Title: Letture sopra la mitologia vedica
Author: Angelo De Gubernatis
Release date: August 30, 2019 [eBook #60201]
Most recently updated: October 17, 2024
Language: Italian
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LETTURE
SOPRA LA
MITOLOGIA VEDICA
FATTE
DAL PROF. ANGELO DE GUBERNATIS
ALL'ISTITUTO DI STUDII SUPERIORI DI FIRENZE.
FIRENZE.
SUCCESSORI LE MONNIER.
—
1874.
Proprietà letteraria.
Mio illustre e caro Signore,
Io non avrei bisogno di spiegare i motivi, per i quali desidero inscritto al nome di Ernesto Renan questo mio modesto volume, quando la gloria di un tal nome è tanta, che ogni studioso potrebbe stimarsi lieto di raccoglierne un raggio sopra di sè, col porre sotto il patrocinio ideale di tanto ingegno il frutto qualsiasi de' suoi poveri studii. Ma, in verità, io debbo confessare come non vi sarebbe altezza, alla quale, non saprei dire se per modestia o per orgoglio, oserei rivolgermi, ove, con un sentimento di riverenza profonda, non fosse pure penetrato nell'animo mio un sentimento più intimo, più vivo, più personale, che mi obbliga a Voi di simpatia insieme e di gratitudine; e da più lungo tempo che Voi non possiate credere, mio illustre Signore. Chè, s'io debbo al vantaggio d'avervi conosciuto di persona, presso il nostro venerato ed amatissimo Michele Amari, il vivo piacere, che mi dura e che mi auguro durevole, di trovarmi in più stretta corrispondenza ideale con Voi, m'eravate entrato nell'animo [iv] e nella mente molti anni innanzi di quel giorno propizio della mia vita, in cui ebbi la lieta ventura d'incontrarvi. Concedetemi qui pertanto di rischiarare alquanto questo ricordo personale.
Io debbo, non senza un po' di vergogna, confessare, come, quando uscii dottore in lettere dall'Università di Torino, mi restava ancora un'idea assai confusa della filologia comparata. Il Vallauri, co' suoi fiumi sonanti di latina eloquenza, avea fatto di me un sufficiente cultore delle latine eleganze; ma, in quanto a filologia comparata, se essa non era più un'incognita per me, mi rimaneva tuttora, pur troppo, una gran nebulosa. I nomi di Bopp, di Pott, di Grimm, di Kuhn, di Schleicher, di Curtius, di Max Müller, di Weber, di Steinthal e d'altri insigni Alemanni mi sonavano bensì negli orecchi, ma erano pur sempre suoni vani, de' quali io non misuravo sicuramente il valore. Con questa mediocre preparazione linguistica io fui lanciato ventenne ad insegnar rettorica a Chieri. Chieri è una graziosa città industriale del Piemonte, a sei miglia da Torino; l'aria vi è eccellente; operosa, allegra, vivace la popolazione; ma, tra le città di provincia, Chieri era, in quegli anni, non solo delle più incolte, ma delle più aliene dagli studii; non istituti scientifici o letterarii, non convegni geniali, non librerie; nessuna via di comunicarsi in ispirito, ove la cura materiale urge ed invade tutta la vita. In me frattanto [v] un bisogno prepotente di nuovi e più larghi orizzonti, e l'impazienza di gettarmi con impeto giovanile nella vita. Ma, come vivere? Un giovine, costretto ventenne ad insegnare greco e latino, non ne ha il tempo ed il modo; non ne ha quasi il diritto. Allora un'altra impazienza mi prese; poichè non potevo più muovermi con la persona, desiderai di viaggiare lontano in ispirito; fondai da Chieri un giornale, un'Italia letteraria, per potere, se non vivere, almeno parlare coi lontani; e, per allontanarmi anche più dalla noia delle cure scolastiche presenti, mi posi in viaggio solitario alla ricerca delle origini della lingua italiana. Ma, in questo viaggio, ad ogni passo incontravo un inciampo. Sentii ben tosto che il mio molto latino ed il mio poco greco non bastavano più, perch'io mi rendessi ragione di certe misteriose evoluzioni del linguaggio; e mi nacque allora la curiosità ed il desiderio di cercare più addentro. Un benedetto giovedì, recatomi, secondo il consueto, da Chieri a Torino, scorrevo avidamente le vetrine de' librai, quando lessi il titolo seguente: Histoire des langues sémitiques. Non resistetti alla tentazione, ed acquistai il libro. La lettura di esso fu per me una vera rivelazione; io vi respirai nuova luce e intravvidi l'Oriente. Una settimana dopo, io mi poneva tra le mani una grammatica ebraica. Ma, ritornatomi, in breve, l'amore del mio primo studio sopra le origini della lingua italiana, m'avvidi [vi] che le lingue semitiche me ne avrebbero allontanato di troppo; sostituii pertanto lo studio della lingua ebraica con quello della indiana. Corsi tosto ai primi ferri che mi vennero alle mani, egregi ferri italiani, la Grammatica Sanscrita del Flechia, il Râmâyana del Gorresio e gli Studii Orientali e linguistici dell'Ascoli. Pochi mesi dopo ero a Berlino; dove il Bopp, coi dolci e sapienti colloquii e coi libri immortali, ed il Weber coi preziosi insegnamenti, apersero all'avida mia mente i loro tesori. E, a Berlino ancora, Voi veniste, mio illustre Signore, a visitarmi due volte, ed entrambe le volte, a scuotermi: la prima col saggio di Mitologia comparata del professor Max Müller da Voi, con parole sapienti, presentato al pubblico francese e che, insieme col saggio del Bréal sul mito di Caco, col libro del Kuhn sul fuoco e sull'ambrosia, con gli articoli di critica mitologica del Baudry nella Revue Germanique, decise, per sempre, della mia vocazione scientifica; la seconda volta, col poema della Vita di Gesù.
Divenni quindi io stesso, se felice o disgraziato non so, un mitologo comparatore indipendente, e mi appassionai per gli studii comparativi, per un bisogno dell'animo mio tutto espansivo, che mi spinge naturalmente ad abbracciare quanto si conviene, e pel forte convincimento che, aiutato dagli studii comparativi, si radicò nel mio intelletto sopra [vii] l'unità fondamentale della vita, e sopra la necessità di studiarla come un tutto armonico, e non come una caotica mischianza di parti indifferenti. Perciò, come io studio comparando, così per lo stesso istinto naturale vivo amando, abbracciando, accostando, tutto ciò che può compararsi, combinarsi e convivere. Quando, pertanto, Voi, mio caro Signore, gemevate allo scoppiar della guerra franco-germanica; quando Voi, dalla Francia minacciata, facevate un nobile appello al lontano collega Strauss, affinchè almeno gli uomini di scienza tenessero unito ciò che i politici venivano barbaramente a dividere, io sentii crescere fortemente il mio affetto verso di Voi. Quando, finalmente, in giorni per la Francia dolorosi, ne' quali, per gli equivoci della versipelle politica, Voi, vedendo raffreddarsi alquanto le vive naturali simpatie che legavano fin qui Francesi ed Italiani, coglievate l'occasione per dir parole piene d'affetto all'Italia, per la nobiltà del vostro coraggio, m'entraste tutto nel cuore; e vi rimanete, e v'assicuro che non vi state a disagio.
Io sento aver già detto molte parole; e ben altre ancora ne direi, se non temessi, continuando, di stancarvi con la dimostrazione di un sentimento, del quale ho fiducia che Voi non dubitiate più.
Dovrei ora aggiungere qualche altra parola sopra il libro che vi viene innanzi, confidato al vostro [viii] gran nome. Ma esso deve parlare da sè, posto che sappia parlare. Io non posi, pur troppo, nessuna cura a farne uno scritto elegante; e non ho l'ambizione d'aver compiuto, con esso, opera intieramente originale. Mi contenterei se si potesse dire che non feci cosa inutile. Non presumo di offerire un trattato completo di Mitologia vedica, nè d'illustrare tutti i miti vedici; ordino, descrivo e tento di spiegare gli essenziali. Seguo, nell'ordine, la storia naturale del mito: il primo mito che nasce è, specialmente, un'immagine; il secondo è, specialmente, una persona; il terzo è, specialmente, un'idea: il primo è una lieve figura, il secondo un mobile eroe, il terzo diviene un nume od un idolo che sta fermo innanzi al suo cieco adoratore; il primo è fisico, il secondo è umano, il terzo riesce metafisico nel cielo, brutale sopra la terra. Nella descrizione, a costo di riuscire talora alquanto monotono, mi studio di adoperare i soli colori del linguaggio proprio degl'Inni vedici. All'ordine che seguo, ed ai colori indiani che adopero nel rappresentare i miti, si conforma necessariamente il mio commento. Il mio lavoro parrà forse troppo lieve a molti eruditi, troppo grave a molti indotti; ma, se il desiderio non m'inganna, esso ha pure il merito di dare un po' di luce ad una materia erudita che giaceva fin qui quasi interamente perduta e silenziosa in frammenti isolati, privi talora di senso per [ix] quegli stessi benemeriti eruditi che l'avevano scavata, ed agl'indotti offrirà finalmente il modo di erudirsi un poco nella Mitologia vedica fin qui ignorata dai più, e dai pochi che ne avevano qualche notizia superficiale, citata spesso, a sproposito, sopra fonti di autorità sospetta. Se il metodo poi, col quale ho proceduto nella esposizione de' miti vedici, avesse la ventura d'incontrare il suffragio de' critici più spassionati, più sinceri e più diligenti, avrei pure speranza che il mio tentativo fosse per giovare qualche poco ancora all'intelligenza delle altre antiche mitologie, quando s'abbia non solo a rappresentarle, ma sì ancora ad indagarne criticamente le origini. In alcuna delle letture poi, quelle, per esempio, sull'Acqua, sul Fuoco, sul Vento, su Indra, su gli Açvin, su Brahman, ho istituito alcune nuove e speciali discussioni, sopra le quali ardisco richiamare particolarmente l'attenzione degli studiosi. Chè, se l'opera mia paresse tuttavia ad alcun investigatore troppo insufficiente, e lo invogliasse a ritentarne presto una migliore, io sarei pure contento di questo suo merito negativo; e mi parrebbe di non avere perduto il mio tempo, quando fossi riuscito a dare una spinta, che oserei chiamare felice, a qualche ingegno meglio nutrito e più gagliardo del mio, verso una più matura investigazione del vero.
E mi consolerei poi sempre per l'occasione che [x] mi si sarebbe offerta, mio illustre e caro Signore, di esprimervi una volta, secondo il mio potere, in pubblico quei sentimenti di profonda osservanza e d'amicizia devota, coi quali godo rimanere
Firenze, ottobre 1874.
Il vostro deditissimo
Angelo De Gubernatis.
[1]
Tra gli Scritti minori di Guglielmo Wackernagel, che l'editore Hirzel va pubblicando a Lipsia, trovasi uno Scherzo che ha fatto particolarmente fortuna. Nella prefazione al primo volume dei Kleinere Schriften, Moritz Heyne lo chiama ein frischer und feiner Scherz, e gli attribuisce tanta importanza da segnalarlo, in modo speciale, all'osservazione degli studiosi; e so già di molti eruditi che vanno pazzi per queste dodici paginette umoristiche del chiaro Germanista. Lo scritto di Wackernagel apparve la prima volta nell'anno 1856, presso il Neues Schweizerisches Museum edito dai professori Fischer, Schweizer-Sidler e Kiessling. Lo scrittarello reca il titolo seguente: Il cagnolino di Bretzwill e di Breiten, tentativo d'investigazione mitologica. (Die Hündchen von Bretzwil und von Bretten, Ein Versuch in der Mythenforschung.) Lo scritto di Wackernagel è piaciuto tanto in una parte erudita della Germania, che se un mitologo s'attentasse oggi ancora di dimostrarvi che ci sono de' miti, per quanti fatti egli potesse addurre a sostegno della sua dottrina, si sentirebbe per unica risposta domandare: Avete letto il cagnolino di Bretzwil e di Bretten? Nel secolo passato, un solo motto di Voltaire avea la pretesa d'annientare il Cristianesimo; nel [2] secolo nostro, la ingegnosa buffonata di un solo erudito dovrebbe abolire tutta la mitologia. Offenbach ha messo in canzonetta l'Iliade; perchè un professore non potrebbe ora tradurre in prosa quella canzonetta? Dopo tutto, uno scherzo si legge più volentieri e si ritiene più facilmente d'un trattato. E chi non ha letto le molte opere dottissime di Wackernagel, lo ricorderà invece lungamente per la sua storiella de' due cagnolini, arma fatata, con la quale si dispenserà dal considerare molte questioni che il ridicolo ha ornai risolute.
Il carattere del nostro tempo è spesso la facilità; lo scibile, quando imbarazza, si esclude. Così noi troviamo molti uomini che si credono civili e trattano il mondo come se fosse nato ieri, e sto per dire, quasi come se lo avessero essi stessi creato e composto ad immagine loro. Essi non credono all'età eroica, perchè essi stessi non si trovano più eroi; e non credono agli Dei, perchè essi hanno perduto il sentimento del divino. Chi s'accinga loro a dimostrare lo svolgimento successivo della natura e dell'umanità, perde l'opera; essi trattano, per rispetto al tempo, l'uomo antico, a quel modo con cui noi società civili, per rispetto allo spazio, trattiamo le società selvaggie. Sono altri esseri, con altri organismi, con altra vita; nulla di quelli più ci perviene e ci tocca; ogni secolo è un tutto vivente, da sè, per sè, distinto da cento unità che chiamano anni. Ogni figlio che nasce non riceve nulla alla sua radice, vegeta isolato, completo, co' suoi vizi, con le sue virtù, e non si tramanda quasi altrimenti che per la pecunia, eredità che i superstiti raccolgono da quelli che se ne vanno. Molti, anzi troppi comprendono in tal modo ristretto la vita. La storia non è un'armonia, ma una confusione di suoni. Chi s'attenta a dimostrarne la continuità, a cercare nel presente i frammenti del passato, a far la storia naturale del principe [3] degli animali, si sentirà abbaiar dietro il cagnolino di Wackernagel.
Un mezzo secolo fa, per confondere i mitologi, un bell'ingegno avea voluto provare come fosse anco possibile il fingere in Napoleone I un mito solare. Alcune curiose analogie trovate tra la vita dell'intraprendente conquistatore con le gesta più caratteristiche dell'eroe mitico, posero in grande discredito la mitologia, come se la somiglianza accidentale di una realtà terrena con un'altra più solenne realtà dalla fantasia popolare figurata nel cielo dovesse distruggere necessariamente il mito. La levità de' giudizi umani è tanta, che il ridicolo parve allora invincibile, e nessuno si curò d'indagare se fosse pienamente logica la conseguenza che si traeva dalle premesse. Su che si fondava, insomma, il ragionamento? Voi dite che in cielo l'eroe mitico vive così; io vi dimostro che Napoleone sopra la terra ha vissuto nel modo medesimo; dunque anche Napoleone dovrebbe essere un mito; ma un mito non può essere, perchè Napoleone io l'ho veduto, come lo videro molti de' miei contemporanei; dunque i vostri miti non sussistono. Vi pare che il ragionamento corra? Eppure tutti quelli che risero ed approvarono, quando uscì quella caricatura, ragionarono alla stessa maniera e sentenziarono però che la mitologia era morta sotto quel ridicolo.
Sorsero in Germania, dopo parecchi anni, a farla rivivere valorosi mitologi tedeschi, e a dimostrarne meglio la realtà storica si valsero, nella ricerca, di quello stesso metodo comparativo, che era stato vittoriosamente adoperato per discoprire le affinità linguistiche della nostra stirpe indo-europea. S'era per lungo tempo creduto che ogni lingua ariana fosse un tutto organico completo, perfetto, isolato per sè, senza addentellati, all'infuori di quelli con una maravigliosa lingua primitiva, [4] la lingua d'Adamo, che si faceva parlare ebraico. Menagio e gli altri etimologi dello stesso valore che il motto espressivo di Voltaire sopra l'ufficio delle consonanti e delle vocali ha troppo bene scolpiti, dando una elasticità prodigiosa ai vocaboli d'ogni lingua, li conducevano a miriadi a darsi battaglia sopra un'esile radice ebraica, la quale quando, per dispero, non potesse più sopportare il peso di tanto conflitto, si ritraeva, cedendo il campo a qualche altra radice più arzilla, chiamata prontamente in soccorso come cortese ausiliaria. Se la confusione delle lingue non si era dunque fatta in Babele, si fece nel secolo decimosettimo in Parigi, dove il Menagio teneva aperta accademia. Come le lingue, si considerarono pure le mitologie. Esse venivano osservate come prodotti completi e distinti della fantasia letterata de' poeti di ogni singola nazione, e quando la pluralità degli Dei offendeva la Maestà del Dio unico ebraico-cristiano, si cercava di comporre il dissidio interpretando i miti greci e latini come allegorie morali. Ogni Nume, per quanto poco edificante sia stata la sua vita, ebbe obbligo di rappresentare simbolicamente una virtù; e così si sono potuti compilare dizionarii e trattatelli di mitologia classica per uso della gioventù studiosa, e un poco anche per uso di que' poeti poveri di idee e di sentimento, i quali, quando avessero invocato il biondo Febo, o il fiero Marte, o la lusinghiera Ciprigna, o la casta Diana, e ornato in versi qualche aneddoto più o meno autentico dell'Olimpo ellenico, avevano esausta tutta la loro ispirazione.
La filologia comparata trova ancora molti increduli in Germania, e moltissimi fra noi. Vi è tutto un popolo di eruditi che guarda sempre compassionevolmente tutta questa gente nuova che ardisce ricercare nuovi veri oltre quelli appresi da molti secoli in quella duplice scienza [5] ch'essi chiamarono sacra e profana. L'etnografia biblica durò per essi infallibile; Japhet è Giapeto. Giapeto è un greco. Dal greco discende il latino. Si trova la lingua etrusca? È un mistero. Ma se si ha da dichiarare si ricorre al greco; fallita la prova del greco, deve supplire l'ebraico. Tutto si chiude entro quel circolo erudito. Al di fuori di esso, non vi è storia, non vi è poesia, non vi è scienza, non vi è salute. Gl'Indiani sono selvaggi. I Germani e gli Scandinavi sono popoli che si pascono di nebbia; lo Slavo non conta; basta il knut a rappresentarlo. Se anch'essi hanno mitologie, al più sono mitologie mostruose. Possiamo occuparcene, per curiosità, come ora sembra che si venga pure disegnando una mitologia ottentota. Così ragionano i dissidenti, che vorremmo chiamare gli ignoranti, se non fossero, per la massima parte, gente erudita e togata che siede in cattedra e parla gravemente.
Ma la mitologia comparata fu anche più disgraziata della filologia. Essa non ha solamente contro di sè i pedanti dell'antica forma, ma anche quelli della nuova. L'erudito dell'antico stampo occupavasi della sola antichità classica; sopra la rettorica di Quintiliano esso piantava le colonne d'Ercole. L'erudito moderno ha fatto un passo importante. Esso ha considerato anche la letteratura medievale e la letteratura popolare contemporanea. Con una diligenza degnissima di lode, esso è venuto accozzando preziosi materiali, e ponendoli in luce. Non seppe avvivarli, non seppe o non volle penetrarne l'intima essenza; ed era nel suo diritto; non è di quello che gli manca, pur troppo, che noi possiamo accagionarlo; anche i Reinhold Köhler hanno il loro merito presso gli studiosi, come rendono sicuramente un buon servigio alla letteratura i bibliografi. Ma che si direbbe di un bibliografo, il quale s'attentasse di negare ogni diritto [6] alla critica, per la sola ragione ch'egli non ne ha mai fatta? Così vi sono raccoglitori di novelline, di canti popolari, di leggende, di tradizioni, i quali gridano l'allarme contro il critico mitologo, che ardisca cercare l'anima di que' piccoli organismi, pel solo motivo che essi non li hanno mai sentiti palpitare, avendo raccolte tradizioni per accrescerne il numero nel loro museo, non già per riuscire a penetrarne l'intima natura e rappresentarla e interpretarla come una figura vivente dello spirito umano. Contro il mitologo che compara, oltre i vecchi pedanti preoccupati di simmetrie grammaticali e rettoriche, stridono dunque ancora i novissimi eruditi, intenti a far dei volumi coi racconti che il popolo ha bene narrati, ma ch'essi non hanno bene compresi; e aizzano però contro il mitologo il cagnolino di Wackernagel, e quando esso caninamente latra, levano un applauso così festoso, che ne arriva lo strepito fino a noi.
Ma a che si riduce, insomma, lo Scherzo di Wackernagel? Vediamolo. Nè io di trattenervi sopra un argomento così umile vi chiedo scusa; poichè, se, con tali armi, presumono gli avversarii nostri combatterci, è giusto che sappiate quali armi sian quelle, per farne il conto che meritano, e non lasciarvene sorprendere. Il ridicolo può, quando giunge improvviso, riuscir contagioso anco agli uomini gravi; ma quando si apprenda di che natura sia e con quali arti si mova, esso non ha più presa su altri che sul volgo. Del resto, lo stesso Wackernagel dovea fare una stima assai mediocre del proprio Scherzo dell'anno 1856, quando nel 1867, seguendo quello stesso metodo che egli aveva deriso, trattava distesamente della Thiersage, in uno scritto che fu compreso testè nel secondo volume de' suoi Kleinere Schriften, ed ove, se con erudizione un poco [7] superficiale si tocca delle tradizioni epico-zoologiche orientali, si riconosce pure la necessità di ricondurre all'Oriente le tradizioni dell'Occidente e di far risalire all'epopea la favola.
Ora udiamo il Wackernagel: — «Dicesi qui in Basilea di un uomo, il quale arriva col detto o con l'opera in ritardo quando tutto è già passato, o d'una cosa, d'un avvenimento che arriva in ultimo, quando non c'è più tempo: «ei viene» oppure «è come il cagnolino di Bretzwil.» Bretzwil è un villaggio nel territorio di Basilea. Presso il cagnolino di Bretzwil se ne trova un altro, divenuto esso pure proverbiale, il cagnolino di Bretten; Bretten è una piccola città del Palatinato. Di quest'ultimo Heberer nella sua Servitus Aegiptiaca (stampata nel 1610 ad Heidelberga) narra la seguente storiella che subito ci colpisce:
«Viveva in Bretten un uomo, così poveraccio, che avrebbe dovuto morire di fame, se un cagnolino ad un tempo fedele ed accorto non gli avesse prolungata la vita. Esso, ogni giorno, correva ora presso l'uno, ora presso l'altro macellaio della città, sottraeva ogni volta una salsiccia e la portava al suo padrone. I macellai, i quali per lungo tempo non aveano avuto sentore nè del furto, nè del ladro, si posero finalmente sopra le tracce del cagnuolo e stettero in agguato. Alfine, sul punto in cui il cagnolino voleva afferrare una salsiccia, il macellaio colse il cane, gli tagliò la coda e gliela pose trasversalmente in bocca, così com'esso era solito a portar via le involate salsicce; quindi lo lasciò correre. Il cagnuolo tornò a casa, pose, come già la salsiccia, in mano del padrone la coda, si buttò giù, e morì.» Heberer era egli stesso di Bretten, e dovremmo credere ch'egli abbia fedelmente riprodotta la tradizione locale, ed anzi esser disposti a credere che la stessa fosse letteralmente vera. [8] Ma si affaccia il nostro canino di Bretzwil, il quale a quello di Bretten somiglia tanto pel suo essere bestiale e pel nome del luogo, e pure ne differisce tanto pel nome e pel significato, da non potersi identificare finchè si rimanga sopra il terreno storico. Quindi la necessità di lasciare intieramente da banda il terreno storico, lanciandosi piuttosto da Bretten del Palatinato e da Bretzwil del territorio di Basilea nel mondo mitico-simbolico, e dalle più solide basi ch'esso offre cercare l'idea, per la quale i due cagnolini si ritrovano uniti.» — E qui il Wackernagel incomincia la sua caricatura. Ne reco il principio, perchè si comprenda il tono dell'erudita buffonata: «Il cane troviamo nella credenza e nell'uso dell'antichità e del Medio Evo ed anche ora in parecchi senza dubbio non più intesi e male adoperati proverbi come il costante simbolo riproducentesi della morte. Cerberus, il janitor Orci, è un cane, un cane più insigne, poichè esso ha tre, anzi cinquanta, anzi cento teste; contro Odino, che nella Vegtamskvida cavalca verso Niflheim e ad Hel, la Dea della Morte, abbaia un cane feroce, precipitato giù dalla casa della Dea; naturalmente il cane, mentre infuria, lascia la porta aperta; quindi il proverbio: cani e villani lasciano la porta aperta. Ed ancora in uno de' più bei rami del grande maestro di Nürnberg questa processione infernale: un guerriero cavalca uno splendido cavallo superbamente tranquillo; presso di lui, sopra una misera rozza, la Morte, fra i due corre un cane, sinistro nel suo silenzio e in ogni sua espressione; evidentemente di nuovo il cane funebre, ed il cavaliero, non già (codesto può credere solamente un cervello limitato) il signor Francesco di Sickingen, ma sempre ancora il vecchio Odino in uno de' suoi non so quanti avatar.» La buffonata si continua deplorevolmente sopra lo stesso tono per altre dieci pagine. [9] Sì, deplorevolmente, poichè, nello studio di provocare il riso, il Wackernagel confonde le cose più gravi con le più lievi, e sacrifica scientemente il vero.
Il proverbio sopra i cani e i villani che lasciano la porta aperta, ch'egli cita a sproposito, dopo avere ricordato il cane janitor Orci, infirma forse che il cane sia spesso nel mito il messaggiero della Morte com'è l'ostiario del regno de' morti? Certo non è il cagnolino di Bretzwil nè quello di Bretten che ci danno un'idea precisa del cane funebre; ma l'animale che si sacrifica pel suo signore, per quanto Wackernagel fosse disposto a credere la storiella di Heberer indigena del Palatinato, è sicuramente una leggenda di origine mitica, della quale numerose leggende indo-europee avrebbero potuto offrire al dotto Professore di Basilea le varianti, senza ch'egli s'avesse a dar tanta briga per mettere sossopra tutte le mitologie, e rintracciarvi le più disparate notizie tramandate da esse sopra il cane, e forzarle quindi reciprocamente ad una unità ridicola e mostruosa. Che direste voi d'un filologo, il quale trovando per esempio la parola Deus, invece di considerarla nel suo pieno organismo vivente, la scomponesse nelle sue quattro lettere, e poi, come gl'Indiani distinguevano nella mistica sillaba om (a-u-m), le tre persone della Trinità brâhmanica, Çiva, Vishnu e Brahman, perchè nella prima parola entra la lettera a, nella seconda la lettera u, nella terza la m, nella parola Deus vedessero, con lo stesso arbitrio analitico, i Domini pater, filius, spiritus?
Scherzo contro scherzo, io non credo che quello di Wackernagel valga molto di più. Non so se esistesse nel 1856 un pazzo mitologo comparatore quale il Wackernagel lo supponeva per aver buon giuoco nel confonderlo col ridicolo. Lo Scherzo, al più, proverebbe come a nulla valga la molta erudizione, senza un metodo [10] critico che la guidi e sostenga, e ci darebbe ragione per far voti, affinchè gli eruditi si contentassero di raccogliere materiali, e di farne l'inventario, senza porli in ordine, ch'è lavoro critico al di sopra del loro potere, senza interpretarli, chè per interpretarli bisogna prima comprenderli, e a comprendere le cose vaste occorre vastità di comprendimento. Wackernagel non era certamente uomo di piccolo ingegno, ma, per questo appunto ch'ei poteva pregiare l'efficacia scientifica della mitologia comparata, ebbe torto, quando s'accinse a seppellirla col ridicolo appena nata. Poichè lo Scherzo suo è così fatto, che non colpisce solo l'esagerazione dei singoli investigatori, ma intende ad isolare intieramente il mondo antico mitologico rivelato dall'arte, da quello che si conserva in modo frammentario nella tradizione popolare, e perchè infine deride l'unità fondamentale de' miti, come altri deride ancora l'unità de' linguaggi indo-europei.
Nel nostro linguaggio famigliare, quando si vuole indicare una cosa che non è reale, e che lo spazio od il tempo nasconde alla nostra vista, si suol dire: è un mito. Questa singolare espressione è il primo ostacolo che trova il mitologo, quando richiama l'attenzione degli studiosi sopra il mondo mitico. Con l'indirizzo positivo dell'odierna filosofia sembra stonare od avere almeno una mediocre attrattiva qualsiasi scoperta che si presupponga non condurre direttamente a ritrovare alcuna verità di certezza matematica. Il mito per molti non è altro che la negazione del reale; fosse almeno l'ideale; ma neppur questo si concede. Come il capriccio turba il movimento ordinato ed armonico della ragione, come l'allucinazione abbaglia la vista, così il mito distrae dal vero la poesia. Si considera il Nume come un fantasma straordinario, che appare all'uomo, per caso, senza che l'uomo l'abbia evocato o prodotto; un fantasma [11] senza corpo, quantunque assuma capricciosamente forme all'uomo ben note. E questo modo volgare di trattare anticipatamente i miti prima di studiarne la natura, prima di conoscerli, toglie ogni favore alla mitologia. Nessuno di noi vuole accusare la propria ignoranza, ed incolpare il proprio difetto d'analisi. Perciò rimane molto più vicino alla scienza l'umile volgo che crede ancora alle sue streghe, a' suoi incantesimi, che noi, gente di spiriti forti, che sorride e scote il capo dicendo: no, quello in cui il volgo crede, non esiste, non ha mai esistito.
Dunque, mi domanderete voi, dobbiamo, ritornando superstiziosi, credere in quel soprannaturale che la ragione nostra ha rovesciato? Non è codesta fede che io domando allo studioso; ma sì invece che esso non cerchi la storia dell'uomo solamente ne' monumenti scritti, spesso ingannevoli, e che tratti le credenze popolari, le superstizioni, almeno con quella serietà con cui l'archeologo esamina i rottami d'un antico edificio; come l'archeologo ricompone dalle rovine il suo monumento antico, perchè non potremo noi concedere all'uomo vivente la stessa attenzione che non neghiamo all'opera materiale dell'uomo?
Se le streghe non ci sono più, ci è ancora la credenza nelle streghe. Esaminiamo come questa credenza sia nata, e perchè si mantenga, invece di deriderla; e troveremo sotto l'antica strega, in cui si crede ancora, sebbene siasi staccata dal fondo reale, sopra il quale si disegnò la prima volta, una realtà molto sensibile che dura ancora, sebbene la sua forma mitica siasi ora isolata da essa ed erri perduta ed incerta nella sola immaginazione popolare. Quelle idee che a noi paiono false, quel pauroso sentimento del volgo dominato da una certa mole d'idee sovrannaturali, debbono avere il loro [12] significato, la loro storia, la loro causa nella natura. È inutile il dire, non è, quando si tratta solamente di vedere se quello che ora non è più, non abbia potuto essere una volta, e se, date le condizioni morali d'una volta, lo stesso effetto non si possa ancora riprodurre. Quando un erudito vi dice che la parola Befana è corrotta da Epifania, dice il vero; quando aggiunge che la voce Epifania vuol dire apparizione, vi dice cosa che probabilmente sapete già, ma che può essere innocentemente ripetuta; quando vi fa sapere che i Latini in que' giorni stessi, ne' quali i Cristiani celebrano l'arrivo dei Re, avevano cerimonie popolari consimili a quelle che rendono tumultuoso fra noi il giorno della Befana, vi invita ad un raffronto, al quale non avevate forse pensato; ma, anzi che aiutarvi a capire quello che la Befana sia, s'egli non aggiunge altro, v'imbroglia. L'erudito cattolico non vorrà che poniate in oblio come per Epifania si intenda l'apparizione della stella ai tre Re Magi; sebbene vi abbia già insegnato come anco i Greci avevano le loro Epifanie, feste solenni, nelle quali gli Dei si manifestavano ai mortali. L'erudito vi pone a riscontro fatti che, se non vengono spiegati da una ragione più profonda che non sia quella indicata dalla sola storia esterna, spesso meccanica, invece di dichiararsi a vicenda, a vicenda si confondono. Non è qui il luogo, in cui io possa domandare ai Cattolici perchè festeggino sul principio dell'anno l'arrivo de' Re Magi; essi mi risponderebbero che il loro dogma, il loro rito è infallibile, e che non giova indagare il perchè di un mistero che bisogna credere solamente perchè ci fu rivelato. Per quanto sia dunque grande la tentazione mia di lanciar l'indagine anche fuori del mondo ariano, quando in tal mondo si producono fenomeni conformi a quelli che ci occupano, nè solo vi si producono, ma ne escono per [13] venire a confondersi coi nostri, rispetterò le credenze cattoliche, quando non ho un bisogno assoluto di distruggerle per la dimostrazione del vero. Ma io vorrei sapere dall'erudito il significato di quegli usi pagani che perdurano nella festa cristiana dell'Epifania. Essi diranno probabilmente: la Chiesa cristiana non si curò di rimuovere costumanze che potevano invece, mantenute, dare alle nuove credenze una base antica. La verità è ora che le credenze cristiane importate sul terreno latino sono quasi partite, dove le tradizioni pagane vi si conservano tenaci. Ma perchè questa grande tenacità? e perchè i Latini festeggiavano poi in tal forma singolare i primi giorni dell'anno? Qualche erudito fa bene notare la corrispondenza tra certe feste religiose e le vicende agrarie e celesti dell'anno. Ma egli si crederebbe troppo temerario, quando tentasse di ricercare nelle feste religiose i caratteri simbolici di quelle vicende. O quando ardisse tanto, si limiterebbe al mondo romano, e col mondo romano s'ingegnerebbe di spiegare ogni rito singolare. Chè, se gli accadesse di incontrare un uso medesimo in Grecia, preparerebbe una dissertazione per ricercare se i Greci l'abbiano tolto dai Latini, o non più tosto questi da quelli. Quanto ai Germani, agli Slavi, agl'Indiani, se l'erudito viene a sapere che essi ebbero od hanno usi simili ai nostri, si contenterà di trovar curiosa tale somiglianza, ma si guarderà bene di domandarne il perchè o d'ammettere che un perchè vi sia. Ogni popolo d'eruditi in Grecia, in Italia ed altrove ha incominciato col dichiarare autoctona la nazione, alla quale esso apparteneva, sebbene si rispettasse l'autorità della Bibbia che sostiene una genesi diversa. Ora non siamo più a questo punto; ma troppi di noi, quando, nello studio delle antichità italiche, ci troviamo confusi innanzi a costumanze, istituzioni, tradizioni, monumenti [14] non conformi alle nozioni che ci rese famigliari il mondo latino, le riferiamo a quella comoda razza pelasgica, inventata, come sembra, perchè desse ospitalità a tutti que' popoli che la etnologia non ha ancora saputo determinare e classificare. E con questa preoccupazione continua, eccessiva, de' caratteri etnici, trascuriamo lo studio di quella unità più larga e potente ch'è l'uomo nell'immediato contatto con la natura. Ci ribelliamo all'idea di un uomo primitivo bruto e brutale, o ce ne consoliamo, pensando che nella scala degli esseri animati l'uomo è il più intelligente. Siamo disposti a credere, perchè non possiamo impugnarla, all'eredità del sangue; e incominciamo ad ammettere, se non ancora a proclamare, che si trasmette col sangue una parte dell'umano carattere. Ma che faceva ella la intelligenza dell'uomo primitivo, quando si trovava ancora quasi priva di idee, al contatto della viva natura? Che poteva essa altro fare se non sopra la natura vivente creare idee vitali? E i miti sono la figura di quelle idee elementari, le quali s'improntarono con più forte impressione nella nostra razza, perchè la razza nostra era la osservatrice dotata di fibre più delicate e sensibili, e più atta pertanto a comunicare come a ricevere le impressioni. Liberiamoci da quel cumulo immenso di idee acquisite, per convivenza sociale, in parecchie migliaia di secoli; dimentichiamo, se ci è possibile, le impressioni che il lungo contatto degli uomini lasciò in noi, e ritorniamo vergini innanzi alla natura. Ritorneremo forse ancora a creare i miti, o, per lo meno, li conserveremo meglio, poichè ne avremo un sentimento più vivo. Perciò il popolo che è ancora più presso di noi alla natura conserva meglio le sue credenze superstiziose, che noi deridiamo perchè le abbiamo perdute. Molte anzi di tali credenze superstiziose sono ancora miti trasparenti.
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E per miti trasparenti intendo quelli che sotto la figura immaginosa del linguaggio lasciano apparire evidente il fenomeno naturale. Crede il popolo della campagna toscana che la rugiada raccolta prima che si levi il sole, alla vigilia di San Giovanni, abbia virtù di conservare la vista. Noi sorridiamo alla credula ignoranza del volgo, dove dovremmo forse ammirarne soltanto la poesia. La festa di San Giovanni sappiam bene come cada sopra uno de' tre giorni del solstizio estivo, ossia de' tre giorni più lunghi, de' tre giorni più luminosi dell'anno. Se con la rugiada del giorno più luminoso si lavino gli occhi, noi vedremo più luce, noi vedremo meglio. Che cosa di più semplice, di più naturale, di più poetico che questa forma d'augurio? Eppure il volgo degli ignoranti, che mantiene la poetica usanza, ha torto, ed il nostro volgo erudito, che la disprezza, è il gran savio, al cui giudicio dobbiamo inchinarci riverenti. E pure non intenderemo mai la mitologia e non avremo però diritto di deriderla, se non intenderemo prima il linguaggio ed il costume popolare. Il popolo è l'eterno e credulo fanciullo che dopo avere creato i miti, se li conserva. I Greci, il popolo più naturale che si sia spiegato nella vita storica, li fecero immortali nelle loro opere d'arte; i Latini, popolo pratico per eccellenza, li adoperarono come elementi della loro propria costituzione; noi li ravviviamo nella poesia del nostro linguaggio e del nostro costume. Il mito ha penetrato l'essere ariano; e, dove pare sterile e rozzo segno di un morto passato, è invece ancora potente elemento creativo. Dove il mito non passa, non passa quasi la poesia, inteso il mito nel senso suo più lato, ossia una figura immaginosa ed animata di un fenomeno naturale. Quando un poeta paragona la sua fantasia ad un cavallo indomito e selvaggio, crea un mito in sè; quando egli paragona il sole aurato ad un cavallo d'oro, crea il mito [16] nella natura esteriore. Nell'impeto della creazione ei non dice: il cavallo è rapido corridore sopra la terra, il sole è rapido corridore, il sole è rapido come il cavallo; dice invece, con più brevità, il sole-cavallo, od anche, guardando il cielo, semplicemente: il cavallo. La prima e più general forma del mito è dunque una similitudine fra una cosa lontana, o men nota, ed una cosa più vicina, e più nota. Certo, l'uomo dovette conoscere il cavallo, il cane, il bove, il serpente sopra la terra prima di collocarlo nel cielo. Ma il mito elementare nasce soltanto da questo trasporto di figure da un mondo prossimo ad un mondo lontano. A questo scambio d'immagini fra la terra ed il cielo potè pure concorrere, per molta parte, l'equivoco del linguaggio. In sanscrito, il cavallo è chiamato açva. Etimologicamente, la parola dovrebbe valere il penetrante, il rapido. Diminuita la coscienza etimologica del linguaggio, e dai qualificativi formatisi gli appellativi, molti rapidi divennero cavalli. E poichè açva, in origine, non solo significò probabilmente, come aggettivo, rapido, ma forse pure come neutro, la rapidità,[1] l'açvin che dovea originariamente esprimere il fornito di rapidità, ossia il rapido, poichè açva riuscì solamente più il cavallo, l'açvin diveniva il cavaliere. E poichè nel cielo vi sono due corridori, il sole e la luna, dei quali il primo è posto in relazione col crepuscolo del mattino, il secondo con quello della sera, s'immaginarono i due cavalieri, gli Açvinâu, i quali negli Inni vedici sono celebrati per avere vinta la corsa. Il crepuscolo prenunzia il giorno e la notte; è perciò il primo ad arrivare al segno, a toccare il limite del cielo, a vincere la corsa. L'equivoco del linguaggio può aver qui non solo giovato a creare il mito, ma ancora a distenderlo, [17] con l'immagine che si produsse del cavaliere, sopra quella preesistente, come pare, del semplice corridore, dell'açva.
La mitologia senza lo studio delle lingue antiche male si spiega; e non è troppo grande ardimento il soggiungere che essa alla sua volta ci spiega una parte, una piccola parte, senza dubbio, del linguaggio figurato popolare, specialmente di quello conservato in alcuni proverbii, ne' quali mi sembra avere riconosciuto un significato mitico. So che ai sudanti raccoglitori di proverbii move un olimpico riso questa invasione de' miti nella interpretazione di certi proverbii, che, del resto, essi confessano di non sapere altrimenti spiegare; ed alcuno di essi mi dà già voce di voler di ogni proverbio foggiarmi un mito. E pure io era stato molto sollecito a dichiarare che il numero de' proverbii mitici è ristrettissimo, come sono molto scarse ne' viventi linguaggi le parole di significato mitico.
Ma se i proverbii mitici sono pochi, que' pochi non vogliono essere negletti, e meritano che sopra di essi si raccolga l'attenzione degli studiosi. Nè chiamando mitico un proverbio, presumo poi necessariamente che la sua origine sia sempre asiatica od almeno antichissima. Poichè io non nego punto la possibilità che qualche nuova forma mitica si manifesti ancora di tempo in tempo sporadicamente nel linguaggio popolare. Quando il nostro diligente investigatore delle parlate toscane, il professor Giuliani, ci fa sapere che un contadino piemontese ed un montanino toscano, per dirgli ch'essi contentavansi di bere acqua pura, chiamarono l'acqua vin di nugoli, mi fa meglio comprendere la nuvola indiana paragonata ad un mostro-barile; dal qual barile poi la tradizione popolare leggendaria fa, per una inavvertenza dello scimunito, scorrere vino o birra per la cantina, che [18] la mamma improvvida gli ha data con la casa in custodia. Io non suppongo, senza dubbio, alcuna serie progressiva e continua che congiunga il vin de' nugoli toscano e piemontese con la nuvola-barile indiana; ma, dalla somiglianza delle immagini che raffronto, comprendo meglio la natura dei miti che mi studio d'interpretare. Io ho detto che la nuvola è paragonata ad un mostro, e che il mostro è talora rappresentato in forma di barile. Il mostro è generalmente, e, sovra ogni cosa, avaro. Domanderò dunque ancora se sia troppo strano che io abbia tosto ripensato al mito, quando, al cader delle prime larghe goccie di pioggia, intesi un giorno una popolana perugina uscire in questo proverbio: ohe! piove! l'avaro crepa. Che ha da far l'avaro con la pioggia, quando l'avaro non sia qui la nuvola che, crepando, lascia cadere la pioggia, come alla morte del mostro vedico Ahi, lo stringitore, l'avaro dragone, si scatenano le acque? Io potrei moltiplicare simili esempii; ma spero che questi bastino a persuadervi come il primo campo mitico sia il cielo, le prime figure mitiche siano i fenomeni celesti, le prime informatrici de' miti siano le similitudini del linguaggio popolare. Messi d'accordo su questo punto che mi pare essenziale, sarà più agevole a me l'imprendere, a voi il seguire la esplorazione nell'Olimpo vedico, che verrò tentando. La miniera è assai ricca; ed io non la esaurirò punto; ma sarò contento se alcuno di voi al fine della nostra peregrinazione potrà persuadersi che anche i miti sono stati una realtà, anzi l'unica realtà importante e caratteristica, per cui la razza indo-europea s'inalzò alla vita storica, con un linguaggio potente; poichè, per dirvi, oggi, l'ultima mia eresia, io credo capaci d'ideale, ossia potenti di progresso que' soli popoli che hanno un senso vivo della realtà, la quale è per sè tutta poetica e vivificante, quando si comprenda nella piena e perfetta [19] armonia che governa la vita, quando nel ricordare il passato l'uomo viva del presente e prepari pure l'avvenire, secondando così la natura che non fa altro se non conservarsi svolgendosi ed ampliandosi. L'uomo antico ha spiegata ne' suoi miti celesti la poesia ch'egli avea chiusa come germe in sè; l'uomo moderno deve entrare in gara generosa con gli Dei suscitati dalla immaginazione poetica de' nostri avi, e, nuovo e stupendo artefice, mirare a produrre il divino nella vita.
Angelo De Gubernatis.
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Il primo problema che ci si affaccia nello studio della mitologia vedica è questo: fu prima il Dio o furono prima gli Dei? Invece di rispondere, potremmo proseguire a rivolgerci altri problemi: fu prima il tutto o furono prima le parti? fu prima l'astratto o fu prima il concreto? fu prima il sovrannaturale o fu prima il naturale? Voi comprendete che il porsi innanzi tali questioni è quasi un risolverle, poichè il tutto suppone le parti, l'astratto il concreto, il sovrannaturale il naturale. Come non vi è re senza popolo, così non vi è principio senza fondamento, non vi è legge senza materia ch'essa possa regolare, non vi è il superlativo senza i diminutivi, non vi è il Dio ottimo, massimo, senza gli Dei minimi che concorrano a farlo tale. Nel nostro studio, per ritrovare il Dio uno, dovremo dunque incominciare a studiarne gli elementi divini, ossia gli Dei. Ma qui alcun filosofo potrebbe credere, con un po' d'arguzia, di sorprenderci in contradizione, avvertendo come logicamente, e secondo la nostra propria dottrina, i plurali sono collettivi, e ogni collettivo, ogni plurale, [22] suppone il singolare; il che si può accordare volentieri, ma chiedendo la facoltà di esaminare la natura propria di questo singolare, che moltiplicato produce la pluralità degli Dei. Per ritrovare il valore intimo d'un nome, bisogna farne la storia, indagarne il suo primo valore qualificativo, ed estrarne la radice fondamentale. Per nostra fortuna, la storia vedica della parola che studiamo è assai trasparente. Il Dio, nella lingua vedica, ossia nella lingua ariana, della quale siano pervenuti a noi più antichi e più autentici documenti, è chiamato devas. Ognuno di voi saprebbe trovare le analogie tra questa voce e la voce con cui si esprime ora il nome dell'Essere supremo in parecchie lingue europee. Ma molti di voi potrebbero pure riconoscere, l'identità radicale di deus e di divus; e sapendo come il divus o divum, o dium de' Latini valga semplicemente il cielo, il cielo aperto, il cielo luminoso, e quello che i Francesi chiamano la belle étoile, avrebbe da questa sicura nozione un primo avviso per ricercare nel Dio nient'altro che il luminoso, ossia il cielo. Noi figuriamo il Dio splendido, eterno, infinito; ma il cielo è il solo che sia per noi eternamente splendido ed infinito. Quando il sole s'alza, abbiamo l'aria luminosa, ossia il dies, il diurnus, il giorno, il tempo luminoso. Quando l'aria s'imbruna e la terra si fa scura, occupata dalla notte, vi è pur sempre qualche cosa che risplende in alto, che ha un colore, che scintilla, che ha vita; il cielo appare sempre in veste luminosa, il luminoso è eterno, il Dio è immortale. Perciò, come canta Ovidio, il Nume, attraendo l'uomo a sè:
Os homini sublime dedit, coelumque tueri
Jussit.
La lingua latina ha conservato nelle voci divum, dium, [23] il primo significato della parola deus; ma ha perduto il verbo che esprimeva l'idea elementare di quella parola, ricorrendo ad altre radici per rappresentarlo. Le lingue slave hanno conservato quel verbo, ma modificandone alquanto il significato; divo in russo è la meraviglia, divitj vale meravigliare. La lingua sanscrita ha vivacissima, mobile e flessibile nella coniugazione come nella declinazione l'antica radice, dalla quale si svolse la parola devas: le radici dî, dîp, dîv, div, dev, significano tutte splendere, brillare, abbagliare. Dalla radice div, splendere, abbiamo poi il nome mascolino e femminino div (dyu, dyo, dyâu), il neutro divam, il mascolino divasas, il neutro divasam, che valgono cielo e giorno, come lo splendido (cfr. il mascol. e neutro dinas, il neutro dinam, che valgono giorno), i femminini dyut, dyuti, i neutri dyumnam, dyotanam, splendore, e parecchi altri derivati contenenti tutti l'idea medesima. Da div, che vale cielo come luminoso, proviene nella lingua vedica l'aggettivo deva, ossia celeste, ossia propriamente appartenente al luminoso, e quindi luminoso esso stesso. Dall'aggettivo deva, celeste, si formò quindi il sostantivo mascolino devas, il celeste, il Dio. È dunque evidente che il Dio primitivo fu un essere celeste, e che conviene perciò ricercarlo solamente nel cielo. Tutti gli argomenti che si possano portare contro la nostra interpretazione de' miti, non valgono a distruggere questa verità fondamentale: il Dio primitivo fu concepito soltanto come un essere celeste; anzi, fu chiamato il celeste. E poichè il cielo è un campo vasto, animato da molti esseri, da molti aspetti diversi, da molti fenomeni singolari, così vi sono molti celesti, ossia molti Dei, senza alcuna necessità assoluta che vi sia un solo celeste, un celeste sovrano, quando questo celeste per eccellenza non sia il cielo stesso. E noi vedremo, per [24] l'appunto come, nella mitologia vedica, il celeste principale, il Dio per eccellenza sia divenuto il cielo medesimo, col sole e la luna che si suppongono suoi reggitori nel giorno e nella notte. Ma dall'essere, come abbiamo veduto, il devas, in origine, non un sostantivo, ma un semplice aggettivo, ne viene tolta la necessità che i molti abbiano principiato da uno che fosse primo e sopra tutti; o, se un principale vi ebbe ad essere, esso fu, lo ripeto, necessariamente il cielo o il celeste per eccellenza, coi più splendidi animatori del cielo, il sole e la luna. S'intende che noi parliamo ora della primitiva mitologia, e non di quella che si svolse non solo nei periodi della vita brâhmanica, ma nello stesso ultimo periodo vedico, in cui incominciano a disegnarsi, col sistema delle caste nella società umana, per opera di riflessione, le teogonìe e cosmogonìe celesti.
Come sarebbe dunque temerario il giudicare tutta la mitologia vedica dalle ultime rappresentazioni della divinità che s'incontrano negli Inni vedici, così sarebbe ora per noi temerario non meno il rappresentare tutti i miti vedici secondo la loro sola forma più elementare originaria. Senza che abbiamo bisogno di ricorrere al Brâhmanesimo per ritrovare una mitologia diversa, nella stessa letteratura vedica è agevole lo scorgere la esistenza di parecchi strati mitologici, sebbene il determinarli in modo preciso sia lavoro non solo difficile, ma quasi impossibile. La loro esistenza tuttavia non può essere messa in dubbio, come non si mettono più in dubbio, dopo i dotti lavori de' professori Weber e Max Müller sopra la storia della letteratura vedica, i diversi periodi percorsi da questa letteratura. Degli Inni vedici, gli uni non sono altro se non canti di entusiasmo o di terrore innanzi alle forze benigne o maligne della natura. In altri inni, queste forze sono divenute vere persone [25] poetiche, col loro dramma e col loro carattere. In altri abbiamo il Nume ora immagine d'una realtà poetica, ora astrazione ideale nata sopra l'immagine, invocata dal cielo a proteggere il suo devoto, intervenendo ne' suoi sacrificii, nelle sue opere pie, nelle sue imprese terrene. In altri finalmente il Nume in persona od in ispirito ideale è disceso in terra, passa nel fuoco sacrificale, nell'ostia consacrata; l'idolatria incomincia. Perciò si può dire che la mitologia vedica può offrire armi a tutte le dottrine, a tutte le credenze, quando si voglia ammettere che sia lecito isolare in uno studio storico un'idea secondaria dalle cause e dalle forme anteriori, dalle quali si svolse, per giudicare sopra quella sola idea una civiltà molto complessa e due volte millenaria. Ma, non potendo definire i multiformi strati mitologici dell'età vedica, anco perchè non incomincia l'uno dove l'altro cessa, ma spesso, invece, si frammettono, si concatenano, si confondono insieme, gioverà solamente avvertire come la mitologia vedica si rappresenta a noi in due larghe forme distinte, secondo che i miti sono nati o meditati. Suolsi chiamare spontaneo il periodo inventivo, poichè il mito si crea in esso involontariamente e quasi inconsciamente; nel secondo periodo, invece, sebbene l'uomo segua ancora un suo istinto che lo porta a meditare il creato, in quest'opera egli è più attivo che passivo. Sorge in questo periodo su basi mitiche umiliate fino all'uomo un edificio religioso, nel quale l'uomo suo autore, in parte consapevole, inalza sè stesso e si solleva a concepire e ad operare il divino. Chè se poi il tempio si popola di ciechi idolatri, i quali, incurvandosi, non ne vedono più le cime, ciò basta a provarci come le religioni, al pari delle mitologie, hanno un periodo poetico ascendente, ed un periodo fatale di discesa, nel quale il cielo luminoso si restringe [26] e si chiude. Negl'inni troviamo il mito che principia e che finisce, e la religione brâhmanica che dove questa età mitica finisce, incomincia a disegnarsi. Ma, lo ripeto, sarebbe un errore il domandare a quel solo momento che possiamo dir postumo, l'interpretazione di tutti i miti vedici, come il domandare la soluzione di tutte le formole religiose brâhmaniche ai primi idillii figurati da un popolo di pastori nell'Olimpo vedico.
Io vorrei dunque, in questa nostra ricerca, entrare in materia seguendo i metodi adottati dal Preller ne' suoi eccellenti trattati di Mitologia greca e latina, e la stessa sua distribuzione di capitoli, a fine di rendere più agevoli a quelli di voi che volessero quindi istituire un confronto fra le tre mitologie, i riscontri. Ma, come non si può, almeno per ora, insegnare la lingua indiana con lo stesso ordine con cui s'insegnano le lingue classiche, poichè la grammatica sanscrita è retta da una fonetica bene distinta, perfettamente analitica, ordinata, rigorosa, completa, motivo per cui questo singolare carattere di perfezione la fece, al primo suo manifestarsi in Europa, stimare la lingua madre di tutte le così dette indo-europee, non mi sarebbe, all'incontro, possibile descrivervi l'Olimpo vedico, con quell'ordine, con cui potrei rappresentarvi il greco, e, sebbene più indeterminato, il latino; poichè, oltre i caratteri nazionali che distinguono le due mitologie indiane, la vedica che ci occupa e la brâhmanica che potrà occuparci un giorno, vi sono nella mitologia vedica come nella lingua sanscrita i caratteri di un mondo che l'Ascoli chiamò proto-ariano, per rintracciare i quali ci è necessario uscire da' soliti sistemi della mitologia scolastica. I trattati di mitologia suppongono l'Olimpo come fatto d'un solo pezzo, nel quale ogni divinità è un essere compiuto. Vi sono Dei maggiori e Dei minori; vi sono genealogie molto minute, [27] sebbene, secondo le fonti, alle quali si voglia attingere, molto spesso fra loro contradittorie; i poeti greci e latini conoscono perfettamente le gerarchie e i cerimoniali dell'Olimpo e li cantano, e spesso li adornano con la loro vivace fantasia; e i nostri trattatisti pigliano talora la fantasia d'un solo poeta, greco o latino, come sicuro indizio di una singolare forma mitologica. Nel numero di questi non è il Preller, il quale, erudito e critico, reca ed ordina le notizie de' miti greci e latini, secondo che le trova riferite negli scrittori dell'antichità, ma più tosto per farci conoscere quello che l'antichità pensasse o dicesse de' suoi miti, che per indagarne egli stesso la vera natura o abbellirli a noi col prestigio di una eloquenza artificiosa. È questo il pregio principale, per quanto ne pare a me, di que' suoi dotti lavori, ed è, per questo riguardo, ch'essi mi paiono degni d'esservi raccomandati. Ma la poesia vedica, nella quale tutta la primitiva mitologia indiana, di cui sia a noi giunta notizia, è contenuta, non ci permetterebbe, ripeto, un metodo conforme a quello seguito dal Preller. La mitologia greca, per mezzo degli artisti e poeti greci, diventò un'opera d'arte. L'Olimpo, malgrado le ire, le gelosie, le vendette, le passioni elleniche, in somma, che dividono, fra loro, gli Dei, presenta, per mezzo dell'arte, un carattere estetico d'unità morale che lo governa tutto. L'Olimpo vedico manca di questo carattere estetico, che regge invece in età posteriore, per mezzo della teologia, l'Olimpo brâhmanico. E, con ciò, non intendo argomentare che l'Olimpo brâhmanico sia più alto o più perfetto del vedico, ma solamente ch'esso è più sistematico, e che si lascia perciò meglio esporre, poichè il suo quadro essendo più limitato, per quanto vi appaiano figure mostruosamente gigantesche, può essere minutamente descritto in un trattato scolastico, [28] come in un catechismo religioso. La casta dei Brâhmani, come ne fu l'autrice, così volle essere l'artigiana, o l'artista che si abbia a dire, della seconda mitologia indiana. E questa si va quindi ancora insegnando nell'India; e questa udrete spesso ancora rammentare in Europa, ove divenne popolare la famosa indica Trinità, col suo Brahman creatore, col suo Vishnu conservatore e proteggitore, e col suo Çiva distruggitore; e per quanto incomplete, e in parte false, siano tali nozioni, s'accettano, si ricordano, si divulgano, perchè chiare, facili ed assolute.
Nell'Olimpo vedico, invece, vi è un po' d'anarchia. Il Dio più eroico, Indra, riceve da' suoi devoti molte lodi, ma la sua potestà in cielo non gli costituisce ancora alcuna beatitudine; egli è lodato, è grande, quando opera, ossia quando esso è congiunto col fenomeno fisico, da cui si svolge; ma, dov'egli non opera, il suo prestigio cessa. Nel periodo brâhmanico invece, nel quale Indra non opera quasi più, i poeti si occupano a descriverci il paradiso, in cui il Dio Indra, disoccupato, siede e regna glorioso. Negl'Inni vedici i miti si fanno; ne' poemi brâhmanici in parte si disfanno, in parte si incrostano e determinano con formole precise; il mito diventa dogma; e il dogma, com'è infallibile, così diviene immobile. Negl'Inni vedici non abbiamo ancora nè formole artistiche, nè formole religiose; gli Dei vi si muovono tanto più liberi, quanto più lieve e mobile è la persona che assumono. Talora abbiamo il semplice fenomeno fisico nel suo aspetto più naturale; talora il fenomeno che passa, piglia una forma personale; passa il fenomeno, anco la persona scompare e nessuno più la ricorda, e nessuno pensa più a venerarla, finch'essa non si ripresenta in un modo conforme ed analogo; ed è solo nella frequenza delle sue epifanie che si disegna una figura mitica, alla quale si [29] dà un nome che col tempo diviene un nume. Con tale sembianza che i miti ci danno per lo più di sè negl'inni vedici, sarebbe egli lecito a noi fissare in modo preciso i contorni di quegli Dei, illustrarli, colorirli, animarli, come persone complete? Questo non ci sembra il dritto nostro. Questo fu bene il dritto di quel popolo stesso che avea creato i miti, il quale, associandoli fra loro, collegandoli, appassionandoli e raccontandoli, ridusse i fatti mitici all'unità dell'epopea, e coi frammenti delle molteplici figure assunte dal fenomeno luminoso celeste compose e foggiò lo splendido eroe che fa cose straordinarie. Questo, se non fu il diritto, fu almeno l'arbitrio delle caste sacerdotali, le quali, approfittando della meraviglia del popolo che i fenomeni naturali avea trasformati in fatti sovrannaturali animati da una potenza divina, separò il Dio dal suo fenomeno celeste e lo sollevò più in alto come un ente puro, salvo poi ad abbassarlo nella sembianza di un idolo sopra gli altari. Io non ho qui autorità nè voglia di disegnarvi alcuna mia teologia sopra gli Dei vedici; non potrò quindi offrirvi un Dio vedico che abbia tutte le virtù teologali; nè mi dovreste perdonare, se io per amore dell'arte e per la scienza del poi, che mi rende accorto come le epopee popolari si svolsero dalle mitologie, nello studio che mi farò d'esporvi la mitologia vedica, tentassi di farvi apparire gli Dei vedici, non quali possano offrirli a noi gli antichi inni, ma poetici e compiuti quali si trasformarono successivamente nella fantasia popolare. Con questi avvertimenti preliminari, io intendo dunque, indicandovi la via che terrò, premurarvi contro la noia che io possa molto involontariamente arrecarvi nel corso di queste letture. Noi faremo più spesso della chimica, o se più vi piace, dell'anatomia, che della poesia. I nostri Dei sono spesso poveri moncherini, e dovremo, per rimettere [30] insieme qualche organismo vivente, andarne spesso cercando qua e là i frammenti. Io ho bisogno che mi secondiate in questa minuta indagine, poichè non avrebbe nessuna utilità lo studio presente, se io non avessi la fortuna di vedervi pigliar parte animata a questa ricerca. A chi poi voglia riscontrare il valore di queste nostre indagini e non abbia modo di approfondirle da sè sopra gli stessi testi vedici, io mi credo in debito di far noto, come una gran parte de' materiali, de' quali io dispongo, è quella stessa che un dottissimo indianista scozzese, il signor John Muir, recò già fedelmente tradotta nel quinto volume della sua bella raccolta dei Sanscrit Texts. Dichiarati così i nostri intendimenti, possiamo tentare di metterci in via.
Un inno vedico si esprime così: «Veneriamo i grandi, veneriamo i piccoli, veneriamo i giovani, veneriamo i vecchi (Dei); agli Dei, se è in poter nostro, sacrifichiamo.» Ora questa distinzione che si fa già nel Rigveda, di Dei grandi e di Dei piccoli, di Dei giovani e di Dei vecchi, giova pure a noi per incominciare qui ad occuparci degli Dei meno divini, di quegli Dei anonimi, che gl'Indiani chiamavano confusamente con un solo nome Viçve devâs (Tutti Dei), cui facevano un solo sacrificio in comune, come il Calendario cattolico ha destinato nell'anno un giorno solo festivo per tutti que' Santi (Ognissanti), ai quali non può concedere il privilegio di una festa speciale in loro gloria. Quanti fossero quegli Dei è difficile determinare. Parecchi Inni vedici, riconoscendo tre mondi, la terra, l'aria, il cielo, quando non parlano di centinaia e di migliaia di mondi, con metodica giustizia distributiva collocano undici Dei sopra la terra, undici nell'aria, undici in cielo. Ma da questi trentatrè Dei anonimi si separano talora, e si nominano quindi distintamente alcune altre [31] divinità maggiori; così che que' trentatrè, presi insieme, riescono per lo più soltanto genii, spiriti, espressioni ideali senza figura, anzichè persone mitiche, con carattere individuale spiccato. Negli Dei poi che si suppongono presiedere ai sacrificii, non vi è neppure più il genio, ma si adorano le parti materiali del sacrificio stesso, come i Cattolici baciano ancora le sacre soglie, le porte sante, le sacre colonne, i sacri altari, i sacri arredi, i sacri strumenti che concorrono a celebrare il sacrificio divino. Lo stesso culto idolatrico che i Cattolici prestano non solo al sacrificio, ma alle parti, delle quali il sacrificio consta, si ritrova assai più minuto, o preciso e rituale, nell'ultimo periodo vedico.[2] Moltiplicato così senza fine il numero degli esseri divini, a ciascuno de' quali il Rigveda attribuì pure la sua forma femminina, ossia una Dea compagna, i devâs perdettero pure, nel loro aspetto collettivo, ogni loro importanza, in modo che non solo si isolarono dagli Dei massimi, ma si rappresentarono pure come avversi ad essi. Un inno del Rigveda ci fa sapere come tutti gli Dei combatterono Indra. Nel Yag'urveda nero, gli Dei si rappresentano come abitatori della terra, che rubano l'offerta sacrificale, che recano danno ai sacrificatori. Nell'Atharvaveda, il fuoco sacrificale è pure invitato a cacciare gli Dei. A questo punto, al quale ci conducono gli stessi Inni vedici, in cui cioè gli Dei stanno già in terra, e rimuovono gli uomini dalle opere pie che devono conciliar loro la grazia de' luminosi celesti, noi vediamo staccarsi la religione iranica dalla vedica. Il deva indico diviene lo zendico daeva, un [32] vero genio maligno, mentre invece l'asura, lo spirito, e specialmente lo spirito maligno, demoniaco dell'India vedica diviene lo zendico Ahura, il genio buono, che entra nel nome di Ahura-mazda, ossia Ormuzd. Il moltiplicarsi infinito dei devâs vedici nocque dunque alla loro gloria; poichè nel moltiplicarsi, discesi in terra, degenerarono, e riuscirono finalmente a combattere contro la loro propria primitiva natura. Il deva non risplende se non in cielo; abbassato sulla terra, incomincia col diventar idolo; e l'idolo diviene finalmente mostro. Questo è l'ultimo aspetto che ci rappresentano i vedici devâs nella fantasia popolare. Ma quasi contemporaneamente, per un altro ordine d'idee, con l'idolo terreno, sopra il Dio reale celeste, divenuto ideale, si produce il nume astratto dei devâs, che godono nell'alto, onnipotenti, amici de' mortali ad essi devoti, che ascoltano le preghiere, che ne appagano i desiderii, e (secondo il Çatapatha Brâhmana) ne indovinano i pensieri, contro ai voti dei quali è vano ribellarsi, che amano l'ambrosia, e perciò sono immortali (e i mortali che si cibano di ambrosia, non solo divengono ancor essi immortali, ma acquistano il privilegio di conoscere gli Dei). Nello studio di queste nozioni vediche intorno agli Dei di un periodo mitico di decadenza, fondarono evidentemente i Brâhmani la loro teologia e religione gangetica. È questa parte, per così dire, ora brutale, ora spirituale e metafisica della mitologia vedica, la quale si trova sparsa qua e là negl'Inni vedici, che i Brâhmani si proposero d'illustrare e ridurre ad unità. Perciò la letteratura di commento ai Vedi rappresentata dai Brâhmana, dalle Upanishad e dai Sûtra, e i sistemi filosofici vedantini, che si mostrano indifferenti ai miti propriamente detti, raccolgono scrupolosamente dagl'Inni vedici tutto ciò che può giovare a costituire dommi religiosi e [33] riti sacrificali corrispondenti. La così detta cosmogonia vedica appartiene pure a questo periodo secondario, e quegli Dei, nella prima età de' quali, secondo un inno vedico, dal non essere fu creato l'essere, non sono più figure di fenomeni fisici, ma forze arcane, ideali, già dominanti metafisicamente la materia. Appartiene pure a questo periodo la produzione di numi come Prag'âpati, Brahmanaspati, Purusha, Brahman, e simili figure astratte del Dio, delle quali avremo, al fine del nostro studio, a considerar la natura specifica. Intanto ho creduto mio dovere, innanzi di entrare ne' miti vedici, accennarvi a tutto ciò che si mescolò con essi, senza avere con essi analogia di origine e di carattere. Quando il deva discende a terra, abbiamo veduto ch'esso perde la sua prima e propria natura mitica; quando egli diviene nel cielo un'astrazione, e non corrisponde quasi più ad alcuna forma fisica, incomincia la religione, e finisce la mitologia vedica; esclusi dalla quale gli elementi che non le sono proprii e caratteristici, il nostro studio diviene più semplice, e, s'io non m'inganno, più efficace; e possiamo ancora noi affacciarci la grave e consueta, ma un po' oziosa questione che preoccupa la storia d'ogni antica religione: se cioè nell'età vedica domini il Monoteismo od il Politeismo. Per risolvere tale questione dobbiamo dunque semplicemente distinguere l'età vedica in tre periodi: il più antico, assolutamente politeistico, ci offre gli Dei fisici; in un periodo secondario, gli Dei fisici pigliano persona eroica; in un terzo periodo, appare il Dio uno, ossia il Dio metafisico, che nasce generalmente al di fuori degli Dei personali, sopra un nome che non appartiene ancora o non appartiene più ad alcuno; si crea allora il Dio per l'attributo, e non più l'attributo pel Dio.
Ritornando, quindi, al nostro primo asserto, nel [34] principio si adorarono le sole forze e forme singolari e molteplici della natura; ma, se nell'Olimpo vedico si vuol rappresentare con una sola parola tutti gli Dei, non troviamo altro centro di unità all'infuori del cielo. Così, nel nostro linguaggio, siamo ancora soliti ad invocare il cielo come sommo nostro protettore. Più spesso che il nome di Dio, il quale non può essere proferito invano, le nostre donnicciuole pregano il cielo, perchè faccia le grazie da loro desiderate; il cielo rappresenta, per esse, l'Onnipotente. Il cielo deve accompagnare gli amici che si mettono in viaggio, e s'impreca avverso ai nemici; per amor del cielo si supplica; ed è il cielo che ci deve guardare dal fare il male. La nozione del cielo come sede del divino, passata nel primo versetto della Orazione domenicale cristiana, è più antica del Cristianesimo. Invocando il cielo, noi, se pensiamo a qualche cosa (il più spesso non pensiamo a nulla), ci raffiguriamo la sola vôlta azzurra; ma, nel nominarlo, gli attribuiamo una potenza arcana, che, per essere incombente sopra di noi, immaginiamo a noi inevitabilmente propizia o funesta. Il cielo è ornato di astri luminosi e armato di fulmini; non vediamo chi li muove; ma vediamo che si muovono dal cielo; perciò veneriamo il cielo come Dio, parola che, in origine, come abbiamo già detto, valeva soltanto il celeste. Se il cielo fisico si voglia pertanto ammettere (come, studiando i miti vedici originarii, si deve), non solo quale equivalente del Dio, ma come sede di tutto ciò che è Dio, ossia di tutto ciò ch'è celeste, e però come Dio per eccellenza, avremo pure nella primitiva mitologia vedica una forma di Dio unico, da cui partono tutti gli Dei e al quale, come sue qualità, forze, ornamenti, fenomeni, essi fanno universalmente capo. Ma è troppo evidente che questo Dio fisico non ha nulla di comune col Dio supremo, unico, universale delle teologie; [35] e che non può giovare in alcuna maniera a sostegno delle loro dottrine, le quali si fondano sopra il principio che l'uomo ha sempre sentito ingenito in sè il bisogno di adorare un Creatore supremo, un supremo Rettore dell'universo. Io non ho qui a discutere questo principio, ma solamente a dimostrare che gli antichi Inni vedici non ne recano traccia, come si fondano invece sopra di esso parecchi inni dell'ultimo periodo vedico. Quali possano essere le nostre credenze, noi dobbiamo in uno studio storico e critico, come quello che abbiamo intrapreso, far conto di non averne alcuna, per attribuire ad ogni età il suo proprio carattere. Ora, per conchiudere intorno agli Dei vedici, dobbiamo, a fine d'intenderci, insistere sopra la distinzione da noi fatta tra gli Dei fisici, eroici e metafisici; dal non averla fatta son nate, parmi, finqui le molte oziose discussioni sopra il carattere primordiale della religione indiana. Nel primo periodo vedico abbiamo cose celesti e lievi persone celesti; nel secondo periodo abbiamo il dramma eroico di queste persone; nel terzo periodo, accanto ad idoli, idee umane elevate ed astratte in una forma divina e quasi impersonale; si è detto che, nel mito, i nomi sono diventati Numi; io potrei soggiungere che alla loro volta i Numi si sono astratti in semplici nomi fatti immobili, perciò sterili, inetti a divenir plurali, se non addizionando e moltiplicando sè stessi per sè stessi, ossia facendosi infinito assoluto. Il mito quando discende troppo basso, o quando sale troppo alto, si distrugge; il suo posto è nel cielo; staccandosi dal cielo, perde la sua natura; perciò è nel cielo che lo dobbiamo essenzialmente esaminare: vedremo pertanto, prima di ogni cosa, come il cielo nell'età vedica fosse appellato, quale persona mitica avesse, quali fossero i suoi caratteri divini, per indagar quindi come fosse popolata quella scena olimpica.
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Il cielo appare negl'inni vedici con diversi nomi e sotto diverse forme; ma il suo nome proprio è Dyu, il cui nominativo è Dyaus (Zeus) e il cui genitivo è Divas; importa notare questo caso, perchè apprendiamo da esso che il cielo è il padre dell'aurora, che il luminoso è il padre dell'ardente o brillante Ushâ, e che Indra come Divaspati è il signore, il reggitore del cielo. Noi non abbiamo nessun dubbio intorno all'unico significato mitologico della parola Dyu; non solo esso è il cielo, ma il cielo nella sua forma più semplice. Vi sono altre forme divine, e però altri nomi del cielo negl'inni vedici, ma il cielo per eccellenza è Dyu. Nell'ellenico Zeus ci si affaccia un Dio complesso, polimorfo; nel vedico Dyaus ci si offre invece un Dio elementare. Esso è il cielo tal quale nel suo aspetto luminoso, e nella sua virtù fecondatrice. Non vediamo ancora la persona umana del Dio; esso è un essere animato, ma la sua forma esterna è quella che appare alla vista degli occhi, non alla mente immaginosa. La divisione del cielo in tre cieli, di cui il primo inferiore (Avama), il secondo medio[3] [38] (Madyama), il terzo supremo (Uttama), è già vedica. Perciò troviamo negl'Inni vedici, oltre il cielo, ricordati i cieli (Dyavas).
Vediamo ora con quali appellativi Dyu (o Dyo), il cielo, venga salutato negl'Inni vedici. Egli è, sovra ogni cosa, pel suo aspetto, il grande, il vasto, il profondo, il fisso; per i suoi effetti, il mellifluo, il lattifero, il ricco di semi e conseguentemente il benefico; e, poichè il cielo opera pure sopra la terra con un certo ordine, esso diviene l'ordinato ed il giusto. Ma, finqui, noi non abbiamo ancora nessuna vera e propria persona divina. Sono epiteti naturali dati al cielo; nessun mito ancora si scolpisce. A scolpire il mito occorre non solo l'anima, ma l'animale. Mi si potrebbe forse opporre che vi è il mito anco in un'erba, in una fonte, in una pietra di virtù miracolosa; nè io codesto vorrei negare punto, ma soggiungerei come nella immaginazione popolare quell'erba, quella fonte, quella pietra ha sempre una virtù magica, per la riposta credenza che alcun genio o demone la possegga. L'animale poi può salire dall'infimo grado del bruto che non ha ancora vertebre, fino al perfetto vertebrato eroico, fino al nume metafisico che non ha più vertebre. Perchè il mito dunque nasca, occorre l'animale; ma, perchè l'animale viva, occorre la società. Noi abbiamo già il cielo ricco di semi; è necessario che questo seme non cada invano, che il ricco di semi divenga padre fecondatore, che il cielo divenga padre. Il cielo padre è il primo Dio, il primo mito naturale. Ma dove cade il seme celeste? dove si feconda il cielo? qual'è la sposa, qual'è la madre che il cielo feconda?
A noi viene naturale il pensare subito alla terra, e la cosmogonìa ellenica, e alcuni Inni vedici, ne' quali cielo e terra si trovano evidentemente invocati insieme, [39] l'uno come padre, l'altro come madre, rendono non solo naturale, ma necessaria questa ipotesi. Se non che, mentre Dyu è indubbiamente il solo cielo, vi è dubbio che la Prithivî ossia la larga, ch'esso feconda, non sia sempre la sola terra. Vi sono due inni nel quinto libro del Rigveda, nei quali si parla evidentemente di una Prithivî celeste. Uno di questi inni (il cinquantesimo sesto) ci rappresenta la Prithivî come la Pluvia rallegrante che arriva; un altro (l'ottantesimo quarto) ce la nomina come la luminosa che versa torrenti di pioggia sopra la terra, la quale per distinguersi non è qui chiamata Prithivî, ma con l'altro suo appellativo di Bhûmi.[4] Qui è evidente che Prithivî è la nuvola, come la larga, la estendentesi a segno da occupare tutto il cielo, oppure il cielo stesso nuvoloso. Ma è raro che questa Prithivî celeste appaia esplicitamente distinta negl'inni vedici. Dyu è più spesso il fecondatore della terra, della larga terrena, sia col suo proprio nome, sia sotto forma del Dyu Parg'anya (lo slavo Perkun), che è il vero Giove Pluvio, e come tale trovasi distintamente invocato in alcuni Inni vedici. Parg'anya vale propriamente la nuvola tonante e pluvia, la nuvola tempestosa e la pioggia, il Dio della tempesta. Il cielo Tonante e Pluvio, il Dyu come [40] Parg'anya è il fecondatore della terra, la quale perciò è venerata nell'Atharvaveda col nome di sposa di Parg'anya (Parg'anya-patnî). Abbiamo veduto esservi il cielo ed i cieli, così la pioggia e le pioggie, la nuvola pluvia e le nuvole pluvie; tuttavia come Dio, Parg'anya, al pari di Dyu, è sempre un singolare. La voce di Parg'anya sona bene e vigorosa (vâc'am parg'anyaçcitrâm vadati tvishîmatîm; Rigv., V, 63). Esso versa il seme e fa germogliare le erbe; per esso il cielo si riempie, e la terra si feconda (pinvate svah-Parg'anya Prithivim retasâ 'vati). Mentre Parg'anya tuttavia è rappresentato come benefico fecondatore della terra, il poeta vedico, nel descrivere, con molta verità d'immagini, il temporale, ci fa presente il terrore degli uomini nell'udire i venti che fischiano, nel vedere gli alberi atterrati, i lampi e fulmini che guizzano; tutto il creato è preso di spavento, quando Parg'anya si scatena; sebbene egli castighi solamente i colpevoli, anche gl'innocenti ne hanno paura. E in questo Dio, in questo Parg'anya che tonando ammazza i cattivi (Parg'anyah stanayan hanti dushkritah; Rigv., V, 83), noi abbiamo una prova evidente che già esisteva nel primo periodo vedico, poichè l'inno 83º del V libro del Rigveda a Parg'anya ha per me un carattere particolarmente antico, la superstizione ancora viva nel nostro popolo che il diavolo si pigli l'anima di quelli che muoiono fulminati (dove passa il diavolo lascia odore di zolfo; lo stesso odore lascia il fulmine ove cade; quindi è naturale che si credano portate via dal diavolo le anime dei fulminati).
Abbiamo detto che Dyu il cielo è lo sposo di Prithivî la larga; abbiamo aggiunto che allo sposo della terra, al fecondatore di essa si dà pure il nome di Parg'anya; ma giova aggiungere come un inno vedico (Rigv., VII, 102), invece di rappresentarci Parg'anya come un alter ego [41] di Dyu, ce lo dice apertamente suo figlio. Sotto questo aspetto, Dyu il cielo si feconderebbe in sè stesso, unendosi con quella Prithivî celeste che abbiamo sopra ricordata, ossia la nuvola larga, per produrre la pioggia, il temporale, il Dio del temporale, Parg'anya. Sebbene adunque gl'Inni vedici non ci dicano in modo preciso che Dyu feconda la Prithivî celeste come feconda la terrena, nel trovarvi appellato Parg'anya figlio di Dyu, abbiamo qualche ragione probabile di supporre Dyu sposo della Prithivî celeste. Da prima egli si fecondò nel cielo, e poi una sua creatura, ossia un altro sè stesso fecondò la terra. Nè solo la Prithivî celeste, ossia la vasta, la distendentesi, dovettero in origine essere la nuvola, occupante tutto il cielo, ma ancora la tenebra notturna, la notte e la nuvola, e l'aurora, uno de' nomi vedici della quale è pure Urvâçî, ossia la larga avanzantesi. E, come troviamo Dyu che, oltre il cielo luminoso, significa anche il giorno, così interpreto pure la Prithivî celeste ora pel cielo notturno, ora per la prima e l'ultima parte del giorno rappresentate dalle grandeggianti aurore. E mi rappresento il vedico duale Dyavâ Prithivî come un equivalente di Mitra e Varuna, Mitra il giorno, Varuna il copritore notturno, e poi l'acquoso oceano. È solamente per mezzo di questa interpretazione che noi possiamo intendere come Dyu e Prithivî siano chiamati insieme Devaputre, ossia aventi per figli gli Dei; chè il cielo luminoso diurno e il cielo notturno e crepuscolare, che può essere luminoso anch'esso, sono i soli veri e proprii genitori degli Dei, ossia dei luminosi, mentre sarebbe un assurdo il supporre la terra madre degli Dei. Di Bhûmideva, o Dio della terra, gl'Indiani ne conobbero uno solo, il Bramino, per decreto della stessa casta brâhmanica, e il fuoco sacrificale sua creatura; gli altri Dei sono tutti celesti. [42] E, quando nell'inno vedico (Rigv., VI, 50) si trova congiunto Dyaur devebhih Prithivî samudrâih, mi parrebbe ancora nel primo caso di vedere il cielo luminoso popolato di Dei, nel secondo il cielo tenebroso, o notturno, o nuvoloso, e però naturalmente acquoso, crepuscolare, mentre mi parrebbe un non senso il rappresentare la terra acquosa per rispetto a Dyu, ch'è appunto celebrato come quello che manda giù l'acqua. Non negando dunque io in alcuna maniera che la Prithivî ricordata negl'Inni vedici non sia spesso la terra fecondata dal cielo, credo si debba nel duale Dyavâ Prithivî considerare più spesso una Prithivî celeste, della quale può esser duplice, sebbene analoga, la natura, secondo che la si consideri nella nuvola o nella notte tenebrosa e luminosa e, come luminosa, anche nell'aurora, che vedemmo già chiamarsi larga. Che la nuvola sia chiamata l'ampia, la distendentesi; che la notte sia considerata come la distesa (âyatî), lo rileviamo dall'inno 127º del X libro del Rigveda, in cui la notte luminosa è cantata sotto il suo appellativo di râtrî: essa caccia, per mezzo de' suoi occhi risplendenti, d'ogni parte le tenebre; sul principio della notte, quando gli astri non brillano ancora in tutto il loro splendore, appaiono i mostri tenebrosi, che la notte luminosa deve tenere lontani; quando verso il mattino gli astri notturni impallidiscono, ritornano i mostri tenebrosi; allora è invitata l'aurora mattutina, la grandeggiante figlia del cielo, a disperderli. La relazione, in cui sono poste in quest'inno fra loro la notte e l'aurora, chiamate fra loro sorelle, e la somiglianza dei loro ufficii, ci danno diritto a supporre la notte come figlia del cielo al pari dell'aurora. Siccome vedemmo Parg'anya esser chiamato figlio di Dyu, dicemmo Prithivî esser pure celebrata in due inni vedici come la nuvola pluvia; niente di più naturale [43] che il considerare anche la Prithivî celeste come figlia di Dyu. Come poi l'aurora si congiunge con gli Açvin, i Dioscuri indiani, così, nell'inno 132º dello stesso X libro del Rigveda, essi trovansi uniti con la Bhûmî, noto equivalente della Prithivî, nuova analogia che ci permette di ravvisare nella Prithivî congiunta con Dyu un essere celeste. E questa probabilità cresce, osservando come nello stesso inno 132º, nel quale s'incominciano a celebrare Dyu e Bhûmî (altro nome di Prithivî), in relazione con gli Açvin, dei quali l'uno è in particolare relazione col giorno, l'altro con la notte, si cantano pure Mitra e Varuna, dei quali il primo regge il cielo diurno, l'altro specialmente il cielo crepuscolare e notturno. Quando poi i due cieli, il Dyu per eccellenza, il cielo diurno, e il Dyu notturno si riuniscono, abbiamo un essere supremo, che, come mascolino, si chiama Divaspati (una specie di Diespiter), ossia Indra, e come femminino si chiama Aditi. Indra si vede venir fuori dal Dyu, dalla Prithivî, dall'oceano, dal cielo nuvoloso (Rigv., IV, 20); è evidente che in queste sedi del Dio Indra si enumerano tutti gli aspetti del cielo. Ma la parola Dyu, div, non fu solo un mascolino, ma anche un femminino; questo femminino prese nel mito il nome speciale di Aditi, ossia la infinita, indestruttibile vôlta celeste, la luminosa insieme e la larga, la madre degli Dei luminosi, degli Adityas. Essa è pure la madre di Mitra e Varuna. Un inno (Rigv., IX, 97), dopo avere invocato il padre Cielo (Dyaushpitar), la madre Prithivî (Prithivî matâr), il fratello fuoco, gli otto Vasavas luminosi reggitori del mondo, e gli eroici Adityas o figli di Aditi, invoca finalmente Aditi come la Dea celeste che comprende in sè sola tutti gli Dei. Come madre dei venti (mâtâ rudrânam), che finalmente essa viene in un inno salutata [44] (Rigv., VIII, 90), e sorella degli Adityâs e figlia dei Vasavas, essa non può essere che una personificazione celeste. La Prithivî pertanto ch'essa rappresenta mi sembra ancora dover essere una figura del cielo. Noi abbiamo già rammentati tre mondi, e tre cieli, o luminosi; dobbiamo aggiungere che gl'Inni vedici distinguono pure tre Prithivî, ossia tre larghe: una risponde al cielo altissimo, l'altra al cielo medio, la terza al cielo infimo; questa terza Prithivî può essere la terra nostra, ma tuttavia ne dubito, per quanto questa Prithivî sia originaria produttrice di Dei e di miti. Chè, se accennammo come il trimundio vedico sia già diviso in etere celeste, aria e terra, e come in ciascuno di questi tre mondi i poeti vedici della decadenza collocarono undici Dei, ho pure avvertito come questa enumerazione fosse capricciosa ed arbitraria. Il terzo mondo, il terzo cielo, la terza Prithivî, sono figurati per l'amore del numero tre; nato questo terzo mondo, questo terzo cielo, questa terza Prithivî, era naturale che si pensasse alla terra, come produttrice alla sua volta di Numi. Che la terra avesse fin dalla più remota antichità vedica carattere sacro e venerando, non può essere messo in dubbio; essa era chiamata matâr. Questa parola vale propriamente la produttrice; ma, significando perciò anche la madre, dimenticato il senso etimologico della parola, si vide solamente più in essa la madre, e come madre i poeti vedici le parlarono con quel linguaggio tenero ed affettuoso con cui si suole parlare ad una madre. Manu ha pur detto che la madre è un'immagine della terra.
Immaginatosi quindi un terzo cielo, prossimo alla terra (forse il cielo delle nuvole e dell'aurora, il più vicino alla terra), gli Dei di questo terzo cielo si unirono con la Prithivî loro corrispondente, la quale suppostasi quindi essere la terra stessa, questa diventò alla sua volta [45] sede amata degli immortali, i quali posero pur amore alle figlie della terra, come ce lo provano le leggende del periodo brâhmanico. Ma la terra che raccolse alcuni Dei, non ne ha creato alcuno vivace, nella sua forma originaria. E s'io ho tanto insistito su questo punto e se vi insisterò ancora un altro poco, non ho bisogno di dichiararvene il motivo, dopo il principio che abbiamo posto, tutti gli Dei primitivi essere nati nel cielo. S'io potessi ammettere che la Prithivî del duale vedico Dyavâ-prithivî è sempre la terra, dovrei, per questa sola interpretazione, alterare tutto il carattere della mitologia vedica. Ma quello che abbiam detto sembra darci il diritto di distinguere negl'Inni vedici una Prithivî celeste che concorre essa stessa a produrre Numi e miti, dalla Prithivî terrestre, la terra, la quale non fa altro se non ricevere i beneficii del cielo, e però della stessa Prithivî celeste, per diventare alla sua volta benefattrice degli uomini. Escluso pertanto dal nostro studio quello che non appartiene propriamente al mito, vediamo ora come il cielo si manifesti negl'inni vedici in congiunzione colla Prithivî celeste. Dyu è il luminoso, Prithivî è la larga; la luce si propaga nello spazio. Senza spazio non vi è splendore; lo splendido e la larga ci danno insieme tutto il cielo nel suo colore e nella sua estensione. Il giorno ha bisogno per riuscir pieno di occupar tutto lo spazio celeste; così pure la notte non è compiuta se non quando tutto il cielo s'è popolato di stelle. Sotto questo rispetto, avremmo due luminosi e due larghe celesti, il luminoso diurno e il luminoso notturno, la larga diurna e la larga notturna. Noi avremmo congiunte più tosto due qualità del cielo stesso, che due mondi diversi; la luminosa larga diurna, la luminosa larga notturna; e le due qualità considerate come femminine (osservo come Dyu staccato da Prithivî appare mascolino, mentre [46] Dyavâ congiunto con Prithivî si manifesta un femminino) costituirebbero la Dea universale Aditi (Dyavâ-Prithivyau è nel Nighantu un sinonimo di Aditi), come le due qualità interpretate quali mascolini ci darebbero il Dio diurno come notturno Indra, il signore del cielo per eccellenza, nel giorno del pari che nella notte. Noi abbiamo tuttavia fin qui proceduto anzi che per dimostrazioni dirette, per ragione di analogia ad argomentare della natura propria della vedica Prithivî congiunta con Dyu mascolino, con Dyavâ femminino. Vediamo ora più dappresso negli stessi inni del Rigveda la natura propria della mitica Prithivî; nell'inno 159º del I libro del Rigveda, Dyavâ-prithivî appaiono come due sorelle gemelle, insieme coabitanti. Nell'inno seguente, Dyavâ-prithivî sono chiamate insieme rodasî, quasi due fiumi di ogni abbondanza, capolavoro del più operoso degli Dei; da entrambi gl'inni non si rende tuttavia chiaramente manifesto se la Prithivî sia la terrena o la celeste. Ma, nella prima strofa dell'inno 185º dello stesso libro, sembra già identificarsi il duale Dyavâ-prithivî col duale ahanî, che vale propriamente i due giorni, ossia le due parti del giorno, la luce del giorno e la luce della notte stellata lunare (o quella dell'aurora). Come si potrebbe domandare che cosa sia stato prima fra il giorno e la notte, il poeta vedico si esprime, rispetto a Dyavâ-prithivî, nel modo seguente: «Delle due, quale è la prima, quale la seconda; come son desse nate? o poeti, chi lo sa? esse, in verità, sostengono il tutto, quando il giorno e la notte, come una rota, vanno girando. Le due che non si muovono, sostengono molti che si muovono; le due non andanti (o prive di piedi, prive di andanti) portano molti che vanno (ossia forniti di piedi, di andanti); come sempre il figlio presso i suoi parenti, o Dyavâ-prithivî, liberateci dal male.» Poco [47] dopo si dice che Dyavâ-prithivî hanno gli Dei per figli, e che stanno entrambe fra i due giorni divini (ossia, come aurore crepuscolari, le rive celesti, fra il giorno e la notte). Ma la relazione fra Dyavâ-prithivî e il cielo diurno e il cielo notturno, ossia fra il giorno e la notte che s'incontrano nel mattino e nella sera, mi sembra evidente in quest'altro versetto: «Sempre giovani s'incontrano le due sorelle gemelle presso i loro parenti, arrivanti al punto medio dell'universo.» Evidentemente abbiamo qui in Dyavâ-prithivî due esseri femminini, che senza muoversi dal loro posto salgono più alto per ritrovare il supremo polo, il pitror upastha: a questo supremo polo, o umbilico celeste, non possiamo concepire ascendente la terra, mentre è naturalissimo l'immaginare ch'esso sia il punto medio della notte come il punto medio del giorno. Le Dyavâ-prithivî a mezzogiorno e a mezzanotte ritrovano nel cielo la yoni o vulva materna, onde si svolsero gemelle (sayonî) ed il pitror upastha, da cui furono generate.
E ancora ritroviamo una Prithivî celeste in quelle due Dyâvâ-prithivî larghe, solide, vaste, invocate per ordine, genitrici, di bell'aspetto, che custodiscono l'ambrosia. Chè, se le leggende posteriori brâhmaniche fanno discendere l'ambrosia, l'acqua della vita, sopra la terra, ove gli eroi fortunati la sottraggono ai draghi guardiani, la vera, originaria sede dell'ambrosia è il cielo. L'inno si termina, pregando Dyavâ-prithivî d'essere padre e madre, ossia protettore completo per i loro devoti invocatori. In tutto l'inno non abbiamo un solo indizio d'una Prithivî terrena, nè un solo epiteto che non possa convenire alla Prithivî celeste. Nell'inno 40º del II libro del Rigveda, Dyu e Prithivî sono considerati come creature degli Dei Soma e Pûshan, i custodi di tutto l'universo e della divina ambrosia; nell'amritasya nâbhi [48] di Soma e Pûshan è agevole il riconoscere l'amrita od ambrosia, di cui vedemmo già Dyavâ-prithivî custodi, e il nâbhi supremo, a cui nel loro apogeo Dyavâ-prithivî arrivano. E della natura primeva celeste degli Dei vedici Soma e Pûshan non è lecito il dubitare. Nell'inno 41º del II libro del Rigveda, Dyâvâ-prithivî s'invocano perchè cerchino fra gli Dei l'offerta sacrificale arrivante fino al cielo, e gli Dei perchè si veggano fra loro; non mi par possibile qui immaginare la terra come messaggera; e mi convien perciò supporre una Prithivî messaggera celeste. Nell'inno 55º del IV libro, Dyavâ-bhûmî equivalenti di Dyavâ-prithivî s'invocano insieme coi Vasavas, con Aditi, con Mitra e Varuna, ossia con persone mitiche di certa origine celeste. E, in un'altra strofa dello stesso inno, come a definirci meglio il carattere di Dyavâ-bhûmî dopo la materna Aditi si nominano i due giorni, ossia il giorno e la notte, l'aurora e la notte (ahanî-Ushâsânaktâ). Nell'inno 70º del VI libro del Rigveda, le Dyavâ-prithivî sono le fornite di burro, le larghe, le belle, le melliflue, le ricche di seme, tutti attributi che convenendo al celeste Dyu potrebbero pure convenire ad una Prithivî celeste; ma quegli epiteti di ghritaçriyâ, ghritapric'â, ghritâvridhâ, ossia godente nel burro, saziantesi nel burro, accrescentesi nel burro, riferiti alla terra, non si sa troppo quanto le si appropriino, mentre si comprende come la Prithivî ambrosiaca celeste (il burro, il miele e l'ambrosia assimilandosi) possa in tal modo denominarsi. Quando l'ultimo inno del settimo libro prega la Prithivî, perchè liberi dal male che viene dalla Prithivî e l'atmosfera dal male che viene dal cielo, è possibile che si tratti della terra e dei mali che possono all'uomo derivare dalla terra. Ma quando il Dio Indra, nel sesto inno dell'ottavo libro, estende come una pelle le due rodasî, e come esse [49] sono chiamate Dyavâ-prithivî, in queste rodasî che si distendono a piacere di Indra, in queste due vesti acquose che coprono il cielo, in questi due oceani celesti che Indra allarga, in queste due rive, spesso luminose, ch'egli supera, non possiamo riconoscere che il cielo diurno e il cielo notturno, il cielo luminoso e il cielo tenebroso o nuvoloso, o le due estremità luminose del cielo. La luce, la tenebra, la nuvola, l'aurora sono elastiche, ed Indra, il signore del cielo, le può a suo piacere distendere; Indra che allarga la terra non si potrebbe spiegare. È incerto, se si debba vedere la terra nel 58º inno del X libro del Rigveda,[5] che tradurrò per intiero. È un inno funebre, in onore del morto Subandhu: «Poichè l'anima tua se ne andò lontano presso Yama, figlio di Vivasvant (il Dio dei morti), perciò noi ce ne ritorniamo qua ad abitare ed a vivere. Poichè l'anima tua se ne andò lontano nel cielo, nella Prithivî, nella Bhûmî dai quattro angoli, ne' quattro punti dell'orizzonte, nell'oceano acquoso, ne' lampi,[6] nelle acque, nelle erbe, nel sole, nell'aurora, ne' monti giganteschi, in tutto il mondo, negli estremi confini; e poichè l'anima tua se ne andò lontano in quello che fu, in quello che sarà (ossia, poichè non è più presente), noi ce ne ritorniamo qua ad abitare, a vivere.» Da questo interessante inno panteistico si comprende che l'anima del morto si disperde in tutto l'universo; ma, poichè ogni versetto ci fa sapere che si disperde lontano, dubito che la Prithivî e la Bhûmî non sia qui la terra, come le acque e le erbe, in cui l'anima del morto passa, debbono [50] essere le acque e le erbe mitiche, ossia originariamente celesti e luminose. E tanto più ne dubito, poichè gli altri Inni funebri vedici consegnano alla terra ed al fuoco sotterraneo malefico il corpo, ma non mai l'anima, la quale invece viaggia, e viaggia in alto, e viaggia lontano, sulla vetta delle alte montagne, ove l'aurora si mostra, nella sfera luminosa del sole, a traverso le stelle, nel mondo lunare, ne' quattro punti cardinali. L'anima divien genio, e quel genio ama le forme più lievi, le sedi più elevate; se esso penetrasse subito nella terra opaca non potrebbe più muoversi, nè fare altri viaggi, secondo la sua mobile natura. Io m'induco pertanto a credere che anche in quest'inno funebre la Prithivî, la Bhûmî lontana che l'anima del morto visita, è una Prithivî, una Bhûmî celeste.
Io non so se queste prove bastino a persuadere della natura celeste della Prithivî vedica congiunta con Dyu o con Dyavâ; ma quello che io credo poter sicuramente affermare è, che, negl'Inni vedici, nulla c'induce ad ammettere la personificazione di una Dea Terra. Questa nozione venne più tardi, quando cioè la Prithivî celeste si dimenticò, ed alcune delle sue qualità furono attribuite alla terra propriamente detta. È importante questa distinzione, non solo perchè ogni verità ha la sua importanza per sè, ma ancora per interpretare le leggende del ciclo eroico indiano, ove gli Dei vedici hanno preso aspetto di eroi umani. A me non par dubbio che la Sîtâ sia una persona eroica dell'aurora mitica; ma chi lo nega, cercherà avvertire la impossibilità di un tale ravvicinamento, poichè l'Aurora è nel Rigveda la figlia del cielo (duhitar divas), mentre Sîtâ apparirebbe la figlia di Prithivî, ossia della terra. Ma quando noi avessimo potuto provare che esistette una Prithivî celeste, della quale il padre dell'aurora appare ora [51] sposo, ora fratello, tutto l'edificio de' nostri contradittori cadrebbe. Ed ecco il motivo, per cui ho tanto insistito sopra una sola minuzia; la tela d'Aracne è entrata nella mitologia; se noi non tenessimo conto anche de' fili più tenui, la nostra opera, per quanto industre, non approderebbe a nulla. Il concepimento indiano della Terra madre fecondata dal Cielo padre si riduce ad esprimere la fecondazione naturale della terra per mezzo della pioggia celeste; i poeti vedici ed i latini hanno cantato questa relazione tra il cielo e la terra quasi con le stesse parole, senza che tuttavia da questa relazione poeticamente descritta si generassero miti vivaci e fecondi. I poeti vedici non hanno a questo riguardo detto niente più di Lucrezio, il quale, nel primo libro De Rerum Natura, cantava:
Postremo pereunt imbres, ubi eos pater aether
In gremium matris terrai praecipitavit;
e nel secondo libro:
Denique coelesti sumus omnes semine oriundi:
Omnibus ille idem pater est, unde alma liquentis
Umoris guttas mater cum terra recepit,
Freta parit nitidas fruges arbustaque laeta
Et genus humanum.
Questi versi sono il miglior commento ch'io possa offrire agl'Inni vedici per ciò che spetta la parentela fra il cielo e la terra; il cielo è padre degli Dei, e fecondatore della terra, la quale, fecondata, alla sua volta diviene madre degli uomini; perciò Giove potè con ragione chiamarsi pater hominumque deumque. E noi non abbiamo punto dismessi quegli antichi appellativi, quando diciamo per celia allo scoppio del tuono che il padre Giove è in collera. In Piemonte e nel Veneto, Giove è divenuto zio (barba Giove), ma è un appellativo anche [52] più carezzevole di padre. Il cielo fu sempre, sotto tutte le forme, cantato come un benefattore, quantunque in esso si producano pure forme tenebrose, demoniache ed infernali. Ma queste forme sono al cielo stesso avverse; esso le combatte come nemiche, e, nella vittoria sopra di esse, il Dio diviene eroico.
Ma il cielo che è, per noi mortali, e per molte figure celesti, padre, da chi fu creato esso stesso?
I poeti vedici ammettevano già un creatore del cielo e della Prithivî, e, nella loro ingenua ammirazione, cantavano che il Dio loro autore, poichè poteva solamente essere un Dio, aveva dovuto essere il più operoso operaio. Abbiamo detto che Indra abbraccia il giorno e la notte, il cielo diurno e il cielo notturno, e che è cantato come Divaspati, ossia come signore del cielo; esso è pure celebrato come genitore del Dyu, e genitore della Prithivî (Rigv., VI, 30; VIII, 36), genitore del padre e della madre ch'egli trasse dal proprio corpo (tanvah svâyâs): perciò essi sono considerati ciascuno per sè come una sola mezza parte del Dio Indra, il quale abbraccia tanto il Dyu quanto la Prithivî, che lo seguono, come il rotante carro segue il cavallo (Rigv., VIII, 6), altro indizio che ci conferma come si tratti qui d'una mobile figura di Prithivî celeste; il giorno e la notte seguono Indra, ossia Indra regge il cielo diurno e notturno. Quando Indra tona, i suoi due figli ne tremano. Ma perchè in Indra vi sono le qualità del Dio Pûshan e quelle del Dio Soma, così Dyu e Prithivî si raffigurano pure come figli di Soma e Pûshan: e perchè Mitra (o Savitar) e Varuna sono altre due forme corrispondenti alla duplice qualità diurna e notturna del Dio Indra, Dyu e Prithivî appaiono pure figli di Mitra e di Varuna, di cui il primo presiede al giorno, il secondo alla notte.
[53]
Indra stesso, come artefice per eccellenza, piglia il nome di Tvashtar, forma che quindi si distingue da lui per divenire l'artefice privilegiato degli Dei, per i quali crea ogni forma celeste, e però anche Dyu e Prithivî. L'espressione d'Indra creatore del cielo equivale dunque a quest'altra il cielo crea sè stesso, poichè, come vedremo, l'antico Indra non fu altro se non il cielo. Relativamente moderne consideriamo la tradizione cosmogonica dell'uovo d'oro (Hiranyagarbha), da cui, secondo un inno vedico (X, 121), sarebbero venuti fuori anche Dyu e Prithivî, e quasi brâhmanica quella, per cui dalla testa di Purusha, il maschio universale, sarebbe uscito Dyu, il cielo, dall'umbilico di Purusha l'aere intermedio, dai piedi di Purusha la Bhûmî, che in questo caso appare veramente la terra, dove, pertanto, discesi ci fermeremo, per risalire con miglior animo, nella prossima lettura, in cielo, a conoscere la poetica figlia di Dyu, la bellissima delle Dee, l'Aurora, la quale, come la forma più luminosa del cielo, diede pure origine ad alcuni de' miti più eleganti e più splendidi.
[55]
Gl'Inni vedici rappresentano a noi l'aurora sotto un aspetto molteplice; ora essa è l'aurora, fenomeno luminoso puramente fisico, quale noi lo osserviamo ancora; ora ci si mostra in forma di donna; ora in aspetto e virtù di vaga fanciulla o di eroina; ora in figura di dea. Questa molteplicità d'aspetti, ne' quali l'aurora vedica si manifesta a noi, anzi che mettere in confusione la nostra mente, la rischiara invece, dimostrandoci, in modo non meno evidente che poetico, in qual forma il fenomeno fisico abbia preso persona, e la persona sia diventata eroica e divina. Gl'Inni vedici all'aurora, quando si faccia eccezione per pochi frammenti, hanno tutti un carattere di veneranda antichità. Noi ci trasportiamo, per essi, ad una età patriarcale ed eroica, nella quale l'uomo ariano per la prima volta sembra espandere al di fuori di sè le sue giovani forze, con l'inno pastorale e con la epopea guerresca. Perciò essi hanno per noi un fascino irresistibile. Noi assistiamo al primo prorompere del poetico entusiasmo umano innanzi agli splendori della natura, varia ed una, potente e meravigliosa. Noi sentiamo, leggendo quegli inni, come, se l'anima nostra fosse più ingenua, recati innanzi allo spettacolo degli [56] stessi fenomeni naturali, canteremmo ancora in quel modo. Gl'Inni vedici all'aurora non sono solamente note particolari poetiche del sentimento ariano, ma ancora più spesso espressione del sentimento universale che occupa l'uomo innanzi alla pompa del cielo mattutino e vespertino (e che si rinnova solenne al risorgere della primavera e al cadere dell'autunno).
A tutti noi è accaduto di osservare un bel tramonto di sole, il rosso di sera, che ci fa, dicesi, sperare il bel tempo pel giorno appresso: Rosso di sera buon tempo si spera. Ad alcuno di noi dev'esser pure accaduto di fantasticare sopra quel mobile quadro luminoso che ci presenta sul fine del giorno il cielo occidentale. Se potessimo considerare più spesso quel fenomeno, ci renderemmo più agevolmente ragione di molte forme della primitiva mitologia ariana. Ma, se molti di noi abbiamo contemplato un'aurora vespertina, pochi di noi, a motivo del nostro rinchiuso vivere cittadinesco, possiamo ricordare d'aver visto nascere l'alba e poi l'aurora del giorno, due momenti distinti nel tempo, che il mito ha pure espresso in singolari forme mitiche (prima il cielo d'Oriente albeggia, poi rosseggia). Io ebbi la ventura di contemplare la magnificenza di tali spettacoli sopra le vette alpine, e dall'impressione che essi fecero sopra di me, posso argomentare, in parte, la ragione che fece sugli altipiani dell'Asia centrale inneggiare con tanto ingenuo calore i primi pastori e guerrieri ariani. Per comprendere la natura, bisogna sentirla; per sentirla, bisogna accostarsi ad essa; gl'Inni vedici all'aurora sono l'espressione più fedele de' sentimenti, che la natura ha svegliato nel petto dei nostri più remoti e più immaginosi fratelli asiatici.
Ed ora osserviamo i diversi aspetti, ne' quali dicemmo apparirci descritta l'aurora presso gl'Inni vedici.
1. L'aurora come fenomeno fisico. I suoi nomi [57] Ushas e Ushâ valgono la brillante; e così il maggior numero degli appellativi vedici dell'aurora vibhâvarî, bhâsvatî, çubhrâ, ahanâ, dyotanâ, çuc'î, çukrâ, ruçatî hanno il medesimo significato. Gli appellativi çvetyâ e arg'unî o la bianca, e ghr'itapratîkâ o l'imburrata, la simile al burro (ghritamduhânâ, ossia mungenti o stillanti burro son chiamate le aurore nell'inno 41º del VII libro del Rigveda), rappresentano particolarmente l'alba, il giorno che si schiarisce; oltre a questo, l'aurora è ancora chiamata supeçasa, ossia la di bella forma (così denominata insieme con la notte luminosa); supratîkâ, ossia la ben fatta, la bella; ranvasandr'ik, sudr'içîkasandr'ik, ossia quella dal bell'aspetto; arushî, ossia la rosseggiante; arunapsu, ossia quella dall'aspetto rosseggiante; hiranya-varnâ, ossia quella dal color d'oro; sûnritâ, ossia la bene moventesi, l'agile, la ordinata; yuvati, ossia la giovine, la sempre giovine, la giovine immortale; odatî, ossia la umida. Quest'ultimo appellativo ci rappresenta l'aurora stillante rugiada, ch'è l'acqua della vita, l'acqua dell'immortalità, l'ambrosia del giorno: l'aurora è anzi chiamata amr'itasya nabhih (Rigv., VIII, 90), carattere che essa ha comune con la Pr'ithivî, la quale si è identificata talora con l'aurora. L'inno 51º del IV libro del Rigv., dopo aver invocate le aurore luminose figlie del cielo, invoca la grazia di Dyaus e della divina Pr'ithivî che in parecchi Inni vedici è celebrata per la sua facoltà di estendersi, di dilatarsi. Come Indra estende il cielo, così l'aurora la luce, l'aere luminoso (â dyâm tanoshi raçmibhir antariksham uru priyam ushah çukrena çocishâ; Rigv., IV, 52). E poichè quegli umori stillanti, quella luce diffusa, hanno virtù di avvivare e di allegrare, l'aurora è pure chiamata sumnâvarî, ossia ricca di gioie, di beni, poichè l'oro è emblema [58] di ricchezza, e l'aurea aurora discopre ogni giorno le velate ricchezze del mondo; essa è ancora, come maghonî, citrâ-maghâ e dânucitrâ, la ricca; e poichè le ricchezze furono presto considerate come una fortuna, anzi come la fortuna stessa, l'aurora vedica venne ancora salutata con l'appellativo di subhagâ.
Abbiamo detto che l'aurora è chiamata sûnritâ, ossia la mobile, l'agile, la destra; e poichè in una mobile si videro parecchie mobili, perciò l'aurora si chiamò pure, oltre che sûnritâ, anche sûnritâvatî, sûnritâvarî, ossia la fornita, l'accompagnata con le mobili, con le agili. Non discostiamoci, di grazia, trattandosi di miti elementari, dal senso etimologico delle parole; e ci renderemo ragione più pronta della loro probabile formazione. Sunritâ vale la mobile; la parola go (gau) esprime l'andante (dalla radice gam, gâ andare) e la sonante o muggente da un'altra radice gâ che significò sonare e cantare; l'aurora vedica, come andante, si chiamò non solo sûnritâ, ma go; ora go è il nome che si dà alla vacca muggente; perciò la mobile aurora e le mobili nell'aurora chiamandosi gavas furono scambiate per le vacche; e come la sûnritâ o mobile diventò sûnritâvatî, o fornita di mobili; così la go aurora, propriamente ancora la mobile, diventò gomatî, ossia la fornita delle mobili. Ma poichè la parola go, come sonante, servì poi specialmente ad esprimere la vacca, si vide nella go aurora (mobile) come nella go nuvola (mobile insieme e tonante) una vacca, anzi molte vacche, alle quali sono paragonati i raggi luminosi (prati bhadrâ adr'ikshata gavâm sargâ na raçmayah), onde nacque non solo l'aurora concepita come vacca rosea (vacca innocente, eterna, Aditi la chiama l'inno 90º dell'VIII libro del Rigv.), ma l'aurora gomatî, ossia l'aurora fornita di vacche. Ed ecco la prima personificazione dell'aurora, [59] cagionata da un singolare e poetico equivoco del linguaggio. Ma, se dobbiamo credere al commentatore Sâyana, in alcuni Inni vedici la parola go non rappresenterebbe soltanto la vacca (ossia la muggente), ma anche il cavallo (l'andante). Il nome proprio del cavallo, açva (equus), ha pure il significato di andante, penetrante, veloce. L'aurora, come mobile, non fu solo go, ma anche açvâ (propriamente), veloce; e non solo açvâ, ma açvâvatî, ossia fornita di celeri o cavalle, ricca di celeri o cavalle. Concepita per tal modo l'aurora come ricca di vacche e di cavalle, niente più naturale che il poeta vedico l'invocasse, come accrescitrice degli armenti, come liberale all'uomo di cavalli e di vacche (Nû no gomad vîravad dhehî ratnam usho açvavad purubhog'o asme; Rigv., VII, 75); e quando il poeta chiama l'aurora con frequente appellativo vag'înî, ossia fornita di cibi, i cibi desiderati, come ce ne assicura l'inno 81º del VII libro del Rigv., non sono altro che vacche (vâg'ân asmabhyam gomatah), il quale indizio ci proverebbe che l'età vedica non era punto pitagorica. Nell'inno 92º del I libro s'invoca dall'Aurora il dono di cibi, ne' quali le vacche siano la cosa principale (usho goagrân upa mâsi vâg'ân).
2. L'aurora come persona. L'aurora mobile e rosea, che, denominata go, pigliò forma di vacca, o di un armento di vacche (l'inno 92º del I libro del Rigv. invoca non un'aurora, ma molte aurore e le chiama insieme le madri vacche rosseggianti), l'aurora mobile e rapida che prese nome di acvâ, e assunse perciò forma di cavalla (e rossastra come una bella cavalla la chiama il 30º inno del I libro, e il 52º inno del IV libro del Rigveda), e le aurore, che nell'inno 41º del VII libro trovo chiamate açvâvatîh, al plurale, sono tema specialissimo di quella che intitolai Mitologia zoologica.[7]
[60]
Noi dobbiamo soltanto veder qui che cosa abbiano potuto divenire nell'età vedica l'aurora gomatî, ossia fornita di vacche; l'aurora açvâvati, ossia fornita di cavalle. L'aurora go e poi gomatî, ossia fornita di vacche, diventò una pastorella; l'aurora açvâ e poi açvâvatî o fornita di cavalle, una guidatrice di carri e cavalli.
Proviamolo.
L'inno 92º del I libro del Rigv. ci dice che l'aurora aperse, ossia dissipò la tenebra, come le vacche rompono il loro recinto, ossia escono dalla loro stalla. Nell'inno 48º e 113º dello stesso libro l'aurora stessa è detta aprir le porte del cielo. Nell'inno 75º del VII libro l'aurora infrange le stalle delle vacche e queste muggono verso l'aurora. Nell'inno 124º del I libro l'aurora è chiamata gavâm g'anitrî, delle vacche genitrice; poco dopo, si dice ch'essa risplendette giovane in Oriente, ove congiunge la schiera delle rosee vacche (aveyam açvaid yuvatih purastâd yunkte gavâm arunânâm anîkam). Ed ecco rappresentata, con perfetta evidenza, nell'aurora, la pastorella celeste. La go diventò gomatî; la gomatî fu madre di vacche (mâtâ gavâm la chiama pure l'inno 52º del IV libro del Rigv.), e custode di vacche, ossia pastora, che tiene insieme raccolte le vacche rosseggianti (eshâ gobhir arunebhir yug'anâ; Rigv., V, 80), che guida le vacche, onde il suo nome di guidatrice delle vacche, datole per l'appunto da un inno vedico (gavâm netrî; Rigv., VII, 75). Abbiamo avvertito come la mobile aurora sia non solo açvâ essa stessa, ossia rapida cavalla celeste, ma ancora açvâvatî, ossia fornita di rapide cavalle celesti. L'appellativo açvasûnr'itâ, dato [61] all'aurora nell'inno 79º del V libro del Rigv., non è quindi per me, come pel Dizionario Petropolitano, «Ushas vom Jubel der Rosse begleitet,» ma molto più semplicemente «l'aurora fornita di agili cavalli,» poichè come açva vale cavallo, così sûnr'ita, agile, mobile, rapido; onde il composto riferito all'aurora non parmi significare altro se non l'avente rapidi cavalli. L'aurora è la prima forma animata che appare sul far del giorno nel cielo orientale; essa è la prima ad arrivare, e però la rapida; e poichè il cavallo è il rapido od açva per eccellenza, anche l'aurora, come femmina, è un'açvâ. E come nell'aurora molte aurore, nella vacca luminosa si figurarono molte vacche luminose; così, oltre la cavalla, si videro molte cavalle, si vide l'aurora fornita di molti cavalli, l'aurora guidatrice di cavalli, l'aurora sul carro. Gli Inni vedici ci permettono ancora di dimostrare questo mito fino all'evidenza.
Brihadrathâ, ossia dal vasto carro, è chiamata l'aurora nell'inno 80º del V libro del Rigv.; nell'inno 65º del VI libro sono celebrate al plurale le aurore aventi carri luminosi (c'andrarathâh) che si avanzano coi cavalli dalle redini rosee (arunayugbhir açvâih); dal carro luminoso, mobile e faciente muovere (c'andrarathâ, sûnritâ, irayantî) è chiamata l'aurora nell'inno 61º del III libro; nell'inno 75º del VII libro leggiamo che bei cavalli rosseggianti apparvero portanti l'aurora luminosa, la quale se ne viene bella, sopra un carro tutto illuminato (o forse meglio, illuminante tutto). Nell'inno 77º del VII libro l'aurora è celebrata come arrecante il biondo, conducente il bel cavallo (s'intende il sole; vahantî çvetam, nayantî sudr'içîkam açvam); nello stesso inno la ricchezza dell'aurora dai molti doni è chiamata composta di vacche, di cavalle, e di carro, ossia de' doni ch'essa reca sopra il suo carro (isham [62] c'a no dadhatî viçvavâre gomad açvâvad rathavac' ca râdhah); nell'inno seguente il carro dell'aurora è chiamato aperto, vasto, luminoso, ed essa sale sul carro che si attacca da sè tirato da cavalli che si aggiogano pure da sè (âsthad ratham svadhayâ yugyamânam â yam açvâsah suyug'o vahanti); nell'inno 51º del IV libro le aurore divine con cavalli infrenati ordinatamente (o a tempo) percorrono sempre i mondi, sveglianti il dormiente bipede e quadrupede che vive al moto (yuyam hi devîr r'itayugbhir açvaih pariprayâtha bhuvanâni sadyah prabodhayantîr ushasah sasantam dvipâc' catuspâc' carathâya g'îvam); nell'inno 61º del III libro del Rigv. si prega perchè l'aurora hiranyavarnâ (ossia l'aurora per eccellenza, aurora dal color d'oro) sia portata dai cavalli che hanno bei freni (o bene infrenati, suyamâsah) e dalla molta forza. Nell'inno 124º del I libro del Rigv. si celebra l'aurora come la prima delle arrivanti (o delle distendentisi) che splendette (âyatînâm prathamoshâ vy adyaut). Celebrando insieme la notte e l'aurora, l'inno 123º del I libro canta: «L'una va, l'altra viene, belle entrambe, diversamente, insieme vanno (ossia si seguono) le due luminose; delle due dominanti per turno, l'una la tenebra disperse, l'aurora splendette su carro rifulgente (çoçuc'atâ rathena).» Nell'inno 113º del I libro si dice che la nuova aurora segue la via delle aurore passate e succede alla prima delle arrivanti infinite (chiamate pure fra loro stesse in unione col nome di sorelle) e che svegliante coi cavalli rosseggianti arriva sopra un carro bene aggiogato. Nell'inno 92º del I libro i raggi rossi o luminosi dell'aurora chiamati gâh, che si aggiogano da sè, possiamo interpretare così bene per vacche come per cavalli (ud apaptann aruna bhânavo vr'ithâ svâyug'o arushîr gâ ayukshata). L'inno 49º del I libro del Rigv. incomincia così: «O aurora, arriva dalla parte [63] luminosa del cielo coi fortunati; alla casa del devoto che a te propizia ti portino i rosseggianti; con quel bel carro di bella forma, sul quale, o aurora, tu sei salita, con quello ora proteggi, o figlia del cielo, l'uomo di buona fama (suçravasam ganam).» Nell'inno 48º del I libro traduco nel modo seguente la terza e la settima strofa: «L'aurora già splendette e risplende ora la dea guidatrice di carri, i quali, negli arrivi di essa, corrono come fiumi al mare (samudre na çravasyavah).[8] Essa (si) aggiogò lontano dove nasce il sole; questa propizia (o fortunata) aurora si avanza risplendente verso gli uomini sopra cento carri.» Nell'inno 116º del I libro del Rigv. la figlia del sole, che non può essere se non l'aurora, salendo sopra il carro dei due Açvin (i Dioscuri indiani) arriva alla mèta vincendo la corsa(â vâm ratham duhitâ sûryasya kârshmevâtishthad arvatâ g'ayanti). Di questa sfida alla corsa nel cielo, vinta dagli Açvin e dall'aurora, serba pure memoria la tradizione posteriore vedica brâhmanica.
Così noi abbiamo sicuramente dimostrato l'aurora pastorella, e l'aurora guidatrice di carri.
Non dimentichiamo ora l'idea fondamentale, dalla quale siamo partiti, cioè che nell'aurora, oltre la luminosa, la bella, vuolsi pure osservare la mobile, per cui essa potè facilmente trasformarsi in go ed in açvâ. Come açvâ, è la prima ad arrivare, la prima ad apparire, la più sollecita. Noi abbiamo veduto l'aurora che è ad un tempo go e conduttrice di vacche, açvâ e guidatrice di cavalli. Abbiamo detto uno degli appellativi assai frequenti [64] dell'aurora essere, negli Inni vedici, sûnr'itâ, che vuol dire mobile, agile, sollecita; ma essa non è solo celebrata come sûnr'itâ, ossia agile, ma come netrî sûnr'itânâm, ossia guidatrice delle agili. Ed eccoci un novissimo e poetico aspetto dell'aurora, l'aurora ballerina, l'aurora guidatrice del coro delle ballerine; eccovi le apsare, eccovi le ninfe celesti, con le quali gli Dei immortali temperano la noia dei loro ozii olimpici. Ma, perchè ogni affermazione tenta qui aver la sua prova, cerchiamo anche di questo poetico mito alcun esempio vedico che lo confermi. Nella quarta strofa dell'inno 92º del I libro del Rigv. leggiamo che l'aurora si orna come una ballerina; che si scopre il petto come una vacca (adhi peçânsi vapate nr'itûr ivâpornute vaksha usreva barg'aham). Nello stesso inno essa è chiamata splendida guidatrice delle agili (bhâsvatî netrî sûnr'itânâm), e per piacere, essa sorride come un lusingatore (çriyê ch'ando na smayate). Nell'inno 113º dello stesso libro ci ritorna la bhâsvatî netrî sûnr'itânâm, ossia la splendida conduttrice delle agili, giovane, in veste luminosa (yuvatih çukravâsâh). Nell'inno 123º l'aurora ci è paragonata ad una fanciulla che vezzeggia col corpo (hanyeva tanvâ çaçadânâ), giovine, sorridente, splendida, che in oriente si discopre il seno (samsmayamânâ yuvatih purastâd âvir vakshansi vibhâtî), e quindi ancora viene comparata ad una bella fanciulla adornata dalla madre che si discopre il corpo per farlo vedere (susamkâçâ mâtrimr'ishteva yoshâvis tanvam kr'inushedriçe kam). Nell'inno 124º traduco la terza strofa nel modo seguente: «L'aurora si manifesta come il seno d'una vergine; come la vacca (discopre il petto) essa discoverse a noi le cose care»[9] (upo adarçi cundhyuvo na vaksho no dhâ [65] ivâvir akr'ita priyâni). Quest'ultima espressione (s'io avessi avuto la fortuna di bene interpretare il passo vedico) potrebbe essere di una terribile ingenuità, e varrebbe ad agevolarci la via di comprendere i misteri fallici che servirono di fondamento a tanta parte delle antiche religioni e mitologie. E gli Inni vedici all'aurora ritornano ancora altre volte alla stessa immagine. Nell'inno 64º del VI libro leggiamo: «Divina aurora, tu bella lucente co' tuoi splendori ti scopri il petto» (âvir vakshah kr'inushe). L'inno 76º del VII libro chiama l'aurora ora gavâm netrî, ora netrî sûnri'tânâm, ed essa si congiunge in tutti gli inni del VII libro con râdhas, rayi, la ricchezza; nell'inno seguente si paragona ancora l'aurora a giovine donna; nell'inno 115º del primo libro si dice che il sole va dietro alla divina aurora lucente, come un uomo dietro una donna (Sûryo devîm ushasam roc'amânâm maryo na yoshâm abhy eti paçcat; in questo inno ancora la Pr'ithivî trovasi identificata con l'aurora come quella che cresce e grandeggia nel cielo). Nell'inno 80º del V libro l'aurora discopre ancora il corpo dalla parte d'Oriente; e appare bella alla vista come un bel corpo che si scopre, come una donna levatasi dal bagno (eshâ çubhrâ na tanvo vidânordhveva snatî driçaye no asthât). Dopo tutte queste prove, io dovrei durar poca fatica a dimostrarvi come la Venere sia uno degli aspetti più frequenti dell'aurora vedica.
3. L'aurora eroina. Noi abbiamo, in ogni maniera, [66] finqui la certezza dell'aurora raffigurata come pastorella, come guidatrice di carri, come saltatrice del cielo, come donna bellissima. Vediamo ora le sue parentele celesti. Il suo nome più frequente è quello di duhitar divah, ossia di figlia del cielo, chiamata perciò anche divig'âs, ossia nata nel cielo. Ma, oltre il cielo, il Rigveda ci dà pure come padri dell'aurora, talora il Dio Indra, il sommo reggitore del cielo, talora Sûrya, il sole. Aditi le fu madre; talora invece parrebbe madre dell'aurora luminosa e chiara la notte scura (çukrâ krishnâd ag'anishta çvitîcî; Rigv., I, 123); ma, nello stesso inno, in cui ci si dice che la bianca è nata dalla nera, la notte vien chiamata sorella; e rappresentasi ora come buona, congiunta strettamente con l'aurora, ora come sua nemica ch'essa caccia lontano, e della quale rimuove le tenebre. Come sorelle concordi sono chiamate insieme ahanî (Rigv., I, 123), dyavâ (Rigv., I, 113), le due splendide, le due insieme congiunte, le due immortali, le due succedentisi, simili e pur diverse, che non stanno ferme e che pure non s'incontrano mai. Abbiamo qui una forma d'indovinello vedico; altri esempii somiglianti si potrebbero riferire dal Rigveda. Accennammo già come Varuna sia il reggitore divino della notte e Mitra, l'amico sole, il reggitore del giorno; uno dei sinonimi di Mitra è Bhaga. Come l'aurora è la sorella della notte, così nel citato inno 123º vien ricordata quale sorella di Varuna e di Bhaga (bhagasya svasâ varunasya g'âmir). Abbiamo finqui dunque il sole padre dell'aurora, come quello che è supposto mandarla fuori innanzi a sè; il sole fratello dell'aurora, come quello che appare quasi contemporaneamente con essa: ma il sole appare ancora, rispetto all'aurora, in due altri aspetti, come sposo e come figlio. A Varuna essa concede solamente le sue lusinghe e gli reca danno; al sole, [67] a Mitra, essa invece aggiunge forza, potenza, splendore; perciò un inno del Rigveda (III, 61), forse con un po' di giuoco di parole, la chiama mahî mitrasya varunasya mâyâ (accrescitrice di Mitra,[10] di Varuna ingannatrice.) Da quella che accresce il sole, alla madre del sole è lieve il passo; l'inno 113º del I libro del Rigveda ci fa sapere che l'aurora generata per produrre il sole, ebbe dalla notte la yoni o vulva necessaria per quella produzione (yathâ prasûtâ Savituh savâya eva râtrî Ushase yonim arâîk); qui ancora abbiamo un piccolo giuoco di parole, come chi dicesse in italiano generata per la generazione del generatore.
Così l'aurora è essa stessa generata e generatrice, figlia e madre del sole; nè solo figlia e madre del sole, ma anche figlia e madre del cielo luminoso, ossia della luce; svâr g'anantî, ossia generante il cielo luminoso, l'appella perciò l'inno 61º del III libro del Rigveda. E poichè abbiamo detto che il cielo luminoso è la sede degli Dei, non reca meraviglia il trovar l'aurora la generatrice del giorno che si schiara o primo giorno (g'anatî ahnah prathamasya; Rigv., I, 125), chiamata non solo l'apportatrice degli Dei, ma anche la madre degli Dei (mâtâ devânâm; I, 113), che sono per noi le forme animate del cielo luminoso. Ma, oltre il sole fratello, il sole marito, l'aurora ha pure degli amici; questi amici suoi del cuore sono i due fratelli Açvin (così l'Elena ellenica trovasi congiunta coi Dioscori); l'inno 52º del IV libro del Rigveda ce lo dice in termini espliciti: l'aurora fu la compagna (od amica) degli Açvin. Noi abbiamo già veduto come gli Açvin, con atto gentile e [68] cavalleresco, abbiano fatto salire sul loro carro la bella aurora, perchè potesse vincere la corsa ed arrivare prima alla mèta. Ora con questo episodio è probabile che se ne debba congiungere un altro, vedico ancor esso. Noi vedemmo già di che sorta lusingatrice fosse l'aurora per i poeti vedici; e quell'epiteto di bhuvanasya patnî o sposa del mondo che un inno le dà, ci fa nascere il sospetto che il marito legittimo dell'aurora se ne sia offeso, ed abbia preso dispetto contro la troppo lusinghiera sua consorte. L'inno 79º del V libro del Rigveda invita l'aurora ad apparire, a non distendere troppo lungamente la trama dell'opera sua, perchè non venga il sole ad abbruciarla come si abbrucia un ladro nemico. La strofa è molto caratteristica, per la notizia che ci dà di un uso poco civile di quell'età primitiva; ma è importante anche, perchè ci permette di sospettare la ragione probabile di un atto brutale commesso dal Dio Indra nel Rigveda, a danno dell'aurora. Indra non fu già marito dell'aurora; eroi del carattere d'Indra non possono pigliar moglie stabile; ad Indra non ispiacciono punto le donne, anzi è per cagione di esse ch'egli viene finalmente sbalzato dall'Olimpo; ma ei non si lega con alcuna Dea o donna mortale, con patto eterno; è vago di avventure, si compiace di belle forme, e sa anche, in qualche occasione, mostrare un cuor tenero. Nell'inno 80º dell'VIII libro del Rigveda appare in relazione con Indra una fanciulla di nome Apâlâ, che io sospetto essere la nostra aurora. L'aurora della sera si fa brutta, ossia si oscura nella notte; è Indra che compie il miracolo di ritornarla bella, passandoci sopra, dopo essere stato pregato da lei, dopo avere inteso il voto della pia fanciulla discesa alla fonte per attingere acqua, affinchè il Soma od Indu, o l'ambrosia (lunare) in essa trovata, scorra verso Indra sempre avidissimo del soma ambrosiaco; [69] Indra, passando tre volte, con la ruota, col carro, col timone sopra di essa, ossia sopra la testa, sopra il petto, sopra il basso ventre di lei, ne leva via la pelle orrida e scura, e purificandola in tal modo, le dà una pelle aurea (apâlâm Indra trish pûtvy akrinoh sûryatvac'am). Qui Indra appare come benefattore della fanciulla aurora; ma bisogna aggiungere ancora come questa fanciulla si mostra vergine, semplice, pia e debole. Ma, quando l'aurora ardisce, come guidatrice di carri e di cavalli, emulare i guerrieri, e ribellarsi forse al potere stesso d'Indra, il guerriero per eccellenza, e contrastargli indomita, questa prima forma d'Amazzone offende il belligero Indra, che pone, come Teseo, come Siegfried, tutto il suo orgoglio nel vincere la fiera virago. Indra che squarcia le tenebre, Indra che squarcia le nuvole, non pare così potente come Indra che caccia dal cielo gli splendori talora malefici dell'aurora, rovesciandone e spezzandone il carro. I Greci trasportarono il mito del guidatore di carri che cade nel fiume, dall'aurora al sole Fetonte. Nel Rigveda è il carro dell'audace aurora che, per la forza d'Indra, è precipitato. «Allora, o Indra (canta l'inno 30º del IV libro del Rigv.) tu hai compiuto un atto eroico e virile (vîryam Indra c'akartha paunsyam), quando colpisti la figlia del cielo, la donna malefica; l'aurora figlia del cielo grandeggiante tu, Indra il grande, abbattesti; dal rotto suo carro l'aurora fuggì spaventata, quando il potente Indra lo spezzò. Quel carro di lei giace intieramente disfatto e sconnesso; ed essa fuggì lontano.» Un altro inno del X libro del Rigveda (X, 138) ci fa sapere che Indra compì quell'impresa col fulmine; e che l'aurora, per lo spavento del fulmine distruggitore d'Indra, si allontanò dal proprio carro. Qui il mito incomincia a diventare leggenda eroica; ed un mito concatenandosi con l'altro, si disegna [70] forse nello stesso Rigveda una specie di romanzo epico; poichè, quando gli Açvin pigliano sopra il loro proprio carro l'aurora che ha fretta di arrivare, le usano probabilmente quell'attenzione cortese, oltre che per naturale simpatia ed analogia, perchè l'aurora ha perduto il proprio carro distruttole da Indra, del quale gli Açvin come i Marut sono talora i compagni, ma qualche volta anche gli emuli. Un inno dice che l'aurora appare, quando gli Açvin aggiogano il loro carro. Ma, se la leggenda mitica si complicò, l'origine del mito dev'essere stata semplicissima. Come l'aurora, nel maggior numero de' suoi osservatori, desta un senso di grata meraviglia, così nell'infanzia della nostra stirpe potè ad alcuni osservatori inspirar terrore. Noi stessi, i quali diciamo per lo più che il rosso di sera lascia sperare il bel tempo pel giorno seguente, diciamo ancora qualche volta che il rosso di sera è segno di sangue, e che annunzia guerra. Qual meraviglia, che nella prima età patriarcale quell'aurora che gl'Inni vedici chiamano così spesso grandeggiante, paresse voler minacciare di occupar sinistramente, come una strega perversa, tutto il cielo? Come nell'aurora vespertina vedremo nascere la fucina di Vulcano, così nell'aurora, specialmente nella vespertina, si dovette vedere alcuna volta una fata maligna, una selvaggia e sinistra virago, che, nel bisogno di pioggia, prometteva invece giorni sempre sereni, e apportava nuova siccità sopra la terra, e benedirsi perciò il potere d'Indra pluvio, che, fulminando, si scatenava nella tempesta, cacciando dal cielo le troppo ardenti aurore.
4. L'aurora dea. L'aurora sinistra, nata specialmente dall'aurora vespertina, ha la sua importanza nel mito; poichè, per essa, si possono spiegare le Elene argive, le Amazzoni, le Medee, le Crimildi, e simili tipi [71] di donne, belle di bellezza terribile e fatale. Ma nell'aurora vespertina non si vide solamente la fucina del negromante, e la donna perfida e funesta, ma ancora, come vedremo, la porta del regno de' beati, de' morti maggiori, dove le anime de' morti cercano, morendo, il sole; onde, con pensiero tutto gentile e poetico, un poeta vedico (Rigv., VII, 76) immaginò che le anime dei poeti vedici anteriori fossero andate a rintracciare la luce nascosta, per farla risuscitare nell'aurora mattutina. E l'aurora alla sua volta, che abbiamo già conosciuta come madre degli Dei, chiamati perciò usharbudhah, ossia risvegliantisi con l'aurora, oltre le qualità ch'essa ha comune con altre divinità come liberale, splendida, benefica, ha pure come sua facoltà speciale quella di far muovere, quella di risvegliare; essa è la bodhayantî, ossia la risvegliante per eccellenza. E poichè dalla radice budh, «risvegliare,» nacque ugualmente la bodhayantî, ossia la risvegliante e la buddhi, ossia la intelligenza, ecco nell'aurora vedica mattutina (e poi, per somiglianza di fenomeni, nella primavera) che diffonde la luce, che vede tutto, perchè scopre con la sua luce tutto, che sveglia; ecco, io ripeto, disegnarsi vagamente, presso la bella aurora una Venere, presso l'aurora eroica una Pallade, e finalmente un Athênê o Minerva nell'aurora luminosa e illuminante, svegliata e risvegliante, sollecitamente operosa e ridestante dal sonno i mortali all'opera sollecita, come dice l'inno vedico, e sospingente ciò ch'è vivo a muoversi.
[73]
Quando si parla ne' giorni nostri di mitologi, voglionsi essi rappresentare come una specie di sognatori bizzarri, aventi certa loro idea fissa che il sole sia il Dio unico, il Dio universale, in cui si confondono, da cui partono, a cui ritornano tutti gli Dei. Niente di più inesatto e d'ingiusto che un tale giudizio, nato forse dall'avere inteso come il Dupuis, in un'opera più citata che letta, sul fine del secolo passato, interpretasse tutti i miti col sistema solare, il che non è neppure assolutamente vero pel Dupuis, e dalla falsa credenza che i moderni Mitologi comparatori non abbiano altro oggetto, se non quello di dimostrare il sistema solare in tutte le mitologie, aiutati nella comparazione dai sussidii della filologia.
Certamente il tentativo del Dupuis non è punto dispregevole, e, per quanto il difetto di metodo scientifico e la esagerazione sistematica, alla quale il mitologo francese, uscito dalla scuola scettica dell'Enciclopedia, portò il proprio sistema, abbia screditato il libro, non si può negare al Dupuis il merito d'avere, con molto ingegno, intuito la verità fondamentale dell'odierna scienza della mitologia, che cioè non solo la natura fisica, ma particolarmente la celeste, ne' suoi aspetti animati, abbia prodotto [74] i miti. Ma, chi credesse che gli odierni Mitologi comparatori derivano l'origine di tutti i miti dal sole, commetterebbe lo stesso errore, nel quale incorsero alcuni critici contemporanei, i quali, per aver veduto il professor Max Müller studiare particolarmente gli Inni vedici riferentisi all'aurora e rilevarne pertanto i miti che si riferiscono ad essa, sentenziarono che la mitologia comparata non vede nel mito se non aurore; per aver visto come il professor Adalberto Kuhn, secondato dal Mannhardt, studiasse specialmente gli Inni vedici, ne' quali si rappresentano i fenomeni naturali del cielo ventoso, nuvoloso, tonante, fulminante, sentenziarono che la mitologia comparata vede solamente nel mito nuvole, lampi, fulmini e tuoni. Per questo errore di raziocinio si calunniarono i nostri studii come capricciosi, quasi che, nella interpretazione mitologica, ciascun mitologo abbia la sua idea ristretta, secondo la quale disfà tutto il lavoro intrapreso da' suoi predecessori per rimettere sul telaio un'opera nuova. Senza dubbio, ogni mitologo può avere i suoi miti prediletti, e, per tale predilezione, lasciar loro invadere alcuna volta il campo che non appartiene più accertatamente ad essi; ma esagerare la propria idea simpatica non vuol già dire negare le idee ad altri simpatiche. Ora, in questo studio, nel quale tutto ciò che si manifesta d'essenziale presso la mitologia vedica vorrei vi fosse dimostrato, spero non meritare l'accusa d'avere trasportato i miti molteplici fuori del loro proprio campo, sì che vi riesca non solo possibile, ma necessario il persuadervi come la mitologia comparata all'infuori della sua tèsi generale che i miti primordiali s'abbiano a spiegare nel cielo, non permette ad alcun mitologo l'arbitrio di rappresentarla tutta con un solo ordine di rappresentazioni de' fenomeni naturali. Noi abbiamo veduto fin qui il Dio cielo e [75] la Dea aurora; oggi vedremo il Dio Sole; in seguito ci appariranno il Dio Luno o la Dea Luna, il Dio fuoco, il Dio vento, la Dea acqua, come si raffigurarono dagli antichi nostri fratelli Arii nel cielo. Voi vedete dunque che per noi il mito elementare, sebbene appaia sempre nel cielo, non è uno solo; che per noi la mitologia non si spiega con un solo fatto, con un solo fenomeno celeste, e che non siamo, per conto degli Autori dei più antichi Inni vedici, idolatri d'alcuna forma speciale del cielo, ma che sentiamo anche noi e ricerchiamo negli Inni vedici, espresso con poetiche immagini, le quali divennero miti, tutto l'entusiasmo provato innanzi alla magnificenza e varietà degli spettacoli della natura animata, e specialmente della vôlta celeste, la quale, sfuggendo più alla nostra analisi, dovette maggiormente accendere la nostra immaginazione.
Ma, poichè tra le forme celesti, la più splendida, abbagliante, animata, potente, benefica è sicuramente il sole, nessuna meraviglia che l'aurora annunziatrice, apportatrice del sole, e il sole stesso abbiano svegliato i primi inni lirici dell'uomo poeta. La lingua sanscrita conosce niente meno che mille appellativi del sole, i quali si trovano raccolti insieme in uno speciale catalogo indiano.[11] Questa abbondanza di appellativi è una prova evidente dell'attenzione che fu nell'India prodigata al sole; alcuni di essi confondonsi con quelli del Dio Vishnu, ch'ebbe ancor esso, come vedremo, l'onore di ricevere mille appellativi sanscriti. Noi non possiamo, occupandoci qui di sola mitologia vedica, considerare singolarmente quegli appellativi; ma ho voluto richiamare l'attenzione vostra sopra la loro ricchezza in generale, perchè non vi rechi meraviglia l'intendere che il sole [76] negli Inni vedici è celebrato con parecchi nomi, ma specialmente con quelli di Sûrya, il sole per eccellenza; Savitar, il sole generatore; Pûshan, il sole nutritore; Bhaga, il sole benefico e venerando (osservo, per incidente, come il corrispondente slavo di questa parola, bog, servì ad esprimere il nome di Dio). A questi quattro nomi solari vedici si potrebbe aggiungere ancora quello di Mitra, che ora appare il cielo diurno, ora il reggitore del cielo diurno, del giorno, ossia il sole. Altri nomi vedici del sole sono: Aryaman, Vivasvat, Daksha, Ança, Dhâtar, Varuna, Indras, che rappresentano pure il sole in momenti diversi. Tutte le forme del sole sono poi chiamate col nome complessivo di Âdityâs, ossia di figli di Aditi, in questo caso, il cielo; e poichè il sole o il cielo luminoso può essere compreso secondo il vario modo di osservarlo in un numero diverso di forme, così gli Âdityâs ci appaiono negli Inni vedici ora sei, ora sette, ora otto, ora finalmente dodici, e, come tali, furono più tardi preposti a reggere singolarmente i singoli mesi dell'anno, dopo avere probabilmente presieduto alle ore o stazioni del giorno. La essenza degli Âdityâs è la luce dell'Aditi celeste. Moltiplicatasi l'Âditya per eccellenza, il cielo luminoso nei suoi diversi momenti, per dodici, diventò pure probabilmente un genio reggitore delle ore, come di poi certamente un genio reggitore dei mesi; ma, in origine, l'Âditya dovette essere un solo, il cielo diurno, il sole reggitore del cielo diurno, a cui s'oppose il cielo notturno, il reggitore del cielo notturno: l'Âditya, il sole reggitore del cielo diurno, fu chiamato Mitra, ossia l'amico; l'Âditya, reggitore speciale del cielo notturno, fu chiamato Varuna. Ma Varuna è propriamente una personificazione del cielo; e perchè nella notte, sebbene il sole si ritiri, il cielo appare sempre, risplende sempre, anche se non vi sia la luna, [77] Varuna è l'indestruttibile, ossia quello che risplende sempre, rimanendo al suo posto. Egli fu quindi, come reggitore perenne del cielo, assunto a personificare tra gli Dei la maestà regia, immobile nel suo splendore; a comprendere la qual personificazione non dobbiamo certamente figurarci l'abito disinvolto e democratico de' nostri Re costituzionali, ma trasportarci col pensiero al cerimoniale delle reggie orientali, nelle quali il Re, coperto di ori e di gemme, seduto sopra il suo trono d'oro, sotto un padiglione tempestato di gemme, si ammirava e s'ammira ancora in ragione della sua splendida immobilità. Per questa ragione, il cielo nel suo splendore diurno e notturno, ma specialmente notturno, in cui le stelle rappresentano le gemme del regio paludamento, preso il nome di Varuna, rappresentò la solenne maestà e potestà regia fra gli Dei immortali; e come eternamente immobile è naturalmente Âditya, ossia figlio dell'eterna immobile, figlio di Aditi, la vôlta celeste. Degli Âdityâs adunque ne abbiamo due essenziali: Mitra, il cielo amico, l'amico, che si riferisce particolarmente al giorno, e, come reggitore del giorno, si confonde col sole; Varuna, il cielo, che persiste anche nella notte, e che perciò si rappresenta spesso, in opposizione a Mitra, come speciale reggitore della notte. Dal cielo il re Varuna, abbracciando i tre mondi (la vôlta celeste fa veramente questo, nella sua forma convessa), lancia nell'aria il sole d'oro; fa col suo alito muovere i venti, ha la sua casa d'oro nelle acque, impera sulle acque dell'oceano celeste, ed è chiamato egli stesso un oceano occulto e talora pure figlio delle acque; sprigiona le acque, le quali corrono sempre al mare e non lo riempiono mai; manda giù la pioggia, e in questa qualità di signore del cielo concepito come oceano celeste divenne più tardi il signore dell'oceano terrestre (fu già comparato [78] a Varuna, l'Οὐραός di Esiodo); fa apparire e scomparire la luna e le stelle; vede e accompagna ogni cosa, gli uccelli nel volo, i naviganti sul mare, il vento che spira; egli conosce i misteri e li svela nascondendoli ai soli perversi, ossia ai mostri demoniaci; possiede mille rimedii contro i mali, e il male allontana; castiga i cattivi; concede e ritrae i suoi favori; prolunga o toglie la vita legando ne' suoi vincoli i mortali, nella quale facoltà di copritore, di legatore, egli si confonde pure col funebre Dio Yama. Nella vista de' beati Yama e Varuna spera il moribondo, poichè entrambi sono guardiani dell'amr'ita, ossia dell'ambrosia, dell'immortalità; egli attira al cielo, ossia a sè l'anima del devoto trapassato, non permettendo ch'essa entri e si strugga col corpo nella terra; e i messaggieri ch'esso, al pari di Yama, manda alla terra hanno mille occhi. Queste sono le qualità e le funzioni principali del Dio Varuna. Evidentemente noi abbiamo qui descritte le virtù attrattive attribuite alla vôlta celeste, ben più che non ci sia concesso di vedere una distinta persona divina. Varuna è quasi immobile come il cielo tranquillo che rappresenta; il cielo tonante non lo riguarda; esso è dominio particolare del Dio Indra. Un inno ci dice ch'ei va nelle acque, ma il maggior numero degli inni ce lo presenta che sta nelle acque, che le aduna, le fa muovere, stando fermo esso stesso, qualità che lo ravvicina particolarmente a Brahman, col quale, come vedremo, ha identica natura celeste. Il dottissimo signor Muir osserva giustamente che gli Inni vedici non ci presentano Varuna sposo di Pr'ithivî, come la mitologia ellenica ci offre Οὐραός sposo di Γαῐα. Ma la ragione è che il μεγας Οὐραός di Esiodo è un equivalente non solo di Varuna, ma della vedica Pr'ithivî, la distesa, l'ampia vôlta celeste, come Varuna è etimologicamente il velatore, il copritore. Quanto al passaggio [79] di Varuna, rappresentante del cielo, in reggitore per eccellenza, in Re de' celesti, parmi potersi pure confermare per un equivoco del linguaggio. Nella lingua vedica, rag'as è l'aere luminoso, il cielo lucente, dalla radice rag'=arg' che vale splendere; come si suppongono tre cieli luminosi, ossia tre dyâvas, tre rocanâs, così rappresentaronsi tre rag'ân'si, sopra i quali il Dio Varuna impera; e come vedemmo insieme uniti in un duale Dyu e Pr'ithivî, così troviamo rappresentate al duale due rag'asî, ossia il cielo diurno e il cielo notturno; nel vero, la stessa lingua vedica ci offre la parola rag'as come sinonimo della notte. Varuna velatore, Varuna signore del cielo, Varuna signore della notte, equivalgono a Varuna rag'aspati (come tale identificato pure con Indra divaspati, e, per divaspati, necessariamente, come vedremo, col divaspati per eccellenza, che è Brahman ossia Brahmanaspati; onde potremmo stabilire queste due proporzioni Varuna=Dyu; e Divaspati sta a Dyu come Brahmanaspati sta a Brahman). Ma Varuna rappresentante il rag'as, ossia il cielo luminoso, e poi specialmente il cielo notturno tempestato di stelle (rag'anî è uno degli appellativi più comuni sanscriti della notte); la notte è ora chiamata la luminosa, ora la scura; la radice var che vale coprire, forma pure la parola varn'a che vale colore; e la forza espansiva delle radici rag' e arg' fa sì che la parola rag'as che vale il luminoso, valga pure lo scuro, il sudicio, la polvere; così Varuna, il velatore luminoso, diviene anche il velatore per mezzo della tenebra, e finisce per confondersi col tenebroso Yama. Yama significa propriamente l'infrenatore, quello che raccoglie i freni, che attira a sè i raggi luminosi del sole, che lega ne' suoi freni il mondo de' viventi; Varuna copritore e luminoso, Varuna rag'as, e rag'aspati, divenne probabilmente ancora, per una facile confusione tra le [80] radici rag' «splendere» e râg' «reggere,» il reggitore, il Re per eccellenza, il rag'an degli Dei, dei tre mondi, beato insieme col re Yama, che ci ritorna nel persiano re Yima. Perciò Varuna è pure fatto apparire come Yama, verso la sera, sopra la montagna, donde esercita la sua virtù attrattiva. Al re Yama consacreremo un'attenzione speciale. Di Varuna toccammo passando, poichè all'infuori della sua persona regale egli non ha una figura mitica molto distinta e caratteristica, confondendosi egli ora con Yama, ora con Dyu e con la Prithivî, ora con Indra. Ne toccammo qui, perch'egli ci appare per lo più negli Inni vedici, o in opposizione o in compagnia di Mitra, figura mitica solare che rimase alquanto pallida negli Inni vedici, ma che doveva poi pigliare nell'iranico Mithra le proporzioni di un Dio massimo. Come Varuna rappresenta particolarmente il cielo notturno, così Mitra il diurno, ossia il giorno, e l'astro del giorno. Essi sono le due forme principali della materna loro Aditi, insieme con la quale vengono invocati per esser liberati dal male. Anche il vedico Mitra è nel 59º inno del III libro del Rigveda chiamato col nome di Re sapiente, e di proprio e caratteristico che lo distingua dal suo compagno Varuna reggitore, non ha altro se non il suo potere di evocare, eccitare le creature al moto e di portare da sè solo tutti gli Dei (sa devân viçvân bibhartti). Mitra e Varuna si associano talora un terzo Âditya, Aryaman, il venerando compagno, che nelle nozze de' celesti sostiene la parte di Procolo. Probabilmente esso è il sole invecchiato sul fine del giorno, che si pone fra Mitra, il reggitore del giorno e Varuna, il reggitore della notte. Egli si identifica con Bhaga, il venerando benefico, che nell'Atharvaveda appare pure come mediatore di amori e di matrimonii, e il cui proprio tempo, secondo il Taittiriyabrâhmana, è nelle ore [81] dopo mezzogiorno, e secondo il Nirukta, precisamente innanzi al tramonto. La benedizione dei vecchi è detto portar fortuna; perciò il sole barbogio, il sole Aryaman, il sole Bhaga, il sole venerando porta fortuna e benessere. Anzi la parola bhaga si dà già nel Nâighantuka tra i sinonimi di benessere, fortuna, ricchezza (bagat in lingua russa è il ricco, e bagatsva la ricchezza). Secondo una leggenda vedica, Bhaga fu acciecato; precisamente quello che avviene al sole sul fine del giorno, il quale ritira i suoi raggi luminosi e s'accieca; il biblico Sansone è pure acciecato, quando gli vengono tagliati i capelli. E cieca si rappresenta pure la fortuna; e però ancora l'uso di bendar gli occhi al fanciullo che deve trarre a sorte la buona fortuna; e il giuoco fanciullesco della mosca cieca, che in origine era un giuoco nuziale (la sorte, il cieco fato, l'auspicio deve far eleggere lo sposo o la sposa), è anch'esso una cara e preziosa reminiscenza di quel Procolo vedico, il vecchio cieco Iddio Aryaman o Bhaga o Fortunio, che doveva farsi promotore delle nozze celesti.
Il sole è tuttavia più frequentemente negli Inni vedici rappresentato nelle sue qualità di Pûshan o nutritore, di Savitar o generatore, e di Sûrya o sole propriamente detto, come luminoso e celeste (svar, svarga valgono il cielo splendido).
Esaminiamo ora queste singole forme.
Pûshan, il nutritore celeste, è chiamato con gli appellativi di paçupâ, guardiano del bestiame, di purûvasu o ricchissimo, di vâg'in o fornito di cibi, di viçvasaubhaga o arrecante tutte le benedizioni, di mayobhû o benefico, di mantumat o ricco di consigli, di viçvavedas o sapiente, di çakra, tura, tavyas, tuvig'âta[12] o [82] forte, potente. Un inno vedico invoca Pûshan insieme con Bhaga, che abbiamo già detto essere il sole prima del tramonto; altri inni ci mostrano Pûshan congiunto con Soma, il Dio Luno (Soma-Pûshanau sono chiamati insieme al duale). Aryaman e Bhaga sono i promotori del matrimonio della celeste fanciulla Sûryâ; di Pûshan è detto nell'inno nuziale vedico ch'egli deve pigliar per la mano e menar via la sposa Sûryâ, della quale in altri inni (Rigv., VI, 55; VI, 58) egli è detto fratello ed amante. Ma, poichè il Rigveda stesso ci mostra Pûshan in congiunzione con Bhaga e ci dice che Bhaga è il fratello dell'aurora, e poichè ci siamo persuasi che Aryaman e Bhaga rappresentano il sole prossimo al tramonto, dobbiamo supporre che Pûshan ci rappresenti il sole stesso nel tramonto, e che la sposa celeste, la bella fanciulla Sûryâ, della quale egli appare ora fratello ed amante, ora conduttore presso il legittimo sposo di lei, non sia altro se non l'aurora vespertina. Altri indizii m'inducono a riconoscere in Pûshan il sole nel tramonto; tale la sua qualità specialissima di proteggitore de' viandanti, dei viaggi, delle vie, o pathaspati; nell'ora del giorno che intenerisce il cuore ai naviganti, anche i viandanti sulla terra vedono con pena tramontare il sole; gli ultimi raggi del sole illuminano la via de' reduci e ne fanno affrettare il passo; la preghiera che fa tuttora verso il tramonto del sole il pastore arabo, ci può dar luce per meglio comprendere il mito di Pûshan proteggitore de' viandanti.
E, verso sera, coi viaggiatori, rientrano pure nelle loro dimore dai pascoli diurni i bestiami; Pûshan è pure paçupâ, ossia protettore di bestiami, è anzi egli stesso pastore, e tiene in mano uno stimolo come i pastori; con esso, egli fa rientrare nella stalla celeste il suo roseo bestiame rappresentato dall'aurora vespertina; quando [83] quello stimolo celeste appare, esso invita i mortali alla preghiera, quindi il nome caratteristico e per noi pittoresco dato a quello stimolo (ârd) di brahmac'odâni, ossia risvegliante la preghiera. Quando il pastore celeste Pûshan adoperava il proprio stimolo divino per spingere nella stalla il suo bestiame celeste,[13] il pastore della valle del Kaçmîra stimolava il proprio bestiame al ritorno; ma, prima di stimolare il gregge, volgevasi indietro, verso Occidente, per salutare il sole al tramonto, per pregare il pastore divino, affinchè il proprio gregge, il proprio bestiame prosperasse, e perchè nella notte paurosa non gli avvenisse alcun sinistro, il lupo ne stesse lontano (yo nah Pûshan agho vr'iko duhçeva âdideçati apa sma tvam patho g'ahi; Rigv., I, 42), ed il ladro e il bestiame e i pastori potessero trovare una dimora: «Con Pûshan (canta un inno: Rigv., VI, 54) possiamo noi trovare quelle dimore ch'egli prescrive; eccole, egli dica soltanto.» Quanta ingenuità di poesia descrittiva in queste poche parole! Come poi Pûshan stimolante il bestiame nelle stalle celesti faciente rientrar nelle stalle i divini cavalli solari è lo stimolatore per eccellenza, gli fu dato l'appellativo di ag'âçva, parola il cui significato primitivo sembrami abbia dovuto essere quello di stimolatore, spingitor de' cavalli (nell'inno 54º del VI libro del Rigveda, Pûshan è specialmente invocato dal devoto, perchè gli protegga, gli custodisca le vacche ed i cavalli). Nato questo appellativo di una composizione men regolare, da riscontrarsi pel suo significato col vedico açvahayo rathânâm, che occorre precisamente [84] in un inno a Pûshan (Rigv., X, 26):[14] è molto probabile che, perdutasi la prima immagine poetica, siasi interpretato il composto, secondo il suo valore grammaticale più comune, e siasi veduto in ag'a l'agile capra, in açva il cavallo, e spiegato quindi l'intero appellativo di Pûshan ag'âçva come l'avente per cavallo una capra o capre, ossia tirato da capre. Perciò, nello stesso inno 55º del VI libro, ove Pûshan è chiamato ag'âçva, si ricordano sull'ultima strofa le capre che, aggiogate al carro del Dio, lo devono portare. Ma, per me, quest'ultima strofa è ascitizia e ha più il carattere di un commento che di una espressione spontanea ed originale. Bastò tuttavia forse questa sola strofa perchè ritornasse altre volte negli Inni vedici la stessa immagine, e, nata appena, si divulgasse nella tradizione la credenza di un Dio Pûshan tirato dalle capre.
Ma Pûshan non ha solo l'ufficio di guidare i viandanti della terra alla loro dimora, di far rientrare, spingendoli, i bestiami nelle loro stalle; egli spinge l'anima del sole moribondo nel regno de' beati: dhî'g'avana, ossia Pûshan e Dhiyamig'inva o eccitatore dell'intelligenza presso i viventi, Pûshan sostiene pure la parte di ψυχοπομπός, come fu già avvertito dai professori Roth, Max Müller, e riferito pure dal Muir. Una parte dell'inno 17º del X libro del Rigveda dovea, secondo il professore Max Müller, recitarsi presso il rogo, sul quale ardeva il cadavere del devoto trapassato. Rivolto al morto, il sacerdote celebrante diceva: «Il sapiente pastore del mondo, dal gregge immortale, Pûshan di qua ti porti via, egli ti conduca fra que' beati maggiori, ed Agni fra gli Dei benigni. Una vita longeva ti secondi; te Pûshan [85] guidi lontano; dove i buoni stanno, dov'essi andarono, colà ti metta il Dio Savitar. Pûshan tutte quelle sedi conosce, noi confidenti conduca, benefico, rifulgente, avente tutte le virtù, vigile, previdente, vada innanzi. Pûshan è nato per andar lontano, nel lontano Dyu, nella lontana Prithivî; entrambe sono sedi amatissimi; egli arriva da esse, egli parte per esse.»
Il Dio Agni e il Dio Soma, secondo l'Atharvaveda, fanno le strade (Agnîshomâ pathikr'itâ); ma il Dio che guida per quelle strade divine è Pûshan: percorrendo quelle vie, egli, invocato, spinge fuori il reggitore del cielo notturno, C'itrabarhish, simile a pecorella smarrita. Il re C'itrabarhish era nascosto nella caverna; Pûshan lo ritrovò (Rigv., 1, 23). Ora questo re C'itrabarhish che Pûshan, il sole che tramonta, fa venir fuori dalla caverna, dove il Re s'era nascosto, non è altro che la luna, in sanscrito quasi sempre un mascolino, il Re del cielo notturno.
Quanto al nome di C'itrabarhish può essere tradotto in vario modo, secondo i varii significati che si possono attribuire alla parola barhish; ma, qualunque di essi vogliasi eleggere, l'appellativo composto può sempre convenire alla luna, ossia al Dio Soma o Indu, che regge l'astro notturno.
Difatto, nell'inno 40º del II libro del Rigveda, Soma e Pûshan si trovano cantati insieme, come generatori delle ricchezze, generatori del Dyu, generatori della Prithivî, come signori di tutto il mondo, come fonte dell'ambrosia immortale, che abbiamo già finqui trovata nella Pr'ithivî e nell'aurora, ed ora ritroviamo in Pûshan, il sole moribondo che si fa guidatore delle anime, in Soma, il Dio Luno sede di beati immortali. Pûshan risiede particolarmente nel Dyu, Soma nella Prithivî e nell'aria; Soma genera le creature, Pûshan le protegge.
[86]
Ma di generatori nel cielo ve ne sono due: Soma, la luna, nella notte; Savitar, il sole, nel giorno; perciò Pûshan si congiunge pure strettamente con Savitar, il sole generatore, il sole nel suo più vago splendore: esso è quello dagli occhi d'oro (hiranydksha), dalle mani d'oro (hiranyapâni, hiranyahasta), dalle belle e grandi mani (supâni, prithupâni), dai capelli biondi (harikeça), dalla bella e dolce lingua (sug'ihva, mandrag'ihva); ha carro d'oro, cavalli biondi od aurei, e veste una tunica color d'oro rosseggiante, e nasce, secondo l'Atharvaveda, in acque tinte del color dell'oro (le acque dell'aurora mattutina); manda innanzi a sè il bel carro degli Açvin, e poi egli stesso si manifesta; sale e scende; il suo carro percorrendo le vie celesti non fa polvere, egli illumina l'universo, seguito dagli altri Dei che per lui sono immortali, dominatore delle acque e dei venti, signore benefico, libera dal male e fa muovere tutti i viventi. Da queste qualità caratteristiche di Savitar riesce evidente che, sebbene egli, sul fine del giorno, si ricongiunga con Pûshan per collocare nella sede dei beati le anime dei virtuosi defunti, il suo dominio speciale è il cielo nello splendore mattutino e diurno. Egli è detto nel Yag'urveda bianco (citato dal Muir) risplendere sopra la via dell'aurora. L'inno 139º del X libro del Rigveda ci fa sapere ch'ei si parte dall'Oriente. Come Savitar o generatore, egli feconda e accresce sulla terra la generazione, e fornisce i mortali di cibi e di ricchezze; i devoti ne invocano specialmente la potenza generatrice. All'infuori di questi caratteri generali, Savitar nel Rigveda non ne ha altri; la sua personificazione si limita pertanto alla sua manifestazione sopra un carro d'oro tirato da aurei cavalli, vestito d'oro, con capelli, occhi e mani d'oro; a cui si aggiunge la sua qualità di onniveggente, onnisapiente [87] (viçvaveda), e di contenente in sè tutti gli Dei (viçvadeva). Come generatore per eccellenza, egli genera tutti gli Dei, e genera quindi pure sè stesso, col nome comune di Sûrya o sole. Savitar genera Sûrya, ossia il generatore produce il luminoso celeste. Perciò, sebbene Savitar rappresenti il sole, esso rappresenta poi in modo particolare il sole del mattino, anzi, secondo i commentatori indiani, il sole prima d'apparire, cioè quando si vedono soltanto i suoi raggi e non ancora il suo disco, i suoi capelli, i suoi occhi, le sue mani, i suoi cavalli, il suo carro d'oro e non ancora il sole stesso. Tale essendo Savitar al mattino, è probabile che quando il sole tramonta, e s'è già nascosto col suo disco, ma lancia ancora nel cielo i suoi raggi, ritorni ad essere Savitar, per collocar le anime raccomandategli da Pûshan nel regno de' beati; e come collocatore delle anime nelle sedi della beatitudine, Savitar s'identifica probabilmente con Dhâtar, che significa il collocatore, l'ordinatore, ec. Officio particolare di Dhâtar è quello di porre il germe della nuova vita. Si congiunge egli pertanto coi genii femminini che presiedono alla fecondazione della donna; si considera come fondatore del matrimonio e della famiglia, e si associa volentieri con Aryaman promotore di matrimonii, con Tvashtar artefice di tutte le forme, con Prag'âpati il signor della progenitura, con Savitar. Così finora abbiamo veduto gli Âdityâs divisi secondo le varie funzioni che essi hanno, come soli, nel giorno; ci resta ora a considerare il sole stesso nella sua più generale comprensione ed attività celeste, sotto il suo nome di Sûrya.
Sûrya, ch'è uno degli Âdityâs, ossia uno dei figli della Aditi come vôlta celeste, è pure chiamato figlio di Dyu, ossia del cielo (Divas putra), come l'aurora è chiamata duhitar Divas, ossia figlia del cielo. Evidentemente [88] dunque Sûrya è fratello dell'aurora, come abbiamo già veduto esserle fratello Bhagas. Ma, come abbiamo già osservato, l'aurora non appare soltanto qual sorella del sole, sì ancora quale sposa (nessuna meraviglia adunque che il sole Pûshan essendole fratello desideri farla sua sposa nel cielo vespertino) e qual madre. Sûrya è guidato su carro d'oro da sette aurati cavalli, o cavalle che si congiungono da sè; altri Âdityâs lo precedono; e Pûshan col suo stimolo d'oro gli serve da messaggiero. Come abbiamo veduto Savitar il sole mattutino riapparire la sera, così qui vediamo lo stimolatore Pûshan vespertino riapparire col suo stimolo al mattino, prima che Sûrya appaia.
Tra Savitar e Pûshan vi è qui dunque una lieve differenza, appena percettibile. È un minuto appena che li separa: Pûshan apre la via a Sûrya; Savitar lo fa passare. Pûshan il raggio allungato del sole fu rassomigliato ad uno stimolo d'oro; e Savitar prithupâni, ossia dalle mani larghe, porta fuori Sûrya, ossia lo genera nel suo pieno disco. E il disco rassomigliato ad un occhio ciclopico fece chiamare Sûrya, l'occhio di Mitra e di Varuna, equivalente all'occhio del cielo, all'occhio di Dyu, all'occhio divino. Come Savitar contiene e precede gli Dei, così Sûrya è celebrato qual divino preposto degli Dei, fornito di tutte le qualità divine (viçvadevyavant) e in ispecie della potenza di creare ogni cosa, di artefice universale, di viçvakarman, che appartiene pure ad Indra e a Tvashtar. Ma, poichè Sûrya non arrivò mai, con quel nome, a pigliare una persona mitica importante, la sua gloria fu spesso oscurata nell'Olimpo vedico, e quasi tutti gli Dei si diedero il merito d'averlo creato, anzi che ammettere di essere stati creati da esso; anzi tutti insieme si vantano d'averlo collocato nel cielo, di [89] averlo scoperto, mentre era nascosto. Ma vi ha di più. Vi rammenterete come l'Aurora, la poetica fanciulla celeste, divenuta guidatrice di carri abbia provocato gli sdegni del Dio Indra, il quale, per somma sua prodezza, si compiace d'averle fatto in pezzi il carro. Un simile cattivo servigio rese pure il Dio Indra a Sûrya, un vedico Fetonte, vincendogli e rompendogli una delle ruote del suo carro.
Ho cercato spiegare la ragione, per cui Indra pluvio non vuole più lasciar vincere la corsa all'aurora, e le rompe col fulmine il carro; l'aurora luminosa promette giorni ardenti, e, dove la terra ha uopo di pioggie, appare malefica. Così il sole nella canicola sembra, all'uomo, sinistro, come apportatore di siccità, dove i pascoli han uopo di pioggie; Indra pluvio interviene, rallenta col fulmine il corso del sole, rompendogli una ruota del carro.
Altre distinte personificazioni del sole propriamente detto non ci offrono gl'Inni vedici; e quelle che abbiamo riferite non sono evidentemente abbastanza vive, perchè possa esserci lecito, dagli Inni vedici al sole, disegnare i caratteri principali della mitologia vedica. Conchiudiamo adunque che, se il sole ha fatto germogliare alcuni miti vedici, molto più importanti sono i miti che si riferiscono all'aurora, ne' quali s'incomincia a disegnare un principio d'epopea.
Il sole come sole, nel suo massimo splendore diurno, il sole di mezzogiorno non creò verun mito importante; la poesia lo canta solamente, quando nasce misteriosamente, quando misteriosamente muore, quando le nuvole di giorno o le tenebre della notte lo nascondono, quando esso viaggia dalla sera al mattino, dall'Occidente all'Oriente i mondi sotterranei ignoti; nel mistero il Dio piglia molte nuove forme fantastiche, diviene Vivasvant, [90] Yama, Tvashtar; il Dio si raddoppia e una parte di esso assume aspetto demoniaco; il paradiso e l'inferno si toccano, e in quel contrasto nasce la battaglia. Il ritorno del sole luminoso nel cielo orientale lo fa rassomigliare ad un trionfatore, e si festeggia però nel sole mattutino il vincitore dei mostri notturni, il liberatore del male. Ma poichè egli sale nell'alto e non trova più nella sua via celeste nessun ostacolo, il mito s'arresta, finchè non si muove il Dio Indra a suscitare nel cielo il dramma delle tempeste, a compiere nel cielo la sua battaglia, velando il sole. Allora il sole si rianima col mito, ripiglia persona ora come nemico d'Indra che lo avvolge di nuvole, ora come una vittima che le nuvole minacciano di oscurare per sempre, sinchè non arriva Indra a squarciarle e liberare il suo protetto. Il mito si crea certamente nella natura fisica, ma esso ha bisogno per prodursi della illusione. Il sole che è alzato nel cielo, che accompagna in silenzio l'uomo nei suoi lavori quotidiani, è trattato dall'uomo con piena confidenza, è chiamato col nome di Mitra od amico; chè, se il Mithra iranico prese proporzioni solenni come nume, ciò avvenne per aver egli servito specialmente a determinare il sole nascente e il sole moribondo: il mistero del nascimento e quello della morte ci fanno pensare: quanto alla vita medesima, essa si vive; ma non si saluta se non quando essa arriva e quando si teme di perderla. Il possesso della vita, l'ordine della vita rappresenta l'ordinario continuo, e il mito per balzar fuori splendido ha d'uopo dello straordinario istantaneo; legandosi, combinandosi poi tra loro i miti nascono la leggenda mitica, l'epopea e la novellina popolare; ma il mito per sè, nella sua prima origine, nella prima sua forma, esprime una sola impressione rapida e fuggitiva. Quando noi studiamo il Dio nella sua natura complessa, non abbiamo [91] un solo mito, ma parecchi miti che si sono ordinati ad una certa unità personale. L'arte greca ha rappresentato con forme estetiche, perfette, queste unità; ma ogni unità che forma il Dio armonico è preceduta dalle varie note mitiche primitive, senza le quali non si costituisce alcun'armonia divina. Gl'Inni vedici, ove abbiamo più spesso i miti isolati e dispersi, che la persona divina in cui si confondono, non ci lasciano alcun dubbio sopra l'origine primitiva degli Dei, nessuno dei quali è balzato fuori completo in tutto il suo splendore; tutti invece si composero per il successivo aggregarsi di molecole luminose fra loro simpatiche. Ogni mito è per sè stesso una di queste molecole luminose.
[93]
Nelle lingue di tipo greco e latino l'astro lunare divenne un femminino; perciò le sue forme divine riuscirono Dee, secondo i varii loro aspetti diversamente appellate, Selene, Artemis, Persefone, Cinzia, Diana, Lucina, Proserpina. Tuttavia, presso il femminino Luna si conosce pure il mascolino Lunus. Nella lingua vedica come nelle lingue di tipo slavo e germanico, la luna si rappresentò invece specialmente come un mascolino, coi nomi di Soma, di Indu e di Candra e forse pure di Angiras e di Manu. Tuttavia, anche negli Inni vedici, come dipoi frequentemente negli scritti sanscriti, incontrasi esplicitamente la luna come un essere femminino. Questi nomi sono Anumati, la propizia, una specie di Madonna delle Grazie, la luna nella vigilia del plenilunio; Râkâ, la splendida, la luna nel plenilunio; Sinîvalî, forse la cieca da un occhio, la luna nella vigilia del novilunio, e Kuhû o Guñgu d'oscura etimologia (quando non stia per un ipotetico kubâhû, al quale mi fa pensare l'appellativo Subâhû che trovo dato alla Sinîvalî nel Rigveda; come dubito che guñgûr ya sia da correggersi nell'inno 32º del II libro, anzi tutto in gunguriryâ, e gunguris in svañguris da confrontarsi con svañguris della strofa [94] settima dell'inno citato). A questi quattro femminini rappresentanti la luna è possibile che debba pure aggiungersi l'appellativo Aranyânî, ossia la silvestre, la Dea silvestre, che viene cantata nell'inno 146º del X libro del Rigveda, e nella quale, ove l'identificazione reggesse, riuscirebbe facile il riconoscere la Diana cacciatrice. La notte è la selva scura del mito, piena di bestie feroci, che la luna deve con la sua luce cacciare. L'inno vedico suona così: «O Aranyânî, o Aranyânî, che ti nascondi, perchè non vieni nella tua dimora, poichè tu non temi? Aranyânî, quando, al muggito del toro, il c'ic'c'ika (il gufo?) risponde, come allo strepito di timballi, correndo si avanza. Le vacche mangiano, la casa s'illumina; nella sera Aranyânî scarica (ossia aiuta col suo splendore a scaricare) i carri. Ecco l'uno chiama la sua vacca, ecco l'altro spezza le legna; si crede che alcun essere abitante in Aranyânî abbia chiamato. Aranyânî non uccide, se altri non si muova contro di essa; dopo che s'è cibato del dolce frutto, ciascuno quindi si riposa a suo piacere; io celebrai Aranyânî la madre delle belve, l'unica, profumata, apportatrice di molti cibi, senza che essa abbia uopo di arare.»
Quando questa Aranyânî madre delle belve (mr'igânâm mâtar) non sia la notte selvosa, nella quale le belve si producono, essa non può essere se non la luna, la quale in sanscrito trovasi pure chiamata col nome di mr'igapiplu, ossia bestia rossa, ed anche mr'igarâg'a, o il Re degli animali, il biondo leone, e ancora mr'igarâg'adhârin e mrigarâg'alakshman, ossia portante per insegna il leone, o semplicemente mrigânka, ossia segnato con la belva. Questi e somiglianti appellativi sanscriti della luna ci rappresenterebbero la luna come signora della selva notturna e delle fiere che la popolano, e giustificherebbero il riscontro da noi fatto fra [95] essa e l'invocata Dea silvestre o Aranyânî vedica, la quale tuttavia, lo ripeto, potrebbe aver pure rappresentato la notte scura.
Ma, se ci resta qualche dubbio intorno all'Aranyânî, non ci è lecito conservarne alcuno sopra le altre quattro Dee già nominate, Anumati e Râkâ, le due lune del plenilunio, Sinîvâlî e la supposta Kuhû o Guñgu, le due lune del novilunio: Sinîvâlî è particolarmente invocata per porre il germe generativo (garbham dhehi Sinîvâlî; Rigv., X, 154), e chiamasi perciò bahusûvarî, ossia molto generativa. I suoi appellativi di subâhu, svañguri (che io dubito siansi sostituiti, per un eufemismo del poeta lirico coi più antichi probabili e più caratteristici appellativi della nuova luna kubâhû, kvañguri, onde si foggiò, a senso mio, per corruzione del linguaggio una Dea fittizia lunare, chiamata ora Kuhû, ora Guñgu), sono molto curiosi. Poichè sia che supponiamo, secondo la ipotesi che tento per la prima volta e che, per quanto ardita, oso raccomandare agli studiosi, invece degli epiteti dati alla Sinîvâlî che ci conserva il testo attuale del Rigveda, gli aggettivi kubâhû, ossia dalle piccole braccia, e kvañguri, ossia dalle piccole dita, attribuiti alla luna nuova che mostra appena i suoi cornetti, sia che leggiamo col testo attuale subâhu, ossia dalle belle braccia, e svañguri, ossia dalle belle dita, noi abbiamo qui un principio di personificazione femminina nella nuova luna. Sinîvâlî ha dunque, come nuova luna, braccia e dita, e, com'io credo, piccole braccia e piccole dita convertite poi in braccia e dita belline. Ma che cosa deve fare Sinîvâlî nel cielo, con quelle braccia, con quelle dita? Essa prepara il germe. Nelle novelline russe abbiamo mani e dita meravigliose di fate che fanno un fanciullino nano di pasta e poi vi soffiano la vita, e ne nasce un piccolo eroe, come abbiamo il pisello miracoloso [96] che cade a terra, e fa nascere un fanciullo eroe, una delle prime prodezze del quale è quella di salire al cielo. La luna, non rechi meraviglia l'intenderlo, è ancora quel pisello celeste; la luna, tra i suoi molti appellativi sanscriti, ha pure quello di hari, parola che vale ora verde, ora giallo. Nelle novelline popolari avrete trovato che ora è un vecchio, ora un fanciullo quello che vola al cielo sopra un legume (ora un fagiuolo, ora un pisello, ora un cavolo, ora altro legume del rito funebre). Quel legume è sempre la luna. L'eroe che sale al cielo ne cade sempre; il sole e la luna, dopo essere saliti al cielo, discendono a terra, ossia tramontano. È la loro eterna vicenda. Io non posso qui darvi altro che un breve accenno; ma sarei infinito, se io volessi farvi tutta la storia delle vicende del mito lunare nella tradizione popolare: vi basti che il formaggio, che la volpe rapisce, ossia fa cadere dalla bocca del corvo, è la luna che l'aurora mattutina fa cadere sul fine della notte; vi basti che la luna cece o fagiuolo è il viatico mitico de' morti, di cui l'uso funebre indo-europeo ha conservato numerose traccie; vi basti che l'obolo, che il morto dà a Caronte per passare il fiume Stige dell'inferno, è ancora la luna, mercè la quale l'eroe solare può attraversare l'oceano notturno. Nelle novelline russe il buono operaio vede galleggiare fuori delle acque una monetina, una kapeika, la quale basta a portargli fortuna. Troverete ancora molti critici pronti a deridere simili riscontri; ma coi loro scherni non impediranno alla verità di camminare. Io non posso qui insistere sopra alcuna comparazione, perchè a costo di riuscire aridissimo mi sono proposto di tenermi stretto all'argomento. Volli tuttavia accennarvi di passo, come le nostre indagini possano riuscir feconde; e ripiglio il mio tèma con più dimesso stile.
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Sinîvâlî dunque, la luna nuova, nel cielo vedico, ha braccia e dita, e con esse prepara il nuovo germe. Questo germe, che deve nascere, è evidentemente, nel cielo, il sole mattutino. Ma, raffigurata la luna come una madre essa stessa celeste, essa divenne, per questa e per altre ragioni che accenneremo, la proteggitrice dei parti e de' matrimonii. Secondo l'uso nuziale indo-europeo, i matrimonii devono essere sempre celebrati, per buon augurio, nella quindicina luminosa della luna, quando la luna è veramente luna o lucina o luminosa, ossia fra il novilunio ed il plenilunio, tempo che si crede propizio, per eccellenza, alla fecondità, nè solo alla fecondità del germe animale, ma anche del germe vegetale ne' campi, onde le numerose superstizioni popolari agricole che si riferiscono agli influssi lunari, influssi che del resto la scienza non nega assolutamente, sebbene ne riduca il potere. Ma, se la vedica Sinîvâlî ci dà indizii preziosi, anche più importante è quello che l'inno vedico 32º del II libro del Rigveda ci fa sapere di Râkâ, la nuova luna. Noi troviamo spesso nelle novelline popolari la strega che alla figlia non sua, alla bella (l'aurora vespertina), impone un lavoro straordinario al di sopra del potere della fanciulla; la povera fanciulla si dispera e si raccomanda alla Madonna, della quale talora pettina con grazia il crine, dicendo che vi trova perle (le stelle); la Madonna è contenta della pia fanciulla e compie per essa l'opera impostale dalla strega. Invece della Madonna trovasi talora una meravigliosa bambolina, o fanciulla di legno (una specie di Aranyânî), la quale ha piccolissime dita, e può con esse preparare una camicia o un abito così fine che passi nella cruna dell'ago, o possa star chiuso entro un guscio di nocciòla. Noi abbiamo già visto la luna Sinîvâlî dalle belle e forse dalle piccole dita.
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Ora incontriamo la luna Râkâ, la quale con quelle stesse dita, e per di più con un ago che non si rompe, cuce l'opera; ossia, nel cielo, il velo d'oro che l'aurora mattutina reca allo sposo; il velo, l'abito, la veste del giovine sole, la tela d'Aracne, che si distrugge al mattino, la tela che Penelope prepara allo sposo Ulisse. Infatti, subito dopo aver nominato l'opera che Râkâ deve cucire, si aggiunge, dia a noi l'eroe dai cento doni, degno di esser celebrato. Evidentemente qui si trattò, in origine, dell'eroe solare celeste; ma poi la strofa divenne sacra, passò nel rituale dell'uso domestico, e, per ogni figlio nascituro sopra la terra, si ripetè la stessa invocazione. Chè, se rechi meraviglia il sentire come la luna, cucendo l'opera, produce un figlio, può scemar questa meraviglia, quando si pensi al probabile equivoco di linguaggio nato tra le radici siv, syu, sû=cucire (confr. pure il vedico sùcî=ago), onde sûtra=filo ed il latino suere, e la radice sû «generare,» onde sûta, sûnu «il figlio.» Il cucire è un mettere insieme, un aggiungere, e la creazione si fa appunto aggregando. Ma oltre i nomi femminini e divini di Sinîvâlî e di Râkâ, dicemmo che la luna piena ha pure quello di Anumati. La parola vale, nel suo significato storico, mente bene disposta, mente propizia, benevolenza, grazia, e quindi la graziosa, la benigna. La invocavano nel periodo vedico gli amanti e le partorienti; un inno dell'Atharvaveda, dopo avere propiziato ad Anumati, canta: gli Dei sveglino l'amore (o la memoria); abbia egli compassione di me. Ora questa Anumati che deve ridestare lo smara, o la memoria nello smemorato amante, o pure destar l'amore d'un indifferente, quest'Anumati, nominando la quale i poeti dell'Atharvaveda fanno per lo più un giuoco di parole sopra la sua etimologia (Anumate manyasva = Anumate anu hi [99] mansase nah), questa anu-mati che vale al tempo stesso la mente verso, ossia la mente bene disposta, e la mente dopo, ossia il ricordo, la memoria, ci spiega la ragione, per cui Râkâ, Sinivâlî e Anumati stessa vengano negli Inni vedici nominate come tre sorelle, figlie di Angiras il mobile, che si confonde col luminoso, e della Smr'iti ch'è ad un tempo stesso, per sapiente e poetico connubio, amore e memoria. Probabilmente nel mito son nate prima le figlie dei loro parenti; tuttavia, poichè il divino padre Angiras e la divina madre Smr'iti sono già persone vediche, giova qui considerarne alquanto la natura. Talora, invece di Smr'iti, troviamo nominata come madre la Çraddhâ, ossia la fede, ch'è anch'essa una specie di memoria, e che si rappresenta nel Tâittiriya Brâhmana qual madre di Kâma l'amore, e, più tardi, il Dio dell'amore. Çraddhâ stessa è chiamata nel Çatapatha Brâhmana, figlia di Sûrya il sole; il che ci fa pensare, innanzi d'essere la fede, la Çraddhâ fosse altro. La fede è, ad un tempo, quella che unisce, quella che rallegra (dalla radice çrath che vale rallegrare ed unire). Angiras appare ora sposo della Smr'iti (Amore-memoria), ora della Çraddhâ (Fede, come quella che unisce e rallegra). Tanto fa pure l'Anumati loro figlia, che sappiamo già rappresentare con Râkâ la luna piena. Ma Anumati, Râkâ, Sinîvâlî, fasi lunari divenute Dee liberali, benefiche, fecondatrici, operaie divine, saranno esse figlie della luna stessa, o pure Angiras e la Çraddhâ appartengono ai fenomeni luminosi del sole vespertino? Noi abbiamo già veduto il sole Pûshan messo in relazione con Soma, col suo stimolo svegliar la preghiera, indicar l'ora della preghiera vespertina. Angiras, padre delle tre sorelle lunari, è egli ancora il sole vespertino, o è desso già la luna? Çraddhâ, la figlia del sole, è dessa l'aurora vespertina [100] o pure la luna? Nel Taittiriya Brâhmana, il Dio Soma, ossia il Dio Luno, si mostra innamorato di Sîtâ Sâvitrî, ossia di Sîtâ figlia di Savitar (il sole, come dicemmo), mentre Çraddhâ è innamorata di lui e si raccomanda al Dio Prag'âpati, perchè faccia innamorare Soma di lei. Qui evidentemente Çraddhâ non dev'essere soltanto una personificazione lunare; tuttavia io non m'arrischierei a rappresentarla, come suppongo ch'ella sia, una forma dell'aurora vespertina, rispondente[15] al vespertino Pûshan, risvegliator della preghiera, nel trovare presso il Yag'urveda nero (citato dal Muir) che il Dio Prag'âpati aveva trentatrè figlie, le quali divennero tutte spose di Soma. Come distinguere l'essenza mitica di ciascuna di esse? Tuttavia, facendoci il Taittiriya Brâhmana conoscere che, con l'aiuto di Prag'âpati, Çraddhâ conquistò l'amore di Soma, dobbiamo supporre ch'essa, come Rohinî (propriamente la crescente), sia stata una delle spose predilette del Dio Luno, di Soma. E tanto più lo dobbiamo pensare, poichè Çraddhâ è la figlia del sole, e gli Inni vedici descrivono a noi in modo così solenne le nozze del Dio Soma con Sûryâ, ossia l'appartenente a Sûryâ il sole, la figlia del sole, che quell'inno mitico diede poi le formole rituali all'uso nuziale indiano. Sûryâ è per me l'aurora vespertina, sorella del Dio Pûshan, che appare pure come suo sposo; egli è geloso del Dio Soma a cagione di Sûryâ. Questa gelosia celeste fra il sole e la luna, innamorati ad un tempo dell'aurora, diede origine a molti miti, i quali si svolsero finalmente in numerose e ricche leggende. Nell'inno 85º del X libro v'è un passo, nel quale parrebbe [101] che Pûshan si identificasse con Soma lo sposo divino di Sûryâ. Vi si dice, infatti: «Soma era lo sposo; i due Açvin (una forma poetica del crepuscolo solare e del lunare, ossia ancora del sole e della luna considerati come gemelli) assistevano entrambi come paraninfi, quando Savitar contento nell'animo diede Sûryâ allo sposo. Quando, o Açvin, veniste col triplice carro per menar via Sûryâ, tutti gli Dei acconsentirono, Pûshan vi elesse come figlio per suoi proprii parenti.» Ma in questo passo non si può interpretare soltanto che Pûshan è lo sposo, ma che Pûshan è il fratellino della sposa, il quale vien perciò carezzato e protetto dagli Açvin, che ora amano l'aurora come amanti, ora la proteggono come fratelli maggiori.
Da questi lievi indizii è facile il vedere come agevolmente abbiano potuto confondersi i caratteri del sole vespertino con quelli della luna, che appare quando il sole cade, quando caduto il sole vespertino rimane ancora il cielo occidentale rosato, ossia l'aurora vespertina.
Quindi la difficoltà di dichiarare, in modo preciso, l'essenza fisica d'alcuni miti che occuparono pure grandemente la primitiva immaginazione ariana. Noi non abbiamo nessun dubbio intorno all'essere esclusivamente lunare di Râkâ e Sinîvâlî; ma, giunti ad Anumati, se per un verso essa ci rappresenta la luna piena, per l'altro, come la grazia, la benevolenza, può riferirsi non meno all'aurora che alla luna; in entrambi i casi poi essa ci aiuta a spiegarci la Madonna protettrice, la buona fata delle tradizioni popolari. Il professor Max Müller ha già nell'ahanâ, dahanâ, aurora mattutina vedica, riconosciuta l'Athene; così dicasi della Minerva, degna di essere paragonata alla nostra Anumati, e più ancora ad una vedica Aramati, che il Dizionario [102] Petropolitano spiega per arammati, ossia avente la mente pronta, che ci richiama alla nostra aurora sollecita, risvegliata e risvegliatrice. Quest'Aramati è nel Rigveda chiamata tessente (vayantî); quando la notte arriva, cessa dall'opera, o la continua in segreto, con l'aiuto e per opera della luna; quando sta per arrivare, al mattino, il divino Savitar, essa ripiglia il suo tessuto abbandonato la sera.
Qui evidentemente abbiamo sempre l'aurora, vespertina e mattutina, vigile e destra all'opera, senza intervento della luna, che, in altri momenti, appare invece a cucir l'opera, ossia a preparare il tessuto allo sposo dell'aurora, ossia a dar l'aurora al sole, il sole all'aurora, come proteggitrice de' matrimonii.
Avendo questa relazione intima il sole e la luna, così intima che si possano talora identificare (il sole che perde i suoi raggi e il sole che non li mette ancora fuori rassomiglia all'astro notturno; tanto che, chi, sull'albeggiare d'un giorno estivo, in tempo di luna piena, contempli il cielo, veda i due astri l'uno al cospetto dell'altro, alle due estremità della vôlta celeste, e, se non si orizzonti, non sappia subito bene distinguerli l'uno dall'altro; io cito qui una mia propria impressione), alternandosi l'un l'altro, alcune delle loro qualità, e perciò delle loro forme divine, sono divenute comuni, così che ora poterono riferirsi al giorno, ora alla notte. Noi vedemmo già, infatti, il sole Savitar, ossia il sole generatore; la luna come Soma (dalla stessa radice sû, so, sav che serve per formare la voce Savitar) è un equivalente, esprime cioè la luna nella sua virtù fecondatrice. E noi la vedemmo già finqui presiedere ai matrimonii ed ai parti. Il sole divide i giorni (ed il sole vespertino Bhagas può avere avuto, oltre gli altri suoi significati, quello proprio etimologico di spartitore, [103] di distributore) e divide i mesi. Ma ciò fa pure la luna. Anzi la luna ha fatto anche più. L'antico anno indiano era regolato dalle lunazioni; la lunazione costituì il mese; messéts è il nome comune che si dà tuttora in lingua russa al mese e alla luna. La parola mese, mensis, vale propriamente la misura. La radice sanscrita mâ vale misurare; le parole mâs, mâsâ, valgono in lingua vedica luna e misura. La lunazione ed il mese equivalendosi, la luna diventò, oltre la regola, anche la regolatrice per eccellenza, in ogni ordine delle cose naturali. Nè è meraviglia che, corrispondendo il r'itu lunare al r'itu muliebre, poichè la luna pigliava pure il nome dal proprio r'itu periodico, essa fosse particolarmente invocata dalle donne e ad esse cara, come quella che, mantenendo i segni della generazione, prometteva la desiderata fecondità, senza la quale l'uomo primitivo disprezzava la propria donna, ed aveva diritto di rifiutarla. La radice mâ, che vale misurare, nel suo primo significato dovette esprimere l'idea di estendersi; ma l'estendersi è un moltiplicarsi: ecco in qual modo la radice mâ, che vale misurare, creò la parola mâtra o metro, misura, e mâsa che vale ancora il medesimo, e la radice mâ che vale produrre, creò la parola mâtar, la produttrice, la creatrice per eccellenza, la madre.
Ho detto che il primo significato della radice mâ, onde si svolsero i significati secondarii di misurare e produrre, fu quello di estendersi. Vi è un'altra radice che dobbiamo qui esaminare. Questa radice è man stretta parente di mâ, come il latino mensis è stretto parente, anzi equivalente di mâsa, come il tedesco mond luna, monat mese e l'inglese moon, ci richiamano ad un ipotetico primitivo manas che, secondo l'analogia di mâsa, dovette pure in origine significare misura, e forse mese. Ma lasciamo l'ipotesi e consideriamo il fatto. Tra i [104] nomi sanscriti della luna troviamo quello di manasig'a, parola che varrebbe nato nel manas; tra gli appellativi del Dio Soma, ossia del Dio Luno nel Rigveda troviamo quello di signore del manas, ossia manaspati, che ci riaccosta alla nostra luna anumati. Ma il manas è l'animo; che cosa è l'animo? anemos, quello che si muove; così dovette essere il manas, nella sua prima espressione, il moto, e poi il moto misura, il moto regolatore, il moto particolare interno, che anima e regola, muove e contiene il pensiero e l'affetto dell'uomo, il desiderio, l'amore, e il divino agitarsi dell'intelletto. Ecco pertanto spiegato, s'io non erro, il perchè la luna Sinîvâlî, Râkâ ed Anumati, essendo nata nel manas, e muovendo e regolando il manas fu immaginata figlia dell'Angiras mobile luminoso, e della Smr'iti o Çraddhâ, che sono tutte forme del mobile manas. Ecco perchè la luna anch'essa può riuscire, come la vegliatrice mattutina, una Minerva, ossia un'ammonitrice, una direttrice degli umani consigli; ecco, infine, la ragione, per cui, trovando associata l'Angiras con Manu, presso il quale Indra in un inno vedico viene a bere il Soma, in Manu ravvisiamo così il sole come la luna. Per noi, Manu prima che il pensatore, come sarebbe troppo consolante il credere, considerando che negli Inni vedici è chiamato Manu anche l'uomo, dovette essere il mobile, e quindi il motore e il regolatore celeste. Chiamatisi manavas anche gli uomini, nel loro essere mortale, essi considerarono come il primo de' mortali, come il padre di tutti i mortali, come il solo scampato dal diluvio universale, il Manu celeste, onde chiamarono pure sè stessi manug'âs o figli di Manu, di quello stesso Manu Prag'âpati, dal quale, secondo le genealogie brâhmaniche, sono discesi tutti gli Dei. Ma in quel Manu celeste essi non tardarono a ravvisare il pensante, ossia [105] il sapiente, e quindi il primo sapiente, l'inventor dei riti sacrificali; e, finalmente, nel periodo brâhmanico, il pensiero stesso, la formula della sapienza, il primo legislatore indiano, il primo regolatore, distributore della giustizia, nel quale carattere ritorna Manu a identificarsi col sole moribondo Yama, e, in tale incontro, con Minos, il primo re di Creta, progenitore di razza, che discende all'inferno per amministrarvi la giustizia. Ma, poichè nello scuro inferno è la luna che governa e regge e giudica, quello stesso Manu che parve confondersi con Yama, scomparso il sole dall'orizzonte non si perde affatto, ma, come ho già avvertito, lascia una sua forma per pigliarne un'altra. Di Yama e di Manu, in quanto gli somiglia, avremo tuttavia a tenere particolare discorso.
Per ora basterà il ritenere come anche nelle sue forme femminine la luna vedica abbia preso persona di Dea, e come in questa persona prevalga la virtù di fecondatrice attribuita alla luna; e finalmente, come quella che desta l'uomo alla vita materiale, per l'istinto idealissimo della nostra stirpe, sia pure divenuta la eccitatrice de' nostri pensieri. E per avere anzi creduto che li eccitasse troppo, nacque la credenza che i maniaci siano dominati da sinistri influssi lunari.
Ci resterebbe a considerare la luna sotto i suoi nomi mascolini di C'andra, C'andramas (ossia il luminoso, e il mese o il misuratore luminoso), che non ci presenta negli Inni vedici nessuna distinta persona poetica, di Indu nel suo significato primitivo, probabilmente il mobile, poi il movente, lo stillante, e quindi la luna stillante, e ciò che la luna stilla; e di Soma, propriamente il generatore, ma anche lo spremitore, il traente il succo, e poi il succo stesso. Quindi, quando leggiamo che gli Dei vengono a bere ora Indu, ora Soma, intendasi [106] che vengono a bere il succo ambrosiaco che stilla dalla luna. Noi abbiamo già veduto l'Aditi, la Pr'ithivî, e l'aurora che posseggono l'ambrosia; ma, per l'equivoco nato tra Indu e Soma stillanti il succo, e le parole indu e soma che vennero ad esprimere il succo, è nella luna specialmente che gli Dei vanno a cercare l'ambrosia, l'amrita, la bevanda immortale. Noi abbiamo già riferita la leggenda vedica del Dio Indra che concede la bellezza alla fanciulla brutta, lebbrosa Apalâ, l'aurora vespertina (che nella notte diviene brutta), perchè questa, discendendo alla sera dalla montagna per attingere acqua, trovò nella fonte il soma (la luna nel pozzo); e sapendo quanto Indra fosse avido del soma, lo pregò di scorrere verso di lui, ossia di errare nel cielo, del quale Indra è signore. Fu già paragonato il culto dionisiaco ellenico al culto del Soma vedico. Come Soma è al tempo stesso abbondante di umori inesauribili e generatore eterno, così il suo culto si congiunse quindi nell'India con quello del Çiva fallico, accompagnato da libazioni d'un soma terrestre, un liquore inebbriante, che il professore Haug ebbe nell'India il raro privilegio di gustare, e che trovò di un sapore disgustosissimo; nella Grecia abbondanti libazioni di vino accompagnavano le feste falliche dionisiache. Ma gli Dei che discendono sopra la terra, non sono l'oggetto del nostro studio presente.
Nel vedico Soma noi abbiamo espressa, ora l'ambrosia che può risiedere in più parti, ora la luna che contiene, porta, custodisce l'ambrosia, e la somministra agli Dei, i quali, bevendola, divengono immortali, robusti e vittoriosi nelle loro celesti battaglie contro i mostri; il soma non è solo ambrosia, ma acqua della giovinezza, acqua della salute, acqua della forza; e però si rappresenta esso stesso come guerriero sempre vittorioso; [107] la pioggia è soma, la rugiada dell'aurora è soma, ma più spesso ancora il soma è la pianta lunare, è il succo della luna, l'erba luminosa celeste, è la luna stessa; in compagnia di esso, il Dio Indra scaccia dal cielo i mostri; la luna cresce a misura che i Numi vanno a dissetarsi presso di lei, ossia, poichè la luna genera gli Dei, a misura che gli Dei luminosi le si appressano, essa cresce.
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Il fuoco, Agni (che ritorna nel russo Agonj, nel latino ignis), quantunque, dopo Indra, sia il Nume vedico più invocato, è uno degli Dei meno personali dell'Olimpo vedico, la cui sede è più instabile, la cui forma è meno determinata. Per lo più s'invoca Agni come elemento fuoco, senza dargli persona; ma, anche quand'esso non assume una persona distinta, ha sempre un carattere sacro. Sia che s'accenda nel cielo come sole, come luna, come stella, come aurora, come fulmine, sia che dalla terra, come vulcano ch'erompe, o dal legno, come foco domestico e sacrificale, Agni o il fuoco presenta sempre alla nostra immaginazione un carattere misterioso, che, se può ancora far qualche impressione sopra di noi avvezzi dal lungo uso della vita a trascurare i fenomeni più frequenti della natura, dovette riempir di una profonda maraviglia mista col terrore l'animo innocente de' padri nostri. Trasportiamoci col pensiero ad un'età, nella quale a produrre il fuoco domestico non si conosceva altra industria all'infuori di quella che ricavava scintille dal confregamento di due legni, chiamati insieme aranî (per la stessa analogia, per cui bois in francese è il bosco, e ad un tempo stesso [110] il legno). L'uno de' legni si poneva sotto, l'altro sopra; l'uno era il maschio, l'altro la femmina; il fuoco simile a fanciullo nasceva dall'arani inferiore. Ce lo dice molto chiaramente un inno vedico ad Agni (Rigveda, III, 29): «È questo lo scotimento sopra; è questa la generazione; apportiamo questa signora delle genti (l'arani inferiore, madre del fuoco, e la genitrice per eccellenza); agitiamo Agni come una volta. Agni, il ricco per sè, giace ne' due legni, come il feto ben collocato nelle donne incinte. Agni è da celebrarsi ogni giorno dagli uomini con laudi e sacrificii. Poni giù (l'arani superiore) sopra la larga che giace (l'arani inferiore); essa, subito fecondata, generò il forte Agni.» Questa immagine materiale di Agni generato come un figlio da due pezzi di legno, padre e madre, fra loro confricati, ritorna spesso negli Inni vedici; e nella sua materialità essa è sommamente istruttiva per la storia delle credenze popolari. Poichè dal fuoco figlio delle legna (sûnum vanaspatînâm), considerandosi il fuoco vitale come il generato e quindi generatore per eccellenza, s'immaginò che anche gli uomini fossero nati dal legno. In Piemonte si dice di fanciulli ch'essi sono stati trovati in un bosco, sotto una ceppaia, la quale ritorna nel ceppo e nell'albero di Natale, da cui si fa, con innesto di elementi cristiani e pagani, nascere, con l'allungarsi dei giorni, dopo il solstizio d'inverno, il bambino Gesù;[16] l'inno vedico 68º del libro I del Rigveda ci fa sapere come Agni, ossia il fuoco, è nato come creatura vivente [111] dal legno secco.[17] Questo legno secco, da cui nasce il piccolo Agni come fanciullo, risponde bene al nostro ceppo natalizio.[18] Immaginati i due legni come padre e madre, ed il fuoco che distrugge il legno, dal quale si sprigiona, era naturale la rappresentazione di Agni come un figlio parricida e matricida. Il poeta vedico inorridisce a questo delitto, ed esclama nell'inno 79º del X libro del Rigveda: «O cielo, o terra, questa verità io dico a voi, appena nato, il fanciullo mangia i suoi due parenti.» E quindi, con una ingenuità tutta vedica, ricordandosi che Agni è un Dio, s'umilia confessando: «io, mortale, non posso comprendere un Dio.» Il parricidio è un delitto continuo nella natura; senza la morte de' padri non potrebbero sussistere i figli; Adamo è condannato a morire, dal giorno in cui egli diviene padre. Gli uomini primitivi fermarono spesso la loro attenzione sopra questa legge fatale di natura. E, in quanto il parricidio sia involontario, stabilirono la dottrina del peccato originale, che divenne poi dogma religioso; stabilirono l'onnipotenza del fato, per cui il vecchio Giove è spodestato dal nuovo, per cui Ciro, Edipo, Romolo divengono inevitabilmente parricidi. L'arte intervenne ora per giustificare l'enormità del parricidio incolpando il fato, ora ad immaginare i vecchi parenti come crudeli, feroci, persecutori della gioventù fiorente. Sotto quest'aspetto, il parricida divenne un liberatore, un salvatore; l'antico apparve cattivo, il giovine buono; il giovine che atterra l'antico compie [112] un'impresa gloriosa. Secondo una credenza brâhmanica, il nascimento d'un figlio in una casa ha il merito di liberare il padre da futuri nascimenti, pigliando egli sopra di sè, ed espiando egli stesso la colpa originaria che il padre aveva ereditata. Secondo una tale credenza, la vita era un male, ogni nuovo nascimento che obbligasse l'essere ad entrare in un corpo, come in una prigione, si considerava come una sventura. Finchè non nasceva un figliuolo in una casa, non solo il padre era minacciato, morendo, di rinascere, ma le anime dei trapassati erravano senza sedi certe, col pericolo di entrare in qualche corpo non solo d'uomo, ma di bruto. Nella parola sanscrita putra, che vale figlio, avvicinata a punya che vale bello, puro (come pûta), si vide etimologicamente il purificatore (la vera etimologia della parola è tuttora dubbia). Ma il Mahâbhârata ci offre ancora della voce putra, scritta spesso puttra, una etimologia singolare. Put è un appellativo dato ad uno degli inferni indiani; il suffisso tra dà alla parola il valore di liberatore; onde puttra figlio si spiega come il liberatore dall'inferno Put. «Poichè il nuovo nato libera il padre dall'inferno chiamato Put, perciò si chiama Putra.» Nè solo, secondo il Mahâbhârata, il figlio salva il padre, ma anche i morti maggiori (pûrvapretân pitâmahân). Il figlio che impedisce al padre di rinascere ad una vita mortale, considerata come una pena, è un liberatore; il figlio che viene a pigliare il posto del padre, a liberare sè ed il mondo dal vecchio padre divenuto insopportabile, è un parricida. Entrato nel mito il concetto mostruoso di un parricidio, si tentò abbellirlo sempre più col rappresentare padre e figlio quali nemici fra loro, de' quali il figlio rappresenta il bene, il padre il male.
Noi abbiamo fin qui veduto generalmente il mito discendere dal cielo in terra. Ma, a rappresentarlo nel cielo, [113] concorsero, senza dubbio, immagini della vita terrena. Così, quando troviamo padri e figli nel cielo, bisogna ammettere che furono dapprima conosciuti i padri e i figli sopra la terra; quando troviamo nel cielo matrimonii divini, convien supporre che fossero già conosciuti i matrimonii della terra; quando ci si rappresenta l'aurora come una ballerina, o come una bagnante, convien dire che si fossero già vedute sopra la terra danzatrici e donne bagnanti. Così la nozione di un padre crudele, di una madre cattiva nel cielo, suppone la probabile conoscenza di padri crudeli e di madri perverse sopra la terra. Ogni nome che nasce, suppone necessariamente la conoscenza della cosa che esso deve esprimere; anzi la parola nome significa, secondo l'etimologia, nozione, conoscenza (nâman proviene, com'è noto, da g'nâman). Perciò, quando diciamo che i miti sono nati nel cielo, dobbiamo soggiungere che vi si produssero per lo più con elementi umani o terreni già noti all'uomo. Al cielo, al sole, alla luna, all'aurora si attribuirono qualità proprie di persone umane. Ma il cielo, il sole, la luna, l'aurora essendo fenomeni soltanto celesti, non si può supporre che dalla conoscenza d'un cielo, d'un sole, d'una luna, d'un'aurora terrena siasi raffigurato quindi il cielo nel cielo propriamente detto, il sole, la luna, l'aurora celesti. Ma il cielo coppa si immagina dopo aver conosciuta alcuna coppa terrena, l'aurora pastora si immagina sopra la conoscenza di una pastorella della terra. Il fenomeno è celeste, ma l'immagine che lo rappresenta, con persona mitica, trae la sua origine da una nozione della vita umana. Ma, per quanto si riferisce al fuoco, producendosi il fuoco non meno sopra la terra che nel cielo, anche senza l'immagine mitica il campo riuscì duplice; la terra come il cielo è sua sede; tuttavia, per quella tendenza naturale dello [114] spirito umano a far provenire ogni creazione dal cielo, e a far salire al cielo ogni creatura, anche il fuoco si suppose disceso sulla terra dal cielo, ora in forma di raggio solare, ora in forma di fulmine, sebbene formatosi nel cielo in un modo conforme a quello, con cui solevano gli uomini produrlo sulla terra.
Nel 5º inno del X libro del Rigveda si dice che, in origine, Agni ossia il fuoco era e non esisteva ancora; e ch'esso fu il primo nato nell'età primordiale, Toro ad un tempo e Vacca. Il fuoco vitale si considerò ora come nato per sè, ora come la prima creazione, contenente per ciò in sè il maschio e la femmina, necessarii per generare le altre creature. Ma in che modo il fuoco, quando non si considerò nato per sè, si è esso generato nel cielo? I creatori del mito non potevano immaginare per l'origine del fuoco celeste modi diversi da quelli, con cui si produceva già il fuoco sopra la terra. Se essi avessero potuto immaginare altri modi, li avrebbero adoperati ne' loro usi terreni, ove uno dei più solenni pensieri della vita era quello di trovare il fuoco, e, trovatolo, di conservarlo, onde si capisce perfettamente l'ufficio solenne che, nell'antichità, avevano le Vestali guardiane del fuoco sacro. In terra il fuoco si era visto produrre per mezzo di confregamento. Il confregamento de' corpi accresceva il calore animale; il confregamento dell'asse della ruota del carro contro la ruota stessa aveva talora prodotto l'incendio della ruota ne' carri della terra (e figuratosi il sole come un carro d'oro anche dalle sue ruote giranti si svolse l'incendio); il confregarsi nella stagione estiva di un ramo secco d'albero resinoso contro un altro ramo inaridito aveva provocato l'incendio delle foreste;[19] del pari due pietre [115] battute l'una contro l'altra avevano sprigionato scintille e destato il fuoco. Acquistata sopra la terra dagli uomini ariani l'esperienza de' modi, coi quali si poteva produrre il fuoco, s'immaginò miticamente che il fuoco si producesse nel cielo in modi conformi. Nel vedere pertanto come i fulmini nascessero nel cielo nuvoloso, rappresentatesi le nuvole quali rupi o montagne o alberi grandeggianti, per l'equivoco delle parole adri, parvata, açman, che significarono tutte non solo l'albero, la roccia e la montagna, ma anche la nuvola, con fantasia gigantesca s'immaginò che Indra muovesse, l'una contro l'altra, due montagne, e nel confregarle l'una contro l'altra facesse saltar fuori il fuoco ossia il fulmine, e che il tuono fosse lo strepito prodotto dall'urtarsi delle montagne celesti spinte da Indra. Perciò mi spiego le parole del 1º inno del II libro del Rigveda, ove si canta che Indra generò il fuoco fra le due pietre o roccie (yo açmanov antar agnim g'ag'âna). Negli inni del X libro del Rigveda, ove Agni si identifica talora col sole, vediamo Indra vincere il sole; in altri inni Indra rompe una ruota al carro del sole. È probabile ancora che il fulmine del Dio Indra siasi pure immaginato come svolto dall'arsione d'una ruota del carro solare. Rappresentossi pure Agni come figlio di Tvashtar, il fabbro dell'Olimpo vedico, come vedremo; e, come fabbro, dovea adoperare lo stesso modo nel produrre il fuoco in cielo che adoperavano i fabbri umani a destare il fuoco sopra la terra. Altri Dei son dati come padri ad Agni, ed egli stesso è chiamato Padre degli Dei: ma questa qualità non gli è specifica, trovandosi attribuita a parecchi altri Numi. Apparendo come infuocati il sole, la luna, le stelle, il lampo, il fulmine, tutto ciò che risplende nel cielo del colore del fuoco, e il sole in ispecie prese nome di Agni, il fuoco per eccellenza, che sta sopra tutti gli [116] altri fuochi, con ciascuno de' quali può identificarsi e pigliar singolare persona. Così ancora il rosso di sera, ossia l'aurora vespertina, piglia nell'Aitareya Brâhmana nome e persona di Agni, dicendosi che il sole al tramonto scompare entrando in Agni. Gli Agni son quindi molteplici come i fuochi; ed hanno quindi com'essi diverse sedi, onde l'appellativo di Bhûrig'anma, ossia dai molti nascimenti dato al Dio Agni nel Rigveda. La terra ed il cielo sono le sue sedi principali; ma, come gli stessi Inni vedici c'insegnano, Agni apparve dapprima nel cielo; disceso dal cielo, i Bhr'igu lo comunicarono agli uomini; le forme di questa discesa si trovano ampiamente illustrate in un celebre libro del professor Kuhn (Die Herabkunft des Feuers), al quale rinvio lo studioso. Disceso dal cielo, la tendenza maggiore del fuoco fu poi quella di risalire al cielo, e, sia come fuoco domestico, sia come fuoco sacrificale, sia come fuoco di rogo funebre, di portare in alto, al cielo, fra gli Dei, le preghiere, i voti, le offerte degli uomini, e le anime dei trapassati. Il Rigveda ha consacrato il maggior numero de' suoi inni all'Agni de' sacrificii, rappresentato non solo come messaggiere tra gli uomini e gli Dei, ma come invitatore degli Dei a ricevere le oblazioni. In questa parte speciale di invitatore, di invocatore, di hotar, Agni presiedette ai sacrificii vedici, e fu egli stesso chiamato, nel primo versetto del Rigveda, sommo sacerdote, divino ordinatore del sacrificio, invocatore, sommo apportatore di ricchezze. Non si dimentichi che l'Agni sacrificale si ridestava col giorno, ossia col riapparir della luce, ufficio della quale è scoprir tutte le ricchezze, manifestare gli Dei, ossia i luminosi. Nessuna meraviglia pertanto che l'Agni sacrificale sul far del giorno si celebri non solo come invocatore, ma come apportatore degli Dei; così che, nel tempo [117] stesso, in cui egli è messaggiere degli uomini agli Dei, riesce messaggiere degli Dei agli uomini. Agni è il Dio meno personale, ma il più famigliare dell'età vedica; tutti lo conoscono, tutti lo custodiscono nella casa, come loro atithi od ospite, tutti lo svegliano di giorno in giorno.
A lui si raccomandano gli uomini per ottenere i favori degli Dei; lo trattano bene per conservarselo amico. Lo nutrono di burro, poichè la sua nutrice (l'arani) non può dargli latte, come dice un inno vedico; al suo apparire, il cielo, la terra, le acque, le piante si rallegrano nell'amicizia di esso; e lo temono nemico. Poichè, quanto ai devoti è benefico, tanto, nell'ira, egli può riuscir terribile; esso mugge come toro, rugge come leone, strepita come le onde del mare, incute spavento come un esercito scatenato; portato dal vento, divora e consuma ogni cosa, e, dov'è passato, lascia il nero; ha mille occhi, ha mille corna, artigli aguzzi (onde vien spesso paragonato a falco), aguzzi denti di ferro, barba e capelli d'oro. Un inno tuttavia lo dice privo di piedi e privo di testa (apâd açirshâ; Rigveda, IV, 1); viçvarûpa, ossia onniforme, è pure uno de' suoi nomi, e come onniforme, ossia capace di pigliare qualsiasi forma a suo piacere, si comprende con quale specie di religioso terrore da un popolo ingenuo e primitivo dovesse esser venerato. Tutto l'Atharvaveda, ossia il Veda di Atharvan ch'è uno de' nomi del fuoco, è inteso ad onorare il fuoco terreno, e specialmente il fuoco domestico. Si considera l'Atharvaveda come il Veda più umile, il quarto Veda, il Veda, per così dire, delle donne, le più tenaci nel conservare memoria degli usi, dei riti domestici, delle tradizioni, delle superstizioni popolari, e delle formole relative.
Avendo molta cura del fuoco sacrificale e funebre, [118] il devoto s'assicura non solo i beni di questa vita, ma, per quanto apprendiamo da una leggenda del Çatapatha Brâhmana riferita dal Muir, anche quelli dell'altra. Secondo la leggenda, Agni appena creato da Prag'âpati, incominciò a bruciare ed a perturbare ogni cosa. Allora tutte le creature esistenti si mossero per distruggerlo. Agni ricorse ad un uomo, e gli domandò che lo lasciasse entrare in esso, dicendogli: «Dopo avermi generato, alimentami; se tu farai codesto per me nel mondo di qua, io farò lo stesso per te nel mondo di là.»
Ritorniamo adunque a quel mondo di là, al quale l'Agni del rogo guida gli uomini, diverso da quel fuoco sotterraneo, il cui solo ufficio è la consumazione del cadavere celato nella terra. Vi è un Agni vitale creatore, padre; e vi è un Agni empio, mostruoso, distruggitore. Vi è un Agni divino. Vi è un Agni demoniaco; l'Agni divino è sapiente, luminoso ed illuminante, poichè ora precede l'aurora, e sorge con essa (onde il suo appellativo di Usharbudh); quest'Agni è spesso chiamato rakshohan, ossia uccisore del mostro; tamohan, ossia distruggitore della tenebra. Il fuoco che si tiene tuttora acceso la notte in alcune stalle, per cacciare una specie di demonio che si teme venga nelle tenebre ad occupare il bestiame, è una reminiscenza del vedico Agni rakshohan e tamohan. Il mostro ama le tenebre; lo spauracchio de' bambini discende dalla nera cappa del camino, quando il fuoco è spento; ma il fuoco che si svolge da' cimiteri nelle notti estive, il fuoco vulcanico, ed altre emanazioni del fuoco sotterraneo son considerate come forme fantastiche infernali. Il fuoco sotterraneo è sempre sinistro, come l'inferno si figura sotterra, e sotterra si distende il regno de' serpenti, ove impera il diavolo, il gran serpente.
L'Agni sacrificale apporta al devoto le splendide [119] gioie del giorno; l'Agni del rogo guida la parte immortale (ag'o bhaga; seguo qui evidentemente l'interpretazione del Müller e del Muir) del trapassato, di cui esso, nutrendo sè stesso, consuma le carni, all'eternità degli splendori celesti; perciò l'Aitareya Brâhmana chiama Agni col nome di filo, ponte e via, per la quale si va agli Dei (tvam nas tantur uta setur Agne; tvam panthâh bhavasi devayânah); per esso possono gli uomini arrivare al cielo, e rallegrarsi in gaudio comune con gli Dei (tvayâ Agne prishtham vayam âruhema; atha devaih sadhamâdam madema).
Egli non è solo desiderato dagli uomini, ma anche dagli Dei; ma mentre gli uomini cercano Agni nel legno, gli Dei lo vanno a cercare nelle acque, dove Agni sta nascosto. Questa nozione mitica intorno all'Agni celeste, che abbiamo detto identificarsi spesso nel Rigveda col sole, è di una importanza capitale. Noi entriamo qui in un mondo intieramente favoloso. Sappiamo già come nell'età vedica si producesse il fuoco; e abbiamo veduto che Indra lo trasse fuori dal cielo nuvoloso nella stessa guisa, con cui lo destavano i padri nostri sulla terra, ossia per confricazione. L'uso terrestre ci ha giovato per dichiarare il mito celeste. Ma, come immaginare, con la sola analogia de' fenomeni osservati sulla terra, il fuoco figlio delle acque, il fuoco nascosto nelle acque, il fuoco uscente dalle acque, quando sappiamo che ufficio naturale dell'acqua è quello di spegnere, ma non di destare il fuoco? Ed eccoci pertanto di nuovo richiamati esclusivamente ad un Agni celeste; poichè paragonandosi il cielo nuvoloso e la notte tenebrosa ad un oceano, il fulmine che si sprigiona dalle nuvole, ed il sole che vien fuori ora dalle nuvole, ora dalla tenebra notturna, ci rappresentano ad evidenza una forma di Agni, ossia di fuoco che esce dalle acque, di Agni figlio [120] delle acque, immagine che sulla terra, presso l'Himalaya, non si poteva in alcuna maniera riprodurre. Come adunque abbiamo un Agni terreno (che si fece esso pure derivare dal cielo), venerato particolarmente dagli uomini, così abbiamo un Agni celeste specialmente caro agli Dei che lo vanno a cercare nelle acque, ov'egli s'era nascosto, per timore di subire le stesse sorti dei suoi fratelli maggiori, i quali, secondo la leggenda vedica, erano morti prima di lui. Ora questo minor fratello Agni più accorto de' suoi fratelli maggiori che per scampare da morte si nasconde nelle acque, che scampa nelle acque, ossia dalle acque, ci compie un mito importante. Noi abbiamo già la nozione di un Agni fatalmente parricida che distrugge il legno, da cui è nato; così l'Agni celeste chiamato ora figlio, ora nipote delle acque (apâm napât), distrugge la materna notte, ossia il paterno oceano tenebroso o nuvoloso, da cui vien fuori in forma di sole. Agni è dunque parricida nel cielo come nella terra; ma, per attenerci alla sola nozione vedica, Agni sta nascosto nelle acque, per timore, se vien fuori, d'esser messo a morte, come i suoi fratelli maggiori, ossia soli vespertini e autunnali che hanno preceduto i nuovi soli mattutini e primaverili, figurati come fratelli minori; gli Dei gli assicurano l'immortalità ed egli si manifesta, uccidendo mostri d'ogni maniera.
Io non ho bisogno d'indicarvi come l'Agni parricida, riunito con quest'Agni fanciullo nascosto nelle acque per scampare dalla morte, debba aiutarci a dichiarare le numerose leggende mitiche ed epiche riprodotte in più umile forma nelle novelline popolari, nelle quali il vecchio re, destinato dal fato a perire per mano del figlio o del nipote, cerca di perderlo appena nato; e lo fa esporre sulle acque, dalle quali il fanciullo si [121] salva sempre in modo miracoloso, si chiami Krishna o Karna, si chiami Ciro, si chiami Paride, si chiami Romolo, ed io oserei ancora aggiungere, si chiami Mosè, si chiami Gesù. Poichè, nella leggenda biblica di Mosè esposto nel Nilo, salvato dalla figlia di un vecchio Faraone che un giorno, per cagione di Mosè, si perderà nel mare, si rappresenta, per quanto vaga, una forma del mitico parricida. Nella leggenda di Gesù, il re Erode ordina la strage degl'innocenti; uno solo si salva, Gesù, che tra i suoi miracoli dovrà più tardi camminare a piedi asciutti sul mare, e che, per recarsi in Egitto bambino avrà probabilmente rinnovato il miracolo di Mosè che, dopo essersi salvato dal Nilo, si salvò dal Mar Rosso. Gli elementi mitici appaiono spostati, ma la loro origine fu probabilmente una sola.[20]
Ma, per tornare ai nostri soli miti vedici, l'Agni celeste serba pure alcuni di que' caratteri bellicosi, che sono proprii di quell'eroe mitico solare, a cui lo avvicinammo. Finch'egli si trova nascosto nelle acque, gli Dei temono; quando egli appare, viene a liberarli di pena: distrugge, come dicemmo, i mostri nemici (onde il suo appellativo di sahasrag'it o vincente mille) e distrugge le nemiche città (onde il suo appellativo di purandara). Per l'aiuto che Agni ha dato nel cielo agli Dei, acquistò pure fama di protettore de' guerrieri che combattevano sopra la terra, e lo invocavano nelle battaglie: [122] assistiti da Agni, i guerrieri divenivano invincibili; esso doveva bruciare i nemici come aride legna. Tuttavia Agni non è specialmente nel cielo un guerriero; lo diviene talora come sole, e somministra come fulmine armi agli Dei; e, s'io accennai alla sua figura di guerriero, lo feci perchè in alcuni Inni vedici essa veramente ci appare, e perchè da essa si giustifica meglio l'interpretazione che abbiamo qui data al mito di Agni fanciullo nascosto nelle acque per scampare da morte, ossia di un essere divino che nelle acque scampa miracolosamente da morte, uno de' miti fondamentali nella mitologia che si congiunge col gran mito cosmogonico del diluvio, dal quale l'eroe indiano, babilonese[21] ed ebraico scampano in un modo conforme.
Ma, poichè Agni nel cielo può identificarsi con parecchi altri Dei, la sua figura mitica non potè riuscire distinta e costante; un versetto dell'Atharvaveda ci fa sapere come Agni nella sera diviene Varuna, nel mattino Mitra; muovendo nell'aria, diviene Savitar; splendendo nel mezzo del cielo, diviene Indra. Questo versetto è molto importante non solo per quanto ci dice di Agni, ma per la caratteristica speciale che esso ci dà di altre quattro persone divine del cielo vedico. Con Indra specialmente Agni si congiunge spesso e viene invocato; essi vanno a bere insieme; essi cavalcano insieme come Açvinâu; essi insieme uccidono il mostro Vritra e distruggono città; talora Agni solo usurpa questi ufficii proprii del Dio Indra, col quale evidentemente s'identifica. Le specie di Agni son dunque molte; ma la sua natura generica è quella di fuoco, e come tale viene spesso celebrato nel cielo, e sempre nella terra. In questo [123] suo aspetto più modesto, ma continuamente efficace, il poeta vedico lo adora e gli attribuisce pure essere divino. Agni è col soma sacrificale il solo Dio che il mortale ha la ventura di poter vedere, toccare, ed anzi creare a sua posta. Lo vede nascere, lo fa nascere, lo alimenta, lo colma di cure e di carezze, poichè sente quanta virtù benefica esso abbia nella vita, come quello che libera l'uomo dal terrore, dalla tenebra, dai mostri maligni, dal male, porta la luce, la salute, la sapienza nelle case, il calore ne' corpi, la fecondità nel suolo, la ricchezza, la gioia presso tutti i buoni. Un Dio così benefico, e, nel tempo stesso, così trattabile, dovea permettere a' suoi devoti un linguaggio più confidenziale, più famigliare che essi non potessero usar con gli altri Dei, men noti, e men facili a lasciarsi accostare. Perciò in due inni dell'VIII libro del Rigveda si trovano due versetti di una curiosa ingenuità. Il poeta dice ad Agni: «O Agni, se tu fossi un mortale, e se io fossi un immortale avente potere d'arricchire un amico, o figlio invocato della potenza, io non ti abbandonerei all'imprecazione ed alla miseria; o Agni, il mio inneggiatore non sarebbe povero, in cattivo stato, miserabile.» E altrove: «O Agni, se io fossi in te, e se tu fossi in me, i tuoi desiderii sarebbero soddisfatti.» Le preghiere che si fanno dalle nostre pinzochere, le quali, picchiandosi il petto, senza farsi male, domandano a Dio, in un'età nella quale non possono più commetterne, il perdono di tutti i vecchi loro peccati, e per di più, l'eterna beatitudine del Paradiso, non sono forse più così ingenue, ma, per compenso, mi sembrano un poco più indiscrete.
[125]
Noi abbiamo veduto il Dio fuoco, il Dio Agni, il Dio generatore, il fuoco vitale uscire dalle acque; così, nella cosmogonia biblica, spiritus Dei ferebatur super aquas. Agni dicemmo pure identificarsi col sole generatore, ed un inno cosmogonico del Rigveda (X, 72) ci rappresenta pure il sole che gli Dei fanno nascere dall'Oceano, in cui stava nascosto (atra samudre âgûlham â sûryam ag'abharttana). Nella cosmogonia dell'inno 121º del X libro del Rigveda, dedicato ad Hiranyagarbha o Germe d'oro, leggiamo: «Quando le vaste acque penetravano il mondo, contenenti il garbha (il germe, Hiranyagarbha), generanti Agni, allora si svolse l'unico alito vitale degli Dei.» Il commentatore del Çatapatha Brâhmana Mahîdara[22] dichiara: «Nel principio questo mondo era tutto acque, solamente acqua.»[23] [126] Un versetto dell'Atharvaveda compie la rappresentazione cosmogonica con le seguenti parole: «Le acque generanti un figlio fecero, nel principio, uscire un germe; di quello appena nato fu aureo il guscio.» Questo germe nato nelle acque prese pure il nome di Prag'âpati o signore della generazione, che divenne uno degli appellativi del Dio Brahman, onde nella cosmogonia brâhmanica, il Brahmânda od uovo di Brahman nato dalle acque corrispose perfettamente all'Hiranyagarbha o Germe d'oro della cosmogonia vedica. Questo uovo d'oro era, senza dubbio, nel primo concepimento, il sole. Ma la posteriore cosmogonia ne fece l'uovo cosmico, universale, in cui si comprende, da cui emerge l'universo, diviso in due parti, cielo e terra, sebbene gli stessi Commentatori indiani si trovino quindi imbarazzati a riconoscere la seconda metà dell'uovo nella terra, il cui colore non è d'oro, mentre l'uovo primo nato è tutto d'oro. Questo imbarazzo de' Commentatori ci giova per riconoscere nell'uovo primordiale un fenomeno celeste, l'Agni solare primo generato e primo generatore. Il concepimento di un cosmico uovo d'oro uscente dalle acque fu poi naturalissimo. Il caos si rappresenta come tenebroso. La tenebra si rappresenta come un mare. Dalla tenebra vien fuori la luce, dal mare tenebroso celeste vien fuori l'uovo d'oro. Quando, in Piemonte, i fanciulli, al cader della prima pioggia primaverile vanno intorno gridando: pieuv, pieuv, la galina [127] fa l'oeuv (piove, piove, la gallina fa l'uovo), si saluta in quell'uovo della gallina celeste la risurrezione del sole. Quando, al risorgere del sole primaverile, ossia nella Pasqua di Resurrezione, si mangiano le uova di Pasqua, noi festeggiamo ancora l'uovo d'oro celeste che ritorna. L'uovo inaugura e fonda la vita; perciò, nell'uso popolare, ai giovani sposi, il giorno dopo il matrimonio, soglionsi offrire uova, per ridar loro, come si dice, le forze perdute; è ancora questo un augurio simbolico per la generazione. L'uovo divenne pure simbolo del bene. Con l'uovo incominciavano le antiche famiglie romane i loro banchetti (l'uso è pure rimasto in alcune odierne famiglie italiane), e poichè terminavano con la mela, nella loro esclamazione: ab ovo ad malum, l'uovo con cui si principiava rappresentava il bene, il malum, ossia la mela, venne talora a rappresentare il male. Dall'essersi immaginato come prima creazione l'uovo d'oro, dall'incominciarsi il giorno con l'apparire dell'aureo sole e dell'aurora si figurò molto naturalmente come prima età l'età dell'oro. Come la primavera è la gioventù dell'anno, così l'aurora od aurea è la prima età del giorno; e poichè, col levarsi del giorno e dell'anno tutto rifiorisce, tutto si ravviva, all'età dell'oro fatta discendere in terra si fece corrispondere un paradiso terrestre. Il giorno incomincia e finisce con un'aurora; e l'uomo trovando la prima luce in Oriente, l'ultima in Occidente, immaginò in Oriente, ossia al principio della vita, un paradiso, ed al fine della vita in Occidente, ove il sol muore, il giardino dell'Esperidi, ove si trovano le mele d'oro, un paradiso di beatitudine, ove anco le nostre nonne cattoliche ci hanno fatto sperare che troveremmo i pomi d'oro. Il melo delle Esperidi, come l'acqua della vita, si trova custodito da un drago; Atlante, una specie di Dio dell'oceano, è, [128] come il vedico Varuna, reggitore del mondo; per i buoni ufficii di Atlante, Ercole, nella leggenda ellenica, può portar via dal giardino delle Esperidi, ossia delle occidentali, che hanno sede nell'Oceano occidentale, le tre mele richieste da Euristeo, il quale, come il solito re leggendario che ritorna nelle novelline popolari, spinge il giovine eroe ad imprese straordinarie, nella speranza di perderlo. Così da questa breve digressione, la quale ha per iscopo di mostrare non tanto l'affinità de' miti ellenici con gli indiani, che non può oramai più esser messa in dubbio, ma altra verità non meno schietta, che pure si dura ancora molta fatica ad ammettere, la presenza ne' miti greco-latini della maggior parte dei motivi che formano tuttora il fondo delle nostre novelline popolari, ci riconduce all'acqua mitica, dalla quale il sole Agni (chiamato pure apâm garbah, ossia germe delle acque; l'Agni Savitar è chiamato apâm napat) esce nel mattino, e nella quale il sole Agni si nasconde la sera. Abbiamo già avvertito come lo stesso oceano mitico si riproduce nel cielo nuvoloso, dal quale Agni il fuoco esce ora in forma di raggio solare o di sole, ed ora in forma di fulmine.
Le acque sono, per lo più, celebrate negli Inni vedici al plurale. Dove il Dio si manifesta come plurale, si comprende come la sua persona mitica non si possa manifestare viva e distinta. Il carattere è qualche cosa di singolare che spicca in quanto esso appartenga ai singoli; dov'esso si estende ai più, perde del suo splendore. Nel plurale i caratteri singolari non si distinguono, ed i caratteri generali, i quali soli vi si rivelano, non permettono al mito di balzar fuori vivace, colorito e potente. Per la stessa ragione rimasero nel Rigveda alquanto pallide le figure delle Haritas, nelle quali si riconobbero le Charites, le Grazie elleniche, degli Angiras , [129] forme dell'Agni celeste, messaggieri, luminosi, delle Apsarâs e dei Gandharvâs che oggi esamineremo, dei Mârutas che studieremo nella Lettura seguente, dei Ribhavas che ci occuperanno, quando toccheremo del Dio Tvashtar, e di alcuni altri collettivi divini. Egli è solamente quando alcuno di questi plurali si fece singolare e si distinse isolato, che si venne a noi disegnando una figura caratteristica. Nel 9º inno del X libro del Rigveda dedicato alle acque, esse vengono salutate come amorose madri e come dee; quindi si dice: «Il Dio Soma mi ha detto: trovarsi nelle acque tutti i rimedii ed il fuoco che porta salute a tutti. O acque, arrecate il rimedio per la guarigione del mio corpo, e perchè io possa vedere lungamente il sole. E quello che in me possa esservi di malato, o acque, portate via.» Da un inno del II libro dell'Atharvaveda apprendiamo come nel preparare un balsamo per le ferite s'invocava l'acqua della fonte che vien giù dalla montagna; e insieme con le acque le erbe, aventi esse pure virtù salutifere. Nello stesso inno si ricordano le upag'îkâs, come quelle che recano un rimedio dal mare; il professor Weber[24] avvicinò alla parola upag'îkâ, con molta verosimiglianza, la voce upadîkâ, che denomina una specie di formiche. Dico con verosimiglianza, poichè il Dio Pluvio Indra ci si rappresenta egli stesso negli Inni vedici come formica, e, nel citato inno dell'Atharvaveda, dopo essersi ricordate le acque e le piante salutifere, si celebra per l'appunto il fulmine d'Indra che caccia via i mostri. La formica, nel mito, penetra nella tana del serpente guardiano delle acque, lo morde e lo costringe ad uscire; quando il serpente si muove, ed esce fuori della propria caverna, le acque [130] vitali e salutifere si sprigionano. Secondo le nozioni indiane, quando le formiche mettono insieme le uova, viene la pioggia; e quando si trovano formicolai, è segno sicuro che l'acqua sta vicina. Quest'acqua non può essere l'acqua della terra, come il mare, da cui le formiche devono arrecare il rimedio, non può essere l'oceano terrestre. Qui ancora, osservandosi come l'adunarsi delle uova di formiche sopra la terra risponda al tempo delle prime pioggie primaverili, si vide nel Dio Pluvio Indra una formica celeste: i fulmini d'Indra penetrarono come formiche nella tana del serpente celeste, che teneva chiuse le acque, lo ferirono e lo fecero uscire, scatenando le acque. Così, per aver osservato che il canto del cuculo annunzia la primavera, il primo scoppio del tuono in primavera si paragonò in Grecia ed in Roma al canto del cuculo; e Giove Pluvio si rappresentò esso stesso in forma di cuculo, nella qual forma egli visita secretamente Giunone; ossia il luminoso, nella scura veste di cuculo canoro, come Dio tonante, si nasconde nel cielo.
Le acque e le erbe sono, come dicemmo, invocate insieme; entrambe appaiono salutifere; l'erba e la pianta contengono umori salutari; si celebra pertanto l'erba medicinale come l'acqua della salute. L'inno 17º del X libro del Rigveda canta con un solo versetto, insieme, le erbe lattifere ed il latte delle acque. Il cielo nuvoloso (come l'oceano luminoso mattutino) si rappresenta ora come vacca lattifera, ora come fiume che porta latte, ora come erba od albero stillante latte, e purificante. Payasvatî, ossia lattifera, è chiamata l'oshadhi, ossia l'erba; payasvatî è pure uno degli appellativi dato alla riviera. E come tale gli corrisponde perfettamente la Sarasvatî ossia la fornita di umore, l'acquosa, della quale pure si fece una dea. La Sarasvatî [131] rappresentò particolarmente il fiume celeste; ed al plurale i fiumi celesti. Ma de' fiumi celesti la sede è varia: nella notte si ha particolarmente un Oceano, ma talora un fiume scuro, infernale; nel mattino e nella sera un fiume dalle onde luminose; nel cielo nuvoloso ora un oceano, ora molti fiumi. Il fiume celeste per eccellenza si chiamò ora sindhu, ora sarasvatî; le due parole non valgono altro che il fiume. Mentre adunque gli Ariani del Peng'ab occidentale che si trovavano presso il fiume Indo, non conoscendo ancora altro fiume più vasto, lo chiamarono Sindhu, ossia semplicemente il fiume, gli Ariani del Peng'ab occidentale denominavano un altro gran fiume col nome di Sarasvatî, ossia ancora semplicemente il fiume. Ma nel cielo il Sindhu e la Sarasvatî, così al plurale come al singolare, espressero in origine la stessa cosa, la riviera, il fiume celeste, ossia la fiumana notturna, mattutina e vespertina, e quella che tra i fulmini si rovescia dal cielo sopra la terra in torrenti di pioggia.[25] Dato un carattere divino ai fiumi del cielo, anche i fiumi della terra, con quegli stessi nomi che ritornavano nel mito, divennero sacri. E come nel cielo è un mostro, un drago che trattiene le acque, finchè il Dio Pluvio non lo fulmina, così si suppose sopra la terra che alla guardia delle sorgenti de' fiumi stia un vecchio dragone. Come le acque celesti son celebrate negli Inni vedici quali divine purificatrici, così la Sarasvatî e la Gangâ divennero nell'India fiumi, ne' quali chi fosse disceso a bagnarsi non si mondava soltanto il corpo, ma anche l'anima. Perciò in un inno funebre dell'Atharvaveda (VIII, 2) s'invocavano come propizie le acque celesti. Le acque sono, come il fuoco, fecondatrici; [132] dicemmo nella Lettura precedente del figlio considerato nella credenza indiana come il liberatore del padre; così l'inno 61º del VI libro del Rigveda ci rappresenta un devoto Vadhryaçva, il privo di cavallo (ossia, possibilmente ancora, l'azzoppato, lo zoppo che non può più andare), il vecchio sole carico di debiti, a cui Sarasvatî dà un figlio di nome Divodâsa (il sole mattutino) che lo libera dai debiti. La via che Sarasvatî percorre è detta aurea (come quella dell'aurora e della nuvola aurea solcata dai fulmini); perciò essa lascia sopra le sue traccie dell'oro, onde ancora il suo appellativo di hiranyavarttini; in essa sono tutti i poteri vitali, ed essa viene perciò invocata, affinchè ponga il germe (garbham dhehi Sarasvatî; Rigveda, X, 184); nè solo dà forza e vigore vitale agli uomini, ma agli stessi Dei, ad Indra, nella quale facoltà essa appare, presso il Yag'urveda bianco, come medichessa celeste (al pari dell'aurora) insieme coi due medici celesti e con gli Açvinâu, dei quali anzi (come l'aurora) è detta sposa, e con Varuna, reggitor delle acque (apsu râg'â), col quale concorre a generare Indra. Nella estrema mitologia vedica, Sarasvatî fu poi identificata con Vac',[26] la parola, e quindi la parola sacra, la preghiera, per un facile equivoco di linguaggio. La parola saras, che entra a formare l'appellativo sarasvatî, non significò soltanto acqua, ma suono, voce, considerandosi, per comune etimologia, tanto la voce quanto l'acqua, come la scorrevole. La [133] sarasvatî o fornita di scorrevolezza valse per lo più l'acquosa, ma talora dovette valer pure la vocale, la sonante: nâdî o la sonante è il nome più comune che si dà in sanscrito alla riviera. E tanto più dovette l'equivoco mantenersi, contemplandosi la Sarasvatî celeste, ossia la nuvola che versa torrenti di pioggia, ma preceduta dal tuono. Venuta la tonante Sarasvatî a significare la parola sacra, la preghiera, l'immaginazione brâhmanica lavorò quindi sopra questa astrazione e l'isolò per modo dalla sua prima natura, che l'artificiale Sarasvatî brâhmanica non ha quasi più nulla di comune con la naturale Sarasvatî vedica. Lo stesso equivoco tra il Sindhu celeste ed il Sindhu terrestre ci si presenta nell'inno 75º del X libro del Rigveda; ma il Sindhu conserva almeno sempre la sua natura di fiume. Riconosco ancora in esso il fiume celeste, quando esso ci si rappresenta come aggiogato ad un bel carro tirato da cavalli, ed accrescente forza agli eroi nella battaglia. I fiumi celesti, ossia le acque dell'Oceano celeste, le stesse che danno il nascimento ad Agni, il quale non solo nasce dalle acque, ma le protegge (Rigveda, VII, 47), accrescono forza ad Indra ed agli altri Dei guerrieri. L'onda celeste è perciò chiamata Indrapâna o bevanda d'Indra. Quanto al bel carro, a cui s'aggiogano, esso è indubbiamente il carro solare. Al quale proposito giova ripetere come le acque celesti non appaiono soltanto nell'oceano notturno e nell'oceano nuvoloso, ma ancora nell'oceano di luce, nel roseo ed aureo cielo che si presenta il mattino ad Oriente, la sera ad Occidente. L'inno 47º del VII libro del Rigveda ci fa sapere che il sole co' suoi raggi stende le acque, alle quali Indra apre una vasta corrente (Rigveda, VII, 47), le quali il toro o l'eccellente Indra fulminante divide (Rigveda, VII, 49). Qui abbiamo il cielo nuvoloso. Ma quando apprendiamo [134] che nelle acque si rallegrano il reggitore Varuna, Soma, Agni e tutti gli Dei, ci conviene allargare il dominio delle acque nuvolose, sopra le quali il Dio fulminante impera. Varuna ci conduce perciò al cielo vespertino, Soma al cielo notturno; Agni Vâiçvânara ci rappresenta più tosto il cielo mattutino; esso trovasi perciò invocato, nell'Atharvaveda, come sole, ed invitato a purificare co' suoi raggi. Così quel figlio delle onde, il quale appare nel cielo come un uccello rosso, dalle belle piume, che s'accende senza combustibile, non può essere altro che il sole mattutino. Il figlio delle acque è chiamato per lo più Agni; nell'inno 30º del X libro, esso appare col nome di Soma (che s'identifica ora con la Luna, ora col Sole), e si rallegra con le onde come un uomo insieme con belle giovani. «Le giovani (canta l'inno) s'inchinano al giovane, quando desideroso esso si accosta alle desiderose.»
Noi vediamo qui, dunque, le acque muoversi in forma di fanciulle verso un Dio. Questa prima immagine creò nel cielo tutto un ordine di esseri, che divennero popolari nella mitologia vedica e brâhmanica col nome di apsarâs, e nella mitologia greco-latina col nome di ninfe. Ma, oltre le ninfe, la mitologia greco-latina conosce centauri, fauni, satiri, che vanno, per lo più, in compagnia delle ninfe; così la mitologia vedica e brâhmanica dà alle apsare come loro sposi i gandharvâs. La parola apsarâ parrebbe valere la scorrente sopra le acque, ossia l'andante sulle acque, etimologia che ci richiamerebbe alla nuvola scorrente sopra le acque, acquosa; la ninfa e la linfa avrebbero così fra loro molta analogia. Non debbo tuttavia tacere come il professor Weber[27] mantenga sempre per la voce apsarâ [135] la etimologia da lui data nel primo suo saggio, cioè di priva di forma o psaras, la informe; altre etimologie furono proposte, secondo le quali l'apsarâ potrebbe valere la insaziabile, e quella dalle belle gote. Noi preferiamo la prima etimologia, ap-sarâ, ossia l'acquosa, l'andante nelle acque, come nella voce gandharva vediamo l'andante nei profumi, e poichè la parola arva (dalla radice r'i, ar, «andare») valse quindi ad esprimere il cavallo, anche il gandharva, il centauro, prese forma ora d'ippocentauro, ora di onocentauro.[28] Contro l'etimologia dottamente grammaticale del professor Weber l'obiezione principale parmi possa esser questa: la forma femminina più luminosa, più bella dell'Olimpo vedico, quella che dovea meritare l'onore d'esser celebrata come la sposa, qual ballerina celeste, come la bella del Dio (l'aurora è anch'essa un'apsarâ), non potea chiamarsi l'informe. Noi abbiamo già veduto la bella aurora saltatrice, danzatrice; così, poco sopra, vedemmo accennate le onde quali giovani piegantisi innanzi al giovane. Abbiamo qui dunque un primo elementare indizio delle ninfe celesti, delle apsare saltellanti sulle acque, delle ballerine dell'Olimpo, che doveano poi assumere tanto splendore nella mitologia eroica del periodo brâhmanico. Tutto c'induce dunque a supporre non solo per le apsare brâhmaniche, ma ancora per le vediche, una forma molto corporea. La natura sensuale del Dio Indra fu la cagione principale della sua rovina dall'Olimpo vedico: così di tutti gli Dei l'Atharvaveda ci fa sapere ch'essi hanno primi insegnato agli uomini i commercii carnali: «Gli Dei dapprima frequentarono le loro spose toccando i corpi coi corpi.» Anzi un poeta dell'Atharvaveda fa [136] carico ai divini Gandharvâs di venir talora sulla terra (come gli Angeli della leggenda biblica) a sedurre le figlie de' mortali, mentre essi stessi hanno per loro proprie spose nel cielo le apsare. «Fattosi bello alla vista, il gandharva segue la donna: noi lo allontaniamo di qua con la sacra formola potente: Vostre spose sono le apsare, o Gandharvi, voi siete gli sposi; essendo voi immortali, non dovete andar dietro a donne mortali.» (Atharvaveda, IV, 37.)
Come qui appaiono i gandharvi quali seduttori delle donne mortali, così, nelle leggende brâhmaniche, appaiono spesso le apsare, come mandate dagli Dei sopra la terra per distrarre dalla penitenza, con le loro seduzioni, i devoti. Esse sono, per lo più, le rallegranti; ma alcuna volta non solo rallegrano, ma inebbriano, e nella ebbrezza ammolliscono. La loro natura è acquosa (il fuoco è un mascolino, l'acqua un femminino). Il loro soggiorno prolungato nel cielo porta l'umidità sopra la terra; onde comprendiamo il motivo, per cui nell'Atharvaveda si trovano pure scongiuri contro di esse, come quelle che possono portare l'uomo all'imbecillità, ossia turbarne la mente, onde il loro appellativo di manomuhas; quando questo non venga loro dato per la loro relazione intima col gandharva lunare, e però il turbamento dell'intelletto non sia da attribuirsi all'influsso della luna sulla pazzia. Un altro degli appellativi vedici delle apsare è akshakâmâs, ossia amiche dei dadi. Esse, in cielo, danzano, cantano e giuocano; perciò in un inno dell'Atharvaveda,[29] il gandharva che ha la pelle color del sole, e l'apsarâ, sono insieme invocati a proteggere il giuoco dei dadi. Noi abbiamo sopra veduto come le giovani onde si piegano innanzi al giovine Soma. Questo Soma s'identifica col re de' Gandharvi, [137] con lo sposo delle apsare, col gandharva Viçvâvasû, genio particolarmente lunare, guardiano del Soma, reggitore della pubertà e virginità delle donne, che deve perciò allontanarsi, quando questa si perde; poichè il gandharva ama, protegge, custodisce, tiene gelosamente nascosta, la sola anavadyâ o l'innocente.
Quanto all'apsarâ, nell'Atharvaveda essa è chiamata nuvolosa, lampeggiante e stellata. Qui abbiamo dunque una ninfa nella nuvola, ed una ninfa nella notte, ma vi è ancora un'apsarâ aurora, che mi pare indicata in quelle parole dell'inno 109º del VII libro dell'Atharvaveda; onde apprendiamo che le apsare si rallegrano nel tempo che passa fra l'offerta sacrificale e l'apparire del sole. Questo tempo è, per l'appunto, quello dell'aurora; l'inno stesso invita il fuoco a portare burro per le apsare. Ma il burro ed il fuoco, prima che manifestarsi nel sacrificio, si manifestarono nel cielo, il quale nel mattino incominciò ad apparire imburrato con l'alba, e quindi infuocato con l'aurora; il burro liquefatto dell'alba alimenta il fuoco dell'aurora, che il legno della selva notturna, distrutto dal fuoco stesso, non avrebbe più bastato ad alimentare. Per mezzo del burro si produce il fuoco, il ricco; come pertanto le acque, madri del fuoco, sono invocate per ottenere un figlio che liberi il padre dai debiti, così un poeta dell'Atharvaveda invita le apsare ad ungergli le mani con burro, affinchè egli possa, nel giuoco, vincere il suo avversario; in un altro inno dell'Atharvaveda[30] s'invitano le apsare Ugrampaçya ed Ugrag'it a riparare ai debiti che il giuocatore ha fatti coi dadi. L'apsarâ detta payasvatî (come la sarasvatî) vien chiamata essa stessa sadhûdevinî, ossia bene giuocante; danza coi dadi; coi dadi si procura dei beni, per mezzo della [138] sua magia. Noi abbiamo qui la mobile, luminosa, danzante aurora, fornita di ricchezze, che diffonde la luce e la ricchezza nel mondo. A far poi apparire questa apsarâ come una giuocatrice celeste dovette pure concorrere, per molta parte, l'equivoco tra la radice div, «splendere» e la radice div, «giuocare» (cfr. jucundus, juvenis, presso jocus). L'aurora divo duhitar e l'apsarâ sadhûdevinî, ossia bene giuocante, riuscirono una persona sola, con la quale si congiunge intimamente quel divodâsa, in cui io riconosco il sole mattutino, che, per grazia di Sarasvatî (l'ap-sarâ aurora payasvatî, sadhûdevinî), libera il padre da' suoi debiti fatti probabilmente nel giuoco, ossia nella gara luminosa, nella gara de' raggi celesti, che fu il primo di tutti i giuochi, ossia di tutte le opere luminose; il gioco è gioia; la gioia brilla. E brillo chiamasi tuttora l'uomo vivamente allegro. In Toscana, d'uomo contento dicesi ch'ei brilla; la gioia è splendida, il dolore è scuro. Il sole vespertino perde al giuoco luminoso il suo cavallo, diviene Vadhryaçva; nel giuoco de' suoi raggi egli rimane perdente; il sole mattutino Divodâsa, suo figlio, aiutato dalla giuocatrice o luminosa ninfa Sarasvatî, dall'aurora, guadagna quello che il padre avea perduto. La parola divodâsa, vale propriamente il servo del cielo, come duhitar divas (l'aurora) vale la figlia del cielo. L'aurora è protetta da Indra e dagli Açvin; così Divodâsa è protetto da Indra e dagli Açvin, che distruggono per lui le città demoniache celesti, ossia le tenebre mostruose della notte. Il padre di lui, che egli libera dai debiti, si chiama Vadhryaçva, o privo di cavallo; ma prima di divenire Vadhryaçva, chiamavasi invece Bahvaçva, ossia avente molti cavalli (ossia, possibilmente ancora, il molto celere, ossia il potente corridore od açva), ch'egli doveva pure essere abilissimo a guidare. Il figlio Divodâsa, come servo del cielo, protetto [139] dagli Dei, deve avere servito specialmente (come quasi sempre l'eroe nel periodo, in cui rimane nascosto) in qualità di stalliere divino (Ercole spazza la stalla al re Augias); verso il mattino una fanciulla divina, un'apsarâ di nome Sarasvatî, lo rende felice, facendolo vincere al giuoco, e intendiamo al giuoco dei raggi solari; l'aksha divenne poi il dado, ma, prima di riuscire un dado, fu certamente la ruota, l'asse, l'occhio e probabilmente il raggio luminoso dell'occhio, il raggio penetrante. Il re Nala che perde, al giuoco dei dadi, il regno, che abbandona la sua bella sposa di notte nella selva piena di tigri e serpenti, che nel tempo della sua miseria si fa auriga, ossia guidator di cavalli, che riguadagna, al giuoco, il regno perduto e la sposa smarrita, ci offre una stupenda variante brâhmanica del mito vedico di Divodâsa figlio di Bahvaçva, divenuto, nel giuoco, Vadhryaçva, che riguadagna quello che Bahvaçva avea perduto.
Ma una variante mitica della poetica leggenda della sposa perduta si trova nel Rigveda stesso; ove l'inno 95º del X libro ci presenta un contrasto fra la ninfa Urvaçî e l'eroe divino Purûravas, il molto sonante (il vedico Gandharva, l'andante ne' profumi,[31] appare nel periodo brâhmanico presso il paradiso d'Indra, insieme con le apsare ballerine, come un musico celeste, a quel modo con cui la ninfa acquosa Sarasvatî riesce la sonante e poi la Dea della parola, dell'eloquenza; Purûravas, il tonante sposo dell'apsarâ Urvaçî, è l'anello che congiunge il concepimento vedico col concepimento brâhmanico [140] de' Gandharvi). La ninfa od apsarâ Urvaçî, la larga che s'avanza, una specie di Pr'ithivî, dice di sè stessa, nel secondo versetto dell'inno 95º del X libro del Rigveda: io arrivai come la prima delle aurore (prâkramisham ushasâm agriyeva); nel quarto versetto lo sposo suo Purûravas la chiama aurora, come nel primo versetto l'ha chiamata femmina crudele, perchè gli sfugge; e vorrebbe trattenerla, e la prega perchè s'arresti nella sua dimora, dove notte e giorno sarà colpita dal vaitasa (uno de' nomi vedici del phallos). Urvaçî gli fa osservare ch'ei l'ha visitata tre volte nel giorno; ch'egli è il padrone del suo corpo. Egli (un gandharva, come avvertimmo) si lagna che le fanciulle aurore si allontanino come cavalle attaccate ad un carro. Purûravas si rivolge a lei con parole conformi a quelle, con cui i devoti sopra la terra invocano l'aurora: Urvaçî cerca di consolarlo, egli si dispera; essa gli promette un figlio di nome Vasishtha (uno de' nomi di Agni e del Sole), e, per merito de' sacrificii del figlio, Purûravas può salire nel cielo e rallegrarvisi beato (prag'â te devân havishâ yag'ati svarga y tvam api mâdayâse).
Il mito della ninfa Urvaçî si svolse quindi largamente nelle leggende indiane, ed ebbe in Europa la fortuna di trovare un luminoso e geniale interprete nel professore Max Müller, che lo studiò in parecchie belle pagine degli Oxford Essays.[32] È evidente che l'inno vedico ci presenta solamente alcuni frammenti mitici; gli elementi del mito non vi furono tutti raccolti; ecco ora in qual modo esso si è compiuto nel Çatapatha Brâhmana, in parte con nuovi elementi mitici non penetrati nell'inno vedico, ma persistenti nella tradizione orale, in parte per l'industria un po' arbitraria del Commentatore dell'inno vedico, che s'ingegnava di spiegarne i passi [141] rimasti oscuri. — Un'apsarâ chiamata Urvaçî amò Purûravas figlio d'Idâ, e, trovandolo, gli disse: «Abbracciami tre volte al giorno, ma non mai contro il mio volere, e ch'io non ti vegga mai senza le tue vesti reali.» Così ella visse a lungo con lui. Allora i suoi primi amici, i Gandharvâs, dissero: «Quella Urvaçî da lungo tempo rimane fra i mortali; facciamola tornare. Dove Urvaçî e Purûravas giacevano, vi era una pecora con due agnelli, ed i Gandharvâs ne rapirono uno.» Urvaçî disse: «Essi mi pigliano il mio caro, come se io vivessi dove non c'è un eroe, e nemmeno un uomo.» I Gandharvâs rapirono anche il secondo, ed essa ne fece ancora rimprovero allo sposo. Allora Purûravas guardò e disse: «Come mai il luogo ove io abito può esser privo d'un eroe o d'un uomo?» E, per non perdere tempo, nel cercare i proprii abiti, si alzò ignudo. Allora i Gandharvâs fecero splendere un raggio, e per quel raggio, come se fosse di giorno, Urvaçî vide suo marito ignudo. Allora essa scomparve: «ritornerò» disse, ed andò via. Allora egli pianse la sua amica perduta, e si recò presso il Kurukshetra. Trovasi colà un lago chiamato Anyatahplaksha pieno di ninfe, e mentre il re passeggiava sopra le sue rive, le ninfe scherzavano nell'acqua in forma d'uccelli (probabilmente cigni). Urvaçî scorse il re, e disse: «Ecco l'uomo, con cui ho abitato per tanto tempo.» Allora le compagne le dissero: «Mostriamoci ad esso.» Essa consentì, e le apsare si manifestarono.[33] Allora il re la riconobbe e disse: «Oh! sposa! resta, crudele; parliamo un poco. I nostri segreti, se noi non li riveliamo ora, non ci porteranno più tardi fortuna.» Essa gli rispose: «A che parlarmi? Io sono arrivata come la prima delle aurore. [142] Purûravas ritorna nella tua dimora. Io sono difficile come il vento ad essere raggiunta.» Egli rispose dolorosamente: «Se è così, il tuo antico amico cada ora per non più ridestarsi; se ne vada egli lontano, lontano; egli cada come corpo morto, gli avidi lupi vengano a divorarlo.» Essa gli rispose: «Purûravas, non morire, non cadere, non ti divorino i lupi....» Ella alfine s'intenerì, e disse: «Vien da me l'ultima notte dell'anno; tu abiterai con me una notte, ed un figlio ti nascerà.» L'ultima notte dell'anno egli si recò alle auree sedi, e quando ei vi fu salito, gli mandarono Urvaçî. Allora essa disse: «I Gandharvâs ti permettono di fare un voto, ch'essi adempieranno; scegli.» Purûravas disse: «Scegli tu per me.» Ed ella: «Allora di' ai Gandharvâs: permettetemi di essere uno di voi.» Il giorno dopo, per tempo, i Gandharvâs gli accordarono un dono; ma quando egli ebbe detto: «Ch'io possa essere uno di voi,» essi risposero: «Il fuoco sacrificale, per grazia del quale l'uomo potrebbe divenir uno di noi, non gli è noto ancora.» Allora essi iniziarono Purûravas ai misteri del sacrificio; quando ei l'ebbe compiuto, divenne uno dei Gandharvâs. — Così la leggenda finisce come avrebbe potuto incominciare; cioè con un tonante Purûravas gandharvas (ossia camminante nelle profumate acque celesti), naturale amico e sposo di un'apsarâ (ossia di una scorrente sulle acque del cielo), di una ninfa celeste, la sede della quale ripetiamo essere stata triplice nel cielo, come è triplice la sede delle acque celesti, acque dell'oceano aureo luminoso, dell'aurora, acque dell'oceano nuvoloso, acque dell'oceano tenebroso.
[143]
Difficile a raggiungersi come il vento, vâyuvega o celere come il vento, è una similitudine non infrequente in sanscrito; e come il vento è difficile a raggiungersi, così difficilmente si può la natura di esso determinare. Quando l'inno cosmogonico vedico (Rigv., X, 90) ci fa sapere che Vâyu è nato dall'alito di Purusha, noi ne sappiamo ancora poco, poichè Purusha, il maschio universale, appare, per lo più, un'astrazione. Un inno del X libro del Rigveda (168º) dedicato a Vâta (il vento) mostra ancora maggiore incertezza sull'origine del vento: «Ora la potenza del carro di Vata; esso va stroncando (ogni cosa); lo strepito ch'esso fa è assordante. Esso, toccando il cielo, s'avanza, producendo le (nuvole) rosseggianti, e vien cacciando la polvere della terra. Le mobili (acque) vanno dietro il vento; insieme con esso vanno simili a donne; il Dio, re di tutto quest'universo, se ne viene con esse congiunte col proprio carro. Andante per le vie dell'aria, esso non si trattiene neppure per un giorno; delle acque compagno, primo nato, acquoso, dove è nato, donde provenne? anima degli Dei, germe del mondo, questo Dio va dove vuole; lo strepito di esso fu inteso, ma la sua forma nessuno [144] mai vide.» Il poeta vedico non sapeva dunque onde il vento venisse. Ma l'inno citato ha per noi grande importanza, per quattro nozioni ch'esso ci dà: la prima del vento congiunto con le (nuvole) rosseggianti, la seconda del vento congiunto con le acque, la terza del vento congiunto con le donne, la quarta del vento generatore. Consideriamo bene questi quattro caratteri del Dio Vento vedico, e dovremo rimanere colpiti di viva meraviglia nel ritrovarli tutti nello Spirito Santo cristiano, ossia l'alito sacro, che si manifesta con le lingue di fuoco, che aleggia sopra le acque del Giordano nel battesimo del Cristo (però si rappresenta per lo più nei Battisteri) e che feconda la Vergine (un sarcofago lateranense rappresenta la Trinità intenta invece a creare Eva, ossia la prima donna). San Paolino, descrivendo un disegno della Trinità ch'era nella chiesa di San Felice di Nola, si esprimeva nel modo seguente:
Toto coruscat Trinitas misterio,
Stat Christus amne, vox Patris coelo tonat,
Et per columbam Spiritus Sanctus fluit.
Questo cristiano padre che tona dal cielo è ancora una forma del Dio tonante od Indra, col quale il vedico Vâyu trovasi, per lo più, congiunto. Il vento congiunto con le donne, il vento amico delle donne, è una nozione molto diffusa nella tradizione popolare; anche nell'Eneide virgiliana, Giunone non trova miglior modo di amicarsi Eolo il Dio de' venti, perchè susciti nel mare la tempesta, che promettendogli delle ninfe. Ma delle ninfe conosciamo già la natura acquosa, e spesso nuvolosa. Le mobili ninfe spose del vento son le nuvole che apportano la pioggia. La tradizione popolare rappresenta come stretti parenti fra loro Messer Vento e Madonna Pioggia. Quanto al cristiano Spirito Santo [145] (colomba) non ci sembra recare verun grave imbarazzo. Si volle fare della colomba l'emblema della castità; io credo che sia una nozione intieramente falsa: la colomba è uno degli uccelli più salaci, com'è de' più fecondi; se lo Spirito Santo si trasformò pertanto in colomba, ciò avvenne certamente per altra ragione che non sia quella della purità dei costumi della colomba; probabilmente questa metamorfosi si compì in Grecia e non in Giudea. Qual'è del vento la qualità che ha più colpito l'immaginazione popolare? La sua rapidità che ne fece una specie di messaggiero celeste. Era naturale adunque che si eleggesse come sua figura un essere alato, e tra gli uccelli uno de' più rapidi al volo. Nelle leggende indiane troviamo il falco, l'accipiter (ossia quello delle ali rapide) che insegue la colomba; è, in certo modo, una gara alla corsa fra due uccelli rapidissimi. Qual meraviglia pertanto che, come il fulmine, nel mito vedico, fu raffigurato qual falco, il vento abbia potuto trasformarsi in colomba? Ma il vento non è solo il rapido, ma anche il forte, il generatore, l'amico delle donne; perciò, come nell'antichità ellenica troviamo il colombo ed il passero sacri ad Aphrodite, così non ci deve sorprendere che lo Spirito Santo abbia pure, nella leggenda cristiana, in forma di colomba, visitato e fecondato la Vergine. Di una vergine che concepisca in modo illegale, suolsi ancora dire con maliziosa indulgenza: Sarà stato il vento, oppure: Sarà stato lo Spirito Santo.
Noi abbiamo già parlato del fuoco generatore. Dicemmo che, nel Natale, il fuoco che si sprigiona dal ceppo dell'albero, ossia l'Albero di Natale illuminato, è simbolo del nascimento del sole, che si fa cadere nel solstizio d'inverno, ossia ne' giorni ne' quali la luce incomincia a protrarsi. Nei presepii cattolici uno de' primi doni che i pastori portano al neonato bambino, sono i [146] piccioni simbolici. Ma il sole ebbe più di un natalizio; noi incominciamo l'anno col primo di gennaio, ossia press'a poco coi giorni natalizii cristiani; ma gli antichi Romani lo incominciavano invece col marzo ventoso, ossia press'a poco verso il ritorno della primavera, il che torna a dire presso alla Pasqua di Resurrezione, nella quale il sole risorge, preceduto, per lo più, da qualche scoppio di tuono. Il vento di marzo e le pioggie d'aprile (mese sacro a Venere primaverile) si succedono. Il vento annuncia la pioggia. Il sole risorge fra il vento e la pioggia; il sole ritorna ad emergere luminoso. Dal cielo nuvoloso, tonante, lampeggiante, vien fuori nuovamente il sole in tutto il suo splendore. La leggenda evangelica ci mostra lo Spirito Santo in forma di colomba con le lingue di fuoco. Ho detto che, talora, nel concepimento vedico i fulmini si svolgevano dalla ruota dell'astro solare chiuso nella nuvola. Poichè, quando il sole è potente, ossia nella stagione calda, il cielo tona, si suppose una natura sola ai raggi solari, ai lampi ed ai fulmini. Siano raggi solari, sian fulmini, quelle lingue di fuoco, con le quali lo Spirito Santo si rivela, appaiono soltanto nella stagione calda e luminosa, diurna, primaverile od estiva. Quindi tutte le forme di fuochi sacri conservate nell'uso popolare rappresentano il fuoco celeste del tempo luminoso nel giorno o nell'anno. Quando si arde la vecchia strega nelle novelline popolari, quella vecchia ora è la notte che si consuma nel fuoco mattutino dell'aurora, ora è la stagione tenebrosa dell'anno che finisce; quando si brucia a Natale, all'Epifania, al fin di Quaresima, la brutta vecchia, è segno che il sole ritorna pure a trionfare nel cielo; e i tonanti fuochi d'artifizio che sull'ora di mezzogiorno nel Sabato santo, fra il Battistero e il Duomo di Firenze, la colombina di Casa Pazzi viene tuttora [147] ad accendere alla presenza de' contadini, che si radunano a pigliarne gli augurii per sapere se essi avranno buona raccolta, mostrandoci, in forma d'uccello chiaro, lo Spirito od alito santo, sacro vento, congiunto col fuoco e coi tuoni, ci rappresentano ancora la risurrezione del sole primaverile fra venti e scoppi di tuono, i quali abbiamo già detto essere considerati come nunzii, messaggieri del bel tempo. Così i fuochi che s'accendono ancora in più luoghi d'Italia nella vigilia del giorno di San Giovanni, ossia precisamente ne' giorni di solstizio di estate, serbano immagine del trionfo massimo del sole, arrivato, per mezzo dell'Ascensione, ed a traverso le lingue di fuoco della Pentecoste, al suo apogeo.
Noi troviamo dunque lo Spirito Santo congiunto col fuoco. Ma come il fuoco ha virtù generativa, così il vento. In sanscrito, le parole vento e fuoco, cioè anila ed anala, hanno una sola ed identica radice, cioè an che vale soffiare, spirare; il caldo, il fuoco, la sacra fiamma è vita; il soffio, lo spiro è ancora la vita: perciò, come abbiamo, nel citato inno vedico, il Dio Vâta o Vento, primo nato e compagno delle acque al pari del fuoco, ed anzi anima (âtman) degli Dei (spiritus Dei) e germe (garbha) fecondatore del mondo; così ancora troviamo una strettissima relazione fra la voce greca anemos (vento) e la voce latina anima; così ancora nelle antiche iscrizioni cristiane la parola spiritus sanctus è adoperata come semplice equivalente di anima: di un certo Leopardus si dice che reddidit Deo spiritum sanctum. La parte più mobile di noi che s'agita e ci scalda, apparve anche prima che si manifestasse lo Spirito Santo cristiano, come un Dio chiuso in noi:
Est Deus in nobis; agitante, calescimus, illo.
Ma proseguiamo la nostra analisi del Dio Vento vedico. [148] Esso non solo ha il potere di dare la vita, ma, come Agni, anche quello di prolungarla. I venti Marutas sono invocati a portare i rimedii ai devoti. Nell'inno 186º del X libro si canta: «Spiri il Vento a noi un rimedio salutare, al nostro cuore piacevole; le nostre vite protragga. E tu, o Vento, sei nostro padre, nostro fratello, amico nostro; adoprati per la nostra vita. Poichè, o Vento, là nella tua casa si trova l'ambrosia, danne perciò a noi perchè viviamo.»
Vâyu, altro appellativo indiano del vento, ha caratteri analoghi a quelli di Vâta; ma in Vâyu si specifica anco meglio la sua qualità di vento della tempesta, perciò strettamente congiunto col tonante Dio Indra. Vâyu, che un inno cosmogonico dice uscito dall'alito del Purusha, appare, nell'inno 26º dell'VIII libro del Rigveda, genero di Tvashtar, il Dio artigiano vedico, fabbro e falegname celeste; in altri inni il genero di Tvashtar appare, come vedremo, col nome di Vivasvant. Non è forse intanto senza importanza, per i riscontri comparativi, il ritenere come negli Inni vedici il divino Vâyu o vento, o alito fecondatore, è ricevuto in casa del fabbro o falegname Tvashtar come sposo della sua vergine figlia Saranyû, dalle quali nozze nasce poi Yama, il sapientissimo degli Dei, che muore primo per mostrare agli uomini la via dell'immortalità e della beatitudine; un inno del Rigveda ci fa sapere che Yama nacque da un gandharva (i gandharvâs o andanti nei profumi, sono anch'essi una figura dei venti, che scuotono i profumi dai fiori e li diffondono per l'aria) e da un'apsarâ o ninfa; le ninfe sono le amiche del vento, ed una delle loro virtù è quella di rimaner sempre belle, sempre giovani, sempre pure.
Il Dio Vâyu è pure celebrato nel cielo tempestoso, come bello, sapiente, dai molti occhi, mostrantesi sopra [149] un carro luminoso, tirato insieme col fulminante Indra da molti cavalli rossi, gran bevitore di ambrosia come il suo compagno, e scortato dai proprii figli, i Marutas, che dobbiamo ora studiare. Qui evidentemente si tratta del solo vento nella tempesta; sotto il quale aspetto generalmente fu il vento celebrato negli Inni vedici. Ma, quanto al Vâyu genero di Tvashtar, sposo di Saranyû, padre di Yama, equivalente di Vivasvant, non potremmo interpretarlo come il vento tempestoso. È ancora sempre il vento, ma parrebbe il venticello mattutino e vespertino, congiunto con l'aurora mattutina e vespertina, un vento erotico per eccellenza, uno zeffiro; ond'è che ora Vivasvant il sole mattutino, e Saranyû la ninfa aurora, appaiono insieme a generar Yama, il sole vespertino, il sole moribondo, il Dio che muore per noi; ora a generare i due Açvinau che rappresentano le due luci crepuscolari. Vâyu ha per radice vâ; ma la radice vâ si confonde con la radice van (e con ven), che vale specialmente amare, desiderare, appetire, raggiungere (e ritorna in Venus, venustus). Il vento penetra dappertutto; l'amore ha la stessa potenza invaditrice: del resto, a dimostrare la parentela delle radici vâ e van basta l'analogia del nostro vento presso l'indiano vâta; presso Vâyu, «vento,» il linguaggio vedico ci dà l'aggettivo vâyu, «appetente» (che ci permette di supporre presso la forma vâyu quella di vanyu). L'equivoco del linguaggio potè pure aiutare lo svolgimento del mito del vento erotico; come l'equivoco tra le voci vayas, vâyasas, «uccelli,» vâyavas, «venti,» potè rendere più frequente la rappresentazione dei venti sotto la figura di uccelli.
Ma la più frequente rappresentazione vedica del Vento è nel suo numero plurale. Vâyu divenne come Eolo il vento per eccellenza, il padre, il re, il Dio dei venti; i venti, che stanno sotto il potere di esso, pigliano [150] il nome speciale di Marutas. Agni Marut è un vento. Nella voce marut si vide una variante della voce garut che vale ala; il nostro linguaggio poetico ricorda pure frequentemente le ali dei venti. Come Vâyu è l'atman od anima degli Dei, ossia l'anima divina, lo Spirito Santo, come abbiamo veduto l'anima del cristiano, che uscendo dal corpo sale a Dio, chiamarsi Spiritus Sanctus; così, secondo il professore Benfey, i Marutas o venti, o figli del vento, rappresentano le anime dei morti. Se ricordiamo che Yama si rappresenta pure come figlio di Vâyu, non troveremo in questa interpretazione nulla d'impossibile: tuttavia giova osservare come non è questo il carattere proprio dei Marutas, i quali appaiono invece piuttosto come i rapidi, forti, sonanti e brillanti, come i Maschi del cielo (divo maryâs) e come maschio valse virile, così il vero forte, il vero eroe, il vîra per eccellenza nell'Olimpo vedico è il Marut; come nel Râmâyana le grandi prodezze che fanno a Râma vincere le battaglie sono compiute da Hanumant, figlio del vento Marut; come nel Mahâbhârata, dei cinque fratelli Pânduidi il più poderoso che combatte per gli altri, che sopporta tutte le fatiche, è Bhîma, figlio di Vâyu, il Dio del vento e di Kuntî; come l'uccello Garudas è quello che rende invincibile il Dio Vishnu. Gli Inni vedici rappresentano diversamente il numero dei Marutas; per lo più essi appaiono come tre volte sette, ossia come ventuno; ma talora anche sette, e forse ne' loro tre nomi di Vâyu, di Rudra e di Marut si manifestarono pure come una sacra trinità, essendo i numeri tre e sette considerati sacri. Ma talora furono rappresentati tanti Marutas o venti, quanti sono i giorni del mese lunare, ossia ventisette, o tanti quanti sono i giorni della metà dell'anno, in cui dominano specialmente i venti, ossia tre volte sessanta, cioè cento ottanta. [151] I Marutas son chiamati gomâtarâs, ossia aventi per madre una go, ossia la nuvola mobile, e la nuvola o la tenebra rappresentata come variegata (priçnî) vacca lattifera. Perciò il Yag'urveda nero dice che i Marutas sono nati dal latte di Priçni, ossia dalla variegata, ch'essi considerano come loro madre. Ma, perchè abbiamo già veduto il cielo nuvoloso e il tenebroso celebrato quale oceano, così come i Marutas sono appellati gomatâras o figli della vacca, così ancora si chiamano sindhumâtarâs o figli dell'oceano. Un altro loro nome vedico è quello di divas putrâsas, ossia figli del cielo; il cielo comprende qui evidentemente insieme la go ed il sindhu, ossia comprende le due forme mitiche, sotto le quali esso si manifesta nella tenebra notturna e nella nuvola tempestosa. Il nome di divas putra è pure dato a Parg'anya, il temporale e il Dio del temporale, nella quale caratteristica Parg'anya ed i Marutas si trovano pertanto invocati insieme, perchè diano la pioggia; così troviamo congiunti insieme come duali ora Parg'anya e Vâta, ora Vâta e Parg'anya, in quel modo stesso con cui vanno ancora insieme Messer Vento e Madonna Pioggia. E poichè il Dio tonante e fulminante nel temporale piglia nome d'Indra, i Marutas sono chiamati Indravantas, ossia accompagnati da Indra, ed Indra stesso è denominato Marutvan, ossia accompagnato dai Marutas. In questa relazione col cielo nuvoloso, burrascoso, lampeggiante, tonante, pluvio, i Marutas sono celebrati come fiammeggianti, rosseggianti, aurei, splendidamente vestiti con vesti d'oro, aventi nelle mani lancie fulminee, anelli ai piedi, luminosi pendagli sul petto, e ciuffi d'oro sul capo. La natura di guerrieri, nel cielo tonante, è evidente, quando li udiamo chiamare vagrahastâs, ossia aventi nelle mani i fulmini; ma la loro propria natura è sempre quella di venti anche [152] quando si congiungano, come lo Spirito Santo, con le lingue di fuoco; onde li vediamo nell'inno 78º del X libro del Rigveda, risplendere quali vatâsas o venti furiosi impetuosi, come le lingue dei fuochi (agnînâm na g'ihvah virokinas). Nell'Atharvaveda (IV, 27) i Marutas portano nel cielo le acque dal mare, e dal cielo le versano sopra la terra; nel 38º inno del I libro del Rigveda essi oscurano il cielo per mezzo della burrasca acquosa, e ne inondano la terra; ed aprono quindi nuovamente al sole chiuso nella nuvola la sua via celeste. Il vento aduna le nuvole; il vento, insieme coi fulmini, le risolve in pioggia e le dissipa. Tuttociò è un fenomeno naturale, che la poesia potè cantare senza aver bisogno d'immagini mitiche. Ma il mito, anzi il massimo de' miti, si creò per l'appunto nel cielo tonante; e il vento, che muove le nuvole e scatena la tempesta, divenne uno de' principali collaboratori del mito. Il cielo mattutino e vespertino diede occasione a molti idillii e a molti drammi celesti; la grande epopea divina è nata nel cielo tonante, e specialmente nel cielo tonante di primavera. Indra, Zeus, Jupiter, Perkun, Odino trionfano fulminando e tonando. E, poichè i fenomeni della primavera presentano molta analogia con quelli dell'aurora mattutina, de' molti miti che si riferiscono all'aurora, una parte si riscontrò pure ne' fenomeni del cielo tempestoso. Dall'aurora, come dalla nuvola, vien fuori il sole; il sole caccia, disperde, uccide il mostro tenebroso notturno; il sole fulminante atterra il mostro che copriva il cielo, che tratteneva le acque, la pioggia, il nemico Vritra copritore, trattenitore. La somiglianza de' fenomeni che si riferiscono al sole uscente dalla notte con quelli che si riferiscono al sole uscente dalla nuvola, fece sì che una parte de' miti del cielo nuvoloso si trasferisse nel cielo notturno; e Indra si trovi [153] dominante in entrambi i cieli; ma, mentre nella sua lotta contro i mostri tenebrosi della notte Indra ha per suoi principali compagni gli Açvinâu, nella sua lotta contro il mostro tenebroso della nuvola, i principali compagni d'Indra appaiono i Marutas.
L'alato Eros rappresenta ancora una forma del venticello mattutino, che si unisce con la vergine aurora per generare il sole. L'Eros è chiamato nell'India col nome di Kâma, ossia l'Amore, il Dio d'amore. Il vento dicemmo negli Inni vedici farsi nascere ora dall'oceano, ora dal latte della vacca celeste; il venticello mattutino spira con l'alba, l'aurora viene fuori dall'alba, come Aphrodite vien fuori dalla spuma del mare.
Una delle qualità del vento, celebrate dal Rigveda, è quella di andar come vuole: questo Dio va come vuole (yathâvaçam c'arati devah eshah). Ho già avvicinato l'aggettivo vâyu, «desiderante,» con l'appellativo vâyu, «vento,» accostando le radici vâ e van (amare, onde Venus); questo Vâyu appetente, questo Vâyu desiderante riesce quindi un perfetto equivalente di Kâma, l'amante, l'amore, e il Dio d'amore. Come pertanto nell'inno cosmogonico vedico (Rigv., X, 90) abbiamo il Vento qual primo nato dall'alito del maschio universale (vedemmo pure i Marutas denominati maryâs, ossia maschi), così nell'inno cosmogonico 129º del X libro del Rigveda ci si rappresenta come prima creazione Kâma, ossia il Desiderio, l'Appetito, l'Amore. «Kâma nacque primo, che fu il primo seme generatore dell'anima.» Così l'Eros di Esiodo fu il primo nato dal caos. Anima degli Dei, germe del mondo, vedemmo chiamarsi vedicamente il vento; la natura dello Spirito Santo e quella d'amore sono identiche. Il vento mattutino congiunto con la vergine aurora fa uscire il sole; così la colombina di Casa Pazzi annunzia in primavera il sole [154] risorto; così Tertulliano dice della colomba (che vedemmo già essere sacra nell'antichità ellenica alla Venere Aphrodite, una forma ad un tempo dell'aurora e della primavera, l'aurora dell'anno) ch'essa era: in summa Christum demonstrare solita, come figura dello Spirito Santo, l'Eros cristiano. Il mito ellenico d'Amore e Psiche è la forma più poetica che abbia assunta la rappresentazione degli amori del venticello con la vergine. L'amore al pari del vento si rappresenta alato; il pensiero e l'affetto volano; perciò l'inno 85º del I libro del Rigveda ci rappresenta i corsieri dei Marutas o venti rapidi come il pensiero (manog'uvas). Il vedico Kâma ci si rappresenta come figlio della Çraddhâ, che poi divenne la fede; così nel nostro dogma, prima appare la Fede, poi la Speranza, terza la Carità. Dalla fede provengono la speranza e la carità infiammate. In un lungo inno dell'Atharvaveda, riferito dal Muir,[34] troviamo il Dio Kâma, ossia l'Amore, come terza persona di una trinità, nella quale appare primo Indra e secondo Agni: tutti tre salgono sopra lo stesso carro, e cacciano lontano le tenebre maligne. Kâma piglia in quest'inno aspetto di un Dio guerriero, e si unisce al battagliero Indra contro i demoni notturni, come i venti Marutas si uniscono specialmente col battagliero Indra contro i mostri della nuvola. Nel quale carattere Kâma tiene della natura di Ares e Marte (Mamers) Gradivo fratello ed amante di Venere, che corrisponde pure all'indiano vento Marut, guerriero per eccellenza; Marte come i Marutas è un guerriero per passione, ama la guerra per la guerra, è violento, impetuoso, e con tutto ciò, come il vento, tenero per le donne. Il Dio della guerra della tradizione brâhmanica Kârttikeya è figlio di Agni, il Dio del fuoco, [155] uno degli appellativi del quale è pure Kâma; l'Eros ellenico si raffigura come figlio di Marte, Ares.
Nel citato inno dell'Atharvaveda si nomina primo Indra, il divas pati, il Zeus ellenico; secondo Agni, terzo Kâma. Agni e Kâma sono vicini tra loro come il Figliolo e lo Spirito Santo; ad Agni, figlio delle acque, s'accosta, nella sua forma di spirito alato, l'Amore, che combatte e dissipa la tenebra. Nelle prime rappresentazioni della Trinità cristiana occorre il Padre che esce da una nuvola (Indra, Zeus), il Figlio che sta nell'acqua (Cristo), lo Spirito Santo che gli aleggia sopra. Indra, Agni, Kâma, del citato inno dell'Atharvaveda, ci rappresentano una trinità analoga. Ma più spesso gli Inni vedici raffigurano uniti insieme Indra e Vâyu, Indra e i Marutas; Kâma essendo un equivalente del vento, Kâma battagliero trovasi pure intento con Indra a cacciare i malvagi nemici; l'ellenico Ares, figlio di Zeus e fratello di Venere, è ancora una forma di questo vedico Kâma, che ha insieme le qualità di un guerriero e quelle di un amante. E come Dio d'Amore si rappresenta non solo alato, ma belligero; non solo in forma di rapida amorosa colomba, ma veloce, impetuoso uccello, Garuda o Garutmant, Garutvant; ed il Marut e il Marte rappresentano, ad un tempo, la forma dell'amore violento ed il guerriero; il guerriero è un amante e l'amante un guerriero. La parola indiana che esprime l'odio è dvish; or bene dvish non è altro che un desiderio violento; la radice ish ha due significati analoghi: l'uno è quello di arrivare, penetrare, spingere; l'altro è quello di desiderare, volere. Il desiderio è il moto verso una cosa amata; assalendo con violenza l'oggetto, ossia quando l'appetito diviene impeto, l'appetente impetuoso, l'amatore riesce un guerriero. Per questa stessa associazione d'idee, le parole greche Ares, Eros, [156] Eris, poterono avere una radice comune ar analoga di Var.[35] Vara è in lingua indiana, come Kâma, il Desiderio, e quindi lo sposo desiderato, l'amore della sposa, l'oggetto de' suoi amori, il bello, il prediletto, dalla radice var, «desiderare, volere, amare» (cfr. Varya che si dà pure come un appellativo del Dio d'amore), e, certamente, nel suo senso primitivo spingersi verso, penetrare, per la stretta analogia che passa tra le radici ar e var, cui è da aggiungersi ancora tvar, che vale affrettarsi, andare in fretta verso, identica a quella che abbiamo notata fra ish, «penetrare» ed ish, «desiderare.» Io avevo ritenuto fin qui che la parola indiana dvish, che esprime l'odio, valesse propriamente il desiderio in due, e che nella parola duellum, da cui nacque bellum, fosse contenuta la stessa idea di un velle in due. Ma, per quanto una simile etimologia possa illudere, uno studio meglio approfondito mi obbliga a rifiutare questa illusione etimologica, ed a considerare il latino duellum come parola corrispondente della radice tvar, «andar con impeto,» da raffrontarsi con var e ar (per la mediazione di dvar), ed il sanscrito dvish, «odio,» come un equivalente originario di tvish, che vale nel linguaggio vedico, impeto, furia. La guerra è una furia, una Erinni; Tvaritâ è un appellativo della furia indiana Durgâ. Eris e la Erinni sono le impetuose, le furenti; Ares è l'impetuoso, il furioso; Arai chiama Eschilo le Erinni; e non è per noi quindi nessuna meraviglia che il vedico guerriero Vâyu il vento abbia sposato la rapida, ossia violenta Saranyû, in cui Max Müller riconosce l'aurora, ed il Kuhn il fulmine, l'uno l'Elena, l'altro la Erinni, e tutti e due i dotti con molta ragione. Il loro torto, se torto [157] vi ha da essere, incomincia solamente, per quanto mi pare, nell'isolare come essi fanno le loro ragioni reciproche invece di porle d'accordo. Saranyû vale la rapida; le radici ar, sar ebbero significato comune; il vedico ara vale veloce, e sarat ha lo stesso senso; Saranyû valse forse la corrente velocemente o la corrente dietro il veloce, e s'interpetrò forse per la corrente via dal veloce; la leggenda vedica rappresenta Saranyû che fugge via, in forma di cavalla, per non essere raggiunta dallo sposo che le fu destinato dal padre, e che piglia nome ora di Vâyu ora di Vivasvant, ma con cui finisce pure con l'unirsi per generare ora Yama, ora i due Açvinâu. Certamente vi sono tra la leggenda vedica di Saranyû e la ellenica di Elena molti più caratteri affini che non si trovino tra essa ed il mito delle Erinni. Ma è un solo punto che divide un mito dall'altro. Quello che qui importa notare è che come nel linguaggio vedico, presso ara, penetrante, veloce, troviamo ari il violento e quindi il nemico, così presso l'Eros ellenico troviamo l'Eris, le Erinni od Arai ed Ares; così nel sanscrito, presso ish il desiderio, troviamo ishira il fuoco, ishu la saetta; presso ishma equivalente di Kâma desiderio, troviamo Ishma equivalente di Kama o Kandarpa il Dio d'amore, ishvâsa arco ed arciere. Il Dio amante, il Dio penetrante si trasforma così in Dio saettatore; il veloce, l'ardente, l'alato si fa guerriero. Un inno dell'Atharvaveda (III, 25) ci rappresenta già il Dio Kâma che con un dardo aguzzo e formidabile ferisce il cuore.[36] Kâma raccoglie dunque in sè le qualità erotiche ed eroiche dell'Eros che distinguono il Dio Ares e Marte greco-romano, e che si trovano già riunite nei vedici Marutas e nel figlio di Marut Hanumant, il prediletto di Sita presso il Râmâyana, [158] premiato con amore riconoscente qual suo liberatore; nel figlio del vento Bhîma, nel quale, presso il Mahâbhârata, confida specialmente la sposa dei fratelli Pânduidi Drâupadi, e cui si elegge come proprio sposo la sorella del mostro Hidimba. Nella figura di Kâma e di Eros prevale l'amatore; nella figura dei Marutas e di Ares e Marte, il guerriero; Kâma è piuttosto idillico, i Marutas sono specialmente eroici; ma i loro caratteri tuttavia s'incontrano talora, a motivo della loro prima materia mitica comune, ch'è il vento: abbiamo già detto che nella mitologia ellenica Eros appare figlio di Ares, ossia Amore di Marte. In Roma le feste di Marte si celebravano nel mese di marzo, ossia nel noto mese dei venti; e i giuochi, coi quali si celebravano, chiamavansi equiria, dalle corse de' cavalli. Così sono spesso celebrati negli Inni vedici i cavalli dei venti, dei guerrieri Marutas, rossi, aurei, macchiettati (scambiatisi talora con macchiettate antilopi). I Marutas combattono con le lancie, come il Marte latino si manifesta congiunto con Quirinus, il Dio armato di lancia. Nel Rigveda la loro forza, il loro valore, la loro onnipotenza si celebra dai poeti in modo che il loro sommo duce, il Dio Indra, ne piglia dispetto e gelosia. Di questa gelosia tra Indra ed i Marutas troviamo parecchi indizii negli Inni vedici; Indra si sdegna delle lodi e delle oblazioni che i devoti offrono ai Marutas, porta via ad essi i tori ch'erano loro stati offerti, e minaccia di annientarli; allora il devoto pone, per timore d'Indra, da parte le oblazioni destinate ai soli Marutas; il saggio Agastya interviene a pacificare gli Dei fra loro, e si risolve di non offrir più tori ai Marutas, senza offrirne pure nel tempo stesso ad Indra. Queste nozioni leggendarie, che si formano sopra il mito, provano solamente la stretta relazione che hanno i Marutas col cielo tonante e fulminante; [159] quando i Marutas ed Indra si separano e sono in discordia, ossia quando i venti appaiono isolati, senza i fulmini ed i tuoni, fuori del cielo tempestoso, pèrdono della loro grandezza eroica; il vento diviene un personaggio epico nel solo cielo tenebroso e tempestoso, ma in quest'ultimo specialmente; perciò si spiega la stretta relazione di Indra tonante e pluvio coi Marutas, di Zeus con Ares e con Marte, di Odino con Thor e con Thunar.
[161]
Noi siamo presso che giunti a mezza via, e non abbiamo fin qui incontrato ancora alcun Dio, il cui appellativo non sia al tempo stesso un nome comune. Noi discorremmo, nel vero, del Cielo, dell'Aurora, del Sole, della Luna, del Fuoco, dell'Acqua, del Vento, ed abbiamo potuto persuaderci come non solo gli Dei che descrivemmo siano congiunti con que' fenomeni e con quegli elementi della natura celeste, ma come, senza di essi, non sarebbero nati e non avrebbero potuto sussistere in alcun modo. Chè, se non ci accadde nè pure fin qui di trovarci di fronte alcun Dio, con persona viva bene spiccata e distinta (se bene in ciascuno di essi ci sia stato possibile il riconoscere alcuni caratteri specifici), di questo, se così posso chiamarlo, difetto nella personale evidenza del mito, la ragione è la stessa origine fisica del mito, della quale gli antichi creatori di miti dovean serbare viva la coscienza. Il fenomeno fisico è talora cantato negli Inni vedici come tale, talora rappresentato con una immagine animata od animale. Questa immagine può scomparire per ritornare; ma ritorna sempre in fenomeni somiglianti: essa serba cioè sempre alcuna traccia della sua prima origine, non solo celeste, [162] ma congiunta con un ordine speciale di fenomeni e di relazioni celesti. Così dicemmo, che, per la loro conforme capacità d'allargarsi, la Prithivî celeste è ora la nuvola, ora la tenebra, ora l'aurora; per la loro comune mobilità, l'aurora come la nuvola piglia il nome di go, e, con questo appellativo, poichè go è chiamata la vacca, si immaginò la vacca aurora, la vacca nuvola. Il mito primitivo ha sempre dunque le sue radici in un terreno fisico che gli è proprio, ossia si produce in un ordine di fenomeni fisici celesti, che si può presentare con parecchie varietà, ma in ciascuna delle quali si conservano alcuni di que' caratteri particolarmente geniali ad una particolare famiglia mitica. De' miti che nascono, gli uni cadono senza vegetare sopra lo stesso terreno che li produce; gli altri germogliano in modo che si vede solamente la pianta, e non si può più, se non per una diligente investigazione, ritrovarne le radici fondamentali. De' nomi, alcuni hanno una scarsa virtù etimologica, altri recano invece una viva potenza scultoria; quelli che esprimono troppo poco, e quelli che scolpiscono molto vivamente, sono efficaci operatori di miti: l'açu, che diviene açva, ossia ancora il rapido, poichè açva è pure il cavallo, genera il Dio cavallo; l'urvâçi vale propriamente la vasta penetrante, la vasta avanzantesi, e potremmo aggiungere la vasta rapida; nella leggenda di Urvâçî abbiamo veduto che essa è l'aurora celebrata come la prima ad arrivare, non solo, ma ch'essa fugge da Purûravas, il quale la insegue. Io non ho bisogno d'avvertire la stretta parentela mitica fra questa Urvâçî, che passa fuggente dal proprio sposo e Saranyû, figlia di Tvashtar, la quale in forma di açvâ, ossia di rapida, fugge dallo sposo Vivasvant destinatole dal padre. Ma açvâ, oltre la rapida, significò pure la cavalla; quindi da un equivoco nato sopra [163] una parola di potente significato etimologico, il mito mostruoso della Dea aurora rappresentata come açvâ o cavalla, e del sole che si fa açva rapido, ossia cavallo per inseguirla, e per congiungersi con lei. Presso queste parole di una singolare potenza etimologica, ve ne sono altre che non ne hanno quasi più alcuna; tale, per esempio, Brahman, che servì poi a denominare il Dio supremo dell'Olimpo brâhmanico. Non rappresentando questo nome, in modo espressivo, nulla di specifico, potè adoperarsi, per qualche ideale concepimento, a significare il nume universale, quando, popolatosi il cielo di numi, si sentì il bisogno di dar loro un reggitore, quando, scemato nell'uomo il sentimento della propria energia, si sentì il bisogno di adorare e d'invocare, con un sol nome, tutte le forze della natura sovrastanti all'uomo. Ma, tra un periodo e l'altro di creazione mitica, quello con cui i miti principiano e quello con cui essi finiscono, vi è un periodo intermedio, nel quale i miti si svolgono, ne' quali si vede distinta una persona divina, e non si scorge quasi più il fenomeno fisico che la muove. A studiar questo periodo siamo ora pervenuti nella nostra peregrinazione a traverso l'Olimpo vedico. Noi arriviamo ad un momento, nel quale il Dio incomincia ad essere qualche cosa, qualche persona vivente per sè; esso si estrinseca artisticamente col suo appellativo dalla immediata realtà fisica, per divenire specialmente un carattere drammatico. Vedemmo già staccarsi l'eroina dall'aurora, l'eroe dal vento, dal fuoco, dal sole, dai fenomeni del cielo tenebroso e tempestoso; ma il loro carattere eroico o ci apparve mobile ed incostante, o si confuse intieramente col carattere del fenomeno fisico. I Marutas ci conservarono più fedelmente il loro tipo eroico, e però li studiammo sul punto di passare a considerar di proposito [164] il mondo eroico vedico; ma dicemmo pure che, come il loro nome, così le loro opere lasciano trasparire la loro propria natura di Venti. Ora passiamo invece a studiar numi, gli appellativi de' quali non ci rivelano punto il loro speciale carattere fisico celeste. — Tvashtar dice il fabbro; Indra, come vedremo, l'intermedio; Açvin, il cavaliero; Yama, l'infrenatore: evidentemente questi quattro appellativi non lasciano a noi trasparire alcun fenomeno fisico immediato; e pure, fra tutti gli Dei vedici, essi son quelli che hanno carattere più spiccato e costante; anzi, se si aggiunga a questi quattro numi l'Aurora ed i Marutas, si può dire d'avere in essi rappresentato tutto ciò che l'Olimpo vedico può offrirci d'essenziale.
Il nome del nume non basta dunque più a tradirci la sua natura fisica. Ma ciò non toglie tuttavia che questa non possa venir rintracciata, e che non ci sia concesso di determinare in modo probabile l'ora ed il campo celeste, nel quale il Dio si manifesta.
A me verrebbe, anzi ogni cosa, la tentazione di domandarvi se non vi è mai accaduto di fantasticare, in solitudine montana o campestre, con l'occhio rivolto ad un bel tramonto di sole; e, posta questa prima domanda, vorrei sapere da voi se non siete stati colpiti di viva meraviglia nell'osservare le mille foggie fantastiche che piglia il cielo ad Occidente, ora rosso color fuoco come una fucina ardente, ora oscurantesi come per fumo improvviso che ingombri la vasta fucina celeste. E perchè io suppongo la immaginazione vostra non meno vivace della mia, vi racconterei che una sera d'estate (le feste vulcanalia celebravano i Latini il 25 agosto) dai colli di Signa io considerava un tramonto di sole straordinario. Il sole avea già ritirato i suoi raggi, ed il cielo occidentale ardeva in una forma di meravigliosa [165] architettura; pareva tutto un tempio illuminato, con archi e colonne d'oro, con uno sfondo scuro, dal quale vedevansi, di tratto in tratto, come avviene nella stagione estiva, balenar lampi; a un tratto vedonsi le ignee colonne crollare, il tempio precipitare, il fantastico edificio svanire, ed io esclamo involontariamente: Ecco Sansone! Sì, Sansone che perde la forza, nella sera della sua vita, quando gli tagliano i capelli, come il sole quando perde la sua chioma. E sapete voi chi è la Dalila, la bella traditrice? L'aurora vespertina che attira nelle sue lusinghe il sole, e lo accieca, ossia lo toglie alla vista, e lo spoglia dell'ornamento della sua chioma, ossia gli toglie la forza. Ma l'acciecato Sansone si vendica, facendo crollare il tempio, ove si festeggia, sopra il capo de' festeggianti suoi nemici, i compagni della Dalila. Più spesso ancora m'è accaduto di osservare nel cielo vespertino la magica fucina ardente, ed il sole che s'era chiuso in essa, non meno che il sole chiuso nella nuvola, mi rappresentava ora lo stregone, ora il famoso Ciclope, il fiero monoculo, di cui si trovò poi l'equivalente sulla terra nel cratere vulcanico, lo spaventoso occhio ciclopico. E, dalle frequenti osservazioni del cielo vespertino, non mi rimase più alcun dubbio che il fabbro mitico non sia da ricercarsi in esso come nel cielo nuvoloso lampeggiante. Ma io non sono un autore, sì bene un espositore di miti; e voi non vi contentereste sicuramente delle mie illusioni mitiche; ed avreste ragione di non contentarvi, ove non si potesse pur dimostrare come ne' miti del mostruoso vedico Tvashtar, dello zoppo ellenico Hephaistos, dello zoppo latino Vulcano, tre rappresentanti bene determinati del fabbro celeste, che diviene poi il mago delle novelline, il diavolo zoppo della leggenda popolare cristiana, tutto concordi con quelle immagini che si rinnovano al rinnovarsi [166] d'un antico fenomeno, ossia del chiudersi del sole nella notte, passando per le fiamme del cielo vespertino, e del chiudersi del sole nella nuvola, onde si manifesta col guizzare dei lampi.
Ed ora esaminiamo la natura del Dio vedico Tvashtar.
Incominciamo dall'etimologia della parola. Tvashtar vale vedicamente il fabbro, il falegname, l'artefice, dalla radice tvaksh, come in sanscrito han lo stesso significato le parole takshitar, takshaka, taksha, dalla radice taksh. Ma il fabbro, il falegname, propriamente, non crea dal nulla; esso forma soltanto, ossia dà una forma, una veste: il senso primitivo della radice tvaksh fu quello di coprire, vestire (come abbiamo presso la radice tvish, la radice vish, così è forse lecito presso tvaksh, «coprire,» ricordare tvac', «pelle» e la radice vas, «coprire, vestire;» il passaggio della palatale sibilante in cerebrale innanzi alla t dentale iniziale di suffisso che diviene quindi anch'essa una cerebrale, è ovvio nella fonetica sanscrita). Tvashtar, prima del fabbro, formatore, dovette essere il copritore, il velatore; ora questa coperta, questo velo, questa veste, questa pelle celeste può essere scura nel cielo tenebroso notturno, luminosa nell'aurora mattutina e vespertina, varia nel cielo nuvoloso. Perciò il sole che si chiude nella notte, il sole avvolto dalle luminose aurore, il sole chiuso nella nuvola, se non è egli stesso il copritore, il velatore, dà origine ad un suo alter-ego, che piglia nome ed ufficio di Tvashtar o Dio copritore, Dio formatore. Ma un Dio che abbia il potere di rendersi a suo piacere invisibile, di porsi sotto una cappa od un cappello invisibile, ossia di crear tali forme che lo rendano invisibile, di crearsi qualsiasi forma, di divenir viçvarûpa, ossia onniforme, non può operare che per arte magica; [167] e l'arte magica ch'egli conosce è appunto quella, per cui Tvashtar riesce nell'Olimpo vedico il più operoso degli operai divini (Tvashtâ mâyâh ved apasâm apastamah; Rigv., X, 53). Nel suo potere magico di creare qualsiasi forma, Tvashtar diviene in cielo l'artefice universale, del male come del bene; egli foggia, per esempio, armi fatate, armi di ferro dalle mille punte, fulmini d'oro ad Indra, ed egli stesso genera il nemico d'Indra, il mostro dalle tre teste, dalle sette corna, onniforme o Viçvarûpa come il padre, cui Indra ucciderà; poich'egli, divenuto fabbro, assunse pure anticipatamente le forme del creatore Brahman (Brahmanaspati si dà pure come creatura di Tvashtar, il quale gli appresta una scure di ferro). Noi diciamo del diavolo ch'esso non è poi tanto brutto quanto lo fanno. E nelle novelline popolari troviamo ora il buon mago, ora il diavolo benefico che ce lo provano. Ma il solo mito può dichiararci il senso di questa eresia. Per un ortodosso il diavolo non può essere altrimenti che brutto. Ma, quando ci possiamo persuadere che il diavolo mitico non è altro, insomma, se non il Dio, ossia il luminoso nascosto, non ci meraviglieremo di trovare presso il mostro, che conosce tutto il male, il sapiente che possiede tutte le malizie, e che può quindi fare il bene non meno che il male. Voi avrete inteso sicuramente raccontare qualche storiella popolare intorno al fanciullo creduto scimunito che va all'inferno, apprende dal diavolo ogni segreto, e torna alla casa paterna ricco e sapiente. Non vi rechi meraviglia l'intendere che gli Inni vedici ci offrono già i germi di questa storiella. Tvashtar, il fabbro per eccellenza, dalle buone opere (svapas, sukr'it), dalle ottime mani (supâni), il creatore, che può creare, a suo piacere, forme d'uomini, di donne, d'animali, ed ogni magìa, che conosce tutte [168] le vie segrete, il sapientissimo, è pure il ricchissimo, invocato perciò dal devoto per esserne arricchito. La ricchezza e la sapienza sono pure il dono dell'ellenico Plutone e del diavolo della tradizione popolare cristiana. Ma il diavolo non è solo. Tvashtar ha in sua compagnia ora gli Angirasas, specie di messaggieri, di angeli, ora le donne gnâs, g'anâyas; ed anche qui dovette accadere un equivoco del linguaggio, per la confusione della radice g'nâ, «conoscere,» con la radice g'an, «generare.» Delle donne si dice che ne sanno un punto più del diavolo: quando l'eroe mitico è tradito, a tradirlo interviene sempre una donna; quando è tradito il mostro, è la sua sposa o figlia innamorata del giovine eroe mitico che salva l'eroe minacciato di morte; la sorella del mostro Hidimba, nel Mahâbhârata, per amore dei giovani Panduidi, è cagione della morte del proprio fratello; nel Râmâyana, se Râma consentisse ad amare la sorella di Râvana, Râvana sarebbe perduto, senza che fosse necessaria la guerra micidiale che lo sposo di Sìtà imprende contro il re di Lañka. Le gnâs o donne sono quelle, con le quali, secondo gli Inni vedici, Tvashtar (una forma iniziale di diavolo vedico) esercita specialmente il proprio potere; perciò un devoto, nell'inno 35º del VII libro del Rigveda, lo invoca propizio insieme con le donne (Çam nas tvashtâ gnâbhir iha çrinotu).
Ma il diavolo non solo ha con sè buona compagnia, ma piglia pure allievi per istruirli; e, per lo più, avviene che l'alunno venga a superare il maestro, che il diavolo nuovo vinca l'antico, il che torna quanto a dire che il Dio vinca il Demonio, dopo essere stato nella casa del demonio; ossia lo stesso essere mitico entrando nella tenebra si duplica e moltiplica pel duplicarsi e moltiplicarsi di un'espressione mitica o più tosto per l'incontrarsi [169] di una serie duplice di espressioni mitiche. Si disse probabilmente da prima: Il sole è entrato nella tenebra; il vecchio sole è entrato nella tenebra; il sole imbecillito, il sole impoverito, ossia il povero imbecille è entrato nel regno tenebroso; ossia il povero inesperto, lo sciocco, o il finto sciocco, è andato all'inferno. — E si disse ancora: Il luminoso, aureo, ricco sole fu coperto dalla tenebra; la tenebra copre, nasconde i tesori luminosi; ossia la ricchezza, la luce sono nascoste dal demonio della tenebra. — Ed infine si conchiuse: Il povero imbecille entrato nel regno della tenebra trovò il signore del regno tenebroso o infernale, e gli sottrasse la scienza, ossia la luce, la ricchezza, i tesori, ossia l'aurora, l'aureo sole. In altre parole, il sole mattutino vien fuori luminoso, ossia sapiente, aureo, ossia ricco dalla tenebra infernale. La casa del diavolo nel mito incomincia nel cielo vespertino (o nell'autunno) e finisce a traverso la notte scura (o l'inverno), nel cielo mattutino (o nella primavera), il luogo in cui accadono le nozze dei due giovani sposi (il nuovo sole e l'aurora o la primavera) insieme col bruciamento della vecchia strega (la notte, la stagione invernale che avea incominciato le sue malìe nel cielo vespertino ed autunnale, cercando di precipitare nel pozzo la bella fanciulla, e di perdere l'eroe solare). La casa del diavolo si riproduce poi ancora per fenomeni fisici conformi nel cielo nuvoloso, lampeggiante, tonante, fulminante. Il vecchio sole, che si chiude nell'aurora vespertina (o nell'autunno) e poi si nasconde nella notte (o nella stagione invernale), nella selva notturna, nella caverna notturna, appare un mago, un demonio. Ma poichè al vecchio sole della sera (o dell'autunno) succede il giovine sole del mattino (o della primavera), questo appare ora suo allievo, ora suo figlio adottivo, ora suo genero, come Vivasvant, che sposa [170] Saranyû figlia di Tvashtar (abbiamo pur già detto che, invece di Vivasvant, appare talora come sposo di Saranyû il Dio Vâyu, il vento erotico che diviene quindi eroico, la brezza crepuscolare, lo zefiro primaverile che si trasforma nelle imprese mitiche in un vento gagliardo, che porta le montagne celesti, ossia le nuvole, come Hanumant, il figlio del Vento, trasporta nell'aria intiere montagne per fabbricare un ponte sul mare). Noi conosciamo, nella leggenda cristiana, il fanciullo Gesù, figlio adottivo del falegname, che nel tempo in cui sta nascosto, in cui impara l'arte del falegname ed altre cose mirabili, acquista, in breve, tanta sapienza che il buon falegname Giuseppe ne rimane confuso. La quaresima che precede la primavera è simbolo terreno della stagione tenebrosa annua o notturna. Paragonata la stagione invernale (e la notte) ad una selva notturna, il taglialegna, il falegname diviene l'abitatore naturale di quella selva; il vecchio sole nascosto nella selva notturna e invernale (e poi anche nella nuvola tenebrosa) è il falegname celeste. Ma, perchè da esso vien fuori il nuovo sole, questo si suppone figlio adottivo del falegname. Così dalla quaresima risorge il nuovo sole primaverile. Il punto medio della notte, il punto medio della stagione tenebrosa, della selva, del bosco mitico, dev'essere il tempo trionfale del falegname, ossia del taglialegna nella selva oscura; così si festeggia ancora dai Cristiani la mezza quaresima, col simbolo di una sega, la sega di San Giuseppe,[37] il cui giorno cade [171] per lo più verso la metà di quaresima, e che ha ufficio di dividere, di segare la quaresima per metà. La vecchia pignatta, che in Francia e in Piemonte e in Toscana (ove la chiamano pentolaccia) si rompe a mezza quaresima, è pure simbolo della brutta vecchia, della brutta stagione che se ne va. Così ancora suolsi dai fanciulli piemontesi, invece di una sega, figurar talora una testa di diavolo, il Dio del tempo tenebroso, e gettarla sopra le spalle dell'improvvido compagno, con le parole: L'asino è carico e nessuno lo sa. Quest'asino carico non è altro che l'asino di San Giuseppe, il quale salva dall'ira del perverso Erode il Dio neonato Gesù nell'Aigyptos, la regione nera, la regione scura, come dice l'etimologia della parola, ove, nella tradizione dorica, la rapita sposa di Menelao, Elena, si nasconde. (È mirabile la somiglianza in questo punto della leggenda dell'antico Giuseppe perseguitato che sta nascosto in Egitto, con quella di Giuseppe e Gesù fuggitivo in Egitto; il viaggio di San Giuseppe, nella tradizione cristiana è preceduto da sogni come l'andata in Egitto di Giuseppe l'antico; l'antico Giuseppe rivela la sua sapienza in Egitto, cioè nel paese scuro, così il figlio trafugato di Giuseppe nel tempo in cui sta nascosto, s'istruisce.) Nel tempo in cui Gesù sta nascosto, acquista la massima sua sapienza; uscendo dal suo nascondiglio, esso appare invece luminoso ed illuminante. Questo stesso carattere ha l'eroe mitico. Nel tempo, in cui i cinque fratelli Panduidi, presso il Mahâbhârata, fuggiti nelle selve stanno nascosti per sfuggire alle persecuzioni del perverso Duryodhana, ciascuno di essi apprende ed esercita un'arte [172] speciale, e vi riesce insuperabile. La leggenda vedica dei R'ibhavas, artisti ospitati nella stagione scura, ci rappresenta lo stesso mito.
Tvashtar è ora fabbro falegname, ora fabbro ferraio. Ma abbiamo veduto ch'esso non ha solo il potere di fabbricar cose, ma altresì forme animate, animali e uomini. Un inno del Yag'urveda bianco (XXIX, 9) ci fa sapere che il rapido cavallo (âçur açvah) nacque da Tvashtar; un inno del Rigveda (X, 184) ci dice che Vishnu prepara la yoni (vulva) e Tvashtar foggia in essa le forme; un inno dell'Atharvaveda (IX, 4) celebra Tvashtar come generatore delle forme degli animali; e non solo Tvashtar crea le forme, ma le crea con qualità perfette, ond'egli è pure celebrato nel Yag'urveda e nell'Atharvaveda per aver posta l'agilità ne' piedi del cavallo celeste. E non solo crea esso stesso delle forme, ma aiuta altri a crearne; dall'Atharvaveda s'apprende come la Dea Aditi, quando ebbe desiderio d'ottener figli, portò, come amuleto, un certo braccialetto (parihastam, certo il disco lunare, o il disco solare, essendo la luna come il sole celebrati quali generatori per eccellenza); Tvashtar, volendo aiutare una donna a partorire un figlio, le legò al braccio quello stesso braccialetto che Aditi genitrice celeste avea portato.
Quando Tvashtar comunica, nel cielo, l'arte sua ai R'ibhavas, questi suoi discepoli diventano, alla loro volta, immortali, ossia Dei. E della natura celeste dei R'ibhavas non si può avere alcun dubbio, quando intendiamo ch'essi, colla loro industria operaia, hanno fabbricato il carro bene rotante ed i cavalli d'Indra, e ch'essi hanno dato la giovinezza ai padri loro. Il vecchio sole della sera e dell'autunno si ringiovanisce al mattino ed alla primavera. Questa nozione mitica si spiegò così: Il vecchio sole è ringiovanito dal giovine [173] sole; ossia il giovine sole restituisce la gioventù al vecchio sole che lo generò, al vecchio suo padre od al vecchio sole che lo ammaestrò, al suo vecchio maestro. L'uno identico, considerato ne' suoi due aspetti divenne due, de' quali il primo è ora il padre, ora il suocero, ora il padrone, ora il maestro; il secondo è ora il figlio, ora il genero, ora il servitore, ora il discepolo. Abbiamo già toccato del Dio Indra, il quale dona la bellezza alla pia fanciulla che gli ha recato a bere l'ambrosia, e che era divenuta brutta all'accostarsi della notte; in grazia di quell'ambrosia, la pelle ispida, scura della fanciulla Apalâ, diviene luminosa del color del sole. Così come Tvashtar ha il potere di coprire con una pelle (tvac'), i R'ibhavas, discepoli di Tvashtar (Tvashtuh çiçyâh), fanno luminosa la pelle ai padri loro, ossia restituiscono ad essi la perduta gioventù. E poichè trovasi pure identificato Tvashtar con Savitar ch'è il sole, bisogna dire che il ringiovanito dai R'ibhavas è lo stesso loro maestro Tvashtar, ossia il vecchio sole, il Titone antico, che morrebbe nella notte e nell'inverno, se non venisse ringiovanito, risuscitato più luminoso al mattino ed in primavera. Così pure, lo ripetiamo, poterono confondersi nella leggenda cristiana il biblico Giuseppe, il sognatore, fanciullo perseguitato, che in Egitto, ossia nel paese scuro, acquista la ricchezza, la potenza, la ricchezza, col vecchio Giuseppe, sognatore anch'esso, che, per aver visto un sogno, trafuga il fanciullo perseguitato in Egitto. Il vecchio sole che si nasconde nella tenebra notturna od invernale, prepara la via del giovine Dio solare, mattutino e primaverile. Nel Rigveda (X, 70) Tvashtar è celebrato come il previdente che prepara le vie degli Dei (devânâm pâthah upa pra vidvân uçan yakshi), sotto questo aspetto Tvashtar ha natura benigna; così pure nella sua qualità di foggiatore d'armi fatate pel Dio Indra, [174] e di istitutore degli artisti divini, i R'ibhavas. Ma, poichè Tvashtar esiste solamente in quanto il sole sta coperto, quando il sole si scopre, quando il sole emerge dalla tenebra e dalla nuvola, quando Indra col fulmine squarcia la tenebra, l'opera di Tvashtar si distrugge, e Tvashtar piglia perciò in odio quello stesso Dio ch'egli ha armato per le battaglie, quello stesso artista ch'egli nella tenebra ha fatto luminoso, ossia ammaestrato, quello stesso sole fanciullo ch'esso protesse ed allevò, e che diviene, appena fatto potente, nemico di Tvashtar, mercè il quale si salvò, raggiunse la bellezza, la sapienza, la ricchezza, la potenza. Nelle novelline popolari l'eroe fanciullo, che fu in casa del diavolo per imparare la scienza, si serve di questa scienza medesima per ingannare, tradire il diavolo, rubargli la figlia, portargli via il tesoro, fuggire da esso; il diavolo o mago lo insegue rapidissimo, ma il fanciullo, che gli ha menato via il cavallo, ossia il rapido, ossia che vien fuori egli stesso in forma di rapido corridore, corre più veloce, e, per qualche malizia, si trasforma in modo che o sfugge alle persecuzioni del diavolo, o assume tale carattere, che in quel carattere si trova superiore al diavolo o stregone, e lo uccide. Evidentemente non è il senso morale quello che predomina in tali novelline; poichè, per quanto sembri bello ogni dispetto fatto al diavolo, l'ingratitudine è cosa assai più mostruosa che il diavolo non sia. Ma noi non ci dobbiamo occupar qui della morale dei miti, sì bene soltanto della loro realtà fisica, per la quale dai mostri fisici emergono mostri morali. Figurata la notte o la stagione invernale, come un mostro deforme, proteiforme, onniforme, come un drago che butta fiamme ora dalla testa, ora dalla coda (le due estremità del cielo infiammate nella sera e nel mattino, nell'autunno e nella primavera), immaginatosi che quel [175] drago mostruoso inghiotte ed attira nella sua spelonca per divorarlo l'eroe solare, nel veder riuscire, risalire vittorioso quest'ultimo al mattino o alla primavera, dalla parte opposta del cielo, dalla quale s'era visto tramontare nell'autunno e nella sera, s'immaginò che, ospitato nel seno della notte il sole vecchio, il sole rimbambito, il sole ritornato bambino (di sapientissimo ch'era), nell'ospitalità notturna s'ammaestri, s'erudisca a spese di quel mostro medesimo che lo trattiene presso di sè, per avere un servitore intelligente di più, o col proposito di perderlo alla prima occasione. Il mago, il diavolo, s'accorge in breve che il discepolo ha tanta malizia che sta per divenirgli superiore; nella seconda parte della notte e della stagione tenebrosa dell'anno il sole s'avvia verso il suo nuovo trionfo celeste. Allora come nella prima metà della notte e della stagione fredda, tenebrosa, il diavolo, sentendosi superiore, non nascondeva i segreti dell'arte sua all'ospite; nella seconda invece s'insospettisce, incominciandosi ad accorgere che l'eroe ospitato sta per pigliargli il disopra: da quel punto, nell'animo del mostro sorge l'invidia e il disegno di perdere il suo giovine e potente rivale: ma oramai questo, a misura che s'avanza, cresce in potenza, come invece il diavolo, a misura che lo insegue, sente venir meno le proprie forze; perciò il fine della notte, il fine della stagione invernale, il fine della tempesta, annunzia la morte del vecchio Tvashtar (propriamente il copritore, da tvash=tvac'+tar), ossia dell'opera propria, chiamata com'esso Viçvarûpa, onniforme, o Tvâshtra (appartenente a Tvashtar), o con altro nome, perfetto equivalente ideologico, Vr'itra (il copritore), che appare negli Inni vedici come il figlio di Tvashtar. È un punto appena quello che divide il Dio Tvashtar dal Dio pluvio e tonante Indra e dal suo nemico. Quando gli Inni vedici [176] ci dicono che Tvashtar il copritore e il foggiatore di forme prepara le armi ad Indra Dio pluvio e tonante, ciò val quanto dire che, senza il copritore, ossia senza cielo copritore, non vi sarebbe il Dio fulminante e tonante, ossia che Indra trova i suoi fulmini nel cielo coperto, che i fulmini si trovano nel cielo coperto e non fuori di esso. Tvashtar copre il cielo; il Dio fulminante e tonante trova le proprie armi in quel cielo coperto; e se ne serve per distruggere Vr'itra il mostro copritore, ossia quel cielo stesso nuvoloso, senza il quale Indra non potrebbe essere un eroe, anzi l'eroe più meraviglioso dell'Olimpo. Tvashtar ama la propria forma tenebrosa, e desidera conservarla; Indra, sebbene sia nato in essa, sebbene senza di essa la sua potenza si distrugga, ama distruggerla, per far del bene, liberando le acque, le vacche, le donne che Tvashtar, ossia il suo equivalente Vr'itra, tiene prigioniere, per liberare l'eroe o l'eroina solare che sta chiusa nella nuvola, per ritornare quindi egli stesso a splendere come cielo luminoso, come sommo signore del cielo. Gl'inni e le leggende del periodo vedico ci presentano però già Indra e Tvashtar come nemici. Di questa inimicizia essi ci recano come principal ragione la seguente: Indra bevette l'ambrosia nella casa di Tvashtar,[38] nelle coppe di Tvasthar, uccidendo il figlio di Tvashtar, ossia Vr'itra Viçvarûpa. L'oceano celeste si rasciuga, ora perchè Indra ne beve le acque ambrosiache, ora perchè, fulminando, le fa scorrere, e vuota così il barile celeste che conteneva il soma. Il Çatapatha Brahmana, interpretando la contesa fra Indra e Tvashtar per il soma, ci racconta la seguente storiella: «Tvashtar [177] aveva un figlio dalle tre teste, dalle tre bocche e dai sei occhi, chiamato perciò Viçvarûpa. Una delle sue bocche beveva l'ambrosia (soma), un'altra beveva vino (o bevanda spiritosa, surâ), un'altra era per le rimanenti cose da mangiare e da bere. Indra odiava quel Viçvarûpa, e gli tagliò le tre teste: da una bocca uscì l'uccello francolino, ch'è di color bruno come il re Soma; dall'altra uscì uno sparviere, e però quest'uccello grida con la voce rauca, con cui parla un briaco che ha bevuto liquori inebbrianti; dalla terza bocca uscì una pernice, dai colori screziati, poichè sembra che nelle sue ali siano gocciate stille di burro liquefatto e di miele; da tal bocca Viçvarûpa riceveva ogni maniera di cibi. Tvashtar s'accese d'ira, e dicendo: M'uccise il figlio, egli offerse ambrosia agli Dei, Indra eccettuato. Indra pensò: Mi allontanano dall'ambrosia; e, come un forte adopra verso un debole, anche non invitato, si cibò del soma purificato che era nel vaso. Ma questo gli fece danno: esso gli uscì tutto dalla bocca, e dalle altre parti vane del corpo. E Tvashtar salì in collera, dicendo: Chi, non invitato, si cibò del mio soma? egli stesso interruppe il proprio sacrificio; e quel resto di soma, ch'era rimasto nel vaso, adoperò (per accompagnare con un sacro rito l'imprecazione), dicendo: Cresci Indra-nemico (Indraçatruh), così disse. E poichè disse Indra-nemico cresci, perciò Indra lo uccise; ma se invece egli gli avesse detto: D'Indra nemico (Indrasya satruh), cresci, egli avrebbe potuto uccidere Indra.»
Questa leggenda è ancora di formazione vedica, e, sebbene relativamente moderna, serve pure ad indicarci la forza che s'attribuiva nell'età vedica alle imprecazioni, per cui anche un semplice lapsus linguae dell'imprecatore poteva rivolgere sopra di sè gli effetti di [178] quell'imprecazione ch'egli scagliava sopra il suo nemico. In questo Tvashtar imprecatore noi abbiamo poi una specie di Dio Brahman, il quale combinerebbe col nome di Brahmanaspati o signor della preghiera, dato pure in alcuni Inni vedici al figlio di Tvashtar. E, poichè ben presto l'uccidere un Brâhmano divenne il massimo delitto sociale indiano, Indra uccisore di un Brâhmano nel cielo cadde in disgrazia, divenne odioso alla casta brâhmanica, che gli sostituì invece Brahman nel principato dell'Olimpo, mentre Indra rimase solo più il Dio della casta guerriera, la quale nel fine del periodo vedico e nelle leggende brâhmaniche troviamo spesso in fiero contrasto con la casta de' Brâhmani.
Uno dei nomi vedici di Indra come uccisore del mostro, del tricipite Viçvarûpa, è Trita Aptya, il quale conoscendo le armi paterne combatte, taglia le tre teste delle sette corna del figlio di Tvashtar, libera le vacche. La parola Trita vale propriamente terzo; suoi fratelli sono Ekata che val primo, e Dvita che val secondo. Come, nelle novelline popolari, il terzo fratello è sempre il più valoroso, così la grande impresa mitica celeste è compiuta da Indra come Trita, ossia come terzo.[39] Trita troviamo identificato ora con Indra, ora con Marut, Vâta, Vâyu; così nel Mahâbhârata, Arg'una figlio d'Indra e Bhîma figlio del Vento fanno prodezze insieme. Bhîma precipitato, per insidia, nel regno de' serpenti, vi beve l'acqua della forza, come il vedico Trita è calato nel pozzo, come Indra trova nel pozzo il soma, ossia la bevanda ambrosiaca, dalla quale egli trae la sua forza; [179] in una leggenda del Mahâbhârata si narra che Trita nel pozzo appresta il soma. Il sole che si tuffa nella nuvola e nella notte tenebrosa, nell'acquosa stagione invernale, retta specialmente dalla luna (Soma), come il giorno e l'estate dal sole, vi acquista la sua forza, e ne vien fuori. Indra pluvio e tonante primaverile, Indra pluvio e tonante estivo, e Trita che piglia forza nelle acque, che sconfigge il mostro trattenitore delle acque, che uccide il figlio di Tvashtar, hanno natura comune. Ma in quali relazioni di parentela stanno Trita ed Indra con Tvashtar? Tvashtar identificandosi con Prag'âpati, con Dhâtar, con Savitar, con Pûshan, appare un Dio creatore. Dicemmo già ch'esso diede vigore ad Indra. Trita si dà nella leggenda brâhmanica come figlio di Prag'âpatî. Ma Prag'âpati, o signor delle creature, è un termine troppo generico, ed ogni creatura si può considerare come opera di Prag'âpati. Tvashtar riproduce, invece, particolarmente il carattere del vecchio padre, del vecchio suocero, che accoglie, per volere del fato, inconsciamente, incautamente quello che lo dovrà perdere. Indra e Trita devono tutto il secreto dell'arte loro a Tvashtar, ma di esso si valgono appunto per distruggerlo. Indra e Trita sono in alcun modo figli adottivi, figli inconsapevoli del padre Tvashtar inconsciente che prepara il suo danno senza saperlo. Egli ha un proprio figlio simile a sè, Triçiras, ed una figlia Saranyû; sposa la figlia a Vâyu, e secondo una nozione più frequente a Vivasvant. Ma Vâyu s'identifica con Trita, e Trita con Indra. Perciò Trita od Indra ci dovrebbe apparire al pari di Vâyu come genero di Tvashtar, accolto da lui come figlio, ospitato, nutrito, ammaestrato nell'arte sua, fortificato a tutto suo detrimento. La leggenda cristiana ha fatto di Giuseppe il legnaiuolo lo sposo impotente della Vergine, che lo Spirito Santo [180] viene a fecondare; la leggenda vedica ci dà il vecchio legnaiuolo Tvashtar, il quale sposa la vergine sua figlia Saranyû ora a Vâyu, il sacro vento, ora a Vivasvant, uno de' nomi del giovine sole. La leggenda del Mahâbhârata ci offre il sole che visita in segreto nella casa paterna di lei la vergine Kuntî, si unisce con essa, le dà un figlio, ma l'assicura che rimarrà, dopo il parto, sempre pura; lo zefiro ed il sole s'uniscono ogni giorno con l'aurora mattutina, e questa riappare ogni giorno vergine, o sempre giovane, come dice l'inno vedico, quantunque antica. L'aurora, quantunque antica, è sempre capace d'essere fecondata; quindi se, nella Bibbia, la vecchia Sara, al passare degli angeli, si feconda, se la madre di Sansone, dopo l'annunzio di un angelo, quantunque creduta sterile, si feconda dell'eroe, la cui forza è nella chioma; noi abbiamo sempre lo stesso fenomeno dell'aurora o della primavera, che, quantunque antica, quando zefiro spira, quando il nuovo sole si mostra, ci appare giovine, pura, e si rifeconda. Interpretati coi fenomeni naturali, i miti pèrdono il loro carattere mostruoso. Così ancora, quando il Mahâbhârata ci racconta che Pându, il pallido, è impotente a generar figli nel seno della sua sposa Kuntî, la quale, consenziente lo sposo, riceve la visita degli Dei Yama, Vâyu ed Indra che vengono a fecondarla; noi abbiamo ancora un mito che ci rappresenta il fecondarsi dell'aurora e della primavera, a cui non bastando Pându, il pallido, l'imbelle sole invernale, perchè divenga viva ne' figli e nelle opere, s'inviano il sole luminoso o sapiente Yama, il vento vigoroso Vâyu, il tonante, fulminante, pluvio ed agile Indra primaverile a fecondarla. Ma, per tornare agli Inni vedici, non è dubbio che abbiamo in essi un divino falegname Tvashtar che sposa la propria figlia a Vâyu o Vivasvant, de' quali Indra e Trita appaiono equivalenti. [181] Indra e Trita si mostrano quindi nemici di Tvashtar, ma prima essi furono beneficati da esso, avendo essi da Tvashtar appreso l'arte, per cui riescono invincibili. Indra o Trita è l'artista che supera il suo maestro. E come Indra s'identifica con Trita, così tre si rappresentano i R'ibhavas od artefici celesti, discepoli di Tvashtar; Indra è il R'ibhu per eccellenza; perciò i R'ibhavas appaiono per lo più congiunti con Indra; ed è il terzo R'ibhu quello che fa il gran miracolo, il miracolo più bello, pel quale Tvashtar stesso ne piglia invidia. Essi aveano già fabbricato con l'arte loro appresa da Tvashtar de' carri, col loro attacco, cioè vacche e cavalli, e altre cose mirabili; essi aveano pure la virtù di ringiovanire i loro genitori (Sudhanvan è il nome vedico dato al padre dei R'ibhavas); ma tutto ciò all'ingenuità del poeta vedico pareva ancora poco: esso riserbava invece tutta la sua meraviglia per i R'ibhavas, i quali da una sola coppa sacrificale ne aveano, abilissimi prestidigiatori, formate quattro. E questo portento lo compie il più giovine de' tre fratelli. Tvashtar, il loro maestro, in alcuni inni, appare soddisfatto di quella meraviglia d'arte; in altri, invece, lo vediamo vergognoso. Egli avea fatto quella coppa che i R'ibhavas aveano moltiplicata per quattro; vedendo alterata l'opera sua, e certamente migliorata, egli va a nascondersi confuso tra le sue donne (gnâsu), ove si sdegna e si prepara ad uccidere i suoi rivali. Tvashtar disse così: Uccidiamo quelli, i quali hanno profanata la coppa, nella quale gli Dei venivano a bere. Poichè tra que' profanatori si trovava il Dio Indra in persona, il cui potere è appunto quello di estendere il cielo celeste, si comprende come sia avvenuto l'espandimento della coppa di Tvashtar, e come (una specie di Secchia rapita celeste), dopo quell'espandimento dell'opera di Tvashtar, [182] Indra ed i R'ibhavas si separino da esso, e la guerra s'accenda nel cielo per cagione della coppa, in cui si beve, come poco innanzi abbiamo veduto Tvashtar guastarsi con Indra per cagione della bevanda divina, che egli era venuto a bere, per propria forza, senza essere stato invitato dal guardiano del soma alla libazione. Vedremo nella prossima Lettura qual Dio sia stato negli Inni vedici questo Indra, che qui ci appare già indicato come un artista meraviglioso, come un bevitore potente, e come un guerriero di forze straordinarie.
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Fra tutti gli Dei dell'Olimpo vedico, Indra è il più potente, il più caratteristico, il più frequentemente invocato. E non s'invoca solamente perchè si ama, ma spesso ancora perchè si teme. Tutta la scienza magica, che ha le sue radici nelle superstiziose credenze popolari, si fonda sopra una continua evocazione delle forze di un dèmone occulto che si suppone occupar tutta la natura. Cicerone, nel secondo libro De Divinatione, lasciò scritto: «Nonne perspicuum est ex prima admiratione hominum, quod tonitrua, jactusque fulminum extimuissent, credidisse ea efficere rerum omnium praepotentem jovem?» Il tono ci rende attoniti ed intontiti, come si dice in Toscana, che vale quanto istupiditi, per la stessa analogia onde dal verbo stupire è nato l'aggettivo stupido. Il massimo degli Dei, il Dio tonante, per suo supremo effetto, istupidisce il suo devoto ammiratore; dove lo stupore non ha limiti, s'accoglie pure la stupidità; e cessa questa, dove allo stupore sottentra la curiosità della ricerca scientifica. I primi pastori vedici rimasero sotto il fascino tremendo del cielo tonante, e [184] accordarono pertanto al Dio che lo reggeva gli onori supremi. Io ho già indicata la grande somiglianza che hanno fra loro il vedico Tvasthar che prepara ad Indra i fulmini, e Indra stesso che brandisce il fulmine per lanciarlo; come Tvashtar prese pertanto aspetto demoniaco, così Indra, il sommo degli Dei, ebbe pure talora aspetti formidabili e demoniaci, e fu poi finalmente nella mitologia brâhmanica rappresentato e perseguitato come Demonio. Come ogni medaglia ha il suo rovescio, così non vi è Dio, di cui non si potrebbe trovare il corrispondente demoniaco, fisico e morale; onde si potrebbe dire egualmente che il Dio è un Demonio rovesciato o scoperto, o pure che il Dio rovesciato e coperto diviene un Demonio.
Il bello ed il brutto, il bene ed il male, non sono distinti in natura: l'uno rientra nell'altro, l'uno esce dall'altro, ed essi si confondono in una lotta perenne. L'opera può esser buona o cattiva, ma l'operaio medesimo può essere autore dell'una come dell'altra. Un inno del Rigveda (VIII, 86) canta: «O fulminante, per timore di te, tutte le cose create, il cielo e la terra tremano.» In altri inni consigliati dalla paura,[41] il devoto assicura Indra ch'egli serba fede al violento Indra (tvishimate Indrâya), quando egli ferisce col fulmine (Rigv., I, 55); e lo prega perciò di non distruggere la gioia o la salute, o il nutrimento vitale che sia, del devoto (mâ antarâm bhug'am â ririsho nas; Rigv., I, 104); un altro poeta con singolare insolenza canta, rivolgendosi ad Indra (Rigv., VIII, 45): «Io ho inteso poco di quello che un tuo pari ha fatto sopra la terra; mostra l'animo tuo, o Indra. Crederò vere quelle tue prodezze, [185] meritate le lodi che si fanno di te, se ti mostrerai propizio a noi. O eroe, non fulminarci nè per un peccato, nè per due, nè per tre, nè per molti. Io ho avuto paura di un terribile, lacerante, distruggente offensore tuo pari.» Il devoto qui diviene ribelle; e si sente in questa antica protesta dell'uomo contro una forza soverchiante della natura, adorata come divina, fremere l'anima di un Prometeo.[42] Il tonante apparve potente, il potente prepotente o tiranno, e contro il tiranno arbitrario, capriccioso, violento, i devoti meno persuasi della divinità d'Indra si sollevano sdegnati. Mentre adunque molti devoti salutano Indra per lo più col nome di padre (Jupiter) e lo colmano di tutte le carezze che il linguaggio poetico può immaginare per raffigurare un nume prediletto, dal quale s'attendono ogni maniera di favori, vacche, cavalli, cibi, ricchezze, la vittoria ne' combattimenti, la felicità, la gloria, altri dubitano ancora della sua esistenza, e da questo dubbio alla ribellione contro la sua presenza che si rivela quindi in modo terribile, formidato, è agevole il passo. Un poeta dice (Rigv., VI, 18): «Sei tu forte, o Indra, o non lo sei? móstrati nel tuo vero aspetto.» Ma, poco dopo, sentendolo probabilmente tonare, s'affretta esclamando: «Io credo, o potentissimo, reale la forza di te nato potente.» Ed un altro poeta (Rigv., VIII, 89): «Se Indra esiste veramente, offriamogli un vero e proprio inno, domandandogli [186] degli alimenti.» Ma alcuno dice: «Indra non esiste; chi l'ha veduto? e (se nessuno l'ha veduto) a chi inneggieremo noi?» (Ma Indra si fa ben presto sentire, dicendo): «Eccomi, o devoto; ravvisami: per la grandezza, io sto sopra tutte le creature.» Noi vediamo qui dapprima un dubbio intorno alla presenza dell'Indra fisico; quindi si venne a dubitar pure del suo carattere divino. Vi sono alcuna volta nel cielo lampi e toni che non portano alcun effetto sopra la terra, che non menano e non accompagnano alcuna tempesta; allora il poeta si domanda se Indra ci sia o non ci sia, se quel tonante celeste sia il vero Indra, od una mistificazione di esso.
In questa domanda noi abbiamo indicato il carattere più generale, più frequente dell'Indra vedico. La sua qualità di tonante e pluvio lo rese eminente tra gli Dei eroici. Ma non è probabile che questo sia stato il carattere primitivo d'Indra come non è stato l'ultimo. Nel periodo brâhmanico Indra ritorna ad essere quello che sembrami sia stato nel primo periodo vedico, cioè il cielo e specialmente poi il cielo azzurro, stellato, notturno. L'Indraloka o il mondo o paradiso d'Indra, vale per me semplicemente il cielo, come lo svargaloka, che vale il mondo celeste ed il paradiso. Perciò troviamo Indra chiamato sahasrâksha o milloculo, e poichè il pavone si distingue per le sue penne gemmate ed occhiute, la leggenda indiana ci rappresenta Indra in forma di pavone, e il mito indo-europeo il corvo, ossia il nero, la notte scura, che si veste delle penne del pavone, ossia che s'ingemma d'occhi. Perciò ancora il pavone era dedicato alla Dea Giunone (D)junon il cielo femminino, come Dyu, Dyaus, Zeus, (D)jupiter o (D)iespiter è il cielo mascolino. Abbiamo un cielo concepito come mascolino Dyu, e un cielo concepito come femminino [187] Div (Pr'ithivî «la larga» abbiamo già detto corrispondergli); così la parola dies in latino è comune al mascolino ed al femminino. Concepito Div come un femminino, il suo mascolino è o Dyu (Dyâus, Zeus), oppure lo sposo, il signore (pati o pitar) di Div, chiamato Divaspati in lingua vedica, e (D)jupiter, (D)iespiter in lingua latina (il vedico Dyaush). Giunone è dunque la sposa legittima di Giove, poichè Giove è il cielo, e il signore del cielo, e Giunone è il cielo stesso. Divaspati è uno de' più antichi appellativi che assume negli Inni vedici il Dio Indra, il quale pertanto fu, anzi ogni cosa, semplicemente il cielo, e poi il padrone, il reggitore del cielo; ma, divenuto il signore del cielo, poichè nel cielo non si manifesta alcun fenomeno più meraviglioso e più formidabile del fulmine, il fulmine fu posto nelle mani di quel Divaspati o signore del cielo.
S'è molto disputato fin qui intorno all'etimologia del nome Indra, ed invano. La parola Indra non ci offre alcun derivato, nè alcuna radice indiana che valga a dichiararla; ed è alquanto curioso che non si possa in una lingua tutta trasparente come quella che ci occupa, ritrovare il senso intimo dell'appellativo del Dio supremo vedico; mentre poi questo pronto sottrarsi della parola all'analisi etimologica potè forse servire a far d'Indra una potenza più venerabile, per essersi perduta la coscienza del primitivo significato del suo nome. Tuttavia, come ogni avvocato non ama dichiarar perduta una causa importante, finch'ei non s'è provato alla sua volta a difenderla, pare a me d'aver finalmente trovato la prima forma ed il primo senso del nome di quel Dio, con cui mi sono accostato[43] la prima volta agli studii di [188] mitologia indiana, nel proposito di penetrarne, secondo il mio potere, l'intima natura.
Io suppongo, per l'analogia del nome zendo d'Indra, che è Andra, essersi assimilata la sorda dentale innanzi alla sonora semivocale, dopo la metatesi, e dopo la perdita della media vocale a, e restituisco pertanto il nome Indra (per Andra) ad Antar o Antara, che valse la regione di mezzo, come Antari-ksha (secondo la probabile spartizione della parola, proposta dal professor Weber) vale la regione di mezzo, il cielo di mezzo, quel cielo appunto, nel quale si adunano le tempeste, il cielo delle tempeste, che si rappresentò quindi particolarmente come pluvio e tonante. Quando diciamo dunque Indra, diciamo ancora il cielo, diciamo Dyu, diciamo Divaspati, ma quel Divaspati specialmente, nel cui esclusivo dominio succedono le tempeste. La verità fisica viene in sostegno della nostra etimologia; poichè è solamente nell'antar od antara od antariksha, o cielo di mezzo, che si raccolgono le nuvole, che guizzano i lampi, che Indra od Andra tona. E di questa verità naturale i pastori che parlavano la lingua vedica avevano dovuto essere frequenti spettatori dall'alto delle montagne dell'Himâlaya, come potremmo rendercene ancora capaci noi stessi, salendo ne' mesi estivi sopra le vette del nostro Appennino o delle nostre Alpi, onde assisteremmo al meraviglioso spettacolo di un mare di nuvole solcate dai fulmini, e fragoroso per frequenti scoppi di tuono, onde sentiremmo sotto i nostri piedi traballare la montagna. L'antar, antara, o Andra od Indra tonante, accompagnato dai Marutas o venti, incominciò dunque, per quanto ne pare a me, a rappresentare l'atmosfera, o regione de' venti, o regione delle tempeste, de' toni, de' fulmini, e quindi si trasformò nel Dio che regge le tempeste, a quel modo stesso con cui [189] Dyu «il cielo» divenne Divaspati «il reggitore del cielo.» E questa etimologia che io ardisco proporre con qualche fiducia, per la parola Indra, non solo non obbliga ad alcuno sforzo di derivazione, non solo combina perfettamente coi fenomeni fisici che Dyu, divenuto Divaspati e poi Indra, fu chiamato a rappresentare, ma con tutta la nozione che la mitologia vedica ci può dare del primitivo Indra posto in relazione strettissima con Varuna, il copritore celeste, che, secondo il professore Roth, fu venerato prima del Dio Indra, e con Dyaus, di cui i professori Benfey e Brèal hanno fatto il predecessore del nostro Dio. Nessuna meraviglia invero che Indra o Divaspati, Dyaus e Varuna, avendo in origine rappresentato solamente il cielo, i tre numi abbiano pure un loro antico uniforme carattere. Solamente col tempo ciascuno de' tre Dei prese una sua caratteristica speciale: Dyaus riuscì particolarmente il cielo luminoso, Varuna il cielo acquoso, tenebroso, Indra il cielo pluvio e tonante; dall'uno identico si staccarono tre varietà, le quali presero persona, ma ogni persona conservò pure e tradì spesso alcuno de' comuni caratteri generici, alcuno dei segni dell'antica parentela. L'antico antara o medio[44] divenuto Andra e poi Indra, con questo appellativo, il nume scambiò poi alcuna delle sue qualità con quelle di un Dio di nome analogo Indu, il Dio Luno, rappresentato come particolar reggitore della stagione [190] acquosa, invernale; ed Indra che si chiude nella nuvola, ossia il cielo che si copre di nuvole, si rappresenta come un gran bevitore d'Indu e di Soma, voci che, oltre la luna, dicemmo rappresentare l'ambrosia. L'ambrosia d'Indra pluvio è l'acqua della nuvola, nella quale egli si disseta, s'inebria, piglia forza nel marzo e in estate (come la perde nell'aprile e nell'autunno), quindi fulmina e tona, uccidendo il mostro che trattiene le acque. Siccome poi il sole fa il medesimo che il cielo, cioè si chiude, si nasconde nella nuvola, e il sole è chiamato signore del cielo non meno di Indra, lo stesso Indra che, nella sua qualità di pluvio si confonde con l'umido Indu, il Dio Luno, ci si rappresenta ancora con alcuni caratteri conformi a quelli proprii del sole. Ma, per quanto elastica possa essere la natura del sommo degli Dei, il quale è pure in parte tale, perchè si associa alcuni attributi proprii degli altri Dei, si può ritenere come cosa certa che il primo carattere generale d'Indra fu quello di cielo, il suo carattere specifico eroico divenne quello di cielo fulminante e tonante. Un inno vedico (Rigv., VI, 82) ci fa sapere che Mitra (il sole) va specialmente dietro a Varuna, e che il terribile Indra se ne va risplendendo in compagnia de' Marutas; un altro inno (VII, 83) canta che il piacere d'Indra è quello d'uccidere i nemici in battaglia, mentre Varuna mantiene sempre e difende le vie del cielo. Varuna rimase il cielo tranquillo, Indra divenne il cielo animato nella tempesta, e specialmente, ripeto, il cielo dell'atmosfera, il cielo antara od antariksha. L'inno 12º del II libro del Rigveda definisce anzi Indra «quello che formò l'atmosfera, e quello che stabilì il cielo» (yo antarikshâni vimame varîyo yo dyâm astabhnât sa g'anâsah Indra). In questa importante definizione noi troviamo accennata la natura specifica e la natura [191] generica del Dio Indra, cioè il cielo medio, agitato, tempestoso, ed il cielo in generale. Ed è specificandosi che Indra divenne popolare, e prese una spiccata fisionomia poetica ed eroica, e potè quindi dominare tutto l'Olimpo vedico, ed una parte del brâhmanico, chè, quando Strabone c'informa come gl'indiani del suo tempo adoravano il Dio o Giove pluvio (τὸν σμβριον Δὶα), convien credere che, presso i popoli del Pa'n'c'anâda, fosse rimasta alcuna viva reminiscenza dell'antico culto vedico, sebbene nell'India brâhmanica il sommo potere regio, che negli Inni vedici trovasi diviso fra Indra e Varuna chiamati insieme colleghi nel regno (samrâg'â), sia stato diviso fra Yama e Brahman, la potenza formidabile d'Indra fulminante vittorioso sia stata trasferita particolarmente nel Dio Vishnu, e Indra stesso sia divenuto il solo vago cielo azzurro, e specialmente l'azzurro stellato. Vishnu negli Inni vedici appare come un compagno, un amico d'Indra; e il Çatapatha Brâhmana ce lo rappresenta come suo seguace, in una leggenda, nella quale il nemico d'Indra, il mostro Vritra, riappare come un personaggio sacro, la cui propria essenza sono i tre primi Vedi. Secondo quella leggenda, adunque, era egli stesso il Rigveda, il Yag'urveda, il Sâmaveda insieme riuniti; Indra ne piglia dispetto, ed avendo per suo compagno Vishnu, volenteroso di lanciare il proprio fulmine contro Vritra, dice a Vishnu: «Io vorrei scagliare il fulmine contro Vritra.» Dice Vishnu: «Sta bene; io ti starò dietro; scaglia.» Allora Indra levò contro di lui il fulmine: Vritra a quel fulmine levato ebbe paura; egli però disse: «Io ho questa forza; io do questa a te; e tu non voler più scagliare,» e consegnò ad Indra il Yag'urveda. Allora Indra levò sopra di lui un secondo fulmine, e Vritra: «È mia quest'altra forza; voglio cederla a te; ma tu non voler più scagliare;» così [192] disse, e gli consegnò il Rigveda. Ed Indra levò fuori un terzo fulmine. Allora Vritra: «Ho ancora quest'ultima forza; te la do; ma tu non voler scagliare,» e gli consegnò il Sâmaveda. Ma Indra, che s'è divertito a quel giuoco, continua a puntare contro il suo nemico, e Vishnu gli sta sempre dietro. Nel periodo brâhmanico Vritra, come abbiamo già avvertito, fece poi le sue vendette, poichè, raffiguratosi in esso un brâhmano, anzi il brâhmano per eccellenza, in lui si identificò, col trionfo della casta brâhmanica sopra la guerriera, il sommo Brahman, ed Indra venne precipitato ignominiosamente dall'Olimpo, come brahmanicida, e, per giunta, infamato come un Dio donnaiolo, condannato a giacere nascosto nell'acqua, per la vergogna ch'egli avea di mostrarsi, dopo che maledetto da un Brâhmano, di cui egli avea sedotto la moglie Ahalyâ, il suo corpo si trovò coperto di mille vulve, onde gli fu dato dai Brâhmani il nome infame di Sahasrayoni, variandosi così l'appellativo proprio d'Indra come cielo stellato ch'era Sahasrâksha, ossia dai mille occhi, che avea convertito Indra in una specie di Argo. Nel Râmâyana un poema fatto per i guerrieri, dove tuttavia si tradiscono spesso preoccupazioni settarie brâhmaniche, Indra si scusa presso gli Dei di aver sedotta Ahalyâ, la sposa del penitente Gâutama per metterlo in collera, e così fargli, con nemesia vendetta, perdere il frutto della sua penitenza, la quale, quando fosse stata spinta più oltre, avrebbe potuto far tremare l'Olimpo, e pregiudicare gli Dei, creando sopra la terra un uomo, cui la santità del costume avrebbe reso non simile soltanto, ma più forte e formidabile di tutti gli Dei. Onde, convertito evidentemente in una specie di dèmone tentatore,[45] Indra si aspetta lode dagli Dei per la sua prodezza erotica, [193] come nell'Olimpo vedico ne aveva avuta per le sue prodezze eroiche. Con lo stesso intendimento, nelle leggende brâhmaniche, il Dio Indra manda spesso dal cielo in terra le sue Ninfe od Apsarâs, per invitarle a sedurre con la nudità delle loro forme i santi Anacoreti, intenti a macerare la carne ed a mortificarsi; i santi ora cedono, ora si mettono in collera, ed in entrambi i casi recano danno a sè stessi, pèrdono in un giorno il frutto delle loro penitenze protratte, secondo i mostruosi calcoli brâhmanici, per centinaia e migliaia d'anni.
Nello stesso Râmâyana, ove Indra appare come seduttore di Ahalyâ, Ahalyâ, che prima era lodata per l'unica bella donna che fosse nel mondo, e altrove viene celebrata come la prima donna creata da Brahman, l'Eva indiana, diviene brutta e vien cacciata dal sacro eremo, in cui viveva felice; ma si scusa che si lasciò sedurre, perchè Indra avea preso le forme ingannevoli di suo marito Gâutama. Essa tuttavia ritorna pura, ricupera la sua bellezza, per la sola visione di Vishnu incarnato in Râma, e Indra alla sua volta si purga del suo peccato d'adulterio facendo un sacrificio a Vishnu; così le parti si trovano invertite fra l'Indra e Vishnu vedici e il Vishnu ed Indra brâhmanici. I Brâhmani, volendo pur accordare un proprio loro Dio ai guerrieri, foggiarono di Vishnu, il vedico seguace d'Indra, il supremo Dio delle battaglie, ed Indra fu collocato a riposo; nel suo riposo troppo prolungato, stravizia e riempie il cielo di scandali. Quanta differenza dal vedico Indra, di cui l'antico poeta cantava (Rigv., IV, 30): «Non vi è alcuno più alto di te, o Indra, nessuno superiore a te; o uccisore di Vritra, nessuno simile a te.» (Rigv., VI, 30): «È vero questo, non vi è altri, o Indra, Dio o mortale, superiore a te.» (Rigv., VIII, 67): «Indra è insuperabile, invincibile; [194] egli ode, egli vede ogni cosa.» (Rigv., VIII, 77): «Tu combatti, e vinci tutte le creature in potenza, in vigore, in energia, in forza.» (Rigv., VIII, 59): «O Indra, se tu avessi cento cieli, cento terre, non i cieli, non le terre, non cento soli, non alcuna cosa creata arriverebbe alla tua grandezza.» (Rigv., VIII, 87): «O Indra, tu sei potentissimo; tu hai fatto risplendere il sole; tu sei grande artefice dell'universo, tu sei il Dio dell'universo.»
Vedremo, in breve, quali siano state le imprese eroiche del Dio Indra nel Rigveda. Intanto ho voluto tratteggiarne i caratteri più generali, mostrandovi come dal primo aspetto di cielo siasi passato a quello di cielo atmosferico, pluvio, fulminante, tonante, e come nel periodo brâhmanico siasi ritornati a rappresentare Indra nel suo carattere celeste, conservandogli una parte della sua natura acquosa. La leggenda indiana ci mostra Indra, per aver sedotto Ahalyâ, punito e costretto a rimaner sepolto nelle acque; il mito greco ci rappresenta Giove tonante che, in forma di cuculo, visita segretamente Giunone; e abbiamo già detto che il tono di marzo fu paragonato al canto del cuculo nunzio della primavera.
Dopo che il cuculo ha cantato, dopo che Giove, in forma di cuculo, ha visitato Giunone in segreto come un adultero, dopo i primi toni e lampi di marzo accompagnati da zefiri erotici e da venti marziali nunzii della primavera, il seduttore, l'amante, il guerriero inebriato si perde; Eros ed Aphrodite abbracciati si trasformano in pesci e si gettano in mare; viene l'aprile con le pioggie inondatrici; viene il mese del pesce; Indra adultero nell'acqua ed il pesce erotico, che si mangia nel venerdì, ossia nel giorno di Venere, l'Eros, guerriero erotico che divien pesce, il pesce, anzi i due pesci (Amore ed Afrodite, Indra ed Ahalyâ) che aprono il mese d'aprile, e coi quali, pel loro significato fallico, [195] è tempo che la nostra società civile cessi di scherzare, sono perfetti corrispondenti mitici.
Dopo aver così determinato il campo mitico speciale d'Indra, studiamo ora com'egli vi nasca, quale battaglia, e con quali alleati, e contro quali nemici egli vi conduca.[46]
Indra essendo il più eroico degli Dei, la creazione più maravigliosa del cielo dovette esser quella d'Indra. L'inno 18º del IV libro del Rigveda ci rappresenta il Dio Indra come il figlio di una vedova. Il poeta domanda ad Indra: «Chi ha fatto vedova tua madre?» E, appena egli è nato, vi è alcuno (senza dubbio, lo stesso che uccise ad Indra il padre) che tenta pure di uccidere il figlio, onde lo stesso poeta domanda ad Indra: «Chi è colui che desidera di ucciderti, sia che tu rimanga a piacere, sia che tu cammini?» La madre d'Indra è salutata con gli appellativi di fortunata (Bhadrâ) e divina (devî) e nârî, ossia donna forte. La madre d'Indra è chiamata, in un inno, Nishtigrî; e Nishtigrî appare come un sinonimo di Aditi, uno dei nomi dati alla volta celeste. Onde Indra, il cui nome è pure Divaspati, apparirebbe, non solo signore del cielo, ma ancora figlio del cielo, come Parg'anya, come l'Aurora, come, in somma, tutti i Celesti, tutti gli Dei luminosi, tutti gli Adityâs figli di Aditi. Un altro de' nomi della madre d'Indra è, nell'Atharvaveda, Ekâshtakâ, parola che significa propriamente «la prima ottava parte dell'anno;» la quale dovrebbe corrispondere ai mesi di marzo ed aprile, il tempo, in cui il Dio tonante e pluvio si manifesta. L'Atharvaveda avverte tuttavia come, per sola virtù di penitenza, Ekâshtakâ generò il glorioso Indra. Così Indra fu creato per virtù di penitenza, secondo una leggenda del Tâittiriya Brâhmana riferita dal Muir (volume cit.):
[196]
— Prag'âpati aveva creato i Devâs e gli Asurâs; ma non aveva ancora creato Indra. Gli Dei dissero a lui: «Genera Indra per noi;» egli disse: «Come io ho creato voi per mezzo della penitenza, così generate voi Indra.» Allora essi fecero penitenza: videro Indra in sè; onde essi gli dissero: «Nasci.» Allora egli disse: «Per qual destino nascerò io?» Gli Dei e gli Asuri lo destinarono allora a proteggere le stagioni, gli anni, la prole, gli armenti, i mondi. — È evidente come, in questa teogonia d'origine brâhmanica, si cerca già d'umiliare la grandezza del Dio Indra, poichè, mentre gli altri Dei si rappresentano come dirette creature del sommo Dio Prag'âpati, Indra appare invece una creatura secondaria degli Dei; perciò non è meraviglia se, nello stesso Brâhmana, gli Dei si vantino ad Indra d'essergli superiori, mentre invece reca meraviglia il vedere come, offeso per quel vanto, Indra ne porti lagno al tribunale supremo di quello stesso Prag'âpati che aveva già disdegnato di crearlo, ed al quale, per divenire il re degli Dei, Indra domanda lo splendore che risiede in lui. Ma il Rigveda stesso ci presenta già la nozione di un Indra generato dagli Dei. Nel Purusha Sûkta poi Indra appare uscente con Agni dalla bocca del Purusha o maschio universale.
Ma nè gli Dei, in genere, nè il maschio Purusha possono valere come il proprio padre d'Indra, la cui madre rimane vedovata. Come la madre Aditi dicemmo rappresentare il cielo femmina, così il padre d'Indra (quando Indra non si concepisca come un figlio illegittimo, ossia nato per miracolo da una vedova, come altri Eroi son nati per miracolo da una vergine, o da una donna vecchia o da una donna sterile) non può essere stato altro che il cielo maschio, ossia Dyu, Dyaus, il nome antico d'Indra. Ed esso è nel vero nominato come proprio padre d'Indra nell'inno 17º del IV libro del [197] Rigveda: «Fortissimo fu giudicato il tuo genitore Dyaus; d'Indra il creatore fu un abilissimo operaio.» (Suvîras te g'anitâ manyata. Dyaur Indrasya karttâ svapastamo 'bhût.) Questa nozione vedica è importante.
Il cielo come infinito, indestruttibile, è Aditi; come luminoso, è Dyaus; quando il Dio pluvio e tonante copre il cielo, la vôlta infinita, la madre Aditi esiste ancora, ma il luminoso Dyaus è scomparso. Il nascimento d'Indra pluvio e tonante porta la morte del luminoso Dyaus; così, nella mitologia ellenica, uno Zeus rovesciò l'altro, ossia lo Zeus pluvio e tonante distrugge l'antico Zeus luminoso. Indra, la cui madre diviene vedova, quando egli nasce, è ancor esso un'antica forma del mitico parricida, o di figlio nato in modo eccezionale.
Appena Indra nasce, appare forte: «Appena nascesti, o Indra, per ottenere la forza, hai bevuto il soma; e la madre proclamò la tua grandezza.» (Rigveda, VII, 98.) Un altro inno canta: «Appena nato, Indra, l'uccisore di Vritra, afferrò il dardo, e domandò alla madre: Dove sono quelli che vengono celebrati come guerrieri terribili?» Ecco qui ancora uno de' caratteri proprii dell'eroe epico e leggendario, il quale, essendo ancora fanciullo, dà già prove singolari del suo valore. Ognuno di voi ricorda Ciro, Ercole, Sansone fanciulli; e, ne' futuri raffronti, converrà forse ancora soggiungere Cristo, il quale, presso l'importante, quantunque apocrifo, Vangelo ambrosiano,[47] nella prima sua infanzia, mentre egli sta in Egitto, ossia nella regione nera, vede muovere incontro a sè dragoni spaventosi; Giuseppe e la madre ne pigliano terrore; il fanciullo Gesù invece corre loro incontra e li doma.
Indra deriva la sua forza dal soma. Il soma è per [198] lui l'acqua della forza. Come l'eroe epico e leggendario beve quell'acqua, Indra se ne disseta largamente; perciò negli Inni vedici, non solo egli viene chiamato somapâs, ossia bevitore di soma, ma l'ekah somapâs, ossia l'unico bevitore di soma, e somapâtamas, ossia il più gran bevitore di soma; un inno del Rigveda ci dice che l'anima, la mente d'Indra consiste tutta nel desiderio del soma (somakâmam hi te manach; Rigv., VIII 50); uno de' nomi d'Indra perciò è pure somakâmas, ossia amante del soma. E non solo il bere il soma è nella natura d'Indra, ma una delle sue prodezze, per la quantità sterminata ch'egli ne può bere ad un tratto; nella mitologia slava e scandinava l'eroe si distingue spesso per la sua potenza nel bere più d'ogni altro, senza alcuno sforzo. Indra con un solo sorso rasciuga bevendo trenta laghi di soma: e quanto più egli beve, tanto più s'afforza; onde lo stesso devoto, perchè si spieghi quindi e toni e fulmini un vero Indra, e non un simulacro di esso, invita Indra a ber bene. L'eroe, essenzialmente, deve saper bere; il più forte de' Panduidi, il figlio del Vento, Bhîma «il terribile,» acquista la sua forza invincibile dopochè, gettato nel Gange, discende nel regno de' serpenti a bere l'acqua della forza. Ma poichè l'eroe beve molto, si suppose, per analogia, ch'egli mangiasse del pari; perciò Indra è ancora celebrato come una specie di Milone Crotoniate che si mangiava un bove per ogni pasto. Indra mangia, secondo un inno vedico, un bove; secondo un altro inno, cento; secondo un terzo inno, trecento bovi per volta. Ma sulla potenza d'Indra nel mangiare il poeta vedico non insiste molto, mentre quasi ogni inno vedico a lui dedicato fa cenno del soma, che il Dio Indra beve. Vi è un inno singolare nel X libro del Rigveda (119); in esso Indra celebra le proprie lodi; secondo il commentatore indiano [199] Sâyana, Indra canta quell'inno, in forma di quaglia, dopo aver bevuto il soma, appena si accorge della presenza di un rishi. Che può significare questa leggenda? La quaglia è animale che dorme di giorno e veglia di notte, eccitato specialmente nelle notti, nelle quali la luna, ossia Soma, appare nel cielo. La notte dell'anno è l'inverno, di cui la luna vien considerata il principale reggente; è in relazione specialmente col Soma ambrosiaco, col Soma apportatore delle pioggie primaverili, che il Dio tonante e pluvio ritrova nel cielo la sua forza. L'inno vedico suona così: «La mia mente è quella di dare la vacca (l'aurora o la primavera) ed il cavallo (il sole); perciò io ho molto bevuto. Le bevande mi sospinsero come venti gagliardi; perciò io ho molto bevuto. Le bevande mi eccitarono come rapidi cavalli portano via un carro; perciò io ho molto bevuto. Il soma[48] scorse verso di me, come una vacca si affretta verso il caro figlio; perciò io ho bevuto il soma. Intorno al cuore io mi circondo di soma, come un falegname si circonda di carri. Le cinque classi d'uomini non appaiono alla mia grandezza neppure come un atomo; perciò ho bevuto il soma. I due mondi non sono neppure uguali alla metà di me; perciò ho bevuto il soma. Io oltrepasso in grandezza il cielo e la terra; perciò ho bevuto il soma, ec.»
Si direbbe quasi che Indra tema di essere preso dai devoti per un briaco, e che canti l'inno apologetico, per scusarsi dell'aver bevuto oltre la misura ordinaria. Indra parrebbe voler mostrare che il bere non lo eccitò altrimenti che il forte inebriato biblico e manzoniano. [200] Ma Indra non è solo forte per sè; la sua forza è pure nelle proprie armi, ossia nel fulmine apprestatogli da Tvashtar, e ne' proprii alleati, tra i quali si celebrano per la loro potenza, e per la loro fedeltà ad Indra, i Marutas. Nelle novelline russe, una delle prove eroiche fra l'eroe ed il suo nemico consiste nella gara a chi fischia più forte. Anche il nemico d'Indra, il copritore Vritra si distingue come soffiatore, ossia come fischiatore; Indra in questa prova è assistito dai venti Marutas. Sâyana riferisce, nel suo commento, questa leggenda: — Indra, volendo uccidere Vritra, disse a tutti gli Dei: «Seguitemi, aiutatemi.» Essi dissero: «Sta bene;» e corsero per ammazzare. Vritra pensò: «Essi corrono per ammazzarmi; io farò loro paura;» e contro di essi soffiò un vento poderoso; tutti gli Dei scapparono frettolosi per quel fischio di lui; i soli Marutas non abbandonarono Indra. Essi stettero presso di lui, dicendo questo: «Uccidi, o Dio, uccidi il forte.» Vedendo questo, Indra pensò: «Ecco i miei alleati; essi mi amano: essi devono aver la loro parte in questo inno;» così disse Indra. — Dar loro parte nell'inno, non vuol dire dargli il primo posto, ed io ho già avvertito come sia nata nell'Olimpo vedico una forte gelosia tra il Dio Indra e i suoi compagni Marutas. Questi sono i compagni del Dio, nel forte della battaglia; altri alleati conta Indra nel cielo, e tra questi la Sarasvatî e i simpatici Açvinâu, che lo aiutano specialmente a fare opere buone ed anzi a liberare lo stesso Indra dal pericolo, quando il mostro Namuc'i viene a bere il soma, ossia la forza d'Indra.
Nel Çatapatha Brâhmana si trova una leggenda, della quale il senso è questo:
— Il mostro Namuc'i portò via la forza d'Indra, il soma, col liquore inebriante. Indra accorre per aiuto [201] agli Açvinâu ed alla Sarasvatî, dicendo: «Io aveva giurato a Namuc'i che non l'avrei mai ammazzato nè di notte, nè di giorno, nè con la mazza, nè con l'arco, e neppure con la palma della mano distesa, o col pugno stretto, non con la siccità, non con la umidità; ed egli ha portato via la mia forza; chi me la ricupera?» Gli Açvinâu e la Sarasvatî domandano ad Indra che permetta loro di goderne una parte, e ch'egli riavrà la sua forza. Indra dice: «Essa deve esser comune fra noi tutti; perciò, ricuperatela.» Allora gli Açvinâu e la Sarasvatî unsero il fulmine, dicendo: «Esso non è nè secco nè umido.» Con questo Indra colpi Namuc'i nella testa, nel punto in cui la notte stava per passar nell'aurora, e ne venne fuori il soma, insieme col sangue di Namuc'i. — Il sangue di Namuc'i ucciso verso l'aurora non può essere che il rosso dell'aurora stessa. Ma nelle imprese gagliarde il più utile concorso Indra lo riceve certamente dai Marutas, e dalle proprie armi fulminee. Vishnu gli è pure compagno e seguace fedele, ma lo segue più come servo devoto che come cooperatore magnanimo.
Così, se i nemici d'Indra sono molti, se tutti i krishnâs innumerevoli, ossia tutti i neri, tutti i mostri sono i suoi nemici, chiamati col nome generico di Dânavas o figli di Dânu, di Daittyâs o figli di Diti, creata in opposizione all'Aditi, di Asurâs, raffigurati come nemici dei suri, gli Eroi divini, se tra i nemici d'Indra appaiono Namuc'i «quello che non lascia andare,» Sushna «il disseccatore,» Pipru «il riempitore,» Çambara, di cui sono celebrate le cento forti città celesti, nelle quali egli si chiude, Kuyava, Varc'in, Urana, Arbuda ed altri più, i due nomi che piglia più spesso il nemico d'Indra sono Vritra, propriamente il copritore, figlio di Tvashtar, ed Ahi, «lo stringitore, il serpente,» il gran [202] drago celeste. Tutta la lotta epica consiste nella lotta contro il mostro, contro il drago; e la grande impresa eroica del Dio Indra nel Rigveda è, per l'appunto, l'uccisione del mostro Vritra, l'uccisione del serpente Ahi, per la morte del quale si scatenano le acque, e si precipitano in vasti torrenti sopra la terra; il fenomeno naturale e la figura mitica si collegano intimamente. Il sole ritorna dopo la battaglia a splendere nel cielo, gli uomini e gli animali per la vittoria d'Indra si rallegrano; le spose degli Dei liberate, ossia le acque sprigionate, cantano inni di gioia al loro liberatore. Questa battaglia d'Indra è descritta in modo vivace e potente in un gran numero d'inni, ne' quali vediamo Indra in perfetto costume di guerriero, armato di armi divine, che lancia contro il suo nemico ogni maniera di armi, mazze, aste, dardi, fulmini. Tra queste armi troviamo pure celebrata la pietra: açman. Che può significar questa pietra? Ci dovrebbe essa richiamar col pensiero all'età della pietra, e riportarci perciò alla prima più elementare mitologia, o, con più verosimiglianza, questa pietra non è essa altro che la roccia, la nuvola montagna, sotto la quale il nemico è oppresso da Indra, precursore degli eroi poderosi che aiutano l'impresa di Râma nel Râmâyana, scagliando contro i Racsasi intiere montagne? Noi ammiriamo la immaginazione gigantesca degl'Indiani, leggendo la descrizione delle battaglie del Râmâyana; ma il principal fondamento di quelle immagini gigantesche è nel cielo mitico, ove, raffigurata la nuvola come enorme montagna, divenne naturale il concepire l'eroe divino Indra, il quale muovendo le nuvole muove le montagne mitiche e schiaccia con esse i suoi nemici. Io non indugerò ora nella descrizione delle battaglie celesti del Dio Indra. Mi basterà avervi mostrato come in questo Dio si accennino già tutti i [203] caratteri principali, proprii dell'eroe epico-leggendario indo-europeo.[49] Mi basterà che rimaniate, come spero, persuasi che l'eroe epico è nato naturalmente e necessariamente sopra il Dio, e che il Dio è una persona sempre celeste. Se gli altri Dei ci lasciarono fin qui incerti sopra la identità originaria dell'epopea o della mitologia, il Dio Indra non ce ne può lasciare alcun dubbio. Egli non è meno eroe che Dio; e il Dio raffigura ad evidenza il fenomeno naturale. Ma una delle imprese principali dell'eroe leggendario, mi direte, è quella di conquistare e liberare la donna, senza la donna non vi sarebbe epopea. Ebbene, quelle vacche che Indra libera dalla spelonca del mostro che le ha, simile a Caco, rapite,[50] in altri inni appaiono col nome di donne. Indra è liberatore delle acque chiuse nella nuvola, delle aurore chiuse nella notte, delle primavere chiuse nella scura terra; è liberatore delle spose degli Dei; è liberatore delle donne, e le libera perchè le ama, e perchè le ama troppo, la mitologia brâhmanica rappresenta poi il trono d'Indra circondato dalle Ninfe Apsarâs; e, per cagione della sua eccessiva tenerezza per le donne, il Dio Indra si perde. Alla sposa d'Indra furono dati parecchi nomi diversi, fra gli altri: Çac'î, «la forza;» Indrânî, «la forza d'Indra:» ma è troppo evidente che questi nomi sono semplici astrazioni di una qualità del Dio, e non possono pigliare persona viva, e tanto meno svegliare il Dio sensuale. Ma, quando Indra si innamora dell'aurora umida e luminosa, delle acque lucenti, questi esseri femminini possono pigliare una [204] figura poetica, la quale attrae il Dio Indra, il celeste Çiprin, «il vago, il bello.» E le rappresentazioni dell'Olimpo brâhmanico ci rappresentano però Indra in forma di bellissimo giovine, agile, elegante, col corpo tempestato di occhi luminosi, ossia di stelle. Il guerriero ha ceduto il campo all'amante, il quale combatte perchè ama, e, dopo aver combattuto, raccoglie nell'amore il frutto della sua vittoria.
[205]
Di tutte le figure mitiche che l'Olimpo vedico ci presenta, la più simpatica è, senza dubbio, quella degli Açvin; se i nostri primi padri ariani non avessero creati altri miti, questo solo basterebbe a persuaderci com'essi siansi nella più remota antichità affacciati alla storia con un ideale poetico. Qualunque sia stata l'origine fisica del mito, la sola facoltà di creare due persone mitiche cavalleresche come gli Açvin, è già prova di una singolare eccellenza morale nella nostra razza. Chi attribuisce al Cristianesimo tutto il merito della cavalleria, dovrebbe soltanto meditare sopra la mitologia vedica e la ellenica, e sopra le epopee che ne derivarono naturalmente, per avvedersi del proprio errore. L'uomo ariano apparve nella vita storica con un sentimento cavalleresco, e però creò pure sollecito nel suo olimpo l'eroe cavaliere. Già nelle figure d'Indra e dei Marutas, e in quella dell'eroina aurora, ravvisammo numi cavallereschi, protettori dell'innocenza, della virtù perseguitata. Ma il protettore, per eccellenza, il perfetto cavaliere è l'Açvin: anzi la parola açvin venne a significar precisamente il cavaliere, e, come due sono gli ellenici Dioskuri, così due sono i cavalieri vedici od Açvin. [206] Ma, poichè non ci è bastato fin qui l'indicare come gli Dei vedici siano rappresentati, ma tentammo pur sempre, quando ci fu possibile, d'esaminare com'essi siano nati; così, innanzi di descrivere la figura e le opere degli Açvin, indugieremo per poco a ricercarne la natura specifica originaria. Abbiamo, dunque, nel cielo due Açvin, che interpretiamo per due cavalieri; ma ho già accennato nella Introduzione di queste letture, come la parola açvin significhi propriamente il fornito di açva, e la parola açva valga il rapido (e al neutro forse la rapidità); i due divenuti cavalieri, furono, dunque, in origine, i rapidi, i solleciti, al pari dell'aurora, che vedemmo esser la prima ad arrivare: un primo equivoco di linguaggio trasformò il rapido in un cavallo;[51] un secondo equivoco, il fornito di rapido, in un fornito di cavallo e in un cavaliere. Ma, perchè due rapidi celesti? quali fenomeni, quali esseri celesti si raffigurano in que' due rapidi? Come l'aurora mattutina è la prima a vincere la corsa al mattino, così il sole è il rapido che appare primo sull'orizzonte. Ma vi è un altro rapido nel cielo, l'astro che primo arriva sull'orizzonte alla sera, la luna; il sole e la luna sono i due rapidi celesti, i due fratelli rapidi, i due fratelli cavalieri, i quali si scambiano, si aiutano l'un l'altro, e soccorrono coi loro aiuti potenti i mortali bisognosi. E perchè la luna è preceduta dal crepuscolo della sera, e il sole dal crepuscolo del mattino, i crepuscoli annunziano pure i due fratelli Açvin, che s'identificano anzi, spesso, con essi; e poichè la luna, oltre la notte, regge specialmente la stagione fredda dell'anno, e il sole, oltre il giorno, regge specialmente la stagione calda dell'anno, gli equinozii [207] d'autunno e di primavera ebbero pure il loro crepuscolo lunare e solare, dominati dai due fratelli Açvin. Di più, come il giorno è preceduto da due fenomeni luminosi, l'uno biancheggiante, l'alba, l'altro rosseggiante, l'aurora, gli Açvin furono pure particolarmente considerati in relazione con questi due fenomeni, ossia con questi due crepuscoli mattutini: l'uno passa dal nero al grigio, o al bianco pallido dell'alba; l'altro dal grigio al roseo od aureo dell'aurora. Il grigio o biancastro che appare nella sera, fra l'aurora vespertina e la tenebra, e, al mattino, fra la tenebra e l'aurora mattutina, corrisponde a quel tempo che i Francesi chiamano entre chien et loup, cioè, di sera, quando non è più giorno e non è ancora notte; di mattino, quando non è più notte e non ancora giorno: questo Açvin è in particolare relazione con la luna, e l'altro più luminoso in particolare relazione col sole: nessuna meraviglia quindi se troviamo identificati i due Açvin con la luna e col sole, e strettamente congiunti con l'aurora, ora loro protetta, ora loro compagna, ora loro amica, ora loro sorella; ond'essi vengono al pari di lei, della divo duhitar, chiamati figli del cielo (divo napâtâ), e, quando essa appare o sta per apparire, vengono invocati ed adorati, poichè in quel tempo si compiono pure le loro imprese eroiche.
L'antico commentatore vedico Yâska sembra ancora avere alcuna coscienza del primo valore etimologico della voce açvin, ossia rapido, sollecito, quando dice: Açvinâu yad vy açnuvâte sarvam rasena anyo, g'yotishâ anyah (Açvin, son così detti, poichè penetrano tutto, l'uno con l'umore, l'altro con la luce). Qui abbiamo evidentemente indicato un açvin lunare ambrosiaco, ed un açvin solare rifulgente. L'açvin, «penetrante,» ci appare parente dell'aurora Urvâçî, «la vasta penetrante.» Il crepuscolo [208] penetra, si distende, pervade il cielo come l'aurora; ma poichè il penetrare è un andar innanzi, un arrivar prima, l'açva, «il penetrante,» riuscì pure un rapido, un corsiero, un cavallo.
Perciò il commentatore vedico Aurnabhâva, citato da Yâska, deriva già il nome degli Açvin dai cavalli (Açvair açvinav ity Aurnabhâvah). Quindi Yâska si domanda: «Che sono i due Açvin?» E risponde: «Secondo gli uni, i due Dyu o le due Prithivî (oppure Dyu e Prithivî); secondo altri, il giorno e la notte; secondo altri, il sole e la luna; secondo i narratori di leggende (aitihâsikâh), furono due santi re. Il loro tempo è prima e dopo la notte, prossimo al manifestarsi della luce; il tempo che sta in mezzo a loro è tenebroso; il tempo luminoso appartiene al sole; il loro tempo è al levarsi e al tramontare del sole.»[52] Secondo questa interpretazione, dovremmo cercare gli Açvin così nel crepuscolo vespertino, come nel mattutino, ossia sempre congiunto con un fenomeno luminoso, sia che lo presenti il sole nascente, sia che lo produca il sole moribondo. Tuttavia conviene avvertire come la più costante rappresentazione de' due fratelli Açvin, presso gli Inni vedici, appare nel [209] cielo mattutino, ove arrivano quali forieri della luce. L'uno di essi è il forte che combatte e vince (g'ishnuh), onde fu paragonato ad Indra, l'altro è il ricco (subhagah; inno 181º del primo libro del Rigv.), e fu identificato col sole luminoso che trionfa. Da questa nozione elementare di due fratelli celesti, de' quali l'uno forte, l'altro ricco, si svolsero poi numerosi miti ed ampie leggende. Il fratello ricco divien superbo, e viene punito tornando povero, mentre il fratello forte e sapiente, ossia virtuoso, ha sempre con sè il mezzo di procurarsi, se l'ambisca, la ricchezza. Ecco un aspetto. Il fratello glorioso diviene infelice; il fratello forte ne piglia pietà e affronta ogni pericolo per liberarlo; va per esso all'inferno, sostiene ogni maniera di fatiche per amore di esso. Ecco un altro aspetto più simpatico che il mito assume. I due fratelli si mostrano gelosi l'uno dell'altro e disputano pel possesso d'una donna; ecco un terzo aspetto frequente con cui si mostrano i due fratelli mitici. Ma non è qui luogo di svolgere le numerose forme che il mito de' due fratelli assunse nella tradizione indo-europea, sì bene soltanto di mostrare come essi ci appaiano negl'Inni vedici.
Ripeto dunque che l'aspetto vedico degli Açvin è sempre simpatico. I due fratelli non solo vanno sempre insieme, ma si mostrano pur sempre concordi nel volere il bene.
Come la loro sorella, quantunque antica, è cantata negl'Inni vedici come sempre giovine, ossia come una vergine immortale, così gli Açvin vengono, quantunque antichi (pratnâ), salutati come i più giovani degli Dei. Essi hanno la giovinezza, essi sono giovani (yuvânâ); uno de' loro miracoli più belli sarà quello di ridare la giovinezza ai vecchi: essi sono belli (valgû); un altro loro splendido miracolo sarà quello di ridare la bellezza [210] a chi non l'ha; sono agili, rapidi, arrivano con la rapidità d'un giovine falcone; essi hanno quindi pure il potere di fare arrivar presto i loro protetti, o col dar loro altre gambe, o un celere cavallo, o col pigliarli sul loro proprio carro; sono forti, e assistono nelle pugne i combattenti, assicurando loro la vittoria; sono ricchi, e il loro vasto carro, luminoso ed alato, porta seco e spande l'abbondanza; essi amano, e però assistono gli amanti, servendo loro come amabili mediatori e come paraninfi; sono sani e restituiscono la salute agl'infermi; sono sapienti e danno la sapienza agli stolti; benefattori instancabili degli umani e de' celesti.
La più beneficata delle Dee è la figlia del sole, senza dubbio, l'aurora, alla quale gli Açvin, nell'importante inno 117º del primo libro del Rigveda, fanno vincere la corsa, col permetterle di salire sopra il loro carro. Il commentatore Sâyana reca una variante notevole a questo mito. Non è, in essa, la figlia del sole che corre, ma sì essa appare quale premio che il sole ha destinato al vincitore della corsa, ossia a quelli che arriveranno più presto presso di lei: primi ad arrivare, col loro carro volante, sono gli Açvin, i quali perciò ottengono come sposa conquistata la figlia del sole, e la fanno perciò salire sopra il loro carro. Di queste corse d'eroi per conquistare la mano della figlia del re sono piene le novelline popolari indo-europee. Ma, nell'inno nuziale vedico, gli Açvin appaiono soltanto come i paraninfi della bella sposa celeste, i quali portano la sposa allo sposo. Così, negli inni 116º e 117º del primo libro del Rigveda, essi portano sopra il loro carro la sposa Kamadyû al giovine sposo Vimada. Nell'inno 117º dello stesso libro gli Açvin danno uno sposo a Ghoshâ che invecchiava nella casa paterna, e probabilmente, prima di sposarla, la ringiovanirono, ossia la liberarono dalla [211] lebbra, la vecchiaia essendo appunto la lebbra incurabile, quando non s'abbia il potere di far ringiovanire; perciò, ne' racconti e misteri popolari medievali, i medici, con scellerato consiglio, ai re affetti di lebbra, ossia di vecchiaia, raccomandano di pigliare un bagno nel sangue di fanciullo; nè mancavano medici infami ed ingordi che facessero rapire fanciulli per adoperarli al mostruoso ufficio. Il commentatore Sâyana ci fa sapere che la invecchiante Ghoshâ ringiovanita e fatta sposare dagli Açvin era appunto affetta dalla lebbra; il qual particolare ci permette d'avvicinarla alla fanciulla Apalâ dalla brutta pelle oscurata, cui, per la pietà di lei, il Dio Indra rese bella, dandole una pelle color del sole. È evidente che questo miracolo fatto da Indra e dagli Açvin si riferisce sempre all'aurora che la sera si oscura o divien brutta e vecchia nella notte, per schiarirsi, ringiovanirsi, rimbellirsi di nuovo al mattino, aiutata dagli Açvin crepuscolari. Negli inni 112º e 116º del primo libro del Rigveda, si ricorda che gli Açvin diedero una gamba di ferro a Viçpalâ, a cui in battaglia era stata tagliata la propria; l'aurora amazzone abbiamo già veduto, e udimmo pure come Indra ne abbia fatto in pezzi il carro; gli Açvin che pigliano sul loro carro l'aurora perchè possa, correndo, vincere la corsa, fanno un miracolo simile a quello ch'essi compiono con Viçpalâ, alle gambe della quale sostituiscono gambe ferrate, ossia le proprie, o le ruote del proprio carro. La parola viçpalâ vale propriamente protettrice delle genti, appellativo convenientissimo all'aurora, a quel modo stesso con cui nell'inno 182º del primo libro del Rigveda sono chiamati Viçpalâvasû i due Açvin (ossia i due esseri protettori delle genti viçpalâu-asû).[53] Un miracolo conforme a [212] quello che essi fecero con Viçpalâ lo rinnovano gli Açvin con Vadhrimatî, propriamente la fornita di un moncherino,[54] invece del quale le regalano una mano d'oro, ossia hiranyahasta, di cui si fa quindi un figlio di Vadhrimatî, un figlio avente mani d'oro.
Ma qui non finiscono le opere benefiche degli Açvin celebrate negli Inni vedici. La vacca di Çayu che non dava più latte, essi resero nuovamente lattifera; al privo di cavalli essi diedero un cavallo; a Pedu procacciarono un tale cavallo così forte, così rapido, che, con l'aiuto di esso, egli potè vincere tutti i suoi nemici ed arricchirsi delle loro spoglie; fecero andare e vedere Parâvrig' ch'era zoppo e cieco; restituirono gli occhi a Rig'raçva (ossia quello dal cavallo rosso, o il cavallo rosso), a cui il padre feroce li aveva tolti; ad Atri Saptavadhri, chiuso nella fornace ardente, temprarono il calore e gli recarono nutrimento, alfine lo liberarono; trovarono a Viçvaka il figlio perduto Vishnâpû; diedero la sapienza a Kakshîvant; salvarono Vandana dalla vecchiaia; ringiovanirono il vecchio C'yavana e gli diedero una giovine sposa. Ed eccoci al mito ellenico di Titone. Compiuto dai medici celesti, dagli Açvin, il miracolo, anche la medicina umana s'affannò in cerca di rimedii, di acque di lunga vita, di acque della giovinezza, che potessero richiamare la freschezza e le forze della gioventù sul volto e nelle membra de' vecchi decrepiti; e, non potendosi nella realtà riprodurre il miracolo, si volle almeno riempirne con la immaginazione i racconti popolari, ne' quali la ricerca dell'acqua dell'immortalità ritorna come uno de' motivi [213] favoriti. Ma noi sappiamo che cosa significano i miracoli celesti, e quando il taumaturgo è un vero Dio, ossia una vera persona celeste, noi siamo dispostissimi ad accettare e ad ammirare il miracolo. Ogni sera il cavallo solare, l'eroe solare celeste, s'accieca o s'azzoppa; e quando esso s'accieca e s'azzoppa, non solo non brilla più, non solo non cammina più, ma impedisce anche a noi di vedere e di andare; noi diventiamo, al pari di esso, ciechi e zoppi. Ma, per fortuna sua e nostra, v'è nel cielo un salvatore, un taumaturgo, che dà la vista ai ciechi e fa camminare gli zoppi; al mattino il sole, o mercè sua, o per aiuti celesti, ritorna a splendere ed a correre le vie del cielo, e noi torniamo sulla terra a brillare ed a muoverci con esso; il sole risorto ha ridonato la vista ai ciechi, e rimette in moto la gente zoppa. Il cieco e lo zoppo compagni nella notte, fra le tenebre, s'aiutano e ritrovano nell'orizzonte la loro antica dimora. Il cielo piglia nella sera e nel mattino l'aspetto di una fornace ardente; spira la brezza vespertina e mattutina e ne tempra l'ardore; il sole si libera dalla fornace che minacciava consumarlo, e ritorna a splendere libero e puro per l'orizzonte. Il sole ogni sera invecchia, e diviene impotente a nuove nozze; nella notte si rinvigorisce, e riappare, al mattino, come un giovine sposo, ripieno di vigore. Non ci dicono gli Inni vedici che gli Açvin abbiano pure risuscitato de' Lazzari, ma il sole moribondo è l'eterno Lazzaro celeste, che ogni giorno ed ogni anno muore e risuscita. Chè, se il miracolo celeste si suppose poi rinnovato da migliaia di taumaturghi sopra la terra, ciò non può recar meraviglia, quando si pensi come lo stesso bel mito vedico di C'yavana, indubbiamente celeste, si fosse già umiliato sopra la terra, nel tempo della redazione del Çatapatha Brâhmana, il che vorrà dir sempre oltre quattro secoli innanzi [214] l'êra volgare. Gli Açvin vi appaiono già incarnati sopra la terra, per esercitarvi la medicina fra gli uomini; s'abbattono in Sukanyâ, propriamente la bella fanciulla, e se ne innamorano; ma essa è già sposa del vecchio C'yavana, al quale vuole serbarsi fedele; essa narra anzi al marito che gli Açvin voleano sedurla, ed egli: «Se ti rivolgono ancora una simile domanda, tu devi dir loro: Voi non siete nè completi nè perfetti (parole con le quali sembra indicarsi la natura incerta e quasi amorfa dei crepuscoli); e se essi vorranno sapere in che cosa siano incompleti ed imperfetti, allora soggiungi: Fate ritornar giovine mio marito, ed io ve lo dirò.» Nel vero, gli Açvin, per la curiosità di sapere in che cosa fossero incompleti ed imperfetti, indicarono a C'yavana uno stagno, dal quale egli avrebbe potuto uscire con quell'età che gli fosse meglio piaciuto, e quindi tornarono ad interrogare Sukanyâ. Allora C'yavana rispose per lei: «Gli altri Dei stanno celebrando nel Kurukshetra un sacrificio, e vi escludono da esso: ecco dunque perchè siete incompleti ed imperfetti.» Gli Açvin s'affrettano al sacrificio, e domandano di farne parte; ma gli Dei rispondono: «Noi non vogliamo invitarvi, poichè voi avete errato confidentemente fra gli uomini, in qualità di medici.» Allora gli Açvin osservano che il sacrificio non è completo, perchè vi manca la testa del sacrificio, ossia la testa di Makha, che gli Açvin ritrovano, a patto di essere ammessi al sacrificio. Gli Dei consentono. Nella Tâittiriya Samhitâ[55] si dice che avendo gli Dei qualificati come impuri gli Açvin, perchè aveano frequentati gli uomini in qualità di medici, per questa ragione nessun Brâhmano deve esercitare la medicina, poichè [215] chi esercita la medicina è impuro e però non adatto a celebrare il sacrificio. Ecco in qual modo la superstizione religiosa può di uno stupendo e poetico mito celeste fare una meschina e volgare parodia. Il salvatore del mondo diviene un medico degli uomini, ed il medico un essere impuro, a cui il cielo si chiude. A questo punto si chiude pure l'Olimpo, ed il mito deturpato svanisce nelle aberrazioni di maliziosi commentatori. Indra pluvio primaverile, apportatore del bel tempo, l'Aurora e gli Açvin arrecanti la luce diurna, quando il culto della natura e della famiglia era l'unica religione e l'unica poesia della vita, avevano invocazioni non solo frequenti, ma tènere ed affettuose. Gli Dei amavano gli uomini, perchè gli uomini amavano gli Dei; e gli uomini amavano i loro Iddii, perchè li vedevano, li seguivano, sentivano il beneficio della luce che pioveva dal cielo, ed il terrore malefico della tenebra e del verno che portavano la morte nella natura. I ridestatori quotidiani della vita erano pertanto benedetti ogni giorno; il crepuscolo era atteso con impazienza, poichè annunziava l'aurora, e l'aurora salendo sul carro degli Açvin, ossia de' solleciti, de' primi ad arrivare, risplendeva a rianimare d'un tratto il mondo. Quando il sole saliva in alto, gli uomini si trovavano già tutti intenti alle cure della vita; ma il momento solenne era quello, in cui il vecchio sole dovea risorgere ringiovanito; rinascerà esso? ecco la questione paurosa che doveano porsi ogni sera i padri nostri, nel salutare oranti il vecchio sole moribondo. Esso è passato a traverso la fornace ardente, s'è acciecato, non cammina più, è scomparso; lo ritroveremo noi ancora? Noi abbiamo veduto come gli Açvin ridonassero la vista al cieco, l'andare spedito allo zoppo, il figlio perduto (e forse prodigo) al padre, lo sposo alla fanciulla, la gioventù [216] al vecchio, e beneficassero ancora in altre forme l'eroe celeste; ma vi è ancora un'altra impresa degli Açvin, che merita d'essere distintamente esaminata per la sua importanza. L'eroe solare scompare la sera, in più modi, secondo la immaginazione popolare. Ho già detto come la tenebra sia spesso stata paragonata ad un mare; il sole vespertino che si perde nella tenebra s'immaginò pure caduto nell'acqua, ed è da quest'acqua che gli Açvin verranno invocati a liberare il loro divino protetto.
Nel discorrere dell'acqua mitica, accennammo come le antiche cosmogonie si mostrassero quasi concordi nell'ammettere che il mondo fosse nato dalle acque. L'uovo cosmico, il fuoco ed il vento, nell'India, si figuravano usciti dalle acque, e l'afflato divino biblico, come avvertimmo, vien portato anch'esso sopra le acque, nel principio della creazione. Il signor Francesco Lenormant, in uno studio largo ed originale da lui fatto sopra la leggenda babilonese del Diluvio,[56] vi ha scoperto un Nuah «signore delle acque, signore de' fiumi, signore del mare, re, capo, signore, reggitore delle acque (e soggiunge) come spirito che si muove sopra le acque; i monumenti dell'arte assira e babilonese lo rappresentano spesso portato sopra le onde del mare cosmico, nella forma di uomo-pesce, coperto il capo della tiara regia. Nel vero, presso il lungo Catalogo de' suoi appellativi che fornisce una delle tavolette [217] mitologiche del Museo Britannico, noi troviamo quelli di pesce dell'abisso, pesce benefico, pesce salvatore; nello stesso documento ed in altri ancora, la Dea Davkina sua compagna si denomina la grande sposa del pesce. Così nelle tavolette astrologiche si fa spesso menzione di una costellazione chiamata il pesce di Nuah. Non vi è dubbio che non sia l'intiera costellazione de' pesci, od almeno quella de' due pesci collocata esattamente nella fascia dello Zodiaco; poichè, nella singolare tavoletta che registra i dodici nomi dati al pianeta Mercurio ne' singoli mesi dell'anno, noi vediamo quest'astro prendere il nome di pesce di Nuah, nel mese di adar, l'ultimo dell'anno (febbraio), cioè nel tempo preciso, in cui Mercurio, accompagnando sempre molto dappresso il sole, si trova con esso nel segno de' pesci, o, come dicono gli Astronomi babilonesi, nella costellazione del pesce di Nuah.»
Ho voluto recare questo intiero passo del Lenormant, poichè mi pare assai importante la nozione che ne deriva, cioè della natura conforme di due tradizioni che si sono quindi distinte, la cosmogonica e quella del diluvio. Nella tradizione cosmogonica, il mondo vien fuori dall'oceano acquoso; nella tradizione del diluvio, le acque minaccerebbero distruggere il mondo, ma un uomo si salva miracolosamente che ripopola il mondo; il diluvio ci presenta una seconda cosmogonia. Il Nuah babilonese, nel riscontrarsi col Noè, presenta pure l'aspetto d'un primo Dio che s'agita sopra le acque. Io ho già avvertito come le recenti scoperte delle scienze naturali concordino perfettamente con la nozione cosmogonica d'un mondo venuto fuori delle acque; e la priorità della fauna acquatica sulla fauna terrestre ci mostra pure come potesse conservarsi la tradizione di un primo creatore acquatico, di un Dio creatore in forma di pesce. [218] Quando la terra non era ancora scoperta, quando le acque ravvolgevano ancora, il pesce esisteva già; il pesce ha preceduto l'uomo. Quando s'immagina, nella leggenda del diluvio, una seconda sommersione della terra, il pesce non solo sopravvive, ma, amico dell'uomo, lo salva dalla inondazione. Amore ed Afrodite, prese forme mitiche mattutine e primaverili, si tuffano nel mare in forma di pesci e rinnovano l'anno; il nuovo anno solare si apre in febbraio ed in aprile coi pesci; e coi pesci rinasce la vita nella natura; il pesce generatore, che rinnova la vita, è un salvatore; nella bocca del pesce evangelico si trova la moneta d'oro (e in altre leggende indo-europee l'anello fatato, ossia il disco solare, il Cristo, il crestato); gli Apostoli del Cristo dovevano perciò essere naturalmente pescatori. Per virtù del pesce, il Cristo ha il potere di camminare sopra le acque senza annegarsi; e Cristo stesso fa il miracolo di moltiplicare i due pesci alla folla affamata, e di riempire di pesci la rete de' pescatori che pescavano invano. Perciò, tra le rappresentazioni simboliche del Cristo, ne' primi secoli della Chiesa cristiana, ossia prima di Costantino, la più frequente è quella del pesce, la quale raffìguravasi specialmente sopra le tombe e sopra gli anelli. La parola greca ἴχθυς, pesce, divenuta simbolica del Cristo, i Padri della Chiesa, volendo poi interpretarla al volgo, trovarono composta delle parole greche Ιησοῦς, Χριστός, Φεου υιὸς, Σωτήρ, ossia Gesù Cristo di Dio figlio Salvatore. Apparso nella tradizione il Cristo come pesce, ossia con una delle forme zoologiche più umili, tentarono gli esegeti trarne profitto per celebrare l'umiltà divina del Cristo; onde Gregorio Magno scriveva: Ipse enim latere dignatus est in aquis generis humani; ed Origene avverte che Cristo ha voluto che la moneta si trovasse nella bocca del pesce, [219] poichè egli stesso era pesce, e chiamavasi propriamente il pesce (tropice piscis appellatur). I primi Commentatori, non volendo dare un significato mitico al Cristo, e, per altra parte, trovando nella leggenda di esso particolari che offendevano il loro buon gusto e la loro pietà, si sforzarono d'interpretarli per via d'allegorie; ma queste allegorie tradiscono solamente il loro imbarazzo: così, quando il Cristo, presso il mare di Tiberiade, offre pesci fritti a' suoi discepoli, San Gregorio, assimilandolo a pesce fritto, dichiara che lo stesso Cristo fu quasi tribulatione assatus tempore passionis suae. E Sant'Agostino: piscis assus Christus est; e il venerabile Beda: piscis assus, Christus est passus. Ma, per accostarci al nostro proprio argomento, giova ricordare un'antica pietra anulare cristiana già posseduta dal Foggini, nella quale «sarebbe rappresentata la promessa di un Salvatore fatta ad Adamo ed Eva dopo il loro peccato. Il serpente seduttore si mostra col fatale pomo nella bocca, e i nostri primi parenti stanno inginocchiati in umile atto. Un personaggio molto inclinato stende verso di essi le proprie mani, come per rialzarli. Questo personaggio sembra essere il Verbo divino, e riposando i suoi piedi sopra un pesce, indica in tal forma la natura ch'esso piglierà nella pienezza de' tempi. E poichè la sua incarnazione doveva portare la salvezza al mondo sommerso nell'errore e nel peccato, gli si collocò presso l'arca di Noè con la colomba ed un'àncora, indicante la sicurezza che sarebbe data in tal modo a quelli che navigano nel mare tempestoso del mondo.» Questa descrizione non è mia; me la offre invece uno scrittore ortodosso, l'abate Martigny nel suo Dictionnaire des antiquités chrétiennes. Io metterò qui di mio una sola domanda: Vi sembra egli lecito, dopo tutto ciò, l'avvertire come la leggenda evangelica non è altro se non [220] una nuova forma dell'antica leggenda del diluvio, nella quale il Salvatore appare in forma di pesce, come nella leggenda babilonese e nella indiana? E poichè il Christus passus combina col pesce afrodisiaco d'aprile, ed il sole incomincia in aprile ad ardere, ossia il pesce a friggere, qual meraviglia che il Christus passus e il piscis assus siansi identificati; qual meraviglia se, come la colomba (negli Inni vedici, i due Açvin sono talora rappresentati in forma di due Cigni[57]) è nella leggenda di Noè (cui Filone ebreo[58] chiama l'autore e il principio della rigenerazione degli uomini e salvatore) la messaggiera del bel tempo rigenerato, lo Spirito Santo in forma di colomba annunzii il Redentore e la colombina di Casa Pazzi accenda in Firenze i fuochi d'artifizio, a mezzogiorno del Sabato santo, ed annunzii il Cristo (che dopo essere stato pesce risorge), il rinato sole primaverile uscito dalle acque invernali? Il pesce allora si frigge, si sacrifica, poichè il sole venuto fuori delle acque s'infuoca, e le acque sono scomparse; il Cristo sale al cielo; il sole ascende l'orizzonte, e manda poi verso il giugno dal cielo le sue lingue di fuoco, con le quali il mondo s'illumina; il grasso del pesce trovato dal giovine Tobiolo ridona la vista al vecchio Tobia. Io non posso qui darvi se non un accenno del mito biblico evangelico. Ma io prego quelli de' miei uditori, ai quali la ricerca del vero non mette sgomento, di approfondire questa ricerca, nella fiducia che tutti gli studii, fatti col corredo di un'ampia erudizione, alla dimostrazione della tèsi mitica che si svolge dal Vangelo, confermeranno nelle sue parti essenziali la interpretazione ch'io vi propongo, per quanto essa possa apparirvi [221] insolita e, a primo aspetto, disgustosa. In ogni modo deve rimanere per voi accertato che esiste nelle prime tradizioni cristiane la nozione di un pesce salvatore, presso il quale appare un'àncora; questo pesce (talora, invece di un pesce, se ne rappresentano due) e quest'àncora ci conducono naturalmente a cercar notizia del diluvio indiano e del vedico, il quale ci occupa ora in modo speciale.
Ma, innanzi di passare alla descrizione del mito vedico, giova osservare ancora qual sia propriamente il pesce o animale acquatico che nelle antiche rappresentazioni cristiane figura più spesso come salvatore, e specialmente come salvatore d'un fanciullo. Non è senza una viva meraviglia, che, come nelle antiche tradizioni elleniche, il salvatore di fanciulli è il delfino (onde Solino scriveva: «exempla narrantur delphini puerum ardenti amore depereuntis, colludentis et dorso suo medio mari gestantis, ac fideliter referentis ad litus»), nei più antichi anelli cristiani il Salvatore appare in forma di delfino congiunto con un'àncora. Sulla tomba d'una cristiana chiamata Redenta appare un delfino, congiunto con una colomba, celebrata, com'è noto, per la sua rapidità, affrettantesi verso un'anfora, ch'è il segno zodiacale del mese di gennaio, come i pesci corrispondono al mese di febbraio, e ritornano all'aprile. Così del delfino i Naturalisti sopra tutte le altre qualità celebrano la prestezza;[59] presso i Romani rappresentavansi delfini sopra [222] colonne, e se ne pigliava augurio per future nozze; il che si rileva da quel verso della sesta satira di Giovenale:
Consulit ante phalas delphinorumque columnas
An saga vendenti nubat caupone relicto.
Sopra una pietra anulare cristiana descritta da Montfauçon appare inciso un delfino col motto: Pignus amoris habes; così nelle tombe cristiane si rappresentano i delfini al pari delle colombe, come simboli d'amore. Ma v'è di più: come la colomba vien fuori dalle acque, messaggiera del bel tempo; come il delfino salva il fanciullo dalle acque nel mito ellenico, e si riproduce con l'àncora come una forma del Cristo salvatore, e che salva pure sè stesso; come le antiche rappresentazioni elleniche ci offrono il fanciullo sopra un delfino; così il Martigny ricorda un geroglifico battesimale cristiano, nel quale appare un fanciullo seduto sopra un pesce. E Orientius vescovo del quinto secolo afferma: Piscis natus aquis, auctor baptismatis ipse est. Quindi l'uso di rappresentare de' pesci ne' battisteri e ne' battezzatoi. Tertulliano paragona i Cristiani a pesciolini, poichè nascono nell'acqua come il pesce Gesù Cristo; e soggiunge che, come per il pesce fuori dell'acqua non vi è salute, così non vi può essere pel cristiano fuori dell'acqua battesimale. A Parenzo, nell'Istria, si osserva ancora una vasca di marmo del sesto secolo, già appartenente al Battistero della città, la quale presenta una croce scolpita fra due colombe e fra due pesci. Come poi troviamo il delfino pesce salvatore cristiano congiunto con l'àncora, così ne' battisteri, tra le figure simboliche del Salvatore, appare pure il cervo,[60] il quale [223] va a specchiarsi nel fonte, desideroso dell'acqua come il catecumeno, onde San Girolamo, paragonando ne' Salmi il catecumeno al cervo, soggiunge: «Desiderat venire ad Christum in quo est fons luminis; ut ablutus baptismo, accipiat donum remissionis.» Da questi esempi e da altri infiniti che si potrebbero addurre, par lecito il conchiudere: la leggenda cristiana non essere nata altrimenti che pel foggiarsi di una magnifica allegoria morale sopra un'antica ricchissima mitologia ellenico-orientale.
Riassumendo ora quello che riguarda il mito del diluvio nella tradizione biblico-cristiana, vi troviamo nelle acque il pesce-delfino, rapido, sollecito salvatore del fanciullo, ossia rigeneratore della vita nelle acque; ai pesci quaresimali di febbraio, congiunti con la colomba messaggiera come a zefiri di marzo della primavera, succedono nello Zodiaco il montone ed il toro (due versatori, due fecondatori mitici per eccellenza); al pesce d'aprile della tradizione popolare, il piscis assus, succedono i due gemelli di maggio. Vedremo ora come siansi pure scambiati nella tradizione indiana i due gemelli Açvin con forme animali identiche a quelle che appaiono nel mito ellenico, e nella tradizione biblico-cristiana.
È nota la leggenda epica del diluvio indiano. Il Dio Brahman si fa piccolo pesce, e prega il Dio Manu di salvarlo dai pesci grossi; Manu lo depone in un vaso che risplende come la luna; il pesce cresce: Manu, pregato dal pesce, lo trasporta in un ampio stagno, poi di là nel Gange, infine nel mare; il pesce, contento, prenunzia che l'oceano un giorno salirà ad inondare tutta la terra, lo invita a costrurre una nave e a munirla d'una fune; quando il diluvio arriverà, pensi al pesce da lui beneficato, ed il pesce accorrerà prontamente [224] munito d'un corno, al quale si legherà la fune della nave; così Manu, insieme con sette sapienti e con ogni maniera di semi, entrato nella nave tirata dal pesce, salva sè stesso e salva o rigenera, a traverso le acque, il mondo.
La conoscenza della sola tradizione epica e puranica del diluvio indiano aveva indotto l'illustre Eugenio Burnouf ad ammettere che la tradizione indiana fosse derivata dalla biblica; ma, come il Weber ha, nel primo volume de' suoi Indische Studien, illustrato fin dall'anno 1850 la tradizione vedica del diluvio contenuta nel Çatapatha Brâhmana, io spererei aver trovato negli stessi Inni del Rigveda la prova che la tradizione del diluvio appartenne non solo al periodo, nel quale i popoli della stirpe aria non erano ancora divisi, ma sì ancora a quello, in cui se la razza semitica e la turanica non formavano più una razza sola con l'ariana, erano, per lo meno, ancora intimamente congiunte con essa. Secondo la tradizione raccolta nel Çatapatha Brâhmana, ossia in un'opera, la cui redazione rimonta sicuramente oltre il quarto secolo innanzi l'êra volgare, si racconta che Manu si lavava, quando gli apparve un pesce e gli disse: «Salvami, io ti salverò;» Manu piglia la stessa cura di lui che ci viene descritta nel racconto epico; quando il diluvio arriva, al corno del pesce si lega la fune della nave, e la nave viene tirata sulla cima d'un monte e legata sovr'esso ad un albero. Cessato il diluvio, Manu, per mezzo del sacrificio, della penitenza e della preghiera, crea una figlia, e con essa rigenera quindi il mondo de' viventi. La figlia di Manu si chiama Idâ, e la parola idâ vale la libazione, la preghiera, la parola sacra, che ci richiama al verbo rigeneratore, al logos che era nel principio, e da cui furono fatte tutte le cose, secondo il Vangelo di San Giovanni. La leggenda cosmogonica, [225] la leggenda del diluvio e la leggenda del sacro battesimo rigeneratore presentano fra loro una strettissima analogia.
Ma è tempo oramai che stringiamo più dappresso il mito vedico. Nell'inno 116º del primo libro del Rigveda ci si rappresenta il giovinetto Bhug'yu, figlio di Tugra,[61] smarrito nella nuvola acquosa (udameghe), nell'oceano (samudre); intervengono i due Açvin, i quali sopra una nave dai cento remi lo portano alla riva açvinâ yad ûhathur Bhug'yum astam çatâritrâm nâvam âtasthivân'sam. Questa nave, in altro versetto, figura al plurale; e le navi alla loro volta si trasformano in tre carri volanti, dai cento piedi, ossia dalle cento ruote, tirati da sei cavalli, in tre giorni e in tre notti; ma qui evidentemente vuolsi ritenere la variante come prodotta per solo amore del numero tre; i sei cavalli in tre notti formano due cavalli per notte; i due Açvin rapidi salvatori, e i due cavalli tiratori del carro, in cui si salva l'eroe Bhug'yu dalle acque, s'identificano perfettamente. Nell'inno 117º ritorna lo stesso motivo mitico; il figlio di Tugra, dal mare inondante (arnasah samudrâd), avendo invocato gli Açvin, viene salvato, per mezzo di volanti cavalli, sopra un carro rapido come il pensiero. [226] Nell'inno 182º lo stesso figlio di Tugra, tuffato nelle acque, nella profonda tenebra, vien liberato dagli Açvin sopra navi. L'inno 68º del settimo libro ci mostra finalmente la stretta relazione della storia dell'eroe rimasto nel pozzo, per l'invidia de' suoi compagni, con la leggenda dell'eroe che minaccia di perdersi in una inondazione universale; dicendoci esso come Bhug'yu sia stato abbandonato nel mezzo del mare, non più dal padre, il perverso Tugra, ma da' suoi malvagi compagni.
Ma in altri inni (Rigv., I, 112, 116, 117, 118, 119) egli, invece di Bhug'yu, piglia il nome di Rebha e chiuso nelle acque in un pozzo, per l'opera di maligni, invocando gli Açvin, viene liberato; io ho già mostrato altrove[62] l'identità di questo Rebha col Trita acquoso, il terzo fratello valente e perseguitato, e la sua probabile parentela con uno dei tre fratelli R'ibhavas, de' quali il più giovane si mostra il più esperto. In ogni modo, qui il mito ci offre chiaramente un eroe fanciullo che si salva dalle acque, per mezzo di una nave miracolosa, volante, dai cento remi; e dalla leggenda del Çatapatha Brâhmana ed epica apprendiamo come Manu si salva dall'inondazione sopra una nave legata al corno d'un pesce. Questo pesce salvatore, cornuto, attaccato alla nave (che ci ricorda la nave con l'àncora, il pesce o i pesci con l'àncora della rappresentazione cristiana), occorre pure presso gli Inni vedici, ove gli Açvin appaiono ora in forma di nave dai cento remi, ora in forma di carro dalle cento ruote, ora in forma di cavalli volanti tiranti il carro, ora in forma di cigni, ora in forma di pesci rapidissimi tiranti la nave.
Nella leggenda puranica il Dio salvatore, invece di Brahman, appare Vishnu in forma di pesce. Questo pesce, [227] in cui Vishnu s'incarna, ora appare una çaphari (il cyprinus sophore), ora un çiçumâras o çinçumâras. Çiçumâras è il nome dato, in lingua indiana, ora al riccio di mare, ora al delfino. L'inno 116º del primo libro del Rigveda ci fa sapere che il carro ripieno di ricchezze degli Açvin è tirato da un Vrishabhas o toro, e da un çinçumâras, che vale tanto il riccio di mare quanto il delfino. Dicemmo che la nave degli Açvin, nella quale è salvato dall'inondazione il giovine Bhug'yu,[63] è chiamata dai cento remi, ed è interessante l'apprendere ciò che dalla Sicilia mi scrive Giuseppe Pitrè, cioè che i fanciulli siciliani, dopo aver pescato il riccio di mare, spandono sopra di esso un po' di sale, e lo invitano a navigare, chiamandolo quello dai cento remi.
Ma il Çiçumâra non è solo, in lingua indiana, il riccio di mare, il Delphinus Gangeticus, ma il vero delfino, e poi il delfino celeste, che si colloca nella parte più stellata del cielo. Dei due Açvin, adunque, che accorrono a liberare il figlio del mostro Tugra, ossia il giovine Bhug'yu dalle onde, l'uno si fa pesce, l'altro toro, come il pesce apre il mese d'aprile, ossia il mese del pluvio toro fecondatore, e, cadute le pioggie d'aprile, fritto il pesce, il sole primaverile, il celeste fanciullo s'avanza vigoroso e potente per le vie del cielo, dopo essersi battezzato nelle acque, che gli diedero forza, e dalle quali scampò per aiuto del pesce, e specialmente del delfino, che la grossolana scienza popolare ha sempre figurato [228] come pesce. Da questi esempi ch'io ho accostati parmi non resti dubbio intorno ad alcuni fatti essenziali: 1º che una forma elementare della leggenda del diluvio è già contenuta negl'inni vedici; 2º che la leggenda vedica presenta riuniti in germe i caratteri che si trovano sparsi e divisi nella leggenda biblica e nelle tradizioni cristiane; 3º che il delfino è il pesce liberatore del fanciullo divino, come il pesce cristiano porta figurato sopra di sè un fanciullo, come il fanciullo Eros ellenico è figurato sopra un delfino, l'amico dei fanciulli, come il delfino Cristo, il pesce Cristo lascia venire a sè i fanciulli. Ma, per qual ragione, fra tutti gli animali acquatici fu preferito il delfino, come salvatore dal diluvio, destinato a purgare, come le onde battesimali, il mondo dal peccato, ossia a liberare dal male, a salvare l'innocente? In Grecia il delfino era sacro ad Apollo, per averne salvato dal naufragio il figlio Icadio, il quale giunto a terra edificò, per riconoscenza, un tempio dedicato ad Apollo, per memoria del delfino, chiamato Delfo. Noi siamo qui in piena mitologia solare; il delfino salva il giovine figlio del sole, ossia il nuovo sole dalle acque. La Grecia ricordava numerose varianti di questo racconto; e sempre, in esso, il naufrago salvato è un fanciullo, e il salvatore è un delfino.
Quando il mare minaccia tempesta, i delfini si mostrano alla superficie del mare, e così avvertono i naviganti, nel tempo stesso che offrono aspetto di una nave galleggiante. Ma, per qual ragione, essi danno la loro preferenza ai fanciulli? Nel cielo mitico, il delfino, il pesce rostrato, il pesce dalla testa grossa, il pesce cornuto, il pesce con l'àncora, o la nave dai cento remi, il riccio dai cento remi che tira fuori l'eroe solare perduto nelle acque, è, per lo più, l'astro cornuto lunare, il quale domina particolarmente la stagione notturna invernale [229] e pluvia, che nell'oceano notturno ed invernale emerge solo dai flutti, e cede quindi il posto al mattino ed alla primavera, al giovine sole, al sole fanciullo. Ma di questa sua predilezione per i fanciulli vi è pure una ragione ne' suoi appellativi. Solino ci fa sapere che simones amavano essere chiamati dai pescatori i delfini, a motivo del loro muso depresso, e che chiamati in tal modo accorrevano subito, non meno obbedienti dell'apostolo Simone, il più sollecito seguace del Cristo, il crestato salvatore del mondo, che salva primo sè stesso traverso le acque, e nel battesimo. Presso Plauto e Terenzio, il simo appare una maschera di vecchio anzichè di fanciullo; ma il delfino è pesce celebrato ancora per la sua prestezza nel crescere, nel farsi grande di piccolo che era; gli si attribuisce pure una grande longevità, dicendosi ch'ei possa vivere fino a trecento anni. Per tutte queste qualità, il delfino doveva apparire ben degno di dar forma ad uno di quegli Açvin, che hanno il potere di concedere la immortalità, l'acqua della lunga vita, ossia la giovinezza ai vecchi, e poteva pure raffigurar Vishnu, il Dio nano, che, facendosi a un tratto gigante, misurava in tre passi il mondo. Le leggende epiche e brâhmaniche del diluvio ci presentano dapprima piccolissimo il pesce salvatore, e poi di tale grandezza ch'esso possa solamente più agitarsi nell'Oceano. Ora è interessante conoscere come le voci çiçuka, çiçumaras, che denominano il delfino (ond'è, senza dubbio, derivato l'equivalente zingarico, il delfino simôrus), contengano, come idea principale, quella di çiçu che vale piccolo fanciullo, e presentino una stretta analogia con la parola kumâra che vale per l'appunto fanciullo, anzi il fanciullo per eccellenza, il fanciullo reale, il principe ereditario, che gli Spagnuoli chiamarono infante, ed i Francesi, per una singolare coincidenza storica, Dauphin, in memoria d'un [230] giovine principe ereditario del secolo decimosecondo, che prese, per quanto si narra, come sua insegna il delfino. Il nome del delfino e quello del fanciullo furono, in lingua indiana, equivalenti; quando perciò il delfino vedico unito col toro salva il giovine Bhug'yu, salva un Kumâra, e il valore del prefisso ku e quello dell'aggettivo çiçu essendo analogo salva, per simpatia, un simile a sè stesso; l'astro lunare salva l'astro solare, ossia ringiovanisce il vecchio sole. La luna cede il posto al sole, la luna trae fuori il sole che s'era perduto nelle acque della tenebra notturna ed invernale; un Dioscuro salva l'altro. Il Dio Luno, al pari del sole, si rappresenta ora come il vecchio per eccellenza, onnipossente, che scopre tutti i segreti, ora come un nano che ha tutte le malizie; la luna cresce per fasi; il fanciullo mitico prevede tutto ed il vecchio mitico ha tutto veduto; perciò il delfino, il pesce salvatore, chiamato çiçumâra o piccolo, appare dapprima piccolo e debole, e finisce col diventare immenso ed onnipotente; così Kumâra, «il fanciullo,» divenne in sanscrito un appellativo del terribile Skanda, il Dio della guerra; il giovinetto Eros, come abbiamo già notato, ed Ares s'identificarono. Il delfino porta, ossia salva, Eros; il çiçumâras o delfino vedico e puranico trascina e salva il kumâra Bhug'yu, il figlio reale dalle acque, ossia il nuovo sole progenitore, il reale infante celeste, dalla tenebra notturna ed invernale. Ogni giorno ed ogni anno si rinnova nel cielo la leggenda cosmogonica e del diluvio: ogni giorno ed ogni anno, l'antico Manu, l'antico Noè, ed il Cristo, dopo essere divenuto pesce nelle acque dell'oceano notturno ed invernale; dopo avere ritrovato, in forma di pesce, la moneta d'oro, l'anello, la gemma, il disco solare, ossia sè stesso; dopo essere entrato come Giona ed Hanumant nel ventre del pesce, e avere così attraversato [231] incolume l'Oceano; dopo essersi chiuso nella nave tirata dall'animale cornuto celeste; il delfino dalla testa grossa, o il toro, vien fuori ringiovanito e potente in tutto il suo splendore. È possibile che alcuni particolari del mito da me qui esposto possano ancora dichiararsi altrimenti da quello che ho fatto; ma non mi sembra che la natura mitica del diluvio possa più essere messa in dubbio, come neppure la necessità di associare oramai gli studii di mitologia biblico-cristiana con quelli della mitologia comparata indo-europea.
[233]
Noi conosciamo già il Dio che si salva dalle acque e che diviene il salvatore per mezzo dell'acqua. Ma, perchè il Dio si salvi, bisogna prima che corra pericolo, che si sacrifichi. Il Dio che risuscita deve prima necessariamente morire, se pure la sua morte non abbia ad essere che apparente. Noi diciamo del sole che alla sera è andato a coricarsi e che al mattino si leva; i Francesi chiamano coucher et lever du soleil lo scomparire del sole dal l'orizzonte e il suo riapparirvi. Dunque, nella notte, il sole dorme. Ma questo sonno del sole parve talora uno stato di morte, dopo avere attraversato un mare tenebroso. L'anima del morto celeste non sta ferma, ma viaggia occulta per un mondo misterioso, per ricongiungersi al mattino con la sua forma corporea; così, ne' sogni, l'anima nostra alata, mentre il nostro corpo giace come morto, visita mondi insoliti. Presso la Katha Upanishad citata dal Weber negli Indische Studien si paragona il mondo dei Mani al mondo che si visita nei sogni.
Il sole, nei tre tempi della notte, nei tre giorni del solstizio d'inverno, nei tre giorni dell'equinozio di primavera, par morto; pare, ed invece esso viaggia da una parte all'altra dell'orizzonte; dopo tre giorni, Lazzaro [234] vien fuori; Cristo rompe il suo sepolcro dopo aver visitato il Limbo dei Santi Padri e liberate e guidate al Regno dei Beati le anime loro. Il vedico Yama ci offre una somiglianza mirabile con quella forma peculiare di Cristo legato che si sacrifica pel bene degli uomini, che guida le anime de' trapassati, e poi risuscita. Il sole muore la sera e rinasce al mattino, muore in autunno per nascere a Natale come fanciullo e rinascere adulto in primavera, dopo essersi battezzato nelle acque benedette, nelle acque sacre, nelle acque d'aprile che ravvivano. Noi assistiamo ogni sera ed ogni autunno allo spettacolo del sole moribondo. Yama, il Dio de' morti, non rappresentò in origine altro che il sole moribondo vespertino. La parola Yama vale propriamente il legato e l'infrenante sè stesso, ossia il legato, l'infrenato; così il vecchio Sansone legato perde la sua chioma, ossia la sua forza, e s'accieca; il sole ritira i suoi raggi, perde la sua chioma luminosa e s'accieca nella scura notte; il Cristo, il crestato, legato come malfattore, alla sua aureola luminosa sostituisce una corona di spine, e muore. Io potrei proseguire, stringendo più ancora simili raffronti; ma, poichè comparazioni così fatte non saranno ammesse se non dopo lunga discussione, io debbo tenermi pago ad accennarvi una via larghissima, feconda di belle scoperte per lo studioso che la percorra senz'altra ambizione che quella di trovare il vero e di propagarlo. Intanto cercheremo qui di rappresentare la figura del Dio Yama, quale ce la offrono gl'inni vedici.
Yama, il legato, l'infrenato, propriamente il legante, l'infrenante sè stesso, dell'età vedica, che diviene poi nell'età brâhmanica il legatore, l'infrenatore, quello che getta il collare funebre sopra i moribondi, che li lega con la sua fune per trascinarli all'inferno, si rappresenta come figlio di Vivasvant, al pari di Manu. Dunque [235] Yama e Manu sono equivalenti mitici. Nella leggenda del diluvio, Manu figlio di Vivasvant si salva dalle acque del diluvio universale per la sua pietà; negl'Inni vedici, l'eroe è salvato dal naufragio per l'intervento degli Açvin; ma uno degli appellativi degli Açvin è pure Yamau, ossia propriamente i due congiungentisi, i due legati insieme, i due gemelli, rappresentati essi pure nell'inno 17º del decimo libro del Rigveda come figli di Vivasvant. Manu figlio di Vivasvant rinnova il vedico Yama figlio di Vivasvant; Manu figlio di Vivasvant esce dalle acque come l'eroe vedico, salvato dai Yamau, ossia dai Dioscuri. Abbiamo un gemello che va all'inferno per liberar l'altro gemello; nel mito cristiano, il Cristo scende all'inferno per liberare i morti prima; nel mito vedico dei due Açvin, liberatori dell'eroe solare, dopo la rappresentazione che abbiamo fatto di essi, è evidente che l'uno de' due Açvin si trova specialmente congiunto col sole, l'altro specialmente con la luna; la luna libera il sole, un gemello libera l'altro gemello; un Yama è liberato dall'altro Yama; i due Yama si liberano l'un l'altro; e come il Yama legato, o legante sè, divenne il Yama legatore, così il Yama liberato, o liberante sè, divenne il liberatore, per la stessa analogia, per cui vedemmo che il Cristo, il quale si salva dalle acque, a traverso le acque, per mezzo delle acque, divenne l'istitutore del battesimo, il salvatore per mezzo dell'acqua battesimale che libera dal male. Così miti apparentemente diversi trovansi, per un filo sottilissimo, congiunti. Come l'aggettivo nel divenire appellativo creò gran numero di persone mitiche; così il passivo, per mezzo del medio, divenendo attivo, diede occasione a parecchie gesta mitiche; l'equivoco del linguaggio ebbe qui ancora larghissimo potere. La vittima sacrificata o sacrificantesi diviene eroica; l'eroe che si salva è un salvatore di sè [236] stesso; e il salvatore di sè stesso riesce quindi semplicemente un salvatore, ed il salvatore per eccellenza. Ed il linguaggio, nel compiere una tale evoluzione, seconda pure la serie de' ragionamenti che doveva fare naturalmente l'uomo primitivo nell'osservare i fenomeni della natura e specialmente i fenomeni solari. È necessario in cielo come in terra che uno muoia per tutti; guai se il sole non tramontasse mai, la terra sarebbe tutta un incendio. Il sole tramonta, il sole muore, e, morendo come risuscitando, ci salva da morte. Egli ama tutti, e muore per tutti. Il primo de' mortali è il sole, ed egli è al tempo stesso il primo di quelli che si salvano, ossia il primo de' salvatori.
Ma il primo de' mortali dovette pure essere il primo de' nati; e, pel solito frequente naturale equivoco tra il passivo, il medio e l'attivo, il primo de' generati, il primo che si genera riuscì pure il primo de' generatori. Come nella genealogia biblica Adamo è il primo dei nati e il primo destinato alla morte, così il vedico Yama appare il primo mortale. Come poi la genealogia biblica incomincia con un uomo ed una donna, ossia con due forme gemelle, figlie del creatore, delle quali l'una maschio, l'altra femmina; così, negl'Inni vedici, presso il Dio Yama, ci occorrono i due gemelli Yamau identificati con gli Açvin, e poi i due gemelli, de' quali l'uno maschio, l'altro femmina, Yama e Yamî. De' due gemelli, in natura, l'uno è, per lo più, forte, l'altro debole; dei due fratelli mitici l'uno soccorre l'altro, e il soccorritore non è sempre il più forte; un debole fanciullo, un impotente, un imbecille appare spesso come liberatore; il passivo soccorre l'attivo; la donna tiene il posto del gemello debole. Per cagione della donna l'eroe mitico si perde, talora si salva. Eva appare come peccatrice che perde l'uomo; Dalila tradisce Sansone; la Vergine Maria [237] appare, invece, come la salvatrice degli uomini. In Yama ed in Yamî si videro il giorno e la notte; ma niente c'induce a riconoscere la notte nella Yamî, mentre Yama appare indubbiamente il sole; come, pertanto, vedemmo già l'aurora strettamente congiunta coi due Açvin, ossia coi due Yama, il Yama vespertino e il Yama mattutino, e rappresentarsi come loro sorella, non mi par dubbio che la Yamî, gemella di Yama, non sia altro che l'aurora gemella del sole e della luna. Adamo ed Eva son creature dello stesso padre, e però fratello e sorella; si uniscono, ed il loro peccato si sconta con la morte; dopo una vita dolorosa, Eva partorirà con dolore; Adamo lavorerà per la sua famiglia: la leggenda del Cristo, che con la morte sconta il peccato originale, si congiunge intimamente con la leggenda di Adamo, del quale esso appare una splendida variante mitica. Gli Inni vedici non ci rappresentano ancora la pena, ma raffigurano la colpa dell'unione d'un fratello con una sorella, la quale deve essere evitata come incestuosa. L'inno 10º del decimo libro del Rigveda ci offre un dialogo singolare tra il mortale Yama e Yamî, tra il fratello e la sorella. Come nel racconto biblico la donna fa da seduttrice, Yamî invita Yama ad unirsi con lei. Essa dice al fratello: «Gli immortali desiderano questo: un discendente di te, unico mortale; poni l'animo tuo nell'animo mio; come sposo, entra nel corpo della sposa.» Yama risponde che non vuol fare quello che finora non ha mai fatto, e che vuol conformare le opere alle parole oneste. Ma Yamî insiste, avvertendo come lo stesso Dio creatore Tvashtar onniforme li abbia creati in un solo germe, per essere marito e moglie (dampatî). Yama si rifiuta sempre, e tratta la sorella come una donna impudica; ma essa diviene provocante, avverte come in cielo ed in terra i due gemelli sono uniti e dovrebbero però girare insieme [238] le ruote del carro, come se non fossero fratello e sorella. Yama invita Yamî a cercarsi un altro marito. Essa rimprovera il fratello di non esser buon fratello (Bhrâtar-fratello e Bhartar-marito sono due noti equivalenti che significano il sostentatore), poichè non viene in aiuto alla sorella e la lascia andare in disperazione, mentre essa è tormentata dall'amore. Yama risponde: «Io non potrei accostare il mio corpo al tuo; un peccatore chiamarono colui, il quale si unì con la sua sorella; con altri, all'infuori di me, pigliati piacere; il fratello tuo, o bella, non può desiderare codesto.» Yamî irritata risponde: «Oh tu sei un uomo da nulla, o Yama; noi non vediamo in te nè animo nè cuore; ed un'altra donna t'abbraccierà stretto, come ghirlanda, o come una liana l'albero.»
Come gli Açvin, che amano la loro sorella aurora, anzichè unirsi con essa, finirono per trovarle uno sposo e le servono da paraninfi; così Yama termina con l'augurio che Yamî possa trovare uno sposo, che la faccia felice. Quest'inno, di cui una variante trovasi pure nell'Atharvaveda, rivelasi di una composizione relativamente moderna, poichè ci richiama ad un tempo, in cui l'adagio popolare, la vox populi, sta per diventare vox Dei, ossia legge sacra: dissero peccatore, esclama il poeta, l'uomo che s'unisce con la propria sorella; la sentenza popolare consegnata nell'inno vedico diventerà, in breve, autorità religiosa, inviolabile. Ma l'inno stesso tradisce tuttavia la presenza di una tradizione, secondo la quale il primo uomo e la prima donna erano stati fratello e sorella, e la donna avea tentato l'uomo. È notevole come nell'inno vedico si faccia da Yamî l'augurio, perchè Yama ottenga un figlio, ossia dia al padre un nipotino, dopo avere attraversato il vasto oceano (tirah puru c'id arnavam g'aganvan).
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In questo carattere il mito di Yama si congiunge anco più intimamente con quello degli Açvin liberatori dalle acque, e con quello del loro proprio alter ego, Manu Vàivasvata, il liberato dal diluvio universale, che, uscendo dalle acque, rigenera, dopo aver fatta molta penitenza, il mondo.
Nel sesto libro dell'Atharvaveda (citato dal Muir), Yama, identificato con Mr'ityu, «la Morte,» appare il primo che arrivò al fiume. Questo è fiume ad un tempo di perdizione e di purificazione. Nell'inno 14º del decimo libro del Rigveda son pure ricordati i vasti fiumi, ai quali arriva il re Yama, figlio di Vivasvant, ed esplora la via (panthâm) per i molti (che la dovranno percorrere). È nota l'analogia che passa tra le voci pons e pontus. Il mare, i fiumi diedero sembianza di vie; solamente, invece di percorrersi sui carri rotanti, si solcavano sulle barche remeggianti.
È singolare qui ancora la corrispondenza delle credenze vediche con le elleniche: Yama arriva primo al mare, al fiume, lo attraversa, esplora la via, la insegna agli altri; al regno de' morti, secondo il concepimento ellenico, si arrivava attraversando l'onda del fiume o della palude infernale. L'inno vedico afferma esplicitamente che Yama fu quello che morì primo, che de' mortali partì primo pel mondo di là (propriamente, per quel mondo); il primo che trovò la via per noi, dalla quale non possiamo discostarci. Le anime de' morti s'incontrano, partendo, in Yama e Varuna; Yama concede a quelle che gli appartengono, una dimora luminosa ed acquosa; le difende dai due cani nati di Saramâ, dai quattro occhi, macchiettati, insaziabili, dalle vaste narici, che stanno a guardia della via (pathirakshî), altro carattere di somiglianza tra il Regno de' morti vedico e il Tartaro ellenico guardato dal tricipite Cerbero. I due cani errano [240] fra gli uomini, come messaggieri del Dio Yama, ossia della Morte (messaggiero di Yama nel Rigveda è pure un uccello funebre). E, come si adora il Diavolo perchè stia lontano, così si pregano i due cani di Yama, perchè lascino ancora rivedere il sole al devoto, perchè gli diano ancora in terra una esistenza felice. Ma Yama è specialmente invocato ne' funerali, perchè dia una lunga vita al devoto fra gli Dei. Evidentemente il vedico Yama si disegna già in un duplice aspetto, l'uno paradisiaco, l'altro infernale. Esso ha i suoi protetti, e quelli che caddero nella sua disgrazia; i protetti saranno beati, e quelli ch'egli non ama, erreranno incerti o dannati.
La virtù di Yama come quella de' suoi cani consiste particolarmente, a quanto pare, nella sua virtù visiva; egli guida per vie inesplorate le anime de' morti, ed i suoi cani hanno quattro occhi. Ma come mai può Yama avere conservato la vista, s'egli personifica specialmente il sole moribondo che s'accieca? Come può essere egli la guida de' morti, se, morendo, secondo la credenza vedica, dal Muir dottamente riscontrata con le credenze elleniche, perfettamente analoghe, l'occhio del trapassato va a perdersi nel sole, da cui è nato,[64] ed il sole vespertino si estingue? Qual è l'occhio di Yama guidatore de' morti? Gli Inni vedici non c'istruiscono su questo punto; ma vi è un Dio brâhmanico che ha stretta affinità col Dio Yama, e di cui occupa i due ufficii, quello di beato paradisiaco e quello di distruggitore; esso è Çiva che si rappresenta con la luna in fronte.
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Noi diciamo ancora il mondo della luna per indicare il mondo di là; come il sole, il primo mortale, si scambia colla luna, così il mondo lunare allieta le anime dei morti e le fa quindi risorgere, coi loro corpi, dopo averle probabilmente fatte passare per l'ambrosia della via lattea. La luna guardiana delle vie è probabilmente l'occhio, per cui Yama viaggia esso stesso, e conduce i viandanti trapassati; noi abbiamo già veduto come Manu Vâivasvata si salva dalle acque mercè il corno del pesce delfino che emerge dalle acque, il quale tira la nave sopra la cima di un'alta montagna. Questo corno salvatore è la luna cornuta; così la luna fa da guidatore all'eroe solare nella tenebra notturna. La stretta relazione che passa fra Lucina (Lucna, Luna) e la infernale Proserpina o Persefone dominatrice del regno de' morti, moglie di Plutone il re de' morti, rende ancora più probabile la relazione che supponiamo nel mito vedico fra Yama Dio de' morti, e Soma il Dio Luno, il Dio ambrosiaco, che lo guida, lo ristora e lo salva. Yama è rappresentato nell'inno 135º del decimo libro del Rigveda come bevente insieme con gli Dei presso un albero dalle belle foglie, il noto albero paradisiaco; quello è sicuramente il luogo luminoso, in cui nel consorzio dei devoti, dei beati, Yama si trattiene, facendo festa con essi, dopo averli guidati per la via delle stelle[65] alla dimora dei loro padri, ove giunti nessuno ha più desiderio di rinascere nella vita mortale, poichè quella è la vita perfetta. Nel Çatapatha Brâhmana si dice, in vero, che l'uomo nasce tre volte: la prima quando il padre lo genera, la seconda quando si purifica per mezzo de' sacrificii (noi diremmo, dopo aver preso i sacramenti del Battesimo e [242] della Cresima), la terza quando muore; poichè, dopo che il cadavere fu arso, Yama conduce l'anima, ossia, come dicemmo già, la parte innata (ag'o bhâgah) del trapassato nel terzo cielo, al cielo pradyaus, forse la via lattea; o al regno de' beati, ov'è gioia e luce eterna, adempimento completo di tutti i desiderii, nella vista degli Dei, dopo avere attraversata una regione scura, la quale, come dicemmo, si figura acquosa.
Yama trovasi ora identificato con Sûrya il sole, ora con Agni il fuoco, ora con Vâyu il vento, che vedemmo far spesso da messaggiero. Esso è il portato o portante sè, ed il portitor; la brezza vespertina e mattutina, la brezza autunnale e primaverile è messaggiera; essa porta l'anima del morto sole nel regno de' beati; essa dal regno de' beati la riporta nel mattino e nella primavera alla vita. Yama s'identifica col suo proprio messaggiero; così, come troviamo presso Yama, i Yamau, i due rapidi Açvin, i due suoi cani messaggieri Sarameyau, ossia appartenenti alla Saramâ (ed è noto come il Kuhn abbia avvicinato ai vedici messaggieri Sarameyau ed a Saramâ l'ellenico messaggiero Hermeîas), è importante il riscontrare, presso il nostro Yama, guidatore delle anime de' morti e signore de' due cani Sarameyau, l'ellenico Hermeîas psychopompos.
Yama apparirebbe esso stesso una forma di Hermeîas, con cui forse ha pure qualche attinenza etimologica, quando si voglia tener conto del facile scambio che poté accadere fra le voci Sayamâ e Saramâ; onde la Sayamâ riuscirebbe una equivalente della Yamî. Ma non vogliamo insistere sopra una semplice ipotesi. Ciò che invece non resta dubbio è la presenza nel periodo vedico di un Dio che primo muore, e che mostra agli altri la via della salute, per arrivare all'eterna beatitudine, e che questo Dio benefattore, chiamato Yama, è un Dio [243] solare. Noi possiamo, di più, già trovare negl'Inni vedici indizii d'una vaga credenza nel paradiso e nell'inferno, e però in un Dio che premia e castiga.
Abbiamo già detto come, secondo la credenza degli antichi Indiani, le anime dei trapassati, ossia dei Pitaras, de' padri, de' morti maggiori, i Mani, si trovassero per lo più in una condizione simile a quella, in cui l'anima nostra si trova quando si sogna. Essa, prima di fermarsi nella sua sede beata, più tosto che incorporea, piglia un corpo a piacere, diviene alata, vola, percorre liberamente gli spazii, è capace di dolore e di gioia. Quest'anima viaggiatrice, secondo gli Inni vedici, senza aver più un proprio corpo materiale, dava una forma più luminosa alle proprie sembianze individuali. Secondo l'Atharvaveda, i Pitaras riuniscono invece tutte le membra e tutti gli spiriti del trapassato, mostrandosi così di credere ad una completa risurrezione de' corpi simile a quella ch'è promessa o minacciata a noi nella valle di Giosafatte.
Dei Pitaras ve ne sono di varie condizioni: i soli che il devoto invoca sono quelli che arrivarono al sommo cielo, ossia alla somma beatitudine, i quali, partiti prima, come Yama, il primo de' morti, possono venire in aiuto de' nuovi arrivati, siccome quelli che godono già dell'ambrosia immortale insieme con gli Dei, con Indra, e possono farne partecipi i loro discendenti. Come gli Angeli e i Santi del Paradiso cattolico sono invitati a pregare e intercedere per noi peccatori; così il poeta vedico, nell'inno 15º del decimo libro del Rigveda, rivolgendosi ai beati Pitaras, diceva le sue litanie: Essi arrivino, essi ascoltino, essi parlino per noi, essi ci proteggano; ed aggiungeva: Non fateci danno, o padri, se noi per umana debolezza abbiamo potuto peccare contro di voi. Il danno maggiore che potevan fare [244] loro i Pitaras era sicuramente quello di negare l'ospitalità nel sommo cielo, al quale ogni anima di trapassato, bruciato il corpo, tendeva di salire, serbando, come ci assicura il Tâittiriya Brâhmana, piena coscienza di sè stessa. «Ognuno, — esso dice, — partendo da questo mondo, conobbe sè stesso, dicendo: Io son pur io;» precisamente come le ombre di Luciano, e come avviene ne' sogni, dai quali, senza dubbio, si regolavano i Brâhmani per definire la grave questione della immortalità dell'anima.
Il morto teme che tutti gli offesi in vita da lui si levino a vendetta; perciò, consumandosi il corpo nel rogo, si supplica dagli astanti il fuoco Gârhapatya di liberare l'estinto dal danno che gli può venire per le offese da lui fatte alla terra, all'aria, al cielo, alla madre, al padre, per poter salire al mondo de' giusti. La terra potrebbe trattenerlo quaggiù, l'aria impedirgli la via, il cielo non lasciarlo entrare, il padre e la madre, che siedono beati fra i Pitaras, cacciarli dall'eliso; perciò è necessario, ne' sacrificii funebri, far dimenticare tutte le offese. Ma, mentre si prega perchè il morto arrivi presto in cielo, con la stessa sollecitudine il superstite orante supplica d'essere lasciato vivere lungamente sopra la terra, il che prova come, nel periodo vedico, se era grande la speranza di rivivere dopo morte, era più forte il desiderio di conservare la vita come un bene provato e sicuro; e la stessa speranza nell'immortalità è una prova del vivo desiderio che l'uomo ha di vivere, del grande amore ch'esso porta alla vita.
Ma non è dubbio che gl'Indiani del periodo vedico hanno creduto nell'immortalità dell'anima, nella vita dopo la morte. La vita mortale è sempre amata; la morte è temuta e scongiurata; prima d'arrivare al concepimento buddhistico del dissolvimento completo come suprema [245] beatitudine, il pensiero indiano dovette dunque passare per una lenta e lunga evoluzione; ma a questa evoluzione dovette pure preparar la via la stessa consolazione vedica nella speranza d'un'altra vita spirituale, beata, al sopraggiungere della morte. Ripeto che il desiderio intenso della vita dovette essere la principale ragione che alimentò l'antica fede nella sovresistenza spirituale dell'uomo dopo la morte; ma è certo che questo bisogno di sopravvivere alla vita mortale diede presto origine ad una credenza vivace nella vita in un mondo di là, come fu chiamato fino dall'età vedica il mondo, ove si suppose che i morti si recassero. Quando poi si radicò profondamente nell'animo degl'Indiani la credenza nella metempsicosi, la vita mortale fu considerata come una vera sventura, la morte come una liberatrice, e il regno de' beati apparve il mondo, in cui cessa ogni sensazione della vita. Ma negl'Inni vedici e ne' loro commentarii immediati l'uomo ama ancora la vita, e la prolunga nell'immortalità. Si negò la presenza dell'inferno presso il mondo vedico; ma dove abbiamo una pena, un castigo, abbiamo pure l'inferno. Già dicemmo come Yama ed i Pitaras accolgano nel loro mondo paradisiaco i soli trapassati che furono pii; è un premio; l'esclusione da un tal premio è il primo castigo.[66] Ma vi ha di più.
Nel Çatapatha Brâhmana, ci si disegna già una forma del cristiano arcangelo San Michele, il pesatore delle anime. Il male ed il bene di ciascuno viene pesato sopra una bilancia; e secondo che il bene od il male ha il di sopra, si avrà bene o male nella vita futura. [246] E il bene, secondo lo stesso Çatapatha Brâhmana, già interpretato dal professor Weber, è, nell'età vedica, non solo l'immortalità, ma, secondo che abbiamo già accennato, per un indizio dell'Atharvaveda, l'immortalità col proprio corpo; onde con ragione osserva il Muir che in relazione con tale credenza, è la cura posta dagli astanti, nella cremazione de' morti per raccogliere le ossa del trapassato, le quali dovranno servire a ricostituirne il corpo; la carne è materia che si può perdere e riacquistare; le ossa invece sono il tronco ed i rami, sopra i quali si estende e si propaga la vita.[67] Per questo riguardo è assoluto il contrasto fra le dottrine vediche e le dottrine brâhmanico-buddhistiche. Nel periodo vedico si considera come un bene la vita, si prega il fuoco sotterraneo di non distruggere il corpo del devoto seppellito e s'augura che i Pitaras, ricomponendo le membra del morto, lo raccolgano nella loro beatitudine; l'anima è troppo stretta al corpo per potersene lungamente disgiungere; l'anima dell'uomo, disgiunta dal corpo, secondo il pensiero vedico, erra incerta, finchè s'annienta, o pure, secondo un concepimento posteriore, nasce in altra vita terrena assai peggiore della precedente. Ma questo annientamento, ch'è la pena de' dannati vedici, non ha niente di comune con l'annientamento buddhistico, il quale nel sopprimere presso l'uomo devoto il corpo sensibile e le sensazioni d'ogni maniera, lo santifica e gli prepara un'ascendente beatitudine divina. Nel mondo vedico, i soli Dei hanno il privilegio di poter vivere immortali, non senza forma, chè assumono anch'essi sempre or l'una or l'altra forma, ma [247] senza un loro proprio corpo immutabile. I devoti mortali del periodo vedico non ambirono punto una forma d'immortalità incorporea; e come ai nostri bambini cattolici si promettono tuttora le mele d'oro del paradiso, così ai bambini vedici si prometteva il latte, il miele, l'ambrosia nel regno dei Pitaras, nel cielo pradyaus, distante dalla terra per mille giorni di viaggio a cavallo (secondo una nozione dell'Aitareya Brâhmana). Il paradiso vedico, non dissimile dal cristiano, non è privo di sensualità; perciò il devoto desidera di salirvi col proprio corpo, come vi sale, in premio delle proprie penitenze, il devoto Mudgala, presso il Mahâbhârata. Il regno de' beati prese perciò in sanscrito l'appellativo di Nandana, ossia luogo di delizia. Non è qui il luogo di considerare il paradiso indiano, secondo le rappresentazioni brâhmaniche; ma voleva pure essere accennato come, nel periodo vedico, la beatitudine paradisiaca riducevasi già alla perfetta soddisfazione con la presenza del corpo, il che lascia naturalmente supporre che si trattasse, insomma, di una suprema soddisfazione de' sensi, insieme con la continuazione degli altri piaceri più puri che rendevano lieta la vita terrena: così, nell'Atharvaveda, il devoto invoca il nume, perchè lo lasci salire al cielo eternamente luminoso e vivere in esso, privo d'ogni malanno, con la propria sposa, coi proprii figli e con gli amici virtuosi, ed ottenere il conseguimento di tutti i desiderii; e i desiderii devono essere essenzialmente sensuali, poichè una delle prime preghiere rivolte, nell'Atharvaveda, al fuoco del rogo che consuma il cadavere, è ch'ei non gli consumi l'organo della generazione (çiçnam). Come gli Dei vedici son dediti a piaceri carnali, così i Pitaras, e i loro pii discendenti che vanno a raggiungerli nel mondo di là.
I dannati, invece, non potendo salire nella regione [248] luminosa, vanno, secondo gli Inni del Rigveda, perduti nelle tenebre dell'abisso più profondo, specie d'Inferno vedico che ci richiama al Tartaro ellenico; nell'Atharvaveda l'inferno stesso si trova già nominato col suo nome ordinario di Nâraka-loka, e considerato come sede riserbata agli empii ed ai malvagi.
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Per la stessa ragione, per cui nel mondo vedico originario non troviamo ancora distintamente indicato il Dio unico assoluto, e ci appaiono invece molti Dei proteiformi, il pastore vedico non concepiva ancora il Diavolo come un essere singolare, unico, potente, rivale di Dio. Vi sono Demonii come vi sono Dei; ma non vi è il Demonio unico come non v'è l'unico Dio. Quando il monoteismo appare, si manifesta pure, se così può chiamarsi, il monodemonismo; e a quel punto la religione iranica si stacca dalla indiana: l'India, nel vero, non ci offre nessun antagonismo così deciso e spiccato come quello che ci presentano i libri zendici nella lotta fra Ahura Mazda e Anhro Mainyu, l'uno genio di luce che crea le cose buone, l'altro genio tenebroso che suscita tutte le forme del male. Nell'India, invece, nel tempo stesso in cui Brahman vi assume dignità di nume supremo, esso non ha contro di sè una sola forma di demonio: com'egli non è solo nell'Olimpo, ove, prima di lui, altri numi potenti, più che imperare, operavano cose mirabili, ed ove più tardi vengono a dividere con esso il supremo potere altri due numi, Vishnu e Çiva; così i demonii mutano nomi e forme non solo secondo [250] che mutano gli Dei, ma secondo che il Dio si trasforma: Satana e Anhro Mainyu sono sempre conformi a sè stessi, e mantengono costante il loro carattere maligno. I demonii vedici e brâhmanici, invece, partecipano di tutta la mobilità degli Dei, e, come il Dio si muove dalla forma luminosa e termina nella tenebrosa, così accade che il Demonio si muova dalla forma tenebrosa e riesca alla luminosa; il Paradiso e l'Inferno confinano fra loro; agitandosi, l'uno passa nell'altro; così il Dio e il Demonio scambiano le loro parti. L'appellativo più frequente dato al demonio vedico e brâhmanico è quello di Viçvarûpa od onniforme, e Kâmarûpa, ossia mutante forma a piacere: simili appellativi assumono pure talora gli Dei; ora si comprende come il Dio, potendo pigliare ogni forma, possa pure assumere vesti demoniache, e il Demonio del pari, nella sua capacità di trasformarsi senza fine riesca pure ad appropriarsi le forme luminose divine. Gli Dei come i Demonii sono nati insieme, e, secondo la mitologia vedica, da uno stesso padre, dal fabbro universale celeste Tvashtar.
Noi troviamo dunque perciò ordinariamente accennati al plurale i demonii vedici, o, quando essi appaiono al singolare, il loro nome è generico, indistinto, come rakshas che vuol dire mostro, oppure specifico di specie molteplici e differenti.
Uno degli appellativi plurali de' demonii vedici è Dânavas. La parola Dânavas è il plurale di Dânu e si dà come equivalente di figli di Dânu, uno de' nomi attribuiti alla moglie del mostro Vritra, ucciso da Indra, nell'inno 32º del primo libro del Rigveda, oppure di Danu, che appare come figlia di Daksha e sposa di Kaçyapa presso il Çatapatha Brâhmana. Dânu, al neutro, vale, presso gli Inni vedici, rugiada, stilla, goccia; onde i Dânavas apparirebbero gli umidi, nel loro primitivo aspetto. [251] Ma, perdutosi l'antico originario significato della parola, in breve i Dânavas divennero i mostri demoniaci, i nemici degli Dei in genere, e tra questi mostri generici potè quindi trovar posto lo stesso Çushna, secco e disseccatore, il quale trovasi in una delle upanishad definito come un dânava. Dânunaspatî, o signori del Dânu, ossia dell'umore ambrosiaco, sono chiamati in alcuni Inni vedici i due bellissimi Açvin; in quanto i fenomeni rugiadosi dell'aurora mattutina e della primavera si rinnovino nel cielo pluvio, lo stillante divino può diventare un umido demoniaco; e quindi si può forse spiegare la leggenda epica indiana di un figlio della Dea della bellezza, Çrî, la Venere indiana, convertito nel mostruoso Dânava o demonio Kabandha presso il Râmâyana. La parola Kabandha vale propriamente barile; il mostro-barile o Kabandha del Râmâyana ha la sua origine nella nuvola kabandha, ossia nella nuvola-barile degli Inni vedici. Il figlio della Venere ambrosiaca, il figlio di Çrî, che diviene demonio Kabandha, sembra farci assistere particolarmente al fenomeno del cielo pluvio primaverile. E non solo Kabandha è figlio di Çrî, ma tutti i Dânavas sono posti sotto la particolare protezione dell'astro di Venere, del quale si mostrano particolarmente devoti, onde poi gli appellativi di dânavaguru o maestro dei Dânavas e di dânavapûg'ita o venerato dai Dânavas, dati presso l'astronomo Varâhamihira al pianeta Çukra o Venere. Il numero dei Dânavas appare infinito negli scritti brâhmanici; nell'inno 120º del decimo libro del Rigveda se ne rammentano soli sette: così da Sâyana, in nota all'inno 114º del primo libro, si danno anche gli Asurâs come figli di Diti, e si narra che Indra li distrusse in germe nell'utero materno, nel numero di sette. L'appellativo sanscrito di Dâittyâs, o Dâiteyâs, o Ditig'âs, dato, negli [252] scritti brâhmanici, ai demonii, come figli di Diti, immaginata, come dicemmo in opposizione alla veneranda Aditi, madre de' divini Adityâs, non si trova ancora negli scritti vedici. Tuttavia, come da danu o dânu si ebbero i dânavas, si potrebbe nella parola diti riconoscere la stessa radice dâ o dî (di), che occorre in danu o dânu; onde i dâityas sarebbero gli umidi goccianti come i dânavas, di cui uno pigliò, come dicemmo, forma di nuvola-barile.
Ma vi sono ancora altri appellativi generici de' demonii negli Inni vedici: i principali sono quelli di dâsâs, di dasyavas, di asurâs, di krishnâs, di pânayas, oltre a quello più comune di rakshasâs o mostri. Nelle parole dâsa, dasyu, parrebbe ancora potersi ritrovare la stessa radice dâ, che occorre in danu e in diti e dâitya; e come vedemmo gli Açvin signori del dânu ambrosiaco, così, presso gli appellativi dei demonii dasyu, dâsa, troviamo quello degli Açvin dasrâu, quello d'Indra e di Agni dasma. Ma, nelle voci dâsa, dasyu, si videro poi particolarmente i distruggitori malefici, i nemici, le persone volgari. Nè solo i demonii combattuti da Indra, come, per esempio, Çambara, Çushna, C'umuri, ec., pigliano il nome di dasyu negl'inni vedici, ma ancora le anime de' morti, alle quali non è concesso di salire alle sedi beate; e però esse errano simili alle larvæ de' Latini, in una forma demoniaca, a disturbare l'opera de' devoti. Il nome di dasyu è quindi pur dato agli empii nemici degli Arii, ai ladri, ai barbari irreligiosi. Così dâsa, l'appellativo generico di parecchi demonii vinti da Indra, come, oltre Çambara, Namuc'i, Pipru, Varc'in, venne poi a significare lo schiavo, il servo, la persona vile. Nel cielo, i Dâsâs o demonii hanno spose o diavolesse, chiamate Dâsapatnis. Questo appellativo è dato particolarmente alle âpas od acque nel citato inno 32º del primo [253] libro del Rigveda; una nuova analogia che ci dovrebbe confermare nel ravvicinamento etimologico fra dâsa o dasyu e dâitya (da diti) e dânu. Ma, in altri Inni vedici, il dasyu appare più tosto come un genio tenebroso notturno; il 5º inno del settimo libro del Rigveda ci fa sapere che Agni cacciò dalla casa i demonii (dasyûn), generando la vasta luce pel devoto (âryaya). Qui il dasyu appare una specie di fantasma notturno, di larva, di spirito, dissipato dalla luce del mattino; perciò ancora nell'inno 117º del primo libro, a dissipare i Dasyu appaiono i due Açvin, per mezzo del bakura (o vakura) che io interpreterei per carro[68] (dalla radice vedica vak, che nello stesso Rigveda, VII, 21, trovasi adoperata per esprimere il roteare del carro d'Indra comparato al muggito di vacca, tvad vavakre rathyo na dhenâ). E l'ârya varna che Indra porta innanzi, distruggendo i dasyu, nell'inno 34º del terzo libro (quantunque il dâsa, il dasyu vedico, appaia talora il nemico terreno degli Aryâs), non mi pare potersi interpretare il colore degli Arii, in opposizione al colore dei non Arii, ma semplicemente il bel colore, lo splendido colore, la luce mattutina, che, distruggendo i notturni tenebrosi Dasyu, Indra riporta nel cielo.
Il senso ambiguo che ha la parola spirito nell'Occidente latino ebbe già nell'Oriente indiano la voce asura, propriamente l'essere (cfr. asu, «alito vitale, spirito»). E come gli spiriti servirono poi particolarmente a significare i genii maligni, così gli asurâs, posti in opposizione coi devâs, rappresentarono particolarmente i demonii. E come lo spirito divenne Spiritus Sanctus, come l'asura, in zendo ahura, divenne Ahuramazda , [254] il sommo nume dell'Iran, così, nell'India vedica, Varuna, il sommo reggitore del cielo, il cielo stesso, apparve col nome di asuras, ossia di sommo spirito, di spirito per eccellenza, di spirito onnisapiente (asura Viçvavedâs; Rigveda, VIII, 42). Ma, per lo più, l'asura o spirito rappresentò lo spirito maligno, e al plurale gli spiriti maligni, la schiera de' demonii, retta secondo il Çatapatha Brâhmana da Asita Dhânva (forse il nero del deserto, ossia la nuvola scura del cielo), secondo il Mahâbhârata da Baka o Vaka, secondo il Râmâyana da Bali Vairoc'ani, secondo il Kathâsaritsâgara da Mâyadhâra, nome che ci richiama agli Asurâs mâyinas o Demonii magici dell'Atharvaveda e alla magìa demoniaca o degli spiriti, ossia asuramâyâ dell'Atharvaveda e del Çatapatha Brâhmana. Ma, mentre, nell'India vedica, l'asuratva e l'asurya, più che l'essere demoniaco rappresentano l'essere spirituale, l'essere divino, la divinità, dopo che le leggende brâhmaniche rappresentarono gli asurâs in guerra co' devàs, per cagione specialmente dell'ambrosia, l'asura finì col prendere nell'India brâhmanica un aspetto intieramente demoniaco; nè ciò soltanto, ma esistendo l'asura come nemico dei devâs (nell'inno 85º dell'ottavo libro del Rigveda gli asurâs sono anzi chiamati adevâs), si dimenticò l'etimologia della parola (da as «soffiare, spirare, essere»), e si vide nell'a iniziale un privativo, un nemico del Sura, che valse a significare il Dio, come già di Aditi, nati gli Adityâs, nei Dâityâs non si videro già degli esseri originariamente forse non punto demoniaci, ma dei figli di una Diti nemica della divina Aditi. Così, per un duplice equivoco etimologico, sarebbe nata tutta una serie di Dei o Surâs, per un verso, e di tutta una serie di Demonii o Dâityâs per l'altro.
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Ma, dal sin qui detto, parmi poter constare abbastanza, come, in origine, a quel modo stesso con cui non esisteva ancora un Dio distinto, così non esisteva neppure un distinto Demonio. Il dânu o danu, il dâsa o dasyu, l'asura, non furono originariamente appellativi di figure distinte demoniache; essi, da principio, erano comuni alle forme luminose celesti e alle tenebrose; ma, per essersi quindi con qualche maggiore insistenza attribuiti ai fenomeni tenebrosi, e per successive combinazioni mitiche e per sopravvenuti equivoci di linguaggio, servirono particolarmente a denominare le forme demoniache.
Ma come i devâs e gli asurâs appaiono quali creature d'uno stesso padre (ora Tvashtar, ora Prag'âpati), così, presso il Yag'urveda nero, essi si mostrano uguali in potenza e in dignità, e dediti entrambi alla preghiera (brahmanvantas).
Il Tâittiriya Brâhmana, ci fa sapere che la terra in principio era degli asurâs (asurânâm vai iyam agre âsit), ma che, avendo gli Dei chiesto loro un po' più di posto per sè stessi, ne ottennero tanto quanti essi avrebbero potuto circondarne. Essi si posero ai quattro angoli della terra e l'avvolsero tutta.[69] Lo stesso Brâhmana ci dice che i devâs e gli asurâs non si distinguevano gli uni dagli altri. Queste sono pel mitologo nozioni preziose. Una leggenda del Çatapatha Brâhmana[70] spiega in un modo infantile, ma moralmente interessante, il passaggio che fecero i Devâs e gli Asurâs ad uno stato di intiera [256] opposizione. — I devâs e gli asurâs creature di Prag'âpati ottennero in sorte dal loro padre Prag'âpati la parola, il vero ed il falso; gli uni e gli altri pertanto parlavano ora il vero, ora il falso; parlanti allo stesso modo, erano uguali. I devâs, lasciando la menzogna, elessero quindi la verità; gli asurâs, lasciando la verità, adottarono la menzogna. Allora la verità che rimaneva presso gli asurâs comprese: «Gli Dei, abbandonando la menzogna, hanno scelta la verità; ch'io vada dunque a congiungermi con essa;» e così recossi presso gli Dei. La menzogna che rimaneva presso gli Dei comprese: «Gli asurâs, lasciando la verità, hanno prescelta la menzogna; io voglio dunque riunirmi con essa;» così dicendo, essa si recò presso gli asurâs. Allora gli Dei dicevano tutta la verità e gli asurâs tutta la menzogna. Dicendo intieramente il vero, gli Dei divennero come deboli e poveri. Perciò colui che dice solamente il vero diviene debole e povero; ma al fine egli riesce, come, al fine, riuscirono gli Dei. E gli asurâs, dicendo unicamente il falso, divennero prosperi e ricchi come l'aurora;[71] perciò colui che dice unicamente il falso prospera e s'arricchisce come l'aurora, ma, al fine, si rovina, poichè gli asurâs, al fine, si rovinarono. Quello ch'è vero è la triplice scienza (contenuta nei tre Vedi); gli Dei dissero: «Sacrificando, celebriamo questa verità.» — Gli Asurâs, dopo di ciò, volendo disturbare i sacrificii divini, vengono maledetti. Ma è agevole intendere come tutte queste spiegazioni leggendarie brâhmaniche [257] siano il prodotto non più di una mitologia, ma di una filosofia scolastica; e, se noi possiamo dare ad esse alcuna importanza in questo studio, non è tanto per le conclusioni, quanto per le premesse che pongono, le quali confermano una gran verità essenziale, secondo la quale il mito vedico antico non ci presenterebbe ancora un Dio ed un Demonio spiccati, distinti ed in guerra fra loro, ma sì invece indeterminati, affini, quasi necessarii l'uno all'altro; poichè gli elementi della materia che combinandosi crea la vita non si presentano in dissidio, in lotta fra loro, ma sì invece intenti a comporsi in nuove armonie fisiche, le quali potranno divenire più tardi armonie morali. L'uomo primitivo ha, di certo, sentito momenti di terrore innanzi all'accostarsi delle tenebre della notte o tra il fragore spaventevole di una bufera sugli altipiani dell'Asia centrale; ma il più spesso egli vide e comprese come dalla tenebra vien fuori la luce, dalla morte la vita, e fu sollecito a riconoscere in quella vicenda naturale una tremenda insieme e poetica necessità della vita.
Quando poi si determinò con formole religiose, prima domestiche e poi sociali, l'entusiasmo per la luce e il terrore della tenebra, ogni fenomeno luminoso apparve divino, ogni fenomeno tenebroso demoniaco; e quando, finalmente, sopra le mitologie essendo nate le religioni, si fondarono sopra queste religioni le Chiese, queste, sollecitamente operose come nell'Iran e nella Palestina, rovesciando l'edificio mitico, stabilirono il monoteismo, o, per dir meglio, il dualismo, ove un sommo Dio d'ogni perfezione combatte contro un Demonio, autore d'ogni male. Nell'India la liturgia della casta brâhmanica arrivò, quando i miti erano già stati consegnati alla storia negli Inni vedici, prima popolari e poi, perchè popolari, in virtù della stessa prudenza [258] brâhmanica, divenuti sacri, e quando infinite leggende mitiche correvano già di famiglia in famiglia, impossibili ad estirparsi. Il Brâhmanesimo non risale come istituzione civile oltre il quinto secolo innanzi l'êra volgare, e, prima di quel secolo, l'India aveva già percorso tutto un ciclo della sua vita storica; la casta brâhmanica si trovò innanzi ad un popolo non più giovane, anzi quasi vecchio, e con materiali leggendarii di una mole prodigiosa, sopra i quali potè bene combinare nuovi sistemi teologici e filosofici più o meno mostruosi, ma non creare sopra di essi alcun nuovo mito veramente vitale. Rivoltasi invece la religione a diventar strumento politico per costituire l'onnipotenza di una casta privilegiata, essa perdette ogni naturalezza e, come l'edera s'inalza gigante a usurpare le mura delle dimore indiane, sopra le quali si abbarbica, così, sopra la mitologia vedica che non poteva distruggere, il Brâhmanesimo s'inalzò per coprirla, e per adoperarla come fondamento della sua ragione di Stato; presso a poco quello che il Cristianesimo, ma con intento morale assai più alto e benefico, operò sopra i miti ed usi pagani, de' quali si nutrì come di sostanza vitale. Caduta, o per lo meno indebolita gravemente, l'azione morale del Cristianesimo, esso, dispogliato del suo prestigio, ci si ripresenta ora nella sua nudità, ossia nelle sua forma embrionale pagana. Così, nell'India, tolto tutto ciò che le Chiese e scuole brâhmaniche hanno aggiunto di parassito all'antica mitologia vedica, noi ci ritroviamo nel cospetto di miti naturali, così semplici, che la loro stessa semplicità potrebbe far disperare un interprete, il quale si proponesse di rappresentare gli Dei indiani non già com'essi nacquero, ma come si vorrebbero vedere, se un artista greco avesse ricevuto l'incarico di finirli e di condurli, come si dice, a pulimento. Perciò, come io [259] non ho potuto rappresentarvi alcun Dio in un solo unico, vivace, compiuto aspetto caratteristico, così e, tanto meno, potrei rappresentarvi in una sola forma i demonii vedici; e dico, tanto meno, poichè se il Dio che riproduce un fenomeno generalmente luminoso può talora lasciarsi sfuggire la sua natura specifica, tanto minore evidenza può avere per noi il Demonio che rappresenta, per lo più, un fenomeno tenebroso e una negazione.
Il campo degli Dei e quello dei Demonii è il medesimo; solamente gli uni finiscono col prevalere in una parte, gli altri nell'altra di quel campo. Secondo l'Aitareya Brâhmana, gli Dei avrebbero avuto vittoria sopra un solo punto, come il San Martino della leggenda cristiana per un solo punto perderà poi la sua cavalcatura demoniaca.[72] Gli Dei e gli Asuri combattono fra loro nell'Est, nel Sud, nell'Ovest e nel Nord, e sempre gli Asuri rimangono vittoriosi, ma v'è una regione intermedia, fra il Nord e l'Est, nella quale gli Dei trionfano; essa viene perciò chiamata la regione invitta (sâ eshâ dig aparâg'itâ). Accortisi della loro debolezza sopra gli altri punti, gli Dei si eleggono per loro re l'ambrosiaco Soma, e allora la piena vittoria sopra gli Asuri viene ad essi assicurata; poichè la gran lotta fra gli Dei e i Demonii si riduce essenzialmente ad una gara pel possesso dell'ambrosia, ora trattenuta dagli uni, ora dagli altri, secondo che il cielo, sede dell'ambrosia, è occupato dalla luce o dalla tenebra. E si capisce come quando il Dio Ambrosio in persona regge l'Olimpo degli Dei, i Demonii si trovano inferiori nella prova; ed il loro stato riesce simile a quello di morte, finch'essi, con arte magica, non rientreranno in possesso dell'ambrosia desiderata e perduta; [260] l'amr'ita dà naturalmente l'immortalità a chi la possiede; perciò, in un inno dell'Atharvaveda, non solo il Dio possessore dell'ambrosia vince gli Asuri, ma riesce pure a distruggerli il penitente o brahmac'ârin, il quale diviene, con la virtù delle sue penitenze, un germe nella vulva dell'amr'ita, ossia diviene Indra (garbho bhûtvâ amr'itasya yonâv Indro ha bhûtvâ asurâns tatarda), ossia acquista l'amuleto stesso, col quale Indra stesso uccise Vritra, superò gli Asuri e conquistò cielo e terra e le quattro regioni. In una leggenda cosmogonica del Çatapatha Brâhmana si narra che in origine tutto il mondo era acqua, solamente acqua; le acque fanno penitenza, e nasce in mezzo ad esse un uovo d'oro. L'uovo erra un anno sopra le acque, e poi si schiude e ne vien fuori il purusha, il maschio universale, il creatore Prag'àpati. Poichè Prag'àpati pose un anno a nascere, così i figli mortali stanno un anno nel ventre materno. Dopo un anno Prag'àpati incomincia a parlare, perchè nascano la terra, l'atmosfera, il cielo; perciò anche i bambini incominciano a parlare dopo un anno. Egli è nato per un millenio, e s'accinge in esso a creare l'universo. Coi proprii occhi crea gli Dei nel cielo, quindi nasce la luce; con l'alito inferiore crea gli asurâs (atha yo 'yam avâñ prânas asurân asr'ig'ata), e ne nasce la tenebra; con la tenebra vien fuori il male. L'asura si identifica qui col genio della tenebra, col genio scuro, interpretato come cattivo; ma non sempre lo scuro valse il cattivo: così vedemmo già Varuna, il copritore del cielo, la vôlta celeste, specialmente la vôlta celeste notturna, assumere la qualità di supremo divino Asura: una leggenda del Çatapatha Brâhmana ci fa sapere come gli Asurâs perdettero la loro superiorità sopra gli Dei per sola colpa della loro eccessiva arroganza od opinione di sè stessi (te'timânena eva parâbabhûvus).
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La nozione più generale che possiamo dunque ricavare dagli scritti vedici e brâhmanici intorno alla prima essenza degli Asurâs è questa: ch'essi in origine non furono dissimili dagli Dei; e che, se più tardi, come scuri, tenebrosi divennero specialmente demoniaci, originariamente non furono tanto i malefici, quanto i misteriosi nascondenti nella loro veste scura alcun segreto luminoso, e però genii comuni tanto de' fenomeni luminosi aperti, quanto de' fenomeni luminosi celati e coperti. Indra stesso, che appare quindi come il più formidabile Dio, sconfiggitore di mostri tenebrosi e malefici, partecipa delle due nature celesti, luminosa e scura; ed ora avvolgendosi di tenebre o di nuvole prepara la luce e apporta la pioggia; ora, invece di avvolgersi con vesti tenebrose e nuvolose, le squarcia, ed in simile atto appare qual nemico della tenebra e della nuvola. A far poi degenerare il genio scuro in genio demoniaco valse non poco uno de' più frequenti e dai mitologi non forse abbastanza avvertiti equivoci del linguaggio, io voglio dire gli equivoci nati sopra i nomi de' colori. Nella mia Mitologia zoologica ebbi frequente occasione di notare parecchi miti indiani nati pel solo equivoco fra le voci hari e harit, che denominano l'aureo, il biondo, il giallo, il verde; ma l'aureo del fuoco è ancora chiamato arusha, aruna, rohit, rohita, che vale poi specialmente rosso, rossastro; così dalla voce indiana kr'imi-karmi che vale verme (k-vermis), lituano kirminis, nacque il colore cremisino, e dalla parola verme poi il nostro colore vermiglio; al vermiglio è affine il colore pavonazzo, e il color violaceo o pavonazzo è chiamato in indiano nîla; nîlakantha vien denominato il pavone, ossia dal collo nîla, che vale poi specialmente azzurro, scuro, nero; nîla chiamasi perciò l'indigo, e nîlapatra, nîlapadma, nîlotpala, ec., il fior di loto azzurro. Così da un solo colore, [262] per gradazione di tinte, passiamo a tutti gli altri. Confusisi in una omonimia costante nell'India, il nero e l'azzurro, l'azzurro celeste diventò facilmente il nero, e il nero un colore demoniaco. I demonii combattuti da Indra pigliano talora insieme il nome di Kr'ishnâs, propriamente i neri; ma la voce kr'ishna servì pure in sanscrito a denominare la pianta dell'indigo e il vetriolo azzurro. Indra si raffigura nella tradizione posteriore brâhmanica come milloculo, con un corpo azzurro tempestato di occhi, ossia come cielo azzurro tempestato di stelle. Indra, come vedemmo, fu in origine semplicemente (al pari di Varuna e di Dyu) il cielo azzurro, come lo Zeus ellenico, il Jupiter latino, sposo di Giunone; Giove in forma di cuculo visita segretamente la moglie Giunone: kr'ishna è pure uno degli appellativi indiani del cuculo; e indica altresì il tempo, in cui la luna sta nascosta, ossia la quindicina scura che passa tra il plenilunio e il novilunio, ossia il tempo in cui il cielo notturno si mostra del colore di un azzurro cupo, scuro, e che si confonde perciò col nero. Ma, per terminare la nomenclatura indiana de' colori, mentre per un verso il kr'ishna o scuro si accosta all'arusha o rosso scuro, la stessa analogia sembra presentarsi nella lingua russa fra il c'ornoye o nero (da c'orni), e il krâçnoye o rosso (da kraçni), nel ritrovare, presso il Mahâbhârata, stretti intimamente fra loro Kr'ishna, il nero, ed il figlio d'Indra Arg'una, propriamente il bianco, argentino (Indra stesso è chiamato Arg'una nel Çatapatha Brâhmana, che dice esser quello il nome segreto del Dio; perciò Arg'una intraprende nel Mahâbhârata un viaggio al cielo paradisiaco di suo padre Indra, che lo fa rallegrare dalle Ninfe divine), dobbiamo intendere che il bianco è solamente un nero stinto; e l'alba mattutina non è altrimenti prodotta che per l'indebolirsi delle ombre [263] scure, innanzi al primo riflesso de' raggi solari. Come in uno specchio, come nell'onda, come nell'arcobaleno si rifrangono tutti i colori dell'iride, ossia come da un solo punto per un solo raggio di luce balzano fuori tutti i colori; così nel linguaggio, il quale non è propriamente altro che una gradazione successiva di suoni o di colori vocali che rivestono il pensiero, per minime deviazioni di riflessi ideali, con parole omonime, si vennero a rappresentare i colori apparentemente più opposti, e che l'analisi chimica può invece restituire alla loro semplicità e conformità elementare. Il colore argentino delle acque (çvetî o bianca è il nome vedico dato ad una riviera) si trasformò più spesso in colore scuro; assimilato il cielo ad un fiume, ad un oceano, quelle acque ora apparvero azzurre, verdastre, scure, ora argentee; perciò, ripeto, possiamo trovare strettamente congiunti fra loro Kr'ishna, il nereggiante (e ancora l'azzurreggiante e forse pure il rosseggiante) e Arg'una, l'albeggiante, che si loda particolarmente pel suo piè veloce, per la sua agilità, prontezza, sollecitudine, come l'alba è la prima ad apparire il mattino nel cielo orientale. Anzi Kr'ishna ed Arg'una sono così vicini, che nel quarto libro del Mahâbhârata Arg'una appare col nome di Kr'ishna; e il duale Kr'ishnâu, rappresentandoci Kr'ishna ed Arg'una, ci lascia pensare ch'essi siano una nuova forma epica dei due fratelli Açvin, l'uno de' quali è in particolare relazione colla luna, l'altro col sole; l'uno col giorno, l'altro colla notte. Arg'una compagno di Kr'ishna, e Arg'una figlio d'Indra, e simile ad Indra, ci presentano poi come affini Indra e Kr'ishna, quasi due forme germane d'uno stesso Dio. Ma, come nella leggenda de' due fratelli, l'un fratello, per gelosia, si rivolge contro l'altro, onde nasce fra loro odio mortale e guerra infinita; così, mentre, negli Inni vedici, vediamo Indra [264] che combatte e vince i Kr'ishnâs o neri, ed il mostro nero, più tardi Kr'ishna, diviene Dio esso stesso pastorale e guerriero, s'identifica con Vishnu, combatte contro un Indra decaduto e quasi demoniaco, e lo vince. Le parti de' due fratelli, de' due compagni, de' due rivali si scambiano: Kr'ishna diviene luminoso; Indra tenebroso. Nel quinto libro del Mahâbhârata si tenta di dare una spiegazione del nome di Kr'ishna, e non se ne trova altra dal brâhmano etimologo intento a predicare penitenza, se non questa: Kr'ishi vale «terra,» na «non;» la non terra, la rinuncia alla terra, e ai beni mondani. La ridicolezza di una simile etimologia è troppo evidente per sè, perchè sia ancora necessario insistervi. Lo stesso Mahâbhârata, nel suo primo libro, ha un'altra etimologia non più seria, ma certamente più interessante. Identificato Kr'ishna con Hari, il biondo, l'aureo Vishnu, si racconta che Hari si levò due capelli, l'uno bianco, l'altro nero (keçau, Harir udvavarha çuklam ekam aparam c'âpi kr'ishnam); i due capelli penetrarono nel corpo di due donne, Devakî e Rohinî. Il capello bianco generò Baladeva; il capello (keça) nero diventò Keçava, che è un appellativo di Kr'ishna. Ma Keçava vale propriamente il capelluto, il chiomato, onde Kr'ishna appare anch'esso come una figura solare, ossia di crestato, di Cristo; ed è assai probabile che a questo scambio abbia contribuito la conoscenza del Cristo ellenico, con cui la vita del Kr'ishna brâhmanico presenta curiose analogie. Ma io non posso discostarmi dall'opinione che da gran tempo ha manifestato il professor Weber, il quale attribuì alla conoscenza del Cristianesimo lo svolgimento nell'India brâhmanica di una gran parte del mito di Kr'ishna, il quale nel periodo vedico appare invece intieramente insignificante, anzi un mito vedico intorno a Kr'ishna propriamente non esiste; [265] Kr'ishna come Arg'una appare più tosto un attributo, una forma d'Indra, che un demonio ben definito; i Kr'ishnâs o neri Demonii sconfitti da Indra sono semplici appellativi dei nemici celesti in genere. Lo stesso scetticismo che mostrano, presso il Mahâbhârata, i Kuruidi intorno alla divinità di Kr'ishna, possono avvertirci come una parte di questa figura dovea essere fittizia e di recente e ancora screditata genesi, formata sopra frammenti antichi molto scarsi e insufficienti, completati perciò con invenzioni scolastiche, e con probabili nozioni tolte dal Cristianesimo, sia detto con buona pace del credulo sognatore signor Jacolliot.
Ma, se gl'Inni vedici non ci permettono di argomentare una figura di demonio ben delineata e costante, non si vuol credere ch'essi non rechino numerosi indizii d'una credenza in esseri mostruosi, soprannaturali, malefici. Solamente, per essere appunto concepiti come mostri informi o difformi, la loro forma sfugge e mal si può definire. La stessa parola rakshas, con la quale è chiamato il mostro vedico, non sembra ancora spiegata in modo definitivo. La etimologia proposta dal Dizionario Petropolitano non m'assicura; essa suppone una radice raksh, che interpreta offendere, sopra un solo esempio dell'Atharvaveda (ma no rakshîrdakshinâm niyamânâm); ma niente ci vieterebbe di interpretare qui raksh per trattenere, impedire.
Il guardiano e il trattenitore o stringitore parrebbero confondersi; il rakshas sarebbe un rapitore, un arpagone, un mostro arpia, che, dopo aver rapito come ladro o pâni, trattiene, non lascia sfuggire; la sua forma corporea è mobile, come mobile è il vedico yaksham o spirito che si agita, in cui, come nelle larve, passano le anime de' morti escluse dal regno dei beati, [266] e il vedico yâtudhâna, il quale ha la facoltà di penetrare in tutti i corpi, e di possederli.
Il rakshas vedico viene specialmente a disturbare i sacrificii domestici, a spegnere il fuoco, non dissimile, per sua natura, dallo spirito folletto delle nostre credenze popolari; e ogni forma mostruosa che spaventi, assume forma e nome di rakshas. L'ufficio di uccidere il rakshas o i Rakshasi appartiene, negli Inni vedici, specialmente ad Indra, ad Agni, agli Açvin ed all'Aurora, come quelli che dissipano la tenebra notturna, e per Indra poi, oltre la tenebra notturna, il mostro che sta chiuso nella nuvola.
Oltre i nomi generici di demonii da noi fin qui esaminati, il Rigveda ci mostra poi, in opposizione particolarmente ad Indra, alcuni demonii di forma speciale, i più formidabili de' quali sono Vr'itra, il copritore o trattenitore, ed Ahi, il serpente; seguono Namuc'i, Çambara, Râuhin, Varc'in, Pipru, Urana, Çushna, Kuyava, ec. Vr'itra, il copritore, offre alcuna analogia col Kr'ishna, lo scuro, il nero; come Kr'ishna s'identifica con Hari, il biondo, così nel Çatapatha Brâhmana Vr'itra viene identificato con la Luna (Hari); come per la uccisione di Vr'itra figlio di Brâhmano, e però Brâhmano esso stesso, Indra viene perseguitato e precipitato, così il devoto, il pio Kr'ishna finisce per trionfare d'Indra suo rivale. Il mito vedico di Indra e Vr'itra servì di probabile fondamento ad una parte della leggenda brâhmanica di Kr'ishna. Indra azzurro, Indra pavone, Indra çiprin, Indra col pennacchio cede il campo a Kr'ishna Keçava, al nero od azzurro chiomato.
Così, invece di una forma distinta demoniaca, abbiamo qui due forme divine analoghe, le quali diventano forme rivali; l'una succede all'altra, e la forma vinta, decaduta, abbandonata, appare forma demoniaca: [267] nel Rigveda il Demonio si chiamava nero o Kr'ishna, copritore o Vr'itra; nelle leggende puraniche dell'India brâhmanica, Indra subisce tutte le conseguenze della sua parte di vinto. E, nello stesso Râmâyana, il cui eroe, com'è noto, muove alla distruzione dei Rakshasi, nell'ultimo libro, pare, nella massima parte, inteso a magnificare la grandezza, la potenza, la virtù, la religiosità dei Rakshasi, singolarmente privilegiati dal Dio Brahman. Mettiamo pure che, a rovesciare così le basi dell'Olimpo vedico nel periodo brâhmanico, abbiano potuto valere, in gran parte, le ragioni di casta, le quali, dopo aver messo in seconda linea Indra il Dio de' guerrieri, per inalzare Brahman alla prima potenza, doveano pur porre qualche cura ad accrescere la dignità dei nemici d'Indra, e, come oggi si dice, a riabilitarli; ma, se ciò fu possibile, bisogna pur dire che nello stesso Olimpo vedico le figure demoniache come le divine fossero trovate, per la loro mobilità, capaci di alterarsi ancora e di subire nuove fantastiche trasformazioni non più per opera fatale del popolo, ma per la rettorica astuta dei teologi brâhmani.
[269]
Noi assistemmo fin qui alla rappresentazione vedica di esseri mitici, la natura fisica de' quali si lasciò sempre rintracciare. Ma gl'Inni vedici di più recente composizione ci presentano pure alcuni numi metafisici, sopra i quali essenzialmente si basò poi la teologia brâhmanica, e per i quali soltanto i Vedi furono dai sacerdoti indiani santificati e raccomandati come autorità suprema. Già commenti e trattati vedici, quali il Brâhmana, e la Upanishad, più che ai numi idillici ed eroici, quali sarebbero l'Aurora, gli Açvin, Indra ed i Marutas, rivolsero una speciale attenzione ai numi vedici di ultima formazione, alcuni de' quali furono anzi immaginati pel solo commento; onde non siamo liberi da ogni sospetto che una parte degl'Inni del Rigveda, specialmente dei filosofici, teologici, rituali, compresi negli ultimi libri, sia stata contemporanea ai commentarii, ossia non risalga molto più in là del quarto o quinto secolo innanzi l'êra volgare. È noto[73] come il Çatapatha Brâhmana abbia [270] foggiato una nuova forma del Dio Prag'âpati, scambiando, o per ignoranza, o per mala fede sacerdotale, con un divino appellativo Ka l'interrogativo Ka, con cui nel ritornello dell'inno cosmogonico 121º del decimo libro del Rigveda il devoto si domanda a qual Dio creatore si debba sacrificare; questo preteso Dio Ka venne poi ancora identificato con Kaçyapa, con Brahman, con Vishnu, con Yama, con Kâma, col Vento, col Fuoco! L'inno vedico dice semplicemente: a qual Dio dobbiamo noi sacrificare? (Kasmai devâya havishâ vidhema;) l'antico commentatore vedico interpretò: al Dio Ka noi dobbiamo sacrificare.
Ma, se questo Ka è un nume intieramente fittizio, e di cui non si può tener conto se non per avvertire di che sorta di mostruosità può, consapevole od inconsapevole, farsi gravida la teologia, non è dubbio che gl'Indiani si posero, innanzi di conoscere la filosofia greca, la questione delle origini del mondo, e si domandarono quale fosse stato il creatore; il problema posto implicava la necessità di ammettere la esistenza di un Dio creatore; ed, ammessa questa ipotesi, ne veniva naturale il tentativo d'immaginare in qualche modo questo creatore universale, questo Prag'âpati o signore della generazione. Ma ognuno di voi comprende come qui l'osservazione de' fenomeni naturali deve avere una parte infima, e che il Dio dev'essere dalla sola immaginazione creato ex nihilo; arduo cómpito, e disperato. I poeti metafisici dell'ultimo periodo vedico e i loro immediati commentatori tormentarono singolarmente il loro ingegno, per ricercare il primo perchè delle cose; ma è evidente che il Dio venuto fuori da quella indagine spirituale non debba aver quasi più nulla di comune con la mitologia propriamente detta, ed entri invece più tosto nel dominio della filosofia e della religione. Che anco i [271] commentarii vedici considerassero come un Dio di formazione recente il creatore Prag'âpati (Prag'âpati come Dio distinto appare soltanto nel decimo libro del Rigveda, ove furono accolti, per la massima parte, gl'inni più recenti), si può ricavare da una notizia del Çatapatha Brâhmana, ove, nominatisi i trentatrè Dei vedici, si aggiunge come trentesimoquarto Prag'âpati; sebbene da altri passi dal Çatapatha Brâhmana Prag'âpati appaia creatore degli Dei, non esclusi i principalissimi Indra, Agni, Soma, ec., e quello che assicurò agli Dei la immortalità, per mezzo de' sacrificii che vengono loro offerti. Gli antichi Inni vedici ci offrono già un sole Savitar, e abbiamo già detto che la voce savitar vale il generatore, come g'anakas, uno degli appellativi solari; gli antichi poeti vedici adorarono dunque ancor essi il loro Dio creatore, ma questo creatore era per essi semplicemente il sole, che ridesta alla vita erbe ed animali, che porta la vita nel mondo. Ma gli antichi poeti vedici non erano metafisici; nel sole creatore vedevano e ammiravano il generatore della vita ad essi presente; ma essi non staccavano ancora dal sole la persona di un sole creatore universale del cosmo. Se anche Savitar mena seco i Devâs, noi sappiamo già qual valore originario avesse per gli antichi poeti vedici la parola deva; che essa, cioè, esprimeva il luminoso celeste; niente quindi di più naturale che il concepire gli Dei uscenti fuori col sole. Ma da questa espressione poetica al concetto cosmogonico del Prag'âpati e poi tanto più del creatore Brahman corsero parecchi secoli; e la loro distanza o differenza perciò è immensa.
Il sole Savitar è chiamato negli Inni vedici anche esso Prag'âpati, ch'è il perfetto suo equivalente; Savitar prag'âpati vai quanto il generatore signore della generazione; ma qui prag'âpati è un semplice appellativo [272] ed attributo solare, non è ancora una persona divina, astratta dal sole. Nel Taittiriya Brâhmana l'antica espressione vedica è già frantesa; e, per spiegare il sole generatore, ossia il generatore signore della generazione, Savitar prag'âpati, si crea una leggenda, si suppone esistente come essere supremo il Dio creatore, il Dio Prag'âpati, e si narra che questo Dio si personificò in Savitar, per creare tutte le creature. Con questi equivoci, de' quali, al solito, un po' di mala fede e un poco d'ignoranza fanno le spese, si diminuisce il valore mitico del vedico Savitar e s'accresce la dignità del nuovo venuto Dio supremo brâhmanico, del sommo Prag'âpati, il quale come fa dimenticare il sole, così fa dimenticare il fabbro divino vedico, l'artefice che compone tutte le forme nel cielo mitico, Tvashtar Viçvakarman e Viçvarûpa. Ma Tvashtar era persona mitica rispondente a fenomeni fisici; Prag'âpati invece vuol essere uno spirito dell'alto cielo, il genio Dyu[74] creatore, inspiratore supremo dei Veda, quantunque molte delle leggende che si riferiscono ad esso lo dimostrino spesso compiaciuto in godimenti assai materiali. Ma accanto ad esse se ne trovano altre, le quali ci offrono un curioso riscontro col dogma cristiano del Dio che per bene degli uomini si sacrifica, sacrificio di cui la Messa è un simbolo quotidiano. Io ho già avvertito come nel cielo mitico stesso il Dio solare si sacrifichi, giornalmente e annualmente pel bene degli uomini; ma, come son nati Dei astratti o [273] metafisici, sopra Dei concreti o fisici, così il mito del sacrificio solare passò nel dogma di Prag'âpati, del quale nel Çatapatha Brâhmana si narra: «Prag'âpati diede sè stesso agli Dei, e divenne la loro vittima sacrificale (yag'n'as), poichè il sacrificio è il cibo degli Dei. Egli, dando sè stesso agli Dei, creò il sacrificio a sembianza di sè medesimo; perciò dissero: Prag'âpati è il sacrificio, poichè lo creò a sua similitudine.» Qual meraviglia che, con simili precedenti mitici, e poi teologici, siansi quindi nell'India svolte numerose leggende di carattere buddhistico, nelle quali vediamo Dei e penitenti sacrificarsi intieramente, per arrivare alla suprema beatitudine, ossia per identificarsi con Prag'âpati? chè, al pari del Dio Prag'âpati (secondo la nozione del Çatapatha Brâhmana), il sacrificio è l'anima di tutte le cose e di tutti gli Dei (sarveshâm vai esha bhûtânâm sarveshâm devânâm âtmâ yad yag'n'ah).
Ma, più che quello di sacrificarsi, ossia di spirare per mezzo del proprio sacrificio, o della penitenza, come Brahman,[75] la vita nell'universo, l'ufficio proprio e costante di Prag'âpati è quello di creare, dando forma e qualità alle cose g'anma (o rûpam) e (g')nâma, generazione e nome, di creare il genere e la specie, l'universo, ch'ei pone sopra l'enorme Skambha (una forma di Brahman con ufficio di Atlante) tutte le creature, ed, in proprio, trentatrè figlie che sono forse i trentatrè mondi ch'egli suscita dall'oblazione di riso bollito, presso l'Atharvaveda. Una sola creatura è eccettuata, nata da un appellativo forse più recente di quello di Prag'âpati; quest'unica creatura, presso il Çatapatha [274] Brâhmana, appare Brahman. Come vedemmo il 34º Dio, ossia l'ultimo, Prag'âpati sovrapporsi agli Dei a motivo dei suo nome, come creatore universale; così Brahman, che succede a Prag'âpati come Dio supremo e supremo creatore, non appare già figlio di Prag'âpati, ma, a motivo del suo comodo appellativo di Svayambhû o esistente per sè, suo padre immediato, ad esempio di Prag'âpati, appare qual padre immediato di Tura Kâvasheya (Tura è un appellativo dato spesso ad Indra e ai Marutas: vale il forte; ed io sospetto che possa essere un equivalente dell'alito, o vento primigenio, il prâna, che trovasi pure identificato con Parg'anya, il Dio della tempesta, nella quale soffiano i potenti Marutas; Kâvasheya proviene da kavasha, tonante; onde la prima creazione di Prag'âpati sarebbe stata il vento tonante; presso l'Atharvaveda, Prag'âpati trovasi identificato col prâna). Tuttavia, nel Yag'urveda bianco, lo stesso Prag'âpati, al pari di Brahman, è ricordato come increato (ag'ayâmâna), che, recipiente d'ogni cosa, fornito di vulva, si crea in più forme (bahudhâ vig'âyate); ma, non potendosi concepire l'idea dell'eternità del Dio creatore, si ammise pure il Tempo o Kâlas (che ci richiama all'ellenico Kronos), come un Dio, e si rappresentò, presso l'Atharvaveda, Prag'âpati come figlio di Kâla, ossia del Tempo immortale, motore del passato e del futuro. Ma l'espressione del tempo padre di Prag'âpati equivale a quest'altra: il tempo generò le creature; nel vero, queste due espressioni equivalenti si trovano riunite nell'inno dell'Atharvaveda che celebra Kâla od il Tempo (Kâlah prag'âh asr'ig'ata; Kâlo' gre Prag'âpatim). L'inno aggiunge, identificando perciò Prag'âpati con Kaçyapa e con la penitenza: Dal tempo si generò Kaçyapa, «l'esistente per sè» (Svayambhû, come Brahman), dal tempo la penitenza (tapah, propriamente il calore). Vedemmo poco sopra associarsi, [275] identificarsi Prag'âpati, ossia il Dio creatore con Prâna e con Tura Kâvasheya, ossia, come interpretammo, col vento tonante; invece di questo vento che sona, trovasi, pure congiunto con Prag'âpati, il divino flatus oris, «la voce, la sacra parola, la Vâc';» perciò si narra nel Kâthaka del Yag'urveda:[76] «Prag'âpati era questo mondo; seconda a lui seguì la parola (la vâc', «il verbo»); egli s'accoppiò ad essa; essa s'ingravidò; si allontanò da lui; e produsse queste creature; quindi rientrò in Prag'âpati.» Quest'ultimo particolare combina con la nozione del Pan'c'avinça Brâhmana, che fa uscire la parola da Prag'âpati: «Il solo Prag'âpati era questo mondo; egli aveva in proprio la parola; essa era a lui seconda; egli pensò: voglio lasciar andare questa Vac'; essa vuol distinguere tutto questo universo; e lasciò uscire la Vac'; essa andò distinguendo questo universo.» Il mondo biblico si crea in sei giorni, nel settimo il creatore si riposa, ossia cessa; Prag'âpati impiega mille anni solo per far penitenza, prima della creazione. Secondo il Çatapatha Brâhmana, esso aveva occhi, orecchi, bocca, poichè dall'occhio crea il cavallo, dall'alito la vacca, dall'orecchio la pecora, dalla voce la capra;[77] l'uomo lo crea dal manas o animo, che contiene in sè tutti gli aliti vitali (mano vai sarve prânâh); ma la forma di Prag'âpati non è immortale; essa si può distruggere; il solo che non muoia è il suo alito, il suo spirito. Così nella Maitrî Upanishad, si dice che «in Brahman coesistono due forme, la corporea e la incorporea; la corporea è fallace (asatyam), la incorporea salda (o sincera, [276] satyam).»[78] Così ancora avviene che, dopo aver creato il mondo, Prag'âpati possa, presso il Çatapatha Brâhmana, farsene il sostentatore, ossia alimentarne la vita (Prag'âpatir vai bharatah sa hi idam sarvam bibharti). Quindi finalmente comprendiamo come, nella leggenda dello stesso Brâhmana, quando gli Dei abbandonano Prag'âpati divenuto debole e piangente, rimanga solo fedele presso di lui a consolarlo, a raccoglierne le lacrime, il Dio Manyu, il sentimento, e in ispecie, un sentimento violento, il quale degenera poi in violenza aperta, in collera furente. Il pio Manyu, sopra il quale cadono le lacrime di Prag'âpati derelitto, diviene Rudra, il terribile Rudra, una forma del Çiva distruggitore. Ed ecco come sulla persona divina di Prag'âpati, parecchi secoli innanzi al Cristianesimo, dal Dio creatore che fa penitenza, si sacrifica e crea, si svolge inconsciamente e non ancora teologicamente una Trimûrtti; Prag'âpati è egli stesso creatore, e poi bharata o bhartar o sostentatore, e genera con le sue lacrime Rudra o Çiva distruggitore. Egli è evidentemente uno e trino come il Dio cristiano. La conoscenza poi della Trinità cristiana potè accrescere favore nell'India al concetto della Trimûrtti; ma, se esso potè trovare nei tempi moderni così largo svolgimento, e tanto credito, e se i Missionarii cattolici non trovarono gran difficoltà a provare agl'Indiani che le due trinità si somigliavano, nella speranza di far quindi prevalere la superiorità della dottrina cristiana, convien dire che esistesse una base fisica del dogma, la quale ci sembra potersi rintracciare nella figura del misterioso[79] Dio Prag'âpati increato, [277] che col Verbo crea; che, col sacrificio di sè stesso, salva le altre creature; che, dopo avere creato, conserva il mondo, e che si prepara, unito col fuoco, ossia con Agni, Çiva, Rudra distruggitore, a consumarlo. Come creatore, per virtù del sacro Verbo primogenito, del triplice Veda (considerandosi dai devoti il quarto Veda come apocrifo), secondo la leggenda cosmogonica del Çatapatha Brâhmana, Prag'âpati potè poi anche più facilmente fornire gli elementi per costituire il Dio trino ed uno. Ritorna poi, nella leggenda cosmogonica del Çatapatha, ove compare Prag'âpati, una nozione che ci richiama al pesce fallico, primo generatore, che dicemmo essere pure penetrata nella cosmogonia biblica e cristiana. Secondo la leggenda (che incomincia con le parole: Da principio questo mondo non era esistente: «Asad vai idam agre âsît;» ma vi erano sette spiriti, aliti o venti «prânâh;» [lo spirito di mezzo si chiama Indra: «sa yo 'yam madhye prânah esha evendrah;» altra analogia che conferma in modo evidente la etimologia da me proposta per la parola Indra-antara]), i sette spiriti, i sette maschi, per riuscire più potenti si riuniscono per formare un solo gran maschio, un solo purusha, quattro di essi formano il gran purusha, che sarà Prag'âpati, l'âtman, ossia qui la parte sostanziale, il nerbo, l'anima del phallos, e gli altri tre le due alette (qui, come sembra probabile, i due testicoli, quasi la parte piumata, pennuta, alata del phallos) e la coda (la coda del purusha non può essere altro che il phallos stesso; ho già avvertito come il pesce, primo degli animali apparsi nel cosmos involto dalle acque ed il phallos cosmogonico siansi identificati; e dopo il phallos vedremo sorgere l'uovo, nuotante nelle acque). Nato il gran purusha, questo gran [278] maschio desidera di diventar Prag'âpati, ossia di moltiplicarsi: come i Principi delle leggende epiche, quando vogliono aver figli, vivono per lungo tempo nell'astinenza, come Manu, dopo il diluvio, per ripopolare il mondo, fa grande penitenza; così Prag'âpati, volendo creare, fa grande penitenza (tapo 'tapyata), e, come frutto di tale penitenza, acquista la triplice scienza, che inspirerà poi i tre Vedi; allora ei fa uscire dallo spazio le acque e la parola; la parola s'aggiunse a lui; essa creò questo universo; Prag'âpati desiderò essere riprodotto per mezzo delle acque; ed entrò con la triplice Vidyâ (la scienza, quella che trova, quella che vede, quella che conosce; qui parrebbe l'arte di trovare, di scoprire, di vedere); e venne fuori un uovo; egli lo toccò, e ne fece nascere brahman, la preghiera, l'essenza della triplice scienza, l'essenza dei Vedi.
È evidente che una simile mostruosa leggenda consta di elementi di natura assai diversa, cioè di nozioni cosmogoniche mitiche e di sillogismi teologici, con l'intento d'inalzare a suprema dignità il Brâhmanesimo. Ma ciò che per noi importa qui aver dimostrato, è la forma primitiva del così detto Dio creatore, la quale non potè da prima essere concepita se non in un modo fisico e materiale, che ravvicina Prag'âpati all'appellativo del sole generatore del Rigveda, malgrado le aggiunte teologiche che convertono il primo creatore ardente e luminoso in un primo penitente e parlante, ed al vento o prâna primigenio. Così, nella leggenda dello stesso Çatapatha, ove si descrivono gli amori incestuosi di Prag'âpati con sua figlia, sebbene l'Autore del Brâhmana tenti distruggere tutto l'orrore del delitto con una sola finale confessione: «Prag'âpati è questo sacrificio,» è evidente che si tratta ancora di un Dio solare, e, in ogni modo, celeste, poichè lo stesso narratore della leggenda, nel [279] dirci che Prag'âpati ama sua figlia, si mostra incerto nel definire se questa figlia, che gli Dei chiamano loro sorella, sia l'aurora od il cielo.
La interpretazione mitica del sole padre che si unisce con la figlia aurora, non offende punto la morale; poteva offenderla invece l'Autore della leggenda e più il suo malizioso commentatore indiano, mostrando l'Olimpo pieno di scandalo per tale delitto, e Rudra, per incarico degli Dei, intento a ferire Prag'âpati (probabilmente negli organi della generazione), così che il suo seme cadesse a terra per metà, in conformità del terribile precetto derivato da un inno del Rigveda, e che getterebbe una luce sinistra sopra una parte della vita patriarcale indiana (non troppo dissimile da quella biblica, che ci rappresenta gli amori di Loth con le sue figlie); ma l'inno diceva semplicemente: «Quando il padre s'uni con la propria figlia, il seme di lui cadde sopra la terra» (Pitâ yat svâm duhitaram adhishkan kshmayâ retah san'g'agmâno nishin'c'ad). Nel mito questo accoppiamento è poetico, poichè il seme che cade dal cielo sopra la terra è la rugiada o la pioggia; unendosi il sole con l'aurora, con la figlia del cielo, oppure con la nuvola pluvia, il seme del sole padre dell'aurora o del signore del cielo cade, in forma di rugiada o di pioggia, sopra la terra; ma, volendo pigliare alla lettera i miti e cavarne dogmi religiosi, si corre rischio di dare alla religione una morale scellerata. L'inno vedico (Rigveda, X, 61), quantunque non puro, nel suo linguaggio allegorico, si può spiegare tutto miticamente; l'interpretazione scorretta che si dà invece ad essa nel Çatapatha è mostruosa, poichè si converte un precedente mitico in una specie di diritto e di dovere nella regola della vita, facendosi del passato allegorico un presente reale.
Ma, tornando alla cosmogonia vedica, per quanto [280] sia diverso il modo, con cui ci rappresenta l'ordine della creazione, ciò che v'ha di certo è che le acque ed il vento si considerarono come primi elementi, e che il primo creatore o Prag'âpati fu un maschio o purusha, il quale, dopo aver parlato, come il Jehovah biblico, dopo avere detto il fiat, creò.[80] Anzi è singolarissimo il trovare nel Çatapatha Brâhmana, ossia in un monumento letterario che risale oltre il quarto secolo innanzi l'êra volgare, come prima parola detta da Prag'âpati, desideroso di parlare per creare, la voce bhûs che tradurremmo per fias, e che, significando pure terra, fu cagione perchè, appena detta quella parola, la terra fosse creata: la seconda parola detta da Prag'âpati fu bhuvas, che vale ancora fias, ma significa pure firmamento; perciò, detta quella parola, nacque tosto il firmamento: nella terza parola non vi è più lo stesso equivoco, ma non è impossibile che qui siasi alterato il passo e che, invece di svar, vi s'abbia a leggere vedicamente asas (asa iti), che avrebbe ancora lo stesso valore di fias e che ritornerebbe nell'asau (dyaur) che segue. Ma il primo esempio, in ogni modo, basta per mostrarci la singolare analogia che presentano fra loro la leggenda cosmogonica indiana e la biblica, anco ne' più minuti e caratteristici particolari. È indiana, invece, esclusivamente indiana, la rappresentazione del Çatapatha di Prag'âpati in forma di testuggine, animale che nella mia Mitologia zoologica[81] ho [281] già tentato di mostrare[82] come trovisi strettamente congiunto col phallos cosmogonico. Prag'âpati che diviene sostenitore del mondo, che, appena creato, domanda un punto d'appoggio nelle acque, che appoggia poi l'universo sopra Skambha, Prag'âpati che s'identifica con Kaçyapa, e, per esso, con la testuggine, prepara gli elementi della leggenda cosmogonica posteriore, nella quale i Devi e gli Asuri si accingono a creare il mondo, a produrre l'ambrosia o agitando l'oceano con un monte o enorme bastone, sostenuto in fondo alle acque da una testuggine. Nella mitologia brâhmanica la testuggine è un'incarnazione di Vishnu; ma noi abbiamo già indicato come nel Prag'âpati si contengano in germe le tre persone di una Trinità indiana. Viceversa, nella Mundaka Upanishad, la qualità di conservatore del mondo (bhuvanasya goptâ) viene assunta da Brahman, e, nello stesso Çatapatha, Nârâyana, ch'è poi uno de' nomi principali di Vishnu, appare come Purusha, ossia assume la qualità principale di Prag'âpati (col quale appare pure in contrasto) e del Brahman creatore. E, come vedemmo al sole vedico attribuirsi la qualità di Prag'âpati, e poi questa qualità staccarsi, astrarsi in una persona divina distinta, intorno alla quale si aggrupparono le varie [282] leggende cosmogoniche esistenti e alcuni nuovi dogmi teologici; così la qualità essenziale di Prag'âpati, ossia il Purusha, il maschio universale, trovasi già nello stesso Rigveda, e specialmente in un inno panteistico del decimo libro (intitolato da esso, Purusha Sûkta, ossia inno di Purusha), distinta da Prag'âpati, col quale lo troviamo così spesso identificato. Questo Purusha riceve già una parte di quel carattere mostruoso e gigantesco che distingue i concepimenti brâhmanici, e, secondo ogni probabilità, non è nato in riva all'Indo, ma nell'India gangetica; difatto vi si fa già una menzione evidente delle quattro caste: esso ha mille teste, mille occhi, mille piedi; avvolge d'ogni parte la terra; egli è tutto, il passato ed il futuro; egli è l'eterno alimentatore. Il creato che esiste è solamente una piccola parte di lui; il sacrificio che gli Dei fecero a lui durò un anno; il burro liquefatto era la stessa primavera; l'estate il combustibile, la libazione il pluvio autunno; dalla sua bocca uscì il Brâhmano, dalle braccia il guerriero (râg'anya), dalle coscie l'agricoltore (vaiçya), dai piedi il servo artigiano (çudra), dalla sua anima (manas) la luna, dal suo occhio il sole, dalla sua bocca Indra ed Agni, dal suo alito il vento, dal suo umbilico l'atmosfera, dalla sua testa il cielo, da' suoi piedi la terra, da' suoi orecchi le quattro parti dell'orizzonte. Ma il fine dell'inno ci tradisce la intenzione tutta brâhmanica del poeta, e ci mostra come, staccandosi da Prag'âpati, di cui non parea abbastanza determinata la santità, il Purusha sia passato in Brahman. I Brâhmani non fanno altro che raccomandar la preghiera (brahma) accompagnata da sacrificii con oblazioni; per offrirne un esempio, l'inno termina identificando il Purusha col sacrificio, col Dio che si offre come vittima in sacrificio a quegli stessi Dei che sacrificano a lui. Il maschio universale così purificato, e [283] inalzato in una regione più spirituale, s'identifica con Brahman, che dovrà quindi riuscire il sommo nume non tanto dell'Olimpo indiano, quanto della fede brâhmanica. Il Purusha panteistico si sacrifica disperdendosi, emanando nell'universo, come fa per l'appunto Brahman, il Brahman che, nel Purusha Sûkta dell'Atharvaveda, appare creatore del Purusha.
[285]
Sebbene talora il supremo potere, nella triade indiana, secondo le preoccupazioni settarie, sia occupato da Vishnu (chiamato perciò nel vishnuitico Mahâbhârata un Brahman superiore), e alcuna volta anche da Çiva, il Dio Brahman è il più universalmente venerato come principe della indiana Trimûrtti, qual Dio essenzialmente creatore, quale Prag'âpati, uscito ancor esso dall'uovo cosmico, chiamato perciò spesso uovo di Brahman (Brahmânda).
Vediamo pertanto come questa fortuna mitologica di Brahman si venga svolgendo ne' Vedi.
Una delle qualità essenziali dell'antico Dio vedico, del primevo Indra, è quella di estendere, di allargare il cielo; il vasto cielo si suppone disteso da un Dio che lo governa. La Pr'ithivî o larga è la forma femminina di questo estenditore del cielo; la Pr'ithivî si confonde con la Sarasvatî, e la Sarasvatî s'identifica con la vac', dapprima la parola, e poi la sacra parola. La parola brahman ha seguito vicende analoghe a quelle della voce pr'ithivî. La parola risale ad una radice barh, che vale accrescere, estendere; perciò essa espresse ad un tempo, come mascolino, il Dio creatore, il Dio accrescitore, e poi [286] l'accrescitore per mezzo della preghiera, della parola sacra, ch'è il significato principale del neutro brahman. Un Dio che si fonda sopra un neutro, ed anzi che con questo neutro si confonde, poichè il Brahman essere supremo e il Brahman Dio supremo riescono al medesimo, può avere una persona poco spiccata e vivace, ed è condannato a rimanere un'astrazione immobile. Chè, se anche col nome di Brahman si congiunge un gran numero di leggende, o queste leggende sentono lo sforzo di una composizione scolastica, o pure non appartengono in proprio a Brahman e gli furono attribuite capricciosamente, modificandone, con lievi tocchi, il contenuto e la forma. E questa è pure la ragione, per cui, sebbene nella gerarchia teologica della religione brâhmanica il Dio Brahman occupi il grado supremo, non abbia nell'India idolatri settarii quanti ne ottennero Vishnu e Çiva; a quel modo stesso con cui, nel Cristianesimo, il Figliuolo e lo Spirito preoccupano essi soli tutto il culto, e al Padre Eterno non è consacrato neppure un giorno del calendario festivo. L'immaterialità, l'idealità di Brahman sfugge all'idolatria; Brahman il Dio della preghiera che accresce, della devozione che porta felicità, è egli stesso il mezzo più che l'oggetto della purificazione. Senza di esso nessun'opera umana o divina può avere efficacia: chi s'assorbe nella preghiera, s'assorbe in Brahman; chi è assorto nella devozione brâhmanica, rinuncia ai piaceri sensuali, ai beni della terra, e si mostra liberale de' suoi doni ai diretti interpreti del sommo Brahman, ai Brâhmani, con l'aiuto de' quali si può conseguire ogni beatitudine. Brahman ch'è detto nel Taittiriya Brâhmana essere, per sua natura, un Brâhmano, è naturalmente il Dio particolare de' Brâhmani, come Vishnu quello de' guerrieri, e Çiva delle caste inferiori, sebbene Vishnu e Çiva appaiano anch'essi molto [287] onorati dai Brâhmani. Ma i Brâhmani fanno sacrificii solenni e dispendiosi, per conto altrui; a Brahman essi sacrificano con l'esercizio della penitenza e con la preghiera; ossia la preghiera diviene efficace pregando; il Brâhmano, per l'efficacia della preghiera, ossia per la virtù di Brahman, può fare ottenere ai devoti liberali dai singoli Dei ch'essi invocano i beneficii desiderati. E la virtù della preghiera si ritenne essere tanta, che il neutro brahman valse pure la formola magica, e l'Atharvaveda, che contiene il maggior numero di formole magiche, si chiamò pure pertanto Brahmaveda, ossia il Veda delle formole magiche; onde il Brâhmano, il quale adopera il Brahman, assunse pure autorità e prestigio di mago; e l'arma magica viene ne' poemi epici chiamata arma di Brahman; arco di Brahman (brahmâstra), secondo ogni probabilità, l'arma del cielo, il fulmine, arma fatata per eccellenza, come il cielo è la sede suprema delle magie.
Brahman divenne poi un'astrazione; tuttavia una personificazione mitica di esso, per quanto mostruosa e mal determinata, esiste pure nella mitologia vedica e brâhmanica, e serve a spiegarci la prima natura del mito. Abbiamo detto valere la voce brahman propriamente il vasto, e quello che s'allarga, e quindi quello che allarga; dicemmo pure una simile qualità attribuirsi pure ad Indra, che etimologicamente e ideologicamente abbiamo già, nella sua forma primigenia, identificato col cielo. Il cielo supremo, come immobile, tranquillo, infinito, eterno, dà l'idea del Padre Eterno, come l'idea del Paradiso celeste. Quindi il cielo o Paradiso celeste indiano ora è chiamato Indraloka, ora Brahmaloka; chè, secondo la diversa qualità de' devoti e la regione più o meno elevata, esso fu diversamente concepito, tanto che trovarono posto nel primo le lascive ballerine dell'epopea [288] brâhmanica (quasi all'eroe si promettesse come premio delle battaglie mortali gli amori immortali delle celesti Apsare), nel secondo gl'immobili, assorti, spiritualissimi penitenti brâhmani ed arhant buddhistici. Il cielo, ora fisso, azzurro, tranquillo, sereno, raccolse alla meditazione grave e solenne i penitenti; ora animato da fenomeni diversi diede aspetto d'una vita olimpica mobile, variata, tempestosa. Indra parve dominare specialmente in un paradiso sensuale, in un cielo animato; Brahman, come Varuna, in uno spirituale, ossia in un cielo tranquillo; ma la natura propria come la sede d'entrambi, più o meno elevata, è il cielo.
Quando pertanto si parlò dapprima dell'unione finale del devoto con Brahman, con questa espressione non si dovette intendere altro se non la sua andata nel cielo, dove siedono i beati; ch'è sopra le stelle. Il Çatapatha Brâhmana sembra dichiararcelo apertamente, quand'esso ci dice che s'arriva a Brahman passando per sei porte o vie, il fuoco, il vento, l'acqua, il fulmine, la luna, il sole; pel fuoco del rogo, l'anima portata dal vento arriva alle altre porte, che la introdurranno a Brahman, nel mondo del quale essa vivrà (so 'gnina Brâhmano dvârena pratipadya Brahmanah sâyug'yam salokatâm g'ayati). Qui Brahman appare evidentemente come il cielo supremo, e quello che da noi si chiama il terzo o settimo cielo. Lo stesso Brâhmana avverte come l'anima del devoto che muore, liberata da ulteriori nascimenti, si assimila con Brahman, ossia ne assume la natura, una nozione panteistica che prepara la dottrina dell'assorbimento buddistico. Questo Brahman, in cui s'annienta beato il devoto, è sicuramente ancora il cielo, come nell'Aitareya Brâhmana il devoto che muore sapiente è detto unirsi, dopo morte, col sole a partecipare della natura di esso e abitare nello stesso suo mondo.
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Il Dio Brahman appare dunque originariamente come un essere fisico, anzi come la forma fisica più costante e però immortale. Chè, se, nell'Indraloka, o, come abbiamo spiegato, cielo medio (antara), cielo delle tempeste, vi sono ancora battaglie e passioni, nel Brahmaloka, nel cielo supremo, regna l'impassibilità, carattere massimo di Brahman. Chi corregge le sue passioni, doma i suoi sensi, diviene insensibile, impassibile, nella vita terrena, partecipa pertanto della natura di Brahman, e merita, perciò, dopo la morte, di venire assimilato con esso, l'immobile assoluto. E si capisce ancora come da quell'immobile assoluto celeste siasi potuto immaginare il primo increato creatore, dal cui albero o dalla foresta del quale, secondo l'inno 81º del decimo libro del Rigveda commentato dal Taittiriya Brâhmana, sarebbero poi nati il cielo luminoso e la terra. In un inno cosmogonico dell'Atharvaveda, ove si dà della parola Purusha, il maschio, una strana etimologia (dalla parola pur, città per eccellenza, la città di Brahman immortale; il poeta dice che Brahman e i Brahmidi danno la vita, l'alito vitale e la prole a quelli che conosceranno questa etimologia misteriosa: yo vai tâm Brâhmano veda amr'itenavr'i tâm puram tasmai Brahma c'a brâhma c'a c'akshuh prânam prag'âm daduh); di tutte le creazioni del Purusha o maschio universale è fatto principal merito al neutro Brahman, il quale pose la terra sotto, e sopra di esso il cielo, e fra il cielo e la terra l'atmosfera. Con questo Brahman vuole, senza dubbio, essere identificato il Dio supremo Skambha dell'Atharvaveda, figurato ancor esso come albero; del quale gli Dei sarebbero i rami, che contiene in sè l'intiero Indra, ossia, ciò ch'è dentro, l'antara, il contenuto de' mondi, Indra, il quale, alla sua volta, comprende in sè i mondi, la penitenza (ossia il calore) e il cerimoniale. Come Prag'âpati e Brahman [290] creano per effetto di lunga penitenza (una delle forme predilette, della quale sappiamo essere il mantenersi per lungo tempo immobile allo stesso posto), così Skambha che contiene in sè Indra (ossia, come suppongo, l'interno, il medio, e qui il contenuto), il quale accoglie in sè stesso la penitenza (ossia il calore), incomincia a creare. Come Brahman si rappresenta in una forma colossale, così, per venir fuori, la luna attraversa il gran membro (o corpo, angam; la voce Skambha vale pilastro; esso serve, pertanto, come di asse al mondo) del vedico Atlante Skambha, da cui ogni cosa dipende, a cui ogni cosa tende, sopra il quale, come sopra una leva, Prag'âpati il creatore fonda ed appoggia pertanto tutti i suoi mondi, un phallos o tronco d'albero, che ad un tempo crea il mondo e lo regge occupando le quattro regioni celesti. L'inno stesso ci fa sapere che chi conosce il gran mistero divino: Brahma esser contenuto in Purusha, o Prag'âpati, conosce pure Skambha. Come poi si diede a questo Brahman universale un corpo colossale umano con testa, membra, ec., onde il mondo si crea; così nello Skambha dell'Atharvaveda ci appare un corpo umano colossale, la testa del quale è il fuoco Vaiçvânara, gli occhi sono i luminosi Angirasi, la bocca è la preghiera (brahma), le membra sono i Yâtavas (più sotto è detto che i trentatrè trovarono i loro corpi nelle membra di Skambha), la lingua è la verga del miele (madhukaçâ, ec).
Come Prag'âpati, come Brahman ora appare creato dall'uovo, ora increato creante l'uovo cosmico, così di Skambha si dice nell'inno ch'esso nel principio creò l'oro (hiranyam) nel mondo medio (loke antare, ossia nel mondo d'Indra, che, com'è detto, contiene tutte le cose), ossia l'Hiranyagarbha, «il germe d'oro, l'uovo d'oro,» sommo, insuperabile. L'inno quindi invita ad onorare questo Brahman anziano (tasmai g'yeshthâya [291] Brahmane), di cui la terra è la base, l'atmosfera il ventre, il cielo la testa, Agni la bocca, il vento l'alito, gli Angirasi gli occhi; e a cui tutti gli Dei prestano omaggio; il misterioso creatore Prag'âpati si manifesta quando nell'acqua trova l'aureo bastone,[83] ossia, secondo il senso vedico della parola vetasa, l'aureo phallos (yo vetasam hiranyayam tishantam salile veda sa vai guhyah Prag'âpati). Riassumendo adunque queste nozioni cosmogoniche, in principio esiste l'immobile Brahman; esso trova nel mezzo un pilastro, o fulcro, o phallos, Skambha, contenente Indra, e diviene da quel momento Prag'âpati o creatore; il phallos d'oro che sta nelle acque si trasforma in uovo d'oro che erra sopra le acque; trovato il phallos, Prag'âpati crea, ossia, come si dice, esso fondò la creazione sopra Skambha.
Così dal cielo supremo immobile, dall'impassibile Brahman si passò all'idea di un solido sostenitore dell'universo; questo asse, di forma fallica, movendosi nelle acque del caos s'illumina; le idee di luce e di suono sono espresse da parole di radice comune; il Prag'âpati luminoso parla; l'uovo d'oro, il phallos d'oro e la parola generatrice si producono insieme. Skambha tiene pertanto della natura spirituale di Brahman e del carattere fallico di Purusha. In un altro inno dell'Atharvaveda, in onore di Skambha, il più anziano Brahman, si dice che colui, il quale sappia in che modo si produce il fuoco da due legni (arani) confricati insieme, e distingua quale de' due legni maschio e femmina è il superiore, conoscerà pure il supremo mistero celeste, cioè l'essere supremo, [292] il supremo maschio creatore dell'universo (per opera, senza dubbio, di fregamento contro un essere inferiore, femminino; il phallos d'oro nelle acque ci mostra uniti il principio maschio rappresentato dal fuoco, e il principio femmina rappresentato dall'acqua; le scienze naturali non si oppongono punto ad una simile spiegazione cosmogonica). Filo del filo (sûtram sûtrasya) è chiamato nell'inno medesimo il primo creatore, ossia il primo principio creatore, l'essenza degli esseri. Brahman, secondo l'Atharvaveda, contiene in sè tutti gli Dei, come una stalla, le vacche (sarvâh hi agmin devatâh gâvo goshthe ivâsate). Un inno vedico citato dal Çatapatha Brâhmana incominciava con le parole: (Il sempre) esistito e futuro, grande, unico Brahman indestruttibile io celebro (Bhûtam bhavishyat prastaumi mahad Brahmaikam aksharam). Un altro passo interessante del Çatapatha Brâhmana citato e tradotto dal Muir,[84] ci dà la notizia che Brahman si recò nelle regioni più alte del cielo per dare nome e forma alle cose. Un passo del Taittiriya Brâhmana ci rappresenta così la grandezza di Brahman: «Brahma generò gli Dei, Brahma questo intiero mondo, lo Kshattriya (o guerriero) fu foggiato da Brahman: ma Brahman è per sua propria essenza un Brâhmano; entro di lui consistono questi mondi, entro di lui tutto questo universo. Brahma è il più antico degli esseri (bhûtânâm, propriamente degli esistiti): perciò chi è degno di stargli a confronto? In Brahman i trentatrè Dei, in Brahman Indra e Prag'âpati, in Brahman tutti gli esseri sono raccolti, come entro una nave.» Egli è padre, madre e figlio a sè stesso, egli è l'uccello d'oro, che fa ardere il sole (hiranmayah çakunir Brahma nâma yena sûryas tapati teg'aseddhah), egli è la foresta e l'albero, onde si fabbricarono [293] tutte le cose e il fondamento, come Skambha, dell'universo creato. L'Atharvaveda, volendo spiegare la virtù creativa di Brahman, gli dà come antecessore un divino Brahmac'ârin, ossia penitente devoto alla preghiera, che generato nel seno dell'immortalità, già fornito di scienza, per virtù del tapas (caldo e penitenza) crea il divino mistero o brâhmana e l'antichissimo Brahman. Uno stesso ordine d'idee religiose e di preoccupazioni brâhmaniche, presso il Brahmac'ârin, una specie di precursore, che prepara l'avvento di Brahman, e che ha la virtù di Prag'âpati, fece sorgere ad alta dignità, nell'ultimo periodo vedico, il Dio Brahmanaspati come signor della preghiera, che dà alla preghiera tutto il potere e il prestigio desiderato.
Nè essendo ancora decaduto Indra, anzi continuandosi esso ad invocarsi come nume privilegiato e a propiziarsi col sacrificio, per dare una persona mitica popolare al nuovo Dio, e forse ancora per trasformare Indra in un Dio più spirituale, la qualità di Brahmanaspati fu attribuita specialmente al Dio Indra, e sotto questo aspetto il sommo Nume vedico trovasi negli ultimi Inni vedici invocato; alla quale applicazione del nuovo mito, dovette, come parmi, concorrere in parte l'originaria identità da me accennata fra il primitivo Indra e il primitivo Brahman come cielo. Brahman, valendo il cielo, come vasto, ed Indra (di cui persisto a riconoscere probabile l'etimologia che avanzai, sebbene io sappia già che alcuni uomini dottissimi la rifiutano; cfr., presso antara, antra, e, presso mandra, manthara = mandara [radice primitiva comune ad entrambe le parole è man], che si dà pure come un nome di cielo e di un albero del paradiso d'Indra, ossia l'albero celeste, l'albero di mezzo, l'asse celeste), essendo chiamato spesso Divaspati o signore del cielo, l'appellativo [294] Brahmanaspati, antico, perfetto equivalente di Divaspati, dovea naturalmente attribuirsi ad Indra. Questa argomentazione mi sembra poi tanto più probabile, se consideriamo non solamente le qualità comuni d'Indra Divaspati e d'Indra Brahmanaspati, di cui si dice, nel Rigveda, che risplende color dell'oro, e che ha per sua voce il tuono, ma che si trovano insieme celebrati Brahmanaspati e Br'ihaspati o Vr'ihaspati. Br'ih vale la vasta; Br'ihaspati vale il signore della vasta, ossia della Pr'ithivî celeste.[85] Brahman viene dalla stessa radice barh, onde abbiamo br'ih; Brahman è il vasto (cielo), Br'ih è la vasta come la Pr'ithivî; Br'ih e Brahman sono due equivalenti; ed equivalenti sono perciò pure Br'ihaspati, il signore della Br'ih e Brahmanaspati, il signore del Brahman.
E come s'invoca Indra con Divaspati e Brahmanaspati, così s'invoca con Br'ihaspati; e come Brahman e Brahmanaspati assumono le funzioni di Prag'âpati, e quindi presiedono alla preghiera come quella che si estende, si eleva, e poi che eleva, estende, accresce; così Br'ihaspati, invocato con Indra e con Prag'âpati, e reggitore dell'astro di Giove, divenne anch'esso Dio della preghiera, intercessore degli uomini presso gli Dei, pontefice massimo o purohita degli Dei. Nel mito di Brahman, Brahmanaspati e Br'ihaspati, noi dobbiamo dunque considerare due stadii, de' quali l'uno antico, in cui essi non rappresentavano altro che il cielo; il cielo [295] ebbe quindi due aspetti essenziali e distinti, come creatore e come tonante. Brahman (il vasto) ed Indra (Antara) rappresentavano entrambi il cielo; ma Brahman specialmente il cielo supremo, Indra specialmente il cielo del centro (il cielo ove si trova Skambha, l'asse, il manthara o mandara, leva o fallo che agita l'universo), e poi il cielo medio che diviene pluvio e tonante: Brahman riuscì specialmente il cielo creatore, Indra specialmente il cielo tonante. Ma, nel suo nome di Divaspati o signore del cielo, e in parecchi altri indizii, conservò traccia del suo essere primitivo celeste. Così nell'arma fatata da Brahman concessa agli Eroi delle leggende epiche, Brahman viene ad assumere gli ufficii d'Indra fulminatore. A Divaspati rispondevano, in parte, etimologicamente e, del tutto, ideologicamente Br'ihaspati e Brahmanaspati; quindi si spiega l'analogia del loro mito con quello d'Indra Divaspati tonante; ma, poichè la loro affinità di nome e perciò la loro parentela mitica è maggiore con Brahman che con Divaspati (ossia con Indra), divenuto Brahman, espressione particolare non più del vasto, alto cielo, ma della preghiera che sale, si distende e che accresce, alcune delle più recenti qualità assunte da Brahman si attribuirono necessariamente a Br'ihaspati e Brahmanaspati, due Dei congiunti insieme, in ciascuno de' quali abbiamo due persone mitiche distinte: l'una antica, essenzialmente fisica; l'altra moderna, essenzialmente ascetica. Tenendo conto di questa duplice genesi del mito, non mi pare che possa più presentare alcuna grave difficoltà il dichiarare il carattere particolare di queste due divinità, il posto che esse occupano nell'Olimpo vedico, e il vederle ora confuse, per loro ufficio, col Dio Indra, ora col Dio Brahman, e, nella loro qualità di purohita e distruggitore delle tenebre, con Agni, celebrato nel primo inno del Rigveda come divino [296] Purohita, e spesso invocato con Indra come Rakshohan od uccisore del mostro. Ma l'identificazione loro più costante è quella con Indra e Brahman per le analogie che abbiamo sopra dichiarate.[86] E la comparsa di [297] queste due insigni divinità nell'Olimpo vedico è per noi di sommo interesse, pel riscontro ch'esso ci offre col modo, con cui la teologia brâhmanica tentò poi di sbarazzarsi intieramente del Dio Indra e di perseguitarlo. Nel periodo vedico le caste incominciano a disegnarsi, ma non sono ancora bene distinte, e in ogni modo non si trovano ancora fra loro in diretta opposizione. I sacerdoti sacrificatori riconoscono ancora tutta la potenza del Dio Indra; esso è il massimo Iddio, ma Dio battagliero; i sacerdoti, non potendo distruggerlo, tentano farlo pio; attribuiscono pertanto gran parte delle sue vittorie celesti alla sua qualità eminente di Brahmanaspati, interpretato non più come signore del vasto cielo, ma come Dio della preghiera. Le religioni ne' loro principii tengono sempre gran conto degli elementi che offre la tradizione popolare; così fece pure il Brâhmanesimo, valendosi d'Indra per costituire la potenza di Brahmanaspati, e del trionfo di Brahmanaspati giovandosi per inalzare la dignità del Dio Brahman nel cielo, e della preghiera o brahman sopra la terra, e quindi l'autorità della casta che rivendicò a sè il privilegio della preghiera, mercede pacta.
L'ultimo periodo vedico ci offre parecchi anelli, pei quali possiamo congiungere il Brâhmanesimo col Naturalismo vedico, e spiegarne la derivazione. Indra cielo riuscì Indra Divaspati o signore del cielo; Indra Divaspati si scambiò con Indra Br'ihaspati e con Indra Brahmanaspati. Brahmanaspati, che, secondo l'inno 72º del decimo libro del Rigveda, nella prima età degli Dei, quando dal non essere nacque l'essere, foggiò tutte queste cose che esistono come un fabbro (karmâras) mentre, nella sua qualità di fabbro, si univa con Indra (strettamente congiunto col fabbro divino Tvashtar), nella sua qualità di creatore associavasi particolarmente a Brahman, che, [298] con le spoglie d'Indra, potè quindi maggiormente grandeggiare; l'espressione: tvam brahmâ rayivid Brahmanaspate (Rigv., II, 1), spiegata per: tu un Brâhmano ricco o Brahmanaspati, potrebbe ancora interpretarsi: tu il ricco Brahman o Brahmanaspati. E il merito maggiore del ricco Brahman o Brahmanaspati fu quindi per i suoi devoti la virtù, della quale egli fece prova sacrificandosi. Il Çatapatha Brâhmana racconta: «Brahma Svayambhu (ossia esistente per sè) faceva penitenza; egli comprese; nella penitenza non vi è infinità; orsù, ch'io sacrifichi me stesso nelle creature e le creature in me; perciò in tutte le creature sè stesso avendo sacrificato e le creature in sè, acquistò eccellenza suprema, dominio di sè stesso, predominio universale; così colui che nel Sarvamedha sacrifichi tutto ciò ch'ei può sacrificare, tutte le creature, consegue eccellenza suprema, dominio di sè stesso, predominio universale.» Il Dio che si sacrifica era già una nozione dell'antica mitologia vedica, figurato nel tramonto del sole e nel principio elementare cosmico, che si distrugge, ossia si scompone per moltiplicarsi. Sostituitosi al Dio reale, concreto, fisico, un Dio, originariamente fisico anch'esso, ma divenuto a poco a poco una pura astrazione, anche il sacrificio divino, per quanto apparentemente grandioso (poichè in Brahman è l'universo stesso, il macrocosmo, che si sacrifica per rinascere disperso in nuove forme individuali del creato, e morire o sacrificarsi infinitamente nelle parti), perdendo della sua poetica individualità, riesce solamente più un mistero religioso, che i devoti devono venerare senza comprendere, per sacrificare i loro beni a beneficio degli interpreti terreni del sommo Brahman.
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Si è voluto ricercare la Trinità brâhmanica nell'Olimpo vedico; io non nego punto l'esistenza di una trinità fisica, ma, salvo l'accenno fatto, nel ragionar di Kâma e Prag'âpati, a tre Dei nominati insieme, aggruppamento che potrebbe pur essere avvenuto per caso, o per amore del numero tre, non trovo espressa una trinità teologica negli antichi Inni vedici. Il concepimento di una trinità nel cielo è ovvio e naturale; il cielo si compone apparentemente di tre persone, il cielo stesso, che, quando sta immobile, inanimato, è cielo padre, è padre eterno, è Brahman, e, quando si muove a tonare e fulminare nelle tempeste, è Indra nella sua qualità battagliera di pluvio e tonante; il sole e la luna. Cielo, sole, luna formano tre persone in una, strette intimamente fra loro con vincoli necessarii. Talora, invece, con altro concepimento, il cielo si rappresenta come un vasto antichissimo oceano; il Padre Eterno, il Dio primevo esce dalle acque, e con lui si agitano il vento ed il fuoco; ecco un'altra trinità, con carattere specialmente cosmogonico, nella quale il Padre, il Figlio e lo Spirito si trovano rappresentati. L'aria o vento, il fuoco e l'acqua, formano una trinità. Ma, io lo ripeto, se gli antichi Inni [300] vedici ci riducono essenzialmente la sostanza divina a quella di queste tre persone fisiche, o, per dir meglio, a questi tre fisici elementi, se gli antichi Dei vedici non si possono, sottoposti ad una rigorosa analisi, ritrovare e spiegare al di fuori di questi elementi essenziali e costitutivi, sarebbe cosa vana il supporre che gli antichi poeti dell'India vedica abbiano già concepita la divinità come una suprema astrazione una e triplice, secondo il concetto brâhmanico e cristiano. Dallo studio che abbiamo fatto fin qui, mi sembra che risulti abbastanza chiaro come fosse ancora piena presso que' poeti la coscienza del fenomeno fisico che il nome divino rappresentava; un principio di astrazione si disegna con l'apparire dei nomi di Brahman, di Vishnu e di Rudra Çiva; ma, come abbiamo dimostrato, ci sembra, con qualche sicurezza, che i poeti vedici più antichi, nominando Brahman, sapevano di nominare il cielo; così spero di potervi ancora provare come, sotto i nomi di Vishnu e Çiva, si nascondevano per i poeti vedici, non di rado, il sole e la luna.
La lingua sanscrita conosce mille appellativi di Vishnu, come mille appellativi del sole; e parecchi di questi appellativi sono fra loro comuni. Ma non è dalla letteratura sanscrita, sì bene dalla vedica che noi dobbiamo cercare le prove del nostro asserto, poichè Vishnu e Çiva nel periodo brâhmanico subirono tali trasformazioni, che rendono spesso troppo malagevole il rintracciarne il primitivo carattere; non già perchè tra loro vengono talora a confondersi; chè il mito stesso ci spiega e giustifica una simile confusione, mostrandoci frequente lo scambio fra il sole e la luna, come due forme gemelle che si alternano, si succedono e creano talora nel cielo l'illusione che si tratti sempre del medesimo astro; ma perchè le sètte religiose indiane hanno sovraccaricato [301] la leggenda de' due numi di qualità particolari arbitrarie, che loro non appartengono in proprio.
Noi abbiamo già veduto che gli Dei si producono solamente nel cielo luminoso; ossia un Dio, un luminoso, mena seco gli altri luminosi o gli altri Dei. Conosciamo quindi già l'appellativo dato agli Dei come risvegliantisi con l'aurora; coll'aurora mattutina si svegliano gli Dei solari del giorno, coll'aurora vespertina gli Dei lunari della notte. A questa duplice generazione di Dei solari o diurni, lunari o notturni, si riferisce e ci richiama pure la duplice generazione di Eroi nella tradizione indiana, risalendo gli uni ad una dinastia solare, gli altri ad una dinastia lunare, secondo che le gesta mitiche degli antichi Eroi ci riproducono sulla terra fenomeni celesti del cielo notturno o diurno; Soma, la luna, e Savitar, il sole, sono entrambi due generatori. Qual è ora, secondo la nozione vedica, il cielo proprio di Vishnu? è esso un essere diurno o notturno? Io oserei dire che egli non è esclusivamente nè l'uno nè l'altro, ma, per lo più, il sole e, talora, la luna; Vishnu è più spesso certamente il sole, ma egli, all'accostarsi della notte, invece di morire, si trasforma, s'incarna in nuove forme mitiche, assume aspetti particolarmente lunari, erra nella notte, pigliando quel carattere di salvatore, che, nel mito, si attribuisce frequentemente al vecchio Luno, alla vecchia Luna, alla vecchia Madonna, alla buona Fata celeste. La natura di Vishnu è per lo più solare; quand'egli trionfa, è il sole; secondo il Çatapatha Brahmana, tagliata la testa a Vishnu, questa testa passa nel sole; il che vuol dire che, dalla sua forma notturna lunare, Vishnu ritorna alla sua propria natura solare. L'astronomia indiana chiama col nome di Vishnutithi o fase, costellazione di Vishnu, il giorno 11º o 12º lunare, onde si spiega pure il nome di sposa di Vishnu dato nell'Atharvaveda [302] alla Sinîvalî, ossia alla vigilia del novilunio; nel Yag'urveda nero, invece, il nome di Vishnupatnî o sposa di Vishnu, è dato alla Dea Aditi, la vôlta celeste; Aditi è pure chiamata madre di Vishnu nano presso il Mahâbhârata e presso il Bhâgavata Purâna, e, in un altro passo citato dal Muir,[87] essa trovasi rappresentata come madre del sole Vivasvant; Vishnu sarebbe, secondo il Mahâbhârata, il dodicesimo Âditya, e il più potente e virtuoso di tutti (sarveshâm âdityânâm gunâdhikah); secondo il Nirukta, Vishnu è l'Âditya per eccellenza. Vishnu è ancora rappresentato come compagno, seguace, fratello minore d'Indra, col quale va a bere il soma, col quale combatte, presso il Rigveda, il demonio serpente Ahi, onde si rappresenta poi sopra il demonio serpente Çesha, e a cavallo dell'uccello solare, dell'uccello di rapina Garuda, il più formidabile nemico dei serpenti; ed ancora, per la sua somiglianza con Çiva, sposo della Venere e madre d'amore indiana. I suoi dieci Avatâri sono famosi nella tradizione brâhmanica; se ne contano fino a ventidue; ma le sue trasformazioni hanno già incominciato negli Inni vedici; la nozione di Vishnu nano è già una nozione vedica; anzi l'impresa eroica di Vishnu nel Rigveda è precisamente l'avere in tre soli passi misurato l'intiero spazio del cielo con grande meraviglia de' Celesti, Devi e Demonii. È certamente ancora in una forma gemella vishnuitica che il Dio Indra, passando in tre tempi, in tre volte, in tre luoghi sopra il corpo della brutta fanciulla, di brutta e scura ch'ella era la fa ritornar bella; è questo un miracolo che si fa tutte le notti e tutti gli inverni sopra il cielo e sopra la terra, che dalla tenebra ritornano alla luce; ma il Dio nano, percorrendo lo spazio del cielo in [303] tre tempi, compie questo prodigio nel giorno come nella notte, e gli Dei, canta il Rigveda (VIII, 29), si rallegrano inebbriati (madanti), dove Vishnu dai lunghi passi percorse i tre stadii. In un altro inno del Rigveda (IV 18), si dice: «Allora Indra per uccidere Vr'itra (disse): O compagno Vishnu, estenditi.» In una leggenda del Çatapatha Brâhmana, che abbiamo già ricordata, il più impaziente d'uccidere Vr'itra appare Vishnu, nella sua qualità di seguace, o compagno strettamente congiunto d'Indra (Indrasya yug'yo sakhâ; Rigv., I, 22); nell'inno 89º dell'ottavo libro del Rigveda Indra dice all'amico Vishnu di estendersi, e quindi si aggiunge: «o cielo Dyaus, dà spazio al fulmine perchè discenda.» Parrebbe di qui che dal sole Vishnu Indra tolga i suoi fulmini e quindi li lanci pel cielo. Nel cielo tenebroso e notturno il sole appare chiuso; in esso il cielo, ossia il luminoso, si chiude: Indra estende l'uno e l'altro. In un altro passo vedico il Dio si distende sopra la terra e nel distendersi segnala agli uomini la terra come loro campo di conquista, il che fa veramente ogni mattino ed ogni primavera il sole, illuminando la terra e ridestando gli uomini al lavoro dei campi. Presso il Mahâbhârata (V, 2560) spiegandosi da Sang'aya alcuni de' più illustri nomi mitici assunti da Vishnu, si dice chiamarsi G'ishnu da g'ayana, la vittoria, quasi il vittorioso, Ananta come eterno, infinito, Govinda dal vedâna gavâm, il ritrovamento e possesso delle vacche (l'appellativo di Kr'ishna, «pastore»), e Vishnu dal Vikramana, ossia dalla sua facoltà di estendersi; l'etimologia è, senza dubbio, falsa, e pure essa conserva la coscienza del vero e proprio significato di Vishnu, che è il penetrante, il pervadente, e forse pure il vestiente il cielo di luce. Questo penetrante, questo pervadente può essere la luna, come per lo più appare il sole, e la polvere, nella quale, coi [304] suoi tre passi, Vishnu involge il mondo, secondo il 22º inno del primo libro del Rigveda, può essere tanto l'ambrosia luminosa del raggio lunare, quanto la polvere d'oro dei raggi solari. I tre passi, secondo il commentatore vedico Aurnavâbha, citato dal Nirukta, sono fatti nel cielo, cioè, com'esso si esprime, «nel luogo in cui nasce, nell'altezza meridiana o zenith (Vishnupada per eccellenza) e nel luogo in cui si corica.» Secondo Çâkapûni, altro commentatore vedico, i tre luoghi, invece, sarebbero la terra, l'aria, il cielo. Si comprende facilmente come, in questa sua qualità di penetrante tutto l'universo, e specialmente di saliente allo zenith, all'altezza suprema de' cieli o al Vishnupada, il Dio Vishnu abbia pur potuto identificarsi con Brahman, che è salito all'alto de' cieli e che lo occupa tutto, e come Vishnu occupante l'antariksha siasi congiunto intimamente con l'antara o Indra, e come, finalmente, in qualità di moribondo che si corica alla montagna, Vishnu s'identifichi specialmente con Çiva e si ritrovi con l'astro lunare. Vishnu compie forse pure tre passi nella notte come luna, ma, certamente, opera, presso il Rigveda, questo miracolo nel giorno come sole: ossia si parte dalla montagna, dalla terra, e, per la regione intermedia, il cielo d'Indra, l'antariksha sale nell'alto de' cieli, nel cielo di Brahman, per ritornar quindi a coricarsi alla montagna. Il genio solare che fa ogni giorno questo bel miracolo fu particolarmente celebrato col nome di Vishnu, e, secondo le regioni che esso visita, gli spazii che percorre, gli Dei che incontra nel suo viaggio celeste, assume pure una parte della loro natura. Si capisce tuttavia che la qualità eminente di Vishnu, il suo momento trionfale dev'essere quello, in cui arriva nell'alto cielo, che si considera come la sede propria non solo di Brahman, ma ancora di Sûrya il sole; motivo [305] per cui Vishnu fu poi considerato specialmente come una splendida figura solare, e come tale spiegato particolarmente dai commentatori indiani ed europei e venerato nell'India dai devoti. Il commentatore del Yag'urveda bianco, citato dal Muir,[88] identifica il Dio Vishnu nel suo primo stadio con Agni il fuoco, come quello che esce dalla terra; nel secondo, come quello che vola per l'aria, con Vâyu il vento; nel terzo, con Sûrya il sole. Torna qui la forma embrionale d'una trinità. Così Vishnu che, nell'inno 61º del primo libro del Rigveda, ferisce il cinghiale, appare una manifestazione dell'astro solare, che attraversa la scura montagna celeste della notte e ne vien fuori luminoso; nella tradizione brâhmanica poi, nella sua qualità di penetrante, Vishnu stesso si personifica col cinghiale dalle acute zanne, a motivo degli sporgenti suoi raggi o denti che sbranano il demonio della tenebra. Così, quando Agni, nel Rigveda, dice di sè ch'egli è l'arkas tridhâtu,[89] misuratore del mondo, s'identifica al tempo stesso con Vishnu e col sole Arkas, che in tre tempi misura il mondo; lo stesso appellativo di misuratore de' mondi vien dato, presso il Rigveda, al sole Savitar. L'inno 156º del primo libro del Rigveda ci presenta il Dio Vishnu con qualità così rassomiglianti a quelle del Dio Indra, che si direbbe con esso una sola persona; e ciò non deve far meraviglia dopo quello che abbiamo detto intorno alla diversità delle sedi di Vishnu corrispondenti alle varie sedi solari, ossia alle varie stanze celesti. Nell'atmosfera, nel cielo nuvoloso, e nel cielo notturno, Vishnu s'incontra necessariamente con Indra, una proprietà del quale è pur quella di estendere, ossia di estendersi. Perciò troviamo ancora Vishnu [306] onorato da Varuna e dagli Açvin, e circondato dai Marut; abbiamo già detto, che, secondo la interpretazione indiana, Vishnu, nel suo secondo stadio, ossia nell'atmosfera, la regione de' Venti, s'identifica pure col Dio del vento, ossia con Vâyu, e necessariamente con Indra che ha per principali compagni eroici i Venti. Così Vishnu s'identifica con Brahman creatore, ossia con Prag'âpati come signore che appare, nell'inno 164º dello stesso libro, dei sette piccoli germi che contengono in sè il seme del mondo, ossia di tutte le cose. Chi fu questo primo generatore? Fu il sole? Fu la luna? Il sole e la luna sembrano generarsi a vicenda l'un l'altro; presso l'inno 22º del secondo libro del Rigveda ci appaiono Vishnu che genera il Soma (l'ambrosia lunare) e Indra che lo beve; in un altro inno vedico, invece (Rigveda, II, 40), Soma appare come produttore, creatore di tutti i mondi (l'inno 96º del IX libro fa di Soma il generatore del sole e di Vishnu); e il sole Pûshan, invece, va proteggendo, ossia osservando e conservando il mondo. Si direbbe qui già accennato in germe il carattere di conservatore del mondo che Vishnu dovrà assumere più tardi nella brâhmanica Trimûrtti; così nell'inno 36º del VII libro del Rigveda si celebra Vishnu come Nishiktapâs o guardiano de' semi; nel 55º del terzo libro Vishnu è chiamato col nome di Gopâs, «signore o guardiano, o protettore,» il quale custodisce, difende, ossia regge la suprema regione celeste, guardiano delle care regioni immortali, ed ecco un nuovo carattere, per cui il conservatore del mondo parrebbe congiungersi col Çiva paradisiaco. Il carattere del vedico Vishnu è dunque evidentemente tutto benefico, oltre che singolarmente modesto; Vishnu si presta per gli altri Dei e specialmente per Indra, di cui assicura la vittoria, e non raccoglie verun profitto. Questo carattere [307] di particolare generosità, che ci presenta nel solare Vishnu il solito Dio che si sacrifica, dovea essere così sentito nell'età vedica, che, perduto il senso etimologico dell'appellativo vedico Tridhâtu, ossia quello de' tre elementi dato a Vishnu, la Taittiriya Samhitâ compone già una leggenda etimologica, secondo la quale il nome Tridhâtu varrebbe quello che si è dato tre volte. Si narra cioè che Indra, volendo uccidere Vr'itra, ordinò al fabbro Tvashtar di preparargli il fulmine; Tvashtar si mise all'opera, e, per mezzo del tapas (parola che [si noti bene, per spiegare l'equivoco mitico della generazione per mezzo della penitenza, che vuol dire, per mezzo del calore; senza il calore non si genera] vale calore e penitenza), riuscì a farne uno; Indra si provò ad alzarlo, ma come avviene spesso agli eroi poco destri delle novelline popolari russe, i quali non possono alzare il bastone di ferro preparato dal mago nella fucina, Indra non può alzare il fulmine forse troppo massiccio ed ardente preparatogli da Tvashtar. Noi abbiamo già veduto Vishnu identificarsi, secondo la sede che egli occupa, con Agni il fuoco, con Vâyu il vento, e con Sûrya il sole. Il fuoco deve aver la forza di bruciare, il vento quella di volare, il sole co' suoi raggi quella di penetrare. Vishnu, per compiacere Indra, che ha bisogno d'un fulmine formidabile, ma che si possa lanciare a traverso gli spazii, consente a farsi in tre pezzi, coi quali tre pezzi di sè stesso il fulmine d'Indra si crea, e il Dio fulminante consegue la vittoria, per merito singolare di Vishnu, che ha dato al fulmine il potere di volare, trovandosi, come già abbiamo avvertito, nella sua seconda sede, il sole circondato dai Marut, coi quali trovasi anzi invocato nell'inno 87º del quinto libro del Rigveda. Un'altra delle qualità peculiari di Vishnu, che, oltre al rivelarne la sua speciale natura [308] solare, ardente, alla sua potenza nel tapas, ne rivelano l'indole benigna e servizievole, è quella di cuoco celeste. Egli, in unione con Pûshan, cuoce per Indra cento bufali, certamente per mezzo del suo fuoco solare; nel vero, in un altro inno (V, 29), è detto che Agni, ossia il fuoco, ha cotto trecento bufali per Indra, il quale, dopo averli mangiati, e aver bevuto tre laghi di soma, ossia d'ambrosia, combattè con Vr'itra e l'uccise. Secondo un inno del Rigveda (VI, 69), una parte di quel soma sarebbe stato pure bevuto da Vishnu, invocato insieme con Indra, Vishnu vi fa il solito miracolo di estendersi pel cielo, ossia di estendere il cielo. Secondo l'Aitareya Brâhmana, in quello spazio disteso da Vishnu gli Dei fabbricano i mondi luminosi, i Vedi e la parola, che rimangono loro proprietà. Quello che rimane fuori di tale spazio appartiene agli Asurâs, il che val quanto a dire che tutto ciò ch'è fuori della luce è del dominio dei demonii.
Tutto il regno luminoso percorso da Vishnu è sede, ossia dominio degli Dei; e della regione percorsa da Vishnu, ossia della sua grandezza, dice un inno vedico (Rigveda, VII, 99), nessuno conosce il confine; in questo inno di composizione probabilmente moderna, ove Vishnu ed Indra tendono evidentemente già ad astrarsi, un versetto, col dirci ch'essi producono il sole, l'aurora ed il fuoco, sembra già distinguere Vishnu dal sole; ma la natura solare di esso ci pare tuttavia scolpita nel versetto che precede, il quale ci dice che Vishnu, da ogni parte, involge la terra co' suoi raggi di luce.
L'inno seguente attribuisce a Vishnu parecchi degli attributi solari; esso ha cento raggi, è rapido, fornito di cavalli, ricco, benefico. Nello stesso inno Vishnu è ancora chiamato col nome di Çipivishta, parola che vale propriamente fornito di raggi; ma sopra la quale, frantesa, [309] nacque ben presto un equivoco grossolano, che i commentatori s'ingegnarono di spiegare con le più strane leggende. Vishnu chiama nell'inno sè stesso Çipivishta; ma la parola, che vale propriamente il fornito di raggi, può ancora interpretarsi coperto di raggi, ossia i cui raggi lo nascondono; ma, fatto del sole una persona, i suoi raggi divennero i suoi capelli; il sole con la sua chioma, il sole capelluto (Sansone), è chiamato Çipivishta, appellativo dato non solo a Vishnu, ma a Çiva nel suo carattere di sole moribondo, rappresentato sempre con una vasta chioma. Ora pare che il nome di Çipivishta siasi pure dato per tempo al phallos, come coperto di peli, e quindi oscurato, nascosto. Il poeta vedico allude certamente a quel senso ignominioso che deve avere avuto la parola çipivishta, quando, scambiando il senso nobile col senso ignobile della parola, domanda a Vishnu: «Che cosa avevi tu da rimproverarti, o Vishnu, quando hai detto: Io sono Çipivishta? non celare a noi questa tua forma assunta, quando nella battaglia ti sei trasformato.» Noi sappiamo come Çiva divenne quindi il Dio fallico per eccellenza, anzi che il fallo stesso lo rappresentava; il nome di Çipivishta, che vien pure dato a Çiva, basta ad assicurarci che, nell'inno vedico, ove appare Vishnu come Çipivistha, si è preso equivoco tra il sole chiomato ed il fallo coperto di peli, e che Vishnu usurpa anticipatamente uno degli attributi, che saranno quindi proprii del Dio Çiva. E che non vi sia dubbio sopra la interpretazione che propongo al passo vedico, ce lo dichiara apertamente l'antico commentatore Yâska, il quale, parlando del nome di Çipivishta dato a Vishnu, come di un mistero da non rivelarsi, fa che Vishnu si confronti da sè stesso al fallo; se non che, interpretandosi ancora altrimenti la parola çipivishta, con uno strano e capriccioso sforzo etimologico, Vishnu dice [310] di sè stesso ch'egli è un çepa o fallo svestito (che può interpretarsi come sprepuziato, o come privo di peli), e Yâska, accettando, senza dubbio, la seconda interpretazione, aggiunse, interpretando il mito: privo di raggi. Ma questo errore de' commentatori indiani e quindi, se non erro io, degli interpreti europei, è nato dall'aver ammesso che il nirveshtita di Yâska equivalga al vishta del Rigveda, il che non mi pare possibile in alcuna maniera; chè non solo sono sinonimi, ma contrarii, çipivishta valendo fornito, vestito di raggi (e poi vestito di capelli, capelluto, e infine fornito, vestito di peli); mentre invece il çepah nirveshtita non vale altro se non il membro spogliato, qualità, con la quale si potè quindi raffigurare il Dio fallico Luno, come privo di raggi o di peli, o calvo, od anche eunuco. Ecco in qual probabile maniera un appellativo poetico semplicissimo del Dio, male interpretato fin dall'età vedica, introdusse nel mito di Vishnu un mistero, al quale il primo poeta, che aveva salutato il sole con quel nome, non avea sicuramente pensato; chè il nome di vish-ta deve essere stato piuttosto suggerito all'antichissimo rishi vedico dall'analogia che gli offriva la stessa voce vish-nu, la quale non aveva sicuramente nessun significato vergognoso nell'età vedica. Vishnu, lo ripeto, negli Inni vedici, non ha il posto primario, anzi figura più tosto come un servitore che come un amico d'Indra, ma la sua vita è pura, la sua storia vedica è priva di scandali; il mescolarlo come il suo compagno Indra, anch'esso chiamato çipivishta che appare come un sinonimo di çiprin, in un mistero fallico, è una calunnia nata da un antico malizioso equivoco, quantunque appaia ancor esso nella qualità di generatore primevo, anteriore a Prag'âpati: l'inno 184º del decimo libro del Rigveda canta che Vishnu foggiò la [311] vulva dell'universo, Tvashtar ne apprestò le forme, Prag'âpati versò il seme genitale, Dhâtar posò è costituì il germe. Perciò vedemmo sopra Vishnu come signore de' sette germi cosmici, e, presso l'inno 154º del primo libro del Rigveda, non solo quello che pervade tutto l'universo, ma quello che lo contiene tutto in sè. Il viç-va e il vish-nu provengono dalla stessa radice viç. Quando pertanto dal culto del Dio concreto specifico si passò a venerare particolarmente il Dio astratto generico; quando Indra come Divaspati cedette il campo a' suoi antichi originarii equivalenti Brahman e Brahmanaspati, esprimenti il cielo; si sostituì pure ad Indra grandeggiante nel cielo, distendente il cielo, sopra gli altari del sacrificio, Vishnu il collega d'Indra, che pervade ed occupa tutto l'universo, col quale evidentemente s'identifica. Quando poi si divulgarono le leggende brâhmaniche, nelle quali apparivano forme strane, divine, eroiche, umane, bestiali, sotto le quali il Dio compieva miracoli, i settarii di Vishnu supposero che ciascuna di quelle forme antiche, moderne o rinnovate, fosse una incarnazione panteistica del loro Iddio prediletto; e così, dopo avere creato, sopra il sole Vishnu, un Dio metafisico analogo a Brahman, tornarono a decomporlo in numerose sacre particole, ciascuna delle quali conteneva intiero il loro Dio; sotto questo rispetto, Vishnu si poteva dunque, nell'età brâhmanica, considerare come un vero Dio universale, poichè in tutte le antiche manifestazioni degli Dei, raccontate con nuove varianti brâhmaniche della setta vishnuitica, egli appariva come l'inevitabile Deus ex machina.
[313]
Noi abbiamo già accostato Indra Çiprin con Vishnu Çipivishta, e notammo come çipivishta fosse pure un appellativo dato a Rudra-Çiva. Rudra-Çiva raffigura specialmente il sole moribondo; ma, poichè questo s'incontra con l'astro lunare, lo stesso Dio solare prese ben presto alcuno de' caratteri essenziali lunari, e specialmente quello di generatore fallico, o di phallos spogliato, secondo il senso che si diede alla parola çipivishta. Qui ancora è probabile che a far di Çiva un Dio fallico abbia, in parte, contribuito un equivoco di linguaggio. Come Indra çikhin o çiprin prese pure nome nella letteratura brâhmanica di Çibi o Çivi, come Yâska prendeva equivoco tra le voci vediche çipi, «raggio,» e çepa, «fallo, coda;» così non mi pare improbabile che alla parola çiva scambiatasi, per l'analogia offerta dalla parola çipivishta, in çipa-çepa, siasi, sotto l'influsso delle parlate prâcritiche, attribuito un senso intieramente fallico, innanzi che altre occasioni esterne venissero a determinare e svolgere maggiormente nell'Indra il culto del phallos nella [314] figura del Dio Çiva. Ma Çiva-Çipa, che si riscontra per un verso con çepa, per l'altro si accosta, per la mediazione naturale di Çipivishta o fornito di çipi, all'equivalente çiprin (fornito di çipra ch'è il ciuffo); Indra Çiprin è il Dio col ciuffo: Indra Çiprin e Vishnu Çipivishta si rappresentano entrambi circondati dai Marut; ora i Marut, il padre de' quali è Rudra, sono chiamati hiranya-çiprâs, ossia aventi un aureo ciuffo. Ecco un primo carattere, per cui in Rudra-Çiva o Rudra-Çiprin sembra indicarsi il sole moribondo, ossia il sole col ciuffo. L'inno 43º del primo libro del Rigveda ci fa sapere che Rudra splende come il sole e come oro; Pûshan, in cui ravvisammo già il sole moribondo, è spesso chiamato nel Rigveda con l'appellativo di Kapardin, e Kapardin, dai capelli ispidi, dai capelli che vanno in su (a uso de' penitenti), è un appellativo vedico e brâhmanico di Rudra e di Çiva. L'inno 114º del primo libro del Rigveda, ove Rudra parrebbe identificarsi con quello stesso Vishnu che, dopo aver negl'Inni vedici distrutto il cinghiale, apparirà esso stesso, in una delle sue incarnazioni, nella forma d'un formidabile cinghiale, il Dio Rudra circondato, come Indra, come Vishnu, dai Marutas, si rappresenta qual rosso cinghiale celeste dall'ispido pelo (divo varâham arusham kapardimam), ed è pregato perciò di risparmiare i devoti mortali, e i loro figli, e i loro bestiami, e di non distruggerli nell'ira sua. Nel primo inno del secondo libro del Rigveda, Rudra, chiamato asuro maho divas, ossia grande spirito del cielo, un equivalente di Mahâdeva appellativo del Dio Çiva, s'identifica esplicitamente con Agni e con Pûshan, onde si pare che la sua propria natura è il fuoco del sole moribondo. Nell'inno 33º dello stesso libro è pregato Rudra di non allontanare il sole dalla vista degli uomini, altra prova evidente che si tratta d'un genio o [315] Dio del sole moribondo. Anch'esso, come il sole, sale sopra un carro; nell'inno 74º del sesto libro Rudra si trova invocato insieme col Dio Luno o Soma, affinchè caccino insieme tutti i mali, mettano ne' corpi umani tutti i rimedii, purifichino, allontanino la sventura (Nirr'iti), liberino dal laccio mortale di Varuna, che è simile a quello di Yama. Anche in quest'inno noi ci persuadiamo che il Dio dovea essere invocato all'accostarsi della notte, quando la tenebra sembra farsi apportatrice d'ogni male sopra la terra; si teme che Rudra sia complice di Varuna o di Yama, e lo si scongiura; egli è supposto padrone di tutti gli Dei, e il medico de' medici divini. L'inno 22º dell'ottavo libro celebra gli Açvin, come numi splendidi, adorati il mattino e la sera, che percorrono le vie di Rudra, ond'essi stessi vengono appellati Rudrau (i due Rudra, o i due terribili).
Dalla nozione adunque che, presso il Rigveda, si ricava intorno a Rudra, non par dubbia non solo la sua natura solare, ma in ispecie quella di sole moribondo, che conviene pure, come già vedemmo, a Yama, col quale Rudra-Çiva presenta parecchi caratteri simili, essendo divenuto, com'esso, terribile e beato, infernale e paradisiaco, distruggitore e riproduttore della vita.
La nozione degli altri Vedi non distrugge punto, anzi conferma eloquentemente questa impressione. Quando il Yag'urveda bianco ci dà come sorella di Rudra Ambikâ, e il suo Brâhmana ci assicura che Ambikâ è l'autunno, noi troviamo, come al solito, trasferiti al cielo autunnale ed invernale i fenomeni del cielo vespertino e notturno. Presso il Çatarudriya dello stesso Veda Rudra appare, come Çiva, nella qualità di giriçanta o abitante sui monti, di giritra o montanaro guardiano de' monti, che è propria del sole al tramonto; come nîlagrîvo vilohitah, ossia rossastro dalla nuca azzurra, [316] ossia la cui testa rossastra posa sul cielo azzurro; come kapardin o dagli ispidi capelli arricciati; come harikeça o dalla chioma d'oro; come ushnishin o fornito di diadema; come çipivishta, come hiranyabâhu o dalle braccia d'oro; come rohitah shtâpati o rosso artefice, appellativo che ci richiama alla fucina del sole che tramonta, ove siedono Tvashtar e Vulcano; come stenânâm pati o signore dei ladri (i quali rubano, per lo più, sull'imbrunire, quando il sole non illumina più, e la luna non illumina ancora la terra; del resto, anche la luna è chiamata protettrice de' ladri, e con essa si può confondere Rudra, in tale qualità, come si confonde nella sua qualità di signore di tutti i rimedii, di tutte le erbe, di tutte le piante, e delle foreste); come Pûshan (il sole moribondo) guida il viandante verso la sua dimora, e custodisce le strade, così la luna rischiara le vie, erra nella selva notturna, ed errandovi la illumina; essa è il lumicino delle novelline popolari che guida l'eroe o l'eroina, che si smarrì nella foresta, al palazzo incantato; come ladro, e ingannatore egli stesso (aspetto che, nella Mitologia zoologica, piglia specialmente la volpe che rappresenta il sole moribondo, ossia l'aurora vespertina); come nano e come gigante; come primo ed ultimo nato; come vecchio e come giovine, propizio e terribile; fornito di rapidi carri, munito di dardi formidabili; come compagno di Soma, col quale protegge le case, come Paçupati o guardiano del bestiame (due qualità, con le quali Rudra torna ad assimilarsi con Pûshan); come çañkâra e çiva o propizio, due appellativi che distinsero quindi particolarmente il Dio Rudra; e, al tempo stesso, come distruggitore e tormentatore (qualità che distinse quindi, nella brâhmanica Trimûrtti, particolarmente il Dio Çiva, ed ancora il Dio della guerra ch'è della stessa natura di questo [317] Rudra; ho già detto che il rosso di sera, nella superstizione popolare subalpina, annunzia guerra); ad esso pertanto i devoti recitatori del Çatarudriya, cioè al suo dente mortifero (come quello di Yama), raccomandano e consegnano i loro nemici ch'essi odiano e dai quali sono odiati.
Parmi evidente che, per i poeti del Yag'urveda, sotto il nome del Dio Rudra si raffiguri ancora il sole moribondo vespertino ed autunnale, il Yama che di paradisiaco diviene infernale, il Yama che di primo de' nati diventerà il primo de' morti e il Dio terribile che fa morire; all'autunno, oltre il nome di Ambikâ sorella di Yama, ci richiama il Çatarudrya, dicendoci che la pioggia è dardeggiata da Rudra. E questo trasferimento di Rudra dal cielo vespertino al cielo autunnale ci è pure confermato, oltre che dalla sorella di Rudra, Ambikâ, la pluvia stagione autunnale, dalla moglie di lui Priçnî, la vôlta celeste macchiettata, e, sovra tutto, dai figli di lui i Marut, i venti, i quali come si levano la sera, quando il sole tramonta e spirano le gelide brezze notturne, così ancora più formidabili si scatenano negli aquiloni autunnali, nunzii ed apportatori terribili della tempesta invernale, per tornare poi nel marzo nunzii di buon tempo: invocati per la distruzione de' nemici, mentre, secondo un inno dell'Atharvaveda, Dundubbi o il Dio tamburo tona per far loro paura.
Per questa relazione strettissima che Rudra ha con l'oceano notturno e con la stagione pluvia autunnale (esso è detto, presso il Yag'urveda e presso l'Atharvaveda, aver sede non meno nell'acqua che nel fuoco; l'acqua dà poi il succo medicinale, salutifero alle erbe, delle quali Indra è pure signore), e poi Rudra regna dappertutto; onde si spiega pure il suo appellativo di Çarva, col quale esso viene particolarmente celebrato nell'Atharvaveda . [318] Così come Vishnu risalì al viçvam, all'universo, e divenne Dio universale; così Rudra si trasformò in Çarva, e come tale, scambiato Çarva con Sarva, ch'è pure uno de nomi di Vishnu e di Çiva (lo scambio fra Çarva e Sarva appartiene già all'età vedica), si confermò e s'inalzò la sua qualità di Mahâdeva, d'Ica, d'Içvara, di Parameçvara, le quali riconosciute, Rudra-Çiva dovea necessariamente pigliar posto nella Trimûrtti, i componenti della quale si distinguono dagli altri Dei minori specialmente pel loro carattere d'universalità; ma poichè Çarva non è già propriamente il tutto (Sarva), ma il distruggitore, il mahâdeva Rudra-Çiva rimase poi particolarmente nella Trimûrtti col suo carattere di universale distruggitore, e viene già scongiurato negli Inni vedici, affinchè non distrugga. Ugra terribile è uno degli appellativi, coi quali è invocato Rudra-Çarva nell'Atharvaveda. Egli vi è celebrato come çikhandin o crestato, fornito di ciuffo, e munito di un arco del color dell'oro, col quale colpisce mille, uccide cento; ed è pregato di tener lontano dalla dimora dei devoti sciacalli, cani sinistri[91] e calve streghe; di lanciare sopra altri che sopra i suoi devoti la sua arma terribile; di non consumarli, di non ucciderli nè col veleno nè col fuoco, poich'esso è padrone di tutte le erbe, ossia di tutte le acque che danno il succo alle erbe, e di mettersi in collera contro di essi; di rivolgersi contro gli animali mostruosi, contro i quali esso può liberamente tirare; di scagliare altrove il fulmine [319] (Vidyut). In questa qualità di fulminante, Rudra padre dei Marut si identifica evidentemente con Indra fulminante circondato dai Marut, il sole, chiuso nella nuvola della tempesta, è egli stesso il fulminatore, mentre, secondo un altro concepimento vedico, Indra trae dal sole o da Vishnu (avvolto ancor esso dai Marut) il fulmine, per scagliarlo poi egli stesso. Avremmo qui dunque in Rudra, non tanto il sole moribondo vespertino, quanto il sole entrato nella stagione autunnale, che nelle tempeste dell'autunno, circondato dai venti suoi figli, fulmina e tona, usurpando il supremo ufficio di Indra, come altri ufficii vedemmo già essere stati ad Indra disputati da Brahman e da Vishnu. È con le spoglie degli Dei vedici che si rivestirono gli Dei brâhmanici, ogni nuovo Dio grandeggia a spese degli Dei che l'hanno preceduto; e di questo divino travestimento gli stessi Inni vedici ci lascian rintracciare le occasioni e le ragioni celesti. Un inno dell'Atharvaveda, in cui Rudra è esplicitamente identificato con Mahâdeva e con Içâna, ossia con Çiva, ci avverte come Rudra, per consenso di tutti gli Dei, fu convertito in arciere celeste, qualità propria d'Indra, e poi di suo figlio Arg'una, ma che s'attribuì quindi, come parmi, tanto più facilmente a Çiva, per l'equivoco che dovette nascere tra le parole Ìçvara, che divenne poi il signore (ma che, in origine, significò il penetrante, il forte, il potente), appellativo di Çiva, ed Ishvâsa che vale l'arciere. In una singolare leggenda del Çatapatha Brâhmana, presso la quale si cerca dar ragione de' varii nomi di Rudra, figurato come figlio dell'anno e di un'Ushas figlia di Ushas, ossia Aushasî (la primavera risponde all'aurora mattutina, l'autunno all'aurora vespertina; l'Aushasî madre di Rudra sembra identica alla Priçnî che gli è moglie, all'Ambikâ che gli è sorella), e che domanda gli si dia un nome [320] (poichè il neonato fanciullo indiano, secondo il vedico Çatapatha Brâhmana, finchè non riceve un nome, non può essere liberato dal male, credenza che ci richiama al dogma cristiano del peccato originale portato via dalla cerimonia del Battesimo, nella quale si dà al neonato fanciullo cristiano un nome che si spera possa portargli fortuna), tra le forme che gli dovranno procacciare un nuovo nome, troviamo pure indicata quella di Parg'anya, ch'è il temporale e il Dio del temporale, armato del fulmine, ossia della vidyut, della lampeggiante. E poichè la stagione autunnale, invernale, e la notturna, ossia la stagione umida, acquosa, è particolarmente retta dalla luna, la leggenda del Çatapatha Brâhmana, tra le forme di Rudra, ci offre pur quella di C'andramas, ossia del Dio Luno; e poichè il Dio Luno si raffigura come un Prag'âpati o conservatore per eccellenza della progenie, Rudra è anch'esso un Prag'âpati, qualità che abbiamo già veduto appartenere a Brahman ed a Vishnu; nella Trinità brâhmanica poi, Brahman è il Prag'âpati procreatore, Vishnu il Prag'âpati conservatore della progenie; nella qualità di C'andramas Prag'âpati, Rudra-Çiva piglia ancor esso il carattere del Dio creatore universale, come pure in quella di îçâna che lo stesso Brâhmana spiega come sole, poichè il sole regge l'universo e forse in îça, îçâna, îçvara, appellativi di Rudra, la radice îç è stretta parente di viç che entra in Vishnu, com'è certo la stessa che occorre in Ishma, il Desiderio, e poi il Dio del Desiderio, l'Amore, il Dio d'Amore, che, come violento, diviene poi il Dio della Guerra; e Kumâra uno degli appellativi del terribile Karttikeya o Dio della guerra indiano, nel periodo brâhmanico, chiamato nel Mahâbhârata figlio di Rudra, è pure uno degli appellativi di Rudra attribuitigli dalla leggenda del Çatapatha , [321] il quale, pigliando equivoco fra il nome di çarva o distruggitore e sarva o tutto, considera pure Rudra nella sua forma di Sarva, e la spiega, nel modo seguente, ove l'imposizione del nome e il battesimo con l'acqua si trovano accostati. Dopo aver dichiarato che Rudra si chiama così, da rud «piangere,» poichè il fanciullo neonato piangeva, essendo travagliato dal male, per non avere ancora ricevuto alcun nome che glielo portasse via; dopo aver soggiunto che il neonato Rudra passò nella forma di Agni, ossia del fuoco, perchè il fuoco è un Rudra, ossia uno che piange, la leggenda continua: — Il fanciullo disse: «Io sono più grande di tutto ciò che esiste; imponimi un nome.» Prag'âpati rispose: «Tu sei Sarva.» Poichè egli ricevette, un tal nome, le acque divennero la sua forma; chè Sarva si chiamano le acque (per l'equivoco nato sopra la radice sar, onde Sara, l'acqua; il Sarva poi si congiunge etimologicamente col Sarpa; onde si spiega ancor meglio come Sarva sia un appellativo di Vishnu e di Çiva, come Dei universali, e che Vishnu appaia pure più tardi nella forma di Sarpa Ananta spiegato per serpe infinito, ma scambiato probabilmente col Sarva Ananta, ossia con l'universo infinito, di cui Vishnu è il reggitore, il conservatore; Vishnu ananta, ossia il tutto infinito, si rappresenta seduto sopra il çesha che propriamente rappresenta la parte), e le acque si chiamano sarva, perchè da esse nasce ogni forma. — I nomi di Paçupati, o, com'è spiegato, signore del pascolo, di Ugra il «terribile,» di Vâyu «il vento,» di Açani «il fulmine,» ec., che la leggenda attribuisce a Rudra, sono tutte qualità speciali, caratteristiche date al Dio universale; la riunione di esse costituì il carattere di mahâdeva o gran Dio Rudra-Çiva; della sua qualità vedica di distruggitore o çarva, nell'età brâhmanica, si conserva frequente reminiscenza [322] nel nome di Sarva, che ha sostituito il Çarva, con significato di universo. In una leggenda del Çânkhâyana Brâhmana riferita per intiero dal Muir nel quarto volume de' suoi Sanskrit Texts, il nascimento e l'imposizione de' nomi a Rudra sono riferiti nel modo seguente: — Prag'âpati ha una figlia di nome Ushas; questa si trasforma in una ninfa; Prag'âpati la vede, e lascia cadere il suo seme genitale; quindi ei lo raccoglie in un vaso d'oro, e ne nasce una creatura dai mille occhi, dai mille piedi, dalle mille braccia[92] (oppure dalle mille saette fissate sulla corda dell'arco). Il neonato si reca presso Prag'âpati e gli dichiara ch'ei non toccherà cibo, finchè non riceverà un nome. Prag'âpati lo chiama Bhava od essenza, poichè Bhava od essenza sono le acque; Rudra non è pago, e vuole un secondo nome; allora Prag'âpati: «Tu sei Çarva,» poichè Agni (il fuoco) è Çarva (ossia struggitore); il terzo nome ricevuto da Rûdra è Paçupati o il signore del pascolo, perchè Vâyu o il vento è Paçupati; il quarto nome è Ugradeva, poichè Ugradeva o il Dio terribile sono le erbe e le piante (qui è evidentemente avvenuto uno scambio per errore del commentatore, poichè Ugradeva è il nome che conviene a Vâyu, e Paçupati, o signore del pascolo, è invece il nome che conviene alle erbe ed alle piante); il quinto nome è Mahâdeva o gran Dio, perchè gran Dio è Âditya (ossia il sole, Vishnu); il sesto nome è Rudra, perchè Rudra è pure la luna (C'andramas); il settimo nome è Îçâna, poichè Îçâna è il cibo (annam, per l'equivoco probabile nato fra îçâna ed açana, ch'è il [323] cibo); l'ottavo nome è Açani, il fulmine, perchè Açani (come Dio fulminante) è Indra. — Nel Yag'urveda nero Agni-Rudra è già paragonato al tigre vorace, che divorerebbe il sacrificatore, se questo non lo placasse con le oblazioni; il fuoco sacrificale è quel tigre vorace sulla terra; e il sole moribondo sulla montagna, che attira a sè, è il tigre celeste, che troviamo quindi rappresentato, nel periodo brâhmanico, presso Çiva e Parvatî. Tuttavia l'insegna propria di Rudra-Çiva tra gli animali è particolarmente il toro, emblema essenzialmente lunare, onde Çiva viene pure rappresentato con la luna in fronte; e questo suo associarsi e quindi identificarsi con l'astro lunare dovette poi concorrere, in gran parte, a convertire Rudra-Çiva in un Dio fallico, che offre un singolare contrasto con la qualità di distruggitore rappresentata nella Trinità brâhmanica da Çiva. Il vedico Rudra non ha ancora caratteri paradisiaci; egli è essenzialmente un violento, un terribile armato, che gli uomini temono, quanto amano invece Indra. La grandezza d'Indra spiegasi particolarmente nel cielo primaverile, in cui si mostra circondato dai venti di marzo; le tempeste di primavera, nelle quali Indra fulmina e tona, annunziano il ritorno del bel tempo; gli Açvinau, i due gemelli, i due pesci, sono compagni propizii d'Indra. Gli stessi Açvinau accompagnano Rudra, ma essi sono gli Açvin autunnali (Rudrau), dai quali, anzi, un mese dell'autunno s'intitola Âçvina; e i Marut dell'autunno non hanno più la stessa natura dei venti di marzo; essi sono aquiloni funesti, infernali; il loro potere perciò è temuto, come quello di Rudra loro padre, il quale, congiungendosi nella notte e nell'inverno con l'oceano acquoso, in esso trova poi ogni maniera d'umori, i salutiferi ed i velenosi, onde esso può pure far concorrenza agli Açvin, come supremo medico, [324] ossia medico de' medici. È nel suo incontro con l'ambrosiaco o dionisiaco Soma, con l'astro lunare, che Rudra acquista natura benigna, fallica insieme e paradisiaca, offrendo in sè quello stesso duplice carattere, che abbiamo già avvertito in Yama, Dio al tempo stesso de' beati e de' dannati, infernale e paradisiaco. Ma la letteratura vedica ci presenta Yama sotto un aspetto particolarmente propizio, come Rudra sotto un aspetto specialmente formidabile; si direbbe che dalla riunione di queste due persone vediche siasi formato, in gran parte, per l'occasione di un equivoco nato sulla parola çiva, il duplice Çiva brâhmanico (il cui carattere propizio è essenzialmente fallico), come vedemmo già che dallo scambio sicuro di Çarva con Sarva, e forse quello d'Îç-a con Vish-nu, si costituì la grandezza di Mahâdeva, che assunse anch'esso il carattere di fallo universale. La Çvetâçvatara Upanishad rappresenta Rudra come signore dell'universo (viçvâdhipa), generatore del primo germe d'oro (Hiranyagarbha) increato esso stesso, quantunque altre volte si rappresenti al pari di Yama qual primo de' nati e primo de' morti, o pure come figlio di Prag'âpati e di una forma di Ushas. Nell'Atharvaçiras Upanishad Rudra è celebrato come il Dio universale, eterno e non eterno, eterno e primevo, visibile ed invisibile, maschio e femmina, principio e fine; così si combinano le sue due nature di creatore e di distruggitore, poich'egli è tutto e dappertutto; nel tempo del fine (antakâle), dice la Upanishad, egli distrugge tutti i mondi. Con simile carattere universale è chiaro che Rudra possa raccogliere in sè solo gli aspetti di tutti gli Dei. La Kaivalya Upanishad, secondo l'estratto che ne diede il professor Weber negli Indische Studien, c'insegna che Rudra è lo sposo di Umâ, è Brahman, è Çiva, è Indra, è Vishnu, è lo Spirito (Prâna), è l'anima, [325] è Parameçvara, ossia il supremo Signore. Da tutti questi indizii vedici, e da quegli altri più copiosi che lo studioso può trovare diligentemente raccolti nel IV volume dei Sanskrit Texts del Muir, a quale conclusione si può egli arrivare intorno alla propria natura di Rudra-Çiva? — A nessuna affermazione esclusiva ed assoluta.
Quando si parla di Çiva, vuolsi concepire sotto molteplici forme; la più antica è quella del violento vedico Rudra generatore dei venti, che nel cielo vespertino e autunnale, e, più di rado, mattutino e primaverile, appare ora malefico, ora propizio, ora promettitore di bel tempo, ora di tempo malvagio; come vi sono due Açvin, come vi sono due Yama, così vi sono due Rudra, l'uno Çarva o distruggitore, l'altro Çiva o felice. Ma il Çarva divenuto Sarva (universo) prese aspetto d'un Dio universale simile al Creatore Brahman; e Çiva, confusosi forse col Çepa o Çipivishta, converti facilmente il Dio universale Creatore in un Dio fallico. Il Çiva del periodo brâhmanico conservò alcune delle qualità del terribile Rudra-Çarva; ma, per i contatti con le popolazioni dravidiche, quasi a liberarsi dai maleficii del Çiva distruggitore, gli indigeni finirono poi col venerare specialmente il Dio fallico, il liñga, che dovea mantenere la generazione, e impedire così che il Sarva fosse distrutto dal Çarva, ossia che il Mahâdeva creatore annientasse l'opera propria. Ed ora, per proseguire, dovremmo entrare, alla nostra volta, nella regione della metafisica, ai confini della quale ho, invece, desiderato arrestarmi. Se io l'ho pur tuttavia, in qualche maniera, sfiorata, siami di scusa la stessa classificazione da noi fatta degli Dei vedici, i quali tutti, senza eccezione, hanno bensì una base fisica, ma non sì che alcuni di essi non accennino già ad una imminente trasformazione della loro natura [326] mitica in natura teologica, anzi non dimostrino ad evidenza che la trasformazione è già incominciata; e, contemporaneamente al Dio teologico, ossia all'astrazione suprema dalla realtà, nasce nel culto il grossolano idolo fallico. Fra il mondo teologico e il mondo della materia inconsciente, che sembrano assai lontani e pure si toccano, sta il mondo mitico, ossia il mondo ideale, il mondo poetico, il mondo delle realtà luminose che si agitano perenni nella vita dello spirito.
[327]
Noi siamo giunti al fine della nostra breve peregrinazione a traverso l'Olimpo vedico, contemplando la figura di Rudra-Çiva. Noi abbiamo considerato il primo aspetto del Dio; per studiare, nella sua interezza, il secondo, dovemmo mutare d'ambiente storico, e però necessariamente d'ambiente mitico. Poichè, ammesso ciò che non si nega più da ogni mitologo intelligente, risultare il mito dal linguaggio insieme e dalle idee che quel linguaggio esprime, ossia dalle immagini figurate ed animate del linguaggio, poichè le idee si trasformano insieme con le parole, anche le mitologie passano necessariamente per stadii diversi. Così nell'India abbiamo collegate fra loro e pure distinte due mitologie, la vedica e la brâhmanica, come abbiamo due civiltà, e due lingue fra loro collegate e pure distinte, la vedica e la brâhmanica; a queste due lingue, civiltà e mitologie, se ne potrebbe ancora, nell'India, aggiungere una terza, ch'è la lingua sacra, la civiltà, la mitologia buddhistica. E, col trasformarsi delle mitologie, anche le religioni che posano sopra di esse, si modificano. La mitologia vedica s'accompagna con un culto religioso de' fenomeni più splendidi e delle forze più temute della natura; la mitologia brâhmanica [328] che ingigantisce gli Dei senza farli più luminosi e più venerabili, si accompagna con una idolatria mostruosa; la leggenda mitica spirituale del Buddha porta alla sua suprema esagerazione l'ascetismo. Ogni età storica ha un suo carattere particolare; se vi è capacità morale in una razza di creare il mito, e se questa razza può contare più di una età storica, essa muterà necessariamente di mitologia e di religione col mutarsi di civiltà e di linguaggio. Ma, come nessun linguaggio è così distinto dal suo predecessore da farlo dimenticare, così nessuna nuova mitologia fa intieramente dimenticare l'antica, da cui si è svolta. Accade nella successione mitologica quello che si osserva nella successione ereditaria di padre in figlio. Certamente l'eredità che il figlio riceve dal padre o dagli avi, è gran parte del suo organismo; ma, poichè l'educazione di questo nuovo organismo è inevitabilmente diversa da quella che ricevette l'organismo precedente, poichè i mezzi, coi quali il figlio vive e l'ambiente storico, in cui si agita, sono diversi da quelli, coi quali visse e in cui s'agitò il padre, per questa sola diversità d'educazione, di mezzi e d'ambiente si produce un nuovo carattere morale. Così il carattere mitologico appare diverso secondo le età storiche, nelle quali si manifesta. Ebbe quindi ragione il professor Adalberto Kuhn, uno de' fondatori illustri della Mitologia comparata, in un recente suo notevole discorso letto all'Accademia delle scienze di Berlino (Ueber Entwicklungsstufen der Mythenbildung), di negare l'esistenza di un solo periodo mitico. Tuttavia, se si devono ammettere parecchi periodi di creazione mitica, chè, negandoli, si negherebbero all'uomo moderno intieramente quelle facoltà poetiche, ideali, inventive, che si riconoscono all'uomo primitivo, non bisogna poi dimenticare le ragioni, per le quali l'uomo primitivo era più atto dell'uomo civile a [329] creare il mito, e le ragioni, per le quali un mito elementare che si lasciava creare da un uomo primitivo, non si potrebbe più inventare da un uomo incivilito. Per crear miti è necessaria molta ingenuità, e la molta ingenuità s'accompagna per lo più con la molta ignoranza; l'entusiasmo poetico che si sente innanzi alla natura è ancor esso una illusione creata da una specie d'ignoranza; il poeta vede nell'aurora la fanciulla che sparge rose, che apre con rosee dita la finestra d'oriente; lo scienziato considera attentamente il fenomeno, lo sottopone ad una fredda analisi, calcola la distanza ed i riflessi de' raggi solari sopra un cielo simile ad una vôlta azzurra, ma che non è in realtà nè azzurro nè vôlta, e si mostra solo con quel colore, con quella forma alla nostra vista ingannata; e, arrivato a quella conoscenza, lo scienziato non solo non crea più alcun mito sopra l'aurora, ma non lo lascia più creare. Perciò mi convien ripetere quello che ho già affermato nell'aprire queste letture; se si creano ancora miti, il solo che li crea è il popolo, perchè più ingenuo e più prossimo alla natura; i poeti cittadini possono guastare i miti, con la pretesa di abbellirli, di ornarli, come fece Ovidio con le sue Metamorfosi, ma non già creare alcun mito vivace. Se vi furono dunque parecchi periodi storici, ne' quali si crearono ordini diversi di miti, convien pur sempre ritenere che nessun terreno, nessun tempo, nessun linguaggio tra quelli che conosciamo fu più propizio alla creazione dei miti, che il terreno, il tempo, il linguaggio vedico. Noi siamo richiamati ad una regione, nella quale i fenomeni naturali si manifestano più ricchi e più grandiosi, ad un'età patriarcale, ad un linguaggio particolarmente agile, vivace e trasparente. Io ho detto esser necessaria molta ingenuità per creare i miti, ma s'intende che questa qualità negativa non basterebbe da sola a produrre altro che facili e volgari idolatrie; [330] ma il popolo che cantava gl'Inni vedici aveva ancora un sentimento vivacissimo, ed una immaginazione ardente, due qualità necessarie a produrre l'entusiasmo poetico, primo artefice di miti. Dico primo e non unico. Poichè, come ho già avvertito più volte, e, come spero aver dimostrato con un sufficiente numero di esempi, un gran numero di miti nacque sopra un solo equivoco di linguaggio. Quando noi tra le opere indiane ne troviamo una che ci reca i mille appellativi di Vishnu, un'altra che ci offre i mille appellativi del Sole, da questa ricchezza d'appellativi attribuiti ad un solo essere mitico comprendiamo insieme tre cose: 1ª che quella ricchezza d'appellativi è prova della potenza immaginativa, ossia poetica, del popolo che sapeva inventarli; 2ª che, diventando quegli appellativi figure mitiche distinte, un solo Dio poteva moltiplicarsi e trasformarsi tante volte, quanti erano i suoi appellativi poetici; 3ª che scambiandosi l'uno con l'altro gli appellativi di uno stesso Dio, o, come più spesso avvenne, l'appellativo d'un Dio con quello d'un altro, essendo impossibile che alcuno degli appellativi dati in gran numero ad un solo Dio non ritornasse come appellativo proprio d'alcun altro Dio, da questo scambio nasceva un equivoco, e da questo equivoco molte volte un intiero ordine di miti. E gli equivoci possono essere diversi secondo le età; vi sono, per esempio, equivoci spontanei, come quello che nasce fra la nuvola e la montagna, fra i due Krishna, il vedico ed il brâhmanico, fra la Pr'ithivî celeste e la Pr'ithivî terrestre; vi sono equivoci per ignoranza mista ad un po' di malizia, come abbiamo veduto essere quello nato tra gli stessi poeti vedici sopra la parola çipivishta; vi sono finalmente equivoci originati dalla ignoranza de' commentatori, e questi, come sono della peggiore specie, così alimentano una mitologia grottesca, massiccia, che vive alle spese della credulità [331] del volgo, ma non contiene in sè stessa alcun germe vitale. Ma, se gli equivoci d'un'età sono diversi da quelli d'un'altra, la tendenza a crear miti per mezzo di equivoci è un fatto antico e costante. Nuovi miti possono certamente apparire nella storia, e vi sono alcuni miti recenti, come ve ne sono moltissimi antichi. Il voler pertanto spiegare ogni mito col richiamarlo, come a sua prima fonte immediata, ai miti vedici, sarebbe sicuramente impresa temeraria; poichè il nostro linguaggio non rimase inerte dall'età, in cui si produsse nelle sue primitive forme ariane, convien supporre che esso, svolgendosi, abbia pure creato la sua parte di miti caratteristici. Ma ciò che importa a noi, quando accostiamo un mito occidentale ad un mito orientale, non è già il mostrare la provenienza di quello da questo, sebbene, per parecchi miti europei, sia necessario il riconoscere la loro provenienza asiatica, non essendo possibile l'ammettere che gli Europei togliessero dall'Asia il loro linguaggio privo di ogni contenuto mitico, che vorrebbe dire privo d'immagini poetiche, ma sì di ritrovare una sola legge costante nella generazione di miti conformi.
De' miti gli uni sono antichi ed ereditarii, gli altri sono moderni e nostri; degli ereditarii gli uni sono di origine orientale, gli altri nazionali. Come confrontiamo gli antichi nostri miti con gli orientali, così è utile il confrontare anche i moderni, fondati sopra lo stesso principio di produzione mitica. Io ho già citato il vin di nuvoli del linguaggio popolare toscano e piemontese, con cui si esprime l'acqua piovana; ecco un mito moderno, che ho creduto di poter riscontrare nel mito indiano equivalente di Kabandha, ossia della nuvola barile, sebbene certamente il contadino toscano e piemontese non abbiano avuto bisogno d'alcuna nozione tradizionale per immaginare il loro mito. Così, quando in Piemonte piove da [332] molti giorni, suolsi dire: tempo di Dio seguita; quando una tale espressione non sia derivata dalla tradizione biblica del Diluvio, quel Dio fatto sinonimo di pluvio ci richiama al cielo, ossia al Giove pluvio, e questi alla sua volta si ricongiunge col vedico Dyu, Dyaus, col cielo medio, che, sotto il nome d'Indra, diviene pluvio. Ecco una foggia di mito ereditario, il quale può essere nato sul suolo italiano, come derivato dal suolo asiatico; ma qualunque sia la sua antichità, la espressione del linguaggio piemontese vuol essere considerata come un vero mito, ed un tal mito è della stessa natura di quelli che i poeti vedici ci hanno descritti; e merita pertanto che il psicologo comparatore se ne occupi. Quando il dotto mitologo Mannhardt, nel suo bel saggio Sui demonii del grano, mi fa conoscere che il popolo tedesco conosce pure un demonio delle patate, sono lontano, non ignorando come sia moderna la coltura di questa pianta in Europa, dal voler inferire che bisogna ricercare ne' miti primitivi un demonio delle patate; bensì, invece, argomento che un'antica nozione mitica, secondo la quale gli esseri demoniaci penetravano nelle piante per mandarle a male, mantenutasi viva nella tradizione popolare tedesca, prese una nuova forma speciale sopra un nuovo oggetto; e non commetto quindi nessun arbitrio, quando ricerco pure nel demonio delle patate una prova della persistenza che hanno i miti ariani nella loro stessa varietà. Egli era, per lo stesso principio critico, che, or sono ben sei anni, da questa stessa cattedra, discorrendo del ciclo epico Carolingio, io, pure nell'ammettere il concorso occasionale di nuovi elementi storici francesi alla formazione dell'epopea Carolingia, osai riscontrare i nuovi eroi medioevali coi loro antichi fratelli mitici indiani. Lasciate che critici di mala fede vengano a provocare le risa del volgo con la stolida [333] accusa che tutte le tradizioni popolari odierne siano da noi spiegate coi soli miti vedici, dai quali, secondo essi, li facciamo immediatamente discendere; con avversarii di tal natura sarebbe sterile ogni lotta; ma, questo m'importa bene che fermiate nella mente: che se vi sono degli stadii diversi di forme mitologiche, vi è continuità e identità di principio che le governa e ne determina lo svolgimento. La difficoltà maggiore sta, senza dubbio, nel determinare se un fatto mitico sia antico o moderno, indigeno od importato; e, in tale ricerca, spesso l'acume dello storico delle mitologie non basta, poichè mancano ancora a questa storia segreta del genere umano, contenuta ne' miti, troppi documenti; ma, se non si può sempre determinare la provenienza d'un fatto mitico, la sua sostanza mitica non può essere contestata se non dalla molta mala fede o dalla molta ignoranza degli ostinati oppositori della Mitologia comparata. Accettando, pertanto, in massima il principio stabilito dal professor Kuhn nella sua dotta dissertazione, per temperare l'opinione che gli parve un poco troppo assoluta del professor Max Müller, il quale poneva l'origine de' miti nella sola sede originaria asiatica della stirpe indo-europea, parmi che convenga, anzi tutto, fare una distinzione molto viva tra i miti primarii ed i miti secondarii; i miti primarii, o espliciti od in germe, furono portati tutti dalle sedi asiatiche in Occidente; inoltre, nello stadio de' miti secondarii, per quanto lontani ed isolati, vuolsi riconoscere sempre una stessa legge o meglio un complesso di leggi, di formazione mitica, legge o complesso di leggi, in cui trova la sua ragione scientifica la Mitologia comparata, e senza la quale essa riuscirebbe ad uno studio vano e capriccioso.
Con tale opinione ch'io sono venuto formandomi intorno alla scienza che qui ci occupa, io non vi renderò [334] altra ragione del metodo che, in questo primo corso di Mitologia vedica, mi è sembrato di dover seguire. La mitologia vedica somiglia tuttora ad un vasto mosaico senza disegno composto di pietre preziose. Io ho tentato di dare una prima distribuzione critica alla materia, classificando, in letture distinte, gli Dei più eminenti dell'Olimpo vedico. Incominciai col dimostrarvi come, da prima, le sole forze della natura fossero cantate col loro proprio nome, come dalla poesia che le cantava siasi naturalmente disegnata la prima mitologia, ossia come sopra i fenomeni celesti siano nati gli Eroi divini. Tentai quindi indicare quale fosse il principale fenomeno rappresentato dal Dio eroico, e come da questa figura divina, per un concepimento più largo, più grandioso, più universale della totalità de' fenomeni celesti, sia sorto, dopo il Dio eroico, il Dio astratto o metafisico; ma di questo stesso Dio metafisico tentai pure determinare il limite fisico probabile, sopra il quale s'innalzò; così che per noi rimarrebbe, dalla caratteristica che abbiamo data agli Dei vedici, persuaso che tutta la mitologia vedica ne' suoi tre stadii ha un solo fondamento fisico, e che la fisica, la quale muove gli Dei vedici, è la sola fisica celeste. Nella brevità de' limiti concessi a queste mie letture, io non potei recare nè molte nozioni nuove, e nè pure tutte le nozioni già aperte agli studiosi vedisti intorno agli Dei dell'Olimpo vedico; ma spero bene aver fatto abbastanza per rilevare e stabilire di ciascun Dio il suo carattere eminente, come desidero non essermi ingannato in quelle nuove interpretazioni che ho cercato proporvi di certi nomi e fatti mitici. S'io avessi inteso a divertirvi con una pomposa descrizione dell'Olimpo vedico, l'India non mi avrebbe negato i suoi colori per farvene una splendida rappresentazione. Ma, se mi lusingherei che m'avreste prestato più fida e più animata attenzione, sentirei vergogna di [335] me stesso, ove, per raccogliere fugacemente un vantaggio artistico, fossi venuto a tradire un mio grave dovere come studioso. Un poeta potrebbe certamente con gli Dei del Rigveda comporre un panteon glorioso, e riempirlo d'armonia e di luce; ma pel critico, che attraversa gl'Inni vedici, questa luce e quest'armonia non appaiono punto costanti; vi sono sprazzi di luce, vi sono momenti di serena tranquillità; ma, al di fuori dell'idillio degli Açvin e dell'Aurora, e delle battaglie d'Indra, nessuna impresa mitica si trova illuminata nel Rigveda di piena luce, onde, facendo parlare il solo testo, vi possiate appassionare per quegli Dei; alla lirica vedica mancò il suo epico Omero; e tra i poeti vedici e gli ellenici corre questa differenza, che i primi sono in atto di creare i loro Dei, i secondi già intenti ad ornarli; se il mondo vedico si fosse potuto continuare, in modo immediato, nell'India gangetica, forse que' stessi poeti che scrissero il Râmâyana ed il Mahâbhârata sarebbero riusciti, con la loro mirabile potenza artistica, a completarci in modo più grandioso e poetico la figura degli Dei vedici; ma questo secondo periodo di elaborazione mitologica per mezzo dell'arte mancò all'India; fra il periodo lirico delle tribù e il periodo epico delle caste corre uno spazio di tempo enorme, nel quale i miti vedici o si pèrdono o si corrompono; quando il Râmâyana ed il Mahâbhârata furono scritti, alla società patriarcale vedica era già sottentrata la società castale brâhmanica, e coi moncherini degli Dei vedici s'erano già fabbricati e collocati molto visibilmente, in forme strane, grottesche ed immobili, sopra la terra, idoli giganteschi e mostruosi. La mitologia vedica può quindi constare di soli bei frammenti; mia industria presente fu di dare a tali frammenti qualche ordine logico, e di argomentare a quale intiero organismo divino un tal frammento possa ricongiungersi [336] nella storia de' miti, ossia in quale famiglia mitica abbia trovato il suo più probabile svolgimento. Fu lavoro delicato e, lo confesso, pieno di pericoli; ma non sarà, io spero, di vergogna a me l'averlo tentato, nè d'intiero perditempo a voi l'aver tenuto dietro a queste indagini, sopra un terreno ancora tutto ingombro di sassi e di spine, ma dove non vi è viaggiatore volonteroso che non possa incontrar qualche fiore.
FINE.
[337]
Ab-ovo, pag. 127.
Acciecato (il sole Bhaga), 81, 165, 212, 213, 215, 220.
Accipiter, 145.
Acqua, 46, 48, 49, 75, 78, 119, 120, 121, 122, 125-143, 144, 176, 203, 212, 216, 232, 233, 235, 238, 239, 252, 280, 281, 292, 299, 321, 322, 323.
Aditi, 43, 46, 48, 66, 76, 77, 80, 87, 106, 172, 195, 196, 197, 201, 252, 254, 302.
Âdityâs, 43, 76, 87, 195, 252, 254, 302, 322.
Adri, 115.
Afrodite, 145, 153, 154, 194, 218.
Agastya, 159.
Ag'a, 275.
Agni, 84, 85, 109, 124, 125, 128 (correggasi garbhah), 133, 134, 140, 148, 150, 154, 155, 196, 242, 266, 271, 276, 295, 305, 314, 321, 323.
Ago meraviglioso, 98.
Ag'o Bhaga, 119.
Agonj, 109.
Ahi mostro trattenitore, e l'avaro dell'adagio popolare italiano, 18, 201, 202, 266.
Aksha, 139. (Cfr. quello che si dice nell'Indice, pag. 344, sotto la [338] voce Div, intorno al valore di lusingare cogli occhi, che ha in russo questa radice.)
Akshakâmâs, 136.
Albero di Natale, 110, 145; fuoco nato dalla punta degli alberi, 111, 114, 115.
Albero paradisiaco e cosmogonico, 241, 289, 292.
Ali dei venti, 150.
Allievo del diavolo, 169, 172, 173, 174.
Amari Michele citato, Dedica, iii.
Ambrosia, 47, 48, 57, 68, 106, 107, 129, 173, 176, 177, 178, 182, 190, 198, 199, 200, 241, 251 (umore ambrosiaco), 259, 260, 281.
Amore, 98, 99, 100, 104, 153-158, 194, 218, 305, 308, 320.
Amuleto, 172.
An, anala ed anila, 147; anemos, 147; anima, 147; immortalità dell'anima, 244-247.
Anavadyâ, 137.
Añga, 290.
Añgiras, 93, 99, 104, 129, 168, 290, 291, 296.
Animali mitici, 38, 94, 117, 161.
Ança, 76.
Antakâla, 324.
Antar, Antara, Antari-ksha, 188, 189, 190, 277, 289, 295, 304.
Anumati, 93, 95, 98, 99, 101, 104.
Anyatahplaksha, 141.
Apâd açirshâ, 117.
Apâlâ, 68, 106, 173, 199, 211.
Apâm napât, 120.
Apollo, 228.
Apsarâs, 64, 129, 134-143, 148, 193, 203, 288.
Ara, 157.
Ârâ, 83.
Aracne (Tela d') nella mitologia, 51, 98.
[339]
Arbuda, 201.
Arg', 79.
Argo, 192.
Arg'una, 178, 262, 263, 265, 319.
Arhant, 288.
Ari, 157.
Armonia divina, 91, correggasi alla quinta linea: invece di secondo le quali, leggasi senza le quali.
Arpia, 265.
Artemis, 93.
Aruna-Arusha, 261.
Açu, 162.
Açva: mobilità di questa voce, 16, 59, 60, 61, 62, 162, 163, 172, 206.
Açvahayo rathânâm, 83.
Açvina, 323.
Açvin, 43, 63, 67, 70, 86, 101, 122, 132, 138, 153, 157, 164, 200, 201, 205-232, 235, 236, 238, 239, 252, 263, 266, 269, 306, 315, 323.
Asamati, 49.
Ascoli G. I. citato, Dedica, vi, 26, 281.
Asmodeo, 225.
Asurâs, 197, 201, 251-269, 308.
Asuratva, 254.
Atmosfera, 188.
Atri Saptavadhri, 212.
[340]
Attonito, 183.
Atharvan, 117.
Atithi, 117.
Aurora, 42, 43, 48, 50, 53, 55-72, 74, 75, 87, 88, 89, 98, 100, 102, 116, 127, 137, 138, 140-143, 152, 153, 154, 162, 164, 165, 169, 180, 195, 201, 206, 207, 209, 211, 214, 215, 238, 266, 269, 279, 294, 319, 322.
Aurnabhava, 208.
Aushasî, 319.
Avaro che crepa: adagio mitico italiano, 18.
Bagat, 81.
Bagnante (La), 65.
Baka o Vaka, 254.
Bakura o Vakura, 253.
Bali Vairoc'ani, 254.
Ballo e ballerine celesti, 64, 135, 136.
Barh, 285.
Battesimo e Diluvio, 225-232; Battesimo e Cresima, 241, 242; battesimo e imposizione del nome, 320; porta via il male, 321.
Baudry Fed. citato, Dedica, vi, 60, 188.
Beda, 219.
Bellum, 156.
Benedizione dei vecchi, 81.
Benfey Teodoro citato, 63, 150, 189, 253.
Bhadiâ, 195.
Bhaga, 66, 76, 80, 81, 82, 88, 102, 227.
Bhag'ya, 227.
Bhava, 322.
Bhrâtar e Bhartar, 238.
Bhr'igu, 156.
[341]
Bhûmî, 39, 43, 50; il Bhûmideva, 41, 49, 50, 53.
Bhûrig'anma, 116.
Bhûs, 280.
Bhuvas, 280.
Bilancia funebre, 245.
Bodhayantî, 71.
Bog, 76.
Bopp Francesco citato, Dedica, iv, vi.
Bosco, 109.
Bois, 109.
Brahma, 282.
Brahmac'odânî, 83.
Brahmaloka, Indraloka, 287.
Brahman, 33, 78, 126, 163, 167, 178, 191, 192, 193, 223, 226, 249, 267, 270, 271, 273-298, 299, 304, 305, 306, 311, 319, 320, 324, 325.
Brahmanaspati, 33, 79, 167, 178, 285-300, 311.
Brahmanvantas, 255 (nel suo significato primitivo, la parola potè esprimere tanto i vasti, quanto i celesti).
Brahmâstra, 287.
Bréal Michele citato, Dedica, vi, 189, 203.
Brutta (La) divien bella, 68, 69.
Br'ih, 294.
Br'ihadrathâ, 61.
Br'ihaspati, 285-300.
Buddha, 328.
Buddhi, 71.
Buddhismo in opposizione alle credenze vediche, 246.
Buffalo, 308.
Burnouf Eugenio citato, 224.
Busslaieff Teodoro citato, Indice, alla pag. 344, sotto la voce Div.
Caco, 203.
Cagnolino di Bretzwill e di Bretten, scherzo discusso in tutta l'Introduzione, 1-10.
Calore e moto: la luce si distende, 45, 278.
[342]
C'andra, 93 (non Candra), 105, 106.
Cani di Yama, 239, 240, 242; cani ululanti, 318.
Capre invece di cavalli, 83, 84, 275.
Capelli (del sole), 309 (nella notte il capelluto diviene privo di capelli, ossia calvo; il sole cedè il posto alla luna; e datosi alla parola çipi il valore di organo della generazione, il Çipivishta riuscì non solo il calvo, ma l'eunuco), 314, 315, 316.
Carro degli Açvin, 63, 67, 68, 70, 101, 210, 232.
Carro dell'Aurora, 61, 62, 63, 68, 69, 89.
Carro del Vento, 143.
Caste, 282.
Cavallo, 16, 59, 60, 61, 62, 84, 133, 140, 157, 158, 162, 172, 199, 203-232, 273.
Cavalieri vedici, 63, 67, 68, 70, 205-232.
Cerbero, 239.
Ceriani (Abate) citato, 197.
Cervo, 222.
Charites, 128.
Chieri città, Dedica, iv.
Cicerone citato, 183.
Cieco (vedi Acciecato).
Cielo equivale Dio, 34; tutta la seconda Lettura, 37-54, 74, 75, 76, 77, 78; il Re del cielo, 79, 80, 163, 187, 188, 194, 195, 247, 279, 288, 289, 292, 293, 294, 299, 314.
Cinzia, 93.
Cinghiale, 314.
Citrabarhish, 85.
Colomba, 145, 146, 154, 219, 222.
Colombina di Casa Pazzi, 146, 147, 153, 220.
Colori mitici, 96.
Colori: unità e varietà de' colori nell'iride e nel linguaggio, 261-265.
Corsa mitica, 61, 62, 63, 210.
[343]
C'ornoje, 262.
Corvo, 186.
Cosmogonie, il fuoco primo nato, 114; cosmogonia biblica e vedica, 125, 132, 153, 216-232, 260, 270-298.
Cox G. W. citato, Indice, alla pag. 346, sotto la voce Euristeo.
Credenze popolari e superstiziose: loro valore scientifico, 11.
Cremisino, 261.
Crimilde, 70.
Cristo, 144, 154, 197, 218-224, 226, 230, 234, 235, 264.
Cuculo, 130. (Cfr. su questo animale mitico la Zoological Mythology, e inoltre un dotto articolo che il barone O. Reinsberg von Düringsfeld inserì nel primo supplemento della Vossische Zeitung del 9 e 16 agosto 1874, intitolato: Der Kukuk.)
C'umuri, 252.
Cuoco celeste, 308.
Curtius G. citato, Dedica, iv.
Cyprinus, 227.
Dâ, dî, 252.
Dadi, 136.
Daksha, 76.
Dampatî, 237.
Dânunaspati, 251.
Debiti e crediti celesti, 132, 137, 138, 139.
Dei, 21-35; gli Dei vedici sono stretti al fenomeno celeste, 28; gli Dei vedici sono spesso moncherini, 29, 30; Dei grandi e piccoli, 30; pluralità degli Dei vedici, 31, 32, 271; loro diverso carattere, 32, 33; nati in cielo, 45; generati dall'aurora, 67; svegliantisi con l'aurora, 71; si manifestano con la luna, 107; generati e genitori, 115; come collettivo plurale non hanno persona mitica distinta, 128; sensuali, 135, 136; Dei fisici, 161; gli Dei e i Demonii, 249-269; Dei brâhmanici, 319.
Delfo, 228.
[344]
Dêmêtêr, 39.
Demonii, 154, 167, 168, 169, 171, 174, 175, 183, 184, 240, 249-269, 332.
Deva, 22, 23-30; il Deva diventa Demonio, 31, 184; diverse sue stazioni divine, 33; i Devaputre, 41; Devâs ed Asurâs, 196, 250-269, 308.
Dhîg'avana, 84.
Dhiyamg'inva (correggasi dhiyamig'inva), 84.
Dioscuri, 63, 67, 205-232, 235.
Diluvio, 126, 216-232, 239, 278.
Distanza fra il cielo e la terra, 247.
Dies, 187.
Diespiter, 187.
Div, storia di questa radice, 22, 23 (alla pag. 23, riscontro col vedico div «brillare,» il russo divitj «meravigliarsi;» l'illustre cattedratico dell'Università di Mosca, Teodoro Busslaieff, storico della lingua russa, al quale, nel suo recente passaggio per Firenze, diedi a leggere sulle stampe la pag. 23, non solo si degnò d'approvare, con l'autorità che gli compete, il mio raffronto, ma soggiunse che divitj ha ancora in russo il significato di guardare nell'espressione nie diví na nievó, che equivale a nie smatrì na nievó, ossia: non guardarlo, non occuparti di lui, e quello di guardare con lusinga, dicendosi delle fanciulle che incominciano a fare all'amore. Questo senso che la radice div ha di brillare in sanscrito, e di meravigliare, guardare con lusinga, ed anche, semplicemente, guardare, in russo, mi fa supporre l'identità originaria delle radici div e vid composte con gli stessi elementi e di analogo significato), 138.
Divaspati, 37, 43, 52, 79, 187, 188, 189, 195, 293, 294, 295, 311.
Donne e il vento, 143, 144; donne fatidiche, 168; donne liberate, 176, 202, 203; demoniache, 181, 252.
Draupadî, 158.
[345]
Duellum, 156.
Dupuis citato, 73.
Durgâ, 156.
Duryodhana, 171.
Dvar, 156.
Dvita, 178.
Dyavâ-Bhûmî, 48.
Dyu e Dyaus, 37-54, 57, 79, 80, 85, 186, 187, 189, 196, 197, 208, 262, 272, 303, 332.
Ea, 216.
Edipo, 111.
Ekâshtakâ, 195.
Ekata, 178.
Eolo, 144, 149. (A proposito del vento erotico mattutino congiunto con l'aurora, non si trascuri la stretta parentela ideale ed etimologica fra Eôs ed Eôlos, che valgono aurora e mattutino, ossia riferentesi all'aurora.)
Epifanie, la festa dell'Epifania, 12, 13.
Epopea carolingia, 332.
Epopee brâhmaniche, 335.
Equiria, 158.
Equivoci, 234, 269, 313, 319, 324, 330.
Erbe mitiche, 38, 49, 129, 130, 318, 322.
Eredità mitica, 14.
Eros, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 194, 228, 230.
Eruditi bibliografi, 5.
Esiodo, 78.
[346]
Età dell'oro, 127.
Etimologie bizzarre, 4, 9, 254, 264, 289; etimologie del nome di Indra, 187, 188, 189.
Euristeo, 128. (Per questo, come per gli altri miti ellenici comparati con gli ariani, lo studioso può attinger molta luce dal bel libro del signor G. W. Cox, intitolato: Mythology of the Arian Nations.)
Eva indiana, 193; Adamo ed Eva, 219, 236, 237.
Fabbro, falegname mitico, 148, 161-183, 297, 316.
Fallico (Culto), 106, 247, 277, 291, 309-311, 313-327.
Fanciulla di legno, 97.
Fanciulli eroici scampati dalle acque, 121, 122, 197, 221-232.
Fanciullo reale, infante, delfino, 229, 230.
Faraone, 121.
Fede, 100, 101; Fede, Speranza e Carità, 154.
Fiat biblico e vedico, 280.
Fidius, 227.
Figlia del cielo, 35, 50, 66, 87.
Figlia del sole, 63, 100, 210.
Figlio del falegname, 170.
Figlio della vedova, 195, 196.
Figlio delle acque, 120.
Figlio delle legna, 110.
Figlio liberatore del padre, 112.
Filo, 119.
Filone citato, 220; Ecco le sue proprie parole, secondo l'antica versione di Pierre Bellier, Paris, 1588: «Noé donc ayant esté réputé digne non seulement d'estre exempt de la misère et affliction commune, mais aussi d'estre l'autheur et le commencement de la seconde génération des hommes, etc.»
Fine del mondo, 324.
[347]
Fiumi infernali, 239.
Flechia Giovanni citato, Dedica, vi.
Foggini citato, 219.
Formaggio mitico, 96.
Forte inebbriato, 198.
Fortunio, 81.
Francolino, 177.
Fratelli mitici, 120, 181, 205-232, 235, 236, 237, 238, 263, 264.
Fucina celeste, 70, 71, 164, 165.
Fulmine: i fulminati, 40; fulmine d'Indra, 69, 129, 130, 174, 176, 183-205, 307; generatore del fuoco, 114; in che modo si suppone sia nato, 115; fulmini dei Marut, 151; fulmine Saranyû, 156; fulmine di Brahman, 287; fulmine di Rudra, 318, 322.
Fuoco, 75, 84, 85, 109-124, 125, 144, 146, 147, 152, 220, 244, 270, 291, 292, 299, 305, 307, 321, 323.
Gamba di ferro, 211.
Gandharvâs, 129, 134-143, 148.
Gañgâ, 131.
G'anaka, 271.
Gardabha, 135.
Garuda, 150, 155 (correggasi Garuda o Garutmant), 302.
Garut, 150.
Gârhapatya, 244.
Gaupâyanàs, 49.
Gaur mâtar, 39.
Germani, 5.
Gesù bambino, 110; si salva attraverso le acque, 121; fanciullo, 170, 171, 197.
Ghritaçriyâ, Ghritapric'â, Ghritâvridhâ, 48.
Giapeto, 5.
Giona, 230.
Giordano, 144.
[348]
Giove (padre, zio), 51; Giove parricida, 111; Giove cuculo, 130, 194, 262; pluvio, 191, 227.
Giovenale citato, 222.
Giovinezza (Acqua della), 214.
Giritra e Giriçanta, 315.
G'ishnu, 303.
Giuliani G. B. citato, 17, 111.
Giunone, 130, 144, 186, 187, 194, 262.
Giuochi celesti, 136, 137, 138, 139; gioco-gioia, giocare, brillare, 138.
Goldstücker professore citato, 208.
Gomâtarâs, 151.
Gopâs, 306.
Gorresio Gaspare citato, Dedica, vi.
Govinda, 303.
Gradivo, 154.
Grazie, 128.
Grimm Jacob citato, Dedica, iv.
Grünow F. W. editore citato, 60.
Guerra (Il Dio della), 154.
Guerrieri ed amanti, 154-159.
Guidatore delle anime, il sole moribondo, 84, 86, 239, 240, 241.
Guidatrice di carri e di cavalli, 60, 61, 62.
Guhya, 276.
Guñgu: si spiega questa parola, 93, 95.
Guñguri, 93.
Haeckel citato, 126.
Hari: equivoci nati sopra questa voce, 96, 261; Harit, 261, 266.
Harikeça, 316.
Haritas, 128.
Hartmann citato, 60.
Heberer citato, 7.
Hephaistos, 165.
Hermeias, 242.
Heyne Moritz citato, 1.
[349]
Hidimba, pag. 158, 168.
Hiranya, 290.
Hiranyabâhu, 316.
Hiranyaçiprâs, 314.
Hiranyagarbha, 53, 125, 126, 127, 290, 324.
Hiranyahasta, 212.
Hiranyavarttini, 132.
Hirzel editore citato, 1.
Hotar, 116.
Hovelacque citato, 281.
Icadio, 228.
Îç e viç, 320.
Îçâna il Signore, 310, 320, 322.
Ignis, 109.
Immortali, 246 (vedi Anima).
Immobile assoluto, 289 (questo immobile forma singolare contrasto col primo mobile cosmogonico, e col proprio nome di Brahman), 290.
Incendio cosmico, 118.
Indraloka, Brahmaloka, 287, 289.
Indiani, 5.
Indovinelli mitici, 46, 62, 66, 201.
Indra, 28, 37, 43, 48, 49, 52, 53, 57, 66, 68, 69, 70, 76, 77, 78, 80, 88, 89, 90, 106, 107, 115 (invece di: il Dio Indra, leggasi: il fulmine del Dio Indra), 119, 122, 129, 130, 132, 133, 135, 138, 139, 144, 148, 149, 151, 152, 153, 154, 155, 158, 159, 164, 167, 172, 173, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 181, 182, 183-205, 208, 209, 215, 255, 260, 262, 263, 264, 265, 269, 271, 276, 285, 287, 300, 302, 303, 304, 305, 306, 307, 308, 311, 313, 314, 319, 323, 324.
Indrânî, 203.
Indrapâna, 133.
[350]
Indraçatru, 177.
Indravantas, 151.
Indu, 68, 93, 105, 106, 189, 190.
Intontito, 183.
Ishira, 157.
Ishu, 157.
Jacolliot L. citato, 265 (correggasi credulo invece di creduto.)
Japhet, 5.
Johnston citato, 221.
Kakdarpa, 157.
Kakshîvant, 212.
Kâla, 274.
Kâmadyû (la risplendente a suo piacere, l'aurora), 210.
Kâmarûpa, 250.
Kapeika, 96.
Karmâra, 297.
Karna, 121.
Kiessling professore citato, 1.
Koehler Reinhold citato, 5.
Kr'imi, 261.
Kr'ishna, 121, 201, 252, 262-269, 303, 330.
Kronos, 274.
[351]
Kuhn Adalberto citato, Dedica, iv, vi, 74, 116 (leggasi feuers), 156, 185, 242, 328, 333.
Kuhû, spiegato per Kubâhû, 93, 95 (male stampato Kuhñ e Kukû invece di Kuhû).
Kvanguri, 95.
Ladri (Dio dei), 316.
Lañkâ, 168.
Latte celeste, 130.
Lebbra mitica, 211.
Legumi mitici, 96.
Lenormant Fr. citato, 121, 122, 216, 217.
Leone, 117.
Letourneau citato, 126.
Liñga, 325.
Lingua d'Adamo, 4; linguaggio confidenziale adoperato col Dio Agni, 123.
Logos: analogie cosmogoniche vediche e bibliche, 132.
Loth, 279.
Luciano citato, 244.
Luna, 75, 85, 86, 93-108, 134, 189, 206, 207, 228, 229, 235, 241, 266, 299, 300, 301, 303, 304, 306, 310, 313, 314, 315, 316, 320, 323, 324.
Lunatici o maniaci, 105; la manìa è il turbamento del manas, del quale Luno è signore o Manaspati.
Lupo scongiurato, 83.
Madhukaça, 290.
[352]
Madonna delle Grazie, 93, 97, 98, 99, 301.
Madre d'Indra, 195.
Madre dei venti, 43.
Maestà regia in Oriente, 77.
Mago, 165, 167, 174, 254, 287.
Mahâdeva, 314-327.
Makha, 214.
Mamers, 154.
Manas, Manasig'a, Manaspati, 104.
Mani (I), 242.
Mani d'oro, 212.
Maniaci o lunatici, 105.
Manu, 44, 93, 104, 105, 223, 224, 226, 230, 231, 235, 239, 241, 278;
Manavas, Manug'âs?, 104.
Manyu, 276.
Mar Rosso, 121.
Marte, 154-159.
Martino, 259.
Martins citato, 126.
Martigny citato, 170, 219, 222.
Marut, 70, 129 (a pag. 150 per errore Mrâutas invece di Marutas), 143-161, 163, 164, 178, 188, 190, 200, 201, 205, 269, 306, 307, 314, 317, 319, 323.
Marzo, mese ventoso, sacro a Marte, 158.
Maschio, 150, 153, 196, 260, 277, 282, 289, 292.
Matrimonii, 76, 80, 81, 82, 87, 97.
Max Müller citato, Dedica, iv, vi, 24, 49, 74, 84, 101, 119, 140, 156, 270, 333.
Mâyâdhara, 254.
Mâyinas, 254.
Medea, 70.
Medici celesti, 132.
Melo, 127; le tre mele, 128; mele paradisiache, 247.
Menagio citato, 4.
Menelao, 171.
Mensis, mese, misura, 103, 104.
Mercurio, 217.
Messaggieri celesti, 48, 116, 117, 118, 119, 240, 242.
[353]
Messets, 103.
Metempsicosi, 245.
Metodo seguito, 334.
Miele, 48.
Milone, 198.
Minos, 105.
Miracoli, 213.
Misteri fallici, 290, 291, 292, 309, 310, 311.
Miti, loro ordine cronologico naturale, Dedica, viii; loro realtà, 10, 11, 18, 19; il popolo, creatore di miti, continua a crearne, 11, 15, 17, 18; modo diverso con cui foggiarono i miti i Greci, i Latini, gl'Italiani, gl'Indiani, 15, 24, 25, 26, 27, 28; miti nati da similitudini, 16; i miti primitivi si hanno a studiare nel cielo, 35; molteplicità degli oggetti mitici, 75; essenza primitiva dei miti, 91 (vedasi la correzione indicata in quest'Indice, sotto la voce Armonia divina); elementi del mito, 112; l'etimologia nei miti, 162; periodi mitici, 163, 327 e seguenti; sede relativa del mondo mitico, 326; nuovi miti, 329 e seguenti.
Mitologi (Vecchi), 4.
Mitologia biblica e cristiana da studiarsi come l'ariana, 121, 223, 231.
Mitologia brâhmanica, suo carattere speciale, 27, 28, 29, 257, 258, 327 e seguenti.
Mitologia buddhistica, 327.
Mitologia comparata, 3, 5, 74, 328.
Mitologia scolastica, 4, 26, 27.
Mitologia slava, 198.
Mitologia vedica: suoi varii stadii, 24, 25, 33, 35, 327 e seguenti; suo carattere speciale, 26, 27, 28, 29; larghezza con la quale vuol essere studiata, 74.
Mitra, 41, 43, 48, 52, 66, 67, 76, 77, 80, 88, 122, 190.
Mond, 103.
Mondo di là, 241;
Moneta mitica, 96.
Monoteismo e Politeismo, 33, 34, 35, 257, 258, 259.
Montanaro (Dio), 315.
Montone, 223.
Montfaucon citato, 222.
[354]
Moon, 103.
Moralità o immoralità dei miti, a seconda degli interpreti, 279.
Mosca-cieca, 81.
Mosè, 121.
Mostri, 42, 105, 118, 121, 122, 131, 152, 153, 154, 158, 167, 168, 174, 200, 202, 225, 250-269.
Mudgala, 247.
Muir John citato, 30, 39, 78, 119, 208, 246, e quindi molte altre volte nel corso dell'opera.
Mr'ityu o la Morte, 239.
Nala (Il giuoco di), 139.
Nâman da g'n'aman, 113; imposizione del nome al fanciullo, 320.
Nandana, 247.
Napoleone I un mito, 3.
Nâraka, 248.
Nârâyana, 281.
Nârî, 195.
Nascimento triplice, 241.
Nave dai cento remi, 226; arca e nave, 230, 231, 292.
Nîla, 261.
Nîlagrîva, 315.
Nilo, 121.
Ninfe, 134-143, 144, 148, 193, 203, 262.
Nirr'iti, 315.
Nirveshtita, 310.
Nishiktapâs, 306.
Nishtigri, 195.
Nodhas, 65.
Nomi che diventan Numi, e Numi che diventan nomi, 35.
Nonio citato, 227.
Notte, 42, 48, 62, 66, 67, 77, 79, 80, 94, 170, 171, 174, 175, 216, 236, 260, 302, 316.
Novelline popolari, 5, 6, 120, 128, 141, 165. (167, 174, 176, 200, 212, 307, 316. Nella novellina popolare boema, togliendo tre [355] capelli d'oro al vecchio Vsieveda, od onnipossente, il giovine eroe piglia ogni forza contro il suo persecutore.)
Nozioni terrestri che presuppone la creazione di un mito celeste, 112.
Nozze (Tempo di), 97; nozze celesti, 100, 101.
Numeri mitici, 150.
Nuvola-barile, mito antico e moderno, 17, 18, 251, 253, 331; il mostro della nuvola è un avaro: adagio italiano, 18; nuvole-montagne, alberi, 115; nuvola-riviera, fiume, oceano, 119; nuvole-ninfe, 137, 144.
Occhio del trapassato va nel sole, 240.
Odino, 152.
Offenbach citato, 2.
Ognissanti ed Ognidei, 30.
Om: etimologia indiana di questa sillaba, 9.
Oppiano citato, 221.
Orienzio citato, 222.
Oro prima creazione, 290.
Ossa (Culto delle), 246.
Ouranós, 78.
Ovidio citato, 329.
Padre Eterno, 286.
Pallade, 71.
Pându, 180.
Paradiso celeste, 243-249; sua sensualità, 247, 250, 262.
Paradiso terrestre, 127.
Parameçvara, il supremo Signore, 318, 324.
Parâvr'ig, 212.
Parg'anya, 39-43, 151, 182, 195, 274, 320.
Paride, 121.
Parihastam, 172.
[356]
Parricidio mitico, 111, 112, 120, 121, 195.
Parti (La proteggitrice de'), 97.
Parola (vedi Verbo).
Parvati, 323.
Pastorella celeste, 60.
Pathirakshî, 239.
Patate (Demonio delle), 332.
Pavone, 186.
Peccato originale, 111, 236, 321.
Pedanti vecchi e nuovi, 4, 5, 6.
Pedone Lauriel editore citato, 60.
Pedu, 212.
Pelasgi, 14.
Penitenza, Tapas, calore, 192, 193, 195, 196, 247, 273, 274, 278, 286, 289, 290, 293, 307.
Pentolaccia, 171.
Pernice, 177.
Pescatori (gli Apostoli), 218.
Pignatta, 171.
Pitaras, 243, 244, 245, 246, 247.
Pitrè Giuseppe citato, 227.
Pitror upastha, 47.
Politeismo vedico, 33, 34, 35, 257, 258, 259.
Pons, pontus, 239.
Ponte, 119.
Porte del cielo di Brahman, 288.
Portitor, 242.
[357]
Prag'âpati, 33, 87, 100, 105, 118, 126, 179, 196, 255, 256, 260, 269, 284, 289, 300, 311, 320, 321, 322, 324.
Pratna, 209.
Preghiera vespertina, 83; il Re de' preganti, 100; Brahman e la preghiera, 285-300.
Pr'ithivî terrena e celeste; la vasta terrena e la vasta celeste, 39-54, 57, 78, 79, 80, 85, 140, 162, 208, 285, 294.
Primavera, 152, 154, 180, 194, 220, 282, 319.
Priyâni, 65.
Prometeo, 185.
Psiche, 154.
Pur, 289.
Puramdara, 121.
Purohita, 295.
Purusha, 33, 53, 148, 196, 260, 269-283, 289, 290.
Pûshan, 47, 48, 52, 76, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 88, 100, 101, 179, 306, 308, 314, 316.
Puttra o Putra, 112; Pûta, 112.
Quaglia, 199.
Quintiliano, 5.
Quirinus, 158.
Rag', rag'as, rag'asî, rag'an, 79, 80.
Rag'anî, 79.
Rag'aspati, Divaspati e Brahmanaspati, 79.
Râkâ, 93, 95, 97, 98, 99, 101, 104.
[358]
Râvana, 168.
Rebha, 226.
Regnaud Paul citato, 60.
Reinsberg O. citato, Indice, sotto la voce Cuculo.
Renan Ernesto, Dedica, i-ix.
R'ibhavas, 129, 172, 173, 174, 181, 182, 226.
Ribellione vedica, 185.
Riccio di mare, 227.
Ricchezze dell'aurora, 58, 61, 62, 65.
Risurrezione dei corpi, 243.
Rochholtz, 246.
Rohinî, 100.
Rohilah Sthâpati, 316.
Rosso di sera, 56, 70, 116, 164, 317.
Rudra, 43, 150, 276, 277, 279, 300, 313-327.
Çac'î, 203.
Sacrificio del Dio, 233-237, 272, 273, 282, 298.
Sadhûdevinî, 137.
Sahasrâksha, 186.
Sahasrayoni, 192.
Sale, 256.
Santi, 243.
San Giovanni (rugiada di), 45; (fuochi di), 147.
San Girolamo citato, 223.
San Gregorio citato, 219.
San Michele (Arcangelo), 245.
San Paolino, 144.
Sansone, 81, 165, 180, 197, 234, 236, 309.
Sant'Agostino citato, 219.
[359]
San'g'aya, 303.
Çañkâra, 316.
Çapharî, 227.
Saranyû, 148, 156, 157, 162, 170, 179, 180.
Saras, 132.
Sarasvatî, 130, 131, 132, 133, 137, 138, 139, 200, 201, 285.
Sarat, 157.
Sarpa, 321.
Sarva e Çarva, 317, 318, 321, 322, 324, 325.
Satana, 250.
Savitar, 52, 76, 81, 85, 86, 87, 88, 100, 101, 102, 122, 128, 173, 179, 271, 272, 301, 305.
Sâvitrî, 100.
Sayamâ, 242.
Sâyana, 63, 199, 200, 210, 211, 251.
Sayonî, 47.
Çayu, 212.
Scandinavi, 5.
Schleicher Augusto citato, Dedica, iv.
Schweizer-Sidler professore citato, 1.
Sciacallo, 318.
Secchia rapita, 181.
Selene, 93.
Selva celeste, 94, 170, 171, 316.
Sentimento dell'antico e del divino nell'età nostra, 2.
Serpente, 129, 130, 178, 201, 202, 225, 302.
Shelley citato, 185.
Siegfried, 69.
Signa, 164.
Çikhandin, 318.
Çikhin, 313.
Similitudini mitiche, 16.
Simo, Simone, 229.
Simorus, 229.
[360]
Sindhumâtarâs, 151.
Sinîvâlî, 93, 95, 97, 99, 104, 302.
Çipi, Çibi, Çivi, 313.
Çipivishta, 308-311, 313-327, 330.
Çiprin, 204, 266, 310, 313, 314.
Çipra, 314.
Çiçna, 247.
Çiçuka, 229.
Çiçumâra, Çinçumâra, 227-231.
Çiva, 106, 240, 249, 276, 277, 285, 286, 300, 302, 306, 309, 313-327.
Skambha, 273-299.
Skanda, 230.
Slavi, 5.
Sole, 63, 66, 67, 68, 69, 73, 92, 102, 114, 115, 126, 127, 132, 134, 140, 152, 169, 170, 172, 173, 175, 179, 190, 206, 207, 209, 213, 215, 228, 233, 234, 235, 236, 240, 242, 271, 272, 278, 281, 288, 292, 299, 300, 301, 303, 304, 305, 306, 307, 308, 309, 313, 314, 315, 316, 320.
Solino citato, 229.
Soma, 47, 48, 52, 68, 82, 85, 93-108, 123, 129, 134, 136, 176, 177, 178, 179, 182, 190, 197, 198, 199, 200, 201, 241, 259, 270, 301, 305, 306, 308, 316, 324.
Sorelle mitiche, 42, 46, 66, 209, 236, 237, 238.
Sparviere, 177.
Spiritus Dei, Spiritus Sanctus, 125, 144, 145, 146, 147, 150, 153, 154, 155, 179, 220, 253, 254, 275, 277.
Çravasyu, nuova interpretazione, 63.
Çrî, 251.
Stalliere celeste, 139.
Steinthal H. citato, Dedica, iv.
Strabone citato, 191.
Strauss citato, Dedica, vii.
Streghe, 11, 146, 169; strega vedica, 70, 318.
Stupire, stupido, 183. (Osservisi nel Re Lear di Shakespeare: la demenza di Lear incomincia, quando la condotta delle sue figlie desta in lui stupore.)
[361]
Subandhu, 49.
Sudhanvan, 181.
Sukanyâ, 214.
Çukra, 251.
Sukr'it, supâni, svapas, 167.
Surâ, 177.
Surâs, 254.
Sûrya, 66, 76, 81, 82, 87, 88, 242, 304, 305.
Çushna, 201, 251 (correggasi umore ambrosiaco), 252, 266.
Sûtra, Sûnu, Sûta, 98.
Svañguri, 95.
Svarga, 186.
Svasarasya putrî (possibile errore d'amanuense), 67.
Çvetî, 263.
Taksh, Tvaksh, Tvac', 166, 176.
Tamohan, 118.
Tapas, calore e penitenza, 278, 307, 308.
Tartaro, 239.
Tela d'Aracne, di Penelope, 98.
Terra, 39-54; la madre terra, 44, 51; non ha tuttavia generato gli Dei, 45; la terra negli Inni vedici non è Dea, 50.
Teseo, 69.
Thor e Thunar, 159.
Tigre, 323.
Tobia e Tobiolo, 220.
Torreblanca Fr. citato, 225.
Toro, 114, 117, 133, 223, 227, 230, 323.
Trezza Gaetano citato, 185.
Trimundio, 44.
Trimûrtti, 276, 285, 306, 316, 318.
[362]
Trinità cristiana, 144, 276, 286, 299.
Trinità indiana, 28, 154, 155, 276, 277, 281, 285, 299, 300, 301, 305, 316, 318, 320.
Triçiras, 179.
Trita, 178, 179, 180, 191, 226, 296.
Trübner N. citato, 60.
Tugarin, 225.
Tura Kâvasheya, 274 (non Kûvasheya), 275.
Turtle, tortoise, testuggine, 280, 281.
Tvar, 156.
Tvaritâ, 156.
Tvashtar, 53, 87, 88, 90, 115, 129, 148, 149, 161-183, 184, 200, 250, 255, 272, 296, 297, 307, 316.
Ugradeva, 327.
Ugrag'it, Ugrampaçya, 137.
Ulisse, 98.
Umâ, 324.
Uomo (Creazione dell'), 275.
Uovo cosmico, 53, 125, 126, 127, 216, 260, 276, 277, 280, 285, 290, 291.
Uovo della Pasqua di Risurrezione, ch'è una rigenerazione, 127.
Uovo simbolo di generazione, 127.
Upag'îka, Upadîka, 129.
Urvâçî, 41, 139, 143, 162, 207.
Ushâ, Ushas, 37, 57, 61, 319, 322, 324.
Usharbudh (Agni), 118.
Usharbudbas, 71.
Ushnîshin, 316.
Vacca, 58, 59, 60, 114, 151, 153, 162, 176, 199, 203, 212, 275, 303.
[363]
Wackernagel Gugl., si discute il suo Scherzo sul cagnolino di Bretzwill e di Bretten, 1-10.
Vadhrimatî, 212.
Vag'rahastâs, 151.
Vaiçvânara, 290.
Vaitâsa, 140.
Vallauri Tommaso citato, Dedica, iv.
Valgu, 209.
Vandana, 212.
Vanyu, 149.
Varâhamihira citato, 251.
Varrone citato, 227.
Varuna, 41, 43, 48, 52, 66, 67, 76, 77, 78, 79, 88, 122, 128, 132, 134, 189, 191, 239, 254, 260, 262, 288, 306, 315.
Vasishta, 140.
Vayantî, 102.
Vâyasas, 149.
Vâyu, 143, 161, 178, 179, 180, 242, 305, 306, 307, 321, 322.
Weber Alberto citato, Dedica, iv, vi, 24, 129, 134, 135, 136, 224, 246, 264, 324.
Velo d'oro, 98.
Venere, 55, 71, 153, 154, 155, 194, 251, 302.
Vento, 43, 75, 142, 143-164, 170, 178, 188, 194, 198, 242, 270, 280, 305, 306, 307, 317, 323.
Verbo sacro, 132, 133, 219, 224, 256, 271, 275, 317.
Vergine, 144, 145, 148, 153, 179, 180, 246.
Veritâ e menzogna, 256.
Vermiglio, 261.
Vetasa, 291.
Via, 119.
Viaggio funebre delle anime, 49, 50, 240-249, 288.
Vidyâ, 278.
Vikramana, 303.
Wilson X. citato, 63.
[364]
Vimada, 210.
Vîra, 150.
Vischer professore citato, 1.
Vish, 166.
Vishnâpû, 212
Vishnupatnî, 302.
Vishnutithi, 301.
Vishnu, 75, 172, 191, 192, 193, 201, 226, 227, 229, 249, 255, 264, 270, 281, 286, 299-312, 313, 314, 317, 318, 319, 320, 321, 322, 324, 330.
Vishta, 310.
Viçpalâ, 211.
Viçpalâvasû, 211.
Viçvadevyavant, 88.
Viçvâdhipa, 324.
Viçvaka, 212.
Viçvarûpa, 117, 166, 167, 175, 176, 177, 178, 251, 272.
Viçvâvasû, 137.
Vita: sua unità fondamentale, Dedica, vii.
Vivasvant, 49, 76, 89, 148, 149, 157, 162, 169, 170, 179, 180, 234.
Volpe mitica, 96.
Vr'ishabha, 227.
Vr'itra, 122, 152, 175, 176, 191, 192, 193, 197, 200, 201, 202, 250-269, 303, 307.
Vulcano, 70, 164-183; vulcanalia, 164, 316.
Yaksha, 265.
Yama, 49, 78, 79, 80, 90, 105, 148, 149, 150, 157, 164, 180, 191, 233-249, 270, 229, 299, 315, 317, 324.
Yamau, 235.
Yâtavas, 290.
[365]
Yâtudhâna, 266.
Yima, 80.
Yuvana, 209.
[367]
Dedica | Pag. I | ||
Introduzione | 1 | ||
Lettura | I. | Il Dio e gli Dei | 21 |
» | II. | Il Cielo | 37 |
» | III. | L'Aurora | 55 |
» | IV. | Il Sole | 73 |
» | V. | La Luna | 93 |
» | VI. | Il Fuoco | 109 |
» | VII. | L'Acqua | 125 |
» | VIII. | Il Vento | 143 |
» | IX. | Tvashtar il fabbro degli Dei | 161 |
» | X. | Indra | 183 |
» | XI. | Gli Açvin | 205 |
» | XII. | Il Dio Yama | 233 |
» | XIII. | I Demonii | 249 |
» | XIV. | Prag'âpati e Purusha | 269 |
» | XV. | Brahman, Skambha, Br'ihaspati e Brahmanaspati | 285 |
» | XVI. | Vishnu | 299 |
» | XVII. | Rudra-Çiva | 313 |
» | XVIII. | Conclusione | 327 |
Indice alfabetico de' Nomi e delle Cose | 337 |
1. Cfr. nel Dizionario petropolitano le voci: açan, açani, açva.
2. Veggasi, tra gli altri scritti sull'argomento, l'erudito lavoro pubblicato dal prof. Weber nella sua preziosa raccolta degli Indische Studien, sotto il titolo: Zur Kenntniss des vedischen Opferrituals.
3. Cfr. intorno al valore del cielo medio la discussione sul nome d'Indra, nella decima lettura di questo volume.
4. Uno de' suoi nomi è pure go (= gam, propriamente l'andante, la larga, la vasta), a proposito del quale gioverà allo studioso conoscere il seguente riscontro del Muir, Sanskrit Texts, V, pag. 33-34: «The word Prithivî, which in most parts of the Rig-Veda is used for Earth, has no connection with any Greek word of the same meaning. It seems however originally to have been merely an epithet, meaning broad; and may have supplanted the older word gau which (with gmâ and g'mâ) stands at the head of the earliest Indian vocabulary, the Nighantu, as one of the synonyms of Prithivî (earth) and which closely resembles the Greek Γαῐα or Γἤ. In this way, Gaur Mâtar may possibly have once corresponded to the Γἤ μήτηρ or Δημήτηρ of the Greeks.» Ma qui si deve ancora aggiungere come la vedica go è molto più spesso rappresentata in cielo che in terra.
5. Cfr. The hymns of the Gaupâyanâs and the legend of King Asamâti by prof. Max Müller. Il Müller tuttavia traduce egli pure: «Thy soul which went far away to heaven and to the earth, we turn it back, here to dwell and to live.»
6. Il prof. Max Müller: «to the onward rays.»
7. Cfr. il primo volume, 1º e 2º cap. della mia Mitologia zoologica (London, Trübner, 1872, ediz. originale; Leipzig, Grünow, 1873, traduzione tedesca del signor Hartmann; Paris, Durand Pedone Lauriel, 1874, traduzione francese del signor Regnaud, con introduzione di Fr. Baudry).
8. Mi discosto qui evidentemente da' dotti interpreti miei predecessori: Çravasyu non può qui valer altro che desideroso di scorrere, ossia scorrevole, o scorrente, corrente, fiume; come i fiumi si precipitano al mare è una similitudine facile ed ovvia, mentre il tradurre con Sâyana, Wilson, Muir, Benfey «desirous of wealth, wealth seekers» parmi imbrogliare e forzare alquanto il senso.
9. Mi discosto qui ancora da tutte le interpretazioni precedenti, sebbene nessun Dizionario ci offra la voce dhâ come appellativo di vacca, ma il senso di succhiare che hanno le radici vediche dhâ, dhe (onde le parole dhena acqua da bere, e dhenu vacca da mungere), l'analogia della similitudine che si trova nel passo citato dall'inno 92º, e lo sforzo che bisogna fare per ammettere che in quella strofa sia nominato un sapiente di nome Nodhas, mi obbligano a sottoporre, con animo riverente, la mia interpretazione alla critica de' dotti Vedisti.
10. Anche il vedico svasarasya putrî, dell'inno 61º del libro III, sembra un errore di amanuense, da correggersi in sûryasya putrî; come l'inno 75º del libro VII chiama l'aurora sûryasya yoshâ o donna del sole.
11. Sûryasahasranâma.
12. Cfr. Muir, Sanscrit Texts, vol. V, sect. V.
13. Per tutti gli altri appellativi di Pûshan, confrontisi la citata opera del Muir, che, nel capitolo relativo a Pûshan, ha raccolto e tradotto tutti i brani notevoli del Rigveda che si riferiscono a quella divinità solare.
14. Cfr. IX, 96, 2, dove se non si tratta dei cavalli di Pûshan in particolare, si parla tuttavia de' cavalli solari.
15. È da riscontrarsi con questo carattere di Pûshan il nome di brâhmanânâm râg'â, ossia Re de' preganti dato al Dio Soma. — Così Soma guida il viandante nelle strade, come Pûshan. Il sole moribondo e la luna nascente confondono i loro ufficii.
16. Ho tentato d'illustrare di proposito l'uso dell'Albero di Natale, con riscontri relativi, in un articolo che s'è pubblicato nella Rivista Europea del gennaio 1871, pag. 292-300, al quale ardisco rimandare lo studioso, finchè io non possa porgli sott'occhi completo il mio Dizionario comparato di Mitologia botanica, sopra il quale intentamente lavoro.
17. Mi discosto alquanto nell'interpretazione di questo passo vedico, da quella che ne diede il dotto Muir: «a living being, should spring out of dry wood.» Il senso di tutta la strofa parmi questo: «tutti gli Dei si rallegrano dell'opera tua, poichè, o Dio, sei nato vivente dal legno secco.»
18. Il prof. G. B. Giuliani mi fa noto che sopra la Montagna pistoiese suolsi dire che il fuoco nasce dalla punta degli alberi.
19. Richiamo qui ancora il detto pistoiese, poco innanzi citato, intorno all'origine del fuoco.
20. Tali raffronti parranno per ora, talvolta, arditi, poichè non ci siamo ancora avvezzati a studiare criticamente la mitologia biblica, come andiamo studiando l'ariana. Ma verrà tempo, io spero, in cui ci persuaderemo com'anche la Bibbia possa offrire materiali preziosi agli studii di mitologia comparata. Intanto ci rallegriamo nel vedere come i bei lavori del Lenormant sopra l'intermedia mitologia assira e caldea incomincino a diminuire considerevolmente le distanze che separano il mondo mitico ariano dal mondo mitico de' Semiti.
21. Cfr. l'importante studio di F. Lenormant sopra la leggenda babilonese del Diluvio nel II volume della sua opera: Les premières civilisations (Paris, Maisonneuve, 1874).
22. Citato dal Muir.
23. Si potrebbe qui domandare se nella concordia delle cosmogonie nel far nascere il mondo dalle acque, oltre alle ragioni mitiche non vi sia pure stata negli antichi una reminiscenza ereditaria del carattere primitivo della creazione, secondo che le scienze naturali lo vengono oggi dimostrando, presentandoci la fauna marina come la prima delle creature animali che apparvero alla vita. Cfr. la bell'opera del Haeckel, con la prefazione di Charles Martins, nella traduzione francese, fattane dal dottor Letourneau: Histoire de la création des êtres organisés d'après les lois naturelles (Paris, Reinwald, 1874). Quanto alla leggenda del Diluvio, essa è per me semplicemente una variante cosmogonica dell'uovo uscito dalle acque; invece dell'uovo di Brahman, ci si presenta Brahman in forma di pesce, che salva, ossia trae fuori dalle acque. Cfr. la Lettura decima.
24. Indische Studien, XIII, 138, 139, ed il capitolo relativo alla formica, nella mia Mitologia zoologica, edizioni tedesca e francese.
25. Tradurrei per lampo il ketus (del 3º inno del Rigveda), pel quale Sarasvatî svolge il gran torrente e illumina tutti. Essa è pure chiamata pâvîravî kanyâ, ossia figlia del fulmine.
26. Anch'essa, Vac' (la parola sacra), fu poi come Sarasvatî considerata quale generatrice. È sorprendente l'analogia di questa concezione vedica brâhmanica con la biblico-evangelica: la Bibbia ci dà le acque generatrici dello spirito divino; il Vangelo ci presenta come variante: In principio erat Verbum. La Vac' indiana e il Verbum o Logos hanno la stessa funzione e lo stesso carattere di produzione immediatamente secondaria a quella che si fa per mezzo delle acque.
27. Indische Studien, XIII, 135, 136.
28. Veggasi nella mia Mitologia zoologica il capitolo consacrato all'asino gardabha; la parola gardabha vale asino e profumo, per l'equivoco avvenuto tra le parole gandha e gardabha.
29. Cfr. Weber, Indische Studien, XIII, 133-138.
30. Cfr. Muir, Sanskrit Texts, V, 430.
31. Presso il primo libro del Mahâbhârata troviamo una gandharvî figlia di Surabhi, ossia il profumo e madre de' cavalli. L'arva è il cavallo come l'andante. Questa nozione leggendaria si fonda certamente sopra la etimologia della parola, e conferma intanto l'etimologia da noi proposta, onde gandharva varrebbe andante ne' profumi, come l'apsarâ sua sposa vale l'andante nelle acque.
32. Anno 1858.
33. Cigni che diventano fanciulle, e fanciulle che diventano cigni troviamo spesso nelle novelline popolari: cfr. la mia Mitologia zoologica.
34. Sanskrit Text, V, 403-406.
35. Così, alla radice var, «coprire, impedire,» corrisponde con lo stesso duplice valore una radice sanscrita dvar: cfr. il latino in-duere.
36. Cfr. Weber, Indische Studien, V.
37. Cfr. Martigny, Dictionnaire des antiquités chrétiennes, sotto l'articolo Joseph: «Il est d'un âge mûr, tantôt chauve, tantôt la tête couverte d'une épaisse chevelure; il est ordinairement vêtu de la tunique et de pallium; mais s'il est figuré avec quelqu'un des attributs de sa profession, qui, selon l'opinion commune, était celle de charpentier, par exemple, avec la scie, comme dans un diptyque de la Cathédrale de Milan, ou avec la hache, comme sur le sarcophage de Saint Celse de la même ville, alors il porte le costume des travailleurs, cheveux courts, tunique à une seule manche.»
38. Così il creduto sciocco nelle novelline popolari, non veduto dal padre e dalla madre, discende nella cantina per berne il vino, e fa scorrere invece il vino per tutta la cantina, onde, tornando la madre a casa, si sdegna.
39. Ho già riscontrato, nella mia Mitologia zoologica, la leggenda indiana di Trita chiuso nel pozzo da' suoi due fratelli Ekata e Dvita, con le novelline numerose, ove il giovine fratello che ha compiuto un atto eroico, discendendo nel pozzo, ov'è il drago, viene chiuso nel pozzo dai fratelli invidiosi.
40. Cfr. quello che s'è osservato nella seconda Lettura, pag. 40, intorno al Dio Parganya.
41. Cfr. la citata preziosa opera del Muir, ove il paragrafo riferente i passi vedici risguardanti Indra si può quasi considerare completo, ed è, in ogni modo, ricchissimo.
42. Sulla leggenda di Prometeo (dal vedico Pramantha illustrato dal Kuhn e dal Baudry, al dramma di Eschilo, al poema di Lucrezio, al poema drammatico di Shelley) il professor Trezza faceva nella sera del 19 marzo 1874 una splendida ed eloquente conferenza nel Circolo Filologico di Firenze. Colgo pure l'occasione per raccomandare la lettura di due bei capitoli intitolati La critica della Natura ed I miti, nell'opera recentissima dello stesso critico, intitolata La Critica moderna, ove si riassumono, in una forma, spesso, luminosa e scultoria, i principali veri scoperti dai moderni mitologi.
43. Nel mio Saggio intitolato: La vita ed i miracoli del Dio Indra nel Rigveda. Firenze, 1866.
44. Così indrya «il senso intimo» spiegherei ancora per antarya (od antariya), che vale, per l'appunto, intimo, interno. Una leggenda cosmogonica del Çatapatha Brâhmana sembra conservare alcuna reminiscenza della etimologia che io propongo per la parola Indra (da Andra, Antara), quando ci dice: l'alito nel mezzo è Indra; egli per la sua forza indrijaca (o mediana) produce nel mezzo gli spiriti (le anime interiori, gli spiriti mediani, i sensi): Sayo 'yan madhye pranah esha evêndrah tân esha prânân madhyatah indriyena indha.
45. Cfr. la prima Lettura, pag. 31.
46. Cfr. il mio libretto: La vita ed i miracoli del Dio Indra nel Rigveda. Firenze, 1866.
47. Pubblicato nello scorso anno dal dotto bibliotecario Ceriani, coi relativi antichi disegni.
48. Scompongo: non upa mâ matir, ma upa mâ (a)matir. Indu che scorre verso Indra, abbiamo nel noto inno degli amori di Indra ed Apatâ; così più sotto leggo: hridâ (a)matim e non hridâ matim.
49. Fin dall'anno 1867, ne' miei studii Sulle Fonti vediche dell'Epopea e Sull'Epopea indiana ho tentato dimostrare, con gli esempi indiani, come le origini dell'epopea siano da ricercarsi nel cielo mitico.
50. Cfr. il bel Saggio di Michele Bréal: Sul mito di Ercole e Caco.
51. Cfr. il secondo capitolo del primo libro della mia Zoological Mythology.
52. Interpreto qui evidentemente il fine del disputato passo di Yâska, in modo diverso da quello seguìto dagli altri dotti interpreti miei predecessori. Il passo di Yâska suona così: Tayoh kâlah ûrdhvarâtrât prakâçibhâvasya anavisht'ambham anu; tamobhâgo hi madhyamo g'yotirbhâgah âdityah; tayoh kâlah sûryodayaparyantah. — Il Muir interpreta: «Their time is subsequent to midnight, whilst the manifestation of light is delayed (and ends with the rising of the sun). The dark portion (of this time) denotes the intermediate (god Indra?), the light portion Aditya (the Sun).» — E il prof. Goldstucker: «Their time is after the (latter) half of the night when the (space's) becoming light is resisted (by darkness); for the middlemost Açvin (between darkness and light) shares in darkness, whilst (the other) who is of a solar nature (âditya) shares in light.»
53. Ricuso evidentemente la sforzata interpretazione di Sâyana citata dal Dizionario Petropolitano.
54. Qui ancora mi allontano dall'interpretazione del Dizionario Petropolitano, per attenermi strettamente all'etimologia e all'analogia che vi dev'essere fra il moncherino e la mano d'oro; mentre non parmi naturale e logico che gli Açvin avessero a dare un figlio dalle mani d'oro ad una moglie, il cui marito è un eunuco impotente.
55. Cfr. Muir, Sanskrit Texts, IV e V vol.
56. Deposto nel ricchissimo suo lavoro, intitolato: Les premières civilisations, études d'histoire et d'archéologie, par François Lenormant, II vol. Paris, Maisonneuve, 1874. — Cfr. ancora dello stesso Autore La Magie chez les Chaldéens et les origines accadiennes: Paris, Maisonneuve, 1874, ove, ragionandosi ampiamente del Dio Ea accadico e del Dio Nuah caldeo-babilonese, si descrive l'acqua come fonte di tutta la generazione.
57. Cfr. la mia Zoological Mythology.
58. Nel secondo libro della Vita di Mosè.
59. «Delphinis tam acutus est visus, ut piscem etiam in caverna abditum cernant: Oppian. tanta celeritas ut plenam velo ventisque secundis iniectam navim, velocitate ab iis victam, Bellonii dederit observatio. Causam quidam in pinnas conjiciunt in pondus corporum nonnulli. Membrana inter cornua extensa velorum loco uti, Clariss. Baudartius existimat.» Joh. Johnstoni, Thaumatographia naturalis. Amstelodami, 1660, pag. 442.
60. Cfr. intorno al mito del cervo la mia Zoological mythology. London, Trübner, 1872.
61. Tugra è il nome di un demonio vedico combattuto da Indra; il padre Tugra precipita il figlio Bhug'yu nelle acque, e gli Açvin lo salvano. Nelle novelline russe il mostro-serpente piglia talora il nome di Tugarin. Non mi sembra improbabile che i due nomi, come le due figure mitiche, si corrispondano. — Nel trattato De Magia di Francesco Torreblanca da Cordova, Lione, 1678, pag. 341, leggo: «Legimus piscis hepar super prunas assum fugasse Asmodaeum, qui septem viros, Sarrae necarat, Tob. c. 6: Cordis eius particulam si super carbones imponas, fumus eius extricat omne genus daemoniorum.» Cristo, come piscis assus, fa lo stesso miracolo, ossia fuga il demonio, ossia fa il miracolo che il sole rinnova ogni mattina ed ogni primavera.
62. Zoological Mythology. London, Trübner, 1872.
63. Dubito che il latino Fidius, figlio di Giove, sia pure da richiamarsi qui etimologicamente. Varrone, presso Nonio, ci dice: «Domi ritus nostri, qui per Deum Fidium iurare vult prodire solet in compluvium.» Bhug'yu appare una forma equivalente di bhag'ya; Bhaga è il sole.
Cfr. il capitolo sopra i pesci nella mia Zoological Mythology.
64. Il Goethe espresse la credenza ionica e socratica in una bella strofa che l'Aufrecht ed il Muir hanno raccolta dalla sua Farbenlehre:
«Wär' nicht das Auge sonnenhaft,
Wie könnten wir das Licht erblicken?
Lebt'nicht in uns des Gottes eigne Kraft
Wie könnt' uns Göttliches entzücken?»
65. Così nell'inno 68º del IX libro del Rigveda è detto che i Pitaras hanno adornato il cielo di stelle (nakshatrebhih pitaro dyâm apin'çan).
66. Perciò dicevasi già sul fine del periodo vedico che ogni uomo nasce in quel mondo ch'egli stesso s'è fatto: cfr. Muir, op. cit., pag. 317, in nota.
67. Per le credenze popolari germaniche sopra le ossa, veggasi nel primo volume dell'opera di Rochholtz: Deutscher Glaube und Brauch im Spiegel der heidnischen Vorzeit (Berlin, 1867), l'intero libro consacrato al Knochencultus (pag. 217-297).
68. Secondo il Nirukta seguìto dal Benfey e dal Muir, bakura sarebbe il fulmine; il Dizionario Petropolitano riconoscerebbe piuttosto nel bakura uno strumento da fiato guerresco.
69. Secondo una variante leggendaria dello stesso Veda, Indra, in forma di sciacallo, ottiene dagli Asuri tanta terra quanta ne può misurare con tre passi. Indra, anticipando il miracolo del nano gigante Vishnu, con soli tre piedi misura tutta la terra.
70. Cfr. Muir, Original Sanskrit Texts, vol. IV. London, 1873, pag. 59 e seg.
71. Il Muir e il Dizionario Petropolitano spiegano ûshas per saline earth, salzige erde, interpretazione, che in questo passo mi parrebbe meno conveniente; l'aurora ricca e datrice di ricchezza è una nozione vedica famigliare, mentre la terra salina indica piuttosto un luogo sterile; quando non voglia intendersi nella terra salina un luogo che brilla, un monte che s'accresce, ma che poi non riesce in alcuna maniera fecondo.
72. «Per un punto Martin perdette l'Asino.» Veggasi sul carattere demoniaco dell'Asino mitico il capitolo relativo nella mia Mitologia zoologica.
73. Cfr. in proposito la Storia dell'antica letteratura indiana del prof. Max Müller, ove, per la prima volta, s'io non erro, fu osservato lo strano equivoco.
74. Pel cielo Dyu creatore o Prag'âpati potremmo ripetere la stessa osservazione che abbiamo già fatta pel sole Prag'âpati; nell'antico periodo vedico il Prag'âpati era l'attributo di un essere intieramente fisico; col tempo, la persona fisica primitiva scomparve, l'antico attributo divenne un'astrazione, un Dio universale, al quale poi s'immagina pure una nuova persona mostruosa corrispondente. E in tal modo sono nati tutti i Padri Eterni.
75. Anche Prag'âpati è detto nell'XI libro dell'Atharvaveda essere stato generato dal Brahmac'ârin o penitente dedito alla preghiera. L'intiero inno si trova tradotto nel V volume dei Sanskrit Texts del Muir.
76. Cfr. Weber, Indische Studien, IX, 477, e Muir, Sanskrit Texts, V, 392.
77. Ag'am: in un altro passo del Çatapatha Brâhmana, Prag'âpati crea dalla sua bocca non Ag'a, «la capra,» ma Agni, «il fuoco.»
78. Cfr. la leggenda riferita nel capitolo precedente intorno alla verità e alla menzogna degli Dei e de' Demonii.
79. Guhya è chiamato Prag'âpati, in un inno dell'Atharvaveda, ove sembra celebrarsi pel suo merito d'avere conosciuto, ossia trovato (veda) l'uovo cosmico che errava nelle acque, e dal quale, secondo un'altra abbastanza frequente nozione, egli stesso sarebbe uscito.
80. Tutte le altre questioni sono secondarie: per esempio, quella di sapere se Prag'âpati abbia creato l'uovo, o viceversa; ossia chi sia venuto prima, l'uovo o la gallina. Chi desideri trovarsi pienamente istrutto su questo argomento, ricorra al quarto volume dei Sanskrit Texts del Muir, che fornisce tutta la serie delle relative leggende cosmogoniche vedico-brâhmaniche.
81. Nelle edizioni francese e tedesca di quest'opera, per un lieve e facilissimo equivoco d'interpretazione della voce ambigua inglese turtle (che significa tortora e testuggine), presso l'Introduzione, i due egregi traduttori s'accordarono a tradurre per tortora, mentre invece vi si tratta della tortoise o testuggine. Colgo quest'occasione per rettificare questo curioso e naturalissimo sbaglio occorso in traduzioni che si raccomandano, del resto, entrambe per fedeltà ed eleganza.
82. Debbo tuttavia soggiungere come contro uno de' miei argomenti parziali, per identificare le parole Kaçyapa e Kac'ch'apa, mi oppose ragioni di grave peso il professor Ascoli nella Revue de Linguistique dell'Hovelacque (ottobre 1873); esse non infirmano la interpretazione generale, ma di certo, in parte, la danneggiano; tutti sanno oramai come gli argomenti linguistici del professor Ascoli, per la sicurezza del suo genio analitico, siano pressapoco invincibili.
83. Qui si riconferma con un altro testo evidente la mia identificazione della testuggine fallica che sostiene il mondo col fallico bastone, e si giustificherebbe per analogia l'ipotesi da me avanzata di una relazione intima supposta in antico fra le parole Kaçyapa e Kac'chapa.
84. Sanskrit Texts, V, 388.
85. Prag'âpati e Brahman e Brahmanaspati e Br'ihaspati s'identificano; la Prithivî celeste dicemmo essere, per lo più, ora il cielo, ora l'aurora; dicemmo che la figlia di Prag'âpati fu spiegata dai commentatori indiani ora come cielo, ora come aurora. Il Br'ihaspati o sposo della larga equivale perfettamente al Prag'âpati che s'unisce con la figlia e versa il seme, ossia pioggia o rugiada, sulla terra.
86. Il dottor Muir ha raccolte le nozioni del Rigveda intorno agli attributi di Br'ihaspati e di Brahmanaspati, in un paragrafo del quinto volume dei Sanscrit Texts; credo opportuno il riprodurre l'intiero paragrafo, a persuadere lo studioso intorno alla loro duplice identità col Brahman creatore supremo e supremo penitente, e, in ispecie, con l'Indra tonante signore del cielo: «Brahmanaspati, or Br'ihaspati, appears to be described in VII, 97, 8, as the offspring of the two worlds, who magnified him by their power: whilst in II, 23, 17, he is said to have been generated by Tvashtr'i. He is called a priest X, 141, 3; is associated with the Rikvans or singers (VII, 10, 4; X, 14, 3; compare X, 36, 5; X, 64, 4); is denominated an Angirasa (IV, 40, 1; VI, 73, 1; X, 47, 6); is the generator, the utterer, the lord, the inspirer of prayer (I, 40, 5; II, 23, 1, 2; X, 98, 7), who by prayer accomplishes his designs (II, 24, 3), and mounting the shining and awful chariot of the ceremonial, proceeds to conquer the enemies of prayer and of the gods (II, 23, 3-8). He is the guide, patron and protector of the pious, who are saved by him with wealth and prosperity (Ib., 9). He is styled the father of the gods (II, 26, 3); is said to have blown forth the births of the gods like a blacksmith; to be possessed of all divine attributes, viçvadevya or viçvadeva (III, 62, 4; IV, 50, 6); bright, çuc'i (III, 62, 5; VII, 97, 7); pure, çundhyu (VII, 97, 7); omniforn, viçvarûpa (III, 62, 6); possessed of all desirable things, viçvavâra (VII, 10, 4; VII, 97, 4); to have a hundred wings, çatapatra (VII, 97, 7); to carry a golden spear, hiranyavaçi (ib.; compare II, 24, 8, where a bow and arrows are assigned to him); to be a devourer of enemies; vr'îtrakhâda (X, 65, 10; compare VI, 73, 3); a leader of armies along with Indra etc. (X, 103, 8) and armed with an iron axe, which Tvashtr'i sharpens (X, 53, 9); clearvoiced (VII, 97, 5); a prolonger of life (X, 100, 5); a remover of disease (I, 18, 2); opulent; an increaser of the means of subsistence (I, 18, 2). Plants are said to spring from him (X, 97, 15). He is said to have heard the cries of Trita who had been thrown into a well and was calling on the gods, and to have rescued him from his perilous position (I, 105, 7). He is further described as holding asunder the ends of the earth.»
87. Sanskrit Texts, III, 230.
88. Sanskrit Texts, IV, 56.
89. Nell'Atharvaveda si dice esplicitamente che il sole ha natura di Fuoco (o d'Agni), la luna d'Ambrosia (o di Soma).
90. Tutti i testi indiani di qualche importanza intorno a Rudra furono diligentemente raccolti dal Muir nel IV volume de' suoi preziosi Sanskrit Texts.
91. In Toscana ed in altre provincie italiane si dice del cane ululante ch'esso fa il lupo; egli è secondo la superstizione toscana nunzio di morte; pare che la stessa superstizione esistesse già nell'India vedica. — Abhibhâ dal Dizionario Petropolitano e dal Muir s'interpreta come sostantivo: malaugurio; io lo interpreterei qui come aggettivo.
92. Il Muir sahasrena pratihitâbhih «with a thousand arrows on the string;» nel Çatapatha, Rudra è rappresentato con cento ishudhi che sarebbero cento turcassi, ma qui ancora si potrebbe forse interpretare con cento braccia, o con cento mani, siccome quelle che tengono, che lanciano l'ishu.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le numerose grafie alternative, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Le correzioni contenute nell'Indice alfabetico sono state riportate nel testo.
Copertina elaborata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.