ingegni maturarono frutti politici: ma non sono prediletto tema a declamazioni sentimentali Genova e Venezia, capolavori del medioevo? E se strazj sì lunghi e variati non hanno ancora gittato la patria nostra nell'avvilimento, è dovuto forse più ch'altro agli avanzi delle istituzioni del medioevo e al sistema comunale; e quando essa testè si eresse tutta insieme ad una sublime aspirazione, il fece evocando le idee e le forme del medioevo. Se non che la quistione restò fra noi complicata dal principato terreno, che la Chiesa assunse, non già per essenza sua, ma condottavi da contingenze deplorabili; e quando, soccombendo dappertutto le repubbliche ai principati, anch'essa più non potè appoggiarsi a' popoli, e dovette cercar posto fra i re, allora le toccò la sua parte dell'odio serbato ai Governi; e vi fu chi ebbe l'arte d'inasprirlo per distornarlo da altri oggetti: rimase esposta all'esagerazione di opposti partiti; e grandi scrittori d'Italia si chiarirono avversi, non tanto ad essa, quanto ad alcun papa: e in conseguenza, da Dante, dal Petrarca, dal Machiavelli si attinse colla prima educazione avversione e disprezzo pei papi; la turba pedissequa fece eco: oggi stesso i dettatori ci intimano che _bisogna_ pensare coi nostri classici. Vero modo di progredire! Ma quelli almeno erano leali, e ci presentano gli errori col contorno delle virtù: poi, altrettanti scrittori nostri diverso giudizio portarono sui poteri in contrasto, o almeno spogli da quell'acrimonia esotica contro ciò che avea formato la grandezza del nostro paese, e che ancora gli dava l'unico primato lasciatogli dal trionfo di coloro, per cui campeggiavano i sostenitori della _libertà del principato_. E dell'Italia specialmente crediamo rimanga inintelligibile e sterile la storia quando la si guardi come una nazione unica, guidata dai principi, i quali la lasciano occuparsi regolarmente de' mestieri e delle lettere. Questo tipo, acconcio a popoli la cui vita consiste nella vita dei loro re, manca di verità fra noi: il che, se nuoce alla compagine artistica, schiude però uno spettacolo più vario ed animato a chi sappia elevarsi fin là, dove si può non solo abbracciare il movimento politico e le operazioni materiali, ma esaminare sentimenti e raziocinj, lo sviluppo poetico e religioso insieme col teorico, collo scientifico e coll'industriale, unificando sentimenti, dottrina, attività. E noi, con questo discorso che non a tutti parrà fuor di proposito, vogliamo soltanto inferire che importa osservare il medioevo, non con irriflessivo dileggio o cieca venerazione, ma con meditabonda serietà; non con iraconda preoccupazione, ma con amorevole coscienza; non con santocchieria angustiante, ma con franca e larga indagine; riferendosi all'opportunità de' tempi, anzichè misurare tutto col metro odierno; non repudiando il bene per gl'inconvenienti che l'accompagnano; non rampognando un buon fatto perchè poteva esser migliore, a somiglianza di que' frivoli che accusano i monaci d'avere distrutto alcuni libri antichi, senza tener conto che tutti quelli che abbiamo ci furono conservati da essi. I lettori vulgari, incapaci di altro vero fuor quello che corre pei caffè o sui giornali, e che s'impennano ad ogni coraggiosa manifestazione di un ponderato sentimento, ci apporranno alcuno di que' nomi, che sono condanne codarde e stolte perchè vaghe e quindi irreparabili; e il meno sarà il dire che noi ribramiamo le istituzioni del medioevo. Spiegare non è lodare, e noi abbiamo detto e ripetuto che non se n'ha nulla a desiderare, forse poco ad imitare, ma moltissimo ad apprendere; e non poco anche a dilettarsi, se il vedere uomini operanti ciascuno coll'attività propria, obbedienti ma per devozione, soffrenti ma per propria colpa e come un'espiazione, alletta più che non il volteggiare d'una coorte al comando d'un colonnello; o il compassato procedere d'una società di pupilli e di petizionanti, o il forbottarsi d'una caterva di scrittori, intenti a illudersi, a piacersi, a stracciarsi a vicenda. Attruppandoci con cotesti, ci saremmo potuti ripromettere morbidi trionfi: eppure sin nel fervore della gioventù preferimmo affrontare pregiudizj, allora profondamente radicati; molti brani sanguinosi lasciammo a quelle spine, ma forse alcune ne strappammo. L'aggravata età e la sbaldanzita esperienza non ci fan pentire di quel sentiero, e lo ricalcheremo come italiani, come cattolici, come indipendenti, che sottomettendosi ai supremi dogmi sociali e morali, respingono il despotismo e uffiziale e vulgare; disposti ai medesimi patimenti, e confidando non sieno indarno. Perocchè, lontani dal fare idillj del medioevo italiano, nessuna delle piaghe sue dissimuleremo, procurando riescano a scuola ed emenda de' presenti; se non altro, chiariremo che la felicità vagheggiata non si godette in nessun tempo; che il carattere di sapienza, di accordo, di bellezza, cui il mondo aspira, e la convivenza amorevole, regolata, robusta, non sono a cercar nel passato; che, se è progresso il crescere in dose e l'estendersi in ispazio la libertà e la dignità dell'uomo, si progredì sempre verso il meglio; che, essendo legge della società e di tutto ciò che ad essa appartiene, il passare per successioni e rinnovazioni continue, il medioevo fu il valico da un passato non più possibile a un avvenire non possibile ancora, onde riteneva moltissimi vizj di quello, di questo non possedeva ancora le virtù; che, in quella serie di emancipazioni lente, tergiversate, dolorose, è di conforto efficace il contemplar la fatica de' padri; che l'età nostra è dunque migliore delle passate, ma sarà superata dalle future: dal che trarremo pazienza a sopportare i mali inevitabili, fiducia nel credere al meglio, perseveranza a cooperare coi nostri fratelli per ottenerlo. CAPITOLO LIX. Odoacre. Teodorico goto. Ultimo fiore delle lettere latine con Cassiodoro e Boezio. Fin qui parlando dell'Italia parlavamo del mondo intero civile, di cui essa era il capo: ora il cessare dell'impero d'Occidente lascia Costantinopoli alla testa dell'antica civiltà romana. L'impero non avea cangiato d'essenza, e conservava le leggi, la gerarchia, lo spirito, il nome; solo perdeva sempre maggior numero di provincie, concentrava a Costantinopoli l'amministrazione dell'altre. L'Italia però non solo cessava d'esser capo degli altri paesi, giacchè, a tacere i più remoti, di là dell'Alpi Marittime dominavano i Visigoti nella Gallia meridionale e fin nella Spagna; di là dalle Cozie e nella Savoja s'erano assisi i Borgognoni; i Franchi nella restante Gallia; gli Alemanni nella bassa Germania: ma perdeva anche l'indipendenza, e come campo indifeso, i Barbari, vogliosi di bottino, d'imprese, di patria più fortunata, venivano a correrla, spogliarla, conquistarla, lasciandola poi per altre prede, sinchè alcuni vi fermarono stanza. Tutta Germania, cioè dall'Adriatico al Baltico e dalle foci del Reno a quelle del Danubio, era in movimento: per vendetta o per amor di conquista, di guadagno, d'imprese, i capibanda menavano di qua di là i loro fedeli, senz'altro sentimento che della propria forza, abbattendo le istituzioni ammirate, non provvedendo a sostituirne: i vanti della maestà romana, le finezze dell'amministrazione soccombevano: solo coloni e schiavi proseguivano in egual modo le fatiche, poco badando per qual padrone sudassero; e i sacerdoti, pregando, istruendo, mitigando, mostravano il flagello di Dio nella caduta del passato, e procuravano ammansare i nuovi oppressori. Uno di questi apostoli della carità abitava presso Vienna sul Danubio, venerato per santità dai paesani, visitato da personaggi; e la cortesia de' suoi modi e la purezza del parlare latino il facevano supporre di buona nascita, quantunque e' lo celasse. Lo chiamavano Severino, e pareva che Dio ve l'avesse collocato a edificazione degli invasori che per di là irrompevano sull'Italia; molti ne convertì, altri ammansò; schermì i fedeli, consolò i desolati. Quando Odoacre menava bande ragunaticcie a difesa degl'imbelli successori di Costantino, passando da quelle parti volle vedere quel pio, e modestamente in arnese entrò nella cella di lui, così bassa, che dovette star chino. L'anacoreta, ragionatogli d'iddio e dell'anima, — Tu passi in Italia (soggiunse) vestito di povere lane; ma poco andrà che sarai arbitro delle più elevate fortune[2]. Questa leggenda sul limitare de' nuovi tempi sia un preludio delle molte che v'incontreremo; potendo lo scettico deridere e il critico repudiare, ma non lo storico tacere fatti, che dai contemporanei furono creduti, e di cui sentiremo l'efficacia, il più delle volte benefica. Chi conosce la potenza delle anime dolci e meditabonde sopra i caratteri vigorosi, esiterà a credere che le parole del pio romito di Vienna abbiano mitigato il feroce Odoacre, e risparmiato qualche dolore ai nostri padri? Col suo valore e con quest'augurio venne Odoacre a procacciar sua ventura in Italia; e senz'altro che voltare contro degl'imperatori le armi da questi assoldate, dissipò quella scena dove si riproduceano le immagini e le denominazioni antiche, combinate coi dolori presenti e colla fantasia di nuovi. Perocchè già era un pezzo che l'Impero veniva preseduto da Barbari; anche soppresso il titolo supremo, non tralasciò di raccogliersi il senato, rappresentanza civile sotto a quella militare; si nominavano i consoli; nessun magistrato regio o municipale fu spostato; il prefetto del pretorio continuò co' suoi dipendenti ad amministrare l'Italia e riscuoterne i tributi: Odoacre potea dirsi uno de' tanti, che stranieri occuparono il trono di Roma: se non che nè imperatore intitolossi, nè forse re[3]: non pretese primazia sugli altri regni; anzi lasciava qui proclamare le leggi emanate dall'imperatore d'Oriente, dal quale invocò invano il titolo di patrizio d'Italia. Rimase dunque come un esercito in mezzo a un popolo civile; come uno di que' governi militari, di cui neppure a tempi più civili mancò la ruina. Colla labarda propria e de' venderecci compagni schermì Italia da nuovi invasori: per assodare la propria autorità e punire gli assassini di Giulio Nepote, sottomise la Dalmazia: per mantenere libera comunicazione fra l'Italia e l'Illiria osteggiò i Rugi, piantati sul Danubio ove ora dicesi Austria e Moravia; e abbandonando quelle terre a chi le volesse, menò prigioniero in Italia Feleteo, ultimo re loro, e molta gente. Ad Eurico, re de' Visigoti, confermò la porzione di Gallia che aveva occupata sotto Giulio Nepote, aggiungendovi l'Alvernia e la Provenza meridionale; e strinse alleanza con lui e con Unnerico re de' Vandali, da cui ottenne la Sicilia mediante annuo tributo. Tuttochè ariano, rispettò i vescovi e sacerdoti cattolici, vietò al clero di vendere i beni, acciocchè la divozione dei fedeli non fosse messa a nuovo contributo per riprovvedernelo. Ma era un conquistatore; e guai ai vinti! Già prima, scarsissima cura adoperavasi ai campi, sì per la sterminata ampiezza dei possessi, sì perchè le largizioni imperiali mettevano sui mercati il grano ad un prezzo, col quale non poteva concorrere l'industria privata: e al modo che usa ancora nella campagna di Roma, su gl'immensi poderi lasciati sodi educavansi branchi di pecore, a guardia di pochi schiavi. Gl'invasori, rubando questi e quelle, lasciavano deserto e fame; nelle regioni più fiorenti a pena si scontravano uomini[4]; la plebe, avvezza a vivere coi donativi del pubblico o dei patroni, periti questi, dismessi quelli, basiva in lunga inedia o migrava. Odoacre spartì un terzo dei terreni a' suoi seguaci; ma non che ripopolassero il paese e coltivassero le sodaglie, come alcuno sognò, avranno da prepotenti snidato i nostri. Nè gl'italiani potevano quetarsi al nuovo stato, come si fa ad una stabile miseria: giacchè, mancando ogni accordo nazionale, e reggendosi unicamente sulla forza, poteano prevedere che poco durerebbe quel dominio, e che a nuovi Barbari frutterebbero i terreni che si disselvatichissero. E così fu. Perocchè i Greci non si rassegnavano a perdere quest'Italia, culla dell'impero; e mentre aveano fatto sì poco per conservarla, adesso la sommoveano con brighe secrete o aperte guerre, che le toglievano pace senza darle libertà. L'Impero col restringersi era cresciuto di forza, e in Oriente non si trovava esposto all'arbitrio soldatesco come già l'occidentale: non turbato da memorie repubblicane, o da ambizioni di famiglie antiche, o dall'opposizione d'un clero robusto, nè d'un senato memore d'antica potenza, nè da ordinamenti municipali; ma costituito in regolare dominio, e con una metropoli ben munita e stupendamente collocata, poteva godere quella quiete del despotismo, ch'è il ristoro, sebbene infelicissimo, delle nazioni corrotte. Ma di rimpatto lo agitavano dentro, sia intrighi di palazzo, sia il farnetico delle dispute religiose, nelle quali parteggiavano gli stessi imperatori or favorendo, or anche inventando eresie, e per esse trascurando gli affari. Il popolo di Costantinopoli, tra garriti teologici, tra le chiassose gare pei combattenti del circo, tra le frivolezze d'un lusso spendiosissimo, abbandonava ogni esercizio d'armi, sicchè bisognava affidar la difesa a capitani barbari, i quali, profittando della disciplina, ultimo merito che perdessero gli eserciti romani, prevalevano agli altri Barbari osteggianti l'Impero. Tra quei capitani, serviva all'imperatore Zenone l'ostrogoto Teodorico, discendente in decimo grado da Augis, uno degli Ansi o semidei de' Goti. Questa nazione, recuperata l'indipendenza al cadere di Attila, e piantatasi nella Pannonia, promise pace all'Impero, purchè le tributasse trecento libbre d'oro. Siccome statico fu dato Teodorico, giovane figlio del re Teodemiro, il quale crebbe in Costantinopoli alternando gli esercizj di corpo proprj della sua gente colla conversazione colta de' Greci, e in quel centro del mondo civile affinò lo spirito nelle arti del governare e negli scaltrimenti della politica. Succeduto al padre (475), gli fu dall'imperatore assegnata la Dacia Ripense e la Mesia inferiore, acciocchè vi collocasse i suoi Ostrogoti in posto da potere più facilmente accorrere in ajuto dell'Impero. Di fatto Teodorico li menò contro i nemici interni ed esterni dell'imperatore, il quale gli prodigò i gradi di patrizio e di console, statua equestre, nome di figlio, capitananza de' soldati palatini, migliaja di libbre d'oro e d'argento, e gli promise una moglie di puro sangue e di laute ricchezze. Sintomi di paura più che d'affetto; e come avviene di cotesti liberatori militari, Teodorico divenne minaccioso all'Impero che difendeva, e l'obbligò a vergognose concessioni. Ma più alto levava egli le mire; e volendo terger la taccia appostagli dai compatrioti, di piacersi soverchiamente negli ozj cortigiani, si presentò a Zenone (486), e — L'Italia e Roma, retaggio vostro, giaciono preda del barbaro Odoacre. Consentite ch'io vada a snidarnelo. O cadremo nell'impresa, e voi resterete sollevato dal nostro peso; o ci riuscirà, e mi lascerete governar quella parte che avrò al vostro imperio recuperata». Qual partito meglio di questo potea piacere a Zenone? All'annunzio d'un'impresa diretta da tal capitano, accorsero in folla gli Ostrogoti, che nel colmo della vernata, con bestiami, salmerie, mulini da macinare, con donne, vecchi, fanciulli, impaccio per la guerra, eppur necessarj a chi cercava non una conquista ma una patria[5], per settecento miglia si volsero all'alpi Giulie, pretessendo alla loro invasione il nome romano. Quanti avanzi di altre orde scontravano per via, gli arrolavano seco, come una valanga che rotolando ingrossa; e tal turba formavano, che nell'Epiro in una sola azione perdettero duemila carri. Odoacre tentò sviare quella piena sollecitando contr'essa Bulgari, Gepidi, Sarmati, accampati fra i deserti della già popolosa Dacia; indi alle ultime spiagge dell'Adriatico la affrontò: ma _benchè prevalesse di numero_, e comandasse a _molti re_ (490), fu battuto sull'Isonzo presso le rovine d'Aquileja. Allora dall'Alpi accorsero i Borgognoni, non per alleanza o nimistà, ma per rubare, e assediarono Teodorico in Pavia: egli chiamò di Gallia i Visigoti, e liberato per opera loro, scese a giornata risolutiva con Odoacre nel piano di Verona. L'eroe ostrogoto si era fatto dalla madre e dalla sorella ornare con ricche vesti, di lor mano tessute: mescolata la battaglia, già i Goti disordinavansi in fuga, quando essa madre, affrontandoli e rimbrottandone la viltà, li spinse alla riscossa e alla vittoria. Odoacre cercò un ultimo scampo in Ravenna, inespugnabile pel mare e per le fortificazioni, e donde, col favore del popolo o de' malcontenti, sbucò più volte a mettere a nuovo repentaglio la fortuna del vincitore, che alfine accampato nella Pineta, strinse Ravenna d'assedio. Durati per tre anni tutti gli orrori della fame, Odoacre, per interposto del vescovo, patteggiò, salva la vita e diviso il comando: ma poscia alquanti mesi, Teodorico mentì la parola (493), e a mensa ospitale l'uccise, fe scannare i mercenarj che avevano abbattuto il trono d'Augustolo, e, al solito, accusò il tradito di tradimento. Alla fortuna di lui si sottomise Italia dall'Alpi allo Stretto; vandali ambasciatori gli rassegnarono la Sicilia; popolo e senato l'accolsero qual liberatore — consueta lusinga degli Italiani. L'ambigua convenzione coll'imperatore lasciava dubbio se Teodorico avesse a tenere il bel paese come vassallo o come alleato. Mandò a richiedere le gioje della corona che Odoacre avea spedite a Costantinopoli; e Anastasio, nuovo imperatore, concedendole, parve investirlo del regno. Ma se l'ambizione imperiale lo poteva considerare come luogotenente, egli sentivasi padrone, e da padrone reggeva l'Italia. Però sulle prime volle tenersi amici gl'imperatori onorandoli di epigrafi, lasciando l'impronta loro sulle monete, e scriveva a questi: — Nello Stato vostro appresi come governare i Romani con giustizia; non durino separati i due imperi; una volta uniti, eguale volontà, egual pensiero li governi»[6]. Ma Anastasio s'accorse che erano mostre, e che l'Italia era perduta per l'Impero: laonde a osteggiare Teodorico spedì nella Dacia il prode Sabiniano con diecimila Romani e molti Bulgari; e poichè li vide sbaragliati in riva al Margo, indispettito mandò ducento navi e ottomila uomini che saccheggiarono le coste di Puglia e di Calabria; e rovinato Taranto e il commercio, superbi di indecorosa vittoria, recarono piratesche spoglie al despoto di Bisanzio. Teodorico con mille legni sottili tolse agl'imperatori la voglia di più molestarlo; eppure non negò loro il titolo di padre e fin di sovrano[7], consentiva ad Anastasio la preminenza che egli stesso esigeva dagli altri re, e di concerto con esso eleggeva il console per l'Occidente, come costumavasi durante l'Impero. I Rugi, gente fierissima, ai quali avea dato a custodire Pavia mentr'egli osteggiava Odoacre, furono ammansati dal santo vescovo Epifanio: ma poi Federico lor re si avversò a Teodorico, e ne restò disfatto e morto. Duranti quelle guerre stesse i Borgognoni aveano devastato ancora la Liguria (sotto il qual nome van pure il Piemonte, il Monferrato, il Milanese), moltissimi abitanti menandone prigioni di là dall'Alpi, lasciando le campagne spopolate. Teodorico in prospere guerre estese il dominio anche sulla Rezia, il Norico, la Dalmazia, la Pannonia; ebbe tributarj i Bavari, in protezione gli Alemanni; domò i Gepidi, piantatisi fra le ruine del Sirmio; dispose in opportune colonie Svevi, Eruli ed altri che chiesero di vivere sotto le sue leggi; e come tutore del nipote regolando i Visigoti di Spagna, ebbe riunite, dopo separazione lunghissima, le due frazioni dei Goti, che così dai monti Macedoni fin a Gibilterra, dalla Sicilia fin al Danubio occupavano i migliori paesi dell'antico impero occidentale. I principi circostanti avevano tremato pei recenti lor regni; ma quando videro Teodorico frenare la propria ambizione, e nella vigoria della giovinezza riporre la spada vincitrice, tolsero a guardarlo con fiduciale rispetto, e cercarne l'amicizia e la parentela; e ad insinuazione di lui presero qualche modo di pacifico e civile ordinamento. Egli mandò donativi ai re Franchi; da altri ricevette cavalli ed armi: un principe scandinavo spodestato a lui rifuggiva, e fin gli estremi Estonj gli tributavano l'ambra del Baltico. Quanto all'Italia, Teodorico cominciò il regno come gli altri Barbari, col dividere a' suoi un terzo dei terreni conquistati, sopra i quali si stanziarono con titoli d'ospiti e con fatti da padroni. Aveva decretato la cittadinanza romana, vale a dire la piena libertà a quelli che l'avevano favorito nella conquista; mentre ai fedeli ad Odoacre tolse di poter testare nè disporre dei loro beni. Epifanio, vescovo di Pavia, si condusse intercessore per questi a Ravenna, con Lorenzo, vescovo di Milano; e Teodorico gli esaudì, solo alcuni capi eccettuando; poi disse ad Epifanio: — Vedete in che desolazione giace l'Italia, spopolata dai Borgognoni. Io voglio riscattarli; nè trovo vescovo più atto a ciò. Andate, ed avrete il denaro occorrente». Epifanio dunque, con Vittore vescovo di Torino, fu a Lione, e da Gundebaldo re ottenne il rilascio de' prigionieri, pagando riscatto sol per quelli presi colle armi. Al fausto annunzio della liberazione, per tutta Gallia si commossero i tanti soffrenti; quattrocento in un giorno partirono da Lione; seimila furono restituiti senza riscatto; Godegisilo, re di Ginevra, concesse altrettanto ad Ennodio; la carità de' Galli sovveniva alla povertà italiana; e il papa ebbe a ringraziare i vescovi di Lione e d'Arles pe' sussidj da loro mandati in Italia: Epifanio ripassò le Alpi nel più bello e più inusato trionfo, non conducendo schiavi, come soleano i re, ma gente da lui redenta; e accolto dappertutto fra benedizioni, coronò l'opera coll'impetrare che Teodorico ripristinasse i tornati nei beni perduti[8]. A quest'uopo traversava il Po, allora impaludato in estesissimo letto, e obbligato a giacersi la notte fra quelle pestifere esalazioni, fu preso da gravissima malattia; oppresso dalla quale si presentò a Teodorico, e ottenuta la grazia, volle rivedere il suo gregge, fra il quale appena giunto, morì. Ma gl'italiani come stavano sotto Teodorico? Il popolo risponde, Pessimamente, e nel nome di Goto compendia ogni barbarie, ogni ignoranza, ogni avvilimento della vita e del pensiero. I dotti vollero figurarlo principe desiderabile anche all'età nostra, e il regno suo un de' più giocondi o dei meno dolorosi all'Italia. Opinioni entrambe eccessive. I meriti di Teodorico sono esaltati nel panegirico che Ennodio recitò in presenza di lui per ringraziarlo o mansuefarlo; e nelle lettere di Cassiodoro, che, a nome di esso, con barbara eleganza stese decreti pomposi, magnificando il principe, e il bello ubbidirgli, e il fiore ch'e' recava ai sudditi, e la grata benevolenza di questi. Fonti sospette. Merito suo certo è l'avere procurato alla penisola trentatre anni di pace, gran ristoro anche sotto tristo reggimento: ma non sa di storia chi si figura che i Goti od altri Barbari accettassero come pari la gente italiana. Lingua, consuetudini, credenze, li teneano distinti: il Goto, tutt'armi, insultava le oziose scuole letterarie; di rimpatto l'imbelle Romano, nel misero orgoglio del tempo passato, intitolava barbaro il suo padrone: e sebbene questi adottasse alcun uso del vinto e professasse desiderio di fondersi insieme[9], al fatto repugnava l'indole di quei governi. Che se la storia degnasse guardare ai vinti, registrato avrebbe le sanguinose proteste che fecero a volta a volta contro i conquistatori[10]. I tributi furono conservati quali sotto i Romani, cioè enormi, ed occasione d'abuso ai magistrati: v'erano soggetti al pari i terreni de' Romani e de' Goti, neppure eccettuati quelli del re. L'amministrazione municipale restò ai natii, ma il re nominava i decurioni; magistrati paesani che giudicavano dei loro concittadini, curavano la polizia, compartivano e riscotevano le imposizioni, dal prefetto del pretorio assegnate a ciascuna comunità[11]. Sette consolari, tre correttori, cinque presidi reggevano le quindici regioni d'Italia, colle forme della romana giurisdizione: un duca fu posto alle provincie di confine, ch'erano state munite contro nuovi attacchi. I Romani in materie civili appellavansi al vicario di Roma, e al prefetto della città nelle otto provincie della bassa Italia, dai quali davasi ancora appello al prefetto del pretorio, e da ultimo al re in persona: viluppo di brighe e di spese. Conserviamo una serie di brevetti di nomina (_formulæ_), ove a ciascun eletto si spiegano gli uffizj suoi, esortandolo a ben adempirli; ma la luce che ne potremmo derivare è adombrata dai fiori retorici di Cassiodoro che li stese: bastano però ad attestare che brevi duravano gl'impieghi, e dagli alti si passava agli inferiori, con iscapito della buona amministrazione. Unico legislatore sembra il re, senza le assemblee nazionali, comuni fra i Germanici. Un consiglio di Stato sedente a Ravenna discuteva gli atti di suprema autorità, che poi erano comunicati al senato di Roma. Questo corpo degenere poteva invanirsi allorchè il re gli mandava i suoi decreti, compilati in forma di senatoconsulti, e gli scriveva: — Auguriamo che il genio della libertà riguardi, o padri coscritti, la vostra assemblea con occhio benevolo»; ma in effetto non gli rimaneva che a far complimenti e a dire di sì. Ma dove i precedenti conquistatori aveano portato solo ira e distruzione, poi n'erano fuggiti, quasi spaventati dal fantasma dell'Impero che avevano assassinato, Teodorico vide poter assumere uffizio più glorioso e piacente, e farsi considerar successore degli Augusti, conservando gli ordini antichi, e cercando introdurli fra la sua gente. A tal uopo non potea che valersi di nostrali, ed ebbe il senno e la fortuna di sceglier bene, e il merito di non temer gl'ingegni superiori. A Laberio conferì la prefettura del pretorio, malgrado la fedeltà mostrata verso Odoacre; tenne amico Simmaco, grande erudito pel suo tempo; Cassiodoro e Boezio, ultimi scrittori romani, posti in grandissimo stato, contribuirono non poco a mascherare il regno di un Barbaro agli occhi dei contemporanei e dei posteri. Costoro opera fu l'_Editto_ che Teodorico pubblicò, per rimediare alle moltissime querele arrivategli contro coloro che nelle provincie conculcavano le leggi. Fondasi esso sulla ragione romana, sottoponendo a questa anche i suoi Goti, nell'intento di dilatare fra loro la civiltà latina, di cui conosceva il pregio, senza però ridurli a dividere con altri il privilegio dell'armi e quei che ne erano conseguenti: che se le nuove disposizioni obbligavano tutti, sussisteva però il diritto di ciascuna nazione, i Goti col gotico, col romano i Romani regolandosi, eccetto i casi distintamente indicati. In fatto quelle leggi versano quasi solo su ragione criminale, negligendo la civile: lo che non potrebbe ragionevolmente imputarsi a trascuranza in governo ordinato com'era quello di Teodorico, ma sì all'aver egli imposto norme a ciò che direttamente concerneva lo Stato, senza intromettersi del diritto privato de' due popoli[12]. Nel poco che riguardano il civile sono dedotte principalmente dalle _Sentenze_ di Paolo, manuale pratico di quei tempi: se non che il compilatore parlando in voce propria, trasforma e sfigura i passi, e nell'arbitraria distribuzione li distrae dal vero significato. Ai cencinquantaquattro paragrafi, dodici ne soggiunse poi Atalarico, criminali e di procedura. Notevole cosa, che la peggiore raccolta di leggi romane sotto i Barbari siasi fatta in Italia. Traverso all'ambizioso moralizzare del legislatore e alle declamazioni di Cassiodoro trapela come il rispetto alle leggi romane fosse o una maschera del conquistatore, o patriotica illusione del compilatore: del resto si riducono a istantanee provvigioni, indicanti il buon volere del re, non attitudine o potenza di farle eseguire, non concetti generali, non larghi intenti. Comanda giustizia pronta non precipitosa, senza badare a grado o nascita de' contendenti; esecra i rapportatori e le migliaja di curiosi[13], de' quali valevansi gl'imperatori piuttosto a turbar la pace privata codiando gli andamenti, che a tutelare la pubblica sicurezza; desidera il popolo agiato, nutrito nelle carestie. Diresti il regno della felicità: ma la storia ci fa vedere come a spie desse fede Teodorico, sino a danno de' suoi più cari; trovasse ragione di crescere i tributi la migliorata agricoltura, punendo così l'industria[14]; i deboli fossero costretti invocare contro dei prepotenti il braccio militare de' Sajoni; l'avarizia dei magistrati e il favore corrompessero la giustizia; considerati come delitti frequenti, e perciò minacciati con nuove pene, l'invasione violenta, l'omicidio, l'adulterio, la poligamia, il concubinato, la frode di rescritti surrettizj, le donazioni estorte con minaccie, il perpetuarsi delle liti per sempre nuove appellazioni[15]. Un anonimo contemporaneo asserisce che poteansi lasciar dischiuse le porte, e denaro ne' campi: ma le lettere stesse di Cassiodoro rivelano e violenze e furti non radi; — buon avvertimento a riscontrare le lodi dei principi coi fatti. Trai delitti, la fellonia è punita di morte e confisca; il caporibelli e il calunniatore, bruciati vivi; morte a maghi, a Pagani, a violatori delle tombe, a rapitori di donna o fanciulla libera, al falsificatore di carte o di pesi, al giudice venale, all'involatore di bestie; bandito chi abusa dell'autorità o depone il falso; l'accusatore si esponga a sostener la pena che sarebbe tocca al reo, se questo si scolpi. Ma ai Goti non era consueto il guidrigildo, cioè lo scontar i delitti a denaro, e l'omicidio punivasi con pene corporali al modo romano: il che dovea fare men dura la sorte dei vinti, perchè meno sproporzionata. Salvo queste disposizioni comuni, i Goti conservavansi superiori e distinti dai Romani, sottoposti a un grafione o conte che, al modo germanico, in guerra li capitanava, in pace decideva dei loro litigi; associandosi un giurisperito romano qualora con un Romano si discutesse[16]. Durava dunque l'organamento antico, ma vi sovrastava un governo militare, siccome ne' paesi che ora si pongono in istato d'assedio. Soli Goti portavano le armi; e Teodorico ne congratula i Romani come d'un bel privilegio, mentre era un sospettoso disarmo dei nostri, e una consuetudine generale de' Barbari, il cui nome stesso nazionale (Germano vale uom di guerra) indicava che la pienezza dei diritti spettava solo all'armato. Nel dolce clima d'Italia moltiplicaronsi i Goti a segno, da poter fra breve mettere in piedi ducentomila guerrieri, obbligati a servigio non per soldo, ma per le terre ad essi distribuite. E la penisola perseverava su piede di guerra; e al primo bando accorrevano i Goti per far guardia al re, presidiare la frontiera o marciar contro i nemici, provvisti d'arme e vettovaglie dal prefetto al pretorio. Anche di buona marina fu munita la costa, comprando abeti da tutt'Italia e massime dalle boscose rive del Po, sgombri dalle fratte pescatorie il Mincio, l'Oglio, il Serchio, l'Arno, il Tevere, perchè ne scendessero il legname e le barche[17]. Senza credere che il nome di Goti significhi buoni[18], alcuni fatti attestano la vigorosa loro disciplina, non esigua virtù in bande armate. Allorchè Teodorico vinse i Greci al Margo, nessuno de' suoi stese un dito alle ricche spoglie dei vinti, perchè egli non diede il segno del saccheggio. Più tardi Totila, presa Napoli, non solo la campò dalle violenze che il feroce diritto della guerra consente fin alle genti civili, ma fece distribuire agli assediati il vitto in misura, che non nocesse dopo il lungo digiuno[19]. La lingua gotica era già stata scritta, se non altro per tradurre i Vangeli, ma non era coltivata; e in latino pubblicavansi le leggi e le epistole, valendosi di segretarj romani, e lasciando che i legati spiegassero la cosa nel vulgare natìo[20]. Teodorico medesimo non sapea sottoscrivere se non scorrendo colla penna negli incavi di una lastrina d'oro: eppure dilettavasi di ragionamenti istruttivi[21], fece attentamente educare le sue figliuole, e volle anche favorire le lettere e le arti. Ma qui, come nel resto, appare il contrasto fra le abitudini nazionali e il proposito d'imitazione; perocchè egli interdisse ai Goti gli studj come corruttori, mentre li promoveva fra i Romani. Aurelio Cassiodoro, nato a Scillace di famiglia benemerita, conte delle cose private e delle sacre largizioni di Odoacre, indi segretario di Teodorico, a nome di questo e dei successori stese rescritti ed ordini, pubblicati col titolo di Variarum libri XII. Nei cinque primi raccolgonsi quelli a nome di Teodorico, seguono due di diplomi per le varie cariche civili e militari; poi tre delle epistole dei successori di Teodorico; infine due di ordinanze, da Cassiodoro emanate come prefetto al pretorio. Le durezze dello stile, la irremissibile gonfiezza, l'ostentazione d'ingegno, di retorica, di erudizione, non tolgono pregio a quell'unico monumento della storia italica d'allora. Egli parla d'un archiatro allora istituito; d'un professore di grammatica, uno di retorica, uno di legge[22], che dettavano in Campidoglio: ed Ennodio loda le scuole milanesi prosperanti sotto Teodorico, e gli eccellenti ingegni di Liguria, pei quali correa proverbio[23] qui nascere ancora i Tullj. Severino Boezio, nato a Roma da padre che avea sostenuto primarie dignità, dai dieci ai ventott'anni studiò in Atene, ove tradusse opere di Tolomeo, Nicomaco, Euclide, Platone, Archimede, Aristotele. I suoi commenti su questo rimasero canoni nel medio evo[24], e diffusero tra noi la cognizione delle opere dello Stagirita, del cui metodo si valse egli per trattare dell'unità e trinità divina. Pari in elevatezza di pensiero a qualsivoglia filosofo, vi unisce il sentimento cristiano; e sebbene la ridondanza e l'enfasi degli ultimi Latini guastino il suo stile, sorvola in questo ad ogni contemporaneo. Gli è inferiore Ennodio, vescovo di Pavia, che stese esortazioni scolastiche ed altre a modo delle antiche declamazioni; poi alquante lettere di materie ecclesiastiche, la vita di sant'Epifanio[25] e di sant'Antonio Lerinese, un gonfio e bujo panegirico di Teodorico, oltre alquanti epitafj ed epigrammi. Quando Boezio fu fatto console, esso gli scriveva: — Mi congratulo dell'onore a te conferito, e ne ringrazio Dio, non perchè sii sopra gli altri sollevato, ma perchè il meriti. Nè questo consolato è concesso agl'illustri natali: chi per quelli soli l'ottenesse, sarebbe indegno di succedere al grande Scipione, essendo ricompensa degli avi, non sua. Più che alla gentile tua prosapia, era dovuto alle tue doti. Qui non sangue sparso, non soggiogate provincie, non popoli ridotti in servitù e trascinati dietro al carro trionfale, sciagurato preludio in una carica volta tutta a conservazione dei popoli, non a loro distruzione. Ora che profonda pace gode Roma, divenuta anch'essa guiderdone e premio al coraggio dei nostri vincitori, di altra natura virtù si domandano ne' consoli suoi». Così alla mente del vescovo italiano ricorrono le glorie passate; se ne consola colle nuove destinazioni, e mitiga con sentimento cristiano la fierezza dell'antica gloria. Sui Benefizj di Cristo lasciò un poema Rustico Elpidio, medico di Teodorico. Di Cornelio Massimiano etrusco (che allora equivaleva ad italiano) restano idillj, donde raccogliamo ch'egli erasi educato agli esercizj ginnastici e all'eloquenza, e forse fu uno degli ambasciadori spediti da Teodorico ad Anastasio imperatore quand'era in pratica di farsi riconoscere re d'Italia. A Costantinopoli s'invaghì d'una fanciulla, ed essendo ben in là negli anni, ne provò le sciagure, che deplora a lungo nella sua egloga _De incommodis senectutis_. Fra troppi vizj, ha immagini sì graziose e passi tanto consoni agli antichi, che lungo tempo furono le sue egloghe attribuite a Cornelio Gallo, amico di Virgilio. Egli è posto fra' dodici _poeti scolastici_, di cui restano specie di difficili sfide, come ventiquattro epitafj per Cicerone, dodici espressi con tre distici, altrettanti con due; variazioni sul tema del _Mantua me genuit_; dodici altri per Virgilio in altrettanti distici; gli argomenti de' canti dell'_Eneide_, ciascuno da diverso poeta, in cinque versi; dodici esametri sui giuochi di ventura (_De ratione tabulæ_); dodici coppie di distici sul levare del sole; dodici da quattro distici sulle quattro stagioni, secondo quel di Ovidio _Verque novum flabat_; dodici sopra un fiume gelato: freddure artifiziate. Questi poeti sono Asclepiadio, Asmeno, Basilio, Euforbo, Eustenio, Ilasio, Giuliano, Massimiliano, Palladio, Pompeo, Vitale, Vomano. Aratore, probabilmente milanese e addetto al fôro, venne deputato dai Dálmati a Teodorico; fu conte dei domestici in corte d'Atalarico; infine, sciolto dalle brighe civili, stette suddiacono della chiesa di Roma. Tradusse in due libri d'esametri gli _Atti degli Apostoli_. Li supera Venanzio Fortunato, trevisano di Valdobiàdene, che studiò a Ravenna grammatica ed arte poetica[26] senza curarsi di filosofia e di studj sacri. Patendo degli occhi, e risanato dall'olio della lampada che ardeva ad un altare di san Martino, per gratitudine andò a venerarne la tomba a Tours, e accolto da Sigeberto re de' Franchi, ne cantò epitalamj e lodi, poi divenne confidente e limosiniere di Radegonda di Turingia e vescovo di Poitiers. Scrisse sette vite di santi; voltò in esametri quella di san Martino fatta da Sulpizio Severo; inoltre lettere teologiche in prosa e ducenquarantanove componimenti in vario metro per chiese erette o dedicate, o a nome di Gregorio di Tours, o dirizzate a questo o ad altre persone, poetando frivolo per lo più e di color rosato, fra l'immensa serietà ed importanza di quei tempi. Agli inni suoi non mancano armonia e movimento: alla prosa fanno impaccio antitesi e cadenze rimate. Quando Radegonda ottenne da Giustino imperatore un pezzo della vera Croce, egli compose il _Vexilla regis prodeunt_ ed una elegia disposta in forma di croce. Con queste gratuite e inamene difficoltà cercavasi supplire all'eleganza e alla castigatezza: quindi gli anagrammi ed altre ingegnose combinazioni; quindi ancora l'uso della rima, già evidente in un epigramma di papa Damaso, e che coll'armonia delle cadenze vellicava le orecchie, dacchè s'erano divezze dal riconoscere il tempo esatto di ciascuna sillaba; onde la poesia veniva passo passo da metrica trasformandosi in ritmica. Eccettuando Marcellino, conte dell'Illirico, che stese una cronaca da Valente al 534, sono a cercare fra il clero i pochi e difettivi storici di quest'età. Jornandes o Giordano, goto di nascita, segretario d'un re alano, poi forse vescovo di Ravenna sulla metà del secolo VI, compendiò la storia de' Goti di Cassiodoro, parziale e senza critica; da Floro estrasse una storia romana da Romolo ad Augusto. Epifanio avvocato, ad istanza di Cassiodoro, compendiò le storie ecclesiastiche di Socrate, Sozomene e Teodoreto, che, aggiuntavi la continuazione d'Eusebio fatta da Rufino, costituirono l'_Historia tripartita_ in dodici libri, manuale per la storia ecclesiastica in Occidente. La musica doveva esser coltivata alla reggia di Teodorico se Cassiodoro e Boezio ne scrissero: Clotario, re de' Franchi, gli chiese un musico che col suono accompagnasse il canto: a Gundebaldo mandò regalare un orologio solare e uno a acqua. Le arti belle continuarono a decadere, ma Teodorico istituì magistrati sopra il conservare i monumenti; e a ristaurare gli edifizj pubblici destinò un architetto sperimentato, annui ducento denari d'oro, e le dogane del porto Lucrino, non ancora spopolato. Essendo in Como rubata una statua di bronzo, promise cento soldi d'oro a chi indicasse il ladro, lagnandosi che, mentr'egli cercava nuovi ornamenti alla città, venissero a perdersi gli antichi. Qui minaccia chi ruba il rame o il piombo dai pubblici edifizj; là chi svia gli acquedotti; stipendiò anche un Africano che pretendea saper scoprire le sorgenti: tanto al falso s'appone chi ai Goti attribuisce la rovina delle arti belle in Italia, cominciata assai prima, compita assai dopo. Anche emulare gli antichi cercò Teodorico con edifizj a Terracina, Spoleto, Napoli, Pavia. A Ravenna, sua residenza in tempo di guerra[27], alzò un palazzo e condusse acque, disagevole impresa fra le paludi che la separano dalla collina: un altro palazzo edificò presso il Bidente alle falde dell'Appennino: un magnifico con portici in Verona, residenza di pace, ove pure ristorò l'acquedotto a tutte sue spese, e le mura: un altro ne eresse in Pavia, e terme e anfiteatro; altrettanto presso i bagni di Abano. Quanto sia falso il chiamare gotico l'ordine che ha per carattere il sesto acuto, appare da tali edifizj. Chi, dopo essersi, nel monotono viaggio traverso alle paludi Pontine, immalinconito al pensare che ventitre città e ville di suntuosità voluttuosa sorgevano dove ora infesta il deserto, sbocca alfine a ricrearsi nella vista del Mediterraneo, incontra in poggio Terracina, popolosa e lieta un tempo, ora squallida, malgrado le cure di Pio VI. Era essa limite fra il dominio greco e il gotico, e baluardo verso il mare: onde Teodorico ne munì il ricinto, lungo le mura alzando torri alternamente quadrate e tonde; poi a cavaliero della città pose una fortezza o piuttosto un palazzo, che tuttavia si conserva, e donde meravigliosamente spazia la veduta sul Lazio, la Campania e il mare. Ma quelle e queste non diversificano dallo stile della romana decadenza, nè v'ha ombra di architettura puntuta. In Ravenna, un muro che ora forma facciata al convento de' Francescani, e che si suppone avanzo della reggia di Teodorico, nella cattiva disposizione delle colonne alla parte superiore e nelle proporzioni dell'arco, tiene del palazzo di Diocleziano a Spalatro. Così la chiesa di Sant'Apollinare e un battistero per gli Ariani, da Teodorico fabbricatevi, arieggiano a quelli che al tempo stesso ergevansi a Roma, con ornamenti che attestano la continuante declinazione. Amalasunta pose a suo padre un mausoleo rotondo, con una cupola, dalla quale sorgeano quattro colonne sostenenti un vaso di porfido attorniato da dodici apostoli di bronzo, entro cui riposava il re. Se la descrizione non è favolosa, altro non potrebb'essere che Santa Maria della Rotonda, la quale ad ogni modo sorse tra il fine del V e il principio del VI secolo. Nella distribuzione generale vi sono conservate le buone tradizioni antiche; piano semplice, elevazione di qualche magnificenza: meravigliosa poi la cupola, formata d'un pietrone di metri 10. 4 di diametro, m. 4. 5 dalla base al vertice, m. 1. 14 di grossezza, talchè il masso, qual fu tratto dalla cava, aveva la solidità di almeno metri cubi 495, e pesava 1287 mila chilogrammi: e se, come pare, fu scarpellato prima di trasportarlo dalle cave dell'Istria, aveva ancora il volume di 109 metri cubi e il peso di 283 mila chilogrammi; eppure fu alzato a 13 metri, prova di singolare abilità meccanica[28]. Infelicemente vi sono disposte le decorazioni, di pesante e sgraziato taglio, nè proporzionate fra sè o col tutto; riparti non ben calcolati, profili delle porte dissonanti dal resto; modiglioni irregolarmente distribuiti; piedritti che, invece d'imposta, reggono una mal eseguita cornice. I peccati dell'architettura del suo tempo conosceva e additava Cassiodoro: altezza smodata, gracili colonne, superflui ornamenti[29], che sono sì i difetti dello stile gotico, ma non l'essenza sua. Somiglievoli forme presenta una medaglia ov'è effigiato il palazzo di Teodorico, con archi voltati sopra esili colonne, ma in tondo. Non era dunque un genere gotico, ma un deterioramento dell'antico gusto: e non ispeciale de' Goti, perocchè anche nel pittoresco ponte sul Teverone, a tre miglia di Roma, ricostruito dal greco Narsete il 565, alla solidità è sacrificata la bellezza[30]. Nè d'introdurre uno stile nuovo sarebbesi brigato Teodorico, che mostrava o affettava tanto rispetto alla civiltà latina. Condottosi a Roma, non finiva d'ammirarne i capolavori, il Campidoglio, il Foro Trajano, i teatri di Pompeo e di Marcello, il Colosseo, stupendi anche dopo i guasti del tempo e de' nemici; gli acquedotti, la via Appia, di cui nove secoli non aveano ancora sconnesso i lastroni; e l'Acqua Claudia che per trentotto miglia veniva dalle montagne sabine fin alla sommità dell'Aventino. Non era perduto il senso del bello e del grande quando Cassiodoro descriveva con tanto esaltamento il fuoco de' cavalli del Quirinale, la vacca di Mirone, gli elefanti di bronzo della via Sacra. Teodorico vi fu accolto con uno splendore che rammentava alla fantasia di un patrioto i trionfi degli Augusti, a quella di un pio le magnificenze della vera Gerusalemme. Nella sala della Palma d'oro potè ammirare la nobiltà, il decoro, l'ordine della Curia romana, distinta a seconda della dignità[31]: e sfoggiò egli stesso d'eloquenza, ottenendo applausi. Il grano della Puglia, della Calabria, della Sicilia vi si distribuiva ancora al popolo decimato, che poteva nel circo veder le belve combattenti, o parteggiare pei Verdi e i Turchini, e insuperbire allorchè il goto conquistatore ammirava le magnificenze e le portentose comodità, le statue rapite ai vinti e salvate dai vincitori. A quel popolo Teodorico assegnò ventimila moggia di grano ogn'anno, ponendone memoria in bronzo; ristabilì le strade romane che solcavano l'Italia; diede venticinquemila tegoli ogn'anno per riparare i portici di Roma; ordinò che i marmi dispersi fossero riuniti ai palagi da cui erano svelti. Per riparare all'incolto spopolamento vi invitò i Romani rifuggiti nel Norico, redense prigionieri, trapiantò schiavi. Decio sanò le paludi Pontine; Spes e Domizio quelle di Spoleto[32]: e l'Italia potè avere sì buon mercato di sue derrate[33], da mandarne sin fuori. Ennodio chiama la Liguria genitrice di messe umana, avvezza a numerosa progenie d'agricoltori[34]: intorno a Verona raccoglievasi il vino per la regia mensa, e Cassiodoro non rifina di lodar questo liquore, a cui nulla d'eguale può vantar la Grecia, sebbene medichi i suoi vini con odori e marine misture[35]. Metalli e marmi cavavansi per conto del re, e una miniera d'oro fu aperta nelle Calabrie[36]. Teodorico, tutto che ariano, rispettò la credenza cattolica; sua madre la professava, e molti illustri personaggi vi si convertirono senza scapitare nella grazia di lui; mentre un suo segretario avendo creduto ingrazianirsegli col farsi ariano, fu da lui mandato a morte, dicendo: — Non potrà esser fedele a me chi fu infedele al suo Dio». Al papa e ai vescovi mostrò rispetto e confidenza, valendosene nelle legazioni ai re od all'imperatore: accoglieva le querele dei sacerdoti contro i suoi ministri, e per loro mezzo soccorreva ai calamitosi: contribuì millequaranta libbre d'argento per rivestire la volta di San Pietro, cui regalò pure due candelabri di settanta libbre d'argento: una patena simile di sessanta diede a Cesario vescovo d'Arles, e trecento monete d'oro. Disputandosi il papato Simmaco e Lorenzo, dopo due anni di guerra civile fu rimessa a Teodorico la decisione; ond'egli radunò un concilio. E avendogli il vescovo di Milano rimostrato che tal convocazione non era di sua spettanza, egli asserì averne lettera del papa: e perchè quegli ne dubitava, non esitò a porgliela sott'occhio[37]. Vero è che tenne sempre occhio e mano alle elezioni, dubitando che i papi non favorissero a suo scapito gl'imperatori; e pretendeva esercitare giurisdizione anche sopra gli ecclesiastici, benchè la pena da infliggersi rimettesse al vescovo. In tale o moderazione o indifferenza non perseverò sino alla fine. Avendo l'imperatore Giustino tolto chiese, cariche e libertà di culto agli Ariani nell'Impero orientale, Teodorico gli spedì papa Giovanni (523) e vescovi e senatori, minacciando pari intolleranza in Occidente. Il papa non potè o non volle distogliere Giustino; onde al ritorno fu messo in carcere e vi morì. Allora sgorgarono gli odj, immortali ne' natii contro lo straniero, e la paura invasò Teodorico; la paura punitrice degli oppressori; la paura che consigliò tre quarti dei regj delitti. Proibì dunque, pena la testa, agl'italiani ogni altr'arma che il coltello per usi domestici; e popolo e re si credettero a vicenda insidiati[38]. Dicemmo come Boezio avesse meritato la confidenza di Teodorico, che il nominò console, patrizio, da ultimo maestro degli uffizj; e i due figliuoli, in tenera età, ne elevò al consolato fra l'esultanza del popolo e le largizioni del padre. Non ligio al principe che lo innalzava, Boezio avea saputo frenarne talvolta gl'impeti e mitigarne il rigore; impedir le rapine dei magistrati, e lenire la condizione degli obbedienti[39]. Non dimentico però di sua nazione, mal soffriva di vederla a giogo straniero, e più quando, aggravato dai sospetti, Albino senatore fu accusato di sperare la libertà romana; e Boezio dichiarò: — Se questo è delitto, io e tutto il senato ne siamo in colpa». Teodorico, che vedeva colla sicurezza del suo dominio mal combinarsi la conservazione del senato, involse nell'accusa anche il proprio ministro; si citò una lettera sottoscritta da lui e da Albino, che invitava l'imperatore a redimere l'Italia; e in conseguenza Boezio fu chiuso in una torre a Pavia, e il senato firmò il decreto di confisca e di morte. Boezio esclamò: — Possa in quel senato non trovarsi più alcuno reo del mio stesso delitto»; e aspettando l'ora del supplizio, scrisse _Della consolazione della filosofia_, dialogo in una prosa talvolta aspra e barbara, mista di poesie molto migliori, facili, ricche di gentili immagini, governate da una mesta armonia[40] e con nuove intrecciature di metri, mostrando piena cognizione de' migliori antichi, e la musa di Tibullo e la grandiloquenza di Tullio traendo ad esprimere concetti cristiani. La Filosofia, apparendogli, il consola col mostrargli che Dio governa il mondo a disegni di eterna sapienza, inesplorabili al debole mortale; mal dunque lamentarsi dell'incostanza della fortuna, le cui mani altro non possono distribuire che beni futili e perituri; anzi non potersi drittamente chiamar mali quei che da Dio derivano, e la virtù sola rendere felice. Chiude con varie quistioni sul caso e sulla Provvidenza, e sul modo di conciliar questa coll'esistenza del male; eclettico anzi che cattolico in questa scabrosissima tra le quistioni. Ivi dice alla Filosofia: — Se tu mi domandassi di qual misfatto io sia accusato, dicono volli fosse salvo il senato; se cerchi in qual modo, m'imputano d'aver distolto un delatore dal rivelare al re la congiura ordita contro la sua persona per ricuperare la libertà. Che far dunque, maestra mia? che mi consigli? Negherò la colpa? oh come, se veramente io desiderai sempre che il senato fosse salvo, nè mai cesserò dal desiderarlo? Confessar dunque che è vero, e negare d'aver rattenuto la spia? ma chiamerò mai scelleranza l'aver desiderato la salute di quell'ordine? Il quale, pei partiti che prese contro di me, ben meritava che in altra stima io l'avessi: ma l'impudenza di chi mentisce a se stesso non torrà mai che sia lodevole e buono ciò che è tale per sua natura; ed io non reputo lecito nè nascondere la verità negando ciò che è, nè mentire confessando ciò che non è. Delle lettere che dicono aver io scritte per isperanza di tornare in libertà Roma, non farò parola; giacchè la falsità ne sarebbe chiara quando m'avessero, come si dee, conceduto di stare al confronto co' miei accusatori. Perciocchè, qual libertà lice oggimai sperare? E volesse Dio che alcuna sperar se ne potesse! Avrei risposto come Cannio a Caligola, quando questi lo imputava come consapevole d'una congiura: _Se l'avessi saputa io, non l'avresti saputa tu»_. In fine, strettogli da una fune il capo sin quasi a schizzarne gli occhi, Boezio fu finito a colpi di bastone (524). I suoi coevi lo compiansero come martire e santo: la posterità non gli negherà la compassione che merita la vittima di timida oppressione e di secreto processo. Perchè l'illustre Simmaco, suo suocero, osò compiangerlo, si temette volesse vendicarlo; onde cadde nuova vittima (525) per calmare i sospetti di Teodorico. Ma non i rimorsi. Nella testa di un pesce imbanditogli, il re credette ravvisare la minacciosa faccia di Simmaco, e preso da ribrezzo, dopo tre giorni spirò (526) nel palazzo di Ravenna; e la vendetta degli oppressi il perseguitò oltre la tomba, dicendo essersi veduti i demonj strascinarlo pel vulcano di Lipari all'inferno. Eppure la posterità deve contarlo per uno dei migliori re barbari; storia e poesia lo immortalarono; e s'egli avesse sortito successori degni, poteva di due secoli avere anticipata la rinnovazione dell'Impero e della civiltà. CAPITOLO LX. Fine del regno ostrogoto. — Belisario. — Narsete. Italia Liberata. I. TEODORICO 475-526 | | Amalasunta m. di | Eutarico | | | | II. ATALARICO 526-534 | | Teodegota m. di | Alarico | | | | Amalarico | | re de' Visigoti | | Ostgota m. di | Sigismondo Amalafreda sua sorella m. di Trasamondo re de' Vandali | | III. TEODATO 534-536 | | Amalaberga m. di | Ermafrido turingio _Re elettivi_ IV. VITIGE 536-540. V. ILDEBALDO -541. VI. ERARICO 541. VII. TOTILA -552. VIII. TEJA -553. Il regno di Teodorico comprendeva l'Italia; la Sicilia, eccetto il capo Lilibeo; la Dalmazia; il Norico; gran parte o tutta l'odierna Ungheria; le due Rezie, che or sono il Tirolo e il canton de' Grigioni; la Svevia o bassa Germania colle città d'Augusta, Costanza, Tubinga, Ulma: nella Vindelicia aveva raccolto molti Alemanni; sicchè confinava a settentrione col Danubio da Ratisbona a Nicopoli, a maestro col Lech, col lago di Costanza e coll'antica Elvezia: aggiungete la Provenza e il litorale fino ai Pirenei, sottoposti a duchi da lui dipendenti, e la maggior parte della penisola spagnuola. Parea dunque il gotico dovesse prevalere agli sminuzzati dominj di Barbari, e sostituirsi all'impero romano; eppure in breve andò a fascio. Teodorico non avendo figli maschi, per continuare la stirpe degli Amali chiamò di Spagna Eutarico Cillica (515), ultimo rampollo di quella, e sposatagli Amalasunta sua figlia, il fece adottare coll'armi da Giustino imperatore, e applaudire dal popolo con suntuosissimi spettacoli nel circo, e caccie e giostre. Ma l'erede designato gli premorì; e Teodorico, assicurato il regno dei Visigoti di Spagna al nipote Amalarico, il proprio trasmise ad Atalarico, nato da Amalasunta. Costei, bellissima, sperta nel latino, nel greco, nel gotico, eppure senza ostentazione, fedele ai secreti, sollecita d'imitare il padre e ripararne i falli, assunse il governo come reggente, notificando i suoi diritti all'imperatore, quasi a capo supremo, e pregandolo a dimenticare i dissidj paterni[41]; al senato promise non disdire veruna domanda. Ammiratrice dell'antica civiltà, bramava mutare le costumanze dei Goti talmente che non si distinguessero dai Romani; e tre ministri che avversavano quel femminile despotismo, mandò a morte. Anche il figlio educava sotto maestri romani e fra gente di lettere e d'ingegno; e una volta coltolo in fallo, gli diè uno schiaffo. Egli scappò piangendo, e mosse a indignazione i signori goti, i quali si presentarono ad Amalasunta, dicendole, A re guerriero non servire tanti pedagoghi; Teodorico non sapea tampoco scrivere; come sarà prode in campo uom che apprese a tremare sotto lo staffile di un pedante? Anzi sorsero minacciosi, e le tolsero di mano il re futuro per metterlo fra giovani nazionali: dov'egli sguinzagliato si sciupò di modo, che ne morì (534). Non consentendosi dalle consuetudini gotiche il comando a donna, Amalasunta lo fece attribuire a Teodato suo cugino, in cui l'istruzione non aveva scemata l'avarizia e la pusillanimità. Possessore di gran parte della Toscana, cercava assicurarsela col cacciare i proprietarj confinanti; poi assunto al trono, riuscì spregevole a Romani e a Goti, inetto a finire le discordie di questi, o a cattivarsi l'amore di quelli. Amalasunta, non trovando in lui nè gratitudine nè rispetto, pensava con quarantamila libbre d'oro cercare a Costantinopoli riposo o vendetta: ma Teodato la prevenne, e chiusala nell'isola di Bolsena, la mandò a morte. Imperava allora a Costantinopoli Giustiniano il legislatore, che mostrò rare virtù, macchiate da vizj e debolezze: favorì grandemente la religione, il degenerante sapere e le arti belle; represse le correrie de' Barbari; guerreggiò prosperamente Cosroe il Grande, re di Persia; annichilando il regno de' Vandali richiamò all'impero l'Africa e la Sardegna. Spiava egli l'occasione di recuperare l'Italia, sollecitato dai nostri che aborrivano dal dominio di stranieri e d'eretici; e volentieri assumendo l'aspetto di vendicatore d'Amalasunta, destinò contro i Goti Belisario, ch'era stato l'eroe della guerra persiana. Più che a' Pompej o agli Scipioni, patriotici generali, somigliava costui ai condottieri del nostro medioevo, poichè del proprio stipendiava differenti corpi, che giuravano obbedire a lui, e che in lungo esercizio egli indurava ai combattimenti. Con tal espediente venivano ad opporsi Barbari a Barbari, e difendeasi l'Impero coi fratelli di coloro che lo minacciavano. Celebrato appena il suo trionfo sui Vandali, Belisario sbarcò in Sicilia con ducento Unni, trecento Mauri, quattromila confederati di cavalleria, tremila Isauri di fanteria, oltre un corpo di sue guardie a cavallo. Sarebbe stato un inetto sforzo contro ducentomila Ostrogoti in armi, se questi, com'è destino dei padroni odiati, non avessero dovuto vigilare il paese scontento: e Teodato in fatti pensava meno a difendersi che a patteggiare; e con Pietro, legato di Costantinopoli, stipulò, rassegnerebbe ogni diritto sopra la Sicilia, manderebbe ogni anno una corona di trecento libbre d'oro all'imperatore, darebbe tremila Goti a suo servigio qualvolta richiesto, non colpirebbe di morte o confisca alcun senatore o sacerdote senza assenso dell'imperatore, al quale pure ricorrerebbe per promuovere altri a patrizio o senatore; agli spettacoli si acclamerebbe prima il nome dell'imperatore, nè a Teodato si erigerebbero statue se non alla sinistra della imperiale. Con tali proposizioni lo rimandò, e perchè avessero maggior peso, costrinse papa Agapito a seguirlo a Costantinopoli intercessore, minacciando far morire lui, i senatori e le loro famiglie se non impetrassero la pace; codardo coi forti, minaccioso coi deboli. Poi li richiamò, ora disposto a ceder tutto, or persuaso che l'umiliazione a nulla approderebbe: e poichè Pietro l'assicurava che con ciò torrebbe a Giustiniano ogni ragione di guerreggiarlo, — Tu sei filosofo (gli rispondeva); studii in Platone, e ti recheresti a coscienza d'ammazzar uomini in guerra, benchè tanti n'abbia il mondo: ma Giustiniano, che vuol farla da magnanimo imperatore, nulla ha che lo rattenga dal ripigliare coll'armi le antiche ragioni dell'impero». E conchiudeva: — Se non posso conservare il regno senza guerra, vi rinunzio. A che sagrificherei la dolce quiete per la pericolosa e difficile gloria del regnare? m'abbia io poderi da trarne milleducento libbre d'oro, e tengasi egli i Goti e l'Italia». Ma allorchè Mundo, che conduceva un esercito greco per la Dalmazia, fu sconfitto e ucciso dai Goti, Teodato rimbaldito più non volle udire di patti e promesse. L'imperatore in conseguenza rianima la guerra, riprende Salona e la Dalmazia: Belisario, guadagnato Eurimondo, genero del re che difendeva a Reggio lo sbarco in Italia, e accolto nelle Calabrie come liberatore, assediò per mare e per terra Napoli. Questa, difesa dai proprj cittadini, timorosi sovrattutto di avervi guarnigione barbara, così vigorosamente si sostenne, che Belisario già pensava lasciarla, quando alcuno gli mostrò un acquedotto. Pel quale penetrato nottetempo[42], vide la città mandata a barbaro scempio, per quanto gridasse a' suoi: — L'oro e l'argento a voi; ma risparmiate gli abitanti, cristiani e supplichevoli». I Goti, vedendo il re inetto ad ogni atto e consiglio vigoroso, lo dichiararono scaduto, e fuggiasco l'uccisero; ed elevarono sullo scudo il prode generale Vitige (536), il quale, per annestarsi in alcun modo alla stirpe degli Amali, sposò Matalasunta, sorella d'Atalarico. Mentr'egli s'accinge a ravvivare il coraggio e rinnovar le prodezze gotiche, Roma riceve Belisario, esulta nel vedersi dopo sessant'anni sgombra da Barbari e da Ariani, resta edificata dalla devozione che Belisario mostra alle reliquie sante e alle gloriose memorie, e proclama la liberazione, parola che in Italia troppo spesso equivalse a mutazione di servaggio. Vitige, ritentate invano nuove proposizioni di pace, e chetati i Franchi col ceder loro quanto possedeva di là dall'Alpi, riuscì a trarre insieme cencinquantamila Goti[43], coi quali assediò il greco generale in Roma, tagliando gli acquedotti, impedendo i mulini, adoprando le migliori macchine. Belisario aveva appena cinquemila combattenti; ma l'indomita sua operosità e lo zelo dei cittadini vi suppliva, dopo avere sul Tevere imbarcato per la Sicilia le bocche inutili. Dall'alto del mausoleo d'Adriano, convertito in fortezza, sono rovesciati sugli assalitori i preziosi fregi, le cornici ammirate, le statue di Lisippo e di Prassitele: perisca l'arte, ma la patria si salvi. Prodi e generosi entrambi i due campioni; ma l'uno scarso di denaro e di forze, sostenuto solo di sterili voti dagl'italiani; l'altro, contrariato da questi, vede consumarsi l'esercito e il regno senza cascar di cuore. Belisario, temendo non la fame inducesse i Romani a capitolare con Vitige, e sospettando ve li spingesse papa Silverio, il relegò in Oriente, dandogli successore Vigilio, il quale con ducento libbre d'oro s'era acquistato il favore d'Antonina, che comandava al marito Belisario, comandata essa pure da Teodora, moglie e padrona di Giustiniano. Qualche rinforzo giunto di Grecia ravviva il coraggio dei veterani, che per fare una diversione assaltano le città del Piceno, ed occupano anche Rimini, per tradimento di Matalasunta moglie di Vitige, il quale fu costretto allargar Roma, dopo perduti assaissimi de' suoi per la mal'aria e per gl'incessanti combattimenti. Nè però fiaccato, assedia Rimini, spedisce a sollecitare i Persiani perchè assaliscano ad oriente l'Impero, e i Franchi perchè si calino dalle Alpi. In effetto diecimila Borgognoni unitisi alle truppe d'Uraja (538), nipote di Vitige, drizzarono sopra Milano. Quest'era la prima città dell'Occidente dopo Roma per estensione, popolo e abbondanza; e tollerando di mala voglia i Goti, il vescovo Dazio con molti nobili (ἄνδρες δόκιμοι) era ito a Roma dicendo: — Forniteci di qualche truppa e sbratteremo la Liguria». Belisario mandò in fatti Mondila con mille fanti, che bastarono perchè, levato popolo, i Goti fossero respinti in Pavia, mentre anche Bergamo, Como, Novara e altri luoghi acclamavano Giustiniano. Ma ecco ai rivoltosi sopraggiungere Uraja, e stretta Milano di tal fame che qualche madre mangiò i proprj nati, l'ebbe a discrezione, e fattone scempio, la lasciò un mucchio di pietre. Dazio riuscì a campare a Costantinopoli; i capitani greci furono menati prigioni a Ravenna; e tutta la Liguria tornò al dominio gotico, o piuttosto alle bande ladre. Dalla vittoria e dal saccheggio invogliati, l'anno dopo scesero per l'alpi della Savoja centomila Franchi pedoni, che passato il Po senza contrasto de' Goti, presero le mogli e i figli di questi, e ne fecero sagrifizio alle loro divinità; poi raggiunto il campo gotico a Tortona, ne cominciarono tal macello, che appena poterono camparsi traversando il campo de' Romani. I Romani se ne rallegravano, ma ecco i Franchi gettarsi anche su loro, e devastar la Liguria, rovinare Genova, con grave apprensione di Belisario non occupassero tutta Italia. Essendo però venuti più ch'altro per saccheggiare, pattuirono e se n'andarono. Vitige, ridotto in Ravenna, mandò a trattare con Giustiniano, che, assalito da Cosroe verso oriente e qui dai Franchi, gli consentì di conservare parte del dominio pagando tributo: ma Belisario, sapendo che Ravenna era agli estremi, dispettoso di vedersi strappare la sicura vittoria, protestò voler menare Vitige prigioniero a Costantinopoli. Allora i capi goti sollecitarono Belisario a vendicarsi dell'imperatore pigliandosi la gotica corona; e poichè egli mostrò accettarla, gli apersero le porte. «Quando io vidi (dice Procopio) entrar l'esercito in Ravenna, conobbi e certo fui che nè per virtù nè per forza o quantità di uomini si compiono le imprese, ma la man di Dio dispone secondo a lui piace, senza che ostacolo tenga contro la sua volontà. I Goti sorpassavano i Romani in numero e prodezza; nessuna battaglia fu data dopo schiuse le porte della città; nè i Goti aveano sott'occhio cosa che gli atterrisse: eppure piegarono il collo al giogo imposto da un pugno di persone, non temendone infamia. Le donne, che avevano udito meraviglie della forza de' Romani, quand'ebber visto il vero, andavano a sputacchiare i loro mariti, rinfacciando la viltà ad essi, che le tenevano chiuse nella casa e soggette a sì spregevoli nemici». Tutti i Goti si sottoposero a Belisario, il quale non accettò la rinnovatagli offerta della corona, o fosse lealtà, o sentisse impossibile il mantenerla fra una nazione divenuta sì presto decrepita, senza vigore, senza unità. Questo gran generale, che diffonde un lampo di luce sulla languida agonia dell'impero greco, adorato dall'esercito, non esecrato dai nemici, casto nel costume, cavallerescamente disinteressato, favorito nelle imprese dalla virtù e dalla fortuna, fu continuo zimbello alle brighe cortigianesche. Teodora, che, dal postribolo elevata al talamo di Giustiniano, menava il marito a sua voglia, e alzava o deprimeva altrui secondo il capriccio o l'avarizia, per somiglianza di lubricità favoriva Antonina, moglie di Belisario, e a costei senno ne secondava o impediva le imprese. Ed egli o non ne vedeva le turpitudini, o dovea dissimulare, costretto persino a chiederle scusa qualvolta fu ardito di rimproverarla. Bersagliato da lei e dagli invidiosi, Belisario era messo da banda non appena cessasse d'essere necessario; eppure al rinascer de' pericoli egli tornava a mettere il suo valore a servigio degl'ingrati. Anche nell'impresa d'Italia gli s'erano stentati i sussidj: poi fu spedito qui l'eunuco Narsete, con autorità bastante per impacciare le imprese di lui o dividerne il merito: infine gli fu ordinato di abbandonar l'Italia, superflua essendovi omai l'opera sua. Belisario, con settemila prodi al suo stipendio, nerbo di quella guerra, avrebbe potuto dire un no e sostenerlo; ma incapace di disobbedire, anzi pur d'indignarsi al suo signore, tornò prontamente a Costantinopoli colle spoglie, testimonj del suo valore, e conducendo prigioniero Vitige, che vi fu tenuto in cortese prigionia e intitolato patrizio; e il fior de' giovani goti, che fu messo a servizio dell'imperatore. Belisario avea lasciato l'esercito e il governo a undici generali, i quali operando discordi, non erano riusciti a ridurre al nulla i nemici, le cui reliquie eransi ritirate dietro al Po, concentrandosi sopra Pavia alla guida di Uraja (540), per cui consiglio nominarono re il prode Ildebaldo. A questo i soprusi de' Greci crebbero fautori, e avute tutte le città alla sinistra del Po, colle vittorie le saldò in devozione. Ma sua moglie, indispettita dal maggiore sfarzo della moglie di Uraja, indusse il marito a toglier dal mondo questo valoroso. Ne provarono immenso disgusto i Goti; e il gepido Vila, guardia del re, offeso perchè questi avesse maritata ad altri la sua fidanzata, in un convito gli tagliò di netto la testa. I Rugi, che coi Goti erano scesi in Italia, ma non s'univano a quelli nè d'armi nè di nozze, vollero eleggere Erarico; ma poco appresso i Goti l'uccisero (541), e nominarono Totila Baduilla, nipote d'Ildebaldo, e governatore di Treviso. Accinto agli ultimi sforzi, egli respinse i Greci da Verona; presso Faenza riportò segnalata vittoria, poi nel Mugello; e avute Cesena, Urbino, Montefeltro, Pietrapertusa e tutta la Toscana, senza toccar Roma si spinse fino a bloccar Napoli. La ebbe a patti e trattò coi riguardi di tempi civili, facendo dispensare il cibo con misura, affinchè la voracità non pregiudicasse agli estenuati; poi ne diroccò le mura. Avendo un Goto della sua guardia violata una fanciulla calabrese, per quanto i commilitoni allegassero la costui valentìa, Totila il volle esemplarmente punito, e i beni di esso donò all'oltraggiata. Ai Romani che vi trovò, lasciò arbitrio di andarsene, scortati da Goti, fino a Roma, e forniti di viveri e di somieri. Assoggettata l'Italia meridionale, ripiegò sopra Roma, ed accampò sui deliziosi colli di Tivoli. Fermo ed umano, destro nella ragion di Stato non meno che nell'arte dei campi e degli assedj, temperante nella sua condotta, spargeva proclami fra gli Italiani, mostrando quanto avessero sofferto nei tre anni del dominio greco: — Un imperatore cattolico ha rapito il vostro papa, e lasciatolo morire in isola deserta; undici tiranni fanno a chi peggio disonesti e smunga le città; lo scriba Alessandro, ministro del fisco, è detto psalliction, cioè forbici, per l'abilità sua nel tosare le monete. Io invece perdono e quiete; voi proseguirete i fruttiferi lavori, io vi difenderò coll'armi». Traeva alle sue bandiere prigionieri, disertori e schiavi fuggiaschi; restituì senza riscatto le mogli dei senatori côlte in Campania; manteneva in disciplina l'esercito; e una dietro l'altra recuperava le città, tosto smantellandole per evitare gli assedj futuri. A Belisario, che nella domestica e cittadina servitù scontava la gloria acquistata sul Tevere e sull'Eufrate, dovette allora ricorrere la Corte bisantina, qui destinandolo, a patto che armasse a proprie spese: tant'erasi arricchito! Obbedì, e soldando quanti scapestrati trovava, raccolse una flotta a Pola e la menò nel porto di Ravenna, spargendo anch'egli manifesti e promesse; ma scriveva a Giustiniano: — Senza uomini nè cavalli nè armi nè denaro, è egli possibile condur la guerra? Scorsi la Tracia e l'Illiria per far leva, e ben pochi potei raccozzare, nudi d'armi, di coraggio, di sperienza. Quelli che trovai qui non sanno che lamentarsi, e tremano d'un nemico che spesso li sconfisse, e per evitare gli scontri abbandonano armi e cavallo. Dall'Italia non posso cavar denaro, dominandola i Goti; sui guerrieri perdo autorità, perchè non posso pagarne i soldi. Se basta che Belisario venga in Italia, ecco ci sono; ma se volete vincere, altro ci vuole. Mandatemi i miei soldati, e molti Unni e altri Barbari, e soprattutto denaro». Mal esaudito, non potè impedire che Totila bloccasse l'antica capitale dell'impero, dove tagliò gli acquedotti. Il valoroso ed avaro Bessa che la difendea, speculava sulla fame, spinta a tale, che un padre, raccoltisi attorno i cinque figli chiedenti pane, s'avviò al Tevere, e con essi gettossi al fiume in taciturna ed imitata disperazione. Papa Vigilio, dalla Sicilia dov'erasi ricoverato, mandò molte navi cariche di grani, ma furono catturate dai Goti coi Romani che le montavano. Il diacono Pelagio venne a impetrar almeno tregua di pochi giorni; ma Totila gli significò, di tre cose non gli parlasse: di conservar le mura di Roma, colpa delle quali non potea combattere i nemici all'aperta; di perdonare ai Siciliani; di restituire gli schiavi romani arrolatisi tra le sue file. Belisario, tenuto inerte dalla insufficienza di forze, appena n'ebbe unite alquante, sbarcò al Porto Romano (546), e accampò sul Pincio, ma per veder presa Roma, cui soltanto le suppliche dei sacerdoti e la clemenza di Totila, che per la prima cosa andò a prostrarsi sulla tomba degli Apostoli, salvarono dal macello e dal disonore. A Bessa fu lasciato campo di fuggire. Rusticiana, figlia di Simmaco e vedova di Boezio, che aveva speso ogni aver suo per alleviare i mali di quell'assedio, come esortatrice di abbattere le statue di Teodorico sarebbe stata menata a strapazzo, se Totila non avesse saputo rispettarne la virtù, e compatirne la vendetta. Ai suoi egli ricordava come da ducentomila fossero ridotti a picciol numero, e a poche miglia stesse il nemico; nella presa di quella città vedessero il castigo di Dio, e si guardassero dal provocarlo sopra di sè: ai senatori convocati rinfacciò l'ingratitudine verso Teodorico, ma si lasciò placare, e concesse anche a loro perdono. Ma dovendo accorrere nella Lucania contro i Greci, espulse i cittadini da Roma, e i senatori menò ostaggi. Appena ne uscì, Belisario con un pugno di gente ricuperò Roma, munì alla meglio con forza e palificate il vasto recinto, in cui appena cinquecento abitanti vagavano; onde, allorchè fra venticinque giorni Totila fu di ritorno, tre volte il respinse sanguinosamente, e l'avrebbe disfatto se intrighi di palazzo e dispute teologiche e circensi non avessero mutato la politica di Costantinopoli. — Se l'imperatore intende davvero salvarci, perchè non manda esercito sufficiente?» diceano gli Italiani, vedendo or trecento, or ottanta uomini capitare di Grecia: nè Belisario comandò mai meglio di ottomila uomini, ragunaticci e obbedienti a uffiziali emuli e indipendenti; sicchè per cinque anni avea sparpagliato il sapiente suo valore in lenta guerra e irresoluta. Poi per procacciarsi denari doveva angariare i popoli, fin al punto di moverli a ribellione; e poichè s'ebbe veduto per non sua colpa sfrondare l'alloro, stanco di udire le sfide baldanzose del nemico nè poterle ributtare, chiese ed ottenne lo scambio. Gli applausi con cui la plebe l'accolse nel tornare a Costantinopoli furongli imputati a colpa; e pigliando di quei pretesti che mai non mancano, fu spogliato dell'autorità, degli onori, delle ricchezze; alcuno disse perfino accecato, e che in miserabile vecchiaja andasse mendicando un obolo dai popoli che aveva colla sua spada o salvati o vinti. Totila riprese le perdute città e Roma stessa, vi richiamò i senatori, raccolse viveri, e celebrò i giuochi, diletto del popolo anche fra tante sciagure. Stese il dominio fin al Danubio, saldandovi le fortezze erette contro Gepidi e Longobardi; spogliò la Sicilia dei metalli preziosi, dei grani, degli armenti; sottomise Corsica e Sardegna (548); con trecento galee insultò le coste di Grecia, sbarcò a Corcira, giunse fino all'ammutolita Dodona. Fra le vittorie continuava a proporre pace a Giustiniano: ma questi, non che accettarla, affidò nuova impresa all'eunuco Narsete. Educato al fuso e ai ginecei, costui in corpo affralito avea serbata anima vigorosa: imparò nel palazzo l'arte d'infingersi e di persuadere; onde allorquando accostossi all'orecchio di Giustiniano, il fece meravigliare coi virili suoi concetti, e ne fu adoprato in ambascierie, poi in guerra, tanto da parer degno di emulare Belisario. Seppe ispirar terrore ai nemici, rispetto ai suoi, a segno che un prode suo capitano, circonvenuto dai Franchi, ricusò di fuggire, dicendo: — La morte è meno terribile che l'aspetto di Narsete corrucciato». Egli negò assumersi di liberar l'Italia se non con forze sufficienti a garantire la dignità dell'Impero. Fornito a denaro, nerbo d'ogni guerra, confermò gli antichi, reclutò nuovi soldati; ebbe soccorsi dai Longobardi, che allora vennero a fare il primo saggio dell'Italia, da Eruli, Unni, Slavi ed altri Barbari, coi quali passò le Alpi. Forse i Franchi aveano occupato Treviso, Padova, Vicenza, giacchè è detto che ad essi domandò il passaggio, e n'ebbe il no. Totila poi avea spedito Teja, valoroso capitano, a difendere Verona, talchè per di là era impossibile avanzarsi, nè facile varcar il Po quando s'impaludava su tanta parte del Ferrarese. Ma Narsete fece via lungo il litorale adriatico, con barche per far ponti; e così pervenne a Ravenna e a Rimini. Sentendo quanto breve potrebbe durare lo sforzo dell'Impero e l'unione degli ausiliarj, affrettossi a una battaglia che si combattè a Tagina (Lentagio) presso Nocera. Totila apparve sul campo, vestito delle splendide armi che allettano gli animi rozzi e fieri; e sventolando la purpurea sua bandiera, galoppato tra le file, palleggiò un lancione, l'afferrò colla destra, lo passò nella manca, rovesciossi tutto indietro, poi si ricompose sulla sella, caracollando in varii modi s'uno sbuffante puledro; messosi poi da semplice soldato, combattè come eroe, ma ferito a morte, non potè impedire che i suoi andassero in piena rotta (552). Giustiniano esultò ricevendo il gemmato cappello e l'abito cruento del prode re dei Goti; e Narsete, licenziati i Longobardi, ausiliarj più pericolosi che i nemici, passò in Toscana e occupò Roma, che presa per la quinta volta in quella guerra[44], e sommersa da nembi e tremuoti, giunse all'ultimo della calamità. I Romani fuorusciti esultarono della liberata patria, i senatori v'accorsero dalla Campania: ma che? le guarnigioni gotiche li colsero in via e li trucidarono; ne trucidarono i Barbari che militavano con Narsete; trecento nobili giovani, che Totila avea scelti dalle città in aspetto d'onore, ma in realtà come ostaggi, furono scannati. Lo sterminio dei senatori cancellò quasi del tutto quell'assemblea, che ai re stranieri era parsa un concilio di numi. I Goti, non ancora disperando, diedero la corona a Teja, che profuse per comprare l'alleanza dei Franchi, i quali però voleano versar il sangue solo per la gloria propria, cioè per i proprj furti: e sceso lungo l'Italia disperatamente trucidando quanti Romani incontrava, si sostenne due mesi presso Cuma. Perduta una battaglia, i suoi Goti offersero a Narsete, giacchè Dio s'era dichiarato per lui, li lasciasse andare dall'Italia; deporrebbero le armi, solo portandosi il denaro che ciascuno avea riposto ne' presidj. Il patto fu aggradito, ma poi i Goti tornarono sull'armi; e Teja, abbandonato dalla flotta, alle falde del Vesuvio avventavasi sopra i nemici coi più prodi, deliberati a vender cara la vita; combattè tutto il giorno, e quando il suo scudo era coperto di lancie confittevi, lo cambiava. In quest'atto scopertosi, restò trafitto (553), e con esso perì il regno degli Ostrogoti. Più d'un anno si sostennero le reliquie loro, e in Lucca principalmente. Narsete fece condurre presso le mura gli ostaggi datigli, e negando i cittadini d'arrendersi, ordinò ai carnefici di colpirli. Ma nè questa finzione nè il rilascio degli ostaggi li domò; e dovette ancora oppugnarli molti mesi con d'ogni sorta macchine. Anche Cuma, dove si teneva Aligerno, fratello di Teja, si rese, e così Rimini e Pavia. Alcuni Goti furono mandati in Oriente, altri rivalicarono le Alpi, o, mutata la spada in marra, si confusero coi vinti in Italia. I Goti aveano potuto dire a Belisario: — Nessuna mutazione inducemmo nel governo degli imperatori; ai Romani lasciammo le leggi, gl'impieghi civili, la religione»: ma i nostri aborrivano i fiacchi successori di Teodorico, che nè sapevano mantener pace, nè farsi formidabili in guerra, e colle dissensioni religiose, o col mescolarsi nell'elezione dei pontefici, s'erano resi odiosi. Ora questa contrada, che non si può mai chiamar bella senza aggiungervi infelice, guasta da barbari e da civili, da oppressori e da liberatori, subì una nuova servitù senza nemmanco il riposo: poichè, durante ancora la guerra, nuovo flagello la percosse. L'ingordo Leutari e l'ambizioso Bucellino fratelli, duchi dei Franchi, assunsero in propria testa una spedizione in Italia (553), e con settantacinque mila Alemanni, ancor più barbari dei Franchi, corsero fin al Sannio, devastando ogni cosa: quivi spartitisi, Bucellino andò a guastare la Campania, la Lucania e il Bruzio; Leutari la Puglia e la Calabria, fin dove il mare gli arrestò. Più che la guerra, le malattie cagionate da intemperanza li logorarono, sicchè da se medesimi si strappavano a morsi le carni: e la primavera che venne, Narsete potè sconfiggere e uccidere Bucellino con tutti i suoi presso Casilino, mentre quei di Leutari perivano sul Benaco, presi da pauroso furore, che fu attribuito all'oltraggio fatto alle cose sacre. Diciott'anni di lenta guerra, tra orde viventi di ruba, micidiali ad amici e nemici, aveano sfinito l'Italia. Nella quarta campagna, cinquantamila campagnuoli perirono di fame nel Piceno; assai peggio nelle provincie meridionali, ove beato chi trovasse ghiande; qualche madre mangiò i proprj parti. Procopio vide una capra porger le poppe ad un bambolo derelitto; due donne, narra egli stesso, intorno a Rimini alloggiavano viandanti per mangiarli, e fin diciassette ne uccisero così: esagerazione che lascia argomentare del vero. Fiera peste ne conseguì, e in tanto spopolamento mancava sino il ristoro di Barbari qui accasatisi: e ai gemiti dei popolani facevano insulto gli stravizj de' soldati, alla cui insania, dice Agatia, non restava che di barattare scudi e cimieri con vino e cetre. A queste scuole imparava l'Italia cosa sieno le liberazioni degli stranieri, ed avvezzavasi ad obbedire a questi o a quelli, in arbitrio della forza. La patria nostra formò uno dei diciotto esarcati, tra cui, dopo Giustiniano, fu ripartito l'impero romano; Roma divenne secondaria a Ravenna, di dove Narsete resse quindici anni dall'Alpi alla Calabria, cercando porvi qualche ordine, ripopolare le città, fra cui Napoli, dove papa Silverio accolse i fuorusciti delle arse circostanze. Ad istanza di Vigilio, _venerabile vescovo dell'antica Roma_, Giustiniano diede una prammatica sanzione per gli Occidentali in ventisette articoli, ove confermava gli atti di Teodorico e del nipote, cancellando quanto la forza ed il timore avessero estorto durante l'usurpazione di Totila; nelle scuole e ne' tribunali introdusse la sua giurisprudenza; assegnò stipendj a legisti, medici, oratori, grammatici, reliquie dell'accademia romana; al papa e al senato (parola destituita di senso) lasciò la ispezione sui pesi e le misure. La giurisdizione civile tornò a distinguere dalla militare, contro l'usanza dei Barbari, e solo competente era il giudice civile, salvo se i contendenti fossero persone di guerra. Conti nelle varie città, superiori ai soldati non solo, ma a tutto il municipio, giudicavano in prima istanza delle cause, le quali per appello recavansi a Costantinopoli[45]. Un maestro dei soldati sostenea le veci del duca, e ad esso obbedivano i tribuni o patroni, che erano presidenti alle scuole delle arti, e giudici delle liti agitate fra i membri di queste. Le scuole insieme formavano l'esercito: chi non v'apparteneva, era _popolo_. Ai duumviri o quatuorviri furono surrogati i _dativi_, presidi ai giudizj civili; i consoli ai decurioni. Adunque si assodò il governo dei municipj, che non tardarono a farsi indipendenti per opera dei duchi e maestri de' soldati; e le dignità si rendevano ereditarie, perchè attribuite generalmente in ragione della ricchezza. Ma l'amministrazione peggiorava, atteso che i prefetti delle provincie, invece di essere deputati dal senato, come sotto i Goti, venivano da Costantinopoli, e avendo comprato la carica, volevano rifarsene; tanto che un governatore della Sardegna, rimproverato perchè avesse permesso di sacrificare agl'idoli, rispose: — Sì caro mi costa l'impiego, che neppure con questo spediente n'uscirò netto». E papa Gregorio esclama: — La nequizia dei Greci trascende la spada dei Barbari; tanto da sembrar più pietosi i nemici i quali uccidono, che non i giudici dello Stato, i quali opprimono con malvagità, frodi e rapine». Di peggio avvenne quando il debole e violento Giustino II, nipote e successore di Giustiniano, a Narsete surrogò Longino (568), ignorante delle armi e del paese. Dicono che all'avaro ma prode Narsete l'imperatrice Sofia inviasse pennecchi e fusa, dicendogli: — Torna a filare colle mie donzelle». Men generoso o men pusillanime di Belisario, egli rispose: — Filerò una tela, da cui difficilmente si distrigherà l'Impero»; ed invitò i Longobardi a scendere in una terra ove scorrono il latte e il miele, e a cui Dio non ha creato la somigliante. Le nuove rovine che costoro aggiunsero alle rovine d'Italia, non furono vedute da Narsete, morto due anni dopo il suo padrone. CAPITOLO LXI. I Longobardi. Imperante Tiberio, i Romani udirono prima il nome de' Longobardi, «popoli (dice Tacito) cui nobilita l'esser pochi, e che stando in mezzo ad altri potentissimi, non col rispetto si fanno sicuri, ma col cimento e le battaglie». Fossero il grosso della nazione, o piuttosto una banda, abitavano oltre l'Elba, dove poi fu la Marca media di Brandeburgo; combatterono sotto Maraboduo, poi sotto Arminio; Tolomeo li trovava già sul Reno; anche il Danubio varcarono, ma ne furono respinti. Tradizioni, non accettate dalla moderna critica, traevano tutte le genti nuove dalla Scandinavia; e di là pure i patrj racconti dicevano uscita la coraggiosa e guerresca gente de' Longobardi, dietro alla valckiria Gambara, e ai capitani Ibor e Ayone. Freja e il guerresco Odino erano le loro divinità; e come tutti gli adoratori di questo, riconoscevano una nobiltà d'origine celeste, chiamata degli Adelingi[46], nobiltà guerriera e insieme sacerdotale, per modo che le conversioni fra loro non erano personali, bensì un affare di Stato, bastando il re le decretasse. Agelmondo, primo lor condottiere, passando da uno stagno dov'erano stati dalla madre gettati sette bambini, natile a un parto da nozze infande, sporse la lancia; un di quelli la afferrò, ed egli il trasse in salvo, e lo nomò Lamisso, cioè figlio della lama, o della palude. Allevato con gran cura, costui si segnalò per valore, e massime vincendo una temuta amazone; e tanto fece che divenne re. Sotto i suoi successori (la cui serie, conservata gelosamente, più tardi fu collocata in testa al loro codice) i Longobardi tolsero l'antica Rugia agli Eruli, e si piantarono a mezzogiorno del Danubio, nella Pannonia, che pareva la stazione di quanti preparavansi ad invadere l'Italia. Colà si trovarono vicini i Gepidi, i quali, alla morte di Attila che gli avea sottomessi, occupato avevano le terre intorno al Danubio, abbandonate dai Goti quando venivano contro Belisario; e presto ebbero occasione di guerre. Waltari, ultimo degli Adelingi, fu spodestato da Audoino; ma Ildechi, che pretendeva alla dominazione dei Longobardi, cercò ajuto di Gepidi istigandoli a guerra contro i suoi. In quel tempo Turisindo aveva usurpata la corona de' Gepidi a Ustrigoto, il quale a vicenda avea chiesto ricovero e ajuto di Longobardi. Audoino e Turisindo conobbero esser follia il combattere fuori un'usurpazione che ciascuno aveva imitata in casa; uccisero ciascuno l'ospitato rivale dell'altro, e il reciproco delitto saldò la loro pace. Ma pace non poteva durare fra due popoli fieri, separati soltanto dal Tibisco; e delle incessanti guerre si conservò memoria nelle canzoni, o forse in un poema nazionale, donde, due secoli più tardi, Paolo Warnefrido, diacono del Friuli, trasse un racconto delle geste dei Longobardi. È romanzo piuttosto che storia, ma in difetto d'altri monumenti, vuolsi seguirlo come ritratto dell'indole di esso popolo. Secondo quello, da Audoino nacque Alboino, il quale, guerreggiando il gepido Turisindo, ne uccise il figlio Turismondo (566). I signori longobardi, ammirando il valore del giovane principe, chiedono al re se lo faccia sedere allato nel banchetto, della vittoria; ma Audoino, — Per istituto de' nostri maggiori, verun principe si pone a mensa col padre, se prima non abbia ricevuto le armi da re straniero». E Alboino con quaranta risoluti passa alla corte di Turisindo, e gli chiede l'adozione delle armi. Lo ospitò il Gepido, e gl'imbandì; ma mentre sedevano al desco riflettè mestamente: — Al posto di mio figlio sta colui che l'ha trucidato». Tale esclamazione fe prorompere l'astio dei Gepidi; e Cunimondo, altro figlio del re, caldo dal dispetto e dal vino, uscì in motti pungenti, e paragonò i Longobardi, per aspetto e per fetore, a giumente. — Ma queste giumente (rispose Alboino) come sappiano springare calci lo dice la pianura di Asfeld, ove giaciono l'ossa di tuo fratello come di bestia vile». Al ripicchio che ridestava un disperato dolore, si caccia mano alle scimitarre di qua e di là; ma Turisindo, riuscito a stento a proteggere i diritti dell'ospitalità, colle armi di Turismondo riveste Alboino, che reduce al padre e ammesso al convito, narra l'ardimento suo e la fede del re nemico. Cunimondo, sostituito al defunto padre dal voto di tutti, cioè dei guerrieri, pensò vendicare gli antichi oltraggi, e ruppe guerra ad Alboino, ch'era succeduto anch'esso al genitore. Questi invocò in ajuto un'orda di Avari, colla quale sconfisse il nemico, e colla morte di Cunimondo mise al nulla il regno dei Gepidi (566), i cui avanzi andarono o misti ai Longobardi o schiavi degli Avari. Alboino avea sposata Clotsuinda, figlia di Clotario, possente re dei Franchi: piissima donna, cui Nicezio, vescovo di Tréveri, esortava a convertire il marito dall'eresia ariana. «Fa stupore (scriveale) che, mentre le genti lo paventano, i rei lo venerano, le podestà senza fine lo lodano, l'imperatore stesso gli dà la preminenza, egli non si prenda cura dell'anima; che, mentre splende di reputazione, nulla si brighi del regno di Dio e della sua salute»[47]. Era dunque fra i Barbari in grande stima Alboino, il quale, inorgoglito dalle primiere, qualche nuova insigne impresa meditava. I Longobardi erano men tosto una nazione che un esercito, divelto già un pezzo dalle terre natìe, e accampato or qua or là, talvolta a servigio di stranieri, sempre sistemato alla militare. Al modo degli altri Germani, allorchè decretavasi un'impresa comune si univano al re i varj capi (_gasindi_) della nazione con volontarj seguaci, d'accordo fin al compimento, ma del resto indipendenti, e vogliosi d'assicurarsi ciascuno ricchezza e dominio. Quelli che da Giustiniano erano stati chiamati in Italia a combattere Totila, non rifinivano di celebrar questo cielo e questi luoghi, che tante sventure non avevano ancora abbastanza disabbelliti. Alboino rifrescò le rimembranze collo imbandire i frutti più squisiti e i migliori vini d'Italia. Quel Narsete, ch'erasi fatto rispettare col valore e amare coi donativi, più non difendeva le latine contrade, anzi oltraggiato gl'invitava a vendicarlo. Occorreva di più per determinare ad imprese una gente guerresca, che priva ancora di patria, ne troverebbe una sì bella, dopo facile vittoria sopra un popolo disarmato? Pertanto «correndo l'indizione prima, nell'anno di Cristo 568, il giorno dopo la pasqua, che in quell'anno cadeva al 1º d'aprile»[48], Alboino si mosse dalla Pannonia, lasciando questa agli Avari, col singolare patto di restituirgliela se fosse costretto a ritornare. Come fu udito che i Longobardi s'accingevano a passar le Alpi, dalla Germania e dalla Scizia accorsero compagni alla fatica ed alla preda Gepidi, Bulgari, Sármati, Pannoni, Svevi, Norici, e, principalmente graditi ad Alboino, ventimila combattenti Sassoni, con mogli e figliuoli. Con tanta mescolanza di razze, di culti, di costumi[49], e coi vizj e le doti d'un capo barbaro, Alboino si mosse; da un'altura ai confini d'Italia, che poi fu detta Monreale (Monte Maggiore?) additò a' seguaci la bellezza del paese che li menava a conquistare, e si avventò sopra la Venezia. Aquileja, posta al limitare d'Italia, smantellata da Attila, non poteva opporgli contrasto; e il patriarca Paolino, coi principali e col tesoro della Chiesa, ricoverarono nell'isola di Grado, crescendo così la Repubblica delle lagune adriatiche. Occupato Cividale, Alboino sentì la necessità di ben proteggere le alpi Giulie, e vi lasciò il proprio nipote e gran cavallerizzo (_marpahis_) Gisulfo, col titolo di duca del Friuli. Il quale accettò, purchè gli si lasciassero quelle famiglie (_fare_) che egli sceglierebbe; e così vi collocò le migliori prosapie longobarde, e buone razze di cavalli e di bufali, allora prima veduti in Italia. Alboino continuando la marciata, alla Piave incontrato Felice vescovo di Treviso, che raccomandavagli il popolo e i beni della sua chiesa, gli fece spedire un diploma che questi assicurava. Politica opportuna, mercè della quale il patriarca d'Aquileja rientrò anch'egli bentosto nella sua sede. I quindici anni della dominazione greca aveano, colla fiscale pressura, incancrenito le piaghe della patria nostra, a cui peste e carestia tolsero perfino i riposi della servitù. Longino patrizio era venuto qui senza truppe: forse le scarse che restavano furono concentrate nelle fortezze e attorno a Ravenna, invece di moltiplicarle portandole rapidamente ove bisogno: di nuove non poteva mandarne Giustino, in guerra coi Persi e minacciato d'una diversione degli Avari, alleati de' Longobardi. Alboino dunque occupò Vicenza e Verona senza resistenza; con piccola, Padova, Monselice, Mantova, poi Trento, Brescia e Bergamo; ai 3 di settembre veniva gridato re in Milano, donde erano fuggiti i primati col vescovo Onorato[50]. La Liguria, di cui Milano era capo, abbracciava allora Pavia, Novara, Vercelli, il Monferrato, il Piemonte, la riviera di Genova; ma quest'ultima e Albenga e Savona, giovate dalla posizione marittima, resistettero all'invasore. Anche Pavia tenne saldo tre anni e mesi; dalla quale opposizione indispettito, Alboino giurò mandarla a sterminio; ma quando la fame gliel'ebbe schiusa, nell'entrare il suo cavallo cascò, nè voleva più rialzarsi. La pietà interpretò al Barbaro questo caso come un'ammonizione del Cielo contro il voto sanguinario fatto a danno d'un _popolo veramente cristiano_; onde Alboino lasciossi placare; ed essendosi allora il cavallo rialzato, egli entrò, e nel palazzo di Teodorico posò la sede del nuovo regno longobardo. Durante l'assedio egli aveva passato il Po, sottomettendo la riva destra fin dove vi confluisce il Tánaro; poi spingendosi per la Toscana e nell'Ombria, collocò un duca a Spoleto; fe correrie sino a Roma, senza però occuparla; fors'anche arrivò più a mezzodì, e fondò il ducato di Benevento[51], che dovea sopravivere al regno longobardo. Non si vede che Longino gli stesse mai a fronte; talchè, se più abile nel capitanare o più forte nel dominare, Alboino poteva di presente sottoporre l'intera Italia: ma si distrasse in inutili imprese; e mentre a domare tante città sariensi volute tutte le forze della nazione, i capitani, uniti soltanto da quel legame che congiungeva i gasindi col signore, prendevano quartiere sulle terre man mano conquistate, altri portavano altrove le minaccie. Dell'ucciso Cunimondo aveva Alboino costretto la figlia Rosmunda a sposarlo, e col cranio di lui formato una tazza, per accoppiare ai piaceri della mensa la fiera voluttà della vittoria; — e (dice Paolo Diacono) io stesso, Cristo m'è testimonio, vidi il principe Rachi in giorno festivo tener in mano quel bicchiere, e mostrarlo a' convitati». Or mentre in Verona solennizzava le ben succedute imprese, al levar delle tavole chiese quella tazza, e poichè tutti n'ebbero bevuto in giro, coronatala d'altro vino, disse: — Recatela a Rosmunda acciocchè beva con suo padre». La celia brutale punse al vivo la donna, che preparò vendetta. Si fe cedere segretamente il letto da una concubina del valorosissimo Perideo; e come fu stata seco, gli si palesò, mostrando non restargli altro scampo che trucidare il re. E il re fu scannato (573). Rosmunda sperava, coll'ajuto de' suoi Gepidi, mettere in trono l'amante Elmigiso, vile complice del doppio delitto: ma i Longobardi, che assai compiansero Alboino, contrariarono la indegna, la quale con la figlia Alesuinda, i due drudi, pochi fedeli e molti tesori, salvossi a Ravenna. L'esarca Longino, che lusingavasi colle discordie fiaccar coloro che non ardiva coll'armi, venuto terzo agli amori della svergognata, la persuase a toglier di mezzo Elmigiso. A questo ella mescè un veleno mentre stava nel bagno; ma egli insospettito la obbligò a bere il residuo del nappo funesto; ed entrambi morirono delle conseguenze della loro perversità. Alesuinda fu mandata coi tesori a Costantinopoli (574), ove Perideo fece gran mostra di vigore uccidendo uno smisurato leone, e dove, paragonato per robustezza a Sansone, fu come questo accecato, e come questo tentò una vendetta. Finse aver segreti importanti da rivelare all'imperatore, ed essendo venuti de' patrizj ad ascoltarlo, credendoli lui, gli uccise. Frattanto i capi longobardi in Pavia posero la regia lancia in mano di Clefi, che continuando le vittorie e lo sterminio dei _potenti Romani_, spinse le conquiste fino alle porte di Ravenna e di Roma; mentre i duchi che s'erano stanziati al confine delle Alpi s'avventavano sulle terre dei Franchi; ma al re dei Borgognoni dovettero cedere Aosta e Susa, le quali d'allora in poi spettarono al regno di Borgogna. Altri Franchi dominavano i paesi che or sono Grigioni e Tirolo, e da Anagni in val di Non snidolli il duca di Trento. I Longobardi non erano dunque diretti nella conquista da una volontà preponderante: e poichè, dopo penetrati in Italia, cessava lo scopo unanime, ciascun capo pigliava per sè una provincia, che non era già una divisione amministrativa, ma veramente una signoria distinta, munita, estesa, governata alla germanica, ma con modi particolari. Quando Clefi, dopo diciotto mesi, fu assassinato (575), poteasi dire consumata l'impresa, per la quale i gasindi eransi sottoposti a un capo; laonde trovarono superfluo l'eleggere un altro re, e ciascuno dei trenta duchi provvide a trar profitto dal paese occupato, anzi che a sottomettere tutta Italia. Le sei nazioni di Sarmati, Bulgari, Gepidi, Svevi, Pannoni, Norici, venute commilitoni ad Alboino, furono assise in cantoni distinti, dove conservarono la libertà, il dialetto e il nome. I Sassoni non vollero sottoporsi alle leggi longobarde, onde ripartirono, devastando la Provenza. Inesperti del mare, i Longobardi non poterono soggiogar le coste, soccorse di fuori; onde il lembo dalla foce del Po a quella dell'Arno restò da essi indipendente, e così Genova per alcun tempo, e per sempre la Sicilia e le isole. Anche alcune terre montuose e fra' laghi furono immuni dalla loro conquista, come Susa, qualche pianoro delle alpi Cozie, l'isola Comacina: e così pure Cremona, Mantova, Padova. Il regno longobardo distribuivasi in Austria od orientale, composta del Friuli e del Trentino; Neustria od occidentale, composta de' ducati d'Ivrea, Torino e Liguria; stava di mezzo la Tuscia, in parte regia, in parte composta dei ducati di Lucca, Toscana, Castro, Ronciglione e Perugia. Nell'Emilia non tenevano i Longobardi che Reggio, Piacenza e Parma; nell'Italia meridionale la piccola Longobardia, cioè i ducati di Spoleto e Benevento, e il principato di Salerno. In questi paesi la nazione guerresca era militarmente ordinata in squadre o fare. Le terre che restavano soggette all'esarca ed ai duchi greci, perchè ricovero de' Romani, presero nome di Romagna, ed erano, oltre Ravenna, le città di Bologna, Imola, Faenza, Ferrara, Adria, Comacchio, Forlì, Cesena, e la pentapoli marina di Ancona, Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia. A Roma, Gaeta, Taranto, Siracusa, Cagliari ed altrove l'esarca collocava dei duchi o maestri della milizia. Napoli ben presto si tolse alla soggezione, nominando da sè i proprj duchi. Venezia cresceva dei fuggiaschi latini, e col professarsi in parole suddita agli imperatori di Bisanzio, cercava l'indipendenza di fatto. Limitavasi dunque la dominazione greca quasi al solo esarcato e a Roma non ancora sacerdotale: ma quivi su ristretto spazio erasi affollata la gente, che le persone e le ricchezze sottraeva alla dominazione de' Barbari, e alla persecuzione temuta da essi come ariani. Chi manca di forza a sollevarsi da sè confida smisuratamente in altrui; e i nostri non finivano di esortar l'imperatore Tiberio II a liberarli; il senato romano gli mandò trentamila libbre d'oro, e la plebe gli gridava: — Se non vali a francarci dai Longobardi, almen ci campa dalla fame». E grano spedì in fatti il buon imperatore, ma non armi; sicchè il senato non trovò spediente migliore che guadagnare a denaro qualche capo nemico. Tale fu lo svevo Droctulfo, già prigioniero di guerra dei Longobardi, poi da essi fatto duca[52], e che messosi al soldo dell'esarca di Ravenna, e preso Brescello, di là bezzicava i Longobardi. Con cinquantamila monete d'oro poi il senato indusse Childeperto, re dei Franchi, a scendere in Italia molestando i Longobardi. Mosse egli di fatto con potente esercito: laonde venendo rimesso in quistione il dominio, i duchi, dopo nove anni di vacanza, convennero d'eleggere un re (584). Fu Autàri, figlio di Clefi; e poichè il tesoro d'Alboino era stato da Rosmunda portato a Ravenna, e i beni regj eransi spartiti fra i duchi, questi s'accontarono di dare al re metà delle proprie sostanze. Autari con lauti doni rimandò Childeperto di là dall'Alpi, donde per doni si era mosso; ma l'imperatore pretendea che il Franco continuasse la guerra promessa; se no, restituisse l'anticipatogli sussidio; onde Childeperto per soddisfare la promessa tornò, ma non fece che aggiungere sconfitte al disonore. Per lavare l'onta, egli, con venti capitani formidabili, calasi una terza volta (590), e quantunque sconfitto presso Bellinzona, avanzasi e prende Milano e Verona. Autari, non volendo commettere la sorte del regno ad una battaglia, e d'altra parte importandogli il dominio, non gli abitanti, chiude le forze e i tesori longobardi nelle piazze munite, e lascia che il paese sia mandato a ruba. Se i Greci si fossero congiunti ai Franchi presso Milano, com'era l'accordo, poteva essere schiantata la dominazione longobarda: ma mentre i primi attorno a Modena e Parma perdevano il tempo che in guerra è tutto, stanchezza e discordia entrò fra i comandanti Franchi, e Childeperto se ne andò su per l'Adige, diroccando molti forti nelle valli tridentine. Autari allora, sbucato da Pavia, ricupera facilmente il paese; anzi profittando del diffuso scoraggiamento, occupa anche l'isoletta Comacina nel lago di Como, dove sin allora aveva resistito Francione, partigiano imperiale, e dove s'erano adunate ricchezze da tutte le città[53]. Fatto poi nodo a Spoleto, si difila sopra il Sannio, tocca l'estrema punta d'Italia, e spinto il cavallo nel mare, e lanciato il giavellotto contro una colonna ivi ritta, esclama: — Questo sarà il confine del regno longobardo». E forse era il momento di ridur l'Italia in loro dominio, se i Longobardi avessero saputo rispettare i sentimenti e la religione degl'italiani, anzichè farsene odiare come eretici e tiranni, e sprezzare come barbari. Però il primitivo furore di conquista era mitigato, e qualche ordine e civiltà s'introdusse, massime per opera d'una straniera. Dagli avanzi della potenza di Odoacre e degli Ostrogoti dopo perduta l'Italia erasi formata la gente dei Bavari, di cui era allora duca Garibaldo, della dinastia degli Agilulfingi. Autari mandò a chiedergli sposa la figlia Teodolinda, e n'ebbe il sì, a preferenza di Childeperto re de' Franchi: ma allungandosi la conchiusione, il principe longobardo, impaziente di conoscere la promessa fanciulla e di prevenire Childeperto, va a quella Corte, fingendosi uno degli ambasciatori di Autari. Comparsa Teodolinda e piaciutagli, esso la salutò regina d'Italia, e chiese adempisse il rito patrio col porgere una coppa di vino ai futuri suoi sudditi. Com'essa il fece, Autari nel restituirgliela le toccò di furto la mano, e fece che la destra di lei gli strisciasse la faccia. Teodolinda raccontò l'occorso alla nutrice; e questa la accertò che nessun altro, dal re in fuori, sarebbesi tanto permesso; di che ella si compiacque, avendolo veduto bel giovane e proporzionato. Egli partendo, come al confine si congedava dalla scorta bavarese, s'alzò sul cavallo, e di tutta forza scagliò l'ascia contro un albero, dicendo: — Siffatti colpi vibra il re de' Longobardi». 591 Il franco Childeperto assalì alla sprovvista Garibaldo per rapirgli Teodolinda, ma questa potè raggiungere in Verona lo sposo. Molti Bavari si piantarono fra i Longobardi; Gundualdo, fratello di lei, fu posto duca d'Asti, futuro padre di re. In capo a un anno Autari morì; e tal fiducia i Longobardi aveano posto in Teodolinda, che dichiararono torrebbero a re quel ch'essa scegliesse a sposo. Ed essa invitò a Corte Agilulfo, duca di Torino, non meno insigne per aspetto che per animo bellicoso: e bevuto, porse a lui la tazza da vuotare. Egli ne la ringraziò baciandole la mano; ma Teodolinda: — Perchè baci sulla mano colei, che hai diritto di baciare in bocca?» E quest'atto rese pubblica la scelta, confermata ed applaudita dall'assemblea nazionale. Questi fatti particolari, come che abbelliti dall'immaginazione o dall'arte del narratore longobardo, rivelano le costumanze del popolo dominante. La pietà di Teodolinda veniva opportunissima a mitigare la fierezza dei Longobardi. Costoro, prima d'entrare in Italia, avevano abbracciato il cristianesimo; ma conservavano alcune pratiche idolatre, a segno che torturarono quaranta contadini romani prigionieri, che non vollero adorare il teschio di una capra da loro immolata. Per isventura, i primi che andarono ad apostolarli erano ariani: talchè, dopo vinte le resistenze dell'intelletto e della passione onde farsi cristiani, dovettero stupire ed indignarsi nell'udir dai Cattolici che si trovavano novamente sulla via dell'inferno. Essi da principio molestarono i cattolici, cacciandone i vescovi per sostituirne d'ariani; dappoi tollerarono doppio vescovo in ciascuna città: ma la nomina e la conferma erano occasione di traversie pel cattolico, avversato dai vincitori, sostenuto dai vinti. Autari, che aveva abbandonato l'idolatria per l'arianismo, s'adombrò del preponderare dei Cattolici, laonde proibì di battezzare cattolicamente i nati da Longobardi; la morte che prontamente gli sopravvenne, volle guardarsi come celeste castigo di un decreto, il quale non fece che infervorare i Cattolici, sorretti anche dal pontefice Gregorio Magno. A questo ne volle male Agilulfo, e passato il Po, minacciò Roma stessa; onde il papa sospendeva il corso delle sue omelie sopra Ezechiele, dicendo: — Ogni dove si ascoltano gemiti; Agilulfo distrugge le città, dirocca i castelli, spopola le campagne, intere contrade riducendo in solitudine; a Roma giungono persone colle mani troncate; altre sono condotte in ischiavitù, e tutt'intorno non vediamo che strazj d'infelici e immagine di morte». Teodolinda era cattolica; e quel pontefice con frequenti lettere e col mandarle i proprj Dialoghi ne sostenne lo zelo, di modo che ella ridusse alla vera fede lo sposo suo: il loro figliuolo fu battezzato cattolicamente, e «restituito l'onore e la dignità solita ai vescovi, fin qui depressi ed abjetti»[54]. Sull'esempio loro, l'intera nazione si fe' cattolica, zelò il culto e moltiplicò le chiese, che in alcune città salivano a centinaja; ed eccetto le parrocchiali, a tutte erano congiunti o monasteri o spedali per infermi e pellegrini. Teodolinda fece restituirvi i beni rapiti, e di nuovi ne aggiunse; e «per sè, pel marito, i figliuoli e le figliuole e tutti i Longobardi d'Italia» fabbricò la basilica di San Giovanni Battista in Monza, preceduta da un atrio a portici, e formata a croce greca, sormontata da una cupola sostenuta da colonne ottagone, sotto la quale sorgea l'altare, a cui ascendevasi per una scalea. Sulla porta maggiore della basilica odierna, fabbricata nel XIV secolo, è un bassorilievo, che potrebbe essere contemporaneo a Teodolinda, di marmo bianco a dorature e colori, rappresentante il battesimo di Cristo; e nella parte superiore v'è effigiata essa regina in atto di offrire al Battista una corona gemmata, e allato di lei la figlia Gundeberga colle mani in orazione, il figlio Adaloaldo, tenente una colomba, e a ginocchi il marito Agilulfo: oltre l'immagine dei doni fatti da quei re, cioè corone, croci, vasi, la chioccia coi pulcini, che ancor si conserva. E vi si conservano pure un evangeliario coperto di lastra d'oro di sessanta oncie, con preziose gemme e otto cammei, iscritto _De donis Dei offerit Theodolenda regina gloriosissema sancto Johanni Baptistæ quam ipsa fundavit in Modicia prope palatium suum_; una patena d'oro contornata di quattro giacinti, quattro smeraldi e diciassette perle; un'animetta da calice in lastra d'oro con centododici gemme, ventuna perla e una grossa ametista; un pettine d'avorio legato in argento dorato e a gioje; una croce di ducento oncie d'oro, con rappresentate la vita di Cristo da un lato, dall'altro quella del Battista, e l'immagine di Teodolinda coll'iscrizione Theodolenda regina viva in Deo. Più degne di nota sono la corona ferrea, che forse era un vezzo d'essa regina, e la corona gemmata d'Agilulfo, avente in giro i dodici Apostoli in altrettante nicchie, e in mezzo il Salvatore seduto fra due angeli, e una croce pendente da una catenella[55]. Teodolinda nella sua basilica depose anche molte reliquie, impetrate dal pontefice, cioè olj dalle lampade che ardevano davanti ai martiri, entro ampolle di cristallo, d'avorio o d'altro, che ancora si venerano, come il papiro dov'erano registrate[56]. Là pure essa aveva un palazzo, arricchito di pitture rappresentanti costumi nazionali: e tanto basti a convincere come le arti non fossero perite. La tradizione popolare attribuisce infinite opere alla pia regina, la cui memoria vive tra il nostro vulgo in benedizione. Di questo tempo gli imperatori iconoclasti (come a disteso narreremo) vollero costringere i Romani a ripudiare il culto delle immagini; e questi, non potendo altrimenti assicurare la libertà delle coscienze e del culto, sorsero a rivolta, e ne scossero il giogo. Gregorio Magno, che più volte aveva elevato la voce contro gli abusi de' ministri greci in Italia, confortò i Romani nell'impresa; ben lontano però dal dar favore ai Longobardi, riconciliò anzi questi coll'esarca Callinico. Ma avendo i Greci rotto fede e assalita Parma nel cuor della pace, sorprendendo e menando schiava la stessa figlia del re, Agilulfo s'alleò col kacano degli Avari, perpetuo nemico dell'impero orientale, il quale assalendo la Tracia e spedendo un corpo di Slavi in Italia, diè il tratto alla fortuna del Longobardo, che occupò Cremona, Mantova, Padova, fin allora rimaste agl'imperatori, e col fuoco punì in esse la perfidia dell'esarca. Tentò egli più d'una volta sbarcare in Sardegna, ma il colpo gli fallì. Lo turbarono alcuni duchi, sorti ad aperta ribellione, forse per riazione ariana contro il dominante cattolico. Or clemenza egli v'adoprò, or rigore, massime contro quelli che avessero parteggiato collo straniero; come Maurizio, che aveva tradito Perugia al romano esarca, e Minulfo, duca dell'isola d'Orta, che aveva tenuto mano ad un'invasione di Franchi. Coi quali Franchi era stata tregua, ma pace non mai; e i Longobardi, fin dal tempo dei Trenta duchi, continuavano a tributar loro dodicimila scudi d'oro. Re Agilulfo spedì a corrompere con mille soldi cadauno i tre ministri di re Clotario, i quali persuasero questo ad accettare trentaseimila scudi una volta tanto, e così cessò il vergognoso tributo. Agilulfo erasi associato nel regno il figlio Adaloaldo, che gli successe sotto la tutela di Teodolinda (615). Ma talmente egli delirava in empietà e crudeltà, che si disse avergli l'imperatore Eraclio propinata una bevanda, per la quale non poteva operare se non come questi volesse. Forse così la voce popolare espresse l'inclinazione di lui a favorire mentosto gl'interessi di sua nazione, che quelli dei Romani; vietò le incursioni sui territorj ancora indipendenti; fu detto pensasse ammazzar tutti i nobili longobardi e darsi ai Greci; onde i grandi lo deposero (625), sostituendo Ariovaldo, duca di Torino, nè Cattolico, nè della stirpe bavarese. Prima d'esser re, aveva egli incontrato a Pavia un prete Selidolfo, monaco di Bobbio, e vistolo, — Ecco un dei monaci di Colombano (il santo fondatore di quel monastero) che non si degnano di renderci il saluto»; e fu primo a salutarlo. Selidolfo rispose che anch'esso gli avrebbe augurato salute se non avesse sentito dello scemo in materia di fede. Il principe stizzito lo fece bastonar di maniera, che il frate stette come morto, poi riavutosi, se n'andò[57]. Ariovaldo ebbe regno pacifico e senza ricordati accidenti, eccetto le sommosse di due fratelli Tasone e Cacone, duchi del Friuli, nipoti del bavarese Gisulfo. Ebbe egli sospetto che con costoro se l'intendesse Gundeberga, loro cugina come figlia di Teodolinda e sorella d'Adaloaldo, che egli aveva sposata per ispianarsi la via al regno, e che voleva imitar la madre nel mescolarsi ai pubblici maneggi, sostenuta dall'amore dei Longobardi. Non sentendosi forte per esterminare i due ribelli, Ariovaldo comprò l'esarca di Ravenna, il quale, chiamatili a sè in Oderzo col pretesto di tagliar loro la barba, cioè adottarli come figliuoli e clienti dell'Impero, gli uccise: ed il re in compenso perdonò un tributo che gli doveano gli esarchi. 636 Lui morto, Gundeberga, sapendo d'aver in pugno il voto dei principali Longobardi, esibì la corona a Rotari duca di Brescia[58], s'e' volesse ripudiare la prima moglie e sposar lei. Così fu fatto. Egli era degli Arodi, antichissima schiatta longobarda: e col punire severamente i signori che aveano disfavorito la sua nomina, ebbe occasione di ripristinare l'obbedienza. Ingrato alla moglie, oltre abbandonarsi a concubine, tolse a perseguitarla. Adaulfo, cortigiano longobardo, sentendosi lodare da lei, ardì richiederla d'amore; e rifiutato, l'accusò d'accordarsi con un duca per avvelenar il marito: e Rotari la cacciò nel castel di Lomello, ove tre anni essa mangiò il pane della tribolazione e della pazienza. Alfine il re franco Clotario mandò a far querela dell'indegno trattamento; e poichè Rotari adduceva l'appostagli taccia, uno de' messi gli disse: — Presto fatto a chiarirti il vero. Ordina all'accusatore che combatta con un campione della regina, e il giudizio di Dio decida». Su questi giudizj di Dio or ora parleremo: e in fatti il partito piacque, si combattè, e l'accusatore restò ucciso, e Gundeberga ripristinata nella dignità e nei possessi[59]. Rotari, ariano, pose un vescovo di sua credenza in ogni città, pure largheggiò colle chiese; e quando il vescovo di Pavia, capitale del regno, si ridusse cattolico, cessò quel doppio primato. Onde reprimere gli inquieti, Rotari mandò a morte molti Longobardi; rotta poi guerra ai Romani, diroccò Oderzo, occupò Luni, Genova, Savona, Albenga, e tutto il paese a mare sino alle terre dei Franchi di Borgogna, smantellando le città, e volendo non si chiamassero più che vichi[60]: molti abitanti vendette schiavi ai Franchi. CAPITOLO LXII. Gl'invasori. Legislazione longobarda. Costumi. Il longobardo è un dominio militare, che intende a conservarsi, ma non si consolida. Fuori dee difendersi dagli Slavi da una parte, dai Franchi dall'altra; dentro fa sforzi continui ma non concordi a guadagnar nuove terre sopra i Greci. Dopo Teodolinda, par di vedere il contrasto fra un partito che s'avvicina agli ecclesiastici ed agli Italiani; e un altro che ne rifugge, e beffa i Romani e gli uccide; quello intento a fondere, questo a tenere disgregati. E a disgregare le parti stesse del regno faticavano i duchi, mentre il re s'ingegnava ridurre ad unità di dominio, facendo prevalere sopra la libertà germanica l'assolutezza militare dapprima, in appresso la magistratura al modo romano. A tal fine Rotari fece scrivere il diritto longobardico: sicchè a lui vogliamo fermarci per considerare l'indole generale della conquista germanica, e gli speciali istituti de' Longobardi; viepiù importanti a studiarsi perchè mutarono la forma civile, durarono lungamente, e continuarono il loro effetto anche sulle successive legislazioni della patria nostra. L'antica Germania non formava una monarchia compatta, ma una confederazione di liberi e nobili, sottomessi a principi ereditarj o a capi elettivi. La parentela, il vicinato, la clientela costituivano parziali agglomerazioni, ciascuna delle quali regolava i particolari interessi in assemblee generali; e i capicasa esercitavano la sovranità, decidendo della guerra e della pace, giudicando i rei di Stato, nominando chi amministrasse la giustizia nei borghi, dando le armi a chi era riconosciuto capace di portarle. Ne' casi di maggior interesse, quando cioè il braccio di tutti fosse necessario, tutta la nazione si raccoglieva, e deliberava quello, cui essa medesima doveva poi dar compimento. I capi, disponendo poi del veto e del braccio di molti clienti, acquistavano gran potere, e talvolta autorità monarchica sopra tutta la nazione. Quando invasero l'impero romano, quasi ciascuna gente germanica era governata da re, eletti fra i più cospicui e massime fra quelli d'origine divina. Ma questi re non erano che primi fra pari; dovevano cercarsi credito colla liberalità e col valore; viveano de' possedimenti proprj, e de' donativi che riceveano dal popolo e dagli stranieri, oltre le spoglie nemiche e le ammende imposte per delitti. Ne' casi urgenti convocavano l'assemblea, e le deliberazioni di quella facevano eseguire; del resto nè amministravano gli affari dello Stato nè la giustizia, poichè il popolo e sceglieva i giudici, e attribuiva loro un consiglio del Comune. Il portare le armi consideravasi distintivo della nazione e vanto del libero. Nei pericoli della patria ogni Germano era convocato per obbligo all'eribanno, che oggi diciamo leva in massa: per volontà spontanea alcuni liberi formavano la banda guerriera, obbligandosi ad un capo siccome compagni. Egli proponeva una impresa; essi il seguivano; lodati se buona e leale opera prestassero; se no, disonorati per vigliacchi. Alla prima queste associazioni si formavano per un'impresa sola; poi alcuni si addissero per tutta la vita ad un capo, legati però soltanto dall'obbrobrio che colpiva chi misfacesse. Consideravano essi come propria la gloria e i trionfi di lui; esso gli alimentava e arricchiva con sempre nuove spedizioni; a vicenda si sostenevano e vendicavano. Una banda restava vinta e scacciata dalla patria? irrompeva su terre vicine a cercarne una nuova. Altre bande erano formate da quelli che (al modo usato già dai Sabini) erano mandati via qualora la popolazione soverchiasse. Di così fatti erano le orde che vedemmo molestare l'impero romano da Cesare in poi, e in fine distruggerlo. La proprietà era di tutti, non dei singoli; laonde il possessore non la poteva vendere o trasmettere fuor della tribù: morendo alcuno senza erede, la successione divideasi fra gli altri. Scoprivasi un delitto e non constava del reo? i membri della sua comunità erano convocati per attestare contro o a pro dell'imputato, dinanzi alla corte dei liberi possidenti, preseduti da magistrati eletti dal popolo. Nessuno condannavasi se non udito e convinto. I reati contro l'intera società si castigavano corporalmente; e in questo solo caso capitale la pena non poteva esser proferita dall'assemblea o dal re, ma dal gran sacerdote come rappresentante del Dio sommo, unico arbitro della vita, e vindice dello spergiuro. Il capocasa giudicava de' figliuoli e dipendenti senza doverne ragione a chicchessia: solo quand'avesse a punire la moglie, invitava al giudizio anche i congiunti di essa. Se il litigio si recava ai giudici, questi erano scelti della condizione dei contendenti; le parti esponevano in persona le ragioni; i savj decidevano secondo la equità e le consuetudini. I delitti contro la vita o l'avere dei particolari potevano redimersi a un prezzo[61], che variava secondo la condizione del danneggiato. La comunità del reo contribuiva all'ammenda, la quale divideasi fra la comunità dell'offeso; fino i servi pagavano per le multe pei padroni; per l'ospite rispondeva il padrefamiglia. Chi non la pagasse era scomunato, escludendolo dalla protezione legale; di maniera che poteva dall'offeso essere perseguito con guerra privata (_faida_). I giudizj erano dunque un affare di Stato, e trattavansi in comune perchè tutti v'aveano interesse. Qui vedete mescolate le forme di governo: monarchia, ereditaria e sacra, od elettiva e guerriera; assemblee di liberi, discutenti sui comuni interessi; patronato aristocratico del capo sulla banda, del padre sulla famiglia e sui servi. Ma anzichè sistemi, questi erano embrioni d'ordinamento civile; nissuna autorità dirigeva le forze ad unico scopo; e prevalendo l'individualità, l'uomo si assoggettava solo in quanto il volesse, o vi fosse costretto. Questo poco, che si ricava o induce da Tacito e da Cesare raffrontati con istituzioni posteriori, basta a chiarirci quanto la libertà germanica dissomigliasse dalla romana: questa affatto collettiva, sicchè lo Stato era tutto, nulla il cittadino, il quale non conservava l'individualità se non a forza d'eroismo o di vizj; la germanica, tutta personale, ciascuno riservandosi il diritto proprio, la domestica franchigia, la vendetta de' torti ricevuti. La dipendenza proveniva non dal nascere in questo piuttosto che in quel luogo, ma da fede personalmente promessa da uomo libero. La giustizia non era un principio esteriore sociale, positivo, eguale dappertutto, che i sentimenti degli individui sottoponesse ad una idea generale; sibbene una particolare disposizione del cuore: la penalità una attinenza da uomo a uomo, donde scaturiva il diritto di venir a composizione col danneggiato; fatta la quale, la società più non poteva perseguitare l'offeso. Tali idee furono modificate dall'uscire di patria e dalla conquista, ma rimasero al fondo della società che si costituì per tutta Europa e nella patria nostra. Dicemmo quanto basta per ismentire l'opinione vulgare che torrenti inesauribili di gente dilagassero dalla Scandinavia e dalla Germania. Oltre la ben nota natura di que' paesi, coperti anche da tante selve e da fiumi, abbiamo positive asserzioni sull'esiguo numero degli invasori d'Italia. Se ad Ennodio, vescovo ed atterrito, parvero innumerevoli i Goti di Teodorico, altri scrisse che maggior massa di combattenti gli oppose Odoacre; e dai Borgognoni che gli assalsero, non poterono salvarsi se non chiamando i Visigoti. De' Longobardi dice Tacito che compiaceansi d'esser pochi e Procopio[62], ch'erano la più scarsa gente del vicinato: inoltre dovettero chiedere in sussidio trentamila Sassoni; e benchè molte genti vinte[63] s'aggregassero ad essi nel passaggio, poterono al loro primo impeto resistere non solo Pavia, Cremona, Padova, Monselice, Brescello, Oderzo, ma fin terre aperte, quali i contorni dell'isola Comacina nel lago di Como, che per venti anni si mantennero indipendenti, riconoscendo il dominio imperiale[64]. I vincitori, liberi compagni d'un capo eletto per propria volontà, che nulla può disporre senz'essi consenzienti, vengono, conquistano, diventano possessori; indi poco a poco s'adagiano nella vita agricola; e sulla stabile proprietà fondasi un nuovo stato sociale. Ciascun capo, fermatosi colla sua tribù dove volle il genio o la ventura, accampa sugli estesissimi poderi, e vi è servito dai coloni e dagli antichi padroni spossessati, e corteggiato dai _fedeli_ di sua nazione, che e per sicurezza della guerra e pei piaceri della pace gli si conservavano vicini. Da che il capo era un ampio possessore, dispariva la prisca egualità. Egli distribuiva terreni a' suoi commilitoni, coll'obbligo che lo accompagnassero in guerra con prefisso numero d'armati. Capo di quei capi era il re; non già supremo motore di una macchina regolarmente congegnata, ma primo fra i pari; convalidandosi però col presedere ai giudizj in pace, e col perpetuarsi lo stato di guerra, come avvenne qui ai Longobardi. Servivano di regola le patrie consuetudini, talchè di rado accadeva che egli esercitasse la podestà legislativa. Ben alcuno volle imitare il sistema romano, come Teodorico; ma generalmente si cercherebbe indarno in costoro ciò che connettiamo alla parola di re: non corte, non costituzione, non gerarchia d'impieghi; un segretario spaccia tutti gli affari; un giudice risolve tutti i litigi recati al trono; i beni non sono della corona, ma acquisti della vittoria; nè tampoco sudditi egli ha, giacchè non dispone se non del braccio e dell'avere dei vassalli, cioè di quelli che per compensi determinati si obbligarono a determinati servigi. Porzione delle ammende, i doni volontarj, i proprj possessi, il dominio pubblico ingrandito colle confische, le tasse sugli stranieri, la tutela su' minori, le successioni intestate, costituivano il fisco del re. Culto, istruzione, pubblici stabilimenti da mantenere non avea, gli impieghi e le armi erano obbligo dei vassalli, e qualora si indicesse la guerra nazionale, ogni libero era tenuto accorrere, armandosi e mantenendosi del proprio. Aveva nimicizie o spedizioni particolari? il re poteva rannodare soltanto i proprj vassalli, come faceva qualunque altro duca. I parlamenti sono antichi in Italia quanto l'invasione: ma non si conosceva la rappresentanza; v'interveniva chiunque n'avea il diritto, ma delegarlo ad altri non poteva. Sparsi che furono sovra estese provincie, divenne impossibile il raccogliere i vassalli per ogni semplice affare; onde le assemblee diradarono, e si dovette imporre come obbligo ai liberi quell'assistervi che era essenza della germanica libertà. Le assemblee non erano soltanto legislative, ma anche giudiziali; laonde, dopochè la conquista dilatò le giurisdizioni, fu duopo modificarle. Pertanto in ciascun distretto si obbligò un certo numero di probi viri (_scabini_) a congregarsi per l'indagine e la sentenza. Dodici erano per lo più, della nazione dei contendenti; e doveano sotto giuramento conoscere del fatto, non del diritto. Pubblica la procedura, ogni libero avendo facoltà di concorrere al giudizio. Fra i Longobardi il centenaro giudicava nel proprio cantone, il decano nella propria marca: tribunali non distinti per competenza, ma solo per più o meno estesa giurisdizione. Mentre i liberi non poteano esser giudicati che dall'assemblea di pari loro, i vassalli, i servi, i coloni restavano sottoposti alla giurisdizione del proprio signore; sicchè, al par de' terreni, era suddivisa la sovranità, e ciascuno ne godeva un brano nel brano di territorio che possedeva. Restava il diritto della vendetta privata (_faida_), alla quale concorreano tutti i parenti e collegati. I sacerdoti e i re per tutto il medioevo s'adoprarono a torla via; e già molto ebbero ottenuto quando sottomisero queste guerre particolari a certe formalità, inducendo l'offeso a una dilazione coll'imporre che all'attacco dovesse precedere un'intimazione, e aprendo asili nei luoghi sacri: intanto si trattava della riconciliazione; se non altro svampava il primo furore, talchè rimanevano impediti gli eccessi, finchè l'imporre le pene fu riservato ai tribunali. Ma delle pene oggetto e motivo era sempre la vendetta dell'offeso, non dell'intera società; e se quello accettava la composizione dall'offensore, la società più non aveva a punirlo. Da principio stava all'offeso l'accettare o no il guidrigildo; dappoi i governi acquistando bastevole forza per surrogare la legge alla personale riscossa, le imposero per obbligo, e le commisurarono. Di bel nome coprendo cattiva azione, si intitolarono _ospiti_ quelli che, spossessati gli antichi padroni, ne occuparono le case e i beni. Alcuno credette che il re prendesse i dominj ch'erano stati degl'imperatori; i capitani, gli ampj tenimenti de' senatori; gli altri guerrieri, porzioni proporzionate al grado e al merito. _Sorti barbariche_ si dissero queste parti toccate al nuovo signore; o tedescamente _allodio, arimannia_, cioè possesso assoluto, libero, giacchè non portava veruna servitù, e costituiva la vera personalità di chi appartiene alla stirpe conquistatrice. Ai siffatti soltanto è permesso l'onore del militare; sicchè divengono sinonimi proprietario, guerriero, cittadino. Tutto essendo costituito militarmente, la città o la provincia sono una specie di corpo d'esercito; il possedimento è annestato colla politica sicurezza, ed obbliga al servizio armato e alla reciproca garanzia; talchè è disertore chi lo abbandona. I più grandi possessori coi patti medesimi assegnano, a vita o ereditariamente, porzioni di poderi ad amici e fedeli, col nome di _benefizj_; proprietà che, a differenza dell'allodio, è legata ad obblighi verso un signore non sovrano, al quale è caduca in caso di morte o in mancanza d'eredi. Terza maniera di proprietà sono i _censi_, terre tributarie, che al possessore dovevano un canone in denaro o in natura. A questa varietà di possessi corrispondeva la distinzione delle persone; e nobile era qualunque fosse benefiziato o stesse a servizio del re; come tale non essendo sottoposto a verun'altra giurisdizione che del re, a questo assistendo, intervenendo alle adunanze, coprendo le dignità. I liberi o arimanni erano possessori sotto la tutela della legge, e la giurisdizione di quello sulle cui terre dimoravano; non partecipi delle assemblee generali nè dell'amministrazione della giustizia, bensì obbligati all'arme. I coloni tributarj o censuali erano gente che, non bastando a tutelare da sè la loro libertà, cercavano protezione da un signore, cedendogli i proprj averi, salvo d'usufruttarli pagando un censo e prestando servigi di corpo o atti di rispetto: liberi sì, anche ricchi, ma senza diritto di militare, e alienabili col fondo stesso su cui viveano. Della libertà erano privi i coloni affissi alla gleba; tanto bassi, che Teodorico gli escluse dall'intentare ai padroni azione civile o criminale. Ultimi vengono i servi; o nati tali, o ridotti sia per volontà, sia per forza, sia per castigo. Tale a un bel presso la condizione generale dei Barbari che invasero l'Impero. Quant'è specialmente de' Longobardi, benchè stanziati, non poterono mai smettere lo stato di guerra, cinti com'erano da nemici; laonde _exercitus_ designava la nazione[65], ed _exercitalis_ il libero longobardo. Tutti questi, alla chiamata del re doveano armarsi, pena venti soldi, neppure eccettuati i vescovi: e quando alcuni si furono applicati a industria o a negozj, non si tennero disobbligati dal servizio militare[66]. Conseguente era il divieto, sin capitale, di traslocarsi fuori della propria giudicarìa, foss'anche entro i confini del regno, se non colla propria tribù o fara[67]; giacchè la fara era una guarnigione, e l'abbandonarla equivaleva al disertare. Tutti poteano intervenire alle adunanze nazionali, ove i primati discuteano sui pubblici interessi. I liberi erano pari di diritti, senza distinzione di classi; nè di nobili troviam menzione nelle leggi longobarde[68]: arimanni diceansi gli uomini perfettamente liberi[69], a differenza dei censuali o _aldii_ o _coloni pagenses_, che coltivavano la terra altrui. Lo schiavo poteva elevarsi alla condizione di aldio, nel qual caso il padrone diventava patrono: poteva scendervi il libero longobardo per conseguenza del giuoco o per multe ch'e' non fosse in grado di soddisfare. Soli liberi entrando nell'esercito, dai capi militari non dipendevano donne, fanciulli, servi, ma rimanevano sottomessi al più prossimo parente, o al signore che stava per essi garante. _Mundio_ chiamavasi dai Longobardi siffatta protezione, _amundio_ chi n'era esente, _mundwald_ chi l'esercitava sopra altri. Il mundualdo era obbligato a difendere e proteggere il suo tutelato, e chiedere per lui soddisfazione; e percepiva le ammende che fossero a quello devolute. Insieme col re eran venuti altri signori, che a lui non tenevansi inferiori se non perchè l'aveano tolto a capo, e che perciò dei territorj conquistati occupavano una porzione da sovrani. Come si chiamassero in longobardo nol sappiamo: in latino adottarono il nome di _duchi_, a somiglianza di quelli istituiti da Longino; ma invece d'essere magistrati civili e militari che amministrassero il paese secondo leggi comuni, dominavano da padroni sul paese occupato, dal re dipendendo solo pei delitti politici e negli affari comuni. Erano trenta o trentasei, pari fra sè di grado[70] quantunque diversissimi di possessi, tanto che uno estendevasi su tutto il principato di Benevento, uno appena sull'isoletta d'Orta; ma forse abbracciavano in origine un egual numero di famiglie longobarde. Poteano dei loro possessi fare ogni voglia: morendo, gli succedeva il prossimo erede, purchè in età maggiore: se avesse più figli, governavano insieme: se nascesse disputa fra varj possessori, la decidevano gli arimanni del duca, i quali anche poteano cacciarli[71] senza che il re intervenisse altrimenti che come giudice supremo della nazione. Come faceano leggi, così poteano far guerra, anche contro del re; e delle terre che togliessero al nemico restavano padroni: se non che il re poteva ordinare la restituzione. Per tali acquisti alcuno ingrandì fino a sottrarsi affatto al re, come fu dei duchi di Spoleto e Benevento; tanto che fu proibito di migrare in quelle terre, come nelle straniere. Dal duca dipendevano gli _scultasci_, in latino chiamati _centenarj_, che reggevano qualche vico, menavano la gente in guerra e proferivano i giudizj. Non subordinati, ma più ristretti d'estensione erano i _decani_, capi di dieci o dodici fare, unite per l'amministrazione, per la guerra, e forse per la reciproca assicurazione nei delitti: voglio dire che di un delitto commesso da un membro erano solidali tutti, come tutti obbligati a far vendetta dell'oltraggio sofferto da uno, e partecipi del compenso che doveva l'offensore[72]. Questa gerarchia non vuolsi però confondere colla feudalità. Re, duchi, arimanni tenevano le terre in possesso libero ed assoluto; e l'obbligo, o dirò meglio il diritto del militare non traevano da questo possesso, bensì dalla loro qualità di liberi; di modo che non sarebbe cessato nè tampoco perdendo i possessi. Se il re o il duca affidava un proprio fondo a qualche dipendente, era compenso di servizio, non già titolo feudale. Talvolta il proprietario ad alcuno concedeva l'onore vita durante, vale a dire di governare una terra appartenente al proprio dominio, lasciandogliene godere i fondi: ma sebbene questo benefiziato fosse tenuto alla fedeltà ed al servire coll'armi al concedente, la condizione sua non differiva da quella degli ordinarj ufficiali dell'esercito. Insomma duchi, scultasci, decani possedeano le terre come uffiziali della nazione, o vogliam dire del _felicissimo esercito_ longobardo; e le divisioni in centine e decine equivalgono alle odierne di reggimenti, battaglioni, compagnie. La confusione dei poteri si rischiara alquanto verso i tempi di Autari, che l'autorità regia rinforzò coll'obbligare i duchi a restituire i beni della corona, distribuitisi durante l'interregno; ponendo patto che non sariano spossessati delle loro terre se non fosse per colpa di fellonia, e tenendoli obbligati ad assisterlo in guerra. Veri principi, non più semplici generali furono d'allora i re, i quali, anche per darsi aria di successori degli antichi Cesari, presero il titolo di _eccellentissimi Flavj_; metteano il proprio nome sulle monete e nei pubblici atti; giudicavano nelle cause maggiori; promulgavano le leggi, le quali sottoponeano all'approvazione dei magistrati e delle assemblee, solo per maggior validità, non perchè il voto ne fosse necessario a convalidarle. Una nobiltà di corte si formava coi gasindi, i giudici, gli uffiziali, i marescialli (_marphais_), gli scudieri (_schildpor_), i convivi del re. Agli amplissimi poderi della regia Camera soprantendevano _gastaldi_, muniti anche d'autorità giudiziale e militare sopra i Romani, cioè sopra la gente vinta, e probabilmente anche sopra gli arimanni che abitavano nel territorio a loro commesso. Alcune città formavano parte dei possessi regj, quali Como per alcun tempo, Susa, Siena, Pistoja, Toscanella, Arezzo, Volterra e forse Pisa. A Milano insieme col duca sedeva il gastaldo, cred'io perchè una porzione apparteneva in dominio al re. Nelle altre può argomentarsi che il gastaldo assicurasse le ragioni dei liberi e i privilegi riservati a questi allorchè pattuirono la resa; e limite della giurisdizione era quello delle diocesi[73]. Le leggi fe scrivere Rotari nel 643, non creando un codice compiuto, ma emendando gli editti de' re predecessori, che prima per sola memoria ed uso si conservavano; e nella dieta di Pavia li fece approvare alla nazione longobarda. Principale compilatore ne fu Valcauso; e incominciava: «Nel nome del Signore, principia l'Editto che rinnovai co' miei primati e giudici, io Rotari re in nome di Dio, personaggio eccellentissimo, XVII re della gente longobarda[74], l'anno ottavo del mio regnare col favor di Dio, trigesimottavo dell'età, seconda indizione, settantasei anni dopo che i Longobardi, sotto Alboino allora regnante, assistente la divina potenza, arrivarono nella provincia d'Italia. Dato dal palazzo di Pavia. Il tenore che segue mostra quanto ci stesse a cuore il bene dei sudditi nostri, e massime i continui travagli de' poveri e l'eccessivo esigersi da quelli che hanno minor forza, i quali sappiamo che soffrono anche violenza. Considerando perciò la misericordia di Dio, credemmo necessario correggere la presente, e comporre una legge che tutte le precedenti rimova (o rinnovi) ed emendi, aggiunga quel che manca, tolga il superfluo; e raccorla in un volume, affinchè ciascuno, salva la legge e la giustizia, possa vivere quieto, affaticarsi contro i nemici, e difendere sè e i confini suoi». E conchiudeva: «Queste disposizioni dell'Editto, che, volente e propizio Dio e con somme vigilie rispondendo al celeste favore, noi abbiam costituite esaminando e _remorando_ le antiche leggi de' padri nostri che non erano scritte, e che giovano alla comune utilità di tutta la nostra gente, col consiglio e il consenso de' primati, de' giudici, di tutto il felicissimo esercito nostro, comandammo fossero scritte in questa carta, disponendo che le liti già definite non si cambiino; se non ancora finite o non cominciate, secondo questo Editto vengano risolte. Al quale provvedemmo d'aggiungere ciò che potessimo rammemorare delle antiche leggi de' Longobardi, per sottile indagine fatta da noi stessi o dagli anziani». Delle trecennovanta leggi di Rotari, centottantadue sono criminali, tre concernono la religione, diciassette lo stato legale de' cittadini, dei servi, degli stranieri, diciotto le dignità e la casa del re, sette la milizia e la sicurezza dello Stato, quindici la sicurezza interna, due l'agricoltura e il commercio, quattordici la caccia e la pesca, cinquantaquattro la polizia urbana e rurale, ventiquattro l'ordine giudiziario: restano cinquantaquattro leggi civili, di cui diciannove guardano alle persone, le altre alle cose. Altre ne pubblicò poi Liutprando, di sentimento molto più civile, «coll'assistenza de' giudici e di tutto il popolo». Altre ancora Astolfo e i re successivi. Sono dunque d'età diversissima; del che poco si ricordarono quelli che se ne valsero a descrivere la civiltà longobarda. Nelle primitive, di romano non si trova forse altro che la menzione del peculio castrense e quasicastrense, le tre cause del diseredare, e la divisione dell'eredità in oncie[75]; di religione non si parla, poco di disciplina ecclesiastica; e v'abbondano parole longobarde a spiegare gli usi de' vincitori, da cui e per cui soltanto sono dettate[76]. In quelle dei successivi re, e principalmente di Liutprando, crescono le reminiscenze romane: l'emancipazione degli schiavi in chiesa, la prescrizione trentennaria per legittimare la proprietà e i diritti, l'impedire si vendano i beni de' minori fuorchè in estrema necessità e coll'autorizzazione del giudice, la meglio stabilita successione delle donne, l'adozione de' figliuoli, il diritto di testare allargato, il separare l'usufrutto dalla proprietà nella donazione, l'appello. Primo diritto e fondamento degli altri era la faida. E perchè all'erede correva obbligo di sostenere quella del defunto sin al settimo grado, rimanevano escluse dall'eredità le femmine come inette alle armi, finchè non intervenne l'equità alla romana. Il Governo assodandosi tentò mettere qualche regola a tali vendette, e sostituire l'azione giuridica; ma non le tolse mai. I tribunali, istituiti a proteggere la proprietà e la vita, erano, come tutt'il resto, ordinati alla militare, semplici, spicciativi. Quattro giorni per terminare la lite davanti agli scultasci; sei davanti ai giudici maggiori; dodici per recarla al supremo giudizio del re[77]. Non si accettavano avvocati. Qualunque litigio nascesse fra i membri della centuria o della decania, piativasi avanti al capo, che ne riscoteva le multe. In affari rilevanti l'assemblea della centuria giudicava sotto la presidenza dello scultascio; o, per non raccogliere tutti, sceglievansi dieci _buoni uomini_, cioè perfetti Longobardi, che sotto giuramento esaminavano il fatto, rimettendo al magistrato l'applicazion della pena[78]. D'uffizio si procedeva nei casi ove il fisco partecipasse alla multa: negli altri voleasi l'istanza dell'offeso o del suo erede. Ai magistrati era permesso ricevere donativi, cioè forse sportule, purchè n'avesse sua parte il re. Nelle liti civili, semplicissime erano le formole prescritte: — Pietro, Martino ti cita, perchè tu con mal ordine tieni una terra, posta nel tal luogo. — Per successione di mio padre quella terra è mia propria. — A lui non devi succedere, perchè ti generò da un'aldia. — Sì, ma la manomise, come è scritto, e la prese a moglie». Provi o perda[79]. Per un caso criminale: — Pietro, Martino ti cita perchè uccidesti Donato suo fratello a torto». Se egli dica — Fu romano, non deve rispondere a te, o lo provi o risponda»[80]. Ognuno dovea comparire in persona: agli orfani, alle vedove, a chi facesse constare della propria insufficienza, permettente il re deputavasi un avvocato. Prove positive porgevano gl'istromenti scritti, i testimonj giurati e la prescrizione; se non ne risultasse lume, spesso rimettevasi la decisione al duello. Il falso testimonio condannavasi ad un compenso, di cui il principe toccava metà, metà la parte lesa; e se fosse impotente a pagarlo, si dava schiavo all'offeso. Il tempo della prescrizione fu da Rotari fissato a cinque anni: e nascendo contrasto, si dovesse sostenere con duello o giuramento[81]; Grimoaldo lo prolungò a trenta[82], e varie modificazioni vi s'introdussero dappoi. Quanto a' criminali, l'arresto del reo si faceva dai decani o saltarj, che lo traduceano allo scultascio, e questi lo consegnava al giudice[83]. Il malfattore scoperto in casa, poteva essere arrestato da chicchefosse, ed anche ucciso[84]. Se alcuno legasse un libero senz'ordine del re o buona ragione, dovea dargli due parti del prezzo di sua vita[85]. Il giudice interroga il reo; se non si purga, lo condanna: non accade menzione di tortura. I beni dei condannati passano ai figliuoli. La negligenza de' giudici v'è punita ora con multe da dividere tra il fisco e la parte danneggiata, ora coll'obbligo di pagare del suo al chieditore il credito per cui aveva portato istanza[86]. Male sono determinate le competenze dei varj tribunali, e troppo frequente il ricorso al trono; nè fissato un termine, dopo il quale fosse imposto silenzio ai litiganti. Una legge di Carlo Magno, soggiunta alle longobarde, comanda che i giudici si mettano a tribunale digiuni: ma anzichè segno d'abituale intemperanza de' Longobardi, forse non è che un'allusione scritturale[87]; se pur non era un modo d'obbligare alla pronta decisione; come oggi ancora i giurati inglesi non possono prender cibo prima di avere proferito. Dove bisognava convincere non un giudice o un tribunale ma tutto il popolo, la realtà del fatto e la colpabilità del convenuto doveano esser discusse in ben altri modi dei nostri; e fra le prove le più caratteristiche erano i congiuratori, l'ordalia, il duello. L'accusato compariva con un numero d'amici e parenti, i quali giuravano lui esser mondo della datagli imputazione, ovvero che essi prestavano intera fede al giuramento proferito da esso. Non si trattava di vagliar la cosa, di fare indagini e interrogatorj; giuravano e tanto bastava: uno era innocente se un'accolta di liberi fosse disposta a sostenerlo tale colla sua parola e col suo ferro. Rotari ingiunse che, nelle cause eccedenti il valore di venti soldi, il petente giurasse con dodici sacramentali; sei nominati da esso, uno dal convenuto, cinque da lor due d'accordo[88]: ma altre volte salivano a venti, cinquanta, settantadue e più, secondo il grado del reo e la gravezza dell'imputazione. Il primo sacramentale, fra i Longobardi, posava la mano sulla cosa sacra; il secondo la sua su quella del primo, e così via gli altri; a tutte sovrapposta la sua, il convenuto in tale atto proferiva il giuramento. Frequente è ammesso nelle loro leggi il giuramento qual prova decisiva in cause civili e criminali: «L'accusata d'adulterio si purghi con dodici sacramentali, e il marito la riceva»[89]. La qual prova fu anche dalla Chiesa sanzionata con preci, benedizioni, reliquie: talvolta davasi il giuramento sull'ostia consacrata, dimezzandola fra l'attore e l'accusato. Con modi più spettacolosi chiamavasi il cielo a testimonio ne' _giudizj di Dio_. Era pur questa una tradizione pagana[90], avvalorata dai miracoli, dai quali nel vecchio e nel nuovo Testamento fu confermata la verità; sicchè si venne a pretendere che Dio, ogni qualvolta fosse invocato, ne operasse uno per francheggiare l'innocenza, non dovendo egli comportare il trionfo del ribaldo: quando egli avesse parlato coi fatti, la società rimaneva convinta. Talora i due attori stavano a braccia levate finchè si cantasse una messa o un officio, e deteriorava la sua causa quello che le lasciasse per istracco cascare. Talaltra inghiottivano entrambi un morso di pane e cacio benedetto, persuasi che al reo si fermerebbe nella strozza. Altri, e massime donne imputate di maliarde, erano gettate al fiume, considerandosi colpevoli se galleggiassero. Più consuete tornavano le prove dell'acqua e del ferro rovente: in una caldaja bollente ponevasi una palla, e l'accusato dovea trarnela colla mano ignuda; ovvero maneggiare un ferro arroventato, o camminare scalzo sopra sbarre infocate; suggellavasi un sacchetto attorno ai piedi o al braccio, e aperti dopo tre giorni, se non vi apparisse lesione, egli era mandato assolto. Volta fu che con grande solennità s'accesero due roghi tra sè vicinissimi, e i contrastanti od i campioni passarono di mezzo a quelli, restando la ragione a chi uscì illeso. Carlo Magno in testamento ordinò che, qual controversia nascesse tra' suoi figliuoli, fosse decisa col giudizio della croce. Volendo rifarsi le mura di Verona per ischermirla dalle correrie degli Ungari, si disputò se al clero toccasse fabbricarne un terzo o un quarto; ed un campione che tenne alte le braccia per tutto il passio di san Matteo, diede il miglior partito agli ecclesiastici. Giovanni detto Igneo, e prete Liprando convinsero di simonia l'arcivescovo di Firenze e quel di Milano col passare intatti fra due roghi. A questa prova vennero spesso sottoposte le reliquie, e furono viste balzare illese dalle fiamme: come i messali ambrosiani quando Carlo Magno voleva abrogare quel rito. Tali prove durarono tutto il medioevo; la Chiesa le accompagnò con riti e preghiere; e sebbene sempre v'avesse chi le disapprovò, talmente s'accordavano coi tempi, che difficilissimo fu l'abolirle. E più difficile estirpare il duello, altro modo di sostituire forme legali alla vendetta personale, obbligando l'offeso a certe regole nella guerra contro l'offensore. I codici dovettero occuparsi a lungo di questa trasformazione dell'ostilità privata, per assegnare quali persone potessero esibir il duello, quali accettarlo, in che casi, con che regole. Donne, fanciulli, sacerdoti ne andavano esenti, e in nome loro lo sostenevano campioni prezzolati, tenuti a vile dall'opinione e dalle leggi; mentre, era pregiato chi assumesse quest'uffizio per generosità. Virtù prima non era il valore? il mancarne doveva denotare malvagità. Eppure già Teodorico, o Cassiodoro a nome di lui, scriveva agli abitanti della Pannonia: — Che giova all'uomo aver la lingua, s'egli tratta sua causa a mano armata? ove sarà la pace, se sotto la civiltà si combatte? Imitate i Goti nostri, che appresero ad esercitar fuori le battaglie, dentro la modestia»[91]. I Longobardi ammisero il giudizio del duello; e Liutprando; sebbene lo confessasse assurdo, non ardiva vietarlo come troppo radicato negli usi di sua gente[92]. Quando la feudalità sfrantumò le primitive colleganze di tribù, dileguossi il sistema de' compurgatori, mentre crebbe il duello giudiziario, meglio appropriato a persone tutt'armi; nè la Chiesa riuscì mai a svellere questo diritto della forza. Nel 962 Ottone il Grande, attesa la facilità degli spergiuri, consultò il concilio Romano se non tornasse meglio ricorrere più di frequente al duello giudiziario. Nulla decise il pontefice: onde esso imperatore, nel 967, propose alla dieta longobarda in Verona, fossero casi di duello giudiziario il dichiarare falsa una scrittura, disputare sull'investitura d'un fondo, asserire d'aver per forza sottoscritto ad un obbligo concernente una terra, sofferto un furto di oltre sei soldi; negare il deposito, o che uno fosse entrato servo d'un altro. Ogni libero combattesse in persona; le chiese e le vedove per mezzo d'un avvocato[93]. Siffatte erano le procedure sotto i Longobardi. Le pene si appoggiavano sul diritto di venire a componimento; i liberi potendo soddisfare a danaro fin l'omicidio premeditato e l'invasione armata[94]. Tali compensi (_guidrigildi_) erano regolati secondo le prische consuetudini (_cadarfrede_); sicchè la loro estimazione commettevasi ai giudici: ma Liutprando restrinse questo arbitrio ponendo alcune tasse certe. Fondavansi esse sopra un'altra ingiustizia, qual era la differenza fra uomo e uomo: giacchè non si badava all'intenzione o alla moralità, bensì a riparare l'oltraggiato in misura del suo grado e della lesione effettivamente sofferta. Pertanto è posto divario fra l'uccisione d'un uomo o d'una donna[95]: chi ammazza un aldio altrui, paghi sessanta soldi[96]; chi un servo rustico, sedici; chi un servo bifolco, venti; cinquanta pel porcajo che abbia sotto di sè due o tre allievi; venticinque per gl'inferiori[97]; mentre ne vale ducento e fin cinquecento la vita d'un libero. Tre soldi scontano l'aborto procurato ad una cavalla o ad una serva[98]: indifferenza naturale dove la multa compensa il danno del padrone, non l'offesa recata alla società o all'umanità. Le pene sono suddivise ancora non in riguardo all'effetto, ma al danno effettivo, perciò specificato con frivolezza. Chi dà un pugno, paghi tre soldi; sei, chi uno schiaffo. Chi ferisce nel capo, se intacca solo la cuticagna, sei; se due ferite, dodici; se tre, diciotto; le di più non si contano. Se frange un osso, soldi dodici; se due, il doppio; il triplo se tre o più: però se l'osso sia tale che possa dar suono lanciandolo contro lo scudo alla distanza di dodici piedi, misura d'un uomo ordinario. Chi fenda il labbro sedici soldi; venti se resta scoperto un dente o due o più: se rompe un dente di quei che si vedono ridendo, soldi sedici; e se più, in proporzione: pei molari, soldi otto ciascuno. Pel pollice, un sesto del prezzo dell'offeso; per l'indice soldi sedici; pel medio sei; per l'anulare otto; pel mignolo tredici[99]: e tutto è variato secondo che l'offeso è libero o no. Altre ammende erano fissate pel danno recato alle proprietà o ad animali domestici; o pel danno da questi causato. Se molti avessero commesso un delitto, la pena ripartivasi fra tutti. Tante prescrizioni sfrivolite in particolarità, mostrano come di intenti generali mancasse la legge, la quale alcuna fiata si limitava a raccomandazioni. Chi accende il fuoco per istrada, si ricordi di spegnerlo prima d'andarsene; chi trova una bestia selvatica o presa alla tagliuola, o circondata da cani, e l'uccida e racconti schietto la cosa, possa prenderne l'anca destra o sette coste[100]. Delle multe un terzo toccava ai giudici, e doppie erano quelle che si pagavano per sentenza del re. Capitalmente si punivano, fra i delitti privati, l'adulterio, l'uccisione del marito o del padrone; fra i pubblici, l'introdurre il nemico nel regno o ajutarlo in qualsiasi modo, il tener mano a un reo di morte, il rivoltarsi al capitano in tempo di guerra, fuggire in battaglia, disertare dalla propria fara. La pena di morte era prodigata cogli schiavi. Al falsatore di monete e di carte amputavasi la mano[101]. Liutprando abbondò di più in pene afflittive, come prigioni sotterranee, il tondere, il marchiare con ferro rovente, il flagellare[102]: e questa deviazione dal guidrigildo attesta che un nuovo diritto veniva introdotto da quel re. Il ladro pel primo furto subisca due o tre anni di carcere sotterraneo; e se non ha di che compensare, si consegni al derubato, che ne faccia il suo talento: al secondo, il giudice lo tosa, batte, marchia in fronte e in faccia: al terzo lo vende fuor di provincia[103]. Redimeasi dunque a prezzo l'omicidio, non il furto. Vero è che Liutprando volle che l'omicida volontario, non solo compensasse la famiglia dell'ucciso, ma tutte le sue facoltà fossero divise fra quella e il re; e se non bastassero al guidrigildo, fossero consegnate alla famiglia dell'ucciso[104]. Singolarmente si volle consolidare colle minaccie il poter regio, contrastato come succede dov'è elettivo. Morte e confisca a chi pensa o consiglia contro la vita del re, o si avanza armatamano contro il palazzo di lui: assolto chi uccide altri per insinuazione del re. V'avea pene stravaganti: le donne rissose venivano decalvate e frustate per la vicinanza: a Pavia stava eretta sul ponte una pertica con un corbello in vetta, per tuffare nel Ticino chi avesse bestemmiato[105]. Quel rappresentare mimicamente gli atti civili, che si costumava nel diritto patrizio romano, ricompare nelle consuetudini de' Barbari, come consentaneo a gente che poco scriveva, e alle cui fantasie faceva mestieri di essere scosse da effettive rappresentazioni. Per l'emancipazione i Longobardi consegnavano al servo una freccia, atteso che il portar armi fosse privilegio de' liberi, e susurravangli all'orecchio alcune parole patrie[106]. Per effettive tradizioni davasi l'investitura d'un uffizio o grado: al compratore si consegnava un ramo, una festuca, un cespo, una zolla; e anche oggetti affatto estranei, come un guanto, un libro[107], un cane, una coreggia, un par di forbici, un giunco, un martello, un pallio, un lenzuolo, o marmi, o pesci, o un'anfora d'acqua. Dopo servite alla tradizione, si foravano o rompevano, e venivano conservate dall'investito, quasi prova dell'atto; ond'è che spade rotte, monete forate, solfanelli e somiglianti troviamo negli archivj; e qualche volta attaccati all'istrumento fascetti di paglia; o capelli e barba nella cera del sigillo; o pezzi di legno e coltelli, nel cui manico s'intagliava il nome del venditore. Altre volte faceansi alcuni atti significativi, come stringersi la mano, porgere il pollice destro, dare il bacio, toccare una colonna o un corno, entrare nella porta, passeggiare sui fondi, smovere la terra, ricever insieme la comunione. Colla spada investivasi alcun re; colla lancia i principi longobardi; i dogi di Venezia col gonfalone; Ottone II infeudò il contado di Bobbio all'abbate di quel monastero con un anello d'oro. La Chiesa non ha ancora smesso di conferire le dignità ecclesiastiche col pastorale e coll'anello; e le minori col berretto, il calice, un candeliere, le chiavi della chiesa, il turibolo, o col toccare la fune delle campane, od ardere un grano d'incenso, o leggere il messale. Tra i Longobardi non era molto praticata questa mimica giuridica; e non di rado facevano atto scritto delle vendite, specificandovi la cosa alienata e il prezzo, aggiungendovi la garanzia, sotto la penale del doppio: sembra però che l'attore in cause civili lasciasse in casa del convenuto un _guadio_, cioè un anello od altro segno materiale. Singolare ad essi era il _launechild_, compenso che il donato dava al donatore; una veste, un pallio, un anello, un cavallo, un par di guanti o denaro: del che ricorrono esempj fin nel xiii secolo. Da ultimo, in luogo della veste, non faceasi che sporgerne il lembo al donatore[108]. Non v'era diritto di testamento in origine, ma distribuivansi le eredità secondo le generazioni, esclusi i collaterali. In primo ordine erano i figliuoli e i nipoti per rappresentanza; in secondo le figlie a parti eguali, e in difetto di figlie le sorelle e le zie non ancora maritate: in tal caso i parenti, e in loro mancanza il re, prelevavano un sesto. Seguivano i parenti prossimi, senza distinzione di linee nè di sesso, fin al settimo grado; dopo il quale sottentrava il re[109]. I figli sono chiamati in egual porzione all'asse del padre, che può privarneli solo nel caso che l'avessero battuto o minacciato nella vita, o tentato la matrigna[110]. Il bastardo non è erede: ma ai figli naturali tocca la metà della legittima se il padre lasciò figlio; se no, un terzo dell'asse. Non si conoscono fedecommessi. Chi, in difetto di prole, volesse disporre di sue facoltà, dovea farlo per contratto (_thinx_), proferendone da vivo una promessa pubblica, che equivalga all'adozione: e il donato doveva accettare dando il launechildo. Sparendo l'obbligo della vendetta domestica, il diritto ereditario dovette modificarsi, e Liutprando permise testare, non solo a pro dell'anima, ma anche per prediligere uno de' figliuoli; la sorte del quale poteva dal padre essere migliorata d'un terzo se n'avesse due, d'un quarto se tre, e così in proporzione[111]: ma ciò non avea luogo coi nati da secondo letto, viva la madre. Poteasi anche favorire la figliuola. Dagli antichi Germani deducono alcuni il rispetto onde la società moderna, a differenza dell'antica, riguarda le donne. Per verità le leggi longobarde ci danno poco argomento di delicatezza verso di esse, contandole solo come fattrici di guerrieri: e l'uccidere una quand'è atta a figliare, scontasi con seicento soldi; con ducento, se prima o dopo l'età nubile. Nuove però sono le leggi introdotte dal pudore in quel codice, tanto precise, che spesso il ledono per proteggerlo. Il libero che preme il dito d'una libera, sborsi seicento denari; doppio, se il braccio; se sopra il gomito, millequattrocento; milleottocento se il petto. Chi per istrada tenti una libera, componga in novecento soldi; altrettanto chi sforza una donna a sposarlo; multato chi tarda due anni a menarla dopo gli sponsali. Gli adulteri possono essere uccisi dall'oltraggiato qualora non siano puniti dalla legge; nè francheggiano la peccatrice il consenso o il comando del marito. Nefario è chi dica meretrice o strega ad una libera; giuri su venti testimonj averlo fatto per impeto di collera, e compensi in venti soldi, o sostenga il suo detto col duello; nel quale se soccomba, paghi la multa impostagli dal giudice[112]. La donna non usciva mai del mundio; tutelata dal padre, dallo zio o dal fratello, sinchè _in capelli_, cioè fanciulla; poi dal marito; e vedova, dal più prossimo a questo[113]. Qualora la donna non avesse consanguinei, o dopo vedova si fosse riscossa dalla tutela col restituire metà della dote, o il tutore l'avesse accusata d'impudicizia, o voluto costringerla a nozze sgradite o prima de' dodici anni, o attentato alla vita e all'onore di essa, o chiamata strega, ponevasi sotto il mundio del re, il cui gastaldo percepiva il prezzo se si maritasse, e porzione dell'eredità se morisse. Perchè i mondualdi non abusassero della debolezza del sesso, Liutprando statuì che, quando una donna vendesse alcun suo possedimento coll'assenso del marito, intervenissero al contratto due o tre parenti di essa per cansare ogni frode o violenza[114]. Il mondualdo vendeva la donna al marito, il quale così diventava erede di essa, e percepiva le tasse inflitte a chi la offendesse. Dote propriamente non era costituita ma ne tenevano vece il _faderfio_, il _mefio_ e il morghengabio. Il primo significa eredità paterna (_vater-erde_), e davasi dal genitore e dai fratelli a piacer loro alla sposa, per quetarla d'ogni pretensione al retaggio. Il mefio (_medio, metà_) era un libero donativo del marito avanti le nozze, consistente per lo più in campi o servi; diverso dal mundio, prezzo stipulato per ottenere la tutela della donna, e che davasi al mundualdo. Questo talora giungeva sino a venti soldi; ma Liutprando limitollo a tre[115], mentre egli medesimo restrinse il mefio a quattrocento denari pei giudici ed altri magnati, trecento pei nobili, gli altri quel di meno che volessero. Il morghengabio, o dono mattutino, facevasi dallo sposo dopo la prima notte: ma poichè i primi trasporti recavano taluni a donare fin l'intiera facoltà, e questa rimaneva alla donna se sopravvivesse, Liutprando sancì che lo sposo non potesse obbligare più d'un quarto dell'aver suo[116], e vietò il far altri regali oltre i predetti. I Longobardi non permettevano le nozze alle donne avanti dodici anni, quattordici ai maschi, nè in generale fra età sproporzionate: contratte più non si scindevano. Per quanto il marito bazzicasse altre donne, la moglie non poteva dargli querela; ma se ella peccasse, restava abbandonata alla vendetta del consorte come il seduttore. Che in questi fatti poco migliorassero i Longobardi in Italia, lo rivela la lunga legge di Liutprando contro i connubj criminosi; un'altra contro i mezzani e i mariti che vendono le proprie mogli, e le monache che prendano marito[117]. Il punto d'onore, qualità che i moderni distingue dagli antichi, si rivela ne' castighi apposti a ingiuriose parole. Chi dice infame a un altro, paghi cenventi denari; chi vile, il doppio; se spia, seicento; la donna che chiami bagascia un'altra senza poterlo provare, soldi quarantacinque; il tutore che dica villania alla sua tutelata, ne perda il mundualdo. Cogli schiavi la legge di Rotari è fiera quanto la romana, pareggiandoli a cose; ma poi anche i Longobardi tolsero al padrone l'arbitrio sulla vita di quelli, eccetto i casi determinati dalla legge. Il padrone che adultera con un'aldia, perde ogni ragione su lei e sul marito; chi sforza la fidanzata d'un servo, paga la pena allo sposo, il quale può anche sul fatto uccider lei e il corruttore. L'offesa ai servi vale un quarto di quella ai liberi: chi prende per la barba o pei capelli un rustico altrui, gli paghi un soldo: il servo battuto dal padrone per essersi richiamato contro di lui, rimane franco. Se ad uno schiavo rifuggito in chiesa il padrone promette sicurtà, poi non attiene, è multato in soldi quaranta. Se il padrone disposto a dare la libertà venga a morte, lo schiavo rimane libero senza pur pagare il compenso, «massima lode a noi sembrando (dice Astolfo) se dal servigio traggansi gli schiavi a libertà, perchè il Redentor nostro degnò farsi servo per dare a noi libertà»[118]. Queste leggi, da chi giudicate pessime, da chi stupende, secondo il vario punto di vista[119], sopravvissero lungamente nelle consuetudini italiane[120], ed offrono il migliore ritratto de' costumi de' Longobardi. Il vederle dettate in latino, benchè concernessero solo i vincitori, mostra come questi fossero digiuni di lettere a segno di dover valersi dei nostri per compilarle. Ma i nostri pure dovevano aver perduto ogni tradizione elevata di ragione giuridica, poichè non seppero appoggiarsi sovra punti complessivi, e provvidero a casi particolari con una minuzia fin puerile. Gente che si spicca dalla patria, perde gran parte degli affetti più teneri e morali: or chi vorrà credere alla vantata bontà e costumatezza di Barbari, mescolati di genti diverse, e sì tenuemente legati al loro capo? I nostri padroni rozzamente abitavano; e gli _armadj_ ove riponevano le armi, e le _banche_ da cui presero nome i banchetti, erano tagliati grossolanamente. Semplici nel vivere ordinario, sfoggiavano ne' conviti, ove l'ilarità era stimolata dal vino, bevuto in giro dal corno dorato o talvolta dai cranj de' vinti nemici; e l'eroismo da giuochi scenici o da bardi che cantavano le imprese di Teodorico o d'Alboino. La scipita, eppur da tutti letta istoria di Bertoldo, d'origine antica e tedesca[121], ci fa vedere Alboino nella regale Pavia piacersi de' buffoni. I giojelli da Agilulfo e Teodolinda regalati al San Giovanni di Monza chiariscono com'essi sapessero largheggiare: ma un bastone a oro e argento da re Cuniberto regalato al grammatico Felice[122], è l'unico favore che leggiamo concesso a letterati da Longobardi; e forse Rachis tenne in palazzo una scuola, dalla quale uscì Paolo Diacono[123]. Dopo le prime devastazioni, molti di quei re fecero anche fabbricare, massimamente chiese e monasteri, e credesi vederne a Pavia e a Brescia, certamente a Lucca. Nel San Giovanni di Monza erano ritratte le geste dei Longobardi; i quali vi comparivano colle prolisse vesti di lino a lembi di color vario; le gambe ravvolte in una singolar foggia di usatti, e in piede calzari sparati alla sommità del pollice e con legacci di cuojo, finchè vi sostituirono gli stivali[124]; lunghe barbe, da cui forse presero il nome; la cervice rasa fin alla nuca; davanti, la chioma prolissa fin alla bocca con una drizzatura sulla fronte. Forse il sudiciume manteneva fra loro una malattia cutanea, qual ella si fosse, indicata col nome di lebbra; e chi n'era infetto veniva espulso di casa e di città; provvedimento nulla più eccessivo dei tanti suggeriti per pubblica sanità, se non si fosse esacerbata la condizione di quegl'infelici col considerarli per morti, e interdirli non solo del disporre dei proprj beni, ma fino dell'usarne al puro mantenimento. Giungevano i Longobardi in una società corrotta dal lusso, avvilita dalla schiavitù, pervertita dall'idolatria, senza che il cristianesimo l'avesse ancor potuta riformare; onde ai vizj proprj aggiunsero quelli dei vinti. Tra questa eredità gentilesca erano le pratiche supertiziose, e assurde credenze in apparimenti di morti, patti col diavolo, larve placabili con lustrazioni. Il legislatore rimprovera del credere che certe donne ingojassero gli uomini[125]: ma al tempo stesso egli proibisce ai campioni, ne' duelli giudiziarj, di portare indosso erbe o che che altri malefizj. CAPITOLO LXIII. I vinti. Con che legge viveano? Quali la condizione e le arti loro? Fin qua scrivemmo al modo de' classici, quasi unicamente guardando alla nazione vincitrice: ma che n'era intanto dei vinti? Il silenzio della legge mostra già come il vincitore non degnasse occuparsi di loro: ma se non è lecito figurare che il Goto o il Longobardo vincesse per rendere felice il Romano, sottrarlo all'oppressura degli ultimi tempi imperiali, e, alleviatolo dalla guerra, lasciar che nella quiete attendesse agli studj e alle arti, non vuolsi però dimenticare che il cristianesimo non permetteva più ai vincitori di conculcare affatto la umana natura. Se i Barbari, dilagando sulla nostra patria, avessero scontrato tanta patriottica ostinazione quanta Annibale o Pirro, sarebbe nata guerra di sterminio, dove una delle parti avrebbe dovuto soccombere: qual delle due non è difficile il prevederlo, chi avverta come la germanica migrazione continuasse da secoli senza esaurirsi. Sarebbe dunque avvenuto dell'Europa come più tardi dell'Asia e dell'Africa, donde gli Arabi svelsero ogni radice dell'anteriore civiltà. All'incontro i Barbari (eccettuiamo sempre gli Unni, che comparvero, distrussero e si dileguarono) arrivavano in Italia già cristiani, cioè accolti in una fratellanza che dava diritti e imponeva doveri. Per quanto infelice fosse dunque la condizione cui trovaronsi ridotti i vinti in Italia, non va paragonata a quella che fecero, per esempio, all'Asia i Turchi, o all'America gli Spagnuoli. Qui, oltre il clero, si trovavano nobili, operaj, minuti possessori, coloni e schiavi. Al popolo basso generalmente dovette parere che i Barbari recassero un sollievo da quella concatenata oppressione fiscale. Degli schiavi gran parte nelle prime correrie fu rapita; ai restanti poco caleva a qual signore servissero, fatati alla miseria. Altrettanto dicasi dei coloni, che nulla avevano a perdere, e non di rado vantaggiavano. Della nobiltà patrizia romana aveano già fatto sterminio gl'imperatori; allora i Barbari l'annichilirono, giacchè, non trovandola buona ad alcuna delle arti di cui essi aveano mestieri, non le usavano que' riguardi che agli agricoli ed agli artigiani; sicchè della primitiva conquista rimase levata ogni traccia. Della nobiltà nuova formatasi nelle provincie, alcuni s'appigliarono alla fortuna de' vincitori, per trarne qualche porzione a proprio vantaggio: i più, umiliati, scaduti dalle dignità, spogli in parte o in tutto dei beni, sentivano repugnanza pei conquistatori, e faceano opposizione con quel poco di potere che ad essi era rimasto nelle curie; talvolta anche rimbalzavano contro gli oppressori, come vedemmo tentarsi sotto i Goti; altri si ritiravano nelle vaste e lontane tenute in mezzo a coloni e clienti, sperandosi dimenticati. La civiltà romana, dovunque arrivasse, si sovrapponeva alle leggi, ai costumi, alla religione, alla lingua nazionale, per modo che pochi secoli di dominio cancellavano quasi ogni orma delle istituzioni dei popoli sottomessi e assimilati. I Germani al contrario, invadendo il nostro paese, sentivano quanto una civiltà sistemata fosse superiore ad una barbarie incomposta; sprezzavano i Romani individualmente, ma concepivano, se non rispetto, almeno meraviglia dinanzi a quei superbi edifizj, agli acquedotti, agli anfiteatri, alla regolare gerarchia de' poteri. Fissandosi poi sulle terre romane, e col diventare proprietarj acquistando relazioni più complicate e durevoli, comprendevano la necessità di regolamenti più estesi; e poichè la legislazione romana glieli offeriva, mentre abbattevano l'ordine politico, vagheggiavano il sociale, ed anche mettendo al giogo i Romani, si confessavano ad essi inferiori, e s'ingegnavano d'imitarli. Non privavano dunque i vinti della libertà naturale riducendoli schiavi; e talvolta neppure affatto della civile. Questo, che era generosità rara fra gli antichi, qui veniva dall'esercitarsi i due popoli in diverso genere d'industria; nell'armi i vincitori; i vinti ne' campi, nelle arti, negli studj. Teodorico usò in insigni uffizj Cassiodoro, Boezio, Simmaco; altri Barbari si valsero certo dell'opera di Romani; e sebbene de' Longobardi non sia detto, li vediamo però dettare le proprie leggi in latino: queste leggi modificare alla romana; stabilire un sistema fiscale complesso, qual non avrebbero potuto se non col sussidio de' vinti. Nè per questo il vinto entrava nella società de' vincitori. Adoprato per bisogno non per onoranza, rimaneva escluso dalle armi, e da ciò che fra i Germani n'è conseguenza, la giurisdizione e l'amministrazione; solo per grazia speciale alcuno veniva ammesso fra i vincitori, consentendogli il titolo di convittore del re. I beni de' natii furono divisi in ragione diversa ne' diversi paesi: i Visigoti tolsero ai possessori due terzi dei campi, degli schiavi, degli animali domestici e degli strumenti di lavoro[126]; i Borgognoni, metà delle corti e dei giardini, due terzi delle terre lavorate, un terzo degli schiavi, lasciando in comune le foreste. Gli ausiliari degli ultimi imperatori chiesero in Italia un terzo de' terreni, e avuto il no, deposero l'ultimo cesare d'Occidente, e ottennero da Odoacre ciò che Augustolo avea negato. Gli Ostrogoti sopragiunti occuparono anch'essi un terzo. Togliere metà o un terzo dei terreni a gente decimata dalla guerra, ed esonerarla con ciò dal tributo, che sotto i Romani esorbitava a segno da far sovente abbandonare al fisco le tenute istesse, parrebbe tutt'altro che abuso di brutale vincitore. Se fosse poi vero che il Germano, indocile alla fatica dei campi, non esigesse che il terzo dei frutti, sarebbe un sistema più mite di quanto si pratica oggi nella nostra campagna. Ma una partigione fatta da conquistatori sopra gente che non ha armi nè rappresentanza per francheggiare i proprj diritti, può ella immaginarsi altrimenti che come una grande violenza, esercitata parzialmente da ciascun capo nel paese o nel villaggio dove infiggeva la sua lancia? Inoltre, i Goti toglievano que' possessi dal pubblico dominio, o da possedimenti privati? Se dai privati, come pare, che cosa intende Teodorico quando asserisce un ricco Goto equivalere a un Romano povero? Perchè gl'invasori soprarrivati occupassero i terreni stessi dei conquistatori precedenti, converrebbe supporre i Goti tanti appunto di numero, quanti gli Eruli e i Turcilingi d'Odoacre; e che avessero catasto e misuratori e una regolarità di possessi, affatto inconciliabile colla condizione di Barbari. Poi, se al primo entrare ciascun Barbaro diveniva possessore, come spropriava altri via via che faceasi nuove conquiste? e se la misura non fosse stata equa, come avrebbe potuto richiamarsene il prisco possessore? e davanti a chi? e come tutelava egli i proprj confini? Poi delle proprietà dei Goti cosa avvenne, quando i Greci gli ebbero vinti? e di quelle dei tanti caduti in guerra sì micidiale? Può mai immaginarsi che, fra tanto scompiglio, venissero restituiti ai primi signori? Potrebbesi credere che cadessero al fisco; ma nella prammatica di Giustiniano non v'ha motto di oggetto sì rilevante. I Longobardi occupano essi pure un terzo, ma in peggior ragione: poichè, se i Goti contribuivano alle spese della coltura ne' campi invasi, questi levavano un terzo lordo dei frutti, modo di costringere i più a ridursi servi, se già nol fossero per sistema. E qui si presenta una controversia famosa sulla bontà de' Longobardi. Il terrore chiamava torrenti e diluvj le invasioni; la compassione esagerava gli sterminj, tanto che papa Gregorio Magno dice, l'umana stirpe, folta in Italia come campo di biada, restò allora guasta ed uccisa, e tutto il paese converso in deserto, popolato solo di fiere. Noi sappiamo storicamente che la popolazione dell'Italia ancora romana era tutt'altro che numerosa; oltre che un fiero contagio l'avea desolata poco prima dell'arrivo de' Longobardi[127]. Per quante poi sieno le violenze particolari, v'è poca ragione di credere a uno sterminio sistematico, dal quale al vincitore non sarebbe derivata altra conseguenza, che di ridurre incolte le campagne. Tutt'al contrario Paolo Diacono, longobardo e che de' Longobardi scriveva quando n'era appena caduto il regno, sicchè la compassione li faceva rimpiangere e il lodarli sapeva di generosità, non trova espressioni bastanti a loro encomio: «nessuna violenza accadeva, nessun'insidia tendevasi; non era chi angariasse o spogliasse altrui ingiustamente; non furti, non ladronecci; ciascuno andava senza paura ove gli talentasse»[128]. Se i conquistatori, e massime nei primi momenti, rechino tali beatitudini, lo dica chi ha occhi. E se Cicerone, proclamando i doveri della giustizia nel secol d'oro di Roma, stabilisce che coi soggiogati bisogna adoprare fierezza come coi servi[129], aspetteremo noi tanta umanità nei Barbari, che pur spropriarono i natii? Fosse anche vera, quella pittura sarebbe a riferirsi solo al vincitore; non altrimenti da quando i Romani antichi vantavano che nessuno poteva esser torturato e ucciso senza regolari giudizj, mentre stavano all'arbitrio de' padroni e de' magistrati tanti milioni di provinciali e di schiavi. Lo storico medesimo, quando dal fraseggiar retorico viene ai fatti, racconta che Clefi distrusse la nobiltà, lo che significa i possessori; e che, «sotto i trenta duchi, molti nobili Romani furono uccisi per cupidigia, gli altri partiti fra gli ospiti in modo da divenire tributarj, pagando un terzo de' frutti; spoglie le chiese, trucidati i sacerdoti, sovverse le città, sterminata la popolazione»[130]. A questo strazio fu dunque mandato il fiore della gente italica. Pertanto, comunque andasse il fatto nei primi momenti, in appresso i soggiogati ebbero, non soltanto a dimezzar le terre d'ogni circondario, come avevano fatto cogli _ospiti_ Eruli o Goti, per costituirne le corti signorili e libere; ma furono spossessati, e costretti a dare il terzo del ricolto; e non più allo Stato, ma a ciascuno de' Longobardi, cui ciascun Romano era toccato. Ridotti ad _aldj_, cioè manenti o terziatori o coloni, in somma tributarj, la qual condizione era per essenza opposta a quella di libero, più non possedevano che precariamente, non potevano sposar donna libera, non militare, non procedere ne' tribunali; chè tanto importava pei Barbari la parola tributario. Nelle altre conquiste i beni delle chiese restarono intatti: ma i Longobardi, essendo eretici, non rispettavano il clero cattolico[131]. Questo totale spossessamento de' nobili, cioè de' possidenti, senza ambiguità asserito dal panegirista de' Longobardi, vien negato da taluni perchè in Gregorio Magno ricorre menzione dei nobili di Milano e d'altre città[132]. Ma oltrechè la curia romana seguiva nelle lettere le formole consuete[133], anche quando aveano perduto il senso, quel pontefice non riconosceva l'occupazione de' Longobardi nè lo spogliamento de' vinti; onde operava siccome una cancelleria de' giorni nostri che continuasse a salutare per regia la stronizzata stirpe de' Borboni; o siccome essa curia romana, che fin oggi nomina i vescovi d'Antiochia o di Laodicea. Allegasi pure una Teodota, di _stirpe senatoria_, la quale non potè sottrarsi alla libidine di re Cuniberto, e pianse il rapitole fiore nel monastero di santa Maria della Posterla a Pavia. Poi, al cessare della dominazione straniera, compajono ricchi possessori viventi con legge romana, cioè d'origine italica. Vogliasi però riflettere che, anche dai paesi occupati alla prima invasione, molti natii rifuggirono alle isole, sulle coste, fra i monti; e prima d'uscirne poterono patteggiare coi vincitori, conservando titoli e possedimenti. Più dovette ciò frequentare nelle terre assoggettate in tempi successivi, quando i Longobardi avevano deposto la primitiva fierezza; e i natii nell'arrendersi poterono riservarsi parte degli antichi diritti. Altri ancora si vennero a piantare sulle conquiste longobardiche da terre che mai non erano state soggiogate, massime dappoichè i dominatori si mansuefecero, e che la dominazione passò ai Franchi. Tali accidenti bastano a spiegare la menzione che accade di gente romana, di nobili, di senatori: il qual titolo ad ogni modo poteva indicare soltanto un grado personale, non mai di origine. Nessuna dunque, o poca gente libera rimaneva sulla campagna occupata, mutandosi i possessori in coloni, e i lavoratori in servi della gleba. Numero maggiore di liberi sopraviveva nelle città, dove, essendo divisi in scuole d'artigiani, non cadeano spicciolati in dominazione di particolari, ma in masse numerose erano distribuiti a duchi e re. Al possessore d'un campo, che caleva di conservare gli uomini a quello affissi? morendo essi, rimaneva il fondo[134], e si poteano trovargli altri cultori; mentre il perdersi degli artigiani deteriorava ed anche distruggeva il frutto che ne traeva il vincitore cui erano tocchi in sorte. Egli dovea dunque far opera di conservarli: pure nulla ne sappiamo di positivo, se non forse che gli abitanti della città furono gravati di doppia imposta, cioè una diretta (_salutes_) ed una sull'industria[135]. Certo è che di questa gente vinta non parlano mai le leggi longobarde: silenzio ingiurioso, eppure da questo volle alcuno argomentare che i Longobardi la lasciassero vivere coll'antica legge patria. Di fatto, tra alcuni germanici conquistatori troviamo che la legislazione non riguardava tutti coloro che abitassero una regione, ma seguiva la persona: e mentre oggi, chiunque si stabilisce in un paese, sottopone sè e l'aver suo alle leggi da cui quello è regolato, poca o nessuna differenza intercedendo da cittadini a forestieri[136]; allora, al contrario, la legge patria serbavasi dall'uomo libero, dovunque egli si trovasse. Tale uso dovette introdursi dai Germani sol quando si sparsero sulle terre conquistate; giacchè sul territorio medesimo trovandosi unite differenti schiatte pel solo accidente dell'essersi drizzate alla medesima impresa, non v'era motivo perchè una stirpe dovesse rinunziare alle consuetudini degli avi, e sottomettersi a quelle d'un'altra. Prova ne sia che in ciascun paese troviamo ammesse tante leggi, quanti erano i popoli invasori. Così non pare costumassero i Longobardi: anzi talmente furono intolleranti d'ogni altro diritto dopo invasa l'Italia, che obbligarono a partirsene i Sassoni ausiliarj, perchè non vollero acconciarsi all'unità[137]; Rotari impone espresso che «se qualche Romano venga da paesi forestieri, s'uniformi alla legge longobarda, salvo se altrimenti impetri dalla clemenza del re». Questo cenno non concerne il popolo vinto, ma chi veniva di fuori; e indica che il privilegio non era inusato. Coll'andare del tempo si moltiplicarono i contatti degli invasori coi popoli rimasti; i Longobardi rimisero della primitiva ferità, massime dopo convertiti al cattolicismo; onde allora fu forse consentito ad alcuno avveniticcio di conservare la legge nazionale[138]. Quando poi nel paese nostro si assisero i Franchi e Tedeschi, ognuno conservava il proprio diritto; dal che nasceva grande varietà, e per conseguenza ne' contratti o giudizj si specificava sotto quale vivessero i contraenti o i giudicati. Da ciò le così dette _professioni di legge_[139]: sotto il qual nome di legge non intenderei veruno speciale e prefinito corpo di istituzioni, ma in generale il diritto, le consuetudini, annesse al fondo che i contraenti possedevano. Indietreggiando quest'uso ai primi tempi della conquista, alcuno asserì che i Longobardi lasciassero in arbitrio di ciascuno lo scegliere secondo qual legge volesse vivere. Ma qual tirannide sarebbe cotesta, dove il vincitore permette ai vinti di entrare a parte de' suoi diritti medesimi? di porsi, pur che lo vogliano, nella classe de' dominatori? Poi, che cosa significherebbe cotesto vivere a legge romana? una legge suppone uffizj e attribuzioni, che la conquista aveva cancellato. L'essere i nostri divenuti tributarj e dipendenti da un altro popolo, introduceva relazioni affatto nuove: come poteano quelle venir regolate colla legge romana? come sussisteva questa, dacchè erano cessati coloro che poteano secondo le occorrenze modificarla? Poi, è costante fra i Barbari che la podestà giudiziale stia congiunta col militare: esclusi i Romani da questo, come potevano quella ottenere?[140] Le pene, che presso i Barbari si riducono per lo più a multe e composizioni, come applicarsi al Romano, le cui leggi vanno su tutt'altro piede? Se fosse vero che i Longobardi lasciassero la legge antica ai vinti, a chi avrebbero questi potuto ricorrere perchè un vincitore fosse punito dell'omicidio o d'altra violenza? se si fosse punito il Longobardo colla multa, e il Romano con pene afflittive, non si stabiliva già un'enorme differenza? e avrebbe potuto testar il Romano, e non il Longobardo? sarebbe rimasta in tutela perpetua la donna longobarda, e non quella del vinto? come risolversi le liti de' Romani per testimonj e prove, quelle de' Longobardi per duello e per altri giudizj di Dio? e ciò in un paese solo, sotto l'autorità di un medesimo re! Il diritto suppone la forza di proteggerlo: e i Romani aveano da un pezzo dismesse per uso le armi; allora gliele toglieva la costituzione de' vincitori. Tra le leggi longobarde, una del 727 di re Liutprando stanzia che, chi fa un contratto, dichiari secondo qual legge intenda stipulare: dal che pure si volle argomentare restasse libera ad ognuno la scelta della legge[141]. Ma si rifletta che, anche secondo il gius romano, v'ha atti, la cui erezione non interessa direttamente lo Stato, e perciò i cittadini possono in essi preferire quali formole e modi più vogliano. Appunto simili contratti privati ha di mira Liutprando quando ordina che, nel formolarli, i notari s'attengano al diritto delle parti, senza però escludere speciali convenzioni fra esse, nè quelle regole secondarie, da cui ciascuno può innocuamente dipartirsi. Tant'è ciò vero, che pari facoltà non accorda pe' testamenti, attesochè questi sono di pubblico diritto. Liutprando inoltre veniva assai dopo la conquista, e tendeva a introdurre nel gius longobardo quanto potesse convenirgli del romano: laonde permetteva a' suoi di ricorrere a questo più ampio e scientifico, per via di accordi reciproci davanti a notari; al tempo stesso faceva arbitrio ai Romani contraenti di valersi della legge propria, anzichè della longobarda come prima sembra fossero obbligati. È un passo verso l'eguagliamento delle due stirpi: ma non indica in verun modo che la vinta conservasse il patrio diritto; attesta anzi che, fin allora, si era usato il contrario. Molto più tardi, vertendo lite fra papa Eugenio II e il popolo di Roma, l'imperatore Lodovico il Pio mandò alla città suo figlio Lotario, «acciocchè la pace col nuovo pontefice e col popolo romano stabilisse e confermasse». Lotario in tale occasione emendò lo statuto del popolo romano coll'assenso del pontefice[142]; e un capitolo d'essa riforma ordina s'interroghi il senato e il popolo romano con qual legge vogliono vivere, e questa si conservi, o se la violano ne siano puniti. Ma primieramente questo è caso speciale, e non si riferisce che a Roma e al suo ducato, non mai conquistati, ove dunque duravano le magistrature all'antica, e sempre erasi conservata la legge romana[143]; sicchè l'orgoglio de' Barbari non restava leso dal dover rinunziare alla propria. Probabilmente poi fu data la scelta per quell'unica volta, quando trattavasi di dettare una legislazione nuova; e optato per una legge, a quella dovettero attenersi anche i discendenti. Sta dunque, che i vinti italiani non parteciparono al diritto del vincitore se non taluno per privilegio: tant'è ciò vero che, ogniqualvolta la voce de' conquistati può farsi intendere, esprime lamento perchè non siano accomunati anche a loro i privilegi dei dominatori. Abbiam veduto nelle legislazioni barbare alle ingiurie o all'uccisione d'un uomo esser decretato un prezzo differente (_guidrigildo_), secondo il grado di esso, o la maggiore o minor parte che godeva di cittadinanza. Ne' Franchi l'uccisione d'un cittadino scontavasi col doppio prezzo, che non quella d'un romano possessore: ne' Ripaurj, ducento lire per un cittadino, censessanta per un forestiero germanico, cento per un romano. È una distinzione ingiuriosa, che però, mentre attesta l'inferiorità del vinto, mostra che sussistevano persone romane, formanti parte dello Stato, a segno che il legislatore dovea toglierle in contemplazione. Ma nei Longobardi nessun guidrigildo si trova stabilito pei Romani: il che conferma fossero ridotti alla condizione di aldj, cioè cosa di un padrone, al quale toccava il rifacimento dei danni loro[144]. Non per clemenza dunque, ma per condanna il longobardo legislatore avrebbe lasciato vivere il Romano secondo la propria legge; poichè così lo privava delle cure giuridiche e di tutti i diritti annessi alla qualità di cittadino. I Romani antichi, nulla statuendo sulle nozze de' plebei, poi degli schiavi, le avevano in conto di meri concubinati, spogli di civile legittimità: altrettanto era in quelle degli Italiani sotto ai Longobardi, rispettate solo dalla Chiesa che le benedicea. Così argomentate degli altri contratti. E se pur fosse che porzione delle leggi romane continuasse ad aver vigore, dovette esser solo di gius privato, non trovandosi magistrati che le applicassero, nè sanzione. Diverso il caso per gli ecclesiastici. Tra essi il tipo giuridico universale prevalse in ogni tempo sopra il locale; nè le leggi canoniche, modellate sulle romane, mettono divario di paese o di razza; poi conservavano curie proprie, davanti alle quali essi facevano i loro atti, dibattevano e risolvevano da sè i loro litigj, non mancando neppure di mezzi per far eseguire le sentenze. Pure anche i cherici seguivano forse generalmente la legge della propria nazione, e alla romana s'attenevano solo nelle cose ecclesiastiche, e massime ne' privilegi concessi dalle costituzioni imperiali[145]. Certo in Italia ricorrono frequenti prove di diritto longobardo seguito da conventi e da cherici; il privilegio dei quali consisteva forse soltanto nel potere, se romani, dalla condizione di aldj passare a quella di cittadini longobardi. Però, in causa appunto di tale trascuranza de' vincitori verso i vinti, crede alcuno che sussistesse un reggimento municipale, per quanto alterato dall'organamento militare de' Longobardi. Ma già vedemmo a qual nullità fossero ridotti i municipj sul fine dell'Impero, quando la più gran cura mettevasi nel buttarsene di dosso i gravissimi pesi: poi fondamento e scopo ne erano i tributi, e questi mutarono affatto natura colla conquista de' Barbari. Sotto i Goti, si rammentano ancora in Italia e curiali e magistrati conservatori della pace[146], perchè quella gente, o per origine o per lunga convivenza, avevano adottato assai maniere romane; in qualche formola de' Franchi vedesi alle curie attribuito il registrare alcuni atti: ma ne' paesi sottoposti ai Longobardi, neppur sì poco compare. Se fosse poi vero che i vinti restassero ripartiti fra i vincitori, cessava di necessità ogni interesse comune, fin quelle cure di ponti, di strade, di beni pubblici, alle quali si restringe il municipio. Ciò vale pei Romani conquistati e ripartiti. Ma mentre i Longobardi, pochi in numero fin da principio, poi assottigliati nelle guerre continue di due secoli, e sistemati a modo d'esercito, tenevansi aggruppati intorno ai castellari, più confacenti all'indole loro che non le città, la remota campagna e massime i monti restavano alla popolazione indigena, e questa poteva aver conservato qualche ordinamento municipale. Alla romana continuarono a regolarsi le città a mare, e quelle dove Goti e Longobardi non penetrarono o per poco. Quattro o cinque secoli più tardi, venne un istante che le città, dominate o no dai Longobardi, si trovarono riunite nella lega di Lombardia, Marca e Romagna, ed in esse apparvero forme a un bel circa eguali di governo municipale. Ora, chi rifletta che eguali pure le aveano allorchè furono côlte dagl'invasori, inclina a credere che anche le soggiogate dai Longobardi mantenessero alcun modo di reggimento municipale. Invano però se ne cercherebbe vestigio; nè la condizione dei vinti è possibile indagare nelle leggi che riguardano soli i vincitori, per quanto questi fossero portati a venerare in quelli la dignità del sacerdozio o la superiorità del sapere, e fin costretti di valersi di loro per notari e per compilare le leggi. Chi voglia vedere il popol nostro, lo cerchi ne' mestieri della pace e nella coltivazione de' campi, rimasta agl'inermi. Forse, al modo che i vincitori erano disposti per razze, così i vinti erano per _scuole_ di mestieri, tenute solidalmente garanti del tributo che si doveva al duca o al re. Nessuno dubiterà che il commercio non patisse fra quelle invasioni; pure non perì affatto, tanta n'è la vitalità; tanto, più de' gravi disastri, gli nuociono gl'improvvidi regolamenti e la sistematica tutela. Teodorico avea procurato favorirlo, destinandovi prefetti in Italia e giudici che spacciassero le liti tra forestieri e paesani, riparando le strade e assicurandole da' masnadieri, allestendo fin mille navi pel trasporto delle merci e la sicurezza delle coste, e allettando negozianti con promesse ed immunità. L'anonimo scoperto dal Valois riferisce di fatto che molti venivano di fuori a mercatare in Italia; che di grani, vini, legumi vi si facea baratto: e le minute cure prese da quel Governo, fin a tassare i prezzi delle merci[147], manifestano economica inesperienza piuttosto che trascuranza. Neppure sotto i Longobardi si cessò d'ogni commercio; anzi andavamo alle fiere di Parigi, ove scontravamo mercadanti sassoni, spagnuoli, provenzali, franchi[148]. Ben è vero che i dominatori introdussero un impaccio, appena tollerabile alla fiacchissima servilità odierna, cioè i passaporti di cui doveva essere munito chiunque andasse per affari[149]. Abbiamo pure un'incidentale menzione dei _magistri comacini_, architetti o maestri di muro, provenienti dai contorni del lago di Como, che forse per l'abilità loro furono esentati dall'universale ripartizione e dal tributo servile, onde rimasero eguagliati ai liberi, e capaci di pattuire e ricever mercede, ed ebbero licenza di unirsi in una specie di consorzio[150]. Troviamo inoltre costruttori di navigli che re Agilufo mandò al kacano degli Avari. Di medici cade anche frequente menzione nelle leggi, ma nulla consta del loro stato civile. Un pittore Auriperto in Lucca, caro al re Astolfo; un Orso, che co' suoi scolari Giovino e Gioventino scolpì due colonnette del tabernacolo di San Giorgio in val Pulicella, sono i soli ricordi d'artisti; eppure altri servirono ai tanti edifizj di Teodolinda e dei posteriori. Costoro tutti noi incliniamo a credere appartenessero al popolo vinto. Però col volger del tempo si diedero alla mercatura anche Longobardi, giacchè le leggi d'Astolfo vogliono che i mercadanti si tengano anch'essi allestiti d'arme e cavalli, e vietano sotto pena del guidrigildo (pena meramente longobarda) ai mercadanti del paese di aver affare coi Romani, cioè cogli abitanti dell'Italia non soggiogata[151]. Il popolo vinto può riscontrarsi anche nelle _gilde_, specie di fraternite che si formavano onde soccorrersi in caso d'incendio o d'altri sinistri, e che forse alcuna volta metteano ostacolo alla brutale prepotenza. Singolarmente il popolo vinto sussisteva ed aveva rappresentanza nella Chiesa, radunandosi per eleggere i vescovi[152] e i parroci suoi, e affezionandosi ai preti e ai monaci, i quali usciti dalla classe degli oppressi, gli oppressi proteggevano e consolavano. Fra questi gli affari ecclesiastici si regolavano colla legge romana, e il Longobardo li lasciava risolvere gl'interni litigi davanti alle curie vescovili. Ora gli ecclesiastici erano fratelli, figli, congiunti del popolo indigeno, e poteano insinuare i principj d'ordine, speciali alla classe loro. Era tenuta per vera una costituzione di Costantino, infirmata solo dalla più tarda critica, la quale prescriveva, se alcuna lite fosse recata a un vescovo da una parte, l'altra parte dovesse stare al giudizio arbitrale di questo. Il conquistatore non la riconosceva legalmente; ma gli ecclesiastici se ne facevano appoggio, e — Il conquistatore non vi curò? ebbene, quando insorga dissidio fra voi, rimettetelo in noi, e coll'equità lo ragguaglieremo. All'ordinamento del Comune, alla polizia il Longobardo non provvide? provvedete voi, secondo le consuetudini di cui avete la tradizione. Quest'irrequieto dominio v'interrompe ogni commercio? ebbene, un giorno la settimana venite al convento, e lì sul sagrato raccoglietevi a comprare e vendere, protetti dall'ecclesiastica immunità. V'insegue il prepotente a spada nuda? dal furor suo ricoveratevi agli asili, che vi apriamo ne' luoghi sacri. Voi, sebbene vinti, siete i buoni credenti, mentre costoro sono ariani; voi siete i figli di Dio in cielo e del papa in terra, il quale vi benedice, mentre riprova la _schifosissima_ e _nefandissima_ stirpe de' Longobardi». Così intorno all'ecclesiastica, unica autorità paesana sopravissuta, raccoglievansi le speranze e i diritti dei superstiti italiani, e v'acquistavano qualche ordinamento. In ciò nulla v'è per certo che indichi una città, un reggersi a Comune: ma il popolo sussiste, ed è collegato ad una classe rispettata anche dagli invasori, e si solleverà se mai questa arrivi ad ottenere qualche rappresentanza. Veniva di ciò a vantaggiarsi la potenza de' vescovi, sostenitori del partito nazionale[153]; tanto più che formavano un'unità con tutti i vescovi d'Occidente, e ad essi dirigevansi i papi, e principalmente Gregorio Magno. Duranti le pubbliche calamità eccitava egli i vescovi a convertire i vincitori ariani[154]: — La fraternità vostra esorti dappertutto i Longobardi, che, sovrastando grave mortalità, conciliino alla vera fede i figli battezzati nell'arianismo, affine di placare la collera dell'Onnipotente. Quanti potete, strascinate colla persuasione alla fede retta, predicate loro senza posa l'eterna vita, acciocchè quando comparirete al cospetto del Giudice possiate mostargli il frutto del vostro zelo». Scrisse anche a Magno prete milanese, confortasse clero e popolo ad eleggere un successore al vescovo Onorato. Magno si condusse a Roma con lettera, dov'era annunziato che i voti concorreano in Costanzio. La lettera non era sottoscritta, perchè i cattolici temeano compromettersi: pure il papa confermò l'eletto, dispensandolo, secondo il privilegio della chiesa ambrosiana, dal venire a' suoi piedi per l'ordinazione; voleva però fosse udito il parere anche dei Milanesi rifuggiti a Genova. Assentendo questi, Costanzio fu vescovo. Lui morto, dovea succedergli Diodato: ma poichè Agilulfo pretendea darne un altro di sua scelta, Gregorio scrisse ai Milanesi di rimaner saldi, ch'egli non accetterebbe mai uno prescelto da acattolici o longobardi. — D'altra parte (soggiunge) non vi troverete a ciò ridotti dalla necessità, attesochè i beni dei chierici che servono a sant'Ambrogio, stanno in Sicilia e in altre parti indipendenti»[155]. Nella Chiesa dunque erasi rifuggita la causa della libertà e della nazionalità; e ve la troveremo gran tempo. Allora poi che Teodolinda diede trionfo al cattolicesimo, quel che i vescovi in prima facevano arbitrariamente fu legalmente riconosciuto, continuando essi a decidere in affari di volontaria giurisdizione, salvo a recar appello delle loro sentenze al re. Non acquistarono però mai veste pubblica, nè furono ammessi alle assemblee, fin al tempo di Carlo Magno. Moltiplicaronsi in quel tempo i monasteri, ad alcuni dei quali, come alle possessioni de' vescovi, fu concessa l'immunità, vale a dire giurisdizione indipendente. E stantechè teneano sotto di sè molte persone, coloni o dipendenti, pei quali erano obbligati dare la _vadia_ o malleveria, e in caso di delitti pagare per essi, perciò acquistavano sopra di essi il _mundio_, tutela longobarda che così introducevasi nella legislazione ecclesiastica. La vadia da alcuni si prestava alle città, da altri al re; e questi erano i più stimati, sicchè l'abate loro appena la cedeva in dignità a giudici e gastaldi. Il re stesso talvolta esimeva alcun monastero dalla giurisdizione degli Ordinarj; altri esentava da dazj, che così venivano a formare repubblichette indipendenti. Noi siamo dunque alieni da coloro che pensano, Longobardi e Romani si fondessero in un popolo solo, d'eguali diritti politici. Qual ragione perchè i longobardi padroni volessero rinunziare ai privilegi proprj? L'Italia era per essi una preda, non una patria; il loro un dominio militare, che si mantenne, non si consolidò: e stettero due secoli sul suolo nostro, come da tanti stavano i Turchi sulla Grecia, e i signori magiari sulla turba plebea della Pannonia. I principi loro intitolaronsi sempre re de' Longobardi; Longobardi soli intervenivano a sancire le leggi: le quali leggi essendo destinate unicamente ai vincitori, convincono che mai questi andarono confusi coi vinti. Anzi, a prevenire l'accomunamento, la legge impediva i matrimonj; nè soltanto coi vinti, avvilimento che la legge repudiava, ma neppure coi Romani de' paesi non soggiogati, ai quali soli io riferisco quello statuto che, se un Romano sposa una Longobarda, questa scada dai diritti suoi, e i figli loro restino ridotti alla legge paterna[156], cioè non godano i privilegi della nazione dominatrice. Pure la vita sociale non regge a canoni interamente esclusivi, nè è mai compiutamente d'un sistema o dell'altro: ed alcuni fatti indicano come potesse avviarsi la mistione. I Longobardi soleano arrolare negli eserciti i servi[157]: era dunque aperta a questi, fosser anche di gente romana, la strada al valore, e per esso a gradi, sebbene non ai primarj. Se fosse vero che il servo redento seguisse la legge di quel che lo aveva emancipato, sariasi avuto un altro modo pei vinti d'entrare nella società dei vincitori: ma altrimenti va interpretato il testo, cui appoggiano questa congettura[158]. Bensì alcuni affrancati ottenevano terre a modo di liberi livellarj, o davansi a mestieri non servili, col che ampliavasi un terzo stato. I membri del clero, che nelle cose ecclesiastiche seguivano i privilegi romani, nelle civili erano pareggiati ai Longobardi, quantunque nati romani, e godeano del guidrigildo, e potevano accertar la verità colla punta della spada. Il Longobardo stesso s'affezionò alla sua _sorte_, cioè al campo toccatogli; ed agli aldj affissi a questo consentì diritti, e più tardi anche un guidrigildo, e il poter disporre del proprio peculio. Ma se mai la repugnanza nazionale e religiosa, e la superbia dei conquistatori lasciò qualche varco ai vinti per acquistare i diritti dei vincitori, ciò non fu se non dopo i tempi di Liutprando, quando un diritto men fiero erasi introdotto, arricchito dal più ampio e scientifico che i Romani aveano tramandato, e che veniva a riportare una vittoria intellettuale sopra quelli che coll'alabarda aveano distrutto la romana cittadinanza. CAPITOLO LXIV. La Chiesa in relazione coi popoli e coi nuovi dominj. San Benedetto e i monaci. Il lettore ha potuto avvedersi dell'importanza che, nella civiltà nuova, acquistava una potestà tutta morale, costituita sopra la convinzione, la riconoscenza, il sentimento; vogliam dire la potestà ecclesiastica. Noi dovremo lungamente occuparcene, e tanto più per la somma parte che ebbe nelle vicende dell'Italia dove teneva la sede, e a cui conservava quella centralità e quella supremazia, donde sarebbe scaduta allo sfasciarsi dell'imperio romano. I miracolosi primordj suoi, e come si fosse introdotta nel civile ordinamento, abbiam divisato. Gl'imperatori, che fin a Graziano seguirono a intitolarsi pontefici massimi, come tali avocarono a sè molti diritti, che da principio la Chiesa esercitava quale società non autorata: laonde, benchè indipendente nell'interno, nell'esteriore essa appariva subordinata; l'imperatore interveniva a tutto; per tutto chiedevasi il suo assenso; egli dirigere col comando o colla raccomandazione i vescovi, egli confermarli, egli convocar concilj, egli assistervi, egli decidere perfino delle materie in essi trattate, e ordinare l'esecuzione dei loro decreti; talmente il Governo rimaneva pagano anche dopo convertiti i principi. Eppure quell'assenso, questa conferma attestavano la forza acquistata dalla Chiesa, le sue conquiste più che la suggezione. Poi via via che il potere temporale fiaccavasi, l'ecclesiastico s'assodava: e collo sciogliersi dell'Impero la Chiesa occidentale, rimasta in piedi nella ruina universale, dismesse le abitudini di servilità e sola avendo elementi di durata nello sfasciamento di tutte l'altre istituzioni, raddoppiò di sforzi per abolire il vecchiume pagano e educare i popoli nuovi. Nel fervore d'una recente missione, colla usucapione più legittima assumeva quanto era abbandonato dallo scoraggiamento de' laici; e robusta di gioventù, salda di convinzioni, operante su tutta la vita, prevaleva alla decrepita romana. Unico argine al torrente della forza materiale, a questo opponeva il concetto d'una regola, d'una legge superiore alle umane; e francheggiava la libertà della coscienza da sorde insidie e da aperte violenze. Qual benefizio che alcun ordine rattenesse il generale scompiglio; che alcuno parlasse a coloro, per cui Roma non aveva avuto che insulti e paure! Preti inermi uscivano tra quelle orde, e col battesimo ispiravano loro qualche idea di umanità, sospendevano la scimitarra mostrando un fratello in quello al cui capo era vibrata; senza interesse nè speranze terrene, confortante spettacolo, si diffondeano dappertutto, e collegavano i popoli alla Chiesa per via della carità; parola intesa dal popolo che vi riconosce una virtù più che umana; parola che fa amare la religione da cui è ispirata. Il Barbaro, che gli avea veduti affrontare oscuri pericoli per annunziargli la verità fra le selve natìe, li trovava poi dinanzi alle città assalite per proteggerle colla croce, o accanto al prigioniero, al ferito, all'oppresso, per alleviarne le sofferenze; gli udiva parlare in nome di una potenza superiore agli odj e inattaccabile dalla forza. Nè dalla forza poteano esser domiti que' conquistatori, avvezzi a tutto spezzare colle mazze ferrate; non poteano essere inciviliti da una letteratura che disprezzavano o non comprendevano: ma ecco farsi loro incontro il clero, sfolgorante della pompa che tanto può sulle rozze fantasie, con una gerarchia salda e concorde, con una fede che non chiedeva sottigliezze di ragionamenti, ma imponeva credenze semplici, e restava confermata da una morale, la cui santità essi doveano sentire anche violandola; un clero, ordine nuovo superiore, cernito fra tutti gli altri, senza distinzione da libero a schiavo, da romano a barbaro, che non opponeva armi ma discorsi, non irritante vilipendio ma commoventi persuasioni, e in nome di Dio intimava cessassero di sterminare gli uomini, perchè _guai a chi disprezza un solo de' più piccoli!_ Mentre rialzava i vinti al cospetto de' vincitori, anche a questo esso prestava servigi; interponevasi come mediatore utile ad entrambe le parti; co' suoi privilegi, coi benefizj, fin colle usurpazioni contribuiva a sminuire i dolori sulla terra, a difendere l'uomo contro la debolezza o la passione propria, a migliorare la vita sociale e la domestica. Persino le pie leggende istillavano compassione e rispetto alle vite, siccome quelle che già vedemmo relative ad Attila, Alarico, Odoacre. I Longobardi, preso un diacono appo Nocera, il voleano scannare; ma prete Santulo impetrò lo commettessero alla sua custodia, offrendosene mallevadore col proprio capo. Appena vide addormentati i Longobardi, indusse il diacono a fuggire, poi si diede spontaneo ai nemici. E questi il condannarono a morire: ma il manigoldo restò col braccio feritore in alto, finchè il santo istesso gliene rese il moto, dopo fattogli giurare che mai non se ne varrebbe a dar morte a verun cristiano. Allora i Longobardi, a gara di chi più, offrirongli bovi e cavalli predati; ma egli: — Mi volete gratificare? datemi gli schiavi fatti, ed io pregherò per voi»; e tutti li rimandarono seco[159]. Altra volta l'abbate Sorano ai prigioni fatti dai Longobardi dà quanti viveri si trova nel convento, fin gli erbaggi dell'orto; poi non avendo denari da saziarli, è ucciso. La pietà data ai pazienti, il terrore ispirato da que' miracoli, rabbonacciavano gli oppressori. A petto ai nuovi regnanti la Chiesa cambiava posizione; e rimanendo unico potere costituito dopo prostrati gli altri tutti, aveva il vigore ed ispirava il rispetto proprio dell'ordine; ed associando le due potenze che fondano e mantengono gli Stati, forza ed ingegno, campò l'Italia e l'Europa da una barbarie assoluta. Attesochè agl'invasori, padroni di tante provincie, non bastasse più l'ordine legale suggerito dai bisogni delle piccole tribù, la Chiesa si accinse a provvederli di un nuovo; onde poterono anche nei Governi insinuarsi le massime evangeliche dell'amor del prossimo, dell'umana fraternità, d'una giustizia e di una morale anteriori e superiori a qualunque diritto positivo, dell'obbedienza che al Creatore devono e sudditi e regnanti. Cassiodoro, a nome dei re goti, nel 534 scriveva a papa Giovanni II: — Voi siete guardiano del popolo cristiano; voi col nome di padre ogni cosa dirigete. Pertanto la sicurezza del popolo è in cura a voi, cui fu dal Cielo affidata. A noi conviene custodir alcune cose, a voi tutte. Spiritualmente pascete il gregge affidatovi, nè però potete trascurare ciò che spetta al corpo; attesochè, constando l'uomo di doppia natura, un buon padre le deve entrambe favorire». Regolata la gerarchia, introdottasi nella vita civile e a parte del potere, non fu possibile alla Chiesa mantenere la povertà di quando vivea delle offerte recate all'altare, dividendole coi poveri. Dopo Costantino, le società religiose poterono giuridicamente avere sode proprietà e accettare legati; Costantino medesimo lentamente provvide la basilica dei santi Apostoli; a molte furono assegnati i beni che prima servivano al culto pagano; ad altre, porzione dei terreni comunali; e siccome anticamente non faceasi testamento senza qualche legato all'imperatore, così ogni cristiano alla Chiesa volea lasciare un testimonio di pietà. Nè questa era sempre prudente, e alcuni abbandonavano i parenti nel bisogno per assicurarsi i suffragi: lo perchè Valentiniano I vietò al clero di ricevere legati da donne; poi fu proibito a preti e monaci l'ereditare; ove san Girolamo rifletteva, non dolersi della cosa, bensì dell'essere meritata. Se gli ecclesiastici avessero potuto legare ai proprj parenti o distrarre i beni ricevuti per servizio della Chiesa, i devoti sariensi veduti costretti a sempre nuove dotazioni; perciò gl'imperatori tolsero ai sacerdoti il disporre per testamento dei beni acquistati. Che ne seguì? i loro possedimenti aumentarono a dismisura; ma di rimpatto le elezioni restavano più indipendenti dai laici quando non era mestieri vivere delle costoro limosine; oltrechè quei tesori erano un fondo per soccorrere poveri, alzar chiese, decorare il culto, alimentare parroci di plebi povere e remote[160]. Per lungo tempo sacerdoti e vescovi non vestivano diverso dai secolari; tanto che sant'Ambrogio alcune volte era scambiato per suo fratello Satiro, egli vescovo per un laico[161]. La veste talare e la cappa che i sacerdoti conservano fin oggi, erano consuete ai filosofi e a chi non affettava pompa; ed unico distintivo, fuor della chiesa, fu il radersi i capelli, lasciandone solo una corona; il color nero non venne di legge che dopo il secolo XIII. I sacerdoti furono anche schiusi da certe professioni, indi da tutti gli impieghi secolareschi; poi più regolarmente obbligati al celibato. Nelle persecuzioni si sentì la necessità di rinserrare i legami; laonde le plebi campagnuole, dirette da corepiscopi, si aggregarono a quelle de' capoluoghi, e si formarono in diocesi. Allora, a curare le campagne fu posto un _plebano_ o _curione_ del clero episcopale, e i vescovi gli lasciavano le oblazioni della propria chiesa, vigilando che non le gravasse nè distraesse. Entrante il V secolo, Roma vantavasi possedere ventiquattro chiese e settantasei sacerdoti: sì scarso era il clero! donde la gran cura perchè nessuno si facesse ordinare fuor di diocesi, nè un prete abbandonasse la sua, o viaggiasse senza dimissoria dell'Ordinario. Nelle città comuni v'aveva una chiesa sola e una messa; due, se soverchia l'affluenza; ma sarebbesi considerata scismatica una riunione di fedeli senza il vescovo. Roma, e forse qualche altra gran città, contavano più d'una parrocchia, con un prete il quale distribuiva l'eucaristia consacrata dal vescovo; nè potea scomunicare o assolvere. Lo sconcio di mandar attorno le sacrosante specie fece permettere la consacrazione anche ai plebani, che infine amministrarono pure gli altri sacramenti, eccetto l'ordine, la cresima e l'assoluzione d'alcuni casi; regolarono tutti gl'interessi spirituali della propria chiesa; ed essendo d'istituzione divina, non poteano rimoversi che per giuridica sentenza. Ordinariamente il più vecchio dicevasi arciprete, somigliante al vicario generale d'oggi. Gli arcidiaconi, braccio destro del vescovo, amministravano i beni della cattedrale, ne distribuivano le limosine, presentavano gli ordinandi. Già nel IV secolo troviamo nella Chiesa latina, diaconi, suddiaconi, acoliti, esorcisti, ostiarj: gerarchia, nella quale si determinavano sempre meglio i doveri, gli onori e la graduale giurisdizione. Concentrata l'autorità ne' vescovi, questi furono obbligati alla residenza, e a non rimanere assenti più di tre settimane; e paragonando l'episcopato ad uno sposalizio, gli si applicò la legge del divorzio, proibendo il mutarsi da una sede all'altra, quando nol prefiggesse il bene universale: troncando così le brighe per posti migliori. Doveano poi girare la diocesi, nel che univasi all'interesse delle anime il materiale, poichè allora dalle chiese forensi raccoglievano le oblazioni depostevi nell'annata. Sul principio non appare gradazione tra i vescovi, dipendendo solo dalla sede romana; poi quelli delle varie chiese cercarono forza col sottoporsi a quello della città più illustre per martiri o per fondazione apostolica. Egli s'intitolava metropolita o arcivescovo; era distinto col pallio, striscia che dal collo cade sul petto e fra le spalle; e non aveva superiorità spirituale, ma convocava a concilio i vescovi della provincia, per ciò chiamati suffraganei; li consacrava prima che entrassero in funzione, rivedeva le decisioni loro, vigilava sulla fede e la disciplina di tutta la provincia. Morto un vescovo, il metropolita destinava un sacerdote per amministrare in sede vacante, il quale determinava un giorno in cui si radunassero altri vescovi, alla cui presenza il clero proponeva, e l'assemblea dei decurioni e del popolo eleggeva il successore. La nomina non diventava legale finchè non l'avessero approvata i suffraganei, e confermata il metropolita. Il vescovo era di preferenza scelto fra laici o sacerdoti, battezzati e cresciuti nella chiesa stessa, in modo ch'egli conoscesse le sue pecore ed esse lui. Distruggere le reliquie del paganesimo e serbar intemerata la fede, era sua suprema cura: ma la condizione dei tempi gli accollò i pesi, a cui si sottraevano le fiaccate autorità temporali. Il vescovo allora diviene ogni cosa: egli battezza, confessa, impone le penitenze pubbliche e private, scomunica e ribenedice; egli visita infermi, suffraga morti, amministra i beni del suo clero; egli s'applica alle scienze e alla storia, pubblica trattati di teologia, di morale, di disciplina; egli sostiene controversie con eretici e filosofi, risponde a consulti d'altri vescovi, di chiese, di monaci, di privati; egli va a mitigare i Barbari e gli usurpatori, o a sedere ne' concilj; egli riscatta prigionieri, nutrica poveri, vedove, orfani, fonda ospizj e spedali; egli fa da arbitro, da giudice di pace, da ambasciatore; congiunge insomma il potere religioso, il filosofico, il politico. La venerazione traeva spontaneamente le plebi alla giurisdizione arbitrale de' vescovi, i quali consumavano intere giornate a decidere piati, sin de' Pagani; e positiva legge imperiale ordinò ai magistrati d'eseguire le decisioni vescovili. Queste, non facendo distinzion di persone e disimpacciate dalle solennità giuridiche, riconducevano il diritto alla ragione e all'equità, tenendo conto della buona fede più che della stretta parola, de' precetti religiosi e morali più che de' civili, e carità e verità opponendo allo spirito contenzioso. Come patrono de' deboli, il vescovo interponeasi fra il padrone e lo schiavo, fra il padre e i figli, rimediando alle legali iniquità. I Governi municipali erano abbandonati dai decurioni? vescovi e sacerdoti gli assumevano, trovandosi dovunque bisognasse vigilare, dirigere, confortare. Onorato di Novara fortificò alcuni posti a guisa di alloggiamenti militari, per ischermo della sua plebe, quando da Odoacre e da Teodorico era osteggiata. Fu tratto alle chiese il privilegio che i tempj e i sacri boschi idolatri avevano di proteggere i delinquenti. Non era dunque l'ingerenza temporale de' sacerdoti un'usurpazione, non la toglievano ad alcuno, non l'aveano chiesta, non vi furono destinati; nacque il bisogno, e si trovarono pronti, dal cristianesimo traendo e il diritto e i mezzi di far ciò che giova all'uomo. Eppure questo è vulgare tema di declamazioni ai propugnatori di quella che chiamano libertà delle corone. Se all'età nostra convenga mettere non solo ogni potere, ma perfino le coscienze a disposizione di quell'ente astratto che chiamano il Governo, lo discutano i savj, e i non savj lo imparino dall'esperienza. La storia ci mostra che la Chiesa raccoglieva non gli onori ma i pesi del potere, lasciati cascare dell'autorità laica; interponendosi fra i conquistatori e i vinti, a quelli predicava la pietà, a questi la pazienza; offriva tutori alle società rimbambite, consiglieri alle nuove; le ultime qualità fiaccate e disperse dei Romani fondeva insieme colle rozze e robuste de' Barbari; rimediava ai vizj dei primi, educava la grossolanità degli altri; ritemprava la fiacchezza degli intelletti colla severità de' suoi comandi; rannodava le comunicazioni fra le provincie separate; e nello scompagnamento universale ristabiliva il dogma dell'autorità, cioè d'un potere ammesso e consentito dalle anime; mostrava un ordine stabilito, un Governo senza violenza, un sistema unitario e repubblicano, dove la moltitudine non divien confusione perchè ridotta a unità, nè l'unità diviene tirannia perchè è moltitudine. Così la Chiesa si assodava come pubblica podestà, come repubblica morale; vero Governo libero, cioè che non sottraeva dalle regole, ma mutava la cieca sommessione in ragionevole obbedienza, il supplizio in espiazione. Alle maschie fantasie dei Barbari le austere virtù dei monaci destavano ammirazione, e ispiravano alto concetto d'una religione, capace di recare a sì grandi sacrifizj. Durante ancora l'Impero, molti rifuggivano nella solitudine, bisogno delle anime nauseate dalla corruzione o frante dalla tempesta, e così sottraevansi a un mondo che non occupava la loro industria, stomacava la loro ragione, accumulava i patimenti. Era fervore di servir Dio per Dio; non conseguenza di calcoli o artifizj domestici, come quelli che dappoi popolarono i monasteri d'anime annojate e mediocri; pure, tostochè la pace lasciò intiepidire lo zelo, vi si mescolarono umane passioni; e voltate le spalle al mondo per darsi a Dio, tornavasi da questo a quello, brigando, scompigliando, per modo che gl'imperatori dovettero vietare agli anacoreti di venire nelle città. L'Occidente nostro, dedito all'operosità, non prezzò gran fatto l'ascetica esaltazione; quegli stessi che si diedero alla vita monastica[162], non procacciarono tanto la contemplazione e il distacco dalla società, quanto il viver comune nella preghiera, ne' devoti colloquj; non tanto la macerazione e il silenzio, come la discussione, lo studio, la fratellevole operosità. In questo senso fu dettata in Italia una regola che poi prevalse alle altre, e porse indirizzo ai divergenti impulsi della particolare divozione od austerità. Autore ne fu Benedetto da Norcia nello Spoletino (480). Nato riccamente, venuto di dodici anni in Roma a studio, potè comparare l'antica grandezza colla presente abjezione; e tediato d'un mondo sovvertito, ricoverò di quattordici anni, colla nudrice Cirilla, in una caverna a Subiaco, che poi col nome di Sacro Speco divenne magnifica per edifizio e affollata per devozione. Colà mantenuto da miracoli, ignorava persino che giorni corressero; ma ortiche e spine a fatica mortificavano la carne ricalcitrante. Prodigi segnalarono ogni passo del giovinetto, che acquistò nome fra' vicini pastori, indi fra' lontani, tanto che alcuni monaci di Vicovaro il vollero per capo. Negò egli un pezzo por mano fra i troppi bronchi di quel convento; pure alfine accettò, e si accinse vigoroso a riformarlo (510); di che disgustati, essi tentarono avvelenarlo nel calice, ma questo alla sua benedizione andò a pezzi, ed egli esclamò: — Dio vel perdoni, fratelli. Non ve lo avevo detto che non ci saremmo potuti accordare? Cercate un superiore che meglio vi convenga»; e tornò alla solitudine di Subiaco. Ma più non era solitudine. Da presso e da lontano, laici e sacerdoti, villani e cittadini traevano a udirlo e consultarlo e fargli quella riverenza che a santo; Equizio e Tertullo, nobili romani, gli mandarono i loro figliuoli Mauro e Placido, che divennero i primi suoi discepoli; e fondati dodici monasteri là intorno (529), ciascuno di dodici monaci, vi faceva sperimento della regola che ideava. Qui pure bersagliato dall'invidia, ritirossi con Placido e Mauro là dove, dalle sponde della Melfa, Montecassino sollevasi in una delle più deliziose posture, offrendo il prospetto delle amene valli che serpeggiano tra i selvaggi Appennini dell'Abruzzo, finchè si dilatano nella fertile Campania. In questo luogo di mercato (_Forum Casinum_) ancora stavano in piedi il tempio e la statua d'Apollo; e Benedetto, estirpata l'idolatria e raccolti nuovi discepoli, fondò un monastero sull'altura, e non men coll'esempio degli atti che colle direzioni della prudenza vi pose in atto la sua regola. Parrà indegna di attento e spassionato esame questa legislazione, nuova negli annali dell'umanità, e che operò per più tempo e su maggiori individui che non molte altre antiche e nuove? Tutto v'è democratico, tutto elettivo; ogni monaco salire al primo grado; acciocchè la nascita non rechi distinzione, si dimentica pur il nome di famiglia; l'eguaglianza sarà mantenuta dalla comunione de' possessi. In tempo che l'ozio era decoroso, e sordido il lavorare, Benedetto intima alla sua repubblica: — Il far nulla è nemico dell'anima, e per conseguenza i fratelli devono alquante ore occupar in lavori di mani, altre in pie letture; e se la povertà del luogo, la necessità o il ricolto dei frutti li tiene costantemente occupati, non ne stiano in pena, giacchè veri monaci sono se vivono delle proprie mani, come usarono i Padri e gli Apostoli: ma ogni cosa facciasi con misura per riguardo ai deboli». Al quale obbligo adempiendo, i monaci domesticarono i terreni attigui ai loro monasteri: la prosperità de' quali essendo intento comune e trasmesso ai successori, poteano compier opere cui non bastano la vita e i mezzi d'un proprietario; ed uno s'accorgea d'avvicinarsi a un monastero quando vedesse campagne ben colte, anguillari di viti, e frutteti, e rigagnoli ad arte guidati. Le terre loro andavano esenti dalle contribuzioni; non amministrate dalla cupidigia privata, lasciavano maggior agiatezza al villano; talchè come un privilegio guardavasi l'esser messo a servigio d'un monastero. Quando poi deposero la zappa, presero lo stilo e le tavolette (_graphium et tabulæ_) che la regola imponeva a tutti di avere, copiarono libri, e ci conservarono i classici: poscia eressero magnifici chiostri, nei quali si ricoverarono le arti e la letteratura, e ai quali il secolo volge ancora l'ammirazione, dopo dimenticato quanto giovarono al vulgo. L'abate era scelto dai monaci e tra essi; ma una volta eletto, acquistava potere assoluto, sebbene obbligato a interrogare i fratelli ne' casi più gravi. La virtù nuova introdotta nella società da quel precetto del Vangelo _Obbedite ai vostri capi_, fu spinta fino alla più assoluta abnegazione. «Se comando difficile od impossibile sia dato ad un fratello, lo riceva con dolcezza e docilità. Se trascenda affatto le sue forze, l'esponga sommessamente, non inorgogliendo, non ostando, non contraddicendo. Che se dopo la sua rimostranza il priore persista, il discepolo sappia che così dev'essere, e confidando nel Signore obbedisca» (cap. 68). Così ogni volontà individuale era sottomessa a una sola, nè doveva il frate «avere in proprio potere il corpo nè la volontà» (cap. 33). L'abbate comandava, puniva, premiava, mutava di luogo e destinazione, finiva i litigi, castigava i renitenti. Nè però era egli un tiranno, giacchè trovavasi costretto dalle costituzioni del monastero e dalle consuetudini, che si consultavano ad ogni dubbio, e che determinavano le più minute particolarità della vita; come vestire, quando radersi o lavarsi, in che giorni all'erbe e alle fave aggiungere leccornìa di olio o di grasso, o il frugal desco rallegrare d'ova, pesci, frutte. Ai disobbedienti toccava dapprima l'ammonizione, poi la correzione in pubblico, poi la scomunica, cioè l'isolamento nel lavoro e nella preghiera: ai pertinaci il digiuno e anche pene corporali, e per ultimo l'espulsione. Il mutamento più segnalato che Benedetto introdusse nella vita monastica, fu la perpetuità dei voti solenni. Per farli, era necessario conoscere quel che si prometteva, e in conseguenza durare un tirocinio, ove per un anno leggevasi ai novizj più volte la regola, onde assicurarsi che avrebbero e voglia e capacità di sostenerne i pesi; e venivano esercitati in mortificazioni, in esperimenti faticosi, e fin vani e puerili, ma diretti a ottenere il trionfo dello spirito sopra la materia, e la libertà vera che consiste nel padroneggiar le passioni. Il vestire, quale costumavasi nel paese; e per trovarsi pronti al tocco del mattutino, nol deponevano neppur la notte, eccetto il coltello. I frati erano laici, nè lo stesso Benedetto ricevè gli ordini: «che se qualche prete chieda entrarvi (dic'egli), non gli si consenta agevolmente la domanda; se poi persiste, tengasi obbligato alle discipline senza alcuna dispensa». Oppresso dai Longobardi, l'Italiano potea farsi frate, e subito diventava di valor superiore al dominante. È ben naturale che quella società nella società imponesse condizioni a chi vi entrava, e prima era l'eguaglianza, talchè Rachi già re longobardo, e Carlomanno già re dei Franchi restavano indistinti da qualunque altro benedettino. Insomma quella regola era un compendio e un'applicazione del cristianesimo, delle istituzioni dei santi padri, de' consigli di perfezione. Ivi eminenti la prudenza, la semplicità; ivi coraggio e umiltà, libertà e dipendenza, tutto fondato sul sagrifizio, sull'obbedienza, sul lavoro; e di sotto alla severità generale trapela una moderazione, una dolcezza, un retto senso, da supplire a quel che ponno desiderarvi i secoli più colti. Cosimo de' Medici ed altri legislatori aveano sempre alla mano la regola di san Benedetto, tanto l'occhio esperto vi ravvisa secreti di vera economia politica; e i bisogni dell'anima sono armonizzati a tutti i gradi coll'attività necessaria al corpo[163]. Totila, traversando in guerra la Campania, volle vedere Benedetto; e per accertare se veramente e' fosse dotato di profetico lume, si pose indistinto nel corteggio: ma il santo, a lui difilatosi, il rimbrottò delle vendette che usava, e gli predisse vicina la sua fine, intimandogli di prepararvisi con opere di penitenza e di riparazione. Questo ed altri assai fatti ci furono trasmessi da insigni storici che (non ultima fortuna) sortì san Benedetto, cioè Gregorio Magno allora, poi il Mabillon; e le arti belle nel risorgimento, poi nel massimo loro splendore li riprodussero e perpetuarono per tutto il mondo, ma in nessun luogo più commoventi che a Montecassino, cuna ed asilo il più venerato dell'Ordine suo. Qui l'aspetto di fortezza dato al convento, che più volte fu costretto a respingere le incursioni, e più vi soccombette; la lautezza di possessi, attestata dai titoli scritti sopra ruderi antichi, radunativi da ogni parte; la suntuosità dell'edifizio, adorno di quanto san fare di meglio pennello e scarpello; la memoria dei dotti, che ne' secoli più oscuri vi trovarono ricovero; la dovizia di documenti e di libri, fanno mirabile contrasto colla primitiva celletta del santo, e col povero sepolcro ove dormì fin quando la furia saracina non turbò le sue ossa; e l'uomo che ascende lassù tra ammirato, curioso e devoto, può leggervi intiera la storia dell'Ordine, che fu il principale dei tanti che s'introdussero. Quantunque la regola di san Benedetto tendesse a fortificare le anime colla preghiera, col lavoro, colla solitudine, più che alla scienza divina e all'apostolato, i papi vi trovarono i missionanti più fervorosi, e un asilo la scienza; talchè ai Benedettini toccò la triplice gloria di convertire l'Europa al cristianesimo, disselvatichirne i deserti, conservare e riaccendere la letteratura. I conventi diventavano centri d'attività e asili della libertà. Erano (si dice) forse braccia sottratte al lavoro. Erano (dico io) forse braccia tolte al delitto e all'assassinio; e già gran cosa dee parere l'incatenar le passioni e spegnere il vizio in tempi che non v'avea carceri, ergastoli, polizia, e l'altro corredo di cui superbiscono i popoli colti. Il mondo non avea ricoveri, non unione o sicurezza; dove convivere, dove discutere tranquillamente, dove meditare sopra di sè e degli altri? ed ecco i monasteri offrivano una vita tutta sociale, tutta operosa, per isvolgere l'intelletto, propagar le idee, meditare, istruire. Mentre per tutto regnavano la prepotenza e le spade, ciascun monastero gelosamente conservava una costituzione sua particolare, ed eleggeva i proprj superiori e uffiziali, senza impaccio di re o di baroni: ad esse comunanze molti aspiravano partecipare senza legarvisi, come i forestieri in antico invocavano la cittadinanza di Roma; e borghesi e signori offrivansi al convento (_oblati_); facevansi registrare nel ruolo di quello, per partecipare alle preci nella vita spirituale, e ai privilegi nella temporale; e morendo voleano aver indosso l'abito di quell'Ordine, ed essere sepolti nella chiesa o nel cimitero dei monaci. Spiccati dal mondo, i monaci pareano non avere altri avi che gli antecessori loro, altro desiderio che l'ampliazione del convento e dell'Ordine: molti impoverirono non soltanto sè ma i parenti per arricchire la propria comunità; gli atti di donazione conservavansi con somma gelosia; s'arrivò persino a fingerne; e chi rivocasse in dubbio un loro possesso, guardavasi come sacrilego e nemico dei poveri e di Cristo. Ogni convento procuravasi un santo venerato, tesoro spirituale insieme e temporale; i devoti accorrevano a riverirlo, e quasi non dissi adorarlo; il concorso allettava i mercati, formavasi una fiera in sul sagrato, sicura dagli assalti de' masnadieri e dalle avanie del barone. L'abate di Nonantola mandava ogni anno alle monache di San Michele arcangelo in Firenze dodici ancelle con lino e lana per essere ammaestrate al tessere. Gli Umiliati di Milano divennero la compagnia più trafficante in lana e panni. I monaci di san Benedetto Polirono presso Mantova occupavano più di tremila paja di bovi ai campi. Ai Cistercensi è dovuto l'esser ridotte a pinguissima coltura le ghiaje e le paludi del basso Milanese e del Lodigiano. Arricchito, il monastero voleva anche abbellirsi; e le arti, sbigottite dall'ululato barbarico e dall'insulto ignorante, ricoveravano tra' monaci ad erigere chiese, a storiarvi le virtù e i martirj del patrono. Intanto l'individuo vi si conservava povero, sulla mensa non vedeva leccornìe, nulla poteva dir mio; disputossi perfino se fosse proprietà di ciascuno il pane che mangiava: indigenza volontaria, opposta all'orgoglio disumano della ricchezza, non meno che alla stupida disperazione della miserabilità. Mentre dappertutto era confusione d'uffizj e di giurisdizione, colà regnava l'ordine; determinato chi avesse ad obbedire e a comandare, chi copiar libri, chi predicare, chi sopravvedere il granajo, la vendemmia, la cucina, chi raccorre i pellegrini o visitare gl'infermi, chi intonar salmi, chi fare scuola. Delle derrate che dava per obbligo al padrone, il villano non riceveva ricambio; il penzolo d'uva o il covone di grano che spontaneo offeriva ai monaci, veniva restituito ad usura nelle limosine prodigate ai bisognosi; a tacere le piccole attenzioni, i ristori del cuore che nessun denaro ripaga. Mentre la guerra fervea sulle campagne, e due padroni l'un peggio dell'altro si disputavano i campi suoi, qual conforto dovea provare il villano nell'affissarsi alla quiete dei monasteri, e pensare che colà troverebbe in ogni caso un asilo, e la pace che gli armati non sapevano assicurare ai castelli! Una zuppa era pronta per chiunque la chiedesse; e quanti dei nostri padri, spogliati d'ogni avere, saranno vissuti solo del tozzo conceduto dal monastero in nome di Dio! Le spettacolose declamazioni d'una scienza senza viscere contro l'improvvida profusione dei frati, o i sogghigni d'una beffarda leggerezza contro l'ingordigia loro, sono soffogati dai gemiti o dagli urli della poveraglia sempre crescente, quanto più sviene lo spirito cristiano, e l'economia politica si separa dalla carità. Lusingati da quella sicurezza, accorreano artigiani e contadini, e attorno al convento formavasi presto un villaggio; e molte città nel titolo di un santo conservano l'impronta di tale origine. Ivi ancora ricovravansi quei che s'erano disingannati delle terrene grandezze, o che n'erano stati respinti; vedove che col marito aveano perduto il lustro di lor dignità; spose tradite o rejette; femmine rimesse in onestà; dotti delusi nella vanità letteraria; i gran pensieri, i gran dolori, i grandi rimorsi; e tutti vi portavano tributo di ricchezze, di dottrina, d'affetti, di virtù. Lo scherno sguajato onde i gaudenti accompagnano il nome di frate, dovea farci tacere questa fra le glorie nostre? dovrà farci trasandare una classe tanto numerosa d'Italiani, e un'efficacia così poderosa sui destini anche politici del nostro paese; e trapassare inosservata la capanna, dove i nostri poveri padri ricoveravano la testa, minacciata dal Barbaro o dal barone? CAPITOLO LXV. I papi. Gregorio Magno. Chiave della volta al grand'edifizio ecclesiastico sono i pontefici, residenti in Roma. Ne accompagnammo la serie fino a Silvestro (336-52), il quale vide data da Costantino la pace alla Chiesa. Gli successero Marco, poi Giulio, indi Liberio, che alternando debolezza e coraggio, incappò in una formola ariana, e ben presto si ravvide. A Dàmaso fu contrastata la sede da Ursicino (366), con turpi fazioni e molto sangue; al qual proposito Ammiano Marcellino, pagano, prorompeva[164]: «Se considero il fasto mondano di chi copre la dignità pontifizia, non meraviglio che per ottenerla non si tralasci sforzo od arte. Ottenuta che l'abbiano, sono certi di impinguare mercè le oblazioni delle devote matrone; e che andranno per Roma in carrozza, magnificamente in addobbo; e faranno banchetti che nulla invidiino la suntuosità di re ed imperatori. Più felici se, invece di scusar questi eccessi colla grandezza e magnificenza di Roma, riformassero il viver loro sul modello d'alcuni vescovi di provincia, i quali colla savia frugalità, col povero vestire, cogli occhi a terra, rendono non meno a Dio che ai veri suoi adoratori venerabile la purezza de' loro costumi e la modestia del portamento». Damaso ebbe amico e segretario san Girolamo; scrisse prose, versi, epitafj di martiri, ove si desidera minore artifizio e maggior sentimento. Ad Innocenzo la invasione del goto Alarico offrì campo d'esercitare la carità (401), e d'intromettere la pacifica sua mediazione tra la viltà e la ferocia. Altrettanto fece con Attila Leone, degno del titolo di Magno per l'ingegno e per le azioni (440). Restano di lui novantasei Sermoni, d'un'eloquenza sentita qualora non la guastino le antitesi; e censettantatre Lettere, attestanti indefesso zelo per la purità della dottrina e la pace della Chiesa. Ilario suo successore al battistero di Laterano unì due biblioteche (461); adoprò vivamente nel concilio calcedonese; ma non si seppe schermire dalle multiformi insidie de' novatori (467). Simplicio ebbe a travagliarsi nel tutelare l'unità della Chiesa, perchè, essendosi sfasciato l'impero occidentale, Acacio patriarca di Costantinopoli pretendeva la primazia, quasi andasse connessa alla sede imperiale. L'elezione del papa in principio faceasi da un senato ecclesiastico di ventiquattro preti e diaconi, ad immagine dei ventiquattro seniori astanti al trono di Dio: dopo Silvestro essendovi annessi anche beni temporali, concorsero alla nomina il clero ed il popolo: poi quando la ricchezza cominciò a fare ambìto quel posto, gl'imperatori intervennero alle nomine per impedire le sedizioni; in appresso le confermarono. Odoacre vietò d'eleggere il vescovo di Roma senza prima consultato il re od il prefetto, fosse gelosia politica, o per ovviare le dissensioni; ma il decreto non tenne (482): e Felice III della sua nomina informò l'imperatore, esortandolo alla retta fede[165]. Gelasio succedutogli (492), scrisse inni e prefazj, e trattati sulle questioni allora discusse, ed uno contro del senatore Andromaco e d'altri Romani, i quali volevano ripristinare i giuochi lupercali, pretendendo le malattie moltiplicassero dacchè non si esorava il dio Februario. In concilio distinse i libri canonici dagli apocrifi, e a quali scrittori competesse il titolo di padri della Chiesa, e definì ecumenici i quattro sinodi di Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia. Scriveva all'imperatore Anastasio: «Il mondo è governato dall'autorità dei pontefici e dalla potestà regia; delle quali la sacerdotale è più grave in quanto deve render ragione a Dio per l'anima dei re. Sebbene tu sovrasti a tutto il genere umano per dignità, pure ai capi delle cose divine pieghi devoto il collo, e da loro chiedi i mezzi di salute, e vedi pei sacramenti e per l'ordine della religione doverti a loro sottomettere anzichè sovrastarvi, e in tali cose pendere dal giudizio loro anzichè ridur loro alla tua volontà. Se nella pubblica disciplina, conoscendo essere conferito a te l'imperio per disposizione superna, anche i capi della religione obbediscono alle leggi tue, con quale affetto non dovete voi obbedire a coloro che hanno incarico di dispensare gli augusti nostri misteri?» Dopo che Anastasio II la occupò due anni (496), la sede fu disputata tra Lorenzo e Simmaco, i quali si compromisero in Teodorico, re ariano. Simmaco preferito, da quindici anni sedeva allorchè i malcontenti lo accusarono d'enormità, e richiamarono Lorenzo: la Chiesa andò sossopra, e neppure la presenza di Teodorico mitigò gli sdegni. Raccoltisi a concilio i vescovi d'Italia, Simmaco, mentre v'andava, fu assalito a pietre; alfine chiarita l'innocenza sua, fu ripristinato; ma Lorenzo per quattro anni tenne alquante chiese a forza, sinchè Teodorico la volle finita. Quando agli Ariani in Oriente furono tolte le chiese, Teodorico mandò il nuovo pontefice Giovanni (523) a Costantinopoli per ottenere a' suoi religionarj esercizio libero del culto; se no, lo turberebbe egli pure a' Cattolici in Italia. Il papa non potè o non volle riuscire; e Teodorico il lasciò morir prigione, come complice di congiure ordite allora per ammutinare l'Italia (pag. 48). Dopo altri, s'illustrò Agapito, che fondò in Roma un'Accademia per le belle lettere (535). Spedito da Teodato a Giustiniano per proporre pace, tornò disconcluso; ma a Costantinopoli aveva potuto reprimere gli eretici, e deporre il mal eletto patriarca. Indarno Giustiniano gli si era opposto, minacciandolo anche d'esiglio; ma l'imperatrice Teodora a Vigilio, diacono della chiesa romana, promise ottenere il papato, purchè aderisse alle credenze dei prelati ch'essa proteggeva. Vigilio trescò a danno del nuovo papa Silverio (536), che da Belisario accusato d'intendersi con re Teodato per introdurre i Goti in Roma, fu spogliato degli abiti pontificali e trasferito a Patara nella Licia. Sì infelici tempi correvano, che nessuno s'oppose; e Vigilio, per ordine del generale, fu unto pontefice (538). L'imperatore, informatone, impose che Silverio fosse ricondotto a Roma, ed ivi esaminato sulle accuse: ma Belisario, ligio ai desideri di Teodora, l'arrestò per via, e relegollo nell'isola Palmaria rimpetto a Terracina, dove morì di fame o strozzato; e la compassione pel giusto perseguitato volle in molti miracoli vedere attestata la sua santità. Vigilio ebbe allora conferma dal clero: ma in quel primato, che subdolamente aveva invaso, resistette a' capricci religiosi di Teodora e ai dissidenti, benchè strascinato per le vie di Costantinopoli con una corda al collo e gittato in un fondo di torre, sinchè la morte del patriarca Antimio tolse il pretesto di quelle scissure. Ma una nuova ne sorse per _Tre Capitoli_, che al IV concilio ecumenico di Calcedonia erano stati proposti, onde condannare Teodoro da Mopsuesta come seguace delle opinioni di Pelagio, Iba vescovo di Edessa autore d'una lettera meno cattolica, e Teodoreto di Ciro che avea scritto ingiurie contro il concilio Efesino. Quel sinodo li rimandò assolti alle loro chiese; ma Giustiniano li fece condannare da un altro, congregato in Costantinopoli. Gli Occidentali sapeano scarsamente di greco, nè aveano letto Teodoreto o Iba, ma sapevano che dal concilio di Calcedonia erano stati riconosciuti incolpevoli, talchè di questo s'infirmerebbe l'autorità qualora fossero riprovati. Al modo stesso la pensava papa Vigilio, ma poi lasciossi indurre a condannarli anch'esso, salva l'autorità del concilio di Calcedonia, e patto che più non se ne discutesse a voce o in iscritto. Partito mezzano, che disgustò entrambe le parti, i nemici de' Capitoli per la riserva, i Cattolici per la condanna; e i vescovi d'Africa, Illiria, Dalmazia si segregarono dal papa. Il debole Vigilio ne sbigottì, e revocò il proprio giudicato: ma insieme promise a Giustiniano d'adoprarsi per far condannare secondo i Tre Capitoli, purchè questa sua promessa si tenesse segreta; intanto la cosa restasse in bilico fino ad un concilio generale. L'imperatore invece ripubblicò la sua costituzione, e il papa, non ascoltato, separossi dagli Orientali; trattato come prigioniero, sofferse coraggioso dicendo: — Voi tenete me, non san Pietro»; poi nel nuovo sinodo Costantinopolitano (553) condannò gli errori che trovavansi negli scritti di quei tre, non eretici, ma esagerati difensori dell'ortodossia. In Italia, gli arcivescovi d'Aquileja, Milano, Ravenna, coi vescovi provinciali dell'Istria, della Venezia e della Liguria, stettero avversi al papa; alcuni apertamente, altri limitandosi a non aderire ai Tre Capitoli; e Paolino patriarca d'Aquileja in un sinodo provinciale rigettò il concilio di Calcedonia, nè più volle comunicare col papa, introducendo uno scisma che durò fin nel 698, quando, ad istanza del pontefice Sergio, un nuovo sinodo d'Aquileja accettò esso concilio[166]. Morto Vigilio in Siracusa (555), gli fu dato successore Pelagio, più per volontà dell'imperatore che non per la libera scelta del clero e del popolo, il quale anzi lo supponeva colpevole della morte del predecessore, finch'egli dal pulpito non si giurò innocente. Dalla morte di lui si fanno più lunghe le vacanze per aspettare la conferma dell'imperatore. Il disordine crescente poche notizie lasciò di Giovanni III (560-78), che fece terminare la chiesa de' santi Giacomo e Filippo con molte storie dipinte e a musaico; e così di Benedetto e di Pelagio II. In mezzo all'interna inquietudine ed alle esteriori minaccie, erasi assodata la primazia che i pontefici traevano dalla parola di Cristo e dall'apostolica tradizione. Ariani essendo la maggior parte de' conquistatori, eretici spesso gl'imperatori d'Oriente, i Cattolici di tutta Europa guardavano il papa come capo e protettore universale, e ne invocavano i consigli per le anime, la protezione per le vite. Le nuove chiese, non potendo vantarsi pari nè vicine alla romana per età o per apostolica origine, con assoluta devozione chinavansi ai pontefici. E poichè le conversioni erano opere d'incivilimento, e sicuravano dalle invasioni i regni già stabiliti, perciò in questi il papa acquistava venerazione, non solo pel primato del sacerdozio, ma anche per gli interessi temporali. Il re a lui più vicino, Teodorico ostrogoto, essendo il più poderoso fra quei principi, ne ringrandiva nell'opinione il pontefice, che presso lui faceasi intercessore d'altri principi e vescovi, a nome di esso trattava cogl'imperatori bisantini. Scesi i Longobardi, mancò un capo generale all'Italia, ed ai Romani soggiogati e ai liberi non restò persona più eminente del papa in cui fissare gli sguardi. Possedeva egli immensi tenimenti in Sicilia, Calabria, Puglia, Campania, Sabina, Dalmazia, Illiria, Sardegna, fra le alpi Cozie e fin nelle Gallie; ed essendo coltivati all'antica, cioè per coloni, sopra questi egli esercitava legale giurisdizione, spedendovi uffiziali, dando ordini, mentre colle rendite potea sovvenire alle carestie, ospitare rifuggiti, soldare truppe. Conservando verso l'imperatore la sommessione imparata allorchè Roma era capitale, da esso i papi chiedevano la conferma della nomina loro, pagavano altre retribuzioni, tenevano alla corte sua un apocrisario che trattasse i loro negozj. Ma la dipendenza si diminuiva sempre più a fronte di imperatori lontani, di esarchi deboli e malvisti al popolo; mentre interrotte dalla conquista le relazioni coll'esarca di Ravenna, il papa, trovandosi a capo degli ordinamenti municipali mantenutisi in Roma intatta da Barbari, elideva l'autorità del duca sedente in questa città, corrispondeva direttamente con Costantinopoli, e accostavasi ad una specie di signoria. Pelagio II scriveva ad Aunacario (581) vescovo di Auxerres perchè di tutta sua possa rimovesse i re Franchi dall'amicizia coi Longobardi, nefandissima gente avversa ai Romani, sopra la quale non potrebbe tardare la vendetta di Dio, sicchè era bello non mettersi a pericolo di parteciparne. Spedì anche un diacono alla Corte greca per implorarne soccorsi, e — Rappresentate all'imperatore che i perfidi Longobardi, contro la fede giurata, ci han fatto soffrire tanti mali, che ridirli sarebbe infinito. Se Dio non ispira all'imperatore di mandar almeno un maestro della milizia e un duca, siamo abbandonati d'ogni ajuto, massime il territorio di Roma, sguarnito di presidio: l'esarca scrive non poterci soccorrere, giacchè non basta tampoco a difendere le sue vicinanze. Voglia Dio che l'imperatore ci assista prima che quest'abbominevole nazione s'impadronisca di quanto rimane all'Impero»[167]. Gl'Italiani dunque guardavano il pontefice qual rappresentante non solo della vera fede ma della nazionalità; e più il fecero quando (590) sulla cattedra di Pietro s'assise Gregorio Magno, che sentiva l'importanza di quel grado, e tutta ne spiegò la dignità. Stratto dall'antica ricchissima famiglia Anicia, dalla giovinezza volse all'acquisto delle scienze un intelletto vivace e una straordinaria capacità, e da Giustino II fu elevato prefetto di Roma, la carica più insigne; ma nojato del mondo, sull'esempio de' suoi genitori si raccolse nel convento di sant'Andrea, ch'egli avea fondato nella propria casa, come sei altri in Sicilia. Rinvigoritosi nel ritiro, impetrò da papa Benedetto di missionare la Bretagna; ma il popolo romano cominciò a gridare al pontefice: — Voi avete offeso san Pietro, avete disfatto Roma, lasciando partire Gregorio»; sicchè quegli il rivocò. Da Pelagio II fu posto fra i sette diaconi della chiesa romana; e spedito ambasciatore alla corte di Costantinopoli per implorare soccorsi contro i Longobardi, vi guadagnò stima e benevolenza a segno, che Maurizio imperatore lo volle padrino di suo figlio. Morto Pelagio, Gregorio apprese con isgomento che i voti comuni lo avevano eletto papa, e tre giorni dovettero andarlo rintracciando nella solitudine, ove dal suo convento si era trafugato nelle corbe d'alcuni merciaj; scrisse anche a Maurizio, scongiurandolo per la loro amicizia a non confermare la scelta; poi ribramò sempre la pristina quiete, e — Non mi so frenare dal pianto (scriveva a Leandro di Siviglia) qualvolta torno in pensiero a quel porto felice, da cui m'hanno divelto: geme il cuor mio al solo ricordare quella terraferma, cui più non m'è possibile approdare». Ben aveva onde sgomentarsi. Il pontefice, per l'eminente posizione sua, dovrebbe rispondere di quanto potesse avvenire in Roma; eppure non era libero, giacchè il duca, il prefetto imperiale, il senato, i decurioni, inetti a giovare, valeano a dar impaccio. Intorno, popoli o idolatri od ariani; di sopra, imperatori teologastri, che turbavano or colle dispute or colle pretensioni; fra il clero de' paesi convertiti, simonìa e scostumatezza[168]; alle porte di Roma, Longobardi minacciosi; Italia sbranata da lungo scisma per la quistione dei Tre Capitoli, e, per giunta, attrita da orribile peste. Al governo «d'un bastimento vecchio, sdrucito e battuto dal nembo», com'egli chiamava Roma, Gregorio adoprò le preghiere e un carattere indomabile. Da un capo all'altro del mondo stendeva le premure per ispargere la verità ove non fosse conosciuta, per combattere l'errore, per sostenere la morale. Fermo quanto indulgente cogli eretici, al vescovo di Napoli scriveva d'accettar pure chiunque volesse rientrare in grembo della Chiesa, e — Tolgo sopra di me qualunque sconcio nascer potesse dalla falsità della riconciliazione; la soverchia severità pregiudicherebbe alle anime loro»: a quei di Terracina, di Cagliari, d'Arles, di Marsiglia vietava d'usar violenze agli Ebrei, «acciocchè il fonte ove si rinasce alla vita divina, non divenisse a loro occasione di una seconda morte, più della prima funesta per l'apostasia»; si restituisse loro la sinagoga tolta, nè s'adoprasse con essi che dolcezza e carità[169]. Adunò un concilio in Roma per riparare allo scisma di Aquileja, come almeno in parte ottenne; quaranta nostri spedì a convertire l'Inghilterra, guidati dall'abate Agostino (596), che vi fu primo arcivescovo di Cantorberì; reciprocamente dall'Irlanda venivano frati a noi, e principalmente san Colombano, che girate le Gallie e la Svizzera, si fermò a Milano, e da re Agilulfo ebbe in dono San Pietro di Bobbio con quattro miglia di territorio all'intorno, dov'egli fondò il monastero famoso (612), da cui uscirono monaci che altri cenobj posero per la Liguria e altrove. Nuovi missionarj inviò Gregorio ai Barbaricani, idolatri della Sardegna; e in lontani paesi. Delle laute rendite, oltre mantenere il lustro del suo seggio, valevasi per far limosine, fondare scuole e spedali, sussidiare diocesi remote, esercitare l'ospitalità; ogni dì faceva dal suo sacellario convitare dodici avveniticci, e la gratitudine popolare disse che una volta Cristo in persona si mettesse tra quelli. Egli intanto, modesto nel trattamento, parco alla mensa, esatto alle pratiche della vita monastica, non faceva verun agio alla sua carne; e non agli onori e vantaggi del mondo, ma badava al proprio dovere. Bisogna udire da lui quante cure esteriori e secolari s'affollassero intorno al papa[170]; esercita perfino atti che si direbbero di temporale sovranità: manda un governatore a Nepi, comandando al popolo d'obbedirgli come al sommo pontefice; un tribuno a Napoli per custodire quella grande città: al vescovo di Terracina raccomanda che nessuno lasci sottrarsi all'obbligo di fare la scolta alle mura. Poi dalle cure del mondo scendeva a minime particolarità dell'amministrazione patrimoniale, acciocchè non fossero vessati i lavoranti sulle terre della Chiesa; essendo troppo dispendiose le razze di cavalli che si tengono sui fondi siciliani, si vendano, serbando solo alquanti stalloni, cioè quattrocento; a Pietro, economo in Sicilia, scriveva: — M'hai mandato un cattivo cavallo e cinque buoni asini; non posso montar il primo perchè cattivo, non gli altri perchè asini». E altrove: — Odo che ai villani si computa a minor prezzo il grano in tempo d'abbondanza: nol fate, ma si paghi al prezzo corrente, e senza detrarre quel che perisce per naufragi. Nè i fittajuoli devono pagamento o servigi oltre il convenuto; non dar il grano a misura maggiore: e perchè dopo la nostra morte nessuno gli aggravi, date loro un'investitura per iscritto, che determini il prezzo. So che alcuni per pagare il primo termine han dovuto togliere a prestanza con usura eccessiva: voi dunque somministrerete loro questi capitali dal fondo della Chiesa, e li riscoterete poco a poco, in modo che non si vedano costretti a vendere le derrate a basso mercato. Al postutto non vogliamo che gli scrigni della Chiesa sieno contaminati da sordido guadagno»[171]. A vescovi e a re parlava colla dignità dolce ma ferma di un capo universale. Contro le vessazioni imperiali difese la libertà della Chiesa con umiltà di parole ma franchezza di fatti; e all'imperatore Foca scriveva, questo divario correre tra gl'imperatori gentili ed i cristiani, che quelli son signori di servi, questi signori di liberi. Ingegnavasi intanto di mantenere in armonia l'imperatore greco coi Longobardi: ma pure esortava i Siciliani a stornare con settimanali litanie un'invasione minacciata dai Longobardi, i quali come fossero a temere lo vedessero dalla desolazione dell'Italia[172]; poi ostò vigorosamente ad Agilulfo allorchè assediò Roma. Proibiva di esigere nulla per la sepoltura, chè non paresse titolo di compiacenza la morte degli uomini. A Venanzio vescovo di Genova ordina, non permetta che Cristiani rimangano a servitù di Ebrei; se però sono loro coloni, soddisfacciano secondo giustizia. Querela il vescovo di Terracina che tuttavia durassero colà avanzi del paganesimo, immolando ad idoli, riverendo certi alberi, sacrificando teste d'animali; e l'imperatrice Costantina, che i magistrati greci facessero guadagno in Sardegna col permettere l'idolatria[173]. Avendogli costei domandato alcune reliquie, rispose che in Occidente si ha per sacrilegio il metter mano ai corpi santi, e meravigliarsi che altrimenti i Greci la sentano; qui non darsi altro che delle catene di san Pietro o della graticola di san Lorenzo, o pannilini avvicinati entro una scatola al corpo del santo: soggiunge che il predecessor suo, avendo voluto mutare qualche fregio d'argento sopra il corpo di san Pietro, benchè discosto quindici piedi, fu sgomentato da terribile visione; e alcuni mansionarj e monaci che avevano veduto quel di san Lorenzo, morirono fra dieci giorni. Nella peste d'allora introdusse la processione che ancora si fa al san Marco, col nome di Litanie maggiori: primo segnò i brevi col giorno e il mese al modo odierno. La Chiesa non era fin qua riuscita a recare anche nella liturgia quell'unità che è suo carattere; e Gregorio pensò farlo col _Sacramentario_, il quale col suo _Antifonario_ delle parti della messa che doveansi cantar in note, e col _Benedizionario_ costituisce il messale romano. Nel sinodo Romano stabilì, non convenire ai gravi costumi di diaconi e sacerdoti il dissolversi nella vanità d'imparare la musica, sconvenendo al maestoso contegno delle spirituali funzioni il perdere nei passaggi e ne' gorgheggi la compostezza degli animi, e consumarvi la voce destinata a predicare la divina parola e assodare nelle cristiane virtù. Pertanto deputa suddiaconi e cherici inferiori a cantare i salmi e le sacre lezioni in tono grave, serio e posato; a tal uopo istituendo scuole, ch'egli in persona dirigeva, e che duravano ancora trecent'anni dipoi. Accortosi come dei quindici toni della musica gli ultimi otto non sieno che ripetizione dei sette primi, divisò che sette segni bastavano per tutt'i toni, purchè si replicassero alto e basso, giusta l'estensione del canto, delle voci e degli stromenti[174]. Quella maestosa melodia, ove ci furono conservate preziose reliquie dell'ammirata musica antica de' Greci, crebbe splendore al culto divino, con motivi semplici e grandiosi, che poi s'andarono dimenticando fin alla profanità de' nostri giorni, in cui la devozione è distratta da arie guerresche e da teatrali. Gregorio fra tante occupazioni trovò tempo a scrivere moltissime opere, le quali, non men che le sue virtù, gli procacciarono il cognome di Magno. Le lettere, concernenti per lo più la disciplina, provano quanto instancabile adoperasse a governare la Chiesa e a fondo si conoscesse delle divine leggi e delle umane. Commentò Giobbe ed Ezechiele, e fece omelie sopra gli Evangeli. A Giovanni arcivescovo di Ravenna diresse la _Regola pastorale_, in quattro parti trattando per quali vie s'entri al santo ministero, quali i doveri, come istruire i popoli, e applicarsi alla propria, mentre s'attende alla santificazione di quelli, affine di non perdere, per segreta compiacenza di sè, il premio degli sforzi fatti. L'imperatore Maurizio ne volle copia, e la mandò ad Anastasio patriarca d'Antiochia, da mutare in greco e diffondere per le chiese d'Oriente: re Alfredo la tradusse in sassone pei vescovi d'Inghilterra: le chiese di Spagna e di Francia la proposero per modello ai vescovi, e Carlo Magno e i suoi successori nei capitolari non rifinano di raccomandarla. Nei Dialoghi narra molte e troppe storie maravigliose di santi italiani, a provare le verità fondamentali per mezzo di rivelazioni fatte da morti risorti e simili casi. Il santo il quale nelle opere sue mostrasi tutt'altro che dappoco, e cita ogni volta da chi gl'intese, s'acconciò al gusto del suo secolo e alla capacità di quelli cui destinava l'opera: e in fatto essa levò immenso grido; mandata a Teodolinda, contribuì assai a convertire i Longobardi, sopra cui cadevano molti dei miracoli ivi narrati; fin in arabo fu tradotta; ai Greci piacque tanto, che Gregorio n'ebbe tra loro il soprannome di _Dialogo_. Compose inni[175]; aprì scuole; si fece dipingere nel monastero di sant'Andrea a Roma; e nelle copie divulgatesi di quel ritratto soleasi sovrapporgli alla testa lo Spirito Santo in forma di colomba: altra prova che la pittura usavasi in quei tempi. Eppure v'è chi lo intitola l'Attila della letteratura, dicendo ordinasse l'incendio della biblioteca Palatina, e distruggesse i monumenti della grandezza romana, acciocchè la loro ammirazione non distraesse dal venerare le cose sante. Forse era egli sovrano di Roma da poter ciò? Ben è vero che si mostrò avverso agli antichi autori, forma e null'altro, e pericolosi per lo allettamento del bello, in tempo che non era peranco finita la lotta di questo col vero: e quantunque nel primo dei Dialoghi dica non avere conservato le parole proprie degl'interlocutori, perchè sì villanescamente proferite che non vi starebbero acconciamente, altrove scrive: — Non fuggo la collisione del metacismo, non evito la confusione del barbarismo, trascuro di serbare i luoghi e i modi delle preposizioni, stimando indegno che le parole del celeste oracolo stringansi sotto le regole di Donato»[176]. E però le sue scritture van macchiate dalle colpe de' tempi e da sue proprie; scarsa critica, erudizione inesatta, locuzioni viziose; diffuso e insieme oscuro e avviluppato, sovente si ripete, e vuole aver detto ogni cosa sopra ogni argomento che assume, e soverchiamente inclina alla allegoria. CAPITOLO LXVI. Italia disputata fra Longobardi e Greci. SERIE DEI RE LONGOBARDI 568 Alboino in Italia; assassinato dalla moglie Rosmunda 573. 573 Clefi; assassinato da un famigliare 573. 584 Autari suo figlio; m. 591. 591 Agilulfo duca di Torino; m. 615. 615 Adaloaldo associato al trono dal padre; cacciato 625; avvelenato 626. 625 Ariovaldo duca di Torino; m. 636. 636 Rotari duca di Brescia; m. 652. 652 Rodoaldo suo figlio; assassinato 653. 653 Ariperto I; gli succedono i figli. 661 {Pertarito; attaccato da Grimoaldo fugge. {Gondiperto, ucciso. 662 Grimoaldo duca di Benevento, si fa proclamar re. 671 Garibaldo, suo figlio minorenne, è cacciato da Pertarito suddetto, che regna di nuovo. 678 Cuniperto suo figlio, associato al trono; regna da solo 686. 700 Liutperto suo figlio minorenne; spodestato da 701 Ragimperto duca di Torino. 701 Ariperto II, suo figlio, cacciato da 712 Ansprando, il cui figlio 712 Liutprando regna 32 anni. 744 Ildebrando suo nipote, associato nel 736; stronizzato dal popolo. 744 Rachi duca del Friuli; abdica 749 e si ritira a Montecassino. 749 Astolfo suo fratello, muore alla caccia. 756 Desiderio duca dell'Istria; associa il figlio Adelchi 758? Spodestati da Carlo Magno 774. Sta dunque divisa l'Italia fra tre dominazioni: Greci, rappresentanti d'un passato irremeabile, e ridotti a tenersi sulle difese; Longobardi, espressione della forza brutale, e destinati a perire, ma dopo lungo regno e lasciando il lor nome alle parti migliori; i papi, podestà dell'avvenire, sorgente appena, ma che sta per gettar radici durevoli fra i rottami delle altre. Le forme dell'antico Impero si conservavano nella parte sottoposta ai Greci. L'esarca, sedente in Ravenna, amministrava direttamente la Pentapoli, cioè i territorj di Ancona, Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia, conterminata a settentrione dalla Marecchia, a occidente dal Tevere, a mezzodì dal Musone, a levante dall'Adriatico; e l'Esarcato che comprendeva il littorale della Venezia, con Oderzo, Treviso, Padova, e il paese che finiva col basso Adige a settentrione, collo Scultenna (Panàro) e gli Appennini a occidente, colla Marecchia a mezzodì, e coll'Adriatico a levante; dov'erano le città di Ravenna, Bologna, Faenza, Forlimpopoli, Ferrara, Adria, Comacchio, Forlì, Cesena, Bobbio, Cervia. Oltre quest'amministrazione diretta, l'esarca sovrantendeva ai duchi che governavano Roma e i paesi meridionali[177]. I quali erano alcune città della Lucania o Basilicata, l'antica Calabria, or Terra d'Otranto, il Bruzio, ora Calabria Ulteriore: poi furono ritolte ai Longobardi la Terra di Bari e la Capitanata, dove Otranto, Galipoli, Rossano, Reggio, Gerace, Santa Severina, Crotone; e nella Campania le terre a mare fra Gaeta e Napoli. Da Gaeta posta fra i monti Cècubo e Massico, poteano i Greci difendere le pianure del Garigliano e le gole di Itri e Fondi. Con Napoli era il promontorio di Sorrento, che sparte i golfi di Napoli e di Salerno; e benchè fin a Salerno si stendesse il principato di Benevento, e molte città verso levante fino a Cosenza, e tutte quelle fra terra fossero tolte ai Greci, Napoli si sostenne. Duravano colà le istituzioni municipali, e nel resistere ai Longobardi ridestavasi il valor militare. Provincia greca era pure l'Illiria: la Sicilia stava sotto un patrizio greco: le isole della laguna veneta riconoscevano anch'esse di nome la supremazia imperiale. Di questi paesi alcuni venivano francandosi da ogni dipendenza, come Venezia; altri erano minacciati continuamente, e ad ora ad ora invasi dai Longobardi. Trovavansi questi impacciati in guerre straniere o civili? gli esarchi se ne rifacevano coll'assalirli, e ricuperare qualche territorio limitrofo; ma tosto erano ricacciati negli angusti confini: nè pace mai, bensì tregue rinnovate d'anno in anno, e compre fin col tributo di trecento libbre d'oro. Il bisogno di denaro potea dirsi l'unico motore de' governanti, per pagare il tributo o per mantenere gli eserciti; e per averne, senza divario da amici a nemici, correvano a predar le chiese di Roma o questo o quel monastero o il santuario di san Michele sul monte Gargano. Questo sovrasta a Siponto, rimpetto alle isole Diomedee (Trémiti); e dacchè al tempo di papa Gelasio vi apparve l'arcangelo Michele, gli presero vivissima devozione i Greci che ne moltiplicarono le chiese: i Longobardi altrettanto, vi andavano in pellegrinaggio e l'avevano per patrono, siccome san Giovanbattista i Longobardi dell'alta Italia. Ravenna, sede degli esarchi, tenne sempre testa contro i Barbari perchè assisa tra le maremme e facilmente soccorsa dalla flotta greca. La sua situazione era anche di gran momento per togliere ai Longobardi d'avanzarsi nella bassa Italia, potendo una flotta sbarcarvi e prenderli alle spalle: di modo che le città greche della Campania non si trovavano minacciate che da Benevento. Dandosi aria di capitale di tutta l'Italia, Ravenna negava sottomettersi a Roma neppur nelle cose spirituali; dentro aveva gli ordinamenti municipali del Basso Impero, o più veramente un governo militare con un imperatore e con duchi e scuole. Durò colà molti secoli che, la domenica sulla bass'ora, giovani, vecchi, fanciulli e sin donne d'ogni condizione uscissero di città e divisi in iscuole secondo i quartieri, facessero a sassi, fino al ferirsi ed ammazzarsi. Nel 696 la scuola della porta Tiguriese sfidò quella della postierla di Sommovico, e i primi, rimasti superiori, inseguirono gli altri con tal sassajuola, da ucciderne molti; e sbarattata a forza la porta, trionfanti attraversarono il vinto quartiere. La domenica seguente usciti di nuovo, mutarono ben presto il giuoco in fiera abbaruffata, ove molti Postierlesi caddero uccisi, non ostante che fosse legge di dar quartiere a chiunque supplicasse. I Postierlesi pensano un'atroce vendetta; e fingendosi riconciliati, ognuno invita a pranzo qualche Tiguriese; e quivi li scannano, e gettano nelle cloache o sepelliscono. La città tutta in gemiti e in fremiti: l'arcivescovo Damiano ordinò per tre giorni digiuno: egli stesso andò in processione coi cherici e monaci, scalzi e in sacco, copersi di cenere; seguivano i laici, poi le donne senz'ornamenti; da ultimo i poveri, tutti a gran voce implorando misericordia. Dopo i tre giorni, cerchi i cadaveri e sepolti, furono puniti i micidiali, bruciate le masserizie, che nessuno volle toccarne, e distrutto il quartiere, infamato poi col nome di Rione degli assassini[178]. I pochissimi ricordi che abbiamo di quell'età sono di sevizie usate dagli esarchi, e che forse pajono più atroci perchè ignoriamo quali ragioni ve li determinassero. Ravenna fu più volte saccheggiata per loro ordine, nominatamente nel 710, quando Giustiniano II fece anche rapirne la principal nobiltà, e avutala a Costantinopoli, ucciderla crudelmente: all'arcivescovo Felice risparmiò la vita, ma tolse gli occhi. Colpiti nel vivo da tali atrocità, i Ravennati si sollevarono alla guida di Giorgio figlio di Giovaniccio; e subito vi risposero Sarsina, Cervia, Cesena, Forlimpopoli, Forlì, Faenza, Imola, Bologna: Giorgio distribuì queste città con ordinanza militare, e Ravenna stessa divise in bandiere, cioè la prima, la seconda, la nuova, l'invitta, la costantinopolitana, la stabile, la lieta, la milanese, la veronese, la classense, e quella dell'arcivescovo col clero[179]. Pare si sostenessero finchè l'imperatore non morì: e Filepico succedutogli scarcerò l'arcivescovo Felice, il quale fece atto di sommessione al papa, e probabilmente acquetò i Ravennati. Non era dunque più ragionevole o quieta la dominazione greca che la longobarda; oltrechè gl'imperatori non avevano ancora dismesse le pagane pretensioni di superiorità, dai primi loro predecessori ereditate sopra la Chiesa, e voleano mestare nelle dispute religiose e nelle elezioni dei pontefici. Vedemmo come tra questi sapesse conciliare gran riverenza a sè e alla sua dignità Gregorio Magno: ma la generosa carità con che egli avea distribuito grani, non fu imitata da Sabiniano succedutogli (604), sicchè i poveri s'assembrarono tumultuosi, gridando non togliesse la vita a quelli, cui Gregorio l'aveva tante volte serbata. Sabiniano che guardava con invidia il suo predecessore, meditando perfino distruggerne gli scritti[180], affacciatosi esclamò: — Cheti! se Gregorio vi regalò per comperarsi i vostri elogi, io non sono in grado di satollarvi tutti». Succedono Bonifazio III poi il IV (607-8), che dall'imperatore Foca ottenne il panteon d'Agrippa, cui consacrò alla Vergine Maria e a tutti i Martiri; in memoria di che fu istituita la festa d'Ognisanti. Onorio (625) sperò vedere Aquileja e l'Istria ricongiunte alla Chiesa universale, dond'erano scisse per la quistione dei Tre Capitoli: ma la sottigliezza de' Greci lo perigliò nell'errore de' Monoteliti; del che si ritrattò appena se n'accorse. Alla morte di lui gli uffiziali greci vollero saccheggiare il palazzo; e impediti, indussero l'imperatore a metter le mani sul tesoro ivi riposto. Fu allora che l'esarca Isacco pensò pagar sue truppe colle ricchezze della basilica Laterana. D'intesa con lui, il cartulario Maurizio alla soldatesca che domandava il sempre negato soldo, disse qualmente l'imperatore avea mandato le paghe al papa, che, invece di distribuirle, le avea riposte coll'altre richezze, le quali giacevano indarno, mentre sarebbero state opportune a difendere la città. Fu anche troppo perchè i soldati corressero sul tesoro: ma i parenti di papa Severino lo difesero, e solo dopo tre giorni fu possibile a Maurizio d'entrare e sigillar ogni cosa. Ne diede allora avviso all'esarca, che venuto a Roma, relegò gli ecclesiastici da cui temeva opposizione, indi entrato nel tesoro, durò otto giorni a spogliarlo e ne mandò una parte a Costantinopoli[181]. Poco poi Maurizio si rivoltava contro Isacco, e questi spediva truppe che il vinsero, presero ed uccisero. I complici in carcere aspettavano pari destino (638), quando la morte d'Isacco risparmiò la loro. Alle rinascenti quistioni teologiche avea voluto impor silenzio l'imperatore Costante II pubblicando il Tipo o formola di fede; ma i Cattolici la repudiarono come fallace e come forzata (649). Costante perseguitò i renuenti, e comandò all'esarca Olimpio di prender vivo o morto papa Martino, che condannò quel tipo. Olimpio non avventurandosi ad aperta violenza, finse voler essere dalla sua mano stessa comunicato, e dispose un assassino che in quel atto lo trafiggesse. Costui protestò che, sul punto di eseguire il misfatto, più non vide il pontefice; onde si gridò al miracolo, ed Olimpio confessandosi in colpa, chiese perdonanza. Rise a questi scrupoli il suo successore Teodoro Calliopa (652); e condottosi a Roma coll'esercito, frugò il palazzo pontificio se fosse vero che v'avea massa d'armi, e benchè nulla trovasse, menò via nottetempo il pontefice, con nulla più che sei famigli ed un bicchiere. Tre mesi vagarono pel mare, indi approdati a Nasso, lasciarono a bordo il papa prigioniero, che poi condotto a Costantinopoli, restò tre mesi in carcere senza parlare a persona. Chiamato a giudizio come reo d'aver contro l'imperatore fatto trama con Olibrio e coi Saracini e sparlato di Maria vergine; e convinto co' mezzi che abbondano a' tribunali militari, fu portato in un cortile tra folla di popolo; e qui levatogli di dosso il pallio, il mantello e l'altre insegne di sua dignità, e postogli un collare di ferro, fu tratto per la città e buttato in carcere, senza fuoco, benchè verno stridente. Le donne dei carcerieri, come ad altre vittime, così a lui mitigarono l'atrocità imperiale. Deportato poi a Cherson, stentò fra privazioni e infermità, sinchè Dio nol trasse a sè (654). Appena rapito Martino, Costante avea dato ordine d'eleggergli un successore; ed i Romani, forse per tema ch'egli mettesse sulla cattedra qualche eretico, s'affrettarono ad eleggere Eugenio, che poco durò (657), poi Vitaliano. Marco, arcivescovo di Ravenna ricusava sottomettersi alla Chiesa romana, appoggiato a un diploma dell'imperatore Costante: ma Vitaliano lo scomunicò, ed egli lui, e lo scisma proseguì finchè papa Dono ottenne si revocasse quel diploma. Agatone fece esonerar la Chiesa romana (678) dai tremila soldi d'oro che pagava ad ogni elezione di papi, assoggettandosi però a non consacrarli sinchè non fossero confermati dall'imperatore. A questa foggia andò l'elezione dei successori, spesso controversa. Sergio non volle approvare le costituzioni del concilio Trullano (687); onde il vizioso e inetto Giustiniano II mandò il protospata Zacaria che lo arrestasse: ma sollevatosi il popolo, l'inviato non trovò scampo che sotto il manto del pontefice. Anche Giovanni Platino, esarca di Ravenna, venuto per fargli ingiuria, non osò e se ne pentì. Però l'ambizione di quei che aveano competuto il papato, gli turbò la vita a segno, che dovette a lungo rimanere fuori di Roma. Talmente si stava in timore di violenze da parte degl'imperatori, che quando, all'elezione di Giovanni VI, venne da Costantinopoli in Roma Teofilatto esarca eletto, i Romani presero le armi (701), nè si chetarono che alle preghiere ed alle assicuranze del papa. Il suo successore Giovanni VII non disapprovò apertamente ma non sottoscrisse gli atti del concilio Trullano, malgrado preghiere e minacce di Giustiniano. Papa Costantino li ripudiò in quanto derogavano al VI ecumenico, anzi per segno di venerazione (708) fece dipingere i sei concilj nel portico di San Pietro; il popolo poi ricusò omaggio a Giustiniano imperatore eretico, non ne volle il ritratto, non commemorarlo nella messa o negli istromenti, nè tampoco ricevere monete col suo conio. Aveano dunque i pontefici tutt'altro che a lodarsi degli imperatori, e il popolo inclinava a scuoterseli dal collo: se non che li ratteneva il timore d'altri nemici più imminenti, i Longobardi. Questi, nel primo irrompere, occupata una buona parte dell'Italia, dicemmo come la dividessero tra varj duchi: lo che se gli ajutò a conservare parzialmente i vinti in obbedienza, impedì di compiere la conquista. Tra quei signori eleggevasi il re senza ragione ereditaria; talchè ogni vacanza produceva una rivoluzione e solleticava le ambizioni, a segno che di venticinque regnanti, sedici finirono in modo violento. I duchi col favorire all'uno o all'altro pretendente, tiravano a sè autorità sempre maggiore, a detrimento della corona. In maggior conto erano il ducato di Spoleto, che separava Roma da Ravenna, e manteneva le comunicazioni dell'alta Longobardia colla meridionale; e il ducato di Benevento, che separava Roma dalla Campania e dagli altri possedimenti greci, e valeasi del porto di Salerno: e quei due paesi ormai operavano affatto di loro balìa. Usufruttare il particolar dominio, ovvero condurre la guerra per le franchigie o pei possessi o per capricci proprj era l'occupazione dei duchi; e a fatica i re potevano trarli seco, fosse a reprimere i Greci, fosse a respingere i Franchi, i quali senza resta li molestavano o per rapace natura, o sollecitati dagli imperatori d'Oriente. Nè a quest'ultimi i Longobardi, essendo sforniti di marina, potevano impedire di mandar soccorsi, scarsi se volete, ma trasportati agevolmente ove bisogno accadesse, e, se non altro, bastevoli a nutricare la speranza (sempre facile ne' deboli oppressi) che effimero fosse il dominio di quelli stranieri, e che l'altrui braccio ne li redimerebbe. Neppure dopo che ebbero abbracciata la religione cattolica, i Longobardi cessarono di guardarsi e d'essere guardati come stranieri; nè si fusero coi Romani, nè conobbero quanto importasse il tenersi amici i pontefici se volevano congiungere tutta Italia sotto un dominio, forte per resistere e ordinato per farsi amare. Vedemmo come re Rotari alle consuetudini longobarde sostituisse un codice scritto; e colle leggi, colla robusta amministrazione e con severi castighi ridotti al freno i duchi, li guidò a sconfiggere i Greci, ai quali (unica conquista durevole dopo le prime) strappò il ducato di Genova, ricovero de' fuorusciti dal Milanese. Rodoaldo, figlio e successore di lui (652-55), fu presto trucidato da un offeso marito, e la nazione o i grandi affezionati alla memoria della buona Teodolinda andarono negli Agilulfingi bavaresi a cercar un successore; e con Ariperto, figliuolo di Gundualdo già duca d'Asti e fratello di quella regina, comincia una serie di re cattolici, stranj alla gente longobarda. Ariperto fu sepolto nella chiesa di san Salvadore fuor di Pavia, da lui fabbricata: e quasi il regno non fosse già troppo diviso fra' duchi, si volle, a modo de' Franchi e d'altri Germani, partirlo fra Pertarito e Gondiperto, figli di Ariperto (661), sedendo il primo in Milano[182], l'altro in Pavia. L'ambizione non li lasciò in concordia, e Gondiperto volendo spodestare il fratello, spedì Garibaldo duca di Torino per invocare soccorsi da Grimoaldo duca di Benevento. La storia di Grimoaldo è un romanzo. Gli Avari in gran numero avendo invaso il Friuli, Gisolfo, che v'era duca, fortificò tutti i varchi e le castella, e nominatamente Cormona, Nimaso, Osopo, Artenia, Ragona, Gemona, Biligo, per ricoverarvi la gente inerme: egli poi affrontò i nemici; ma per quanto valoroso, fu soverchiato dal numero e ucciso. Gli Avari si sparsero guastando la campagna, assediarono Cividale dove s'era rinchiusa Romilda, vedova di Gisolfo, coi figli Tasone, Cacone, Romoaldo e Grimoaldo e quattro figliuole. Duravano a resistere; ma Romilda, adocchiato dalle mura il kacano de' nemici, lasciva od ambiziosa mandò esibirsegli pronta a cedergli la città purchè la sposasse. Finse egli aderire, ma avuta la porta, lasciò la città al furore e alle fiamme; e tenuta Romilda una notte, la abbandonò alla brutalità di dodici suoi, poi la fece impalare, dicendo: — Ben ti stia un tal marito». Assai differenti le costei figliuole si sottrassero alla libidine nemica col fingersi puzzolenti, tenendo carni fetide in seno. Il kacano avviò esse coi fratelli e coi cittadini verso la Pannonia in ischiavitù; ma il Consiglio degli Avari pensò meglio ucciderli tutti, salvo le donne e i fanciulli. I figli di Gisolfo, avutone sentore, procuraronsi de' cavalli e fuggirono. Grimoaldo, il più piccolo fra essi, cavalcava in groppa a un fratello, ma non potendo reggersi cadde. Il fratello, non vedendo in lui che un impaccio, e nol volendo schiavo de' Barbari, brandì la lancia per trafiggerlo; ma il bambino implorò pietà, e che avrebbe forza di tenersi a cavallo: di che l'altro impietosito il ripigliò. Ma ecco gli Avari sopragiungono, e un d'essi riesce a ghermire Grimoaldo, e senz'altro mal fargli, sel pone in groppa e s'avvia al ritorno. Il fanciullo, invece di desolarsi da fiacco, occhieggiava lo scampo, e côlto il destro, trasse il pugnale dalla cintura del rapitore e glielo confisse nel capo. Quegli cadde, e Grimoaldo voltò allegro il cavallo verso i suoi fratelli[183]. Le virtuose sorelle, comunque vendute più volte, illibate poterono esser poi ricompre dai fratelli, e sposate a duchi stranieri. Tasone e Cacone ottennero di nuovo il ducato del Friuli; e vedemmo (pag. 89) come, per tradimento dell'esarca, fossero uccisi in Oderzo. L'audace Grimoaldo, cresciuto in età, fu posto duca di Benevento, e a lui Gondiperto mandò chiedendo soccorsi: ma l'infido ambasciadore lo persuase a venir sì, ma per esterminare entrambi i principi stranieri, e recarsi in mano un regno che avea mestieri di robusti campioni, non di fanciulli. La proposta era conforme al genio di Grimoaldo; che presto regnò, essendo Gondiperto ucciso dal traditore Garibaldo. Pertarito, come udì che Pavia si era resa al ribelle, vilmente fuggì, lasciata a Milano la moglie Rodelinda e il fanciullo Cuniperto, che da Grimoaldo furono spediti a Benevento. Pertarito ricoverò presso il kacano degli Avari; il quale ricusò un moggio d'oro che Grimoaldo gli offeriva se gli consegnasse il ricoverato; pure insinuò a questo di abbandonare le sue terre. E Pertarito osò rientrare in Italia e confidarsi alla generosità del nemico, e giunto a Lodi, mandò a chiedergli sicurezza. Piacque l'atto a Grimoaldo, che gli promise salvezza ed agi; ma poi vedendolo ben accetto ai Longobardi, che in folla accorreano a visitarlo, ne prese ombra, e pensò torlo di mezzo. Lo fe dunque circondare nel palazzo assegnatogli in Pavia; ma Unulfo, suo fedele servitore, travestitolo da schiavo e fingendo cacciarlo a mazzate, il campò di mezzo alle sentinelle, e calollo dalle mura nel Ticino, donde passò ad Asti, e di quivi in Francia. Intanto il guardarobiere, chiusosi nella camera di Pertarito, ai soldati spediti a prenderlo pregava indugiassero finchè colui avesse digerito il troppo vino: alfine fu scoperta la pietosa frode, e Grimoaldo la perdonò, e volle tra' suoi Unulfo. Saputo poi che questo erasi ritirato nella basilica di san Michele, lo affidò della sua parola, e rimandollo col guardarobiere e con molti doni al sempre desiderato padrone. Grimoaldo, vigoroso di braccio, tenace di proposito, mantenne l'ordine nell'interno (662); avversissimo ai Romani, distrusse la risorta Oderzo per vendicare i suoi fratelli ivi uccisi; respinse i Franchi venuti per restituire Pertarito. Onde assicurarsi il titolo di re, avea costretto una sorella dei predecessori a sposarlo, e dato ai duchi tali privilegi, da renderli quasi indipendenti e snervare la monarchia. D'altra parte, compiuta allora la conversione de' Longobardi, acquistava preponderanza il clero, e per esso il papa; i quali miravano a conservare ciò che i conquistatori a distruggere, la nazionalità italiana. Grimoaldo avea lasciato duca di Benevento suo figlio Romoaldo; onde l'imperatore Costante II, che s'era fatto esecrare a Costantinopoli col perseguitare i Cattolici, pensò redimersi del pubblico obbrobrio coll'assalire quel fanciullo, a titolo di sbrattare l'Italia, e rinnovarvi l'imperio romano, o fors'anche restituirne la sede a Roma dove credeasi più sicuro. Armato in Sicilia e sbarcato a Taranto, chiamò attorno al drago imperiale le guarnigioni delle città marittime, e con esse marciò sopra Benevento (663). Il giovinetto Romoaldo valorosamente si difese, ma ridotto agli estremi, cercava patti. Re Grimoaldo accorse in ajuto del figliuolo, e mandò innanzi Sesualdo, balio di questo, per avvertirlo del suo avvicinarsi. Sesualdo cadde in potere dei Greci, i quali lo obbligarono a dire agli assediati, non dovessero sperare verun soccorso. Egli promise: ma invece confortò Romoaldo a durare, giacchè suo padre avvicinava; tenesse raccomandati la moglie e i figli suoi, ch'egli era certo di non sopravivere. Di fatto Costante fe mozzarne il capo e balestrarlo in città: poi levò il campo al sopragiungere di Grimoaldo, il quale rincacciò i nemici sin presso Formia, e il sconfisse. I Beneventani conservavano riti superstiziosi; adoravano immagini di serpenti; ad un albero sacro attaccavano un pezzo di cuojo, poi correndo a briglia sciolta e scagliando dardi all'indietro, chi così riuscisse e staccarne alcun pezzo, sel mangiava per devozione. Il pio Barbato che poi vi fu vescovo, predicava contro tali idolatrie, e Romoaldo gli promise estirparle se Dio gli desse vittoria. Liberato Benevento, osservò la promessa, e Barbato di propria mano recise l'albero sacrilego. Saputo però che Romoaldo teneva ancora nel suo gabinetto un serpente d'oro, persuase Teodorada moglie di lui a consegnarglielo, e ne fa fare un calice e una patena. Romoaldo non solo nol punì, ma gli offerse estesissimi poderi; ed esso li ricusò, sol cercando aggregasse alla sua diocesi Siponto, dov'era la grotta di San Michele. Costante II, giacchè non sapeva vincere nemici, volle spogliare sudditi inermi, e gettatosi su Roma, derubò quel ch'era avanzato delle depredazioni anteriori. Non saziato dai doni di papa Vitaliano, si prese tutto il bronzo del Panteon, perfino il copertume metallico, e recò le prede in Sicilia. Ma quando veleggiavano per Costantinopoli, una squadra saracina le assalì e portolle in Alessandria, donde forse alcune di esse erano un tempo passate a Roma. Sei anni rimase quell'imperatore in Siracusa, facendola soffrire de' suoi capricci (668), finchè un Mesenzio lo assassinò, credendo ben meritare perchè eretico[184]. Costantino Pogonato suo figlio, raccolta gran gente dall'Istria, dalla Sardegna, dall'Africa, piombò sopra Siracusa, uccise Mesenzio ch'erasi dichiarato imperatore, e la testa di lui e degli altri congiurati mandò a Costantinopoli. Ma intanto Romoaldo avea pensato vendicarsi dell'aggressione, e a capo d'una ciurma di Bulgari tolse all'Impero le città di Bari, Taranto, Brindisi e Terra d'Otranto, conquiste che non potè conservare. I Bulgari erano gente sottoposta un tempo agli Avari, dai quali riscossasi, devastò l'Impero, e offrivasi a servigio di chi la pagasse. Alquanti di essi aveano ottenuto i deserti territorj di Supino, Bojano, Isernia, con giurisdizione signorile, dipendente però dal duca di Benevento, e vi conservavano la patria lingua. Al modo stesso nell'alta Lombardia voleano piantarsi gli Avari, chiesti da Grimoaldo contro il ribellato duca del Friuli; ma il re li respinse. Morto questo (671), i duchi irrequieti deposero il figlio Garibaldo, e richiamarono Pertarito dall'esiglio al trono. Con erigere Sant'Agata in Monte e Santa Maria in Pertica[185] a Pavia, attestò la sua gratitudine a Dio che l'avea campato da tanti pericoli, e quindici anni regnò, osservante della giustizia, limosiniero, istruito dalla sventura a non abusare della prosperità. Ma due fazioni, una contraria, l'altra seconda a questi re bavaresi, non cessavano di rimescolare il regno. Mal seppe destreggiare Cuniperto, figlio di Pertarito (686); sicchè i duchi di Benevento e di Spoleto fin l'ombra cessarono di dipendenza. Altrettanto di propria balìa operavano i duchi del Friuli, posti come sentinella avanzata contro nuovi invasori d'Italia. Fra quelli nomineremo Ferdolfo (694), che provocò gli Schiavoni tenendosi certo di vincerli; ed essi vennero, e cominciarono a rubare le pecore. Lo scultascio Argaido, nobile e prode uomo, uscì loro incontro, ma non potè raggiungerli; e il duca lo rimproverò d'averli lasciati sfuggire, dicendo che ben gli stava il suo nome, derivato da arga, che in longobardo vale poltrone. Argaido replicò: — Voglia Dio chiarire qual di noi due sia più poltrone». Pochi giorni dopo, gli Schiavoni tornarono grossi, ed accamparono s'un'altura. Ferdolfo ronzava a piè di quella, divisando i modi di assalirla, quando Argaido gli rammentò l'ingiuria; e — Maledetto da Dio chi di noi sarà l'ultimo ad assalire gli Schiavoni». Spronato, salì per la montagna, e Ferdolfo altrettanto; ma gli Schiavoni rotolando sassi uccisero quei due e la nobiltà che li seguì. Così il puntiglio, come altre volte, recò a rovina il paese. Anche il poderoso Alachi duca di Brescia (688), ingrato a Cuniperto, tramò con Aldone e Gransone, primarj cittadini, e usurpò il titolo regio; ma ben presto disgustò il vescovo di Pavia e altri signori longobardi. Un giorno, numerando certe monete, gliene cascò una; e al giovinetto figlio di Aldone ivi presente che gliela raccolse, disse: — Di queste tuo padre ne ha d'assai, e presto diverranno mie». Il fanciullo riferì quel motto al padre, che prevenne la minaccia col richiamare Cuniperto dalla piccola e forte isola del lago di Como. Venne questi, e scontrato Alachi alla Coronata (Cornate) presso l'Adda, lo sfidò a duello; ma Alachi riflesse: — Costui è ubbriacone, ma robustissimo della persona. Vivo suo padre, trovandosi in palazzo certi montoni di smisurata grossezza, li sollevava col braccio teso; ed io non potevo altrettanto». Men codarda ragione addusse quando, di nuovo esortato a duellar col nemico, rispose che negli stendardi di quello vedeva l'effigie dell'arcangelo Michele, davanti al quale esso gli avea giurato fedeltà. Il rifiuto svolse da lui molti de' fedeli, i quali unico merito riconosceano la forza. Al contrario, Cuniperto era amatissimo da' suoi; tanto che Zenone diacono della chiesa di Pavia volle assumere la veste di esso, per trarre contro di sè l'attenzione e le armi del nemico, e così sviarle dal vero re; e di fatto rimase ucciso. Ma i Longobardi s'infervorarono alla battaglia, e ucciso Alachi, e tuffatone l'esercito nell'Adda, assicurarono a Cuniperto la vittoria e il regno. Cuniperto, diffidando de' bresciani Aldone e Gransone, pensava torli di vita, e ne divisava i modi col suo cavallerizzo, allorchè sulla finestra venne a posarsi un moscone, e il re con una coltellata gli levò una gamba. Intanto i due fratelli, com'erano soliti, s'avviavano alla reggia, quand'ecco uno privo d'una gamba gli avvisa del pericolo che correano, sicchè essi rifuggono in una chiesa. Il re, dubitando che alcuno de' suoi fedeli gli avesse ammoniti, invia a prometter loro sicurezza se indichino da chi ebbero l'avviso; ed essi confessano averlo avuto da uno zoppo sconosciuto. Cuniperto, ricordatosi del moscone, comprese che quello era uno spirito maligno, che avea spiato i secreti di lui per rapportarli. Paolo Diacono riferisce ciò in tutta serietà; e sopra storici siffatti siamo costretti tessere la storia. Agnello, che scrisse le vite degli arcivescovi di Ravenna, ha racconti dello stesso calibro: e ne basti uno. Giovanni, abate del monastero di San Giovanni presso Ravenna, molestato dall'esarca, andò a Costantinopoli e si pose sotto al palazzo cantando versetti di salmi, finchè l'imperatore il fe chiamare, e intesone le ragioni, gli diede una commendatizia per l'esarca. Al domani stesso scadeva il termine da questo prefisso ai monaci per addurre le loro ragioni; onde l'abate struggevasi di ritornare al più presto, ma non trovò nave. Dolente passeggiava sul lido, quando gli si affacciarono tre uomini nerovestiti, e udito il suo rammarico, gli promisero rimetterlo a casa il domani, se facesse com'essi gli diceano. E gli diedero una verga, colla quale delineasse sulla sabbia una barca, colla vela e colla ciurma: poi vollero si collocasse in un letto nella sentina, e per rumori e turbini che intendesse, non si sgomentasse nè facesse il segno della croce. Come detto così fatto: il fracasso fu indescrivibile; ma a mezzanotte egli si trovò sul tetto del suo monastero. La meraviglia dei monaci e dell'esarca lascio immaginarla: egli raccontò la cosa all'arcivescovo, che gl'impose una penitenza. Ciò che risulta da queste baje è che gl'italiani stavano altrettanto male sotto i Longobardi che sotto i Greci. Cuniperto, tenuto il regno dodici anni, lo trasmise al giovinetto figlio Liutperto (700), sotto la tutela del nobile e saggio Ansprando. Ma in breve da Ragimperto duca di Torino ne fu spodestato, poi ridotto prigioniero e ucciso da Ariperto II (701), figlio e successore di quello, che dovette continuamente lottare contro altri duchi: regni brevi, successioni tempestose, che toglievano d'invigorire la monarchia. Ansprando, tutore di Liutperto, erasi rifuggito nell'isola Comacina, ma assalito da Ansperto, passò in Baviera. Ariperto si svelenò contro gli amici di Ansprando, al figlio di esso fe cavar gli occhi, alla moglie e alla figliuola mozzar il naso e gli orecchi. Ma Ansprando coi Bavari rivalicò le Alpi, e vinse Ariperto (712), che guadando il Ticino a Pavia affogò, ultimo degli Agilulfingi in Italia. Dicono uscisse travestito per intendere quel che di lui si dicesse: agli ambasciadori stranieri mostravasi in abito dimesso e con pelliccie volgari e volgari imbandigioni, per non allettarli alle squisitezze italiane. Ma queste voglionsi difendere con valorosa concordia, piuttosto che celare con pusillanime astuzia. I Longobardi unanimemente acclamarono il prudente Ansprando, che regnò soli tre mesi[186], ma vide eletto a succedergli suo figlio Liutprando, che in trentadue anni di regno rinnovò lo splendore della signoria longobarda. Le prime cure applicò a riformare lo Stato, comprimendo le rinascenti sollevazioni anche col supplizio d'alcuni duchi; molti castelli tolse ai Bavari, che forse meditavano recuperare il trono; si tenne buoni i Franchi e gli Avari, e dettò leggi prudenti, in capo alle quali s'intitola _cristiano e cattolico, re dei Longobardi a Dio diletti_. Coraggioso fin alla temerità, udito che un Rotari suo parente avea disposto di ucciderlo in un convito, lo chiamò a sè, e tastato se veramente portasse il giaco di ferro sotto ai panni, respinse colla propria la spada che costui trasse, e lo fece uccidere. Saputo che due gasindi gl'insidiavano i giorni, gl'invita a caccia, ed appartatosi solo con essi soli, rinfaccia il perverso consiglio; indi gettate le armi, — Ecco il re vostro; fatene secondo vi piace». Vinti al generoso e franco atto, gli caddero a' piedi, ed esso li perdonò e beneficò. Anche colla Chiesa stette in armonia, e confermò il dono di molti beni nelle alpi Cozie, fattole da Ariperto II. Rintegrato l'ordine e l'obbedienza, svelto ogni seme delle guerre civili, ridrizzò l'animo al disegno de' suoi predecessori, d'unire tutta Italia snidando i Greci. E la fortuna parve mandargliene il destro. CAPITOLO LXVII. Gli Iconoclasti. Origine della dominazione temporale dei papi. L'imperio romano continuava colle antiche forme a Costantinopoli, ma sempre più fievole e minacciato da diversi nemici, ai quali vennero ad aggiungersi i Musulmani. Maometto avea predicato agli Arabi (622) una religione, di dogmi semplicissimi, ridotti quasi solo alla unità di Dio; di morale condiscendente e sanguinaria, giacchè ripristinava la pluralità delle mogli e il diritto della forza, che il cristianesimo avea sbanditi. Subito i suoi discepoli, armati di scimitarra e d'intolleranza, uscirono dalla penisola natia gridando, — Non v'è altro dio che Dio, e Maometto è suo profeta»; e vedendo non potere dar trionfo alla loro se non soffocando ogni altra civiltà, diressero le prime offese contro i luoghi dov'era nata la religione cristiana, occupando Gerusalemme e la Palestina, poi con una spaventevole rapidità ebbero sottoposto gran parte dell'Asia, il lembo settentrionale e l'orientale dell'Africa, e minacciavano l'Europa dai due lidi che più l'avvicinano, dallo stretto di Gibilterra verso la Spagna, e dall'Ellesponto verso Costantinopoli. L'Impero, spogliato per essi delle sue più belle provincie, videsi ridotto a difendere la capitale, che più volte assalita, si sosteneva per la felicissima postura. A sì gravi frangenti mal bastavano i discendenti d'Eraclio, che deboli, litigiosi, disumani, peggioravano la condizione de' paesi a loro soggetti, fra' quali mezza l'Italia. Terminata la loro stirpe, seguirono imperatori elettivi; e Leone, pastore d'Isauria mutatosi in guerriero, avea tanto ben meritato col combattere Bulgari e Saracini, che fu portato imperatore (717). La prodezza di lui prometteva un difensore valente, l'operosità un egregio amministratore, un buon fedele l'aver ai vescovi giurato di rispettare i concilj e le decisioni della Chiesa: ma riuscì troppo lungi dalle speranze, e sul trono già turbato da tanti eretici, egli volle comparire eresiarca. Nessuno ignora quanto abborrimento il legislatore degli Ebrei avesse a questi ispirato contro ogni immagine d'uomini o della divinità, conoscendoli propensi a confondere la rappresentazione col rappresentato. I Cristiani, usciti dalla sinagoga, probabilmente rifuggirono sulle prime dall'effigiare Dio e i Santi: ma oltre esser naturale nell'uomo il venerare le sembianze delle persone o care o stimate, già usavano i Romani una specie di culto ai ritratti degl'imperatori e vivi e morti; onde i Cristiani, intenti a volgere alla verità gli stromenti della menzogna, è probabile che presto effigiassero Cristo e gli Apostoli. Può l'ignoranza essere trascorsa a confondere la copia coll'originale, e prestar adorazione a ciò ch'era destinato unicamente ad elevare le aspirazioni verso l'Ente supremo; laonde alcuni Padri e concilj riprovarono le immagini, o per genio particolare, o per ispeciale pericolo che ne scorgessero: però la Chiesa, che, immobile nel dogma, piegasi nei riti e nella disciplina alle opportunità dei paesi e de' tempi, trovò soverchio questo rigore quando ne fu cessata la ragione, cioè il timore dell'idolatria. Allora si moltiplicarono le figure dei Santi e del Salvatore, e le storie dell'Antico e del Nuovo Testamento, opportune a dare alle arti il pascolo, che fin allora avevano tratto dal gentilesimo, ed allettare gli occhi dei Barbari, a cui talvolta la curiosità d'intendere il componimento di quelle pitture serviva d'avviamento a conoscere le morali verità del Vangelo. Qual cosa umana va esente da abusi? e questi mossero alcuni a riprovare quel culto, e viepiù quando i Maomettani, aborrenti dall'effigiare la divinità, lo rinfacciavano ai Cristiani come idolatria: laonde Leone Isaurico, valendosi dell'autorità che gl'imperatori si arrogavano sopra le cose ecclesiastiche, lo proibì, e violentemente distrusse le effigie devote. Le coscienze si rivoltano sempre contro chi pretende forzarle; e il popolo che era affezionato a quelle devote e antiche rappresentazioni, levò d'ogni parte mormorii; quantunque i prelati greci apparissero troppo spesso ligi all'imperiale volontà, il patriarca Germano protestò contro l'incompetente decreto, e ne scrisse al papa e ad altri vescovi, appoggiando il culto delle immagini colle ragioni, coll'autorità, coi miracoli per esse moltiplicati. La violenza chiama violenza; e il popolo, sturbato nelle sue devozioni, insorse a furia contro lo spezza-immagini (_iconoclasta_); dovunque i messi di lui si presentassero ad abbatterle, il popolo toglieva a difenderle a pugni, a sassi, a coltelli; e l'imperatore per esser obbedito bandì il patriarca, moltiplicò i rigori e i supplizj. L'Italia greca ne toccava la sua parte; e avendo papa Gregorio II esposta all'imperatore la dottrina della Chiesa su questo punto, l'Iconoclasta per tutta risposta raddoppiò intimazioni d'obbedire o guai. I Ravennati non poterono reggere a questo rinforzo di tirannia, e levato popolo, trucidarono l'esarca e chi per lui; altrettanto fecero i Napolitani; e il loro duca Esilarato, venuto per assassinare il papa, fu col figliuolo ucciso dai Romani, che insorti a difendere nella persona del pontefice la religione e le franchigie loro, espulsero il greco governatore. Per tutta l'Italia imperiale si propaga la rivolta; una di quelle che riescono, perchè determinate da sentimento di giustizia e di religione, non da sottigliezze che il popolo non intende, e da cui non ha profitto. Armati per propria difesa, ricusando il peccato e il tributo, non versano altro sangue se non quello che difficilmente si può risparmiare in un primo e contrastato bollimento popolare[187]; abbattono le statue dell'augusto; e accordandosi di più non voler affari con questi Greci, temuti come tiranni, spregiati come deboli, aborriti come eretici, eleggono magistrati nazionali in luogo di quei che venivano da Costantinopoli o da Ravenna, e risolvono nominare un imperatore che sieda a Roma e osteggi Leone. Tanto l'ambizione dei papi rimase estranea a questo spontaneo moto, che Gregorio intercesse per Leone[188], sperando si convertirebbe alla verità; per sue insinuazioni a Roma fu conservata, a Napoli restituita l'autorità imperiale. Vero è però che, nel fiaccarsi dell'imperiale arbitrio, ripigliavano vigore gli ordinamenti municipali, e quindi l'autorità de' pontefici: nobili, consoli e popolo ebbero ricuperato la rappresentanza loro quando furono raccolti a concilio per condannare l'opinione, che ad essi l'imperatore comandava. Civitavecchia fu munita, e in nome del ducato romano conchiusa alleanza coi Longobardi meridionali, pur conservando l'esteriore soggezione all'Impero. Gregorio fu dunque il primo di que' pontefici che, ne' tempi nuovi, rannodarono la federazione italiana; sotto la religiosa sua presidenza unendo le città che non voleano ricevere il giogo longobardo, nè sopportare il greco. Profittò di questi sovvertimenti re Liutprando, e con aspetto di favorire l'equità e la libertà di coscienza, assalse ed occupò Ravenna[189]; Bologna e la Pentapoli (728): ma i Veneziani, sollecitati dal papa contro questi Barbari, mandano il doge Orso Participazio, il quale piomba sul re longobardo, lo sconfigge, ne fa prigione il nipote, e sgomberata Ravenna, vi insedia l'eunuco Eutichio, speditovi esarca da Costantinopoli. Liutprando, il quale avea sperato che nel pontefice la recente offesa potesse più che il bene generale della penisola, al trovarsi deluso s'accannisce, conchiude pace con Eutichio, promettendo dargli mano a sottoporre i riottosi, purchè a vicenda egli il soccorra contro i duchi di Spoleto e di Benevento, sollevati a favore di Roma. Riuscita l'impresa, i due eserciti congiunti si difilano sopra Roma, per punirla entrambi d'opposti torti; i Greci dell'avere disobbedito all'imperatore, i Longobardi dell'essergli rimasta fedele. Il papa, venuto al campo nemico, parlò a Liutprando con tale pietà, che questo, il quale pur confessava legalmente la supremazia del papa[190], se gli gettò ai piedi promettendo non far male ad alcuno; e seco entrato nella basilica Vaticana, sul corpo de' santi Apostoli depose in dono il manto reale, i braccialetti, l'usbergo, il pugnale, la spada dorata, la corona d'oro, la croce d'argento. Ma l'imperatore di Costantinopoli continuò a vessare il papa, il quale gli scrisse risentito, rinfacciandogli l'ignorante sua presunzione, e minacciando la rivolta di tutta Italia: — Voi imperatore, voi capo dei Cristiani, perchè non interrogaste uomini addottrinati ed esperti? ei v'avrebbero insegnato che, se Dio proibì d'adorare le opere degli uomini, fu in riguardo degli idolatri che abitavano la terra promessa. Solo l'ignoranza può farvi credere che noi adoriamo pietre, muraglie, tavole: noi lo facciamo unicamente per rimembrare coloro di cui queste portano il nome e le sembianze, e per elevare il nostro spirito torpido e grossolano. Tolga il cielo che le teniamo per Dei, nè poniamo in esse fiducia; ma a quella di nostro Signore diciamo, _Signor Gesù, soccorreteci e salvateci_; a quella della sua santa madre, _Santa Maria, pregate il figliuol vostro che ci salvi le anime; se è d'un martire, Santo Stefano che spargeste il sangue per Gesù Cristo, e presso lui tanta grazia avete, pregate per noi_». Prete Giorgio, che dovea portar questa lettera all'imperatore, per via fu còlto dai soldati imperiali che lo cacciarono prigione, dopo toltogli il dispaccio; e l'Isaurico rispose: — Manderò a Roma a sfrantumare l'immagine di san Pietro, e fare con papa Gregorio come Costanzo con papa Martino, portandolo via carico di catene». Ma Gregorio replicava: — I pontefici sono i mediatori e gli arbitri della pace fra l'Oriente e l'Occidente, nè le minaccie vostre ci sbigottiscono. A poche miglia da Roma siamo in sicuro. Gli occhi delle nazioni stanno fissi sopra la nostra umiltà; esse riveriscono quaggiù come un dio l'apostolo san Pietro, di cui voi minacciate frangere la figura: i regni più remoti d'Occidente tributano omaggio a Cristo e al suo vicario; voi solo state sordo alle sue voci. Se persistete, ricadrà su voi il sangue che potesse versarsi». Sentiva dunque il pontefice che, contro l'oppressione del mondo antico, troverebbe schermo nelle genti nuove; e sapendosi insidiato, prese guardia alla propria persona, e informò gl'Italiani dell'occorrente. I popoli della Pentapoli e i Veneziani chiarironsi pel culto avito, scotendosi dalla soggezione agli ordini di Costantinopoli: i Longobardi si opposero all'esarca di Ravenna che avviava l'esercito verso Roma. Non minor fermezza del predecessore palesò Gregorio III, il quale non chiese la conferma dell'esarca (731), repudiò gli editti che proscrivevano le immagini, esortò l'imperatore a cassarli; e non esaudito, ricorse all'armi sue raccogliendo novantatre vescovi d'Italia, che dichiararono anatema chi le distruggesse, profanasse o bestemmiasse. Infellonì Leone a tale annunzio, e non potendo per allora contro le vite, nocque alle sostanze dei disobbedienti col crescere d'un terzo il tributo e la capitazione in Sicilia e Calabria, e staggire i patrimonj che da antichissimo vi teneva la santa sede; sottrasse al metropolita di Roma e sottopose a quello di Costantinopoli le chiese di Napoli, Calabria, Sicilia ed Illiria; poi inviò in Italia un grosso navile: ma sul golfo Adriatico andò disperso da violenta fortuna. Le reliquie della flotta approdate a Ravenna, tentarono saccheggiarla; ma il popolo, avutone sentore, diè di piglio alle armi, e li respinse ed affogò, e per più anni seguì a far festa di un tale avvenimento. Salvo da questo frangente, il papa si trovò in un nuovo per parte di Liutprando. Trasimondo duca di Spoleto, che questi aveva precedentemente soggiogato, era di nuovo insorto; talchè Liutprando dovette muovere contro di lui l'esercito. Trasimondo fuggì a Roma, e avendone il re domandata l'estradizione, Gregorio e Stefano patrizio e l'esercito romano ricusarono. Il re sdegnato, insieme con Ildeprando che in occasione di malattia gli era stato dato collega (740), entrò nel paese[191] e pigliò Amelia, Orte, Bomarzo e Bleda. Per allora voltossi indietro, ma essendo Trasimondo ritornato a Spoleto coll'ajuto de' Beneventani e de' Romani, Liutprando invase di nuovo il ducato romano, e benchè a Rimini fosse messo a fil di spada parte del suo esercito, e tra Fano e Fossombrone lo assalissero vigorosi i natii, difilavasi sopra Roma. Gregorio, non vedendo scampo nelle forze proprie, e nulla avendo a sperare dai Greci, pensò ricorrere a principe barbaro. Come nella Gallia Cisalpina i Longobardi, così nella Transalpina si erano piantati i Franchi, e Clodoveo lor re fu il primo dei Barbari che, col battesimo, accettasse le credenze cattoliche e la soggezione ai papi, i quali perciò fregiarono col titolo di _cristianissimo_ lui ed i suoi successori. Vedemmo come essi fossero pericolosi vicini ai Longobardi, da cui lungamente esigettero un tributo: ma poi digradarono dalla primitiva robustezza, e i re, datisi al far niente, abbandonarono l'autorità ai maggiordomi. Tale dignità pertanto fu ambita, e Pepino d'Héristal (687-714) riuscì a renderla ereditaria in sua casa, ai re lasciando soltanto il titolo e il fasto. Suo figlio Carlo acquistò il soprannome di _Martello_ pel valore guerriero, che spiegò principalmente contro i Musulmani. Questi, occupata la Spagna, aveano valicato i Pirenei e minacciavano la Francia, ed era pericolo che Maometto prevalesse a Cristo anche in Europa come in Asia; laonde il pontefice avea spedito a Carlo tre spugne colle quali ripulivasi la mensa eucaristica, onde confortarlo a combattere que' nemici della nostra fede e della nostra civiltà. L'eroe li vinse più volte, poi (732) decisivamente a Poitiers; il papa gli mandò regali e il titolo di patrizio romano: il longobardo Liutprando ne chiese l'alleanza; ed avendogli il Franco inviato suo figlio Pepino acciocchè l'adottasse come figlio d'onore, il re gli recise i capelli, e lo rimandò con larghi donativi[192]. A costui, che l'Europa acclamava vincitore dei figli d'Agar, salvatore della cristianità, è naturale che il papa, minacciato dai Longobardi, volgesse gli occhi, e gli diresse una lettera così compilata: — Gregorio all'eccellentissimo figlio signor Carlo, vicerè (_subregulus_) di Francia. In estrema afflizione noi gemiamo, vedendo la Chiesa abbandonata da que' suoi figli stessi che dovrebbero a sua difesa consacrarsi. Lo scarso territorio di Ravenna, che unico ci rimaneva l'anno scorso per sostentamento dei poveri e illuminazione della Chiesa, fu posto a ruba e fuoco da Liutprando e Ildeprando re longobardi; hanno distrutto i poderi di san Pietro, tolto il bestiame che rimaneva, desolato fin i contorni di Roma. Neppure da te, eccellentissimo figlio, abbiamo fin a quest'ora ricevuto consolazione di sorta, e conosciamo che, invece di riparare questi mali, presti maggior fede ai principj da cui derivano, che non alla verità da noi esposta. Preghiamo l'Altissimo che di tale peccato non ti punisca, ma potessi tu udire i rimproveri di costoro che ci dicono, Ov'è questo Carlo, di cui implorasti la protezione? venga egli, e con quei formidabili suoi Franchi ti salvi dalle nostre mani. Qual dolore ci cuoce all'udire questi rimbrotti! al veder così possenti figli della Chiesa non mover dito per difenderla e vendicarla de' nemici! Il principe degli Apostoli, accinto di sua potenza ben potrebbe farle schermo: ma egli vuol provare in questi tempi disastrosi il cuore de' suoi figliuoli. Non prestar dunque fede a quei re quando accusano i duchi di Spoleto e di Benevento: unica loro colpa è di non avere voluto l'anno scorso assalirci contro la santa fede; del resto obbediscono affatto ai re, eppure si vuole privarli del grado, metterli in esiglio per non aver ostacoli a soggiogare la Chiesa e farla schiava. Mandaci uno de' tuoi fidati, incorruttibile a doni, a minaccie, a promesse, che coi proprj occhi veda le nostre persecuzioni, l'avvilimento della Chiesa, le lagrime dei pellegrini, la ruina del nostro popolo, e te esattamente ragguagli. Pel giudizio di Dio e per la salvezza dell'anima tua t'esortiamo a soccorrere alla Chiesa di san Pietro e al popol suo, ed allontanare questi perfidi re. Pel Dio vivente e per le chiavi della confessione di san Pietro, che a te spedisco in segno di dominio[193], t'affretta al nostro sussidio, chiarisci la tua fede, e accresci in tal guisa la fama che di te va pel mondo; acciocchè il Signore ascolti te pure nell'afflizione, e il nome del Dio di Giacobbe ti protegga, e noi possiamo sulla tomba dei santi Pietro e Paolo pregar contenti giorno e notte l'Eterno per te e pel tuo popolo». Che il portatore di questa lettera tenesse istruzioni a voce per accordarsi con Carlo onde mutare dall'Impero a lui la signoria di Roma, nessun argomento n'abbiamo; anzi il papa dovette con istanze nuove sollecitare Carlo, che alla perfine spedì messi a Liutprando. Ma mentre si menavano trattati, e il maggiordomo e l'imperatore e il papa morirono (741); e Zacaria succeduto a questo, venne in persona a Terni, e a forza di bontà e di dolcezza indusse il re longobardo a restituire le città romane occupate. Trasimondo di Spoleto, vistosi abbandonare dai Romani, si consegnò a Liutprando, che si contentò di farlo chiudere in un convento: Gregorio duca di Benevento, mentre voleva camparsi in Grecia, fu trucidato a furor di popolo. Liutprando conferì i due ducati a parenti suoi, indi, perfidiando le promesse, ritenne quante città di Romagna aveva occupate, sinchè il papa, trovatolo novamente, l'indusse a cederle e donarle alla santa sede. Restava la nimicizia coll'esarcato, e Liutprando l'invase. Eutichio non trovò altro scampo che pregare il papa a interporsi; e questi di fatto mosse a quella volta, entrò nel dominio longobardo, e a Pavia persuase Liutprando a sospendere le offese. Poco poi i Romani respiravano per la morte di Liutprando (744), cui Paolo Diacono (il quale con esso chiude la sua storia) predica di gran senno, sagace in consiglio, grandemente pio, amator della pace, potente in guerra, clemente ai rei, casto, pudico, bel parlatore, largo limosiniero, ignaro di lettere eppur comparabile a' filosofi. Sappiamo ch'egli aggiunse un monastero alla basilica pavese di san Pietro in Ciel d'oro, dove fece trasportare il corpo di sant'Agostino, sottratto ai Musulmani che aveano invaso l'Africa e la Sardegna; tra le alpi parmensi fondò il monastero di sant'Abondio e Berceto, a Corteolona una chiesa di sant'Anastasio, a Pavia nel proprio palazzo una cappella a san Pietro, con preti che ogni giorno vi cantassero i divini uffizj. Le leggi da lui pubblicate attestano che i Longobardi aveano profittato della conoscenza del diritto romano: e al sommar de' conti, egli fu dei migliori, o forse il migliore fra i re longobardi. Pemmone, duca del Friuli, avea sposato Ratberga; e sebbene essa, nata rusticamente e brutta, più volte lo esortasse a lasciarla e prendersi altra moglie da par suo, la preferì perchè modesta e savia, e dal loro connubio nacquero Rachi, Racait e Astolfo, che Pemmone fece educare coi figliuoli di que' nobili che erano periti nel conflitto cogli Schiavoni. Rachi sì buon nome levò, che alla morte di Liutprando i Longobardi deposero Ildeprando collega di questo, e lui fecero re. Ricevuta la lancia del comando, Rachi si trovò in rotta non solo coi Romani e coi Transalpini, ma anche coi Longobardi del mezzodì, avvegnachè nel 746 pubblicava divieto di deputare messi a Roma, Ravenna, Spoleto, Benevento, nonchè in Francia, in Baviera, in Alemagna, in Avaria, in Grecia[194]. Al contrario Zacaria papa riceveva omaggio dai nuovi regni che si fondavano in Alemagna e in Inghilterra, e accolse san Bonifazio apostolo della Germania dandogli conforti a convertire il Settentrione, che ricevendo la fede da Roma, al pontefice prestava un omaggio illimitato. Zacaria, istruito che Rachi, rotta una tregua giurata, tornava sopra la Pentapoli, andò a trovarlo a Perugia, e non solo il distolse, ma gli toccò il cuore per modo, che poste la moglie Tasia e la figlia Rotrude (749) in un monastero, egli andò a chiudersi in quel di Montecassino, ove pur dianzi erasi ritirato Carlomanno, fratello del maggiordomo di Francia[195]. Astolfo fratello di Rachi, portato al regno dal pubblico voto, ripigliò le ostilità coi Greci; e sicuro in armi, le menò con tanta fortuna, che in due anni (752) si rese padrone dell'Esarcato e della Pentapoli; e per togliere alla conquista il carattere di passeggera, mutò la sede da Pavia all'imperiale Ravenna. L'esarca Eutichio rifuggì a Napoli, e fu l'ultimo che governasse l'Italia greca; perciocchè i possessi rimasti all'Impero furono divisi ne' _temi_ o distretti di Sicilia e Calabria; i duchi di Napoli, Gaeta, Bari ed altre città operavano omai di balìa propria, sotto la nominale supremazia dello stratego siciliano. Il posseder Ravenna parve ad Astolfo ragione valevole per attirarsene tutte le dipendenze e Roma stessa; onde intimò al senato e al popolo romano prestassero a lui l'obbedienza che soleano al signor di Ravenna; e sostenne l'intimazione con grosse armi. Il nuovo papa Stefano II con regali e preghiere lo indusse ad una pace di quarant'anni: ma scorsi quattro mesi appena, Astolfo la guastò, e impose ai Romani un annuo tributo, fintanto che non gli piacesse annestare quel ducato al suo reame. Il papa ricorse dapprima alle devozioni, conducendo per Roma una processione, dove egli stesso, a piè scalzi, portava una delle immagini di Cristo non fatte a mano; e il popolo, asperso di cenere e gemebondo, seguiva una croce, alla quale erasi appeso l'accordo della pace violato dai Longobardi. Inviò poi l'abate di Montecassino ed altri sacerdoti che chiamassero il principe a migliori consigli; ma Astolfo li trattò d'alto in basso, ingiungendo tornassero ai loro conventi senza tampoco rivedere il papa. L'imperatore Costantino Copronimo, il quale incaparbito d'abolire le immagini, avea molestato senza posa il pontefice per cui mercè l'autorità sua erasi conservata in Italia, allora non fece che spedire con lettere Giovanni Silenziario. Il papa volle accompagnato dal proprio fratello il messo a Ravenna, unendo nuove suppliche ad Astolfo perchè restituisse l'Esarcato ai Greci: ma non che badarvi, costui raddoppiava armamenti e minacce come leon fremente, asserendo che i Romani tutti passerebbe a fil di spada se non si sottomettessero al suo dominio[196]. Stefano scrisse da capo all'imperatore parole da quel bisogno, acciocchè, secondo le iterate promesse, venisse a difendere l'Italia[197]: ma questo, più che de' Musulmani, più che de' Longobardi, brigavasi di sillogizzare contro il culto delle immagini, ed uccidere i monaci che le difendevano. Che più restava al papa? Memore di Gregorio III, si volse a Pepino il Piccolo, figlio di Carlo Martello e succedutogli come maggiordomo de' Franchi; e questi l'ascoltò più volonteroso del padre, e spedì un duca Autari e un vescovo invitandolo a condursi di là dall'Alpi. Il papa, coi messi Franchi e col reduce Giovanni Silenziario, fu alla corte longobarda per un'ultima prova: ma rimanendo Astolfo ostinato al proposito, Giovanni tornò disconchiuso in Oriente, Stefano prese la via di Francia. Come avranno guardato questa gita i contemporanei, e specialmente gl'Italiani? Da una parte vedevano essi gl'imperatori di Costantinopoli, che possedevano l'Italia, non come legittimi successori dei Cesari antichi, ma per conquista, e da conquista la trattavano, conculcando gli antichi privilegi; dall'altra, re stranieri armati e sbuffanti, che giurano e spergiurano, devastano città, sterminano popolazioni, mettono a spada e fuoco. Rimpetto a costoro, vecchi sacerdoti eletti dal popolo e tra il popolo, pregano, scrivono, fan processioni, mandano ambasciate, vanno in persona ad implorare nient'altro che pace e giustizia; al più mettono insieme un pugno di armati per pura difesa. Fra questi tre, intenti a conservare o sottomettere il nostro paese, stanno milioni d'Italiani, la cui sorte si decideva nei coloro dibattimenti, e che col papa pregavano e piangevano; dal re e dall'imperatore erano spogliati ed uccisi. Quanto non avevano sofferto sotto quel dominio, greco, lontano, irresoluto, arrogante, tiranno delle coscienze, peggiorato dalla ingordigia e prepotenza dei ministri, i quali non isdegnavano farsi satelliti ed assassini per obbedire! quanto non avrebbero dovuto soffrire cadendo sotto questi altri Longobardi, che ai loro fratelli toglievano e leggi e terre e magistrati e la compiacenza del nome italiano! Perocchè i Longobardi, come avviene di un governo militare, in tanti anni di dominio non s'erano punto naturati al nostro terreno, e il nome loro sonava così terribile, che i paesi cui si accostassero avventavansi alle armi per quanto lungamente disusate, onde respingere le stragi e l'oppressione serbate ai vinti. Se speranza di risorgimento, o almen di sollievo restava agl'Italiani, non potevano appoggiarla se non su quel pontefice, che da lungo tempo consideravano come loro rappresentante, tutore dei loro diritti, l'unico che sapesse consolare gli oppressi e intimar giustizia agli oppressori; pontefice, che pel carattere suo doveva essere più giusto, più mansueto; che faceva ancora venerato a tutte le nazioni quel nome romano che, per altrui cagione, era in estremo vilipendio. In quei tempi ordinati e sonnolenti, nei quali la dotta inerzia non sapeva aspettar bene se non dai re, gli scrittori serbarono ogni simpatia e raffinarono ogni sofisma a favorire il concentramento dei poteri e l'onnipotenza delle corone, e quindi non rifinivano d'imprecare al pontefice, il quale, col chiamare i Franchi, impedì che tutta Italia cadesse sotto la dominazione de' Longobardi. Per noi sussiste un altro criterio, il voto del popolo[198]; e lo storico imparziale deve guardare qual fosse la causa, il cui trionfo scemasse le lacrime e le ingiustizie tra la moltitudine. Dopo undici secoli stando tranquillamente a narrare le vicende d'allora, si può intrepidamente riprovare i padri nostri perchè non si siano sottomessi in tutto ai Longobardi, lo che avrebbe dato all'Italia quell'unità che, fra i patimenti conseguita, rese poi forti e stimate Francia ed Inghilterra mercè la dominazione di Barbari. E forse argomentarono così quegli stessi, che non hanno abbastanza lacrime per deplorare la caduta dell'imperio romano, o abbastanza ira contro lo straniero che oggi volesse sottomettersi una nuova provincia, anzi una sola fortezza italiana. Poniamo che costoro conoscano di certa preveggenza come sarebbero procedute le cose: ma se i re si tengono in diritto di sagrificare la generazione presente per l'avvenire, se imprese micidiali riescono a vantaggio, chi potrà pretendere che un popolo volontariamente si sottometta a crudelissima oppressione in vista d'un avvenire che non conosce, e della prosperità che possa derivarne ai nipoti? Ma sarebbe derivata? Se i Longobardi spegnevano in Italia i resti della civiltà romana, sarebbe uscita mai di qui la luce che poi irradiò la restante Europa? Se sulla ragione politica inesperta e feroce di quei tempi non avesse dominato quel potere moderatore che allora la Chiesa assunse anche nelle cose temporali, sarebbero, di sotto all'irrefrenato dominio militare, giunte a ben composta nazionalità la nostra e neppur le altre genti? Chiudere gli occhi a ciò che fu, per almanaccare ciò che avrebbe potuto essere, non è da storico: ma chi deplora le miserie posteriori della nostra patria, condotte da troppo fieri casi e da infamie e violenze che sono scritte nel libro dell'ira di Dio qual espiazione o preparamento, deh voglia avvicinarsi a quei tempi, e vedere come, col non lasciar cascare tutta Italia sotto i Barbari, e col farla poi centro del rinnovato Impero, vi si sieno conservate le istituzioni antiche e le migliori tradizioni dell'intelletto e della vita; le quali appurate, le fruttarono commercio, dottrina, incivilimento, libertà, e il vanto di star maestra e modello delle altre nazioni. Ora questo splendido rinnovamento saria stato possibile sotto il dominio uno, fiero, avvilente degli stranieri? E se l'Italia non fu una, chi vorrà riportarne la causa fin a quei tempi e a quel dominio? Non era stata una sotto il goto Teodorico? e la costui origine e la personale inclinazione agevolavano la mistione coi vinti: eppure quel dominio fu abbattuto non da nuovi Barbari, ma dalla pretesa restaurazione romana, da ciò che poi fu pompeggiato col titolo di nazionalità. Avrebbe ella retto allo sminuzzamento, che dappertutto recò di poi la feudalità? avrebbe retto ai micidiali amori degli stranieri, quando nel secolo XVI Francesi, Tedeschi, Spagnuoli, Ungheresi, Svizzeri, Turchi vennero a saziar l'ambizione e l'avidità sulla patria nostra, mentre da Roma echeggiava inutile il grido di Giulio II perchè si cacciassero i Barbari? Nè i Longobardi si erano messi in via di congiungere tutta Italia. Sulle prime li vedemmo persecutori del clero; e anche il loro duca Gumaritt, devastata tutta la maremma volterrana, obbligò san Cerbone vescovo di Populonia a ricoverare col suo clero nell'isola d'Elba, come quel di Milano era rifuggito a Genova. Dappoi, quantunque convertiti alla fede romana, e abbondanti in devozioni e monasteri, tennero il clero in gelosa tutela, quale appena soffrirebbero i moderni[199]; l'ambizione di estendere sopra nuovi paesi, pel solo diritto della conquista, il mal governo che facevano della Longobardia, li pose in urto col pontefice; e poichè questo era dai Romani considerato come il loro rappresentante, doveva ne' soggiogati crescere l'aborrimento verso una nazione che con minaccie ed armi rispondeva alle preghiere e ai consigli di quello. Nella contesa, il clero, diffuso fra gl'italiani per mitigare i guai che toccano al vinto, riceveva come suoi gli affronti fatti al suo capo, ed abituava i fedeli a risentirsene, come le membra patiscono dei colpi dati alla testa. Se poi i liberatori tutti del nostro paese, da allora fin a jeri, sempre ricorsero a stranieri, sempre, è una di quelle complicazioni, che è facile e perciò consueto battezzare col nome di fatalità. Senza dunque addebitare a un popolo le lontane e incerte conseguenze del suo procedere, a noi pare che, pel diritto imprescrittibile della conservazione, lo Stato romano, minacciato di cadere in servitù straniera, potesse difendere la propria indipendenza, appoggiandosi a chi glie l'assicurava. In Francia Pepino il Piccolo, nella saldezza dei trentasett'anni, vincitore di molte guerre, temuto dai vassalli, caro al popolo e ai soldati per modi affabili, al clero per averlo rintegrato delle usurpazioni di suo padre, di re aveva tutto fuorchè il nome; già i Franchi notavano gli atti cogli anni del suo principato; a lui solo volgeano le domande e i richiami; a lui ogni onoranza; i grandi del regno un dopo l'altro erano venuti a sua dipendenza, e dal giuramento di fedeltà restavano legati ad esso, più che agl'imbelli discendenti di Clodoveo. La nazione, che, come tutte le germaniche, conservava il diritto di elegger il capo, voleva ormai che la finzione facesse luogo alla realtà, e il titolo di re avesse chi di re esercitava l'autorità; onde Pepino si fece ungere dal più riverito sacerdote d'allora, san Bonifazio apostolo della Germania. La nuova dinastia Franca era così avvicinata al papa, sì per l'antico titolo di cristianissima, sì perchè recentemente consecrata, e sì pel missionare che facea le genti idolatre. Quando dunque Stefano II venne per soccorsi, il nuovo re mandò fin a San Maurizio incontro al pellegrino apostolico il figlio Carlo, che poi dovea dirsi Magno, il quale ne precedette il carro a piedi fino alla sua casa di Pontion. Ivi Pepino scavalcato si umiliò davanti a lui come a capo della Chiesa, coi figli e i grandi del suo seguito; e condottolo ad alloggio nella badia di san Dionigi, gli prodigò assistenza durante una malattia cagionata dai crucci dell'animo e dagli stenti del viaggio. Il papa prostrossi con tutto il clero coperto di cenere e cilizio davanti a Pepino finchè n'ebbe promessa di soccorsi: allora per riconoscenza unse di nuovo re de' Franchi lui e i due figli Carlo e Carlomanno, e li intitolò patrizj di Roma. Come tale, Pepino diveniva protettore uffiziale della santa sede, e obbligato a soccorrerla contro i Longobardi. Ma prima di respingerne l'armi coll'armi volle esperire le vie amichevoli, e spedì a re Astolfo, esibendo dodicimila soldi d'oro se rinunziasse alla Pentapoli ed altre terre[200]; ricusato (753), fece proclamare la guerra. Al bando accorsero i signori Franchi in grosso numero; forzarono il passo di Susa che da cencinquant'anni separava i due popoli rappacificati, e chiusero Astolfo in Pavia, il quale allora si piegò ad un accordo, obbligandosi di rimettere a Pepino l'Esarcato e la Pentapoli (754). E Pepino li donò alla repubblica e alla Chiesa romana ed a san Pietro, cioè a dire al pontefice, il quale fu rimesso in Roma. Tale principio ebbe la dominazione temporale dei papi, i quali, sebbene capi della Chiesa, non aveano fin allora veruna sovranità, essendo il regno loro assiso altrove che in terra. È un sogno di tarda composizione il dono che Costantino il Grande fece a papa Silvestro, ma sta che i papi teneano vaste possessioni; al tempo di Gregorio Magno contavano ventitrè patrimonj in Italia, nelle isole del Mediterraneo, in Illiria, in Dalmazia, in Germania e nelle Gallie; e basti nominare quello estesissimo delle alpi Cozie, che alcuno vorrebbe abbracciasse anche Genova e la Riviera di ponente. In questi tenimenti, giusta il diritto romano, aveano giurisdizione sopra i coloni, e per conseguenza magistrati, appelli, prigioni; anche altrove, nella trascuranza dei lontani imperatori, esercitavano qualche atto di sovranità; e porzione ne godeano in Roma come primi cittadini. Solo però la donazione di Pepino collocò i papi fra i principi della terra: e poichè sopra di essa fondasi il dominio più antico d'Italia, e tanto ne restò avviluppata la successiva fortuna del nostro paese, dovette naturalmente fermarvisi l'attenzione degli storici e de' pubblicisti. L'atto della donazione di Pepino, qual lo abbiamo, olezza d'adulterino; pure del fatto non lasciano dubbio i cronisti, univoci in attestarlo, e una serie di conferme fattene poco dappoi. Abbracciava essa Ravenna, Rimini, Pesaro, Cesena, Fano, Sinigaglia, Jesi, Forlimpopoli, Forlì col castello Sussubio, Montefeltro, Acceragio, Monlucati, Serra, Castel San Mariano (forse San Marino), Robbio (diverso da quel di Liguria), Urbino, Cagli, Luculli, Agobio, Comacchio; aggiungendovi Narni, che da molti anni i duchi di Spoleto aveano spiccato dal ducato romano. Leone ostiense[201] vi comprende anche quant'è da Luni al distretto Suriano colla Corsica, di là fin a Monte Bardone, poi a Berceto, Parma, Reggio, Mantova, Monselice, la Venezia e l'Istria, e i ducati di Spoleto e Benevento. Esagerazione destituita di prove: ma in senso opposto taluni pretesero la donazione importasse unicamente il dominio utile dei beni compresi in quel tratto, non già la sovranità riservata da Pepino per sè e successori suoi; o se pure comprendeva anche la sovranità, non si applicasse però che quanto all'utile dominio. Come ciò, se in appresso i Longobardi e l'arcivescovo di Ravenna, venendo in rotta col papa, gli sottrassero la giurisdizione e non i dominj? Inoltre noi vediamo i papi giudici e funzionari nelle città donate, e dire _la nostra città di Roma, il nostro popolo romano_[202], conoscendo d'essere sottentrati in luogo e stato dell'antico esarca. Anzi potrebbe dimostrarsi che, prima della donazione di Pepino, i papi già esercitavano giurisdizione in molti di que' paesi per un consenso popolare, al quale Pepino rendeva omaggio chiamando restituzione il suo dono[203]. Bensì a torto argomenta chi, trasportando a quel tempo le idee del nostro, pretende incontrarvi una precisa distinzione di diritti e di poteri, di dominio utile e governo politico. Il proprietario, come tale, compiva ne' suoi possessi alcuni atti di sovranità, mantener l'ordine, rendere giustizia, menare gli uomini in guerra; intanto che il signor supremo vi riscoteva imposte, mandava sindacatori; e qual dei due più fosse per indole robusto, più larga porzione facevasi nel dominare. Composte le cose d'Italia, Pepino rivalica le Alpi: ma Astolfo, che al trattato aveva accondisceso soltanto per forza o per guadagnar tempo, raccolse fretta fretta i suoi Fedeli, mosse sopra Roma con quei di Benevento, e l'assediò sbraveggiando: — Apritemi porta Salaria, ch'io entri in città, e datemi il papa, se volete ch'io usi misericordia verso di voi; altrimenti diroccherò le mura, ammazzerò voi di spada, e vedrò chi venga a torvi dalle mie mani». I Romani, bene conoscendo i proprj interessi e la fede di lui, ripulsarono la proposta; e mentr'egli a man salva devastava le circostanze di Roma, e dai cimiteri traeva ossa di santi «con gran detrimento dell'anima sua», i cittadini, tacciati così leggermente di codardi e imbelli, durarono l'assedio per cinquantacinque giorni col coraggio ch'era rinato in essi fra le prove delle ultime resistenze. Il papa diresse a Pepino una lettera in nome di san Pietro, esortandolo a liberare il suo sepolcro e il suo successore, sotto minaccia di castighi temporali ed eterni. E tosto Pepino ripassa le Alpi, e mentre i nemici l'aspettano alle Chiuse, egli gira alle loro spalle, ed assalta Pavia. Astolfo, costretto a retrocedere in diligenza per difendere la sua capitale, compra la pace con un terzo de' proprj tesori, e col sottoporsi all'annuo tributo di dodicimila soldi d'oro; oltre obbligarsi di nuovo anche con ostaggi a rilasciare al papa la possessione dell'Esarcato e della Pentapoli. Deputati suoi, insieme con Fuldrado abate di San Dionisio di Parigi, girarono per le città dell'Esarcato e della Pentapoli raccogliendo gli statici fra i principali paesani; indi passati a Roma, sulla tomba di san Pietro deposero le chiavi d'esse città e la donazione di Pepino; il quale poi giuntovi in persona, fu ricevuto come liberatore. Agli ambasciadori venuti da Costantinopoli per indurlo a restituire all'Impero le terre già greche, ricevendo le spese della guerra, replicò non aver combattuto a pro di quello, e potere di esse disporre a suo grado come di buon conquisto. Poi subito tornò in Francia, o per non recare maggior ombra ai Greci colla sua vicinanza, o perchè forse scaduto pe' suoi Fedeli il tempo di restar in campagna. Abbiasi a ciò riguardo prima di lodare di generosità o censurare di dabbenaggine Pepino, che lascia sussistere i vinti, e non pianta fra loro le leggi sue ed il dominio. Astolfo non aveva mandato ancora ad esecuzione il trattato, quando morì per una caduta da cavallo: lodato fra i migliori re dei Longobardi, veneratore delle reliquie; delle quali molte trasportò dalla Romagna a Pavia, fabbricò chiese e oratorj, largheggiò coi monaci, tra le cui braccia spirò; eppure di sua morte il pontefice esultava, come di quella d'un persecutore[204]. Suo fratello Rachi uscì dal chiostro per brigare di nuovo la corona, e si pose a capo d'un esercito; ma il voto d'altri guerrieri gli preferì Desiderio duca dell'Istria[205], il quale per toglier via il competitore domandò appoggio dal papa, promettendogli perpetua fedeltà, e non solo eseguir a puntino le promesse di Astolfo, ma di aggiungere alle altre terre Faenza, Imola col castel Tiberiano, Gavello e il ducato di Ferrara. Come l'abate Fuldrado e il conte Ruperto ebbero di ciò giuramento, fu intimato a Rachi, in virtù dell'obbedienza monacale, tornasse al devoto ritiro, e ai Longobardi annunziato che l'esercito romano e franco sosterrebbe all'uopo i diritti di Desiderio (757), il quale così venne confessato re. Moriva quell'anno Stefano II; e Paolo, suo fratello e successore, promise a Pepino amicizia e fedeltà, e chiese a Desiderio adempisse le promesse. Invano: costui aveva operato a malizia, e appena assicurato del regno, ripigliò il perpetuo disegno de' suoi predecessori di sottomettere tutta Italia. Fatta dunque la maggior levata di gente che potè, e fidandosi nel sapere Pepino occupato in sanguinosa guerra coi Sassoni, mandò a sperpero la Pentapoli, surrogò suoi ligi a Liutprando ed Alboino duchi di Benevento e di Spoleto, che a quello aveano fatto omaggio; e affiatossi in Napoli con un segretario greco, perchè l'imperatore mandasse un potente esercito, al quale egli congiungerebbe le sue forze per recuperare Ravenna, e una flotta per prendere Otranto, ove Liutprando resisteva. Il papa non indugiò a dare contezza dei preparativi a Pepino, _nuovo Mosè, David nuovo_; e questo spedì ambasciadori, i quali rannodarono la pace colle condizioni già imposte ad Astolfo; sicchè essendo allora comparsa la flotta greca per ricuperare essa città, Romani e Longobardi si trovarono congiunti a respingerla. Malgrado l'armonia apparente, Desiderio non volle mai restituire le città occupate, per lamenti che il papa levasse; favoriva anzi lo scisma dell'arcivescovo di Ravenna, contumace alla Chiesa romana: talchè prevedevasi inevitabile la guerra, che fu indugiata solo dall'esser morti quasi contemporaneamente il pontefice e Pepino. CAPITOLO LXVIII. Fine del regno longobardo. Rinnovasi l'impero d'Occidente. Pepino morendo spartì il regno fra i due figliuoli (768), già unti re dal papa. Carlo, maturato nei campi e nel governo, era alto e maestoso di presenza, robusto a qual fosse fatica, vivace nel conversare, indomabile dai disastri come dalle venture, perseverante ne' propositi, rispettoso alla religione, amico delle scienze, insegnato in quanto si sapeva a' suoi dì; e dal personale suo carattere forse più che da altro provenne l'efficacia che esercitò sui contemporanei, i quali gli applicarono il titolo di Magno, che la posterità gli confermò. Carlomanno all'incontro, tentennante e sospettoso come i mediocri, lasciavasi raggirare; e alcuni, pagati a tal uopo dal re de' Longobardi, lo subillavano contro il fratello, al quale insidiò perfino la vita. Poco tardò a morire (771), lasciando due bambini; e poichè il diritto germanico non considerava i popoli come una proprietà da ereditarsi, bensì la dignità regia come una magistratura liberamente affidata dal voto comune, i vassalli dell'estinto elessero re Carlo[206], che per tal modo si trovò a capo del più poderoso Stato d'Europa. E cominciò una serie di guerre e di ordinamenti, che lo elevarono al posto più sublime nella storia del medioevo. Desiderio re de' Longobardi, al morire di Pepino avea sperato rifarsi dei danni patiti sotto di questo: ma come le prime imprese di Carlo Magno lo chiarirono che costui non iscattava dal vigore e dall'abilità paterna, pensò avvicinarsegli. Fe dunque esibirgli in isposa sua figlia Desiderata o Ermengarda, e chiederne la sorella Gisela pel proprio figlio e collega Adelchi: ma un accordo che poteva mettere a repentaglio i temporali interessi della santa sede e dell'Italia, spiaceva a papa Stefano II, il quale scrisse a Carlo violente parole perchè non desse ai sudditi e al mondo lo scandalo di contrar doppie nozze, e ripudiare Imiltrude, nobile Franca, onde unirsi con quest'altra di una rea progenie, da Dio esecrata e infetta di lebbra; nè ad uno, cui soltanto per sua mercede era conservato il regno volesse concedere quella suora sua che aveva negata al greco imperatore. Berta, madre di Carlo, che non secondo la politica ma secondo il cuore giudicava di queste nozze, venne ella medesima in Italia per ridurle a compimento; a Roma forse favellò col papa, promettendo fargli da Desiderio cedere alcune delle terre occupategli (770); e se il legame fra Gisela e Adelchi non si effettuò, Berta menò Ermengarda di là dall'Alpi. Sventurata fanciulla, che coi dolori e coll'umiliazione dovea scontare il breve gaudio d'essersi seduta accanto al maggior re. In Romagna essendo cessati il dominio degl'imperatori e le magistrature greche, sempre più rivaleva il sistema municipale; e le primarie famiglie aveano colle cariche, le ricchezze, la forza, acquistato predominio sopra le altri classi, e concentrata in sè l'elezione dei consoli, succeduti ai decurioni, e spesso quella dei prelati. Singolarmente pretendeano aver mano alla nomina dei papi; e massime da che questi erano divenuti principi, la cattedra di San Pietro eccitava l'ambizione, sicchè esse famiglie fin alla violenza ricorrevano per occuparla. Morto Paolo (767), Totone duca di Nepi e tre suoi fratelli congiunsero le loro masnade (_scholæ_), e a forza fecero proclamar papa uno di loro, per nome Costantino, laico ancora; e costretto Giorgio vescovo di Palestrina ad ordinarlo, e collocatolo in Vaticano, giurargli fedeltà dal popolo romano. L'intruso cercò l'amicizia di Pepino che ancora viveva, e che impegnato in guerre, non poteva prendersi pensiero dell'Italia. I Romani mal soffrivano la carpita elezione; e il primicerio Cristoforo con suo figlio Sergio, dignitario della Chiesa, sotto colore di rendersi monaci, fuggirono ai Longobardi della bassa Italia, chiedendone il braccio per isbalzare Costantino. Afferrò l'occasione Teodicio duca di Spoleto; e consenziente re Desiderio, diede una schiera de' suoi, comandati da un Valdiperto, il quale erasi assunto di tradire la città a' suoi nazionali. In effetto Roma è presa; ucciso il duca Totone accorso al riparo; Passivo, altro fratello, è col papa fatto prigioniero; e fra lo scompiglio della straniera invasione, Valdiperto trae un prete da un monastero, e grida: — Abbiamo pontefice Filippo; san Pietro lo elesse». Però quel primicerio Cristoforo, insospettitosi delle intenzioni de' Longobardi, che sì improvvidamente egli aveva invocati, subillò molti Romani contro del nuovo pontefice; onde, depostolo come illegalmente eletto, ne' modi canonici nominarono Stefano III. Un concilio raccolto in Laterano dichiarò decaduto Costantino, che privato degli occhi, si presentò ai padri congregati, invocando pietà e confessandosi in colpa; eppure fu battuto a verghe, cassi gli atti del suo pontificato, messo a penitenza per tutta la vita; insieme si proibì che verun secolare mai fosse promosso a vescovo o papa, nè laico o militare assistesse alle elezioni; anzi, duranti queste, nessuno venisse a Roma dai castelli di Toscana e di Calabria, nè vi portasse armi o bastoni. Anche a Valdiperto, convinto traditore, furon cavati gli occhi. Cristoforo e Sergio, deputati dal pontefice, si presentarono a Desiderio per ridomandargli i beni e le rendite spettanti alla santa sede[207]; e Desiderio li pascolò di parole, dicendo verrebbe in persona a ragguagliare le differenze. Ma mentre così addormentava, guadagnossi Paolo Assarta camerlengo papale, che insusurrando il pontefice contro Sergio e Cristoforo, l'indusse a farli mal capitare. Questi due fratelli appajono agitatori d'una politica irrequieta nel fine, improvvida nei mezzi, ma in ogni atto avversi alla dominazione longobarda. Ora avvistisi del pericolo non tanto proprio, quanto della patria, essi gridarono all'armi ed afforzarono la città per guisa, che Desiderio, allorquando comparve presso i sette colli sperando esservi accolto, trovò ferma resistenza. Si volse allora all'inganno, ed invitò il papa al suo campo, affine di potersi concordare sulle giustizie e le ragioni da restituire alla Chiesa; e mentre quegli era fuori, Assarta sommosse Roma contro Cristoforo e Sergio, e già davasi mano ai ferri, se il papa tornando non avesse sospeso i colpi. Desiderio, sempre sleale, invitò il pontefice a nuovo colloquio in San Pietro, posto allora fuor delle mura; e quivi, chiuse le porte della basilica, lo fece sostenere, ed obbligollo a mandar ordine a Cristoforo e a Sergio, — Deponete le armi, ed o venite a me o ritiratevi in un convento». Quelli voleano mantenersi in posto colla forza; ma abbandonati dai fazionieri, uscirono al papa, che, reso alla libertà, lasciò nella chiesa i due fuorusciti, acciocchè, fattosi notte, rientrassero in Roma senza pericolo; ma Desiderio, violando la santità dell'asilo, ne li strappò, e li fe accecare[208]. Lieto d'essersi vendicato di que' suoi nemici, Desiderio diede volta senza nulla restituire. Il pontefice trovavasi tanto più scoraggiato, in quanto non poteva sperare appoggio dal re Franco, genero del longobardo: se non che poco tardò a mettersi resia fra i due. Carlo, fra le cui virtù non era la costanza in amore, s'annojò ben presto della sposata Ermengarda (771), e rinviolla al regio padre, menando invece Ildegarda principessa sveva. L'affronto toccò nel vivo Desiderio; e poichè Gerberga, vedova di Carlomanno, era coi figliuoli rifuggita a lui per cansare le insidie che temeva dal cognato, egli proclamò i diritti dei due orfani alla paterna eredità, e domandò al pontefice gli ungesse re de' Franchi, onde poterli opporre al genero infedele. Succedeva allora papa Adriano (772), figlio di Teodulo duca di Roma, lento nel prendere un partito, tenacissimo nel mantenerlo; e conoscendo che non era di competenza del papa l'eleggere il re di libera gente, tanto più che ciò attizzerebbe la guerra civile, rispose al Longobardo che, come pontefice, volea vivere in pace con tutti i Cristiani; del resto potea ben poco fidarsi d'un principe, che al suo predecessore aveva fallito tutte le promesse. Desiderio sbuffante si mosse per ottenere l'intento colla forza, occupò altre città della Pentapoli, bloccò Ravenna, devastò i contorni di Sinigaglia, Montefeltro, Agobio, piombò sugli abitanti di Blera intenti alla mietitura, e uccisi i principali, portò via roba e bestiame; indi occupata Otricoli, difilò sopra Roma. Adriano, fatta vana opera di stornare quel nembo, convocò i popoli della Toscana, della Campania, del Perugino, della Pentapoli, e li trovò dispostissimi nel voler resistere[209]; ma conoscendo non varrebbe quella leva tumultuaria contro un esercito ordinato, imitò Zacaria invitando Carlo Magno: venisse, e proteggesse quella Chiesa di cui, come patrizio, era uffiziale patrono. Carlo tentò indurre Desiderio a cedere a denaro le usurpazioni: avutone un niego, mandò il bando delle armi, ed a' suoi Fedeli radunati in Ginevra espose l'oppressura del pontefice, e la guerra civile che Desiderio tentava suscitare in Francia; talchè a comun voce stanziarono l'impresa. Carlo giganteggia talmente fra' suoi contemporanei, che l'immaginazione colpita ne formò il tipo delle virtù cristiane ed eroiche, quali le concepiva il medioevo. Ed un cronista, raccogliendo una tradizione vulgare, così racconta la calata di esso in Italia: «Oggero il danese, stato grande nel regno de' Franchi, era rifuggito a re Desiderio. Quando intesero che il tremendo monarca calavasi in Lombardia, essi due salirono sopra ecccelsa torre, donde veder lontano e d'ogni parte; ed ecco da lungi apparir macchine di guerra, quante sarieno bastate agli eserciti di Dario o di Cesare. Desiderio chiese ad Oggero: _Carlo è con quel grande stuolo? — No,_ rispose egli. Poi vedendo innumera oste di gregarj, raccolti da tutte le parti del vasto impero, il Longobardo disse ad Oggero: _Sicuramente Carlo si avanza trionfante in mezzo a quella folla. — Non ancora, nè apparirà sì tosto,_ rispose l'altro. _E che farem dunque_, ripigliò Desiderio inquieto, _s'egli viene con maggior numero di guerrieri? — Voi vedrete qual è allorchè arriverà_, ripetè Oggero: _ma che fia di noi l'ignoro_. E mentre discorrevano mostrossi il corpo delle guardie che mai non conobbe riposo; a tal vista il Longobardo, preso da terrore, esclamò: _Certo questa volta è Carlo. — No,_ rispose Oggero, _non ancora_. Poi vengono dietro vescovi, abati, i cherici della cappella reale e i conti; e Desiderio, non potendo più nè sopportare la luce del giorno nè affrontar la morte, grida singhiozzando: _Scendiamo, nascondiamoci nelle viscere della terra, lungi dal cospetto e dall'ira di sì terribile nemico_. Oggero tremante, sapendo a prova la potenza e le forze di Carlo, disse: _Quando vedrete le messi agitarsi d'orrore ne' campi, il Po ed il Ticino flagellar le mura della città coi fiotti anneriti dal ferro, allora potrete credere che Carlo arrivi_. Finito non aveva queste parole, che si cominciò a vedere da ponente come una nube tenebrosa sollevata da borea, che convertì il fulgido giorno in orride ombre. Ma accostandosi l'imperatore, il bagliore di sue armi mandò sulla gente chiusa nella città una luce più spaventevole di qual si fosse notte. Allora comparve Carlo stesso, uom di ferro, coperto la testa di morione di ferro, le mani da guanti di ferro, di ferro la ventriera, di ferro la corazza sulle spalle di marmo, nella sinistra un lancione di ferro ch'e' brandiva in aria, protendendo la destra all'invincibile spada; il disotto delle coscie, che gli altri per agevolezza di montare a cavallo sguarniscono fin delle coreggie, esso l'aveva circuito di lamine di ferro. Che dirò degli schinieri? tutto l'esercito li portava di ferro; non altro che ferro vedevasi sul suo scudo; del ferro avea la forza e il colore il suo cavallo. Quanti precedevano il monarca, quanti venivangli a lato, quanti il seguivano, tutto il grosso dell'esercito aveano armi simili, per quanto a ciascuno era dato; il ferro copriva campi e strade; punte di ferro sfavillavano al sole; il ferro, sì saldo, era portato da un popolo di cuore più saldo ancora; il barbaglio del ferro diffuse lo sgomento nelle vie della città: _Quanto ferro! deh quanto ferro!_ fu il grido confuso di tutti i cittadini. La vigoria delle mura e dei giovani si scosse di terrore alla vista del ferro, e il ferro confuse il senno de' vecchi. Ciò che io, povero scrittore balbeticante e sdentato, fei prova di dipingere in prolissa descrizione, Oggero lo vide d'un'occhiata, e disse a Desiderio: _Ecco quello che voi cercate con tanto affanno;_ e cascò come corpo morto».[210]. A quel che la fantasia riproduceva in immagini, il raziocinio accompagna gli argomenti, pei quali Carlo Magno dovea prevalere facilmente in Italia. Era questa sbranata tra varj possessori: de' quali i Greci non avevano che pretensioni senza forza nè volontà di sostenerle; i papi invocavano i Franchi; i Longobardi dovevano schermirsi dall'odio de' natii, irreconciliabili a questo governo militare. In Francia, l'essersi i Barbari collegati ai sacerdoti assodò il poter regio, intorno al quale il tempo e i casi doveano poi restringere gli altri sociali elementi per costituire la potenza nazionale: nell'Italia, al contrario, dissociata la forza dall'opinione, dal potere ecclesiastico il politico, com'era possibile il fondersi degli invasori cogli indigeni? I principi Franchi inoltre, più ambiziosi e robusti, coi maneggi, colla guerra, col delitto, sottoposero i varj capitani e baroni: mentre fra' Longobardi sempre più s'invigorivano i duchi, piccoli sovrani ciascuno nel suo distretto, che consideravano il re niente più che come un primo fra i pari, come un loro creato; e ben lontani dall'assentirgli quell'assoluta potestà che unica sarebbe valsa a trascinarli in comuni imprese, non di rado si accordavano col nemico. I re giuravano e spergiuravano; sempre inferiori nelle guerre, accettavano il trono a patti da un sovrano straniero; e come fanciulli testerecci, reluttavano petulanti appena si ritirasse quello, dinanzi a cui si erano fiaccamente piegati. Carlo, colla preponderante vigoria dell'indole sua, traeva esercito e duchi a decretare nelle assemblee ciò ch'era sua volontà, ad operare in campo colla confidenza di chi non bada che al comando. Come è degli uomini grandi, comprese quel che il tempo suo richiedesse: e non che cozzare coi sacerdoti e volerli fiaccare colla gelosia consueta ai deboli, si valse della loro potenza, e crebbe la propria col trarre a sè tutte le forze vive della società, e dirigerle al suo intento. Ed ora veniva preparato e deciso, non più, come Pepino, ad umiliare e restituir in dominio i Longobardi, ma a sterminarli, giacchè non sapevano rimanersi quieti. Desiderio, oltre le forze reluttanti de' Romani, dei sacerdoti, de' proprj duchi, trovossi incontro la fazione di Rachi, che soffogata col rigore, spiava occasioni di vendetta. Appena s'intese la mossa di Carlo, molti Longobardi di Spoleto e di Benevento accorsero a Roma, facendosi tagliar i capelli alla romana, in segno di sottomettersi al papa; altri primarj spedirono a Carlo, sollecitando a liberarli da questo tiranno Desiderio, e promettendo consegnarglielo colle sue ricchezze[211]. Anche i duchi fedeli sapevano che il vincitore non torrebbe loro i possessi nè muterebbe la forma del regno, onde l'avere un re Franco poco differirebbe da quando aveano avuto re bavaresi. Desiderio ci appare fiacco forse più de' predecessori, e in conseguenza temerario all'intraprendere e provocare, poi inetto a sostenersi e compire, vero modo di rovinar un regno; da nessuna legge possono indovinarsi i suoi intenti; solo ci restano larghissime donazioni a conventi in ogni parte d'Italia[212], quasi con ciò volesse illudere coloro che disgustava coll'osteggiar il papa: verso i re Franchi burbanzoso in parole, codardo in fatti; ai pontefici largo di promesse e mentitore; negli assalti contro di loro nè tampoco mostrò quella risolutezza, che tante iniquità giustifica o almeno ricopre. Accoglieva i malcontenti di Carlo; ma mentre la politica l'avrebbe consigliato a non aspettar in casa un nemico da lui medesimo provocato, per iscarsezza di mezzi o per paura di tradimenti si tenne sulle difese, destreggiando a seconda dell'attacco esterno e delle insidie interiori. Mentre dunque vedemmo i Goti cadere e rialzarsi, e far quasi compianta la loro caduta perchè generosa; inetta e vile fu quella de' Longobardi. Solo il prode figlio e collega Adelchi aveva munito le chiuse delle Alpi verso Susa di maniera che i signori Franchi cominciavano a mormorare degli indugi, più disposti, come fu sempre quella nazione, a perire in attacchi repentini che a superare colla perseveranza, quando un disertore, e chi dice un diacono Martino, additò un valico non custodito fra balze impervie (773). Un pugno di Franchi per di là prese alle schiene i Longobardi, che côlti da panico terrore, o forse inviluppati dal tradimento, sbrancaronsi lasciando quelle gole insuperabili, e senza più guardare in faccia al nemico, Adelchi si chiuse in Verona, Desiderio in Pavia colla moglie Ansa e la propria figliuola, e colla famiglia e i Fedeli di Carlomanno. Giubilante dell'inaspettata ventura, Carlo infisse l'asta sul terreno d'Italia; prima che i nemici rivenissero dalla costernazione, assediò entrambe quelle città, e ajutato da intelligenze, le ebbe. Adelchi riuscì a fuggire a Costantinopoli; Desiderio, venuto in podestà del nemico, fu colla moglie condotto in Francia (774), e, chiuso nel convento di Corbia, terminò sua vita; della famiglia di Carlomanno non è più parola. Mentre Pavia resisteva, Carlo erasi trasferito a Roma, dove ricevette gli onori che prima si tributavano al rappresentante dell'imperatore. Magistrati e nobili furongli incontro sino a trenta miglia coi gonfaloni; giù per la via Flaminia si stendevano le scuole de' Greci, de' Longobardi, de' Sassoni e d'altri, poichè di ogni gente affluiva colà tanto numero, da avervi distinto quartiere e formare comunità nazionali[213], godendo statuti proprj in quella di Roma, che un tempo ingojava; stuoli di fanciulli con rami d'ulivo e di palme osannavano quello _che veniva nel nome del Signore_. Carlo, che v'era accolto non come re straniero, ma come patrizio, mutò l'abito Franco nella lunga tunica e nella clamide romana. Appena da un miglio lontano vide la croce, scavalcò, e pedestre si condusse al Vaticano, baciando ciascun gradino della scalea; in capo alla quale aspettavalo Adriano papa, che l'abbracciò, e a paro salirono all'altare, stando il re alla destra. Questi domandò poi d'entrare anche in Roma; e sebbene sulle prime il pontefice prendesse qualche ombra di quest'ospite guerriero, raffidato dalle sue assicurazioni lo introdusse con ogni maniera di solenni onoranze. Carlo seguì colà le commoventi cerimonie della settimana santa; poi confermò la donazione di Pepino, e la crebbe coll'aggiungervi il patrimonio di san Pietro: e l'atto, sottoscritto da lui, da vescovi, abati, duchi e grafioni del suo seguito, fu posto sulla tomba di san Pietro, e sotto al vangelo che solevasi baciare. Terminava dunque il regno longobardo (568-774), che era durato meglio di due secoli sopra gl'italiani senza acquistarsene l'affetto, e senza dare un solo uom grande: terminava come quelle dominazioni forestiere, che per alcun tempo surrogano la forza al diritto, e possono farsi temere, non amare. Sopraviveva però il nome, giacchè Carlo s'intitolò re de' Longobardi[214]; presto frenò l'impeto de' suoi guerrieri; e poichè conduceva una gente che già s'era assicurata un'altra patria, non gli fu mestieri spogliare gli antichi possessori, come avevano fatto Eruli, Goti e Longobardi. Pose guarnigione Franca in Pavia; a molti nobili di sua nazione conferì feudi vacanti, gli altri e le dignità confermando ai primitivi signori, che non esitarono a giurarsegli ligi. Non vogliasi supporre incruenta nè generosa la conquista di Carlo; e se crediamo a prete Andrea, cronista bergamasco, lodatissimo dal Muratori e avverso a Carlo Magno, «tanta fu in Italia la tribolazione, che altri di ferro, altri di fame straziati, e quali uccisi dalle fiere, ben pochi sopravissero pei vichi e per le città». Un altro cronista di Brescia racconta che in questa città resistette Potone, nipote di Desiderio; e il capitano Franco mandato ad assediarlo appiccò attorno alla città duemila abitanti della campagna per incutere spavento; poi come i difensori si arresero a patti, egli arrestò Potone e cinquanta nobili, e li fe decapitare: pari strage usò a Pontevico, e quali accecò, quali affogò nel fiume; a Brescia altri uccise perchè mostravano orrore del suo procedere[215]. Avvezzi com'erano alla fiacca sopreminenza degli ultimi re, i signori longobardi s'indispettirono di questa mano robusta che ne serrava il freno; e Arigisio duca di Benevento, genero di Desiderio eppure a' suoi danni collegato col papa, fe trama con Ildebrando duca di Spoleto, Rotgaudo del Friuli, Reginaldo di Chiusi, sollecitati da Adelchi, che da Costantinopoli, come ogni principe caduto, sognava il racquisto del trono. Papa Adriano, vigilante sugli interessi dell'amico e protettor suo, ne informò Carlo, il quale (776), prima che congiungessero le loro forze, menò una banda di volontarj (giacchè la stagione era troppo tarda per convocare a una spedizione l'esercito feudale), invase il Friuli, e sconfittone e ucciso il duca, vi pose il franco Marquardo, poi Unrico (Hunrok), i cui discendenti lo tennero sino al 924. Anche gli altri duchi furono sottomessi; e a prevenire nuove rivolte, venne mutata l'amministrazione, fondandola sul feudo alla maniera Franca, e le vastissime giurisdizioni dei duchi dividendo in distretti, presieduti da conti. Solito delle conquiste, il buono e il meglio fu assegnato ai signori Franchi, tanto che del regno longobardo quasi altro non restò che il nome; la legislazione fu modificata dai _Capitolari_, ordinanze che obbligavano tutti gli abitanti nel regno, qual che ne fosse la nazione. Di propria balìa conservavasi il ducato di Benevento, rifugio ai Longobardi che non sapessero chetarsi alla dominazione Franca: ed essendo cessata la supremazia dei re nazionali, quel duca Arigiso (774) si fece ungere dal suo vescovo, e assunse scettro e corona e titolo di principe sopra la nuova Longobardia, sopravissuta alla madre, e procurava or l'una or l'altra occupare delle confinanti terre greche e pontifizie. Di questo potente irrequieto prendeva noja Carlo, sicchè per la quarta volta calatosi dalle Alpi, s'inoltrò minaccioso contro Arigiso. Questo spedì a far atto di sommessione e promettersi ad ogni voglia del re; ma perchè, non dandogli fede, Carlo procedeva, fuggì a Salerno, dove poi ottenne pace, ricevendo come feudo il ducato, ma scemo di sei città attribuite alla Chiesa. D'allora Arigiso si guardò come vassallo ai re Franchi coll'annuo tributo di settemila soldi d'oro, e consegnò dodici ostaggi, fra cui il proprio figliuolo Grimoaldo. Pure nè promesse nè statici il frenarono, e spedì a Costantino V imperatore d'Oriente, o piuttosto a Irene madre di quello, chiedendo il ducato di Napoli, la dignità di patrizio della Sicilia, e un esercito per iscuotersi dalla dipendenza, promettendo riconoscere la sovranità degl'imperatori, farsi radere la barba e adottare il vestito greco. Ad Irene, disgustata allora di Carlo perchè avea negato sposar una figlia al figliuolo di lei, garbò la proposta, e Adelchi, già re de' Longobardi, comparve sulla frontiera di Benevento per animare e dirigere le mosse. Fra tali disegni moriva Arigiso (787), e Carlo chiamò Grimoaldo e gli annunziò come non avesse più padre. — Non è così (rispose il giovane, accorto fin alla codardia): egli vive e prospera, e spero crescerà per molti anni; giacchè, da quando venni in poter vostro, voi foste a me padre, voi madre, voi famiglia e tutto». Lusingato dalla risposta, Carlo gli conferì il ducato a condizione che smantellasse Salerno e Acarenza; ponesse il nome di lui in fronte agli editti e sulle monete, e accorciasse la barba a' suoi Longobardi, eccetto i lunghi mustacchi. I Longobardi corsero a folla incontro al nuovo duca; e — Ben venuto sia il padre nostro: salute nostra dopo Dio»; ma come ebbero conoscenza delle dure condizioni, non sapeano darsene pace. Grimoaldo era nipote di Adelchi, onde questi sperò trovarlo favorevole, quando con Teodoro patrizio di Sicilia (788) sbarcò di nuovo su quelle coste; ma affrontato dal beneventano, in battaglia perì, e con esso l'ultima speranza de' Longobardi. Per consolidare il nuovo reggimento, Carlo menò in Italia il figlio Pepino di sei anni, e investitolo di questo regno, lo fece ungere da papa Adriano, assegnandogli per residenza Pavia. Le spedizioni de' Franchi contro i Longobardi non erano più correrie, come quelle dei Barbari, per devastare; neppur nimicizie da tribù a tribù, ma guerre consigliate da politico intendimento e da un sistema prestabilito. O l'avesse Carlo veramente dedotto dall'esame della sua età, o vi fosse spinto senza avvedersene dai casi d'allora, e da quell'istinto che ai grandi uomini indica l'opportunità de' loro tempi, da cinquantatre spedizioni che condusse dal 769 all'813[216], perpetua trapela l'intenzione di congiungere in robusta unità le popolazioni stabilite su quel che un tempo formava l'impero romano, onde opporle alla doppia invasione minacciata dagli Arabi a mezzodì, a settentrione dai popoli ch'erano rimasti nella Germania allorchè gli altri n'uscirono. Tali erano i Sassoni, ai quali esso portò lunghissima guerra di sterminio. Vinti quelli, diventavano minacciosi confinanti al regno di Carlo i popoli stanziati dietro di loro, cioè gli Slavi fra i Carpazj e il Baltico; gli Avari fra i monti stessi e le alpi Giulie, separati dalla Baviera soltanto pel fiume Ens. Avendo questi minacciato l'Italia, fu preso il partito di munire Verona, forse smantellata dopo l'assedio sostenutovi da Adelchi: e poichè nacque disputa se agli ecclesiastici toccasse fare la terza o la quarta parte di esse mura, fu rimessa la decisione al giudizio della croce. Aregao per la parte pubblica, Pacifico per quella del vescovo, giovani forzosi, si collocarono in ginocchio colle braccia elevate mentre si recitava la messa col Passio di san Matteo; alla metà del quale, Aregao più non seppe sostenerle, l'altro resse sin al fine; talchè agli ecclesiastici non fu accollato che il quarto della spesa. Dapoi Pepino col duca del Friuli sconfisse affatto gli Avari, e Carlo gli inseguì nel loro paese, e per frenarli fondò un marchesato sul loro confine, detto Austria, cioè orientale (793), che doveva poi tanta ingerenza avere nelle vicende italiane. Dei tesori riportati da quella spedizione Carlo Magno offrì le primizie al pontefice, il resto all'esercito ed ai paladini suoi, e al duca del Friuli che avea avuto principal merito in quelle vittorie. Era pertanto l'autorità di Carlo assodata su tutta la Francia e stesa sulla miglior parte dei popoli occidentali: stavangli tributarie le genti slave, dal Baltico a Venezia, onde la signoria di lui dilatavasi a mezzodì fino all'Ebro, al Mediterraneo e a Napoli, a occidente fino all'Atlantico, a settentrione fino al mare germanico, all'Oder e al Baltico, a levante fino al Theiss, alle montagne boeme, al Raab e all'Adriatico. Non a torto dunque il poeta Alcuino lo cantava re dell'Europa: e risorta la grandezza romana qual sotto i successori di Costantino, non tardò guari a rinnovarsene anche il nome, però con un carattere nuovo, quello di capo supremo della cristianità nell'ordine temporale, come nello spirituale era il pontefice. Il titolo di patrizio che già Carlo portava, esprimeva il patrono della Chiesa, dei poveri e degli oppressi. Il papa, rivestendolo del manto e ponendogli in dito l'anello, gli diceva: — Tale onore ti concediamo acciocchè tu faccia giustizia alle chiese di Dio ed ai poveri, e renda conto al Giudice supremo»; consegnandogli poi il diploma scritto di suo pugno, soggiungeva: — Sii patrizio misericordioso e giusto», e gli metteva in capo il cerchio d'oro. Non implicava dunque sovranità, e il popolo gli giurava non vassallaggio, ma clientela, subordinata alla fedeltà promessa al pontefice[217]. Come tale, Carlo trovavasi tutore della Chiesa, onde fra lui e i papi era vicendevole interesse di sostenersi. Adriano poi era speciale amico di Carlo, consolazione raramente conceduta ai grandi; e fu tutt'occhi perchè il nuovo dominio dei Franchi mettesse radice in Italia. Carlo venerò il pontefice, e morto lo pianse come un padre, largheggiò limosine a suo suffragio, e ne compose l'epitafio da scolpire a lettere d'oro[218]. Il succedutogli Leone III (795), al re de' Franchi, come a patrizio, inviò le chiavi del sepolcro di san Pietro e lo stendardo della chiesa romana con parole d'affetto e sommessione; Carlo mandò a Roma il dotto Angilberto perchè assistesse alla consacrazione del pontefice, seco rinnovasse il patto come già con Adriano, e prendesse accordi «su quanto sembrasse spediente a confermare il suo patriziato, e renderlo efficace alla tutela della Chiesa. Perciocchè (soggiungeva Carlo) missione mia è difendere, ajutante la divina misericordia, all'esterno colle armi la santa Chiesa di Cristo contro ogni assalto de' Pagani ed ogni guasto degl'Infedeli, e nell'interno consolidarla colla professione della fede cattolica; obbligo vostro è d'elevar le mani a Dio come Mosè, e sostenere colle vostre preci il mio servizio militare»[219]. Nè però i papi avevano dismesso ogni onoranza verso i Cesari di Costantinopoli; anzi, per ordine d'esso Leone, fu nel palazzo Laterano a musaico rappresentato l'imperatore che riceve lo stendardo dalla mano di Cristo, e Carlo da quella del papa[220]. Se però a quei deboli lontani il papa professava un resto di riverenza, qual conveniva al capo di tutta cristianità ed autore della pace, nessun appoggio poteva sperarne, e ne' bisogni ricorreva al re Franco. Nè gliene tardò occasione. Campulo e Pasquale, nipoti di papa Adriano, l'uno sacristano, l'altro primicerio della Chiesa, disgustati di vedersi tolta la potenza che esercitavano vivente lo zio, fecero con altre famiglie primarie di Roma una di quelle intelligenze che spesso minacciavano la podestà papale dacchè era divenuta principato terreno. Mentre, per la supplichevole festa delle Rogazioni (799), il pontefice traeva processionalmente dal Laterano a San Lorenzo, fu assalito da una masnada, che maltrattatolo sino a volergli strappar gli occhi[221], lo gettò nel convento di San Silvestro. Vinigiso duca di Spoleto accorse a campar Leone, il quale, appena ricuperata la libertà, istruì Carlo dell'attentato, e passò le Alpi, dirizzandosi a Paderborn, ove Carlo aveva raccolti i Fedeli del suo dominio all'annuale adunanza che dicevasi campo di maggio. I signori germani, di fresco convertiti, gareggiarono a chi meglio onorasse il capo della Chiesa, il quale per la prima volta compariva in una loro assemblea; sicchè quel viaggio tornò di non piccolo incremento alla pontifizia autorità. Carlo ne ascoltò le querele, promise ripararvi, e il rimandò accompagnato da signori, da vescovi, dagli arcivescovi di Colonia e Salisburgo, e da otto commissarj che formassero processo sul tentato assassinio, e provvedessero alla sicurezza del santo padre. Trionfalmente entrò Leone in Roma fra il poco pontificale accompagnamento di labarde sassoni, franche, longobarde, frisone. Fin a Pontemolle gli vennero incontro le bandiere e insegne della città, il senato, il clero, la milizia, le monache e diaconesse, le nobili matrone, le scuole di forestieri; e fra inni e giubilazioni condotto nella basilica Vaticana, vi cantò messa, a tutti partecipò la comunione; indi riprese la primitiva autorità. Carlo stesso si dispose al viaggio di Roma, e giuntovi al mettersi della vernata, prima d'ogni altro affare assunse la contesa fra papa Leone e i suoi nemici. Convocato un concilio misto di laici e di vescovi (799 — 21 9bre), Franchi e Romani, fe mettere a scandaglio le accuse recate contro il pontefice: ma come al tempo di Costantino Magno un sinodo raccolto per dare sentenza di papa Marcellino erasi dichiarato incompetente a richieder in giudizio il capo della Chiesa, e l'aveva invitato a semplicemente attestare di propria bocca la sua innocenza, altrettanto si usò questa volta. Leone, salito in pulpito, mettendosi il vangelo e la croce sopra la testa, giurossi mondo delle colpe imputategli; dopo di che si cantò il Tedeum; i suoi accusatori, secondo le leggi romane, come rei d'omicidio e di calunnia, furono condannati alla morte, a preghiera del pontefice commutata in esiglio perpetuo. Arrivò tra questi fatti la solennità del Natale; e Carlo assisteva alle maestose funzioni di quel giorno, prono al sepolcro de' santi apostoli, quando il pontefice, quasi per subitanea ispirazione, si accostò, e gli pose sul capo un diadema d'oro; e il popolo ad una voce gridò: — Vita e vittoria a Carlo, grande e pacifico imperator romano, coronato per volontà di Dio»[222]. Carlo forse non s'aspettava quest'atto; certo se ne mostrò nuovo e maravigliato, e mosse querela a Leone perchè, malgrado la sua debolezza, gli addossasse quest'altro peso e doveri, de' quali avrebbe a render conto a Dio. Fossero voci sincere, o le dimostrazioni che tutti fanno e nessun crede, fatto è che Carlo cedè al pubblico voto, dal quale restava eletto con diritto non inferiore a quel dei tanti che erano gridati Cesari a Roma e a Costantinopoli dalla ciurma vendereccia o da un branco di soldati. Fu dunque consacrato solennemente qual supremo capo temporale della cristianità, giurando proteggere la Chiesa di Roma con ogni sapere e poter suo. CAPITOLO LXIX. L'impero romano-cristiano. Carlo Magno. I Germani che distrussero l'antico Impero, portavano seco l'idea d'una monarchia, d'origine guerresca insieme e religiosa: guerresca in quanto i camerata si stringevano attorno al più prode; religiosa in quanto il re veniva scelto entro una discendenza di Dei o Semidei; libera per quello, ereditaria per questo. Giungendo in sull'Impero, vi trovarono un monarca che regnava come rappresentante del popolo, e una religione che imponeva d'obbedirgli come a rappresentante della divinità, non pel sangue nè pei meriti personali. Abbattuto che l'ebbero, quella grandezza girava pur sempre nella loro fantasia, e tentavano emularne le pompose insegne, la concatenata amministrazione, le sistemate finanze, la vasta unità; sicchè ne' tentativi di ordinamento de' popoli invasori continuo s'affaccia il contrasto fra la nativa semplicità e le rimembranze romane. E quantunque il loro dominio posasse su differente base, cioè sulla eroica origine, pure quei re venivano adottando l'idea romana di darsi per rappresentanti dello Stato e immagini di Dio. I Longobardi in Italia e i Pepini in Francia sviarono dalla tradizione germanica, costituendosi non più sopra un diritto ereditario, ma unicamente sopra la forza, ossia la scelta de' compagni, disposti a sostenerli colle spade. I Longobardi soccombettero al tentativo; i Pepini con migliore accorgimento facendosi ungere dal clero, consacrarono la loro dominazione, aggiungendole il carattere religioso cristiano; compì l'opera Carlo Magno col ridestare il simbolo politico dell'Impero, e regnare per grazia di Dio. L'ammirazione che Carlo concepì per Roma al primo vederla, faceagli sentire come, possessore di Stati così ampj, gli mancasse però una capitale, come l'aveva l'antico Impero. Il vescovo di Roma non godeva piena giurisdizione e primazia incontestata su tutti quelli d'Occidente, e non la andava dilatando anche su quelli d'Oriente? Perchè non farebbe altrettanto chi, re di Roma, coi re di Europa? Il mondo non era riunito sotto al papa nel nome di cristianità? ora un nome unico da darsi alle varie nazioni sottoposte a Carlo Magno non poteasi dedurre dai Franchi, non dai Longobardi, non da altri Barbari; e l'unico che tutti abbracciasse senza gelosia di nessuno, era quello di imperio romano. A quel tempo Irene s'era violentemente assisa sul trono d'Oriente, ella donna; e Carlo dovea star pago a un titolo che lo lasciava inferiore ad essa? Può dunque credersi che in lui germogliasse il concetto di restaurare il romano impero; per qual mezzo riusciva all'intento, a cui erano falliti i predecessori, di annestare il dominio settentrionale coll'amministrazione latina, e ripigliava l'opera dei Cesari, cioè esternamente respingere gli invasori, dentro stabilire unità di governo. Da secoli l'Europa era corsa irrequietamente da sempre nuovi invasori; e anche adesso e i Normanni e gli Slavi e i Sassoni venivano a fatica frenati dalla spada del Magno. Importava di fissare costoro al terreno, sicchè alfine si potesse cominciare l'edifizio della nuova civiltà. A ciò serviva mirabilmente la feudalità, la quale attaccava ciascun vassallo e ciascun suddito a una porzione determinata di terra, e dal possesso di questa unicamente deduceva l'importanza d'un uomo o il vario suo grado. Ma per impedire l'anarchia bisognava che uno sovrastasse a tali feudatarj, innumerabili sovrani. _Se ogni autorità viene da Dio_, nessun altro che il capo visibile della Chiesa poteva considerarsi immediatamente investito della potenza suprema; onde virtualmente rimaneva capo dell'intera umanità, congiunta nella Chiesa universale. Dicevasi però che questa potenza data dal Cielo al papa è di duplice natura, temporale e spirituale; e siccome di quest'ultima egli partecipa coi vescovi che la esercitano sotto la sua primazia, così la temporale egli affida all'imperatore da lui consacrato, che, sotto la direzione del pontefice, diviene capo visibile della cristianità negli interessi terreni. Non è dunque possibile che le due podestà si separino, dovendo l'una far puntello all'altra; e neppure che si distruggano, attesa l'essenza diversa della loro giurisdizione. Soprastà naturalmente quella del papa, che come arbitro pronunzia nei litigi de' principi fra loro e coi popoli: mirabile concetto, che col fatto prevenne le utopie di qualche filosofo più umano che pratico; e poteva mettere ai guerreschi micidj il riparo, che ora si va invocando dall'antagonismo della diplomazia. Essendo l'imperatore non sovrano soltanto dell'Impero, ma dell'Italia e di tutta cristianità, ragion voleva che della sua elezione si domandasse l'assenso e l'approvazione al pontefice. In man del clero l'eletto giurava osservare i dettami della giustizia e le leggi positive; e poichè questo era come il patto della coronazione, se l'imperatore lo violasse, e principalmente se contaminasse la fede di cui doveva essere difensore, perdeva ogni titolo a farsi obbedire. Abbia ciò presente chi brama intendere il medioevo, e trovar la ragione di atti, che, da altro punto osservati, parvero arbitrj ed usurpamenti. A vicenda l'imperatore, quale amministrator temporale della cristianità, otteneva supremazia, sopra i regni e su Roma stessa. Forse allora Carlo trasmise il suo titolo di patrizio al papa, il quale, sebbene sentisse che col far Roma capitale e quasi sede dell'Impero, elevava accanto a sè un potere da cui resterebbe sminuito il suo, e la giurisdizione propria subordinava a quella del re Franco, pure pospose gl'interessi del temporale suo dominio a ciò che credeva vantaggio di tutta cristianità. Ma chi vorrà mai supporre che, egli libero, volesse imporsi volontariamente un padrone?[223]. Da quell'ora potè dirsi piantato il sistema feudale, cioè quella scala di dominj un all'altro immediatamente superiori fino a questo eccelso e indivisibile, che anche esso ritraeva da Dio, unica fonte d'ogni autorità, e dal pontefice suo rappresentante. La preminenza dell'imperatore sovra i re doveva anche venire indicata dal non essere quella dignità nè ereditaria nè divisibile: onde i papi contrastarono sempre affine di mantenere ai popoli la libera elezione del capo comune, anzichè abbandonarla al caso della nascita. La Chiesa erasi emancipata dal governo della Roma antica, che l'aveva tenuta dipendente come soleva colla religione nazionale. Ma fra i prischi Germani i diritti e le funzioni ecclesiastiche erano mescolate col poter civile, talchè, anche dopo convertiti, si trovano fra loro indistinte le cose sacre dalle profane; i vescovi entravano nei concilj del regno come i duchi e i conti; duchi, conti e re assistevano ai sinodi ecclesiastici; cristianesimo e nazionalità, Stato e Chiesa intrecciandosi, perchè nati si può dire ad un parto. Carlo Magno cercò ricondurre e il sacerdozio e la nobiltà alla destinazione primitiva; onde assegnò, per quanto poteva, i limiti rispettivi dell'ecclesiastico e del civile; nel Consiglio dell'impero separò in due camere l'alta nobiltà e il clero, che così formò uno stato distinto, in parte legato, in parte diviso dalla nobiltà, talora concertandosi con essa, talaltra operando tutto solo. La nobiltà feudale, sostegno e stromento del poter regio, diveniva spesso minacciosa a questo; talchè gli era opportuno un contrappeso. Comuni non esistevano ancora: se la nobiltà comprendeva tutta la forza dello Stato, tutto il movimento intellettuale concentravasi nel corpo ecclesiastico, custode dell'antica cultura romana e cristiana, e favorevole a questa quanto ai principj germanici la nobiltà; la nobiltà come forza dello Stato apparteneva al governo particolare della nazione; onde, a voler formare una repubblica europea, bisognava in ogni Stato al poter nazionale della nobiltà aggiungerne un altro, potente nell'assemblea generale delle nazioni cristiane, ed atto a mantenere il legame universale. Carlo Magno fondò appunto la costituzione dello Stato su queste due classi, nobili e clero. Attese patentemente ad assodare il poter regio; ma ei rispettò i diritti della nobiltà, e sentì che l'elevare il clero era un bisogno del suo tempo. La gelosia è carattere de' fiacchi; mentre i forti non pensano ad ingrandirsi coll'indebolir ciò che li circonda, bensì ad estendere la vita e la libera vigoria. L'educare le nazioni fu sempre la vocazione ecclesiastica; e per effettuarla fa mestieri di potere, influenza, ricchezze. Le ricchezze allora consisteano principalmente in beni sodi, e in conseguenza il clero restava viepiù legato col Governo, alla germanica fondato sulla proprietà territoriale. Acquistata che i vescovi ebbero tanta ingerenza, il loro capo entrava cogli Stati in relazioni, le quali non erano essenziali alla sua vocazione ecclesiastica, ma neppure in contraddizione con essa. La cristianità diventava una vasta repubblica, sotto al capo dei credenti. Ma questo capo era elettivo, cioè di confidenza, e tale che sotto la primazia di lui poteva sussistere qual si volesse altra forma di governo, anche la repubblica più sciolta. Siffatta unità non era dunque l'impero universale, sognato volta a volta da Carlo V, da Luigi XIV, da Napoleone I, ove tutte le nazioni fossero costrette obbedire ad una volontà, sottoposte a ordini non fatti pei loro costumi, e sacrificate ai vantaggi di un paese predominante. Qui era superiorità, non dominio; rispettavasi l'individualità delle nazioni, ma mettevasi accordo nello svolgimento della loro civiltà; le istituzioni di ciascuna erano conservate, perchè derivanti dall'indole, dai costumi, dalla storia. Il titolo di _sacro impero_ attesta come aspirasse ad una superiorità morale, a foggiare il consorzio laico sul modello della gerarchia ecclesiastica, introdurre un ordine legale nella scomunanza che regnava fra i popoli, una pace e una riconciliazione di essi sotto la legge. E poichè questo era pure il divisamento de' pontefici, si trovavano d'accordo cogl'imperatori anche nello scopo morale. Insomma il _sacro romano impero_ conservava e raccoglieva tutto ciò che di comune sussisteva ne' popoli d'Europa, Dio, fede, legge, diritto ecclesiastico, lingua latina; e stabiliva una reciprocanza d'azione fra i paesi del Settentrione, e quelli del Mezzodì, fra le genti germaniche e le latine, salutevole ad entrambe, e che, come una corrente elettrica fra due poli inversi, produceva una vita vigorosa, trovando da un lato l'eccitamento, dall'altro la moderazione. L'Impero, nel senso cristiano di unione religiosa di tutti i popoli d'Occidente, accordava la forza col diritto, creava una legittimità sacra, effettuando nell'ordine delle cose l'unità che esiste nell'ordine dello spirito, e agevolando, come in unica famiglia, il diffondersi dei miglioramenti nella vita e nel pensiero. Alla coronazione, che dava questo diritto supremo, vedremo aspirare i principi più poderosi d'Europa, il che fu cagione di movimento e di civiltà: mentre i papi, come tutori de' coronati e depositarj del giuramento di questi e del voto popolare, faceansi appoggio a baroni, principi ecclesiastici, comuni, che mettessero barriere alle esorbitanze imperiali; favorendo con ciò la libertà politica, che in fine si dovea ritorcere contro loro stessi. Era dunque morale e politica, grande e rilevante l'idea dell'Impero; ed è una meschinità della critica negativa del secolo passato l'imputare a Carlo Magno ed a Leone i guai che ne vennero quando l'unità allora combinata riuscì a discordia; discordia dannosa ad entrambi, eppure non infruttifera all'umanità. Quanto all'Italia specialmente, il continuo mescersi degl'imperatori nelle sue vicende portò un eterogeneo impaccio a' procedimenti suoi, e in fine la digradò: ma si potrebbe con apparenza di giustizia imputarne i papi e la istituzione dell'Impero? Ben è certo che l'accorrere dei Settentrionali a questo sacrario del sapere e de' civili ordinamenti giovò al dirozzarsi di quelli; i quali devono, se non professarne gratitudine alla patria nostra, almeno sentirsi obbligati a risparmiarle gl'insulti; mentre una nazione decaduta può acquistare dignità nel tollerare i mali proprj pensando che fruttarono utilità universale. Insieme col titolo e colle cerimonie, volle Carlo saldare il nuovo carattere introducendo unità d'amministrazione, per la quale, come per la romana, il re fosse presente dappertutto, tutto sapesse, facesse tutto per via di messi o conti o vescovi, che l'autorità derivavano dalla sua ed esercitavano a grado di lui. Impresa difficilissima tra gli eterogenei componenti di quel vasto corpo. Dall'immenso suo dominio staccò le parti che v'erano state annesse di recente, Aquitania e Lombardia, dandole a' suoi figli Lodovico e Pepino, in modo che avessero un'esistenza propria bensì, ma senza scomporre l'unità dell'Impero. Per dir solo dell'Italia, erasi conosciuto che la debolezza dei re longobardi veniva dalla soverchia potenza dei duchi: laonde la vastissima giurisdizione di questi fu suddivisa in contadi. I conti erano capi militari e civili, non distinti fra sè che per l'ampiezza del loro distretto: solo quei della frontiera, o marchesi, possedeano forze maggiori. La carica di conte, non ereditaria e talvolta neppur vitalizia, obbligava a prestare fedeltà al re, ai sudditi render giustizia a tenore delle leggi e delle costumanze, punire i malfattori, proteggere orfani e vedove, riscuotere le tasse devolute al fisco. Diretta giurisdizione non aveano i conti che sulla città di loro residenza; del resto durando lo sminuzzamento germanico, per cui ciascun uffiziale pubblico teneva una particella di giurisdizione, fin agli intendenti dei beni regj. Nelle città minori e nelle borgate v'avea vicarj; nelle campagne centenarj e decani, costituiti sopra un maggiore o minor numero di famiglie: ma qualora si disputasse della libertà e della proprietà de' cittadini, ai conti era riservata la sentenza. Presedevano ai _placiti_ de' liberi e degli scabini, esponevano il fatto in discussione e le prove, indicavano che cosa era disposto dalla legge seguita dai contendenti, e posavano la quistione che essi giudici doveano risolvere; udita poi la decisione di questi, proferivano la sentenza, e ne procacciavano l'adempimento. Sostenevano dunque le funzioni del pubblico ministero e del presidente; ma il giudizio restava agli scabini, eletti dal popolo fra' proprietarj del paese, Franchi o Romani, equivalenti ai decurioni degli antichi municipj; che se fossero trovati indegni, il conte li cassava. Le decisioni dei conti parean men giuste? potea farsi richiamo sia al conte palatino, forse sedente in Pavia, che decideva come rappresentante del re, sia al re stesso od al suo consiglio, secondo l'importanza delle cause o la dignità delle persone; le più rilevanti recavansi all'assemblea generale. Rimanevano sempre esentuate le persone dipendenti immediatamente dal re. Dacchè la vastità dell'Impero rendeva impossibile il raccogliere tutta la nazione, Carlo istituì assemblee parziali, a tal uopo anche l'Italia dividendo in varie legazioni, e ciascuna in contadi, rispondenti per lo più alla divisione diocesana. Due messi regj scorreano quattro volte l'anno il loro _missatico_ o provincia, al placito convocando i vescovi, abati e conti in quello compresi, gli avvocati ecclesiastici, i vassalli, i centenarj ed alcuni scabini, coll'incarico di render giustizia o procurarla dai pubblici uffiziali, far ragione dei richiami contro di questi, e informare della condizion del paese. Carlo tenne spesso anche adunanze generali de' baroni e degli ecclesiastici, e le decisioni prese o le istruzioni date in quelle formarono i Capitolari. Carlo, re de' Franchi, aveva sudditi longobardi e romani e alemanni, e ciascuno regolavasi secondo la propria legge, non trattandosi più di stranieri o vinti, ma di sudditi eguali: rendeansi dunque necessarj i Capitolari, specie di diritto comune, che a vincitori e vinti imponevano norme nuove o modificazioni delle antiche. Il primo è del 779, e fino all'807 ve n'ha censessantacinque, compresi nella raccolta longobarda. Anche Longobardi e Beneventani mantennero le leggi primitive, modificate e supplite con disposizioni generali. Per un esempio, le leggi penali, le ordalie, il prezzo del sangue si conservarono; ma imponendo come obbligo il comporsi, e comminando esiglio e prigione a chi vi si ricusasse, il diritto della vendetta dall'individuo trasferivasi nella società. Variatissima fu la condizione delle persone nell'Impero. Oltre gli schiavi, v'ebbe affrancati che s'industriavano d'assicurarsi una posizione or nella Chiesa, or nella vita civile: v'ebbe liberti d'ordine inferiore, sottomessi al servizio militare e non ancora sciolti da certe comandigie e prestazioni verso gli antichi padroni: v'ebbe vassalli regj e sottovassalli che passavano per liberi: v'ebbe liberi che viveano su terre proprie e su possessi ereditarj, cinti dai loro coloni, secondo gli usi de' padri; ma, all'opposto di tali usi medesimi, erano obbligati a rendersi all'esercito coi loro braccianti: v'ebbe liberi su terre d'ecclesiastici e di laici, liberi che possedeano al medesimo tempo allodj e benefizj, che per conseguente erano pure o vassalli regj o sottovassalli: v'ebbe vassalli regj, che erano sottovassalli o della Chiesa o d'un gran vassallo laico: v'ebbe infine coloni i quali possedeano altri coloni e servi[224]: e tutti avevano diritti e doveri differenti gli uni verso gli altri, mentre l'eribanno, cioè l'obbligo del militare, li teneva in pari dipendenza dall'Impero. S'aggiungano le città, coll'ordinamento loro particolare, in parte conservato dal romano, in parte derivato dalle consuetudini germaniche. Per la difesa nazionale armavasi la leva a stormo di tutti i liberi o arimanni: per le spedizioni particolari i conti menavano al campo la gioventù, scelta fra' loro vassalli, e ciascun arimanno dovea pensare alle proprie vesti, all'armi, anche al vitto sinchè fosse entro le frontiere del regno. A prevenire in ciò le vessazioni, Carlo Magno misurò i servigi dai possessi, talchè chi avesse tre o quattro mansi[225] dovea servire personalmente; quei che meno, unirsi tra sè per dare un uomo; a proporzione minore chi non avesse che il valor mobile di una libbra d'argento. I poveri, o rimanevano di guardia alla città, o lavoravano alle vie, alle fortificazioni, ai ponti. E fu questa una grande mutazione, giacchè dovettero servizio non solo i grandi possessori, ma tutti; e ciascun uomo libero ebbe ad eleggersi un seniore, sotto la cui bandiera mover in guerra. Diventò dunque la milizia carico personale insieme e reale, e l'interesse del principe s'identificò con quel dello Stato. I liberi non possessori restarono sciolti dal servizio; i piccoli possessi a tal fine vennero sottoposti spesso ai grandi, minorandosi coloro che esercitavano le armi. A questo modo popolo ed esercito tornarono ad esser una cosa sola, e nella vita fu introdotto un nuovo legame cui nessuno potea sottrarsi, rimanendo tolta quella libertà assoluta, che affettavano gli antichi Germani. Chiunque possedesse un benefizio, per piccolo, era obbligato cavalcare in guerra, armato di scudo, lancia, sciabola, spadone, arco, turcasso pieno; al semplice libero bastavano lancia, scudo, arco con due cocche e dodici freccie; e questo e quello doveano aggiungervi una corazza, se il loro allodio od il benefizio valessero dodici mansi. I bagagli dei re, dei vescovi, dei conti, ed i provvigionamenti e le macchine si trasportavano a spesa dei possidenti: ciascun conte nella propria giurisdizione vegliava a mantenere strade e ponti, e del paese a lui sottomesso restavano a sua disposizione i due terzi dell'erba e del fieno pei cavalli e gli altri animali che seguivano l'esercito. Le truppe alloggiavano presso gli abitanti, sinchè fosse possibile. Il libero che mancasse alla chiamata di guerra, pagava l'eribanno di sessanta soldi; il vassallo perdeva il benefizio; il disertore la vita. Siccome i più non erano in grado di pagare, restavano schiavi; lo che presto avrebbe annichilato i piccoli proprietarj, se Carlo non avesse ingiunto che, chi moriva in quello stato, si considerasse per isdebitato, e il fondo suo tornasse agli eredi. I vassalli delle chiese e de' monasteri seguivano i proprj vescovi ed abati: ma che gli uomini di Dio si tuffassero nel sangue spiacque a Carlo, il quale fece da papa Adriano riprovar quest'abuso, e l'assemblea generale confermò il divieto, talchè a' loro uomini comandò il confaloniere o il visdomino o l'avvocato. All'alto clero parve vedersi carpiti onori dovutigli, e cercò sempre ricuperare l'uso delle armi, come fece poi nell'età feudale quando nulla s'acquistò, nulla si conservò se non colla spada. Oltre l'eribanno, esercito che compiva le spedizioni dalla nazione consentite, il re avea la banda di proprj vassalli, fossero volontarj o stipendiati, che adoprava dovunque volesse, nelle imprese difficili, nelle violente, in quelle che occorressero dopo ch'era scaduto il termine dell'eribanno, e a custodire la persona reale, e tener guarnigione. Semplici erano le finanze, poichè ogni cantone e comunità si manteneva da sè, nè la Camera regia dovea mandarvi nulla per le strade, per l'istruzione, per altri stabilimenti, salvo che il re ne volesse fondare con proprj averi. I benefiziati pagavano i loro canoni in cavalli, stoffe, derrate di vario genere, che recavansi al campo di maggio, e v'erano ricevute dal gran ciambellano, con non piccolo suo profitto. La Corona possedeva poi terre tributarie ed ampj poderi o ville, nelle quali spesso i re tenevano le assemblee, e venivano a stare alquanto in ciascuna, per consumarne sul posto le derrate. Comprendevano molte abitazioni, occupate da servi del fisco, o anche da lavoratori liberi, retribuiti con razioni o con un manso, ed obbedienti a un maggiore, che riceveva ordini da un giudice fiscale, cui spettava a un tempo la generale intendenza e la giurisdizione su tutti gli abitanti delle ville da lui dipendenti. Angusta diffidenza reca politici inetti ad opporsi ai sentimenti della loro età, e a ritardarne i progressi, da cui temono diroccata una potenza che si regge soltanto per l'abitudine: l'uomo grande in quella vece conosce il tempo, e non che sgomentarsi del suo procedere, ne adopra gli elementi ad assodare l'edifizio ch'esso prepara, e che l'avvenire rispetterà. Carlo Magno vide come il clero, coi tanti benefizj recati nel barbarico scompiglio, avesse acquistato immensa potenza sovra l'opinione; e non che adombrarsene come aveano fatto i Longobardi, la sentì opportuna all'intento suo d'incivilire e unificare, e ne crebbe l'efficacia mediante la ricchezza, il potere, la riverenza. Mentre egli coll'armi sospendeva l'irruente barbarie, i missionarj dovevano colla parola mansuefare i rozzi limitrofi; e la venerazione verso il capo della Chiesa opponeva allo sfiancamento della società e dei costumi. Largheggiò colle chiese; assicurò loro la decima da equamente partirsi fra il vescovo, i sacerdoti, le fabbriche di ciascuna diocesi, e i poveri, cioè gli ospizj. Erano questi amministrati e serviti dalla disinteressata carità del clero; onde il crescere de' beni ecclesiastici ritornava a utile dei poveretti. Ma la Chiesa non si prospera tanto colle largizioni, quanto collo svellere le male erbe che aduggiano il buon seme. Epperò Carlo rimediò alle triste arti con cui alcuni traevano beni alle chiese, o li disperdevano a vantaggio delle proprie famiglie, o vi cangiavano destinazione; provvide che i devoti non largissero a scapito degli eredi bisognosi; impedì d'assegnare i patrimonj ecclesiastici a laici, se non a titolo precario, e questi pure a patto che gli utenti retribuissero doppia decima, e conservassero i monumenti del culto. Andando la giurisdizione annessa al possedimento delle terre, il clero la esercitò non altrimenti che i vassalli nei loro feudi; e perciò alle donazioni solevasi aggiungere l'immunità, cioè che verun giudice regio potesse far atto d'autorità sopra i dominj ecclesiastici. Gli avvocati delle chiese almeno una volta l'anno tenevano placito in una delle città dipendenti da quelle, e vi rendevano giustizia assistiti da probi uomini. Carlo assodò la giurisdizione canonica, estendendola fino ai casi di sangue; nessun cherico poteva essere tenuto in cattura senza darne notizia al suo diocesano: ai vescovi spettava l'inquisizione anche dei gravi delitti commessi da sacerdoti nelle loro diocesi. Gli ecclesiastici non ammettevano prove di Dio ai tribunali lor proprj; e Carlo ordinò si scolpassero secondo il gius ecclesiastico, coi testimonj o con prestare giuramento davanti al popolo con tre, cinque o sei preti, e occorrendo, anche con laici congiuratori. Per tale giurisdizione la Chiesa s'insinuava più sempre nelle famiglie, competendole le cause di matrimonj e di testamento; e ne aumentarono grandemente i possessi, attesochè molti secolari le sottoponevano i proprj beni onde godere di quella. Perocchè, quando i codici erano dettati da Barbari ed applicati da gente rozza e passionata, pareva un oro il gius canonico; e i tribunali vescovili per regolarità di forme e stabilità di diritto vincevano di lunga mano le corti dei conti, più ignoranti e corrotti. Ma poichè a questo modo il clero emancipavasi dallo Stato, Carlo Magno con ispeciali raccomandazioni frenava l'eccesso della concession generale: limitò il diritto dell'asilo sacro, negandolo agli assassini; se un reo fuggisse sopra terre ecclesiastiche per sottrarsi alla giurisdizione secolare, fosse respinto; altrimenti il conte lo arrestasse di forza; un'ammenda al vescovo che si opponesse. Colle ricchezze, coll'entrarvi persone illustri e potenti, e coll'ottenere le dignità non per zelo e merito ma per bottega, nel clero si era lentato il rigore e guasta la disciplina; e i re, avocatasi l'elezione dei vescovi, preferivano spesso gl'intriganti e chi avesse più denaro e arte di spenderlo. Questo sconcio non isfuggì a Carlo, che, se sulle prime destinava a talento i prelati, sul fine del suo regno formalmente restituì agli ecclesiastici e al popolo la scelta del vescovo, sebbene ai comizj di quella solessero presedere regj commissarj. Pure la simonia guastava le elezioni popolari, come avea fatto le principesche. Ai disordini si opponevano rimedj da privati e dal pubblico, dall'autorità civile e dalla religiosa. Si prescrissero ai monaci regole di tal perfezione, che non è meraviglia se non vedeasi sempre raggiunta. De' canonici trovasi vestigio antecedente[226], ma allora ebbero regola definita e salmeggiare in comune, accoppiando la monastica forma al vivere nel secolo. Carlo procurava introdurre nella vita religiosa l'ordine e l'operosità che avea recato nel governo temporale: sicchè ai messi dominici ordinava di esaminare i lamenti contro i vescovi od abati; se questi vivessero conforme ai canoni; come le chiese fossero tenute; se v'avesse alcun disordine cui il vescovo non bastasse a riparare. Egli fece da Paolo Diacono raccorre omelie de' santi Ambrogio, Agostino, Ilario, Grisostomo, e di Leone e Gregorio Magni per modello agli oratori; impose che in tutte le parrocchie si predicasse intelligibile al popolo; che i vescovi leggessero frequente la Bibbia e i santi Padri: nati dubbj intorno ai riti del battesimo, interrogò i vescovi, e abbiamo il libro che in risposta scrisse Odelberto arcivescovo di Milano. De' concilj ben quaranta troviamo raccolti sotto di lui, alcuni misti d'interessi politici, tutti riguardanti il morale ordinamento della società civile e religiosa; e ne sostenne i canoni col braccio secolare. I decreti di riforma in essi pronunciati, il continuo predicare, il regolarsi i minimi atti, rivelano una società novizia, dove ogni passo ha bisogno di direzione, e il contrasto fra le intenzioni del legislatore e la corruttela de' governati. Al tempo di Carlo Magno e in parte per merito suo ebber qualche fiore gli studj e le arti belle. Per imputare affatto ai Barbari il deperimento della letteratura converrebbe dimenticare come già decrepita la vedemmo al finir dell'Impero, e come, perdurando le stesse cause, dovesse continuare il calo; converrebbe dimenticare come miserabilissima fu nell'impero d'Oriente, intatto da Barbari, e dove quegli sterili custodi dell'antica scienza, possedendo tuttavia intatta la più bella lingua e tanti mezzi di studio, non seppero fare che compilazioni di dotta e monotona inettitudine. In Italia, divenuta ogni cosa invasione e guerra e strazio, quasi soli cherici poterono vacare allo studio e allo scrivere, nè quasi d'altro che di materie religiose. Col governo antico cessando gli emolumenti, furono chiuse le scuole; ma la Chiesa, che non accetta in grembo se non chi ha cognizione delle capitali verità, ne aperse dappertutto, allato ai vescovadi, nei conventi, fin nelle campagne, ove mai non s'era pensato fin allora a recar l'educazione. Le scuole morali e catechetiche erano semenzaj di buoni sacerdoti e missionari, ed oltre alla scienza di Dio vi si dava una tintura delle lettere, quanto almeno fosse mestieri per favellare ai popoli tra cui doveano andare, e per conoscerne le leggi e le costumanze. Che se le episcopali divenivano sempre più aride, e le parrocchiali caddero in persone scarse di scienza e di carità, nei conventi si perseverò con amore nell'istruzione elementare e nella elevata, oltre la special cura del copiare libri. In particolar fama salirono fra noi le scuole di Montecassino e di Bobbio, e il concilio di Vaison ordinava ai parroci d'aver in casa giovani per istruirli negli studj convenienti a chi serve la Chiesa «secondo la consuetudine che salutevolmente tenevasi per tutta Italia». Ridotto in tali mani, era naturale che l'insegnamento si applicasse affatto alla scienza divina, le eterne massime o i libri sacri spiegando colla storia, la filosofia, l'allegoria e la morale. Non è più un semplice appetito di piaceri intellettuali, un'idolatria del bello, che solo per accidente influisca sulla società; ma e scienze e lettere volgonsi allo scopo pratico di governare gli uomini, determinare le credenze, riformare i costumi. La moltiplicità di scritti di circostanza, dispute teologiche, omelie, esortazioni, commenti, che ci resta dopo tanti perduti e inediti, smentisce chi crede intormentiti gli intelletti. Nè è vero che i pensatori si angustiassero nella fede; anzi spingevansi nell'ordine de' concetti per costruire la società nuova, e insinuare nelle menti giovani ed incorrotte le credenze che sole poteano addolcirne la ferità: i vescovi predicavano ogni settimana: missionarj uscivano a spargere la verità, dopo addestrati a conoscerla tanto da ribattere le objezioni; i papi alimentavano la fiamma del sapere, e di molti avanzano lettere piene d'ecclesiastica erudizione. Già parlammo di Boezio e Cassiodoro. Quest'ultimo, veduto traboccare il soglio al quale aveva prestato valido sostegno, ricoverossi al monastero Vivariese, fra la devozione e le lettere. De' suoi monaci, i meno atti alle lettere volle attendessero a lavori di mano, specialmente alla coltura de' terreni e alla minuta economia rurale, il che, dic'egli, oltre giovare chi vi attende, somministra di che soccorrere poveri e infermi. Nelle ore di riposo copiavano libri, al qual uopo egli, già carico di novantatre anni, scrisse regole d'ortografia. Nel libro _De anima_ risolve dodici quistioni, propostegli da amici mentre stava ancora nel secolo. L'esposizione sua de' salmi è estratta da sant'Agostino e da altri. La cronaca dal diluvio sin al 519 porge qualche notizia sull'ultimo secolo, nulla del resto. È a rimpiangere la sua Storia dei Goti in dodici libri, conosciuta solo per l'estratto di Giornandes. Gemendo che, mentre le umane dottrine _erano pomposamente_ insegnate, mancassero maestri per le divine, nè potendo papa Agapito, pei trambusti d'Italia, porvi rimedio come desiderava, Cassiodoro tentò adempiere il difetto con un corso elementare delle scienze atte al Cristiano. Vuol egli si cominci dal mettere a memoria la santa scrittura e particolarmente i salmi; poi si studiino i Padri e i sacri interpreti; non s'ignori la storia della Chiesa e dei concilj; vi si congiungano la cosmogonia, la geografia e i profani scrittori, colla discrezione onde li studiarono i Padri cristiani. Le scienze colloca egli altre nell'osservazione, altre nella cognizione e stima delle cose, contemplative cioè o pratiche; e fra le prime ascrive l'arte del dire, storica e dialettica; indi aritmetica, geometria, astronomia e musica. Queste scienze sono poco meglio che accennate nel trattato di Cassiodoro; l'aritmetica occupando appena due fogli, senza applicazione delle regole comuni e con assurde sottigliezze sulle virtù dei numeri; la geometria in due facciate, dà alcune definizioni ed assiomi; brevissime e inconcludenti la grammatica e la retorica; alquanto più estesa e ragionata la logica. Ma tale metodo enciclopedico, da lui esteso sull'esempio di Marciano Capella, fu adottato generalmente, e fece sostituire povere compilazioni allo studio diretto de' grandi modelli; ma forse egli stesso e i migliori suoi contemporanei non avevano cognizione di questi, se non per via degli abbreviatori del IV e V secolo. Son nuovo genere di letteratura le leggende e le vite dei santi, moltiplicate allora e d'intendimento affatto pratico, mirando a muovere la volontà più che ad allettare l'intelletto od appagar la ragione. Siccome su tutti gli altri, così sugli eroi popolari che si chiamano santi, eransi diffusi varj racconti, alcuni finti, più spesso esagerati o frantesi; onde talvolta l'immaginazione vi vedeva miracoli, talaltra l'ignoranza credea tali alcuni fatti, capaci di naturale spiegazione. Ripetuti, ingranditi dalla fama, sono raccolti come verità da una gente men bisognosa di discutere che di credere e d'amare. Volta veniva che si esercitasse in queste vite il talento dei monaci, e sbizzarrivano inventando circostanze; le migliori deponevansi negli archivj de' monasteri, e trattene dopo lunghi anni, acquistavano fiducia dalla loro antichità; finchè venne la critica a vagliarne la mondiglia e unire il meglio in un corpo di storia, che abbraccia quindici secoli e tutti i paesi, tutti i costumi, tutti i gradi. Era quasi una riazione delle immaginazioni contro i disordini morali d'allora, ponendovi in mostra la bontà, la giustizia, scomparse dal resto del mondo; ed esibendo dolcezze e simpatie fra i dolori, pascolo alle fantasie, sprovviste d'ogni altro alimento: era una consolazione alla vita così bersagliata di quel tempo, il mostrare l'assistenza continua della Provvidenza. Venuti i Longobardi, il bujo si rese più fitto; e papa Agatone raccomandava all'imperatore greco i legati suoi al concilio di Costantinopoli, come gente d'integro zelo, in cui la fedeltà alle tradizioni adempie il difetto del sapere; «giacchè, come mai può trovarsi perfetta cognizione della sacra scrittura presso gente che vive circumcinta di Barbari, ed è costretta procacciarsi il vitto giorno per giorno?» I padri poi del sinodo Romano scrivono: «Se poniam mente alla profana eloquenza, nessuno ci pare possa in quella levar vanto. Il furore di barbare nazioni agita e sovverte senza posa queste provincie guerreggiandole, correndole, predandole. Quindi da Barbari circondati, meniamo vita piena di crucci e di stento, costretti a guadagnarci il vitto colle proprie nostre mani, essendo periti i beni con cui la Chiesa sostenevasi, e noi ridotti ad avere per unica sostanza la fede». Avendo re Pepino chiesto libri a papa Paolo, questi gli mandò quanti potè raccorne; e quali erano? l'antifonario, il responsale, la grammatica (?) d'Aristotele, i libri del falso Dionigi areopagita, la geometria, l'ortografia, la grammatica, tutti in greco; scarsa suppellettile davvero per un papa e un re. Ripetiamo di non affrettarci ad accagionarne soltanto l'invasione dei Barbari, giacchè poco meglio incontriamo nell'intatto Oriente. Carlo Magno, messosi tardi allo scrivere, non aveva mai potuto avvezzarvi la mano, irrigidita dalle armi, sebbene tenesse allato certe tavolette, sopra cui esercitavasi a vergare il proprio nome[227]. Ciò non toglieva ch'egli fosse dotto; esprimevasi con robusta ed abbondante eloquenza; parlava il latino come la lingua propria, e in esso componeva versi; capiva anche il greco, e in assemblee di vescovi ragionò talora con una precisione da far meraviglia ai prelati. Quel che più importa, amò e protesse, senza basse gelosie di paese, chiunque mostrava bontà d'ingegno; fondò le scuole donde nel secolo seguente uscirono insigni maestri; incoraggiò il sapere, facendo che i vincitori stimassero le dottrine di cui conservavasi tra i vinti la tradizione, e i vinti cessassero di fare sinonimi settentrionale e barbaro. Nella prima sua spedizione in Italia, veduti gli avanzi di quella insigne, se non morale civiltà, si propose di trapiantarla in Francia; e menò seco Pietro da Pisa, già maestro a Pavia, affidandogli la direzione della scuola di palazzo, la quale seguiva Carlo dovunque andasse; e alle lezioni assistevano l'imperatore, i principi di sua casa e quanto di meglio capitasse a Corte. Di rimpatto mandò qui un monaco d'Irlanda, affidandogli il monastero di sant'Agostino presso Pavia, acciocchè istruisse chi vi veniva: e ad uso delle scuole primarie fe comporre libri dall'inglese Alcuino. Credendo la musica opportuna ad ingentilire gli animi, menò d'Italia molti cantori che insegnassero il metodo gregoriano e a sonar gli organi, alcuni de' quali furono fabbricati da Giorgio veneziano, ad imitazione di uno che Costantino V aveva da Costantinopoli mandato a Pepino. Assai nominammo Paolo, da Cividal del Friuli, diacono della chiesa d'Aquileja, che la Storia dei Longobardi cavò da memorie ancora vive; ma si ferma a Liutprando, forse avendo voluto risparmiarsi il pericolo e la difficoltà di narrare casi recenti, ove il favore e il dispetto potessero alterare i giudizj. Scosceso il trono de' Longobardi, Paolo, ritiratosi nel monastero di Montecassino, conservò devozione pe' suoi re caduti, e tenne mano con Adelchi nei tentativi di ricuperare il trono. Quei vili consiglieri che mai non mancano per contaminare coll'abjezione propria la generosità d'un principe, stimolavano Carlo a punire il diacono colla perdita degli occhi e delle mani; ma il Magno rispose: — Ove troveremmo noi una destra così abile a scrivere storie?» e lo menò seco in Francia, ove gli fece compilare un _Omeliario_ purgato da solecismi e da sensi corrotti; lo trattò amicamente, concesse a un monaco prigioniero la grazia da lui chiestagli in un'elegia, e gli dirigeva enigmi in versi, che Paolo in versi spiegava; e dopo che questi fu tornato a Montecassino, il mandava a salutare con affetto[228]. Della sua _Historia miscella_ i primi dieci libri sono un'amplificazione di Eutropio; col decimottavo giunge a Leone Isaurico. Nel Friuli pure fioriva Paolino grammatico, che scrisse inni e lettere e una confutazione degli errori di Felice ed Elipando; assiduo a tutti i concilj tenutisi nell'Impero, a lui principalmente sono dovuti i decreti di quello d'Aquisgrana. Carlo Magno gli diede il patrimonio d'un Fedele di re Desiderio morto in guerra, poi una villa, e il creò patriarca d'Aquileja. Erchemperto, figlio del longobardo Adelgario, continuò la storia della sua nazione, «dal profondo del cuore sospirando nel raccontarne non il regno ma l'eccidio, non la felicità ma la miseria, non il trionfo ma la ruina, non come progredirono ma come svanirono». In fatti il suo discorso è del ducato di Benevento; fra' principi del quale sappiamo che Arigiso favoriva i letterati e teneva un'accolta di filosofi, dotto egli stesso in tutte le parti della filosofia, logica, fisica, etica: sua moglie Adilsperga aveva alla mano i migliori detti dei filosofi e poeti, e gran pratica cogli storici profani e sacri: il loro figliuolo Romoaldo molto seppe nella grammatica e nella giurisprudenza[229]. Le poche carte avanzateci di quell'età provano estrema trascuranza della lingua e della sintassi. Passiamo ai libri? peccano al contrario di soverchia cura, affettando termini bizzarri e metafore strane e affastellate, intarsiando espressioni greche alle latine, dilettandosi in giuochi di parole, e mostrando un'enfasi che fa ai pugni colla gracilità delle immagini. Se questo stile si esageri ancora, poi si frastagli in una misura inesatta, si avrà quella che allora chiamavano poesia, triviale insieme e gonfia, che ne' componimenti leggieri invanisce in trastulli, imitanti quelli della letteratura rimbambita; se canta imprese, dissocia i due elementi necessarj d'ogni epopea, l'immaginazione e il racconto. Eppure fra loro quegli scrittori, anticipando la codarda petulanza de' moderni folliculari, paragonavansi ai più segnalati[230], dei quali siamo autorizzati a dubitare che mai non avessero veduto le opere. Nè di arti fu diseredata quell'età. Anzi i re longobardi moltiplicarono edifizj; e per non ripetere la basilica e il palazzo di Teodolinda a Monza, e le pitture e i giojelli ivi posti (pag. 85), Gundeberga figlia di lei un'altra chiesa al Battista eresse in Pavia, dove furono pure edificati da re Ariperto San Salvadore, da Grimoaldo Sant'Ambrogio, da Pertarito il monastero di Sant'Agata al Monte e Santa Maria in Pertica, da Liutprando San Pietro in Ciel d'oro e il battistero poligono unito alla basilica di Santo Stefano in Bologna. A Cuniperto è dovuto San Giorgio in Coronate, dove avea riportato insigne vittoria; a Desiderio, San Pietro di Civate in Brianza, Santa Giulia in Brescia, e i monasteri Maggiore e di San Vincenzo in Milano; a Grimoaldo la rotonda del duomo vecchio di Brescia. Fanno di quel tempo anche San Pietro _de domo_ in Brescia, Sant'Ilario in Stafora presso Voghera, San Zenone e la cattedrale di Verona, e principalmente San Michele di Pavia. Fu maestrevolmente negato[231] che le chiese oggi portanti questi titoli, sieno le proprie dell'età longobarda; e si discusse quanto si riformassero dappoi. Tutte nei piani somigliano alle costruzioni usitate al fine dell'Impero; nè sotto i Longobardi l'architettura fu altro che un deterioramento della romana: ma l'esterna distribuzione, particolarmente delle facciate, lo stile dei capitelli, con figure d'uomini e d'animali strani, i pilastri di rinforzo, le esili colonne prolungate dal pavimento fino al sommo dell'edifizio, passando da un piano all'altro senza interruzione di archi, di travature o cornici, mostrano un far nuovo d'architettura che cominciò verso il mille, e che poi divenne generale. Nel San Zenone di Verona le navi sono distinte da colonne, con capitelli formati d'animali mostruosi, che sostengono piccoli archi tondi, e sovra di essi un muro a finestre, sorreggente il tetto; ma invece d'un solo arcone trionfale che separi la nave dal santuario, diversi piccoli impostati sopra colonne traversano la chiesa per lo largo. Attorno alla cripta corrono colonnette disposte a mandorla, con capitelli lombardi e arcate tonde, che sostengono il magnifico santuario, a cui si ascende per dodici scalini larghi quanto la chiesa. Il monumento longobardo che forse unico nell'interno conservossi inalterato, è San Fridiano a Lucca, che in pergamene del 685 e 86 si dice restaurato da Flaulone, maggiordomo di re Cuniperto, e fin ad oggi chiamasi basilica de' Lombardi. È disposto a modo delle basiliche, semplicissimamente, con tre navi e cappelle laterali sfondate, che forse formavano altre due navi; undici colonne per lato, alcune greche e romane, sottili a riguardo dell'enorme altezza ch'è dal sotterraneo alla soffitta. Ivi credono longobarda anche Santa Maria _foris portam_, restaurata nell'800; e pensano che il palazzo dei duchi stesse in piazza San Giusto, ove ora il Lucchesini. Più antico è Sant'Alessandro, sebbene ricordato solo nel 1056. Nel ricchissimo archivio di questa città si trova al 763 mentovato un pittore Auriperto, cui da Astolfo re fu donato San Pietro Somaldi, ch'egli cedette al vescovo Aurideo. Pur longobardo credono San Giovanni e il contiguo battistero; e nel 778 è menzione di San Michele che potrebb'essere opera longobarda. Anteriore a Carlo Magno reputano Santa Maria in Campo a Firenze. La tradizione popolare, che concentrò su Teodolinda quanto di buono hanno operato i Longobardi, assegna a lei il campanile di Brianza, San Giovanni di Besano sopra Viggiù, la torre di Perledo e la chiesa di San Martino a Varenna, il San Giovanni Battista di Gravedona, tutti nel Comasco, e la strada Regina lungo la riva destra del Lario. A Longobardi s'attribuiscono pure le torri in val Leventina che chiudono il varco di Staledro verso il San Gotardo, e che chiamano il castello di re Desiderio e la torre di re Autari. Le torri longobarde di Ascoli tengono del ciclopico, e ad una porta quadrata sovrasta un frontone triangolare forato. Quelle di Spoleto somigliano a quelle di Pavia, e una chiesa fuor della città, cui si ascende per una scalea, ha fregi d'animali a modo del San Michele pavese. Nessuno crederà che i Longobardi recassero seco un sistema d'arte, nè tampoco architetti proprj; ma si valeano de' natii, ed espressa menzione trovammo (pagina 144) dei _magistri comacini_, capomastri uscenti dalla diocesi di Como, donde fin oggi ne deriva la più parte. Questi lavoravano secondo i tipi che aveano sott'occhio, nè pel lungo tempo che i Longobardi dominarono in Italia, s'avvisa alcun avanzamento; talchè i loro edifizj del VII poco variano da quelli dell'XI secolo, quando fecero luogo ai Normanni, popolo tanto progressivo. Le belle arti ebbero ad esercitarsi nei molti edifizj da Carlo comandati dopo che i resti dell'antica magnificenza italiana lo eccitarono ad imitarli. Fin al Vasari, idolatro della forma, parve di _bellissima maniera_ il tempio dei Santi Apostoli, per lui edificato in Firenze, con pianta originale di classica semplicità. A stile eguale è San Michele di Roma. Dove egli stesso non operò, Carlo ispirava altrui, e faceva che abati e conti favorissero gli artisti, i quali per lo più si traevano d'Italia, donde talvolta anche le opere antiche. Non è improbabile che tali artisti da lui chiamati fondassero una scuola o fraternita, origine delle loggie de' Franchi-muratori che tramandavansi certe dottrine e pratiche sull'arte del fabbricare. Insomma Carlo, come avviene degli uomini grandi, campeggia in tutte le opere del suo secolo; eroe germanico, imperatore romano, buono, docile e credente: la tradizione poi ne formò il patrono della cavalleria e il protagonista dei romanzi, accumulando su lui le imprese dei predecessori suoi e de' successori[232]. Adoprò la spada senza pietà, ma non a distruggere, bensì a consolidare l'incivilimento e proteggerlo da nuovi invasori. Vagheggiò l'unità dell'impero romano, ma i tempi gli si opposero; e ai tempi vanno imputati molti vizj e delitti suoi. Accorgendosi come nessuno de' suoi figli basterebbe a reggere il peso del mondo, tanto più che già li vedeva discordi, pensò d'assicurare la pace: e qui la politica della sua nazione accordavasi coi paterni affetti di lui per consigliarlo a partire tra i figli le tre genti diverse, franca, longobarda, romana di Aquitania, senza però che la divisione pregiudicasse all'unità imperiale. A Lodovico d'Aquitania, unico figlio sopravissutogli, Carlo deliberò anticipar la successione col chiamarselo collega, e il fece coronare ad Aquisgrana (813). In questa città piacevasi egli riposare una vita di tante opere, e cogli esercizj e col bagno sosteneva e rintegrava le forze: quivi moriva il 27 dell'814 a settantadue anni. Nel testamento non dispose della corona imperiale, sapendo che questa non poteva essere conferita che dal papa, portando il diritto d'allora che il protetto eleggesse il proprio protettore. Neppur del possesso di Roma fe cenno, tanto la considerava come vero dominio de' pontefici. Due terzi de' suoi ricchissimi arredi spartì alle ventuna metropolitane del suo impero, fra cui quelle di Roma, Ravenna, Milano, Cividal del Friuli, Grado; a San Pietro di Roma una tavola d'argento ov'era descritta Costantinopoli, al vescovo di Ravenna un'altra col disegno di Roma. LIBRO SETTIMO CAPITOLO LXX. Regno d'Italia. Condizione degli Italiani sotto i primi Carolingi. Un Governo stabilito pel pubblico bene, diretto alla pace del paese, al pareggiamento di tutti i cittadini, all'agevole vigoria della legge, alla maggior dignità degli uomini, a cancellare il ricordo della conquista e le cause della guerra, può col tempo legittimare anche l'invasione di un popolo forestiero, e all'odio derivato dalle prime violenze surrogare quella docilità, che finisce coll'uniformare la volontà de' vinti a quella de' vincitori. Tale non era stato quello de' Longobardi; onde perì senza resistenza nè compianto. I vinti italiani credettero risorgesse la loro grandezza quando si rinnovarono i nomi d'Impero e di popolo romano: e realmente coll'assidersi sul trono de' Cesari un re dei Barbari, questi venivano ad affratellare a sè la gente romana, e vincitori e vinti non aveano più che un capo solo. Laonde, in un famoso Capitolare dell'801, Carlo Magno s'intitolava _imperatore e console_, cioè ripristinava in lor condizione i Romani; e gloriavasi di aver reso giustizia a ciascuno secondo la legge propria, Romani fossero o Longobardi o Franchi. Che i Romani spossessati dai Longobardi rientrassero nei loro averi e nei diritti degli avi, non abbiamo titoli a crederlo: forse il vincitore avea combattuto pel loro restauramento? ma d'altra parte non v'era ragione perchè questo prediligesse i Longobardi; talchè ai Romani ridotti aldj erano tolti gli ostacoli per entrare nella condizione de' Barbari. Quanto ai Romani non prima soggiogati, il nuovo vincitore cessava di considerarli per forestieri nè diminuiti del capo; ed anche per la loro vita si stabiliva un guidrigildo, talchè il Longobardo uccisore d'un nostro dovesse pagare il compenso legale. Alla romana e col nome italico aveano continuato a regolarsi le città dove Goti e Longobardi non erano penetrati o per poco. Ma gl'imperatori di Costantinopoli non poteano da così lontano, o non curavano mandar sempre governatori; i casi spesso interrompevano la comunicazione coll'esarca di Ravenna: laonde esse provvidero al governo e alla difesa propria, adoperandovi il denaro che soleano dare per tributo. Così que' municipj trassero in propria mano l'erario, l'esercito, l'amministrazione civile e giudiziale, insomma di fatto una civile libertà. Verso l'890 Leone VI imperatore abolì il nome di console, poi anche le curie, come istituzioni da gran pezza invecchiate, e d'altra parte inutili dacchè tutto restava affidato alla sollecitudine dell'imperatore[233]: ma a quel tempo già era così lentato il legame fra le città nostre e l'impero orientale, che le cure qui durarono, benchè modificate. Si avevano il senato e il _pater civitatis_ eletto dal popolo, ma sparvero i _defensores_ e i _magistratus_; l'esarca poi o il papa nominavano agl'impieghi civili e militari. I due poteri rimasero distinti anche nell'amministrazione della giustizia, da un lato quella dei duci, dall'altro quella dei dativi o giudici, benchè talora le due qualifiche si unissero nella stessa persona. Le città furono prese più volte, più volte si liberarono forse da se medesime; e la parte nazionale era fiancheggiata dai vescovi, avversissimi a' Longobardi, e provvisti di ricchezze e potenza. Fin d'allora vediamo esse città portar guerra una all'altra, e i vescovi contro i papi o gli esarchi: tutti sintomi di vita indipendente. Per duce, in luogo di quello che gli Orientali deputavano qui, eleggevasi un cittadino; onde i Greci, mentre scapitavano più sempre in dignità, divenivano causa od incentivo che si svegliassero in Italia le virtù repubblicane, e l'uomo tornasse alla dignità ed ai beni che sogliono esserne conseguenza. Viepiù nelle città marittime, sotto il nome del greco impero germogliava la libertà, confaciente a popoli che, avvezzi alla indipendenza del mare, mal sanno in terra acconciarsi al despotismo. Colla nuova civiltà mal si combinano le grandi aggregazioni di popolo, anzi prevale l'esistenza indipendente di ciascuno. L'estesissimo impero di Carlo Magno non resse dacchè manca la sua mano robusta; e le nazioni ch'egli avea strette insieme, rimbalzarono tosto che dall'instancabile volontà di lui non trasse più vigore la complicata amministrazione cui le avea sottoposte; e tutto andò spartito in tante signorie, quanti erano i popoli, con leggi proprie, e con effettiva indipendenza sotto una nominale subordinazione. L'Italia, che pareva anch'essa dover venire assorbita in quel grande accentramento, ne restò distinta, ma sbranata in moltissime signorie; e i nostri re valeano poco meglio di qualunque altro de' possessori di grandi feudi, fossero signori longobardi qui sopravanzati, o nuovi pòstivi dai Franchi; e dei prelati che, a modo del clero di Francia e di Germania, mescevansi della politica; e che tutti mal s'acconciavano al regolato governo istituito dal Magno. Pepino re d'Italia sedeva in Pavia, non però distaccato dall'Impero; tanto che Carlo Magno, a lui scrivendo nell'807, s'intitola ancora re dei Longobardi, e gli trasmette ordini[234]. Sinchè fanciullo, ebbe per tutore Wala, poi per consigliere e ministro sant'Adalardo abate di Corbia, che amava la giustizia senza distinguere persone nè ricever regali; i prepotenti che angariavano il popolo, represse; e dicevasi esser non uomo ma angelo. Papa Leone III l'ebbe famigliare, e — Se mi fossi ingannato nel credere ad esso, a niun Francese mai più crederei»[235]. Morto Pepino giovanissimo (810), Carlo Magno gli sostituì il figlio Bernardo: ma come il Magno morì, Lodovico Pio, suo successore, stabilì dividere il regno tra' proprj figliuoli (817), e a Lotario primogenito col titolo imperiale assegnò l'Italia, e primazia sovra i fratelli. Se l'ebbe a male Bernardo, che come re d'Italia aspirava all'Impero, e v'era sollecitato dagli Italiani; e i vescovi Anselmo di Milano e Valfondo di Cremona, scontenti d'una sovranità forestiera, formarono una lega di principi e città, e muniti i varchi, alzarono per la prima volta quel grido che fu poi echeggiato d'età in età, di liberarsi dai Barbari (818). Con essi Bernardo passò di là dalle Alpi, ma presto sconfitto, fu condannato a morte; e i due prelati, e i sacerdoti e i grandi che gli ascoltarono, furono chiusi in prigioni o in monasteri. Lotario, rimasto re d'Italia, trascinò i nostri nelle lunghe guerre che contro del paese e dei fratelli menò per le spartizioni ripetute dell'Impero. Succeduto poi al padre (813), nel trattato di Verdun divise i possessi coi fratelli a seconda delle nazionalità, e non pretendendo per sè alcuna supremazia che ne sminuisse l'indipendenza, si piantò oltr'Alpe (844), e qui lasciò re il figlio Lodovico II. Il regno d'Italia occupava la parte superiore della penisola, già dominata dai Longobardi, e che allora prese il nome di Longobardia. Era essa divisa in contadi, e già indicammo quali fossero le attribuzioni dei conti, e quali i privilegi de' liberi, degli ecclesiastici, dei Comuni, allora misti di varie cittadinanze per la concessione di Carlo Magno: e sebbene sussistessero le apparenze longobarde, si estendevano le maniere Franche del possedere e del giudicare, e dappertutto si trovavano benefiziati e vassalli laici o ecclesiastici al modo salico. Di fatto le leggi emanate dai primi Carolingi non facevano che compiere il sistema del Magno, precisando i diritti e i doveri, frenando gli usurpamenti dei baroni, mentre alle chiese si prodigavano franchigie e privilegi. I re longobardi comandavano sull'intera nazione, e non facevano guerra fuori del regno o ben di rado: i Franchi sì, e perciò avevano bisogno di moltiplicare i vassalli proprj, coll'assegnar loro dei feudi, cioè beni particolari, portanti l'obbligo del militare. Eguagliati Longobardi e Romani col concedere anche a questi il guidrigildo, i nostri ch'erano rimasi della stirpe antica, massime nei paesi non occupati da Barbari, ottennero il diritto e l'obbligo di portare le armi, cogli onori e colle prerogative che ne conseguitavano, così qui pure fu dilatato l'uso de' benefizj o feudi, massime da che i beni confiscati ai contumaci furono scompartiti tra i Franchi. I grandi, possessori di quelli, vennero sempre meglio sottraendosi dal dipendere dai re, e tanto più quanto questi erano meno robusti, e sovente lontani. I vassalli maggiori non poteano essere spossessati dal re, se non per cause prestabilite; anzi riuscirono a rendere ereditario il possesso, lo che avvenne pure delle altre dignità. I piccoli feudatarj, abbandonati di protezione, si sottomettevano a conti e vescovi; i pochi liberi cercavano la tutela dei potenti, e di rendersi vassalli, giacchè il feudo portava seco la giurisdizione. Era nel sistema de' Franchi di concedere a qualche possesso la piena giurisdizione, di modo che restasse disoggetto da ogni autorità se non fosse la sovrana: per le quali _immunità_ veniva a sminuzzarsi il paese quasi in tante signorie, quante erano giurisdizioni privilegiate, e ponevansi le une a contrasto colle altre. Di questo passo i privilegi delle persone e delle terre nobili si assodarono, formandosi una classe, interposta fra il re e la plebe, qual non v'era nella Roma antica; i re trattavano coi duchi e i conti, non più col popolo o coi Comuni; gl'impieghi e le dignità non furono amovibili giacchè erano annessi al possesso di terreni; gl'individui, privati di qualunque rappresentanza, restavano in balìa dei signori. Anche i papi, entrando a parte del sistema feudale, assodavano la propria potenza temporale in bilancia colla regia; sicchè il clero, i ricchi, i grandi erano mossi da interessi differenti da quelli del re. Lodovico II (855), e come re d'Italia e come imperatore dopo la morte del padre, dovette essere continuamente colle armi in pugno per mantenere la superiorità Franca, e impedire lo sfasciamento cagionato dalle immunità. Carlo Magno avea lasciato a ciascun popolo la propria legge; ma ciò valea pe' magnati; valea fors'anche per recuperare qualche proprietà usurpata: realmente però e Romani e Longobardi e Salici restavano a discrezione del feudatario, che non aveva chi lo frenasse ogniqualvolta il suo interesse fosse in opposizione con quello del suddito. I Capitolari emendavano o temperavano le leggi personali; e giacchè tutti erano obbligati a seguir queste, parrebbe ne dovesse derivare una grave confusione colle legislazioni preesistenti; ma vi metteva riparo la grande loro semplicità, e il concordare esse ne' punti principali, tutte autorizzando la schiavitù, tenendo la donna in perpetua tutela, punendo gli oltraggi di parole, facendo compendiosi i giudizj, e spesso ricorrendo alle prove di Dio. Durava pure la differenza di pene secondo le persone offese, e l'uccidere un libero costava ducento soldi; cento un servo o liberto della chiesa o del re; il triplo se ucciso in chiesa; trecento se un suddiacono, quattrocento se diacono o monaco, seicento se prete, novecento se vescovo[236]: il padrone paghi pel servo o lo consegni all'offeso[237]: talora al servo si davano tante sferzate, quanti soldi avria dovuto pagare[238]. Delle multe soleasi attribuire due terzi al re, l'altro al conte[239]. Benchè continuasse l'uso germanico di comporre i delitti a denaro, però introduceansi anche pene corporali, mutilazione, ceppi, flagellazione, schiavitù a tempo o perpetua, esiglio; i servi tondevansi; tagliavasi la mano allo spergiuro, al falsatore di monete o di carte, a chi uccidesse il nemico dopo giurata la pace[240]; morte a chi disertava, o ricusasse armarsi per la patria, o facesse congiura[241]. De' Capitolari pubblicati specialmente per l'Italia, quello dato da Corteolona nel pavese espressamente permise a tutti di seguire il diritto longobardo: e anche le Romane vedove di Longobardi non erano obbligate vivere colla legge del marito, ma poteano tornare alla nativa. Speciale pure a noi era il divieto di combattere colle spade, dovendo adoprarsi pei duelli giudiziarj il bastone e lo scudo, salvo i casi d'infedeltà[242]. I pontefici continuavano cogl'imperatori in quella relazione mista di dipendenza e di supremazia. Passato il primo bagliore degli applausi e degli spettacoli da cui facilmente si lascia allucinare, il popolo romano sgradì la rinnovazione dell'Impero, quasi ne andasse di mezzo la propria indipendenza; onde alla morte di Carlo levò rumore. Leone III fece cogliere i rei e condannare, ma questa a Lodovico il Pio parve una lesione della sua sovranità: se non che spedito il nipote Bernardo a prendere cognizione del caso, chiamossene soddisfatto, e non solo confermò le donazioni anteriori, ma le crebbe[243]. Eppure senza aspettare il consenso imperiale fu ordinato Stefano IV (816), che però subito fece dal popolo giurare fedeltà a Lodovico il Pio, e mandò scusarsene: poi in persona venne a Reims a coronarlo. L'imperatore gli si prostrò dinanzi tre volte, e gli fece doni, al centuplo di quei ch'esso papa avea recati da Roma[244]. E trovando colà molti usciti fuori d'Italia per le offese recate a papa Leone, li perdonò e ricondusse in patria; corteggio degno di un pontefice. Al morir di quello, il popolo romano elesse Pasquale (817) senza attendere la sanzione di Lodovico che se ne lagnò. Pasquale incoronò l'imperatore Lotario; ma appena partito questo, due uffiziali della chiesa romana, che se n'erano mostrati fervorosi, furono uccisi; e venuti commissarj imperiali a chiedere ragione del fatto, il papa con trentaquattro vescovi giurossene innocente. Avendo la fazione aristocratica portato al seggio Eugenio II (824), Lotario, sceso a Roma per posare le turbolenze, prescrisse il popolo giurasse fedeltà all'imperatore, salvo quella dovuta al papa, il quale avesse ad eleggersi secondo i canoni, davanti ai messi dell'imperatore e col consenso di questo. Ciò non ostante Valentino fu intronizzato senz'aspettarlo (827); ma essendo morto in capo a quaranta giorni, Gregorio IV fu eletto con rito più regolare. Donde appare una diversità di pretensioni; un diritto che gl'imperatori si arrogavano e il popolo non riconosceva; nè sembra fosse impacciata l'elezione libera dal richiedersi il consenso imperiale prima della consacrazione. Biblioteche intere si scrissero su tal proposito, quando ancora le ragioni e gli esempj precedenti aveano qualche peso sulle decisioni politiche, anzichè serbarle solo all'onnipotenza del cannone. Sergio II fu ancora investito (844) senza dipendere dall'imperatore, il quale per isdegno di ciò spedì Lodovico suo figlio a devastare il dominio romano. L'esercito di lui mise a sangue e spavento le città pontifizie: il papa gli mandò incontro tutti i magistrati e le scuole della milizia: egli stesso accolse Lodovico al Vaticano, e menatolo alle porte della basilica ch'erano chiuse, gli domandò se venisse con intenzione amica, nel qual caso le avrebbe fatte aprire; se no, no. Sulla sua promessa, gli fu aperto, e unto re d'Italia: i suoi soldati però lasciaronsi fuor di città, dove mandarono a preda la campagna e i borghi, a gara coi Longobardi di Benevento ch'erano venuti a ossequiare il papa e il re. Ciò non tolse che i Romani, senza aspettare assenso dell'imperatore, eleggessero il nuovo papa Leone IV (847). Era dunque un conflitto universale dei poteri nuovi cogli antichi, degli imperatori coi papi, coi grandi feudatarj, coll'aristocrazia militare, coll'aristocrazia ecclesiastica. Questo tempestare di fazioni, questo sminuzzamento di Stati assicurava l'impunità al ribaldo, che sottraevasi al castigo col rifuggire sul territorio del vicino o sull'immune, cioè su quello che aveva ottenuta od usurpata una giurisdizione propria, indipendente da ogn'altra. Queste immunità medesime partorivano interminabili dissidj tra conti, vescovi, monasteri, mentre i signori rimbaldanzivano, ed il potere ogni voglia toglieva al vizio persin la vergogna. Re, papi, duchi non valevano a frenare gente siffatta, se non col rendersi tiranni e adoperare astuzia e forza; sicchè in quello stadio sociale che possiamo intitolare della feudalità, l'individuo patì enormemente, quanto sotto le tirannidi antiche; e i secoli IX e X furono considerati come i più miserabili per la specie umana. Grazioso, arcivescovo di Ravenna, dotato o di spirito profetico o di grande sagacia, poco dopo la morte di Carlo Magno prevedeva gl'imminenti disastri, e gli esponeva sotto forme scritturali: «L'Impero andrà a pezzi, per opera massimamente de' suoi cittadini, e tra di essi fia guerra. La metropoli del mondo sarà assediata, i nemici la calpesteranno, e d'ogni parte s'insorgerà contro di essa, ed essa fia data alla devastazione. Stranieri rapiranno le spoglie delle città vicine, e profaneranno le chiese de' santi, e spoglieranno le tombe degli apostoli. E dai paesi occidentali uomini sbarbati[245] accorreranno a sua difesa, ma ne faranno altrettanto strapazzo. In quel tempo gitterà cruda fame e fiera mortalità; la terra non darà più frutti, questa madre degli uomini ne diverrà matrigna; e i Cristiani cadranno tributarj d'altri Cristiani, e nessuno sentirà misericordia del suo prossimo. Di questa calamità fia segno il divenire i sacerdoti ingordi ed orgogliosi; scompartiranno come roba propria i tesori della Chiesa, e dopo gli ornamenti di questa, dilapideranno anche i dominj: i monasteri andranno distrutti, i templi disertati; i ministri del Signore rapiranno l'incenso dal santo altare, e più non adempiranno al loro ministero... E venendo sulla marina, sconosciute nazioni scanneranno i Cristiani, devasteranno le campagne; chi campò da morte rimarrà schiavo, e i nobili romani passeranno cattivi in terra straniera. Roma sarà saccheggiata per le sue ricchezze e consunta dall'incendio. La stirpe di Agar si affaccerà dall'Oriente a dilapidare le città marittime, e non si troverà persona per respingerla; avvegnachè in tutti i paesi della terra i re saranno indegni ed oppressori dei sudditi. L'impero dei Franchi perirà, e sul trono imperiale sederanno i re; ed ogni cosa volgerà in peggio, e i servi prevarranno ai padroni, e ciascuno si confiderà nella propria spada. Più non resterà memoria delle antiche istituzioni, e ognuno fia che cammini per le strade dell'empietà, dimenticata la giustizia, pervertiti i giudizj». Sono queste sciagure, che noi dovremo svolgere di sotto alle raffagottate narrazioni di incoltissimi cronisti. Il regno d'Italia era dunque costituito dei paesi fra l'Alpi e il Po, oltre Parma, Modena, Lucca, la Toscana, l'Istria. L'esarcato di Ravenna apparteneva ai papi, ai quali, oltre la donazione del vecchio Pepino, fu assegnato quel che dicevasi Patrimonio di san Pietro, da Clusio, la Sabina e il Lazio, sino a Fondi e a Sora; questa, già appartenente al ducato di Spoleto, conservò costituzione propria alla longobarda, con duchi eletti dal pontefice, e scultasci, scabini e minori uffiziali, scelti secondo le forme longobarde. Le municipalità antiche duravano nel restante dominio della Chiesa, e molto vi poteano le sopravvissute famiglie consolari, senatorie o patrizie; ma i duci e gli altri magistrati erano di nomina del papa. I papi non riconosceano veruna supremazia dei re d'Italia, se non quando gli avessero coronati imperatori. Al mezzodì i Greci dominavano Napoli, Gaeta, Sorrento, Amalfi poco più che di nome, e spedivano governatori a Bari, ad Otranto, alla Calabria, al lembo orientale della Sicilia; ma, attesi i continui attacchi de' Longobardi meridionali, non poteano conservarle che col crescerne le franchigie, donde venne poi l'intera loro emancipazione. Alcuni ducati già fin d'allora erano potenti o presto divennero. Quello del Friuli, costituito per difendere l'Italia contro gli Slavi, si estendeva sull'Istria e la Marca Trevisana; i re trovandolo troppo poderoso, lo spartirono in quattro contadi, che forse erano Treviso, Cividale di Belluno, Padova, Vicenza, ma presto furono ricongiunti. Succedevano, fra la marca di Carniola e il lago di Garda, i grandi feudi di Trento, Verona, Aquileja. Il marchesato d'Ivrea, posto dai Longobardi come barriera ai Franchi, allargavasi sul Piemonte e sul Monferrato: il ducato di Susa era posseduto dai dinasti di Savoja: fra gli Appennini, l'Alpi Marittime e il Po trovavasi quel del Vasto; quel del Monferrato tra il Po, gli Appennini, il Tànaro e Tortona, e di mezzo ai predetti il contado d'Asti. In Lombardia, Milano, Vercelli, Novara, Como, Bergamo, Brescia, Cremona, Pavia sulla sinistra del Po, e sulla destra Tortona; Parma, Piacenza formavano contadi distinti, spesso investiti ai vescovi delle stesse città. I marchesi di Toscana[246], che trassero a sè anche il ducato di Lucca, si erano segnalati sotto Lodovico Pio, poi nel difendere Sardegna e Corsica dai Saracini. Quasi tutte le città ad oriente del Lazio ed al nord-ovest della Toscana da Ferrara a Pèsaro costituivano altrettanti ducati, amministrati dai vescovi. Al sud della Romagna, fra la catena centrale degli Appennini e l'Adriatico, da Pèsaro ad Osimo incontravasi il marchesato di Guarnerio; da Osimo alla Pescàra, quel di Camerino o di Fermo; e di là a Trivento, quel di Teate. Faceva cosa a parte la Lombardia meridionale. I duchi di Spoleto che tenevano anche il marchesato di Camerino, reluttavano sempre ai papi e agl'imperatori, perciò attenti a toglier loro il diritto patrimoniale. Viepiù poteano i principi di Benevento, i quali, già a fatica frenati da Carlo Magno, a baldanza adoprarono co' suoi successori. A questi tributavano venticinquemila soldi d'oro; ma mentre prima, per trasmettere il dominio ai figli, procuravano l'assenso del re longobardo, dappoi se ne emanciparono, ed erano eletti da liberi longobardi e dagli uffiziali del principe; fomite di discordie, combattendo ora per l'ambizione, ora per l'indipendenza: e mentre il paese era disputato fra emiri saracini, duci napoletani, stratigoti greci, messi papali, nobili romani, crescevano in forza, e già si erano impadroniti di Salerno, ed aspiravano a dominare sui due golfi separati dal promontorio di Minerva. Grimoaldo IV, principe di Benevento (803), lottò sempre con re Pepino, e gli diceva: — Libero sono e sempre sarò, se Dio m'ajuta»[247]; menò continue guerre, prese molte rôcche, e vantavasi d'aver fiaccato le forze dei Franchi. Ma continua opposizione ebbe da una partita di nobili, avversa all'elezione sua: ricoverò Sicone duca longobardo di Spoleto, cacciatone perchè nemico ai Franchi; ma costui lo ricambiò coll'assassinarlo (827), e gli successe. A Sicone ricorse Teodoro duca greco di Napoli, espulso da una fazione; ed esso l'ajutò ad assediare quella città, antico desiderio de' principi beneventani: ma quando già stava per entrarvi, il duca Stefano eccitò i Napoletani a rompere l'accordo, e sagrificò la propria vita, ma Napoli fu salva, nè Sicone potè conseguire che un tributo. Poichè neppur questo pagavasi, Sicardo suo successore tornò ad assalirla (833); e, grand'incettatore di reliquie com'era, tolse quelle di san Gennaro a Napoli, a Lipari quelle di san Bartolomeo, e per aver quelle di santa Trifomene indisse guerra agli Amalfitani. Ben presto i sudditi si rivoltano, sostituendogli il suo tesoriere Radelgiso (840): ma i Salernitani disdicono obbedienza a questo; travestiti da mercadanti, chiedono alloggio al castello di Tàranto ove stava prigione Siconolfo fratello di Sicardo, e liberatolo, il gridano principe. Anche il conte di Capua, vistosi insidiato da Radelgiso, fortifica la propria città, si allea con Siconolfo, e subito il seguono i conti di Consa e d'Acerenza. Per tal modo dal beneventano si staccarono i principi di Salerno e i conti di Capua, recandosi guerra incessante. Radelgiso con ventiduemila armati assale Salerno, ma Siconolfo lo sbaraglia, indi assalta Benevento; ma quivi trova vigorosa resistenza. CAPITOLO LXXI. Irruzione dei Saracini. Gl'imperatori Franchi. Così straziavansi fra loro i dominatori d'Italia quando più avrebbero avuto mestieri di tenersi concordi per respingere un comune pericolo. Perocchè le irruzioni barbariche non erano finite, e di nuove sull'Italia ne venivano non più dal Settentrione ma dal Mezzodì: che se da quelle dei Nordici i natii s'erano riparati coll'accogliersi presso al mare, eccoli ora assaliti sul mare e ricacciati entro terra. Dicemmo (pag. 205) come la nazione araba, da Maometto ridesta ad un apostolato battagliero, occupasse la costa d'Africa, ove fondò l'impero di Cairoan; e dai porti onde un tempo le flotte puniche, salpavano pirati saracini a corseggiare il Mediterraneo, interrompendo i commerci, e ad ora ad ora piombando sulle coste o risalendo pei fiumi, minacciosi agli averi e alle persone. Carlo Magno indovinò il pericolo di questi nuovi nemici; e dopo combattuto per ritoglier loro le Baleari e l'altre grandi isole del nostro mare, stanziò in quelle acque una flotta; ma prima di morire potè udir saccheggiate da loro Nizza a mare e Centumcelle. Gettatisi sulla Sardegna e trucidata la guarnigione, rapirono essi il corpo di sant'Agostino, e vi occuparono molte stazioni: parte del popolo fu menata in Africa a formar la colonia di Sardania nei contorni di Cairoan; la restante rifuggì ai monti, talchè si sfasciarono le città, le vie e gli acquedotti ond'erasi arricchita nell'età romana. Lodovico il Pio fu dai Cagliaritani implorato contro questa stirpe di Agar[248]; ma egli poteva dare poco più che compassione. Bensì i papi nutrirono assidua guerra contro i Saracini di Sardegna; e il conte di Genova ricuperò la Corsica, che fu data a governare a Bonifazio marchese di Toscana, il quale col fratello Bernardo sbarcò fra Utica e Cartagine, e in cinque battaglie sul littorale ebbe prospera fortuna[249]. Ma nè quel coraggio era secondato, nè i Saracini annichilavansi per isconfitte; i quali, padroni delle grandi isole e dello stretto di Gibilterra, prendeano arbitrio nel bacino occidentale del Mediterraneo, come già l'aveano nell'orientale; e poichè la loro civiltà non poteva piantarsi che col distruggere ogni altra, aspiravano a dominare l'Italia, centro della religione e della pulizia cristiana. Già signori della Spagna, chi li avrebbe più rattenuti dall'affrontar con vantaggio il mondo germanico, e prevalere in Europa, come già faceano in Asia e in Africa? Alla Provenza massimamente diressero le loro correrie; e scannati gli abitanti di Frassineto, e fortificatisi in quella inaccessibile situazione, tennero mano ai paesani del contorno nelle fraterne discordie, riducendo a deserto la contrada posta alle spalle, e dominarono alla guerresca il paese. Varcarono anche le alpi Marittime, e fitto il fuoco ad Acqui e ad altre città sgomentarono l'Italia: poi fortificati nel monastero di San Maurizio, si avventarono per mezzo secolo sulla Borgogna, sull'Italia e fin sulla Svevia, interrompendo le comunicazioni mercantili, e sterminando le carovane che pellegrinavano alla soglia degli Apostoli. I Liguri della costa rifuggivano alla montagna, laonde ancora le pievi montane conservano giurisdizione sopra le parrocchie marittime; vi trasportavano le reliquie de' santi, talora le ceneri de' parenti: anche in Genova si addensavano i cittadini sotto la protezione del vecchio castello, lasciando che le strade a mare divenissero campetti, vigne, canneti, fossati, denominazioni che si conservano tuttora. E più tardi i Saracini (834), guidati da Safian ben-Kasim, si spinsero fino a Genova. Essa era divisa in tre parti: Castello in alto; la città, chiusa da ripari; borgo di Piè, ove si deponevano le prede marittime: e benchè si difendesse vigorosamente, i Saracini v'entrarono, la posero ad orribile saccheggio[250], e se n'andarono prima che i Liguri tornassero alla riscossa. Poco poi vi fecero ritorno, e se ne partirono carichi, quando la flotta veneziana sopragiunse, ritolse le robe e le persone, e molti ne fe prigionieri. Dopo d'allora si vigilò più attentamente, e fiamme accese sulle alture indicavano l'apparire d'un naviglio sospetto; e si stabilì che nessuna galea uscisse se non allestita a battaglia. La pingue Sicilia non era caduta in dominio de' Longobardi, sempre impotenti sul mare. L'impero greco la teneva cara, e come sentinella avanzata verso i dominj rimastigli in Calabria, e perchè ne traeva i grani; ma mentre mal sapeva difenderla nè prosperarla, pretendeva cavar da essa quanto un tempo da tutta Italia. Come la trattasse Costante II imperatore lo vedemmo. La Chiesa romana dai larghi possessi che v'avea, coglieva ogni anno moltissimi frutti, senza nulla mandarvi in ricambio: ma quando si ruppe la guerra delle immagini, que' beni furono tratti al fisco imperiale, e la Sicilia sottoposta alla giurisdizione ecclesiastica del patriarca di Costantinopoli. Nel civile era governata da un patrizio; ma poichè i mari erano corsi da navi franche e da saracine, sempre sminuiva la dipendenza de' patrizj, oramai non soggetti in altro che nel pagare il tributo. Elpidio, un d'essi, rizzò la fronte contro Irene imperatrice, e non potendosi reggere da solo, istigò i Saracini che vennero più volte in Sicilia, senza però mettervi radice. Eufemio, tribuno cioè governatore dell'isola a nome dell'imperatore Michele Balbo, s'innamorò d'una monaca e la rapì; e l'imperatore, benchè reo d'eguale sacrilegio, ne ordinò severo castigo. Eufemio ricorse a Zaidat Allah ben-Ibraim, re aglabita di Cairoan (827), promettendogli vassallaggio e tributo se lo ajutasse ad acquistar l'isola e il titolo d'imperatore. Esso gli affidò cento legni e diecimila combattenti guidati dall'emir Aba al-Camo, il quale sbarcato eresse una città del proprio nome (_Àlcamo_) presso le ruine di Selinunte. Eufemio gridato re dell'isola, sperava che i tanti malcontenti lo favorirebbero: ma come s'avanzò fino alle mura di Siracusa, due fratelli dell'oltraggiata lo trucidarono. Si rianimano allora i Siciliani per salvare la patria dai nemici loro e della fede, li cacciano in isconfitta; ma i Saracini tosto ritornano con un soccorso d'Africa e un altro di fuorusciti di Spagna, e rimangono padroni della parte occidentale dell'isola. Palermo, _celeberrima e popolosissima città_, sostenne sì fiero assedio, che di settantamila abitanti appena tremila restavano al fine (831): ma que' profughi di Spagna la ripopolarono, sicchè divenne sede degli emiri, che dai principi di Tunisi furono mandati a compiere e regolare la conquista. Maometto, figlio di Abd-Allah aglabita, primo emir, uccise novemila romani (832) alla battaglia di Enna (_Castrogiovanni_), nel cui castello, preso dal suo successore Al-Abbas, fu aperta la prima moschea al rito nemico. D'allora non cessarono più di far guerra a' nostri, la cui resistenza meriterebbe essere vantata al par di quella degli Spagnuoli. Vent'anni più tardi, sulle mura di Messina cadeva il patrizio Teodoto (855). Siracusa in dieci mesi d'eroica difesa fece ricordare i mesi in cui fiaccò la potenza d'Atene; ma la viltà del navarca Adriano mandò a vuoto quegli sforzi, e i capi furono trucidati, il vulgo spedito in Africa a rimpiangere la libertà e la patria, e la città coi superbi suoi tempj ridotta a ruine inospitali[251]. I governatori greci si ritirarono sul continente d'Italia, trasferendovi il nome di Sicilia, donde vennero dette le Due Sicilie. Da Palermo o da altre loro fortezze sortivano spesso gli Arabi a desolare le campagne, distruggere le messi, menare schiavi i natii: quando poi una città si rendesse, giusta la prescrizione del Corano le facevano il partito di professare la fede di Maometto, o di pagare tributo al vincitore. Di questo accontentandosi, dicono che alle città rendutesi compatissero le istituzioni antiche, e nello stabilire le leggi chiamassero a consiglio i vescovi: certo gli straticò o duchi conservarono giurisdizione criminale fin al tempo degli Svevi. Un emir comandava a tutta l'isola; a ciascuna città o distretto un alcade da lui dipendente; i cadì rendevano giustizia: despotismo sminuzzato, e perciò più oppressivo. Preziosissimo sarebbe il trovare le costituzioni fatte per quel regno; e furono accolte con avidità quelle che pubblicò l'abate Vella come fatte d'accordo coi più assennati fra i vinti, nel 216 dell'egira; il Canciani le inserì nella _Raccolta delle leggi de' Barbari_; ma poi furono convinte impostura. Ridotti pertanto a tenuissime informazioni, diremo come l'isola, che dal tempo de' Cartaginesi avea formato due provincie, la siracusana e la panormitana, fu allora divisa in tre valli, e ciascuno in varj distretti. Entrata dello Stato era la getia, tributo imposto ai possidenti invece di quello dei Romani sulle bestie rurali. Le terre tolte ai Greci non furono serbate come possesso pubblico, ma divise fra i soldati benemeriti; maggior porzione agl'invalidi, ai governatori e ai tre capitani delle provincie. Queste possessioni, a differenza dei feudi, poteano alienarsi con certe formalità e col consenso del caposignore. Le proprietà, le successioni, e in generale lo stato civile si regolarono in modo, che i Normanni poco trovarono a mutarvi. La schiavitù colonica alla romana sparì col perdersi degli antichi signori; onde il lavoro di mani libere cancellò le tracce della greca infingardaggine; e molte terre furono dissodate, in altre introdotti il cotone, il gelso, il papiro, la cannamele[252], il frassino della manna, il pistacchio; edifizj si elevarono, ricchi di marmi e musaici; e la tradizione accenna fin oggi i giardini vastissimi degli emiri, con vivaj di marmo (_mar morto_). Il Lilibeo, ch'essi intitolarono Marsala, cioè porto di Dio, attestava come non dirazzassero dai loro fratelli di Babilonia e di Spagna. Così gli Aglabiti, poi gli Obeiditi profittavano della pace che ivi durò buon tempo, non avendo forze bastevoli a sturbarla nè gl'imperatori d'Oriente nè i signori d'Italia. Ma per quanto le donassero i frutti d'Asia e d'Africa, e per sotterranei spiragli (_giarre_) alzassero le acque a provvederne le case e ricreare i giardini, la Sicilia ricordavasi d'essere cristiana ed italiana, nè sapea rassegnarsi a un dominio che offendeva l'orgoglio nazionale e la domestica integrità. Gli Arabi erano dunque costretti a prepararsi frequenti fortificazioni, oggi ancora indicate dal nome di _cala_ o _calata_; i monumenti della grandezza antica convertirono in ròcche; e dai tempj di Selinunte e dal teatro di Taormina bersagliavano i patrioti siciliani, o sbucavano a rapir donne e fanciulli per ornamento o custodia de' serragli. Il dominio e la presa di Siracusa inorgoglirono gli emiri così, che negarono obbedienza ai principi aglabiti d'Africa. Fu dunque forza che questi venissero a sottometterli; e di fatti Ibraim re di Cairoan (908), sbarcato con un esercito di Mori, e assalita Taormina indarno difesa dalle anguste gole, dalle impervie alture e dal forte che a cavaliero di essa aveano eretto gli antichi re, la presero, e vi posero il borgo e il forte di Mola. Ibraim minacciò anche la Calabria; ma morto lui a Cosenza, i nuovi invasori vennero a contesa fra sè e coi prischi, i quali non si tenevano obbligati ai re fatimiti di Tripoli, che aveano usurpato il dominio degli Aglabiti. E ruppero a guerra; e i Cristiani ad or ad ora rinnovarono tentativi generosi di scuotere il giogo degl'infedeli. Palermo stessa fu occupata (917) da Abusaib Aldaiph, venuto d'Africa; ma i Siciliani, alleatisi con Alì Vava Assahr, la assediarono per sei mesi. I Girgentini insorti si sostennero quattro anni, e furono ad un pelo di prender anche Palermo: ma vinti (927), bagnarono di loro sangue gli avanzi della patria magnificenza. Allora l'emir, per reprimere le rinascenti sollevazioni, fece abbattere molte fortezze, e menò schiavi in Africa gran numero di abitanti. Al-Mansor, terzo califfo fatimita dell'Africa, assegnò la Sicilia (948) non più a un governatore temporario, ma ad un emir, che fu Assan figlio di Alì, il quale, sottomessala colle armi, la governò con saviezza. Il che non vuol dire con clemenza; giacchè essendosi scoperta una congiura, esso fe decapitare gli imputati. Quattr'anni appresso venne d'Africa il moro Saclabio con camelli e forze, a cui Assan unì le sue, ed estesero le conquiste. I Greci fecero qualche tentativo di ripigliar l'isola, mandandovi soldati mercenarj danesi, russi, warangi: l'ammiraglio Basilio prese Termini, battè Assan, e molti uccise in val di Màzara: ma la battaglia di Rometta (958) costò la vita a diecimila Cristiani. Gli Arabi, per punire i natii del favore mostrato, deportarono in Africa trenta de' più ragguardevoli personaggi, e fecero circoncidere quindicimila fanciulli col figlio del loro emir. Il tripolitano Khalil venne(938) d'Africa per reprimere i rivoltosi, occupò Màzara, Caltabellotta, infine Girgenti(940), i cui notabili imbarcò per Africa, ma in alto mare fece forar la nave e tutti sommergere. Narrano egli vantasse aver fatti morire nel val di Màzara, più di seicentomila persone. L'imperatore Niceforo Foca tentò anch'egli recuperar l'isola; e Manuele suo cugino pigliò Siracusa (965), Imèra, Taormina, Lentini. I nemici ricoverarono ai monti, e quando Manuele osò avventurarsi fra quelle gole, lo batterono, presero e uccisero; e tosto l'emir ripigliò tutte le città, e rase dalle fondamenta la generosa Taormina. Non per questo cessarono i Siciliani di tener testa agli stranieri, ne uccisero anche in battaglia l'emir: le nimicizie degli Arabi fra loro, e la titubanza de' Greci or collegati ora avversi a questi prolungarono le miserie dell'isola, disperante di respingere un nemico, il quale, come Anteo, sempre nuove forze traeva dalla Libia madre. I Saracini di Sicilia tendevano a governarsi da sè, e vi riuscirono nel 969 quando l'emirato divenne ereditario, non dipendente dall'Africa che per oggetti religiosi. Internamente le due schiatte di Arabi e di Bereberi disputavansi l'isola, di cui i primi tenevano la parte settentrionale del val di Màzara con Tràpani e Palermo, gli altri la meridionale d'esso vallo con Girgenti, fabbricata presso la gran città d'Agrigento, distrutta l'829, e fino al 1040 non si videro che rivoluzioni e controrivoluzioni, vittorie e fughe, sempre rovinose, fra cui si ridusse a minimi termini la stirpe bèrbera, che poi nel 1015 fu affatto espulsa da tutta l'isola. Intanto i Saracini si erano dalla Sicilia tragittati in Calabria, e alcuni di quelli di Spagna occuparono Tàranto; quelli d'Africa presero Bari, e si spinsero nella Puglia, saccheggiando e uccidendo. Radelgiso duca di Benevento tentò invano snidarli da Bari; onde prese il sinistro consiglio di adoprarli nelle sue guerre contro Siconolfo duca di Salerno, e li soldò (815) coi tesori della chiesa di Benevento. Siconolfo, sebbene da prima li vincesse, non potè resistere che coll'imitarlo, e anch'egli derubata la cattedrale di Salerno, soldò Abulafar saracino comandante in Tàranto, col quale riuscì vittorioso. Mentre seco risaliva in palazzo, il Longobardo con istrano scherzo lo prese fra le braccia, e portatolo di peso fin in cima alla scala, l'abbracciò e baciò. Recosselo ad onta il Saracino, e disdettogli il servizio, tornò a Tàranto e si esibì a Radelgiso, col quale ruinò i Salernitani. Il cui duca chiamò Saracini di Spagna e di Candia, e con essi vinse i Beneventani alle Forche Caudine: ma Radelgiso sopragiunto, lo battè interamente, ne prese tutte le città, Benevento assediò. Siconolfo ricorse a Guido duca di Spoleto: il quale venne, e dal collegato e dal nemico cercò smungere denaro, fingendo metterli d'accordo. Siconolfo per conservare il dominio fe omaggio a re Lodovico II, chiedendone l'investitura al prezzo di centomila scudi d'oro. Denari trovava costui dal saccheggiare Montecassino, donde portò via calici, patene, croci, vasi e centrenta libbre d'oro; un'altra volta, trecensessantacinque libbre d'argento e sedicimila soldi d'oro; la terza vasi d'argento per cinquecento libbre; e così via, sempre promettendo restituire. La pace non fu fatta che l'848 per opera di re Lodovico, il quale divise il ducato secondo la solita politica dei Franchi. Landolfo principe di Capua, morendo nell'842, divideva il paese fra tre figli, a Landone Capua, a Pandone Sora, a Landonolfo Tiano, lasciando ad essi per ricordo non permettessero mai che Benevento si riunisse con Salerno. Anche il ducato di Spoleto divideasi dalla parte transappennina, cioè dal ducato di Camerino: e così ogni cosa era sminuzzata e perciò debole. Ne approfittavano i Musulmani, che mescendo il sangue loro al cristiano nei fraterni dissidj, si lusingavano dominare il bel paese. Oltre Bari, principale loro ricovero, alcuni si erano stanziati nell'isola di Ponza; ma Sergio console di Napoli, raccolti vascelli da Gaeta, Sorrento, Amalfi, ne li respinse. L'emir tornò, prese il castello di Miseno, sbarcò a Centumcelle, difilandosi sopra Roma; e ignaro dell'antica, nemico alla nuova dignità della metropoli del mondo, vi incendiò i sobborghi e profanò la chiesa dei santi Apostoli. Vacando allora la sede pontifizia, fu tumultuariamente eletto Leone IV (847), che sacerdote eroe, quando i principi fuggivano o pagavano i Barbari, si pose a capo delle truppe e dei cittadini, rianimati dal suo nobile coraggio, e rituffò i Saracini nel mare. Udito che nuove correrie minacciavano, Cesario, figlio del console Sergio, accorse con Napolitani, Amalfitani, Gaetani a difender Roma, e il papa gli accolse e benedisse: una tempesta malmenò l'armamento dei Barbari, altri furono uccisi o imprigionati. Leone cinse di doppia mura la basilica di San Pietro e il quartiere del Vaticano, stanza dei tanti forestieri accasati a Roma, donde il vocabolo di Città Leonina: al qual uopo, da tutti i poderi del pubblico e da ogni monastero chiese gli uomini che per condizione erano obbligati al lavoro. Compiuta l'opera in quattro anni, il papa che l'avea difesa colla spada la dedicò il giorno dei santi Pietro e Paolo, coll'intervento di molti vescovi e del clero, i quali scalzi e cospersi di cenere circuirono le mura, implorandovi quel Dio, che «se non vigila le città, invano sorgono avanti giorno quei che la custodiscono»[253]. Centumcelle era rimasta quarant'anni smantellata e vuota d'abitanti a cagione delle correrie; e Leone ne accolse gli abitanti nella Città Leonina, donde più tardi ritornati alla prisca, le posero nome Civitavecchia. Il papa munì pure Orta e Ameria; a Porto eresse due torri con grosse catene dall'una all'altra per chiudere l'entrata del fiume: e molti Corsi fuggiti dalla loro isola per paura de' Saracini, giurarono vivere e morire sotto lo stendardo di san Pietro. I Saracini, disperati di prender Roma (852), voltarono sopra Fondi, saccheggiandola e menando schiavi quei che non trucidarono; posero assedio a Gaeta, rincacciando fin a Montecassino un esercito di Spoletini mandati dall'imperatore a combatterli; e la culla de' Benedettini periva, se i Saracini non si fosser badati la notte in riva al fiume, il quale gonfiò per modo che più non poterono al domani guadarlo. Gaeta fu salvata dal valore di Cesario, che entrò nel porto colle flotte di Napoli e d'Amalfi, create pel commercio, ma disposte a tutelare la patria. Se n'andavano i Saracini carichi delle spoglie; ma presso ad afferrare a Palermo, scontrarono una barca in cui due uomini, uno da cherico, uno da monaco, i quali dissero loro: — Donde venite, e dove andate? — Veniamo dalla città di Pietro, abbiamo saccheggiato l'oratorio di questo, devastato il paese, battuto i Franchi, arsi i conventi di San Benedetto. E voi chi siete? — Chi siamo? Or ora lo saprete?»; e detto fatto scoppiò procella sì impetuosa, che tutti i vascelli inghiottì[254]. Altri predavano Luni con tal furore, ch'essa più non risorse, il suo vescovado fu trasferito a Sarzana e la riviera dal fiume Magra sino alla Provenza rimase desolata: mentre altri davano il guasto alla Calabria, alla Puglia, al ducato di Benevento. Lodovico II, intercedenti il vescovo di Capua e l'abate di Montecassino, venne in soccorso, e ucciso l'emir Amalmater, si fece per forza consegnare quanti Saracini erano in Benevento, e li decapitò. Ma mentre perdea tempo a riconciliare i duchi di Benevento e di Salerno, i Musulmani rimbaldanziti devastarono il mezzodì. Avendo un tremuoto scassinato le mura d'Isernia, il valoroso Massar, stimolato a giovarsene per acquistare la facile preda, — E che? (disse) Iddio è sdegnato contro questa città, ed io vorrei aggravarne le sciagure?» Men generoso Lodovico, quando Massar cadde in sua mano, lo decretò al supplizio. Più terribile di questo, Soldano (Saugdana) venne a rinforzar Bari, donde respinse gli assalitori; e Alifa, Telese, Sepino, Boviano, Isernia, Venafro ridusse in macerie; Benevento risparmiò a prezzo d'un tributo, che quel principe si umiliò a pagargli quando vide i Franchi non voler combattere. I Benedettini di San Vincenzo del Volturno, tra i più ricchi d'Italia, ebbero saccheggiato e distrutto il loro convento: quello di Montecassino dall'abate Bertario, illustre letterato, era stato difeso con mura e torri e col porvi al piede una borgata, che fu poi la città di San Germano, dove stavano a guardia i molti vassalli suoi; ma si stimò conveniente il riscattarsene con tremila monete d'oro. I principi di Benevento e di Salerno rappacificati (856) assalsero Bari, e riportarono grande vittoria; ma i Saracini li rivinsero e fugarono, desolando anche i principati, donde trassero grandi prede. Soldano, sbucato da Bari con trentasei vascelli, va e sperpera l'Illiria greca, spogliando le città che si erano sostenute contro gli Slavi: ma i Ragusei lo fecero stare tanto che giunse di Costantinopoli una flotta, innanzi alla quale i Saracini fuggirono. Parve ai Romani che Lodovico II non avesse abbastanza ajutato a queste fazioni, e cominciarono a mormorare e dire: — Che cosa fanno per noi codesti Franchi? non ci proteggono contro i nemici, e violentemente ci tolgono il nostro. Non sarebbe meglio chiamar i Greci, e cacciare codesti stranieri dalla nostra dominazione?»[255]. Fu riferito a Lodovico che questi discorsi venivano da Graziano maestro della milizia; onde temendo d'una insurrezione, accorse coll'esercito. Leone papa, così robusto a difendere la Chiesa e la patria, non mostrava orgoglio verso gl'imperatori, e — Se abbiam fatto cosa alcuna incompetentemente, e ai sudditi non osservammo la giustizia, la sottoponiamo al giudizio vostro e dei vostri giudici. Spedite qua, ve ne supplichiamo, dei messi timorati di Dio, i quali facciano diligente indagine delle cose piccole e grandi, sicchè non rimanga nulla non discusso e definito da loro»[256]; e andò incontro all'imperatore con tutti gli onori onde placarlo. Graziano e tutti i nobili giurarono che l'accusatore aveva mentito, onde la condanna cadde su questo. Partito Lodovico, l'Italia si trovò alcun tempo senza ingerenza di forestieri, in uno di quegli intervalli d'indipendenza, che sempre le furono così brevi e così male adoperati. Morto Leone IV (855), gli successe Benedetto III; ma una fazione sostenuta dai nobili voleva Anastasio, e ricorsa ai messi imperiali, conseguì l'intento. I Romani sdegnati protestarono voler piuttosto la morte che l'indegno pontefice; talchè ai ministri fu forza confermare Benedetto. Gravissimo affare dei papi era il tutelare la disciplina contro le libidini dei re, i quali, ad esempio dei Maomettani, pretendeano prendere e ripudiar le mogli a loro senno. I re Franchi aveano più volte dato noje siffatte a' pontefici, e allora Lottario II, fratello dell'imperatore, rinviata Teotberga, voleva sposare una Gualdrada. La rejetta ebbe ricorso a papa Nicola (862), che alla violazione del sacramento si oppose risoluto, non ostante la connivenza de' germanici arcivescovi di Colonia e Treveri. Questi due prelati vennero a Roma per addur ragioni; ma scomunicati, trassero a favor loro l'imperatore Lodovico II, che infervoratosi a sostenere il fratello, cioè l'adulterio, e istigato pure dal sempre ostile arcivescovo di Ravenna, s'avviò a Roma per costringere il papa a cassare la data sentenza. Il papa ordinò litanie e digiuno; ma l'esercito sopragiunto quando una di quelle processioni montava la scalea di San Pietro, ruppe croci e immagini, e a bastonate volse i devoti in fuga. Il papa si tenne nascosto; ma intanto essendo morto uno che avea spezzato la croce di sant'Elena, e ammalatosi Lodovico stesso, si credette vedervi un avviso di Dio: la imperatrice andò pregare il pontefice venisse a parlare all'imperatore, e si riconciliarono; ma le uccisioni e le violenze de' costui soldati nessuno le riparò. Fin quando Ravenna era sede degli esarchi, i suoi arcivescovi pretendevano il primato, o almeno non sottostare al papa. Quando Carlo largheggiava con questo, chiesero anch'essi la Marca d'Ancona, e non disdetti assolutamente, vi esercitavano giurisdizione, procurando estenderla su tutta la Pentapoli; causa d'incessanti lamenti de' pontefici[257]. E sempre reluttarono alla primazia papale, affettandosi pari, come per fasto, così per autorità. Volendo l'imperatore Lotario fare solennissimo il battesimo di Rotrude sua figlia, Giorgio arcivescovo di Ravenna ottenne di levarla al sacro fonte, e a tal uopo portò a Pavia gran parte del tesoro della sua chiesa per farne regali: nei soli addobbi battesimali della principessa spese quattrocento soldi d'oro. L'imperatrice, sentendosi assetata, bevve occultamente una buona tazza di vin forestiere; poi riccamente vestita e tutta gioje e col volto coperto assistette alla funzione, e partecipò alla sacra mensa. Tal violazione del digiuno ci è raccontata da Agnello, storico di quei prelati, il quale assisteva alla cerimonia, e vestì egli medesimo la principessa all'uscire dal sacro fonte. Tra quegli arcivescovi ebbe trista rinomanza Giovanni, che faceva colà ogni talento; vilipendeva i messi pontifizj, lacerava gl'istromenti di affitti o livelli della Chiesa romana, e gli appropriava alla sua; preti e diaconi deponeva senza giudizio canonico, e li cacciava in ergastoli; e sebbene la città fosse sotto l'autorità anche temporale del papa, impediva a' suoi vescovi d'andar a Roma, e li scomunicava. Alcuni cittadini ne portarono lagnanze, onde fu citato al concilio Romano; ma egli vantava di non esser tenuto andarvi. Scomunicato, ottenne dall'imperatore due legati, coi quali presentossi a Roma, credendo incuter soggezione; ma il papa stette saldo, e poichè i Ravennati lo supplicarono a venire a rassettar le cose, vi andò: ma vi volle un altro concilio di settantadue vescovi per domare il ricalcitrante. Eppure fra pochi anni lo troviamo in nuova rotta col papa, ed entrato in Ravenna, saccheggiò le robe de' papalini, rapì loro le chiavi della città, e le prese per sè e pel magistrato municipale[258]. Fra ciò i pontefici non desistevano di eccitare contro i Saracini, le cui correrie non lasciavano tregua. Gl'Italiani s'accorgevano che unico modo di sbrattare la patria dagli stranieri è l'unione: e Lodovico imperatore, supplicato da essi, gittò il bando della leva a stormo a tutti i conti, vassalli e liberi, e — Chiunque possiede in beni mobili il valore del suo guidrigildo si conduca all'esercito; i poveri che abbiano dieci soldi d'oro di valsente, proteggeranno le coste e le piazze di frontiera; prelati, conti, gastaldi usciranno con tutti i loro ministeriali, senza riserva o privilegio; i vescovi non lascieranno indietro laico alcuno; chi ha molti figli, non ritenga a casa che il più inutile: i liberi che ricusassero le armi, perdano beni e patria; onori e benefizj i conti, signori, abati e badesse che non mandassero all'esercito i vassalli e servi: i conti lascino a casa soltanto un vassallo pel proprio servizio e due per le mogli, e la gente imbelle facciano chiudere ne' castelli. Ogni uomo da guerra porti seco armadura compita, vesti per un anno e viveri sino al ricolto. Chi ruberà armi od animali domestici pagherà tripla composizione e sarà condannato all'_harnescar_ (cioè a portar una sella in spalla al cospetto dell'esercito, e un messale se preti); se schiavi, abbiano la frusta: morte alle fratture, all'adulterio, all'incendio, all'omicidio». Tutta Italia fu in armi (866). Lodovico andò a Montecassino a chiedere che le preghiere secondassero l'esercito; e colà gli menò le sue truppe Landolfo, vescovo e signore di Capua, gran mettitore di risse in quel paese, e che, come un'altra volta, fece disertare i suoi pochi a pochi. L'imperatore corrucciato, e vedendo dover assicurarsi degli amici prima d'assaltare i nemici, volse le armi contro il mal fido, e col distruggere Capua sgomentò gli altri, e anche Napoli, che colla indifferenza di gente intesa solo alla prosperità dei traffici, era piena di Saracini come Palermo, e gli ajutava d'armi, di viveri, di ricetto; anzi il duca Sergio avea lega coll'emir[259]. Procedendo, respinse i Musulmani d'ogni dove, restringendoli in Taranto e Bari: ma non arrivando la promessa flotta greca, dovette dar indietro. Lo inseguì Soldano co' suoi, che vincendo si spinse fino a San Michele sul Gargàno, santuario de' Longobardi, ma l'esercito lasciato da Lodovico nella Puglia non cessò di bezzicarli: e sebbene anche i nostri toccassero molte perdite, Matera, Venosa, Canosa furono ripigliate e munite (870); e anche Bari dopo tre anni, e mandata pel fil delle spade, e Soldano non riconobbe la vita che dalla generosità di Lodovico, mosso dalle istanze del principe di Benevento, di cui quello avea avuta prigioniera e rispettata la figlia. Lodovico spedì ad assediare Tàranto, sollecitando l'imperatore Basilio Macedone ad ajutarlo della flotta per ispazzare il Tirreno da costoro[260]. Basilio mandò meglio di trecento navi; ma poichè i Greci arrogavano a sè il vanto della vittoria, a spregio de' Barbari obbedienti al falso imperatore d'Occidente, Lodovico rispose: — Avevate fatto di grandi preparativi, è vero, simili in numero alle cavallette che oscurano l'aria; ma come queste cadendo dopo breve volo, abbandonavate il campo per ispogliar i Cristiani della Schiavonia, nostri sudditi. Pochi erano i nostri guerrieri; perchè, stanchi di aspettare, li rimandai, solo ritenendo il fiore, con cui ho continuato il blocco, e vincemmo i tre più potenti emiri de' Saracini, sgominammo gl'Infedeli; e se per mare ci secondate, ricupereremo Sicilia. Fratello, sollecita i promessi soccorsi marittimi, rispetta gli alleati e diffida degli adulatori». Basilio, tenendosi insultato dal tono della lettera e dal titolo di fratello, non rispose alla chiamata, anzi gli nimicò alcune città, spargendo ch'e' volesse farsene signore; laonde l'impresa fallì. I Franchi, usi in Italia a disgustare dopo la vittoria anche quelli a cui pro hanno vinto, offesero coi loro eccessi, e massime Angilberga colla sua avidità straccò i Beneventani a segno, che Adelgiso loro principe, subillato anche da Soldano, si chiarì per gl'imperatori d'Oriente, i quali allora ricuperarono le principali città della Calabria, del Sannio e della Lucania. Lodovico accorse ad assoggettarle (871); avrebbe mandata a sterminio Capua che a lungo resistette, se non fossero usciti gli abitanti col corpo di san Germano implorando pietà; passò a Benevento, e credendo alla sommessione d'Adelgiso, congedò le truppe o le distribuì in guarnigioni. Adelgiso, senza rispetto all'impero nè alla vittoria, rapì ai Franchi il bottino non solo, ma anche le salmerie dell'imperatore, cui tenne prigioniero nel proprio palazzo[261]. Tre giorni durò egli in cima ad una torre; poi sceso per fame, giurò sulle reliquie di non vendicarsi nè più tornare; ma sciolto appena, si fece dal papa assolvere dell'estorta promessa, e dal senato romano autorizzare a proscriver quel principe. L'assalì dunque, giurando non levarsi d'intorno a Benevento se non avesse preso il ribelle: ma neppur questo giuramento potè tenere, giacchè il principe ricorse all'imperatore di Costantinopoli, promettendo a lui il tributo che prima dava ai Franchi; e papa Giovanni VIII, venuto a sua richiesta nel campo (872), li riconciliò[262]. I re suoi parenti che moveano tardi al soccorso, tornarono indietro: alcuni vassalli che aveano favorito al ribelle o non ajutato il re, vennero puniti. Di queste dissensioni faceano lor pro i Saracini, che cupidi di vendicare le sconfitte, spedirono immenso esercito dalla Sicilia e dall'Africa a Salerno e sopra Capua, per dar mano alle loro colonie rinvigorite: quella di Tàranto avea ripreso Bari; la Puglia era battuta da Musulmani; Napoli, Gaeta, Amalfi, se non amiche, neppur erano avverse a costoro. Lodovico appena liberato gli osteggiò, ma prima di morire li vide arbitri dell'Italia meridionale, e minacciare d'incendio Salerno e Benevento e sperperarne i contorni. I vicini sosteneano l'assediata Salerno; ma l'imperatore, forte adirato al duca di essa, negava soccorrerla. A quell'assedio l'emir Abdila piantò il letto sulla mensa della chiesa de' santi Fortunato e Cajo, e vi sacrificava ogni notte la verginità d'una monaca, finchè una trave vel fracassò (874). All'assedio di Benevento un cittadino calatosi dalle mura per chiedere soccorsi, nel ritorno è preso; gli Arabi gli fan larghe profferte se inganni i suoi, fiere minacce se no; ma condotto presso le mura, grida: — Coraggio! durate! arrivano i liberatori: avrò morte; vi raccomando mia moglie e figli»; ed è fatto a pezzi. Lodovico, venuto poi a soccorso, riportò qualche vantaggio, ajutato da Amalfitani e Capuani, avvistisi del pericolo proprio nell'altrui. Anche in Napoli il duca Sergio cozzava col santo vescovo Atanasio, il quale, per sottrarsi alla persecuzione di lui, suggellò il tesoro e fuggì nell'isola del Salvatore. Sergio spedì Napoletani e Saracini per pigliarlo; ma l'imperatore mandò Marino duca d'Amalfi, che fe macello degli aggressori. Sergio in vendetta derubò il tesoro, onde fu scomunicato dal papa, mentre Atanasio conseguì onori dall'imperatore e dai popoli. I Saracini, nojati del lungo resistere di Salerno, incatenarono il nuovo emir Abimelech, e partirono, abbandonando munizioni e viveri. Ma cresciuti di nuovi rinforzi e d'accordo co' natii, poterono metter radici sulla costa Campana, devastare i territorj di Benevento, Terelle, Alife; e il duca Adelgiso sconfitto dovè mettere in libertà Soldano, che teneva come ostaggio. Costui, non disarmato dal perdono, ricomparve più terribile che mai. I monasteri di Montecassino e di Volturno, mal difesi dalle orazioni e dai vassalli, furono incendiati; nè il paese de' fieri Sabini seppe tener testa alle correrie. Gli assaliti invocavano i Greci, ma questi erano deboli; invocavano i signori di Salerno, Amalfi, Napoli, ma questi se l'intendevano coi Musulmani. Il papa in persona andò a Napoli per distorre dalla lega cogli Infedeli quel duca e gli altri principi di là intorno: Sergio, che ricusava, fu scomunicato; Guaifero principe di Salerno gli mosse guerra; il vescovo Atanasio suo fratello congiurò contro di lui, e preso e accecato il mandò a Roma a finire miserabilmente, e proclamò duca se stesso, come avea fatto il vescovo Landolfo a Capua; e n'ebbe lode dal papa. Ma l'intrigante vescovo anch'egli ben tosto aderì ai Saracini, e partecipava alle loro ladronaje; e chiamato di Sicilia l'emir Sicaimo, gli diè stanza alle falde del Vesuvio. Mal per lui, giacchè le costui masnade cominciarono a predare i contorni, rapir cavalli, armi, fanciulle: si spinsero anche fin alle delizie di Tivoli e alle sacre rive del Tevere, e per due anni le campagne di Roma nulla fruttarono agli atterriti abitatori. Lodovico II, lodato dai contemporanei come amator della giustizia, sostenitore dei poveri e dei pupilli (875), morì nel territorio di Brescia, e quel vescovo lo fece sepellire in Santa Maria. Ma Ansperto arcivescovo di Milano andò colà coi vescovi e tutto il clero di Bergamo e Cremona, e fattolo disotterrare e imbalsamare, con lunga processione portollo a deporre in Sant'Ambrogio di Milano, con un epitafio di non infelici versi e di amplissime lodi[263]. Papa Giovanni VIII tentò ravvivare il coraggio o la compassione del vano e inetto successore di lui Carlo Calvo. — Il sangue cristiano dilaga; chi campa dal fuoco o dalla spada è trascinato schiavo in esiglio perpetuo: città, borghi, villaggi periscono vuoti d'abitanti; i vescovi dispersi non trovano rifugio che alla soglia degli Apostoli, lasciando le chiese loro per tane alle fiere; sicchè veramente è il caso d'esclamare, Beate le sterili, e le mamme che non allattarono. Chi mi dà rivi di lacrime per piangere la rovina della patria? siede addolorata e sola la regina delle nazioni, la regina delle città, la madre delle chiese. Oh giorno di tribolazione e d'angoscia, giorno di miseria e calamità!» Con eguale istanza dirigevasi agli altri principi perchè non lasciassero dalla stirpe di Agar ridurre serva l'Italia e rovinar la religione. Carlo comandò al duca di Spoleto di dar mano al papa; ma il console di Napoli, sordo a minaccie e scomuniche, ricusò staccarsi dai Musulmani. Roma dunque non si potè redimere che assoggettandosi a venticinquemila annue monete d'argento, e vide i baroni circostanti allearsi coi Saracini per ambizione di piantare la propria signoria in Roma. CAPITOLO LXXII. Imperatori italiani. Gli Ungheri. CARLO MAGNO imperatore 800-814 | |- PEPINO re | 781-810 | | | |- BERNARDO | | re 810-18 | | | |- ADELAIDE | | sposa Lamberto? | | | |- Guido di Spoleto | | re 889 imp. 891-94 | | | |- LAMBERTO | | imp. e re 894-98 | |- LODOVICO il Pio | assoc. all'imp. 813-40 | |- LOTARIO | assoc. all'imp. 817-55 | | | |- LODOVICO il Giovane | | assoc. all'imp. 849-75 | | | | | |- Ermengarda m. di | | | re Bosone | | | | | |- LODOVICO il Cieco | | | re 899 imperat. 901-903? | | | |- Lotario di Lorena | | | | | |- Berta m. di | | | Tibaldo di Prov. | | | | | |- UGO re 926-47 RODOLFO II di | | | Borgogna re 922-26 | | |- LOTARIO assoc. | | | | 931-50 marito di . . . Adelaide che nel | | 951 sposa OTTONE | | il Grande | | | |- Carlo di Prov. | |- CARLO il Calvo | imp. e re 875-77 | |- Lodovico il Tedesco | | | |- CARLOMANNO | | re 877-79 | | | | | |- ARNOLFO | | | imp. e re 896-99 | | | | | |- LODOVICO il Fanciullo | | | | | |- Zventiboldo re di Lorena | | | |- Luigi il Sassone | | | |- CARLO il Grosso | | re 879 imp. 881-87 | |- Pepino d'Aquitania | |- Gisela | |- BERENGARIO I | re 888 imp. 915-24 | |- Gisela m. del | marchese d'Ivrea | |- BERENGARIO II | re 950-61 | |- ADALBERTO | re col padre Lodovico II non lasciava figliuoli; e quanto si fossero ingagliarditi i grandi ecclesiastici e secolari apparve nelle due fazioni che allora si formarono attorno ai due suoi zii. Una, desiderando un protettore robusto, chiedeva re Lodovico il Tedesco, al quale nella partigione del retaggio di Carlo Magno erano tocche la Baviera, la Boemia, la Moravia, la Pannonia, la Carintia, la Sassonia ed altri paesi d'oltre Reno; l'altro Carlo il Calvo re della Francia occidentale, perchè, debole essendo, non avrebbe attenuato i diritti e gli arbitrj signorili. Carlo passò di subito le Alpi: lo seguì per contrastarlo Carlo il Grosso figlio di Lodovico, e trovandosi prevenuto, guastò il Bergamasco e il Bresciano; poi atterrito, o deluso dallo zio che fingeva assalire la Baviera, diede indietro; e Carlo il Calvo venuto a Roma (875), _coll'arti di Giugurta_ vi comprò voti e la corona dell'Impero, poi in Pavia quella de' Longobardi. Come in Francia egli non sapeva impedire le usurpazioni de' nobili, anzi gli aveva assicurati non sarebbero rimossi dalle pubbliche funzioni nè essi nè i loro figli, ed obbligato i liberi a sottoporsi ciascuno a un patrono; altrettanto fece in Italia. Già signori e vescovi aveano tratto a sè l'arbitrio di eleggere il re; e per primo Ansperto arcivescovo di Milano, poi i vescovi d'Arezzo, Pavia, Cremona, Tortona, Vercelli, Ivrea, Lodi, Asti, Modena, Alba, Aosta, Acqui, Genova, Como, Verona, Piacenza, uniti con Bosone conte di Provenza, archimandrita del sacro palazzo e messo imperiale, e con varj altri conti, come ottimati del regno d'Italia elessero l'imperatore Carlo il Calvo per patrono, signore, difensore e re, promettendo obbedirlo in che che ordinasse a vantaggio della Chiesa e a salute di loro tutti; quanto sapranno e potranno col consiglio e cogli atti, senza frode nè maltalento, gli saran fedeli e obbedienti; nè direttamente o per lettera o per messi turberanno la quiete e la solidità del regno. Di rimpatto Carlo giurava, coll'ajuto di Dio e con ogni sua possa, onorare e salvare ciascuno, giusta l'ordine e la persona, mantener la legge e la giustizia che a ciascuno compete, e usare ragionevole misericordia a chi ne abbia bisogno: che se per fragilità deviasse, appena lo riconosca procurerà emendare[264]. Quest'atto prezioso ci chiarisce la natura di quel regno, elettivo e aristocratico: e fra gli elettori prevalgono i vescovi, come si sente dal fondarsi sui precetti evangelici, anzichè sulle cautele costituzionali, di cui furono assiepati i re dopo che si cessò di riverirli come immagini di Dio. Bosone suddetto ricevè la reggenza di questo regno col titolo di duca di Pavia, conferitogli col cingergli la corona, che dopo quell'ora fu adottata negli stemmi ducali. Poco poteva il re, e meno il suo luogotenente; prevalendo i grandi e massime i vescovi, giacchè i piccoli vassalli, non trovandosi protetti altrimenti, si mettevano sotto al loro patronato, salvo le grandi città, le sole dove i liberi conservassero qualche importanza perchè uniti. Carlomanno, altro figlio di Lodovico il Tedesco (877), cala in Italia, pretendendola come eredità paterna; ed essendo fuggito e morto il Calvo, è salutato re d'Italia: mai però non ottenne la corona imperiale; e non andò guari, che scontento delle turbolenze o impauritone, uscì d'Italia (879) lasciandola campo alle ambizioni, e poco stante morì. Guido duca di Spoleto, di nazione Franco, e nato da una figlia di Pepino re d'Italia, ingrandì di mezzo alle guerricciuole interminabili de' signorotti della bassa Italia, e campeggiando i Saracini che mai colà non lasciavano pace. Docibile duca di Gaeta, assalito dal principe di Capua, invocò i Saracini, che vennero, e recarono gravissimi danni agli amici non meno che ai nemici. Il papa indusse Docibile a torcere le armi contro di loro, e molti Gaetani perirono in quella guerra; ma poi si calò ad accordi (882), dando loro stanza presso il Garigliano, di dove per quarant'anni manomisero i dintorni. Anche Anastasio, l'ambizioso arcivescovo di Napoli, ora ai Saracini, ora ai Greci ricorse per ajuti onde nuocere ai Salernitani e ai Capuani; i quali di rimpatto si dirigeano a Guido di Spoleto. Costui non facea divario da onesto a ingiusto, e mentre combatteva gl'infedeli, rapiva continuamente alla Chiesa[265]; anzi, aspirando alla corona d'Italia, empiva Roma di satelliti, e diceano s'intendesse coi Saracini di Tàranto per disfare la dominazione pontifizia. Giovanni VIII, papa di natura irresoluta, corre ad Arles per invocare il re Lodovico il Balbo; ma questi ricusa s'e' non benedica le sue nozze con Adelaide, sposata mentre la prima donna ancora viveva: anche Carlo di Svevia lo respinge perchè gli avea proibito d'invadere la Borgogna cisgiurana; onde il papa si propizia Bosone suddetto, cognato di Carlo il Calvo, ajutandolo a formare il regno di Provenza, poi lo mena seco in Lombardia lusingandolo della corona imperiale. Quivi il vescovo di Pavia fece omaggio a Bosone come a re; ma appunto per questo l'arcivescovo di Milano il ricusò: e il papa stesso abbandonollo, sollecitando Lodovico il Sassone a venire per la corona imperiale. La prese di fatto a Roma; ma morendo presto di dolore (882), la lasciava al fratello Carlo il Grosso. Imperatore, re di Germania, di Baviera, di Sassonia, di Lorena, d'Italia, costui riuniva tutto il retaggio di Carlo Magno, ma nessuna delle qualità necessarie a sostenerlo[266]. A lui Giovanni VIII mandava querele perchè i baroni si rendessero ogni giorno più dissoggetti, mentre la metropoli del cristianesimo era minacciata dagli Infedeli e da figli ingrati, e — per Iddio soccorreteci, chè le nazioni vicine non abbiano a dire, _Ov'è il loro imperatore?_» Carlo trovavasi molestato nel proprio regno dalle correrie de' Normanni e più dall'insubordinazione de' feudatarj, ormai convertiti in altrettanti re: pure venne, e nella dieta di Pavia i vescovi, gli abati, i conti e gli altri ottimati del regno lo elessero, giurandogli omaggio e fedeltà, al solito modo e col solito ricambio. Ma col titolo regio non acquistò l'autorità; e Guido di Spoleto continuava le depredazioni, ad onta de' messi imperiali e dei fulmini della Chiesa; anzi costrinse l'imperatore a rendere a lui ed a' suoi complici i confiscati onori. Carlo, incapace di reggere la nave fra tali procelle, s'affidò a Liutwardo vescovo di Vercelli, che eresse arcicancelliere dell'Impero. Costui se ne valse a soprusare, e le fanciulle di più ricco retaggio forzava a sposare parenti suoi; e rapì da Santa Giulia di Brescia una nipote di Berengario duca del Friuli per darla a un suo nipote. Non comportò l'oltraggio Berengario, e con un grosso di truppe assalse Vercelli, e pose a sacco il vescovado; poi andò a scusarsene all'imperatore. Il quale non tardò a disgustarsi di Liutwardo, massime dacchè lo sospettò di tresche coll'imperatrice Ricarda. Questa giurò non essere mai stata tocca da nessun uomo, neppur dall'imperatore, esibendo sostenerlo col duello e colle sbarre roventi; e così giustificata si ritirò in un convento. Liutwardo esulò, e ricoveratosi presso re Arnolfo, intrigò a favore di questo[267]. Carlo medesimo come incapace e mentecatto fu deposto d'imperatore, e morì miserabile (887); e allora la corona di Carlo Magno andò per sempre a pezzi, e i varj popoli scelsero re nazionali: Eude prese la Francia, Arnolfo la Germania, Bosone la Provenza. Come regno elettivo ch'era l'italico, i grandi di qui non si credettero obbligati ad Arnolfo, ultimo ed illegittimo rampollo carolingio, e si sentirono forti quanto bastasse per governare il paese senza tutela di forestieri. Già aveano compreso che gl'imperatori, da patroni, tendeano a farsi padroni: il vescovo di Brescia scriveva ad un prelato tedesco i guai degli Italiani, _inquilini o piuttosto affittajuoli della patria loro, e preda del più forte_; e l'oltramontano rispondeva compassionando una terra, ch'era unica fonte della ricchezza a paese arido e povero qual è la Germania[268]. Pertanto voleasi un re nazionale; ma come accordarsi nella scelta in un'età tutta d'individui, dove le fazioni signorili si contrastavano spesso senza conoscere il perchè, mutando parte secondo le inclinazioni e la forza dei loro capi, servi all'interesse istantaneo e immediato? Fra i signori italiani quattro primeggiavano. Adalberto marchese di Toscana, sposo a Berta figlia di Lotario re di Lorena, la quale prima era stata di Teobaldo conte di Provenza, e n'avea avuti Ugo che poi fu re d'Italia, e Bosone che fu marchese di Toscana. Adalberto era cognominato il Ricco, ma non entrò per allora in lizza. Il principe longobardo di Benevento si era svigorito nelle guerre, e trovavasi sulle braccia le città di Calabria e i Saracini. Berengario duca del Friuli, di gente salica, e nato da una figlia di Lodovico il Pio, avea favorito a' Carolingi, ma con tale circospezione, che al soccombere di quelli rimase in piedi e potente. Guido di Spoleto, per la posizione sua appoggiavasi ai Saracini e al papa, potendo in quelli trovar braccia, a questo ispirar timore come emulo, o gratitudine come protettore. Stefano V l'adottò per figliuolo; e tanto erasi reso potente, che la dieta adunata a Langres per dare un successore a Carlo il Grosso, lui chiamò re di Francia. Abbandonò dunque le speranze del regno d'Italia a Berengario, il quale lusingava la nazionalità col farsi chiamare di sangue latino e principe italiano[269]; e in Pavia da Anselmo arcivescovo di Milano (888) si fe cingere la corona[270]. Ma Guido giunto in Francia si trovò prevenuto, essendo eletto re Eude conte di Parigi; onde col dispetto ripassò le Alpi, menando un grosso di guerrieri francesi, già allora sprezzatori dei nostri[271]; e coll'alleanza dei Camerinesi e degli Spoletini assalì Berengario, sussidiato da altri signori. Si combattè sanguinosamente nelle vicinanze di Brescia; e Berengario vinto (889) dovette contentarsi del suo ducato del Friuli, tenendo sede in Verona. I vescovi del regno, che omai aveano tratto a sè il supremo diritto, si congregarono a Pavia, e meditando «quanti mali avesse pei proprj peccati sofferto Italia dopo Carlo Magno, tali che umana lingua non può spiegarli», risolsero porre un fine alle orribili stragi, ai sacrilegi, alle rapine, ai misfatti d'ogni genere che attiravano la collera celeste; e per salvare le chiese loro e tutta cristianità volgente in desolazione, si adunarono affine di imporre degna penitenza ai malfattori confessi, e reprimerli in avvenire, al qual uopo elessero Guido re, piissimo ed eccellentissimo. E fu riverito a patto rispettasse le immunità e i dominj della Chiesa romana, coi privilegi e le autorità concedutile dagli imperatori antichi e moderni, troppo disdicendo che questa chiesa «capo delle altre, rifugio e sollievo dei soffrenti, salute di tutti» venisse da chicchessia vessata; piuttosto convenendo che il pontefice da tutti i principi e i fedeli sia supremamente venerato. Rimangano inoltre libere da ogni vessazione e diminuzione le chiese vescovili: i rettori di esse liberamente esercitino la podestà sacerdotale nelle cose ecclesiastiche e nel reprimere i trasgressori della legge divina: a vescovadi, abazie, spedali o altri luoghi sacri non s'impongano nuove gravezze: ogni sacerdote e ministro di Cristo abbia gli onori e la riverenza dovuta al suo grado, e colle cose ecclesiastiche e le famiglie a lui spettanti rimanga imperturbato sotto la podestà del proprio vescovo, salva la ecclesiastica disciplina. A tutti gli uomini plebei e ai figli della Chiesa si lasci usare liberamente delle proprie leggi, senza esiger da loro più del dovuto, nè opprimerli: che se ciò avvenisse, il conte del luogo abbia a ripararli legalmente, per quanto gli preme conservare la sua dignità; ove manchi, e faccia violenze o vi consenta, sia scomunicato dal vescovo. E poichè Guido liberamente promise osservare tali capitoli, unanimamente, a guisa di agnelli rimasti senza pastore, lo elessero a re e signore. Qui dunque, siccome avviene col ripetersi delle elezioni, s'allargano i patti, e ciò ch'è notevole si è la tutela del popolo e delle sue giustizie, assunta dai vescovi non per distinzione di razze e di grado, ma a favore di tutti, perchè tutti figli della Chiesa. Se i modi divisati per effettuarla non erano i più prudenti, è già assai trovare così proclamata l'egualità civile in nome della religiosa; è bello trovar costituzioni di diritti reali, mille anni prima che la nostra accidia ci facesse credere non poterne noi avere se non dall'imitare le francesi. Guido, profittando del favore di Stefano V, si fe cingere in Roma anche la corona d'oro (891); ma il nuovo papa Formoso, preferendo un lontano imperatore a questi vicini e litigiosi, favorì il tedesco Arnolfo, che da Berengario era stato invitato a sostenere i proprj diritti sovra un regno di cui esso gli faceva omaggio. Arnolfo, come unico carolingio fra tanti nuovi dominatori, pretendeva che la Germania sua fosse ancora il centro e l'anima degli Stati disgiunti; e comprendeva che, se Berengario cadesse, e Guido preponderasse co' Franchi e coi Longobardi, ogni ingerenza germanica di qua dall'Alpi sarebbe perduta. Adunque per l'Adige calò in Italia, prese Verona e Brescia; Bergamo, che generosamente si difese, mandò a osceno saccheggio, e Ambrosio, governatore per Guido, che vi si era eroicamente sostenuto, fece vilmente appiccare. Tosto Milano e Pavia cedono; i marchesi d'Italia vengono a prestar omaggio e chiedere nuova investitura, invece della quale Arnolfo li fe carcerare, sinchè a lui giurassero fedeltà. Allora l'aborrimento del dominio straniero unì quelli che prima s'erano fra loro combattuti, e lo costrinsero a dar volta. Cessato appena il pericolo, la guerra civile rinfocò tra Berengario e Guido; e morto questo, Lamberto suo figlio e collega, gridato re (894), strinse novamente Berengario in Verona. Allora Arnolfo, invitato da papa Formoso, torna; va dritto al cuor d'Italia per abbattere gli Spoletini, che parea volessero rinnovare la preponderanza longobarda; conferma a Berengario il regno d'Italia, sottraendogli però le provincie transpadane, nelle quali pone un Gualfredo (896) col titolo di duca di Verona, e un Maginfredo con quello di conte di Milano. L'acconcio dispiace a Berengario, il quale s'affiata con Lamberto di Spoleto e con Adalberto di Toscana per chiudere ad Arnolfo il cammino di Roma. Arnolfo vi arriva per forza; benchè Geltrude vedova dell'imperatore Guido, difendesse la Città Leonina, egli la prende, ha Roma per capitolazione (febbr.), fa decollare molti a sè avversi; dal pontefice ottiene la corona, dal popolo giuramento d'obbedienza, salvo la fedeltà dovuta a papa Formoso. Ma le malattie che spesso vendicarono gl'Italiani, colsero Arnolfo, sicchè s'affrettò a ritornare in Baviera, molestato gravemente dagli Italiani insorti. Ratoldo suo figlio, lasciato in Lombardia, non bastava a frenare quel moto d'indipendenza; sicchè pel lago di Como egli pure se n'andò in Germania; Verona non resistette a Berengario; i Milanesi trucidarono Maginfredo, che dato interamente al Tedesco, non pensava che a stringerli in soggezione; da Roma l'odio agli oltramontani si manifestò in uno scandaloso processo, che il nuovo papa Stefano VI fece al cadavere di Formoso, la cui vera colpa in faccia al popolo era d'aver unto lo straniero; poi sedente Giovanni IX, un concilio confermò imperatore Lamberto, pronunziando surrettizia e _barbara_ l'elezione d'Arnolfo. I due competitori Lamberto e Berengario, accortisi che dal ricorrere agli stranieri scapitavano entrambi (898), partirono il regno fra sè; al secondo la Lombardia fra il Po e l'Adda, il resto a Lamberto colla corona imperiale. Ma i fiumi non demarcavano le possessioni de' grandi e degli ecclesiastici, e l'incrociarsi di esse su dominj diversi moltiplicava i motivi di conflitto. In breve Lamberto venne in rotta con Adalberto di Toscana, e lo rese prigioniero; ma poco stante egli stesso fu assassinato nei boschi di Marengo, dicono da Ugo figlio di Maginfredo già conte di Milano. Anche ne' paesi transalpini i duchi o conti cincischiavano l'autorità dei re; ma infine essi erano nazionali. Da noi invece erano forestieri; e nessuno se ne trovò, il quale sapesse sbrancarsi dalla propria nazione per farsi capo d'una nuova. In tal guisa l'indipendenza paesana cadeva, mentre gli altri popoli la acquistavano; atteso che cotesti signorotti, non v'avendo popolo sul quale farsi forti, ricorreano ai potentati forestieri. Berengario, rimasto solo re, libera Adalberto; ma eccogli addosso un nuovo flagello, gli Ungheri. Dagli Urali e dal Caspio erano venuti costoro nella grande commozione di Attila; avanzatisi poi nell'VIII secolo, e sottoposti i Valachi e gli Slavi delle sconfinate pianure di qua dai Carpazj, cominciarono a rendersi terribili in Europa quali scorridori e predoni. I Carolingi nelle miserabili gare degli ultimi loro tempi gl'invocarono spesso, e Arnolfo gl'invitò coi Croati ad osteggiare il potente impero de' Moravi. Improvvido consiglio[272], perocchè abbattuto questo si trovarono a contatto coll'impero Franco, contro del quale spinsero i rapidi loro cavalli e una ferocia da selvaggi. Ci sono essi descritti come gente oltre ogni dire deforme e barbara; volto schiacciato; le madri morsicavano i figli in viso per abituarli al dolore. Nello sgomento ispirato da essi, disputavasi se fossero quel popolo di Gog e Magog, predetto dall'Apocalissi come precursore della fine del mondo; e s'introdussero processioni e riti per isviare quel nembo, e litanie dove pregavasi Dio perchè ci scampasse dal furore degli Ungheri. Nè mancò la solita messe di prodigi; e molte volte le ossa turbate de' santi riuscirono loro micidiali: la mano di un Unghero restò affissa all'altare che tentava spogliare; ad un altro si spezzò la spada vibrata a decollar un frate. Non tocca a noi raccontare i guasti che recarono alla Germania e alla Francia: ma l'Italia ben presto lusingò la loro cupidigia, bella e ricca qual è anche dopo spogliata e vilipesa da stranieri e da suoi, ed aperta a loro dal lato ove s'abbassano le alpi Friulane. Entrati per queste in numero che parve immenso agli atterriti, non arrestati dalle munitissime città di Aquileja[273] e Verona devastarono sino a Pavia. Re Berengario che, allor allora domi i rivali, trovavasi solo in dominio del bel paese, mandò il bando dell'armi per la Lombardia, la Toscana, Camerino, Spoleto, e raccolto un esercito _tre volte più numeroso_ di quel de' nemici mosse contro di loro, li sconfisse, e talmente gli avviluppò fra l'Adda, il Brenta e gli altri fiumi dell'alta Lombardia, che non trovando scampo, mandarono offrendo di abbandonare il bottino e i prigionieri, purchè fossero lasciati partire. Berengario, confidando sterminarli, negò: ond'essi da disperati combatterono, vinsero, e dispersi i mal uniti Italiani, senza ostacolo desolarono il paese. Non combattevano in regolate schiere, ma da scorridori sui rapidissimi cavalli, cui schiomavano acciocchè i nemici non avessero dove ghermirli. Non sarebbe dunque stato possibile ad ordinato esercito il raggiungerli; sicchè ciascuno era costretto provvedere alla propria difesa. Dalla campagna al loro accostarsi fuggiva la gente sulle alture fortificate, e mura alzaronsi allora attorno alle borgate e ai conventi[274]. Così gli uomini, rialzate le teste dalla servitù regolare dei Romani e dalla violenta dei Barbari, imparavano di nuovo a maneggiar le armi, e valersene a tutela della casa, del podere, del convento, delle città; il che tornò poi a vantaggio della libertà, poichè i padri nostri compresero la potenza dell'unione, e trovandosi in mano le armi, le usarono ad acquistarsi od assicurarsi franchigie. Berengario gli affrontò più volte; ma dall'infelice riuscita disgustati, o seguendo già la politica imputata loro di voler sempre due padroni affinchè l'uno tenesse l'altro in rispetto[275], una partita di signori nostri, e nominatamente Adalberto di Toscana, offerse la corona d'Italia a Lodovico re di Provenza. Adalberto da principio era sì buono, che quando non si trovasse altro, dava ai poveri il proprio corno da caccia colla catena d'oro, che poi riscattava a denaro: in appresso s'abbandonò all'ambizione e alla crudeltà, e perpetuamente avversò Berengario. Lodovico venne, e fu coronato re in un concilio a Pavia, poi imperatore a Roma (901) col nome di Lodovico III. Avendo soggetta tutta l'Italia volle vedere anche la Toscana, e a Lucca fu ricevuto da Adalberto con tanta magnificenza, ch'ebbe ad esclamare: — Questo marchese avrebbe piuttosto a chiamarsi re, in nulla essendomi inferiore che nel nome». Adalberto, e più l'ambiziosa sua moglie Berta, videro in queste parole un'espressione d'invidia, onde se ne alienarono, e svolsero da lui anche gli altri principi. Lodovico, venuto a Verona, congedò l'esercito, distribuì a' suoi molti possessi, e stavasene in improvvida sicurezza: sicchè Berengario, che non gli si era opposto, lo colse, gli rinfacciò d'avergli altra volta giurato non molestare l'Italia, e fattigli cavar gli occhi, il rimandò in Provenza (903?). I suoi soldati restarono dispersi, e al passo dell'Alpi ne fe molti capitar male il marchese d'Ivrea genero di Berengario. Quel che gli Ungheri all'alta Italia, il faceano alla bassa i Saracini, devastando, uccidendo; e massime la banda postatasi al Garigliano interrompeva le comunicazioni, e dilapidava i beni della Chiesa. Quando poi Ibraim re di Cairoan dall'Africa sbarcò in Sicilia per tornar al dovere gli emiri rivoltosi, si lagnò che a questi avessero dato soccorso le città di Calabria; e benchè esse venissero a dargli scuse, intimò si preparassero alla servitù, ed annunziassero il suo arrivo nella _città del vecchio Pietro_ (908). Ma a Cosenza trovò forte ostacolo, «e una notte per giudizio di Dio morì»[276]. A questi nemici del paese e della fede opponevansi i papi; e Giovanni X, desiderando i signori italiani si concordassero a riscattare la patria, pensò rassodare l'unità cristiana col porvi a capo Berengario, e il coronò imperatore nel Natale 915, a patto osteggiasse i Musulmani. La coronazione fu solennissima; profusi doni alle chiese, al clero, al popolo. Il papa aveva invitato la Corte di Costantinopoli a mandar una flotta che intercettasse il mare ai Saracini; trasse in lega Landolfo principe di Benevento, Gregorio duca di Napoli, Giovanni duca di Gaeta: il papa stesso menò l'impresa con Berengario e col marchese Alberico di Camerino; e bloccata la colonia de' Barbari, gli affamarono di maniera che messo fuoco alle case e alle robe, sbucarono impetuosi a salva chi può, e la più parte furono uccisi o presi e fatti schiavi. Non per questo le fazioni quietarono. Il marchese di Toscana e Berta sua moglie furono in Mantova imprigionati da Berengario, ma senza poter farsene cedere i castelli. Lamberto arcivescovo di Milano, che da esso imperatore avea dovuto comprar a denaro la dignità; Adalberto marchese d'Ivrea, genero di Berengario; Odelrico marchese e conte del sacro palazzo, congiurarono a danni dell'imperatore. Saputo che costoro aveano un convegno sulla montagna di Brescia, egli soldò due capi di Ungheri, i quali di fatto li colsero: Odelrico restò ucciso; Adalberto, fintosi un povero fantaccino di Calcinate, scampò; altri, avuto salvezza dalla clemenza di Berengario, invitarono in Italia Rodolfo II, re della Borgogna transgiurana. Soccorso dal suocero Burcardo duca di Svevia, egli venne; ma in sanguinosa battaglia a Firenzuola era sconfitto, quando la riserva del suocero mutò la fortuna, e Rodolfo vincitore fece coronarsi re in Pavia (922). In questo mezzo erano tornati gli Ungheri, e tagliati a pezzi ventimila guerrieri di Berengario, eransi sveleniti contro Padova, Treviso, Brescia. L'imperatore mal obbedito non potè frenare quella furia che pagando dieci moggia di denari d'argento[277]; al qual fine tolse molti beni alle chiese, e il popolo tutto obbligò, fino i lattanti, a contribuire un denaro per testa. Ma vinto e scoronato, e ridotto a Verona e al ducato del Friuli, invitò essi Ungheri contro l'emulo Rodolfo. Voltisi dunque sopra Milano, assalsero Pavia (924), città florida e popolatissima[278] dove si tenevano le diete del regno, e vi soffocarono il vescovo e quel di Vercelli, distrussero quarantatre chiese; di tanta gente soli dugento lasciarono vivi, i quali raccolsero fra le ceneri otto moggia di denari per ricomprare dai Barbari il luogo dov'era sorta la patria. Modena fu difesa a lungo dai proprj cittadini, che dall'alto delle mura si incoravano a vigilare con una cantilena guerresca rimastaci[279]. Malmenate anche le estreme terre del Piemonte, osarono imbarcarsi sulla marina Adriatica, ed arsero Cittanova, Equilo, Fine, Chioggia, Capodarzere, e predato tutto il littorale, tentarono Malamocco e Rialto; ma i legni mercantili di Venezia li respinsero[280]. La chiamata di que' Barbari indignò gl'italiani contro Berengario, onde tra i Veronesi fu congiurato di ucciderlo, e capo della trama era Flamberto. L'imperatore n'ebbe fumo, e chiamatolo a sè gli ricordò come lo avesse colmo di benefizj, sin a tenergli un figliuolo a battesimo, e più gliene compartirebbe ove restasse fedele; e donatagli una coppa d'oro, il lasciò andare. L'ingrato non ne divenne che più accanito. Berengario quella notte non dormì in palazzo, ma in una cameretta attigua alla chiesa, per esser pronto a sorgere la mezzanotte ed assistere all'uffiziatura. Ma come fu in chiesa, Flamberto lo fe trucidare. Milone, suo fedele, fece appiccare Flamberto e i complici. Come avvenne ad altri infelici autori di conati nazionali, Berengario, bersagliato miserabilmente tutta la vita, ebbe esagerate lodi dopo morto qual valoroso, clemente, pio, e sin a riverirlo per santo, e mostrar lungamente una pietra chiazzata del suo sangue, che mai per lavarla non aveva perduto le macchie[281]. Tolto l'emulo, e scomparsi gli Ungheri, venne a regnare Rodolfo, ma non con pace, giacchè lo contrastarono tre vedove che allora aggiravano l'Italia cogli intrighi e coi vezzi: Berta, vedova di Adalberto il Ricco, sua figlia Ermengarda, marchesa d'Ivrea: e sua nuora Marozia, di disonesta memoria, vedova di Alberico marchese di Camerino. Il voto di coteste e di Guido duca di Toscana e Lamberto fratelli d'Ermengarda si accordò sopra Ugo, duca di Provenza loro fratello uterino, che cogl'inganni più che colla forza vinse Rodolfo (926). Questo si ritira in Borgogna, ma quivi unitosi ancora col suocero Burcardo, cala con grosso esercito in Italia. Burcardo piglia l'assunto d'esplorare le forze de' nemici, e in veste d'ambasciadore viene a Milano. Giunto alle colonne di San Lorenzo, allora fuor di città, disse a' suoi compagni: — Questo luogo pare fatto apposta per erigervi una fortezza che tenga in briglia, non solo i Milanesi, ma tutti i principi d'Italia»; e soggiunse: — Non sono Burcardo se non riduco gli Italiani a contentarsi d'un solo sprone e cavalcare giumenti». Disse ciò in tedesco, ma i nostri lo capirono, e tutto riportarono all'arcivescovo Lamberto: il quale dissimulando prodigò carezze al finto ambasciadore, e gli diede licenza di rincorrere un cervo nel proprio parco; favore che a nessuno egli consentiva. Ma intanto mandava avviso agli Italiani; sicchè, mentre tornava, Burcardo fu côlto in un agguato a Novara, e fuggendo restò trafitto dai duchi di Toscana; a' suoi non valse il ricoverarsi in San Gaudenzio, chè furono trucidati, e Rodolfo voltò indietro. Ugo, che spertissimo di maneggi, s'era già compri molti signori italiani, allora venne promettendo un secol d'oro; sbarcato a Pisa ebbe universali accoglienze; a Pavia eletto re, a Milano coronato, regnò più robusto che nol desiderassero i signori italiani, proponendosi di restaurare l'unità della signoria col solo modo che par possibile, dopo gravi disordini, cioè la tirannia. La voluttuosa e intrigante Marozia, sposa a Guido di Toscana, formatosi un grosso partito in Roma e disdicendo ogni obbedienza al papa, aveva occupato Castel Sant'Angelo, e disponeva a sua voglia della città e del papato: entrata col marito e con un pugno di sgherri in Laterano, trucidarono Pietro fratello di papa Giovanni X e questo cacciarono in prigione (928), ove morì dal dolore o soffocato. Poco dopo Guido moriva, e succedeagli nel ducato di Toscana il fratello Lamberto. Ma re Ugo, temendo non gl'italiani gliel sollevassero emulo, fe spargere che esso e Guido ed Ermengarda fossero figli suppositizj. Della grossolana invenzione s'adontò Lamberto, e propose smentirla col duello. Ugo fu vinto nel suo campione Teduino; ma non per questo cessò, troppo premendogli di togliere a Lamberto il dominio e la ricca moglie. Fatto sta che Lamberto poco poi fu côlto e accecato (931); il suo paese dato a Bosone fratel germano di Ugo, cessandovi così quella schiatta de' Bonifazj e Adalberti; Ugo sposò Marozia e dominò in Roma trattandovi con alterigia i grandi. Alberico, figlio di Marozia del primo letto, dava un giorno l'acqua alle mani di Ugo; e avendo ciò eseguito disadattamente, ebbe da questo un manrovescio. Invelenito si restringe coi nobili (932), assalta e fuga il patrigno. Due volte Ugo tornò coll'esercito per vendicarsi e recuperare Roma, ma non potè che devastarne le circostanze: e infine concedette ad Alberico la pace e le nozze d'una propria figlia. Non per questo Alberico gli consentì mai di entrare in città, dove anzi accoglieva quanti signori fuggivano dalla tirannia di esso; per ventitre anni vi si tenne capo, coi nomi di console, di senatore, di tribuno allucinando i discendenti de' Romani antichi, i quali vedeano un magistrato repubblicano nel demagogo prepotente che usurpavasi fin gli atti pontificali, devoluti a suo fratello Giovanni XI. Ugo intanto, di scellerati portamenti in casa e di perfida politica fuori, insultava ai magnati, molti signori uccise, installò vescovi tedeschi a Milano e a Verona. Al fratello Bosone invidiò la Toscana o le ricchezze che egli e sua moglie Villa aveano carpite ai signori di colà, e col solito pretesto di congiure l'espulse, dando quel marchesato al proprio figlio naturale Uberto. Adombrò pure di Berengario marchese d'Ivrea e conte di Milano, Spoleto e Camerino, nipote all'imperatore Berengario. Il primo colla forza aperta assalì ed uccise; l'altro ebbe benignamente alla Corte, e aveva ordinato di strappargli gli occhi, quand'egli, avvertito dal giovine re Lotario, fuggì ad Ottone. 936 Ugo disgustava pure col tuffarsi nelle lascivie, contaminando famiglie principali, e alle bagascie sue e ai tanti sterponi prodigando chiese, monasteri, prelature. Le nozze con Marozia come illegali volle sciolte quando gli parvero più vantaggiose quelle con Berta di Svevia, vedova di Rodolfo e madre del re di Borgogna. Tuttociò accresceva i malcontenti, e il desiderio di indipendenza trapelava d'ogni parte fra gl'italiani: i quali però, se ebbero sempre vivo il sentimento della libertà personale, poco conobbero quello della libertà politica, e per ottenere la prima sacrificavano l'altra con cotesto bilicarsi fra due padroni. D'altra parte Ugo ben maneggiava con quelli da cui potesse temere: chetò di sue pretensioni re Rodolfo col cedergli i diritti del figlio dell'accecato Lodovico, suo pupillo, sopra la Borgogna cisgiurana, sicchè ne formò il regno d'Arles; strinse alleanza con Enrico l'Uccellatore nuovo re di Germania; concedette nuove sicurezze a Venezia e a papa Giovanni XI. Coll'imperatore romano di Costantinopoli si accordò per assalire i Saracini di Frassineto; e mentre quello li chiudea per mare, esso per terra li snidò, riducendoli sul monte Moro, dove pure li tenne assediati. Quivi pure poteva sterminarli; se non che temendo che Berengario tornasse di qua dall'Alpi a molestarlo, licenziò la flotta greca, e patteggiò cogli Infedeli di collocarli nei monti che dividono l'Italia dalla Svevia, acciocchè si opponessero ad ogni invasione. Colà divennero ostacoli ai tanti forestieri che visitavano la penisola per devozione o per affari, e moltissime vite costò l'averla perdonata a coloro. Tra questo gli Ungheri continuavano lo sperpero dell'Italia, e anche nella meridionale pervennero saccheggiando Capua, Salerno, Benevento, Nola, Montecassino, e fin Tèramo. Un grosso di Marsi e di Peligni gli aspettò in agguato e ne fa strage; ma per cinquanta anni non lasciarono tregua alla penisola. Ugo non seppe frenarli che con dieci moggia di danari, ponendo perciò gravissime contribuzioni; del che disgustati, e de' codardi portamenti suoi, e del dare le cariche a forestieri, i signori italiani, non potendo trar qui il re di Germania tenuto buono da Ugo con regali, chiesero Arnoldo duca di Baviera e Carintia, che di fatto scese per val di Trento a Verona, ma trovata resistenza a Bussolengo, se ne tornò. Ugo cacciò in prigione Raterio vescovo di Verona come reo d'averlo favorito; il quale descrisse i proprj patimenti. Più operoso nemico gli era Berengario marchese d'Ivrea, che profondendo denaro, sollecitava ajuti da Ottone re di Germania. Un Amedeo, gentiluomo di sua confidenza, l'esortò a fidare piuttosto nel malcontento degli Italiani, e si esibì di venire a scandagliarli. Di fatto, vestito da pezzente, girò di castello in castello, di vescovado in vescovado; saputo che Ugo era sulle sue traccie, cangiava travestimento e forma ogni giorno; al re stesso ardì presentarsi con altri che limosinavano; infine riuscì a tornare al padrone. Il quale, fidato sulle intelligenze, con piccola scorta calò per val d'Adige. A Manasse arcivescovo d'Arles, e insieme vescovo di Trento, Mantova, Verona, e governatore del Trentino, promise l'arcivescovado di Milano; il vescovado di Como a Adelardo, cherico che s'intromise del trattato; così ad altri prelati e governatori e signori dava e prometteva cariche, feudi, sopratutto monasteri in commenda e vescovadi. Ugo, ritiratosi a Pavia, spedì Lotario figlio suo alla dieta milanese chiedendo, se erano stanchi di lui, lasciassero a questo innocente la corona; e i grandi commossi dalle costui istanze e dal vederlo abbracciare la croce, gliel concessero. Intanto Berengario scontentava i prelati, a cui toglieva le prebende per mantenere le promesse fatte a' suoi fautori, i quali pure non restavano mai soddisfatti; pure cresceva ogni giorno di fautori e realmente dominava, comunque conservassero il regio titolo Lotario e Ugo. Quest'ultimo, disperato di ricuperarlo, tornò nel suo patrimonio d'Arles (947) portandovi tesori, che presto abbandonò colla vita. Fra breve moriva anche Lotario, forse avvelenato da quello cui era ostacolo a regnare; e Berengario venne gridato re col figlio Adalberto (950). E poichè temea che la bella e virtuosa Adelaide, figlia di Rodolfo II di Borgogna e vedova di Lotario, portasse a qualche marito i diritti suoi e le vendette, la prese, e volea forzarla a sposare suo figlio. Stette ella costante al no, benchè Villa moglie di Berengario giungesse fin a batterla e calpestarla. Chiusa nella rôcca di Garda, la bella infelice trovò compassione; un cherico Martino recò attorno i lamenti di essa, le preparò i mezzi a fuggire (951) e un asilo presso Azzo feudatario di Canossa, castello importante nelle storie, posto verso il fiume Enza al cominciar delle montagne di Reggio, sovra un'alta rupe isolata, sicchè facilmente si difendeva da qualunque assalto. Di quivi ella invitò a vendicarla re Ottone il Grande, che n'ebbe un bel destro onde innestare il nostro paese alla Germania, e distrutto il sistema militare de' Longobardi e dei Franchi congiuntosi colla Chiesa, avviò qualche miglioramento. CAPITOLO LXXIII. Età ferrea del Pontificato. Ottone il Grande. La corona imperiale e il regno d'Italia passano ai Tedeschi. Si svolge la nazionalità italiana. Disordini più deplorabili contaminavano il centro della cristianità. Unendosi all'Impero col rinnovarlo nella persona di Carlo Magno, la Chiesa avea creduto sceverarsi dalle cose mondane, e vi si trovò implicata viepiù, sia per gl'interminabili dissidj cogli imperatori che pretendevano intervenire alle elezioni, sia pel crescere de' baroni attorno a Roma, sia per l'aumento delle ricchezze. Le quali erano tante, che sotto Leone III si trovano offerte ad essa per più di ottocento libbre d'oro e ventunmila di argento; e Leone IV, il sacerdote eroe che contro i Saracini difese e munì il quartiere di Vaticano, nella basilica de' santi apostoli depose ornamenti per trecentottantasei libbre d'argento e ducentosedici d'oro. Non sempre erano usate a così nobili fini, e rendeano oggetto d'ámbiti e di brighe la sede pontifizia. Si racconta che una fanciulla di Magonza, educata in Atene sotto abito virile, fermossi a Roma (855) col nome di Giovanni d'Inghilterra, e salse in tanta fama d'erudizione e virtù, che fu assunta al papato; ma dopo due anni ne furono clamorosamente scoperti il sesso e l'impudicizia. Diceria vulgare, opportuna a celie e scandalo, ma insussistente non che alla critica, nè tampoco al senso comune. Mariano Scoto, cronista del secolo xi, l'accenna, indi a disteso Martin Polacco, autore d'una storia dei papi fin al 1277: autorità tardive; eppure i passi medesimi sembrano interpolati; come sembra quel di Anastasio Bibliotecario, atteso che altrove egli medesimo dà Benedetto III per successore a Leone IV, e soggiunge che l'elezione di quello fu notificata a Lotario imperatore, il quale si sa che morì nel settembre 855. Ferveva allora la rivalità della Chiesa greca colla latina, risolta poi in deplorabile scisma: Leone scriveva al patriarca di Costantinopoli Michele Cellulario correr voce in Occidente che alla sua sede fosse stata assunta una femmina. Il fatto saria colà meno strano, se è vero che l'ottenessero anche eunuchi; ma certamente Leone non avrebbe dato questo colpo, o Michele gliel'avrebbe rimbalzato se fosse stata nota la favola della papessa. Nè fra tante ingiurie lanciate dal patriarca Fozio e da altri alla sede romana se ne trova cenno. Una medaglia poi dell'855, portante il conio di Lotario e del papa, dissipa ogni dubbiezza. Un prete Anastasio, da Leone IV in concilio deposto perchè non risedeva nella parrocchia, levossi a competere il seggio con Benedetto III, e tratti dalla sua i commissarj imperiali, lo spogliò delle insegne: ma a lungo dibattuta la causa, prevalse l'elezione de' Romani all'usurpazione dei forestieri. Nicola fu il primo papa che si dica coronato (858), in presenza di Lodovico II imperatore, il quale l'addestrò alla briglia, e alcuno aggiunge gli baciò il piede. Tratto dal chiostro a vera forza perchè sentiva la gravità dell'offertogli manto, volle tenerlo con un'inflessibilità pari agli austeri suoi costumi ed alle illibate intenzioni: difese la primazia papale contro Fozio patriarca di Costantinopoli, dal quale cominciò lo scisma greco; mantenne l'integrità del matrimonio contro le intemperanze dei re, i quali pretendevano ripudiare le mogli quando sazj. Dopo la morte di Nicola (867), Lamberto duca di Spoleto entrò in Roma, e sott'ombra d'acquietare, lasciò saccheggiarla da' suoi scherani, senza rispetto a chiese o monasteri, e rubando molte nobili fanciulle. Tale scompiglio regnava presso al capo della cristianità. Il nuovo papa Adriano II aveva avuto per moglie Stefania, e questa viveva ancora con una fanciulla, impromessa a un nobile. Anastasio parroco di San Marcello, già nemico ai papi e scomunicato, poi perdonato e rimesso bibliotecario, aveva un fratello Eleuterio, nobile e ribaldo al par di lui; il quale, sedotta la fanciulla, la rapì e sposò. Adriano indignato trovò modo a ritorgliela; ma Eleuterio entrato in casa, in istanti uccise lei e la madre. Fu preso dalla giustizia; ma Arsenio suo padre, versando all'imperatrice Angisberga l'oro di che era ghiotta, si assicurò la protezione dell'imperatore. Vero è che fra quei negoziati morì, e il papa domandò messi imperiali che facessero processo e giustizia secondo la legge romana; ed Eleuterio fu mandato a morte, Anastasio scomunicato. Giovanni VIII, intrigante e passionato, mal giudicò la moralità delle azioni; prodigò scomuniche, convertì le penitenze in pelligrinaggi, e lasciossi illudere da Fozio. Fu il primo papa che fosse chiamato a decidere fra due competenti alla dignità imperiale, e dichiarò che, essendo questa stata conferita a Carlo Magno per grazia di Dio e ministero del papa, egli la trasportava al re dei Franchi, ch'era Carlo Calvo[282]. Dicono che questo, in benemerenza, rinunziasse ad ogni sovranità sopra Roma: ma più probabilmente non fece che dispensare il pontefice e il suo popolo dall'omaggio che rendeano all'imperatore. Però non seppe difender Roma dai Saracini, ai quali il papa dovette pagare un tributo. Fra le contese de' Franchi e degli Alemanni che si disputarono l'impero, gl'italiani aspirarono a tenerlo di qua dall'Alpi, e poichè allora ogni cosa traducevasi in linguaggio e fatti ecclesiastici, ne nacque un turpe scisma. Formoso, devoto a re Carlo che con tanto vantaggio aveva apostolato i Bulgari e favoriva il partito tedesco, da Giovanni VIII che sosteneva i Franchi fu spoglio del vescovado di Porto e tenuto prigione. Il nuovo pontefice Marino lo liberò e restituì alla sua sede, dove egli persistette ad avversar il partito italiano che portava Guido di Spoleto, il quale infatti riuscì imperatore, favorito dal nuovo papa Adriano III (882-84). A questo si attribuisce un decreto che esclude l'imperatore dall'elezione de' pontefici. Ricusò di ricomunicare Fozio; nel che stette egualmente saldo Stefano V (885), spiegando all'augusto bisantino i limiti fra l'autorità pontifizia e l'imperiale. Stefano, allorchè fu assunto, trovò spogliati il tesoro, la guardaroba, i granaj, le cantine in modo da non poter fare il solito donativo; tanto nelle vacanze crescevano le devastazioni. Alla sua morte prevalse il partito alemanno, e portò al soglio pontificio Formoso (891). Questi fu contrariato vivamente dal partito italiano, che giunse ad ucciderlo e gli surrogò (dopo il brevissimo e annullato regno di Bonifazio VI) Stefano VI (896), un de' più caldi in questa fazione. Per secondare alla quale, prese pretesto che Formoso avesse violato i canoni coll'abbandonar una chiesa per un'altra, atto allora insolitissimo, e diede scandalo nuovo alla Chiesa col farne disotterrare il cadavere, e collocato sul trono in vesti pontificali, giudicarlo d'aver deserto la prima sposa per un'altra; e condannatolo, gli fece mozzare il capo e le tre dita con cui benediceva e gettarlo nel Tevere, dissacrando quanti avevano da lui avuto l'ordinazione. Irritati da tali violenze, i fautori di Formoso insorti strangolarono Stefano, i cui atti furono cassati da Romano, egli pure considerato antipapa da alcuni, che riconoscono unico legittimo Teodoro II (898). Un concilio radunato da Giovanni IX abolì i processi contro Formoso e ne scomunicò i promotori, perdonò al clero che se n'era mescolato, volle non passasse in esempio la traslazione di esso da altra sede alla pontifizia, nè si consacrasse alcun papa se non dopo l'approvazione dell'imperatore. In un altro concilio a Ravenna fu riconosciuto dall'imperatore Lamberto il privilegio della santa romana chiesa, e confermati i possessi di questa; ma insieme stabilito che qualsifosse laico o cherico potesse andar liberamente all'imperatore per chiedere o grazia o giustizia. Ivi pure il papa esponeva la miseria cui era ridotta la Chiesa romana, non restandole pur tanto da mantenere il clero e i poveri; aveva egli inviato a tagliar piante per restaurare la basilica Lateranese che diroccava, ma i malviventi non l'aveano permesso. Fatto è che, mentre l'autorità papale nell'ecclesiastico erasi di tanto ampliata, i baroni, cresciuti di forza in Roma, la inceppavano, ergevano pontefici i loro ligi, non soffrivano ostacolo alle loro prepotenze, e per meglio soperchiare accordavansi cogl'imperatori[283]. Ma una parte di essi ne escludeva l'intervenzione, non per ispirito religioso o nazionale, bensì per avere meno impacci. Adalberto il Ricco di Toscana n'era capo, e Teodora parente sua, colle ricchezze e colle prodigate lusinghe acquistava dominio, secondata da due figlie, una del suo nome stesso, maritata in Graziano console di Roma, l'altra quella Marozia che già nominammo, sposa d'Alberico marchese di Camerino e conte di Tusculo, il più poderoso signore della campagna romana. Marozia pose il capo ad elevar papa Sergio amico suo, sturbandone Giovanni IX, ma il tentativo fallì (900); e anche dopo la morte di questo e di Benedetto IV (903), Leone V fu preferito. Cristoforo romano, cacciatolo prigione, invase il papato; ma gli fu tolto bentosto dal predetto Sergio (904), che recò i vizj e l'adulterio su quel trono dove tante virtù eran splendute[284]. A tale strapazzo era ridotta la Chiesa dall'intervenire dei signori alle nomine, e dallo sbrigliamento delle partigianerie. Sergio III a quelli cui doveva il sublime grado consegnò Castel sant'Angelo; onde rimanevano arbitri di Roma, e avrebbero potuto interrompere quella serie, per cui il regnante pontefice legasi fino agli apostoli. S'accontentarono invece di farvi eleggere chi ad essi talentò, un Anastasio III (911-14) men male degli altri, un Landone sabino, poi Giovanni X amato dalla giovane Teodora sorella di Marozia. Riuscì egli migliore che non potesse aspettarsi dall'indegna origine; e compreso dei suoi doveri, come a capo degli eserciti sconfiggeva i Saracini, così provvide di sottrarre la sede pontifizia alla vergognosa tirannide col frangere la micidiale consorteria delle famiglie signorili. Ne spiacque a Marozia, che maritandosi in Guido duca di Toscana, rinvigorì il nodo fra le due case di Toscana, e di Tusculo, sicchè ebbero a loro arbitrio Roma. Prima opera fu il soffogare l'indocile Giovanni, cui Marozia surrogò (928-31) Leone VI, poi Stefano VII, infine il proprio figlio Giovanni XI, che abbandonandosi alle inclinazioni della tenera e indisciplinata età, lasciava le cose sacre e profane raggirare dall'ambiziosa madre e dal fratello Alberico. Vedemmo come questo si ergesse signore di Roma, dopo respinto Ugo di Provenza re d'Italia; e carcerato Giovanni, lo costrinse a spedire legati a Costantinopoli chiedendo quel patriarcato per suo figlio Teofilatto, di quindici anni appena, a questo ed a' suoi successori in perpetuo concedendo il pallio. Morto Giovanni, quattro papi (931-46) (Leone VII, Stefano VIII, Marino II, Agapito II) furono successivamente eletti da Alberico: ma quando Ottaviano, suo figlio d'appena diciotto anni, fu sortito pontefice (956) col nome di Giovanni XII, l'autorità papale uscì da quell'oppressura, e Giovanni si trovò il più possente signore della media Italia, le cui fazioni rimescolò, e chiamò in Italia Ottone. La Germania erasi staccata dalla restante eredità di Carlo Magno, e la debolezza dei re che la dominarono fu causa che perdesse anche la corona imperiale. Estinta poi la stirpe de' Carolingi, si divise in molti ducati di forza quasi pari, or dall'uno or dall'altro de' quali sceglievasi il re, primo tra pari, potente solo se possedesse carattere, abilità, valore. E li possedeva Ottone di Sassonia, che menò guerre continue, e nessuna per ambizione; non cercò impinguare la propria famiglia coi feudi, e tolta la Germania dall'avvilimento, contribuì potentemente a porla nel primo posto fra le nazioni moderne. Di sue vittorie accenneremo soltanto quella contro gli Ungari, che per un secolo aveano malmenato Germania, Francia e Italia, ed a cui i suoi predecessori non aveano saputo opporre che la viltà de' tributi. Ottone sul Lech li sconfisse interamente (955), e rinforzò contro di loro il ducato d'Austria, sicchè fissatisi sul basso Danubio e resisi cristiani, divennero poi salda barriera contro altri Barbari. Allora anche l'Italia restò assicurata dalle coloro scorrerie. La bella Adelaide, vedova di re Lotario (pag. 347), dalla torre di Garda fuggita al castello di Canossa, invitò Ottone a proteggerla; ed egli con pochi seguaci (951) passò le Alpi, fidato nelle intelligenze; sorprese Pavia, e quivi invitata la bella, se ne invaghì e la sposò; poi fattosi coronar re, partì, lasciando a suo genero Corrado, duca di Franconia e di Lorena, la cura di sottomettere Berengario II. Questi non aveva opposto resistenza, sia perchè lo conoscesse troppo potente, sia per riconoscenza de' favori ricevutine; anzi lasciossi indurre a fargli omaggio del regno. A tal uopo se gli presentò in Augusta: e Ottone, lasciatolo aspettare tre giorni, gli ordinò tornasse l'anno seguente, quando infatti gli consegnò lo scettro d'oro come investitura del regno d'Italia, scemato d'Aquileja e Verona, chiavi delle Alpi; dovea però riconoscerlo come feudo dal re di Germania; col che, egli straniero, sagrificava l'indipendenza italiana. Corrado di Franconia, a cui aveva promesso di trattare onorevolmente il nemico se gli facesse omaggio, si tenne offeso di tale comporto; e con Lodolfo, figlio di Ottone, ruppe in aperta nimistà, che questo distolse lungo tempo dall'Italia. Intanto Berengario qui si rendeva esoso col punire quanti l'avevano disfavorito, rincarir taglie, spogliare chiese onde pagare gli Ungari, e col dare e togliere a capriccio le sedi vescovili, e dai vescovi esiger ostaggi di loro fedeltà. Essi e papa Giovanni XII invocavano dunque Ottone, il quale, giunto a Milano (961), dichiarò scaduto Berengario; che difesosi lungamente a Montefeltro (966), fu costretto cedere e mandato a morire a Bamberga con Villa, sua pessima moglie, che s'era ricoverata nell'isola di Orta colle ricchezze[285]. Azzo, che stava da un pezzo assediato in Canossa per punizione d'avervi raccolto Adelaide, fu dichiarato marchese, e divenne stipite d'insigne prosapia. Lo storico Liutprando, già secretario di Berengario e rifuggito alla Corte sassone, ottenne il vescovado di Cremona. Ottone, coronato re dall'arcivescovo di Milano e dai suffraganei[286], avviossi a Roma, dove spedì questa formola di giuramento: «A te signor papa Giovanni, io re Ottone fo giurare e promettere pel Padre, Figlio e Spirito Santo, e per questo legno della croce, e per queste reliquie dei santi, che se, Dio permettente, verrò a Roma, esalterò a tutta mia possa la santa Chiesa romana e te capo di essa; non mai per volontà, consiglio, consenso od esortazione mia perderai la vita o le membra o l'onore che hai; nella città romana senza tuo consiglio non farò regolamento od ordine alcuno intorno a cose che concernano te o i Romani; ti restituirò qualunque porzione della terra di san Pietro venga in mio possesso; e a chiunque io affidi il regno d'Italia, sì gli farò promettere d'esserti in ajuto a difendere il patrimonio di san Pietro con ogni potere. Così Dio m'ajuti e questi santi vangeli di Dio». Venuto a Roma, Ottone giurò in quei termini, confermò la donazione di Pepino e Carlo Magno, compresa Roma col suo ducato, all'atto di Lodovico Pio aggiungendo anche Rieti, Amiterno e cinque città di Lombardia, _salva la potenza sua e de' suoi discendenti_; e ottenne la corona imperiale (962 — 2 febb.). Non appena fu partito, gli vennero rapportate nefande cose del giovane papa, e come intrigasse con Adalberto figlio di Berengario. Ottone ritorna a Roma; e il papa, sulle prime oppostosi armato, fugge col tesoro di san Pietro e col re Adalberto che v'avea chiamato, e l'imperatore aduna un concilio per processarlo. Orribili colpe gli sono apposte: licenza di donne che riducevano a postribolo il Laterano; cardinali e vescovi mutili, accecati, uccisi; aver celebrato messa senza comunicarsi; voluto ordinare un diacono in una scuderia; ad altri concesso il santo ministero per danari; posto vescovo a Todi uno di dieci anni; gettato incendj, e comparsovi in mezzo con elmo, usbergo e spada; bevuto ad onore del demonio e delle bugiarde divinità. L'eccesso mostra quale spirito le dettasse: ma non essendo egli comparso a scagionarsi, il dichiararono scaduto, surrogandogli Leone VIII, laico ancora (963). Tanto arrogavansi i secolari! e i frutti erano secondo il seme. Giovanni avea lasciato molti amici, co' quali e con castellani del ducato eccitò una sommossa; ma i Tedeschi abbatterono le steccate da essi erette al ponte, e menarono strage, finchè Leone non s'interpose. Appena però Ottone si volse a combattere Adalberto che si fortificava nelle marche di Spoleto e Camerino, Giovanni, a capo d'una masnada saracina, tornò fra le acclamazioni del popolo, che per odio al prepotente straniero avea voluto dimenticare le scostumatezze di lui; e cominciava acerbe vendette (964), quando il colpì quella d'un marito oltraggiato. I Romani, senza riguardo all'imperatore, affrettaronsi ad eleggere Benedetto V; ma Ottone accorso di nuovo, balestrò Roma e la affamò tanto che l'ebbe, e ripristinato l'antipapa Leone, fece in un concilio decretare che agl'imperatori competesse il nominare i successori al regno d'Italia, dar l'istituzione al papa, e conferire l'investitura ai vescovi nei loro Stati[287]. Con ciò veniva a ribadirsi all'Impero il regno d'Italia, e si assodava la superiorità degl'imperatori sui papi: frutto dell'orribile immoralità che tutti gli ordini del nostro paese sommergeva in materiali passioni, rendeva insofferenti d'ogni dovere, obbligava i dominanti ad esuberar di rigore per mantenere qualche regola, e trabalzava a vicenda il popolo fra superba indocilità e misera paura della forza esteriore, fra le violenze e la vigliaccheria, capitali nemiche della libertà. D'allora l'Italia trovossi condotta ad effettuare la propria civiltà sotto gl'influssi d'una potestà straniera, per quanto lassa: e la storia della Germania e dell'Italia sono collegate dalla reciproca antipatia. Ottone se n'andava, trascinandosi dietro il papa eletto dal popolo; ma la peste che desolò il suo esercito e n'uccise i capi, fu avuta qual castigo di Dio per le violenze usate a Roma. Essendo poi morti Benedetto e Leone, si mandò a chieder un papa all'imperatore, che elesse Giovanni XIII (965); ma questo dai magnati di Roma fu espulso. Anche la fazione di Berengario sopraviveva, e sebben fossero presi il forte San Leo, la rôcca di Garda e l'isola Comacina a quella devoti, Adalberto continuava a stuzzicare la Lombardia. Pertanto Ottone vi tornò, disposto a punire; varj vescovi mandò oltremonti, a Roma fe appiccare tredici de' principali (966) e i tribuni e oltraggiar il prefetto, restituì papa Giovanni XIII, e sgomentò a segno, che gli stessi principi longobardi di Benevento e Salerno gli resero omaggio ligio. Restava la dominazione degl'imperatori greci, i quali non cessavano di protestare contro quelli d'Occidente come usurpatori; onde Ottone pensò snidarli d'Italia, come via a sterminare poi i Saracini. Mostrò dunque assalire i loro possessi in Calabria (968); pure al tempo medesimo chiedeva fossero dati a titolo di dote ad una figliastra dell'imperatore Niceforo Foca, ch'e' domandava sposa a suo figlio Ottone re di Germania. Recò quest'ambasciata Liutprando vescovo di Cremona, il cronista arguto o maligno di questa età, che si compiacque raccogliere aneddoti scandalosi intorno ai re ed ai papi. Non ebbe egli veruno buon risultamento, anzi furono perfidamente côlti e uccisi alcuni ch'erano stati spediti per ricevere i doni promessi; laonde Ottone accelerò la guerra, assediò Bari, e continuò lungo tempo le fazioni, alle quali non dovette rimanere estraneo Adalberto, irreconciliabile al vincitore di suo padre. Ma il nuovo imperatore Giovanni Zimisce si rassettò con Ottone (969), il quale partito d'Italia, poco dopo morì (973), e la posterità gli conserva il titolo di Grande. Il nome di lui segna un nuovo stadio della civiltà in Italia. Carlo Magno venendovi non si era trovato a fronte che la nazione longobarda, in arme e dominatrice assoluta, mentre i vinti giacevano senza possessi nè nome. Al calare di Ottone le condizioni erano mutate; e a petto alla nobiltà franca e longobarda crescevano il clero e le città; più vivo il commercio, più svegliati gli spiriti. I feudi non erano ancora tanti, quanti i possessi allodiali: perocchè nelle passate contese, se i re aveano cercato amici col largir loro benefizj, quando cadeva il signore questi diventavano liberi possessi, e gli uomini che abitavano su quelli venivano ad acquistare l'immunità, cioè a non esser dipendenti che dal re, siccome avveniva di quelli sulle terre dipendenti da vescovi e da chiese. Al contrario, per sottrarsi all'obbligo del militare, molti si davano vassalli e persino servi dei vicini potenti, col che sminuivano i possessori liberi; e principalmente le correrie degli Ungheri indussero altri a ridursi in vassallaggio dei signori per impegnarli a difenderli. Ma questo avveniva nella campagna: nelle città gli uomini si trovarono abbastanza forti per resistere da sè: laonde il Comune vi si manteneva. Nelle città pertanto si trovavano uomini dipendenti dal vescovo, altri dipendenti dai signori, altri soltanto dal re, il che allora significava esser liberi. Erano essi governati da conti, i quali, nella lontananza de' re, crescevano di potere, e tendevano a rendere patrimoniale questa dignità. Ma intanto i vescovi erano cresciuti in autorità fino ad elegger essi soli il re d'Italia, ed esercitare diritti sovrani, come edificar mura e guidare battaglie[288]. Nell'esercizio di tali diritti si trovavano impacciati dalla giurisdizione dei conti, e perciò tendevano a sminuirla. I re ne secondavano gl'incrementi, sì per umiliare i conti emancipati con metter loro a petto questi altri, di cui non temevano si rendesse ereditaria la potenza; sì per avere amici nelle diete i vescovi, che ormai n'erano il tutto. Qui dunque, come altrove, la società era ordinata così: un re, baroni da lui dipendenti, altri minori soggetti a questi; liberi Comuni sottoposti al conte; clero, uomini e corporazioni immuni. La baronìa, fiera ed agguerrita, avida di gloria, di potenza, di dominj, avea rinforzato i castelli, addestrava alle armi i vassalli, e mesceva fazioni, imbaldanzendo principalmente negli interregni o nei contrasti. Ottone, robusto di forze e di consigli, dopo che a fatica l'ebbe domata, vide a prova che, appena egli s'allontanasse, risorgerebbe irrequieta e faziosa. Sterminarla non era possibile, nè di colpo mozzarne l'autorità; onde si volse a fomentare gli altri poteri che accanto a quella sorgevano, il clero e le città, facendo che queste crescessero di potenza col ridurvisi in Comune i Tedeschi cogli Italiani, i liberi coi vassalli. Alcune città rimasero in signoria di conti, come Lucca, Verona, Ivrea, Torino; ma nelle più dell'Italia superiore Ottone o i successori suoi confermarono l'immunità ecclesiastica, o deputarono a conti i vescovi medesimi, come diviseremo più avanti; talchè esse e il territorio suburbano (che ne' diversi paesi chiamavasi i corpisanti o le camperie o i chierici o le masse o le cortine) dipendevano dalla giurisdizione del vescovo, ossia del santo patrono di ciascuna. Dominio gradito ai re, perchè non poteva ridursi ereditario; protetto dalla religione, che dichiarava sacrilegio l'attentare ai possessi di un santo; e men gravoso ai cittadini, come quello che maggior parte serbava di giustizia e di moralità. Rimanevano così ai vescovi le città, ai signori la campagna, che perciò venne chiamata il contado. Sotto la comune giurisdizione dei vescovi sparivano le anteriori differenze tra Longobardo, Franco, Italiano, Tedesco; onde gli abbiamo veduti alla dieta di Pavia proclamare l'eguaglianza di tutti, sebbene si mantenessero le antiche consuetudini per certi modi di possesso e di contratti e per le pene; e congregati i cittadini d'ogni stirpe, ne derivava un Comune degli uomini liberi, cioè de' possessori. Con ciò non vogliamo, come altri, far Ottone autore delle costituzioni municipali. Erano lento frutto del tempo, ed egli non fece se non maturarlo, non già con carte comunali al modo di Francia, ma colle immunità concesse, o il più spesso confermate, a chiese ed a Comuni. E già prima di lui appajono fiorenti le città nostre, e fanno guerre e paci, e gli arcivescovi di Milano ci si mostrano motori primarj della politica. Assodati nel dominio o nell'indipendenza per decreto imperiale, diedero opera a prosperare la città e il contado, come si fa di cosa propria; e invece di cercare un'importanza generale col farsi elettori dei re, i baroni ed i vescovi pensarono a consolidarsi in casa, difendersi dai vicini e dai liberi, contro dei quali ad or ad ora invocavano l'appoggio dell'imperatore. Ecco uno degli effetti del rinnovamento dell'Impero fatto da re Ottone: del resto, se il predominio della stirpe salica cessava, non si può dire che venisser di sopra i prischi Italiani, ma piuttosto la gente longobarda, posseditrice dei terreni. Contadi e marchesati duravano ancora, e di nuovi se ne introdussero; il ducato longobardo del Friuli andò spezzato alla morte di Berengario I; conti e marchesi militari furono posti a Treviso, Verona, Este, Modena, forse nel Monferrato e altrove, i quali poi divennero principati allorchè Corrado I dichiarò ereditarj i feudi. Aggiungansi le signorie ecclesiastiche, come il patriarcato del Friuli, fatto principesco da Ottone, e l'arcivescovado di Ravenna, emulo della potenza pontifizia. In Roma al papa metteva impacci la nobiltà, la quale, mantenendo i titoli antichi, introduceva le nuove idee feudali. La consuetudine latina si conservava soltanto nella campagna, dove i possessi erano o grossi dominj (_massæ_), o minuti, coltivati da _coloni_ che doveano porzione dei frutti e servizj di corpo, ovvero da censi e da servi, persone tutte senza rappresentanza civile, al par degl'infimi abitatori della città, sottoposti a ricchi ed a prelati. I Tedeschi d'allora ci sono dipinti dai nostri come gente rissosa, briacona, ignorante, che abitudini feroci avea contratto nelle guerre private, di cui giornalmente tempestava il loro paese. Pure la civiltà facea tra loro grandi passi; le miniere d'argento dell'Hartz, le più ricche d'Europa, che appunto sotto Ottone il Grande cominciarono a cavarsi regolarmente, agevolavano le transazioni del commercio, il quale vi era esercitato dai Lombardi, cioè dagli Italiani, che vi portavano sete, spezie, manifatture, barattandole con materie prime. La letteratura mandava i primi vagiti; nè le arti belle v'erano ignote se papa Giovanni VIII richiese al vescovo di Frisinga un buon organo e chi ne sapesse costruire e sonare: crebbero poi la loro pulizia al contatto dell'italiana, della quale non rifinano di mostrarsi meravigliati. Ottone II, giunto di diciott'anni all'impero, l'ebbe agitato da domestiche discordie, come suo padre. Invitato a reprimere gl'inquieti Romani, passò le Alpi (980); a Roncaglia adunò la solenne dieta del regno, conferendo feudi, e facendo giustizia degli sleali; e dato non pace ma tregua alla Chiesa, pensò ritogliere ai Greci i possedimenti nella bassa Italia, cui pretendeva come dote della moglie Teofania. In fatto (981) s'impadronì di Napoli, Salerno e Taranto: ma Basilio II e Costantino IX imperatori greci, dopo tentato invano stornarlo dall'impresa per via d'ambasciate, chiesero in sussidio gli Arabi di Sicilia e d'Africa, che guidati da Bulcassin, sconfissero Ottone a Besentello (983) (o piuttosto a Rossano), uccidendo molti campioni e assaissimi combattenti. Ottone non trovò scampo che col darsi prigioniero s'una galea greca, poi colto il destro, balza in mare e salvasi a nuoto. Struggendosi di lavare quest'onta, a Verona intimò la dieta di Germania e d'Italia, dove fece elegger re anche suo figlio Ottone III, e pubblicò molte leggi che furono aggiunte alle longobardiche; e poichè estesissimo era l'abuso del giuramento e vani i rimedj, si stabilì che, qualora nascesse contestazione sopra alcun documento, si decidesse col duello. L'Italia puniva col suo clima gl'invasori; tanto che, fra il corredo della spedizione, ciascun signore portava una caldaia ove bollire le ossa se morisse, per farle riportare in patria[289]. Ottone, come tutti gl'imperatori sassoni, morì di qua dell'Alpi, lasciando solo un fanciullo trienne. Tosto la Germania va in subuglio: ma Teofania madre di Ottone, e Adelaide sua suocera, nel comune pericolo mettendo in disparte le animosità ambiziose, accorsero dall'Italia, e poterono conservar il dominio al fanciullo, che fu accettato re ed imperatore. Nella fanciullezza e nelle lunghe assenze di lui i signori italiani avrebbero potuto elevarne un altro, od anche emanciparsi da codesti stranieri; ma n'erano trattenuti dall'invigorirsi dei Comuni. Tre volte tornò Ottone in Italia, e da Teofania educato a preferire la civiltà classica alla tedesca, dicono pensasse far Roma sede dell'Impero; del che se gli davano colpa i Tedeschi, anche i Romani erano lontani dal sapergli grado. Alla morte di Ottone il Grande, i faziosi a Roma aveano rizzato il capo. Crescenzio, figlio della giovane Teodora dei conti di Tusculo, arrestò Benedetto VI e lo fece strangolare, e surrogargli per forza Francone diacono, che volle nominarsi Bonifazio VII (974). Ma questo pure fu dopo un mese da un'altra fazione cacciato, per sostenere Dono II; e la guerra civile incalorì. La fazione di Tusculo supplicò Ottone II di procurare nuova nomina, ed egli s'industriò che cadesse su Majolo abate di Cluny, sant'uomo mandato altre volte a sopire gli scandali romani; ma questo per umiltà ricusò, e alla presenza de' commissarj imperiali fu eletto Benedetto VII dei conti Tusculani (975), nipote del tiranno Alberico[290]. Morto lui, Ottone gli surrogò Pietro di Canepanova (983) vescovo di Pavia e cancelliere del regno d'Italia, col nome di Giovanni XIV; ma la fazione di Bonifazio e di Crescenzio riaffacciatasi, lo chiuse in Castel sant'Angelo a morir di fame, ne espose il cadavere agl'insulti popolari, e richiamò Bonifazio; il quale pure morto dopo pochi mesi, fu trascinato per le vie e lasciato insepolto. Crescenzio, arbitro della povera Roma (985), costrinse il dotto e virtuoso Giovanni XV a fuggire in Toscana, donde sollecitò il giovinetto Ottone III a venire e reprimere i baroni. Di ciò impaurito, Crescenzio si rappattumò al papa, e venne col senato a chiedergli perdono; ma realmente rimase padrone, e ne derivavano gravi sconci, contro i quali avventava parole animatissime Gerberto abate di Bobbio, che poi fu papa, professando che provenivano dal mancare alla Chiesa la libertà[291]. Ottone III era in via per rintegrare il papa, ma uditone la morte, pensò rimediare alla corruttela italiana facendo eleggere un papa tedesco (996), che fu suo cugino Brunone, giovane di ventiquattro anni, figlio del duca di Franconia e marchese di Verona. Intitolatosi Gregorio V, coronò Ottone, e dicono stabilisse che il re di Germania fosse scelto da sette elettori, e che pel fatto stesso divenisse re d'Italia e imperatore dei Romani. Crescenzio, citato a render conto delle sue prepotenze, fu condannato al bando, intercedendo per lui il papa: ma appena Ottone se ne fu ito, quegli tornò pieno d'un'ira ingrata, cacciò ignudo d'ogni cosa il papa, e fece eleggere Giovanni Filógato calabrese (997), già vescovo di Piacenza e grand'intrigante; lui e sè mettendo a tutela dell'imperatore di Costantinopoli, nel quale proponevasi trasferire di nuovo la primazia dell'Occidente. Scomuniche o preghiere non valsero, finchè Ottone ritornato con Gregorio V, li prese; fe decollare Crescenzio con dodici caporioni, e sospenderne i cadaveri ai merli. L'antipapa privato degli occhi, degli orecchi, del naso, fu menato a strapazzo per Roma, per quanto Nilo, santo abate e fondatore del monastero di Grottaferrata, intercedesse per esso, e predicesse l'ira del Signore al papa, che in fatto (999) morì ben presto. Questo Crescenzio era uomo irrequietissimo, arbitrario, violatore delle cose che s'aveano per più sacre. Ma «in quei secoli sciagurati in cui s'avea paura del diavolo», come duole a Carlo Botta, sembra che i re non si credessero in diritto di mandar al capestro i riottosi, neppur nel calore d'una rivolta[292]. Ottone dunque fu rimorso del supplizio di Crescenzio, e corse a confessarsene a san Romualdo, fondatore de' Camaldolesi, il quale gl'ingiunse per penitenza di andare scalzo da Roma fin al santuario del monte Gargàno. Per via lo prese una straordinaria devozione per san Bartolomeo, e supplicò i Beneventani a cedergliene il corpo; ed essi, non osando negarglielo e non volendo privarsene, gli diedero invece quello di san Paolino da Nola. Quand'egli scoprì l'inganno, se ne adontò di maniera, che assaliti i Beneventani, molti giorni li tenne assediati. Tornato poi a Roma, la trovò in guerra rotta con quelli di Tivoli, che in odio di lui avevano ucciso un suo ministro: onde esso menò tutte le macchine contro quella città, risoluto d'abbandonarla alle spade e alle fiamme. Ma ecco san Romualdo compare ancora, e l'induce a contentarsi che i cittadini, dopo venutigli innanzi ignudi e flagellandosi, smantellino una parte delle mura, gli diano ostaggi, e gli consegnino l'uccisore del ministro; e a questo pure il santo impetrò la vita dalla madre dell'ucciso. Poco dopo troviamo Ottone a Ravenna, chiuso nel monastero di Sant'Apollinare, tutto in digiuni e salmodie, vestendo di cilizio, dormendo s'una stuoja di papiro, in isconto de' suoi peccati. Tali erano quest'imperatori tedeschi. Ma gl'italiani covavano la vendetta: i Romani insorti, moltissimi de' suoi trucidarono, e poco mancò non pigliassero lui stesso: poi Teodora[293] vedova di Crescenzio, con lusinghe e vezzi riuscita a guadagnarsene il cuore o almeno la fiducia, l'indusse a dar la prefettura di Roma a suo figlio Giovanni (1002), in onta dei conti Tusculani; venutole quindi il destro, l'avvelenò. Fosse ciò vero, o fosse piuttosto il clima della Campania, Ottone periva sul fiore dei ventidue anni, e Giovanni di Crescenzio col titolo di senatore restò arbitro di Roma come suo padre. I signori italiani si tennero disobbligati dalla fedeltà che, nel ricevere i feudi, avevano promessa alla stirpe di Ottone, e negarono omaggio al nuovo re Enrico II di Baviera. Da una famiglia Franca, venuta in Italia al tempo de' Carolingi e cresciuta sotto gli Ottoni, nasceva Arduino, che da Torino dominava tutti i contadi sulla sinistra del Po da Vercelli a Saluzzo; era stato da Ottone costituito conte di tutta la Lombardia; indi messo al bando, s'era per forza sostenuto. Costui allora si fece proclamare re d'Italia, guadagnando alcuni vescovi con privilegi e regalie, altri uccidendo e maltrattando, come fece con quei di Vercelli e di Brescia, il qual ultimo prese anche pei capelli e buttò in terra. L'essere coronato dal vescovo di Pavia bastò perchè Arnolfo arcivescovo di Milano (1004), per quanto da lui carezzato con ogni guisa d'assicurazioni, lo contrariasse, il quale, forte di molti partigiani e vassalli, ne disperse le truppe, e a nome suo, dell'arcivescovo di Ravenna, dei vescovi di Modena, Verona, Vercelli, Cremona, Piacenza, Brescia, Como, di dieci dignitarj ecclesiastici e del marchese di Toscana, unico laico[294], mandò ad invitare Enrico II. Era allora marchese di Verona, cioè della Marca Trevisana, Ottone, padre di papa Gregorio V e figlio di Corrado duca di Franconia; personaggio di tanto credito, che s'era trattato di portarlo re di Germania, il che egli per umiltà ricusò, favorendo anzi Enrico. Arduino, ben provvisto a spie, seppe che costui era mandato da Enrico in Italia, dove alle sue forze si aggiungerebbero quelle di Federico arcivescovo di Ravenna e del marchese Teodaldo. Arduino corse dunque alla chiusa dell'Alpi, occupata dagli uomini del vescovo di Verona; avutala per forza, si spinse a Trento, e potè sbaragliare i Tedeschi. Ma i popoli della Carintia aprirono a questi un altro passo pel Trevisano, d'onde Enrico scese in riva al Brenta. I molti che aspettavano l'esito per pronunziarsi, allora accorsero a lui, e Arduino si trovò abbandonato. Enrico fu coronato in San Michele di Pavia (14 mag.); ma quel giorno stesso la brutalità de' suoi Tedeschi eccitò una sommossa, ed egli, assalito nel proprio palazzo, non campò che saltando da una finestra, onde rimase azzoppato. L'esercito suo, che accampava fuor le mura, entrato a forza, mandò a macello i Pavesi, a fuoco la città. La quale per vendetta diede più che mai favore ad Arduino, che ripigliò il regno, e lo difese contro Enrico; sicchè l'uno e l'altro se ne arrogarono le attribuzioni. Nell'assenza poi di Enrico, Arduino prese per forza Vercelli, Novara, Como, altre terre demolì, e prese vendetta di coloro che chiamava perfidi[295]; arrestò conti e marchesi per rintuzzarne la baldanza, ma dovette poi rimandarli con nuove largizioni[296]. Enrico, tornato di qua dall'Alpi con buon esercito, a Roma fe coronarsi colla regina Cunegonda, ricevendo omaggio anche dalla famiglia di Crescenzio, che facea buon viso e mal sangue. Il santo re era sfortunato nelle sue coronazioni, giacchè qui pure i suoi Tedeschi, ben gozzovigliato, vennero a baruffa coi Romani, e molti furono uccisi, molti carcerati. Lui partito appena, Arduino sbucò dalla fortezza ove s'era ricoverato, devastò di nuovo Vercelli e fin la sua devota Pavia[297], poi caduto infermo (1013), si ritirò a morire nel monastero di Fruttuaria presso Ivrea. Da queste nimicizie molto incremento venne alla libertà degli Italiani, atteso che Arduino cercò partitanti col concedere immunità e privilegi; Enrico fu costretto confermarli se volle tornarseli soggetti, nè potè con giustizia negare altrettanto a' suoi devoti. E della potenza dei conti ci basti ad esempio Guelfo marchese di Verona. Convocato cogli altri da Enrico III alla dieta di Roncaglia, vedendo il re indugiare tre giorni più del prefisso, levò il suo stendardo, e sebbene nell'andarsene lo scontrasse, non volle tornare. In Verona poi, saputo che l'imperatore avea imposto mille marche di contribuzione, rimbrottò lui ed i suoi con tale severità, che Enrico si contentò di restituire tutta quella somma, purchè fosse lasciato passare[298]. Tali erano ridotti i re da quei baroni: le città poi, seguendo or l'una or l'altra fazione, appresero ad usare le armi per drizzarle contro chi volessero. Enrico II mosse quindi a reprimere i Greci della bassa Italia che, inorgogliti di vittorie sopra alcuni ribelli e sopra i Normanni, nuovi invasori, aveano sottoposto molte terre, e minacciavano Roma. Giunto nella Puglia, assediò per tre mesi la nuova città di Troja; rimise ad obbedienza i principi di Capua, Salerno, Napoli: ma le malattie logorando il suo esercito, dovette affrettarsi di là dai monti, ove, dopo quattordici anni di regno, aggravato da morbi e da contrarietà, prese l'abito monastico (1024). L'operosità ed il coraggio lo fanno porre tra i migliori regnanti; la generosità verso il clero, lo zelo a diffondere il cristianesimo, e le private virtù lo alzarono fra i santi, insieme colla moglie Cunegonda, colla quale era vissuto da fratello. Alla dieta delle cinque nazioni germaniche che proclamò Corrado II Salico di Franconia, i signori italiani erano stati invitati, ma non giunsero in tempo. Essi però si credevano sciolti da ogni legame d'obbedienza: i Pavesi, esultanti della morte dell'imperatore che tanto gli avea danneggiati, demolirono il palazzo imperiale, decretando che mai altro non se ne fabbricasse dentro la città: una fazione capitanata dai marchesi Ugo e Alberto, progenitori della Casa d'Este, e dal marchese Maginfredo di Susa, offriva la corona a Roberto di Francia, poi a Guglielmo duca d'Aquitania; ma nessuno la accettò, conoscendo l'umore degli Italiani, che cupidi dell'indipendenza, non sanno assodarla coll'unione[299]. D'altra parte questi fazionieri mettevano all'eletto il patto di deporre i vescovi a loro spiacenti, e surrogar quegli da loro designati: talmente la potenza clericale era allora divenuta il tutto nella costituzione del regno italico, essendo principali signori i prelati. Ma i pontefici preferivano i re di Germania perchè lontani, e perchè considerati discendenti di Carlo Magno, nel quale essi aveano restaurato la dignità imperiale e il nome di Roma. I vescovi nominati dai re, bramavano sottrarsi alla dipendenza di questi. Popolo e clero mal soffrivano che i loro pastori venissero eletti dallo straniero. CAPITOLO LXXIV. Il feudalismo. Tante volontà così distinte e fin contrarie, eppur tutte attive, ci mostrano quanto cambiamento erasi operato nella società. Unità, accentramento di tutte le forze vive erano concetti romani, che sopravivevano ormai soltanto nella Chiesa. Il Germano vuole l'indipendenza personale; bisogna che ognuno sia sovrano per esser libero; e in ciò consiste appunto la feudalità, e ne deriva una catena d'obbligazioni, formando la più singolare mistura di libertà e barbarie, di disciplina e indipendenza, un campo a nuove virtù e a violenze irrefrenate. Come mai gli ordinamenti presi a tutelare la gelosa libertà, finirono col togliere fin quella degli atti privati? Per meglio comprenderlo distinguiamo ciò che nel feudo andava costantemente unito; la proprietà e la sovranità. Un capo di liberi Germani, quando si subordinasse ad un generale per uscire con esso a lontane spedizioni, conservava imperio sulla propria banda guerriera, benchè egli medesimo accettasse un padrone. Si aveva dunque già una gerarchia; ma la dipendenza era personale affatto, e talmente libera, che il commilitone poteva abbandonare a sua voglia il capo prescelto. Le terre col comun sangue conquistate vennero a considerarsi comuni, e furono divise fra i capi di banda. Attaccati essi alla terra e al signore da cui la riconoscevano, venne a ridursi stabile la relazione con questo, e all'antica eguaglianza surrogossi un'aristocrazia militare, che dai vinti Romani desumeva il principio e il fatto della proprietà individuale. _Od_ in antico tedesco significava bene di fortuna; il qual nome posposto ad _all_ o _alt_, cioè antico, formò _allodio_; e _fee_, ricompensa, formò _feudo_. Allodio vorrebbe dunque dire un possesso antico, regolato colle consuetudini natìe de' Germani, ed esente da qualsivoglia obbligazione particolare; mentre feudo (che, alterando il senso d'una parola ecclesiastica, fu anche detto _benefizio_) esprimeva una possessione conferita da un alto signore in ricompensa di servigi resi, e coll'obbligo di nuovi. Dovere primo del capo barbaro era il dar guerrieri all'esercito regio. Ignorando le complicatissime guise onde oggi si leva, mantiene, provvede la truppa, il capo assegnava porzione de' suoi terreni a diversi, col patto che armassero e nutrissero un certo numero d'uomini ciascuno. Questi vassalli a vicenda suddividevano la proprietà e l'obbligo ad altri; e così formavasi una catena di dipendenze. I benefizj si consideravano come premj del valore, e perciò conceduti personalmente; e i signori erano gelosi di rivocarli, per avere onde compensare altri servigi, e assicurare la futura felicità de' commilitoni. Non ispogliavano il vassallo sinchè vivo e sinchè fedele a' suoi doveri; ma non cadeva nelle costumanze germaniche il contrarre od imporre obblighi per la posterità. Però era naturale che essi compagni s'ingegnassero di ridursi indipendenti, e di assicurare in casa quel possesso; ed è indole delle proprietà il tendere a farsi ereditarie, di modo che la famiglia vi s'innesti ed assodi. Tali cominciarono alcune per via di privilegio reale: l'imitazione le crebbe, sino a diventare la forma universale. Sempre però vi si conservava il carattere di personali, col rinnovare il giuramento ogniqualvolta si mutasse il possessore, e col conferirgliene l'investitura. Egli, a testa scoverta, deposto bastone e spada, inginocchiato davanti al caposignore, e poste le sue mani in quelle di lui, diceva: — Da quest'oggi io divengo vostr'uomo, e vi terrò fede del possesso che impetro da voi»; indi giurava fedeltà, e tesa la destra sovra un libro sacro, ripigliava: — Signor mio, io vi sarò fedele e leale, non attenterò alla persona o ad alcun membro vostro, vi serberò fede del possesso che vi domando, vi renderò lealmente le consuetudini ed i servigi che vi devo; così Dio e i santi m'ajutino». Allora baciava il libro, ma senza genuflessioni nè altro atto d'umiltà; e il signore gli dava l'investitura, consegnandogli un ramo d'albero, una zolla od altro simbolo, mediante il quale il vassallo consideravasi divenuto _uomo_ del suo signore. Quest'è il modo più semplice, direi originario, del possesso feudale; ma nasceva pure in molte altre guise. Alcuni rimasero attaccati ai loro capi senza possedimento di sorta; ma via via che al genio battagliero e randagio sottentrava quello della stabilità e del possedere, chiedevano in guiderdone qualche terreno, riconoscendone il datore. I grandi possessori mal poteano difendere i vasti tenimenti da vicini e avventurieri che ne usurpavano porzioni; ed era già assai se potevano indurli a tributare un omaggio. Altri, o poveri o spropriati, mettevansi a bonificare un terreno; e per avere una protezione, lo accomandavano alla supremazia di un vicino, o questo se la arrogava. Fin i possessori di allodj da nessuno dipendenti consentivano a rinunziare l'antisociale indipendenza, presentavano a qualche poderoso vicino una fronda de' loro boschi, un cespo del prato, e con questo rito simbolico gli _raccomandavano_ il loro allodio, nella tutela di lui trovando un compenso agli omaggi e servigi imposti dal vassallaggio. Praticavasi ciò principalmente colle chiese, per fare più sacra la proprietà ed esimersi da tributi. Introdotta questa forma di possesso, ella si estende e generalizza, e tutto divien feudale; sin varie città prendono posto in quella gerarchia, contraendone le obbligazioni per possederne i diritti, sotto al patronato d'un barone. Adunque i popoli, che dianzi conservavano il diritto personale in mezzo alle incessanti migrazioni, cangiarono a segno, che si considerano membri dello Stato solamente in quanto possedono una gleba; non v'è signore senza terra, o terra senza signore; è uomo d'alto o di basso luogo secondo la natura de' suoi possedimenti, e la terra costituisce la personalità, la quale perciò dee rimanere indivisa, e passare nel primogenito. Fatto ereditario il feudo, tale pure diventava la lealtà, estendendosi ai discendenti di quello da cui lo si era ricevuto. Egli a vicenda non poteva spogliarne l'investito se non per fellonia, nè sospenderlo a tempo se non quando ricusasse il promesso omaggio. Per tali diverse maniere la proprietà acquistava un carattere speciale; piena, reale, ereditaria, eppur ricevuta da un superiore, verso cui corre obbligo di certi omaggi e tributi. Col tempo anche le cariche di siniscalco, di palafreniere, di coppiere, di banderajo, che attribuivansi in feudo, passarono di padre in figlio, e perfino i supremi comandi militari, la più assurda fra le eredità. Ne restava inceppato il potere del signore molto più che dalla perpetuità de' possessi, giacchè per diritto egli trovavasi a fianco persone che impacciavano i suoi voleri, invece d'adempirli. I vescovi, non potendo se non per abuso versare sangue in guerra o ne' giudizj, infeudavano dell'autorità secolare i visconti e visdomini, o avvocati; i quali poi col diritto della forza procuravano farsi indipendenti, e chiedeano l'investitura dal re, come patrono de' benefizj e delle mense. Nè solo terre e cariche si davano in feudo, ma qualsifosse proprietà, qualsifosse modo di guadagno assunse quella forma: i proventi d'un impiego o d'una cancelleria, il diritto della caccia, un pedaggio, lo scortar le merci, il rendere giustizia nei palazzi de' grandi, il tener forno, l'aprir botteghe sulle fiere, persino il possedere sciami d'api; il clero infeudò il cimitero, una oblazione, le decime, i diritti di stola bianca e nera; i monaci l'uffiziatura, lo spigolare del frumento o della vendemmia, fin le goccie che stillavano dai tini; talvolta un barone impadronivasi del provento delle messe dette a un altare, e lo teneva come feudo di quella chiesa. Anche le arti meccaniche nelle case signorili erano esercitate da persone, le quali a questo titolo ricevevano terre in feudo. Talvolta l'utile dominio d'un paese o d'un villaggio era ripartito fra due o più padroni; sia che ciascuno avesse un quartiere separato, o una gabella speciale, o una particolare giurisdizione: e questi diritti s'impegnavano od appaltavansi o staggivansi, venendo a moltiplicarsi i padroni e i litigi, e a confondersi il governo. Ne' contratti si trovano stipulati i quarti, i decimi d'un possesso, fin la quarta parte della sedicesima d'un castello; gli Estensi nel secolo XIII da più di venti capitanei comprarono poc'a poco la terra di Lendinara; e così i Fiorentini e i Sienesi le varie castellanze del loro contado[300]. Il conquistatore aveva spartito i terreni e i popoli non altrimenti che le robe; e come su queste, divise che fossero, il re non conservava alcun diritto, così neppure sui terreni e sui terrieri. Pertanto al possesso andava congiunta la sovranità, e al tenitore del feudo competevano sugli abitanti di esso i diritti che oggi ritengonsi sovrani; verso gli altri possessori consideravasi pari; dentro del suo feudo niuno poteva imporgli leggi o tributi, nè richiederlo in giustizia. E poichè, secondo le idee germaniche, nessuno tenevasi obbligato se non alle leggi ch'egli medesimo fosse concorso a stabilire, mancata la supremazia legislativa, v'ebbe tanti statuti quanti paesi, e la giurisdizione non fu più una delegazione sovrana, ma una conseguenza della proprietà. Questo unire il possedimento colla sovranità isolava ciascuna tribù, per modo che formavansi tanti Stati quante proprietà, distinti in ogni cosa, salvo che in ben pochi interessi. Al momento che questa società si formava, a gruppi i feudatarj si strinsero attorno a conti e duchi, per caso o per vicinanza, ma senza connessione degli uni cogli altri; e la stessa convergenza a un centro era piuttosto apparente che effettiva. All'idea astratta dello Stato era sottentrata la concreta dell'individuo, col quale unicamente si aveva obbligazione. Non più dunque parentela o tradizione o governo ritenevano la tribù attorno al capo; non assemblee popolari per far leggi comuni; restò unico il legame della promessa e della devozione, giacchè _il feudo è sentimento d'onore attaccato al possesso conferito dal sovrano pel solo dominio utile in compenso di servigi resi, e con promessa di nuovi servigi, di fedeltà, di omaggio_. Così si pianta un sistema gerarchico di istituzioni legislative, giudiziali, militari. Unica fonte d'ogni potere è Dio, e suo vicario il papa. Questi, serbato a sè il governo delle cose ecclesiastiche, affida le temporali all'imperatore, che è capo dei re. E papa e imperatore e re commettono l'esercizio della loro podestà ad uffiziali, annettendo alle cariche una terra: questi suddividono la terra e gl'impieghi a persone, le quali fanno altrettanto. Colui che conferiva il feudo chiamavasi _senior_, signore; il benefiziato, _junior_ ovvero _miles_, per l'obbligo che avea del militare; più solitamente al benefiziato diretto davasi il nome di vasso o vassallo; ai sotto benefiziati quel di valvassori (_vassi vassorum_), da cui dipendevano i valvassini. Uno dunque si trovava signore al tempo stesso e vassallo; possedeva feudi di natura e di pesi diversi, ma non si teneva obbligato se non a colui, dal quale immediatamente rilevava. Nè l'esser ligio per una, toglieva d'essere sovrani sopra altre terre: i re di Sicilia come quei d'Inghilterra, di Danimarca ed altri si fecero vassalli alla santa sede; quel d'Inghilterra rendeva omaggio al re di Francia per la Normandia; anzi talora due dinasti erano a vicenda signore e vassallo un dell'altro, come il vescovo di Sion riconosceva dai conti di Savoja alcuni possessi, mentre questi rendevano a lui omaggio pel feudo di Chillon[301]. Feudi ecclesiastici possono riguardarsi i benefizj che la Chiesa concedeva come sovrana religiosa avente proprio diritto pubblico, giurisdizione, prerogative eminenti. E feudo è il giuspatronato, i cui diritti sono esercitati appunto in qualità feudale; ai fondatori di chiese o cappelle lasciavasi giurisdizione ecclesiastica, trasmissibile agli eredi, a norma delle investiture (fondiarie), all'estinzione dei quali, essa ritornava alla sovranità ecclesiastica. Le controversie decidevansi da questa: ma mentre i principi duravano sempre in lotta coi baroni, e talvolta soccombevano, le corti ecclesiastiche si mostravano moderatissime e generose sui diritti dei patroni; fin le scomuniche sospendevano, ma non ne toglievano il diritto. Del feudo ecclesiastico abbiamo esempj in grande nel Friuli, liberalmente concesso dagl'imperatori ai patriarchi d'Aquileja. La natura sua faceva che quivi la feudalità, invece di staccare dal centro, riunisse; il clero vi entrava non per abuso, ma per essenza; e gli elementi romani vi erano conservati per mezzo del parlamento, nel quale i pari giudicavano; e ne' casi feudali vi presiedeva il patriarca: Marquardo, uno d'essi, nel 1366 raccolse poi le consuetudini feudali, formandone quel che chiamò _Statuto della patria_. Eccetto il papa nessuno avea tanti possessi. Tra' feudi maggiori che da lui ritraevano era l'uffizio di coppiere, del quale talora furono investiti i duchi d'Austria e i re di Boemia: anzi questi ultimi avevano l'obbligo di riscattare il patriarca se mai cadesse prigioniero. Ereditaria aveano resa per forza l'avocazia i conti di Gorizia, e così il loro feudo i conti d'Ortemburgo. Questi feudi diceansi _nobili_, altri _retti_ o _legali_, divisi in liberi, ministeriali, d'abitanza. Dei liberi conferiva l'investitura il patriarca con una o più bandiere; de' ministeriali coll'anello; degli altri col lembo della sua veste. Fra i ministeriali erano camerieri i nobili di Cucagna, coppieri quei di Spilimbergo, confalonieri quei di Tricano, scalchi i signori di Prumbergo. All'anziano di casa di Ragona competeva una porzione di tutte le pietanze che si servissero al patriarca. I Bojani di Cividale[302] erano obbligati presentare al patriarca quando entrasse in città uno spadone col fodero bianco alla tedesca, e portarglielo davanti sino alle scale del palazzo. S'aggiungevano gastaldie, arimanie, avocazie, feudi militari, di sartoria, di bandiera, di arsenatico, insomma di qualunque ministero occorrer potesse al patriarca[303]. L'investito di un feudo militare, per povero che fosse, non era tenuto a prestazione o tributo fuor che al servizio in guerra; nelle feste del castello veniva socio ai piaceri del signore, pari alla sua Corte; combatteva a cavallo, mentre il resto del popolo a piedi e senz'armi difensive. Reso questo servizio, restava immune da imposte; e solo per occorrenze straordinarie i vassalli e il clero erano invitati a contribuire. I vassalli del medesimo signore, posti attorno a lui sullo stesso territorio, e investiti di feudi d'egual grado, si chiamavano pari; tutti dipendevano dal capo, ma non uno dall'altro; alla guerra, al consiglio, al giudizio si trovano uniti sotto al capo; in ogni altro caso ciascuno opera da sè, isolati, stranieri fra loro. In questa catena, dove ciascuno non tiene che all'immediato suo superiore, nessun potere rimane al re sovra il popolo. A Roma imperiale non s'aveva alcun intermedio fra il dominante e il popolo: qui al contrario il popolo non comunicò più col re se non per intermezzo de' baroni; i quali procedendo, ridussero il re a mero nome, potendo essi ignorare chi lo portasse, e recandogli anche guerra. Il re non era dunque supremo magistrato, esecutore della volontà d'un'assemblea sovrana; non il potere dirigente universale, non il capo d'una nazione per osteggiare chi da quella fosse dichiarato nemico: era soltanto il proprietario diretto dei feudi da lui conferiti, nè da padrone disponeva se non de' suoi vassalli immediati. Menar lunghe imprese non poteva, giacchè essendo i vassalli obbligati soltanto al servizio prefinito e sempre corto, allo spirare del termine levavano la propria bandiera, fosse o no compiuta l'impresa. Le assemblee legislative si ridussero a consigli del re, il quale v'invitava i baroni che gli piacessero, e aggiungerò, purchè volessero, giacchè gli mancava la forza di costringerli. Nelle urgenze comuni, i signori vicini s'accoglievano per concertarsi su quel che ciascuno eseguirebbe ne' proprj dominj e coi mezzi proprj; e il re era uno de' contraenti, ma senza autorità coercitiva. L'arte, che oggi si considera come la prima ne' governi, quella delle finanze, ignoravasi affatto. I beni della corona, il prodotto delle regalie e i possessi di famiglia bastavano al principe, pace durante: tanto più che le Corti si menavano assai più semplici, nè gli uffizj si pagavano, essendo accollati ai feudi. Veniva guerra? i vassalli erano tenuti a prestazioni determinate e impreteribili, e ciascuno manteneva i proprj uomini. Quei diritti, quelle ispezioni che, ogni giorno maggiori, si vanno accentrando al governo, allora non si conoscevano; uniche regalie erano la giurisdizione, i pedaggi, il batter moneta e scavare miniere: ma queste pure, una dietro l'altra, venivansi usurpando dai grandi vassalli, resi indipendenti dal re, cui eguagliavano e talvolta sorpassavano in forza; cavarono metalli ne' proprj tenimenti; posero dazj e pedaggi, talchè al limite d'ogni podere s'incontravano quelle barriere, che oggi pajono troppe anche al confine d'uno Stato. Quanto alla giurisdizione, dipendendo il vulgo non più dal principe ma da particolari signori, disusarono le istituzioni fatte a pro di tutti, e ciascun signore tenne corti e assise per le controversie fra' proprj dipendenti. Giudici non erano nè gli antichi uomini liberi, nè i consoli di poi, interessati al pubblico e disposti a sostenere l'esecuzione della sentenza o l'indennità dell'offensore che avesse _composto_; ma erano uffiziali del barone, sol per uso acconciandosi alle _consuetudini_. La legislazione cessa d'essere personale, e statuti ed usanze variano, non secondo le razze degli abitanti, ma a norma della natura del possesso e del grado di sua libertà. Che se ancora, massime in Italia, sono mentovate persone che vivono secondo questa o quella legge, vuolsi intendere de' gran signori e de' pochissimi arimanni conservatisi indipendenti; ma anche per essi il privilegio riducesi soltanto a certi modi di possesso e di procedura. Colla indipendenza individuale era scomparsa la reciproca garanzia fra cittadini; e vivendo ciascuno da sè senza legame cogli eguali, ma soltanto con superiori ed inferiori, nessuno aveva interesse ad impedire i delitti; lo perchè andarono scomparendo i giudizj per via di compurgatori. I vassalli dovevano essere giudicati da' loro pari, e il signore non faceva che proclamare il dettato di quelli. Nasceva poi contestazione fra vassallo e signore? se trattavasi di doveri feudali reciproci, era decisa dai pari; se cadeva sopra fatti d'altra natura, come un delitto del signore o danno recato ai beni allodiali del vassallo, la lite si potea recare al sovrano. Finchè la sentenza davasi nelle assemblee generali, nessuno avrebbe potuto rivederla, emanando dall'autorità sovrana. L'appello ripugna pure alle idee feudali che identificano il signore col vassallo; nè l'alto barone, irremovibile e disoggetto da sindacato regio, poteva esser ripreso d'un'ingiustizia, più che nol possa oggi un re da altro re. Chi alla corte signorile si trovasse gravato, poteva sfidare i giudici, che come pari suoi non godevano su lui veruna superiorità: ma questa mentita non era un appello, giacchè si dava prima della sentenza, nè chiamava a tribunale superiore. Stante però che la mentita obbligava a convocare altri pari, nè ciò era sempre fattibile, volta veniva che il signore si vedesse costretto a rimetter la lite al sovrano. Questo poi, allorchè comparisse nelle terre del suo vassallo, teneva assise, ma non poteva rivedere la sentenza, bensì la causa, e proferirne una nuova, perchè restava sospesa la giurisdizione del vassallo. Inoltre fra gli obblighi di questo era il rendere giustizia, e se la falsasse o negasse, poteva il signore intervenire per obbligarvelo; obbligarvelo cioè in quanto ne avesse la forza. Questi furono avviamenti per istituire un regolare appello, a imitazione del diritto ecclesiastico; grande passo ad instaurare la regia prerogativa. Dato il giudizio, come farlo eseguire, quando il condannato tornava nel suo castello, forte di mura e di scherani? Colla guerra; e il signore che l'avea proferito, e il querelante, od anche i giusdicenti raccoglievano gli uomini loro, e costringevano per forza ad obbedire. Nulla pertanto assicurava l'efficacia del giudizio; nè della rettitudine di quello era buona sicurtà il sistema de' pari, ignoranti del diritto, stranieri agl'interessi gli uni degli altri, e scelti a volontà del signore. Non ispirando dunque confidenza, si ricorreva più volentieri a spedienti meglio conformi a quel tenore di società; e i duelli e le guerre private ne venivano di conseguenza e quasi di necessità. Preziosissimo consideravasi questo, che tedescamente chiamavasi diritto del pugno, quanto oggi dai re il potere far guerra di nazione. La rappresaglia, per cui l'uomo d'un feudo, ricevuto torto da quel d'un altro, poteva trarne vendetta o rendere la pariglia sopra qual fosse altro consociato di quello, era riconosciuta come diritto. La consuetudine, la legge, la Chiesa adopravano a introdurre in questo alcuna regolarità e temperanza, volendo si intimassero le ostilità alcun tempo innanzi, si esperissero certi mezzi di conciliazione, infine si osservasse la tregua di Dio. Quando ogni proprietà fu divenuta feudo o sottofeudo, inamovibile ed ereditaria ogni magistratura, ciascun duca, conte, marchese od alto barone fu considerato come re della propria terra, i cui abitanti erano obbligati ad ogni ordine suo in pace e in guerra; mentre egli non pagava tributi, non era tenuto accettare la composizione per le offese, ma le vendicava colla guerra privata, ch'e' poteva menare anche contro il proprio caposignore. A noi, avvezzi a governi che traggono ogni impulso dall'alto, a leggi fisse, uniformi in tutto lo Stato, all'egualità dei cittadini sotto un capo, riesce difficile il formarci adeguato concetto d'una società, bizzarramente compaginata con tanti signori, quanti aveano forza e volontà di esserlo; con leggi che obbligavano solo chi non volesse o potesse resistere, e variate da uomo a uomo, da terra a terra. Non ci si imputi dunque di spendere troppe parole e di ripeterci per meglio indurne l'idea, senza di che la storia di que' tempi è libro chiuso. Tenevasi dunque l'Italia come divisa in tanti Stati indipendenti quanti v'erano feudi; sistemati nel modo più opportuno per respingere le nuove invasioni di fuori, e dentro sostenere il proprio diritto o la prepotenza, al modo che ancora usano i re: in quella guerra di tutti contro tutti, si moltiplicavano castelli e rôcche ove o proteggersi, o soperchiare il vicino. Pertanto in ogni nuovo castello che sorgesse, le chiese e il vicinato scorgevano una minaccia alla propria indipendenza, il re un attentato alla sua prerogativa; ma non si poteva opporvi che altre fortezze; e conventi e ville fortificavansi; sui campanili e sui battifredi una continua vedetta esplorava se mai un nemico s'avvicinasse; e poichè nemici erano sovente coloro che una mura stessa chiudeva, in mezzo alle città alzavansi fortificazioni, disponevansi catene, cancelli, serragli; il Coliseo a Roma, l'arco di Giano a Milano, l'anfiteatro a Verona, gli avanzi de' tempj e delle basiliche antiche, si convertivano in fortini; e i palazzi costruivansi in masse solide, protette da robuste ferriate, con fosse e ponti levatoj e balestriere. Più solitamente il feudatario sceglieva a stanza un'altura in mezzo a' suoi tenimenti, e così fabbricava uno di que' castelli, le cui rovine pittoresche ricordano tuttora la potenza solitaria e indipendente, l'importanza personale in una società sminuzzata, ove ogni signore era ridotto a quella legge di natura, che ancora si arrogano i dominanti. Tra le casipole, simile ad un ribaldo eretto in mezzo d'una turba servile, sorgevano questi edifizj massicci, con torri merlate rotonde o poligone. Da una men grossa, ma più elevata e aperta ai quattro venti la sentinella colla campana e col corno annunziava la punta del giorno, acciocchè i villani sorgessero al lavoro; o l'accostarsi de' nemici, affinchè gli armigeri si allestissero alla difesa; ed accadendo furto od ammazzamento, alzava un grido, che ogni uomo dovea ripetere di vicino in vicino, affinchè il reo non potesse ricoverarsi sul feudo limitrofo. Ajutavasi la natura coll'arte per renderne impraticabile l'accesso; e fossi e controfossi, e antemurali e antiporte e palizzate e barbacani e triboli seminati pel contorno, e saracinesche e ponti levatoj angusti e senza ripari, e caditoje sospese a catene, e porte sotterranee e trabocchetti, e tutto quel sistema d'insidie e di difesa, doveano atterrire chi divisasse un assalto o una sorpresa. Teschi di cinghiali e di lupi, od aquilotti confitti sulle imposte ferrate, nell'atrio corna di cervi e di capriuoli, indicavano i forzosi divertimenti dei signori. Procedendo, trovasi architettato ogni cosa non pel comodo o la leggiadria, ma per la gagliardia e la sicurezza. Armadure a tutta botta, lancioni, labarde, mazze ferrate pendevano fra gli stemmi rilevati negli ampj e mal riparati stanzoni, con camini sterminati, attorno a cui accogliersi la famiglia a giocar agli scacchi o a' dadi, ricamare, bevere, udir le novelle o la canzone accompagnata dal liuto e dalla mandòla. Là dentro era quanto occorresse al vitto e alla battaglia, dalla cucina alle prigioni, dal celliere alla cisterna, dal pollajo all'arsenale, dagli archivj alle scuderie; numerosissimi i servi; e amici, cavalieri, pellegrini, viandanti vi albergavano a piacere, e partivano carichi di doni. Perocchè all'uomo che trova uomini tutti i giorni, divengono indifferenti; all'isolato riesce un godimento la vista e il consorzio d'un uomo. Come l'aquila nel suo nido, vivea colà il feudatario, segregato da tutti che non fossero suoi dipendenti, nè modificando la restante società, nè da questa modificato. Al vulgo che gli sta attorno, nol lega parentele, non affetto; solingo colle moglie e coi figliuoli, austero, sospettoso, temuto ed ubbidito, qual alta idea non deve egli concepire di se stesso, potendo tutto, e potendolo per sola facoltà propria, senz'altri limiti interni od esterni che quelli della propria forza? Ancor fanciullo, dalla burbanza del padre e dalla sommessione dei servi apprese esser lecita ogni voglia al padrone; cresciuto fra servi tremanti e sprezzati, e cagnotti disposti ad ogni sua volontà; superiore alla tema e all'opinione, non conoscendo il vivere socievole, non contrariato mai, nè repressione temendo nè rimproveri, acquista carattere, non soltanto orgoglioso e fiero, ma stravagante, capriccioso, un'ostinazione nelle idee e negli usi repugnante da ogni progresso. Agli uffiziali, invece di soldo, concede il diritto di estorcere e soverchiare: nuova gradazione di tirannia, che fa sempre maggiore la distanza fra quei del castello e quelli della pianura; i quali concepiscono una riverenza ereditaria per codesto capo che tutto può, e che li salva da altri nemici; mentre, bersagliati da quel capriccio dell'individuo che pesa immediatamente sull'individuo, maledicono una potenza cui non osano resistere. Rinforzare viepiù il suo castello, il cavallo, l'armadura, è supremo studio del castellano; e fidato in questi, e trovandosi invulnerabile dalla ciurma che sotto i suoi colpi casca senza riparo, acquista un coraggio temerario e prepotente. Di lassù piomba talvolta a rapire la moglie e le figliuole del villano, non degnandosi di sedurle; a spogliare i viandanti e taglieggiarli. Ma poichè, anche in tempi tumultuosi, la battaglia e la preda non sono che eccezioni della vita, si trova sovente ozioso, e scarco di quelle regolari occupazioni che sole possono riempirla. Pubblici impegni più non v'ha; il giudicare i dipendenti è spiccio, perchè dispotico; semplice l'amministrazione, giacchè i campi sono coltivati da villani a tutto suo pro, da servi esercitata l'industria; le lettere erano abbandonate al monastero, regalato ad ora ad ora acciocchè orasse e studiasse. Doveva dunque il feudatario occupare altrove quell'attività che costituisce la vita, e quindi avventurarsi ad imprese, a caccie, a saccheggi, a pellegrinaggi, a tutto che il traesse da quell'ozio senza pace. Furono signori feudali che conquistarono Terrasanta; e per regolarsi colà fecero comporre le Assise di Gerusalemme, nelle quali può dirsi che la feudalità prendesse coscienza di sè, e riducesse a teoriche le sue inclinazioni. Quelle assise diressero lungo tempo i possessi veneziani d'oltre mare, onde come di cosa italiana noi ce ne valiamo per chiarire le condizioni d'allora. Nel tempo che decorre fra le leggi meramente penali delle genti rozze e le meramente civili delle educate, il legislatore crede obbligo suo l'imporre anche i doveri morali e prescriverne gli oggetti e i modi, quasi per dar polso ai sentimenti nella lotta colle passioni. Perciò in quel codice si trova ordinato che il vassallo non offenda nel corpo il signor suo, nè ad altri il permetta; non tenga cosa di lui senza consenso; non dia suggerimenti a danno o disonore di esso; non rechi onta nè alla moglie nè alla figlia sua: sibbene lo consigli lealmente qualvolta richiesto; entri per lui mallevadore se si trovi prigione o indebitato; il cavi di pericolo se lo veda alle prese col nemico: ove così adoperi, il signore abbia a difenderlo con ogni sua possa, se vuol fuggire la taccia di codardo. Oltre questi doveri morali, i vassalli erano tenuti a servizio, a fiducia, a giustizia ed a sussidj. Servizio esprimeva il militare a proprie spese sessanta o quaranta o venti giorni per l'omaggio ordinario, e tutta la campagna per l'omaggio ligio; solo, ovvero con un prefisso numero d'uomini; col giaco o no; entro il territorio feudale o in qual si fosse; per la difesa soltanto o anche per l'attacco, secondo i patti. Per la _fiducia_ doveva accompagnarsi al signor suo quando andasse a Corte e ai placiti, o convocasse i vassalli a consiglio o a render ragione. La _giustizia_ consisteva nel riconoscerne la giurisdizione, e non declinare dalla curia di esso. De' _sussidj_ in danaro alcuni erano spontanei, altri determinati, qualora il signore dovesse riscattarsi di prigionia, o maritasse la primogenita, o armasse cavaliere un figliuolo. Quei che avevano solo promesso un tributo o servizj di corpo, presto caddero in condizione di villani. Chi era affidato con obbligo di militare, fu considerato nobile: nè dapprima si sarebbe dato un feudo a chi nobile non fosse; ma poi si considerò tale ogni casa che ne possedesse uno da tre generazioni; nè in conseguenza poteva esercitare arti sordide, nè contrar matrimonj disuguali. Secondo il diritto lombardo, il valvassino non teneasi per nobile, nè la nobiltà passava alle figliuole. L'imperatore Lotario II in Italia proibì d'alienare feudi senza consenso del domino; altrettanto ordinò Federico II per la Sicilia. L'erede non diretto d'un vassallo doveva pagare al signore un canone prefisso onde succedere: uso nato forse allorchè i feudi consideravansi ancora riversibili, ed ogni nuovo investito faceva un libero donativo al signore diretto. Ad alcuni feudi era annesso il diritto di prendere il cavallo del caposignore quando passasse su quelli; ai confalonieri di Milano e d'altrove toccava la mula su cui il vescovo faceva l'entrata; a Firenze lo conducevano alla briglia i visdomini, poi il palafreno davasi alla badessa di San Pier Maggiore, il freno e la sella a quei Del Bianco, poi agli Strozzi, che a suon di trombe se li recavano a casa e li lasciavano esposti; a Pistoja tale privilegio spettava ai Cellesi, e il vescovo donava un anello alla badessa di San Pietro, ed essa a lui un ricco letto. Il vescovo di Faenza per pasqua di Natale doveva ai servi del conte di Romagna dodici pulcini di pasta colla loro chioccia, e carne cotta: se no, quelli poteano andare alla cucina di lui, e levarne quanto vi trovassero. Diritto di gran lucro era quello delle manimorte, per cui, morendo senza prole persone che, come servili, o medie fra la libertà e la servitù, erano prive del diritto di testare, il signore ne ereditava in tutto o in parte. A lui spettava pure la tutela de' vassalli minorenni, e l'offrire un marito alla ereditiera del feudo, od obbligarla a scegliere fra gli offerti: diritto ragionevole quando il marito diventava suo ligio o suo guerriero; ma la donna potea riscattarsene dando al signore tanto, quanto gli aspiranti aveangli esibito per ottenerla. Al feudatario cadevano pure le cose trovate; l'eredità di chi moriva intestato, o senza confessione, o di morte improvvisa, quasi questa portasse la sicura dannazion dell'estinto. Per l'albinaggio egli entrava erede dello straniero che morisse ne' suoi possessi, e occupava qualunque nave o persona fosse dal mare gittata sulle sue terre[304]. Privilegio supremamente apprezzato era la caccia, per la quale il feudatario, con tutta la sua corte, settimane intere viveva ne' boschi alla serena con clamorosa pompa. Talvolta faceansi venire delle fiere di lontano, e si affrontavano in recinti; e l'arcivescovo di Milano come gran distinzione permise a un duca di correr un cervo nel suo parco. Da qui (diritto inusato agli antichi) le caccie riservate, per cui il colono vedeva la selvaggina impunemente guastar le vendemmie e la messe, e guai a chi avesse osato minorare il divertimento del signore uccidendone alcuna! L'_uom di corpo_, oltre porzione de' frutti del suo campo, gli doveva _angarie_ cioè lavori forzati, e _perangarie_, cioè lavori con ricompensa per un prefisso numero di giornate, o le vetture pei trasporti occorrenti; non esporre sul mercato le proprie se non dopo smaltite le derrate del padrone, valersi delle misure di questo, adoprar le monete di lui, comunque scadenti; comprare da lui solo le derrate; valersi del mulino, del forno, del torchio del signore (_banalitas_) pagandone un canone. Nel 1117 gli abitanti di Agrilla sono obbligati a zappar le terre del barone, seminarle, dar un pajo di bovi ciascuno per dodici giorni, e ventiquattro giornate per la mietitura, e al tempo della vendemmia portar un cerchio per le botti, a Natale e Pasqua offrir due galline, oltre la decima dei porci e delle capre. Per la _mano baronale_, il signore poteva di propria autorità impedire che i debitori asportassero i frutti dalla loro campagna prima d'aver pagate le prestazioni, o depostone sufficiente quantità ne' magazzini di lui[305]. Facilmente tali irrefrenate giurisdizioni degeneravano in capricci e tirannie: e le concessioni che alcuni feudatarj assentirono più tardi ai loro dipendenti attestano fin a qual grado fosse giunta l'oppressura; giacchè uno permette d'insegnare a leggere ai figli; uno di vendere derrate ad altri che al padrone, o di spacciare in pubblico le guaste. Alcuni nell'atto dell'investitura doveano baciare i chiavistelli della casa, andar dondolone a modo di briachi, fare tre saltarelli e mandare un ignobile crepito: altri in un dato giorno portare un ovo, o una rapa, o un pane sopra un carro tirato da quattro paja di bovi, o presentare una pagliuzza. I pescivendoli che passavano pel feudo di San Remigio nel vescovado d'Aosta, doveano esibire la loro merce ai castellani, se no era trattenuta per tre giorni, il che equivaleva a distruggerla, o si tagliavano le cinghie dei loro cavalli. La famiglia Trivier di Ciamberì era tenuta dare un somiere del valore di trenta soldi grossi al conte di Savoja ogniqualvolta scendesse con armi in Lombardia. Jacopo Morelli di Susa dovea provvedere al sovrano un letto fornito qualora dormisse in essa città. Nel regno di Napoli ogni vassallo, nel rinnovare l'omaggio, pagava _jus tappeti_, quasi un prezzo del tappeto che gli si stendeva dinanzi. V'avea chi era costretto correre la quintana con lanci e di legno; o andare ogni anno una volta al feudatario, ma facendo due passi innanzi ed uno indietro; o versare un secchio d'acqua avanti alla sua porta, o una misura di miglio al pollame della bassa corte. Altri doveva soltanto un coniglio, ma coll'orecchio destro bianco e il sinistro nero; nol si trovava? dubitavasi fosse tinto, anzichè naturale? nasceva processo lunghissimo, moltiplicati giudizj e perizie, finchè l'animale morisse o il pelo gli cadesse. Perocchè non è a dire con quanta precisione si conservassero queste stigmate di servitù. Della promessa rogavasi istrumento con numerosi testimonj; poi se si falsassero d'un atomo il tempo o le condizioni della prestazione, cominciavasi un piato che talvolta spogliava del suo podere il mal preciso infeudato. E sino ai tempi nostri, massime sopra terre ecclesiastiche, furono mantenuti alcuni di questi obblighi, come di reggere la staffa al vescovo quando salisse a cavallo, o portargli innanzi il gonfalone nelle comparse, o la croce nelle processioni, od ulivi alla solennità delle palme, o annaffiare o sabbiare la via dove passava in processione. Onde attestare l'alto dominio de' papi sopra le due Sicilie, fin al cadere del secolo passato facevansi grandi solennità a Roma: uno di casa Colonna, che per quel giorno costituivasi gran connestabile del regno, a nome del re di Napoli presentava al pontefice una chinea, sul cui capo un calice con cedole del banco napoletano, le quali il papa prendeva: la piazza de' Santi Apostoli e la vicina di Venezia erano piene di popolo, di festa, di giuochi e luminare. Avevamo veduto l'imperio romano estendere la cittadinanza a segno che abbracciasse tutto il mondo, come a tutto il mondo estendeva l'autorità il capo di quello, per modo che in tale immensità non si aveva più patria. Ora invece ciascuna sovranità viene a limitarsi nella piccolezza del possesso; l'uomo non è più longobardo o franco o romano, non è tampoco italiano o milanese, ma della tal terra, del tal padrone. Insomma non ha ancora una patria, qual oggi l'intendiamo: il che vuolsi avvertir bene per non attribuire i sentimenti e le misure nostre a persone e fatti di tutt'altra tempra. Il sentimento individuale de' Germani, opposto all'onnipotenza dello Stato, aveva raggiunto il suo apogeo; baronia, masnada, chiostro, capitolo, università, paratici, tutto vivea di vita particolare e sconnessa; nazioni non vi erano, se queste consistono nell'accordo d'interessi, di sentimenti, di inclinazione quasi istintiva verso uno scopo. La sovranità del conte o del duca è meramente titolare; ancor più vana quella del re; ma vero sovrano è il feudatario: nessuno ha legame verso il principe o la nazione, ma guarda o conosce soltanto l'immediato suo superiore, a lui presta i servizj, da lui reclama protezione e giustizia, da lui solo accetta i comandi, però dentro la precisa misura delle convenute obbligazioni; è inamovibile dal terreno e dalla carica. L'unità imperiale era andata in dileguo, salvo pel poco che traeva dal carattere religioso; nè più aveano valore generale i decreti e la giurisdizione dell'imperatore; e nessun'altra ne rimaneva, se ne eccettuiamo quella della Chiesa, perchè non fondata sopra cose contingibili. Dai vicini, sudditi d'un altro, l'uomo comune non riceve giustizia se non perchè egli è cosa del suo signore; al qual signore ricadono gli onori e i vantaggi del suddito feudale; a lui la lode, a lui la vergogna, nè quello è uomo, se non in quanto è frazione di quel corpo che chiamasi il feudo. Per tal modo rimaneva in tutte le relazioni sociali surrogata l'idea di località e di territorio a quella di nazione e di personalità. Per gran tempo il gius feudale non fu scritto, esercitandosi per consuetudine, nè amando i signori di vederne esaminate le basi, finchè queste non si trovarono scosse dal principato a vicenda e dal popolo. Girardo e Oberto dell'Orto, giureconsulti milanesi, nel 1170 pubblicarono i primi libri sui feudi, dove fanno nascere quel sistema in Italia, ma ignorano le norme di esso in Francia e in Inghilterra, ove realmente ottenne il maggiore sviluppo. Ebbero grande autorità anche fuori, e moltissimi chiosatori, quali Bulgaro, Pileo, Ugolino, Vincenzo e Jacopo di Ardissone: Minucio de Pratoveteri dispose quelle leggi in nuovo modo per ordine di Sigismondo imperatore; altra forma vi diede Bartolomeo Barattieri piacentino, e la fece approvare da Filippo Visconti duca di Milano; il famoso Jacopo Cujaccio ne fece quindi un'edizione, distribuendole in cinque libri. Di là dell'Alpi le consuetudini lombarde divennero ragion comune de' feudi. Nel regno di Sicilia e Puglia il diritto feudale alla francese fu stabilito a guisa d'eccezione dai Normanni a favore dei Francesi che v'accorrevano a stipendio; e i feudi erano distinti secondo il diritto longobardo e il diritto Franco. Ne' feudi longobardi, com'erano principalmente quei di Benevento, succedevano tutti i maschi per porzioni; nei feudi Franchi, il solo primogenito. L'imperatore Federico in Sicilia autorizzò anche le femmine a succedere in mancanza dei maschi, preferendo la fanciulla alla maritata ne' feudi Franchi; e ne' longobardi alle maritate si mettesse in conto la dote che avevano ricevuta[306]. Ai re giovava meglio il feudo indivisibile, e perciò procurarono far prevalere lo _jus Francorum_. E, dove prima dove poi, questo sistema si piantò in tutta l'Europa germanica e tra gravi disordini portò pure qualche vantaggio alla società. Innanzi tutto era legge forte e ragionevole di reclutamento militare, ove a difendere il paese non erano obbligati tutti come adesso, ma soltanto quelli che lo possedevano; e si ebbe un esercito, quale invano desiderano i tempi moderni, armato per la difesa, incapace all'offesa, che nulla costava allo Stato, e che non sottraeva nè braccia alle arti, nè figliuoli e sposi agli affetti. Il feudalismo offriva poi la miglior combinazione allora possibile di sforzi materiali, l'autorità più opportuna per dirigere i lavori guerreschi, che allora erano i più importanti e i soli nobili. Al cadere de' Carolingi, quando la feudalità non era per anco rafferma, i guerrieri di paesi differenti o degli stessi non guardavano che il proprio individuo: ma poi duchi, conti, baroni, possessori indipendenti, uomini d'arme trovaronsi legati fra loro mediante servizj e protezione reciproca; immenso passo alla civile convivenza. L'indipendenza propria del Barbaro ne forma ancora il fondo, ma s'abitua a riconoscere certe obbligazioni morali e reali. Effetto di quell'indipendenza dissolutrice, da principio i feudi si sminuzzano, e ne nasce un'infinità di piccolissime signorie; ma dopo la metà del secolo XI le minori vanno ad impinguare le grandi, sia per eredità, sia per conquista, sia per volontaria sommessione del debole onde trovare sicurezza e giustizia migliore. Fonte dunque com'era di disordini, il feudalismo impediva arrivassero all'eccesso, frenandoli coi reciproci interessi: se favorì l'anarchia, preservò l'Europa dal furor delle conquiste e delle invasioni che da secoli la sommoveva, legando l'uomo e le generazioni al terreno da cui traevano il nome, il diritto. Viepiù vi si affezionava la nobiltà, che allora crebbe d'importanza, avendo modo di provarla col titolo del possesso da cui traeva nome. In tempo che le passioni dominavano senza freno, che nessuna forza aveano le leggi, nessuna santità le condizioni, le paci, i trattati, agevolmente un principe avrebbe potuto sedersi déspoto come ne' paesi orientali ove la podestà concentrasi in mano d'un solo, e spingere a ruinose guerre, a diffondere o ribadire la barbarie in altre contrade. Ma tutti quei baroni ora adombravano, ora emulavano la podestà regia; guerra non era possibile senza consenso di essi, che doveano somministrare gli uomini e le spese; e così sfrantumato il dominio, non furono più possibili le comuni imprese e le conquiste; e ancorato, vorrei dire, alla terra il vascello delle migrazioni, poterono costituirsi le nazioni. Ed è notevole come le divisioni territoriali allora portate dal feudalismo, siano ad un bel circa le medesime che in Italia durano ancora; e l'essere distinte per costumanze e per dialetti prova che s'attaccavano a qualche cosa di più sodo che non il capriccio d'un barone, o il caso d'un matrimonio. La popolazione che si era viziosamente accumulata in pochi centri fu dal feudalismo recata anche a luoghi ingrati e malsani; ed ogni cosa allontanava dalle città, sicchè si moltiplicarono villaggi, e si ricoltivò il suolo deserto. Ceppi così ristretti impedivano lo sviluppo della civiltà. Se v'era protetta la libertà individuale e respinta la forza esterna, nulla tendeva a costituire un governo stabile ed ordinato; non unità monarchica, non federazione, non sudditi e cittadini. Le relazioni di vassallaggio non dipendettero dal voto dei popoli e dai loro interessi; ma essendo il possesso del suolo indivisibile dal diritto delle persone, seguì la sorte di queste, e un'eredità o un matrimonio cambiava le relazioni più intime; alcune provincie davansi a stranieri per testamento o per dote, distraendole dal loro centro naturale; ed a prescrizioni arbitrarie era sagrificata la nazionalità. L'idea stessa di patria era estranea ad un sistema che legava, mediante un terreno, alla persona; nè incorreva infamia colui che portasse le armi contro la terra natìa. Ma la feudalità vuolsi considerare men tosto come un ordinamento, che come un tragitto dalla barbarie verso la civiltà. I membri di essa v'acquistavano il sentimento della personalità, svilito nei tempi romani; giacchè ciascuno assumeva obblighi precisi e conosciuti e per consentimento individuale, a differenza delle società moderne, ove uno nasce legato a patti che nè elesse nè conosce. Mancando un vincolo generale e un'autorità coattiva, tutto riposava sopra la fede promessa; donde quell'aspetto di lealtà negli atti d'una società, in cui la legge non interveniva alle reciproche convenzioni del vassallo col signore, le quali erano frante tosto che il signore avesse prevalenza, o forza il vassallo. Nessun nuovo peso poteva essere imposto al tenitore del feudo, se non lui consenziente; ove il signore violasse gli accordi, potevasi resistergli a mano armata, e, ne' casi estremi, disdire l'obbedienza e chiamarlo al giudizio del duello. Tanto si era lontani dalle idee del despotismo sovrano, tramandate da Roma antica. I vassalli tenevano d'occhio che il re non usurpasse altri poteri, come avrebbe fatto qualora non avesse avuto che ad opprimere il popolo; idearono limiti alle regie prerogative; e ne venne la rappresentanza signorile, che poi servì di modello alla popolare, e il diritto privato, la personale dignità, la devozione verso il signore, per sentimento, non per istupida sommessione come in Oriente. Ciascun feudatario avea ragioni, avea privilegi; quindi necessità di discuterli, difenderli, ripristinarli, ora con argomenti or colla forza; dal che le idee di diritto, dond'era facile il passaggio alle idee di libertà. Il feudatario, ridotto all'isolamento del suo castello, dovea vivere nella famiglia più che non costumasse ne' tempi antichi. Ivi non trovava suoi pari se non la moglie e i figliuoli; e per quanto brutali e feroci vizj il distraessero, dovevano assodarsi i sentimenti domestici. Il primogenito, destinato a succedere nel paterno dominio, era circondato dalle cure necessarie a ridurlo tale, che, secondo le idee d'allora, lusingasse il domestico orgoglio; la moglie rimaneva a rappresentare il marito mentr'egli usciva a guerre od avventure, e mantenere la difesa e l'onore del castello. Così rigeneravasi la famiglia, e nelle donne fecondavansi sentimenti piuttosto nuovi che rari nella società antica, coraggio, elevato pensare, dignità personale; donde quelle delicatezze d'affetti e di riguardi, che poi furono portati al colmo dalla cavalleria, la più splendida filiazione della feudalità. Nelle Corti poi de' signorotti educavansi i giovani a quei costumi che presero da ciò il nome di _cortesia_, come dalla città l'aveano in antico (_urbanità, civiltà, polizia_). E da quell'ordine di cose ci vennero il punto d'onore, che è il complesso delle convenienze al di là della precisa giustizia, per le quali si acquista reputazione d'uomo compito; la scrupolosa fedeltà alla data parola; l'annobilimento della gloria militare e della lealtà. CAPITOLO LXXV. Il Basso Popolo. Nella Roma imperiale, la storia non ci presentava più che un sovrano: vennero i Barbari, ed essa non parlò che de' vincitori e delle guerre dei loro re: sottentrano i feudi, e cessata ogni centralità, ciascun castello diviene teatro di avvenimenti distinti. Ora s'insinua un nuovo elemento, il popolo. Questo fin oggi conservò del feudalismo un concetto odioso, che sfoga in tante storielle di demonj che rapiscono i castellani, di spettri di signorotti lamentosamente vagolanti attorno ai ricoveri delle libidini e prepotenze loro: vendetta popolare, che alla postuma giustizia si appella quando quaggiù gli è negata. E per verità, fra nobili sempre in arme, cinti da armata clientela, non frenati da verun superiore, non rispettosi ad alcun inferiore, quando i giudizj si risolveano per duelli, e le leggi non provvedevano che alle persone di chierica e di spada, il vulgo pendeva dal solo capriccio dei feudatarj; su di esso ricadevano le guerre; i nemici, cioè i vicini, facendo correrie, devastavano il campo di cui esso viveva, o ne molestavano la famiglia; ai cenni o agli occorrenti del padrone bisognava cedesse la roba, i carri, i bovi, la casa, che più? la donna; chiamato in battaglia, trovavasi nudo a fronte di quegli armigeri coperti di ferro, e predestinato a soccombere agli spadoni irreparabili di gente senza misericordia; fin il lepre e il cerbiatto, la cui caccia era riservata ai signori, divenivano un flagello pel villano, costretto a lasciar che sperperassero impunemente i frutti sudati. Eppure quest'infima condizione era un miglioramento dalla orribile che li sopraffannava durante la romana civiltà. Al tempo dell'invasione, comune era la condizione del colonato, cioè delle persone attaccate al terreno, ma libere del resto; e queste si trovarono maggiormente esposte alle prime violenze, poi all'anarchia che ne seguì, di modo che perirono o caddero in istato servile. Ma gli schiavi, ch'erano tanti e così abjetti, ne trassero notevole miglioramento. Dediti ai servizj d'un padrone o affissi alla gleba, ne' tempi romani non aveano alcuno schermo contro l'oppressione; non poteano stringere contratti, non stare in giudizio, non testare; se fuggissero, venivano ridomandati, come una proprietà, e come tali si vendeano, cambiavano, distruggevano. Conculcare a tal modo la persona umana era egli più possibile dopo che il cristianesimo aveva impresso a ciascuno il suggello dell'eguaglianza e l'obbligo della moralità? Pure le grandi e radicate iniquità non si tolgono con rimedj estemporanei, e il proclamare l'immediata emancipazione avrebbe sovvertito quel che si denomina ordine sociale, e che, fra molti sconci, presenta sempre qualche compenso; avrebbe eccitato una subitanea insurrezione, ove trucidati i padroni, resi infelici i servi, i quali, ignorando la dignità propria e i vantaggi della libertà, men tristamente sopportavano la condizione in cui erano nati e cresciuti. Tant'è ciò vero, che Libanio dipingeva la condizione dello schiavo come meno sciagurata che quella di alcuni liberi, potendo esso dormire tutti i suoi sonni, fornito dal padrone di quanto gli occorre alla vita; mentre il libero, neppur vegliando tutta notte poteva assicurarsi dalla fame[307]: e il Codice Giustinianeo col vietare ai servi di ricusar l'affrancazione[308] indica che allora, come oggi nell'Europa settentrionale, essi temevano la sparecchiata libertà. Intanto moltissimi schiavi erano periti nelle prime irruzioni, mentre il cessare delle conquiste non ne portava più di nuovi. Quei che rimanevano erano poveri e soffrenti, e per conseguenza prediletti della Chiesa; la quale, col nome di cristiani, avea dato loro la personalità, i diritti naturali, la morale responsabilità, una famiglia. Così la schiavitù non era più uno stato di persona, ma un vincolo di soggezione; e sebbene rimanessero gente d'una terra o d'un padrone, chi non vede quanto gli schiavi fossero progrediti? Spedali e ricoveri aperse la Chiesa anche per essi[309]; la proibizione dei giuochi gladiatorj levò uno degli incentivi ad educarne per sagrificarli; ai padri fu tolto l'atroce diritto di esporre i proprj figliuoli, e gli esposti la religione accoglieva negli orfanotrofj. Le catastrofi che precipitarono i grandi nell'ultima miseria, dissipavano il superbo pregiudizio d'una naturale superiorità; e il libero Romano divenuto schiavo del Germano, protestava egli stesso contro l'ineguaglianza di natura; mentre il Germano apprendeva a rispettare quel servo, che lo superava in cognizioni. Alle società povere e meno fastose non facea mestieri di quell'interminabile corredo di servi; i quali poi (_ministeriales_) nella ristretta famiglia avvicinandosi al padrone, trovarono maggiori occasioni di acquistarne la benevolenza e i favori. Lo spirito d'associazione proprio delle genti germaniche, nato dal sentimento dell'utilità che uno può procurarsi per mezzo degli altri, e temperato dalla coscienza dei diritti personali, recò a valersi dell'uomo come braccio libero, mediante una retribuzione. Quando poi crebbero d'importanza l'industria e il lavoro, si potea lasciare nel vilipendio coloro che ne erano la fonte? Sminuzzati feudalmente il territorio e la sovranità, chi stesse male in un luogo fuggiva nel vicino più non v'avendo legge generale che colpisse il disertore; talchè il padrone per interesse guardavasi di spingere lo schiavo alla disperazione. Le leggi barbare punivano alcuni delitti colla schiavitù; altri con multe, la cui gravezza traeva qualche libero a spropriarsi e ridursi servo. E i servi apparivano nei contratti come appendice o scorta del podere: il padrone riscoteva la composizione, determinata dalla legge per ferite e ingiurie recate ai servi, giacchè quella essendo prezzo della pace, non potea concernere il servo, privo del diritto delle armi. Di rimpatto il padrone stava pagatore dei danni causati dal suo servo, come gli animali. Veramente la legge longobarda del tempo di Rotari mostrasi fiera coi servi quanto la romana, paragonandoli a cose mobili[310]: ma presto si tolse al padrone l'arbitrio sulla vita di quelli; vennero determinati i casi, in cui questo era obbligato ad emanciparli; fu data azione ad essi contro il padrone che gli offendesse, e aperto sempre il rifugio delle chiese. Il servo, battuto dal padrone per avere portato richiamo contro di lui, rimane franco. Se ad un servo rifuggito in chiesa il padrone promette sicurtà, poi non attiene, è multato in soldi quaranta. Se il padrone disposto a dar la libertà venga a morte, Astolfo vuole[311] che lo schiavo rimanga libero, senza pur pagare il launechildo o compenso, «massima lode a noi sembrando se dalla servitù traggansi gli schiavi a libertà, perchè il Redentor nostro degnò farsi servo per dare a noi libertà». Che i servi abbondassero in Italia, lo attestano le tante leggi che li concernono, e in cui vengono distinti i romani dai nazionali (_gentiles_). Ma poichè trovavasi più comodo ed utile il lavoro volontario, concedevansi ad essi talvolta terreni a livello, sull'esempio delle chiese, crescendo così la classe dei massari o degli _aldizj_. Questi erano superiori agli schiavi, pure soggetti a padrone; poteano possedere terreni e schiavi, non però in assoluta proprietà; nè vendere o comprare senza ottenere licenza dal padrone e pagargli il laudemio. Somigliano dunque ai coloni dei Romani, se non che possono dal padrone esser venduti anche separatamente dalla gleba. Di fatto l'affissione alla gleba era suggerita dalla scarsità di popolazione: cresciuta questa ed abolita la capitazione, più non v'era interesse di legare la libertà, giacchè ad un individuo sottentrava un altro[312]. Rotari ammette due sorta di manomissione: la prima quando uno è dichiarato _amundo_, cioè fuori d'ogni tutela del padrone; l'altra quand'è _fulfreal_[313], cioè disobbligato soltanto da servizj di corpo: il primo andava sciolto affatto, l'altro restava obbligato verso il padrone come verso fratelli e parenti, talchè quello ne diventava erede. Fu uso antico de' Germani, e più de' Longobardi, l'affrancare molti servi in congiuntura di guerra. Essendo le armi segno di libertà, dai Longobardi anticamente manomettevasi lo schiavo col consegnargli una freccia, e susurrargli alcune parole patrie all'orecchio[314]. Rotari introdusse la formalità romana di rimettere l'amundo ad un'altra persona, che lo conducesse sopra un crocicchio, e dicessegli: — Va per la via che vuoi»[315]. Per _impans_ liberavasi uno quando tale era o supponeasi la volontà del re[316]. Ai tempi di Liutprando bastò l'affrancazione davanti all'altare per render uno interamente cittadino longobardo[317]. Altre volte non faceasi che alleggerire la servitù rendendolo aldio, al che non occorreva se non la scritta. Niuna legge tornava schiavo il liberto ingrato; ma per ovviarvi, Astolfo permise che il patrono potesse, vita durante, riservarsi i servigi del liberto[318]. Il traffico di schiavi non era ignoto ai Longobardi quando entrarono in Italia: ma il venderli a stranieri consideravasi pena non meno grave che la capitale[319], e non si facea che con prigionieri di guerra. Pure l'ingordigia anche in altre parti d'Italia seguiva questo orribile lucro: Gregorio Magno vide sul Foro romano mercatarsi schiavi britanni; i Veneziani coi Saracini della costa di Barberia faceano gran traffico di schiavi d'ambi i sessi, e massime di giovani eunuchi; dai paesi slavi e tedeschi, e anche dall'Italia, conduceansi convogli di prigionieri di guerra e altri schiavi a Venezia; i Longobardi rapivano anche bambini di liberi per venderli colà, il che da Liutprando è parificato all'assassinio[320]. Raccontasi a lodo di papa Zacaria che, avendo i Veneziani comprato sul territorio branchi di schiavi da spedire in Africa, esso ne pagò il prezzo e li rese in libertà. Nel 783 in Ravenna due personaggi d'alta giurisdizione, oltre abusar della loro posizione per spogliare vedove ed orfani, li vendevano ad Infedeli[321]. Dagli Ebrei era pure esercitato questo commercio; e le popolari leggende sul loro uccider i bambini forse vengono da questo rapirli e farli eunuchi. Carlo Magno combattè tali abusi; e Arigiso, principe di Benevento, promulgò punirebbe colla massima severità il rapir gli uomini e il venderli agli Infedeli; Sicardo rinnovò lo stesso divieto, ma solo a riguardo de' Longobardi liberi: però l'effetto delle leggi riuscì sempre scarso[322]. Le conquiste antiche stabilivano profonde distinzioni di classi, che il tempo, le rivoluzioni, la superiorità numerica de' vinti non riuscivano a cancellare. Nel feudalismo invece le distinzioni erano temperate dalla natura medesima di esso, cioè dal trovarsi dispersi i vincitori fra i vinti, e ravvicinati continuamente dal vivere comune, dai possessi, dal bisogno di difendersi in una società tempestosa. I più degli schiavi viveano sui liberi allodj de' prischi padroni o degli arimanni. Or questi vennero in gran decadimento quando il regio potere si trovò soverchiamente debole per difenderli dalle vessazioni de' vicini, talchè essi metteansi in dipendenza di qualche signore. Talvolta ancora non potendo soddisfare all'eribanno o alle gravi multe dei delitti, erano privati del fondo, che conferivasi poi in feudo ad un ricco; sicchè a quel tempo dileguano gli allodj. Unita la sovranità colla proprietà, i coloni dipendettero dai possessori anche nelle materie politiche, rimasero senz'altro superiore che il feudatario, e quindi esposti ai superbi arbitrj di esso, dimentico che agli oppressi rimane una terribile potenza, quella del numero. E spesso a questa ricorsero i campagnuoli, e i ricordi son pieni di sollevazioni, ove gli è vero che, disuniti e sregolati, soccombevano alla forza compatta ed esercitata, ma pure aveano fatto sentire il grido della libertà e discorso di diritti; parola di formidabile efficacia. Nel bollore dell'unione o nell'oppressura della sconfitta, i coloni s'avvicinavano ai servi, invigorendosi col numero, sebbene rimanessero distinti perchè non poteano essere venduti a capriccio del signore, e restavano donni di sè qualora avessero pagato il convenuto. Nelle prepotenze allora correnti, molti per fame vendeano la libertà; molti offerivansi alla Chiesa perchè li proteggesse; altri divenivano schiavi per impotenza a pagare il dovuto. Questi, nello sminuzzamento della sovranità, si trovarono ravvicinati al padrone, il quale contrasse con loro i legami della domesticità, guardò come prosperamento proprio quel delle genti affisse alla sua gleba, perendo le quali, deteriorava il valore del feudo, e riducevasi in condizione inferiore ai vicini competitori. Un servo era maltrattato? non avea che a varcar la siepe o il fossato del podere, per trovarsi su terre d'un nemico del suo signore, che volentieri l'accoglieva, che forse l'aveva istigato con promesse, e vel manteneva con concessioni. A mezzo il secolo XII tutti i coloni abbandonarono Montecassino, sicchè l'abate dovè cercarne altri con larghe condizioni[323]: i villani dei signori di Chiaramonte in Sicilia respinsero colle armi l'oppressione eccessiva: così gli abitanti di Avola si ribellarono al barone Federico d'Aragona, e a furia l'uccisero con cinque suoi partigiani, e il re perdonò loro, attesa l'immanità dell'oppressione; il qual re prevenne un egual colpo a Francavilla, abolendo egli stesso i dazj imposti dal barone Arrigo Rosso[324]. Durando la servitù della gleba, non potevano prosperare i campi, atteso che il coltivatore fosse costretto occupar pel padrone molte giornate, e nelle stagioni che maggiore bisogno n'aveva egli stesso[325]; sicchè, mentre andava a segare il grano del signore, periva il suo. Nè sugli amplissimi possessi poteva il padrone tenerlo d'occhio, e tanto meno pretendere fossero lavorati assiduamente da quelli che nessun vantaggio ne traevano. Pertanto si sottinfeudavano; poi ogni cosa maggiormente vestendo aspetto feudale, anche i minori vassalli vollero avere dipendenti, sicchè della loro tenuta davano varj appezzamenti a persone anche infime, obbligate a servirli del corpo e dell'armi; e chiamavansi _masnadieri_, e _masnada_ la loro unione. Amavano dunque i padroni cedere terreni al lavoratore stesso, riservandosi una rendita perpetua e il diritto a certi servigi o alla capitazione; talvolta ancora glieli rilasciavano per bisogno di danaro; e già nel secolo X i contratti non riguardavano più soltanto le terre, ma prestazioni e lavoro d'uomini. Cresceano dunque i possessori, e questi aveano stipulato condizioni inalterabili, e il signore ne abbisognava per servigi proprj e per menarli alle guerre particolari: tutti passi, non solo per acquistare esistenza propria, ma per fare tragitto dalla gente dominata alla dominatrice. In prima, col morire del vassallo, le sottinfeudazioni di lui ricadevano al nuovo investito, talchè precario consideravasi il possesso, nè quindi si provvedeva a migliorarlo. Inoltre il vassallo, emancipando un servo o un condizionato, avrebbe deteriorato il campo cui questi era affisso, onde nol potea senza consenso dell'alto signore. Quando però i feudi si costituirono ereditarj, ciascuno pensò ridurre a meglio i beni che dovea tramandare alla propria discendenza; in luogo di capanne si fecero case; e queste crebbero in villaggi, a piè del castello, o attorno alla badia. E l'interesse e la vanità inducevano i signori a cercare che questi villaggi prosperassero; onde con privilegi o collo scemar l'oppressione vi allettavano avveniticci dalla campagna. Quivi essi trovavano da esercitare qualche arte o mestiero, col che acquistare un peculio, e la certezza d'aver di che vivere altrove lavorando, se male qui si trovassero[326]. Rosario De Gregorio reca diverse _Carte di memorie_ o _precetti_, cioè contratti tra feudatario e vassalli, che, per quanto onerosi, segnavano però un limite ai servigi. In due del 1133, Ambrogio, abate del monastero di Lipari, cui era stato concesso Patti, raccolti in questa città molti uomini di _linguaggio latino_, cioè Siculi, Lombardi e Normanni, a distinzione degli Arabi, conveniva con essi, che possedessero come proprio quanto il monastero lor concederebbe, potendo anche lasciarlo agli eredi, purchè abitanti in Patti; se alcuno volesse partirsene, lo rassegnasse al monastero, ritenendo per suoi i miglioramenti fattivi: dopo tre anni ciascuno potesse vendere la eredità a qualunque altro abitante, avvisatone però l'abate, e preferitolo a pari prezzo; caso che nemici irrompessero sopra Lipari, i Pratesi andrebbero a difendere i dominj del monastero, a spesa dell'abate stesso. Giovanni, successore di Ambrogio, modificava alquanto tali condizioni, volendo che, in tutte le isole di Lipari soggette al monastero, nessuno possedesse con diritto perpetuo ed ereditario, ma solo a tempo, e purchè servisse fedelmente; chi partiva, non potesse pegnorare nè vendere o lasciar ai figli il suo appezzamento, che ricadeva alla Chiesa. Nel 1117 quei del villaggio di Agrilla si obbligano al barone di zappare i suoi terreni; e nel tempo della seminagione metter ognuno un par di bovi a servizio di lui per dodici giorni, e alla messe ventiquattro giornate di lavoro; e in tempo di vendemmia portar ciascuno un cerchio per le botti; oltre pagar la decima delle capre e dei porci, e a Natale e Pasqua offrir due galline o qualche cacciagione. Le giornate erano talvolta assai di più; e quell'anno stesso, il suddetto abate Ambrogio determinava che la popolazione di Librizzi potesse lavorare per sè e pei figliuoli tre settimane il mese e una pel monastero; il che sembrò tal favore, che quei villani si obbligarono per sopraggiunta ad altre quaranta giornate coi bovi in tempo della seminagione, una alla mietitura, tre alla vendemmia[327]. Allo spirito d'associazione fu attribuita primaria parte nell'emancipazione delle plebi. Non appena queste trapelano dalla storia, troviamo unioni dei membri della stessa famiglia sotto un solo tetto, sopra un medesimo podere, per accomunar la fatica e i profitti. Questo corpo morale compatto non discioglieasi per morte: aveano un capo (_capoccio, regidore_, ecc.), cui spettavano gli atti d'amministrazione interna, compre, vendite, prestiti, affitti; mettevano in comune il proprio lavoro, ma ciascuno riserbavasi certi lucri, come gli apparteneano certe spese, per esempio il dotar le figliuole. Specie di società patriarcale, che dalla partecipazione del pane diceasi _compagnia_; e qualora dovessero separarsi, il capocasa tagliava un gran pane in varj pezzi. Questo spirito di famiglia doveva riuscire di gran sollievo alle manimorte, che a questo modo sottraevansi all'obbligo, che le proprietà del morto ricadessero al signore, obbligo rigoroso ne' primi tempi dei feudi: mentre al signore che non acquistava nulla alla morte del suo villano, poco importava se questo disponesse dell'aver suo a favore dell'uno o dell'altro. Di tal passo l'uomo di manomorta acquistava i preziosi diritti di possedere e di testare. In quello sminuzzamento delle terre, ciascuno dovea procurare di trarne il massimo profitto; e i villani lavoravano più volentieri un fondo al quale erano assolutamente attaccati; sicchè la prosperità del tenimento e del signore tornava in utile de' villani stessi. Il signore poi dovea più volentieri voler avere a fare con una compagnia che con un uomo solo; evitando le complicazioni, la confusione, i pericoli di diserzioni. Queste compagnie costituivansi talora anche da non villani, e fra artieri. Quando i parenti fossero convissuti un anno e un giorno sotto lo stesso tetto e colla stessa borsa, reputavansi accomunati tacitamente mobili e benefizj; eccetto quelli di preti o nobili, cui il traffico sconveniva. Di queste ricorrono frequenti esempj in Italia, dove invece son rare quelle tra villani. Così per lo spirito d'associazione, che i Germani già possedevano nelle loro selve, e che il cristianesimo favorì consacrandolo, la famiglia diveniva più solida in tutte le classi: ogni consuetudine, ogni legge tendeva a rendere stabile di generazione in generazione il patrimonio, i sentimenti, le affezioni; poteasi mirare ad interessi più estesi. Il clero, affine di ridurre in atto le dottrine che professava, prese a cuore la povera plebe, di cui avea mangiato il pane e diviso gli stenti, e tra cui teneva ancora i padri, i fratelli. Cominciò dall'aprire le sue file agli schiavi, che entrando sacerdoti, divenivano eguali al padrone per classe, superiori per carattere: nella regola di san Benedetto era espresso che il servo non fosse per nulla distinto dal libero. A questa via spedita d'emancipazione affollavasi gente inetta o indegna; i signori faceano ordinar prete qualche loro servo per godersene i benefizj: talchè parve prudente il restringerla. La Chiesa apriva asili al servo perseguitato[328], e riceveva per suoi quelli che, oppressi dai padroni, reputavano parte di libertà il portar catene scelte da sè, o quelli cui la libertà non faceva che esporre al pericolo di morir di fame. Di questi servi deditizj od _oblati_ alle chiese, alcuni metteano persona e beni in protezione di esse, obbligandosi a difenderne i privilegi e le proprietà contro gli aggressori: vassalli anzichè servi: altri obbligavansi d'una tassa o censo annuo (_censuales_): altri infine rinunziavano del tutto alla libertà, veri schiavi (_ministeriales_)[329]. La Chiesa, spoglia di avidità personale, meno esigeva dai famuli suoi; e per l'ordine costante che essa pone in tutti i suoi possessi, determinava l'appunto del lavoro che essi doveano; donde crebbe l'affluenza agli altari. Accettando poi la parte di terre e servi, assegnatagli come ad un ordine eminente dello Stato, il clero si applicò ad elevarne gradi a gradi la condizione. Cominciò a sanare terreni, imbonendo paludi e foreste; poi ne concedeva porzione ai villani per più o men tempo, per una generazione o tre o più, con cui si mantenessero pagando un canone annuale (_mansum_). Questi livelli o enfiteusi[330] segnano il vero passaggio dalla schiavitù alla proprietà traverso al servaggio, disponendo la rivoluzione che nel XII secolo si compì quando cambiaronsi le enfiteusi in fitto temporario, e il livellario in fittajuolo com'oggi è. Adunato un peculio potevano i servi riscattarsi; e per tali passi rintegravansi la famiglia, la proprietà, l'industria, la libertà anche tra essi. Ottone I si accorse che i signori prendeano a livello le terre degli ecclesiastici, dappoi non pagavano il censo, e finivano coll'appropriarsele come allodj. Pertanto nel largire beni a chiese vi ponea patto non li allivellassero se non a coloni, i quali in persona li coltivassero e retribuissero i frutti. Fu un altro avviamento al sistema di mezzadria odierno[331]. Alle forme dell'antica manomessione erasi aggiunta la ecclesiastica, come atto religioso, conducendo l'affrancando attorno all'altare con un torchio acceso, e leggendogli preci e formole che il dichiaravano franco. E l'emancipazione era le più volte suggerita da sentimento religioso, onde vedonsi addotti per motivo i meriti della redenzione, l'amor di Dio, il rimedio dell'anima propria, la speranza d'impetrare grazie celesti. Altri lo faceano al letto di morte quando lo spirito è più disposto a' sentimenti di pietà e d'umanità[332]. Colle carte di franchezza il padrone rinunziava al diritto di vendere, cedere, o fare altrimenti della persona del suo schiavo; gli dava arbitrio di disporre degli averi suoi per testamento o per altro atto legale, e di sposare chi volesse; e determinava la tassa o i servizj che si riservava[333]. Ma molti arrivavano alla libertà senza mezzi di sussistenza; altri erano manomessi dai padroni quando non più capaci di lavoro, sicchè rimanevano mendichi e sulla via. Per essi la Chiesa moltiplicò istituzioni di carità[334]; e ben ella bastava a mantenerle, perchè primo il clero avendo applicato l'intelligenza e il lavoro a far fruttare gl'immensi possessi, n'era venuto in ricchezza. I pontefici poi presero sempre a cuore gli schiavi, più volte esclamarono contro chi ne facea traffico, e colle entrate della Chiesa ricomprarono alcuni dagl'infedeli o da mercanti. Già Gregorio Magno nell'emancipare due schiavi proclamava la natural libertà degli uomini dicendo: — Come il Redentor nostro si compiacque vestir forme umane per frangere i nostri legami e restituirci alla primitiva libertà, così è conveniente e salutare che quelli che da natura furono creati liberi, e che in forza di umane leggi soggiacquero a servitù, siano colla manomessione restituiti alla libertà»[335]. Alessandro III nel concilio Lateranese dichiarò i Cristiani franchi da schiavitù. Alessandro IV in una bolla del 1258 diceva: — Giacchè gli uomini, eguali per natura, sono resi schiavi dalla schiavitù del peccato, sembra giusto che quelli, i quali abusano del potere concesso da Colui da cui deriva ogni podestà, siano privati d'ogni potere sui servi. Perchè dunque ad Ezelino ed Alberico, scomunicati da noi, possa venire alcun danno dall'averci disobbedito, dichiariamo con autorità apostolica liberi i servi e le serve, coi figli ed i nipoti loro, che si sottraggano all'obbedienza di quei due, in modo che possano tenere peculio proprio, godere la libertà, come fossero nati liberi cristiani». È probabile che simili atti si replicassero verso coloro che reluttavano all'autorità suprema. Da un pezzo erano cadute in disuso le leggi che a certe colpe infliggevano la servitù; e i nuovi schiavi che qui e là trovansi ancora nominati, erano gente non battezzata, attesochè, secondo le idee d'allora, l'uomo non cristiano rimaneva inferiore, come schiavo del demonio. Spesso le chiese cercavano privilegi pei loro villani, acciocchè questi comparissero superiori agli altri; e i re gli assentivano volentieri, perchè, senza scapitare di nulla, venivano a far atto di qualche autorità anche fuori dei proprj dominj. Procedendo i tempi, troviamo ai coltivatori imposto il terratico, cioè una quarta parte del ricolto; l'acquatico, cioè il ventesimo o trentesimo della canapa o del lino venuto alla falce, pel padrone del maceratojo; il glandatico per menar i porci a pascolare ne' rovereti, dando un porcellino da latte ogni dieci, un grosso majale ogni quindici; l'erbatico pei pascoli, portante un decimo dell'armento; il plateatico pel mercato, a cui s'aggiungeano i bolli delle misure. Alle grandi feste si presentava un dono di pelli, ova, ricotte, frutta secca. Dove la caccia e la pesca si permettessero, doveasi una parte della preda; la testa e una spalla del cinghiale, testa, pelle e zampe dell'orso, i pesci migliori[336]; un donativo al signore nuovo, pagare i viaggi suoi alla Corte o al placito, servirlo militarmente per tre giorni o più entro un limite determinato, retribuirgli servizj personali e di bestie. Al signore spettavano pure i molini, i torchj, gli edifizj sopra acqua, pei quali doveasegli un canone. E tutti questi diritti erano certamente anteriori, perchè nelle controversie si fa sempre riporto alle consuetudini e alle testimonianze: ma la riscossa, che vedremo nel secolo seguente, consistette in ciò che tali pesi non appartenevano più alle persone ma ai beni, sicchè questi si poteano vendere. Il generale miglioramento appariva dal modo onde i baroni trattavano i campagnuoli. Quando questi venissero a recar latte e frutti al mercato, non trovavansi più chiuse in faccia le porte del castello; l'intera giornata potevano trasportare i covoni o il fieno; punito chi rubasse al colono i grani o i frutti o la stiva; chi lasciasse capre o porci correre le sue vigne; chi non avesse a mezzo marzo rifatte le siepi, nettati i canali; chi menasse la caccia presso alle vendemmie o al ricolto: istituite guardie campestri; vietato al fittajuolo di portar via i pali; agevolata la permuta delle eredità onde prevenire il soverchio sminuzzamento; talora proibito alla giustizia di pignorare gli attrezzi e gli animali dell'agricoltura, o l'abito del giorno da lavoro. Queste attenzioni, ignote alle leggi antiche, danno segno di notevole progresso. Nel 1068 i conti di Calusco, nel Bergamasco, per allettar gente, promettono con carta regolare a chi venisse abitare sulle loro terre, di non torgli il bestiame nè per giudizio nè senza; non obbligarlo ad alloggiar soldati, se non nel caso di guerra in cui si deva menare più che i vassalli; non a dare il fodro, cioè i viveri militari, se non quando sia imposto dal pubblico; non viveri e vino, se non quando i signori vengano o facciano nozze: garantiscono da ferite e altre offese nel territorio; in caso di guerra tra la famiglia dei Calusco, questi non vi faranno guasto, ma gli abitanti non parteggeranno con nessuno, nè impediranno ad alcuno dei guerreggianti d'andare o venire[337]. E quei patti, o scritti o di consuetudine, poteano farsi valere davanti a tribunali, o compromettersene l'elucidazione in arbitri, del che molti esempj ricorrono negli archivj[338]. Nelle città d'altro passo camminava l'emancipazione. Molti uomini liberi vi erano rimasti; ed applicatisi a qualche mestiero, non erano caduti nella necessità di darsi servi[339]. Della gente romana alcuni come censuali v'erano sopravvissuti, alquanto meglio trattati dai vincitori, perchè riducendo uno a perire o a fuggire, mandavano in dileguo il possesso, consistente nei servigi che poteva rendere o col suo corpo, o colle arti, o in uffizj letterarj, o in tributo. Taluni di questi eransi per benevolenza o a prezzo redenti dal censo o dalle comandigie, rimanendo liberi di sè; altri per povertà o debolezza s'erano piegati a condizione servile. Gli emancipati, quando crebbero alla campagna, non bastando l'agricoltura al loro sostentamento, venivano alla città per travagliarsi in mestieri e liberi servigi. L'aumento del commercio e dell'industria li favoriva, e il vedere in questo tempo stabilirsi corporazioni e maestranze di quei mestieri che prima s'affidavano a schiavi, convince che sempre più perdevasi la servitù personale, benchè non s'arrivasse ancora al concetto d'una città, ove il lavoro fosse tutto abbandonato a liberi. Così alle due nazioni che sussistevano nel feudalismo, possessori e non possessori, frammettevasi una terza, di quei che possedevano la propria industria. Questa pure si faccia penetrare nella società, e si avrà il Comune; e tale è appunto l'opera che vedremo compirsi nell'innalzamento delle città. Ma intanto i servi redenti non partecipavano al consorzio dei vincitori, ed avevano perduta la protezion d'un padrone; onde rimanevano _gente di nessuno_, e in conseguenza privati della giustizia. Nelle città poi niun abitante avea diretta connessione col governo regio, eccetto il vescovo, che talora veniva alla Corte per intercedere, e tornava con una concessione od una esenzione, spesso non curata dal conte o dall'esattore. In tal caso ai proletarj non restava che o stringersi in particolari associazioni d'arti e mestieri per darsi un interno ordinamento, o ricorrere alle corti ecclesiastiche, e trovare schermo nelle immunità dei nobili e del clero, giurisdizioni distinte da quelle del conte. Pertanto la città rimaneva partita fra nobili e vassalli, gente libera e servi. Quest'ultimi sono ancora senza diritti nè nome: gli altri formavano Comuni distinti, eleggendo rappresentanti e magistrati (_scabini_) per trattare e dirigere gl'interessi proprj, ed assistere ai giudizj. Alcuni dipendevano da un gastaldo regio, il quale rappresentava i conquistatori e ne tutelava gli interessi sopra le persone e le cose[340]. Trattavasi di sottoporre gli uni e gli altri all'amministrazione e alla giurisdizione medesima; ed è ciò che fu fatto mediante l'istituzione dei Comuni, la quale, a combattere il feudalismo, eppure da questo preparata, apparve dopo il Mille in tutta Europa, ma più insignemente nella patria nostra. CAPITOLO LXXVI. Il Mille. Corrado Salico. L'arcivescovo Eriberto. Enrico III. Suole chiamarsi secolo di ferro il decimo; in realtà infelicissimo perchè l'antico ordine era sfasciato, nè ancora appariva il nuovo, e intanto gli elementi eterogenei fermentavano, senza che si conformassero nè uno per anco prevalesse. Talora vi sono popoli nomadi che cercano stanza; gli stanziati nell'acquistata patria procacciano dirozzarsi, e imitare l'amministrazione romana; il vinto aspira a ricuperare alcuna importanza, lo schiavo a mutarsi in villano, il colono a sciogliersi dai vincoli della gleba; le proprietà libere si legano in benefizj, e i benefizj si riducono ereditarj; i possessori s'attaccano a formare un'aristocrazia territoriale, il capitaneo a divenir indipendente; il re, da primo fra i pari, vorrebbe a brani acquistare la prerogativa imperiale; non si contende più solo tra i principi per la primazia politica, ma tra vescovi e conti e uomini liberi per la civile franchezza; il clero si pianta allato al trono, e confonde il benefizio col feudo, il pastorale colla spada; nessuno ravvisa il fine, cui pure è tratto dalla prepotenza delle cose. I dominatori portavano guasti e sangue, pure introducevano anche nuove istituzioni, opportune a correggere quelle del mondo antico. Il titolo di romano non era più d'onore, anzi i vincitori lo infliggevano ai vinti come un obbrobrio: pure la magnifica civiltà anteriore sopravviveva colle leggi, con una letteratura ammirata, colla lingua che prestava ai vincitori per istendere i decreti e i contratti, cogli ordinamenti municipali in qualche parte conservati, colla memoria che è l'ultima a perdersi dai popoli. Fra ciò non appare che un universale commovimento: monarchia che si sfrantuma ne' conquistatori, democrazia che germoglia nel popolo, teocrazia nell'alto clero, governo militare, governo ecclesiastico, governo municipale, sussistono contemporanei e distaccati, senza che l'uno annichili l'altro, per modo che chiunque riguarda ad uno soltanto, crede quello unico dominante. Indi quell'aspetto di confusione, somigliante a violenza sconsiderata, dove l'individuo soffre miserabilmente, eppure l'umanità procede; e sul cadere di questa foschissima età già troveremo la nozione di territorio prevalsa alla nozione di razza, quella di Stato a quella di famiglia, l'unità nazionale emergere dalla laboriosa fusione di quanto contribuirono le società anteriori, e cresciute la dignità e la libertà dell'uomo a ben altra misura che non fossero quando tale non si considerava se non il cittadino. Di lettere chi poteva occuparsi? Pure non erano perite fra noi; e attorno al Mille, Wippone tedesco animava Enrico II a far educare i figliuoli de' nobili, come costumavasi in Italia[341]; Ademaro chiamava la Lombardia fonte della sapienza[342]; Gerberto, che fu papa Silvestro II, trovava ridondanti di scrittori le città e le campagne nostre[343]; il panegirista di Berengario esortava la sua musa a tacere, perchè nessun più poneva mente ai modi di essa, facendosi versi dappertutto[344]; il cronista salernitano numerava a Benevento trentadue filosofi[345]: del qual nome dovea fregiarsi chiunque sapesse scrivere latino, come di quel di poeta ogni misuratore di sillabe. Quasi nel solo clero si era rifuggito il poco sapere, ed Eugenio II papa nel concilio Romano dell'826 aveva imposto che in ogni vescovado e in ogni pieve si aprissero scuole per le lettere, le arti liberali e gli studj sacri[346]. Oltre qualche cronista, possono citarsi con onore Attone vescovo di Vercelli, che deplorava le _oppressure della Chiesa_; Raterio vescovo di Verona, che fece sei libri de' _Proloquj_, ossia dei doveri in ogni condizione, e lettere molte e sermoni, rozzi ma forti; Pacifico arcidiacono di Verona, di cui il lungo epitafio dice come lavorasse di metalli, legno, marmi, scrisse ducendiciotto codici, e inventò un orologio notturno. L'_Elementario_ di Papia lombardo, lessico di voci latine, servì di modello ai dizionarj, ricchezza delle età moderne. Alfano monaco cassinese, poi vescovo di Salerno, fe molti inni. Di verseggiatori potrei facilmente allungare il catalogo, ma basti accennare Teodulo, vescovo allevato in Atene, e che lasciò un _Colloquium_ in settantasette quartine, ove nel cuor dell'estate il pastore _Pseusti_ (menzogna), nato sotto le mura d'Atene, adagiato il gregge all'ombra d'un tiglio, pone mente ad _Alitia_ (verità), casta pastorella della stirpe di David, la quale tocca l'arpa del Profeta in sì soave modo, che le acque s'arrestano ad ascoltarla, e l'armento obblia la pastura. Punto da gelosia, Pseusti la sfida, e chiamano arbitra _Fronesi_ (prudenza), che ordina loro di cantare in quartine, numero a Pitagora prediletto. Pseusti dunque espone l'origine degli uomini secondo la mitologia, e le altre favole intorno ai numi; Alitia verseggia il genesi mosaico; quello invoca gli Dei, questa il Dio vero; e la vittoria è aggiudicata alla donna, che espone i misteri dell'incarnazione[347]. Poesia, non isprovveduta di merito, ove sembra udir le voci di due generazioni che, da allora fino ad oggi, contesero per trarre la poesia una ad imitare e pascersi solo di rimembranze, l'altra a secondare il libero volo dell'ispirazione e del sentimento. L'evidente imitazione di Virgilio assicura che i classici erano ancora conosciuti. Un Vilgardo teneva scuole a Ravenna, e «come sogliono gl'Italiani trascurar le arti e coltivare la grammatica»[348], spinse la passione pe' classici fin al delirio: una notte i demonj assunsero la sembianza de' poeti Virgilio, Orazio, Giovenale, e apparendogli il ringraziarono dell'ardor suo nel propagare l'autorità de' libri loro, e gli promisero farlo partecipe della loro gloria. Sedotto da tal frode, egli pose tanta fede ne' classici, che ogni loro parola aveva in conto d'oracolo, e sosteneva punti repugnanti al giusto credere; e benchè condannato dall'arcivescovo, molti spiriti in Italia traviò. Che valeano mai queste scarse eccezioni, o questi esercizj di scuola? Intanto l'uomo trovavasi abbandonato all'ignoranza e alla superstizione; in ogni fenomeno naturale vedeva un flagello di Dio sdegnato; ai mali irrompenti opponeva o una rassegnazione accidiosa o un repetìo iracondo, e invece di rimediarvi gli esacerbava. Quasi aggiunta a tanti patimenti si sparse allora ed acquistò fede la diceria che Cristo avesse pronunziato, _Mille e non più mille_, e perciò col secolo terminerebbe il mondo; si ricordavano certi settarj, che nei primi tempi aveano predicato il millenne regno di Cristo; e più creduta quant'era più fitta l'ignoranza, quest'opinione divenne universale. Ma sarebbe il Mille dopo la nascita sua? o dopo la morte? o erano inesatti i calcoli dell'êra cristiana? Questi dubbj non facevano che esasperare l'incertezza, e prolungare l'ansietà. Frattanto chi può s'immagini lo stato d'una società che crede essere alla vigilia dell'intero suo scioglimento. A turbe invocavano il sajo monacale, sì che duravasi fatica a frenare quell'incomposta affluenza; folla ai santuarj più devoti; processioni di reliquie venerate, dalle quali parve allora succedesse una risurrezione; e con sante litanie e con folli superstizioni supplicavasi Iddio a stornare i flagelli, e aver misericordia della sua plebe, che a momenti doveva tutt'insieme comparirgli davanti. Altri, _appropinquante fine mundi_, chiamavano le chiese eredi di ogni aver loro, per procacciarsi tesori di misericordia con ricchezze che stavano per perire. I buoni ne trassero occasione d'inculcare pietà, sviare da private vendette, indurre a penitenza, a rispettar le chiese e l'innocenza; numerose paci si conciliarono, numerosi schiavi furono prosciolti; assai bravacci abbandonarono il coltello e la foresta, per rendersi agli altari invocando il cilizio e la perdonanza. La moltitudine, dominata sempre dalla paura, o accasciavasi nello scoraggiamento, o pensava a cogliere le rose prima che appassissero[349]. Come quel terribile Mille passò, gli spiriti poc'a poco ripigliavano confidenza: tornarono le cure a un mondo, la cui durata faceva dimenticare la labilità delle vite individue; la rinfervorata devozione rinnovava chiese, cercava reliquie, moltiplicava leggende, e se non fu più consolidato, si rese più appariscente il primato della Chiesa, unica società inconcussa fra tanto scompiglio. Ma coll'attività riarsero le nimicizie e le guerre private, preziosissimo diritto de' signori. Già molti concilj eransi tenuti in Occidente per por freno a queste, allorchè un nuovo rimedio fu messo in campo. Pie persone uscirono asserendo che il Signore avesse rivelato esser sua volontà, che a certi giorni cessasse ogni guerra fra Cristiani; pertanto dalla prima ora del giovedì fin alla prima del lunedì potesse ognuno attendere ai proprj affari senza esser ricerco per debiti o per delitti[350]. Rimedio strano a strani mali, che gli ecclesiastici s'affrettarono d'adottare, intimando la _tregua_ di Dio con indulti a chi l'osservasse e pene religiose ai violatori; fu estesa a tutto il tempo fra l'Avvento e l'Epifania, e fra la Settuagesima e l'ottava di Pasqua; inoltre perpetua tregua avessero preti, monaci, conversi, pellegrini, agricoltori, gli animali da lavoro, i semi portati al campo. L'autorità secolare assecondò quell'impulso, e coloro che da niuna legge o forza umana erano protetti, uscivano dai nascondigli, rivedevano la famiglia, proseguivano i viaggi ed i lavori sotto la tutela della Chiesa. Qualche ristoro ne avrà avuto il basso popolo; ma i signori continuavano a osteggiarsi, nè i re si trovavano vigore da far valere la propria autorità per tutelare i deboli e comprimere i violenti. A ciò s'industriavano essi in Germania, ma que' duchi si rendevano ognor meno dipendenti. Di qua dell'Alpi Carlo Magno v'avea alzato di fronte l'aristocrazia ecclesiastica, e Ottone la democrazia comunale; pure quella invigorivasi più che non si dovesse aspettare, l'altra era ancor sì novella da mal reggere a contrasto de' grandi signori. Questi vedemmo alzarsi fino a dominare l'intera Italia. Ugo ne abbattè molti coll'ucciderli: Ottone I e i suoi successori investirono di estesissime signorie alcuni, per lo più forestieri; col che prostravano gli antichi marchesi, spogliandoli o mutandoli. Pandolfo Capodiferro duca di Benevento stette pur governatore della marca di Spoleto, e luogotenente di Ottone in tutta Italia. Ottone medesimo dicono creasse il marchesato di Monferrato per suo genero Aleramo; a suo fratello Enrico di Baviera diede quel di Verona e del Friuli, il quale poi venne unito al contado del Tirolo e alla ducea di Carintia, portando l'interesse dei re di Germania che in mano d'un solo rimanessero i due pendii delle Alpi. Intitolavasi marchesato di Milano la Lombardia; ma forse era mero titolo, certamente non arrestava il diritto dei conti, cioè de' giudici delle varie città (pag. 295). Seguivano gli ampj possessi dei marchesi di Toscana; poi il patrimonio di San Pietro. Le città ad oriente del Lazio, nell'antica ducea di Spoleto fra il Musone e il Tiferno, e a maestro della Toscana da Ferrara a Pesaro, costituivano altrettanti contadi, spesso amministrati da vescovi. Si intitolò Marca d'Ancona quella di Fermo e Camerino, o anche Marca di Guarnerio, forse da un Guarnerio che ne fu investito da Enrico IV. Il principe di Benevento potea pareggiarsi a un re; e al suo fianco cresceano l'abate di Farfa nella Sabina, e quello di Montecassino, che poi fu intitolato primo barone del regno di Napoli. Oltre i conti della città, la campagna era divisa fra conti rurali. Così il Milanese ripartivasi fra i contadi della Burgaria sulle rive del Ticino, della Martesana e della Bazana fra il Lambro e l'Adda, del Seprio fra l'Adda e il Ticino, i cui conti traevano l'autorità dall'investitura regia. Lecco, pure contado rurale, per quattro generazioni fu tenuto da una famiglia salica, che mancò circa il 975[351]. Salendo pei varchi delle alpi Retiche e Lepontine trovavansi i contadi di Bormio al fondo della Valtellina, di Chiavenna alle falde della Spluga, passaggio all'Alemagna; di Bellinzona, posseduto dai Sax, allo sbocco della Val Leventina che metteva a quelli che più tardi furon detti Svizzeri. Fra i grandi dell'alta Italia primeggiava l'arcivescovo di Milano. Il nome di sant'Ambrogio rifletteva sempre gran luce sopra di esso, e avendo suffraganee le diocesi di Pavia, Lodi, Cremona, Brescia, Bergamo, Mantova, Vercelli, Novara, Tortona, Casale, Asti, Mondovì, Acqui, Torino, Alessandria, Vigevano, Ivrea, Alba, Savona, Genova, Ventimiglia, Albenga[352], a stento rassegnavasi a riconoscere la superiorità di Roma. E tanto più che era provveduto d'una entrata d'ottantamila zecchini, e come capo rito godeva insigne e rituali distinzioni, da farlo quasi un altro papa. A tale arroganza dava spiriti l'esser Roma abbandonata al disordine, e il pretendere gl'imperatori di poter nominare vescovi e pontefici; sicchè i prelati, scelti da famiglie signorili, intrigavano alla Corte, militavano in campo, esercitavano secolare giurisdizione. Fra quei prelati Angilberto da Pusterla (835) alla chiesa di Sant'Ambrogio regalò un paliotto che circuisse tutta la mensa, argento da tre parti, davanti lamina d'oro ingiojellata e smaltata, con istorie a bassorilievo; insigne capo d'arte, che costò ottantamila zecchini, e fu opera di un Volvino. Ansperto da Biassonno (868) ampliò la mura della città per potervi comprendere il quartiere del Monastero Maggiore, fondò la chiesa di San Satiro con uno spedale, e alla basilica di Sant'Ambrogio fece anteporre un cortile quadrato con portico ad archi tondi, ch'è il più bel lavoro architettonico dopo i Romani. Landolfo da Carcano (979) ottenne piena giurisdizione di conte nella città e per tre miglia in giro, sicchè nominava i magistrati cittadini, e gl'investiva dando loro la spada. I feudatarj gli fecero contrasto, ma falliti nell'impresa, accettarono feudi dalla mensa vescovile, e li mescolarono ai beni patrimoniali ed a quelli che tenevano in feudo dal re. Avendo re Enrico II nominato vescovo d'Asti Olderico, fratello del marchese di Susa, il nuovo arcivescovo Arnolfo di Arsago, cui suffragava quella chiesa, ricusò (998) consacrarlo come illegalmente eletto. Olderico condottosi a Roma, con ragioni e con denaro ottenne d'essere consacrato dal pontefice. Arnolfo pretendeva lese con ciò le consuetudini ambrosiane, e convocato un sinodo, scomunicò Olderico; poi come principe accintosi della spada assediò Asti, e ridusse quel vescovo e suo fratello a comparire a Milano scalzi; e portando il marchese un cane, il vescovo un libro, presentarsi alla basilica di Sant'Ambrogio, confessarsi in colpa, e offrire una gran croce d'oro: dopo di che il vescovo riebbe le insegne prelatizie, e furono festeggiati. Ancor più famoso fu Eriberto da Cantù 1018: per risolutezza e costanza rispettato in tutta Italia, quando alcuno ricorresse a lui perchè da un duca o da un marchese avesse ricevuto qualche torto, egli mandava il suo baston pastorale, e facevalo piantare al luogo o nel podere su cui nasceva quistione; e nessun più ardiva usare violenza, sinchè l'affare non fosse deciso secondo giustizia[353]. Staccandosi egli dal partito de' suoi, andò in Germania ad esortare Corrado Salico a venire, promettendogli la corona. Altrettanto fecero molti baroni del regno: e il re li rimandò carichi di doni; ma coi Pavesi non potè accordarsi, rassegnandosi essi bensì a riedificare il demolito palazzo imperiale, ma non più in città, siccome Corrado desiderava. Costui, che ad Eriberto principalmente doveva la corona, e che per più giorni fu da lui trattato con tutta quanta la sua Corte, lo compensò coll'investirlo del contado di Lodi; ma in tempo che così mal distinti erano i poteri laici dagli ecclesiastici, l'arcivescovo pretese ne conseguisse il diritto d'eleggervi il vescovo. Quella Chiesa, gelosa della libera nomina del proprio pastore, ricusò l'eletto da lui; ed Eriberto corse a preda il territorio lodigiano. Abbiamo detto come della ricchissima mensa arcivescovile di Milano, Landolfo, allorchè acquistò la giurisdizione comitale, avesse dato i beni in feudo a signori del contado, i quali già altri feudi teneano dal re. Da qui nasceva una complicazione d'omaggi e di doveri; ed essi col professarsi devoti a Cesare, cercavano sottrarsi dalla dipendenza dell'arcivescovo: questi invece pretendeva ridurli affatto uomini suoi. I capitanei o vassalli maggiori aderirono, nella speranza di potere, coll'appoggio di Eriberto, soperchiare gli altri; ma i vassalli minori non soffersero di vedersi tolta quell'indipendenza di cui andavano superbi, e collegatisi tra loro e cogli uomini liberi di Milano che, in grazia dell'immunità, si trovavano sottoposti alla giurisdizione vescovile, scesero a fiera battaglia. Vinti da Eriberto, arcivescovo, governatore e generale, fuoruscirono, e forti pel numero, s'accordarono coi militi dei contadi (1028), massime Comaschi e Lodigiani, formando una _motta_ o lega contro l'arcivescovo ed i capitanei, e a Campomalo[354], fra Milano e Lodi, sconfissero l'arcivescovo, benchè ajutato da altri vescovi. Ma per combattere contro i liberi e i minori vassalli che erano il nerbo degli eserciti, egli ed i capitanei non poteano valersi che di villani ed artieri, gente inusata a battaglie. Come fare che questa leva subitaria tenesse testa alla nobiltà, sin dalla fanciullezza addestrata nelle armi? L'arcivescovo vi provvide inventando il carroccio; gran carro ben adorno e tratto da bovi, sul quale inalberavansi la croce e il gonfalone; altare al sagrifizio prima della pugna, pretorio e spedale durante la mischia. Suprema infamia reputandosi il perdere quest'arca dell'alleanza, i soldati gli si stringevano attorno, invece di sbandarsi in zuffe scarmigliate; aveano sempre un punto, a cui rannodarsi; ne restavano moderate la marcia o la ritirata; e così ottenevasi un accordo di sforzi e di difesa fra le disunite volontà. In tal modo Eriberto vinse i valvassori: ma poichè essi raggomitolavansi colla nobiltà del contado e non desistevano dagli attacchi, ricorse al solito deplorabile spediente d'invitare Corrado. Scese questi nella patria nostra (1027), agitata da tanti movimenti, e mandando innanzi, secondo il consueto, a chiedere alle città l'omaggio, e il fodero, la paratica e il mansionatico, contribuzioni che si doveano alla casa regia, e consistenti il primo nelle vettovaglie per mantenere il re e sua Corte, il secondo in una somma per riparare le strade e i ponti, il terzo nell'alloggio dell'esercito e de' cortigiani. Portando più strage che guerra, Corrado a Pavia incendiò castelli e chiese coi contadini che vi si erano rifuggiti, tagliò le viti, e fece altre _prodezze_, come il suo storico Wippone le intitola; e a pari guasto menò il marchesato di Toscana ed altre signorie confinanti. Passò poi a Ravenna, e vi regnò _con gran podestà_; vale a dire che, essendo nate le solite tresche fra' cittadini e i suoi soldati, si cominciò strage, finchè l'imperatore, commosso dal vedersi venir innanzi i primarj della città scalzi e colle spade nude alla mano, in segno di esser degni d'aver tronca la testa, perdonò. Temperati i calori estivi, mosse ver Roma con grosso esercito; e Rainero marchese di Toscana per timore venne all'omaggio, e seco la Toscana tutta. Fu accolto bene a Roma e coronato, crescendo la solennità il trovarvisi due altri re, Rodolfo III di Borgogna, e Canuto d'Inghilterra, che del suo regno veniva a fare omaggio ai papi. Ma qui i Tedeschi causarono baruffe e versarono sangue, dove innumerevoli cittadini rimasero uccisi, e gli altri con vimini al collo come degni di capestro dovettero venire a chieder perdono del non essersi lasciati scannare. Nè bastò. Eriberto di Milano pretendeva stare alla diritta dell'imperatore, lo pretendeva l'arcivescovo di Ravenna; il primo per dispetto o per prudenza se n'andò, e l'imperatore diede ragione a lui, come a quello che coronava i re d'Italia; ma intanto Milanesi e Ravennati vennero al sangue. Corrado sottomise anche i principi di Capua e Benevento: ma appena corse in Germania a quetare altre turbolenze, ecco si rinfoca la guerra interna; onde egli accorso di nuovo (1037), pensò deprimere i vescovi, ora che più non ne avea di mestieri per opporli ai grandi baroni; e singolarmente quest'Eriberto, che colle concessioni antiche e nuove degli imperatori, era reso oggimai despoto dell'Italia, e permetteva che in nome suo si soprusasse[355]. Come Corrado entrò in Milano, accorsero a lui in folla i signori che si teneano gravati da Eriberto, e gli domandavano giustizia; ed esso prometteva renderla in una dieta, che di fatto tenne a Pavia con tutta solennità per reprimere gli oppressori di vedove e pupilli e chi tenesse ingiustamente beni ecclesiastici, e facendo mozzar mani e teste. Singolarmente un Ugo, conte, tedesco, recitò un sequela di torti fattigli da Eriberto; e Corrado ingiunse a questo di ripararli, com'anche di recedere dalla pretesa superiorità su Lodi. L'altero arcivescovo rispose che de' beni trovati alla sua chiesa o da lui acquistati, non un palmo rilascierebbe per istanza o comando di chichefosse. L'imperatore pien di maltalento, e risoluto di recidere l'orgoglio prelatesco, il fece arrestare coi vescovi di Vercelli, Cremona, Piacenza, e lo affidò a Tedeschi che non distingueano la dritta dalla sinistra[356], e che lo chiuser prigione in Piacenza. Se ne commossero i vassalli, offersero ostaggi all'imperatore, che tenne gli ostaggi e non rilasciò il prelato; ond'essi si sparsero per Lombardia cercando alleanze, mentre il popolo desolavasi, digiunava; «dal vecchio al fanciullo gemevano, e deh quante preci al Signore, quante lacrime si spargeano!»[357]. L'accorto Eriberto, secondato dalla badessa di San Sisto, si fe portare squisitezza di cibi e vini, ed ubriacate le guardie tedesche, fuggì. Il popolo milanese, che qui compare già ben distinto dai signori, lo ricevette fra indicibili applausi, che tutti ricadeano a scorno dell'imperatore. Il quale coll'esercito accorse, ed assediò la città; ma salda di mura e di valor cittadino, questa si sostenne tanto pertinace, che Corrado dovette andarsene, sfogandosi sopra le terre aperte, e massime sopra Landriano: nominò anche un altro arcivescovo, che mai non potè sedere. Dal buon successo pigliò baldanza la fazione nemica ai Tedeschi; i vescovi ed Eriberto mandarono perfino esibir la corona ad Odone conte di Sciampagna; sicchè Corrado dovette sempre tenersi colle armi alla mano; e principalmente n'ebbe a risentire Parma, dove nata una delle solite capiglie fra soldati e cittadini, fu messo il fuoco alla città, poi obbligata ad abbattere la mura, onde (dice il Muratori) imparassero i popoli italiani a lasciarsi mangiar vivi dagli oltramontani. Le diete di tutti i vassalli non si poteano tenere che all'aria aperta in vaste pianure, al che in Lombardia servivano o i prati di Pontelungo fra Pavia e Milano, o più di solito la pianura di Roncaglia, tre miglia da Piacenza fra il Po e la Nura. Quivi spesso si fecero adunanze, vuoi dai grandi fra sè, vuoi dagl'imperatori; e quando uno di questi volesse scendere in Italia, dava colà la posta a marchesi, conti, vassalli vescovi, abati, capitanei, valvassori, e a chiunque tenesse feudo: nel mezzo piantavasi il padiglione reale, distinto per un'antenna cui era attaccato uno scudo; il banditore appellava i vassalli maggiori, questi i loro dipendenti, perchè la notte seguente vegliassero a guardia dello scudo e della tenda; e chi mancasse scadeva dal feudo. V'erano ascoltati ne' primi giorni gli ambasciadori delle città, poi si trattava dei pubblici interessi, passavasi a quelli dei signori e alle quistioni feudali, indi coll'assenso dei grandi si pubblicavano le leggi spedienti[358]. In quell'occasione v'accorreano pure saltambanchi e mercatanti e curiosi, talchè alla sembianza d'un campo univasi quella d'una fiera. In esse diete l'autorità regia prevaleva; ma sciolte appena, ciascun signore tornava al proprio feudo ad esercitare indipendente la giustizia o le prepotenze. A Roncaglia dunque (1037 — 28 mag.) Corrado intimò la generale assemblea. Politica degl'imperatori era stato l'elevare i deboli per deprimere i potenti, e in conseguenza favorire le associazioni e i Comuni, largheggiare immunità ai vescovi e sostituirli ai conti. E i vescovi n'erano cresciuti in modo, da assimilare il regno d'Italia ad una aristocrazia ecclesiastica; e sull'esempio d'Eriberto, cercavano ridursi a soggezione anche i feudatarj che immediatamente rilevavano dall'imperatore. D'altra parte erano ormai resi ereditarj i feudatarj maggiori; ma questi negavano agl'inferiori quel che per sè aveano carpito, e pretendevano che i feudi assegnati ai vassalli minori fossero di grazia, talchè potessero ritorglieli a volontà, e morendo l'investito, ritornassero ad essi, che con ciò si assicuravano un modo di gratificare continuamente i servigi ottenuti, e di punire chi nella fede vacillasse. Quest'incertezza di possessi faceva trascurare la coltura, oltre porger cagione a rinascenti dissidj. Alle repugnanti pretensioni pensò mettere qualche ordine Corrado, e deprimere i vescovi ed i maggiori vassalli col dare appoggio alla nobiltà minore. Promulgò dunque una celebre costituzione intorno ai feudi che, consolidando l'antica consuetudine[359], vietava di svestire il vassallo se non per sentenza d'una corte di pari, e con cognizione del re o de' suoi commissarj; il figlio o il nipote legittimi succedessero al padre o all'avo, esclusi quelli non nati bene, come sarebbe da donna d'inferior condizione, o da nozze contratte coll'espresso patto che i nascituri non succederebbero[360]; in difetto di prole sottentrassero i fratelli; il signore non venda il feudo senza consenso dell'investito. Enrico II aveva fiaccato i conti e marchesi, investiti di onori; Corrado mortificava i grandi feudatarj, sollevando i piccoli, di modo che la monarchia parea dovesse prevalere: ma la impedì il crescere dei Comuni, i quali ben presto si risolsero in repubbliche. Intanto Corrado vedeva l'esercito suo assottigliato, parte dalle malattie, parte del congedarsi de' vassalli allo spirare del tempo dell'eribanno. Anche le scomuniche papali provocò contro il contumace Eriberto; ma non potè se non far promettere a' suoi ligi che saccheggerebbero ogn'anno il territorio milanese. In Germania sì egli, sì Enrico III suo figlio (1039), piissimo quanto colto e coraggioso, consumarono il regno nel domare i signori riottosi, por qualche freno al diritto del pugno, procurare la giustizia, e combattere nemici. Nell'assemblea longobarda in Zurigo, esso Enrico, deplorando che tanti in Italia fossero levati dal mondo per venefizio e per diversi generi di morti furtive, (1054) pubblicò una legge contro gli omicidj, ove si alterava l'antica istituzione germanica del comporre a denaro pei delitti: poichè, coll'universale consenso de' Longobardi, decretò che chiunque uccida altri con veleno o qualsiasi altra furtiva morte, o consenta all'uccisore, sia punito nel capo e colla confisca di tutti gli averi; dai quali si prelevino dieci libbre d'oro per guidrigildo alla famiglia dell'ucciso, il resto si divida metà al fisco metà alla famiglia stessa; laonde se l'uccisore fosse un ricco, veniva a impinguarsi la famiglia dell'ucciso. Evidente contrasto fra la legge romana e la germanica, alla quale poi aderendo, confermava i duelli giudiziarj: chi nega un delitto, si difenda col duello se libero, se servo col giudizio dell'acqua bollente[361]. Per Lombardia rincalzavano le quistioni fra i nobili superiori e gl'inferiori, molti dei quali, spogliati dei beni per la sollevazione della Motta, faceano tresca colla plebe; e questa, non ancora in un Comune, ma aggregata in compagnie d'arte, più non soffriva di vedersi mettere il piede sul collo dai feudatarj. Già nel 1035 era scoppiata la discordia, poi si posò, ma presto rinacque. Un milite, vale a dire un nobile milanese, venuto a diverbio per istrada con un plebeo lo bastonò: alle grida accorsi popolani, accorsi nobili, ne seguì un'abbaruffata generale, ed i plebei fecero tra sè una lega per opporre la concordia alla forza. Lanzone, nobile mal contento, si pose a capo de' plebei (1042), dandovi così quell'ordinamento e quella disciplina, che sono sempre la maggiore difficoltà nelle sollevazioni popolane; s'armano di qua e di là, stan sulle guardie come in terra nemica, serragliano le vie; ogni più lieve pretesto cagiona risse e battaglie; contro tegoli, sassi, acqua bollente, munizione plebea, poco valgono le lancie e i cavalli de' nobili, i quali sono costretti andarsene di città. Eriberto arcivescovo temette che, rimanendo, non paresse fomentar la plebe contro i feudatarj, molti de' quali erano suoi vassalli; fors'anche, per quanto propenso a sostenere i popolani contro i nobili, non amava poi che quelli divenissero padroni; laonde anch'egli fuoruscì. I nobili raccolsero intorno a sè gli altri nobili della campagna[362] e i proprj uomini de' contadi rurali della Martesana e del Seprio, e fortificatisi in sei terre attorno alla città, teneano questa bloccata, intercettando le vittovaglie. Non passava giorno senza qualche avvisaglia, e molti erano morti; i prigionieri venivano uccisi o straziati orribilmente. Tre anni durò il blocco, con qual detrimento della città Iddio vel dica; e Lanzone vedendo chinar alla peggio la sua fazione, raccolse quant'oro seppe, e passò in Germania ad implorare l'imperatore. Questi, che odiava Eriberto credendolo autore della scissura, promise sorreggere i plebei contro i nobili, patto che ricevessero in città quattromila suoi cavalli. Lanzone alle prime annuì, ma presto s'accorse del pericolo di tal partito, onde pensò piuttosto a riconciliare i dissidenti; e in fatto i nobili, che l'annuale saccheggio dei loro terreni riduceva a povertà, rientrarono, obbligandosi a sloggiare dai castelli della campagna per abitare in città almeno alcuni mesi d'ogni anno, e sottoporsi ai magistrati di quella. Ecco pertanto sotto la medesima giurisdizione ridotti e i cittadini e i vassalli, per modo che restava costituito il Comune. Morì poi Eriberto nel 1045; il quale, oltre politico, parve anche buon prelato: in una carestia faceva distribuire ogni mattina ottomila pani e otto moggia di grano, e ogni mese in persona dava abiti nuovi e denaro, e così seguitò ben otto anni. Fin oggi ne' pontificali si adopera un evangeliario su pergamena, da lui donato, ricchissimo d'oro e gemme, e con un crocifisso e la figura dell'arcivescovo d'oro; preziosi monumenti dell'arti d'allora, come il ritratto d'esso Eriberto a fresco, che fu collocato ne' portici della biblioteca Ambrosiana. Tutti i cittadini maggiori e minori e il clero si unirono per nominar il successore; e poichè allora i re di Germania prevaleansi della scostumatezza del clero per immischiarsi nelle elezioni, la città presentò ad Enrico III quattro nobili soggetti (1045), dai quali scegliesse egli il nuovo arcivescovo. Gli scartò tutti, preferendo Guido di Velate, non appartenente alla nobiltà feudale, e che stava in Corte di lui come secretario. Di qui nuove discordie col clero alto; ma per paura del re fu ricevuto. In quelle assenze e vacanze il popolo avea visto di poter reggersi da sè, ed erasi dato un governo a comune; e nella dissensione dell'arcivescovo coi proprj vassalli, crescea d'indipendenza. E già dappertutto la bassa nobiltà trovavasi a cozzo colla superiore; questa cercava assicurarsi le maggiori dignità ecclesiastiche dacchè i prelati erano principi; i prelati, scelti a questo modo, si buttavano a passioni e intenti secolareschi, restandone sovvertite la disciplina ecclesiastica e la pace d'Italia. CAPITOLO LXXVII. Bassa Italia. I Normanni. Lunghi e mal definibili eventi corsero i paesi meridionali, dal cui avvicendamento sconnesso poc'altro si ritrae che l'infelicità degli abitanti. Dopo la spedizione di Lodovico II combinata con quella di Basilio il Macedone, che allora ricuperò alla dominazione greca l'importante piazza di Bari (p. 316), vi si erano formate due fazioni, una Franca, l'altra greca, ispirate non dal miglioramento del paese, ma da riguardi personali, da odj e vendette. Benevento manteneva il nome di Longobardia, e comprendeva i paesi che or sono Terra di Lavoro, contado di Molise, Abruzzo citeriore, e i due Principati, eccettuandone le terre greche a mare; distribuito fra molti conti, di cui primi erano quelli di Capua, poi di Marsi, di Montella, di Sora, di Molise, di Consa ed altri, i cui titoli si conservarono nelle illustri famiglie del regno[363]. Tutto disordine e violenza, menava guerre interminabili contro il principe di Salerno, il quale poi riuscì ad averne Cosenza, Taranto, Capua, Sora, metà del contado d'Acerenza. Da tale partigione restò eccettuato il monastero di Montecassino, che avuto castelli e baronie da' duchi, ne chiedeva la conferma o mundeburdio agl'imperatori d'Occidente, e a questi prestava omaggio ligio. La Puglia, cominciando da Ascoli e seguendo il lido adriatico, eccetto Siponto e il monte Gargàno pertinenze beneventane, inoltre la più parte della Calabria obbedivano ai Greci, che a questo teme della Longobardia mandavano un catapano, sedente a Bari. Vi aggiungevano la supremazia nominale de' ducati di Napoli, Amalfi, Gaeta. Il ducato di Napoli stendeasi a ponente fin a Cuma, abbracciando Ischia, Nisida, Procida, Pozzuoli, Baja, Miseno, e verso mezzogiorno Stabia, Sorrento, Amalfi, l'isola di Capri. La capitale aveva parrochie, clero, capitolo greco e latino; era governata al modo di Ravenna, con duci che, attesa la lontananza degl'imperatori, spesso venivano eletti dal popolo, rendevano un omaggio di sola apparenza all'Impero, come il duca di Gaeta; e cercavano indipendenza coll'appoggiarsi ora ai Saracini, ora ai successori di Costantino, ora a quelli di Carlo Magno che pretendevano sempre all'eredità di Teofania. Avendo i principi di Benevento assalito ed occupato Bari (887), Leone il Filosofo, imperatore di Costantinopoli, mandò Simbatico per castigarli; Benevento fu occupato, e sebbene redento dopo quattro anni, quel principato non ricuperò più il suo lustro. Invece i duchi di Capua, resisi indipendenti, ingrandivano a danno dei Saracini. Gli Aglabiti, stanziatisi a Cuma e alla foce del Garigliano, faceano prova di loro fierezza sui paesi circostanti, Oria, Sant'Agata, Tèramo: altri di Sicilia venivano a devastare il continente, e intere popolazioni rapirne in ischiavitù. I Pandolfi di Benevento e di Capua, i Guaimari di Salerno non sentivansi abbastanza robusti per vincere gl'infedeli; tanto più che, discordi fra sè, si perseguitavano in continue nimicizie, con alterni successi. Gl'imperatori greci fecero tratto tratto qualche tentativo per combattere i Saracini: una loro banda, che era stata espulsa di Creta, assoldarono (967) per assalire i loro fratelli in Calabria, e presero Bari e Matèra. L'unica voce potente a congiungere i Cristiani, quella del pontefice, sonò ancora, e Benedetto VIII papa raccolse tutti i vescovi ed i visconti delle chiese (1016), e marciò contro quelli stanziati al Garigliano. Tre giorni si fe battaglia; al quarto gl'Infedeli andarono in rotta. Fra le spoglie fu rinvenuto un diadema valutato mille libbre d'oro, cui il papa presentò all'imperatore Enrico II, e fra i prigionieri la moglie del loro capo che rimase estinta. Il marito irritato mandò al papa un sacco di castagne, per simbolo dell'armata che fra poco menerebbe; e questi gliene rimandò uno di miglio, per indicare con quanti guerrieri starebbe alla riscossa: ma in fatti da Reggio e Cosenza troppo spesse occasioni ebbero i Saracini di saziarsi di sangue italico, invocati ne' fraterni litigi. Anche in Sicilia gli Arabi aveano esteso, ma non consolidato il dominio; e qui come altrove gli sceichi o capicasa acquistarono potenza a scapito dell'emir, e il paese si trovò diviso in gran numero di piccole signorie osteggiantisi, sempre nemiche de' paesani, ai quali imposero anche la decima di tutti i frutti della terra. Ai califfi d'Africa non si prestava più obbedienza; pure ad essi ricorrevasi nelle intestine discordie, le quali proruppero spesso in guerra civile. Qui alle fortune del paese meridionale si mescolò un altro popolo. Normanni, cioè uomini del Nord, è il nome rimasto a quella porzione di Teutoni (_Deutsch_) che occuparono la penisola Scandinava, mentre Franchi e Germani si dissero i loro fratelli piantatisi sulle provincie romane. Somiglianti a questi per aria di volto, corpo elevato e nobile portamento, da Odino aveano appresa una religione ferocemente superstiziosa, e dal combattere una natura selvaggia aveano attinto un'indole superbamente fiera; dei pericoli faceansi diletto; battaglie accannite, tempeste spaventevoli, lontanissimi viaggi, i più mortali pericoli erano loro esercizj e divertimenti. Devotissimi a un capo, al cenno di lui affrontavano i ghiacci, gli orsi, le procelle; beati se in questi perivano, perchè la loro anima era accolta nel paradiso a vuotare generose tazze in braccio alle Walkirie, e la loro gloria viveva sulle arpe de' cantori. Vergogna per essi il morir sulle paglie delle paterne capanne. Lanciatisi in corso, all'ingratitudine della terra natìa supplivano vendemmiando i campi altrui, predando le messi della coste, pirateggiando. Approdati, la prima selva che scontrino convertono in flotta, cui rimorchiano su per fiumi ignoti; trovano ponti, chiuse, ostacoli naturali? pigliansi le barche in spalla e passano oltre. Oppure alla guida del più prode o più intraprendente, dopo consultati gli Dei, uscivano a fondar colonie in paesi lontani; dove spartivano fra sè i terreni, e nelle adunanze decidevano de' pubblici interessi, sotto un capo ch'era capitano, giudice, sacerdote. Quanto prodi, erano altrettanto scaltriti e cavillosi; rubavano e trafficavano; esibivano il loro valore a chi li pagasse, spiando ogni occasione di furto, di lucro, di formarsi un dominio nel paese ch'erano stati chiesti a difendere. Così popolarono l'Islanda, l'estrema Groenlandia, e forse si spinsero fin nella Carolina d'America, cinque secoli prima di Colombo. L'Europa per due secoli minacciarono, tanto che figurano nella storia d'ogni nazione, e ne formarono l'aristocrazia guerresca. Alcuni fondarono l'impero russo con Rurico; alcuni con Guglielmo sottomisero l'Inghilterra; altri col nome di Varangi militarono al soldo degl'imperatori bisantini; altri molestarono a lungo la Francia, serpeggiando su pe' suoi fiumi, e piantando stazioni allo sbocco di quelli, sinchè vi ottennero il ducato che da loro fu detto Normandia. In questa nuova irruzione di Barbari non veniva un popolo intero, bensì pochi guerrieri senza donne, e sposavano quelle dei vinti. Gaufrido Malaterra loro concittadino li dipinge «astuti e vendicativi; ereditarie fra loro l'eloquenza e dissimulazione; sanno abbassarsi all'adulare, si avventano ad ogni eccesso qualora la legge non gl'infreni: i principi ostentano magnificenza verso il popolo; il popolo accoppia la prodigalità coll'avarizia; cupidi d'acquisti, sprezzano ciò che hanno, sperano ciò che desiderano; armi, destrieri, lusso di vesti, caccie, falconi son loro delizie; e se uopo accada, sostengono i rigori del clima, la fatica e le privazioni della vita militare». Ma il mettere a taglia l'Europa non era più così facile dopo che era spartita fra mille baroni, attenti ciascuno a difendere il proprio brano di terra, e quando ad ogni tragitto di fiume, ad ogni valico di monte presentavasi un uomo d'arme, col lancione e lo stocco e con grossi mastini, ad arrestare il passeggero e riscuoterne il pedaggio, se pur non rapiva bagaglio e persona. Attemperando allora le antiche abitudini alle nuove idee del cristianesimo, i Normanni, col bordone e il sanrocchetto, e con fiere armi sotto la tonaca devota, disposti a combattere bisognando ed a rubare potendo, pellegrinavano a Terrasanta, a San Jacopo di Galizia, a San Martino di Tours, alle soglie degli apostoli a Roma, gridando al sacrilegio di chi osasse turbarne il viaggio: talora per via incontravano una castellana da sposare o un ducato da occupare, non scrupoleggiando le colpe, delle quali al fine del pellegrinaggio promettevansi l'assoluzione: trafficavano anche, se non d'altro, di reliquie, stimate perchè giunte di lontano, ed utili a crescer credito ad una chiesa o sicurezza al barone che se la mettesse sotto al giaco allorchè andava ad appostare il rivale. Già in antico il re del mare Hasting, e Biörn figlio di Lodbrok, eroe famoso nelle loro canzoni, dopo presa Parigi (845), eransi proposto di saccheggiare la metropoli del mondo cristiano. Raccolte cento barche, predate in passando le coste di Spagna, toccato la Mauritania e le Baleari, giungono ad una città italiana (867), di mura etrusche fiancheggiate di torri. Que' fieri ignoranti la credettero Roma, ma avvertiti che era Luni, saccheggiarono i contorni, e ripigliarono via alla ventura; e scontrato un pellegrino, gli chiesero la migliore. — Vedete queste scarpe di ferro che reco alle spalle? sono logore affatto, e logore ormai quelle che ho ai piedi. Or quelle al partir mio da Roma erano nuove, e di là a qui ho camminato sempre». Scoraggiati da tanta lontananza, diedero indietro. Così una cronaca; ma altre settentrionali riferiscono che, scambiando Luni per Roma, mandaronvi a chieder rifugio e rinfreschi; il loro capo struggersi del desiderio di essere battezzato e di riposare. Il vescovo e il conte offersero ogni occorrente; Hasting fu battezzato, ma non per questo ammessi in città i suoi commilitoni. Fra breve il neofito cade malato, e fa sentire che intende legare il ricco suo bottino alla Chiesa, purchè gli conceda sepoltura in terra sacra. In fatto, quando i gemiti dei Normanni n'ebbero annunziata la morte, è con gran processione recato nella cattedrale: ma quivi egli sbalza dalla bara tutto in armi, e secondato da' suoi, trucida il vescovo e gli astanti. Impadronitisi della città, i Normanni si chiariscono che non è Roma; onde, toltone il buono e il meglio, le migliori donne e i giovani capaci dell'armi o del remo, rimettono alla vela[364]. Nel tragitto a Terrasanta usavano i Normanni evitare la noja del mare traversando a piedi l'Italia fin a Napoli, Amalfi o Bari, dove trovavano frequenti imbarchi per la Siria; e tanto più che su quella strada incontravano Roma, Montecassino e il monte Gargáno, meta di devoti pellegrinaggi. Appunto verso il Mille, quaranta Normanni, tornando di Palestina sopra vascelli amalfitani, capitarono a Salerno mentre una flottiglia di Saracini vi si era presentata per taglieggiarlo; e lieti d'adoprar il valore contro que' Musulmani di cui aveano detestato la tirannide in Oriente, ajutarono a respingere gli assalitori, protestando avere combattuto non per guadagno ma per amor di Dio, e perchè non poteano soffrire tanta burbanza de' Saracini[365]; e il principe Guaimaro III, congedandoli ben donati, li pregò di tornarvi con altri loro nazionali. La pittura di questi climi deliziosi, gl'insoliti frutti meridionali, le preziose stoffe con cui Guaimaro accompagnò le preghiere, ne infervorarono l'umor venturiero; e Osmondo di Quarrel (1013), con quattro fratelli e nipoti e coi loro uomini ligi, vennero, e preso stanza sul devoto Gargáno, offersero il lor valore a chi ne bisognasse. In quel tempo il longobardo Melo, per valore e prudenza[366] principale non solo in Bari ma in tutta Apulia, non potendo più tollerare la superba nequizia de' Greci, odiati anche a motivo dello scisma, pigliò intesa col proprio cognato Datto, e ribellarono il paese. Forse costoro, come spesso, faceano del popolo la causa e l'ira propria; fatto è che i Baresi non bene gli assecondarono, anzi ordivano consegnarli ai Greci; ond'essi rifuggirono in Ascoli, pur essa insorta, ma non si tennero sicuri che a Benevento e a Capua. Là meditando come riscattar la patria dai catapani greci, chiesero Normanni al loro soldo. Un buon numero, allettati da Osmondo col dipingere la delizia del clima e la viltà dei possessori, giungono, respingendo gli abitanti ancora idolatri del monte di Giove (San Bernardo); e forniti da Melo d'armi e cavalli, e uniti a torme lombarde da lui raccolte, van contro i Greci. Furono vincitori alle prime; ma poi Basilio Bugiano venuto con abbastanza denari, ed edificate Troja, Draconario, Fiorentino ed altri luoghi forti contro ai sollevati, scese a giornata con essi vicino a Canne, e li vinse (1019) così, che di tremila Normanni soli cinquecento sopravissero[367], e Osmondo stesso perì. Melo corse in Germania invocando ajuti dall'imperatore Enrico II; ma quivi morì, ed ebbe esequie reali. Datto, côlto per tradimento dai Greci, fu menato s'un asino a Bari, poi, col supplizio de' parricidi, gettato al mare in un sacco di cuojo. Di que' trambusti profittarono i Saracini per rinnovare i saccheggi: onde a reprimerli l'imperatore Costantino IX ritentò la conquista della Sicilia; e con Russi, Vandali, Turchi, Bulgari, Polacchi, Macedoni (1025), prese Reggio e lo distrusse. Punendo poi i popoli e le città che si erano sottratte all'obbedienza, i Greci ebber ricuperato quanto aveano perduto, e minacciavano Roma; sicchè i papi sollecitarono re Enrico III a venire e salvarla. Gli avanzi dei Normanni non erano scomparsi dalla Puglia, ma guadagnavano col vendere il proprio valore ai principi longobardi o agli abati di Montecassino; finchè Sergio duca di Napoli, sorpreso e cacciato da Pandolfo principe di Capua, colla loro assistenza rimesso in dominio, li compensò col donare la città d'Aversa a Rainolfo fratello d'Osmondo, e il titolo di conte sopra un territorio contestato fra i due dominj. Questa colonia diventò una potenza, di mezzo alle popolazioni oppresse. Le fortune de' loro fratelli traevano ogn'anno altri Normanni in Italia. Tancredi, gentiluomo banerese della bassa Normandia, dopo partecipato alle guerre di Roberto il Diavolo, invecchiava tra dodici figli nel castello d'Altavilla. Trovandosi scarso di patrimonio, questi vollero procacciarsene colle armi, e fatti alquanti compagni (1035), tra pellegrini e guerrieri drizzarono alle nostre rive. Guaimaro IV, principe di Salerno e di Capua, volontieri si valse del loro braccio per sottomettere Amalfi e Sorrento. Come allora ai Longobardi, così altre volte servivano ai Greci, per soldo non per dovere o fedeltà. Abulafar e Abucab governatore della Sicilia vennero a guerra fra sè, e Abulafar vinto ricorse a Michele il Paflagonico imperatore. Lietissimo dell'occasione, questi spedisce Giorgio Manioki, valente capitano, il quale, raccolti quanti più potè Longobardi e Normanni, tragittò in Sicilia, e prese Messina e Siracusa. Mediante i soccorsi d'Africa, gli Arabi poterono mettere insieme da cinquantamila combattenti: eppure Manioki li ruppe al fiume Remata, prese tredici città, e forse sbrattava l'isola se non avesse disgustato i proprj alleati. Grandissimo valore aveano spiegato in quell'impresa Guglielmo Braccio di ferro, Drogone e Unfredo figli di Tancredi d'Altavilla, capi della colonia militare normanna; ma quando si fu a spartire le prede (1039), nulla ottennero dalla greca avarizia. Disgustati, interrompono la guerra, tornano sul continente, e attestati a Reggio di Calabria, si danno a far ogni peggio alle terre dei Greci, col proposito di strappare a questi la Puglia e la Calabria. Sommavano appena a sette centinaja di cavalieri e cinque di fanti, quando si trovarono a fronte sessantamila imperiali condotti dal prode Doceano; ed avendo l'araldo proposta l'alternativa di ritirarsi o combattere, — Combattere» gridarono tutti a una voce, e un Normanno con un pugno (1041) stese morto a terra il cavallo dell'araldo. La pianura di Canne vide un'altra volta sconfitti i Romani, ai quali non restarono che le piazze di Bari, di Otranto, di Brindisi, di Taranto. Il bisogno rimette in credito Manioki, il quale nella pianura di Dragina sconfigge gli Arabi (1043), e manda a barbaro macello le città prese e riprese: Argiro di Bari, figlio del famoso Melo, dichiarato principe d'Italia, cioè della Puglia e Calabria, mena i Normanni alla vittoria. Manioki aveva incaricato Stefano, patrizio di Sicilia e cognato dell'imperatore Costantino, di vigilare attentamente il mare, sicchè nessun Arabo sfuggisse; ma quegli lasciò scappare il loro capo. Il capitano irritato non solo rimproverò ma battè Stefano, a' cui lamenti l'imperatore diè ordine di mandar Manioki in ferri a Costantinopoli. Questi invece si ribellò, e co' molti tesori tolti a Stefano destinatogli successore, adescò truppe, e dichiaratosi imperatore (1043), pose assedio a Bari. Argiro la difese intrepidamente, e Costantino non vide miglior partito che amicarsi Argiro e i Normanni, a questi confermando le conquiste, a quello dando il titolo di federato, patrizio e catapano augusto. Dopo lunga resistenza Manioki dovette fuggir per mare, poco tardò ad essere ucciso; e Argiro, congedati i Normanni, tornò trionfante in Bari, conservando il titolo di duca d'Italia. Spiaceva questo titolo a Guaimaro IV, e soldati contro di lui i Normanni che testè per lui combattevano, lo assediò, ma non potè altro che saccheggiar la contrada. I dodici capi normanni, arricchiti dalle spoglie e dal riscatto de' prigionieri, divisero tra sè il paese: a Guglielmo Braccio di ferro Ascoli, a Dragone suo fratello Venosa, ad Arnolino Lavello, ad Ugo Monopoli, a Pietro Trani, a Gualtiero Civita, Canne a Rodolfo, Montepiloso a Tristano, Trigento ad Erveo, Acerenza ad Asclittino, Sant'Arcangelo a un altro Rodolfo, Minervino a Rainfredo, Siponto col monte Gargáno a Rainolfo conte d'Aversa; e ciascuno innalzò una fortezza per assicurare i proprj vassalli, e si valse a talento delle contribuzioni assegnate a ciascun distretto. Restava in comune Melfi, metropoli e fortezza dello Stato, ove ogni conte teneva una casa ed un rione separato[368], ed amministravano la pubblica cosa in adunanze militari. Poi a Matera elessero per capo supremo Guglielmo «leone in guerra, agnello in società, angelo nei consigli», conferendogli, secondo l'espressione della Carta normanna, il diritto «di governare colla verga della giustizia e di terminare le differenze colla lealtà»; mentre dagl'indigeni riceveva il _gonfalone del comando_. Questa feudalità fra due imperi non poteva vivere ed assodarsi che mediante il valor personale di questo centinajo di prodi. Per gl'italiani essi non erano che barbari e venturieri; spogliavano a gara il popolo, nè il papa aveva autorità di reprimerli: pure, con quell'indole loro pieghevole e subdola, vollero ottenere un appoggio morale, e Guglielmo chiese dall'imperatore Enrico III il titolo di conte della Puglia e l'investitura (1046). E l'ebbe, e fu confermata a Drogone suo fratello e successore, aggiungendo ai Normanni il territorio di Benevento, salvo la città, ch'era stata assegnata al pontefice in cambio dei diritti sulla chiesa di Bamberga, donatagli da Enrico I. Mostrando fare omaggio ora ai Greci or ai Latini, i dodici conti in effetto non confidavano che nella propria daga, nè creduti, nè credendo; ed ora guerreggiavano tra sè, ora si collegavano contro nemici; e nemico consideravano chiunque possedesse bella donna, buon cavallo, armadura o terreno da essi desiderato. La Corte di Costantinopoli, dopo cercato con larghe promesse di trarre que' prodi sulle frontiere di Persia a combattere i suoi nemici, lasciò che il noto Argiro di Bari gli osteggiasse in ogni modo, sino a tramare di assassinarli tutti a un'ora: in fatto molti perirono, e Drogone stesso nella chiesa di Montoglio (1051); ma Unfredo suo fratello e successore vendicò i suoi. Nelle loro scorribande non rispettavano i beni delle chiese o de' pontefici: e il ricco monastero di Montecassino mandarono a guasto e ruba tale, che l'abate aveva stabilito trasferirlo altrove. Ma ecco un giorno Rainolfo conte normanno con molti militi sale a quella deliziosa altura; e quando i monaci stavano in isgomento d'ogni male, lascia le armi e i cavalli fuor di chiesa, ed entra a pregare. I monaci, risoluti a un colpo di mano, saltano su que' cavalli, e chiuso il tempio, e dato nelle campane a martello, cogli accorsi villani assaltano i Normanni, che inermi invocano invano la santità dell'asilo, da essi tante volte violato. Molti furono uccisi; il conte prigioniero si dovette riscattare col restituire tutte le possessioni usurpate[369]. I papi alzavano i consueti lamenti perchè i Normanni ammazzassero e tormentassero i miseri abitanti, nè risparmiando tampoco fanciulli e donne, spogliassero le chiese, e delle esortazioni si facessero beffe. Leone IX contro di essi ottenne (1053) da Enrico III un grosso stuolo, condotto da Goffredo di Lorena: ma ben presto costoro se ne tornarono, non lasciando che da cinquecento persone. Con questi e con altri raccogliticci nostrali e d'oltralpe, laici e cherici, il papa in persona mosse a guerreggiarli, per quanto san Pier Damiani ed altri savj disapprovassero che un pontefice s'accingesse d'altra spada che della spirituale. I capi normanni spedirono per pace, esibendogli l'omaggio de' loro possedimenti[370]; ma poichè egli dai Tedeschi, che sprezzavano quella piccola gente, fu indotto a negar patti finchè non avessero sgombra l'Italia, essi con tremila cavalli e pochi fanti, tutta gente battagliera, presso Civitate[371] vennero a zuffa, sbaragliarono que' raccogliticci, e il papa stesso colsero prigioniero (1053 — 18 mag.). Quei che armato lo avevano sconfitto, vinto l'adorarono, e gli chiesero perdono della vittoria, supplicandolo ad infeudarli di quanto già possedevano, e di quanto acquisterebbero di qua e di là del Faro. Non si fece pregare Leone; e in tal modo la prigionia fruttò al papa meglio d'una gran vittoria, attribuendogli la supremazia sopra un paese, sul quale non l'aveva mai pretesa. Argiro, che aveva secondato l'impresa, cadde ferito; poi la disgrazia il rese sospetto all'imperatore bisantino, che lo mandò in esiglio, ove si uccise, liberando i Normanni da un nemico ostinato. I quali allora sottoposero tutte le città della Puglia. Ad Unfredo aveva agevolato le vittorie il fratello Roberto, detto Guiscardo, cioè l'astuto; uomo, al dire di Guglielmo Apulo, d'alta statura, di sommo vigore, spalle larghe, lunghi capelli, barba color lino, occhi di fuoco, voce tonante; che maneggiava con una mano la spada, coll'altra la lancia (1048); più scaltro d'Ulisse, più eloquente di Cicerone. Venne di Normandia da pellegrino con soli cinque cavalli e trenta fanti; e la povertà primitiva lo rendea cupido d'acquisti, frugale con sè, largo cogli altri. Trovando da patrioti suoi già occupato ogni cosa, egli solda avventurieri italiani, e fa guerra di bande; e mentre Unfredo riduceva la Puglia in suo potere, esso tenta la Calabria, correndo e predando, oggi ricchissimo, domani affamato, presto in voce di valoroso fra quei valorosi. Unfredo ne ingelosì, e sorpresolo durante un banchetto, fu per ucciderlo (1054); poi si rappattumò seco, e gli concesse quanto aveva conquistato: ma alla sua morte (1057) il Guiscardo ne occupò tutta l'eredità. Papa Nicola II, che per le commesse violenze l'avea scomunicato, attesa la sua docilità il ribenedisse, e non vedendolo pago del titolo di conte, gli conferì quello (1059) di duca di Puglia, Calabria e di quanto in Italia e in Sicilia potesse tôrre ai Greci o ai Saracini, considerando come decaduti quelli perchè scismatici, questi perchè infedeli: in ricognizione il Guiscardo e i suoi eredi e successori si dichiaravano ligi della santa sede, alla quale contribuirebbero truppe all'occorrenza e dodici denari pavesi ogni giogo di bovi[372]. Voglia il lettore porre ben mente a quest'atto, onde possa valutare la giustizia o almeno la legalità della conquista normanna e della supremazia pontifizia; poichè così veniva creato un gran feudo, che, secondo la costituzione di Corrado imperatore, passerebbe ai figli ed ai nipoti, e che rileverebbe dal papa, come il duca di Normandia rilevava dal re di Francia. Capitani e soldati alzarono Roberto sullo scudo, e da quel punto cessò d'essere loro eguale per divenirne il principe; ma l'opposizione dei nipoti spossessati e degli altri baroni insofferenti d'ogni preminenza, gli fece logorar le forze, necessarie ad assodare il nuovo principato. Ciò malgrado, al Guiscardo venne fatto di togliere ai Greci Reggio, Squillace, Brindisi, Gallipoli, infine, malgrado i soccorsi orientali, anche Bari (1071), ultimo loro possesso nella Magna Grecia. Con pari fortuna sottrasse Capua ai duchi: poi invitato dagli Amalfitani, attaccò Salerno, una allora delle più belle città, e rinomata per una scuola di medicina a cui traevano malati d'ogni parte; dopo fiero assedio l'ebbe, e così Amalfi (1075-77), terminando la dominazione dei Longobardi, cinquecentonove anni dopo che Alboino avea confitto la lancia sul suolo d'Italia. A Napoli pure e a Benevento mise assedio, ridendosi delle scomuniche papali; finchè s'interpose uno dei più famosi e santi personaggi di quel tempo, Desiderio abate di Montecassino. Roberto tant'era salito in gloria, che n'era ambita la parentela: Azzo marchese, progenitore degli Estensi, Raimondo conte di Barcellona, l'imperatore di Costantinopoli e quello d'Occidente gli chiesero le figlie a spose de' loro figliuoli. Imbaldanzito sulle vittorie, Roberto medita assalire l'impero d'Oriente, dove il suo genero era stato stronizzato dalla nuova dinastia dei Comneni; côlti leggeri pretesti, dichiara guerra ad Alessio imperatore (1081), e con cencinquanta navi, e con galere di Ragusi, caricate per forza di trentamila uomini, prende Corfù e Botronto. Anna figlia di Alessio ce lo dipinge «di pelle rossa, capelli biondi, larghe spalle, occhi di fuoco, voce come quella dell'Achille omerico che con un grido mette in fuga miriadi di nemici. Soffrire superiorità altrui non poteva: parte di Normandia con cinque cavalieri e trenta fanti; arriva in Lombardia, s'appiatta negli antri e nelle montagne, e cominciando sua carriera guerresca con assassinj e rapine, provvede i suoi d'arme, cavalli, denaro». L'esagerazione è gran segno di paura! Alessio affrettò la pace coi Turchi, che da Nicea minacciavano già l'Impero, e chiese soccorso ai Veneziani, che, di mal occhio vedendo questa nuova potenza in Italia, con buona flotta ruppero quella del Guiscardo. Questi rifattosi pose assedio a Durazzo; e non che sgomentarsi dell'esercito che Alessio aveva allestito con rinforzi di Franchi e di Scandinavi assoldati, fe metter fuoco alle navi per togliere a' suoi la speranza della ritirata, e accettò la battaglia (18 8bre). La moglie di lui vi comparve eroina, e benchè ferita, rimase tra la mischia esortando, tanto che Alessio non dovette lo scampo che alla propria spada e alla rapidità del palafreno. Durazzo è presa; Roberto si addentra nell'Epiro: ma le perdite sofferte, i morbi sviluppati, e triste notizie di turbolenze in Italia lo richiamano. A Boemondo suo figlio lasciato in Grecia, Alessio oppone i Turchi, e fa ferire i cavalli, sapendo come i Normanni poco valgano pedestri, onde al fine lo riduce a ritirarsi. Secondo la promessa fedeltà feudale, trecento Normanni ajutarono papa Nicola a domare i conti di Tusculo; poi quando Gregorio VII era dall'imperatore d'Occidente ridotto prigioniero in Roma (1084), Roberto accorre, getta il fuoco alla città, e liberato il pontefice, seco il mena trionfante a Salerno. Quindi nuova spedizione allestisce contro la Grecia; e malgrado la flotta che gli affaccia Alessio, sostenuto dai Veneziani, sbarca, sconfigge gli imperiali in ripetuti scontri per mare e per terra, e saccheggia la Grecia e le città dell'Arcipelago. Morte lo arresta (1085), e i Normanni si sparpagliano: ma poco andrà che i suoi nipoti, segnati il petto della croce, verranno a sgomentare Costantinopoli e i Musulmani[373]. Aveva Roberto conferito al minor suo fratello Ruggero il titolo di conte di Sicilia (1072), ma niun mezzo di conquistarla che il suo valore ed un cavallo. Gittatosi alla via, egli svaligiava i passeggieri, massime quelli che per mercatanzia recavansi ad Amalfi[374]: sua moglie, alla quale egli non potè tampoco costituire una dote, gli coceva il parco desinare, e spesso tramendue non possedeano che un sol mantello per uscir fuori: uccisogli in battaglia l'unico cavallo, egli prese in ispalla la sella, e con questa si salvò. Tal era il ceppo dei futuri reali di Napoli; il quale (1061), coll'ardimento proprio alla sua nazione, tragittossi in Sicilia, a titolo di redimere i Cristiani dalla servitù musulmana[375]. Dalle sconfitte avute dal prode e avaro Manioki s'erano rifatti gli Arabi sotto l'inetto suo successore Stefano, e ricuperarono tutte le fortezze perdute. Sola Messina resisteva, all'assedio della quale si conversero tutte le forze arabe: ma Catalco Ambusto che vi comandava, li sorprese (1040), uccise nella propria tenda Abulafar loro generale, e fece ricchissimo bottino. Non seppe profittare della fortuna Stefano, e non che riperder tutto, fuggì in Calabria. Ma anche i Saracini guastavano se stessi colle reciproche nimicizie. Due emiri si disputarono il primato, e soccombuti entrambi, la Sicilia restò divisa fra varie piccole signorie; Abd-Allah ebbe Trapani, Marsàla, Màzara, Sciacca; Alì ben-Naamh Castrogiovanni, Castronovo, Girgenti; Ben-Themanh Siracusa e Catania; altri altro, nemici fra loro, molesti tutti al paese. Questo Themanh avea sposato Maimuna sorella di Alì ben-Naamh; ma un giorno ubriaco le fece aprir le vene. Ella, guarita a stento, fuggì al fratello, il quale assalse e spodestò il cognato. Themanh rifuggì allora sul continente a Ruggero, e lo aizzò a conquistare l'isola. Volentieri l'ascoltò il venturiero, e passato lo stretto, piantò su Messina la croce, che n'era strappata da ducentrent'anni. All'assedio di Traina in val di Demona a' piedi dell'Etna, i trecento suoi seguaci resistettero a tutte le forze dell'isola; alla giornata di Teramo (1063) trentamila nemici furono sconfitti da centrentasei Cristiani, e Ruggero assicurò che san Giorgio, patrono de' guerrieri, avea pugnato con essi, e serbò per san Pietro le bandiere nemiche e quattro camelli, e da papa Alessandro II ricevette in ricambio la bandiera di San Pietro. I Pisani faceano allora vivo traffico in Sicilia, e specialmente a Palermo; ed essendo disgustati degli Arabi, raccolsero un forte naviglio, e spintisi contro la catena di quel porto la spezzarono: entrati, non poterono prendere la città, atteso il gran numero di Musulmani accorsi, ma portarono via in trionfo la rotta catena; di sei navi riccamente cariche, cinque bruciarono, l'altra condussero in patria, dell'opimo bottino valendosi per fabbricarvi il duomo. Ventott'anni si ostinò Ruggero (1089) per togliere l'isola ai Saracini, ai Greci ed ai naturali: la resa di Palermo segna l'epoca in cui la stirpe dei Beni-Kelb fu spossessata. Ben-Avert teneva ancora Siracusa e Noto; e Ruggero, assalitolo per mare, lo sconfisse ed uccise; e dopo assedio fierissimo ebbe anche Siracusa, poi Girgenti e Castrogiovanni, e ultime Butèra e Noto: col che potè dirsi padrone di tutta l'isola, della quale investì il fratello Roberto, per sè conservando Palermo e Messina. Rincacciando poi i Musulmani, assalì anche Malta, obbligandoli a tributo e a rilasciare i prigionieri cristiani. Presi molti beni per la sua famiglia, molti assegnatine alle chiese, altri distribuì a' suoi seguaci, dando così origine alla feudalità in Sicilia, e ripristinò i vescovi nelle sedi. Molti ricchi Musulmani uscirono di paese: ai rimasti Ruggero lasciò il culto e le proprietà, privandoli però d'alcuni diritti, come d'aver botteghe, mulini, forni, bagni pubblici; gli ebbe nell'esercito, ed erano una metà di quello che, nel 1096, stringeva la ribellata Amalfi; in arabo si poneano ancora le iscrizioni e battevansi le monete. CAPITOLO LXXVIII. La Chiesa. Simonia e concubinato. Gregorio VII. La contessa Matilde. Guerra delle Investiture. Fra quell'universale scombuglio, sola la società cristiana rimaneva immobile; società d'intelligenze, che non fondandosi sopra cose contingenti, ma sulla perpetuità delle idee, soffrendo e combattendo consolidava la propria unità e indipendenza, diffondeva nozioni ed esempj d'ordine, di pace, di personale dignità; alla forza che presumeva poter tutto, metteva un limite di verità, di giustizia, d'amore; tendeva senza posa ad assimilare quanto stavale dattorno, e conquistare i conquistatori, non badando alle nazioni ma agli uomini, e proclamandoli eguali perchè tutti creature di Dio, liberi perchè tutti servi ad un signore non terreno. Tale assimilazione incarnò essa nel sacro romano impero, come principio d'equilibrio politico e tutela di sociale giustizia: ma gravi tribolazioni e scosse ebbe di là donde attendeva sollievo e franchezza. Perocchè gl'imperatori, con pretensioni vaghe e col mal definito possesso dell'Italia, nocevano all'indipendenza di questa e alla dignità reale; i papi, costretti cercare possedimenti quando dai terreni derivava ogni podestà e ogni sicurezza, intesero in senso materiale il morale arbitrio che loro attribuiva la coscienza de' popoli. Quindi il cozzarsi delle due podestà, e difficile l'assegnare fin dove di ciascuna giungesse la ragione, e cominciasse il torto. I possessi ecclesiastici, protetti contro il disordine, erano meglio coltivati degli altri; onde, non solo per pietà, ma per metterli in salvo dalla generale violenza, molti offerivano alle chiese i proprj averi, ricuperandoli poi a titolo di livello e di precario; e tanti in Italia davansi alle chiese come oblati o manimorte, che re Lotario dovette imporre, chi il facesse senza necessità, rimanesse nulladimeno soggetto all'eribanno e all'altre pubbliche gravezze. Le decime, consiglio dapprima, divennero comando; e la superstizione vedeva i demonj svellere le spighe dal campo dei renitenti. Aggiungetevi le donazioni che la pietà e la politica dei re vi faceva, e il tributo d'interi regni, e comprenderete il perchè lautissimi possessori riuscissero i conventi, le chiese, le mense vescovili. E poichè sulla proprietà territoriale era piantata la società, alto grado occuparono nella gerarchia feudale; vescovi e abati acquistarono i diritti di moneta, tributi, giudizj di sangue e le altre regalie; baroni insieme e gran sacerdoti, intervenivano a far leggi e creare il re. Convertiti in elettori, i vescovi poterono dettare ai re precetti diversi da quelli che suggeriva la sbrigliata prepotenza, e giuramento di mantenere le prerogative del popolo e i diritti della Chiesa. Costumati a governo regolare là dove ogn'altro era scomposto, i sacerdoti ne porsero l'esempio ai Barbari, i quali od affidarono loro o con loro divisero la direzione delle pubbliche cose. Traendo a sè le cause a cui per alcun appiglio si attaccasse idea religiosa[376], grandemente allargarono la giurisdizione; e poichè è canone non poter uno essere due volte processato pel delitto medesimo, con infliggere ai sacerdoti delinquenti la punizione ecclesiastica venivasi ad esimerli dalla ordinaria. Il vescovo era sottratto a qual si fosse tribunale, appena dichiarasse appellarsi al papa; in caso diverso, non poteva essere giudicato da meno di dodici vescovi, nè condannato che sovra deposizione di settantadue testimonj fededegni. Non poco giovò alla civile equità il diritto, ai vescovi riconosciuto, d'ammonire l'autorità di qualunque disordine, e chiedere fossero abrogate o mutate le leggi devianti dalla giustizia. Quindi la protezione in cui la donna, balocco di regie passioni, fu presa da essi onde mantenere la santa castità del matrimonio, e sublimarlo nell'opinione; quindi le barriere poste all'abuso de' giuramenti e dei duelli giudiziarj; e se le ordalie non abolirono come troppo radicate nella consuetudine, le trassero però a sè coi riti, siccome un modo di campare molti innocenti. Ad egual modo non essendo possibile strappare ai signori il privilegio della ostilità privata, vi posero ripari secondo i tempi, l'asilo nei luoghi sacri e la tregua di Dio. Il loro capo dovea poi naturalmente acquistare nello Stato una posizione, che non è nell'essenza della missione sua, ma che non vi ripugna: e se già da prima il papa interveniva come giudice od arbitro ne' grandi interessi dell'Occidente, più il fece dopo che all'estesa monarchia di Carlo Magno successero tanti piccoli regni, di forze equilibrate. Nello sminuzzamento feudale nulla importava alla Francia quel che facessero la Danimarca o la Croazia: ma Roma prendea pensiero dello Spagnuolo come del Polacco; spediva legati e nunzj, prima che si usassero ambasciadori; deputava giudici e stabiliva tribunali di nunziatura là dove non conosceasi altro diritto che la spada; dettava leggi comuni, fondate su una giustizia eterna. Tutti quei popoli dunque veneravano la romana chiesa; alla sua primazia piegavansi i nuovi convertiti, giacchè da essa erano venuti gli apostoli loro; i metropoliti lontani portavano i loro piati alla curia romana. Un sacerdote inerme, che, scevro da mondani interessi, pronunzia nelle contese de' principi, o fra questi e i popoli; parla d'onestà e dovere a coloro, cui unico diritto sono il capriccio e la forza; ovvia le guerre, protegge il debole; è un tipo sublime che per avventura mai non fu pareggiato dalla realtà: ma forse vi accostarono altri sistemi inventati dappoi per mantenere una libera alleanza fra i popoli d'Occidente? Attribuire l'incremento dell'autorità pontificia ad astuzia tradizionale e a millenarie ambizioni, è sapienza da caffè durante il medioevo. Non un palmo di terra s'aggiunsero per la via usata dai principi, la conquista; diversi d'umori, di passioni, d'affetti, d'ingegno, dall'un all'altro si trasmisero una volontà costante nelle cose superiori; nelle terrene la lor politica orzeggiava come gli uomini; perciò in quelle ebbero potenza irresistibile, in queste si schermivano a stento dal più fiacco nemico: baroni e re prepotenti o popoli rivoltosi toglievano loro i possessi e fin la libertà; intanto che la loro voce sonava temuta e venerata nelle parti più remote; e i popoli esultavano che ai grandi sovrastasse una podestà per arrestarne il despotismo, il quale soltanto è possibile dove i re si persuadono nulla aver di superiore. L'autorità ecclesiastica poi dei papi, ingrandita col restringere il potere dei metropoliti, revocare a Roma la collazione di molti benefizj, sottrarre agli ordinarj i conventi e i beni parrochiali, favorire le pretensioni dei canonici, fu consolidata dalle false Decretali. Furono queste inventate dai papi per erigervi la propria primazia? o l'autore si propose di supplire alla mancanza di un codice ecclesiastico conforme ai bisogni del tempo, raccogliendo titoli antichi anche spurj; trasformando in vere decretali altri, a cui il pontificale romano alludeva, o desumendoli da storici e da padri della Chiesa e da collezioni anteriori? Ne disputano gli eruditi: ben sappiamo che, al risorgere della critica, il Valla e i cardinali Baronio e Bellarmino ed altri non meno pii che dotti non esitarono a dichiararle false; ma al comparir primo trovavansi così conformi ai principj ed alle istituzioni della Chiesa, che i più le accolsero senz'altro, sinodi e papi le citarono, altri compilatori vi fecero sopra fondamento, e ne restò legittimata la supremazia papale. Ma altrettanto erano altere le pretensioni dell'autorità secolare, onde non era possibile procedessero senza venire a cozzo. La Chiesa avea sempre gelosamente provveduto che l'elezione de' prelati rimanesse libera, e fatta per merito non per sollecitazioni, o tumulti, o mercato. Ma quando ogni possesso ed ogni autorità si ridusse feudale, tal si volle ridurre anche l'ecclesiastica: e parve ai re poter obbligare i prelati a prestar loro l'omaggio e chiedere la conferma de' possessi e delle giurisdizioni; ed essi ne gl'investivano colla tradizione dell'anello e del pastorale. Il diritto d'investirli dava ai re una grande ingerenza anche nell'eleggerli, e presto una specie di padronanza nelle cose ecclesiastiche. Mentre riduceano i sacerdoti ad obblighi secolareschi, _raccomandavano_ spesso le badie a qualche secolare (_commende_), cioè gliene attribuivano i frutti, lasciando al clero i pesi. Di qui un traffico di ecclesiastiche dignità, le quali portando lucro e potenza, procacciavansi con denaro, o, come lamentava san Pier Damiani, «coll'adulare il principe studiandone le inclinazioni, obbedendo ad ogni suo cenno, applaudendo ogni parola che gli caschi di bocca, andandogli in ogni cosa a versi. Non è comprata cara la dignità con sì lunga servitù, col far da parasito e buffone per diventare vescovo?» Dal soverchio ingrandimento veniva dunque umiliazione vera al clero; onde Attone vescovo di Vercelli[377] non rifina di compiangere le tirannidi usate ai vescovi, accusati da chi che fosse, costretti a difendersi col giuramento e col duello; intanto che i principi carpivano al clero e al popolo le elezioni; e non ai più degni, ma guardavano a parentele, servigi, ricchezze; talchè s'accumulavano in un solo molte prelature, o attribuivansi a fanciulli che appena sapessero qualche articolo di fede, tanto da rispondere ad un esame di semplice formalità. Manasse possedeva i vescovadi d'Arles, Milano, Mantova, Trento, Verona: già incontrammo un vescovo di Todi di dieci anni, un papa di nove. Il padre che avea portato in braccio suo figlio alla sede, mercanteggiava a nome di lui cariche, parrochie, benefizj, riscoteva le decime e il prezzo delle messe, e colla spada faceva e disfaceva nella diocesi, come fra' suoi vassalli[378]. Gli uomini di retta volontà rifuggivano da tali accatti; onde le cattedre restavano a gente che, entrata di rapina a guardia del gregge, come avrebbe offerto quella perfezione di virtù che è richiesta dalla Chiesa? come avrebbero potuto essere gli uomini di Dio e del popolo, se prima dovevano essere gli uomini del re? e come non essere gli uomini del re, quando questo li sceglieva secondo i suoi interessi? Ben la santità di alcuni e la bontà del basso clero manteneva la distinzione, che il carattere e le funzioni pongono fra laici e sacerdoti: ma quelli d'illustre nascita o di elevata dignità si brigavano nelle occupazioni della nobiltà, e meglio della teologia e delle pacifiche virtù credevano s'addicessero al grado loro le armi, il mestar partiti e maggioreggiare nelle Corti. Quando Arnolfo arcivescovo milanese si condusse ambasciatore alla Corte greca, traeva immenso codazzo d'ecclesiastici e secolari, fra cui tre duchi e assai cavalieri, ai quali avea distribuito pelliccie di màrtoro, di vajo, d'ermellino; esso poi montava un cavallo non solo di ricchissima bardatura, ma ferrato d'oro con chiovi d'argento. Da questi scialacqui come rifarsi? dilapidando le chiese e i poveri, rivendendo le dignità minori, guastando così l'umor vitale fin nelle parti estreme. Assenti dalle diocesi anche per tutta la vita, corteando, addestrandosi alle battaglie colle caccie, i vescovi corrompevano i proprj e lasciavano corrompere i costumi del clero in guisa deplorabile. Ad esempio de' grandi, i patroni secolari faceano bottega de' piccoli benefizj. I laici non badavano alle scomuniche, sapendo che già le aveano incorse quelli che le lanciavano. Chi non avesse altro, vendeva le preghiere, essendo invalso che uno potesse adempiere alle penitenze d'un altro, e con orazioni o con battiture espiar la pena dovutagli. Domenico Loricato ebbe questo nome perchè portava un petto di ferro, e catene attorno al corpo, e spesso assumevasi la penitenza dei cento e dei mille anni. Credevasi allora che tremila sferzate equivalessero a un anno di penitenza; e durante la recita dei cencinquanta salmi poteansi dare quindicimila colpi. Col recitar dunque venti volte il salterio sotto continua flagellazione adempivasi alla penitenza di cento anni; e talora Domenico la compiva in sei giorni[379]. Non solo le cronache, ma le invettive de' santi ed i concilj testimoniano tale depravamento, da mostrare che veramente divina era l'istituzione della Chiesa se non soccombette. Uno dei più virtuosi e dotti di quel secolo fu Pietro da Imola (988-1072), che abbandonato dalla madre a curare i majali, fu tolto a educare dal fratello Damiano arcidiacono di Ravenna, da cui per riconoscenza prese il nome di _Damiani_. Presto fu maestro egli stesso, e sequestratosi dal mondo nel romitaggio di Fontavellana, aperto allora dal beato Ludolfo appiè dell'Appennino nell'Umbria, ne divenne abate, e molti eremi fondò e de' suoi scolari molti vide unti vescovi. I papi lo adoprarono in affari scabrosissimi, e lo fecero cardinale vescovo d'Ostia, dignità che non accettò se non dopo minacciato di anatema, e non si tenne contento se non quando alfine impetrò di tornare nel suo convento. Fra una vita operosissima, preghiere, digiuni, cilizj erano sua continua compagnia, dormiva s'una stuoja, e ricreavasi coll'intagliare cucchiari ed altri arnesi di legno. Inventò l'uffizio della Madonna: oltre le cencinquantotto lettere e relazioni sugl'importanti negozj ch'ebbe a trattare con re e con prelati, ne abbiamo settantacinque sermoni, vite di molti santi suoi contemporanei, e sessanta opuscoli esegetici, teologici e storici, in dettatura migliore de' contemporanei, eppur diffusa e intralciata, e con un cumulo di miracoli e apparizioni di morti. Zelantissimo della miglior disciplina, torna ogni tratto a deplorare il pervertimento de' prelati, e — Han fame d'oro (intuona), e dovunque giungono vogliono vestir le camere a gale di cortinaggi, meravigliosi di materia o di lavoro. Distendono sulle seggiole gran tappeti ad immagini di mostri; larghe coltri sospendono alla soffitta perchè non ne caschi polvere; il letto costa più che il sacrario, e vince in magnificenza gli altari pontifizj; la regia porpora d'un solo colore non contenta; e si vuole coperto il piumaccio con tele miniate d'ogni genere di splendori. E perchè ci puzzano le cose nostrali, godono soltanto di pelli oltremarine, condotte per molto argento: il vello della pecora e dell'agnello si ha in dispetto, e voglionsi ermellini, volpi, màrtori, zibellini. Mi vien fastidio a numerare queste borie, che movono a riso, è vero, ma a tal riso che è radice di pianto, vedendo questi portenti d'alterigia e di follia, e le pastorali bende sfavillanti di gemme e qua e là scabre d'oro»[380]. Il beato Andrea, abate di Vallombrosa, esclama: — Era il ministero ecclesiastico sedotto da tanti errori, che appena si sarebbe trovato alcuno alla propria chiesa; chi con isparvieri e cani dandosi attorno, perdevasi in caccie; chi faceva da tavernajo, chi da usuriere; tutti con pubbliche concubine passavano vituperosamente lor vita, tutti fradici di simonia, tanto che nessun ordine o grado dall'infimo al sommo poteva ottenersi se non si comprava al modo che si comprano le pecore. I pastori, cui spettava rimediare a tanto guasto, erano lupi rapaci»[381]. Raterio nacque d'un legnajuolo, e anche divenuto vescovo di Verona amava fabbricare e restaurar chiese; così povero che nè cappellano aveva nè famiglio; nessun lusso nel vestire e nel calzarsi, dormire in terra o sopra un pancone, tenere a mangiar seco ogni qualità di persone, digiunare talvolta fino a nona, facendo penitenza per gli altri; non che curare le maldicenze, donò dodici soldi d'argento a uno che gli aveva detto ingiuria. Egli muove caldissimi lamenti contro il clero nostrale, che sollecitava la libidine con vini e cibi; e raccolto un concilio, trovò che molti nè tampoco sapevano il _credo_[382]. A Farfa, Campone e Ildebrando avvelenano l'abate, e a forza di denari il primo ne ottiene la dignità; ma Ildebrando scontento solleva i vicini di Camerino, caccia Campone, e si fa donno del monastero; Campone con maggiori somme si trae dietro altri, recupera il posto, e attende a mettere al mondo figliuoli e arricchirli coi beni del monastero. Alberico, nominato vescovo di Como da re Enrico II (1010), di cui era cappellano, donò ai monaci Benedettini un podere del clero di Sant'Abondio, perchè questo ne faceva scialacquo _in pazzie e in cure secolari_. Aveva sotto di sè vassalli, gastaldi, avvocati, il visdomino; e fu degli zelanti nel riformare il clero. Eppure avendo avuta da re Corrado in commenda la ricchissima badia di Breme in Lomellina, per venirne in possesso fece metter le mani addosso all'abate, e cacciatolo in carcere lo costrinse a giurargli fedeltà. Poi al tempo del ricolto andò al monastero, e fece egual violenza a due monaci che per avventura si opponevano alle sue depredazioni; ma la notte, ecco san Pietro gli compare al letto, e non pago di rimproveri, lo batte e mutila in sì mal modo, che la mattina avendolo i monaci costretto a partirsene, tra via morì[383]. Clero e popolo, trovandosi esclusi dalle nomine, e imposti superiori sconosciuti o perversi, mal si rassegnavano all'obbedienza, e ne nascevano turbe e tumulti. A Firenze il vescovo Pietro di Pavia era tacciato di aver compra la dignità dall'imperatore; contro lui principalmente alzano la voce san Gualberto fondatore dei Vallombrosani, e Tenzone che da cinquant'anni stava murato in una celletta; pretendeano non si dovessero ricever da esso i sacramenti, e accusavano di connivenza Pier Damiani, il quale rispondeva che, ammettendo ciò, vi sarebbe da un pezzo interruzione nel ministero della Chiesa di Dio. Per finirla, il vescovo mandò ad assaltare il convento di San Salvi, trucidando quanti monaci furono côlti (1067). I sopravissuti invocarono il giudizio di Dio per provare esser Pietro indegno di quella sede. Eretti due roghi vicini e accesili, il monaco Giovanni vi passò scalzo senza nocumento o dolore; Pietro si ritirò in un monastero, e Giovanni _Igneo_ divenne cardinale e vescovo d'Albano. Di Roma abbiam già detto abbastanza e troppo. A tanta corruzione i concilj opponevano decreti di morale e di disciplina: s'introducevano regole più austere, qual fu l'Ordine dei Cluniacesi (910), che dalla Francia ove nacque presto si diffuse anche in Italia; il severissimo de' Certosini (1084), dal fondatore san Brunone portato alla Torre in Calabria. Romoaldo, nobilissimo ravennate e confidente di Ottone III, ritiratosi nel deserto di Camaldoli (_campus Maldoli_) (1012), tra le più belle faggete e abetine che coronino la vetta degli Appennini, fabbricò una chiesa e cellette distinte per ciascun monaco, dettando una regola di continui digiuni e prolungati silenzj. Incessantemente egli predicava contro la simonia, e disciplinava il clero; molti prelati simoniaci venivano a consultarlo, «ma (dice Pier Damiani) non so s'egli abbia emendato un solo; tanto è dura quest'eresia, e tanto difficile la guarigione, che con meno fatica si convertirebbe un Ebreo». A un conte Olibano, che venuto con gran corteo alla sua cella, gli espose i proprj peccati, intimò non potrebbe salvarsi se non rinunziando alle pompe del secolo: e quegli obbedì, e si fe monaco. A Ottone III, in penitenza dell'avere ucciso Crescenzio, impose pellegrinasse a pie' scalzi da Roma al monte Gargáno, poi nel monastero Classense di Ravenna digiunasse l'intera quaresima, cinto di cilizio, e dormendo s'una stuoja. Esso imperatore l'obbligò a uscir dalla solitudine per riformare il monastero Classense; ma que' monaci non sapeano adattarsi a tanto rigore, sicchè Romoaldo ruppe la verga, e tornò al suo ritiro. Qui visse fino a cenventitre anni; poi Rodolfo, quarto priore, fabbricò a valle il convento di Fontebuona, i cui monaci doveano procurare i poveri alimenti agli eremiti della montagna; e quella congregazione, approvata da Alessandro II (1072), acquistò dappoi tante ricchezze, quanta a principio n'era stata l'umiltà. In una delle ricorrenti baruffe cittadine era stato ucciso un nobile fiorentino, e tutta la parentela tenevasi obbligata a vendicarlo. L'uccisore stava dunque in grande apprensione, e scontrato uno d'essi parenti, per nome Giovanni Gualberto, in un calle ov'era impossibile cansarlo, dandosi perduto, si gittò a terra colle braccia tese a pietà. Giovanni, venerando la croce che in quell'atto egli rappresentava, gli perdonò; e colla tenerezza infusa da una buona azione entrando in San Miniato, parvegli che un crocifisso s'inchinasse, quasi ringraziandolo d'aver perdonato a suo riflesso. Tocco dal miracolo, lascia il mondo quando di maggiori attrattive lusingava la sua giovinezza, e a malgrado del padre (1060), raccorci i capelli, veste l'abito; poi per desiderio di maggior solitudine si colloca a Vallombrosa negli Appennini, rimettendo al primitivo rigore la regola di San Benedetto, dando a' suoi un vestire di grossa lana bianca e bruna, e, cosa nuova, con frati laici distinti di condizione, a' quali era permesso parlare mentre fuori attendevano a lavori. Leone da Lucca, che, sebbene abate della Cava, andava far legna al bosco, e grossi fasci ne portava a Salerno da vendere per vantaggio dei poveri, riprese più volte l'avarizia e crudeltà del principe Gisolfo; ma trovandolo incorreggibile, gli predisse che sarebbe spodestato da Roberto Guiscardo. Più d'una volta presentossi alle prigioni, e senza che alcuno osasse opporsegli, liberò quei che il principe avea condannati a morte. E Giovanni Gualberto, e San Nilo, romito di Calabria, ed altri di quel tempo moltiplicarono miracoli di conversioni, ma la voce e l'esempio de' pari loro riuscivano d'efficacia parziale, nè a piaghe incancrenite poteva venire il rimedio se non da quel seggio, alla cui altezza principi e popoli affisavano lo sguardo. Ma la sede romana era talmente contaminata, che gl'imperatori ne coglievano pretesto per collocarvi loro creati, perpetuando in tal modo l'abuso delle illegali elezioni. Gerberto, monaco dell'Alvergna, poi abate di Bobbio, fu dotto nelle matematiche, le quali voleva nelle scuole si accoppiassero alla dialettica per crescere forza e penetrazione agli intelletti; introdusse o estese l'uso delle cifre arabiche, con gran cura adunava libri, pose a Magdeburgo un oriuolo forse a bilanciere, e chi entrasse nella camera di lui, vi vedeva astrolabj, sfere, cifre strane, e l'altro corredo da astrologi e maghi. Fu dunque creduto un di costoro, e che avesse patteggiato col demonio per apprendere que' bei trovati e i modi di salire alla suprema dignità. Questi modi però erano scienza superiore ai contemporanei e perseveranza: e dopo che fu arcivescovo di Reims, Ottone III suo scolaro il collocò arcivescovo di Ravenna (999), in fine papa col nome di Silvestro II[384]. Soli quattro anni regnò, e ne' successivi (1003-12) il prefetto di Roma e la fazione dei conti di Tusculo portarono al seggio Giovanni XVII e XVIII, Sergio IV, infine Benedetto VIII uno di essi conti, che illaudabile come pontefice, dell'abilità guerresca si giovò a snidare da Luni i Saracini. Denaro e forza gli diedero successore il fratello Romano ancora laico (1024), console e senatore di Roma, che volle chiamarsi Giovanni XIX, e che vendette per ripagarsi. Poi la fazione stessa tusculana fece eleggere un suo nipote Teofilatto (1033), di dodici anni, che disonorò colla scostumatezza il nome di Benedetto IX. Due volte dalla pubblica indignazione cacciato e surrogatogli Silvestro III, due per la forza imperiale ricuperò la tiara; la vendette a Giovanni XX, poi col denaro ritrattone soldò gente e ripigliolla. Graziano arciprete, entrato conciliatore, sì bene destreggiò e spese, che ottenne per sè il pontificato (1044), col nome di Gregorio VI. Allora sedettero tre papi contemporanei, che non pensavano a regolare la Chiesa, ma a spartirsene gli emolumenti. Invitato a riparare a tali disordini, Enrico III convocò a Sutri un concilio, ove Silvestro III e Giovanni XX furono sentenziati d'intrusi, e Gregorio, confessando averlo ottenuto per vie riprovate, depose il pastorale, e si ritirò fra i Cluniacesi. L'imperatore fece eleggere Sugero vescovo di Bamberga, che prese il nome di Clemente II (1046), coronò Enrico, e pensava svellere la dominante simonia, ma pontificò appena un anno. Al morir suo, Benedetto IX ritorna[385]; ma Enrico spedisce a Roma Poppone vescovo di Bressanone, che pochi giorni siede papa col nome di Damaso II; indi la dieta raccolta a Worms elegge Brunone vescovo di Toul (1048). Così, per evitare le doppie e le turpi elezioni, credessi necessario che i re destinassero i capi alla Chiesa, e preferissero Tedeschi, meno corrotti e alieni dalle fazioni. Brunone aveva cercato sottrarsi al papato sin col fare pubblica confessione de' proprj peccati: indotto poi ad accettarlo, nell'avviarsi a Roma volle averne parere con Ildebrando, monaco di Cluny in gran riputazione di dottrina e virtù; il quale mostrandogli l'indegnità di un'elezione laica, l'indusse a mutare l'abito pontificale in quel di pellegrino, fin a tanto che il popolo e il clero di Roma non lo avessero liberamente nominato. Finchè vendevansi le chiese, finchè se ne otteneano le dignità per moneta e brogli, finchè il libertinaggio di chi le occupava inchinavasi ai principi venditori più che non ai pontefici riformatori, potea mai sperarsi che i vescovi ricuperassero l'indipendenza d'autorità, di cui avevano fatto getto per acquistare la libertà de' costumi? Depravata la Chiesa perchè si secolarizzò, bisognava tornarla alle norme ecclesiastiche, rinvigorire il sacerdozio, il monachismo; sopra i malvagi, di qualunque grado fossero, istituire un censore, disoggetto da temporali potenze; e tale non potendo essere se non il papa, era duopo sottrarne l'elezione ai laici, sciogliere i sacerdoti dal legame feudale, e perciò isolarli dalle famiglie. Chi si accingesse a rompere il triplice vincolo della terra, della famiglia, dell'autorità con cui il clero trovavasi legato alla società, troverebbe durissimo cozzo nei re che scapitavano di potenza, nei preti che perdevano comodità alle passioni, nelle molli abitudini. Non poteva egli esser dunque che un eroe; nè i passi dell'eroe e in età sciagurate vanno misurati col metro dell'uomo ordinario e de' tempi quieti. Nel monastero di Cluny era cresciuto Ildebrando (n. 1013), di Soana nel Senese; ed erudizione profana e sacra, integerrimo costume, cuor retto, giudizio ponderato nell'ideare, ferma prudenza nell'eseguire, presto lo segnalarono. Stomacato della universale corruttela, vide non potersi correggere il mondo se non correggendo la Chiesa che n'era capo; e vigile, attivo, indomito, sempre fondato sulla vetusta tradizione e sul voto del popolo, vi si applicò quando fu preso a consigliere dai pontefici. Le nefandità, tra cui era testè corso il papato, lo convinceano che ogni male venisse dal restare la suprema dignità commessa all'elezione interessata e corrotta de' secolari: ma poichè non si poteva di tratto abolire la pretensione degl'imperatori, cominciò a sanare le nomine regie col sottometterle alla rielezione del clero e del popolo. In questo intento consigliò Brunone d'entrare in Roma da pellegrino (1049), e quivi chiedere il suffragio di chi solo v'avea diritto. Brunone, che fu Leon IX, il fece, ed annunziò il divisamento di deporre i vescovi simoniaci; ma trovò il male così esteso, che fu costretto rallentar quel rigore, imponendo solo quaranta giorni di penitenza ai convinti. Lui morto (1055), Enrico III nominò il monaco Gebardo suo consigliere, persona specchiata, che assunto il nome di Vittore II, per sè e coll'opera d'Ildebrando procacciò a riformare la disciplina. Dopo di lui, una fazione, sazia di tanti papi tedeschi, portò al seggio Stefano IX (1057), che fu zelantissimo della disciplina, e che, morendo dopo soli otto mesi, pregò non si eleggesse il successore fin quando di Germania non tornasse Ildebrando. Però Gregorio conte di Tusculo, armata mano, fe proclamare l'inetto Giovanni vescovo di Velletri (1058), col nome di Benedetto X. Ildebrando, conoscendo che il papa d'una fazione sarebbe ancor peggio che il papa d'un imperatore, si unì ai grandi, a Pier Damiani e ad altri cardinali, pregando dalla imperatrice Agnese un altro pontefice, il quale fu Gerardo vescovo di Firenze. Ildebrando, che ne recò l'annunzio, ebbe cura fosse rieletto in un sinodo a Siena, ove prese il nome di Nicola II (1059); e perchè più non si rinnovassero le elezioni tumultuarie, lo indusse a toglierne il diritto al re ed al popolo, per affidarlo ad un concilio di cardinali vescovi e cardinali cherici[386], salvo l'approvazione del clero e l'onore dovuto all'imperatore. I grandi, stizziti del vedersi tolto il lucroso privilegio, spedirono chiedendo un papa al nuovo imperatore Enrico IV; e i prelati lombardi da lui convocati a Basilea (1061), abrogata la costituzione di Nicola, stanziarono che il pontefice dovesse scegliersi nel _paradiso d'Italia_, come definivano la Lombardia, acciocchè avesse viscere tenere a compatire la fragilità umana, ed elessero Cadolao vescovo di Parma, che si fe dire Onorio II[387]. Venne costui a prendere possesso della dignità colle armi, alleandosi anche colla fazione di Tusculo; ma Ildebrando avea già fatto proclamare dai cardinali Anselmo da Baggio vescovo di Lucca, col nome di Alessandro II. Lo scisma proruppe in guerra civile, dove il papa legittimo restò vinto in prima, indi vincitore. Solo dopo molti anni l'arcivescovo di Colonia Annone, tutore di Enrico IV, lo riconobbe: e Cadolao, gran tempo sostenuto nel Castel Sant'Angelo da Cencio, che comprò a contanti, riuscì a fuggire, senza però mai rinunziare alle sue pretensioni. Un concilio adunato a Mantova chiarì legittima l'elezione di Alessandro. Tanta potenza esercitando, riverito come signore dai papi medesimi, da un pezzo Ildebrando avrebbe potuto sedere sulla cattedra di san Pietro, qualora l'avesse ambita; ma celebrandosi le esequie di Alessandro, la folla (1073) invade tumultuosamente la basilica Laterana, acclamando d'ogni parte Ildebrando papa per volontà di san Pietro. Egli accorse al pulpito per chetare quel disordine; tutto invano; nè il gridare ristette finchè i cardinali non ebbero annunziato pontefice l'eletto dal popolo e dall'apostolo. Allora la pompa del nuovo papa e le acclamazioni si mescolarono in modo strano all'apparato funebre e al corteo di suffragio. Con ciò si preveniva l'intervenzione e la probabile opposizione imperiale, e assicuravasi ai cardinali il contrastato privilegio elettorale: pure Ildebrando ne informò Enrico, pregandolo sottrarlo da quel peso, altrimenti dichiarandosi mal disposto a soffrire i comporti di esso imperatore. Malgrado questa diffida, non avendovi trovato ombra di simonia, Enrico non potè negare l'assenso. Allora col nome di Gregorio VII piglia assunto di guerreggiare la simonia e l'incontinenza, che da due secoli insozzavano la sposa di Cristo; trova che la forza domina dappertutto? e' vuol dappertutto far prevalere il pensiero; trova il pontificato fiacchissimo, robustissimo l'Impero? e' si propone di sottometter questo a quello, come l'anima comanda al corpo, come l'ingegno dirige le braccia. Viaggiò per Italia amicandosi i prelati buoni; e agevole dovunque trovasse docilità, inflessibile coi contumaci, instaurava l'antica disciplina. Abbracciando l'intera cristianità nelle sue attenzioni, dove in persona non giungesse moltiplicavasi per via di legati; non negligeva le minuzie della reggia e della cella; ingiunse che tutti i vescovi nelle proprie chiese facessero insegnare le arti liberali; e non badava a farsi nemici, perchè in ogni atto si proponeva non la superbia umana, ma la salute delle anime. Divenuto il sacerdozio e le prelature impiego dei ricchi, quest'una cosa mancava, che quelle comodità non si dovessero comprare colle astinenze del celibato, nè il posseder benefizj togliesse i godimenti della famiglia; da ultimo si rendessero patrimonio le dignità, i vescovadi, il papato, introducendo anche nella Chiesa l'assurdità delle cariche ereditarie ch'ella avea sempre rejetta. Ed a questo pure si tendeva; e già in molte diocesi era invalso il matrimonio dei preti, che la prudenza, il decoro, la libertà necessaria al clero aveano fatto vietare. Allora dunque che Gregorio richiamò la trascurata proibizione, si allegavano la consuetudine d'alcune diocesi, i privilegi speciali, i legami di famiglia già contratti, e un lamento levossi per tutta la Chiesa occidentale. Il clero dell'alta Italia erasi di buon'ora corrotto, e già al tempo de' Longobardi Paolo Diacono deplorava che più nessuno frequentasse il San Giovanni di Monza, in grazia de' suoi preti concubinarj e simoniaci. Ne' contorni di Brescia, al 790, uscì un monaco ad annunziare imminente la fine del mondo, colpa la depravazione dei monaci; e spacciatosi profeta, distribuì i suoi seguaci in cori d'angeli, guidati da arcangeli, e maltrattò i monaci, sinchè non venne mandato a morte[388]. A Milano il mal costume era cresciuto in proporzione delle ricchezze e della potenza del clero; e indarno il concilio di Pavia avea voluto interdire il matrimonio ai preti, che pretendevano appoggiarsi ad una concessione di sant'Ambrogio[389]. Vi serpeva pure la simonia, e fin dall'820 papa Pasquale si lagnava colla chiesa milanese del trafficarvisi d'ordini sacri. Per ciò e per ambizione quel clero stava alieno dalla santa sede, e per due secoli se ne tenne quasi separato, pretendendo che la chiesa di sant'Ambrogio non fosse inferiore a quella di san Pietro. Guido da Velate (1045), postovi arcivescovo per favore del re e contro il privilegio del capitolo[390], vendeva le cariche, scaricava su altri il peso del suo ministero, mentr'egli consumava tempo ed entrate in caccie ed esercizj guerreschi. L'alto clero il favoriva per imitarlo; ma il minore ed il popolo ne prendeano scandalo e nausea, a tal segno che, mentr'egli celebrava, l'abbandonarono tutto solo all'altare. A capo de' rigorosi stava Anselmo da Baggio, prete della metropolitana; onde Guido lo fece dall'imperatore destinare vescovo di Lucca. Neppur là dimenticò egli la patria; e udito come Guido avesse nominato sette diaconi indegni, corse a Milano, e s'affiatò con Landolfo Cotta ed Arialdo d'Alzate, principali fra i rigoristi, e cominciarono alzar la voce a rischio della vita, più ascoltati quanto più apparivano i vizj del clero. Tosto si formarono due fazioni nella diocesi: una dell'alto clero co' suoi parenti ricchi e titolati e sostenuti da forte vassallaggio, e li chiamavano i Nicolaiti; l'altra detta dei Patarini, poveri e plebei, ma forti nella bontà della causa e nel favore della moltitudine. Fin alle armi si venne; ma trovato chi osa dire una verità, può soffocarsene il suono? Roma sostiene quelli che il ferro dei grandi minaccia e che i sinodi provinciali scomunicano. Pier Damiani e Anselmo da Baggio, spediti legati dal papa in Lombardia, mostrato come fosse ingiusta la pretensione di non dipendere da Roma, tornarono la chiesa milanese all'antica sommessione, e in un sinodo a Roma quell'arcivescovo tenne il primo posto, e ricevette dal papa l'anello, col quale fin allora i re d'Italia erano soliti investirlo. Lasciarono in carica Guido, affinchè il deporlo non mettesse sgomento agli altri, tinti della pece istessa; ai meno colpevoli imposero di digiunare a pane e acqua, per cinque anni, due giorni ogni settimana, e tre nelle quaresime di pasqua e del san Giovanni; a' più rei, sette anni, oltre il digiuno d'ogni venerdì, vita durante; all'arcivescovo per cento anni, dei quali però poteva riscattarsi a prezzo; e dovea promettere di mandar tutti i preti colpevoli in pellegrinaggio a Roma o a San Martino di Tours, ed egli stesso andare a San Jacopo di Galizia e al santo sepolcro[391]. All'eguale effetto riuscirono nel resto di Lombardia. Mal soddisfatti de' miti provvedimenti, e accorgendosi come gli avversarj dissimulassero solo per necessità, incalorirono l'opposizione Arialdo e Landolfo, poi alla morte di questo il fratello Erlembaldo, ancor più risoluto, e che allor allora tornando dal pellegrinaggio in Terrasanta, aveva infervorato il proprio zelo col visitare le soglie degli Apostoli, dove il papa lo elesse confaloniere della Chiesa. Anselmo da Baggio, salito papa col nome di Alessandro II, favorì di forza gli zelanti, mentre Erlembaldo allettava plebe e giovani (1065), e a capo d'armati strappava dagli altari i preti concubinarj, e correva da Milano a Roma per attingere incoraggiamenti e forza. Di rimpatto il clero istigava la boria patriotica contro Roma, i nobili difendevano colle armi i loro parenti e creati; onde ogni giorno baruffe e sangue: scene riprodotte nelle altre città, come gli scandali che vi davano occasione. E del furore armato cadde vittima Arialdo con orribili strazj. Il sangue esacerba le ire; Guido co' suoi è cacciato; ed egli vende la dignità a un Goffredo, che d'intesa coi vescovi e coi capitanei di Lombardia, va coll'anello e col pastorale al re di Germania, e gli propone di sterminare i Patarini se lo investa dell'arcivescovado. L'imperatore, desideroso d'umiliare il papa e chi per lui, accondiscende alla domanda, e l'intruso s'accinge all'effetto: ma Erlembaldo piglia le armi, e dopo saccheggi e incendio, rimasto padrone della città, governa con un consiglio di trenta persone, confisca i beni di qualunque prete non possa con dodici testimonj giurare di non aver avuto affare con donne: molti, insofferenti della insolita dominazione, fuoruscirono; più volte si tornò alle mani, intanto che gli uni e gli altri imparavano a governarsi senza nè conte nè arcivescovo, in vera repubblica. Principi e buffoni cuculiano quegl'involontarj divorzj dei preti: i nobili rientrati s'affaticano a screditare i Patarini, e blandiscono il popolo col proporgli una confederazione, allo scopo di assicurare l'integrità della chiesa milanese. Morto Guido (1071), Erlembaldo fa eleggere arcivescovo un giovinetto Attone; e la fazione contraria si leva in armi, assale il prelato, che non potè salvar la persona se non salendo in pulpito e abdicando: ma Roma lo riconobbe, e scomunicò Goffredo. Erlembaldo continuava guerra ai concubinarj; ma i nobili tornati in armi lo uccisero (1075), e il popolo lo onorò come martire. Il conte Everardo, uno scomunicato spedito da re Enrico, adunati i signori lombardi a Roncaglia, li ringraziò d'avere ucciso Erlembaldo, proscrisse i Patarini, e fece eleggere un nuovo arcivescovo; in modo che tre persone portavano questo titolo. Ma il popolo, che pativa dalla corruzione del clero, che mal comportava si sperdessero in reo lusso le ricchezze concedute alle chiese per sollievo de' poveri, che dal rigore de' monaci era stato avvezzo a considerare come perfezione il celibato, e che suol pretendere maggiori virtù da chi lo dirige, vigorosamente sostenne il decreto del papa che l'imponeva, maltrattò i renitenti, li respingeva dagli altari o fuggiva dai loro sacrifizj; onde quell'ordine prevalse, dopo quasi un secolo di contrasti. Sciogliendo i sacerdoti dai legami della famiglia, assicurava una milizia, devota interamente al pontefice, e intenta a saldarne la potestà; toglieva che le dignità passassero per retaggio, anzichè essere attribuite per merito; e che divenissero beni di famiglia quelli che erano stati commessi alle chiese come patrimonio universale dei poveretti. Il patriarca di Aquileja, dopo la quistione dei Tre Capitoli, era rimasto a capo di quanti vescovi reluttavano alle decisioni del pontefice; alfine piegò anch'esso, ed ora nel ricevere il pallio dovette dare un giuramento (1079) che poi si estese agli altri metropoliti e ai vescovi nominati direttamente da Roma; ove s'obbligavano al modo stesso che i vassalli al signore, cioè di serbare fedeltà al pontefice, non tramare contro di lui nè rivelarne i secreti, difendere a tutta possa la primazia della chiesa romana e le giustizie di san Pietro, assistere ai sinodi convocati da esso, riceverne orrevolmente i legati, non comunicare con chi da esso fosse scomunicato: di poi vi s'aggiunse di visitare ogni tre anni le soglie degli apostoli, o mandare chi rendesse conto dell'amministrazione della diocesi; osservare le costituzioni e i mandati apostolici, nè alienare verun possesso della mensa se non consenziente il santo padre. Resa al clero la potenza che trae dalla virtù, bisognava saldare l'indipendenza col toglier via la pietra dello scandalo, il diritto che i signori laici arrogavansi d'investire coll'anello e col pastorale i prelati; occasione di simonie e di elezioni indegne. — E che! la più miserabile femminetta può scegliersi lo sposo secondo le leggi del suo paese; e la sposa di Dio, quasi vile schiava, dee riceverlo di mano altrui?» così sclamava Gregorio VII, e forte nella propria volontà e nel voto del popolo, al quale si appoggiò in ogni suo atto[392], e dal quale trasse la forza portentosa di superare tanti ostacoli, proibì agli ecclesiastici di ricevere investitura di qualsiasi benefizio per mano di laico, pena la destituzione; e ai laici di darla, pena la scomunica. Secondo il diritto politico, il capo dello Stato non premineva a' suoi vassalli se non per la superiorità attribuitagli dall'infeudazione; laonde col togliere ai signori d'investire i prelati si sottraevano questi dalla loro dipendenza, e sottometteasi al pontefice forse un terzo dei possessi di tutta cristianità. Se poi la Chiesa rinunziasse ai beni e ai diritti pei quali davasi l'investitura, rimaneva spoglia d'ogni autorità temporale e dipendente dai principi come oggi il clero protestante. Se, al contrario, conservandoli ella si esimesse dal chiedere ad ogni vacanza la conferma secolare, non solo diventava indipendente, ma sarebbesi dilatata in potenza fin a rendere vassalli i principi. Non rifuggiva da queste conseguenze Gregorio, poichè, volendo rigenerare la società per via del cristianesimo, non credea potervi arrivare finchè la sede romana non fosse levata di sopra dei troni. Ne veniva per diritta conseguenza il suo mescolarsi alle cose temporali e al governo de' popoli: ed agli uni vietò il trafficare di schiavi, ad altri rinfacciò i vizj; scomunicò re contumaci, obbligò altri a continuare alla chiesa romana quell'omaggio con cui i loro predecessori ne aveano compensato la tutela; e dove i baroni degradavano gli uomini alla condizione di bestie da soma, egli voleva rialzarli con santità più che umana. In ogni sua opera, nulla pel vantaggio personale, tutto per la Chiesa: inesorabile cogli altri come con se stesso, di fede irremovibile in ciò che credeva disegno della Provvidenza, egli stesso si dà come un abitatore delle regioni dove non penetrano mai la nebbia della paura nè le ombre del dubbio: altri papi aveano gemuto, esortato, negoziato, transatto; Gregorio comanda, ardisce ogni estremo, vuole che la potenza papale non abbia altri limiti che la volontà di Dio e la coscienza, e per correggere gli abusi si colloca di sopra dei re, interessati a conservarli. Si foss'egli incontrato in principi degni, poteva rigenerare la Chiesa e il mondo: ma in quella vece ebbe a cozzare con malvagi; e il resistere alle arti loro lo portò a metter fuori tutte le armi che gli erano offerte dal suo tempo e dalla sua posizione. Era succeduto al trono di Germania Enrico IV (1056), re nella cuna, orfano a sei anni. Educato a tracotante idea della regia potenza, e a spregio della disciplina ecclesiastica, ai venticinque era già un tirannello rotto ad ogni bruttura; maltrattò la moglie; le case contaminava colle libidini, spinte fin nelle sorelle. Singolarmente egli offese ne' più preziosi diritti i Sassoni, che i loro unendo ai lamenti di tanti altri, si diressero al pontefice come al repressore d'ogni vizio e tirannide, come all'appoggio d'ogni sforzo contro gli abusi; e l'esortavano a deporre quest'indegno regnante: diritto, io non cerco se giusto, ma riconosciuto in quel tempo non solo dal gius canonico, ma dal civile de' Tedeschi. Gregorio, già disgustato di questo imperatore che facea mercato pubblico delle sacre dignità e tenevasi attorno persone scomunicate, lo citò a giustificarsi davanti a un concilio in Roma. Più sdegno che timore ne prese Enrico, e gli rispose che il deponeva di pontefice. Ecco dunque due podestà che minacciano a vicenda distruggersi: l'una avea per sè l'opinione popolare, l'altra la violenza; e ciascuna usò le armi sue. Allora non si pensava che le cose di governo s'abbiano a regolare non colla morale ordinaria, bensì con una particolare equità. Allora (e giovi ripeterlo a costoro che la libertà credono nata jeri) uno non nasceva re, ma doveva essere eletto; cioè condizione del regnare, era l'esserne meritevole; nè i re erano despoti, ma temperati dall'assemblea generale della nazione, e dall'autorità pontifizia che contrappesava la regia, e manteneva la libertà civile. Che se i re non volessero chinarsi a' suoi decreti, un'arma terribile aveva in mano il papa, e propria dei tempi, come n'era propria quella potenza. Fin dai primi secoli del cristianesimo, la scomunica, oltre escludere dalla sacra mensa e dalle benedizioni, proibiva di abitare, mangiare, discorrere col reprobo, e traeva anche conseguenze civili, come di rimoverlo dagl'impieghi, dalla milizia, dai giudizj. Lentata la devozione, bisognò crescere lo sgomento delle scomuniche con riti e formole tali da spaventare la prepotenza armata; gettavansi per terra candele ardenti, imprecando che a quel modo si spegnesse ogni luce al maladetto; alcuna fiata fu persino scritta la sentenza col sacrosanto vino. Qualora poi si trattasse di un potente, veniva interdetta la città o tutta la provincia dov'egli aveva abitazione o dominio. Terribile pena! I fedeli restavano privi di quella parola e di quelle cerimonie religiose che dirigono l'anima in mezzo ai turbini, e la francheggiano nelle lotte della vita. La chiesa, monumento ove tanti segni visibili rappresentano la magnificenza del Dio invisibile e dell'eterno suo regno, sorgeva ancora di mezzo alle stanze de' mortali, ma come un cadavere senza sintomo di vita: più il sacerdote non consacrava il pane e il vino per le anime cupide del vivifico nutrimento; non rilevava coll'assoluzione i cuori oppressi dal rimorso; negava l'acquasanta al segno del combattimento e della vittoria. Muto l'organo, muti gl'inni, che tante volte aveano tornato sereno l'animo contristato; muto il solenne mattinare delle suore di Cristo: le campane più non toccano che qualche volta a scorruccio; non più suona la parola di salute dal pulpito, donde l'ultima ora che il santuario restò aperto, lanciaronsi sassi, significando alla turba che in pari modo Iddio l'avea rejetta. Le porte della chiesa del Dio vivente erano chiuse al par di quelle della terrestre: estinte le lucerne tra canti funerei, come se la vita e la luce avessero ceduto luogo alle tenebre e alla morte: un velo nascondeva il crocifisso e le effigie edificanti che parlano al senso interno per via degli esterni. Solo a qualche convento era permesso, senza intervento di laici, a bassa voce, a porte chiuse e nella solitudine della notte, supplicare il Signore a ravvivare colla grazia gli spiriti estinti. La vita non era santificata nelle importanti sue fasi, quasi più non esistesse mediatore fra il reo e Dio; il fanciullo era accolto al battesimo, ma senza solennità, quasi di furto; i matrimonii si benedicevano sulle tombe, anzichè all'altare della vita. Il sacerdote esortava a penitenza, ma sotto il portico della chiesa e in negra stola: quivi soltanto la puerpera veniva a purificarsi, e il pellegrino a ricever la benedizione pel suo cammino. Il viatico, consacrato dal prete solitario, portavasi in segreto al moribondo, ma gli si negava l'estrema unzione e la sepoltura in terra sacra, anzi talvolta ogni sepoltura, eccetto a preti, a mendichi, stranieri e pellegrini. Le solennità, epoche gloriose della vita spirituale, in cui il signore e il vassallo univansi all'altare nella comunanza della gioja e della preghiera, diventavano giorni di lutto, ove il pastore fra il suo gregge raddoppiava i gemiti e i salmi della penitenza universale e il digiuno. Interrotto ogni commercio, questa morte dell'industria scemava le rendite del signore: i notaj tacevano negli atti il nome del principe colpito: ogni disastro consideravasi come frutto di quella maledizione. Chi non sa immaginarsi quanto effetto dovessero produrre simili castighi in secoli bisognosi di fede e di culto, pensi che avverrebbe se si chiudessero i teatri, i balli, i caffè nella nostra età, bisognosa di divertirsi, di cianciare, di spensare, come quella di credere e di pregare. Gregorio VII mitigò il rigore delle scomuniche, e mentre dapprima colpivano chiunque avesse a fare collo scomunicato, egli ne eccettuò la moglie, i figliuoli, i servi, i vassalli, chi non fosse abbastanza elevato per dare consigli al principe, e non escludeva dall'usare a questo gli atti di carità. Egli non fu parco di scomuniche a re prepotenti; ed, oltre il polacco Boleslao, ne fulminò il normanno Roberto Guiscardo, che tardava a far della Sicilia omaggio alla santa sede, e che, piegatosi al colpo, le chiese pace e ne divenne protettore. Cencio, prefetto di Roma, opponevasi all'autorità sacerdotale, e viepiù dacchè il re fu in contrasto col papa, sicchè questo lo scomunicò. Ricco e poderoso quanto iracondo, e sperando così gratificare ad Enrico, penetra costui nella chiesa ove Gregorio compiva le imponenti e affettuose cerimonie della notte di natale, e presolo pei capelli, lo trascina nel suo palazzo (1075). Il popolo, che in Gregorio venerava il proprio rappresentante, unanime si levò a rumore, e assalita la fortezza, lo prosciolse, e sulle braccia recollo a finire a sera la messa interrotta all'alba: nè Cencio sarebbe ito salvo, se Gregorio con magnanimo perdono non avesse mostrato quanto l'uom del popolo sentasi superiore a quel della spada. L'appoggio della fazione di Cencio avea dato baldanza a re Enrico, il quale raccolse a Worms (1076) un concilio, dove Ugo, cardinale degradato dal papa, lesse una fila di accuse le più insensate e feroci, nessuna delle quali (mirabil cosa in tempi tali e fra tal gente) intacca i costumi di Gregorio; ed essendosi intimato che il non condannare il papa sarebbe un mancare alla fedeltà giurata al re, i prelati dichiararono di più non riconoscere Gregorio. I vescovi lombardi, di cui questo avea frenato l'incontinenza, raccoltisi a Piacenza, approvarono quella decisione; e Rolando da Siena, assuntosi di notificarla a Gregorio, lo fece davanti a un concilio da questo radunato: ma le guardie l'avrebbero fatto a pezzi, se nol salvava Gregorio. Quei padri, ascoltata l'insultante lettera di Enrico, a una voce lo esclamarono scomunicato; e il papa lo proferì decaduto dai regni di Germania e d'Italia, dispensò dal giuramento prestatogli, sospese i vescovi adunati a Worms, e spedì due legati per distogliere popoli e principi dall'obbedienza. Fu un applauso generale tra' Sassoni e Turingi, che, adottato per grido di guerra _san Pietro_, si misero a ordine per deporre Enrico. Visto il pericolo, questi (come fece Napoleone dopo le sue sconfitte) scarcerò i principi e vescovi che deteneva: ma già la lega contro di lui abbracciava tutta Germania; onde, avvistosi che l'esercito non gli basterebbe contro la volontà del popolo espressa dal papa, scese a trattare; e si convenne di rimettere la causa al pontefice, dichiarando scaduto Enrico se entro un anno non fosse ribenedetto. Il papa era dunque preso arbitro, onde veniva ad esprimere il voto della giustizia e della nazione. Il medesimo Enrico nol dichiarò incompetente; anzi, per non incorrere nuove umiliazioni, risolse venire a chiedergli l'assoluzione (1077) prima che scadesse l'anno prefissogli. Nello stridore del verno prese la via d'Italia, coll'oltraggiata moglie Berta e con un fanciullo. I nemici gli aveano chiuso ogni valico: solo pel Cenisio sperava passare senza molestia, giacchè vi dominava l'illustre marchesa Adelaide, unica figlia di Maginfredo di Susa, e che per le varie nozze col marchese di Monferrato e col conte di Morienna, alla casa di Savoja potette acquistare importanza anche di qua dell'Alpi. Governava essa allora con gran lode col figlio Amedeo; e come madre che era di Berta, accolse benevola il re, ma nol lasciò progredire se non le cedeva cinque vescovadi d'Italia[393]; al qual patto gli venne anch'essa compagna. Lietissime accoglienze ebbe in Lombardia, vuoi dall'alto clero, uggiato delle papali riforme, vuoi dai baroni, bisognosi dell'appoggio imperiale per opporsi ai popoli che anelavano alla libertà. Nella restante Italia i Normanni appoggiavano Gregorio, sì per lealtà feudale, sì per tema che l'imperatore, fatto potente, minacciasse la loro recente conquista; il basso clero applaudiva alla rintegrata disciplina, i popolani bramavano assodare il governo a comune, e respingere i Tedeschi: ma la fautrice più efficace di Gregorio fu la contessa Matilde. Bonifazio, conte di Modena, Reggio, Mantova, Ferrara, aveva (1027) dall'imperatore Corrado Salico ottenuto il ducato di Lucca ed il marchesato di Toscana, riuscendo uno de' più potenti signori d'Italia; e s'aggiunga dei più ricchi e munifici. Quando sposò Beatrice di Lorena, tenne per tre mesi corte bandita a Marengo, servendo in piatti d'oro e d'argento quanta baronia vi capitava, mentre tini come pozzi offrivano vino alla giocondità popolare, ravvivata da sonatori, giocolieri, saltambanchi. Non trovando Enrico III buon aceto a Piacenza, e' gliene mandò, ma con barili e vettura d'argento. Di questa cortesia e d'altre non gli seppe buon grado Enrico, anzi, ingelosito di tanta potenza e ricchezza, lo avrebbe voluto mortificare col privarlo de' feudi: ma tolti quelli, tanti beni proprj possedeva, che sarebbe rimasto ancora grande. Ricorse dunque Enrico alla violenza, e tentò arrestarlo coll'ordinare che, venendo alla corte, da quattro sole persone si lasciasse accompagnarlo. Bonifazio menava invece un grossa comitiva, la quale come vide chiudersi le porte sopra i passi del padrone, le sforzò. Il colpo fallito persuase Bonifazio che i Salici aspirassero a toglier via anche dall'Italia le dignità ducali che ne impacciavano il potere; onde si pose fautore spiegato dei pontefici, e avversario degli stranieri. Nelle sue guerre e negli acquisti avea recato danno alle chiese; lo perchè ogn'anno conducevasi alla Pomposa a confessarsi in colpa, e i monaci _lavavano_ i suoi peccati. E poichè, al modo de' signori d'allora, conferiva titoli e benefizj per denaro, l'abate (1052) il flagellò nudo avanti all'altare della Madonna, finchè non promise astenersi dal sacrilego mercato. Alfine fu assassinato mentre da Mantova passava a Cremona, e il popolo credette che in quel luogo più non crescesse erba. La sua vedova fu cercata moglie da Goffredo di Lorena, il quale combinò insieme le nozze del suo figlio d'egual nome con Matilde, fanciulla di Beatrice (1063). S'adontò l'imperatore che di sì vasti possedimenti si disponesse senza sua partecipazione, e tanto più a favore d'una Casa che gli era avversaria in Germania; sicchè nascea pericolo che l'Italia si staccasse dal regno. Scese dunque sbuffante dalle Alpi, tenne come statico Beatrice, andata a supplicarlo: ma vedendo Goffredo con Baldovino suo cugino fare allestimenti in Germania, e temendo s'accordasse coi Normanni per sottrargli tutta Italia, s'indusse a dissimulare; e quegli continuò a governare sì gran parte della penisola. Quando poi suo fratello fu assunto papa col nome di Stefano IX (1057), si disse che questi avesse in idea di mutar la corona imperiale sulla testa di Goffredo, e snidare d'Italia e Normanni e Tedeschi; ma pronta morte dissipò que' disegni. Goffredo parteggiò con papa Alessandro II contro Cadolao, e prestò il braccio onde reprimere Ricardo normanno, che, invase alcune terre pontifizie, pretendeva il titolo di patrizio di Roma. Morto lui (1076), poi anche la madre, e l'indegno marito Goffredo il Gobbo, Matilde si trovò signora de' vastissimi dominj paterni, e d'assai terre dell'alta Lorena, spettanza materna; e ne usava a larghissime beneficenze. La Toscana è piena di tradizioni intorno a questa insigne donna, attribuendo a lei un'infinità di castellari, di ponti, di chiese; a lei i bagni di Casciano in Valdera, altri bagni a Pisa e il castello di Montefoscoli, a lei la grandiosa chiesa di Sant'Agata al Cornocchio nel Mugello, a lei l'ospedale d'Altopascio, e il palazzo e castello di Nozzano presso Lucca, la quale città cinse di mura e dotò di fondazioni pinguissime. Dante, così avverso alla dominazione papale, pure la immortalò collocandola alle soglie del suo paradiso. Intorno ai costumi di lei varia corre la fama, ma concorde sulla coltura sua, il coraggio, la perseveranza e la devozione verso la sede pontifizia. Devota, pur resiste alla tentazione del chiostro, allora comune, onde versarsi nell'attività del secolo, e malgrado il debole temperamento vi riesce, mercè l'assistenza divina e la forza del suo carattere. Combatte in persona, parla la lingua di tutti i suoi soldati, ha corrispondenza con nazioni lontane, raduna una biblioteca[394], e fa da Anselmo raccogliere il Corpo del diritto canonico, e quel del diritto civile da Irnerio, che per sua cura aperse in Bologna la prima scuola di leggi. Tanta grandezza abbelliva coll'umiltà, e la sua sottoscrizione era _Mathilda Dei gratia si quid est_. Mostrò ella speciale devozione a Gregorio VII; e se Bennone, gran nemico di Gregorio, tentò denigrare quell'amicizia, niun contemporaneo, nè il concilio di Worms vi danno piede; e tutta la storia la mostra innamorata non del papa ma del papato, cui restò fedele per sei pontificati successivi[395]. Nel castello di Canossa, che a mezzogiorno di Reggio sorge inespugnabile fra gli squallidi valloni dell'Appennino, sede allora di tanta civiltà, or rovina deserta e quasi ignorata, ricoverò Gregorio presso Matilde quando temette che il favore de' Lombardi non tornasse l'ira allo sbaldanzito Enrico IV: ma questo interpose essa Matilde sua parente, Adelaide di Susa, il marchese guelfo Azzo ed altri primati d'Italia per essere assolto d'una scomunica che lo portava a perdere anche la corona. Di segnalati delitti voleva il papa segnalata la riparazione, sgomento ai baldanzosi, soddisfazione ai deboli che l'aveano invocato. Esigette pertanto venisse a lui in abito di penitenza, consegnandogli la corona come indegno di portarla (1077); ed Enrico, deposte le regie vesti ed i calzari, e coll'abito consueto de' penitenti potè entrare nella seconda cerchia del castello, ed ivi attendere la decisione. Intanto le celle del castello erano occupate dai vescovi di Germania, venuti a penitenza e trattati a pane e acqua; e i signori lombardi stavano attendati nelle valli circostanti. Poichè tre giorni l'ebbe lasciato all'intemperie (18 mag.), Gregorio ammise Enrico al suo cospetto e l'assolse, patto si presentasse all'assemblea de' principi tedeschi, sommettendosi alla decisione del papa, qual essa si fosse; frattanto non godesse nè le insegne nè le entrate nè l'autorità di re. Promesso, dati mallevadori, Gregorio prese l'ostia consacrata, e appellando al giudizio di Dio se mai fosse reo d'alcuno degli appostigli misfatti, ne inghiottì una metà, e porse l'altra ad Enrico perchè facesse altrettanto se si sentiva incolpabile. Potere della coscienza! Enrico non s'ardì ad un atto che avrebbe risoluta ogni quistione, e si sottrasse al giudizio di Dio. Il secolo nostro che, idolatro della forza, s'inginocchiò al brutale insultatore d'un papa supplichevole, è giusto che raccapricci al vedere un imperatore, violator delle costituzioni, supplichevole ad un papa tutore dei diritti de' popoli. Ma a quell'umiliazione mancava il merito espiatorio per parte d'un principe che minacciava e piegava, prometteva e mentiva; sicchè gl'italiani lo tolsero in dispregio, e al ritorno gli chiusero le porte in faccia, e discorrevano di deporlo e surrogare Corrado suo figlio. Enrico, indispettito, svergognato, coll'abituale sua precipitazione, ed istigato anche da Guiberto arcivescovo di Ravenna perpetuo avversario di Roma, si pose coi nemici del papa, cercò prender questo, in una conferenza arrestò il vescovo d'Ostia da lui deputatogli, negò presentarsi alla dieta; sicchè i Tedeschi lo deposero come contumace, e gli nominarono successore Rodolfo duca di Svevia. Gregorio riconobbe questo; e pare divisasse unire la media Italia e la settentrionale in un regno, che rilevasse dalla santa sede, come ne rilevavano i Normanni nella meridionale; e a quel regno fosse subalterna la Germania. La nazionale idea non potè incarnarsi, giacchè Enrico, dando e promettendo, e operando risoluto quando il papa procedea circospetto, s'era procacciato amici assai, massime fra i vescovi realisti, come Tedaldo di Milano, Sigefredo di Bologna, Rolando di Treviso, Guiberto di Ravenna, involti nella scomunica; e raccolto un esercito e concilj, fece deporre Gregorio e sostituirgli esso Guiberto, nominato Clemente III (1080). Allora guerre con varia fortuna: l'anticesare Rodolfo di Svevia in Germania restò ucciso; un esercito raccolto dalla contessa Matilde per isnidare di Ravenna l'antipapa, fu sconfitto presso la Volta Mantovana dai Lombardi; talchè Enrico rassicurato calò in Italia, e a Milano fe coronarsi con solennissima pompa (1081). I suffraganei di quell'arcivescovo in gran pontificale vennero sin al palazzo regio, donde condussero a Sant'Ambrogio il re, con duchi, marchesi, nobili, in mezzo a preci, inni, antifone, e l'introdussero ai gradi dell'altare su cui erano deposte le regie insegne. L'arcivescovo lo interrogò sulle verità di fede, indi se si sentisse disposto di serbare le leggi e la giustizia; e poichè il re ebbe assentito, due vescovi andarono ad interrogare il popolo se fosse contento di stargli soggetto. Avuto il sì, cominciò la cerimonia; e il re prostrossi in croce davanti all'altare, e così i vescovi, tanto che cantaronsi le litanie; quindi il metropolito gli unse d'olio le spalle, e dato che i vescovi gli ebbero la spada, esso gli porse l'anello, la corona, lo scettro, il bastone, e lo assise sul trono, consegnandogli il pomo d'oro e spiegandogli i doveri di re; infine gli diede la pace. Andò poi a prendere la regina, e l'accompagnò all'altare, dove essa fece la preghiera; indi consacrò lei pure versandole olio sulle spalle, e le pose l'anello e la corona. Nella messa il re offerse il pane all'arcivescovo, e da lui ricevette la comunione[396]. I Lombardi continuarono a devastar le terre della contessa Matilde: Lucca, cacciato il santo vescovo Anselmo, che avea scritto a favore di Gregorio VII, ne elesse uno fautor dell'Impero, e si ribellò a Matilde; ma le rôcche di Canossa, Bibianello, Carpineta, Monte Baranzone, Montebello, e l'altre di cui erano seminate le alture di Modena e Reggio, offrivano ad essa insuperabili ripari; poi sotto quella di Sorbara nel Modenese riportò segnalata vittoria, facendo prigione il vescovo di Parma, sei capitani, cento militi, più di cinquecento cavalli. Enrico intanto aveva condotto a Roma il suo antipapa; ma la mal'aria e la resistenza de' Romani, a lui avversi quant'erangli favorevoli i Lombardi, gli impedirono di espugnarla. Però egli corruppe i signori, principalmente guadagnò vescovi, profuse cenquarantaquattromila scudi d'oro e cento pezze di scarlatto che l'imperatore di Costantinopoli gli avea mandate onde indurlo a far guerra a Roberto Guiscardo; alfine dopo tre anni fu ricevuto in Roma (1084), e vi si fece consacrare dal suo Clemente III, mentre Gregorio era chiuso in Castel Sant'Angelo. «Trista città questa Roma! (esclamava Gaufrido Malaterra) le tue leggi son piene di falsità; ogni cattiveria signoreggia in te, e lussuria e avarizia e niuna fede, ordine niuno; la peste simoniaca serpeggia in ogni dove, tutto vi è vendereccio; il sacro Ordine ruina in grazia di te, da cui prima ebbe incremento; non contenta d'un papa, vuoi doppia tiara, e varii di fede secondo il denaro; mentre l'uno sta, batti l'altro; se quello cessa, richiami questo, e l'un con l'altro minacci; e così riempi le tasche»[397]. Abbiam detto come i Normanni si facessero vassalli della santa sede; e Roberto Guiscardo fu adoperato tosto da Nicola II a sfasciare Palestrina, Tusculo, Nomento, Galeria, per isvellere la lunga tirannia che i conti Tusculani esercitavano. Ma poi nella sua ambizione non risparmiò tampoco le terre pontifizie, onde fu scomunicato. Mal badando ai mezzi purchè giungesse a consolidarsi, avea tenuto intelligenze con re Enrico: ma insieme spiava l'occasione di rendere qualche segnalato servigio al pontefice. Stava egli assediando Durazzo, quando, inteso l'oltraggio fatto a Gregorio, interruppe l'impresa, e corso in Italia, con un pugno de' prodi suoi Normanni e con Saracini di Sicilia venne a Roma, e trascorrendo a saccheggi e incendj non men di quello che avesse fatto Enrico, liberò Gregorio e il ricollocò in Laterano. Di quivi il pontefice scomunicò Enrico e l'antipapa, indi in mezzo alle armi v'avviò verso il mezzodì. Per via cercò consolazioni sulla tomba di san Benedetto a Montecassino, la propria vita tempestosa paragonando a quella solitaria pace: a Desiderio abate vaticinò gli sarebbe successore, presentendo necessaria la conciliazione dopo la lotta. A Salerno consacrò la magnifica cattedrale erettavi dal Guiscardo, e vi ebbe le maggiori onoranze. Ma accorato dal veder rivoltosi i proprj cittadini, egli che tanti popoli aveva sollevati contro i sovrani; espulso dalla propria cattedra sè che tanti vescovi avea rimossi; scissa la Chiesa ch'egli aveva tanto faticato a risarcire; e venir meno tanti suoi amici, e declinare la causa in cui mai non eragli mancata la fede, morì esclamando: — Amai la giustizia, e odiai l'iniquità; perciò finisco in esiglio» (1085). E già ad Alfonso di Castiglia egli scriveva: — Il livore de' miei nemici e gl'iniqui giudizj sul conto mio non vengono da torto ch'io abbia loro recato, ma dal sostenere la verità e oppormi all'ingiustizia. Facile mi sarebbe stato rendermi servi costoro, e ottenerne doni più ricchi ancora che i predecessori miei, se avessi preferito di tacere la verità e dissimulare la loro nequizia: ma, oltre la brevità della vita e lo sprezzo che meritano i beni del mondo, io considerai che nessuno meritò nome di vescovo se non soffrendo per la giustizia; onde risolsi attirarmi piuttosto il livore de' ribaldi coll'obbedire a Dio, che espormi alla sua collera compiacendoli con ingiustizie». Così prevedeva gli odj d'una posterità adoratrice della forza, e che chiamò arroganza l'aver egli osato fiaccare la burbanza dei re[398]. Poco di poi morivano anche Roberto Guiscardo e Guglielmo di Normandia nuovo anticesare; sicchè pareva Enrico trionfasse de' suoi nemici, e che, corretto dalle contrarietà e dagli anni, si rimettesse a moderazione, e si conciliasse i principi tedeschi. Successore a Gregorio VII volea darsi Desiderio abate di Montecassino, che avea spiegata molta virtù e prudenza nei precessi tumulti: un anno intero egli durò al niego, finchè vinto dalle lagrime de' cardinali e dalle promesse dei signori romani che il sosterrebbero contro gl'imperiali, accettò col nome di Vittore III (1086), e potè fra non molto recuperare Roma coll'ajuto di Matilde. Ma non potè sostenersi che coll'armi contro quelle dell'antipapa, e ben presto morì. Un concilio (1088) radunato in Terracina sotto gli auspizj della contessa nominò Urbano II francese, infervorato nelle idee di Ildebrando, e capace di sostenerle. Alla contessa Matilde (1089), invano chiesta da Roberto figlio di Guglielmo il Conquistatore d'Inghilterra, persuase egli di sposare Guelfo II, figlio del duca di Baviera, avverso all'imperatore. Questi, indignatone, occupò tutti i castelli di Matilde in Lorena, poi, ripassate le Alpi, ebbe a tradigione Mantova, devastò altri possessi di lei nel Bresciano, nel Ferrarese, nel Modenese, e le intimava riconoscesse il suo papa Clemente. Accordarsi cogli scismatici parea peccato alla contessa, che ne volle il parere di un'adunanza di vescovi; ed Eriberto vescovo di Reggio le insinuò d'accondiscendere, onde risparmiare la guerra, di cui al vivo dipingeva gli orrori. Stava l'intenerita per cedere, quando un Giovanni, austero eremita, s'affacciò nell'adunanza, rimbrottandola di poca fede perchè esitasse a sagrificare i proprj Stati per la causa della Chiesa: ond'essa tenne saldo, e l'esito smentì la prudenza umana. Qualche migliore avviamento prendevano intanto le cose religiose; man mano che moriva qualche vescovo scismatico, i popoli, stanchi di rimanere sconnessi dalla Chiesa romana, procuravano ne fossero eletti di migliori. Vero è che tratto tratto gli scismatici rivalevano, e a Piacenza cavarono gli occhi e tagliarono a pezzi il vescovo Bonizone. Poi nella contesa che aveva sbrancato ogni città fra amici del papa o dell'imperatore, una delle fazioni era prevalsa in ciascuna, e le città papaline faceano leghe tra sè e guerra contro le imperiali: ed inebbriate sulla battaglia, persuasero Corrado figlio d'Enrico a ribellarsi al proprio padre. Se le cronache dicessero vero, Enrico era divenuto sleale anche alla nuova sua moglie Adelaide, e imprigionolla a Verona, donde fuggita a Matilde, le narrò com'egli n'avesse esposto il corpo agli oltraggi di molti, e persino del figlio Corrado. Il quale, campato di carcere, scese in Italia, dove grandissimi beni in Piemonte possedeva, ereditati dalla contessa Adelaide sua ava, e fu coronato in Milano (1091), sostenuto dai Bavaresi e da Matilde. Sì al vivo sentì Enrico la ribellione del figliuolo, che fu per uccidersi, tanto più che le sue armi ebbero la peggio in Italia; e sconfitto di nuovo dalla contessa sotto Nogára, fu costretto ripassar le Alpi, lasciando ad una donna il vanto d'una delle maggiori vittorie che Italiani riportassero sopra stranieri[399]. Alfine egli conchiuse pace (1097) cogli avversarj suoi in Germania, i quali dichiararono Corrado indegno della corona. Costui, lodato di moltissime virtù, ma contaminato dal più nero delitto, sprovveduto di vigor naturale, visse in balìa della fazione che lo aveva eletto, e massime di Matilde, che ormai potea dirsi regina d'Italia, e morì nell'abbandono a Firenze (1101), vollero dire avvelenato dalla gran contessa. Era designato al trono di Germania il minor fratello Enrico, ma questo pure maturò la ribellione sotto pretesti devoti[400], e tenne cattivo l'imperatore. Il quale liberato si presentò ad un'assemblea in Magonza, confessandosi in colpa, chiedendone perdono, e cedendo la lancia e lo scettro per aver l'assoluzione del legato papale. Si prostrò anche ai piedi d'Enrico dicendo: — Figliuol mio, figliuol mio, se il Signore vuol punire i miei trascorsi, non contaminare il nome e l'onor tuo; poichè natura non soffre che il figlio si eriga giudice del padre». Il figlio neppur gli badò, e il padre andò spargendo e scrivendo miserabili gemiti, finchè morì (1106) a Liegi dopo cinquant'anni di regno. Le sue prosperità furono disonorate dai peggiori vizj d'uomo e di re: che se le sciagure che glie ne conseguitarono fecer qualche volta dimenticare i misfatti con cui le meritò, potremo dimenticare quanto sangue fe spargere coll'ostinarsi nello scisma? L'antipapa Guiberto, pentito più volte d'essersi così male imbarcato nella nave di Pietro, non ebbe mai il coraggio di sottomettersi; ed or tutta Roma, or tenne solo il castello, ora la campagna, turbando il paese e le coscienze finchè morì improvviso e impenitente, e Pasquale II ordinò che le sue ossa a Ravenna fossero dissepolte e gettate al vento (1100). Esso papa in Guastalla tenne nuovo concilio, fulminando le investiture date da secolari, depose alcuni vescovi, alcune chiese riconciliò, e per umiliare quella di Ravenna ne sottrasse le chiese di Bologna, Modena, Parma, Piacenza, Reggio. Enrico V, che erasi ribellato al padre col pretesto ch'egli fosse scomunicato, appena si trovò re cominciò guerra al papa, pretendendo poter dare l'investitura; ed esigere l'omaggio ligio dai prelati. Per sostenerlo passò le Alpi; ricevuto orrevolmente dalle città lombarde (1110 agosto), eccetto Milano, e da quelle fornito di denaro e truppe, distrusse Novara e altre terre renitenti; a Roncaglia passò in rassegna ben trentamila soldati scelti a cavallo, oltre gl'Italiani; viaggiò per Pontremoli, la quale dovette pigliar di forza; abbattè Arezzo; arrestava preti e monaci quanti potesse, o li cacciava dalle lor sedi, onde era chiamato sterminatore d'Italia. Di tal passo avanzò fin a Sutri. La Romagna era sempre sossopra, e Stefano Corso ribellò la Marittima, fortificandosi in Ponte Celle e Montalto, sicchè il papa dovette osteggiarlo. Roma stessa non quetò, sebbene Pasquale vi rientrasse; ogni giorno tumulti, ladronecci, omicidj; una fazione si teneva in armi verso Anagni, Palestrina e Tusculo; una ribellava la Sabina; Pietro Colonna e l'abate di Farfa intercideano le vie verso il Napolitano. Pasquale faticò assai in recuperare le terre al patrimonio; poi, all'udire la venuta d'Enrico V, si fe promettere dai duchi di Puglia e dai proprj baroni che lo difenderebbero. Ma viepiù si fidava sulle ragioni che spiegò all'imperatore; e poichè questi negava recedere pur da uno dei diritti esercitati da' suoi predecessori (1111), Pasquale, che voleva appianar le differenze ad ogni costo, arrivò alla più grande mai delle concessioni; vale a dire che gli ecclesiastici cederebbero tutti i possessi temporali, coi vassalli e i castelli avuti dagl'imperatori, non ritenendo se non le decime e le terre ricevute da privati, purchè l'imperatore rinunziasse all'immorale diritto delle investiture. Ad Enrico non parve vero di poter ricuperare alla corona tanti feudi, dai re concessi agli ecclesiastici quando importava di farne un contrappeso ai signori laici; onde l'accordo fu sottoscritto e dati gli ostaggi, salva l'approvazione della Chiesa e dei principi dell'Impero. Pieno disinteresse, zelo d'estirpare il mal seme, ricordo dell'apostolica povertà, recavano Pasquale sino a far che la Chiesa rinunziasse ad ogni temporalità: ma non s'accorgeva come impossibile tornerebbe lo spogliare tanti signori ecclesiastici poderosi; mentre anche ai nobili laici spiacerebbe il veder chiusa quella via di collocamento ai loro cadetti. Di fatto, non appena l'accordo si divulga, i nobili ne mormorano e si oppongono; i vescovi ripetono le regalie possedute per concessioni imperiali; Enrico nega rinunziare alle investiture se non venga adempita la condizione: onde invece d'accomodare s'arruffò, e lo scompiglio e il tumulto s'estesero anche al popolo romano, che, scontento dei Tedeschi rozzi e briaconi, cominciò a scannarli. Enrico prende il papa e i cardinali come statichi, e dopo essere stato ferito e scavalcato, esce di città traendoseli dietro, spogli degli ornamenti e in ceppi, e stringe d'assedio Roma. Il papa, sgomentato da settanta giorni di prigionia (1112), soscrive a Sutri un privilegio, che vescovi ed abati si eleggessero liberamente e senza simonia, ma fosse necessario il beneplacito del re, il quale gl'investirebbe coll'anello e col pastorale, dopo di che verrebbero consacrati. Reciprocamente Enrico promette restituire e conservare tutti i beni alla Chiesa romana. Allora Pasquale rientra in Roma, e consacra Enrico ma a porte chiuse, chè i Romani nol disturbassero: ma non sì tosto fu questi partito, i cardinali, che non avevano dato adesione all'accordo, tentarono distorne il papa, al quale si erano avversati fin a trattarlo d'eretico, sicchè egli andossene da Roma, e depose le insegne, risoluto a vivere in solitudine. Un concilio accolto in Laterano cassò quel privilegio, che i prelati intitolavano _pravilegium_, come estorto a forza; si proibirono le investiture secolari, e quantunque il papa renuisse (2 aprile), si proferì condanna contro l'imperatore, che si trovò involto ne' guaj di suo padre, disobbedienze, ribellioni, guasti. Ravviluppò quel nodo la morte della contessa Matilde (1115). Non pare che la pia donna sapesse guardarsi dall'arroganza che dà il potere; dal marito Guelfo si separò; a Corrado fe inghiottir fiele: intanto estese la propria autorità, creava a suo talento gli arcivescovi di Milano, proteggeva i sacerdoti, donava con appena credibile larghezza a chiese e a monasteri, e la sua ambizione era lusingata così dall'essere benedetta qual tutrice della Chiesa, come dal tener testa al più potente principe d'Europa. Oltre il marchesato di Toscana, la ducea di Lucca e sterminati tenimenti, possedeva Parma, Modena, Reggio, Cremona, Spoleto ed altre città; ultimamente aveva ricuperato anche Ferrara e Mantova, la quale, alla falsa nuova della morte di lei, si era rivoltata. Di tutti questi possessi ella chiamò erede la santa sede[401]: ma Enrico V pretendeva ai feudi come ricadenti all'Impero col cessare della linea mascolina, e ai beni allodiali siccome prossimo parente della estinta. Era difficile chiarire la vera natura di possessi che stavano incorporati già da molte generazioni, ed ove decreti imperiali avevano talvolta congiunto feudi ed allodj, o ai feudi eransi agglomerate allodiali proprietà: ma Enrico (1116), da re, risolve la questione calando in Italia ed occupandoli, e minaccia tornar prigioniero il pontefice che protestava. Questo, in un nuovo concilio di Laterano, cassa il privilegio di Sutri, conferma quanto aveano operato i suoi legati, e all'accostarsi dell'imperatore ricovera a Montecassino, sotto la tutela dei Normanni. Della fuga del papa risero ed esultarono i Romani, molti de' quali egli avea scontentati coll'attribuire grandi poteri e il grado di prefetto della città a Pier Leone, imputato d'una colpa che la Chiesa non riconosce, l'esser discendente da Ebrei. Il popolo invece pose a prefetto un fanciullo, i cui parenti tiranneggiavano Roma, e diede mano alla fazione imperiale. Stranissimi fenomeni agitavano in quel tempo le fantasie: per quaranta giorni durarono le scosse d'un tremuoto, quale mai a memoria d'uomini; sicchè a Verona crollarono molti edifizj e perirono persone; a Parma, a Venezia, altrove cascarono castelli e palazzi; a Cremona la cattedrale: insieme si videro nuvole infocate e sanguigne vicinissimo alla terra, ed altri portenti. Dai quali anche l'imperatore sgomentato, desiderò rappattumarsi colla Chiesa; e nol potendo ottenere, mosse guerra ad alcuni castelli pontifizj, il che lo fece applaudire dai Romani; e con donativi amicatisi i magnati, entrò in città, e vi si fece di nuovo coronare (1118). Pasquale dovette fuggire, e morì fuor della sua sede: lodato per saviezza, pietà e mansuetudine. A Gelasio II succedutogli, Enrico propose riconoscesse il privilegio del 1111; e poichè questi rimise l'affare ad un concilio, Enrico cavalcò di nuovo sopra Roma, e Cencio Frangipane, caporione della setta imperiale, rinnovò la scena d'un altro Cencio, prendendo a pugni e calci il pontefice e trascinandolo pei capelli dalla chiesa al proprio palazzo. Il popolo, che agli eccessi de' rivoltosi si ravvedeva del mal concepito suo odio, guidato da Pier Leone, glielo strappò di mano e lo rimise in onore: ma egli non fidandosi di quegl'instabili, si ritirò. Enrico, non contento della forza, ricorse anche ai cavilli, e fatta da giureconsulti dimostrare illegale l'elezione di Gelasio, assunse papa Maurizio Burdin, arcivescovo di Praga, che prese il nome di Gregorio VIII. Gelasio dovette ancora ricorrere alle armi e al soccorso de' Normanni; certamente bestemmiato da coloro che tacciano d'imbecille chi soccombe alla violenza, e di micidiale chi la ripulsa. Mentre celebrava in una chiesa secondaria di Roma, i Frangipani l'assalsero, altri nobili li contrastarono, e il sangue corse: onde Gelasio stabilì abbandonare _la nuova Babilonia_, in ogni caso preferendo _avere un imperatore solo che tanti in Roma_; e dai Pisani si fece portare in Francia, nella badia di Cluny, dove circondato di venerazione moriva. I cardinali gli surrogarono Calisto II 1119, che zelatore dei diritti ecclesiastici, ma più destro che i predecessori, maneggiò con Enrico un componimento: non vi riuscì, e avendo l'imperatore tentato arrestarlo, egli scomunicò lui e il suo antipapa. Calisto tornando in Italia, fu ben ricevuto dai Lombardi appunto perchè perseguitato dagl'imperiali; fauste accoglienze ebbe da Roma stessa, donde era fuggito Burdino: passò poi a Benevento, ove gli Amalfitani ostentarono le loro ricchezze parandola di tele e drappi di seta e altre preziosità, mentre in turiboli d'argento e d'oro bruciavano cannella ed altri aromi. Colà Guglielmo duca di Puglia e Giordano principe di Capua vennero a prestare al papa il consueto omaggio e fedeltà contra _ogni uomo_, ed esso gl'investì col gonfalone; trovandosi per tal modo sostenuto dalle forze normanne per combattere le guerre della libertà. E poichè l'antipapa si reggeva in armi, e la campagna era infesta di masnade, dovè venire con un esercito, assediò Sutri, e vi fe prigioniero l'antipapa, che fra indecenti beffe fu ricondotto a Roma, e chiuso in un convento (1122). La scomunica papale preparava ad Enrico altrettanti guaj che a suo padre; ond'egli prelibandoli chinò la cervice, negoziò un accordo coi baroni che contro lui si erano confederati, e si convenne d'una pubblica pace a Wurzburgo, alla quale tenne appresso quella col papa. La dieta germanica a Worms confermò il concordato, in cui l'imperatore, ribenedetto, rinunziava ad investire i prelati coll'anello e col pastorale, lasciava alle chiese la libera elezione, e prometteva restituir loro le regalie usurpate dopo rotta la guerra. Di rimpatto il pontefice consentiva che i prelati di Germania venissero eletti in presenza dell'imperatore, senza nè violenze nè simonie; dopo eletti accettassero le regalie (oggi si direbbe le temporalità) dall'imperatore mediante lo scettro, e a quello prestassero i servizj dovuti; in Italia, al contrario, l'investitura si dava dopo consacrazione; nè si conservò ai capitoli il diritto di eleggere il proprio pastore. Qui si chiude il primo atto della guerra delle Investiture, agitata quarantott'anni fra sangue e intrighi. A Calisto II rimase la gloria di quell'accordo, per l'amor della pace che costantemente dimostrò; ma il vantaggio fu tutto del poter secolare, attesochè l'imperatore non recedeva pur da una delle sue pretensioni, e colla presenza veniva a dirigere la scelta, oltre tenersi confermato l'alto dominio. La Chiesa però non aspirava ad acquisti, bensì a restare indipendente nelle cose spirituali, e in ciò trovavasi soddisfatta. Poco poi Lotario II imperatore di Germania lasciossi indurre a rinunziare al diritto di assistere alle elezioni, e fu mutato nel papa quello di decidere le differenze che ne nascessero. Ai principi serbavansi i frutti delle badie e de' vescovadi vacanti, e così lo spoglio de' vescovi e degli abati; ma di queste pure vennero privati poc'a poco. CAPITOLO LXXIX. Repubbliche marittime. Poteva il commercio aver fiore allorchè tanti regni v'erano quanti villaggi, e il mercadante ad ogni guado di fiume, ad ogni stretta di monti trovava l'uom di un barone che esigeva un pedaggio o qualche merce al prezzo ch'egli fissava, se pur non volesse anche svaligiarlo? Le vie di terra sì poco erano sicure, che, mentre Giovanni VIII andava in Francia l'878, a Châlons sulla Saona gli fu rubata parte de' suoi cavalli; a Flavigny la scodella d'argento di san Pietro, di cui i papi usavano; e altro rimedio non ebbe che di scomunicare i ladri. Alquanto men male doveano passare le cose in Italia, atteso l'affluire de' pellegrini per devozione e per affari al centro della cristianità, quando gli affari più importanti erano i religiosi. Il commercio della Germania con Costantinopoli e col Levante era continuato per la Pannonia sinchè questa rimase sotto la placida dominazione degli Avari; ma dacchè fu invasa dai fieri Magiari, si diresse per la Lombardia. Le relazioni coi Franchi aveano pure dischiuso le due strade pel Tirolo a Verona, e per l'Elvezia al lago di Como. Ma fu pel mare che acquistarono ricchezze e libertà Pisa, Genova, Amalfi, e quella Venezia che il primo esempio di regolare governo dovea dare alle nazioni moderne. Avanti l'invasione de' Barbari, di cinquanta città fioriva il paese dei Veneti[402], esteso dalla Pannonia all'Adda, dal Po all'alpi Retiche e Giulie. Esposto pel primo alle correrie de' Settentrionali, perdette la prosperità; poi Attila ridusse in cenere Aquileja, Concordia, Oderzo, Altino, Padova. Fuggendo davanti al Flagello di Dio (450), i popoli dell'Euganea e della Venezia ripararono nell'isola di Rivo Alto e nelle convicine. Sfogato quel nembo, molti alla patria desolata preferirono il ricovero sicuro; e poichè, come avviene nelle emigrazioni, i ricoverati erano i meglio stanti, vi cercarono agi alla vita, mentre si esercitavano nelle uniche arti che colà fossero possibili, commercio, pesca, raccoglier sale, e trasportare quanto scendea dai fiumi d'Italia, o dovea rimontarli, per supplire alle biade dei campi sperperati. Al frangersi dell'imperio romano, poi al venire dei Goti, e forse maggiormente al sopragiungere dei Longobardi, nuova gente accorreva nelle isole per sottrarsi alla servitù. Era naturale che quei primi non accomunassero tutti i civili diritti ai nuovi ospiti, talchè restava formata una nobiltà, non derivante da guerre e conquiste, ma da anteriore abitazione. Allorchè l'impero non sopravisse che a Costantinopoli, la lontananza lentò i legami che con esso avevano conservato i Veneti: mal però si potrebbe determinare fin a qual punto dipendessero dai successori di Zenone, e forse limitavansi all'omaggio, conservato come titolo di difesa contro i vicini, e di privilegiato commercio coll'Oriente. In Venezia vissero memori della italica civiltà, con poche armi, molto traffico, e col regolamento municipale cui erano avvezzi sulla terraferma. Dapprima ad Eraclea sul lido ove sbocca la Piave, poi a Malamocco isola ora perita, fu la sede del governo, il quale abbracciava le isole e il lembo di terraferma che va da Grado a Capodargine. Pei comuni interessi e per nominare magistrati annuali, varie isole si accoglievano nell'arengo o concione. Di que' primordj rimangono molte traccie d'agricoltura; una delle isole è detta le Vignòle per le viti, una Bovese pei bovi; a Torcello si stabilisce per _chyrographorum scripta_ di misurare i terreni a jugeri da darsi ai coloni, i quali per ogni jugero di vigna dovranno al vescovo due tralci carichi, e ogni massaro otto denari; e gli abitanti contribuiranno uova, galline o siffatti. Ma già regnante Teodorico, Cassiodoro salutava i Veneziani siccome corridori del mare e dei fiumi. — Simili ad uccelli acquatici, spargeste vostre case sulla faccia del mare; per voi furono congiunte terre divise, opposti argini all'impeto dell'onde; basta la pesca ad alimentarvi, e il povero non è differenziato dal ricco; uniformi gli abitari, non distanza di condizioni, non gelosia fra cittadini; vece di campi vi tengono le saline». Nell'anno della invasione longobarda, il patriarca di Aquileja, venuto in auge durante lo scisma dei Tre Capitoli, si trasportava dalla distrutta sua città a Grado, e fra un secolo molti de' suffraganei l'imitarono; uno si pose a Caprola, uno in Eraclea, uno nell'isola di Torcello, un quarto al lido di Medoaco, un altro in Equilo. A san Magno vescovo di Oderzo, che fuggiva da re Rotari nelle lagune, apparve la Madonna, e gli additò sette isole, ordinando vi fondasse sette chiese. Un'altra pia tradizione raccontava che l'apostolo san Marco, nel passare da Alessandria ad Eraclea, naufragò a Rialto, e predisse che colà avrebber riposo le sue ossa. Per la fabbrica di San Zaccaria, dovuta a san Magno, fin Leone iconoclasta diede artefici, denaro, reliquie[403]. La chiesa di Torcello già era cadente nell'864, e le parti restaurate in quell'anno e nel 1008 sono di lavoro grandioso e squisito. Più il dominio longobardo riusciva intollerabile agl'Italiani, e massime al clero, più gente affluiva alle sicure lagune. Ciascun'isola prendeva a capo un tribuno; poi fu formato il Governo comune, restringendo l'amministrazione dapprima ad un tribuno solo, poi a dieci, a dodici, a sette; finchè nobili, popolo e clero adunati elessero un capo unico che, potendo su tutti gli altri, frenasse l'ambizione e la prepotenza. Paoluccio Anafesto di Eraclea, divenuto capo (697) non per tirannica usurpazione, ma per amore di libertà meno tumultuosa, apre la serie dei dogi, magistrato supremo, eppure temperato in modo, che neppur uno arrivò al despotico potere. Erano eletti a vita dal popolo; e ciò non aboliva l'arengo nè il voto universale; in modo che Venezia congiungeva l'avanzo delle forme antiche mediante l'omaggio all'imperatore, il sistema de' governi militari all'uso germanico nell'autorità affidata ai dogi, la futura libertà de' Comuni italiani coll'ordinamento a popolo; e tutto ciò senza codesta trasfusione di sangue settentrionale, che alcuno reputa fosse necessaria a svecchiare la razza italiana. Gli Schiavoni, occupata la Dalmazia e mal trovando preda in una terra tante volte saccheggiata, si gittarono alla pirateria; onde i Veneziani dovettero opporsi a loro, col che aggiunsero all'industria il valore. Carlo Magno, rinnovato l'Impero occidentale, fe coll'orientale una pace (804), ove determinava i confini del regno italico comprendendovi l'Istria, la Liburnia e la Dalmazia. Per conseguenza i dogi di Venezia e di Zara avrebbero dovuto omaggio a Carlo; ma fallendo ai patti, Niceforo imperatore spediva per ricuperare la Dalmazia, e benchè tenesse dietro pronta tregua, la ruppe Paolo duca di Zara e di Cefalonìa (807), occupando i porti dalmati, poi ancorandosi fra le isolette ove cresceva Venezia, e tentando pure Comacchio. Respinto dai Franchi, cercò accordi con Pepino re d'Italia; ma li contrariarono i fratelli Obelerio e Beato dogi, temendo non ne fosse prezzo la tradigione della repubblica veneta. Paolo, vedendosi insidiato, ricondusse l'armata sua a Cefalonìa, e i Veneziani rimasero esposti a Pepino, sdegnato con loro perchè, quando li chiamò ad obbedienza, risposero: — Non vogliamo stare soggetti (δουλοι) che all'imperatore romano», e negarono soccorrerlo nell'impresa di Dalmazia, e ridussero il patriarca di Grado a trasferire sua sede in Pola. Mosso dunque in armi contro di essi, Pepino prese le isole di Grado, Eraclea, Malamocco, Equilo; talchè il doge, per salvare Olivòlo, Caprola e Torcello, promise annuo tributo. I Veneziani, imputandolo di viltà o tradimento, cacciarono Obelerio (809), che con tutta la sua famiglia passò in Oriente. La discordia agevolò a Pepino la conquista di Chioggia e Palestrina; e gettò un ponte di barche sin a Malamocco, dove allora sedeva il Governo. Angelo Participazio propose si trasportasse tutta la popolazione a Rialto; Vittore d'Eraclea ammiraglio lasciò che le navi nemiche s'inviluppassero fra i bassifondi delle lagune, e quando la marea bassa le impedì d'ogni movimento, i Veneziani avventarono dardi e fuoco, sicchè a gran pena, quando il mare ricrebbe, scompigliate e sdruscite ricoveraronsi nel porto di Ravenna[404]. Con fortuna non migliore la flotta di Pepino campeggiò in Dalmazia, talchè questa provincia rimase ai Greci. Le ostilità avvicendaronsi coi negoziati, sinchè il patrizio Arsafio ad Aquisgrana (810) ricevette di man di Carlo Magno il trattato di pace che cedeva ai Greci le città di Venezia, Trau, Zara e Spalatro: acquisto di puro nome per l'impero greco, mentre a quelle risparmiava il tedio delle pretensioni dei Franchi. Questo trionfo compensò Venezia dei guasti sofferti; e Angelo Participazio, messo a capo del popolo che avea salvo, mutò la sede del governo a Rialto (811), alla quale si congiunsero presto le isole circostanti di Olivòlo, Luprio, Birri, Dorsoduro, le Gémine. Tosto si diede opera ad imbonire il terreno e sodarlo, un murazzo schermì l'entrata della laguna, in cui Chioggia, Malamocco, Palestrina, Eraclea, risorte dalle ruine, fecero corona al palazzo del doge, con una sessantina d'isolette congiunte per via di ponti, qual simbolo dell'unità morale da cui aspettavano la forza. A quelle isole insieme fu dato il nome dell'antica patria, chiamandole Venezia; unità datale dall'assalto di Pepino: chè sempre dopo attacchi falliti ingrandisce l'indipendenza d'un paese. Un cittadino di Torcello e uno di Malamocco, andati ad Alessandria con dieci navi (tanto poteano due privati), riuscirono a sottrarre dalla profanazione dei califfi e portare in patria le reliquie di san Marco, nascondendole tra carne di majali, acciocchè i gabellieri musulmani non le rovistassero. Quel santo divenne d'allora il patrono della repubblica veneta. Un Comune e un santo; ecco gli elementi di cui gl'italiani componevano la loro libertà. Più che agl'imperatori d'Occidente, aderiva Venezia a quelli di Costantinopoli, che avevano per sè l'opinione d'un'antica primazia, e che le offrivano agevolezze di commercio; e a questi non isdegnava prestare un omaggio apparente, spedire ambasciate e doni, ricevere i titoli di _ipato_ cioè console o di _protospatario_ pel doge, somministrar flotte, come fece principalmente allorchè di sessanta navi accrebbe l'armata (837) venuta a salvare le coste d'Italia dai Saracini. Per richiesta del greco imperatore guerreggiò anche i Normanni di Calabria[405], e n'ottenne in compenso i diritti sovrani sulla Dalmazia. Alessio Comneno assolse la Repubblica d'ogni gabella ne' suoi porti, mentre gli Amalfitani che vi approdassero doveano retribuire tre perperi a San Marco. Gli Arabi, gente trafficante sin dal tempo di Giacobbe, le natìe abitudini conservarono anche dopo che la conquista li portò fuori di patria; e dalle coste del Mediterraneo negoziavano di legname, pece, lana, canapa, pelliccie, schiavi, e si facevano intermediarj del commercio colle lontane contrade delle spezierie. Con essi teneano vivi negozj i Veneziani, i quali, dove altri accorreva per devozione, andavano a piantare mercati; istituirono fiere nelle proprie città, a Pavia, a Roma, altrove, spacciandovi merci d'Oriente, schiavi, reliquie, tutto, purchè vi fosse da vantaggiare. Conoscevano il lusso degli Arabi, e ne compravano le manifatture, ingegnandosi emularle; non potendo speculare su terreni, compravano armenti che pascolassero nel Friuli e nell'Istria; prendeano in appalto le gabelle d'altri paesi, per disvantaggiarne i loro emuli; le saline del litorale o cavavano per conto proprio, o ne acquistavano il prodotto, come pure il sal minerale di Germania e Croazia; costrinsero un re d'Ungheria a chiudere le sue, e guaj a chi usasse sal forestiere. Le città della costa illirica appartenevano all'impero greco, che, come soleva ne' paesi lontani, le lasciava armarsi e amministrarsi da sè. La loro situazione divenne pericolosa al rinforzarsi de' Croati e delle altre genti slave piantatesi nella Dalmazia, tra le quali principalmente i Narentini si erano buttati al pirata. Dal paese ove poi Trieste ingrandì, tribolavano essi il commercio de' Veneziani, avventurandosi fin tra le loro isole; e tentarono un'impresa audacissima (935). Il giorno della candelara soleano i Veneziani fare le nozze di cospicue fanciulle nella maggior chiesa, posta sull'isola di Castello, con quel corredo d'allegria e di ricchezze che si suole per siffatte solennità. I pirati si posero in agguato, e come i festanti furono raccolti, gli assalsero, e rapirono le spose e i doni. Scoppiò il dolore universale: ma il doge Pier Candiano, il cui padre era morto osteggiandoli, incoraggiò a far piuttosto vendetta, e armate alla presta quante navi potè, raggiunse i rapitori nelle lagune di Caorle, e ricuperò le donne e il bottino. Il Candiano vendicò l'insulto col portare guerra a morte ai corsari dell'Istria; anche i Comuni illirici si collegarono per esterminarli, chiedendo capo la repubblica veneta, alla quale convennero di prestare omaggio, e di marciare sotto le sue bandiere. La flotta più poderosa che Venezia avesse ancora armata (997) andò a ricevere l'omaggio della storica Pola, di Parenzo, Trieste, Capo d'Istria, Pirano e delle altre città costiere; poi di Zara in Dalmazia e delle terre fin a Ragusi, e delle isole. Lèsina e Cùrzola preferirono allearsi coi Narentini, onde contro di esse tolsero l'armi i Veneziani, e sterminarono il ricovero de' Narentini. Il fatto delle spose rapite si solennizzò con perpetuo anniversario, dove la Repubblica dava la dote ad alquante fanciulle, che recavano le donora entro arselle. I cassellieri, cioè falegnami, che aveano somministrato il maggior numero di barche, chiesero in guiderdone che il doge venisse ogni anno alla loro parrochia il giorno della lor festa. — Ma e se piovesse? — Vi daremo cappelli. — E se avessi sete? — Vi daremo a bere. — Sia e sarà sempre». Perciò, anche dopo dismessa la cerimonia degli sposalizj, il piovano andava incontro al doge, presentandogli due cappelli di paglia, due aranci e due fiaschi di malvasia. Tradizioni poetiche, che Venezia custodiva gelosamente, e che fin all'età precedente alla nostra congiungevano il passato al presente. E tutta poetica è la storia di Venezia, e de' privilegi che concedeva alle varie isole. Le mogli dei nobili di Murano, isola prediletta dalla Repubblica per le manifatture del vetro, poteano sedere pari alle patrizie della dominante. A quei della torre di Bebbe, presso Chioggia fra Adige e Brenta, che mostrarono valore in una guerra per la navigazione di quest'ultimo fiume, fu perdonato il tributo di tre galline, che in tre termini dovea ciascuna famiglia offrire ogn'anno al doge. Gli isolani di Poveglia erano iscritti nel ruolo de' cittadini originarj; esenti da servizio militare, se pur il doge non ne assumesse il comando; esenti da dazj, tasse d'arti e mestieri, imposte, neppur se fossero per lo scavo dei canali interni della città. Giunti a sessant'anni, aveano il privilegio di comprare a un prezzo determinato il pesce che veniva dall'Istria, e venderlo al pubblico mercato. Erano in ispeciale protezione del doge e della magistratura delle _Rason Vecchie_, che trattava le loro quistioni. Il venerdì santo offrivano al doge ottanta passere del peso d'una libbra: all'Ascensione regalavano alla dogaressa una borsa con cinque ducati in rame, perchè la si comprasse un par di pianelle. Quando il doge uscisse alle funzioni nella barca dorata, lo accompagnava una peota, in cui stavano i principali dell'isola di Poveglia che sonavano le trombe: nel giorno dell'Ascensione precedeano il bucintoro che andava a sposar il mare, faceano ala sulla destra del ponte per cui il doge saliva al vascello, e poteano prendergli la mano e baciargliela. La domenica poi seguente a quella festa, i loro capi, guidati dal cappellano che cernivasi dalle famiglie originarie, entravano nell'appartamento del doge, professandogli l'antica devozione, e chiedendogli continuasse a proteggerli e ne mantenesse i privilegi, e gli baciavano la mano e la guancia: poi erano da esso banchettati con servizio d'argento, e poteano portarsene i rilievi della mensa, oltre il regalo di molte confetture e di un garofano. La feudalità non potea metter radice dove non s'aveva territorio: l'alto clero sceglievasi sempre tra i nobili, onde questi non discordavano dagli ecclesiastici. San Marco fu sinonimo dello Stato, lo che dava a questo un aspetto religioso; il servizio pubblico non importava soggezione ad altr'uomo, ma un obbligo verso quel santo; e più d'un doge depose il cornetto per finire in un monastero una vita logorata a servire san Marco. Pier Candiano III erasi associato il figlio, il quale congiurò contro di lui; ma il popolo stette pel padre, e cacciò il figliuolo, che, protetto da re Berengario II, mosse contro la patria (959), di che il padre morì di crepacuore. Il popolo dimentico elesse quel figlio, che si mostrò crudele nell'interno, prode e vigoroso di fuori, destreggiando cogl'imperatori d'Oriente e d'Occidente; proibì ai Veneziani di trafficare di schiavi coi Saracini, nè di portar lettere a Costantinopoli se non passando per Venezia. Repudiata la veneta Giovanna, obbligandola a farsi monaca, e chierico il figlio, sposò Gualdrada sorella del famoso Ugo marchese di Toscana, che con corteggio di regina gli portò ricchissima dote di beni sodi e di servi. Per difender questi assoldò bande straniere; e inorgoglito del costoro appoggio, cominciò a trattare d'alto in basso la nobiltà veneta, e attaccar liti coi vicini; prese un castello de' Ferraresi, fe devastare Oderzo, e via di questo passo. I Veneziani, perduta pazienza, lo assalsero, e perchè si difendeva co' suoi armigeri, diedero ascolto a Pietro Orseolo, ed appiccarono fuoco al palazzo ducale. La fiamma si dilatò alle vicine chiese di san Marco, san Teodoro, santa Maria Zobenico e a più di trecento case; e il doge fu trucidato con un suo fanciullo. Gli sottentrò l'Orseolo (976), il tristo consigliatore, eppure uomo di somma pietà, che tutto s'adoprò a restaurare i danni, rifece il palazzo e la basilica Marciana, zelò la giustizia. Sentendo però d'aver nemici, e rimorso della parte presa alla fine del predecessore, raddoppiava atti di penitenza; da Guarino, abate guascone di famosa santità, si lasciò persuadere a ritirarsi nella vita monastica; e segretamente passato in Francia, visse da frate, e dopo morto (978) ebbe onori di santo. Anche Vitale Candiano suo successore, dopo brevissimo comando, si chiuse in una badia. Sotto Tribuno Memmo succedutogli entrò la peste delle fazioni, fin allora sconosciuta in Venezia, venendo a contesa i Caloprini coi Morosini; e sorti in armi (979), questi furono cacciati. Ottone II stava ancora in rotta coi Veneziani per l'uccisione del doge: ora Memmo gli mandò ambasciadori, coi quali fu concordata la pace, determinando anzi i limiti[406]; ma i Caloprini, per avere il dogato e per nuocere ai Morosini, offersero a Ottone quel destro di sminuire l'impero greco, e a tutte le terre da sè dipendenti proibì di portar vettovaglie a Venezia, nè ai Veneziani di metter piede nel suo impero. Memmo punì i mali istigatori col diroccarne le case; ma quel blocco metteva in gravissima congiuntura la Repubblica, se opportunamente non fosse morto Ottone. I suoi successori diedero a Venezia il privilegio di negoziar soli di sale e di pesce marinato. I Caloprini, per mediazione dell'imperatrice Adelaide, ottennero perdono e giurata sicurezza; ma poco poi, i tre figliuoli di Stefano Caloprino in gondola furono trucidati dai Morosini. Il Memmo finì monaco. Pietro Orseolo II (991) conta fra' più illustri dogi per avere ampliato la potenza dello Stato; spedì ambascerie ai Saracini, dominanti sulle coste d'Asia e d'Africa; ottenne nuovi mercati da Ottone III e dal vescovo di Treviso; compì il palazzo ducale e la basilica; trovò occasione di sottomettere le città marittime della Dalmazia sottrattesi ai Croati, e Parenzo, Pola, Ausero, Veglia, Arbe, Trau, Spalatro, Curzola, Lesina, Ragusi ed altre, che conservando proprj statuti, riceveano il podestà da Venezia; e il titolo di _duca di Dalmazia per misericordia di Dio_ fu aggiunto a quello del doge. Questo godeva terre, decime, pesche, caccie, vestiva riccamente, gran treno di servi, in chiesa si cantavano le sue lodi; egli intronizzava i prelati, benediva il popolo, dava l'avocazia delle chiese del dominio, giudicava liti o spediva messi a giudicarle: ma da un lato lo frenava l'aristocrazia, dall'altro il popolo, ancora mobile e rivoltoso. Già dodici dogi erano stati eletti figli di doge ancor vivo; laonde si temeva non si riducesse ereditaria anche quella dignità, come succedeva delle feudali sul continente. E però Ottone Orseolo (1009) succeduto a Pietro fu cacciato dal popolo, e si provvide che nessun doge potesse associarsi verun congiunto, nè designare il successore. L'autorità del doge fu ristretta col volere che non deliberasse se non con due tribuni, poi col togliergli la nomina de' giudici, istituendo il magistrato _del Proprio_. Il doge era però ancora eletto da tutto il popolo, donde frequenti sedizioni fra gli aspiranti. Venezia nulla risentì della lotta delle Investiture, attesochè il doge non le conferiva; esso nominava il primicerio e i cappellani di San Marco; popolo e clero continuavano ad eleggere i vescovi; il patriarca, più tardi creato, ricevendo il soldo dallo Stato, restava alieno dalle pretensioni feudali dei prelati del continente. I terribili incendj di cui patì, diedero modo a Venezia di attestare le sue ricchezze con fabbriche solide e belle, e che compite quando non aveva nè miniere nè bestiame nè vino od altra produzione, attestano il prosperare de' suoi traffici. In fatto, cresciute le navi per tutela e commercio, Venezia si trovò donna del Mediterraneo, e le costituzioni e le leggi dirizzava ad alta prosperità mercantile, allettando i forestieri con privilegi, sicurezza, buona moneta, pronta giustizia. Il doge poteva essere mercante, e in alcuni trattati si trova stipulata esenzione di gabelle per le merci di lui; ma poi fu stanziato che, salendo al trono, liquidasse i suoi conti. Premeva alle città marittime l'amicizia di Costantinopoli, centro delle arti, del lusso e dell'eleganza, ed emporio alle merci provenienti dall'India per la via di Alessandria: ma come gli Arabi ebbero occupato l'Egitto, la necessità di più lunghi tragitti le rincarì, sicchè i nostri, invece di comprarle a Costantinopoli, preferirono andarle a raccorre in Aleppo, a Tripoli e in altri porti di Siria, dove erano recate dall'India sul golfo Arabico, poi per l'Eufrate e il Tigri fino a Bagdad, traverso al deserto di Palmira riuscendo al Mediterraneo. Quando poi il soldano d'Egitto riaperse il golfo Arabico, via degli antichi, i nostri posero stanza ad Alessandria, rassegnandosi agli oltraggi e alle gravi esazioni de' Musulmani; e quel che ivi raccattavano, distribuivano poi in tutti i porti del Mediterraneo e della Spagna, e fin ne' Paesi Bassi e nell'Inghilterra. La politica di Venezia si limitava dunque al Levante; e durava l'uso che i dogi chiedessero la bolla d'oro in segno d'investitura dagl'imperatori di Costantinopoli. Coi quali ebbero talvolta guerra, poi ottennero buon accordo e vantaggi di commercio, e la cessione delle città di Dalmazia e d'Istria, col che ebbero legalizzata la dominazione che già vi esercitavano. Poco tardò nuova guerra (1171) coll'imperatore Manuele Comneno, a cui fu pretesto il non averlo soccorso contro i Siciliani, ragione i privilegi da esso largiti ai Pisani. Dicono in cento giorni si allestissero cento galee, ciascuna di cenquaranta remiganti, oltre i soldati: ma la sconfitta e la peste distrusse il bello armamento, tanto che sole diciassette tornarono, dopo ottenuta dura pace, e condussero in patria la peste[407]. Questi mali esacerbarono il popolo (1172), che uccise il doge Vitale Michiel II, decimonono sopra i quaranta, di cui il dominio finisse violentemente: ma fu anche l'ultimo. Venezia non era la sola città prosperante per commercio marittimo. Gli Amalfitani vantavano discendere da cittadini di Roma, che Costantino Magno mandava a Bisanzio, e che naufragati stettero alcun tempo a Ragusi, poi passarono a Melfi, il cui nome applicarono alla nuova patria che si edificarono sul pendio e in riva al golfo di Salerno là dove un tempo era fiorita Pesto. Il ducato formatosi abbracciava le terre del contorno e le isole dei Galli e di Capri, obbedendo ai Greci, la cui lontananza lasciava quasi intera indipendenza. Sicardo principe di Benevento sottomise Amalfi, giovato dalle fazioni che la sovvolgeano, e rubatone il denaro e il corpo di santa Trifomene, costrinse gli abitanti a migrare a Salerno, e con nozze congiungersi a' suoi sudditi, de' cui diritti li fe partecipi[408]. Ma appena Sicardo cadde (840), gli Amalfitani corsero al porto, e le spoglie della saccheggiata città posero sui legni, coi quali tornarono alla patria restaurando le munizioni; e omai indipendenti anche dal catapan greco, si governarono a repubblica con un prefetto o duca, estesero le loro merci in tutto l'Oriente, e le loro leggi marittime divennero canone nel Mediterraneo e nel Jonio, come un tempo quelle di Rodi. Amalfi non era però così gelosa dell'indipendenza che non cercasse capi stranieri; e nel 1038 si sottopose a Guaimaro principe di Salerno, sempre facendo riserva delle proprie libertà. Ivi Siciliani, Arabi, Indi, Africani venivano a vendere e barattare[409]; il popolo mostrava sua baldanza con frequenti rivolte, ornava la patria colle spoglie delle terre remote, e a Gerusalemme avea fondato due monasteri e uno spedale per comodo de' pellegrini, e per farvi poi mercato alle grandi solennità. I suoi tarì erano la moneta più diffusa in Levante prima che i Veneti vi portassero i ducati. Nelle galee usava scafi piccoli, corti remi; sicchè volendo far impresa contro una terra, si tirava in secco la galea, e le vele servivano ad accamparsi, i banchi a dare la scalata, i rematori a costruire e movere i tormenti da guerra. La superba Genova, appiè di sterili montagne, flagellata da un mare poco pescoso, e costretta a cercar vita dalla navigazione, già all'uscire del secolo IX garantiva da sè la propria sicurezza, con un governo semplice, atto a tutelare le franchigie del popolo e affezionarlo alla patria ed agli affari. N'aveano privilegio i nobili, eletti però popolarmente, come era popolare il general parlamento che deliberava de' comuni interessi, e riceveva i conti resi da' magistrati uscenti. Il commercio in grande maneggiavasi dai nobili, forse cadetti delle famiglie che teneano feudi sulla riviera. E poichè guerra continua doveano menare coi Musulmani, e da questi difendere od acquistare gli scali di Levante, univano le professioni dell'armi e della mercatura. Ottenendo considerazione chi potea mettere sulle banche grossi capitali, cessava la distinzione di razze nobili ed ignobili, dividendosi piuttosto i cittadini in compagnie, tribù, maestranze. In queste non si entrava che dato il giuramento; e chi non v'appartenesse invano aspirava a cariche pubbliche, la cui nomina era ad esse serbata. La nobiltà non vi si fondava dunque sui terreni, ma su banchi, sulla navigazione, sul credito, sulle continuate magistrature. I vivi traffici in Levante faceano Genova emula di Venezia; la postura sul mare stesso la recò prontamente in lotta con Pisa. Questa, già nominata per traffici nell'età romana, anche sotto i Longobardi conservò qualche indipendenza, giacchè Gregorio Magno querelavasi delle piraterie da' Pisani esercitate contro i sudditi dell'impero, ed essi e Sovana di Maremma esortava a spalleggiare Maurizio imperatore. Fu poi sottoposta forse al duca di Lucca, del quale ai tempi di Carlo Magno era incombenza il difendere la spiaggia dalle correrie de' Greci. Ottone II, quando voleva osteggiare i Greci di Calabria e di Sicilia, mandò a chiedere ajuti da' Pisani: e vuolsi che gl'inviati da lui fossero sette baroni dell'Impero, i quali, morto Ottone, si fermarono colà, e diedero origine alle sette famiglie de' Visconti, Godimari, Orlandi, Verchionesi, Gualandi, Lanfranchi, Sismondi; alcuno aggiunge i Caetani e i Ripafratta; e formarono una nobiltà, distinta dall'indigena. I marchesi di Toscana vi risedeano alternamente con Lucca, donde un'invidia, che nel 1003 scoppiò una guerra, che è la prima che si ricordi di città a città in Italia, e dove all'Acqualunga Pisa rimaneva superiore. Tra essa e il mare estendesi un piano sì poco declive, che vi si formano acquatrini e canneti: l'Arno poi, che allora la lambiva ed ora la fende, non è fiume bastevole a servirle di porto, come fanno il Tamigi per Londra, la Schelda per Anversa, il Tago per Lisbona. Dovette dunque crearsene uno, che fu detto Porto Pisano, a dodici miglia dalla città e vicino a Livorno, in vista dello scoglio detto la Meloria, famoso poi per triste battaglie. Pisa teneva relazione coi Greci della Calabria, e banco ne' principali porti di quella, e nel suo riceveva mercadanti di paesi lontanissimi[410]. Colle ricchezze acquistate trafficando riducea fruttifero il prosciugato delta dell'Arno, e le rive del Tirreno: i gentiluomini delle colline dal val di Niévole all'Ombrone chiesero la cittadinanza; v'accorrevano quelli che sottraevansi ai marchesi di Toscana; gran signori tenevano palazzi nel suo recinto e castelli ne' contorni; e la nobiltà esercitava l'ingegno governando la patria o i paesi conquistati. Generalmente favoriva agl'imperatori; parzialità che diviene, si può dire, il carattere della sua storia successiva. Dalla costa, ove possedeva da Lérici a Piombino, salvo alquanti castelli di signori, vagheggiava la Corsica e la Sardegna. Quest'isola, anticamente considerata uno de' granaj di Roma, fu poi a vicenda invasa da Vandali, Goti, Greci; infine Musetto (Mugheid al-Ameri) re moro vi annidò una banda di corsari; mentre i montanari fra le balze conservavano le credenze e i costumi antichi, che non dismisero fino ad oggi. Da quella vicinanza grande sconcio veniva a Pisa, che perciò eccitata dal papa[411], accordatasi con Genova e ajutata dai natii, obbligò Musetto a ritirarsi in Africa. Ogni anno egli rinnovava tentativi di ricuperar l'isola, sicchè i Pisani stabilirono attaccare le coste de' Barbareschi, e presa Bona, minacciata Cartagine, costrinsero Musetto a chieder pace. L'indomito vecchiardo, avuto ajuti dalla Spagna, ritentò l'impresa, e scannate le guarnigioni pisane, ebbe tutta Sardegna, da Cagliari in fuori. Il popolo pisano si scoraggiava a fronte del rinascente nemico, ma i nobili s'accinsero all'ultimo sforzo, e ajutati da Genova, dai Malaspina marchesi di Lunigiana, dal conte Centilio di Mutica in Spagna, allestirono una flotta, che capitanata dal plebeo Gualduccio, prese terra, sconfisse i Mori (1050), fe prigione Musetto, che a Pisa morì in carcere. E l'isola fu tutta de' Cristiani, i quali se la spartirono: ai Genovesi Alghero, al conte di Mutica Sassari, ai Malaspina le montagne, il distretto di Cagliari ai Gherardeschi, di Ogliastra ai Sismondi, di Arboréa ai Sardi, d'Oriserto ai Cajetani. Poco andò che que' signori cessarono ogni dipendenza dalla metropoli, e cinque principalmente prevalsero col titolo di giudici o re di Cagliari, Sassari, Logodoro, Arborea, Ogliastra. Questi fatti non sono abbastanza accertati, e tanto meno le loro particolarità; vivono però in tradizioni antiche, fra le quali è pure che, mentre i Pisani veleggiavano sopra la Sardegna, Musetto tentò sorprendere la loro città, e già aveva occupato la sinistra dell'Arno, quando una tal Cinzica de' Sismondi chiamò all'armi il popolo e rincacciò i nemici. Il fatto diede nome di Cinzica al quartiere d'oltrarno, e origine alla festa di Ponte, battaglia che si dava sul ponte dell'Arno, finta nell'intento, ma che spesso riusciva troppo da vero. I Pisani assalsero poi di nuovo gli Arabi in Sicilia (1063), ed entrati nel porto di Palermo, e trovatovi sei navi di carico, cinque abbruciarono, l'altra con ricchissime spoglie condussero in patria, dove se ne valsero per fabbricare il meraviglioso loro duomo[412]. Anche nel 1087 i Pisani strinsero in Mehedia il re Timino, il quale morì nel 1106 lasciando cento figli e sessanta figliuole. Quando, alla pasqua del 1113, la devota plebe accorreva a Pisa per ricevere la benedizione, l'arcivescovo Pietro fe recare una croce, e con parole di gran forza dipinse le sevizie usate dai Barbareschi corseggiando, e massime da Nazaradech re di Majorca, il quale dicevasi tenesse ventimila Cristiani a penare ne' suoi bagni; sorgessero, vendicassero alla libertà e alla religione quei loro fratelli. Primi risposero all'esortazione i vecchi, memori degli altri trionfi riportati sopra i Saracini; i giovani li secondarono, e dodici cittadini scelti a diriger l'impresa, coi soccorsi di Roma e di Lucca e col legato pontifizio salparono. Fortuna di mare li trasse fuor di corso, e credendosi approdati alle Baleari, cominciarono il guasto: ma chiaritisi ch'erano invece in Catalogna, s'acquetarono e chiesero compagni all'impresa Raimondo conte di Barcellona, Guglielmo di Montpellier, Emerico di Narbona, coi quali s'impadronirono d'Ivica e di Majorca, menandone via gran preda, e re e regina che si battezzarono. Le cronache di Firenze, esalanti municipale gelosia, raccontano che i Pisani, temendo non fosse la loro città molestata dai Lucchesi durante quella spedizione, chiesero ai Fiorentini la prendessero in custodia (1114). Vincitori, domandarono a questi che premio desiderassero fra le spoglie recate da Majorca; se le porte di tallo o due colonne di porfido. I Fiorentini preferirono queste, e i Pisani gliele mandarono rivestite di scarlatto; ma si volle che prima le guastassero coll'affocarle[413]. Sono quelle che ancora vediamo alla porta del bel San Giovanni. Dello spartimento della Sardegna i Genovesi rimasero scontenti, e tardarono a ritirarsi finchè i Pisani non li cacciarono coll'armi. Di qui erano cominciate invidie e rancori, che poi scoppiarono pel possesso della Corsica: isola importantissima pel legname di costruzione, la pece, il catrame, e perchè assicurava il commercio del mare occidentale. Aveva subìto la dominazione de' Vandali, poi dei Goti, il cui re Teodorico l'avea giovata di provvedimenti, creando anche espresso per lei un conte, acciocchè non fosse costretta a portare fin sul continente le querele. I Longobardi, sprovvisti di flotte, non aveano pensato a sottometterla; sicchè senza contrasto la tennero gl'imperatori greci, e ne fecero pessimo governo, gli sconci del dominio lontano crescendo colle persecuzioni religiose. Fu poi invasa dagli Arabi, della cui dominazione è ancor testimonio il Moro cogli occhi bendati ch'essa porta nello stemma; e la tradizione vorrebbe che un Colonna romano la ritogliesse agli Infedeli, e l'acquistasse in regno. Fatto è ch'essa fu, come ogn'altro paese d'allora, sminuzzata fra varj signori, sui quali i Pisani ambivano aver l'alto dominio per rinforzo al loro partito. La ambivano pure i Genovesi per un compenso o un contrappeso alla Sardegna: ma que' signorotti, mal soffrendo di dipendere da città mercatanti, preferirono il papa, il quale, secondo il diritto del medio evo, ritenevasi sovrano di tutte le isole, e che in effetto ne fu salutato signore, e vi deputò dei marchesi (1077). Ma l'isola era sovvertita da incessanti turbolenze; delle quali infastidito, Urbano II la infeudò ai Pisani (1091) quando maggior bisogno aveva dell'amicizia e del denaro di essi, e i vescovi dell'isola dichiarò suffraganei a quello di Pisa, che fin allora non ne aveva. Di tutto ciò crebbe la gelosia de' Genovesi, i quali alfine assalsero Porto Pisano con ottanta galee 1126, quattro grosse navi cariche di macchine, e ventiduemila uomini da sbarco, fra cui cinquemila armati di corazza e caschetti di ferro. Tanto poteva una sola città! I mari furono insanguinati, devastate le coste, finchè Innocenzo II li riconciliò (1133); e per equipararne i diritti, eresse Genova in arcivescovado sottraendola al metropolita di Milano, e vi sottopose i vescovi delle due Riviere e tre della Corsica, mentre al pisano suffragavano quei della Sardegna. Da quel punto Genova si professò papale, perchè Pisa stava alla divisa degl'imperatori. CAPITOLO LXXX. Crociate. — La Cavalleria. Le imprese de' Pisani formano quasi il preludio della più segnalata del medio evo, voglio dire le crociate. Antichissimo è l'uso di visitare le tombe de' martiri e i santuarj, principalmente San Jacopo di Galizia, Gerusalemme, ed in Italia il monte Gargano e le soglie degli Apostoli. I devoti che d'ogni paese ed in ogni tempo venivano a queste, ci portavano non soltanto denaro, ma ragguagli di contrade inaccesse; e a vicenda qui attingevano idee d'una civiltà, ben superiore a quella delle loro patrie. I pellegrinaggi si volgeano principalmente a luoghi di reliquie famose; e massime dopo il Mille si estese questa devozione, fondata non solo su antica tradizione ecclesiastica, ma sulla natural venerazione per gli avanzi di persone care ed onorate. Se ne abusò, e poichè aveansi come un tesoro, si cercavano fin colla violenza o la frode. Ne vedemmo smaniato Sicardo principe di Benevento, che colla guerra obbligò Napoli a cedergli le ossa di san Gennaro, Amalfi quelle di santa Trifomene, Lìpari quelle di san Bartolomeo. Queste ultime eccitarono il desiderio di Ottone III, e i Beneventani non osando disdirgli la domanda, gliele scambiarono con quelle di san Paolino (pag. 368). Vuolsi che fino dal 653 i monaci di Fleuriac rubassero da Montecassino i corpi di san Benedetto e santa Scolastica. Adalberto marchese di Toscana, osteggiando Narni, ne portò via quelli di san Cassio e santa Fausta, che depose in San Frediano di Lucca. Famoso involatore di reliquie Teodoro vescovo di Metz, militando per tre anni in Italia con Ottone Magno suo cugino, cercò d'averne _quocumque modo potuit_, e Sigeberto ne fa lunga enumerazione. Trovandosi a Roma mentre Giovanni VIII benediceva un convulsionario colla catena di san Pietro, esso la ghermì, giurando non la rilascierebbe, se non gli si tagliassero le mani: e a fatica fu ottenuto s'accontentasse d'averne un anello[414]. Era morto nel 1074 a Solaniga presso Vicenza san Teodebaldo romito della stirpe dei conti di Sciampagna, e i Vicentini ne vollero per forza il cadavere; ma i monaci della Vangadizza presso l'Adigetto riuscirono a rapirlo, e di grandi miracoli egli fortunò la loro badia. Rodolfo fratello dell'estinto venne per richiederlo a calde istanze; ma fu assai se potè ottenerne qualche reliquia. Alcuni mercadanti di Bari, trafficando a Mira nella Licia, macchinarono di rapire gli avanzi di san Nicola, e fra scaltrezze e forza gli ebbero, e in mezzo a miracoli li portarono a Bari, d'allora frequentatissima da devoti. Pure alcun tempo dopo i Veneziani rubavano da Mira stessa un corpo, che asserivano esser quello di san Nicola: pretensioni opposte, che recarono serie emulazioni. Essi Veneziani con lunga astuzia tolsero da Alessandria le reliquie di san Marco (pag. 523): giunte a Venezia, furono murate entro un pilastro della cappella ducale, affidandone il secreto al solo primicerio, al procuradore ed al vescovo: smarritasene poi la memoria, fu per altri portenti rinnovata nel 1094, quando il corpo venne di nuovo riposto con tal segretezza, che fino ai dì nostri non fu più rinvenuto. Attorno al Mille crebbe la smania, l'amore delle reliquie; molte per rivelazione se ne scopersero, e di preziose in santa Giustina di Padova; onde parea, dice un contemporaneo, la risurrezione dei morti. Neppur frodi mancarono a quella pietà; e i Fiorentini venerarono un braccio di santa Reparata, ottenuto da Teano, finchè s'avvidero ch'era legno e gesso, finzione delle monache per serbarsi intera la loro santa. Più spesso l'ignoranza traeva in errore, e dove si scoprisse un sepolcro con una palma credeasi chiudesse un martire; le sigle _B. M._ esprimenti _bonæ memoriæ_, s'interpretavano _beato martire_; il ruolo d'una legione fu reputato un catalogo di santi; e i dottissimi e devotissimi Papebrochio e Mabillon fecero espungere dal numero dei santi una Argiride martire a Ravenna, un Catervio e una Saturnina a Tolentino, venerati sopra falsa interpretazione d'epigrafi. In tempi che da una parte predicavasi una morale pura, rigorosa, senza condiscendenze; dall'altra le inclinazioni, non corrette da riguardi, da abitudine, da educazione, e fomentate da sciagurati esempj, portavano ad atti feroci, sentivasi il peccato anche nel commetterlo, e nasceva presto il bisogno d'espiarlo avanti alla giustizia divina. Di qui le penitenze pubbliche e rigorosissime. Un penitenziale di Pisa ci descrive quella che infliggeasi agli omicidi volontarj. Erano condannati a prigionia, e prima doveano da padrini ricevere la penitenza di tutti gli altri peccati; poi con essi padrini venir alla chiesa vescovile, davanti all'arciprete o al canonico penitenziario. Questo domandava al reo se si fosse redento degli altri trascorsi, e se per l'omicidio volesse entrare in carcere; e se affermava, venivagli imposto che tutta la quaresima, eccetto la domenica, digiunasse in pane e acqua, facesse cento genuflessioni, e recitasse cento _Pater_ ogni giorno, cento ogni notte; a nessuno parlare fin all'ora terza nè dopo compieta; non si lavare o asciugare le mani; giacere vestito e sulla paglia, del carcere non uscendo che per le necessità naturali; il sacerdote gli darebbe a mangiare una volta al dì, e d'un cibo solo, nè pesci o anguille; del pane datogli deve sempre far tre elemosine, ma ciascun pane sarà tale che gli avanzi bastino a sostentarlo; dal penitenziere o dal padrino è condotto al disposto luogo della prigionia; ivi depone le vesti solite ed ogni pannolino, per mettersi una tonaca aspra e zoccoli. Seguono le preghiere che si devono recitare su lui, e quali esortazioni fargli[415]. Quelli che per delitti rifuggivano alle chiese, spesso dopo flagellati condannavansi a pellegrinare. In espiazione del fratricidio, uno si strinse al braccio destro la spada micidiale con cerchi di ferro, sicchè la s'incarnò; quando arrivato al sepolcro di san Bononio abate di Lucedio nel Vercellese, di subito que' cerchi si spezzarono. Altrettanto accadde ad altri sulla tomba di sant'Appiano di Pavia in Comacchio e di san Teodebaldo suddetto nel Vicentino[416]. Presso al Mille un conte Ugone dell'Auvergne colla moglie Isengarda pellegrinò alla soglia degli Apostoli per iscontare le gravissime sue colpe: ma quando volle entrare in San Pietro nol potè, spasimando di dolori e rimorsi. Costretto a confessare questi patimenti, ha l'assoluzione da papa Silvestro, e l'obbligo di edificare un monastero. Reduce, alloggiò a Susa presso un amico, al quale raccontò i mali e la penitenza; ed esso l'esortò a dedicare il monastero all'arcangelo Michele, mostrandogli la chiesa, ivi a dodici miglia, ove tanti miracoli questo operava. Ed ecco la notte l'arcangelo stesso appare in sogno, e lo conforta a tal fatto; e così ebbe origine il famoso monastero di San Michele alla Chiusa, ricco di molta storia, e pietoso ai tanti che da quella valle scendeano di Francia in Italia[417]. E in pellegrinaggi furono spesso cambiate le pubbliche penitenze: il che non piaceva a Carlo Magno, perchè incentivo a gabbar gente; e invece d'andar randagi coi ferri e ignudi, pareagli espierebbero meglio i peccati stando fermi in un luogo a lavorare, servire, far le penitenze canoniche[418]. Non valse l'avviso, anzi i pellegrinaggi crebbero, e si dirigevano massimamente ai luoghi della Palestina, dov'eransi compiti i grandi misteri dell'aspettanza e della redenzione. Ivi ogni gleba portava l'orma d'un patriarca o d'un apostolo; i racconti della prima fanciullezza come gli studj dell'età matura erano pieni dei nomi di que' luoghi; i cantici di Salomone, i treni di Geremia, le maledizioni d'Isaia, le istruzioni del vangelo li rendean noti e cari a ciascuno come una seconda patria. Pertanto v'affluiva gente a visitarli fin dai primi tempi del cristianesimo, e sempre più quanto più si convertivano popoli germanici, amanti delle corse lontane e avventurose e infervorati di zelo recente. Nell'850 un diacono di Spoleto, involontariamente micidiale del fratello, andò a Roma a riceverne penitenza, e cerchiate le braccia e il collo di ferro, fu mandato ai luoghi santi finchè impetrasse perdono. Dauferio, nobile beneventano, per avere ucciso Grimoaldo principe di Benevento, passò a Gerusalemme tenendo in bocca un sasso abbastanza grosso, cui traeva solo per mangiare[419]. Con quel pellegrinaggio vedemmo puniti i concubinarj di Milano, ed Erlembaldo andarvi ad attingere il coraggio di combatterli: a Cencio che l'aveva tratto prigione, Gregorio VII impose di visitare Terrasanta. Ad esortazione di Sergio IV vuolsi che molti Veneziani andassero a Gerusalemme verso il 1009, tra i quali Gherardo Sagredo che colà morì e fu sepolto. Ne ereditò il nome e la pietà il figlio, il quale fatto monaco e priore di San Giorgio Maggiore, volle visitare il santo sepolcro: ma una tempesta lo gettò a non so qual riva, dove un monaco lo persuase andasse piuttosto ad apostolare l'Ungheria. In fatto vi fruttò grandemente in propagar la fede, e vi ottenne un vescovado, poi il martirio; onde ancora in Ungheria e a Venezia è venerato col nome di san Gherardo[420]. Nel Mille, due reduci da Terrasanta, sorpresi da un miracolo, si fermarono in val del Tevere, e fatto un oratorio, vi deposero reliquie, dalla cui devozione originò la città di Sansepolcro. Il monastero di San Vito nel Lodigiano fu fabbricato il 1030 da un Ilderado di Comazzo, nobilissimo, vivente a legge ripuaria, il quale racconta: — Avendo commesso grave misfatto, pensai scontarlo pellegrinando oltremare. Ma il pontefice cui mi confessai, trovando leggera l'ammenda, m'impose di continuare tre volte la visita al santo sepolcro e a cento santuarj, scalzo i piedi, senza cavallo nè bastone, nè uso di moglie, nè fare verun agio alla carne, e mai non passando il giorno ove la notte. Non reggendo io a tanto, gli caddi a' piedi, supplicandolo ad alleviarmi questa penitenza: ed egli impietosito mi ordinò di fondar questo monastero, e offrirgli la decima di tutti i miei possessi»[421]. Quei possessi eran nullameno di quattromila quattrocensessantaquattro pertiche, oltre molti diritti lucrosi: e quel monastero contribuiva ogn'anno un denaro d'oro al santo sepolcro. Ogn'anno poi da tutta Europa, ma principalmente dall'Italia e da Roma partivano carovane di devoti, che colla schiavina in dosso, il bordone alla mano, un cappello di larghe tese, uno zaino sospeso alle reni, dopo confessi e comunicati, e benedetti colle preci che ancor sono nel Rituale, andavano oltremare, donde portavano palme e conchiglie, che reduci deponeano con solennità alla patria chiesa. Volle partire con una siffatta comitiva Raimondo piacentino dopo perduto ne' traffici ogni aver suo: ma sua madre non sofferse di staccarsene; e udita insieme la messa solenne del pellegrinaggio, e ricevuto il bordone e la bisaccia, si posero in cammino. Visitati i luoghi santi, tornavano per nave quando Raimondo ammalò agli estremi. I marinaj voleano gettarlo all'acqua perchè la sua morte non recasse maluria al vascello; ma la madre li distolse. E guarì, e toccarono terra, ma allora la madre infermò e morì; e Raimondo tornò soletto a Piacenza, ove depose il sacro ramo della palma; e fu sempre nominato il Palmiero. Coloro che da tutta Europa passavano in Terrasanta, soleano attraversare l'Italia, con guadagno delle nostre città marittime, le quali, oltre il naulo, vantaggiavano alle fiere che le carovane de' Musulmani teneano a Gerusalemme, una delle città sacre anche nella rivelazione di Maometto, e nominatamente sul calvario il giorno dell'Esaltazione della croce; e nei porti di Siria trovavano occasioni di utili baratti. La pietà faceasi un dovere di soccorrere ai devoti; per loro fondavansi ospizj; Bernardo da Mentone ne fabbricò due sul grande e sul piccolo Sanbernardo; un altro erane sul Cenisio; Venezia già nel secolo x avea per essi un ospedale alla Giudecca, poi nel seguente a Sant'Elena, ai Santi Pietro e Paolo di Castello, a San Clemente. Non di rado era occorso ai pellegrini di doversi difendere colle armi; e quando il furibondo califfo d'Egitto Hakem Bamrillah perseguitò i Cristiani di Siria, papa Silvestro II esortò i nostri a proteggerli (1001), e in fatto Genovesi e Pisani corsero quelle spiaggie[422]. La morte di Hakem sospese le minaccie; i nostri stipularono di pagare un tributo al nuovo califfo (1021) Daher Ledinillah per vivere sicuri in Palestina; e gli Amalfitani ottennero da lui di fabbricare, presso alla chiesa di San Giovanni, uno spedale pei viaggiatori d'Occidente, con ricca dotazione che ogn'anno mandavano d'Europa. Di qui l'origine degli Spedalieri di San Giovanni, durati poi fin alla nostra età col nome di cavalieri di Malta. Ci fu veduto come i Musulmani avessero occupato la costa settentrionale d'Africa, e di là invaso la Sicilia e l'Italia meridionale, correndo continuamente il Mediterraneo a danno delle navi e del litorale; e come contro di loro operassero Giovanni XIV e i Pisani; e finalmente battuti dai Normanni, non solo rinunziassero a dominare l'Italia, ma anche in Sicilia fossero ridotti a condizione servile. In altre parti però le minaccie de' Musulmani rinfocarono non solo contro Terrasanta ma contro tutta Europa, quando una nuova gente settentrionale rianimò la foga dei seguaci del Profeta, voglio dire i Turchi Selgiucidi, che avendo invasa la Siria (1078), vi trucidarono i Cristiani e i Musulmani Alidi, rei del pari al loro cospetto di credere che un Dio s'incarnasse. Fu sentito allora il bisogno di prevenire il pericolo coll'assalire i nemici; e Gregorio VII invitò i Cristiani ad assumere le armi, e passar a combattere per Cristo, proponendo condurli egli stesso, appena domi i suoi nemici[423]. Spetta dunque a lui la prima idea delle crociate; ed è notevole che non nomina tampoco il santo sepolcro, titolo d'emozione allora, come adesso pretesto: bensì ne motiva l'estendere il regno di Cristo, respingere l'Islam, restituire all'Impero le provincie tolte dai Selgiucidi, riunirlo alla Chiesa latina siccome prometteva l'imperatore Michele Parapinace, spingersi fino in Armenia regno di Cristiani, e ricacciare i Turchi nel deserto Tartaro. Vittore III continuò quelle esortazioni nel suo breve pontificato, e tenuto coi vescovi e cardinali un concilio, da tutti i paesi d'Italia adunò un esercito cristiano, al quale diede il vessillo di san Pietro e indulgenza plenaria[424]. All'impresa pigliarono principal parte Genovesi e Pisani, che invasero le coste d'Africa (1088), e delle spoglie levatene abbellirono le patrie chiese. Non era dunque nuovo il grido della guerra santa in Italia, allorchè un Pietro, eremita d'Amiens (1093), andato pellegrino a Gerusalemme, e tocco dalla miseria a cui gl'Infedeli vi riducevano la popolazione cristiana e i devoti avveniticci, corse l'Italia e l'Europa, in nome di Dio invitando i popoli a redimere la santa terra dall'obbrobrio della servitù straniera. In tempo che predominava il sentimento religioso, efficacissima sonò quella parola; tutta cristianità si scosse gridando _Dio lo vuole_, e ne cominciarono le spedizioni note sotto il nome di crociate. Raccolse quel grido popolare papa Urbano II, e convocò un sinodo a Piacenza (1095), al quale intervennero ducento vescovi d'ogni paese, da quattromila cherici e più di tremila laici, talchè le adunanze bisognò tenere all'aperta. Ivi si fecero molti decreti per restaurare la scarmigliata disciplina ecclesiastica e per garantire la tregua di Dio; e furono uditi nunzj dell'imperatore Alessio Comneno che esponeano le desolazioni della Palestina, esortando a dargli soccorso contro gli Infedeli, che spingeano le correrie fin sotto ai baluardi di Costantinopoli, e minacciavano tutta cristianità. Papa Urbano esortò all'impresa, e da molti ne ricevette giuramento: poi nel concilio di Clermont promise (cosa allora insolita) indulgenza di tutte le meritate penitenze a chi assumesse la croce e le armi. — Chi non prende la sua croce e mi segue, non è degno di me» ripeteasi da tutti i pulpiti. — Le cavallette non hanno re, e vanno insieme per bande. — Maledetto chi in viaggio porta il sacco o il bastone! Provvederà Iddio, il quale veste i gigli de' campi. — Dio lo vuole, Dio lo vuole!» Come poc'anzi aveano tutti creduto alla fine del mondo, così allora tutti credettero al riscatto; ognuno lasciava ciò che più avea diletto, il castello, la sposa, i figliuoli; chi jeri rideva, oggi flagellavasi; i ladroni sbucavano dalle tane; parricidi, adulteri, sacrileghi vestivansi di cilizio, e moveano per fare sconto di loro colpe; v'era chi ferrava i bovi, e sulle benne caricava tutta la famiglia: turbe incomposte d'uomini, fanciulli, donne, senza guida, senza viveri, senz'armi s'avviavano a Gerusalemme, non sapendo ove ella fosse nè come vi giungerebbero, ma fidando nel Dio che aveva pasciuto Israele nel deserto. Con questo entusiasmo che avrebbe creduto colpa il ragionare, la turba, sui passi di Piero Eremita, precipitavasi per la via meno acconcia, cioè per l'Ungheria e la Bulgaria; e per difetto di cibi, o per assalto de' nemici e per vendetta delle popolazioni su cui arrivava devastando, perì a centinaja di migliaja. I baroni di Francia e Lorena mossero con ordine migliore per la Germania: un altro stuolo, con Ugo fratello del re di Francia, Roberto di Fiandra, Roberto di Normandia, Eustachio di Boulogne, passarono per Italia. A Lucca trovato il papa, vollero esserne benedetti; indi rivoltisi su Roma, ne cacciarono l'antipapa Guilberto, che dovette rinchiudersi in Castel Sant'Angelo. Giunti in Puglia quando più non era acconcia la stagione al tragitto, vi attesero la primavera. Colà Amalfi erasi ribellata a Ruggero duca di Puglia, il quale per domarla si raccomandò a suo zio Ruggero conte di Sicilia; e questi, radunato gran numero di Saracini dell'isola[425] e unitili alle sue truppe e a grossa squadra di navi, assediò la città. Ma ecco in quello spargersi l'arrivo de' Crociati; subito il grido di Dio lo vuole risuona fra gli accampati; l'odio rinfervorato contro gl'infedeli fa parere iniquo l'adoperarlo contro i Cristiani: Boemondo, principe di Taranto e fratello del duca Ruggero, piglia tosto la croce, nella speranza di fare alcun acquisto in quell'Asia dove già egli avea combattuto i Greci; e moltissimi si accingono al passaggio. Così spegnesi l'ira fratricida, e Amalfi conserva la sua libertà. I Crociati passarono in Epiro (1096); ma i Greci (che del resto mostraronsi sempre tepidi, spesso sleali in una guerra da essi invocata e di loro principale vantaggio) si adombrarono dell'arrivo di questi Normanni che testè aveano provati nemici, e in fatto non tardò occasione di venire all'armi. Boemondo li battè, occupò molto paese, e comparve nella reggia di Costantinopoli con tal fierezza, che Alessio Comneno non trovò migliore spediente che chiamarlo a sè, lasciargli scegliere quante ricchezze volesse, e rimandarlo col solo patto che gli facesse omaggio. Non è nostro ufficio il divisare quell'impresa, la prima che s'assumesse a nome dell'intera cristianità, e la più magnifica negli effetti, giacchè impedì che l'Europa divenisse musulmana. Diremo solo come i nostri non vi si precipitassero con tanto ardore quanto gli stranieri, attesochè da un lato (al par degli Spagnuoli) non aveano bisogno di cercare fuor di casa la guerra contro gl'infedeli, dall'altro teneano traffici vivi in Siria: pure Folco, poeta di quegli avvenimenti, canta che dalle rive dell'Adige, dell'Eridano, del Tevere, della Magra, del Vulturno, del Crustamino partì gran popolo, Liguri, Italiani (Lombardi?), Toscani, Sabini, Ombri, Lucani, Calabresi, Sabelli, Aurunci, Volsci, Etruschi, Apuli[426]. V'è chi scrive l'impresa essere stata consigliata e ispirata dalla contessa Matilde[427]; ma nessun contemporaneo ne fa motto, benchè all'indole di lei si convenga il credere vi persuadesse e ajutasse gl'italiani, e massime i Toscani. Fra gli ostacoli dei Greci infidi e dei Turchi nemici, l'esercito procedette fin che prese Nicea ed Antiochia, _occhio della Siria, perla dell'Oriente_ (1097-98). Repugna all'indole feudale il supporre la spedizione diretta da un solo capitano, come disacconciamente favolò il Tasso: ciascun barone, ciascun uomo passava cogli uomini, colle provvigioni, colle armi, coi consigli che credeva, nulla avendo di comune se non l'intento, ispirati dall'unica idea allora universale, la religione, e col calore che le passioni sogliono acquistare in una moltitudine radunata al medesimo scopo. Fra' baroni andati da Italia si segnalò Tancredi, figlio del marchese Odone Buono e di Emina sorella di Roberto Guiscardo, tipo del valor generoso e devoto; mai non invocato indarno dal debole, fedele a tutta prova, d'un valore che crescea cogli ostacoli e che si nascondeva, cercando meriti pel cielo non acquisti in terra. Fiero ed astuto invece Boemondo suo cugino aspirava più ai regni mondani che al celeste: onde appena fu presa Antiochia, vi si fermò, facendosene un regno. Dopo lunghi travagli (1099 — 15 giug.) anche Gerusalemme fu espugnata, e si trattò di porne re Tancredi: ma egli preferì consacrare la sua spada a difenderla dai rinascenti Musulmani; e lo scettro fu dato a Goffredo di Bouillon. Al modo che i Barbari aveano fatto dell'Italia, la Palestina fu allora partita fra i cavalieri latini, ciascuno regnandone un brano, difendendolo, estendendolo, governandolo, sotto la nominale primazia del re di Gerusalemme. Anche i conti di Biandrate e di Savoja campeggiarono colà. De' minori combattenti non si parla, giacchè, se le imprese del medio evo son la più parte anonime, queste ancor più, dove tutti chiedeano ricompense eterne, anzichè glorie mondane. Bensì le tradizioni posteriori accennano a fatti e persone non bene accertati. Padova nomina Aicardo di Montemerlo e Isnardo di Sant'Andrea del Musone, il primo de' quali, nobilissimo giovane e soldato arditissimo, restò morto all'assedio di Nicea. Galvano Fiamma vuole che da Milano un mirabile esercito passasse alla crociata cantando Ultreja: ma il suo genio parabolano, l'esser vissuto due secoli dopo, e il silenzio dei cronisti coevi o vicini, come Landolfo Juniore, gli scemano fede; tanto più che l'abate Uspergese afferma che sin al 1100 i Lombardi aveano sempre mancato al voto di concorrere alla crociata. Pure i cronisti milanesi sanno che il loro arcivescovo Anselmo da Bovisio partì a menare soccorsi ai Crociati, e dinanzi all'immensa turba portava un braccio di sant'Ambrogio in atto di benedirla[428]: era banderajo Giovanni da Ro, e capitano Ottone Visconti, il quale, ucciso un gigante infedele, gli tolse il cimiero, figurante un drago che ingoja un fanciullo, e ne formò lo stemma de' Visconti. La spedizione riuscì alla peggio, e l'arcivescovo stesso vi perì, o combattendo, o a Costantinopoli in conseguenza d'una ferita: e i Crociati che rimpatriarono, istituirono il luogo pio delle Marie e la chiesa di San Sepolcro, alla quale poi annualmente dirigeasi e dirigesi[429] dalla metropolitana lombarda una processione in ricordanza di quel fatto. A Imola i Sassatelli e i Carradori presero la croce, e Vincenzo Cesare de' Carradori vi menò cento compatrioti a proprie spese. A Siena in Bicherna è un quadro che ricorda l'invio di 2000 crociati. Tarda adulazione inventò un Rinaldo, giovane eroe, dal quale poi derivasse la casa d'Este; ma nella storia non n'è il minimo vestigio. I Fiorentini vorrebbero che Pazzino de' Pazzi montasse il primo sulle mura di Gerusalemme, onde da Goffredo ebbe in dono alcune scaglie del santo sepolcro, colle quali in patria accese il fuoco benedetto. Ne derivò a quella famiglia il privilegio di rinnovare il fuoco al sabbato santo, e correvano a recar la facellina per tutte le vie sopra un carro, che poi s'ingrandì e ornò; ed oggi ancora va in volta mandando la colombina fin al coro della cattedrale, poi dando il volo a molti fuochi artifiziali sul canto dei Pazzi. Alla prima crociata andarono i Pisani (vuol la tradizione), e Cucco Ricucchi portava un crocifisso, il quale nell'assalto di Gerusalemme voltossi verso i combattenti gridando: «Seguite, o Cristiani, che avete vinto». Quel crocifisso tennero sempre i Pisani in gran venerazione nel loro duomo, caricandolo di doni e voti: e da qui derivò l'uso a Pisa e al restante contado, che nelle processioni si porti il crocifisso rivolto verso i seguaci. Il Trinci fa andare a quella guerra Guido da Buti, Guido da Ripafratta, Ezelino da Caprona, Alfeo Salvucci da Biéntina. Ma mentre alcuni fan principale onore ai Pisani della presa di Gerusalemme, Guglielmo di Tiro li dice arrivati solo alla fine del 1099, condotti dall'arcivescovo Daimberto, che salì patriarca della santa città, e del quale abbiamo la lettera con cui, a nome anche di Goffredo, del conte Raimondo e di tutto l'esercito, dava ragguaglio di quella presa a Pasquale II, che ne scrisse ringraziamenti ai consoli di Pisa. Accompagnavali la flotta genovese di ventotto galee e sei vascelli, sulla quale montava pure lo storico Caffaro, e vuolsi comandata da Guglielmo Embriaco, il quale avrebbe insegnato l'uso delle torri mobili. Le due genti di conserva assalirono Cesarea; e ricevuta prima la comunione, ed esortati da Daimberto e dal console genovese Malio, la presero d'assalto. Dalle spoglie i Genovesi ottennero il famoso catino, che credeasi uno smisurato smeraldo e donato dalla regina Saba a Salomone, e che ancora si venera come reliquia se non come tesoro. Da Tancredi ottennero un quartiere d'Antiochia dov'egli era principe, e di Laodicea con mercato franco e il libero uso dei porti[430]. Venezia, per non guastare i suoi traffici coi principi di Levante, freddamente avea cooperato alla crociata: come però vide Pisani e Genovesi tornarne carichi di prede, volle partirle, e impedire che quelli preponderassero; e scontrata la flotta genovese, la battè e svaligiò, dando agl'infedeli l'abbominevole soddisfazione di veder Cristiani uccisi da Cristiani. Durava ancora l'uso che i dogi chiedessero la bolla d'oro in segno d'investitura dagli imperatori di Costantinopoli. Domenico Michiel, elevato a quel posto (1117), mandò impetrarla da Giovanni Comneno; e questo, pretessendo qualche insulto fatto dai Veneziani, non solo ricusò, ma fe staggire quanti legni ancoravano ne' suoi porti (1123), finchè la Repubblica desse soddisfazione. La soddisfazione fu che esso doge menò a Rodi la flotta, dianzi vincitrice dei Turchi, saccheggiò quell'isola ed altre, sinchè composero pace ad istanza di Baldovino, secondo re di Gerusalemme. Allora ducento navi veneziane, su cui Arrigo Contarini vescovo d'Olivolo, veleggiarono verso Levante, e colata a fondo la flotta egizia di sessanta galee oltre i legni minori, approdarono in Siria, patteggiando coi Crociati di soccorrerli, purchè d'ogni città conquistata ottenessero una via franca, una chiesa, e bagno e forno e tribunale proprio, e immunità da gravezze, oltre un terzo della città contro cui campeggiassero, e trecento bisanti sulle rendite di essa. Sopra Tiro si concentrò lo sforzo; e il doge Vitale Michiel II, come vide che l'esercito di terra esitava nella paura d'essere abbandonato dalla flotta, depose il sartiame sulla spiaggia, distribuì centomila ducati fra i combattenti, e mostrò voler salire la breccia co' suoi marinaj, armati non d'altro che di remi. L'esempio incuora, la città è presa, al doge s'offre fin la corona di Gerusalemme; ma egli preferisce il berretto dogale, e rimena l'armata trionfante a Venezia, la quale in una sola campagna ebbe acquistato potenza e spoglie maggiori, che non Pisa e Genova in tanti anni. Poi nel 1130 da re Baldovino ottenne d'aver un quartiere indipendente in ciascuna città del reame di Gerusalemme, dove i gabellieri non potessero impacciare la libertà de' suoi traffici[431]. Anche Genova all'assedio di Tolemaide patteggiò le si concedesse un terzo del bottino, e nella città una chiesa, un banco, un tribunale della propria nazione. Ma i Musulmani dal primo abbattimento presto risorsero, e minacciavano cacciare i Cristiani dai loro nuovi stabilimenti, onde fu duopo rinnovare le spedizioni, sempre con men fervore e più meditati provvedimenti. San Bernardo (1147) eccitò Luigi VII re di Francia e Corrado III imperatore di Germania alla seconda crociata, «mal convenendo che il re del Cielo perdesse una porzione del suo regno in terra»; e sull'esempio di regina Eleonora di Guienna, ricchi e signori presero la croce, e si mandava fuso e conocchia a chi tardasse: i poeti eccitavano al valore, i frati vi spingeano i ribaldi come a via di salvamento. Molti Italiani v'ascoltarono, fra cui Amedeo duca di Torino, Guglielmo marchese di Monferrato, Guido di Biandrate, Martin della Torre milanese che vi fu preso e ucciso, Ezelino il Balbo da Romano. Ai Crociati raccolti a Etampes Ruggero di Puglia mandò offrire navi, vitto e il proprio figliuolo, purchè volessero prendere la via di mare. Sventuratamente non gli diedero retta; e per terra camminando, si trovarono esposti ai multiformi tradimenti dei Greci; sicchè l'impresa fallì, ducentomila Cristiani vi perirono, e tardi si vide quanto saviamente gl'Italiani consigliassero, non di fare soltanto una punta sovra Gerusalemme, ma di piantare colonie tutto lungo le coste e nell'Asia Minore: provvedimento che avrebbe tanto operato sull'avvenire dell'Asia, e prevenuto le minaccie che poi i Turchi recarono all'Italia. In quel tempo Ruggero di Sicilia occupava Corfù (1149); e l'imperatore greco Manuele Comneno invocò i Veneziani per combatterlo. La loro flotta imbattutasi in Luigi di Francia che tornava di Gerusalemme, lo prese; ma l'armata di Ruggero poco dopo il liberò: e i Veneziani devastarono la Sicilia, non tanto per far grato all'augusto bisantino, quanto per isfogo di rivalità. Così in Asia si agitavano le passioni e gl'interessi italiani. Il normanno Boemondo duca d'Antiochia, dopo rimasto lungo tempo prigioniero dei Turchi, girò Francia e Italia concitando i Cristiani a mandare soccorsi a Terrasanta; e dal suo principato di Táranto cavò molta gente, sicchè da Brindisi (1107) potè salpare con ducencinquanta navi, quarantamila fanti e cinquemila cavalli. Invece però di volgersi sulla Palestina, prese la Vallona e assediò Durazzo, appartenenti all'impero greco, finchè Alessio Comneno non ne comprò la pace colla promessa di più non molestare i Crociati. Poco stante Boemondo morì. Era pur morto il conte Ruggero di Sicilia, lasciando un fanciullo del nome stesso, per cui governava Adelaide sua madre. Baldovino II di Gerusalemme credette opportune ai gravissimi suoi bisogni le ingenti ricchezze di lei, e la domandò sposa. Ella assentì, patto che, se non generasse altri figli, il regno di Gerusalemme verrebbe al suo Ruggero; e passò in Terrasanta con grosso tesoro e fra grandi feste. Ma dopo alcun tempo Baldovino essendosi gravemente malato, le confessò d'avere un'altra moglie, onde Adelaide fu rimandata senza le ricchezze. Suo figlio Ruggero ne concepì tale dispetto, che più non volle soccorrere i Crociati, per quanto li sapesse in bisogno. Serve a paragone e chiarimento degli ordini feudali che trovammo in Italia, il rammemorare come i signori stabiliti in Terrasanta eleggessero diversi uomini savj _ad inquirere e sapere da la gente de diverse terre che erano lì, le usanze de le loro città; e tuttociò che quelli, li quali elesser a questo effetto, hanno possuto saper et apprendere, el feceno mettere in scriptis_, appunto come Rotari faceva scrivere le precedenti usanze del suo popolo. E ne venne il codice, detto _delle Assise_, non estraneo agli Italiani perchè regolò tanti possessi di questi in Levante, e specialmente Candia, colonia dei Veneziani, i quali ad uso di essa le fecero tradurre in loro dialetto, e ve le applicarono come legge comune. Le Assise, come tutti i codici e statuti del medio evo, si occupavano soprattutto del rendere giustizia; al qual uopo v'avea due corti secolari. Dell'alta corte era capo il re, e davanti ad essa si dibattevano le cause fra la corona e i baroni, o di questi fra loro o coi loro sudditi o vassalli; onde le Assise trattano a lungo dei diritti feudali, dei modi di possedere, investire, spropriare, e principalmente de' giudizj per mezzo del duello: sicchè non potrà dire di conoscere le ragioni feudali chi in quelle non abbia studiato. Alla seconda corte della borghesia presedeva un visconte nominato dal re, e vi si controvertevano le cause fra i semplici borghesi, cioè non investiti di feudo, nè cavalieri o soldati, ma mercanti, o persone franche, o sudditi indigeni o schiavi. Qui pure discuteasi per prove e testimonj, e spesso si ricorreva al duello, e più ancora alle prove del ferro rovente, dell'acqua o simili. La corruzione non tardò ad entrare nel regno di Gerusalemme; i Musulmani si rinforzarono, il generoso Saladino li ricondusse contro la città (1187) che è santa anche per essi, e in breve l'Europa intese che Dio avea perduto il suo patrimonio in terra, e Gerusalemme e il santo sepolcro eran novamente preda ai cani. I popoli tutti, cui quella era come una patria comune, levarono il pianto, e chiesero armi, armi (1189). Mentre Ricardo Cuor di leone re d'Inghilterra, Filippo Augusto di Francia, Federico Barbarossa di Germania vi si accingeano, Genova, Pisa, Venezia, dimenticati per poco i dissidj, correano a sostenere Tolemaide assediata, alla guida degli arcivescovi di Pisa e di Ravenna: Piacenza vi mandò seicento guerrieri, Cremona una grossa nave, duemila uomini i Bolognesi[432]: i Pisani due volte sconfissero la flotta musulmana: i Genovesi portavano ambasciadori a tutte le potenze, e a Ricardo d'Inghilterra esibirono stanza in città, ricovero in porto, e quanti trasporti per mare occorressero; ed egli gradì l'offerta; poi combattendo al loro fianco in Palestina, imparò a stimarne il valore, e com'essi adottò per insegna navale la croce rossa in campo bianco, e san Giorgio per patrono. Mercè degli Italiani Tiro fu salva: ma tosto le discordie rivalsero, e i Cristiani combatterono fra loro, per modo che Corrado marchese di Tiro dovette obbligare i Genovesi a ritirarsi (1193). Anche i re crociati furono presto a litigi ed alle armi, talchè la terza spedizione sortì infelice termine. Alla quarta già l'ardore devoto erasi intepidito a segno, che fu duopo esibire denaro perchè il popolo s'armasse, e l'imperatore Enrico VI prometteva trenta oncie d'oro a chiunque si crociasse: ma costui non badava tanto al ricupero di Terrasanta, quanto ad assicurare a sè colle armi pietose il regno di Puglia, siccome vedremo (Cap. LXXXVII). Meglio che pei fatti particolari, sono memorabili a noi pure le crociate per la generale influenza esercitata da quel movimento dell'intera popolazione, dal rimescolamento delle idee, dall'esaltazione degli spiriti. Per due secoli il crociarsi fu guardato come un debito, di cui ognuno fosse tenuto a Cristo; le città spedivano torme di prodi; il principe levava somme a prestanza, mettendo a pegno i possessi; l'ecclesiastico i benefizj; il barone alienava i feudi; il poeta ne sperava un non caduco alloro; il monaco la palma della perseveranza nella fede; la fanciulla, il vecchio, la monaca non si sgomentavano innanzi a pericoli sì diversi. Ai Crociati perdonavansi i pedaggi: nei contratti di nozze i nobili si riservavano la libertà di crociarsi: poteva la moglie impedire al marito di chiudersi in un convento, ma non di prender la croce[433], quand'anche le lasciasse dei bambini. Uno non sapeva come schermirsi da un nemico mortale? crociavasi; uno voleva dalla Chiesa indulgenza de' suoi delitti? crociavasi. Ricchi e grandi credevano crescere di merito quando in que' disagi si mettessero a paro co' più abjetti: migliaja giuravano di più non tornare in patria, che non avessero riscattata Terrasanta; e chi al voto fallisse, non era più dalla Chiesa riconosciuto per figlio, restava vile agli occhi degli uomini d'onore. I pellegrini, mantenuti dalla pubblica carità, cantavano lietamente la terra promessa, la patria del Salvatore, la genitrice de' santi padri, il teatro della riconciliazione con Dio: perivano mille di mille segnati? benedicevasi il Signore che tanti nuovi testimonj di sua fede fossero saliti al cielo. Voleasi dopo morte esser involti nella tonaca che si tenea in dosso nel visitare il santo sepolcro; i Pisani trasportarono di Palestina la terra di che empire il loro cimitero, per potere così dirsi sepolti in terra santa. Le crociate fecero pure dalla feudalità e dall'importanza personale germogliare la Cavalleria, per la quale il nobile tenevasi obbligato ad usare il massimo valore nelle prove più difficili, cercarle anche a bella posta, fosse ne' tornei ed in finti armeggi, ovvero in lontani paesi e in assalti rischiosissimi, e sovrattutto a difesa del bel sesso, degli ecclesiastici e del proprio signore: della patria non si parlava ancora. La maggior forza di corpo, il miglior cavallo, l'elmo, la corazza e la spada meglio temprati erano il vanto del cavaliero, che doveva non conoscer paura, non rifiutare cimento per quanto disuguale, non ritirarsi mai da un voto per quanto difficile, non mai mancare a data parola per quanto gli costasse. Un altro prode, e più specialmente qualche principe armava il cavaliero, ponendogli i distintivi di quel grado, cioè l'elsa e gli sproni dorati e il cingolo, e dandogli la guanciata come s'usa nella cresima, oppur battendolo sulla spalla colla propria spada. Il corredo delle prove e delle iniziazioni, e le cerimonie dell'inaugurazione, precedute dalla veglia dell'armi, nacquero poc'a poco quando si volle ridur la Cavalleria ad una specie di condizione privilegiata, com'erano tutte l'altre di quei tempi. Allora s'introdussero differenti specie di cavalieri: e in Italia si conosceano cavalieri del bagno, che con solennissime cerimonie si astergeano il corpo a indizio della purificazione dell'anima; cavalieri di corredo, vestiti verdebruno e con ghirlanda dorata; cavalieri di scudo, fatti da popoli e signori, e che pigliavano l'ordine colla barbuta in capo; cavalieri d'arme, investiti sul campo senz'altra cerimonia che dar loro la spada, la guanciata, l'abbraccio e il giuramento di lealtà[434]. Così fatti si moltiplicarono, e per pompa non per merito: Ruggero di Sicilia, facendo cavalieri i suoi due figliuoli Ruggero e Tancredi, ne insignì con loro quaranta; nel 1294 Azzo d'Este aprì corte bandita per ottenere il cingolo da Gherardo di Camino, e avutolo, armò di propria mano cinquantadue militi; trecento ne armò Carlo Martello quando fu coronato re di Napoli il 1290: poi se n'abusò a segno, che Carlo IV imperatore nel 1355 commise al patriarca di dichiarar cavalieri tutti quei che venuti erano per ciò a Siena; onde coloro i quali aspiravano ad un onore che cessava d'esser tale dacchè rendeasi vulgato, ma che rincresceva di non possedere appunto perchè vulgato, raccomandavansi a quei ch'erano attorno al patriarca, «e quando erano a lui nella via, lo levavano in alto, e traevangli il cappuccio usato, e ricevuta la guanciata in segno di cavalleria, gli mettevano il cappuccio accattato col fregio d'oro, e traevanlo dalla pressa, ed era fatto cavaliere»[435]. Quando poi Carlo V fu coronato a Bologna, «colla spada toccava la testa di chi voleva esser cavaliere, dicendogli Esto miles; e tanti s'affollarono chieditori intorno a lui, dicendo Sire, sire, ad me, ad me, che egli stanco e sudando, e dicendo ai cortigiani No puedo mas, inchinò sopra tutti la sua spada, soggiungendo Estote milites todos todos; e così replicando, gli astanti si partirono cavalieri e contentissimi»[436]. Ottimo modo di svilire un'istituzione! e il farlo ben conveniva a cotesti superbi stranieri, che colla spada venivano a radere le gloriose memorie dell'Italia, e ai sentimenti nobili e generosi surrogare il calcolo e l'obbedienza incondizionata. E per verità allora la Cavalleria avea passato stagione, ma già avea prodotto gli effetti, che non furono pochi. In mezzo a gente armata, a un diritto universale della forza, si udì per essa proclamare la lealtà e la generosità: il braccio del prode fu armato a tutela del debole e a terror del prepotente; la vedova, il pupillo trovarono chi ne sosteneva i diritti, chiamando al duello giudiziario l'usurpatore de' loro beni: il castellano dal suo covile udiva squillare il corno del cavaliero, che lo sfidava alla prova dell'armi, per dimostrargli ch'era un villan traditore, un sanguinario. Istituzione mirabilmente opportuna quando verun potere sociale bastava a imporre un ordine interiore, o a proteggere gl'individui; convertiva l'educazione militare in poderoso stromento di sociabilità, facendo ancora, al contrario di ciò che stabiliva il feudalismo, alla nascita prevalere il merito per mezzo d'una nobiltà, diversa dalla germanica e feudale, e creata per valore dapprima, sempre per meriti personali; alla potenza stazionaria e inumana de' possidenti ne opponeva una mobile e generosa, con sentimenti elevati, colla passione della gloria e il puntiglio della lealtà: l'inviolabilità della parola e la squisitezza del punto d'onore davano una dignità, esagerata talvolta, ma che divenne carattere de' tempi moderni. Questa comunanza, non forse di simboli e riti quanto alcuno vorrebbe, bensì di sentimenti, affratellava uomini di disparatissime nazioni, che cessavano di guardarsi per nemici dacchè erano cavalieri. Una gioventù, che cercava la fatica dei combattimenti e il riposo delle cortesie, che per istituto consacrava il coraggio alla giustizia e alla religione, crebbe l'amor delle pompe, de' tornei, delle corti bandite, ch'erano pure un nuovo riposo fra lo strepito dell'armi; introdusse il culto della donna, venerata come auspice della Cavalleria, e chiesta giudice e premio delle prodezze e delle tenzoni: onde il braccio del forte fu sottomesso all'irresistibile potenza della debolezza; e i nobili, inorgogliati soltanto della forza, rendevansi gentili; e mettendosi a contatto con altri, e a brillare nelle corti, alla selvatichezza surrogavano quelle maniere che da ciò appunto trassero il nome di _cortesia_. I primi Crociati disegnavano sullo scudo la croce, che per tutta la vita attestava le devote loro prodezze, poi conservato nella famiglia, diveniva una testimonianza ai posteri. Quel semplice carattere venne poi complicato con altri segni, che esprimevano con nuovo linguaggio le imprese; e quegli scudi, sospesi ne' castelli paterni, trasmettevansi come illustrazione delle famiglie, divenendo così un distintivo delle case, mentre prima non n'era altro che il nome del feudo, e consolidando la società coll'attaccarla alle memorie. Dalla Cavalleria e dalle crociate vennero pure gli Ordini cavallereschi militari. Uno di Spedalieri troviamo fin dal 952 all'Altopascio in Toscana, coll'uffizio d'accogliere i pellegrini, assistere i viandanti, mantenere le strade e i porti[437]. Dalla magnifica torre donde tutto si domina il val di Nievole, sonava la sera una squilla per avviare sulla bruna quei che ancora non avessero attraversato le palustri selve della Cerbaja. All'ospedale di San Giovanni a Gerusalemme, che dicemmo fondato dagli Amalfitani, era affisso un Ordine di Spedalieri, il cui priore Gerardo della Scala, al tempo delle crociate, armò i suoi frati per ajutare l'impresa; e così venne alterata la loro natura, conservando la cura degl'infermi e dei pellegrini, ma più combattendo gl'Infedeli, e ne uscì quell'Ordine nobile che fu poi famoso col nome di Giovanniti e di cavalieri di Rodi e di Malta. Seguirono i Templari, i Teutonici ed altri estranei all'Italia. Per noi fa l'indicare i cavalieri di San Lazaro, segnati dalla croce verde, e dediti a curare i lebbrosi e difendere i sacri luoghi; che poi trasferiti in Francia, e nel 1572 con autorità di Gregorio XIII uniti all'Ordine di San Maurizio fondato da Amedeo VIII di Savoja il 1434, si conservarono fin ad oggi in Piemonte. Particolari all'Italia furono i Frati Gaudenti di Santa Maria Gloriosa, istituiti nel 1204 da Loderingo di Andalò, con Gruamonte Caccianemici e Ugolino Capreto de' Lambertini nobili bolognesi, un Reggiano, il modenese Ranieri degli Adelardi ed altri, per insinuazione di frà Bartolomeo Breganze, vescovo di Vicenza, poi santo; ed approvati da Urbano IV[438]. Dovevano esser nobili per padre e madre; e seguivano la regola dei Domenicani senz'obbligo di celibato e di convivenza; e portavano mantello bianco, e su campo simile croce vermiglia sormontata da due stelle. Assumeano di protegger vedove e pupilli, orfani e poveri, e intromettersi delle paci: il comune di Bologna gli esentò da tutti i pesi reali e personali, ed altrimenti li privilegiò; e sovente le città d'Italia affidavano a loro la riscossione delle gabelle. Ma (dice Giovan Villani) troppo presto seguirono al nome i fatti, cioè d'intendere più a godere che ad altro. Luigi di Táranto, secondo marito che fu di Giovanna regina di Napoli, in memoria della sua coronazione inventò l'ordine del Nodo (1347), i cui cavalieri giuravano ajutare il principe in qualunque occorrente; dovevano portare sull'abito un nodo di qual colore volessero, col motto _Se a Dio piace_; il venerdì prendevano cappa nera con nodo di seta bianca, senz'oro nè argento o perle, a memoria della passione. Se il cavaliero avesse dato o ricevuto ferita, il nodo doveva restare sciolto finchè avesse visitato il santo sepolcro; reduce dal quale, poneavi il proprio nome e il motto Piacque a Dio. A pentecoste, congregatisi in Castel dell'Ovo, biancovestiti, rendeano conto de' fatti d'arme più notevoli nel _Libro degli avvenimenti de' cavalieri della compagnia dello Spirito Santo dal dritto desìo_. Chi fosse imputato d'azione indegna, dovea quel giorno presentarsi con una fiamma sul cuore, e attorno scritto _Ho speranza nello Spirito Santo di riparare mia grand'onta_: mangiava in disparte nella sala, ove il principe e i cavalieri banchettavano. L'Ordine morì coll'istitutore; ma il Libro degli avvenimenti e degli statuti venne alla repubblica di Venezia, che ne fece dono ad Enrico III quando passò d'Italia il 1573; ed egli ne tolse norma per fondare poco poi l'Ordine del Santo Spirito in Francia. Si pretese che Costantino Magno, a commemorare la vittoria sopra Massenzio, istituisse l'Ordine di San Giorgio o Costantiniano. Certo i Flavj Comneno, discendenti degl'imperatori di Costantinopoli, possedettero lungo tempo il granmaestrato di questa sacra milizia, e Giannandrea, ultimo di essi, lo lasciò a Francesco Farnese duca di Parma. Competeva esso ai Farnesi come duchi di Parma, o come retaggio domestico? punto che i recenti trattati lasciarono irresoluto; onde continuò a distribuirsi dal duca di Parma non meno che dai re di Napoli succeduti ai Farnesi, finchè non furono spossessati. Vorrebbero connettere alle crociate anche l'Ordine savojardo dell'Annunziata, istituito, dal conte Verde il 1362, la cui collana è composta di lacci d'amore, colle lettere Fert, che si favoleggiano iniziali di _Fortitudo Ejus Rhodum Tenuit_. Amedeo VIII gli diede nuovi statuti nel 1409; Carlo III, il nome e l'immagine della ss. Annunziata nel 1518: e venti soli ne vanno decorati. Quando i Turchi minacciavano la Germania e l'Italia, Pio II istituì l'Ordine della Madonna di Betlem e quello de' Gesuiti, d'effimera durata. Pio IV istituì lo Speron d'oro (1560), proprio de' pontefici, che davasi a tutti gli ambasciadori venuti a Roma, e potea conferirsi anche dalla famiglia Sforza Cesarini, dal maggiordomo del papa, dal governatore di Roma e dai nunzj; la quale comunicazione d'un diritto sovrano lo abjettò tanto, che Gregorio XVI (1831) ne mutò il nome e le divise. L'arte trovò nella Cavalleria un nuovo campo, esteso quanto quello della devozione, dalla quale del resto era indivisibile. E ben presto anche l'Italia fu inondata da romanzi di Cavalleria, tradotti anche in vulgare; e se noi non contribuimmo verun originale ai periodi della Tavola Rotonda, de' Paladini di Carlo Magno, del Santo Graal, avemmo la più splendida esposizione della vita cavalleresca nell'Ariosto, e la più toccante nel Tasso. Il primo veniva in tempi di critica, talchè della Cavalleria non presentò che il lato beffardo, e imprese che, a forza d'essere esagerate, diventano ridicole; paladini che uccidono migliaja d'uomini; armi incantate che rivestono eroi invulnerabili; spade che tagliano le armadure più robuste; scudi che abbagliano; lancie che col solo tocco scavalcano; e tutto il corredo della magìa, e di castelli incantati e cavalli volanti e foglie converse in navi...; e il cercare imprese folli e contro potenze sovrumane, e la religione volta in celia e in empietà, e l'amore inebbriantesi nella spensierata voluttà. Pure la vita cavalleresca ci è mostrata in quelle armadure a tutta botta, in quelle spade famose quanto i loro eroi, come la durlindana d'Orlando, la belisarda di Ruggero, la fusberta di Rinaldo, «che fa l'arme parer di vetro frale»; in que' cavalli rinomati, il Bajardo di Rinaldo, il Brigliadoro di Orlando, il Frontino di Ruggero; in quella fedeltà alla parola, per cui Zerbino protegge anche la scellerata Gabrina; in quella riconoscenza, per cui Ruggero combatte invece dell'imperatore Leone fin contro la propria amante; in quella difesa del debole oppresso, assunta da Rinaldo, da Bradamante, da Sansonetto; in quell'amore d'Isabella, che per serbar fede all'estinto sposo subisce la morte; in quella devozione di Orlando, che, qualora non sia impazzito d'un amor puerile, combatte incessante per l'imperatore e per Dio, e raccomanda l'anima al moribondo Brandimarte, «che de' suoi falli al re del paradiso può domandar perdono anzi l'occaso». Il Tasso impicciolì il concetto delle crociate, facendone un'impresa regolare, d'esercito giusto sotto un capitano supremo, e con gerarchia di uffiziali e riviste e marce e stendardi: ma nell'anima devota e cavalleresca, più per sentimento che per istudio, intese egli que' costumi; e tu li ravvisi in Rinaldo, giovinetto insoffrente della disciplina, volonteroso d'imprese personali, e facilmente distratto dalle voluttà; in Raimondo che, quantunque vecchio, affronta lo sfidatore pagano; e meglio ancora in Tancredi, amoroso eppur fedele al capitano e alla croce, sempre primo ne' cimenti, che duellando con Argante, ricusa avere il vantaggio d'armi migliori; vedendolo esanimarsi, lo invita ancora generosamente a cedergli, senza insuperbir della vittoria[439]; che salva la figlia del signore d'Antiochia, e la rispetta; che invaghito di Clorinda, la combatte non conoscendola, e feritala a morte, corre attingere nel proprio elmo per dare col battesimo la vita eterna a quella cui toglieva la terrena. È quel Tancredi, di cui le croniche narrano che, avendo compito stupende geste, fe giurare al suo scudiero di non dirne parola finchè vivesse. FINE DEL TOMO QUINTO E DEL LIBRO SETTIMO INDICE LIBRO SESTO CAPITOLO LVIII. Il Medioevo. — Essi e noi _pag._ 1 LIX. Odoacre. Teodorico goto. Ultimo fiore delle lettere latine con Cassiodoro e Boezio » 19 LX. Fine del regno Ostrogoto. — Belisario. — Narsete. — Italia liberata » 52 LXI. I Longobardi » 70 LXII. Gl'invasori. Legislazione longobarda. Costumi » 90 LXIII. I vinti. Con che legge viveano? Quali la condizione e le arti loro? » 126 LXIV. La Chiesa in relazione coi popoli e coi nuovi dominj. San Benedetto e i monaci » 150 LXV. I papi. Gregorio Magno » 169 LXVI. Italia disputata fra Longobardi e Greci » 186 LXVII. Gli Iconoclasti. Origine della dominazione temporale dei papi » 205 LXVIII. Fine del regno longobardo. Rinnovasi l'impero d'Occidente » 231 LXIX. L'impero romano-cristiano. Carlo Magno » 252 LIBRO SETTIMO LXX. Regno d'Italia. Condizione degli Italiani sotto i primi Carolingi » 283 LXXI. Irruzione dei Saracini. Gl'imperatori Franchi » 298 LXXII. Imperatori italiani. Gli Ungheri » 322 LXXIII. Età ferrea del Pontificato. Ottone il grande. La corona imperiale e il regno d'Italia passano ai Tedeschi. Si svolge la nazionalità italiana » 347 LXXIV. Il feudalismo » 373 LXXV. Il Basso Popolo » 400 LXXVI. Il Mille. Corrado Salico. L'arcivescovo Eriberto. Enrico III » 427 LXXVII. Bassa Italia. I Normanni » 448 LXXVIII. La Chiesa. Simonia e concubinato. Gregorio VII. La contessa Matilde. Guerra alle investiture » 468 LXXIX. Repubbliche marittime » 517 LXXX. Crociate. — La Cavalleria » 540 NOTE: [1] Questo libro fu stampato nel 1855. [2] BOLLANDISTI, _ad 8 jan._ — EUGIPIUS, _Vita s. Severini_, in PEZ, _Script. rerum. austriac._, tom. I. — Anche Benvenuto da Imola, al canto XII dell'_Inferno_ di Dante, racconta che, passando Attila per Modena, san Geminiano vescovo gli andò incontro chiedendogli misericordia. Quello gli rispose: — Non sai ch'io sono Attila flagello di Dio?» E il santo: — Ed io sono Geminiano servo di Dio». Il feroce ne rimase tocco, e passò oltre senza fare offesa. [3] Gli storici lo qualificano re degli Eruli, forse perchè di tal gente gotica fosse il maggior numero delle sue schiere. Giornandes, _De Goth. orig._, cap. 37, e l'_Historia miscella_, XV, p. 101, lo fanno re dei Rugi e dei Turcilingi. Nel gabinetto di Vienna si hanno medaglie di lui, iscritte FL. ODOVAC. [4] _Æmilia, Tuscia, cæteræque provincia, in quibus hominum pene nullus existit._ Gelasio papa _ep. ad Andronicum_, presso BARONIO, _ad an._ 496, nº 36. [5] ENNODIO, Paneg. Theodorici: _Migrante tecum ad Ausoniam mundo... sumpta sunt plaustra vice tectorum, et in domos instabiles confluxerunt, omnia servitura necessitati. Tunc arma Cereris, et solventia frumentum bobus saxa trahebantur, oneratæ fætibus matres inter familias tuas, oblitæ sexus et ponderis, parandi victus cura laborant_. Sotto il nome _Amalung-Dietrich von Bern_, cioè Teodorico Amalo di Verona, Teodorico è celebrato nell'_Heldenbuch_ o libro degli eroi, poema tedesco del XIII secolo. Su questi fatti, oltre gli autori precitati, vedi CASSIODORO, _Chronicon_, e principalmente _Variarum libri_ XII, ed. Garet, Rohan 1679, e Venezia 1729. Peccato che Scipione Maffei non ne abbia eseguita la promessa edizione commentata. PROCOPIO, _De bello goth._, lib. IV. ISIDORI HISPALENSIS, _Chronicon goth._ _Anonymi Chron._ detto Valesiano, dal Valois che lo pubblicò a Parigi il 1681, in calce all'Ammiano Marcellino. _Historia miscella_, nella raccolta del Muratori. Pare scritta nel 700. COCHLÆI, _Vita Theodorici_, ed. Peringskiold, Stoccolma 1699. Vi si comprendono due vite antiche, ma di poco valore. MURATORI, _Annali, Rerum itaìicarum scriptores_, e _Antiquitates medii ævi_, che cito una volta per sempre. SARTORIUS, _Essai sur l'état civil et politique des peuples de l'Italie sous le gouvernement des Goths_. Parigi 1811; premiato dall'Istituto francese, ma che pare copiato dalle belle introduzioni di Giuseppe Rovelli alla _Storia di Como_. HURTER, _Gesch. des ostrogothischen Königs Theodorich und seiner Regierung_. Sciaffusa 1808. MANSO, _Gesch. des ostrogothisch. Reichs in Italien_. Breslavia 1814; — _Uebersicht der Staats-Aemter und Vervaltungs-Behörden unter den Oslgothen._ Ivi 1823. Il sig. Felice Dahn, professore a Monaco, autore della vasta opera _Die Könige der Germanen_, inserì nella _Allgemeine Zeitung_ del 1872 un articolo _Teodorich und Odovacar_. [6] _Et nos maxime qui, divino auxilio, in republica vestra didicimus quemadmodum Romanis æquabiliter imperare possimus: regnum nostrum imitatio vestra est, forma boni propositi, unici exemplar imperii, qui quantum vos sequimur, tantum gentes alias anteimus... Pati vos non credimus inter utrasque respublicas, quarum semper unum corpus sub antiquis principibus fuisse declaratur, aliquid discordiæ permanere.... Romani regni unum velle, una semper opinio sit._ Variar., I. _Romano_ da qui innanzi dinota quelli che non erano Barbari, fossero i sudditi italiani dell'impero orientale, o i vinti dell'occidentale. Anche i Turchi chiamano _Romania_ l'ultima provincia rimasta all'impero greco, e _Romei, Romili_ i Greci soggiogati. [7] CASSIODORO, _Variar._ spesso. Il Banduri, _Numism. imp. rom._, II. 601, pubblica quest'iscrizione: _Salvis domino nostro Zenone augusto et gloriosissimo rege Theodorico_. [8] ENNODIO, _Vita. s. Epiphanii. — Concil._ tom. IV. [9] Teodorico mutò colla porpora l'abito nazionale; ma è gratuita l'asserzione del Muratori che _inducesse i suoi Goti a fare lo stesso_. Presso l'anonimo del Valois, Teodorico si lagna che _Romanus miser imitatur Gothum, et utilis Gothus_ (cioè il ricco) _imitatur Romanum_. E presso Cassiodoro, _Variar._, II. 15. 16: _Cum se homines soleant de vicinitate collidere, istis prædiorum communio causam noscitur præstitisse concordiæ: sic enim contigit, ut utraque natio, dum communiter vivit, ad unum velle convenerit... Una lex illos et æquabilis disciplina complectitur; necesse est enim ut inter eos suaviter crescat affectus, qui servant jugiter terminos constitutos_. Sono figure da retore. Da quanti secoli vivono sul suolo stesso Greci e Turchi? forse ne nacque soave affetto? [10] Un cenno ne trapela nella lettera di Teodorico al senatore Sunivado, _ut petat Samnium, jurgia Romanorum cum Gothis compositurus_. Variar., III. 13. [11] _Variar._, i. 19; IV. 4; XII. 5. Cassiodoro accenna il _curialis_, il _defensor_, il _curator_, il _quinquennalis_, ecc. [12] — Salva la riverenza al diritto pubblico e alle leggi di ciascuno». — _Jura veterum ad nostram capimus reverentiam custodiri. — Delectamur jure romano vivere. — Reverenda legum antiquitas. — Secundum legum veterum constituta_. [13] _Is qui, quasi specie utilitatis publicæ, ut si necessaria faciat, delator existat, quem tamen nos execrari omnino profitemur_. Editto 35. [14] _Ibi potest census addi, ubi cultura profecerit._ Variar., IV. 38. Nella 10 dell'XI scrive essersi aumentato il tributo, perchè _longa quies et culturam agris præstitit et populos ampliavit_. [15] _Variar._, IV. 18.19; VI. 7; VII. 42; IX. 24. [16] Variar., III. 13. 14. 15; VIII. 5. — _Necessarium duximus illum sublimem virum ad vos comitem destinare, qui, secundum edicta nostra, inter duos Gothos litem debeat amputare: quod si etiam inter Gothum et Romanum natum fuerit fortasse negotium, adhibito sibi prudente Romano, certamen possit æquabili ratione discingere. Inter duos autem Romanos, Romani audiant quos per provincias dirigimus cognitores. Scitote autem unam nobis in omnibus æquabiliter esse charitatem._ VIII. 3. [17] _Variar._, V. 17. [18] Da _gut_ buono. Ugo Grozio, nella _Storia dei Goti_, radunò i passi che ne fanno l'elogio: modo cattivo di giungere alla verità. [19] PROCOPIO, _De bello goth._, III. 8. [20] _Reliqua per illum et illum_ (come oggi si direbbe) _per N. N. legatos nostros patrio sermone mandamus_. Teodorico al re degli Eruli. [21] Re Atalarico scrive a Cassiodoro: _Cum esset_ (Teodorico) _publica cura vacuatus, sententias prudentum a suis famulis exigebat, ut factis propriis se æquaret antiquis. Stellarum cursus, maris sinus, fontium miracula, rimator acutissimus inquirebat, ut rerum naturis diligentius perscrutatis, quidam purpuratus videretur esse philosophus_. Variar., IX. 24. [22] Lettera del 533. [23] Citato nella lettera d'Alarico ad Aratore. [24] Così definisce la filosofia: _Sapientia est rerum quæ sunt comprehensio_. Aritm., lib. I. c. 1. [25] Prodigi aveano accompagnato la nascita di questo, sicchè suo padre il nominò Epifanio, e promise consacrarlo a Dio. A 8 anni era lettore nella chiesa episcopale di Ticino, piccola città che ancor non chiamavasi Pavia: a 12 era scrittore del vecchio vescovo Crispino: a 18 soddiacono e amministratore dei beni della Chiesa cioè dei poveri. Al tempo che il mondo degli impiegati e dei soldati crollava, senza forza contro gli stranieri, senza virtù contro i disordini interni, al clero di Pavia presedevano, oltre il santo vescovo, l'arcidiacono Silvestro, zelante della tradizione e della disciplina antica, ma più atto a dar pareri che ad operare; Bonoso, di cui diceasi che se il suo corpo era nato nella Gallia, l'anima sua veniva dalla patria celeste: Epifanio, più utile di tutti benchè più giovane, sosteneva le fatiche gravissime che, nello sfacelo della società civile, toccavano alla ecclesiastica: oggi avvocato a sostener avanti ai tribunali la causa della Chiesa e dei poveri: domani paciere in una famiglia disunita, poi raccoglitore e distributor di limosine ai poveri: istruttore e consigliere degl'ignoranti e dei dubbj: integerrimo di vita, colla costante moderazione, coll'inalterabile equità, col dominio sopra se stesso, imponeva agli altri. La chiesa di Ticino dovea difendere i suoi beni dalle erosioni del Po e dalle usurpazioni dei vicini. Banco, confinante avido e ingiusto, pretendeva occupare un pezzo lasciato in secco dal fiume, e ad Epifanio, che opponeva alle violenze la ragione, diede una bastonata sul capo. Il giovane diacono ghermì il braccio dell'avversario e il disarmò, e gli astanti avriano freddato Banco se Epifanio non avesse posto la sua testa sanguinente fra l'offensore e i vindici. Crispino morente menò a Milano Epifanio per raccomandarlo al metropolita e ai nobili come il miglior successore che potessero dargli: e in fatto a 25 anni fu eletto vescovo di Pavia. Giusto, calmo, fermo, caritatevole, non mutò la semplice vita, geloso della dignità episcopale quanto meno la ostentava; subito fu l'oracolo della diocesi: non affar pubblico o privato menavasi senza di lui; il tribunal suo era il più frequentato, e sebbene non avesse nè la scienza di Agostino, nè le grandi missioni d'Ambrogio, era stimato e venerato in tutta Liguria. Questa si trovava allora minacciata di guerra civile fra Antemio imperatore, e Ricimero suo genero. I nobili e le città liguri risolsero di mandare una deputazione a Ricimero a Milano, pregandolo di pace; ed esso gli ascoltò favorevole, insinuò per altro avrebber dovuto chiederla ad Antemio, ma capiva che nessuno potrebbe presentarsi a un imperatore violento e irritato. I nostri risposero che, quanto a ciò, aveano l'uomo opportuno, che saprebbe domar anche le fiere, e che bastava vedesse una buona azione perchè tosto vi si accingesse; d'un'eloquenza poi che (diceano) incantava più d'un mago; e parlato che avesse, non era possibile resistergli. Quest'uomo era Epifanio, e Ricimero disse che lo conosceva, e meravigliarsi non avesse ammiratori e amici. Pregato di assumersi la pacifica missione, Epifanio disse che questi affari sorpassavano la sua capacità, ma quando trattisi di salvar la patria, era dover suo di nulla ricusare. Il suo viaggio fu un trionfo: la gente accorreva in folla a veder il santo, che andava a chiedere ciò che i popoli più desiderano, la pace. Antemio non vi vedea che un artifizio di Ricimero; pure, mosso dalle manifestazioni di tutta Italia e di Roma specialmente, lo accolse in tutta pompa, ne ascoltò le persuasioni e le preghiere a favor di quella Italia, che allora prometteasi più dai santi che dai politici. E il santo trionfò dove i politici erano falliti, ed ebbe promessa di perdono e di pace, e senza pur soddisfare la curiosità di veder Roma, tornò a Pavia perchè sovrastava la pasqua. Indarno Milano l'invitò a ricever ringraziamenti, indarno Ricimero il voleva alla corte, stupito di veder composta una pace, ch'egli avea fatto di tutto per rendere impossibile, e che recideva le sue ambizioni. Ennodio, che questi fatti ci racconta, era stato allevato da Epifanio, come Epifanio da Crispino, e gli succedette nella sede vescovile. Così la plebe cristiana prevedeva da un pezzo chi sarebbe stato il suo vescovo, e non le era mandato nè conosciuto, nè conoscendo; ed era protetto da quella forza che nulla compensa, la considerazione e la stima. [26] _Per Cenetam gradiens et amicos duplavicenses,_ _Qua natale solum est mihi..._ _Ast ego sensus inops, italæ quota portio linguæ_ _Fæce gravis, sermone levis, ratione pigrescens,_ _Mente hebes, arte carens, usu rudis, ore nec expers,_ _Parvula grammaticæ lambens reflumina guttæ,_ _Rhetoricæ exiguum prælïbans gurgitis haustum,_ _Cote ex juridica cui vix rubigo recessit,_ _Quæ prius addidici dediscens, et cui tantum_ _Artibus ex illis odor est in naribus istis._ Vita s. Martini, I e IV. Siano saggio del suo merito poetico, e cenno degli studj che allora si facevano; e vedasi la prima volta nominata la _lingua italiana_, comechè per tale devasi intendere la latina. [27] Giornandes dice che quel porto, già capace di duecencinquanta vascelli, era mutato in un giardino, e la città divisa in tre parti: la prima, più elevata, diceasi propriamente Ravenna; la seconda, che conteneva il palazzo imperiale, chiamavasi Cesarea; la terza, detta Classe, distava da Ravenna tre miglia. [28] Probabilmente si valsero d'un piano inclinato, sostenuto da piedritti. Vedasi RINALDO RASPONI, _La Rotonda prorata edifizio romano_, 1776; come anche G. B. Passeri, Ippolito Ghiselli Gamba, Sufflot, il conte Caylus e Enrico Gally nel 1842. Il p. Bacchini provò che quella fabbrica non è del tempo di Amalasunta, bensì di Teodorico. [29] _Quid dicamus columnarum junceam proceritatem? moles illas sublimissimas fabricarum quasi quibusdam erectis hastilibus contineri, et substantiæ qualitates concavis canalibus excavatæ, ut magis ipsas æstimes fuisse transfusas, alias ceris judices factum quod metallis durissimis videas expolitum. Variar., XV. 6, Form. de fabricis et architectis_. [30] L'iscrizione stessa è fastosa: _Qui potuit rigidas Gothorum subdere mentes,_ _Hic docuit durum flumina ferre jugum._ Trajano, dopo vittorie di ben altra importanza, sul ponte della via Appia scriveva solo: TRAJANVS IMP. P. M. STRAVIT. [31] Nella vita antichissima di s. Fulgenzio, _Acta SS. 1. jan._ [32] Per le spoletine, vedi _Variar._, II. 32. 33. delle altre conservossi memoria in un'iscrizione, che trascurata si legge accanto al duomo di Terracina: DN. GLRMVS ADQ INCLYT (_Dominus gloriosissimus atque inclytus_) REX THEODORICVS VICTOR AC TRIVMFANS SEMPER AVGVSTVS BONO REIPVBLICÆ NATVS CVSTOS LIBERTATIS ET PROPAGATOR ROMANI NOMINIS DOMITOR GENTIVM DECENNOVII VIÆ APPIÆ ID E A TRIP VSQ TARIC IT LOCA QVÆ CONFLVENTIBVS AB VTRAQ PARTE PALVDIBVS PER OMN RETRO PRINCIP INVNDAVERANT VSVI PVBCO ET SECVRITATI VIANTIVM ADMIRANDA PROPITIO DEO FELICITE RESTITVIT OPERI INJVNCTO NAVITER ISVDANTE ADQ CLEMENTISSIMI PRINCIP FELIC DESERVIENT PRÆCONII ET PROSAPIÆ DECIORVM CÆC MAV BASILIO DECIO VC ET INL EX PV EX PPO EX COVS ORD PAT QVI AD PERPETVANDAM TANTI DOMINI GLORIAM PER PLVRIMOS QVI ANTE NON ALBEOS DEDVCTA IN MARE AQVA IGNOTÆ ATAVIS ET NIMIS ANTIQ REDDIDIT SICCITATI. [33] Sotto Teodorico, per un soldo d'oro si davano sessanta moggia di frumento e trenta anfore di vino. Il Valesiano dice scemato d'un terzo il prezzo dei viveri, sicchè in tempo di caro compravansi venticinque moggia di grano per un soldo d'oro, mentre al mercato se ne aveano dieci. In una carestia, Cassiodoro scrive a Dazio vescovo di Milano di far distribuire un terzo del panico che si trova ne' granaj di Pavia e Tortona; agli affamati lo dia a un soldo per misura. Forse sono le dette venticinque moggia. [34] _Vita s. Epiphanii_. [35] _Variar._, XII. 4. È il vin santo: poichè dice che, côlta l'uva in autunno tardo, si sospende o serba in vasi da ciò; a dicembre si pigia, e in mirabil guisa si ha il vino nuovo quando comincia ad esser vecchio. [36] _Variar._, IX. 3. [37] _In actis concilii Palmaris_. [38] L'apprensione degli Italiani è espressa in quelle parole di Boezio: _Rex avidus communis exitii_ (_De consol._, lib. I), e dal Valesiano: _Rex dolum Romanis tendebat_. — E quindi ebbero principio quegli rumori, che nutricati e inaspriti da zelo religioso e dalla mondana ambizione dei cherici ... causarono poscia la rovina del dominio gotico in Italia, non senza infinito danno degli Italiani». RANIERI, _Storia d'Italia dal_ V _al_ IX _secolo_, p. 113. Di questo giudizio appello ai fatti del 1848. [39] — Quante volte ho messo a repentaglio il mio stato per salvare i poveri, cui con infinite calunnie molestava la non mai punita avarizia dei Barbari! In grave carestia essendo posto un gravoso balzello alla Compagnia, tale ch'essa ne sarìa stata deserta, io pel comun bene tolsi a difenderla davanti il re contro il prefetto del pretorio, e ottenni non fosse riscosso». [40] _Carmina qui quondam studio florente peregi_ _Flebilis, heu! mæstos cogor inire modos._ _Ecce mihi laceræ dictant scribenda Camenæ_ _Et vivis elegi fletibus ora rigant._ _Has saltem nullus potuit pervincere terror_ _Ne nostrum comites prosequerentur iter._ _Gloria felicis olim viridisque juventæ_ _Solatur mæsti nunc mea fata senis._ _Venit enim properata malis inopina senectus,_ _Et dolor ætatem jussit inesse suam._ _Intempestivi funduntur vertice crines,_ _Et tremit effæto corpore laxa cutis._ _Mors hominum felix, quæ se nec dulcibus annis_ _Inserit, et mæstis sæpe vocata venit,_ _Eheu quam surda miseros avertitur aure,_ _Et flentes oculos claudere sæva negat!_ _Dum levibus malefida bonis fortuna faveret,_ _Pæne caput tristis merserat hora meum._ _Nunc quia fallacem mutavit nubila vultum,_ _Protrahit ingratas impia vita moras._ _Quid me felicem toties jactatis amici?_ _Qui cecidit, stabili non erat ille gradu._ Boezio in quest'opera mostrasi poco cristiano, e nulla meglio di stoico, tanto che alcuno negò fosse sua fattura, e suppose un Boezio, differente da quello che i Pavesi venerarono poi sugli altari, forse per quel sentimento che anch'oggi fa considerare martiri coloro che cadono per la causa nazionale. [41] _Omnia regno nostro perfecte constare credimus, si gratiam vestram nobis minime deesse sentimus... Claudantur odia cum sepultis... Illud est mihi supra dominatum, tantum ac talem habere rectorem propitium... Sit vobis regnum nostrum gratiæ vinculis obligatum_. Variar., VIII. 8. [42] All'egual modo v'entrò Alfonso d'Aragona nel 1442. Questi fatti ci sono descritti da Procopio (_De bello goth._, l. i. c. 8. 9. 10), ch'era segretario di Belisario, e che esagera sempre in lode di questo. [43] Lo dice Procopio; eppure soggiunge che l'esercito goto non bastava a cingere tutta la città. Egli stesso fa uccidere in Milano μυριάδες τριάκοντα, trecentomila maschi (lib. II. c. 7): esagerazione o sbaglio. [44] Nel 536 da Belisario, nel 546 da Totila, l'anno appresso da Belisario, nel 549 di nuovo da Totila, nel 552 da Narsete. Gregorio Magno riferisce che san Benedetto avea assicurato che Roma non sarebbe sterminata da Totila, bensì da turbini e tremuoti; e soggiunge che di fatto, a' suoi giorni, si vedevano sovverse mura e case e chiese ed edifizj. Forse a quel tempo sono da attribuire le tante rovine di solidi fabbricati in Roma; chè certo i Barbari non avean ragione di accingersi all'immensa fatica che sarebbesi voluta a scassinarli. [45] Nov. 104, De præt. Siciliæ. E al capo 23: _Lites inter duos procedentes Romanos, vel ubi romana persona pulsatur, per civiles judices exercere jubemus, cum talibus negotiis vel causis judices militares immiscere se ordo non patiatur. E in calce alle Novelle: Jura insuper vel leges codicibus nostris insertas, quas jam sub edictali programmate in Italiam dudum misimus, obtinere sancimus: sed et eas, quas postea promulgavimus constitutiones, jubemus sub edictali propositione vulgari, ex eo tempore quo sub edictali programmate evulgatæ fuerint, etiam per partes Italiæ obtinere, ut una, Deo volente, facta republica, legum etiam nostrarum ubique prolatetur auctoritas. Annonam etiam, quam et Theodoricus dare solitus erat, et nos etiam Romanis indulsimus, in posterum etiam dari præcipimus; sicut etiam annonas, quæ grammaticis ac oratoribus vel etiam medicis vel jurisperitis antea dari solitum erat, et in posterum suam professionem scilicet exercentibus erogare præcipimus, quatenus juvenes liberalibus studiis eruditi per nostram rempublicam floreant_. [46] _König_ significa re, e _Adelig_ nobile. Così _All-boin_ tutto reggente; _Rose-mond_ bocca rosata; _Au-rich_ antico signore; _Theud-linda_ benefica al popolo; _Ogil-ulf_ soccorso volontario; _Rot-her_ signor della pace; _Ar-preth_ ricco d'onore; _Hund-preth_ ricco di benevolenza; _Cuni-preth_ ricco di coraggio; _Rad-wald_ pronto e potente; _Hildi-brand_ molto ardente; _Rat-gis_ forte in consiglio; _Ahist-hulf_ pronto al soccorso, ecc. Paolo Diacono, De gestis Langobardorum, dice che le imprese d'Alboino erano celebrate ne' versi, non soltanto dei Bavari e dei Sassoni, ma di quanti usavano la stessa favella. Vedansi _Origo gentis nostræ Langobardorum_, stampato in capo all'Editto di Rotari, Torino 1846; e Andrea da Bergamo, Erchemperto, Benedetto da Sant'Andrea, e i continuatori di Paolo Diacono, detti Cassinense, Salernitano, Romano, Barberiniano, Andomarense, Fiorentino, Veneto, Trajectense. PROCOPIO, _De bello gothico_. ANASTASIO BIBLIOTECARIO, _De vitis pontificum romanorum_. GREGORIO MAGNO, _Epistole e Dialoghi_. J. CHRISTIUS, _Origines longobardicæ_. SCHMIDT, _De Longobardis_. _Gaillard_, _Mém. historique et critique sur les Longobards_ (Mem. dell'Accademia francese, tom. XXXIII. XXXV. XLIII). TURCK, _Forschungen auf dem Gebiete der Geschichte_. Rostock 1835. ASCHBACH, _Gesch. der Heruler und Gepiden_. Francoforte 1835. FLEGLER, _Das Königreich der Longobarden in Italien_. Lipsia 1851. RICHTER, _Ueber die Abkunft und Wanderung der Langobarden_. Vienna 1848; _Friaul unter longobardischer Herschaft_. Ivi 1825. MERKEL, _Die Gesch. des Langobardenrechts_. Berlino 1851. BETHMANN, _Paulus Diaconus, und die Geschichtschreibung der Langobarden_. Annover 1849. E tutti gli storici d'Italia, e con qualche novità LEBRECHT e LEO, _Gesch. von Italien_. Amburgo 1829, lib. I; BALBO, _Storia d'Italia_. Torino 1830; e magistralmente TROYA, _Storia d'Italia_. 1841. [47] DU CHESNE, App. del tom. I. _Rer. Francicarum_. [48] PAOLO DIAC., op. cit., lib. II. c. 7. [49] _Cum uxoribus, natis, omnique suppellectili... cum omni exercitu, vulgique promiscua multitudine_. PAOLO DIAC., lib. II. c. 7. 8. [50] Con Onorato vennero a Genova molto clero e patrizj, il vescovo d'Acqui ed altri ragguardevoli personaggi. I Milanesi vi ottennero una chiesa che dedicarono a sant'Ambrogio, e il brolo di Sant'Andrea, un palazzo, le rendite d'alcuni benefizj, e le pievi di Recco, Auscio, Rapallo, Camogli, colle loro decime e possessioni. Vogliono le cronache che molti della bassa Insubria rifuggissero entro la grande palude, detta mar Gerondio, formata dei fiumi Oglio, Serio, Adda; e quivi sopra un isolotto fangoso, detto _La Mosa_ (_limosa_), fondassero la città di Crema. [51] La cronologia dei primi diciassette anni de' Longobardi va molto confusa; nè Muratori, Fumagalli, Lupi la rischiararono a sufficienza. L'unico storico cui ci troviamo ridotti, Paolo Diacono, assegnato il tempo che Alboino uscì di Pannonia, prosegue per note indeterminate, servendosi delle indizioni; perchè allora s'era cessato di notare gli anni per consoli, nè ben introdotta l'êra vulgare. Forse s'accomoderebbero le apparenti contraddizioni cambiando l'anno da cui gli storici cominciano il regno d'Alboino, e desumendolo, non dalla presa di Milano, ma dal suo entrare in Italia, cioè dal principio del 569. Esso Paolo fa solo ai tempi di Autari conquistato Benevento, e primo duca Zottone. Ma la lettera 46 lib. II di Gregorio Magno è diretta ad Arechi (Arigiso) successore di Zottone; e poichè essa è del 592, se si sottraggono i venti anni che, secondo Paolo, Zottone regnò, saliamo ai tempi dell'assedio di Pavia. [52] Paolo Diacono ce ne conservò l'epitafio, uno degli scarsi monumenti di quell'età: _Clauditur hoc tumulo, tantum sed corpore, Droctulf,_ _Nam meritis tota vivit in urbe suis._ _Cum Bardis fuit ipse quidem, nam gente suavus;_ _Omnibus et populis inde suavis erat._ _Terribilis visu facies, sed mente benignus,_ _Longaque robusto pectore barba fuit._ _Hic et amans semper romana et publica signa,_ _Vastator gentis adfuit ipse suæ._ _Contempsit caros, dum nos amat ille, parentes,_ _Hanc patriam reputans esse Ravenna suam._ _Hujus prima fuit Brexelli gloria capti;_ _Qua residens, cunctis hostibus horror erat._ _Qui romana potens valuit post signa juvare_ _Vexillum primum Christus habere dedit._ _Inde etiam retinet dum classem fraude Feroldus,_ _Vindicet ut classem, classibus arma parat._ _Puppibus exiguis decertans amne Badrino_ _Bardorum innumeras vicit et ipse manus._ _Rursus et in terris Avarem superavit Eois,_ _Conquirens dominis maxima palma suis._ _Martiris auxilio Vitalis fultus ad istos_ _Pervenit, victor sæpe triumphat ovans._ _Cujus et in templis petiit sua membra jacere,_ _Hæc loca post mortem bustis habere juvat._ _Ipse sacerdotem moriens petit ista Joannem,_ _His reddit terris cujus amore pio._ [53] _Inventæ sunt in eadem insula divitiæ multæ, quæ ibi de singulis fuerant civitatibus commendatæ._ PAOLO DIAC., lib. III. c. 26. [54] Lo stesso, lib. VI. c. 6. Leo dice: — Nessun re ardì arricchire gli ecclesiastici cattolici, perchè tutti pendevano alla signoria de' Romani». _Vic. della costit. in Italia_, § 10, parte 1ª. Che Rotari fondasse parecchi monasteri, lo prova il documento pubblicato negli _Hist. patriæ monumenta, Chart._ tom. I. p. 7. Di Agilulfo dice Paolo, lib. VI. c. 6, che _multas possessiones Ecclesiæ largitus est_; e sappiamo che regalò beni al monastero di San Colombano a Bobbio. Liberalità de' re successivi indicheremo a suo tempo, e le storie ne son piene. [55] Porta scritto in giro, AGILULF GRAT. DIVIN. GLOR. REX TOTIUS ITAL. OFERET SCO JOHANNI BATTISTE IN ECLA MODICIA. Se l'iscrizione potesse credersi contemporanea del dono, sarebbe la prima volta che trovasi la formola _per la grazia di Dio_, poi dal franco Pepino introdotta ne' diplomi; e così pare quel _re di tutta Italia_, che, non senza maggior ragione, fu quindi adoperato da Carlo Magno e da Napoleone. Sembra che i Longobardi non coronassero i loro re, ma gl'investissero col metter loro in mano un'asta: pure le loro effigie sulle monete portano corona. [56] _Excellentissimo filio nostro Adulouwaldo reg. transmiter. philacteria curavimus, idest crucem cum ligno s. crucis Domini, et lectionem s. Evangeli theca persice inclusam. Filiæ quoque meæ, sorori ejus, tres anulos transmisi, duos cum hyacinthis et unum cum albula: quæ eis per vos peto dari_. Non si usava ancora mandare ossa di santi: e Gregorio Magno lo disapprova assai. [57] JONAS, in _Vita s. Bertulfi_, ap. MABILLON, _Ord. s. Benedict._ [58] _Brexiana civitas magnam semper nobilium Longobardorum multitudinem habuit_. PAOLO DIAC., lib. V. c. 36. [59] Fredegario e Paolo attribuiscono il fatto a Rodoaldo; ma i: tempi non rispondono. Non occorre venire fino all'odierna civiltà per trovare assurdo questo modo di ragionare. Ai tempi di Lodovico il Pio, Agovardo arcivescovo di Lione scriveva: — Bell'arte a scoprir la verità! e soprattutto quando l'un combattente e l'altro soccombono. Se Dio volesse che in questa vita gl'innocenti fossero sempre vincitori e i colpevoli vinti, Gerusalemme non sarebbe sottoposta ai Saraceni, nè Italia ai Longobardi». _Liber adv. Gundobadum_, cap. XIV. I contemporanei non guardavano dunque per una fortuna l'esser l'Italia vinta dai Longobardi, come fecero alcuni mille anni più tardi. [60] Burckhard (_Staats- und Rechtsgesch. der Römer_, § 42. Stutrgard 1841) vorrebbe che _oppida_ e _vici_ fossero terre smurate, le quali non formavano Comune da sè, ma erano assegnate a municipj nel cui territorio eran poste. [61] Diceasi _guidrigild_, compenso privato; ben distinto dall'ammenda (_fried_), che è compenso pubblico. [62] _De bello goth._, II. 14; III. 34. Una loro migrazione, cantata dallo scaldo di Gottland, componeasi di settanta navi, montate ciascuna da cento uomini. [63] _Aucto de diversis gentibus, quas superaverant, exercitu._ PAOLO DIAC., lib. I. c. 20. [64] La storia non parla che dell'isola; ma essa è tanto piccina, ch'è forza credere sotto quel nome comprese le circostanze. A Lenno, terra di quella riva, sono due iscrizioni del 571 e 572, ove l'anno è notato per consoli, e Giustino II è detto signor nostro. HIC REQVIESCIT IN PACE FAMVLVS CHRISTI LAVRENTIVS VENERABILIS SACERDOS, QVI VIXIT IN HOC SÆCVLO ANNOS IV; DEPOSITVS DIE III NONAS IVLII, POST CONSVLATVM DOMINI NOSTRI IVSTINI PERPETVI AVGVSTI ANNO VI, INDICTIONE IV. HIC REQVIESCIT IN PACE BONÆ MEMORIÆ CYPRIANVS, QVI VIXIT IN HOC SÆCVLO ANNOS P. M. XXXIII; DEPOSITVS SVB DIE VII KALENDAS OCTOBRIS, INDICTIONE V, POST CONSVLATVM DOMINI NOSTRI IVSTINI PERPETVI AVGVSTI ANNO VII. [65] In tal senso l'editto di Rotari si dice fatto col consenso _cuncti felicissimi exercitus nostri_. [66] _Homo qui habet septem casas massaricias, habeat loricam cum reliqua conciatura sua, debeat habere et caballos... Homines qui non habent casas massaricias, et habent quadraginta jugis terræ, habeant caballum, scutum et lanceam... Item de illis hominibus qui negotiantes sunt et pecuniam_ (non) _habent, qui sunt majores et potentes, habeant loricas, scutos, caballos et lanceas; et qui sunt sequientes, habeant caballos, scutum et lanceam; minores habeant coccoras cum sagittas et arcos._ Leggi di Astolfo, pubblicate dal Troya. [67] ROTARI, leg. 177; LIUTPRANDO, lib. III. leg. 4. Da _fahren_ generare, radice disusata di _Vorfahren_ progenitori; sicchè corrisponde a _gens_ de' Latini. Oggi in Albania _fara_ significa lo stesso. [68] Nelle leggi; ma Paolo Diacono, lib. I. c. 21, cita gli _Adalingi, sic enim apud eos quædam nobilis prosapia vocabatur_. Forse era sola la razza regia. [69] _Liberi, ingenui, ingenuiles_, più tardi _boni homines_. Ehre significa onore, ed heer esercito: onde arimanno è uom d'onore o d'arme. Il Troya fa osservare che la voce αριμανες trovasi in Appiano, _De bello mithr._ Ottone I, nel 967, dona a un monastero un borgo _cum liberis hominibus, qui vulgo herimanni dicuntur_ (Antiq. ital., I. 717). Enrico IV, nel 1074, _donamus insuper monasterio... liberos homines, quos vulgo arimannos vocant_ (Ivi, 739). Errano il Sismondi credendo gli arimanni contadini liberi, che oltre le proprie terre avessero enfiteusi dai grandi, e che soli coi nobili potessero intervenire al placito (cap. 2); e Giovanni Müller (_Allg. Geschichte_), credendo che l'arimanno fosse tra' Longobardi il capo militare di ciascuna borgata. _Omnes liberi, qui a dominis suis longobardis libertatem meruerunt, legibus dominorum suorum et benefactorum vivere debeant, secundum qualibet a suis dominis propriis concessum fuerit_. ROTARI, leg. 239. Qui _lex_ è chiaro che significa le condizioni «imposte dai padroni a ciascun emancipato». * Tutti questi punti furono dibattuti assai in Italia e fuori, massime dopo la pubblicazione dell'opera di Carlo Troya. Carlo Hegel (_Gesch. der italienischen Stadt e Freiheit_. Lipsia 1847) sostiene che sotto i Longobardi esisteva un diritto unico, indissolubile, e i liberi provinciali erano messi nella semilibertà degli Aldj, dalla quale non potevano passare alla libertà intera longobarda se non per una nuova manumissione. Il diritto romano per lungo tempo non fu riconosciuto pubblicamente; dapprima ottenne qualche legalità come diritto di corte, poi come diritto ecclesiastico, non però personale; infine come concessione a singoli stranieri, indi a città e territorj intieri. Suppone che siasi fatta fusione tra i Longobardi e i Romani, prestandosi reciprocamente gli elementi. _Nota del 1862_. [70] Il Muratori distingue duchi maggiori e minori, ma senza ragione. Paolo Diacono nomina i duchi di Ticino, Bergamo, Brescia, Trento, Forogiulio, Milano; _e oltre questi, altri_ trenta _ne furono nelle loro città_, II. 32. Sarebbero dunque trentasei, forse perchè fra' Longobardi, come fra altri popoli germanici, si usassero due decine diverse, l'una di dieci unità, l'altra di dodici; il che fa che molte volte un numero abbia a intendersi altrimenti da quel che suona. Vedi RUEHS, _Schwedische Geschichte_, vol. I. § 19. In tal caso potrebbe darsi che i duchi longobardi fossero dodici nella Neustria, ed altrettanti nell'Austria e nella Tuscia. Menzione storica abbiamo de' ducati d'Istria, del Friuli, Milano, Bergamo, Pavia, Brescia, Trento, Spoleto, Torino, Asti, Ivrea, San Giulio d'Orta, Verona, Vicenza, Treviso, Ceneda, Parma, Piacenza, Brescello, Reggio, Perugia, Lucca, Chiusi, Firenze, Soana, Populonia, Fermo, Rimini, Benevento. [71] _Epist._ VI _Stephani II_, ap. MANSI, _Concil._, tom. II. [72] Della reciproca garanzia rimase un vestigio negli statuti criminali di Milano, ove il cap. 162 è _Qualiter Comunia teneantur pro captis in terra sua_. Anche della costituzione per decine prolungossi la memoria; e fin nel 1500 la valle di Cadore era divisa in dieci _centi_, e ogni cento aveva un capitano, e armava duecento uomini: in caso di pericolo i capitani sceglievano un generale, e questo col _conte_, cioè il comandante veneziano, vegliava sulla valle. [73] DE PIETRO, _Memorie di Sulmona_, pag. 55, citato dal Leo. Il loro nome deriva da _gast-halter_. [74] Di questi re egli fa l'enumerazione nel prologo. Un bel codice ne sussiste nell'archivio della Cava, e un altro a Vercelli, con un prologo differente, ove più distintamente sono noverati i re antichi longobardi, e che si capisce esser la fonte de' primi libri di Paolo Diacono, il quale storpiò quei nomi per pedanteria e retorica. Le leggi longobarde furono pubblicate in due raccolte: la prima è storica, disponendosi coll'ordine onde furono emanate da Rotari sino a Corrado I imperatore; nell'altra, detta _Lombarda_, eseguita dopo Enrico I, sono scientificamente distribuite in tre libri, il primo di 37 titoli, il secondo di 59, il terzo di 40. La migliore e più decisiva recensione delle leggi longobarde, e di tutto ciò che concerne il loro dominio in Italia, è il discorso di Carlo Troya _sulla condizione dei Romani vinti dai Longobardi_; studio profondo e di lunghissimi anni, il quale suscitò (come avviene) un'infinità di articoli e opuscoli improvvisati. [75] ROT., 167-170, 158-160. [76] _Et ipse quartus ducat eum in quadrivium, et thingat in wadia, et gisiles ibi sint etc._ ROT., 225. — _Reddat in octogilt, et non sit fegangi_. 375. — _Si servus regis ob eros, vel vecorin, seu mernorphin fecerit_. 376. [77] LIUTPR., IV. 7. 8. 6. [78] In una formola del Codice veronese, alla legge 182 di Rotari, il conte si volge ai giudici, e domanda loro il punto legale: _Nunc dicite vos, judices, quid commendet lex_. [79] _Ad leg._ 53. _lib._ I LIUTPR. [80] _Ad. leg._ 7. _lib._ II LIUTPR. — Ecco altri esempj: _Petre, te appellat Martinus, quia tu consiliatus es de morte sua, aut occidisti patrem suum. De toto me appellasti. Si dixerit quod consiliatus esset cum rege aut occidisset per jussionem regis, aut approbet aut emendet, secundum quosdam. Secundum quosdam, aliter est: in anima jurare debet. Sed melius est, secundum alios, quod dicat — Non consiliatus sum, nec occidi, quod per legem emendare debeam pro usu._ _Petre, te appellat Martinus, qui est advocatus de parte publica, quod D. levavit sedicionem contra tuum comitem, et occidit suum caballum cum ipsa sedicione; et tu fuisti consentiens in ipso malo._ _Petre, te appellat Martinus, qui est advocatus de parte publica, quod homines de civitate Roma levaverunt sedicionem contra homines de civitate Cremona, vel contra comitem de Mediolano; et tu fuisti in capite cum illis._ _Petre, te appellat Martinus, quod homines de civitate Ravenna levaverunt adunaciones contra homines de civitate Roma; et tu fuisti consentiens in isto malo._ _Petre, te appellat Martinus, quod ipse tenebat cum rege; et tu spoliasti casam suam de tanto mobili, qui valebat solidos centum._ _Petre, te appellat Martinus, quod ipse sponsavit Aldam tuam filiam puellam; et tu dedisti eam alteri in conjugium ante duos annos. — Non sponsasti meam filiam: tunc ille qui appellat, probet. Si dixerit — Sponsasti tu meam filiam, sed non erat puella: tunc ille qui appellat, probet quod erat puella; et si non potuerit, juret ipse qui appellatus est, quia non erat puella_. [81] Leg. 230. 231. [82] Leg. 4. [83] LIUTPR., II. 25. [84] ROT., 32. [85] Id., 42. [86] ROT., 25. 26; LIUPTR., IV. 7. 10; VI. 27; RACHIS, 7. 8. [87] _Væ tibi terra, cujus rex puer est, et cujus principes mane comedunt._ Eccl., X. 16. [88] Leg. 364. [89] ROT., 179; e così 153. 165. 166. 364. 367. 369. [90] In mezzo al tempio degli Dei Palìci in Sicilia vaneggiavano due crateri stretti e profondi, pieni d'acqua solforosi che zampillava. Quand'uno era accusato di furto o d'altro, dava il suo giuramento scritto sopra una tavoletta, e questa gettavasi nell'acqua: se galleggiava, l'accusato era assolto; se no, era gettato nel cratere. Altre volte l'accusatore leggeva il contenuto nella tavoletta, e l'accusato, cinto di ghirlande e in tunica discinta, e agitando un ramo colla mano, lo ripetea parola per parola, toccando l'orlo dei cratere: se dicea vero, andavasene salvo; se no, periva inghiottito, o perdea la vista. DIODORO SIC., XI. 89; ARISTOTELE, _Mir. ausc._ 58. [91] _Variar._, III. 24. [92] ROT., 198. 203. 214. 231; LIUTPR., VI. 64; GRIMOALDO, 7. [93] _Leg. Othonis_, 1. 2. 5. 6. 7. 9. 11. 12. [94] ROT., 5. 11. 12. 14. 19. 141. 253. 284. 285; LIUTPR., VI. 81-85. [95] ROT., 33. 130. 131. 200-203. ecc. [96] Il soldo dei Longobardi non si sa se fosse d'oro o d'argento, reale o ideale: reale era il tremissis, terza parte del soldo. (_Cum die quodam Alachis super mensam numeraret, unus tremissis de eadem mensa cecidit: quem filius Aldonis, adhuc puerulus, de terra colligens, eidem Alachi reddidit_. PAOLO DIAC., lib. V. c. 39). Forse erano quelle rozze monete, con san Michele da una parte, e dall'altra il busto del re, che si trovano ne' musei, ma tanto logore da non potersene valutare il peso. Delle migliori nessuna eccede la metà d'uno zecchino. [97] ROT., 129. 136. [98] Id., 338. 339. Anche la _Lex aquilia_ de' Romani non mette divario tra ferire il servo o la bestia altrui. [99] ROT., 46. 47. 50. 51. 52. 67. [100] Id., 147. 317. [101] Id., 246. 247. [102] III. 26. [103] Ivi. [104] Id., IV. 2. [105] AULICO TICINESE, cap. XIV. [106] PAOLO DIAC., lib. I. c. 13. [107] _Atramento, pinna et pergamena manibus meis de terra elevavi, et Teutpaldi notarii ad scribendum tradidi, per vasone terre et fistuco nodato seo ramo arborum accepi... per coltello et wantone seo aldilaine, et sic per hanc cartula, justa legem saliga, vindo, dono, trado atque trasfundo etc._ Carta lucchese del 983. Arch. Guinigi. Ugo marchese nel 996, investendo del castello di Caresana e sue appartenenze il vescovo di Vercelli, dice: _Per presentem cartulam offersionis abendum confirmo pro animæ meæ mercede. Insuper per cultellum, fistucam, wantonem_ (_guanto_) _et vasonem terræ atque ramum arboris pars ipsius, episcopo facio tradicionem et vestituram, et me exinde foris expuli, guarpivi et absascito feci....._ Monumenta hist. patr.; Chart. I, pag. 306. [108] Rotari nella leg. 75 dispose che, se il donato fosse chiesto dal donatore a provare d'aver corrisposto il launechildo, giurasse averlo dato; se no, restituisse il _ferquido_, cioè l'equivalente. Liutprando, lib. VI, leg. 19, dichiarò insussistente la donazione senza il launechildo e la _tingazione_, eccettuati i doni a chiese o a luoghi pii come redenzione dell'anima. [109] LIUTPR., I. 1-5, II. 8, III. 3, VI. 48; ROT., 157-169. [110] ROT., 173. 168. 169. [111] VI. 6. [112] GRIM., II; LIUTPR., VI. 87; ROT., 186. 178. 179. 198; ASTOLFO, 3. 14. [113] _Nulli mulieri liberæ, sub regni nostri ditione lege Longobardorum viventi, liceat in suæ potestatis arbitrio, idest sine mundio vivere, nisi semper sub potestate viri, aut potestate curtis regiæ debeat permanere: nec aliquid de rebus mobilibus aut immobilibus, sine voluntate ipsius in cujus mundio fuerit, habeat potestatem donandi aut alienandi._ ROT., 205. [114] X. 2. [115] _Mundium non sit amplius quam solidi tres._ II. 3. Il Muratori confonde il mundio col mefio. [116] II. 1. — _Consentientes mihi suprascripto genitor meus, per hunc scriptum secundum legem in morincap dare videor tibi, Imilla dilecta et amabilis conjus mea... quartam portionem ex integra de omnia et ex omnibus casis et fundis... vel quod in antea Deo adjuvante legibus atquisiero, de omnia ex integra quartam portionem abeas tu jam nominata Imilla dilecta et amabilis conjus in morincap_, ecc. Carta lucchese del 986. Arch. arciv. [117] II. 6; VI. 59. 68. 76. 78. [118] _Si quis res alienas, idest servum et ancillam, seu alias res mobiles_... Leg. 232. E vedi LIUTPR., v. 36; ROT., i. 13. 222; RACHIS, 3. 277. [119] Quando al risorgente diritto romano prestavasi non culto ma idolatria, il celebre commentatore Andrea d'Isernia chiama il longobardo _jus asininum_; Lucca di Penna scrive _longobardicas leges fuisse factas a bestialibus, neque mereri appellari leges sed fæces_. Il Giannone sempre inginocchiato davanti ai regnanti, dice che «splenderà nelle gesta de' loro principi non meno la fortezza e la magnanimità, che la pietà, la giustizia, la temperanza; e le loro leggi e i loro costumi, sebbene non potranno paragonarsi con quelli degli antichi Romani, non dovranno però posporsi a quelli degli ultimi tempi dello scadimento dell'Imperio» (_Storia civ._, lib. III); ed ha un capitolo _sulla loro giustizia e saviezza_. Montesquieu magnifica le leggi longobarde sopra tutte le altre barbariche. Il Sismondi (_Repubbliche ital._, cap. 1) le chiama _saviissime_, e _abbastanza glorioso_ il regno dei Longobardi; eppure soggiunge che _le due nazioni rimasero divise da un implacabile odio_. Per raffaccio alle legislazioni del suo tempo, il Filangeri esaltò di troppo le processure barbariche: «Non è codice dei Barbari, che non regoli l'accusa giudiziaria meglio che le nazioni civili d'oggi. Nessuno niega al cittadino il diritto di accusare; e non pensò a combinar la libertà d'accusare colla difficoltà di calunniare. Nei Capitolari di Carlo Magno si stabilisce che il giudice non possa giudicare alcuno se manca un legittimo accusatore (_Cap. C. M. et Lod._, lib. V. c. 248; _Edict. Theod._, c. 20). L'Editto di Teodorico condanna del taglione il calunniatore (_Edict._, c. 13; _Cap. C. M._, lib. VI. c. 329; lib. VII. c. 180). Teodorico interdisse l'accusa secreta (c. 50). Nei Capitolari di Carlo Magno, che non giudichi il giudice in assenza di una parte (lib. vii. c. 145. 168). Escludeano i Longobardi chi avesse dato prova di mala fede (_Cod. Long._, lib. XI. tit. 51 _de testib._ § 8), o quello che per la condizione e pei delitti avesse perduta la confidenza della legge (_Cap. C. M._, lib. I. c. 45; lib. VI. c. 144 e 298). I testimonj deponeano in presenza dell'accusato: lui presente, il giudice gl'interrogava, e potea interromperli di rispondere. Queste buone costituzioni ponno far vergognare l'Europa d'oggi, che avvolge i processi nel mistero». _Scienza della legisl._, lib. III. c. 2. 3. Nella più recente _Storia d'Italia_, a pag. 351 del vol. I, è detto che «le leggi longobardiche erano ottime tra le leggi barbariche»; a pag. 324, «è indubitato le leggi longobardiche esser le più eque e le meno imperfette di tutte le leggi barbariche»; e a pag. 337, «l'Editto di Rotari è una compilazione disordinata di cadarfrede o consuetudini antiche». [120] Nel Libro VIII vedremo le consuetudini longobarde sopravivere e trasfondersi negli statuti dei Comuni. La costituzione di Federico II, lib. II. tit. 17, abolì la personalità delle leggi nella Sicilia, il che mostra vi sussistette sino al secolo XIII. Il Lupi, _Codex diplom. bergom._, 231, adduce uno statuto bergamasco del 1451, ove si nomina un _liber juris Longobardorum_, e si ordina che _ipsum jus vacet in totum, et servetur jus commune_: il che vuol dire che fin allora durava qualche diritto alla longobarda. Nel regno di Napoli, a detta del Giannone, lib. XXVIII. cap. 5, le leggi longobarde cessarono al tempo di Ferdinando I, uscente il XV secolo, ma ne sopravvissero alcune consuetudini, e fin ai suoi tempi nell'Abruzzo i feudi regolavansi secondo quelle; v'erano ancora beni gentilizj: negli istromenti ove intervenissero donne, si faceva assistere il mundualdo; metteasi la clausula _jure romano_, per indicare che i contraenti non viveano secondo la longobarda; duravano le voci di _mefio, catamefio, vergini in capillo_, e altre assai. Prospero Rendella nel 1609 stampò a Napoli _In reliquias juris longobardi_. [121] Sebbene s'ignori donde il bolognese Giulio Cesare della Croce tolse quella leggenda, tutto ne palesa l'origine tedesca, la corte d'Alboino, sebbene tramutata in Italia, i nomi stessi di Berthold, Marculf, ecc. La _Contradictio Salomonis_, uno de' primissimi romanzi, presenta una disputa di Guglielmo Conquistatore col villano Marculfo, e forse deriva dalla sorgente stessa da cui le avventure del Bertoldo, che trovansi in ogni lingua, e che i Tedeschi dicono derivate dall'Asia, come la più parte delle nostre fiabe e nonnaje. [122] PAOLO DIAC., lib. VI. c. 7. 8. [123] Pare indicarlo il suo epitafio ap. MABILLON, app. al vol. II. _Ann. Ord. s. Bened._, nº 35: _Divino instinctu, regalis protinus aula_ _Ob decus et lumen patriæ te sumsit alendum._ _Omnia Sophiæ cepisti culmina sacræ,_ _Rege movente pio Ratchis, penetrare decenter._ [124] PAOLO DIACONO, lib. VI. c. 35; VASARI, _Proemio alle vite dei pittori_. I Romani di quel tempo radevano od almeno accorciavano la barba, e tondevansi altrimenti che i Longobardi; poichè è scritto che, regnante Desiderio, i Longobardi di Rieti e Spoleto vennero ad arrendersi a papa Adriano I, il quale ricevendone il giuramento, fe loro tagliar le barbe e i capelli alla romana. L'aver capelli pare fosse distintivo de' Longobardi, giacchè la loro legge per certe colpe condanna a perderli. È vulgata l'etimologia di _tosa_ che i Lombardi dicono per zitella, da _intonsa_, tratto dal costume di non accorciare i capelli alle fanciulle. Convien però avvertire che tal voce si trova anche nei paesi non dominati da' Longobardi; giacchè il provenzale Pier da Villare cantava: _Per Melchior e per Gaspar_ _Fo adoratz l'altissim Tos._ [125] ROT., 179. [126] Neppure agli antichi Romani era insolito l'occupare un terzo o due delle terre dei vinti. _Cum Hernicis fœdus ictum, agri partes duæ ademptæ_: TITO LIVIO, XI. _Truinates tertia parte agri damnati_. Ivi, X. Questo terzo sembra lo togliessero i Germani da ciascun possidente: i Romani par più probabile s'impadronissero d'un terzo del territorio vinto. [127] PAOLO DIAC., lib. II. c. 4. Procopio, negli _Aneddoti_, dice che in Africa perirono tre milioni e a proporzione nell'Italia, tre volte tanto estesa: ma esagera al solito, per mostrare infelicissimo il regno di Giustiniano. La peste infierì nel 566, massime nella Liguria e a Roma, talchè non si trovava chi mietesse nè vendemmiasse. Nel 571 perì infinito bestiame; e molte persone di vajuolo e dissenteria. Paolo Diacono ricorda quasi ad ogni anno morbi, cavallette, nembi, siccità, ecc. Sotto re Autari un diluvio afflisse l'Italia; il Tevere, venuto a sterminata altezza, recò indicibili guasti; desolate rimasero la Venezia e la Liguria; e Gregorio Magno riferisce che le acque dell'Adige a Verona giungevano alle finestre superiori della basilica di San Zenone, _senza entrar per le porte_. Esso Gregorio in una grave peste ordinò sette processioni di cherici, cittadini, monaci, monache, maritati, vedove, ragazzi: e per via in un'ora ne caddero morti ottanta. [128] Lib. I. c. 16. [129] _Iis qui vi oppressos imperio coercent, est sane adhibenda sævitia, ut heris in famulos_. De officiis, lib. II. c. 7. [130] _Populi aggravati per longobardos hospites partiuntur_; lib. II. c. 32. Il codice della biblioteca Ambrosiana legge _pro Longobardis hospicia partiuntur_. E nell'un caso e nell'altro v'è ambiguità di senso; e forse la vera lezione è _multa patiuntur._ Sopra un testo sì incerto, quanti libri e libercoli si sono fatti in questi anni! [131] Paolo stesso, lib. IV. c. 6, dice che _pæne omnes ecclesiarum substantias Longobardi, dum adhuc gentilitatis errore tenerentur, invaserunt._ [132] Varie sue lettere sono dirette al _populus et ordo_ di città longobarde. Costanzio vescovo di Milano parla d'un tal Fortunato, di cui aveva udito _per annos plurimos inter nobiles consedisse et conscripsisse_. Epist. IV. 29. [133] Tant'è ciò vero, che essa l'adopera anche coi Turingi, i quali mai non avevano avuto municipio. [134] Sarebbero i _fundora exfundata_, di cui parla il patto d'Arigiso duca di Benevento. [135] Lo accenno dietro alle induzioni di Enrico Leo; ma non mi pajono abbastanza appoggiate. [136] Qualche vestigio può vedersene ancora dove sussiste il fôro ecclesiastico; sicchè a fianco della legge locale ne dura una personale. Anche gli Ebrei sin a' giorni nostri furono trattati con leggi personali, conservando il levirato e il divorzio anche dove è abolito, essendo esclusi da certe professioni, sottoposti a certe tutele particolarizzate. Nella repubblica di Genova fino agli ultimi tempi i cherici vivevano secondo il diritto comune, ma non potevano profittare degli statuti, non entravano ad impiego pubblico, non tutori, nè esecutori testamentarj, nè testimonj ai testamenti. Le donne restavano in tutela perpetua; nè potevano contrattare o star in giudizio senza il consenso di due parenti, oltre il marito se maritate; non erano di diritto tutrici de' figli; escluse dalla successione intestata in concorso con maschi. Si notino queste vestigia di diritto barbarico. [137] _Noluerunt Longobardorum imperiis subjacere; neque eis a Longobardis permissum est in proprio jure subsistere; ideoque æstimantur ad suam patriam repedasse_. PAOLO DIAC., lib. III. c. 6. [138] Ciò renderebbe ragione della legge di Desiderio e Adelchi, che risulta da una carta del monastero di santa Giulia a Brescia, ove si provvede al caso che un servo del palazzo sposi un'_ingenua_ romana, la quale cade pur essa in ischiavitù. [139] _Qui professus sum natione mea vivere lege salica o longobarda._ La prima professione di vivere a legge romana trovasi in un atto di Lucca dell'807 ap. BARSOCCHINI, II. 206: la seconda in uno di Bergamo del 900, ap. LUPO, _Cod. Bergom._, I. 1083. Così scarsi erano gli avanzi romani! [140] Giuseppe Rovelli, in cui il buon senso ripara la mancante erudizione, avverte cosa sfuggita a contemporanei suoi, forse di maggior levatura. «La congiunzione del civile col militare comando in tutte le prefetture maggiori e minori, partorì questa perniciosa conseguenza per gli Italiani sudditi del regno longobardico, che gli allontanò da tutte le cariche e da tutti gli onori, e conseguentemente tolse loro i mezzi di conservar l'antica o di sollevarsi a nuova dignità o ricchezza». _Dissert. prelim, alla storia di Como_, vol. I. pag. 143. Queste _prefetture maggiori e minori_ è un errore ch'egli bevve dal Muratori. Anche a lui _par verosimile_ che «i Longobardi a preferenza delle altre occupassero le terre rimaste incolte o deserte». Strana verosimiglianza! [141] Così opina anche il Lupo, che pure fu il primo a discorrere assennatamente intorno alle _professiones_. — LIUTPR., VI. 37. de Scribis: _Perspeximus, ut qui chartam scripserint sive ad legem Longobardorum, sive ad legem Romanorum, non aliter faciant, nisi quomodo in illis legibus continetur... Et si unusquisque de lege sua descendere voluerit, et pactiones atque conventiones inter se fecerint, et ambæ partes consenserint, istud non reputatur contra legem, quod ambæ partes voluntarie faciunt. Et illi qui tales chartas scripserint, culpabiles non inveniuntur esse._ [142] EGINARDO, _De gestis Ludov. Pii ad_ 824. ap. BOUQUET, tom. VI. p. 184. Sopra quella costituzione si appoggia a Savigny, c. III. § 45; ma in contraddizione vedasi Troya, _Della condizione dei Romani vinti da' Longobardi_. È difficile accumulare cotante inesattezze quante nel seguente periodo: «Bel privilegio avevano le nazioni settentrionali conservato ai cittadini, la libera scelta di sottomettersi alle leggi dei loro maggiori, oppure a quelle che trovassero più conformi alle proprie nozioni di giustizia e di libertà. Presso i Longobardi trovavansi in vigore sei corpi di leggi, romana, longobarda, salica, ripuaria, alemanna, e bavara; e le parti, al cominciar del processo, dichiaravano ai giudici che viveano e volevano esser giudicati secondo la tale e tal altra legge». SISMONDI, _Rep. ital._, c. II. [143] Leone IV pregava l'imperatore Lotario I a non alterare la legge romana: _Vestram flagitamus clementiam, ut, sicut hactenus romana lex viguit absque universis procellis, et pro nullius persona hominis reminiscitur esse corrupta, ita nunc suum robur propriumque vigorem obtineat._ Nel _Decr._ GRATIANI, dist. X. c. 13. [144] Rotari pone per pena denari venti a chi fornicasse con un'ancella _gentile_, e dodici con una romana: ma può intendersi delle molte ch'erano state condotte schiave dopo la conquista di Genova e d'altre terre romane. [145] _Lege romana, qua Ecclesia vivit_; Leg. rip., t. LVIII, 1. — _Ut omnis ordo ecclesiarum lege romana vivat_; Leg. long, di Ludovico il Pio, art. 55. — Eccard, commentando quell'articolo della Legge ripuaria, adduce una carta, ove due preti, di nazione longobardi, vivono secondo la legge romana _per decoro sacerdotale_: _Qui professi sumus ex natione nostra vivere legem Longobardorum, sed mine, pro honore sacerdotii nostri, videmur vivere legem Romanorum._ Ma talvolta gli ecclesiastici viveano in Italia con legge longobarda. In FUMAGALLI, _Codice diplomatico Sant'Ambrosiano_, nº 124, p. 502, Teutperto arciprete di San Giuliano, nell'885, professa la legge longobarda. LUPO, _Cod. Bergom._, p. 225, dice che nel X e XI secolo tal consuetudine era quasi generale nel Bergamasco. Il monastero di Farfa non uniformavasi a legge romana; MABILLON, _Ann. Ord. s. Bened._, tom. IV, p. 129. 705. E forse meglio cercando si troverà che, sotto i Longobardi, neppur a' cherici era dato deviare dalla legge de' vincitori; privilegio che ottennero soltanto dopo la conquista dei Franchi. In ciò regna grande oscurità, anche dopo le eruditissime discussioni, e a noi accadrà d'addurne altri esempj. [146] _Edict. Theodor._, 27. [147] CASSIODORO, _Epist._ 14. lib. IX. [148] Nuova notizia, che esce dal LXI dei _Papiri_ del MARINI, e si riferisce all'anno 629. [149] _Ut nullus homo debeat negotium peragendum ambulare, aut pro quadecumque causa, sine epistola regis aut sine voluntate judicis sui._ ASTOL., V. [150] ROT., 144. 145. Vedi TROYA, _Della condizione dei Romani_, § 167. [151] Vedi la III e IV delle nuove leggi trovate dal Troya. [152] _Clerus et plebs mediolanensis Deusdedit diaconum eligentes, ab Agilulfo rege terrentur quatenus ilium eligerent, quem Longobardorum barbaries voluisset._ GIO. DIACONO, Vita s. Gregorii Magni. [153] Di Costanzio di Milano scrive Gregorio Magno: _Quam fuerit vigilans in tuitione civitatis vestræ, non habemm incognitum._ [154] _Epist._ I. 17. [155] _Epist._ III. 26. 29. 30; IV. 1. Il Muratori, narrando che gli arcivescovi di Milano sedettero in Genova da Alboino fin a Rotari, conchiude: «Dal che si può argomentare la moderazione dei re longobardi, che padroni della nobilissima città di Milano, si contentavano che quegli arcivescovi avessero la loro permanenza in Genova, città nemica, perchè ubbidiente all'imperatore». _Annali_, an. 641. Tanto varrebbe l'argomentare la moderazione del granturco o del sofì di Persia, dal trovarsi fra noi i vescovi di Corinto e d'Edessa. In tal modo egli ragiona troppo spesso intorno ai Longobardi, dei quali parla con frasi ammirative, per es queste al 674: «Nulla ci somministra di nuovo in questi tempi la storia d'Italia; ma il suo stesso silenzio ci fa intendere la mirabile quiete e felicità che godevano allora sotto il pacifico governo del buon re Pertarito i popoli italiani». Quando però sostiene che i Longobardi non governavano peggio dei Greci, non ha affatto torto. Mache dire di certi, massimamente tedeschi, encomiatori enfatici de' Longobardi; e per es. del Leo, che li chiama angeli liberatori (_befreyende Engel_)? Pochi momenti storici furono descritti per luoghi comuni tanto quanto l'età longobarda. «Erano stati i Longobardi dugento ventidue anni in Italia, e di già non ritenevano di forestieri altro che il nome» MACHIAVELLI, _Ist. fior._, lib. I. — «Assuefatta l'Italia alla dominazione dei suoi re, non più come stranieri li riconobbe, ma come principi suoi naturali, perchè essi non aveano altri regni o Stati collocati altrove, ma loro proprio paese era fatta l'Italia, la quale perciò non poteva dirsi serva e dominata da straniere genti». GIANNONE, _St. civ._, lib. V. § 4. — «Tolta la diversità di trattamento, e divenuti Romani e Longobardi un popolo solo, la stessa misura di tributi fu imposta ad ognuno». MURATORI, _Ant. ital._, XXI. — «Felice esser dovea anzi che no la condizione de' cittadini sì longobardi che italiani, i quali con loro formavano uno stesso corpo civile ed una stessa repubblica». _Antichità longobardiche milanesi_, I. — E un moderno: «Il dire che i Longobardi alla fine del secolo VIII non fossero italiani ma stranieri, è cosa tanto scempia che quasi, anzi certamente, non merita risposta». _Storia d'Italia dal V al IX secolo_, p. 341. Certo quel generoso applaudì quando i Greci insorsero contro i Turchi, stranieri che da tre secoli e mezzo accampavano in mezzo a loro. [156] _Si romanus homo mulierem longobardam tulerit, et mundium ex ea fecerit... romana effecta est; filii qui de eo matrimonio nascuntur, secundum legem patris, romani sint._ LIUTPR., 74. [157] _Longobardi, ut bellatorum possint ampliare numerum, plures a servili jugo ereptos ad libertatis statum perducunt; utque rata eorum possit haberi libertas, sanciunt more solito per sagittam, immutantes nihilominus, ob rei firmitatem, quædam patria verba._ PAOLO DIAC., lib. I. c. 13. [158] _Omnes liberi, qui a dominis suis longobardis libertatem meruerunt, legibus dominorum suorum et benefactorum vivere debeant, secundum quaslibet a suis dominis propriis concessum fuerit._ ROT., 239. Qui _lex_ è chiaro che significa «le condizioni imposte dai padroni a ciascun emancipato». Sulle leggi longobarde sono a vedere: ALEX. FLEGER, _Das Königreich der Longob. in Italien_. Lipsia, 1851. G. MERKEL, _Die Gesch. des Langobarden Rechts_. Berlino 1850. AXSCHUETZ, _Lombarda commentare_. Heidelberg 1855. WILIN, _Das Strafgerecht der Germanen_. Alla 1842. ZOEPFL, _Deutsche Rechtsgeschichte_. Stuttegard 1858. OTTO STOBBE, _Gesch. der deutschen Rechtsquellen_, 1860. SCHUPFER da Chioggia, _Delle istituzioni politiche longobarde_. Firenze 1863. EDWARD OSENBRUGGEN, _Das langob. Strafgericht_. Sciaffusa 1863. [159] BOLLANDISTI, _ad_ 11 _aprilis_. [160] Come s'intendessero divisi i beni ecclesiastici è detto nella vita di s. Barbato vescovo di Benevento, il quale chiese molte rendite dal duca Romualdo alla sua chiesa: _Impetratis omnibus ut poposcerat, vir sanctus non est oblitus mandatorum Dei: in quatuor partes cunctum Ecclesiæ redditum omni tempore sanxit fideliter dispartiri; unam egentibus; secundam his qui Domino sedulas in ecclesiis exhibent laudes; tertiam pro ecclesiarum restauratione distribui; juxta quartam suis peragendis utilitatibus episcopus habeat; et hactenus sicut ab eo disposita sunt, in præsenti cuncta videntur_. Ap. UGHELLI, De ep. Benev. [161] _In obitu Satyri oratio_, num. 38. Celestino papa, _epist._ 2, attesta che neppur i vescovi aveano abito particolare. _Religio divina alterum habitum habet in ministerio, alterum in usu vitaque communi_. S. GIROL., in _Ezech._, c. 44. Landolfo Seniore (_Hist. mediol._, lib. II. 35), parlando dell'arcivescovo Eriberto, dice che sotto lui nessuno osava entrare in coro senza la toga bianca (il camice?), nè senza aver coperto la testa col cappuccio del birro, cioè della sopravveste che allora gli ecclesiastici usavano di color rosso; e nessun cherico osava assumere le foggie laicali o nel birro o nelle vesti o nella calzatura. Il Giulini all'anno 1203 reca il testamento d'un prete, che lega a diversi i suoi abiti, fra i quali nessuno è nero, eccetto il cappello. Nel 1211 fu da un sinodo milanese vietato ai cherici il mostrarsi in pubblico senza la cappa o il camice, od altra veste rotonda e chiusa; vietate le scarpe allacciate, le maniche, le mosche (ornamenti cascanti dal collo sul petto), le guarnizioni sulle vesti, e le cappe colle maniche; chi era insignito degli ordini portasse vesti rotonde non sparate, non gialle o verdi (e quelle d'altro colore?), nè pelli di vajo. Dallo stesso passo ricaviamo come i cherici ricevessero la tonsura a quella chiesa od altare di cui avevano il titolo. Ivi pure son proibite ai frati le tavole, i dadi, le zare, le caccie, i cani, i traffici, l'usura, l'aver compari e comari, l'andare ai bagni, il portar berretti od altro in capo, fuorchè le cocolle. Un concilio provinciale del secolo seguente interdice gli abiti vergati o listati, con nastri e bottoni d'argento o metallo, nè cappucci da laici. Il sinodo diocesano milanese del 1250 vuole che i prelati tutti sopra la guarnaccia portino un vestimento chiuso, e non cappe con maniche quando sieno fuori della scuola, non freni o selle o sproni od altra cosa dorata, argentata, azzurrata, nè clamidi secolaresche con pellicce, nè tabarri, sieno sparati o chiusi, fuorchè nel caso di dover cavalcare; del resto, non abbiano panni verdi, nè maniche rosse, non scarpe cucite, nè collari abbottonati, sibbene cappe nere od altrimenti decenti. GIULINI, _ad annum_. [162] Milano, Verona, Aquileja pretendono aver posseduto monasteri, prima che s. Atanasio gl'introducesse a Roma nel 390. In Milano li trovava s. Agostino (_Confess._, IV. 6); e Martino di Tours era abitato alcun tempo in uno di questi. Sulpizio Severo (_Vita s. Martini_, IV) scrive che esso _Mediolani sibi monasterium statuit_. E Paolino da Périgord nella Vita dello stesso: ... _Constructa statuit requiescere cella_ _Heic ubi gaudentem nemoris vel palmitis umbris_ _Italiam pingit pulcherrima Mediolanus._ [163] La regola di s. Benedetto è in settantatre capitoli, di cui nove sui doveri morali e generali, tredici sui doveri religiosi, ventinove sulla disciplina, i falli, le pene, ecc., dieci sull'amministrazione interna, dodici su varj soggetti, come i viaggi, l'ospitalità, ecc.; cioè nove capitoli di codice morale, tredici di codice religioso, ventinove di penale, dieci di politico. Carlo Magno, scrivendo a Paolo Diacono ricoverato a Montecassino, non rifina di lodarne l'ospitalità e le virtù: _Hic olus hospitibus, piscis hic, panis abundans..._ _Pax pia, mens humilis, pulchra et concordia fratrum._ [164] Lib. XXVII, cap. 3. [165] Il primo papa, s. Pietro, fu eletto da Cristo. Dal secondo, s. Lino, fino a s. Semplicio nel 467, dal clero e popolo. Da s. Felice III nel 483, fino a s. Nicola I nel 858, dai re conquistatori. Da Adriano II nell'867, fino ad Agapito II nel 946, dal clero e dal popolo. Da Giovanni XII nel 956, fino a Silvestro antipapa nel 1102, dai tiranni d'Italia e dagli imperatori. Poi ancora dal popolo e clero, da Gelasio II nel 1118, fino a Vittore antipapa nel 1138. Indi dai cardinali, da Celestino II nel 1143, fino a Gregorio X nel 1271. Poi dal conclave, da Innocenzo V nel 1276, fin qui. Il Platina racconta che Sergio II fu il primo a cangiar nome, deponendo l'indecoroso di Osporci: ma Anastasio Bibliotecario dice che esso papa chiamavasi Sergio anche prima di salire alla cattedra di Pietro. V'ha chi attribuisce quest'introduzione ad Adriano III, che prima nomavasi Agapeto; o a Giovanni XII, che prima era chiamato Ottaviano, e che con ciò volle onorare lo zio Giovanni XI: o a Sergio IV, che per rispetto depose il primitivo nome di Pietro. Tale cambiamento non è d'obbligo, e anche nel secolo xvi Adriano VI e Marcello II ritennero il nome di battesimo. Damaso fu il primo a darsi il titolo di _servo dei servi di Dio_, adottato poi da Gregorio Magno e dai successori. Benedetto III prese il titolo di _vicario di s. Pietro_; cui dopo il secolo XIII fu sostituito quello di _vicario di Gesù Cristo_. [166] La diocesi di Como aderì lungamente allo scisma d'Aquileja, e preziosa è in tal fatto la iscrizione funeraria del vescovo Agrippino, morto verso il 600, e che ora conservasi nella plebana di Isola sul lago di Como. [167] LABBE, _Concil._, tom. V. p. 959; ed _Epist._ del 4 ottobre 584, ap. GIO. DIACONO, I. 31. [168] Un canone del II concilio di Vaison, dell'anno 529, riferito dal padre Thomasin (_Disciplina de beneficiis_, par. II, c. 88. n. 10), rende all'Italia quest'autorevole testimonianza: _Omnes presbyteri qui sunt in parochiis constituti, secundum consuetudinem, quam per totam Italiam satis salubriter teneri cognovimus, juniores lectores secum in domo retineant, et eos quomodo boni patres spiritualiter nutrientes, psalmos parare, divinis lectionibus insistere, et in lege Domini erudire contendant, ut sibi dignos successores provideant_. [169] _Epist._ II. 35. [170] _Hoc in loco, quisquis pastor dicitur, curis exterioribus graviter occupatur, ita ut sæpe incertum sit utrum pastoris officium, an terreni proceris agat. Epist._ I. 25. [171] Lib. II. epist. 11 e 31: — _Quia comperimus multos se murorum vigiliis excusare, sit fraternitas vestra sollicita ut nullum usque, per nostrum vel Ecclesiæ nomem, aut quolibet alio modo, defendi vigiliis patiatur, sed omnes generaliter compellantur_. Epist. I. 42. [172] _Epist._ X. 51; xi. 51. [173] «Conoscendo io quanto la serenissima nostra Signora prenda pensiero della patria celeste e della vita dell'anima sua, mi terrei gravemente colpevole se tacessi quanto convien suggerire per timore dell'onnipotente Iddio. Avendo io saputo essere nell'isola di Sardegna molti Gentili, che tuttavia, secondo loro mala usanza, sagrificano agli idoli, e i sacerdoti di quell'isola andar lenti nel predicare il Redentore, vi mandai un vescovo italiano, che, ajutante Iddio, trasse alla fede molti Gentili. Ma egli mi ha annunziata cosa sacrilega; che costoro i quali sagrificano agli idoli, ne pagano al giudice la licenza; ed essendo alcuni stati battezzati e avendo lasciato quei sacrifizj, tuttavia il giudice dell'isola anche dopo il battesimo esige quella paga. Avendolo il vescovo ripreso di ciò, rispose egli di aver promesso tanto nel comprar l'impiego, che non potrebbe rifarsi se non a quel modo. La Corsica poi è oppressa di tanta soperchieria d'esattori e tanta gravezza d'esazioni, che gli abitanti vi possono a mala pena supplire vendendo i proprj figliuoli; onde, lasciando la pia repubblica, sono forzati rifuggire alla nefandissima gente dei Longobardi. E qual cosa più grave e più crudele potrebbero patire dai Barbari, che l'esser ridotti a vendere i proprj figli? In Sicilia narrasi di un tal Stefano, cartulario delle parti marittime, che coll'invadere ogni luogo, e con porre, senza pronunziar giudizio, i cartelli a' poderi e alle case, arreca tanti danni ed oppressioni, che a dirle tutte non basterebbe un gran volume. Veda la serenissima nostra Donna queste cose, e sollevi i gemiti degli oppressi. Suggeritele a suo tempo al piissimo Signore, affinchè dall'anima sua, dall'imperio e da' suoi figliuoli rimova tanto gravame di peccato. Ben so ch'ei dirà forse mandarsi a noi per le spese d'Italia quanto si raccoglie dalle suddette isole: ma dico io, conceda meno per le spese d'Italia, e tolga dal suo imperio le lacrime degli oppressi. E forse di tante spese fatte per questa terra vien minore il profitto perchè con mescolanza di peccato. Meglio non provvedere alla vita nostra temporale, che procacciare impedimento alla nostra eterna. A me basti l'aver questo brevemente suggerito; affinchè, se rimanesse la vostra pietà ignorante di quanto succede in questi paesi, non fossi io poi del mio silenzio dinanzi al severo giudice incolpato e punito». [174] Dal poco che sappiamo, sembra in antico vi fosse grande mescolanza ed arbitrio nel canto ecclesiastico. La semplicità nascea necessariamente dalla scarsezza di mezzi; ma alcuni teneano all'ebraico, altri all'jonico, altri a un misto. Sant'Ambrogio volle riformarlo, partendo dalla melopea greca. Il sistema musicale dei Greci era diviso in tetracordi, e nei modi che ne derivano. Ambrogio, visto che molte melodie sacre erano, se non melodie greche trasportate, almeno motivi composti sopra i modi musicali di quel popolo, e che non passavano i limiti di un'ottava, pensò al sistema tetracordo dei Greci sostituire il più semplice e facile dell'ottava, derivando dai Greci i quattro modi primordiali che divennero base del canto ecclesiastico. Stabilì dunque questi modi: dorico _re, mi, fa, sol, la, si, do, re_ frigio _mi, fa, sol, la, si, do, re, mi_ lidio _fa, sol, la, si, do, re, mi, fa_ misolidio _sol, la, si, do, re, mi, fa, sol._ Così ne venne un canto ritmico scanduto, più consono colla musica greca che non il canto gregoriano, il quale procede generalmente per note di valore eguale, riuscendo più monotono e senza cadenze. Ma quali note servissero al canto gregoriano non consta, se non che menzionano lettere dell'alfabeto, chiavi, linee in su e in giù. [175] Gl'inni di s. Gregorio sono: _Primo dierum omnium; Nocte surgentes vigilemus omnes; Ecce jam noctis tenuantur umbræ; Clarum decus jejunii: Audi, benigne Conditor; Magno salutis gaudio; Rex Christe factor omnium; Jam Christus astra ascenderat_. [176] _Ad Leandrum, in comm. libri Job._ * Ma nella epistola sinodica raccomanda ai preti d'erudirsi, di avvezzarsi alla urbanità col frequentare i secolari. _Ducitur sacerdos ad vetustatem vitæ per societatem secuìarium: cumque indubitanter constet quod externis occupationum tumultibus impulsus, a semetipso corruat, studere incessabiliter debet ut, per eruditionis studium, resurgat. Hinc est quod prælatum gregi discipulum Paulus admonet dicens_: Dum venio attende lectioni. Part. 11 e 13. [177] Il nome di _Esarcato_ ha doppio senso: nel più esteso, abbraccia tutte le provincie d'Italia sottomesse all'Impero, e nominatamente la Venezia, parte della costa Ligure, l'Emilia, la Flaminia, il Piceno e il ducato di Roma: in senso stretto, indica la parte orientale dell'Emilia e la Flaminia, cioè la Romagna d'oggi; e si distingue dalla Pentapoli, e dal ducato di Roma, che chiudea parte dell'Etruria, colla Sabina, la Campania e parte dell'Umbria. [178] AGNELLI, _Vitæ episc. Ravenn._, rer. ital. Script., II. Fin ai dì nostri la battaglia delle sassate si continuò a Roma fra Montesi e Transteverini, con morti e ferite; e Pio VI fece indarno ogn'opera per disradicarla. [179] AGNELLI, _Vita Felicis_, l. cit. [180] Così Paolo Diacono, e molti dietro lui: ma l'Oldoino, nelle note al Ciacconio, tom. I, p. 422 dell'edizione del 1677, reca un passo ben diverso del canonico romano nella descrizione della Basilica vaticana: _Sabinianus papa, sub cujus tempore fuit famis gravis, perfecta pace cum gente Langobardorum, jussit aperiri horrea ecclesiæ, et venundari frumentum populo per unum solidum triginta modios tritici; misericordiæ enim visceribus, ultra quam dici possit affluebat, et quantum in se nullum a beneficio misericordiæ excludebat_. Anche l'incolpazione d'aver voluto distruggere i libri del predecessore, attribuita dagli antichi a _invidiosi_, e dal Mabillon a Sabiniano, non è ben provata. [181] ANASTASIO BIBL., in _Vita Severini_. [182] Negli atti del VI concilio ecumenico (ap. LABBE, _Concil._, tomo VI) leggesi una lettera dell'arcivescovo Mansueto di Milano all'imperatore Costantino II, a nome del sinodo provinciale: _Quæ in hac magna regia urbe convenit, sub felicissimis et christianissimis et a Deo custodiendis principibus nostris dominis Pertharit et Cunibert, præcellentissimis regibus, christianæ religionis amatoribus_. 679. [183] Tutto ciò da Paolo Diacono, il quale soggiunge che, tra i rapiti, furono pure i cinque figli di Leofi, venuto coi primi Longobardi in Italia. Un d'essi riuscì, dopo molti anni di servitù, a fuggire in Italia; e sebbene nulla recuperasse de' beni paterni, ajutato da parenti e amici pose casa, e generò un Arigiso, e questi Warnefrido, da cui nacque esso Paolo storico. [184] _Gregorio II nel 726 scriveva: Mezentius ab episcopis Siciliæ certior factus hæreticum cum esse, ipsum...... trucidavit_. Ap. DE GIOVANNI, _Cod. Diplom. Sicil._, tom. I. n. 272. [185] Vuole Paolo Diacono che questo nome le venisse da un tal uso dei Longobardi, che qualvolta uno morisse in lontana contrada, i suoi rizzavano delle pertiche con una colomba in vetta, rivolta alla parte dove l'estinto avea chiuso i giorni. [186] Epitafio di Ansprando: _Ansprandus, honestus moribus, prudentia pollens,_ _Sapiens, modestus, patiens, sermone facundus,_ _Adstantes qui dulcia, flavi mellis ad instar,_ _Singulis promebat de pectore verba._ _Cujus ad æthereum spiritus dum pergeret axem,_ _Post quinos undecies vitæ suæ circiter annos_ _Apicem reliquit regni præstantissimo nato_ _Lyuthprando inclyto et gubernacula gentes_ _D. P. die iduum junii indictione X._ [187] _Respiciens ergo pius vir_ (il papa) _profanam principis jussionem, jam contra imperatorem quasi contra hostem se armavit_, RENUENS HÆRESIAM EJUS, _scribens ubique_ SE CAVERE _Christianos eo quod orta fuisset impietas talis. Igitur permoti omnes Pentapolenses atque Venetiarum exercitus, contra imperatoris jussionem restiterunt, dicentes se nunquam in ejusdem pontificis condescendere necem, sed pro ejus magis defensione viriliter decertare_. Liber pontif. [188] _Cognita imperatoris nequitia, omnis Italia consilium iniit, ut sibi eligerent imperatorem et Constantinopolim ducerent; sed compescuit tale consilium pontifex, sperans conversionem principis_. ANASTASIO BIBL.,_ Vita Gregorii II_. [189] I Pavesi credono che allora Liutprando portasse da Ravenna alla loro città la statua di bronzo rappresentante Antonino Pio o Marc'Aurelio a cavallo, che chiamavano il Regisole. Nel 1527 assalendo i Francesi Pavia, primo a montar sul castello fu un Ravennate, il quale in compenso domandò si restituisse a Ravenna il Regisole: quando si volle darvi effetto, i Pavesi se ne desolarono più che al sacco della città, tanto che il generale Lautrec ottenne che il Ravennate desistesse dalla domanda, ricevendo invece tant'oro quanto bastasse per fare una corona. Fu fatto a pezzi dai Giacobini nel 1796. [190] _Deo teste, papa urbis Romæ in omni mundo caput ecclesiarum Dei et sacerdotum est_. Lib. v. c. 4. [191] In Bologna resta memoria d'un vaso di marmo, posto da Liutprando e Ildeprando nella chiesa di S. Stefano per esser empito il giovedì santo. L'iscrizione dice, secondo MALVASIA, _Marm. Fels._, sez. IV. c. 10: † VMILIBVS VOTA SVSCIPE DOMINE DOMINORVM NOSTRORVM LIVTPRANTE ILPRANTE REGIBVS ET DOMNI BARBATII EPISC. SANCTE ECCLESIE BONONIENSIS HIC IN ONOREM RELIGIOSI SVA PRECEPTA OBTVLERVNT VNDE HVNC VAS IMPLEATVR IN CENAM DOMINI SALVATORIS ET SI QVA MVNERA CVISQVAM MINVERIT DEVS REQVIRET †. [192] PAOLO DIAC., lib. VI. c. 53. [193] _Ad regnum_: potrebbe indicare per l'acquisto del regno celeste: altri leggono _ad rogum_, cioè in segno di supplica. [194] _Legge_ V. [195] Di quei giorni, anche Anselmo duca del Friuli e cognato di Rachi e d'Astolfo, si fece monaco, e fondò il monastero di Fanano nel Modenese, poi l'insigne di Nonantola con ospizio pei pellegrini. Altri molti ne troviamo fondati in quegli anni: e limitandoci alla Toscana, la badia di Montamiata fu posta nel 745 da Erone; nel 744 quella di Monteverdi in val della Cornia in Maremma da s. Gualfredo longobardo di Pisa e da Gondualdo di Lucca cognato suo, che alle loro mogli con trenta donne eressero sulla Versilia presso Pietrasanta il monastero di san Salvatore. Le badie di S. Ponziano e San Frediano presso Lucca, di San Pietro a Camajore, di San Bartolomeo di Pistoja, di san Bartolomeo a Rigoli di Firenze, appartengono ai tempi longobardi; come i monasteri di Coronate, di Civate, di Santa Giulia a Brescia, di Teodote a Pavia...... nell'alta Italia. Il longobardo Warnifredo castellano regio di Siena nel 730 fonda e dota generosamente la badia di Sant'Eugenio in Pilosiano presso Siena. [196] _Fremens ut leo, pestiferas minas Romanis dirigere non desinebat, asserens omnes uno gladio jugulari, nisi suæ se se subderent ditioni_. ANASTASIO BIBL., _Vita Stephani II_. [197] _Deprecans imperialem clementiam, ut, juxta id quod ei sæpius scripserat, cum exercitu ad tuendas has Italiæ partes modis omnibus adveniret_. ANASTASIO BIBL., ivi; BARONIO, _ad ann._ 754. XXIII, XXV. Tanto era lontano dalle idee di rivolta e di sovranità. [198] È bizzarro che già i contemporanei fanno valere in ciò quel voto universale, a cui oggi si attribuisce tanto peso. Paolo Diacono diceva che _omnis Ravennæ exercitus_ (già in altri testi vedemmo che esercito equivale a popolo) _vel Venetiarum talibus jussis unanimiter restiterunt_. Anastasio Bibliotecario, nel luogo che citammo alla nota 2ª, parla della risoluzione di tutta Italia; e soggiunge che il papa, _gratias voluntati populi referens pro mentis proposito_, chetava gl'insorgenti. E Gregorio nell'epistola all'imperatore: _Plane parati sunt Occidentales ulcisci etiam Orientales.... Totus Occidens sancto principi apostolo um fidei fructus offert._ [199] Dal processo del 715 fra Siena e Arezzo appare che i cherici del contado sanese, per farsi ordinare dal diocesano, bisognavano d'una licenza scritta del gastaldo longobardo. [200] _Chron. Moiss._ ap. BOUQUET, v. 67. [201] _Chron. Cassinens._, lib. I. cap. 8. Vedi pare ANASTASIO BIBL., op. cit.; — CENNI, _Monumenta dominationis pontificiæ_. Roma 1761, 2 vol.: sono lettere che i papi da Gregorio III fino ad Adriano diressero a Carlo Martello, Pepino, Carlomanno, Carlo Magno; — ORSI, _Dell'origine del dominio e della sovranità dei romani pontefici_. Roma 1789; — e in senso contrario PFISTER, _Gesell. der Deutschen_; tom. I, p. 409; — SPITTLER, _Staatgeschichte_, tom. II, p. 86; — SISMONDI, _St. delle Rep. it._, tom. I; ecc., non dimenticando la recente opera di Theiner. [202] _Nam et judices ad faciendas justitias... in eadem Ravennatium urbe residentes, ab hac romana urbe dixerit, Philippum presbyterum, simulque et Eustachium quondam ducem._ Cod. Carol., nº 54; e così il nº 51, il 75 ecc. — Quando Carlo Magno, nel 784, volle trarre certe colonne antiche da Ravenna, n'ebbe concessione dal papa. Vedi in FANTUZZI, _Monum. ravennati_, i diplomi del tom. V, massime il 17 e 18; inoltre SAVIGNY, _Storia del dir. romano_, cap. V, § 110; LEO, _Gesch. von Italien_, tom. I, p. 187-189; CENNI, op. cit., tom. I, p. 63; ORSI, op. cit., c. VIII; PHILIPPS, _Deutsche Geschichte_, III. § 47; GOSSELIN, _Pouvoir des Papes_, Parigi 1845, pag. 240 e seg. — Più tardi papa Adriano scriveva a Carlo Magno: — I duchi di Spoleto, di Benevento, del Friuli, di Clusio ordirono contro di noi il pericoloso disegno di unirsi coi Greci e con Adelchi figlio di Desiderio, onde combatterci per terra e per mare, desiderando invadere _questa nostra città di Roma_, e ripristinare il regno longobardo. Pertanto vi scongiuro di venire al più presto a nostro soccorso; giacchè a voi, dopo Dio, noi abbiamo rimessa la difesa della santa Chiesa, del _nostro popolo romano_ e della romana repubblica». _Cod. Carol._, _ep._ 57. [203] _Longobardorum rex... Zachariæ prædictas quatuor civitates redonavit... ipsi b. Pietro reconcessit._ E Stefano ad Astolfo _petivit ut dominicas quas abstulerat redderet oves, et propria propriis restitueret_. Pepino dirige messi ad Astolfo _sanctæ ecclesiæ ac reipublicæ restituenda jura... ut propria restitueret propriis_. Questi promette _illico redditurum civitatem Ravennatium cum aliis diversis civitatibus_. ANASTASIO BIBL., op. cit. Anche Eginardo negli Annali dice che Pepino obbligò Astolfo _ad reddendum ea quæ romanæ Ecclesiæ abstulerat_. [204] «Quel tiranno seguace di Satana, Astolfo divoratore del sangue dei Cristiani, struggitore delle chiese di Dio, percosso di colpo divino, sprofondò nella voragine dell'inferno.... Ora, per provvidenza di Dio e per mano del beato Pietro, pel tuo fortissimo braccio.... è stato ordinato re de' Longobardi Desiderio, uomo mitissimo». _Lettera a Pepino._ L'anonimo Salernitano dice che Astolfo _fuit audax et ferox, et ablata multa sanctorum corpora ex romanis finibus in Papiam detulit. Construxit etiam oracula (oratorj) ibi et monasterium virginum, et suas filias dedicavit. Idemque etiam fecit monasterium in finibus Æmiliæ ubi dicitur Mutina... ad sacra monachorum cænobia ædificanda per certas provincias multa est dona largitus. Valde dilexit monacos, et in eorum est mortuus manibus._ Rer. it. Script., part. II, t. II. [205] Di Brescia lo vorrebbe il Malvezzi, _Chron. Brix._, Rer. it. Script., tom. XIV. Lo appoggerebbe l'aver egli fondato monasteri in Leno e quel di Santa Giulia in Brescia che ampiamente dotò, e dove poi fu badessa sua figlia Ansilberga, che parimente comprò beni nel Bresciano. [206] «Passano gli scrittori francesi con disinvoltura quest'azione di Carlo Magno, come se fosse cosa da nulla l'avere usurpato a' suoi nipoti un regno, che _per tutte le leggi divine ed umane_ era loro dovuto». MURATORI, _all'anno_ 771. Una legge _divina_ che obblighi a surrogar nel regno i figli ai padri, io non l'ho mai udita: se n'esisteva una _umana_, lo storico doveva addurla, ma nè noi nè altri la videro mai; bensì vediamo mantenuto sempre fra' Germani il diritto d'eleggersi il re. Eppure è vulgato l'introdurre qui i nomi affatto sconvenienti e le idee tutto moderne d'usurpazione e d'eredità. _Charles_, dice Sismondi, _avec autant d'avidité et d'injustice qu'aurait pu faire aucun de ses prédécesseurs, dépouilla sa femme et ses fils de leurs_ HÉRITAGES, _les força à s'enfuire en Italie, etc._ [207] _Pro exigendis a rege Desiderio justitiis beati Petri_. ANASTASIO BIBL., _Vita Steph. III_, pag. 178; vale a dire le rendite dei beni ecclesiastici posti nel regno longobardo e delle città occupate da Desiderio, e sulle quali, secondo il diritto romano, il pontefice aveva anche giurisdizione (_justitiam_). [208] In tutt'altro modo è esposto il fatto in una lettera di Stefano III a Berta (CENNI, I. 267); cioè, che il nefandissimo Cristoforo e il più che malvagio suo figlio Sergio aveano fatto trama con Dodone, messo di Carlo Magno, per dar morte al pontefice; averlo Dio salvato mercè gli ajuti di Desiderio; chiamati in Vaticano, ricusarono, e armatisi, esclusero di Roma il pontefice; poi abbandonati, erano rifuggiti in San Pietro, ove il papa a stento gli aveva difesi dalla moltitudine che ne chiedeva il sangue; ma mentre voleva farli rendere in città perchè fossero salvi, furono presi ed accecati, senza nè consenso nè saputa sua. Il Muratori e la maggior parte preferiscono questa versione: ma esso Cenni e il Pagi e il Cointe supposero quella lettera estorta al papa da Desiderio, o forse falsificata nella sua cancelleria, giacchè un'altra (CENNI, I. 274) e i biografi di Stefano III e d'Adriano riferiscono il caso nel modo che noi adottammo come più simile al vero. [209] _Universum populum Tusciæ et Campaniæ et ducatus Perusini, et aliquantos de civitatibus Pentapoleos; omnesque parati erant, si ipse rex adveniret, fortiter... illi resistere_. ANASTASIO BIBL. [210] _De factis Caroli Magni_. [211] Anselmo abate di Nonantola, cognato di Rachi, fu da Desiderio tenuto esule sette anni, e probabilmente adoperò assai a favore di Carlo, giacchè questo fecegli immense donazioni. Muratori, all'anno 774: — _Dum iniqua cupiditate Langobardi inter se consurgerent, quidam ex proceribus langobardis talem legationem mittunt Carolo Francorum regi, quatenus veniret cum valido exercitu, et regnum sub sua ditione obtineret, asserentes quia istum Desiderium tyrannum sub potestate ejus traderent vinctum, et opes multas, cum variis indumentis auro argentoque intextis, in suum committerent dominium_. Anonim. Salernit., in Rer. it. Script. tom. II. p. i. _paralip._ Vedasi L. C. BETMANN, _Paulus Diaconus und Geschichtschreibung der Longobarden_. Annover 1849. Martino da Cremona, figlio di Paolo _nobilissimo uomo_, e di Sabina _onoranda femmina_, fu diacono, e andò a mostrar ai Francesi il passo delle Alpi; infine divenne arcivescovo di Ravenna. Descrisse egli stesso il suo viaggio in una lettera che si pretende aver trovata il canonico Dragoni di Cremona, e che fu, senza troppo esame, pubblicata dal Troya nel suo _Codice diplomatico_. [212] Di lui dice la cronaca del monastero di Volturno: _Hic, licet bello fuerit austerus, tamen plurimis locis ecclesias construxit, ornavit atque ditavit rebus ac possessionibus multis. Ex jussione principis apostolorum, monasterium ædificavit in valle Tritana_. Rer. it. Script., tom. II. p. II. lib. 3. Senza appoggio di storia, la tradizione in Toscana fa merito a re Desiderio di molte fondazioni, come le mura di San Gemignano, la città di San Miniato, ove del resto fiorì lungamente la consorteria dei Lambardi. [213] Anastasio Bibl. nelle Vite di Leone III e IV ricorda il _vicus Saxonum, Sardorum, Frisonum, Corsarum, e le scholæ peregrinorum, Frisonum, Saxonum, Langobardorum_. [214] Alcuni soggiungono che si fe coronare dall'arcivescovo di Milano. Non appare che i re longobardi fossero inaugurati colla corona, bensì con un'asta: Paolo Diacono riferisce che un cucolo si posò su quella d'Ildeprando. Neppure de' Carlovingi è mai mentovata la coronazione; e la prima memoria certa di quest'atto è dell'888, quando Berengario fu coronato in Pavia. [215] Rodolfo Notajo ap. BIEMMI, _Storia di Brescia_. [216] Una contro gli Aquitani, diciotto contro i Sassoni, cinque contro i Longobardi, sette contro gli Arabi di Spagna, una contro i Turingi, quattro contro gli Avari, due contro i Bretoni, una contro i Bavari, quattro contro gli Slavi di là dall'Elba, cinque contro i Saracini, tre contro i Danesi, due contro i Greci. [217] MABILLON, _Ann. Ord. s. Bened._, XXIII. 3. [218] _Post patrem lacrymans Carolus hæc carmina scripsi:_ _Tu mihi dulcis amor, te modo plango pater...._ _Nomina jungo simul titulis clarissima nostra;_ _Adrianus, Carolus, rex ego, tuque pater...._ _Tum memor esto tui nati; pater optime, posco,_ _Cum patre dic, natus pergat et ipse tuus._ [219] _Ep. Caroli Magni_, X. pag. 616. [220] Un altro musaico rappresenta san Pietro che colla destra dà un mantello al papa inginocchiato, colla sinistra uno stendardo a un principe; e v'è scritto: _Beate Petre, dona vita Leoni pp., et bictoria Carolu dona_. [221] Zonara dice: Ελοβήσαντο δὲ τὰ ὄμματα, ἀλλ’οὐκ ἐξετύφλωσαν. XV. 13. La leggenda, accettata pure dal _Martirologio romano_ sopra la fede di moltissimi testimonj, narra che gli furono cavati, ma che li ricuperò miracolosamente. Alcuino scrive a Carlo Magno che _Deus compescuit manus impias a pravo voluntatis effectu, volentes cæcatis mentibus lumen ejus extinguere_. Vedi i Bollandisti al 12 giugno. [222] L'anno cominciava a natale, epperò l'incoronazione dicesi avvenuta nell'800, ma secondo il computo moderno è del 799. [223] Vi volle una licenza di Leone III perchè il nome di Carlo Magno fosse posto avanti a quello del papa negli atti che si erigevano a Viterbo, Toscanella, e nelle altre città della primitiva donazione, ove prima mettevasi quel solo del papa. Il Patrimonio di San Pietro poi non ricadde più nel regno longobardo. Vedi Troya, Discorso ecc., CCXXI. Da una lettera, che Champollion Figeac nel 1836 trovò alla Biblioteca nazionale di Parigi, appare il rispettoso modo con cui l'imperatore trattava il pontefice Adriano: I. _Salutat vos dominus noster filius vester Carolus, et filia vestra domina nostra Fastrada, filii et filie domini nostri, simul et omnis domus sua_. — II. _Salutant vos cuncti sacerdotes, episcopi et abbates, atque omnis congregatio illorum in Dei servitio constituta, etiam et universus generalis populus Francorum._ — III. _Gratias agit vobis dominus noster filius vester, quia dignati fuistis illi mandare per decorabiles missos et melliflua epistola vestra, de vestra a Deo conservata sanitate, quia tunc illi gaudium et salus ac prosperitas esse cernitur, quando de vestra sanitate vel populi vestri salute audire et certus esse meruerit._ — IV. _Similiter multas vobis agit gratias dominus noster filius vester de sacris sanctis orationibus vestris, quibus adsidue pro illo et fidelibus sancte Ecclesie et vestris atque suis decertatis, non solum pro vivis, sed etiam pro defunctis; et si Domino placuerit, vestrum bonum certamen dominus noster filius vester cum omni bonitate in omnibus retribuere desiderat._ — V. _Mandavit vobis filius vester, dominus videlicet noster, qui Deo gratias et vestras sanctas orationes, cum illo et filia vestra ejus conjuge et prole sibi a Deo datis, vel omni domo sua, sive cum omnibus fidelibus suis, prospera esse videntur._ — VI. _Postea vero danda est epistola dicentibus hoc modo: presentem epistolam misit vobis dominus noster filius vester, postulando scilicet sanctitati vestre, ut almitas vestra amando eam recipiat._ — VII. _Deinde dicendum est: misit vobis nunc dominus noster filius vester talia munera qualia in Saxonia preparare potuit, et quando placet sanctitati vestre offendamus ea._ — VIII. _Deinde dicendum erit: dominus noster filius vester hæc parva munuscula paternitati vestre destinavit, inducias postulans interim dum meliora sanctitati vestre preparare potuerit._ — IX. _Deinde_.... Il resto manca. [224] Il Troya pubblica un documento del 757, ove Felice, colono del monastero della Madonna nel Reatino, cede tutti i suoi fondi, e Ciottola sua colona, e un'altra ancella a proprio servizio, e metà del ragazzo Maurontone. [225] Una casa colle stalle e gli edifizj rustici formava una _corte_; una corte co' suoi campi e boschi dicevasi _manso_, villa della misura di dodici jugeri; molti mansi costituivano una _marca_; e molte marche un distretto, _pagus_. [226] Dai primi tempi alle cattedrali erano affissi sacerdoti che formavano un collegio, vivendo coi beni della Chiesa, ed assistendo il vescovo nei misteri e nei sinodi. Nel concilio di Laodicea del 364 (can. 15) si trovano nominati i salmisti canonici, detti così dal canone o catalogo su cui erano registrati. Nel secolo IV sant'Eusebio radunò il suo clero in casa e mensa comune, con regole di vita austera. Forse da queste dedusse la sua sant'Agostino. Il più antico esempio ch'io trovassi, è in Como, che aveva canonici nell'803; nell'824 San Giovanni di Firenze. A Milano s'introdussero solo nell'XI secolo, quando si sperò con questo far riparo al concubinato. Scrivevansi i nomi de' canonici su tavole cerate; donde il titolo di primicerius. [227] Che il promotore d'ogni bello e sodo sapere in Europa non sapesse scrivere, ripugna a noi moderni, avvezzi a educarci sovra libri; ma allora la scarsezza di questi facea si preferisse l'insegnamento orale; e quantunque Carlo non fosse nel caso di mancare di libri, doveva però uniformarsi al sistema generale, che consisteva nel leggere, udire, disputare, abbandonando lo scrivere ad una classe più bassa e meccanica. Nè quest'uso fu solo d'allora, ma quattro secoli più tardi Federico Barbarossa, protettore di poeti e poeta egli stesso, non sapea scrivere; nè Filippo l'Ardito re di Francia, nè il cavalleresco Giovanni di Luxemburg re di Boemia nel secolo di Dante: che più? Luigi XIV era stato allevato da Péréfixe senza insegnargli a leggere nè a scrivere. Tacio i tanti signori che alle carte non poteano apporre altra firma che la croce; e fin nel secolo XIV la si trova di alcuno che _non sa scrivere perchè gentiluomo_. Forse per questo i principi aveano introdotti i monogrammi, cifre artifiziose, composte delle lettere del nome loro, e che probabilmente erano fatte dal segretario. [228] _Parvula rex Carolus seniori carmina Paulo_ _Dilecto fratri mittit honore pio._ E alla propria lettera volgendosi: _Illic quære meum mox per sacra culmina Paulum:_ _Ille habitat medio sub grege, credo, Dei._ _Inventumque senem, devota mente saluta,_ _Et dic: Rex Carolus mandat, aveto tibi..._ _Colla mei Pauli gaudendo amplecte benigne,_ _Dicito multoties: Salve pater optime, salve._ [229] PERTZ, _Mon. German._, III, 482, pubblica l'epitafio di Arigiso, dove si legge: _Quod logos et physis, moderans quod ethica pangit,_ _Omnia condiderat mentis in arce suæ._ e in quel di Romoaldo: _Grammatica pollens, mundana lege togatus._ Champollion Figeac, nei _Prolegomena ad Amatum_, pag. XXIV, pubblica una lettera di Paolo Diacono ad Adilsperga, ove le dice: _Cum, ad imitationem excellentissimi comparis,.... ipsa quoque subtili ingenio, sagacissimo studio prudentium arcana rimeris, ita ut philosophorum aurata eloquia poetarumque gemmea tibi dicta in promptu sint, historiis etiam seu commentis tam divinis inhæreas quam mundanis_. Essa lettera è quasi l'unica che ci dia a conoscere la vita di Paolo, che solo più tardi troviam chiamato Warnefrido. [230] A Paolo Diacono scrive Pietro da Pisa: _Qui te, Paule, poetarum_ _Vatumque doctissimum_ _Linguis variis ad nostram_ _Lampantem provinciam_ _Misit, ut inertes aptes_ _Fœcundis seminibus?_ _Græca cerneris Homerus,_ _Latina Virgilius,_ _Flaccus crederis in metris,_ _Tibullus eloquio._ A queste esorbitanze Paolo rispondeva, meglio ancora col fatto che colle parole mostrando non meritarle: _Peream si quemquam horum_ _Imitari cupio,_ _A via quam sunt secuti_ _Pergentes per invidiam_ _Potius, sed istos ego_ _Comparabo canibus._ _Tres aut quatuor in scholis_ _Quas didici sillabas_ _Ex his mihi est ferendus_ _Manipulus adorea...._ [231] Dal cav. Cordero di San Quintino, contraddicendo a Giuseppe e Defendente Sacchi (1828). Si sa storicamente che le chiese di Pavia andarono in fuoco nel 924 per opera degli Ungheri, poi dei Tedeschi nel 1004: dopo di che, si rifabbricarono esse chiese, adoprandovi materiali anteriori, e introducendovi lo stil nuovo, come sono le tribune elevate di molti gradini, il sottopor agli archi pilastri quadrati, senza parastate o colonne incassate, ovvero pilastri poligoni; e finire in cupole ed absidi. [232] Nella _Storia Universale_, lib. XI, c. 12, riferimmo le tradizioni romanzesche intorno a Carlo Magno; molte ne furono introdotte nei poemi cavallereschi anche in Italia. Firenze e Siena vogliono essere da lui riedificate e ne hanno epigrafi. Montalbano fuor porta alla Croce, e le buche delle fate di Fiesole accolsero lui e i suoi prodi, e presso queste Malagigi imparò l'arte degli incanti, e Orlando fu reso invulnerabile. Orlando si fa nascere a Sutri, divenire senator romano. A Susa un enorme spacco di pietra fu operato da durlindana; questa è effigiata s'un bassorilievo di Roma; la sua lancia serbasi a Pavia; la statua con quella d'Oliviero sul duomo di Pavia; San Stefano di Firenze ha sulla facciata l'impressione di un ferro del suo cavallo, da lui lanciato; a Spello serbano un fatto di pietra ad attestare altro genere di forza; molti luoghi si chiamano _Torre d'Orlando_. [233] _Nunc_ (_curiæ_), _eo quod res civiles in alium statum transformatæ sint, omniaque ab una imperatoriæ majestatis sollicitudine atque administratione pendeant, ne incassum circa legale solum oberrent, nostro decreto illinc submoventur_. Nov. 94 et 96. [234] BOUQUET, v. 629. [235] _Pascasius Ratbertus_, ap. MABILLON, Bened. sæc. IV. p. 1. [236] CAROLI M. _Capit._ 101, 109, 82; Lud. Pii, 7. 8. 9.... Legge IX di Pepino re d'Italia: _Si latrocinia vel furta aut præda inventa fuerint, emendentur, juxta ut ejus lex est, cui malum ipsum perpetratum fuerit.... De ceteris vero causis, communi lege vivamus, quam domnus Karolus excellentissimus rex Francorum atque Langobardorum in edicto adjunxit._ Leg. XLVI: _Sicut consuetudo nostra est, Romanus vel Langobardus si evenerit quod caussam inter se habeant, observamus ut romanus populus successionem eorum juxta suam legem habeat. Similiter et omnes scriptiones juxta legem suam faciant; et quando jurant, juxta legem suam jurent. Et alii homines ad alios similiter. Et quando componunt, juxta legem ipsius cui malum fecerint, componant. Et Langobardus illis similiter convenit componere_. Maginfredo di Delebio in Valtellina uccise Melesone, aldio del monastero di Sant'Ambrogio di Milano nell'870; confessa il peccato, e non avendo abbastanza per pagare la composizione, prega sia accettata a sconto una casetta e una terricciuola sua (_casellula et terrula_) e parte de' mobili: fu accettato, e se ne fece carta che conservossi nell'archivio ambrosiano. Arigiso duca di Benevento asseriva che, fin allora, chi avesse ucciso persona religiosa non era tenuto a special composizione, o la dava a volontà dei censori: ma esso fissò che l'uccisore di un monaco, prete o diacono pagasse al fisco ducento soldi, o fin a trecento; per gli altri ecclesiastici fuor di palazzo, cencinquanta, come pei laici esercitali. _Rer. it. Script._, II. 336. Carlo Magno incarì tal pena. Enrico III nel 1055 riceveva sotto la sua protezione (_mundiburdio_) i canonici di Parma, in modo che chi gli uccidesse o ferisse o violentasse, dovesse lire cento, metà all'imperatore, metà agli offesi. _Ann. M. Æ._, II, 326. [237] CAROLI M., _Capit._ 26. [238] LUD. PII, 26. 27. [239] CAROLI M., 20. 29. 30-35. 80. 90. 101. 102. 109. 128.... [240] LUD. PII, 24: LOTH., 78; CAROLI M., 10. 20. 21.... [241] CAROLI M., 81; LOTH., 71. [242] LOTH., 31. [243] «Io Lodovico imperatore concedo a san Pietro e a' suoi successori Roma col ducato e coi territorj marittimi e montani, lidi, porti e tutte le città, castelli, borghi, terre di Toscana, ciò sono Porto Civitavecchia, Cervetri, Todi, Perugia colle tre isole Maggiore, Minore e Polvese, col lago, Narni ed Otricoli. Similmente dalle parti della Campania, Segni, Anagni, Ferentino, Alatri, Patricio, Frosinone, colle altre due parti pur di Campania e Tivoli. Anche l'esarcato di Ravenna che Carlo e Pepino _restituirono_ a Pietro apostolo, cioè Ravenna, la Romagna, Bobbio, Cesena, Forlimpopoli, Forlì, Faenza, Imola, Bologna, Ferrara, Comacchio, Adria, Gabello con tutti i confini, isole, ecc. Così la Pentapoli, cioè Arimino, Pesaro, Fano, Sinigaglia, Ancona, Umana, Jesi, Fossombrone, Montefeltro, Urbino e il territorio Valvense, Caglio, Luceolo, Gubbio. Così la Sabina, e nella Toscana de' Longobardi, Città di Castello, Orvieto, Bagnarea, Ferento, Viterbo, Marla, Toscanella, Populonia, Soana, Rosella; e Corsica, Sardegna, Sicilia, con ecc. Ancora nelle parti di Campania, Sora, Arce, Aquino, Arpino, Tiano, Capua, e i patrimonj Beneventano, Salernitano e Napoletano, e della Calabria superiore e inferiore, e dovunque v'ha patrimonj nostri nelle parti del regno e dell'impero a noi da Dio conceduto». Labbe, Concil., tom. VII, p. 1515. — Si noti che vi manca ogni segno cronologico, è tratto da copia informe e non autentica, e l'imperatore avrebbe donato ciò che a lui non apparteneva. [244] _Plura quid hinc memorem? nam centuplicata recepi_ _Munera, romanis quæ arcibus extulerat._ ERM. NIGELLO. [245] _Barbirasas_, i Franchi, a differenza de' Longobardi che aveano barba lunga e puntuta. AGNELLO, _Liber pontif._, pag. 180. [246] Sono intitolati or conti, or duchi, or marchesi: e questi titoli sono spesso confusi sotto i Carolingi. Forse erano conti di città, duchi di provincia. [247] _Liber et ingenuus sum natus utroque parente;_ _Semper ero liber, credo, tuente Deo._ ERCHEMP., _L. Longob._ Rer. It. Script., II. p. 1. Il suo epitafio dell'806, posto in Salerno, dice: _Pertulit adversas Francorum sæpe phalangas,_ _Salvavit patriam sed, Benevente, tuam._ _Sed quid plura feram? Gallorum fortia regna_ _Non valuere hujus subdere colla sibi._ ANON. SALERN., _Paralip._ Rer. It. Script., II. p. 2. [248] EGINARDO, _ad ann._ 815 e 820. [249] ASTRONOMUS, _De vita Ludovici_, c. 42. [250] LIUTPRANDO, IV., 2. La preda fu ripartita così: a ciascuna famiglia d'un morto in guerra cento _crus_, che sarebbero da dugencinquanta lire; cinquanta alle vedove; per ogni ucciso che non lasciasse famiglia, si diedero cento _crus_ ai poveri del suo quartiere, fosser cristiani o saracini; del resto si fecero quattro parti, una per l'ammiraglio, una per l'emir di Sicilia, due pel califfo. [251] Vedi THEODOSII monaci _Ep. de excidio Syracusarum_, Rer. It. Script., tom. ii. p. i. p. 262. _Histoire de l'Afrique arabe sous la dynastie des Aglabites_. Parigi 1841: opera di Jusef ebn-Kalidun, fiorito a Tunisi dal 1332 al 1406, e da De Hammer chiamato il Montesquieu arabo; tradotta da Noël des Vergers. V'appare la lotta de' Bereberi contro gli Aglabiti, e come episodio la dominazione di questi in Sicilia. CAMILLO MARTORANA, _Notizie storiche de' Saraceni siciliani_. Palermo 1832. T. G. WENRICH, _Rerum ab Arabibus in Italia insulisque adjacentibus, Sicilia maxime, Sardinia atque Corsica, gestarum commentarii_. LIPSIA 1845. FR. TESTA, _Diss. de ortu et progressu juris siculi_. ALFONSO AIROLDI, _Cod. diplom. della Sicilia sotto il governo degli Arabi_, tom. i, p. i. p. 384, nota. Nella _Biblioteca arabo-sicula_ dell'Amari si riscontrano circa cencinquanta scienziati, letterati, poeti musulmani in Sicilia. [252] ALBERTUS AQUENSIS, lib. v. p. 37. Lo zuccaro prosperava in Sicilia: nel 1419 l'università di Palermo assegnava acque per la coltura di esso; nel 1449 Pietro Speciale ne piantò la campagna de' Ficarazzi; nel 1550 un viaggiatore descrive attivissimi i trappeti (aje) dello zuccaro: e principalmente ne erano a Carini, Trabìa, Buonfornello, Roccella, Pietra di Roma, Malvicini, Olivieri, Casalnovo, Schisò, Casalbiano, Verdura, Sabuci, Medica. Federico II obbligò gli Ebrei venuti dal Garbo a piantare presso Palermo l'indaco e altre produzioni esotiche. Molti nomi di paesi siculi hanno etimologia araba, come _Calatafimi, Caltabellotta, Caltanisetta_, castello di S. Eufemio, delle quercie, delle femine: _Misilmeri_ mansione dell'emiro, _Risicanzir, Rasicormo, Rasicalbo_, promontorio de' porci, del vertice, del cane: _Marsameni_, porto delle colonne, _Marsala_, porto di Dio, ecc. [253] _Romanus, Francus, Bardusque viator et omnis_ _Hoc qui intendit opus cantica digna canat._ _Quod bonus antistes quartus Leo rite novavit_ _Pro patriæ ac plebis ecce salute suæ._ _Principe cum summo gaudens Hlotharius heros_ _Perfecit, cujus emicat altus honor._ _Quod veneranda fides nimio deduxit amore_ _Hoc Deus omnipotens præferat arce poli._ _Civitas hæc a conditoris sui nomine Civitas Leonina vocatur._ Ad esempio della città Leonina, Giovanni VIII circondò di mura San Paolo: _Hic murus salvator adest, invictaque porta_ _Quæ reprobos arcet, suscipiatque pios._ _Hanc proceres intrate senes, juvenesque togati._ _Plebsque sacrata Dei limina sancta petens._ _Quam præsul Domini patravit rite Johannes,_ _Qui nitidis fulxit moribus ac meritis._ _Præsulis octavi de nomine facta Johannis_ _Ecce Johannipolis urbs veneranda cluit._ _Angelus hanc Domini Paulo cum principe sanctus_ _Custodiat portam semper ab hoste nequam._ _Insignem nimium muro quam construit amplo_ _Sedis apostolicæ papa Johannes ovans._ _Ut sibi post obitum cælestis janua regni_ _Pandatur, Christo sat miserante Deo._ [254] _Monac. anon._ ap. MURATORI, II. 266. [255] _Quia Franci nihil nobis faciunt boni, neque adjutorium præbent, sed magis quæ nostra sunt violenter tollunt; quare non advocamus Græcos, et cum eis fœdus pacis componentes, Francorum regem et gentem de nostro regno et dominatione expellimus?_ ANASTASIO BIBL., _Vita Leonis IV_, p. 199. [256] GRATIANI, cap. 9. dist. X; e cap. 41. II. qu. 17. [257] Que' lamenti indicano di che natura s'intendesse il potere papale, giacchè Adriano racconta che Leone arcivescovo non permise che i deputati delle città prestassero il giuramento in mano di Giorgio Sacellario, a tal uopo spedito dal papa a Ravenna; a governatore di Gavello aver egli pontefice posto un Domenico raccomandatogli dal re, ma Leone avere spedito soldati ad arrestarlo, e vietato a tutti gli abitanti di accettar impieghi dal papa. V. _Cod. Carolino ep. Adriani_, 51. 52. 53. [258] _Ad hoc usque malum crevit et incrassatum est, ut factione ravennatis archiepiscopi Maurinus cum suis complicibus, qui excomunicati et anathematizati a nobis jam sunt, Ravennam ingrederetur, et fidelium nostrorum res cum suis funditus raperet et devastaret, adeo ut claves civitatis Ravennæ a vestarario nostro violenter subtraheret, et pro libitu suo, nescimus cujus auctoritate, ipsi archiepiscopo_ (_quod nunquam factum fuisse recolitur_) _potestative concederet_. Così scrive il papa alla imperatrice Angilberga, ap. BALUZIO, _Miscell._, tom. V. Altra prova che il dominio temporale apparteneva ai pontefici, e che esisteva un'autorità municipale. [259] La cronologia di questi fatti è incertissima. De' Napoletani scrive l'imperatore (ap. _Anonimo Salern._, c. 106): _Infidelibus arma et alimenta et cetera subsidia tribuentes, per totius imperii nostri litora eos ducunt, et cum ipsis toties beati Petri apostolorum principis fines furtim deprædari conantur ita ut facta videatur Neapolis Panormum vel Africa. Quumque nostri equi Saracenos insequuntur, ipsi, ut possint evadere, Neapolim fugiunt, quibus non est necessarium Panormum repetere: sed Neapolim fugientes, ibidem quousque perviderint latitantes, rursus improviso ad exterminia redeunt_. [260] _Noveris exercitum nostrum, Bari triumphis nostris submissa, Saracenos Tarenti pariter et Calabriæ nos mirabiliter humiliasse, simil et comminuisse; ac hos celeriter, duce Deo, penitus contriturum, si a mari prohibiti fuerint escarum admittere copias, vel etiam classibus a Panormo vel Africa suscipere multitudines_. ANONIMO SALERN., c. 94. [261] Allora fu composto questo ritmo: _Audite omnes fines terre horrore cum tristitia,_ _Quale scelus fuit factum Benevento civitas:_ _Lhuduvicum comprenderunt, sancto pio augusto._ _Beneventani se adunarunt ad unum consilium,_ _Adolferio loquebatur, et dicebant principi:_ _Si nos eum vivum dimittemus, certe nos peribimus;_ _Scelus magnum preparavit in istam provintiam,_ _Regnum nostrum nobis tollit, nos habet pro nihilum;_ _Plura mala nobis fecit; rectum est moriad._ _Deposuerunt sancto pio de suo palatio;_ _Adalferio illum ducebat usque ad pretorium,_ _Ille vero gaude visum tamquam ad martirium._ _Exierunt Sado et Saducto, inoviabant imperio;_ _Et ipse sancte pius incipiebat dicere:_ _Tamquam ad latronem venistis cum gladiis et fustibus._ _Fuit jam namque tempus vos allevavit in omnibus;_ _Modo vero surrexistis adversus me consilium,_ _Nescio pro quid causam vultis me occidere._ _Generacio crudelis veni interficere,_ _Ecclesieque sancte Dei venio diligere,_ _Sanguine veni vindicare quod super terram fusus est_ _Kalidus ille temtador ratum atque nomine_ _Coronam imperii sibi in caput ponet, et dicebat populo:_ _Ecce sumus imperator, possum vobis regere._ _Leto animo habebat de illo quo fecerat,_ _A demonio vexatur, ad terram ceciderat;_ _Exierunt multe turme videre mirabilia._ _Magnus Dominus Jesus judicavit judicium;_ _Multa gens Paganorum exit in Calabria,_ _Super Salerno pervenerunt possidere civitas._ _Juratum est ad sancte Dei reliquie_ _Ipse regnum defendendum, et alium requirere._ [262] Gli Annali Bertiniani di Metz narrano a disteso questi fatti. Il Muratori mostra non avervi gran fede: eppure ne' punti principali concordano colle cronache patrie. [263] _Hic cubat æterni Hludovicus Cæsar honoris,_ _Æquiparat cujus nulla Thalia decus;_ _Nam ne prima dies regno solioque vacaret,_ _Hesperiæ genito sceptra reliquit avus._ _Quam sic pacifico, sic forti pectore rexit,_ _Ut puerum brevitas vinceret acta senem._ _Ingenium mirer ne, fidem cultusve sacrorum._ _Ambigo, virtutis an pietatis opus._ _Huic ubi firma virum mundo produxerat ætas,_ _Imperii nomen subdita Roma dedit._ _Et Saracenorum crebro perpessa secures,_ _Libere tranquillam vexit ut ante togam._ _Cæsar erat cælo, populus non Cæsare dignus,_ _Composuere brevi stamine fata dies._ _Nunc obitum luges, infelix Roma, patroni,_ _Omne simul Latium, Galia tota dehinc._ _Pareite, nam vivus meruit quæ præmia gaudet;_ _Spiritus in cælis, corporis extat honos._ [264] Atto dell'elezione di Carlo il Calvo in re d'Italia (_Rer. It. Scrip._ tom. I): _Gloriosissimo et a Deo coronato magno et pacifico imperatori domino nostro Carolo perpetuo augusto. Nos quidem Anspertus cum omnibus episcopis, abbatibus, comitibus, ac reliquis, qui nobiscum convenerunt italici regni optimates, quorum nomina generaliter subter habentur inserta, perpetuam optamus prosperitatem et pacem._ _Jam quia divina pietas vos, beatorum principum apostolorum Petri et Pauli interventione, per vicarium ipsorum, dominum videlicet Joannem summum pontificem et universalem papam vestrum, ad profectum sanctæ Dei Ecclesiæ, nostrorumque omnium incitavit, et ad imperiale culmen Sancti Spiritus judicio provexit; nos unanimiter vos protectorem, dominum ac defensorem omnium nostrum, et italici regni regem eligimus, cui et gaudenter toto cordi affecta subdi gaudemus, et omnia, quæ nobiscum ad profectum totius sanctæ Dei Ecclesiæ, nostrorumque omnium salutem decernitis et sancitis, totis viribus, annuente Christo, concordi mente et prompta voluntate observare promittimus._ _=Anspertus= sanctæ mediolanensis ecclesiæ archiepiscopus subscripsi._ _=Joannes= sanctæ aretinæ ecclesiæ humilis episcopus subscripsi._ _=Joannes= episcopus sanctæ ticinensis ecclesiæ subscripsi._ _=Benedictus= Cremonensis episcopus subscripsi._ _=Theudulphus= tortonensis episcopus subscripsi._ _=Adalgaudus= Vercellensis episcopus subscripsi._ _=Azo= eporediensis episcopus subscripsi._ _=Gerardus= exiguus in exigua laudensi ecclesia episcopus subscripsi._ _=Hilduinus= astensis ecclesiæ episcopus subscripsi._ _=Leodonius= mutinensis episcopus subscripsi._ _=Hildradus= albensis episcopus subscripsi._ _=Ratbonus= sedis augustanæ episcopus subscripsi._ _=Bodo= humilis sanctæ aquensis ecclesiæ (episcopus) subscripsi._ _=Sabbatinus= januensis ecclesiæ episcopus subscripsi._ _=Filibertus= comensis episcopus subscripsi._ _=Adelardus= servus servorum Dei veronensis episcopus subscripsi._ _Ego =Paulus= sanctæ placentinæ ecclesiæ episcopus subscripsi._ _Ego =Andreas= sanctæ florentinæ ecclesiæ episcopus subscripsi._ _=Ragnesis= abbas subscripsi._ _Signum =Bosonis= inclyti ducis, et sacri palatii archiministri, atque imperialis missi._ _Signum =Ricardi= comitis._ _Signum =Walfredi= comitis._ _Signum =Luitfredi= comitis._ _Signum =Alberici= comitis._ _Signum =Supponis= comitis._ _Signum =Hardingi= comitis._ _Signum =Bodradi= comitis palatii._ _Signum =Cuniberti= comitis._ _Signum =Bernardi= comitis._ _Signum =Airboldi= comitis._ Juramentum Ansperti archiepiscopi: _Sic promitto ego, quia, de isto die in antea, isti seniori meo, quamdiu vixero, fidelis et obediens et adjutor, quantumcumque plus et melius sciero et potuero, et consilio et auxilio secundum meum ministerium in omnibus ero, absque fraude et malo ingenio, et absque ulla dolositate vel seductione seu deceptione, et absque respectu alicujus personæ; et neque per me, neque per literas, sed neque per emissam vel intromissam personam, vel quocumque modo, vel significatione contra suum honorem, et suam ecclesiæ atque regni sibi commissi quietem et tranquillitatem atque soliditatem machinabo, vel machinanti consentiam, neque aliquod unquam scandalum movebo, quod illius præsenti vel futuræ saluti contrarium vel nocivum esse possit. Sic me Deus adjuvet et patrocinetur._ Quod rex Carolus juravit Ansperto archiepiscopo, atque optimatibus regni Italici: _Et ego quantum sciero et rationabiliter potuero, Domino adjuvante, te, sanctissime ac reverendissime archiepiscope, et unumquemque vestrum, secundum suum ordinem et personam, honorabo et salvabo, et honoratum et salvatum absque ullo dolo ac damnatione vel deceptione conservabo, et unicuique competentem legem ac justitiam conservabo, et qui illam necesse habuerint et rationabiliter petierint, rationabilem misericordiam exhibebo. Sicut fidelis rex suos fideles per rectum honorare et salvare, et unicuique competentem legem et justitiam in unoquoque ordine conservare, et indigentibus et rationabiliter petentibus rationabilem misericordiam debet impendere, et pro nullo homine ab hoc, quantum dimittit humana fragilitas, per studium aut malevolentiam vel alicujus indebitum hortamentum deviabo, quantum mihi Deus intellectum et possibilitatem dabit; et si per fragilitatem contra hoc mihi surreptum fuerit, cum recognovero, voluntarie illud emendare studebo, sic etc._ _In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Incipiunt capitula, quæ domus imperator Carolus, Hludovici piæ memoriæ filius, una cum consensu et suggestione et reverendissimi ac sanctissimi domini Ansperti archiepiscopi sanctæ mediolanensis ecclesiæ, nec non venerabilium episcoporum et illustrium optimatum, reliquorumque fidelium suorum in regno italico, ad honorem sanctæ Dei Ecclesiæ, et ad pacem ac profectum totius imperii sui, fecit anno incarnationis domini nostri Jesu Christi_ DCCLXXVII, _regni vero sui in Francia_ XXXVI, _imperii autem sui_, I, _indictione_ IX, _mense februarii, in palatio ticinensi_, etc. [265] Nella lettera CCXXIX ad Anselmo arcivescovo di Milano, nell'882, papa Giovanni VIII si lagna di molte crudeltà usate contro il suo popolo, e massime d'un tal Longobardo, uomo del marchese Guido, che prese ottantatre persone presso Narni, e a tutte tagliò le mani, sicchè molti ne morirono. [266] Angelberga, vedova dell'imperatore Lodovico II, avea mestato fra quelle turbolenze, poi ricoverò in Santa Giulia di Brescia, asilo di altre spose e figlie di re, e v'avea deposto il pingue suo tesoro; ma questo fu depredato da Berengario del Friuli (_Epist. 42 Johannis VIII_). Ella poi in testamento (ap. CAMPI, _Stor. Eccl. Placent._ lib. VII) al monastero di San Sisto da lei fabbricato in Piacenza lasciò un'infinità di poderi e case in Campo Migliacco nel modenese; Cortenova, Pigognaga, Felina, Guastalla, Luzzara nel reggiano; Cabroi e Masino nel contado di Stazona sul lago Maggiore; Brunago e Trecate (?) nella Burgaria del milanese, ed altri luoghi. [267] _Annales Lambecii_, palesemente ostili al vescovo. [268] _Recueil des hist._ tom. IX. p. 293. 294. Dopo narrati tanti guai, il Muratori conchiude all'888: «Mercè del buon governo degli imperatori Carolini, avea la Lombardia colle altre vicine provincie goduta per più di cento anni un'invidiabile pace». [269] _Latium concessit avitum_. Panegir. Bereng. In quel panegirico per la prima volta si trovano nel nome di Italiani abbracciati tutti quelli che formavano il comune, fosser Longobardi, Franchi o Romani. [270] Probabilmente la ferrea, allora primamente adoperata; _His motus precibus, gressum contendit ad urbem_ _Irriguam, cursim Ticini abeuntibus undis,_ _Sustulit heic postquam regale insigne coronam._ [271] Il panegirista di Berengario mette in bocca a un capitano francese dell'esercito di Guido questi versi (lib. II. v. 200): _Quid inertia pectora bello,_ _Pectora (Ubertus ait) duris prætenditis armis,_ _O Itali? Potus vobis, sacra pocula cordi,_ _Sæpius et stomachum nitidis laxare saginis,_ _Elatasque domus rutilo fulcire metallo._ _Non eadem Gallos similis vel cura remordet,_ _Vicinas quibus est studium devincere terras,_ _Depressumque larem spoliis hinc inde coactis_ _Sustentare._ [272] Lo storico Liutprando, vescovo di Cremona, esclama (lib. I. c. 5): _Hungarorum gentem cupidam, audacem, omnipotentis Dei ignaram, scelerum omnium non insciam, cædis et omnium rapinarum solummodo avidam, in auxilium convocat; si tamen auxilium dici potest quod paullo post, eo moriente, tam genti suæ, quam ceteris in meridie occasuque degentibus nationibus grave periculum, imo excidium fuit. Quid igitur? Zuentebaldus vincitur, subjugatur, fit tributarius, sed domino solus. O cæcam Arnulphi regis regnandi cupiditatem! o infelicem amarumque diem! Unius homuncionis dejectio fit totius Europæ contritio. Quid mulieribus viduitates, patribus orbitates, virginibus corruptiones, sacerdotibus populisque Dei captivitates, ecclesiis desolationes, terris inhabitatis solitudines, cæca ambitio, paras!_ E' non è zotico costui. [273] Così Liutprando: eppure Aquileja più non era risorta dalla distruzione di Attila. [274] Nel 912 Berengario concede a Risinda, badessa di Santa Maria della Pusterla a Pavia, _ædificandi castella in opportunis locis licentiam, una cum bertiscis merulorum propugnaculis, aggeribus atque fossatis, omnique argumento ad Paganorum insidias deprimendas_. È il primo esempio in Italia. Anche Adalberto vescovo di Bergamo ottenne dal medesimo re di poter fortificare quella città, minacciata _maxima Suevorum Ungarorum incursione_. MURATORI, al 910. Ai canonici di Verona fu permesso fortificare il castello di Cereta, _pro persecutione Ungarorum_. Il Muratori adduce molte somiglianti concessioni. [275] Il buon prete Andrea, autore del _Breve Chronicon_ (in MENKEN _Script. Rer. germ._, I, 100), parlando dell'elezione di Lodovico il Tedesco e Carlo il Calvo, dice: _Pravum egerunt consilium quatenus ad duos mandarent regnum_. Ma più esplicitamente uno men vulgare, Liutprando vescovo, dice (I. 20): _Italienses semper geminis uti dominis volunt, quatenus alterum alterius terrore coerceant_. [276] _Chron. Vulturnense_, Rer. It. Scrip., t. II. p. 415. [277] Liutprando, v. 15, ci fa intendere alterasse le monete mescendovi molto rame. [278] _Populosissimam atque opulentissimam;_ FRODOARDO. Liutprando la chiama _formosa_, e sempre coll'enfasi sua propria dice che fra breve risorse in modo da superare le vicine e le lontane città, non inferiore a Roma fuorchè nel non possedere i corpi dei santi apostoli. Tutti i vescovi di Lombardia soleano aver palazzo in Pavia per l'occasione delle diete. [279] Quel ritmo vuolsi riferire come non infelice saggio della poesia che passava dalle forme antiche alle nuove, giacchè sono versi endecasillabi nostri: _Nos adoramus celsa Christi numina,_ _Illi canora demus nostra jubila;_ _Illius magna fisi sub custodia_ _Hæc vigilantes jubilemus carmina._ _Divina mundi rex Christe custodia,_ _Sub tua serva hæc castra vigilia;_ _Tu murus tuis sis inespugnabilis,_ _Sis inimicis hostis tu terribilis;_ _Te vigilante, nulla nocet fortia,_ _Qui cuncta fugas procul arma bellica._ _Cinge hæc nostra tu Christe munimina_ _Defendens ea tua forti lancea._ _Sancta Maria mater Christi splendida,_ _Hæc cum Johanne, Theotocos, impetra_ _Quorum hic sancta veneramur pignora,_ _Et quibus ista sunt sacrata mœnia,_ _Quo duce victrix est in bello dextera_ _Et sine ipso nihil valent jacula._ _Fortis juventus, virtus audax bellica,_ _Vestra per muros audiantur carmina;_ _Et sit in armis alterna vigilia,_ _Ne fraus hostilis hæc invadat mœnia_ _Resultet echo comes: eja vigila!_ _Per muros eja! dicat echo vigila!_ È del tempo e della circostanza stessa una preghiera dei Modenesi a san Geminiano: _Ut hoc flagellum, quod meremur miseri,_ _Cælorum regis evadamus gratia._ _Nam doctus eras Attilæ temporibus_ _Portas pandendo liberare subditos._ _Nunc te rogamus, licet servi pessimi,_ _Ab Ungarorum nos defendas jaculis._ [280] DANDOLO, _Chron._ È difficile e superfluo il fissare la cronologia di questi fatti. [281] Gl'insigni doni ch'e' fece alla basilica di Monza, lasciano supporre vi fosse incoronato. V. Frisi. Siamo fra le diatribe di Liutprando suo nemico personale, e le esagerazioni del panegirista. Liutprando fu segretario di Berengario II, e trae la narrazione fino al 948, e non vale nulla più che le nostre gazzette: ma che fare, se siamo ridotti quasi a lui solo? Eppure su questi scarsissimi ricordi esercitò la retorica P. F. Giambullari nella _Storia dell'Europa_. Ch'egli sia caro ai maestri di retorica, che un retore nostro contemporaneo l'abbia chiamato _la più compita prosa del Cinquecento_, passi: ma è strano che alcuno se ne serva per raccontare ai giovani la storia d'Italia. Com'egli inventi le circostanze per amplificare, lo mostri questa descrizione della morte di Berengario: «Flamberto sollecitò i compagni tanto, che la notte seguente vennero armati dove lo innocentissimo re, senza guardia alcuna, tutto sicuro si riposava allato alla stessa chiesa dove fu preso il re Lodovico; essendo solito levarsi la notte all'ora di mattutino, ed entrare co' religiosi a lodare il suo creatore. Il che eseguendo ancora quella notte al solito suo, giunse Flamberto coi suoi seguaci; i quali per essere non pochi facendo pure qualche strepito, venne il re sulla porta a vedere che cosa era questa. Veduto dunque cotanti armati, e Flamberto con esso loro, lo dimandò che cosa e' cercavano a quell'ora e in quella guisa. Il traditore, per cavarlo fuori della chiesa, avvicinatosi più a lui, — State (disse) di buona voglia questi sono amici e servitori vostri, che sapendo come voi state qua su senza guardia alcuna, per lo amore che vi portano sono venuti armati da voi per guardia e sicurtà vostra, apparecchiati, se malignitate alcuna apparisse, a combattere contro a ciascuno che pensasse volervi offendere; e però sarà bene che voi meco li conosciate, e riceviateli allegramente. — Il re da queste parole ingannato, uscì lieto verso di loro; ed entrando sicuramente tra essi per dimesticarsi con tutti e per ringraziarli, lo scellerato Flamberto fattogli strada, lo lasciò trapassare avanti, e rivoltosegli poi alle spalle con un partigianone che egli aveva, lo passò dalle reni al petto, e così gli tolse la vita». [282] Quando l'elezione di Carlomanno a re d'Italia era in pratica in Lombardia, il papa scriveva ad Ansperto arcivescovo di Milano sconsigliandolo da questo malaticcio, e soggiungeva: — Nessuno voi dovete ricevere senza nostro consenso, perchè quegli che dev'essere da noi ordinato imperatore, da noi primamente dev'essere eletto». LABBE, _Concil._ VIII. 103. È notevole la formola dell'elezione di Carlo Calvo, usata da Giovanni VIII, negli atti del concilio di Roma l'887: «Noi l'abbiamo eletto secondo giustizia, ed approvato col consenso e il voto dei vescovi fratelli nostri e degli altri ministri della santa Chiesa romana, dell'illustre senato, di tutto il popolo romano, e dell'ordine de' cittadini; e giusta l'antico costume l'abbiamo solennemente elevato all'impero e decorato del titolo d'augusto». [283] Spiego in questo senso le parole _inventum est, ut omnes majores Romæ essent imperiales_, di Eutropio prete longobardo, avverso molto alla Corte romana. [284] Il religiosissimo Baronio esclama: _Quam fœdissima Ecclesiæ romanæ facies, quum Romæ dominarentur potentissimæ æque ac sordidissimæ meretrices, quarum arbitrio mutarentur sedes, darentur episcopi, et, quod auditu horrendum et infandum est, intruderentur in sedem Petri earum amasii pseudopontifices, qui non sunt nisi ad signanda tantum tempora in catalogo romanorum pontificum scripti._ All'anno 912, nº 14. Ma forse, nel credere tante iniquità, egli fidò soverchiamente in Liutprando, satirico od enfatico. Il Muratori, non sospetto di papista, trova ragionevoli objezioni a fargli: e dopo lui fu scoperto un poemetto _De romanis pontificibus_ che un Frodoardo scriveva al tempo di Leone VII, dove a molti d'essi papi sono attribuite lodi di gran virtù. Al Baronio, ostilissimo a Sergio, il Muratori oppone argomenti non deboli. Il suo epitafio è di non infelice latino. _Limina quisquis adis Petri metuenda beati,_ _Cerne pii Sergi, exuviasque Petri._ _Culmen apostolicæ sedis is, jure paterno_ _Electus, tenuit ut Theodorus obit._ _Pellitur urbe pater, pervadit sacra Johannes,_ _Romuleosque greges dissipat iste lupus._ _Exul erat patria septem volventibus annis,_ _Post multis populi urbe redit precibus._ _Suscipitur papa; sacrata sede recepta_ _Gaudet. Amat pastor agmina cuncta simul._ _Hic invasores sanctorum falce subegit_ _Romana ecclesiæ judiciisque patrum._ [285] Durante quell'assedio, nacque nell'isola d'Orta Guglielmo, che poi fu abate di Digione, rinomatissimo nella storia monastica d'allora per le sue virtù, e per avere fondati molti monasteri e riformatine assai più. [286] _Walperto mysteria divina celebrante, multis episcopis circumstantibus, rex omnia regalia, lanceam in qua clavus Domini habebatur, et ensem regalem, bipennem, baltlieum, clamydem imperialem, omnesque regias vestes super altare beati Ambrosii deposuit, perficientibus atque celebrantibus clericis, omnibusque ambrosianis ordinibus divinarum solemnitatum mysteria. Walpertus magnanimus archiepiscopus, omnibus regalibus indumentis cum manipulo subdiaconi, corona superimposita_ (la corona ferrea senza far menzione del chiodo), _adstantibus beati Ambrosii suffraganeis universis, multisque ducibus atque marchionibus, decentissime et mirifice Othonem regem collaudatum et per omnia confirmatum induit atque perunxit._ LANDULPH. SEN., _Hist. Med._, lib. II. c. 16. [287] _Decret. Grat._, dist. 63. par. I. c. 23. [288] L'epitafio di Leodinio, vescovo di Modena, dell'892 dice: _His tumulum portis et e