The Project Gutenberg eBook of Lettere di Lodovico Ariosto

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Title: Lettere di Lodovico Ariosto

Author: Lodovico Ariosto

Editor: Antonio Cappelli

Release date: August 27, 2018 [eBook #57780]

Language: Italian

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LETTERE DI LODOVICO ARIOSTO


LETTERE
DI
LODOVICO ARIOSTO

CON PREFAZIONE STORICO-CRITICA
DOCUMENTI E NOTE

PER CURA

DI

ANTONIO CAPPELLI


TERZA EDIZIONE
RIVEDUTA ED ACCRESCIUTA DI NOTIZIE E DI LETTERE

ULRICO HOEPLI
EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO
NAPOLI — PISA
1887


PROPRIETÀ LETTERARIA

119-87. — Firenze, Tip. dell'Arte della Stampa



INDICE


[v]

AVVERTENZA

Nel presentare una terza ristampa delle Lettere di Lodovico Ariosto, mi è grato di averle potuto ordinare cronologicamente (cosa che non ebbi opportunità di fare nell'antecedente di Bologna, 1886), con introdurvi le nove lettere che venni pubblicando negli Atti e memorie di storia patria (Modena, 1868-75), ed accrescerle inoltre di sole altre cinque inedite che riescii a rintracciare da varie parti, più una scritta dall'Ariosto a nome del cardinale Ippolito d'Este, indicandole ai loro luoghi secondo il tempo che mi pervennero, ora cronologicamente ed ora in fine del volume. Tenni però separate le lettere ch'egli scrisse tanto a nome del cardinale suddetto, quanto a nome di Alessandra Benucci vedova Strozzi; e in [vi] appendice non lasciai di ripetere con alcune nuove osservazioni ciò che leggesi nell'edizione di Bologna, aggiungendo finalmente otto privilegi accordati per la stampa dell'Orlando Furioso, tratti dalle rarissime edizioni originali 1516 e 1532 e da documenti in parte inediti, formando essi un degno elogio al celebre autore, ma che non raggiunsero il vantaggio ch'egli sperava ricavarne.

Queste lettere riferisconsi in gran parte al suo Commissariato di Garfagnana, giacchè quelle che scrisse a' suoi parenti ed amici scarsamente a noi pervennero: e se le prime non possono sempre interessare per il soggetto e la forma, giova ricordare che furono dettate colla foga d'un imperioso dovere d'ingrato ufficio che non permettevagli di formarne minuta o tenerne copia (v. lett. LXXIII, p. 138), ed hanno poi il pregio di mostrarci nell'Ariosto l'uomo abile ai maneggi di Stato, fecondo di espedienti e zelante in sommo grado della giustizia, con essersi emendato di quell'adulazione che apparisce nel poeta di corte, per assumere un linguaggio francamente sincero e dignitoso.

Le lettere da me ristampate più volte ho un poco riformate alla moderna grafia, ma non ho minimamente toccate quelle che offro per la prima volta o che riproduco da altri editori, e così feci [vii] pei documenti a corredo della Prefazione o sparsi nelle note.

Per la Prefazione storico-critica ho cercato giovarmi di alcune pubblicazioni uscite in questi ultimi vent'anni, e importanti mi sono state in particolar modo le Notizie per la vita di L. Ariosto del ch. signor march. Giuseppe Campori (Modena, 1871) perchè tratte da documenti inediti, e ciò dicasi degli Studi e ricerche sulle poesie latine di L. Ariosto del ch. Giosuè Carducci (Bologna, 1875), oltre a vari altri lavori ch'ebbero, come il suddetto, felice impulso a prodursi pel centenario ariostesco celebrato in Ferrara ed in Reggio 1874-75; chè la fama dell'insigne poeta tende sempre ad estendersi, conoscendosi che il prof. Schuchardt lesse e commentò all'Università di Lipsia nel 1872 l'Orlando Furioso, poema tradotto in tutte le principali lingue d'Europa; ed è nostro dovere segnalare le due edizioni di Parigi illustrate coi disegni del lodatissimo artista Gustavo Doré, la prima del 1869 col poema imitato in versi francesi da F. Ragon e la seconda del 1879 con una nuova traduzione del Du Pays: disegni che, gareggiando colla fantasia del poeta, ci trasportano a quel mondo di maraviglie che egli con eccellenza d'opera d'arte seppe rappresentarci, e che noi pure abbiam potuto veder riprodotti [viii] col testo originale e con una degna prefazione del Carducci (Milano, Treves, 1880).

Amo dunque licenziarmi dal cortese lettore col riferire i seguenti versi che tolgo da alcune stanze di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, pubblicate per la prima volta dal ch. C. Arlia nel Propugnatore, 1885, vol. XVIII, parte I, p. 358-59:

«Chi ebbe mai più alta e dolce vena

In dir d'arme e d'amor che l'Ariosto?

Tutti i maggior poeti e più fecondi

Gli vanno sotto, e sono a lui secondi.

. . . . . . . . . . . . . . .

Fe' l'Ariosto le Comedie prima,

Come si può veder gioconde e belle,

E le Satire poi di tanta stima,

Che in tutto il mondo se n'udì novelle;

Dopo con chiara e gloriosa rima

Fe' il Furioso che passa le stelle:

E se potesse Aristotil vedello,

Lo terrebbe d'Omero assai più bello.»

A. C.

[ix]

PREFAZIONE STORICO-CRITICA INTORNO A LODOVICO ARIOSTO E IL SUO TEMPO

La famiglia degli Ariosti è di antica nobiltà di Bologna, e il cognome ebbe forse origine da una terra del bolognese detta Riosto. Nel 1156 un Ugo figlio di Alberto fu console di Bologna quando questa città si reggeva a repubblica. La bella Lippa discendeva dalla stessa famiglia, e il nostro poeta non manca di ricordarla nel suo Orlando furioso[1]. Veduta dal marchese Obizzo III d'Este quando pe' suoi contrasti col papa dimorava in Bologna, se ne invaghì somma mente, e la fece sua amica. Conciliatosi poi con Giovanni XXII che nel 1329 scelse per minor male investirlo del vicariato di Ferrara, Obizzo persuase agevolmente la Lippa a seguirlo in quella città, ov'essa [x] andò in compagnia de' suoi fratelli Bonifazio[2] e Francesco. Seguìta poi anche dal cugino paterno Nicolò, la famiglia Ariosti fu trapiantata in Ferrara, col formarne tre rami che vi ebbero lunga discendenza. La bella Lippa rimase sempre concubina di Obizzo, e in 20 anni lo fece padre di 12 figli. Non avendone avuto alcuno dalla moglie Giacoma Pepoli, morta nel 1341, e desiderando legittimare nel più valido modo i figliuoli bastardi, aspettò egli che la madre loro fosse in estremo pericolo della vita, e la sposò (come narrasi) la sera del 27 novembre 1347. Poche ore dopo la povera Lippa era morta; nè potè godere un sol giorno di quegli onori principeschi, forse tanto ambiti e promessi da prima; onori che il marchese serbava alla salma di lei con un pomposo mortorio!

D'allora in poi gli Ariosti ebbero di frequente impieghi autorevoli e vantaggiosi presso gli Estensi, sapendoli meritare pei loro zelanti servigi e non per titoli di una parentela salita in tanto orgoglio e potenza. Alcuni vennero anche fatti cavalieri; e nel 1469 trovandosi l'imperatore Federico III in Ferrara, diede titolo di conte ai tre fratelli Francesco, Lodovico e [xi] Nicolò Ariosti e loro discendenti[3]. Francesco fu scalco di Borso d'Este, poi ambasciatore ed anche capitano di Modena; e venendo a morte nel 1505, il nipote e poeta Lodovico compose a di lui memoria un epitaffio che leggesi fra le sue poesie latine[4]. L'altro fratello Lodovico fu prima dottore e canonico, indi arciprete della cattedrale di Ferrara. Il duca Ercole I voleva farlo anche vescovo di Reggio, ma il papa vi si rifiutò, nominando invece Bonfrancesco Arlotti ch'era stato spedito a Roma per raccomandare l'Ariosto[5]. Nicolò, il più giovane dei fratelli suddetti, fu padre del nostro poeta, e perciò di questo parleremo più a lungo.

Essendo stato molto famigliare di Borso d'Este, Nicolò Ariosto divenne ancora maggiordomo del novello duca Ercole I, il quale essendosi impadronito dello Stato contrastatogli a ragione da Nicolò figliuolo di Leonello, diede incarico all'Ariosto di recarsi a Mantova ove il nipote erasi riparato presso il marchese Federico suo zio, e veder modo di avvelenarlo. L'Ariosto non rifuggi di addossarsi l'iniquo mandato, e provveduto di quanto facevagli di bisogno partì sui primi del dicembre 1471 col pretesto di presentare al Marchese [xii] di Mantova uno zibetto (animale muschiato). Colà giunto ebbe campo di accordarsi con Cesare Pirondoli siniscalco di Nicolò d'Este, e con larghe promesse lo indusse ad accettare il veleno da porre nelle vivande: ma nella sera destinata all'esecuzione, lo scalco maneggiando il tossico fu colpito da vertigine, e temendo essersi da sè stesso avvelenato, confessò tutta la trama. L'Ariosto intanto mettevasi in salvo a Ferrara, e il 18 detto mese Cesare Pirondoli insieme al fratello Galasso, che serviva a tavola ed era consapevole della cosa, vennero decapitati e squartati in Mantova[6].

Poco dopo i fatti narrati, e cioè col primo gennaio 1472, il duca mandava Nicolò Ariosto capitano della cittadella di Reggio, e siccome eravi altresì il capitano della città, nè facendosi sempre dai cronisti la dovuta distinzione fra i due capitani o confondendoli insieme, così alcuni dubitarono che l'Ariosto avesse avuto ancora l'officio di governatore o podestà (come narra il Baruffaldi)[7], quando queste cariche erano date ordinariamente a diversi soggetti.

[xiii]

E infatti quantunque l'Azzari[8] scriva che nel 1473 l'Ariosto «era stato fatto governatore di Reggio,» mostra troppo chiaramente l'errore involontario in cui cadde, avendoci detto che il giorno 8 agosto dell'anno stesso fu mandato per governatore della città Antonio Sandeo, in sostituzione di Uguccione Rangone morto poco prima nell'officio, essendovi podestà Girolamo Guidone.

Una lettera del capitano Nicolò (Docum. II) ci conferma che le attribuzioni ch'egli allora sostenne furono soltanto militari: avendo poi essa la data Civitatellae Regii, 28 jan. 1473, possiamo ancora arguire che il capitano abitava fin d'allora nella cittadella, sebbene vi continuassero i lavori di riparazioni.

Nel settembre 1473 si unì in matrimonio colla Daria figlia di Gabriele Malaguzzi Valeri d'illustre famiglia reggiana, che lo fece padre di dieci figli; il primo de' quali fu il nostro Lodovico, il favorito delle Muse (come lo chiama l'Azzari), nato l'8 settembre 1474 nella cittadella di Reggio: avvenimento che torna a splendido vanto ed onore di quella città che il poeta stesso ricorda con assai compiacenza pel suo nido natìo. «E perchè il sopraddetto Gabriele (continua l'Azzari) fu nella poesia molto raro e stimato, perciò l'Ariosto solea dire d'aver ricevuto l'arte del poetare dall'utero materno» e non dal vero maestro, [xiv] come legge malamente il Tacoli[9] e come viene riportato dal Baruffaldi[10].

Un'iscrizione che non ha carattere di sufficiente antichità posta sotto un ritratto di Lodovico dipinto in tela, e posseduto dalla famiglia Malaguzzi, in cui leggesi natus Regii.... in camera media primi ordinis erga plateas, ha fatto ritenere a qualcuno ch'egli fosse nato nella casa materna anzichè in cittadella, la quale per essere in risarcimento eziandio nella rôcca o palazzo del capitano, non poteva prestargli conveniente abitazione. La data della lettera che abbiam riferita sembra convincerci del contrario di ciò che narra soltanto un'iscrizione, che rendesi meno autorevole coll'aggiugnere essere stato il poeta manu propria Caroli V imper. laureatus; incoronazione che lo stesso Virginio figlio naturale di Lodovico dichiara una baia.

Il palazzo di cittadella era un vasto fabbricato, che nel 1505 accolse Lucrezia Borgia che fuggiva la peste di Ferrara, ed ove partorì un figliuolo[11]: non è [xv] dunque difficile che mentre i lavori progredivano da una parte, potesse prestare sufficiente abitazione dall'altra. Questi lavori non erano ancora terminati nel 1496 e pur vi abitava assai prima la famiglia del capitano, come ne dà prova il rogito col quale la Daria Malaguzzi assolve i fratelli della dote pagatale in mille ducati d'oro, pubblicato il 7 maggio 1479, Regii in palatio residentiae comitis Nicolai de Ariostis, in Civitatella[12].

Stette Nicolò nell'ufficio di Reggio fino alla metà del 1481 in cui fu traslocato capitano a Rovigo. Ciò avvenne in momenti assai critici, poichè le armi Venete minacciavano impadronirsi di tutto il Polesine. Il capitano nel 7 luglio 1482 faceva conoscere al duca di Ferrara che in città non rimanevano che pochi fanti (circa 150), la maggior parte ammalati, che più non potevano far le guardie alle porte, e che «si troverebbe a mali termini quando venisse furia alcuna». Di fatto nel 14 agosto seguente i Veneti entrarono in Rovigo, occupandola in nome della Repubblica. Nicolò Ariosto non ritornò a Ferrara, come dice il Baruffaldi, ma si ridusse a Masi villa del Polesine di san Giorgio, aspettando gli ordini del duca, che forse tardarono, essendo Ercole I gravemente infermo. In una lettera che Nicolò rivolgendosi alla duchessa scrive da detto luogo il 30 ottobre 1482 dice essere da necessità costretto a restare in villa per non avere che mettersi in dosso; chè forse nella [xvi] furia dell'invasione temuta non ebbe tempo di prendere le sue robe. Di là si ridusse colla famiglia a Reggio, come rileviamo dalla lettera ch'egli vi scrisse il 22 novembre di detto anno (Docum. III), ed eravi pure nel 1483, trovandosi più volte nominato dal conte Paolo Antonio Trotti allora commissario generale in Reggio, mandatovi dal duca ne' momenti più fortunosi del dominio Estense durante la guerra colla Signoria di Venezia; ed anzi il Trotti in una lettera del 17 maggio 1483 ricordando ad Ercole I le antiche promesse fatte all'Ariosto, «avuto etiam rispetto a quello che V. S. ed io sappiamo, che nelli tempi che si operavano gli amici ciò che ha fatto per quella, non avendo rispetto, non che all'onore e alla vita, alla propria anima» (alludendo al tentato avvelenamento di Nicolò d'Este), lo pregava che al prossimo S. Pietro fosse provveduto d'un officio utile ed onorevole, a motivo altresì «delli danni incalcolabili che ha patito a Rovigo, quali in verità lo hanno frusto fino alle ossa; ed è quì a Reggio con bocche XII e compra sino il sole»[13]. Le condizioni d'allora non permisero forse al duca di sovvenire tostamente a Nicolò; ma sappiamo che nel 1486 le terre da lui acquistate nel contado di Reggio (55 biolche circa), «soggette alle gravezze e servitù rusticali, le dichiarò immuni e privilegiate in perpetuo in grazia [xvii] dell'essersi trasferite in questo suo nobile e domestico gentiluomo»[14]; come altresì in detto anno fu nominato giudice dei dodici savi, officio che tenne per tre anni[15], a capo de' quali, e cioè dal febbraio 1489 al marzo 1492, ebbe il capitanato della città di Modena.

Finalmente nel 1496 passò commissario ducale in Lugo di Romagna, e vide quelle popolazioni stremate dalla fame, dal contagio, dalle inondazioni. Ma non fu in sì difficili circostanze che incontrò il biasimo di tutti; fu un atto d'ingiusto e crudele rigore a cui lasciò trasportarsi dal suo carattere severo e irascibile.

— Col favor della notte un uomo era solito entrare in una delle più civili abitazioni di Lugo, accolto dalla donna che amava. Il capo della famiglia ignorava la cosa; ma venutone col tempo in sospetto, riescì una volta a sorprendere colui, che dandosi a sùbita fuga lasciò disgraziatamente il mantello. Colla prova sotto gli occhi del fallo, il dabben uomo, forse padre o marito, diè luogo ad un giusto risentimento con parole clamorose, che udite di leggieri in quell'ora tacita da qualche indiscreto vicino o da chi [xviii] per caso passava allora per via, furono riportate al commissario. Il mattino dopo venne questi chiamato dinanzi all'Ariosto. L'uomo prudente aveva già preso il partito che più stimava convenire all'onor di sè stesso e de' suoi, e, interrogato, negò francamente l'accaduto. Il commissario chiese allora gli fosse consegnato quel mantello che avea rinvenuto, sperando con quello di poter riconoscere il colpevole; ma essendo stato ciò pure negato, l'Ariosto giunse al brutale eccesso di far uso della tortura, e così strappare fra i tormenti una confessione che avviliva e gettava nella maggior vergogna l'uomo innocente, degno soltanto di elogio. — Il Baruffaldi[16] dice che il commissario, persuaso di aver bene operato, ne scrisse al duca; ma che questi lo privò immantinente dell'impiego (24 novembre 1496), lo condannò a una multa di 500 ducati d'oro, nè più lo ammise ad altre cariche. Fra le molte lettere che di Nicolò Ariosto si conservano in Archivio, non abbiamo quella accennata dal Baruffaldi, nè crediamo probabile ch'ei potesse quasi vantarsi dell'eccesso commesso. Troviamo invece che il duca lo aveva altre volte ripreso di usar modi e parole troppo aspre co' suoi dipendenti: ed egli con lettera del 7 marzo 1482, ringraziando dell'amorevole correzione «non da principe a servo, ma che sarìa da equiparare a Cristo quando correggeva gli Apostoli suoi», soggiungeva: «Io non ho sì poco intelletto, nè son di natura tanto iracondo, [xix] Ill.o Signor mio, ch'io non mi sappia molto ben temperare dove bisogna.... e mi porto con quella reverenza e carità che si conviene, e che so essere la mente di V.a Ill.a Signoria.» — Così l'antico adagio, che noi raramente conosciamo i nostri difetti, trova sempre conferma.

Nicolò nel 1486 ritornato con la famiglia a Ferrara, pose il figlio Lodovico, in età di undici anni, a scuola di latino, con obbligarlo più tardi a darsi contro sua volontà allo studio delle leggi, volgendo testi e chiose, ch'egli chiama ciance, pel corso di cinque anni. A capo de' quali, e cioè nel 1494, accorgendosi il padre che Lodovico erasi distolto dai gravi studi raccomandatigli per attendere unicamente a quelli per lui sì graditi della poesia ove il genio fin dall'alba della vita traevalo a forza e ne' quali avea cominciato a dar saggi lodevoli; dopo molto contrasto, persuaso ancora da parenti ed amici, lo pose in libertà.

Lodovico allora si ritenne felice, e attese con maggior fervore agli studi poetici, in compagnia di Alberto Pio principe di Carpi, di Pandolfo Ariosto suo diletto cugino e di Ercole Strozzi, giovani anch'essi di raro ingegno, che servivangli a nobile emulazione. Sotto il celebre Gregorio da Spoleti diedesi tutto agli studi classici, e riuscì a spiegare i passi più oscuri degli antichi poeti latini, principalmente di Orazio, di che riscosse molti elogi in Roma al tempo di Leone X. Già sullo scorcio del secolo aveva composti vari carmi latini ed era tutto occupato ad accrescerli, quando nel 1500 avvenne la morte di Nicolò, [xx] che Lodovico pianse con un'ode affettuosissima[17]. Dovette allora «coi piccoli fratelli ai quali era successo in luogo di padre» rivolgere il pensiero e le cure alla numerosa famiglia, «cambiare Omero in vacchette». Anche il suo carissimo maestro Gregorio da Spoleti fu costretto abbandonarlo per passare a Milano, indi in Francia precettore di Francesco Sforza, ed essendo morto altresì Pandolfo «il suo parente, amico, fratello, anzi l'anima sua,» parve per un momento temere non potesse offuscarsi quel punto luminoso cui egli mirava per salire in gran fama: ma continuando a vederlo risplendere, fattosi animo, superò questo ed ogn'altro impedimento (Satira VII).

Quantunque le sostanze ereditate dal padre fossero di qualche entità, pure dovendosi ripartire sopra dieci figliuoli, non potevano lasciare abbastanza tranquillo il primogenito Lodovico che aveva assunto la cura degli interessi della famiglia; e narrando egli stesso che di que' giorni la mente sua era carca d'affanni (Satira VII, v. 214), si rivolse al duca, e potè ottenere nel 1502 di essere nominato capitano della Rocca di Canossa[18].

Le terre possedute nel reggiano e l'ufficio conferitogli in quella provincia mossero l'Ariosto a portarsi al nido natio, ospitato dai propri cugini Malaguzzi: [xxi] e que' luoghi ameni, e specialmente il Mauriziano ch'ei vagheggia e dipinge coi colori più belli, gli furono dolci inviti a empir le carte de' suoi versi (Satira V); e perciò i carmi latini della sua giovinezza salirono a 65 che si hanno a stampa divisi in tre libri, illustrati di recente dal ch. Carducci[19]. E il poeta dirigendoli agli Estensi, ai congiunti, agli amici, non lascia di narrarci ancora i suoi amori, celebrando in particolar modo una reggiana sotto nome di Lidia, la quale lo costringe a star lungamente lontano dalla madre carissima, gli fa grato il soggiorno di Reggio colla sua presenza, glielo rende triste partendo.

Dopo quasi due anni trascorsi per la maggior parte nel reggiano, Lodovico tornò a Ferrara nel 1503, ove sembrò dimenticarsi di Lidia, ed ove da una certa Maria che da tempo serviva in sua casa ebbe un figlio naturale chiamato Giovanni Battista, il quale essendo stato secretamente mantenuto dal padre presso i parenti materni, partì giovane da Ferrara per darsi al mestiere delle armi; e tornato poi in patria, ove ebbe nel 1546 una missione dal duca alla corte imperiale, vi morì capitano nel 1569. Avendolo Lodovico dichiarato [xxii] nel testamento del 1532 suo figlio naturale e contemplato nell'eredità, venne ancora legittimato nel 1538 ad istanza di Galasso e Alessandro fratelli del poeta.

Sullo scorcio del 1503 Lodovico rinunziò al capitanato di Canossa e passò al servizio del cardinale Ippolito d'Este, ch'egli scelse con poca fortuna a suo mecenate, ma che tanto influì su lo scopo delle sue poesie.

Ippolito d'Este, figlio d'Ercole I e di Eleonora d'Aragona, nacque il 20 marzo 1479, e per essere il terzo genito fu destinato alla Chiesa: volendosi di regola ne' principi che il primo succeda al padre nel governo dello stato, il secondo cerchi salire in dignità cingendo la spada, il terzo faccia altrettanto vestendo la stola: ma bene spesso la traccia è fuor di strada, e fa mala prova[20], non essendosi prima indagata l'indole e tendenza d'ognuno. — Di sei anni Ippolito vestì l'abito clericale, ricevendo la prima tonsura nel duomo di Ferrara. Passava appena i sette anni, ed ecco che il re Mattia Corvino marito di una zia materna d'Ippolito lo nominava arcivescovo di Strigonia. Il papa non voleva approvare la nomina per l'età ancora infantile, ma dopo pochi mesi vi si adattò. Il piccolo arcivescovo partiva alla volta d'Ungheria, facendosi portare in una lettica con grande accompagnamento affine di prender possesso della sua sede, e serviva purtroppo ovunque passava a ridicolo spettacolo di profanata autorità. Padrone troppo presto di sè stesso, insignito di una dignità di cui solo misurava [xxiii] l'importanza dagli atti continui di un simulato profondo rispetto, vivendo in una corte straniera, presso parenti che cecamente lo amavano, nè mai contraddetto in qualunque capriccio, sortì un carattere altiero, inflessibile, vendicativo, crudele. Cambiato poi l'arcivescovato di Strigonia nel vescovato d'Agria, che non l'obbligava a residenza, ebbe nel 1497 l'arcivescovato di Milano, cui s'aggiunse nel 1499 quello di Narbona e nel 1502 quello di Capua. Fu anche Vescovo di Ferrara nel 1503, di Modena nel 1507. Alessandro VI lo nominò cardinale diacono di santa Lucia in Silice il 21 agosto 1493 di soli quattordici anni, e fu anche arciprete della Basilica Vaticana, come pure prevosto della ricchissima Abbazia della Pomposa di Ferrara: deplorabile abuso d'allora, e neppur tolto a' giorni nostri, di cumulare tante dignità e tante rendite ecclesiastiche sopra un solo uomo, che inoltre mostrava di seguire intieramente il genio dell'età corrottissima, senza curarsi delle cose sacre. Erano in fatti sue cure gradite le cacce[21], le mostre militari, i convegni gioviali, l'amor delle donne, i ricchi e pontificali conviti ne' quali durava la maggior parte della notte. Nel 1504 fece bastonare un messo del papa che gli portò un monitorio che non gli garbava: prepotenza arditissima sotto Giulio II. — Lo spirito delle cose mondane era allora molto esteso in corte di Roma. [xxiv] Nelle lettere di cardinali amici d'Ippolito s'incontrano spesso descrizioni di cacce fatte in Romagna, inviti a partecipare ad altre che si preparavano, e domande di falconi e di levrieri, di cui si lamenta la scarsità in Roma. Una lettera del cardinale Marco Cornaro ha tutto il garbo di que' gentili e profumati viglietti soliti scambiarsi fra due persone galanti: «Ho avuto piacer grande a intendere quanto mi scrive V. S. Rev. di quelle due nobilissime madonne, l'una madonna Clara Pusterla, l'altra madonna contessa Borromea sua sorella; e tanto più quanto che essa V. S. Rev. mi scrive detta contessa esser fatta molto bella, e l'una e l'altra, insieme con li suoi magnifici consorti, essere state a piacere con quella. Se dette madonne non fossero partite, pregherìa V. S. Rev. si degnasse raccomandarmele; a una delle quali essendo servitore V. S. Rev., io desidererìa essere servitore all'altra, per fare compagnia ad essa V. S.». — La passione delle armi, unita ad un certo valore, portò il cardinale Ippolito ad una non comune intelligenza delle cose di guerra; nel che rese importanti vantaggi al duca Alfonso I di lui fratello nella guerra coi Veneziani e con papa Giulio II. Ci narra il da Porto[22] che il cardinale Ippolito era «il più disposto corpo con il più fiero animo che mai alcuno della sua casa avesse, e sopra questa guerra (coi Veneti) d'ogni cosa ministro. Piacciono a costui gli uomini valorosi, e quantunque sia prete, [xxv] ne ha sempre molti d'attorno». Trovandosi nel 1509 colle genti di suo fratello sotto Padova, facevasi condurre «alla guisa di Dario sopra una carretta per lo campo, benchè armato ed in abito di soldato»; e queste foggie, sì poco convenienti a un personaggio del suo carattere, ripetevansi sovente, ed erano da tutti con dispregio osservate. — Delle donne ebbe amicizia troppo intima con parecchie. Secondo il Gordon[23] fu rivale col duca Valentino negli amori con Sancia vedova di Goffredo Borgia. Amò una certa Veronica che da Brescia gli scriveva il 23 giugno 1508, raccomandandosi a lui «tante volte quanti sono i pensieri che nascono il giorno a quanti sono gli amanti riamati»; e prorompendo in dire: «oh quanti sono!» finisce umilmente baciandogli «le belle manine, lo prega di nuovo voglia ricordarsi di sua bassezza, e si dichiara quella fedel serva che tanto ama e adora Sua Signoria». — Dalla Dalila Putti di Ferrara ebbe un figlio naturale per nome Ippolito: da un'altra donna ebbe Isabella, maritata nel 1529 con Giberto Pio di Sassuolo. Ma l'amore, anzi una cieca brutale passione spinse il cardinale ad un iniquo delitto, e macchiò d'infamia eterna il suo nome. — Erasi egli perdutamente invaghito di una damigella della corte di Ferrara, la quale, com'è solito delle donne lusinghiere, non contenta di accogliere le istanze del cardinale, mostrò gradire moltissimo anche quelle di don Giulio fratello bastardo di lui. Il cardinale se [xxvi] ne accorse, e sollecitando la donna a dichiarargli la cagione di sì nuovo capriccio, confessò ella di non aver potuto resistere agli occhi bellissimi di don Giulio, che giudicava bastevoli a vincere il cuore di tutte le donne. La vanità puerile del cardinale restò umiliata e nel vivo trafitta; onde lasciandosi trasportare dall'impeto della gelosia e dell'invidia macchinò un'atroce vendetta. Il 3 novembre 1505 don Giulio era andato di buon mattino alla caccia; e il cardinale, forse travestito, in mezzo a quattro de' suoi staffieri, si portò alla campagna di Belriguardo, attendendo coll'insidia dell'assassino che il fratello fosse di ritorno. L'infelice don Giulio restituivasi tranquillamente a Ferrara ignaro della sorte che lo attendeva, quando ad un tratto videsi assalito e stramazzato di cavallo. Il cardinale lo circondò de' suoi uomini che lo ammortirono di percosse, e, cosa incredibile ma pure certissima, stando egli proprio a vedere[24], fecegli con acuti stecchi cavare ambidue gli occhi. Compiuto appena il delitto, il cardinale, sperando allontanare da sè il primo sospetto nell'animo del duca, corse a dargliene avviso come di cosa che allora vociferavasi per la città; e poco dopo don Giulio veniva portato in palazzo, deforme nel viso, tutto coperto di sangue. A quest'orribile vista che [xxvii] nella famiglia degli Estensi ritraeva in parte quanto di più crudele rappresentaronci i greci «di Tiesti, di Tantali e di Atrei»[25], fu detto che il duca Alfonso salì in ira tale, che rovesciò la tavola ove trovavasi a mensa; e conoscendo a più indizî onde il fatto procedesse, cacciò da sè il cardinale, ingiungendogli di sortire dai confini. Allo sgraziato don Giulio si apprestavano intanto le cure maggiori: l'occhio sinistro, non essendo stato intieramente staccato dall'orbita, rimesso al posto, riacquistò col tempo un poco di luce; il destro era affatto perduto.

Sparsa la fama di tanto abominio e dei risentimenti del duca, il cardinale fu sollecito di prevenire le gravi conseguenze che doveva aspettarsi dal papa: e perciò, avendo fatto fuggire que' suoi famigliari, scrisse l'8 novembre a Beltrando Costabili protonotario apostolico e oratore ducale a Roma, che si presentasse a Giulio II e che, baciatigli i piedi a nome di lui, gli esponesse il caso occorso per opera de' quattro famigliari a motivo di certe inimicizie passate con alcuni domestici del fratello don Giulio, e che intendendo i primi che vi era pure qualche differenza tra esso cardinale e il fratello medesimo, non avevano creduto fare ingiuria al loro padrone. Che però egli ne provava il più grande dolore ed affanno, e che, sebbene fosse persona ecclesiastica, non restava di fare ogni opera per avere i malfattori nelle mani, i quali sino allora non si erano potuti trovare. Terminava poi con raccomandarsi alla solita desterità [xxviii] del reverendo oratore; cui fu agevole in questa parte accomodare la cosa. Ed è a rimarcare che la minuta della lettera stessa preparata da un segretario, e che rinvenimmo nel nostro Archivio, ha correzioni di mano del cardinale che ne moderano artificiosamente l'importanza: chè dove diceva cercarono estinguergli la luce degli occhi mutò in batterono negli occhi, vi soppresse le parole delitto e cosa facinorosa, ed a scelleranza sostituì scandalo (Doc. IV).

Si scoperse in breve che uno de' famigliari colpevoli chiamato Francesco Verdezino si era riparato a Venezia. Il duca chiese in favore di averlo in sue forze; e se da principio gliene fu data speranza, il governo veneto dichiarò poco dopo che per le raccomandazioni avute in contrario dal cardinale, il quale era riguardato come buon figliuolo della serenissima Repubblica, non sarebbe consegnato. Venne quindi scritto dal duca al suo ambasciatore Sigismondo Salimbeni in data 2 dicembre 1505, di far intendere alla Signoria di Venezia, che non avesse rispetto all'interposizione del cardinale, ch'egli era pure figliuolo ed anzi primogenito di quella, e perciò meritevole di essere preferito e in amore e in compiacenza, ad impulso altresì della causa giusta che lo moveva in confronto dell'altra del proprio fratello: ma ogni preghiera rimase inutile, benchè dèsse fede che non piglierebbe sulla persona del malfattore alcuna risoluzione che non fosse a grado della Repubblica (Doc. V).

La collera del duca durò poco per altro; ond'egli, abbandonate le esigenze, tornò ad avere il cardinale [xxix] in somma grazia e favore. L'ingiustizia colla quale perdonavasi al medesimo, lasciando impunita e dimenticata l'offesa commessa sopra don Giulio, trasse questi a concertarsi coll'altro fratello don Ferrante di far uccidere il cardinale e il duca; l'uno per vendicarsi, l'altro per impadronirsi dello Stato di cui aveva ambizione. Ma il cardinale temeva, e vegliava gli andamenti di don Giulio: videlo in grande intimità con il detto fratello, con Albertino Boschetti conte di san Cesario e con Franceschino Boccaccio da Rubiera camerlingo di don Ferrante; onde avvertito il duca del sospetto che in lui erasi destato, furono tosto imprigionati il Boschetti, il Boccaccio e due staffieri dello stesso don Ferrante, che fra i tormenti confessarono la congiura. Alla notizia dell'arresto don Giulio fuggì in Mantova presso il marchese Francesco Gonzaga cognato di lui. Gherardo Roberti capitano de' balestrieri e genero del Boschetti, con certo Gianni prete di Guascogna, cantore ed intrinseco del duca, entrambi complici della trama, fuggirono l'uno a Carpi, l'altro a Roma. Don Ferrante non curò di mettersi in salvo, e chiamato al cospetto del duca se gli gettò ginocchioni, domandando perdono di un attentato che non fu condotto ad effetto. Il duca non ebbe pietà pel suo fratello. Avendo inteso ch'ei diede ascolto alle insinuazioni di don Giulio per vendicarlo del cardinale Ippolito, l'assalì al viso con una bacchetta che allora trovavasi in mano, e percuotendolo e gridando di volerlo eguagliare a don Giulio, giunse con inaudita barbarie a cacciare ancora a don Ferrante un occhio dalla [xxx] testa[26]! Il marchese di Mantova consegnò poi vilmente don Giulio, e si ebbero pure gli altri due fuggitivi. Vennero decapitati il Boschetti, il Roberti, il Boccaccio nel giorno 12 settembre 1506: messi in quarti, si attaccarono alle porte della città, e le teste confitte in tre lancie stettero gran tempo a terrore dei riguardanti sopra la torre della Ragione. Il prete Gianni fu collocato in una gabbia di ferro fuor della torre del castello, esposto alla vista del pubblico, di mezzo verno, con un par di calze di tela e un grigio su la camicia, oltre ad avergli tagliate sul vivo le unghie[27]; poichè, essendo prete, forse Roma nel consegnarlo diede il veto di ucciderlo. Dopo sette giorni fu però strozzato dentro la gabbia, «significandosi che l'avesse fatto di sua posta»[28]. Del cadavere fu fatto abominevole strazio, attaccandolo per [xxxi] i piedi ad una carretta, trascinandolo per la città, poi sospendendolo per l'un de' piedi a un alto stilo sopra del ponte di Castel Tedaldo in Po, fin che disfacendosi cadde da sè stesso nell'acqua. A don Giulio e don Ferrante il duca fece erigere un palco nella corte del castello, ed invitata a spettacolo la nobiltà del paese, i due sfortunati fratelli coll'impronta nel viso delle sevizie sofferte salirono su di quello in compagnia del carnefice: le loro teste già stavano per essere recise con orrore e raccapriccio di tutti; quando il duca, a farsi proclamare principe clemente, fratello amorevole, fece loro grazia della vita, condannandoli a perpetua prigione: «don Giulio in un fondo di torre, e don Ferrante di sotto da lui, con finestre di tre doppie di ferro»[29].

Non era ancor bene accertato chi fosse la donna che destò la forsennata gelosia del cardinale Ippolito. Il Frizzi[30] la dice una damigella per nome Angela, la prima tra le molte che Eleonora d'Aragona all'epoca del suo matrimonio col duca Ercole I condusse seco da Roma e che era ancora sua parente. Il Litta[31] afferma [xxxii] invece che questa damigella era Isabella d'Arduino gentildonna napoletana. Ma i due scrittori non osservarono che tanto l'Angela che l'Isabella, se vennero a Ferrara coll'Aragonese nel 1473, dovevano trovarsi all'epoca dei fatti che narriamo presso i cinquant'anni; età non atta a destar siffatte passioni. Oltre di ciò l'Isabella fu anche l'amica del duca Ercole I, la madre di don Giulio, poi da tempo la moglie di Giacomo Mainetto. Niuno certo crederà che le lodi date da una madre agli occhi di suo figlio e che non potevano suscitar gelosia, fossero riguardate dal cardinale non solo «come poco cortesi, ma altresì come una sentenza che chiudeva a lui l'adito alle grazie dell'avvenente napoletana», come il Litta continua a chiamarla. Non può dunque esser questa la donna che cerchiamo scoprire; ma conoscendo che dopo le nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso d'Este celebrate in Roma nel gennaio 1502, fra le damigelle che accompagnarono la sposa vi fu pure un'Angiola Borgia sua parente (chiamata anche sorella del cardinale Borgia), che si fermò a Ferrara, ed era dotata di straordinaria bellezza[32], non esitiamo di [xxxiii] riconoscervi la donna da cui ebbe origine l'empio fatto del cardinale.

Quanto a Lodovico Ariosto, al quale è tempo di far ritorno colla nostra narrazione, venuto al servigio del cardinale, ed essendo questi stato eletto vescovo di Ferrara nell'ottobre 1503, gli offerse tributo di alcuni versi latini pieni di adulazione, e che terminano con lodarlo di castità[33]! Due anni dopo accadde il tristo caso narrato; ed il poeta conoscendo che sarebbe stato impossibile levarne la colpa dal cardinale, cercò renderla men odiosa al medesimo componendo un'Egloga[34] nella quale parla dell'ordita congiura, col tacere i motivi che vi diedero origine: e accrescendo i falli di don Giulio, e designandolo di mente invida, ingordo di adulterii (che pur sono due de' principali difetti del cardinale), nega persino ch'ei fosse figlio di Ercole I, ma bensì di chi ebbe l'Isabella Arduino in custodia, per ridurre almeno il delitto del suo signore sopra chi non eragli fratello. Fa di Lucrezia Borgia la donna casta, dicendo [xxxiv] che quanti la conobbero prima di essere venuta a far parte della famiglia d'Este, lodavano più della bellezza leggiadra, l'ingegno altissimo, l'opere sante e l'inclita onestà di lei; cose tutte che sono in onta del vero, e, ci duole il dirlo, indicano nell'Ariosto, almeno in quel primo periodo, il cortigiano bramoso di raggiungere un favore che, volendosi ad ogni costo comperare, era dall'accorto ed avaro venditore tenuto sempre a più alto prezzo.

Il poeta mostrò poi ricredersi in alcuni casi, dirigendo nel 1514 al cardinale un capitolo che, lungi dall'esaltarlo per casto, lo dice anzi trafitto più di una volta dalla fiera punta d'amore e non anche allora sanato[35]. Così nel Furioso loda la pietà del duca Alfonso per aver risparmiata la vita ai fratelli don Ferrante e don Giulio: e qui nettamente ricorda che i miseri pur sono suo sangue, della sua più cara famiglia[36].

Era nel 1486 venuto alla luce in Venezia l'Orlando innamorato del conte Matteo Maria Boiardo, ristampato nove anni dopo coll'aggiunta del terzo libro nel suo stesso castello di Scandiano; e l'Ariosto rapito dalla lettura di quel poema, ove con vena inesauribile d'immaginazione s'intrecciano meravigliose avventure d'amore alle più splendide prove di valorosi paladini, rivolse ogni studio ai romanzi e poemi cavallereschi, traducendone alcuni de' spagnuoli e francesi nella lingua italiana per proprio esercizio. [xxxv] E perchè l'Orlando innamorato rimase imperfetto per la morte dell'autore, s'accinse egli a continuarlo, trattovi fors'anche da un sentimento d'affetto verso il luogo natìo, che facea riguardargli il Boiardo come suo conterraneo. Nel 1507 Lodovico aveva condotto molto avanti il suo Orlando furioso, ed essendo stato spedito a Mantova per consolarsi del felice parto della marchesana Isabella a nome del cardinale di lei fratello, gliene lesse una parte che le «fece passare due giorni non solo senza fastidio, ma con piacere grandissimo»[37].

Al duca Ercole, morto il 25 gennaio 1505, è dovuto il merito di aver promosso in Ferrara il teatro italiano con aver ordinato al Boiardo, a Niccolò da Correggio, al Collenuccio, al Pistoia, al Guarino ecc., componimenti drammatici originali e tradotti specialmente da Plauto e da Terenzio, che faceva recitare talora da' suoi gentiluomini in una sala di corte sopra impalcato mobile adorno di bel scenario[38]; il [xxxvi] che venne pure meritamente seguitato dal nuovo duca Alfonso I in tempo di carnevale e in altre feste straordinarie. E perchè l'Ariosto era stato sempre inclinato all'arte comica ed aveva già scritto la Cassaria e più tardi i Suppositi, due commedie in prosa (che poi ridusse in versi), vennero esse recitate, la prima nel 1508 e l'altra nel 1509, intramezzate di danze moresche, canti e suoni, con ottenere entrambe le commedie il più gradito successo, avendo altresì il medesimo autore declamato il prologo dei Suppositi; sicchè il duca diedegli incarico di soprintendere agli spettacoli teatrali di corte.

Al cominciare del 1509 venne stabilita la lega di Cambrai tra Giulio II che ne fu il promotore, l'imperatore d'Austria, il re di Francia Luigi XII e il re Ferdinando d'Aragona contro la Repubblica veneta. Fu chiamato a farne parte anche il duca di Ferrara Alfonso I, che nel 19 aprile di detto anno nominavasi dal papa confaloniere della Chiesa. Il duca per mostrarsi ossequiente al re di Francia andò a trovarlo a Milano, ove allora era giunto col proprio esercito, e gli disse della carica conferitagli, e che l'avrebbe accettata o rifiutata come meglio fosse piaciuto al medesimo. Il re rispose di contentarsene: ma una tale deferenza essendo stata riportata al papa, «n'ebbe tanto sdegno, che l'amor che prima portava al duca Alfonso cominciò a convertirlo in odio»[39]. [xxxvii] L'Ariosto fu allora spedito per la prima volta a Roma affinchè di concerto cogli amici prelati trovasse modo di pacificare il papa; rilevandosi altrettanto da due Rapporti di mess. Lud. Ariosto da Roma molto corrosi dal tempo e mancanti di data, ma che certamente si riferiscono a questa cagione. Leggesi in essi che il duca doveva necessariamente portarsi a Roma e dichiarare in persona al pontefice ch'egli «non era per corteggiare alcuno il quale volesse alzar la cresta contro Nostro Signore.... che le cose passeriano pessimamente quando non vi andasse e presto.... facendo intendere in secreto al Cristianissimo il bisogno di andare a Roma per le cose sue con i Veneziani, per esser liberato in perpetuo di quella obbligazione (del sale); perchè la protezione di S. M. non può liberare se non de facto, ma il papa può obbligare e liberare di ragione.... che la natura del papa è che quando comincia a voler male ad uno, sèguita in infinito.... che cadauna volta che andrà al re di Francia, dovrà anche andare a S. Santità per espurgare ogni sospicione che avesse conceputa di tale sua andata ecc.». Non abbiamo notizia che il duca si portasse per allora a Roma; e forse le ostilità incominciate di sùbito colla sconfitta dell'esercito veneziano a Ghiaradadda per opera dei Francesi il 14 maggio 1509 fecero rivolgere il pensiero degli alleati a cose di maggior importanza.

Nell'agosto dell'anno stesso il cardinale Ippolito era andato al campo sotto Padova, e l'Ariosto scrivevagli da Ferrara le notizie che allora correvano per la città, facendogli ancora conoscere i lamenti [xxxviii] che non a torto facevansi dal popolo per le colte di denaro che il duca ordinava, mostrando però sempre buona dose di adulazione quando soggiunge: «se V. S. fosse in questa terra, non seriano queste cose» (pag. 8).

Da un'Orsolina di villa san Vitale ebbe l'Ariosto in questo tempo l'altro figlio naturale per nome Virginio che fu legittimato nel 1520 e in più valido modo nel 1530. Fu molto amato dal padre che lungamente lo tenne presso di sè, l'istruì con sollecitudine nel latino, poi lo mandò allo studio di Padova ad apprendere il greco, raccomandandolo al Bembo colla lettera del 23 febbraio 1521 (pag. 282) e colla Satira VII.

Il 16 dicembre l'Ariosto fu inviato di bel nuovo a Roma con molta fretta, mutando ognora vetture e con pericolo di affogarsi per le acque cresciute fin su le ripe de' fiumi, affinchè chiedesse soccorso al papa contro la flotta che i Veneziani avevano spinta sul Po a danno del duca: «Poi nè cavalli bisognàr nè fanti»[40], giungendogli la notizia della vittoria che ne ebbero sei giorni dopo le armi del duca dirette dal cardinale, come dalla lettera che pubblichiamo in data 25 dicembre 1509 (pag. 9-11). La qual lettera ha la speciale importanza (di cui non s'accorse il Tiraboschi, che pur la vide e la cita) di farci conoscere che il Furioso poteva dirsi allora condotto al suo termine, quantunque non completato, poichè in essa si dice che il poeta averà istoria da dipingere a nuova laude del cardinale nel padiglione ove [xxxix] succedono le nozze di Ruggero e Bradamante, che formano il soggetto finale del poema; padiglione che porta figurate e dipinte la nascita e le imprese d'Ippolito d'Este. Ora se questo semplice cenno fu tenuto sufficiente per farsi comprendere dal cardinale, è da inferire che questi avesse già piena conoscenza del poema; come altresì è da inferire che provasse compiacenza delle lodi a lui profuse, se l'Ariosto si diede premura di annunciargli la nuova occasione di accrescerle, come infatti troviamo aver fatto colla stanza 97 introdotta nell'ultimo canto in cui dipinge la vittoria sulla flotta veneta, «la quale tanto più fu onorata e memoranda quanto manco si è inteso che alcuno imperatore o capitano, stando in terra, abbia mai presa armata in acqua»[41]. — Ma noi vedremo più avanti qual fosse la ricompensa serbata alle gentili sollecitudini del poeta.

Avvenuta nel febbraio 1510 la morte del cardinale Cesarini abate commendatario di Nonantola (il quale pochi mesi prima erasi portato a quell'abbazia per accomodare alcune differenze d'investiture scadute e che fu colà dall'Ariosto visitato, pag. 5), il cardinale Ippolito, insaziabile di benefizi ecclesiastici, corse a Nonantola e nel 5 marzo sforzò que' monaci, che in numero solamente di sei ne formavano l'intiero capitolo, ad eleggerlo commendatario. Del quale arbitrio arditissimo sdegnossi altamente Giulio II, dicendo che il cardinale d'Este «voleva suscitare una prammatica al modo di Francia», e minacciò di fargli contro [xl] un grande processo. Ad allontanar la procella e trovar modo che restasse al cardinale l'agognata abbazìa, fu spedito per la terza volta l'Ariosto a Roma, raccomandato colla lettera che produciamo a pag. 305, da doversi intendere diretta al vescovo d'Adria Beltrando Costabili, il quale nel 25 maggio scriveva al cardinale Ippolito: «Ieri giunse mess. Ludovico Ariosto, e dipoi desinare lo introdussi a Nostro Signore, al quale espose quanto egli avea commissione molto accomodatamente, e parse che Sua Santità accettasse la giustificazione di V. Rev. Sig., ma circa a darli l'abbazìa non si risolse altramente, come più appieno quella intenderà per lettere di esso mess. Lodovico». Consisteva la giustificazione nel dar tutta la colpa ai poveri monaci, mostrando che avessero eletto il cardinale di loro libera volontà, e tentando ricuperare il diritto che un tempo avevano di farlo, e che poi si volle serbato al pontefice. Il Tiraboschi nella sua Storia della Badìa di Nonantola tace che il cardinale esercitasse in ciò alcuna pressione, e aggiunge solo che i monaci sperarono forse che il cardinale sostenuto dal duca suo fratello potesse render valida ed efficace l'elezione. Ma il papa ebbe nuove informazioni che confermarono in colpa il cardinale, come si dimostra dalla lettera del Costabili 10 giugno 1510 (Docum. VI), e nominò abate Gio. Matteo Sertorio modenese suo cameriere segreto.

I felici successi de' Francesi in Italia fecero temere al papa che potessero valere ad estendere di troppo il loro dominio fra noi, e perciò ritiratosi dalla lega di Cambrai, dopo aver ricuperato alcune [xli] terre della Chiesa, si unì alla Repubblica di Venezia dichiarando che voleva liberare l'Italia dal giogo straniero, chiamando però altri stranieri in aiuto. L'8 giugno 1510 fece intimare al duca di Ferrara, come suo feudatario, di non molestare i Veneziani, di separarsi dai Francesi e di non fabbricare più sale in Comacchio a pregiudizio delle saline di Cervia ritornate al papa. E perchè il duca stimò di maggior interesse rimanere nell'alleanza di Francia, il papa lo fulminò il 9 agosto di una scomunica estendibile a qualunque gli porgesse aiuto e che lo dichiarava decaduto; «con tutta l'altra serie (dice il Muratori) di maledizioni e pene spirituali e temporali e parole pregnanti, che inventate contro i più perversi eretici passarono poi in uso per sostenere i fini politici contro de' cattolici»[42]. Al cardinale Ippolito fu pure intimato di portarsi immediatamente a Roma, sotto pena della perdita de' suoi beni ecclesiastici.

Fu giuoco forza che il cardinale abbandonasse il fratello e s'incamminasse a Roma, o almeno alla volta di quella, in segno di obbedienza. Giunto a Modena, munì l'Ariosto di sua credenziale al papa, nella quale, esponendo risentirsi di un vecchio malore [xlii] in una gamba, chiedea dilazione che gli permettesse di fare il viaggio a piccole riprese: e raccomandando specialmente all'Ariosto di procurargli un salvocondotto per tranquillizzarsi del timore di vedersi posto in prigione a motivo dell'odio di cui insieme col duca si vedea fatto segno, lo mosse a portarsi in gran fretta e per la quarta volta nella metropoli del mondo. — Fu detto che messer Lodovico non rinvenne il papa a Roma, ma in una sua villa di delizie presso il mare; che forse non ottenne udienza o l'ebbe brevissima e tutta spirante sdegno e minaccia, e che Giulio II volle far gittare in mare l'Ariosto, il quale a stento potè salvarsi fuggendo e temendo sempre di essere inseguito[43]. Una lettera di Benedetto Fantini segretario del cardinale narra invece che il poeta trovò il pontefice in Castello a Roma, che ottenne tosto udienza, e, quel che più muove interesse, riporta il dialogo passato fra i due illustri personaggi (Doc. VII). Messer Lodovico parlò arditamente in favore del suo principale più che non parrebbe convenirsi di fronte all'altiera e collerica natura di Giulio II; e sebbene quest'ultimo rifiutasse di prorogare per iscritto il termine assegnato nel monitorio e di rilasciare il salvocondotto richiesto, diede però a voce assicurazioni tali in proposito da poter credere che l'Ariosto giunse «A calmar la grand'ira di Secondo», per servirmi delle sue stesse parole (Sat. II). Ma la lettera del Fantini, la quale manca della seconda metà del foglio, non esclude [xliii] che seguitasse a narrare essersi l'udienza risoluta da parte del papa in uno scoppio d'ira per ulteriori insistenze dell'Ariosto: come infatti rileviamo da una lettera del cardinale Ippolito in data di Massa, ultimo d'agosto 1510, diretta ad altro cardinale non indicato nella minuta che si conserva in quest'Archivio di Stato, ove leggesi che il gentiluomo (l'Ariosto) mandato come terzo messaggio al papa per una proroga a presentarsi in Roma, «non solamente potette avere grazia o conclusione alcuna da Sua Santità, ma fu minacciato d'essere buttato in fiume se non se le toleva denante, et di fare il simile a ciaschedun altro delli miei che se li appresentasse, soggiungendo, se non andassi a Roma, me privaria de li beneficj et del cappello»; e concludeva col raccomandare la sua causa a quel cardinale[44]. — Da Modena per altro, avanti di partire per Massa (chè voleva sempre mostrarsi in viaggio) scrisse al vescovo Costabili ch'era allora in Firenze di trovargli casa in quella città ove intendeva fermarsi per quindici giorni, e il vescovo rispondendo di averlo fatto, aggiungeva: «però con questi uomini, quali guardano al suo avvantaggio, non si è potuto venire a conclusione se non con il condurla per due mesi. Ma se la S. V. Ill. anderà di lungo a Roma, non gli sarà altro incomodo che la spesa, la quale non credo gli gravi; e avendo mandato quella mess. Lodovico Ariosto innanti, non si potrà giudicare altro che la [xliv] sia per andare: quando ancora la non andasse, non sarà che avere la casa a suo piacere e comodo». Il cardinale si portò infatti a Firenze; ed essendo sui primi di settembre caduto di cavallo, soffrendone qualche lesione, n'ebbe scusa sufficiente a non proseguire il viaggio per Roma. Il Muratori dice che la caduta fu una finzione[45]; e tale a noi pure sembrerebbe, se, a lode del vero, non avessimo trovata una lettera del duca, 9 settem. 1510 (Doc. VIII), che ricorda questa lieve caduta. Ottenne quindi di rimanere a Firenze ove di continuo scriveva al duca delle lettere in cifra. Avendo poi avuto il buon senno di non aderire agli inviti di alcuni cardinali scismatici che allora trovavansi in Toscana, prese motivo di allontanarsene, e si trasferì a Parma. Ne diè avviso al cardinale di Pavia legato pontificio in Bologna che lodò la prudente risoluzione del cardinale Ippolito, giudicandola meritevole di tornarlo in grazia del papa; ed egli trovandosi più vicino agli Stati di suo fratello, andò più volte a visitarlo celato sotto un'armatura[46] per concertare una forte difesa.

Il papa aveva intanto cominciata la guerra contro il duca, togliendogli le sue terre di Romagna, occupandogli Modena ed altre città, mentre i Veneti minacciavano di ripigliare il Polesine. Molti cittadini di Ferrara erano corsi nella stretta del grave bisogno [xlv] ad accrescere le fila dei soldati del duca Alfonso: lo stesso poeta, sempre bramoso di quanto promettevagli onore, volle imitar l'esempio di tre altri della famiglia Ariosto[47], e militò nella compagnia comandata dal principe Enea Pio di Carpi, come vedesi dalle due lettere scritte da Reggio nell'ottobre del 1510 al cardinale in Parma (pag. 12 e 14), che anche in questa guerra poteva dirsi di ogni cosa ministro. Ed essendo riescito al duca nel 24 settembre un vantaggioso fatto d'arme alla Polesella, con ricacciare i Veneziani che pur tornavano a molestarlo (Docum. IX), fu in tale occasione che probabilmente si distinse il nostro Lodovico, impadronendosi, come si narra, di una ricca nave nemica sul Po[48].

L'esercito della Chiesa guidato dal duca d'Urbino Francesco Maria della Rovere, nipote del papa, minacciava di un prossimo assedio Ferrara. Cresceva il pericolo aspettandosi da un momento all'altro la resa della Mirandola che Giulio II braveggiando e imprecando stava in persona ad espugnare: perciò invitati i Ferraresi d'ogni ceto e condizione, uomini e donne, preti e frati (non occupati causa l'interdetto ai luoghi sacri) di afforzare con terrapieni le mura della città, postisi tutti al lavoro, questi ripari furono [xlvi] con nobile gara nel dicembre del 1510 condotti a termine[49].

Fecesi una notte dagli uomini d'arme del papa il tentativo di avere una porta della città; ma il duca fu prima avvertito della cosa, e vennero respinti. Anche Gio. Giacomo Trivulzio erasi portato coll'esercito francese in Mantova pronto ad accorrere in aiuto di Alfonso I, che a tale oggetto aveva pagato al re di Francia trentamila scudi d'oro. Perciò il papa abbandonò per allora l'impresa di Ferrara, e avuta in gennaio del 1511 la Mirandola, si ritirò col suo esercito a Bologna, indi a Ravenna, causa le mosse vittoriose del Trivulzio.

Verso la fine del 1511 troviamo l'Ariosto in Ferrara che con lettera accompagna a Giovanni de' Medici legato di Bologna, che poi fu papa, un suo vecchio congiunto arciprete di sant'Agata che voleva rinunciargli la sopravvivenza al proprio beneficio (pag. 20), quantunque Lodovico con azione veramente generosa e amorevole, a quanto ci narra nella Satira I (e tutte sette le Satire fanno conoscere la bontà dell'animo suo), avesse desiderato preferirsi il fratello Galasso o l'altro per nome Alessandro, che «dalla chierca [xlvii] non abborre»; mentr'egli schivo di lasciarsi legare da stole od anella, doveva chiedere al Medici una bolla che lo dispensasse colle più ampie clausole dagli ordini sacri. — Ma Lodovico non andò poi affatto esente da questi legami, potendosi dire piuttosto che li ebbe entrambi ad un tempo.

Si avvicendavano intanto i successi della guerra, ora in vantaggio ora in danno del duca Alfonso, che presso gli Strozzi di Firenze per accattar denaro avea dovuto impegnare le gioie ed ogni oggetto prezioso di casa, riducendosi a mangiare in piatti di maiolica fabbricati da lui, allorchè l'11 aprile 1512 avvenne la sanguinosa battaglia di Ravenna in cui Alfonso I governava l'antiguardia. Fu grande l'impeto de' valorosi Francesi comandati dal prode Gastone di Foix, grande la fermezza nel ributtarli de' gagliardi Spagnuoli capitanati dal vicerè di Napoli Raimondo di Cardona, incerta per ambe le parti la vittoria, che infine si decise a favor dei Francesi. Il duca Alfonso influì non poco a tal esito, avendo saputo cogliere una favorevole posizione dalla quale fulminava di fianco a colpi sicuri i nemici costretti a passar vicino alle bocche delle sue micidiali artiglierie per accorrere al soccorso delle squadre perdenti. Azzuffatisi i due eserciti corpo a corpo, le milizie del duca chiesero se dovevano cessare da un fuoco che poteva ad un tempo far strage di Spagnuoli e Francesi, ed egli rispose: Tirate senza timor di fallare, chè sono tutti nemici nostri; e perciò i morti si fanno ascendere in quella tremenda giornata a diciottomila, metà circa per parte, tra gente di Spagna, di Francia, [xlviii] d'Italia e della Svizzera, a causa specialmente della numerosa artiglieria del duca di Ferrara, il quale fu detto usasse di due cavalli da guerra avvezzati a scagliarsi di salto sopra i nemici e ucciderli a calci! L'animoso petto di Gastone di Foix, non potendo tollerare che li Spagnuoli si ritirassero in ordinanza, gli inseguì con furore; ma rintuzzato di forza, cadde trafitto, e con lui rimase spento anche il fiore de' capitani Francesi. — Se Lodovico Ariosto non fu presente a questa battaglia, v'accorse subito dopo, dicendoci di aver vedute le campagne rosse del sangue barbaro e latino, e per molte miglia il suolo così coperto di morti, che senza premerli non concedeva il cammino. Fu però presente al sacco che il giorno dopo si diede alla miseranda città di Ravenna, ove dai vincitori uscirono crudeltà tali da empiere il mondo d'orrore[50].

Quest'amarissima vittoria indebolì siffattamente l'esercito francese per la perdita dei capi, che il duca cominciò presto ad accorgersi che su di esso non potrebbe più a lungo fondar speranze d'aiuto. Ascoltò quindi i consigli di Fabrizio Colonna (ch'egli avea fatto prigioniero di guerra, ma che teneva a Ferrara come amico), e volle tentare di riconciliarsi col papa[51]. Per gli offici del marchese di Mantova di [xlix] lui cognato e per quelli del Colonna ottenne un salvocondotto per trasferirsi a Roma. Il duca partì da Ferrara il 23 di giugno 1512, dopo aver rimessi in libertà i Veneziani che teneva prigioni, e dopo aver mandato avanti Fabrizio Colonna a disporgli accoglienze favorevoli. Giunse in Roma il 4 luglio, in compagnia dell'Ariosto (se pure non lo raggiunse dopo), e il papa gioì di vedere il suo nemico prostrarsegli dinanzi e baciargli i piedi. L'esame delle differenze fu rimesso a sei cardinali che furono favorevoli al duca: ma il papa voleva ad ogni modo Ferrara, e gli propose in cambio la città d'Asti tolta allora ai Francesi, chiedendo ancora gli fossero rilasciati i due prigionieri don Ferrante e don Giulio. Il duca rifiutò di cedere Ferrara e i fratelli!... Giulio II amava don Ferrante che aveva tenuto a battesimo, e bramava poterlo togliere di pena. A quest'ultimo impreveduto rifiuto inorridì dubitando che il duca l'avesse fatto uccidere di nascosto; e qui l'ira, a lui sempre sì facile, scoppiò fieramente. Il duca assicurò che don Ferrante era vivo, ma ripetè perfidiando che non l'avrebbe ceduto, lagnandosi pure che contro la fede del salvocondotto gli fossero state nel frattempo occupate alcune città; e, com'era prevedibile, [l] si lasciarono più nemici di prima. Sul capo del duca rumoreggiava la tempesta, e giunto al suo alloggio scrisse il 17 luglio al cardinale Ippolito col falso indirizzo Ad Alessandro di Cremona la lettera in cifra di cui si pubblica la traduzione, nella quale con animo di inesorabile crudeltà sembra compiacersi di non aver voluto gratificarsi il papa nemmeno col cedere i due fratelli prigioni, e specialmente don Ferrante (Docum. X). Il papa dal canto suo voleva vincerla sul duca a qualunque costo, e non ebbe riguardo a dar ordine che fosse arrestato, facendo prima raddoppiare le guardie alle porte di Roma e così impedirgli una fuga. Seppelo il cardinale d'Aragona che in segreto lo riferì ai Colonna; ed essi a ricompensare il duca «d'aver serbato il suo Fabrizio a Roma»[52] lo travestirono in mezzo a buona mano di armati, sforzarono la porta di San Giovanni e lo trassero a salvamento fuori della città, nascondendolo nel loro castello di Marino. Come il papa lo seppe arse di sdegno, fecelo inseguire d'ogni parte, ma inutilmente: volle almeno vendicarsi su quelli del suo corteggio; e non trovando che il conte Lorenzo Strozzi, lo fece imprigionare: gli altri erano stati avvertiti e fuggirono in tempo. Dodici muli furono presi nel bosco di Baccano carichi de' bauli del duca: ma i bauli, a derisione, eran vuoti, essendosi le robe occultate in diversi monasteri. Tre mesi circa restò il duca nascosto finchè Prospero Colonna venendo in Lombardia con [li] duecento uomini d'arme per unirsi a Raimondo di Cardona il prese con sè or sotto l'abito di cacciatore, or di famiglio, or di frate, e così potè deludere la vigilanza di Antonio della Sassetta che il papa aveva messo fra que' soldati per iscoprirlo. Dovendo poi il duca dividersi dal Colonna, per trovarsi soltanto in compagnia dell'Ariosto, narra questi in una lettera del primo ottobre scritta appena giunto in Firenze, che sembravagli d'essere uscito allora delle latebre e de' lustri delle fiere, ormato in caccia dai levrieri (del papa), e di aver passata la notte antecedente in una casetta di soccorso col nobile mascherato, l'orecchio intento e il cuore in soprassalto (pag. 23). Così finirono le paure sofferte, e il 7 ottobre il duca passò per Castelnovo[53], quindi muovendo dalla strada di san Pellegrino arrivò il 14 dello stesso mese felicemente a Ferrara.

Il gran concetto di Giulio II di cacciare i barbari d'Italia pareva tradursi ad effetto, giacchè i Francesi incalzati dagli Svizzeri dovettero ripassare i confini: e il papa gloriandosi d'essersi tolto dal collo il più forte nemico, sebbene con armi esterne, lo schernì un giorno il cardinale Grimani, osservando che il regno di Napoli, così ricca e importante parte della penisola, rimaneva pur sempre in potere degli Spagnuoli. Per le quali parole l'animoso pontefice, alzato il bastone su cui sosteneva il cadente fianco e percuotendo con forza lo spazzo, gridò che, Dio concedente, anche [lii] quei popoli avrebbero presto imitato il glorioso esempio degli altri[54].

Il cardinale Ippolito, rimasto nell'assenza del duca suo fratello al governo dello Stato, aveva dovuto perdere Reggio, Brescello, Carpi (ov'era tornato Alberto Pio), Cento, la Pieve e le terre di Romagna, e così depositare in mano del Vit-Furst, che fu mandato governatore Cesareo in Modena, anche S. Felice e Rubiera. Già i Lucchesi approfittando del momento favorevole si erano impadroniti della Garfagnana: già il duca prevedeva l'ultima ruina della tanto agognata Ferrara che sola rimanevagli in potere, e dove teneva concentrate tutte le sue forze per farne gagliardo contrasto, quando nel 21 febbraio 1515 Giulio II morì.

L'11 marzo Giovanni de' Medici veniva eletto papa col nome di Leone X. L'Ariosto eragli stato amico, e più volte avendo udito ripetergli in Firenze e in Bologna che non farebbe differenza tra lui e il suo stesso fratello, corse a Roma in abito di staffetta anche a nome del duca di Ferrara. Leone X mostrò di udire assai volentieri le parole di omaggio e congratulazione che gli venivano profferte; prese per mano l'Ariosto, gli baciò ambe le gote (Satira IV); ma essendo di cortissima vista, e sdegnando allora di portare l'occhiale, mal potè ravvisarlo: così gli altri amici del poeta, divenuti grandi nuovamente, desiderosi d'imitare il santo padre, mostrarono quasi di [liii] non vederlo! (pag. 24). Si fermò Lodovico a Roma all'incoronazione del papa: ma non essendogli stato offerto alcun posto vantaggioso, com'egli se ne lusingava, lasciò Roma non avendo ottenuto che l'esenzione della metà della tassa alla bolla occorrente per succedere allo zio nel benefizio di sant'Agata!

Nel ritorno passò per Firenze e accadendovi le feste di San Giovanni sentì vaghezza di fermarvisi a conforto dello spirito amareggiato dal disinganno di Roma. In Firenze incontrò Alessandra Benucci rimasta vedova da poco tempo di Tito Strozzi di Ferrara, e quella beltà che non eragli nè peregrina nè nova lo innamorò sommamente. Di que' spettacoli tenne poco ricordo, e poco gliene calse:

Sol gli restò immortale

Memoria ch'ei non vide in tutta quella

Bella città di lei cosa più bella[55].

E la Benucci accolse e gradì l'amore del poeta, riempì degnamente il vuoto ch'egli aveva nel cuore, gli fu dolce stimolo a completare il suo poema che aveva bisogno di grande opera, nè era limato nè fornito ancora (pag. 22); ed anzi fu detto ch'ella esigesse ogni mese un canto ricorretto del Furioso. L'Ariosto si trattenne in Firenze quasi due mesi nella diletta compagnia della donna amata, ne' cui begli occhi e nel sereno viso andava errando il suo ingegno, ch'egli, vestendo immagini colle grazie d'Anacreonte, chiedeva di poterlo raccogliere colle labbra[56].

[liv]

Verso la fine del 1513 essendosi il cardinale Ippolito ridotto a Ferrara, anche l'Ariosto fu obbligato a seguirlo, e così fece poco dopo la Benucci. Ivi terminò di rivedere il suo poema, che nel 1515 cominciò a stamparsi da Giovanni Mazzocco del Bondeno, con essere colà pubblicato il 22 aprile del 1516 in 40 canti; avendo prima chiesto e ottenuto privilegi che lo guarentissero da ristampe arbitrarie. Ne mandò subito un esemplare al cardinale cui era dedicato e che allora trovavasi a Roma: e quando al ritorno del medesimo a Ferrara, che fu il 7 giugno[57], aspettavasi ringraziamenti e favori per averlo sì altamente celebrato con tutti quelli di casa d'Este, udì invece chiedersi dal cardinale: Messer Lodovico, dove mai avete trovato tante corbellerie? Le quali parole, se pur furono veramente pronunziate, come passarono in tradizione, non possono ritenersi dirette che in via di scherzo, e per ostentare noncuranza delle lodi a lui prodigate: poichè sappiamo che il cardinale aveva cognizione del poema avanti che andasse alla stampa[58], la cui spesa sarebbe stata da lui assunta, come sembra apparire dalla lettera scritta al cognato marchese di Mantova in data 17 settembre 1515 nella [lv] quale chiede di poter estrarre da Salò nientemeno che mille risme di carta esenti da dazio per farne l'edizione[59]. È però indubitabile che il poco grato mecenate, se intendevasi di matematica e filosofia, non aveva certo alcun gusto poetico, avendo detto all'Ariosto che non faceva degni di mercede gli elogi datigli a piacere e in ozio, e che avrebbe preferito fossegli stato appresso per adempiere alle commissioni che a lui piacesse affidargli. Di che il poeta risentitosi, séguita nella Satira II a lamentarsi del cardinale, che dopo averlo mandato tante volte a correre in fretta per monti e balze a scherzar colla morte, mostra poco apprezzarlo, non sapendo smembrar starne in aria sulla forchetta, mettere il guinzaglio a' cani e sparvieri, nè potendo adattarsi a porre o cavar speroni, ch'erano i servigi riconosciuti dal suo signore. Lamenti forse alquanto esagerati, se pur fu vero che il cardinale facesse a tutte sue spese l'edizione prima del Furioso, o non avesse soltanto procurata l'esenzione del dazio della carta di cui occorsero sole duecento risme; conoscendosi ancora che tanto il cardinale quanto il duca Alfonso acquistarono parecchi esemplari del poema.

L'anno dopo il cardinale chiese a messer Lodovico di seguirlo in Ungheria. Addusse egli motivi giusti di salute (catarro e debolezza abituale di stomaco) che [lvi] non permettevangli d'intraprendere un lungo viaggio, nè affrontare un cambiamento di clima che poteva riescirgli funesto; come fu anche dichiarato dal Valentini modenese medico dello stesso cardinale. Queste ragioni non furono ammesse: ma persistendo l'Ariosto nel suo rifiuto a partire, anche per fare un'ammenda della soverchia servilità del passato, il cardinale se ne adontò, commettendo l'imperdonabile risoluzione di congedarlo da sè, togliendogli ogni assegno, sino a due beneficî ecclesiastici che gli avea procurato, e dei quali volle fatta rinunzia a favore di altri suoi famigliari designati da lui. Dovette solo conservargli quello su la cancelleria di Milano perchè in società col Costabili di Ferrara, e perchè pochi mesi prima aveva scritto a Ruffino Berlinghieri suo vicario in Milano[60] le lettere in favore dell'Ariosto da noi riportate a pag. 306, 307. — D'allora in poi Lodovico non comparve più innanzi al cardinale, che mostrò averlo in dispetto, mentre il nostro poeta sempre buono e cortese, ad onta dell'ingratitudine sofferta, continuava ad offrirsi al suo primo signore per servirlo «di càlamo e d'inchiostro in Ferrara, ove con chiara tromba farebbe sonar alto il suo nome» (Satira II); dubitando quasi di non aver detto abbastanza per appagarne l'orgoglio! Al novembre del 1517 l'Ariosto pensò di trasferirsi a Roma per assicurarsi con una bolla papale, or che [lvii] mancavagli il favore del cardinale d'Este, i beneficî di Milano e sant'Agata (Satira I), tentando ancora di procacciarsi altrove un impiego, poichè vedevasi negletto a Ferrara. Di ciò fu avvertito il duca Alfonso, il quale riflettendo all'enorme vergogna che sarebbe derivata alla casa d'Este col permettere che il poeta che l'aveva sì altamente celebrata si trovasse costretto a chieder servigio presso altra corte, lo nominò il 23 aprile 1518 fra' suoi famigliari coll'assegno di otto scudi al mese, oltre il vitto per tre domestici e due cavalli.

Alfonso I, che in parte abbiamo imparato a conoscere, nacque il 21 luglio 1476 da Ercole I ed Eleonora d'Aragona. «Fu piuttosto maninconico e severo che lieto e giocondo.... si dilettò d'aver cognizione di tutte quelle cose che non solamente a S. Signoria, ma anco a private persone son convenienti.... e della maggior parte di quelle arti, che sono ad uso e necessità degli uomini, sapea più che mezzanamente parlare, e di molte eziandio di propria mano lavorare, non mediocre nè volgarmente; delle quali, sendo poi anco duca, si prese spasso ed esercizio.... Ebbe profondissimo giudicio di artiglieria, e fu inventore di nuove forme di essa a farle più comode e più perfette che fin al tempo suo state non erano; e fecene fare gran quantitade»[61]. l'imperatore Napoleone III [lviii] conferma questo merito di Alfonso «nell'aver dato opera ad un'artiglieria stupendamente mobile ed efficace»[62], con riportare un brano delle Memorie di Fleurange, che in due armerie vide circa trecento grossi cannoni appartenenti al duca, ove dice «non trovarsi tra suoi maestri di getto chi operasse meglio di lui». E mostrossi pure appassionato ed esperto in adoperarli, come abbiam veduto alla battaglia di Ravenna, e come troviamo che fece all'espugnazione di Legnago, scrivendo il primo di giugno 1510 al fratello cardinale, ch'egli era diventato cannoniero vero, che i suoi cannoni tiravano benissimo con il diavolo da 35 a 40 colpi il giorno (risultato assai raro in que' tempi), e che se non avesse sentito affanno per la notizia allora giuntagli della pace conclusa dal papa coi Veneziani, rompendo la lega di Francia, mai sarebbe stato più contento (Doc. XI)[63].

[lix]

Nel 1491 Alfonso si unì in matrimonio con Anna Sforza sorella del duca di Milano, e a festeggiare per tre giorni queste nozze in Ferrara fu ripetuta nella sera del 13 febbraio la commedia de' Menecmi di Plauto, «con tanto modo et gratia, che da tutti fu commendata.... e il fine della commedia fu, che essendosi riconosciuti Menechino et il fratello, e volendo ritornare con lui a casa, esso Menechino fece mettere alla crida tutti li soi beni, dicendo volerli dare per 1700 onze d'oro, con la moglie sopra il prezzo», come rileviamo da una lettera al duca di Milano scritta il giorno successivo da Ermes Maria Sforza e da Gio. Francesco Sanseverino i quali accompagnarono con altri 200 fra gentiluomini e cortigiani la sposa a Ferrara[64], e la sera dopo fu recitato anche [lx] l'Anfitrione tradotto da Plauto, con intermezzi in ambe le commedie di danze, canti ecc.

Anna Sforza morì di parto nel 1497 senza lasciar prole; e poichè Alfonso nell'agosto 1500, in cui Lucrezia Borgia restò vedova, non erasi ancora determinato a riprender moglie, Alessandro VI, che sempre pensava a più illustri nozze per la figliuola, incaricò il cardinale Ferrari modenese di scrivere al duca Ercole (18 febbraio 1501) e proporgli la mano di Lucrezia pel principe ereditario di Ferrara. Il duca se ne adontò e diede un assoluto rifiuto, essendosi altresì manifestata la maggior ripugnanza da parte di Alfonso e di tutta la famiglia d'Este. Ma il papa, ottenuto pure l'appoggio del re di Francia, insistette tanto col far conoscere i grandi vantaggi di tale unione e i danni che verrebbero dal ricusarla, che riescì a vincere la contrarietà del duca: il quale riguardando queste nozze come un ottimo affare di Stato, pose innanzi delle alte pretese, che vennero quasi tutte accettate.

Un corteo guidato dal cardinale Ippolito d'Este composto di un'eletta cavalcata di 500 persone per andare a pigliare la sposa uscì da Ferrara il 9 dicembre 1501 e giunse a Roma il 23 detto mese, accolto colle maggiori dimostrazioni d'onore. Roma era tutta in festa, avendo il papa ordinato che da quel dì incominciasse il carnevale, e ne' seguenti furono dati spettacoli intesi ad esaltare le due congiunte famiglie Borgia ed Este. Il penultimo giorno dell'anno fu ripetuta in Vaticano d'ordine del papa la cerimonia dell'anello che don Ferrante a nome del fratello pose [lxi] in dito alla sposa, stando il papa sul trono e avendo intorno 13 cardinali e il figlio Cesare.

Lucrezia nel colmo della contentezza, dopo aver ottenuto dal papa quelle grazie che il duca Ercole fece chiedere col di lei mezzo[65], impaziente di abbandonar Roma, partì il 6 gennaio 1502 con un corteo da regina, accompagnata sino a porta del Popolo da tutti i cardinali, ambasciatori e magistrati, e giunse la sera del 31 detto mese al castello Bentivoglio sul bolognese a 20 miglia da Ferrara. Colà ebbe la grata sorpresa d'incontrarsi col marito Alfonso che le si presentò travestito, e trattenutosi alquanto con lei, ripartì nella stessa sera. La Borgia fece la sua solenne entrata il 2 febbraio in Ferrara ove le feste nuziali si protrassero con banchetti, balli e rappresentazioni teatrali per sei giorni[66], e fra i poeti che fecero omaggio de' loro versi alla sposa, anche l'Ariosto le offerse un epitalamio[67].

Quantunque Alfonso negasse fede alle turpitudini attribuite a Lucrezia, non poteva certo mostrarsi lieto, almeno in que' primi momenti, della bella moglie che tutti ammiravano, conoscendola pur sempre di fama assai compromessa per aver avuto due altri mariti: [lxii] il primo (Giovanni Sforza signore di Pesaro) disgiunto da lei per imaginaria ed estorta dichiarazione d'impotenza, ch'ella offerivasi convalidare con giuramento; il secondo (Alfonso d'Aragona duca di Bisceglie che l'avea fatta madre d'un figlio) fatto strangolare sul proprio letto dal duca Cesare, scacciando dalla stanza Lucrezia la quale non ebbe ardire di opporsi; e perciò le accoglienze della nuova famiglia di cui veniva a far parte, riescirono «a dire il vero fredde», come si espresse la marchesana Isabella d'Este, che inoltre scriveva a Francesco Gonzaga suo marito: «La Ecc. V. non mi abbia già invidia di non esser venuta a queste nozze, perchè sono di tanta freddura, ch'io ho invidia a chi sono rimasti a Mantova»[68]. Però i vantaggi grandi che accompagnarono cotesto matrimonio[69] fecero presto dimenticare la vita passata da Lucrezia in Roma ove fu ceco strumento della ferrea volontà del fratello e del padre.

Morto Ercole I il 25 gennaio 1505, Alfonso come figlio primogenito gli successe nel dominio. Abbiam veduto i supplizi coi quali inaugurò la sua salita al [lxiii] potere e l'odio implacabile che mantenne contro i fratelli, che sono indizio di violente natura e di pessimo cuore: i fatti che veniamo narrando mostreranno altre colpe.

— Il poeta Ercole Strozzi, amico dell'Ariosto[70], era venuto in grande famigliarità e servitù con Lucrezia Borgia, che spesso lodò ne' suoi versi, per mezzo della quale sperava di poter conseguire il cappello cardinalizio: ma la notte del 6 giugno 1508 fu crudelmente assassinato e deposto morto, involto nel proprio mantello, davanti la casa che abitava[71]. Alla gelosia del duca per Lucrezia fu attribuita questa morte: però il Giovio, dicendola procurata da un personaggio di alto affare per motivo di Barbara Torello sposata di recente dallo Strozzi, e sapendosi altresì che la donna era amata e sollecitata dal duca[72], tutto induce a credere che l'assassinio venisse da lui ordinato, come ebbe a rimproverargli anche il papa, non essendosi pur fatta alcuna inquisizione per scoprire e castigare i colpevoli[73].

[lxiv]

— Un notaro bolognese per certa causa che aveva in Argenta tra un famiglio di Ercole d'Este ed un balestriere per nome Gaione, li citò a Roma, sebbene Argenta alla morte di Giulio II fosse stata ricuperata dal duca. Trovandosi Alfonso I a Migliaro, i suoi quattro consiglieri di giustizia in Ferrara credettero necessario di non lasciare impunito l'ardimento di una tale citazione che scalzava di fatto l'autorità ducale, e tradotti nelle prigioni di Ferrara il notaro e i contendenti, chiesero con lettera del 3 ottobre 1520 il parere sovrano. Rispose egli a tre ore della notte seguente al suo segretario Obizzo Remo, irritandosi e lagnandosi che non avessero data un'immediata condanna di loro arbitrio, dicendo: «l'assenza nostra serviva benissimo in proposito, perchè sempre averessimo avuto la scusa accettabile quando altri si fosse querelato di cosa che fosse stata fatta in Ferrara essendo noi lontano; e massime che, come sarìa stato vero, sarìa anco stato ben credibile che non fosse passato di nostra scienza nè commissione, essendo la cosa sì presta che non aressimo potuto avere avviso di quella citazione e mandar commissione a quel tempo: sì che ci pare che tutti abbiate errato. E perchè ci domandate mo il parer nostro di quel [lxv] che abbiate a fare, vi rispondemo che non sapemo che altro commettervi, se non che subito lasciate andare quello notario, così come l'avete fatto imprigionare, nol dovendo fare: e quando sarà lasciato, fatelo venire a voi e ditegli che subito che noi avemo inteso della sua cattura, avemo scritto che ci dispiace, e ch'ei sia liberato: benchè questo impiastro possa mal sanare lo error commesso. A quelli altri due (il famiglio e il balestriero), se ci è scusa alcuna legittima o colorata, fate che sian dati tre gran squassi di corda in piazza, e poi siano rimessi in un fondo di torre finchè loro sarà deliberato altro. Ma fate la nostra ambasciata alli compagni vostri, come è sopraddetto, con aggiunta d'un càncaro che vi venga a tutti quattro nel più brutto del corpo». Terminata appena la lettera gli dispiacque dover perdonare al notaro, e aggiunse l'iniquo poscritto che segue: «Prima che quel notario sia lasciato, mettete ordine col nostro collaterale, che trovi due o tre matti, fidati però, che lo vedano quando uscirà di prigione, per poterlo riconoscere, e poi l'abbino per spia quando se ne andrà; e in qualche loco ben comodo lo tirino da cavallo e lo strascinino per li capelli e lo schiaffeggino gagliardamente, pestandogli il volto e li occhi in modo ch'ei ne resti segnato e ne senta per un mese.... E potendo eseguir questo in loco da ciò, straccinogli tutti i panni d'addosso e lascinlo nudo: ma abbiasi avvertenza di far che quando lo vedranno uscir di castello, non siano visti da lui, acciochè poi egli non conoscesse alcun di loro in fatto». La lettera è di pugno del segretario Bonaventura Pistofilo, [lxvi] che in un brandello di carta staccata vi introdusse di nascosto queste parole dirette al Remo: «Prego la Mag. V. ed essa sarà contenta pregare per me li magnifici compagni, che mi perdonino se scrivo cosa che vi dispiaccia; chè certo l'ho scritto mal volontieri, ed anco ho scritto meno che non mi è stato commesso». — Non sappiamo come andasse a finire la scena traditrice preparata al notaro: troviam soltanto memoria che i magnifici consiglieri di giustizia restarono molto spaventati dell'ira che avevano involontariamente suscitata, e cercarono discolparsi. Il duca rispondeva: «Volemo che vi sia licito dir sempre la ragion vostra, ma noi anco volemo poter dire e scrivere a voi e alli altri quel che ci pare».

Or questo Pistofilo ci narra nella Vita di Alfonso I, ch'ei «fu amantissimo della giustizia, la quale molto costantemente e con grandissima integritade volle che fosse ministrata in tutto il suo dominio[74]», quando a nome del suo encomiato facevasi strumento per calpestare la medesima con turpitudine d'inganni e colorati pretesti che ne salvassero qualche grossolana apparenza!

— Nel 1508 Isabella vedova di Federico d'Aragona, spogliata del trono di Napoli, licenziata dalla Francia ov'erasi riparata, venne raminga a Ferrara con molti figli, e ottenne dal duca nato da un'Aragonese assegnamento e ricovero. Due figlie d'Isabella, già cresciute degli anni nelle strettezze della vita privata, [lxvii] neglette dai grandi com'è la sventura, non potendo aspirare nella posizione in cui erano cadute ad illustri nozze, si posero ad amoreggiare l'una con un mercante, l'altra con un Pugliese nominato Ferrante. Il duca venne presto a saperlo, e si lagnò di questo grande disordine col loro maggior fratello don Ferrante che era in Ispagna, scrivendogli il 9 maggio 1525 e proponendo gravissimi castighi, unicamente per evitare il pericolo di qualche scandalo vergognoso. Ritardando la risposta, spediva il 18 luglio altra lettera in duplicato esemplare, confessando che aveva più d'una volta pensato di far strangolare i due giovani innamorati e far chiuder le donne in separati conventi, ma che aveva con forzata pazienza voluto aspettare gli ordini del fratello da eseguirsi contro tutti, de' quali sarebbe stato fedele e severo esecutore. — Speriamo che don Ferrante si sarà contentato che i due giovani fossero allontanati da Ferrara, e che avrà riconosciute le sorelle degne di compatimento. — Più tardi il duca si mostrò molto sollecito in procurare che una di queste Aragonesi per nome Giulia facesse un matrimonio che secondava le sue viste col marchese di Monferrato. Ma l'infelice principessa pochi giorni dopo le nozze celebrate in Ferrara videsi spento il marito di veleno; poichè essendo egli l'ultimo dell'illustre famiglia Paleologa e mancando senza figli, il Monferrato doveva passare sotto il dominio del marchese di Mantova cognato di Alfonso I. L'ex regina Isabella, che costretta a vivere di una sprezzante elemosina era divenuta pia sollevando il cuore all'altezza del sacrificio, provò [lxviii] tanto orrore di questo delitto di avvelenamento che la condusse fra non molto alla tomba. Prima di morire aveva raccomandato con lettere al figlio suo primogenito le disgraziate sorelle, ed egli che allora trovavasi governatore in Granata le chiamò presso di sè, liberando il duca dal pensiero di cercare alle medesime altre ragguardevoli nozze.

Non aggiungeremo nuovi fatti, ritenendo gli esposti anche di troppo valevoli a farci conoscere il carattere del duca, che certamente non fu il migliore di tutti i suoi fratelli, senza parlare di don Sigismondo morto nel 1524, «perchè essendo stroppiato dal mal francese, poco potè adoperarsi in mostrar suo valore»[75].

Alla morte di Giulio II il duca erasi affrettato al tempo della sede vacante di ricuperare le sue terre di Romagna e la Garfagnana, ma dovette presto desistere udendo l'elezione di Leone X, per non compromettersi col novello papa, «che essendo cardinale avea così ben dissimulato che era creduto mezzo santo; ma riuscì poi tutto il contrario. Il detto duca andò a Roma alla sua coronazione e tornossene a Ferrara assoluto dal monitorio di papa Giulio, con un'amplissima bolla di papa Leone che gli promise molto ed osservò poco»[76]. — Trattava il duca coll'offerta di qualche somma di riaver Modena dall'imperatore Massimiliano, cui era stata consegnata, «il quale per [lxix] essere nello spendere troppo profluso avrìa venduto poco manco ch'io non dico i denti per aver denari». Il papa sotto colore di agevolare il negozio accettò Modena in suo nome, sborsò quarantamila ducati all'imperatore, e fece formale promessa di restituirla al duca entro certo tempo a fronte del rimborso della somma pagata: «Non scrivo il termine prefisso a redimerla perchè il predetto duca mio Signore mai non lo potè sapere: chè se ben fu detto che era X anni, la copia dello strumento celebrato sopra ciò avea vacuo il luogo nel quale doveva essere dichiarato esso tempo!»[77]. Anche «il card. Ippolito stando in Roma, ottenne dal papa un breve per la restituzione di Reggio fra cinque mesi, con che il duca cessasse di fare il sale in Comacchio. Il duca mantenne la promessa; ma il papa in mille modi sempre l'ingannò»[78], fino a fargli depositare nelle mani dell'imperatore i quarantamila ducati del prezzo di Modena; senza poter però avere nè l'una, nè l'altra città. Nel 1518 il duca andò a Parigi a prestar omaggio al re Francesco nell'alleanza che questi fece col re d'Inghilterra e così implorare più validi uffici all'adempimento delle promesse del papa, ritornando a Ferrara il 20 febbr. 1519. Era in Parigi quando Raffaello Sanzio vi spedì il ritratto di Giovanna d'Aragona uscito dallo studio di lui; e il duca ne provò tale soddisfazione, che in data 29 dicembre 1518 ordinava al suo segretario [lxx] Obizzo Remo: «Scrivete a Roma a Monsig. d'Adria che faccia sollecitare la mia pittura che fa Raffael da Urbino[79], e che o per il Paulucci o per altri faccia parlare ad esso Raffael, e dirgli che noi desideriamo d'aver il cartone di quella pittura che esso ha mandato qua al Rev. Legato, su la quale è ritratta la signora viceregina di Napoli, e che avendolo ci farà piacere gratissimo a donarcelo: circa che usi il prefato Mons. quella maniera e mezzo che pare a S. S.ria alla quale reputiamo che basti far noto il nostro appetito, conoscendo la prudenza e desterità di Sua Sig.».

Il 24 giugno 1519 in età d'anni 41 morì per conseguenza di un aborto Lucrezia Borgia[80]. Narrano gli storici di casa d'Este, ch'ella «lasciate le mondane pompe.... impiegava la mattina in orazioni» e che venendo a marito e trovando in Ferrara che «le gentildonne e cittadine usavano abiti ne' quali mostravano [lxxi] le carni nude del petto e delle spalle, così essa signora introdusse il portare e l'uso di gorgiere che velavano tutta quella parte, dalle spalle sino sotto li capelli»[81]. — E dobbiamo credere che Lucrezia, lasciate fra qualche tempo le mondane pompe, conducesse in Ferrara gli ultimi anni di sua vita ossequiente al suo sposo, «e non solo nel vestire, ma anco ne' costumi e religione fosse al popolo di ottimo esempio, esercitando opere pietose «verso i poveri e i letterati, che sono spesso una medesima cosa»[82], specialmente dopo essere rimasta priva del suo più valido sostegno per la morte del papa avvenuta il 18 agosto 1503, cui seguì la rovina degli Stati acquistati a furia di rapine e tradimenti dal duca Cesare, che terminò col cadere anch'esso morto in una imboscata il 12 marzo 1507, combattendo da valoroso in Pamplona al soldo del cognato di Navarra.

E fu pure Lucrezia celebrata da tutti i poeti e uomini dotti che l'avvicinarono in Ferrara, compreso l'Ariosto il quale nell'Orlando furioso (XLII, 83) giunse persino a collocarla per bellezza e onestà al disopra dell'antica Lucrezia. Ma il Bembo, oltre di averla cantata in versi e dedicatole nel 1504 il suo dialogo d'amore, Gli Asolani, concepì per lei una decisa passione, ed essa accolse nel cuore più che amicizia per lui, come può vedersi dalle lettere che scrisse al Bembo e che si conservano autografe con una ciocca de' suoi biondi capelli nell'Ambrosiana [lxxii] di Milano ove furono pubblicate nel 1859 da Bernardo Gatti.

L'animo della duchessa di Ferrara in mezzo al suo quieto e riposato vivere fu turbato nel 1510 dalla notizia della morte del suo primo marito Giovanni Sforza, il quale essendosi nel 1504 ammogliato con Ginevra Tiepolo, n'ebbe l'anno dopo un figlio per nome Costanzo che confermò l'ingiustizia colla quale lo Sforza era stato da lei separato con un processo da cui ebbe origine ogni maggior biasimo di Lucrezia in quell'orrido passato di Roma.

Anche l'abbandono in cui lasciò nella cara età di due anni il figlio Rodrigo avuto dal suo secondo marito Alfonso d'Aragona, senza mai più curarsi di vederlo, e che morì di 13 anni in Bari presso una sua zia; «quali si fossero le circostanze che costrinsero Lucrezia a tenerlo lontano da sè, è certo ad ogni modo che questo infelice fanciullo lasciò sulla figura di lei un'ombra sinistra»[83].

Nel 1519 il duca, al quale erano riesciti poco utili i bagni d'Abano «per curarsi dai malori contratti in giovinezza,» ammalò gravemente. Leone X spedì il vescovo di Ventimiglia con 600 uomini nel Mirandolese con ordine di occupare Ferrara se avveniva la morte che si credeva inevitabile di Alfonso. Essendo questi risanato, si volle che il papa macchinasse con un Giberto (od Uberto) da Gambara suo [lxxiii] protonotario di corrompere con denari Rodolfo Hello capitano della guardia de' Tedeschi di esso duca per farlo uccidere, e che il capitano fingendo di accondiscendere per cavare due mila ducati di mano al protonotario, scoprisse la cosa al duca, il quale ordinò se ne formasse un processo che si conserva in Archivio. «Ed è da notare che il detto papa Leone avea di bocca sua parlato con uno altro Tedesco (Gianni di Malines), che era internunzio in questa materia, ed esortatolo a fare diligente officio; assolvendolo, anzi persuadendolo che non peccava, ma meritava ad aiutare la Santa Sede apostolica ad avere Ferrara, la quale gli dava ad intendere che era occupata dal detto duca Alfonso immeritamente»[84]. Il Muratori dà piena fede al tentativo di assassinio contro il duca ed al processo che questi ne fece fare «in forma autentica, coll'esame di varie altre persone consapevoli del fatto, e con inserirvi le lettere originali del Gambara»[85]: ma noi che pel fatto del notaro bolognese conosciamo come Alfonso I calpestasse la giustizia [lxxiv] e volesse giudici che ne salvassero soltanto l'apparenza, moveremo qualche dubbio sulla verità della cosa, e tanto più giacchè ora non troviamo in Archivio che un semplice abbozzo di processo, o meglio narrativa, scritta dal segretario del duca Obizzo Remo, mancante di ogni firma, delle lettere del Gambara e di qualunque altro documento originale, ed ove in mezzo a molte stranezze non si parla però mai di uccidere il duca, ma solo di farlo prigioniero e occupargli a tradimento Ferrara (Doc. XII).

Il 2 settembre del 1520 morì il cardinale Ippolito fratello del duca per aver mangiati troppi gamberi arrostiti e bevuta troppa vernaccia, di cui aveva sempre «i fiaschi Nel pozzo per la sera in fresco a nona»[86]. Così a papa Martino IV furono fatali «L'anguille di Bolsena e la vernaccia»[87].

Leone X ormai palese nemico di Alfonso I fece lega nel 1521 con Carlo V per discacciare i Francesi che nel 1515 erano tornati in Italia; e perchè il duca si portò colle sue genti a soccorrerli e liberarli dall'assedio di Parma, spingendosi ancora alla ricupera del Finale e san Felice, il papa prese motivo di scomunicarlo così come aveva fatto Giulio II, essendo stata eguale nell'un papa e nell'altro la brama di estendere il poter temporale anche a vantaggio dei loro nipoti, e di rivendicare Ferrara, tanto più che l'annuo censo, che si pagava alla Chiesa fu ridotto a minima cosa pel matrimonio della Borgia.

[lxxv]

Continuavasi con ardore la guerra contro i Francesi, «e perchè esso papa Leone era entrato in un'impresa nella quale era necessario molta spesa, non potendo con l'entrate ordinarie supplire al bisogno, fece in una volta sola trentuno cardinali, dalli quali tirò grossa somma di denari, senza rispetto alcuno di simonia»[88]. Ottomila Svizzeri guidati dal cardinale Sedunense vennero in aiuto del papa e degli imperiali; sicchè alla fine i Francesi furono costretti a perdere di nuovo Milano e ritirarsi d'Italia. Il duca fu pure spogliato delle terre che aveva riacquistate, e tornò a vedersi ridotto al solo possesso di Ferrara, col sopraccarico dell'esercito del papa che veniva a stringerlo d'assedio e lo minacciava d'imminente eccidio.... Ma la sorte lo salvò un'altra volta mediante la morte di Leone X avvenuta il primo dicembre 1521, non senza sospetto di veleno.

Nell'estremo pericolo ond'era trascinata la sua famiglia, Alfonso I non poteva contentarsi di cadere onorevolmente colle armi alla mano, chè il suo carattere maligno e vendicativo traevalo a dirigere una Lettera latina all'imperatore Carlo V e agli altri principi cristiani piena di lagnanze ed accuse gravissime contro Leone X; lettera che tradotta in italiano faceva stampare in Ferrara e in Venezia nel mese di novembre 1521. La corte di Roma non tardava dal suo canto a formare una Risposta alla invettiva di don Alfonso inviandola alla stessa Maestà Cesarea, [lxxvi] nella quale non solo difendeva la fama vilipesa del pontefice, morto nel frattempo, ma aggiungeva querele infinite contro il duca e gli Estensi, facendola pure stampare in Roma il 6 gennaio 1522 unitamente alla Lettera del duca[89]. Per la somma rarità ai nostri tempi di queste pubblicazioni, che sfuggirono al Roscoe nella sua Vita di Leone X[90], e per l'interesse storico che possono avere, ne daremo in appendice alcuni estratti (Docum. XIII e XIV).

Lodovico Ariosto frattanto non sarebbe stato del tutto scontento del servizio del duca, che poco molestava i suoi studi e che toglievalo di rado da Ferrara ove sempre a motivo della donna amata rimaneva il suo cuore (Satira IV), se per la morte del cugino Rinaldo Ariosto accaduta il 7 luglio 1519 non avesse subíta una manifesta ingiustizia. Non lasciando il cugino suddetto figli maschi legittimi[91], Lodovico [lxxvii] e i suoi fratelli, rimasti eredi ab intestato del defunto, andarono in possesso della ricca tenuta nella villa di Bagnolo, detta delle Arioste, concessa a livello dal duca Ercole I a Francesco Ariosto padre di Rinaldo, allorchè dopo alcuni giorni ne furono dal Fattore generale del duca[92] Alfonso Trotti indebitamente spogliati, dichiarando quei beni feudali devoluti alla Camera ducale. I fratelli Ariosto supplicarono al duca, che, essendo stato «dal suo Fattore lor fatto così espresso e manifesto torto, si degnasse dar loro qual si volesse altro giudice dal Fattore in fuori, dinanzi a cui s'avesse a conoscere e decidere di ragione questa causa. Non poterono ottenerlo, anzi S. Ecc. li rimesse pure a detto Fattore. Onde non potendo essi farne altro, furono sforzati [lxxviii] cominciare la lite in Camera, dove fu agitata, e instrutto il processo, pubblicati li testimoni e condotta la causa sino alla sentenza: alla quale instando essi, il Fattore per l'odio che portava gratis a mess. Lodovico, e per rispetto di lui a tutti gli altri fratelli, non comportò mai che se ne potesse vedere il fine»[93]. L'odio di Alfonso Trotti fu creduto derivare da due sonetti satirici contro il medesimo, «i soli (dice il Polidori) in cui trascorresse la musa italica di Lodovico»[94] e vennero in luce soltanto nel 1741 per averli trovati di suo pugno fra le carte possedute dal seniore Baruffaldi. Ma non siamo però certi che fossero composti dall'Ariosto, il quale dice che l'odio portatogli dal Trotti era gratis, e cioè senza avergliene dato motivo (se pur non fu simulato per coprire gli ordini del duca), mentre anzi il poeta lo ricorda nel suo Furioso, XLI, 4. — Crediamo invece che appartengano all'autore della serie de' sonetti maledici contro Cosmico, i quali trovansi stampati fra le Rime di Antonio Cammelli detto il Pistoia (Livorno, 1884, pag. 223 e segg.); e chi li confronterà coi due creduti dell'Ariosto, speriamo che assolverà il nostro autore dall'attribuitogli trascorso.

Di Rinaldo Ariosto pubblichiamo una Lettera assai confidenziale, in data del 7 giugno 1505, posseduta prima dal Mortara, che la disse bellissimo documento [lxxix] per conoscere la qualità del morbo ond'egli ebbe a morire[95]; permettendoci però noi di osservare che dall'epoca della lettera alla morte di Rinaldo passarono più di quattordici anni (Doc. XV).

Uno de' primi incarichi dati da Alfonso I a Lodovico fu quello di portarsi ad Urbino per condolersi della morte di quella duchessa moglie di Lorenzo de' Medici il giovine: ma giunto il 4 maggio 1519 a Firenze, intese che anche il duca d'Urbino era morto, onde non andò oltre; ed anzi dopo pochi giorni si restituì a Ferrara, ove il 6 giugno lo vediamo spedire al marchese di Mantova la sua Cassaria, ch'eragli stata richiesta (pag. 30). Il 7 luglio diedegli pure notizia della perdita del cugino Rinaldo: e avendo fatto sapere a Mario Equicola che trovavasi immerso in litigi (per la contrastata eredità), ringrazia il 15 ottobre questo suo amico che si offriva di assisterlo coll'opera propria, narrandogli che attendeva a fare «un poco di giunta al Furioso.... ma poi dall'un lato il duca, dall'altro il cardinale, avendomi l'un tolto una possessione che già più di trent'anni era di casa nostra, l'altro una possessione di valore appresso di dieci mila ducati[96], de facto e senza pur citarmi a mostrare le ragion mie, m'hanno messo altra voglia che di pensare a favole. Pur non resta per questo [lxxx] ch'io non segua, facendo spesso qualche cosetta» (pag. 33). — Il 16 gennaio 1520 terminò di comporre la commedia intitolata il Negromante per desiderio di Leone X, e gliela mandò perchè fosse recitata in quella corte in cui l'anno avanti si era data colla maggiore splendidezza possibile l'altra sua commedia I Suppositi, avendo la scena dipinta da Raffaello, e stando il pontefice alla porta per regolare l'entrata degli spettatori, impartendo loro la sua benedizione! Chè la corte di Leone X, partecipando alla generale corruzione, era troppo amante dei sollazzi profani; e abbiamo una lettera di Alfonso Paolucci al duca di Ferrara in data di Roma 8 marzo 1519 che non potrebbe più al vivo ritrarci «i costumi del secolo e dell'uomo che gli diè il nome» (Doc. XVI)[97]. L'Ariosto aggiunse al Negromante un nuovo Prologo ove dirige al papa elogi assai lusinghieri; ma vi mescola con acuta ironìa la liberalità nell'assolvere di omicidi e di voti,

«E se pur non in dono, per un prezio

Che più costan qui al maggio le carciofole![98]»

È poi importante questo Prologo venendosi per esso a conoscere che l'autore faceva tesoro dei vocaboli della lingua parlata che più gli piacevano, e che diede opera a Firenze, a Siena e per tutta Toscana ad apprenderne [lxxxi] l'eleganza e nascondere le forme della pronunzia lombarda. Di cotale studio si prevalse con sagacia nel suo Negromante che aveva in gran parte composto dieci anni addietro, e nel quale introdusse tanti cambiamenti da non vederci più il consueto idioma, e cominciò pure a giovarsene nella ristampa che nel 13 febbraio 1521 pubblicò in Ferrara dell'Orlando furioso, ch'eragli da tutte parti richiesto, non trovandosi allora alcun esemplare in commercio della prima edizione. Però un libraio di Verona, che n'ebbe parecchi da vendere per conto dell'autore, scusavasi di non pagarli per intiero, allegando una rimanenza: ma l'Ariosto scriveva all'Equicola di verificare la cosa, «chè troverà che i libri sono venduti e che quel libraro vuole rivalersi di quelli denari» (pag. 36). Nel frontispizio di questa seconda edizione il poema dicesi con molta diligenza corretto e quasi tutto formato di nuovo e ampliato, rimanendo però circoscritto ne' quaranta canti di prima. A rifarsi in parte delle spese di ristampa, l'Ariosto ne cedè subito col 16 febbraio cento copie al libraio Giacomo Gigli di Ferrara per il prezzo di sessanta lire marchesane. Il libraio doveva venderle sedici soldi l'una, avendo così il venticinque per cento di sconto; e fino a tanto che quelle cento copie non erano esitate, l'autore non poteva disporre di alcuna delle rimanenti presso di lui, nemmeno in regalo[99]. Oggi un esemplare della suddetta ristampa si venderebbe ad altissimo prezzo.

[lxxxii]

Il duca di Ferrara liberato due volte dai più estremi pericoli colla morte di Giulio II e con quella di Leone X, si credè il favorito della fortuna, e fece battere cinque monete d'argento allusive alla circostanza, due delle quali rappresentavano da una parte la sua effigie, dall'altra un uomo che toglie un agnello di bocca a un leone col motto de manu leonis, mentre in gran fretta portavasi durante l'interregno a ripigliare i suoi Stati. Ebbe il Finale, San Felice, le terre di Romagna, e per interne rivoluzioni anche il Frignano e la Garfagnana. — Il 9 gennaio 1522 fu assunto al papato Adriano VI, l'ultimo cardinale fatto da Leone X e precettore di Carlo V, nato da bassi parenti, fiammingo d'origine. Era in Biscaglia al momento dell'elezione, e il duca vi mandò un suo ambasciatore a far atto di ossequio, informarlo dei torti sofferti, e chieder giustizia. Il nuovo pontefice liberò il duca dalla scomunica, lo lasciò al possesso di quanto aveva ultimamente ricuperato e lo confermò nell'investitura di Ferrara, comprendendovi anche il Finale e San Felice per far credere queste due terre della Camera apostolica, sebbene ritenute spettanti al feudo imperiale di Modena. Il duca mandò poi a Roma il suo primogenito Ercole, che in presenza del papa e del sacro Collegio perorò la restituzione di Modena e Reggio. Il discorso fatto francamente in lingua latina da un giovinetto di soli quattordici anni, che ritraea le bellezze della Borgia sua madre, sorprese e interessò i cardinali i quali gli corsero attorno abbracciandolo come fosse un loro congiunto. Ma papa Adriano rispose: «Se quelle città, che dici essere di [lxxxiii] diritto di tuo padre, le avessi racquistate nel tempo della Sedia vacante, più facilmente potrei confermargliele; ma poichè le possiede la Chiesa, acciocchè non sembri che ne sia spogliata, non sono per darle a nessuno. — Queste parole studiosamente raccolte da Alfonso l'ammonirono a tempo che cosa dovesse fare, morto il pontefice»[100]. — Anche l'imperatore Carlo V proponeva di restituire Modena e Reggio al duca purchè gli pagasse cento cinquanta mila ducati: ma il papa titubava sempre dichiarando di non poterlo permettere; finchè accadde la di lui morte il 14 settembre 1523. Alfonso I non tardò allora di mettere in pratica gli insegnamenti di Adriano, e mosse le sue genti riconquistando Nonantola, indi Reggio e Rubiera. Erasi pure portato sotto Modena, ma il celebre Guicciardini che n'era governatore e Guido Rangoni che ne comandava la guarnigione, accresciuta in previdenza di 1500 Spagnuoli, la mantennero sotto il governo della Chiesa. Il cardinale Armellino camerlengo in Roma formò un nuovo monitorio contro il duca come invasore degli Stati ecclesiastici: però il Collegio de' cardinali tornò a chiudersi in conclave prima che il monitorio fosse spedito, e il 19 novembre dell'anno stesso Giulio de' Medici divenne papa col nome di Clemente VII.

Lodovico Ariosto aggravato di spese per la lite colla Camera ducale e per la ristampa del suo poema avea [lxxxiv] troppo bisogno dello stipendio assegnatogli in corte; pur si adattò a vederlo uscir lento od anche affatto sospeso, finchè durarono le esigenze della guerra: ma gli dolse accorgendosi che anche in migliorate condizioni la mano del duca seguitava a tenerglisi chiusa. E tacendo in Milano in mezzo all'armi le leggi, nè potendo perciò ricavare alcun vantaggio dal beneficio della cancelleria di quell'arcivescovato, ricorse al duca affinchè lo levasse di bisogno, o gli concedesse di cercarsi altrove da vivere (Satira V).

Accadde allora che la Garfagnana, già prima in possesso degli Estensi, poi de' Lucchesi al tempo di Giulio II e de' Fiorentini a quello di Leone X, volle per alimentato sobbollimento ritornare sotto al suo antico signore: e facendosi reiterate istanze per avere un commissario, il duca vi elesse l'Ariosto, segnandone il decreto il 7 febbraio 1522, come può rilevarsi dalla Lettera del poeta per noi pubblicata a pag. 207. Il Micotti così racconta la rivoluzione della Garfagnana: «Bernardino Ruffi commissario de' Fiorentini in Castelnovo, stordito dall'avviso della morte di Leone, temendo di sollevazione per l'affetto che questi provinciali portavano alla casa d'Este, dubitando di sè e delle cose sue, si racchiuse nella rôcca di Castelnovo dove abitava, non permettendo ad alcuno l'ingresso: ma li principali del castello, che pur volevano liberarsi dai Fiorentini e restituirsi al loro legittimo signore, non trascurando l'occasione somministratagli dalla morte del papa, mandarono Gio. Pietro Attolini medico, del quale il commissario si soleva servire nell'indisposizione d'una sua figliuola, [lxxxv] a procurare che, sotto pretesto di visita e d'aver a trattar seco interessi di rilievo, fosse aperta la porta della rôcca; il che da lui eseguito, benchè con difficoltà ottenuto, i cittadini principali armati entrarono nella rôcca dove era il commissario, e gl'intimarono che nel termine d'un'ora dovesse partire, altrimenti l'avrebbero precipitato dalla finestra. Il commissario impaurito per sì improvviso accidente, privo d'assistenza e temendo lasciarvi la vita, stimò buon consiglio partirsi subito, come fece l'8 dicembre 1521. Scacciato il commissario fiorentino, con ogni prestezza spedirono al duca Alfonso l'avviso di quanto era successo: il quale avendo sommamente gradita la fede e l'amore de' sudditi, scrisse anche un'amorevol lettera a Gio. Pietro Attolini.... Fu poi mandato a governar la provincia Lodovico Ariosto ferrarese, il famoso poeta e prudentissimo ne' maneggi di Stato[101]. In memoria d'essersi liberati dal dominio di papa Leone e de' Fiorentini, per pubblico decreto il Consiglio ordinò, che sempre ne' tempi avvenire il settimo giorno di dicembre si solennizzasse con luminarie e processioni di tutto il clero e popolo, e che il dì seguente, giorno della liberazione, dedicato all'immacolata concezione della Santissima [lxxxvi] Vergine, si celebrassero messe ed offici a spese del pubblico. Fece anche il Consiglio scolpire in grosso macigno un'aquila grande, intesa per la serenissima casa d'Este, che tiene un leone sotto gli artigli, preso per papa Leone, e porre sopra la porta di Castelnovo in mezzo a molt'arme che vi sono»[102].

L'offerta di andare al governo della Garfagnana fra un popolo rozzo, turbolento ed inquieto, diviso da fazioni, guasto da spessi mutamenti di padroni, pieno di banditi per l'opportunità di varî confini, non poteva piacere all'Ariosto; ma presentando d'altra parte molti vantaggi pecuniarii per tasse e diritti inerenti alla carica[103], vinto dal bisogno, l'accettò. Ignorando quanto tempo sarebbe stato lontano da Ferrara, incerto della sorte che lo attendeva, fece il 12 febbraio il suo testamento, si disgiunse con dolore [lxxxvii] dalla Benucci, e in compagnia del figlio Virginio partì alla volta di Castelnovo ove giunse il dì 20 dello stesso mese. Narra il Garofolo che Lodovico «nell'andare al commissariato.... convenendogli presso a Rodea passar per mezzo a una compagnia d'uomini con armi che sedevano sotto diverse ombre, non sapendo chi si fossero, andò oltre non senza qualche sospetto per esser quelle montagne allora molto infestate da ladronecci per le fazioni di certo Domenico Morotto e di Filippo Pacchione capitali nemici. Ora essendo passato avanti un tiro di mano, colui ch'era capo loro dimandò al servitore ch'era più addietro degli altri, chi fosse il gentiluomo; e udito ch'era Lodovico Ariosto, subito si mise così com'era armato di corazza e di ronca a corrergli dietro. Lodovico vedutolo venire si fermò, non ben sicuro come avesse a seguire il fatto. Colui giuntogli presso e riverentemente salutatolo, gli disse ch'era Filippo Pacchione, e gli domandò perdono se non gli avea fatto motto nel passar oltre, perocchè non sapeva chi egli fosse; ma che avendolo inteso dipoi, era venuto per conoscerlo di vista come molto prima l'aveva conosciuto per fama: e nel fine fattogli cortesi inviti umilmente si licenziò da lui»[104]. Questo fatto ammesso per vero dal Baruffaldi potè solo a nostro giudicio accattar origine da qualche segno di [lxxxviii] rispetto che taluno de' faziosi o fautori di essi ebbe poi ad usare verso l'Ariosto (com'è detto a pag. 80), convertendolo in un incontro occorsogli presso Rodea (Roteglia) nell'andare al commissariato (ossia nel suo primo viaggio); e ciò allo scopo di accrescere alla vita del poeta una nuova situazione d'interesse drammatico. Incontro che non potrebbe ammettersi fuorchè in un viaggio successivo e in una stagione diversa dalla invernale del febbraio, in cui que' luoghi sono quasi sempre coperti di neve e poco acconci in allora a sedere sotto l'ombre (non già degli alberi che avevano ancora da rinnovare le foglie); e giacchè inoltre l'Ariosto stesso, cui dobbiamo attenerci, non mancò in un'elegia[105] di esporci questo suo viaggio accompagnato da rabbiosa procella d'acqua e venti che prendeva ognora maggior possanza, ferivagli come acuto strale il volto, e col fango impediva [lxxxix] al suo cavallo di affrettarsi per la via alpestre e lunga. Sembrava, egli dice, che il cielo meritamente lo punisse d'essersi dipartito dalla sua donna, di aver chiuse le orecchie alle preghiere di lei, di aver promesso di assumere un carico che tanto lo allontanava da Ferrara. Era pentito, ma non gli era lecito ritornare indietro: solo il cuore mille volte ogni giorno sarà costretto di farlo!

Giunto a Castelnovo, capoluogo della Garfagnana, l'Ariosto cominciò subito le fastidiose cure del suo governo, udendo ognora accuse e liti, furti e omicidi; pregando gli uni, minacciando gli altri, e scrivendo ogni giorno al duca per consiglio ed aiuto[106]. [xc] Obbligato a lasciare in abbandono i dolci suoi studi per aver sempre villani alle orecchie[107], sol dopo un anno fece il primo motto alle Muse, dirigendo al cugino Sigismondo Malaguzzi la Satira V ove descrive la vita ch'egli colà conduceva, e che riceve bel riscontro e accrescimento di fatti dalle Lettere di lui che qui si producono. Alcune di esse dànno prova della bontà del suo cuore, altre della sua giustizia e imparzialità, molte della sua sagacia e accortezza politica, la maggior parte della mala condizione di quella provincia. E perchè il duca immerso in cure più gravi non gli prestava il braccio forte ch'egli richiedeva, e lasciavalo con pochi balestrieri incapaci di affrontare i banditi e gli assassini ch'erano più di loro (pag. 200), così l'Ariosto si mostrò ridotto all'alternativa di dover proporre misure estreme di [xci] ferro e fuoco sopra le sostanze de' banditi, loro congiunti e aderenti (p. 163), e così contro i campanili, le canoniche e per fino le chiese, che in causa delle immunità ecclesiastiche servivano loro di sicuro ricovero[108]. Poco propenso verso i preti, che per negatagli autorità dai vescovi e dal duca non poteva castigare se mancavano (pag. 103), li fa colpevoli di favorire i malfattori; ma dice al tempo stesso che non ponno fare altrimenti (pag. 222), essendo invalsa presso tutti la tema della loro vendetta se non li nascondono (pag. 171), e dicendosi minacciati della vita se parlano (pag. 236). Per ovviare in parte a tanti disordini, l'Ariosto concluse il 20 giugno 1523 a nome del duca una lega colla Repubblica di Lucca, che mandò il suo bargello agli ordini del commissario (p. 164)[109]; [xcii] fece pubblicare alcune gride (pag. 309-317); ebbe accrescimento di uomini d'armi: ma ciò fu di poco o momentaneo profitto, chè le ottantatre terre di cui componevasi la provincia alzavano le corna divise dalla sedizione (Satira V). L'Ariosto qualche volta parlava alto e risentito (pag. 213-216); minacciava fuggirsi di notte abbandonando l'officio, e concludeva: «Ognuno è di malavoglia, e dicono mal di me, ma più di V. S. (pag. 183), che pigli li loro denari e lasci abbandonate le rôcche (pag. 229); chè almeno, poi che quella non li vuol difendere, gli dèsse licenza e li ponesse in libertà, che si potessero dare a chi fosse atto a poterli difendere e tener in pace» (pag. 234). Parole arditissime, ma giuste e degne del maggior elogio, come l'altre: «fin che starò in questo ufficio non sono per avervi amico alcuno, se non la giustizia».

Alla notizia dell'elezione al papato di Clemente VII, conoscendosi le inimicizie passate tra gli Estensi ed i Medici, parve che a tutti fosse tagliata la testa (pag. 199), chè, non credendosi abbastanza rassodato il governo del duca, era da molti preveduto un prossimo tramestìo di padroni: di qui l'ardimento a nuovi [xciii] disordini da una parte, di qui il pretesto a lasciarli correre od anche favorire dall'altra, non esclusi gli ecclesiastici. A ciò poi diedero fomento anche le bande nere del famoso Giovanni de' Medici, che venute a contesa coi marchesi Malaspina di Lunigiana fecero scorrerìe e occuparono nel 1524 alcuni luoghi della ducale provincia, accrescendo seguaci alla parte italiana che rappresentavano di fronte alla parte francese sostenuta dal duca.

Dopo essere stato due anni in quell'officio, l'Ariosto dichiarò che lo muterebbe volentieri in un altro dove fosse più vicino al duca, «come sarebbe il commissariato di Romagna» (pag. 209): desiderando forse di cancellare in Lugo con dolcezza e bontà la memoria sfavorevole che vi era rimasta del padre pel fatto che abbiam riferito a pag. XVII. — L'amico Bonaventura Pistofilo, erasi offerto di procurargli la carica di ambasciatore ducale presso Clemente VII; ma il poeta dirigendogli la Satira VI ringraziando del cortese pensiero, non si mostrò allettato dall'onore nè persuaso del maggior vantaggio che gli si prometteva; chiedendo piuttosto di essere chiamato a Ferrara, ove trovavasi la Benucci, ed ove ogni cinque o sei mesi era costretto di andare a passarne uno, per non morir dalla noia in Castelnovo[110].

[xciv]

Sui primi d'aprile del 1525 il duca si decise a richiamare l'Ariosto presso di sè, facendolo sostituire nel commissariato da Cesare Cattaneo ferrarese. Il 26 detto mese l'Ariosto chiese di poter rimanere anche un po' di tempo nell'ufficio per esigere gli assegnamenti suoi del quartirone passato, e il giorno dopo scrisse dolendosi ch'era stata fatta una grave ingiuria al figlio Virginio che teneva presso di sè, quando a motivo della sua partenza non avrebbe potuto ottenerne la dovuta riparazione. Sulla prima domanda il duca rispose il 3 maggio che essendo stato tanto a fargli intendere questo suo desiderio, non lo poteva compiacere perchè il Cattaneo designava di mettersi veramente in cammino per la Garfagnana «fra tre o quattro giorni alla più lunga», onde bisognava lasciare che altri gli procurasse la detta esazione. Quanto alla seconda lettera, aggiungeva: «Vi significamo che avemo inteso con grave nostra dispiacenza il caso accaduto, e ci dispiace che un nostro suddito sia stato tanto ardito e insolente che abbia avuto animo di far violenza ad un figliuolo d'un nostro commissario che in quel loco rappresenta la persona nostra, e commetteremo efficacissimamente a messer Cesare che ne faccia quella severa dimostrazione che merita la natura del caso in sè e la fede e diligenza che voi avete usato in servizio nostro. E state sicuro che noi avremo altrettanto caro che voi conosciate che desideramo e volemo che si faccia esecuzione di questa cosa, quanto voi stesso arete ch'ella si faccia. Infra tanto consolatevi, e state sano».

[xcv]

L'autorità dell'Ariosto continuò in Garfagnana a tutto il mese di maggio, e il 5 giugno 1525 non essendo ancora arrivato in Castelnovo il Cattaneo, il duca scriveva a messer Lodovico: «lodiamo che lo aspettiate e facciate ogni opra per abboccarvi seco e instruirlo in quel che occorre per l'ufficio, e sarà anche bene per esiger li vostri crediti e avanzi».

Il Cattaneo giungeva poco dopo alla sua residenza, così descrivendosi dal Carli le circostanze di una tale elezione: «Seguivano ancora (1524) in provincia le sedizioni e i ladronecci, non passando mese che non si contassero questioni, violenze, oppressioni e simili ingiustizie, senza che la diligenza e l'autorità del governatore Ariosti bastasse a porvi il conveniente riparo: ove dimorandovi egli di malissima voglia, faceva di continuo instanza all'A. S. d'esserne rimosso; ma ciò non ostante non ne venìa consolato. Discorrevasi ogni giorno nell'anticamera ducale questo fatto fra molti di que' cavalieri assistenti con varietà di pensieri, quando un Cesare Cattaneo gentiluomo ferrarese ritrovandosi a sorte in corte, nell'udire le rappresentate doglianze dell'Ariosti, rispose aver quello poco spirito, mentre con l'autorità non sapea liberar la provincia da quella sediziosa peste de' fuorusciti: darsi egli vanto, quando gli fosse sostituito, di estinguerne il veleno nel primo mese. Parole che riferite al duca, fu dall'A. S. tantosto determinato che fossero ridotte all'effetto, per far prova se il vanto fosse veritiero o bugiardo: che però fattolo a sè chiamare, dichiarollo governatore di questa provincia, e con la solita spedizione delle patenti qua [xcvi] inviollo a dar la sospirata muta all'Ariosti, che tutto assorto nelle dolcezze di Parnaso, non bastava ad applicare ai rigori di Marte e d'Astrea.

«Ricevuto il Cataneo dai provinciali con dimostrazioni d'allegrezza nella solita residenza della rôcca di Castelnovo, fece egli tantosto pubblicare un editto, che qualunque bandito per qual si sia delitto uccidesse in provincia il compagno, fosse certo d'ottenere subito la remissione del bando gratis e senza ben minimo dispendio; di che restarono di tal sorte spaventati i fuorusciti, che nel breve spazio d'un mese sgombrarono tutti la provincia e si dileguarono, lasciandola in una perfettissima quiete. Invenzione così ammirata da tutti, che celebrato per l'Italia restonne il Cataneo famoso, applaudito qual Cesare vincitor senza pugna, e trionfante senza contrasto; e ne sarebbe restato in Garfagnana il suo nome immortale, quando non l'avesse poscia egli oscurato con ingiustissime operazioni e con vergognose estorsioni.... onde citato a comparire (nel 1527) a Ferrara.... spaventato dalla reità della propria coscienza negò la comparsa.... e partitosi dallo stato contumace.... fu dopo la formazione del processo dichiarato bandito»[111].

Ma il Carli si dimostra assai male informato della verità dei fatti che imprese ampollosamente a [xcvii] narrare[112]. Le gride V, VI, e VII da noi stampate in questo volume (pag. 315, 316), provano all'evidenza che l'offerta del perdono ai banditi che uccidessero degli altri banditi in pena capitale non fu un'invenzione ammirata del Cattaneo, ma un'infelice risoluzione presa fin dal 1524 sotto il governo dell'Ariosto; poichè se per essa potevasi scemare la schiera dei tristi, dovevasi al tempo stesso portare lo scandalo e la corruzione in quella dei buoni, accrescendola di uomini malvagi, assolti dai delitti passati mediante un omicidio traditorio di più. È poi falso che i fuorusciti si lasciassero spaventare così facilmente da questi editti e sgombrassero la provincia; chè anche nel maggio 1525, e cioè un anno dopo, l'Ariosto proponeva al duca di far grosse taglie contro i medesimi per estirparli dalla Garfagnana ove [xcviii] continuarono a mantenersi non solo durante il breve commissariato del Cattaneo, ma ben anche per un tempo più lungo d'assai, come si rileva dalla grida che nel 20 novembre 1551 venne pubblicata in Castelnovo; leggendosi in essa: «.... perchè si conosce evidentemente che tutti i latrocinii e assassinamenti che son fatti non procedono da altro, se non tollerando li banditi che stieno nella provincia.... vuole S. S.... che ogni volta.... banditi in pena capitale passeranno per alcuna terra o villa di detta provincia, che subito quelli di detta terra uomini e donne che li vederanno siano tenuti a dargli drieto a suon di campane e gridar ammazza ammazza, e ammazzarli o pigliarli, o vivi o morti, e consegnarli alla corte subito, che gli sarà donato scudi 25 d'oro; altrimenti, non lo facendo ipso facto, s'intenda essere incorsa quella terra nella pena di scudi 100 d'oro in oro, applicabili alla ducal Camera, la quale se li farà pagare senza avergli remissione alcuna, facendo pigliar li primi di detta terra o villa che li capiteranno in le mani.... non avendo rispetto a giovedì[113] nè a ferie a farli incarcerare per esigere la detta pena: sì che ognuno si guardi». — Il rigore di questi provvedimenti e le convenzioni fatte prima colla Repubblica di Lucca, estese poscia col Governatore di Bologna nel 1543 e col duca di Parma e la marchesa [xcix] di Massa nel 1551, di non lasciar posare in alcun luogo i malfattori, arrestandoli e consegnandoli scambievolmente, portarono alla per fine un po' di pace al paese. Non troviamo che un'egual convenzione fosse fatta per allora coi Fiorentini, sebbene al suo tempo l'Ariosto la riconoscesse necessaria: e forse questi disordini non erano da essi veduti di mal occhio, tenendo viva la speranza di poter un giorno riconquistare la Garfagnana: dovendo osservarsi che tra Ercole II di Ferrara e Cosimo I di Firenze era sorta una grande e vanitosa lite di precedenza per la quale furono sempre nemici; poichè nell'abboccamento avvenuto a Lucca nel 1541 tra Paolo III e Carlo V, il duca di Ferrara, presentatosi con altri principi italiani al cerimoniale corteggio, corse a mettersi alla destra dell'imperatore ed a porgergli alla mensa la salvietta, con volere che fosse fatto rogito di quest'onore di primo grado; onore che Cosimo I, pur esso presente, giudicava invece competere a lui medesimo.

Anche le fazioni politiche che tenevan divise quelle terre andavano in allora scemando de' loro odii e delle frequenti vendette. Racconta Daniello Bartoli che nel 1547 essendosi condotto colà il padre Landini per dar corso alle fatiche apostoliche, «appena trovò luogo che non fosse tocco da questa maladizione»: ma che la sua parola vi sanò l'eresìa luterana che pur vi conobbe, ed estinse non poche inimicizie passate in eredità da' padri a' figliuoli: cosicchè in Carreggine, nel meglio del predicare, veggendo gli uditori in gran maniera commossi, accennò col [c] dito e chiamò per nome Giovanni Corso capo e mantenitore della fazione francese, ed egli alzatosi per dichiararsi disposto ai desiderî del Landini fece pace colla fazione italiana, come «il fatto si notò su messali di quella chiesa»[114].

Ritornato l'Ariosto a Ferrara dove il sorriso della sua donna e l'ozio beato delle Muse traevalo; lasciata una gente inculta, simile all'asprezza de' sassi ov'è nata (Satira VI), per trovarsi nella dotta compagnia de' suoi vecchi amici che mai non ebbe nè invidiosi nè finti, potè acquistarsene uno nuovo nel poeta Ercole Bentivoglio venuto anch'esso al servigio del duca, col quale passeggiava di frequente nel cortile del palazzo ragionando e ridendo insieme de' poemi cavallereschi del Cieco da Ferrara, del Guazzo e d'altri molti così inferiori di merito al Furioso, il quale avidamente ricercato da tutti accresceva diletto quanto più si leggeva, ed erasi ben nove volte ristampato dal 1524 al 1527 tra Venezia e Milano. Alcune di queste edizioni si dicevano fatte con licenza dell'autore, altre lo tacevano: niuna però portava correzioni ed aggiunte che l'Ariosto riserbavasi introdurre in una terza impressione da eseguirsi in Ferrara colla propria assistenza: «non passando mai giorno, come scrive il Giraldi, ch'egli non vi fosse intorno e con la penna e col pensiero». A questo scopo bramando vivere più tranquillo e solitario, si divise nel 1527 dai fratelli, comprò nella contrada di Mirasole una [ci] casetta con diverse pezze di terra all'intorno e si pose a fabbricarvi e a formarvi un piccolo giardino, spendendo tutto quello che poteva ritrarre delle sue rendite. «E perchè male corrispondevano (come nelle sue Memorie lasciò scritto il figlio Virginio) le cose fatte all'animo suo, soleva dolersi spesso che non fosse così facile il mutar le fabbriche come i suoi versi; e agli uomini che gli dicevano che si maravigliavano ch'esso non facesse una bella casa, essendo persona che così ben dipingeva i giardini, rispondeva che faceva quelli senza denari». Sull'entrata della casa leggevasi il seguente distico:

Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non

Sordida, parta meo sed tamen aere Domus;

ed ivi ritiratosi attese a dar l'ultima mano al suo Furioso, occupandosi ancora di rivedere le sue commedie in versi, le Satire e le poesie liriche. Erano suo passatempo le cure del giardino, ove (séguita a dire Virginio) «teneva il modo medesimo che nel far de' versi, perchè mai non lasciava cosa alcuna che piantasse più di tre mesi in un loco: e se piantava anime di pesche o semente di alcuna sorte, andava tante volte a vedere se germogliavano che finalmente rompeva il germoglio».

Pel duca Alfonso rinnovavansi intanto le triste condizioni dei tempi di Leone X, poichè il nuovo papa Clemente VII, «nome tanto contrario agli effetti che poi si videro di lui»[115], non tardò a mostrarsegli [cii] ostile. Avendo il duca spedito oratori a Roma affine di essere rintegrato di tutti i suoi Stati, ma con ottenere soltanto che dal 15 marzo 1524 ad un anno avvenire rimanesse ogni cosa in sospeso; papa Clemente cominciò nell'agosto di detto anno a chiedere la restituzione di Reggio e Rubiera, unitamente all'altre terre ricuperate ne' due mesi della sede vacante. Si fece conoscere il torto del papa, ed egli irritatosi «mandò un nunzio con una breve capitolazione circa la restituzione trattata, che la portò del mese di ottobre, avendo posto in punto genti da piedi e da cavallo delle sue e de' Fiorentini per usarle all'improvviso contro esso duca quando lui non avesse voluto sottoscrivere la detta capitolazione in termine di due ore: e il duca Alfonso, temendo peggio e trovandosi disarmato sotto la fede che si vedeva mancargli, sottoscrisse li capitoli nelli quali si conteneva, che avesse a dare al detto papa Clemente Reggio e Rubiera con lor territorii ed anco il Finale e san Felice fra venti giorni, e che esso papa avesse a dare la investitura a lui di Ferrara... con pena di cento mila ducati a chi non osservasse. Ma poi vedendosi esso duca tanto iniquamente essere stato necessitato a sottoscrivere li detti capitoli, deliberato di non li eseguire, lasciò passare il termine prescritto, confidandosi nella venuta del re di Francia; che venne tanto presto, che appena gli Spagnuoli ebbero tempo fuggendo di ridursi a Pavia, alla quale esso re pose il campo, avendo già preso Milano. Ed è da sapere che pendente il termine di detti venti dì, il conte Guido Rangone, che stava col papa Clemente, con [ciii] inganno rubò Montecchio al duca Alfonso; il che, per quanto s'intese, fece di scienza ed ordine di detto papa». Ciò rileviamo dal segretario del duca Bon. Pistofilo[116], il quale sebben cerchi d'ogni lato trovar scuse al suo principale, mostrerà sempre, anche ammettendo il fatto com'egli lo narra, che due uomini di mala fede si stavano a fronte. — Venuto in Italia il re di Francia, il papa cercò tosto di allearsi al medesimo, stimandolo più potente degli Imperiali: ma questi nella memorabile giornata del 24 febbraio 1525 sconfissero sotto Pavia l'esercito francese, e lo stesso re Francesco I cadde prigioniero nelle loro mani. Clemente VII fece poi nuova pratica con Carlo V per ottenere l'adempimento della capitolazione firmata dal duca, il quale riescì ancora ad allontanare la tempesta, conciliandosi gli Imperiali mediante il prestito fatto nel 25 marzo al vicerè di Napoli generale dell'imperatore di sessantacinque mila scudi. — Volle pur mettersi in amichevole relazione coi Veneziani, restituendogli le galere guadagnate in Po nel 1509; e il 20 settembre s'avviò «per terra alla corte dell'imperatore Carlo V in Spagna per far riverenza alla Cesarea Maestà, e per vedere se con tal mezzo potea rassettare le cose sue con Clemente VII.... Ma perchè il re di Francia era allora prigione in Spagna.... riputando i Francesi che lo andare del duca fosse di troppa importanza al servigio di esso imperatore e a detrimento della corona [civ] di Francia della quale detto duca era sempre stato ed era affezionatissimo e devoto, non gli volsero concedere il passo per la Francia: di maniera che, poi ch'ei fu stato un mese a S. Giovanni di Moriana in mezzo la Savoia, che sin là era pervenuto, se ne tornò a Ferrara»[117]. — Vennero poi in campo, a quanto ci narrano gli storici di casa d'Este, le solite trame contro la vita del duca «a satisfazione di papa Clemente e con consiglio comunicato col conte Guido Rangone»[118], indi le rivelazioni dei traditori pentiti che le sventarono, e le morti di alcuni complici principali, fra quali Girolamo Pio di Sassuolo decapitato il 25 ottobre 1528, i cui beni confiscati formarono la dote d'Isabella figlia naturale del cardinale Ippolito d'Este.

Col trattato di Madrid 14 gennaio 1526, Carlo V, il più grande dominatore del mondo a' suoi giorni, fece pace colla Francia, e il 18 marzo il re Francesco I venne posto in libertà. Il papa sperando poter abbattere la soverchia potenza dell'imperatore in Italia, stabilì una così detta lega santa colla Repubblica di Venezia, lo Sforza, e il re di Francia il quale ruppe fede al trattato di Madrid. Il duca Alfonso era stato escluso dal papa: ma gli altri alleati lo invitarono a farvi parte, ed egli accettò. Anche Giovanni de' Medici, aderendo ai consigli di Clemente VII, avea fin dal 1525 abbandonato gl'Imperiali per collocarsi [cv] colle sue bande nere al servizio di Francia. Da tutti gli Stati italiani raccoglievansi forze per cominciare contro Carlo V una grossa guerra che tornò ben presto fatale al papa, poichè mentre la maggior parte delle milizie della lega trovavasi all'assedio di Milano, il 21 settembre 1526 «don Ugo di Moncada insieme col cardinale Colonna per nome Pompeo, accompagnati da altri signori e seguaci Colonnesi, con buon numero di gente da piede e da cavallo, d'improvviso entrarono in Roma e saccheggiarono il palazzo del papa e molte altre case; e appena il papa ebbe tempo di salvarsi in Castel Sant'Angelo»[119], poi scendere a patti per liberarsene. Il duca Alfonso vagheggiava in questo mentre di abbandonare la lega per unirsi a Carlo V che lo invitava con promessa di molti vantaggi e che inviavagli il 5 ottobre diplomi per dichiararlo suo capitano generale in Italia: ma sembra ch'egli non si risolvesse così di sùbito a ratificare la cosa: un po' vergognando di mettersi contro la Francia, sua antica e fedele alleata, un po' mirando a guadagnar tempo in attesa di nuovi fatti.

Sui primi di novembre calava in Italia Giorgio di Frundsberg con quindici mila tedeschi per soccorrere l'esercito imperiale a Milano. Portava egli seco e mostrava a tutti legati sull'arcione del cavallo un laccio d'oro e molti altri di seta coi quali iniquamente vantavasi che avrebbe appesi di sua mano il [cvi] papa e i cardinali; «e volendo passare il Po a Mantova, il duca d'Urbino capitano generale de' Veneziani ch'era con l'esercito in Lombardia contro i Cesarei, venne con tutta la gente che avea, ed insieme con esso il signor Giovannino de' Medici, per impedire che non passassero: che certo gli aveva impediti e ridotti anco a qualche gran necessitade, perchè non avevano nè cavalli, nè artiglieria. Ma il duca Alfonso, il quale se bene non avea ancor fatto l'appuntamento, nè firmato intieramente con l'imperatore, avea però l'animo inclinato alla parte imperiale, mandò suso in nave sino a Governolo dodici falconi e mezze colubrine fornite di munizioni agli detti Germani.... che giunto un sì opportunissimo soccorso, presero maggior coraggio, ed animosamente mostrarono la faccia ad essi nemici, li quali vista e sentita la detta artiglieria, si ritirarono.... con perdita di alcuni di loro troppo animosi, e fra gli altri del predetto Giovannino, al quale una ballotta da falcone portò via la gamba destra, e fu portato a morire in Mantova; e così poi essi Germani, senza essere più seguitati, vennero a passare il Po a lor piacere ad Ostia, e andarono verso Piacenza per unirsi col duca di Borbone[120]» comandante supremo degli Imperiali.

Cotal fine ebbe il valoroso capitano delle bande nere Giovanni de' Medici. Aveva egli chiesto in quest'anno al duca di Ferrara, all'amico della Francia per cui combatteva, alcune artiglierie che gli abbisognavano; [cvii] e il duca con sua lettera del 2 marzo[121] gliele aveva negate, mandandole invece in aiuto ai Tedeschi, sebbene non ancora dichiarato alleato dei medesimi: ed era destino che queste artiglierie dovessero recargli la sconfitta e la morte avvenuta il 30 novembre 1526 fra le braccia dell'amico suo Pietro Aretino, il quale nelle sue Lettere ci lasciò interessanti dettagli su gli ultimi momenti del Medici.

Operatasi, come abbiam veduto, la congiunzione dei due corpi d'armata, già resi vittoriosi in Lombardia, vennero a Reggio ove fermatisi sei giorni si diedero ad ogni licenza di corrotta soldatesca. Incerto il Borbone da qual parte dirigere il suo grande esercito composto di Tedeschi e Spagnuoli allo scopo di poterlo occupare e pagare, credesi dal Guicciardini che il duca Alfonso suggerisse al Borbone che la via unica era di correre a Roma, anche per togliersi al più presto d'addosso questi nuovi amici, e vendicarsi del papa. Il 6 maggio 1527 piombarono in fatti su Roma che per forza fu presa, rimanendo nell'entrare ucciso il duca di Borbone «con uno archibusetto da un suo soldato»[122]. E in tutta la città venne dato quell'orribile sacco e si commisero tanti eccidî e delitti [cviii] che mai s'udirono i peggiori; «ove il cardinale d'Araceli fu venduto all'incanto in Campo di Fiore come si vende un bue, e furono fatte tante altre cose crudeli ed orrende, che per timore d'essere tenuto bugiardo non ardisco scriverne.... ma ben dirò che quel flagello venisse dalla giusta mano di Dio per li molti peccati e scelleritadi ch'erano in quella cittade, e più in prelati che in laici»[123].

Il papa erasi reso prigione con tredici cardinali; poi fuggì: ma solo saziando in più volte l'avarizia e ingordigia di quelle orde arrabbiate col mandare grandi somme di danaro, e con assolverle d'ogni eccesso commesso, le ridusse a sortire da Roma quasi un anno dopo.

Senza perder tempo il duca Alfonso approfittò della cattività del papa, e portatosi sotto Modena vide finalmente adempiuto il suo lungo desiderio, ottenendone la resa il 6 giugno 1527.

Pochi mesi dopo tornava a far parte della lega santa, attiratovi dall'offerta di condizioni assai favorevoli stipulate a Ferrara col cardinal Cibo che agiva in nome del papa. Ma Clemente VII, poi che venne l'8 dicembre in libertà, e gli fu proposta la ratifica dei patti voluti dal duca, «mostrandosi persuaso che Alfonso fosse stato l'istigatore del Borbone per condursi al sacco di Roma, negò risolutamente di approvare il concordato»[124], e fece le sue proteste [cix] per l'occupazione di Modena. Il duca chiese allora di bel nuovo la grazia di Carlo V; indi a rannodare validamente l'amicizia con Francia, mandò ad effetto il matrimonio progettato tra don Ercole figlio primogenito di lui e la principessa Renea di Valois cognata del re Francesco I; matrimonio che fu celebrato in Parigi il 28 giugno 1528.

Trattenutisi gli sposi in Parigi a motivo della peste che ancor durava in Ferrara, solamente nel settembre si posero in viaggio con accompagnamento di alcuni principi reali, e fermatisi molti giorni a Modena fecero il loro pomposo ingresso in Ferrara il 1º dicembre. A festeggiare queste nozze furono rappresentate alcune commedie in un teatro che il duca avea fatto costruire nel suo palazzo secondo l'architettura ideata e diretta dall'Ariosto, il quale vi ordinò una scena stabile che figurava la piazza di Ferrara colle contrade che vi fanno sbocco, i suoi banchi, fondachi e spezierie; e l'Ariosto sovente mostravasi

...... sul proscenio a recitar principii,

E qualche volta a sostenere il carico

Della commedia, e farle servar l'ordine[125].

In questo teatro venne data per la prima volta La Lena dell'Ariosto, e il principe don Francesco, altro figliuolo del duca, recitò in persona il prologo della [cx] medesima, come pure diversi gentiluomini non mancarono di sostenervi la parte di attori: chè Alfonso, e quindi tutti di sua corte, si dicevano amanti di questi spettacoli; e il teatro era riescito assai vago e bello: vanto gradito di messer Lodovico.

La commedia suddetta fu pure susseguita dalla rappresentazione della Cassaria ridotta in versi dallo stesso autore, e dicendo egli nel prologo che fu data altra volta vent'anni addietro, viene a confermarsi che la prima recita accadde, come già si disse, nel 1508. — La Lena ebbe altresì una seconda rappresentazione nel 1531 con un nuovo prologo ed una coda di due scene aggiunte in fine.

Il 20 giugno 1529 fu stabilito in Barcellona un trattato di pace e di confederazione tra Carlo V e Clemente VII, obbligandosi fra l'altre cose l'imperatore di far rientrare in potere del papa Modena, Reggio e Rubiera, e di aiutarlo a togliere Ferrara al duca Alfonso, dichiarato ribelle della Chiesa. Nel 5 agosto fu altresì firmata in Cambrai la pace col re di Francia, rimanendo l'Italia abbandonata per intiero all'Austria. A queste notizie il duca doveva stimarsi irreparabilmente perduto: ma come fu preservato altre volte in momenti non meno gravi e supremi, un raggio di speranza non tardò anche allora di arridergli.

Sceso Carlo V per la prima volta in Italia, fu il 5 novembre in Bologna a stabilire d'accordo col papa una pace generale. Nel viaggio passò per Reggio e Modena, e il duca tenne a sua grande fortuna di poter incontrarlo, accoglierlo e servirlo con ogni maniera [cxi] di magnificenza, esporgli le proprie ragioni, e lusingarsi prima di lasciarlo al confine di averne guadagnato il favore.

Da Bologna il papa fece intimare le volute restituzioni ad Alfonso; ed egli rispose che si sarebbe sottoposto alle decisioni dell'imperatore; gettando con azzardo l'ultima àncora di sua incerta salvezza. In febbraio del 1530 avvenne in quella città per mano di Clemente VII l'incoronazione di Carlo V a imperatore e re d'Italia. Avrebbe il duca desiderato trovarvisi in mezzo a tanti altri principi concorsi allo splendido corteggio; ma il papa nol volle. Ottenne poi di potervi andare nel marzo, e dopo molte dispute fu stipulato un compromesso delle vicendevoli pretese nel giudizio di Carlo V da essere pronunciato fra sei mesi. Nel frattempo Modena fu consegnata all'imperatore che vi si recò in compagnia del duca, indi passarono entrambi a Mantova ove Alfonso I conseguì colla spesa di cento mila ducati d'oro l'intiera investitura di Carpi. — Nell'accompagnamento di molti gentiluomini che il duca ebbe in questi viaggi è molto probabile vi fosse compreso l'Ariosto; essendo poi certo che nel mese di novembre passò col medesimo a Venezia, come si rileva da una lettera che Lodovico scrisse dopo il suo ritorno a Ferrara il 22 gennaio 1531 a nome d'Alessandra Benucci vedova Strozzi (pag. 323). Non comprendiamo poi come il Baruffaldi[126] possa credere [cxii] che il poeta si portasse a Venezia «per attendere ad una nuova ristampa del suo Furioso», quando il poema non fu ivi riprodotto nel 1530 una sola volta ma quattro, essendo ancora per uscirne una quinta pubblicata in gennaio dell'anno seguente, e quando tutte cinque, compresa quella dei Sessa citata dal Baruffaldi, seguono il testo vecchio e non portano correzioni dell'autore: unicamente il tipografo Zoppino ferrarese introdusse per la prima volta nella sua edizione veneta del 1530 in-4º le figure in legno ad ogni canto.

A questo tempo era certamente seguito il matrimonio dell'Ariosto colla Benucci, poichè vediamo ch'egli di suo pugno scriveva lettere in di lei nome ai parenti della medesima colla più grande intimità. — Dovendo poi tali nozze rimanere avvolte nel segreto, essendo periglioso il dirlo altrui per non perdere le rendite ecclesiastiche de' suoi beneficî, il nostro autore non palesò in quelle lettere il proprio nome (chè una gli fu aperta con frode, — pag. 289), accennandosi soltanto pel cancelliero di madonna Alessandra. Costretto a vivere da lei separato di casa (pag. 296), era non ostante sì al colmo della letizia, che la sovrabbondanza del cuore diffondendosi nella fronte e negli occhi, traevalo a darvi sfogo con un'elegia, nella quale tace la cagione ond'è mosso ma deve assegnarsi al pieno conseguimento della donna che, sebbene inoltrato degli anni, amava con trasporto giovanile; facendoci pur conoscere in altra ancor più espressiva elegia di aver fruito in antecedenza di qualche furto d'amore, non si sa poi [cxiii] con qual dea[127], e come altresì lascia dedurre da parecchi de' suoi sonetti.

Stando al Litta, da questo matrimonio sarebbe nata una figlia l'8 novembre 1531, cui fu posto il nome di Lodovica. Se ciò è vero, convien dire che morisse assai presto, non facendone l'Ariosto parola nel suo ultimo testamento.

Carlo V pronunciava intanto sentenza nella lite tra il papa e il duca di Ferrara, nella quale si confermava a quest'ultimo il possesso di Modena, Reggio e Rubiera, purchè chiedesse perdono a Clemente VII d'ogni mancato riguardo, portasse a settemila ducati d'oro l'annuo censo di Ferrara, e pagasse all'imperatore per la nuova investitura che gli avrebbe fatto di Modena altri cento mila ducati per una volta tanto. Il duca ne fu molto lieto; nè gravandogli la spesa, poichè facendo allora mercanzia si trovava assai danaroso[128], fu sollecito all'adempimento delle condizioni; mentre il papa strepitava e dichiarava che lui vivente non avrebbe mai approvato quel lodo.

Nell'estate di detto anno 1531 essendosi Alfonso portato ai bagni d'Abano, vi andò seco l'Ariosto ove ammalò di febbre. Voleva subito restituirsi a Ferrara, [cxiv] ma il cavalier Obici, che pur trovavasi ai bagni, lo persuase a seguirlo nella vicina città di Padova e fermarsi in sua casa finchè fosse ristabilito. Quivi ebbe un'altra febbre che fu dichiarata terzana; e mentre attendeva a riaversi sopraggiunse il duca che il volle a Venezia con lui, come lo stesso Ariosto c'informa in una lettera scritta a nome di Alessandra (pag. 325).

Ritornato nel settembre a Ferrara, il duca ebbe avviso che il papa radunava degli uomini d'arme che si dicevano destinati a ricuperar Carpi ad Alberto Pio. Disponendosi perciò a farne buona difesa, chiese all'uopo soccorso a don Alfonso Davalo marchese del Vasto comandante le truppe imperiali in Mantova, e spedì tosto l'Ariosto a concertarsi col medesimo. Il nostro poeta lo trovò in Correggio in casa della celebre Veronica Gambara, ov'era passato a porre il suo quartier generale; ed è facile il comprendere quanto il poeta vi fosse accolto con ogni festa e favore, avendolo il marchese, grande estimatore degli uomini d'ingegno, regalato al partir suo di un bellissimo lapislazzoli, di una catena d'oro e di una pensione di cento ducati l'anno per sè e suoi eredi, stipulata per atto notarile fatto in Correggio il 18 ottobre 1531, e come apparisce dalla lettera dell'Alessandra Benucci vedova Strozzi che pubblichiamo (pag. 327).

Questi apparecchi fecero dimettere al papa il pensiero d'invadere gli stati d'Alfonso. Sembra per altro che si tramasse una nuova congiura per ucciderlo con tutta l'Estense famiglia: ma venendo, come sempre, scoperto il funesto disegno, Bartolomeo Costabili, [cxv] vecchio di ottantaquattro anni, fu sui primi del 1532 decapitato, e la testa ebbe infissa in un'asta su la parte più alta del castello.

In quest'anno l'Ariosto si accinse alla terza sua ristampa dell'Orlando furioso corretto ed accresciuto, non isdegnando di averlo prima sottoposto al Bembo e ad altri uomini dotti «per imparare quello che per lui non era atto a conoscere» (pag. 282); così umilmente scrivea di sè stesso, così era difficile a contentarsi del proprio giudizio. L'edizione fu cominciata nel maggio e terminata in Ferrara, per maestro Francesco Rosso da Valenza, addì primo d'ottobre MDXXXII. Rivide ei medesimo con somma pazienza e fatica le bozze di stampa; e trovandosi esemplari che hanno fra loro alcune varietà, è manifesto che a quando a quando faceva interrompere la tiratura dei fogli per introdurvi nuovi miglioramenti. Al canto nono cominciano le più notabili mutazioni e le aggiunte qui e là nel poema, che con nuovo ordine portò a canti 46. Confrontando questa colle antecedenti impressioni «apparirà incomprensibile (dice il Foscolo) come uno scrittore che incominciò dal peccare sì grossamente contra le regole del buon gusto e della dizione poetica, potesse in seguito espungere tali colpe, e mettere in loro luogo così gran numero di trascendenti bellezze»; ma lo studio che l'Ariosto confessa di aver fatto delle grazie native dell'idioma toscano[129], e il continuo mutare e rimutare de' suoi versi in cui seppe per più anni persistere, lo condussero [cxvi] a vincere ogni difficoltà, a raggiungere una forma vigorosa e corretta, armoniosa ed espressiva, onde viene a formarsi quel mirabile accordo di pregio poetico che tanto risponde alla vaghezza dei fatti che trattano

Di donne e cavalier, d'armi e d'amori.

«L'Ariosto avea pensato sull'arte e sul gusto de' suoi coetanei, e una lunga esperienza gli aveva giovato. Ei tenevasi certo del buon effetto del suo poetare.... di quel suo metodo di complicare l'azione principale frapponendovi gran varietà di favole secondarie, le quali, sebbene possano sviare chi legge, pure hanno virtù di colpirgli la fantasia, e di strascinarlo alla catastrofe del poema, dove si vede lo scioglimento delle varie avventure. — Egli inebria la fantasia, vuole che quanto a sè piace piaccia anco a noi, che solo vediamo ciò ch'egli vede. — Nell'istante medesimo che la narrazione di un'avventura ci scorre innanzi come un torrente, questo diventa secco ad un tratto, e subito dopo udiamo il mormorìo di ruscelli di cui avevamo smarrito il corso, desiderando pur sempre di tornare a trovarlo. Le loro acque si mischiano, poi tornano a dividersi, poi si precipitano in direzioni diverse; talchè il lettore rimansi piacevolmente perplesso al pari del pescatore, che attonito all'armonia de' mille strumenti che suonano nell'isola di Circe, pende le reti.... e ode»[130].

[cxvii]

Con lettera del 9 ottobre 1532 mandò «innanzi a tutti gli altri» un esemplare del Furioso alla marchesana Isabella di Mantova cui sapeva essere gratissime le composizioni di lui (pag. 302): ma quando aveva il maggior bisogno di riposarsi dell'affoltata fatica dell'opera, e godere in tutta quiete le felicitazioni degli amici e degli uomini celebri di quel tempo ch'egli andò sempre più lodando o rammentando nel suo poema, fu costretto portarsi in compagnia d'Alfonso I il 7 novembre in Mantova all'arrivo dell'imperatore; chè il duca voleva spesso l'Ariosto a sè vicino, e molto più adesso per l'ambizione di mostrar nel suo séguito il poeta che ognor saliva in maggior fama e che formava l'invidia delle altre corti.

In Mantova l'Ariosto presentò a Carlo V il suo poema che in questa edizione lo colmava di lodi, e fu detto che l'imperatore dichiarasse di voler rimeritare il poeta con imporgli sul capo la corona d'alloro. Il pensiero potè essere suggerito dal marchese del Vasto, che anch'esso si trovò per riconoscenza encomiato[131]: ma l'incoronazione solenne, come l'uso [cxviii] e la dignità Cesarea richiedeva, non lasciò forse campo di essere preparata nel breve soggiorno che il monarca fece in quella città, e venne impedita per sempre dalla prossima morte dell'Ariosto[132].

[cxix]

Dopo l'assenza di oltre un mese, il nostro autore si restituì a Ferrara in istato di assai debole salute; e avendogli il principe Guidobaldo della Rovere richieste alcune commedie che non fossero sino allora rappresentate, gli rispose il 17 dicembre dolersi di non poterlo soddisfare, e gli narrò di aver composte solamente quattro commedie, i Suppositi e la Cassaria rubategli dai recitatori e stampate con suo dispiacere, la Lena e il Negromante recitate soltanto a Ferrara. Gli aggiunse pure che molti anni addietro ne cominciò un'altra intitolata I Studenti che mai ebbe tempo di ripigliare, e che quando la conducesse a fine non potrebbe esimersi che il duca suo signore ed il principe don Ercole non la facessero eseguire nel loro teatro di corte prima che altrove ne fosse mandata copia (pag. 303).

Il 25 detto mese scrisse anche a nome della moglie una lettera, che è l'ultima che abbiamo di lui (pag. 335): ma costretto poco dopo a mettersi in letto, prevedendo vicino il suo termine, fece l'abbozzo di un secondo testamento in cui lascia un legato alla magnifica Alessandra Strozzi, erede il figlio Virginio, [cxx] ed un assegno vitalizio all'altro figlio naturale Gio. Battista, chiamato pure a sostituire Virginio nell'eredità.

La notte del 31 dicembre 1532 «s'accese il fuoco in una bottega di Francesco Zangarino sotto la loggia del palazzo ducale, e irreparabilmente arse tutta la parte dinanzi del detto palazzo dal canto della piazzetta fin sopra la porta del cortile alle due statue di bronzo, e fu cosa orrenda e giudicata prodigiosa. Nella gran sala era la bella e ricca scena dell'Ariosto, che tutta rimase estinta; e quella notte istessa s'infermò il detto poeta, che morì poi il 6 di giugno del seguente anno»[133]. Travagliato, secondo il Pigna, da «un'ostruzione alla vescica, alla quale volendo i medici Bonaccioli, Manardo e Canani, i primi di Ferrara, con acque aperitive porger rimedio, gli guastarono lo stomaco; e soccorrendosi con altre medicine a quest'altra indisposizione, cadde nell'etica», e finì di vivere con dolore di tutti nell'ancor verde età di 58 anni, mesi 8 e giorni 28.

«Dalla sua casa posta nella via di Mirasole, dove morì, fu portato da quattro uomini notte tempo con due lumi soli alla chiesa vecchia di san Benedetto, accompagnato però da quei monaci spontaneamente e fuori del loro costume; tratti, come scrive il Garofolo, dall'amore che portavano alle sue rare virtù. Ivi fu sotterrato assai semplicemente, com'egli aveva voluto e prescritto nell'ultimo suo testamento»[134]. [cxxi] Il fratello Gabriele desiderava innalzargli un monumento, e il figlio Virginio fece anzi fabbricare una cappella in capo all'orto della sua casa, intendendo trasportarvi le ossa del padre; ma la traslazione non seguì che nel 1573 in un decoroso sepolcro di marmo eretto nella nuova chiesa dei detti monaci a spese di Agostino Mosti che gli fu discepolo, indi nel 1612 in un altro più ricco a spese di Lodovico Ariosti pronipote del poeta, e finalmente nel 1801 con molta pompa e solennità nella pubblica Biblioteca di Ferrara, essendone stato promotore il francese generale Miollis.

Il figlio Virginio si studiò sempre di onorare la memoria del padre. Raccolse le poesie latine di lui e diedele al Pigna che le stampò colle sue e con quelle del Calcagnini nel 1553: somministrò ad Antonio Manuzio cinque canti in ottava rima che uscirono nel 1545 in aggiunta al Furioso, senza però seguirne regolarmente la materia[135]: dettò alcune Memorie da servire [cxxii] di buona traccia ad una vita che doveva farsi del grande poeta, e condusse a termine la commedia I Studenti che fu dall'autore lasciata imperfetta. Di questa fatica di Virginio non giunse a noi che il solo prologo: fu però completata anche dal fratello Gabriele, ed è la commedia che abbiamo col titolo La Scolastica. — Ignoriamo a chi debbasi la prima e cattiva stampa fattasi nel 1534 delle Satire, che, dopo il poema, sono il lavoro più importante e lodato dell'Ariosto; e senza estenderci a parlare delle altre opere minori di quest'ingegno privilegiato, rimettendoci al giudizio autorevole di Filippo-Luigi Polidori che le illustrò (Firenze, 1857), rigettandone alcune di non sincera derivazione, e movendo dubbii sopra la schietta legittimità di altre; aggiungeremo alla volta nostra che dove l'Erbolato, venuto in luce nel 1545 a cura di un Jacopo Modanese, ci sembra una prosa troppo fiorita ed elegante, così il frammento del poema il Rinaldo ardito si mostra al contrario di locuzione troppo rozza ed impropria per essere l'uno e l'altro attribuiti con certezza all'Ariosto. E tornerebbe un po' strano che mentre adoperava in confidenza e correntemente le parole raccomando, berretta, camera, gagliardo, figlio, reliquia, ecc., come rilevammo dagli autografi indubitabili delle lettere di lui esistenti nell'Archivio di Stato in Modena, venisse poi nel comporre studiosamente in versi ad alterare siffatte parole con arricomando, bretta, ciambra, fio, galgiardo, relliqua che si veggono nel Rinaldo ardito: il quale avendo allusioni storiche relative al 1525, è per lo meno posteriore di cinque anni alla dichiarazione che [cxxiii] l'Ariosto fece nel Prologo della commedia il Negromante, di attendere il più che poteva a nascondere nelle sue scritture la pronunzia lombarda. Aggiungasi inoltre che il ms. originale del frammento di poema, chiamato dal Baruffaldi un primo abbozzo, è sparso di corretture e varianti che mostrano esservisi tornato sopra più volte. Ciò non ostante occorrono spesso, fra gli altri difetti, certi troncamenti di voci che l'Ariosto non usò mai, compresa la prima edizione del Furioso uscita nel 1516, con sì riprovevole licenza; tali essendo: car per carro, col per collo, don per donna, fer per ferro ecc.; troncamenti che potendo anche volgersi a diverso significato, è un'ingiuria il ritenere che siano caduti dalla penna del nostro poeta[136]. A malgrado dunque dell'asserzione, [cxxiv] però unica e non abbastanza apprezzabile, del Doni che assegna il Rinaldo ardito a Lodovico Ariosto, e a malgrado di qualche somiglianza col carattere e talora pure coi concetti del nostro autore, amiamo credere che il frammento medesimo sia opera del figlio Virginio, il quale vivendo col padre e avendo tutto per la mente il Furioso, potrebbe essersi ancora approfittato di alcune abbandonate lezioni di stanze o versi del poeta, trovate fra le carte di lui, con introdurle qui e là e alla fine dei canti. Del resto se i frammenti del Rinaldo ardito fossero stati composti da Lodovico, non avrebbe dovuto mancare Virginio di accennarlo nelle Memorie lasciateci intorno a suo padre.

Ritornando ora al duca Alfonso di Ferrara, sempre avversato dal governo di Roma, l'imperatore per favorirlo persuase il papa della necessità di chiamarlo a far parte di una nuova lega per la pace d'Italia, accordandogli una tregua di diciotto mesi. Clemente VII per tal concessione ebbe il vantaggio di veder cacciare dagli stati del duca i rifugiati della breve sì, ma nobile e nazionale repubblica di Firenze, che avevano abbandonata la patria per non soffrire il giogo dei Medici. — Avvicinavasi il tempo che la tregua doveva scadere e tornavano a ridestarsi nel duca le [cxxv] antiche sospettose inquietudini, quando il 25 settembre 1534 la morte del papa gli mostrò anche una volta il favore della fortuna. La successione seguìta poco dopo (28 ottobre) di Alessandro Farnese, padre di Pier Luigi, creatura di casa Borgia, che prese il nome di Paolo III, mise il colmo alla contentezza del duca. Ma doveva per pochi giorni goderne. L'uomo forte che tanti papi non aveano potuto non che abbattere piegare, che aveva saputo sciogliersi da tante insidie, affrontare e vincere tanti pericoli, era costretto morire il 31 ottobre per la più frivola causa, come il fratello cardinale; per aver mangiati troppi poponi[137].

Dice il Pistofilo che il duca Alfonso «più tosto maninconico e severo, che lieto e giocondo.... fu poco amico della frequenza.... ed ebbe e volse che si avesse rispetto grandissimo all'onor delle donne, di qual grado fossero, da tutti i suoi sudditi; dalle quali continentissimamente si astenne»[138]. Non troviamo che ciò sia confermato da altre memorie, sapendosi inoltre che fu spesso travagliato dal mal francese. Ne' diari veneti scritti dal Sanuto leggesi sotto il 1497: «Pochi zorni fa don Alfonso fece in Ferrara cosa assai lizera, che andoe nudo per Ferrara, con alcuni zoveni in compagnia, di mezo zorno»[139]. Anche nelle cronache di Francesco de' Mantovani troviamo che al [cxxvi] prete Gianni suo cantore «il duca voleva molto bene, che lui in persona l'andava a torre di casa tre e quattro volte il giorno, e lo toglieva in groppa e andavano per la terra a bordello»; e così nel processo che fu poi fatto a Gianni prima di metterlo nella gabbia di ferro e strozzarlo, «il traditore confessò avergli una volta legato in casa di una sua femina le mani, mostrando di scherzare con lui, e poi disse a uno famiglio: va, ammazza colui ch'è suso in letto. Il famiglio vi andò, e il signore disse: sligami col malanno!»[140].

Quando il duca rimase vedovo la seconda volta, tenne presso di sè una giovane di rara bellezza chiamata Laura Dianti figlia di un berrettaio di Ferrara, e le diede il cognome di Eustochia per indicare i suoi pregi. N'ebbe due figli, Alfonso ed Alfonsino che cercò legittimare. Il Muratori nelle sue Antichità Estensi ritenne aver provato che Laura fu sposata dal duca Alfonso negli ultimi periodi della sua vita: però un documento pubblicato in Firenze nel 1845[141], contenente una donazione e codicillo d'esso duca alla donna, mostra ch'egli cinque giorni prima di morire non pensava ancora di farla sua moglie. — Clemente VIII non volle mai riconoscere i discendenti di Laura per legittimi successori del ducato di Ferrara, il quale nel 1598 tornò finalmente ad essere aggregato al governo della Chiesa.

[cxxvii]

Succeduto al duca Alfonso il figlio primogenito Ercole II, ed essendo anche morto il fattore generale Alfonso Trotti, non tardarono i fratelli Gabriele, Galasso e Alessandro Ariosti ed il loro nipote Virginio di sottoporre una prece al novello duca per ottenere che fosse terminata con giustizia la causa delle terre livellarie ereditate da Rinaldo Ariosto, essendo da «quindici anni straziati e menati in lungo dalle cavillazioni e calunnie sì del fattore passato, come d'altri procuratori, notari ed agenti della sua ducal Camera» (Documento XVII). Il 23 dicembre 1534 Ercole II decretò che i fattori generali spedissero la causa con giustizia e rigettassero tutte le calunnie e cavillazioni: ma non pare che il rescritto sortisse l'esito bramato, conoscendo in vece che le terre in contesa, che formavano la bella tenuta in Bagnolo, detta delle Arioste dal nome degli antichi possessori, furono assegnate in dote ad una Estense maritata in Bevilacqua, per indi passare in proprietà dei Gesuiti.


Il Municipio di Ferrara deliberò nell'anno 1872 di promovere e ordinare feste nazionali ad onore di Lodovico Ariosto in occasione che nell'8 settembre 1874 veniva a compiersi il quarto centenario dalla sua nascita, nominando a tale effetto un Comitato. Ma i disastri apportati poco dopo dal Po al territorio ferrarese, cui fu d'uopo riparare, le deliberate onoranze vennero rimandate al 1875.

La città di Reggio, ove nacque l'Ariosto, amò anch'essa celebrare quel centenario e l'8 settembre 1874 una lunga schiera di persone autorevoli seguita da [cxxviii] molto popolo si recò alla vicina villa di S. Maurizio a visitarvi il casino ove l'immortale poeta passò i più bei giorni della sua giovinezza. Dopo lettura di applauditi componimenti in versi ed in prosa allusivi alla circostanza, il signor Giuseppe Turri principal promotore della festa offerse in dono al Municipio come preziosa reliquia sotto cristallo una falange d'un dito dell'Ariosto che fu sottratta nel trasporto delle sue ossa seguito nel 1801, regalando pure i tre atti autentici che si riferiscono al detto trasporto e che erano rimasti ignoti, facendoli poi anche stampare in appendice alla Relazione di questo centenario (Reggio, Calderini, 1875-76).

Le feste splendidissime di Ferrara ebbero luogo dal 24 al 30 maggio 1875 in mezzo ad una popolazione esultante, ed essendovi accorsi molti illustri personaggi e rappresentanti d'ogni parte d'Italia, le accoglienze oneste e liete furo iterate in tutti que' sette giorni.

Dal centenario Ariosteo derivarono pubblicazioni, tanto per invito speciale del Comitato quanto per impulso spontaneo, le quali tornarono a vantaggio delle lettere e ad onore dell'insigne poeta, come sono in particolar modo: 1º l'Orlando furioso secondo la prima stampa del 1516 (Ferrara, Taddei, 1875, in 2 volumi), con prefazione del prof. Crescentino Giannini, uno de' componenti il Comitato Ariosteo. — 2º Le satire autografe di Lodovico Ariosto pubblicate a cura del Comitato (Bologna, per Giulio Wenk litografo, 1875), con prefazione del prof. Prospero Viani. — 3º Delle poesie edite e inedite di [cxxix] Lodovico Ariosto, studi e ricerche di Giosuè Carducci (Bologna, Zanichelli, 1875, in-8º), che l'autore e l'editore dedicarono all'inclita città di Ferrara festeggiante il IV centenario. Del presente libro ci siamo qui addietro giovato, e il merito del medesimo apparisce per sè chiaro abbastanza, avendo ottenuto una seconda edizione con emendazioni ed aggiunte nel successivo anno 1876, in-16º. — 4º Le fonti dell'Orlando furioso, ricerche e studi di Pio Rajna (Firenze, Sansoni, 1876) per invito del Comitato suddetto; ed è lavoro di gran polso e di rara erudizione che spazia su tutta l'epopea romanzesca e che più nulla lascia a desiderare in proposito, con aver prestato altresì occasione allo stesso autore di addentrarsi maggiormente in siffatti studi e offerirci le Origini dell'epopea francese (Firenze, Sansoni, 1884); opera che presentata in concorso d'altri all'Accademia dei Lincei ottenne il premio.

Il Comitato Ariosteo stampò la Relazione delle feste celebrate in Ferrara nel maggio 1875 coi Discorsi accademici ecc. (Ferrara, Taddei, 1875), e avendo pure commesso a Pietro Cossa di scrivere una commedia in versi che riescì di cinque atti con un prologo, intitolata l'Ariosto e gli Estensi, si recitò la sera del 26 maggio dalla Compagnia drammatica Ciotti-Marini; e quantunque riscuotesse applausi dal numerosissimo uditorio, fu dagli intelligenti giudicata inferiore alla fama dell'autore del Nerone. Venne però anch'essa pubblicata (con appellativo di dramma) in Torino, Casanova, 1878.

[cxxx]


Ove a taluno per avventura sembrasse che noi siamo stati troppo proclivi a cercar biasimo alla memoria del duca di Ferrara, ch'ebbe pur esso il suo lato buono, e comecchessia raggiunse sempre il suo intento, lo rimandiamo al documento XIV, in cui la Curia di Roma lo accusa ad esuberanza di aver fatto scrivere un testamento falso dopo la morte repentina del card. Ippolito suo fratello per usurparne l'eredità ch'era di soli beni della Chiesa: lo accusa di altre falsificazioni di processi, e «sannolo li infelici fratelli (don Ferrante e don Giulio) crudelmente incarcerati, sallo il sangue e le viscere di quelli gentiluomini dilacerati»: lo accusa di aver fatto «publice predicare la dottrina dell'eretico Martino Lutero dal suo barbato frate Andrea da Ferrara, che ancor maggiori errori publicò delli luterani, ed esser causa d'eresia»: lo qualifica un crudele tiranno che rubò ad altri quanto questa casa ha mai posseduto, per violentare li poveri sudditi e mungerli sino al sangue: lo dice ingiusto, iniquo ed empio; voragine d'avarizia, insidiatore di tutti i buoni, per esser lui perversissimo; pietra di scandalo d'Italia, atroce inimico della santa Sede ecc. — Ma nella dispiacenza di esserci troppo sovente incontrati nel male, tanto in riguardo alle azioni del duca Alfonso I che a quelle del cardinale Ippolito, ci conforta il sapere, che abbiam desunto ogni fatto da documenti irrefragabili, e che d'altronde «nella verità intieramente conosciuta e riguardata rettamente non può non essere moralità», com'ebbe a scriverci il ch. Niccolò Tommaseo.

[cxxxi]

Aggiunta alla Prefazione Pag. XLV, linea 14

L'Ariosto essendo in Reggio scrisse pure altre due lettere al cardinale Ippolito (pag. 17 e 18) dalle quali apparisce ch'ebbe commissione di andare a Carpi e parlare con Alberto Pio di una faccenda importantissima, la quale riferivasi senz'altro alla cessione che il duca doveva fare ad Alberto della metà del principato di Carpi che Ercole I duca di Ferrara acquistò sin dal 1494 da Giberto Pio fratello di Alberto, poichè l'imperatore aveva dichiarata di nullità quella vendita avvenuta senza il suo consenso, essendo Carpi feudo imperiale. L'Ariosto non avrà mancato di abboccarsi (come avea fatto anche prima in Roma) coll'amico Alberto cui tanto interessava sciogliersi bonariamente da questo condominio; ma non essendosi allora convenuti sul compenso preteso dal duca, e la cessione rimanendo sospesa, avvennero in seguito tali dissensioni per gelosia di stato, che proruppero nel 1517 in un grave alterco fra Alberto Pio e l'ambasciatore estense Beltrando Costabili nella stessa anticamera del papa in Roma: e vedremo da ultimo che il duca Alfonso colla sua politica temporeggiante riescì a farsi investire dell'intiero dominio di Carpi[142].

[cxxxiii]

DOCUMENTI

Documento I

A mess. Paolo Costabili, giudice de' Savi in Ferrara

Y. H. S.

Magn. eques ac generose vir maior hon. — Io notifico a V. Mag. come doe fiate ho examinata la Venante rapita a' di passati dal fiolo di Piero Mazolo, la quale sempre me ha dito in presentia di sua madre, che già cinque anni fa lei è stata innamorata in epso fiolo di Piero Mazolo, et insino al principio d'esso innamoramento loro contrassero matrimonio insieme per parole: di presente et sempre sono stati in questo proposito et voluntade, et per questo el fiolo de dicto Pedro più volte è stato di maridarse in altre donne, sapendo essere sposo et marito de dicta Venante, et che inanti che lei fosse permessa in lo fiolo di Biaxio Fasolo, lei fue cognosciuta carnalmente dal dicto fiolo di Pedro Mazolo, et consentigli come in suo marito. Et così mi ha atestado el prete che la confessò questa quarexema haver inteso a la confessione da lei. Il perchè quanto a Dio è sua mogliere, et non può essere d'altri. Però serìa bene lassargela [cxxxiv] goldere in pace, et perdonare a li incarzerati: et bene valete. Me raccomando a V. Mag. et ricomandovi questi poveri homeni.

(Ferrariae .......)

Ludovicus de Ariostis doctor.

Documento II

Al duca Ercole I d'Este in Ferrara

Illustrissimo Signor mio. — Abenchè io non abia in mi una minima sentilla che non sia certa che V. Ex. me abia per fidelissimo et integro servitore; pur non voria che il continuo reportare male d'altri in qualche cossa la facesse titubare. Ho presentito che a V. Ill. S. li è stato riporto ch'io non tegno le mie page, como doveria fare. Quanto ch'io creda che V. Ex. il creda, non credo che la il creda ponto[143]: ma per mio contento et per caricho de chi ha facto tale reporto, suplico a V. Cel. che i glie piaza espresse cometere al Capitano de Rezo che ogni settemana me facia la mostra, et che il refferischa s'io facio il debito, o non. — Ill. Signor mio, V. Ill. S. sa ch'io non li adimandai mai questo, nè altro officio; ma una volta me li son ben del tuto dado perchè la dispona de mi secondo che gli piage, et rendome certissimo che la non me ha dacto questo officio per arichirme, nè ancho io l'aceptai con quello animo, ma solum per satisfare a V. S. et il debito et onor mio, il quale estimo più che tuto l'oro del mondo. Cossì volesse Idio che ogni mio pensero fusse noto a V. Ex. [cxxxv] Tuta via farò come dice Cato: Cum recte vivas, etc.; et anche estimarò queste zanze procedano più tosto da invidia che da altro, confortandomi in uno vulgare proverbio che dice: essere meglio invidia che cordoglio. Ma in vero s'io non sperasse che de questo officio me ne havesse a seguire più la gratia de V. Ill. S. che altro avanzo, io ne farìa assai male, chè per la fede che son christiano, oltra ch'io sia debito de le lire più de 160, ho spexo de i miei più de 50 ducati. Io avanzo assai quando io satisfacia al proposito de V. Ill. S.; a la quale sempre me raccomando.

Civitatelle Regij, 28 jan. 1473.

Servus

Nicolaus de Ariostis comes.

Documento III

Alla duchessa Eleonora d'Aragona d'Este in Ferrara

Illustrissima Madona mia. — Hora mai V. Ill. S. può dire che se non havesse altre facende, per lezere le mie lettere la serìa ocupata: ma le cosse che se fano a bon fine sono de haver acepte; et questo che dirò non sia affine di laudarmi, ma per alebiarla di qualche affanno. Ritrovandomi qui, e tra gli altri disordini, ho ritrovato questo Rezimento essere tanto refesso, et massime il Podestà con el Massaro; e mi come quello che non penso pure che fusse suficiente adoperare se non cosse che siano a beneficio di V. Ill. S., e parendone che queste gare, massime a questi tempi, non se convengano; me sono operato a pazificare il Podestà con il Massaro: così per mia mezanità se sono restriti insieme [cxxxvi] e purgati li animi loro e rentigrati in bona amicitia. Spero che questa serà casone anche de resetare fra questo populo molti disordini principiati, como per mie lettere l'haverà intesa. Resta che V. Ex. facia che, sia chi se voglia, demeta le arme, et proibissa ad ogni persona a fare in casa loro guarnimento. Prego V. S. de questo me creda, e piutosto a mi che a quelli che impetrano simile gracie. La farà due cosse: la se asegurarà che non potrano così quando ne havesseno voglia machinare contra il Stato, e ogni altro non harà escusa de non volere deponere l'arme, nè de far guarnimento con poter dire: perchè non mi è così licito a mi como al tale, facendo questo? Non dubito che le cosse qui pigliaranno bono eseto. E mi die e nocte, quanto sarà capace il mio debole ingegno, mai me vederò stracho a fare l'opera de vero e buon servitore. A. V. Ill. S. sempre me raccomando.

Regii, 22 nov. 1482.

Ill. et Ex. D. D. V. Servus,

Nicolaus de Ariostis comes.

Documento IV

A Beltrando Costabili in Roma

Rev. Pater, amice noster carissime, salut. — Quantunche ce rendiamo certi che per lettere de la Ex. del sig. Duca la Santità de Nostro Signore haverà inteso a pieno il caso occorso a lo Ill. sig. Don Julio nostro fratello; non di meno et per debito de la sirvitù nostra verso Sua Beatitudine et perchè questi ribaldi che hanno offeso il prefato sig. Don Julio già stettero a li servitij nostri, ni è parso per el megio de V. R. P. replicargli [cxxxvii] il medesmo brevemente. Et però da parte nostra, basati li piedi de Sua Santità, li fareti intendere, como ritrovandosi a Belreguardo el sig. Don Julio, et cavalchando a piacere su quelle campagne dopo megio dì, fu assaltato da quattro, già nostri familiari, quali el trassero da cavallo, et cum più percussioni cerchorno extinguerli la luce de li occhi[144], abenchè speramo pure che per gratia de Dio le cose passeranno bene. La causa di tal delicto et cosa facinorosa[145], per quanto havemo possuto intendere, è stata, che havendo inimicicie questi che diceámo esser de li nostri cum alcuni de la famiglia del sig. Don Julio, pareva che Sua Signoria li favoreggiasse extremamente contra li prefati; et intendendo costoro che pur erano qualche differentie fra el prefato signore nostro fratello e nui (per causa di quello preti vi scrivessimo), extimorno non ni haver a fare iniuria a nui offendendo Sua Signoria, et cusì se misero a fare una sceleranza tanto enorme[146]. Di che nui havemo preso quello dolore che sia possibile a pensare: e non sapemo che altra cosa ni havesse potuto incontrare a questo tempo che ne fosse di tanto affanno et angustia como è questo caso, che ni ha premuto et preme tanto, che ni fa uscire de li termini nostri. Imperò che, anchor che siamo persona ecclesiastica, non siamo restati fare ogni opera ad complacentia del prefato sig. Duca nostro fratello per havere ne le mani questi malfactori, quali per anchora non si sono potuti havere. Et tutto V. R. P. exponerà a la prefata Beatitudine cum la solita [cxxxviii] sua dexterità, cum significarli el cordoglio ne havemo; et raccomandandomi humilmente a li soi Santissimi pedi, valete.

Ferrariae, VIII novemb. M. D. V.

Hip. S. Luciae in Silice Diaconus Card. Esten.

Fuori — Rever. Patri D. Beltrando Costabili Proton. Apost. ac Ducali Oratorio, amico nostro carissimo.

Rome — cito.

Documento V

A Sigismondo Salimbeni in Venezia

Mess. Sigismondo. — Per la littera vostra de heri siamo advisati de la bona mente et dispositione de quella sereniss. Signoria et de li soi amorevoli et paterni ricordi per la instantia che facemo d'havere ne le mane quello Francesco Vergezino homo di pessima sorte, oltra il particulare delicto commesso in la persona de l'Ill. Don Julio nostro fratello; et appresso havemo inteso l'opera facta per il Reverendiss. Cardinale nostro fratello, cum quelle escusatione et persuasione che scriveti. E considerato bene il tutto, perseveramo pur in opinione et in desiderio di essere compiaciuti et de havere tale gratia: unde ve commettemo novamente, che debiate portarve a Sue Sublimità et ringratiarle de core et cum quanta maggiore efficatia sapeti, e cussì de le admonitione paterne come de la bona dimostratione che hanno facto et fanno verso Noi in questo caso, subiungendo che accumuleremo questa a le altre obligatione quali havemo cum epse: poi le pregareti, che ne vogliano fare questo apiacere, de darne el dicto malfactore in le forze nostre, come dal principio ne detteno intentione, quando gli facessemo intendere il caso. Nè vogliano [cxxxix] avere rispecto a la interpositione del Reverendiss. Cardinale, perchè se bene Sua Signoria è figliuolo de la prefata sereniss. Signoria, Noi pur siamo il primogenito suo, et però meritamente dovemo essere preferiti et in amore et in compiacentia[147]; et se considerano la causa che ni move e quella che move il Cardinale, senza dubio iudicaranno la causa nostra dovere proponderare a la sua, cussì per essere justa come anchora honorevole; et insumma cognosceranno essere per seguire megliori effecti del darni dicto malfactore, che de l'opposito. Fareti adunque ogni possibile instantia opportuna et importuna per impetrare questa gratia, la quale cussì denominiamo, perchè sopra modo la desideramo et reputamo importarni a l'onore grandemente; et in bona gratia de la prefata Ill. Signoria ne raccomandareti.

Ferrariae, ij decemb. 1505.

Alfonsus dux Ferrariae.

Post scripta. — Quando havereti facto tutta la diligentia per havere dicto malfactore liberamente, se vedreti non potere obtenire, ovvero difficultarse molto questa materia et essere protracta in lungo, siamo contenti che permettiati a quella Ill. Signoria, obbligandoli la fede nostra de legale Signore, che, daendolo, non faremo de la persona del malfactore alcuna dispositione, se non quanto a Sue Sublimità piacerà; mostrando essere necessario per lo honore nostro che l'habiamo ogni modo ne le mane.

Fuori — Magnifico et Clarissimo Juriconsulto et Oratori nostro dilectissimo Sigismondo Salimbeno,

Venetiis — Cito cito.

[cxl]

Documento VI

Al cardinale Ippolito d'Este in Ferrara

Rev. et Ill. S. mio observ. — Hieri cum la cavalcata hebbi lo invoglio de li privilegij antiqui, secundo me scrive V. R. S. per la sua de' 5 mandarme, et ho inteso quanto la scrive et li usarò circumpictione. Expectarò messer Carlo in lo aprire lo invoglio, et in sua presentia se incontrerà li pecci cum la lista mandata.

Ultra quello vedrà V. R. S. io scrivo a la Ex. del Sig. duca suo fratello, il papa nanti lo uscisse di camera hebbe a dirme anchora che io giurava non esser vero che V. R. S. se fusse intrusa ne la Abbatìa de Nonantula, et che pure lo è vero: et che quella sforciò li monaci, como loro diranno, la elligessero, et si fece ellegere: dicendo che quella voliva suscitare una pramatica al modo de Francia, et che la ge farìa per decta causa uno processo grande. Et che havendo voluto mandare il suo legato ad inventariare quelli fructi restati del morto, quella havìa comisso el ge fusse prohibito, como fu. Al che si vede che dubitandosi forsi per alcuni la Santità Sua non ge daesse alfine decta Abbatìa per le parole la usò a me, hanno cercato verificare le false informatione per questa via, del che io ne fu' advertito da lo auditore de la Camera; et io ne advertii mess. Ludovico Fabriano. Resposi che mess. Ludovico Areosto ge havìa facto intendere como li monaci l'haviano ellecta, et che la non li havìa voluto audire, et se li havìa mandati dinanti, et che cussì stava la cosa. Ma rumpendomi la Santità Sua et non me lasciando dire, conclusi che io non iustificarìa altramente la S. V. R., ma lasciarìa fare a ley che lo sciaperìa ben fare, la quale era per [cxli] dimostrarsi sempre cussì bon servitore suo, quanto sia chi la accusa; dicendo che imperò li voliva dare adviso del tutto: al che la repplicò non ne curare, et che la me lo diceva bene a quello fine. — Il tutto significoli, et de continuo mi recomando a la sua bona gratia.

Romae, X junij M. D. X.

E R. D. V.

Servus

B. Costabili Epis. Adrianensis.

Documento VII

A Mess. Gherardo Saraceni in Ferrara

M. Patron mio obser. — Per non manchare del debito mio et di quanto vi promessi quando feci partita da vui, ve significo come Mess. Ludovico Ariosto è ritornato da Roma, qual fue mandato per li effecti che vui sapeti; et il riporto suo è questo: che gionto che fue a Roma incontinenti se apresentoe al Castello, facendo domandare audienza a N. S. il quale era per voler fare colatione, et la differì, et lo fece metter dentro. Al quale havendo presentato la lettera del Sig. Cardinale nostro de credenza, avante la legesse incontinenti li domandò dove se retrovava S. S. R. et como stava. Et havendoli lui resposto haverla lassata a Modena, et che tuttavolta veniva avanti, Sua Santità aperse la lettera, et domandò quello havea a dire. Et domandandoli epso Mess. Ludovico in nome di S. S. R. che li fusse alongato il termine per modo che quella potessi commodamente trasferirsi a Roma; allegando quella, sì per la indispositione della gamba sua, sì per el camino aspro che faceva, sì etiam per lo intensissimo caldo era, [cxlii] non potere nè essere possibile che fra il termine assignatogli nel breve se retrovassi a Roma, Sua Santità li respose non volerne far niente; et lui replicandoli, disse: «Ben, Padre Santo, che bisogna che 'l Cardinale se metta a crepare per venire, non havendo resguardo nè alla infirmità, nè perdonando ad alchuna fatica et disagio; se poi, quando sarà qui et ch'el sia passato il termine del tempo che quella ge ha concesso, non habbi facto cosa alchuna, et V. S. non resti satisfacta de Sua Sig. R.?» Alhora Sua Beatitudine respose: «Nui in scriptis non ge volemo altrimenti prorogare il termine; ma ben li dicemo et damo la fede nostra, che quando S. Sig. voglia venire et che cognosciamo cum effecto che la venga, li alongaremo il termine et X et XV giorni, secundo che lei medesima vorà;» nè altro circha questo potette obtenere da Sua Beatitudine. Et essendo dipoi venuto alla parte del salvo conducto et dicendoli, «che Sua S. R. non lo domandava già perchè la non se cognoscesse innocente, et che la non fusse per iustificarsi gagliardamente delle imputationi che li erano date, et che la se defidasse della clementia de Sua Beatitudine, ma perchè universalmente ciascheduno la disuadeva ad andare a Roma, dicendoli che Sua Beatitudine la faria ponere in Castello, si etiam perchè la cognosceva quella prestare molto orechie alli malivoli soi; et che poi quando bene Sua Signoria se iustificava, la non faceva alchuna demonstratione contra a quelli che li porgevano il falso di lei, anci dipoi li prestava fede come prima: ultra di questo perchè Sua Signoria vedeva la Beatitudine Sua non solamente mostrarsi indegnata contra al Sig. Duca suo fratello, ma anchora mostrava voler male et odiare tutta la casa da Este; et però supplicava a Sua Beatitudine che li volesse concedere libero et autentico salvo conducto.» Quella respose, «che Sua Signoria [cxliii] andasse pure liberamente et che non temesse di cosa alchuna, et che non li bisognava altro.»...

(Firenze, .. agosto 1510).

(Benedetto Fantino).

Documento VIII

Al Cardinale Ippolito d'Este in Firenze

R.me etc. — Havemo havuto la lettera de V. S. de' 6 in ziffra, la quale è stata a pericolo de perderse, perchè il fu dato la catia a li cavallari, et lassati li cavalli intorno in le valle, et se ne sono venuti a piedi a salvamento.

Ni è stato dispiaciuto che in quella scaramuza fecero li nostri, non procedessero oltra, quando havessero potuto intrare in Modena insieme; come fa etiam de li 2000 fanti, che doveriano essere lì, non siano più che 1200.

Piacene che V. S. habia mandato al gran Maestro per havere fanti o dinari: quella non mancharà di replicare, perchè qua non è uno dinaro al mondo, et per la paga che correrà tra octo o vero X giorni al più, non sapemo come provederli, et se retrovamo desperati: sichè V. S. non manchi, per Dio, de solicitudine, et cum importunità per questo caso.

Et per li 2500 ducati che se ritrovano lìe per fare fanti, ne piace il pensiero di V. S. de farli in tempo che possino fare effecti. Non gli dicemo il tenirli strecti, poi che l'ha inteso la penuria in che siamo.

Non siamo andati a l'hospitale del Bondeno sì come gli scrivessemo, perchè le gente de' Venetiani sono ritornate a la Pelosella, come erano prima, et cum la [cxliv] armata, la quale hanno in quelli canali lìe de dreto: imperò siamo necessitati a starsene, per vedere quello che vogliono fare.

De l'altre parte de la sua che contengono advisi, non accade dire altro, se non che la ringratiamo.

Ni è doluto che la cascata del cavallo gli habia facto male, et Dio sa quanto ne ha porto dispiacere: pur non essendo pegio de quello la ne scrive, tenimo la convalerà presto.

La mala intelligentia de quelli capitani non può se non nocere a le cose nostre, et se quelli fossero uniti cum questi, non gli seriano queste altercatione, perchè il capo gli serìa.

Lo Ill. nostro figliolo, Dio gratin, comenza ad entrare in boni termini; per il che speramo la totale salute sua, sì come ne dicono questi medici.

Ferrariae, 9 sept. 1510.

Alfonsus dux Ferrariae.

Documento IX

Al medesimo in Parma

R.me. — Questa mattina passassemo il Pò a la Pelosella cum questi sigg. capitani regij et cum bono numero de gente da piedi e da cavallo et artiglieria, et pigliassemo il camino nostro verso Pontechio, et gionti al passo, se ne presentète inanti de là del fiume frate Lunardo cum dui altri capitani cum circa 500 cavalli et alcuni falconeti a l'incontro del suo ponte, et comintiorno a tirare cum dicti falconeti: ma noi cum li nostri, per corresponderli, comintiassemo a scaricarli in modo che loro per lo meglio se posero in fuga tagliando [cxlv] el ponte, et lassando li falconeti che furno quattro: et li Guasconi nostri, per non haversi ricordato li nimici de tagliare la corda de decto ponte, se misero a passare et andorno a ritrovare la armata, la quale se era retirata, et la conquistorno, che erano da 40 barche, e alcune barbote e ganzare, et tute le faremo condure fuori de li canali per haverle in nostra potestà, et quelle che non se poteranno condure le faremo brusare. Quelli da Rovigo già erano in via per portarne le chiave, et li inimici fugendo a Rovigo per intrare dentro, gli furno serate le porte incontro. Noi se ne ritornamo, et veniremo questa sera a la Zocha, et per sei ascolte che havemo pigliate de li inimici, se siamo chiariti de le gente loro. Il che significamo a la V. S. sapendo che l'haverà piacere de questa bona nova, come havemo anchora noi.

Ex villa Peloselle, XXIIIJ sept. 1510.

Alfonsus dux Ferrariae.

Documento X

Al medesimo in Ferrara[148]

(sotto nome di Alessandro di Cremona)

R.me — Il Papa mi adimanda Ferrara et ne vorìa dare Asti per recompensa, de entrata de XV in XX mila ducati; et hora tanta intrata in terre di Romagna, sino ne daesse Asti, et vorìa li pregioni. Confessiamo don Ferrante esser vivo, et li negamo voler dare Ferrara, et per consequenter don Ferrante. Lo orator catholico dice che le genti Spagnole non ne seranno contra; et cussì ne afferma che ha parlato per nui gagliardamente. [cxlvi] Jo. Cola dice che lo Imperator non vole il Papa habia Ferrara. Il sig. Alberto è ito al Burgense. V. S. facia mo con Burgensi quanto pò et che anche, se possibile è, scriva a la M. Catholica. Di Rubiera, quando V. S. non la potesse tenire, et noi se partessimo sconclusi, la potrìa dare a Vico, havendo a sperare in lo Imperatore. Quando se partiamo sconclusi non faremo compto andare più per vie directe, ma salvarci al meglio poteremo, et quanto più presto poteremo ridurci a Ferrara.

Romae, XVIJ junii M. D. XIJ.

Alfonsus dux Ferrariae.

Documento XI

Al medesimo in Ferrara[149]

Signor mio caro. — Non credo sia a l'omo vivo la maiore pena como è avere afano da morire con fatica del corpo. Paciencia sopra il scrivere al papa de sopraseder per fino me presenti ai soi pedi: non so se questo me posese essere de gran dano, per essere il tempo, como lo è, di fare il sale. Se porìa, parendo pur a la S. V. de calare in qualche cosa, se porìa dire (con quele parole saperìte metere insieme), che facendose sale, e per la iusticia fuse chiarito non se posese fare sale, tuto il sale avese da essere di Sua Santità: pur sempre me remeto a la S. V., chè me trovo inbalordito de sorta, che non ò bono judicio; cosa che però non ebi mai.

De quela cosa del M.... non lo credo, se bene lo doverìa [cxlvii] credere per esere lui mato. Sopra quanto scrive Obizo[150] de abocarse la S. V. con il legato, piaceriame sumamente: quando la S. V. lo posese fare, quanto più presto tanto meio: pur me remeto.

A quelo dicono coloro del Papa, che Sua Santità sia intrata in loco de Veneciani per proibire il sale; se pote, acadendo, respondere: che lo facevano per forsa a non crederlo il Papa lo volìa, non lo volendo la iusticia.

Signor mio, son balordito da li canoni. Se questa mia starà male, e non responde a tute le parte, suplisca la S. V. como li pare. Li canoni tirano con il diavolo[151]; e, se non avese questo afano, mai fui più contento. Son doventato canonero vero, e fo il mio debito: li nostri canoni tirano benissimo 35, 40 bote il dì. Eri me fu morto un canonero: la S. V. non lo conose. Sono pasati l'Adise 26 pezi de artilarìa: il resto bate de canto de Porto, como vedereti per uno sbegazone de mia mano.

Me racomando a la V. S., e la prego me aiuti in quelo manco. La S. V. me racomandi a mess. Antonio in canto a Porto.

1º zugno (ex castris apud Liniacum) 1510.

V. A. F. (Vostro Alfonso fratello).

Fuori — Al Rev.mo et Ill. Sig. mio fratello honor. il Sig. Cardinale de Este.

Ferrariae — Cito.

[cxlviii]

Documento XII

Processo contro monsignor Uberto da Gambara

Al Nome di Dio. Amen. — Adì 28 de zugno 1521, in casa del magnifico mess. Obizo da li Remi ducale segretario, in la sua camera terrena, dinanti al magnifico iureconsulto mess. Matheo Casella da Faenza ducale Consigliero di justitia, et in questa parte ducale judice et delegato ecc., come da sua delegatione appare per mano da epso mess. Obizo antedecto.

A perpetua memoria de le infrascritte cose trattate: Constituito il Capitaneo Rodolpho El, mediante il suo iuramento a lui prima delato, cum le interpretationi da maestro Joanne Grosso bombardiero et Zani de Malines, a li quali anchora è stà differito il iuramento de interpretare iustamente et referire quell'in italiano che esso Capitano in lingua sua thodesca li dirà; dice et riferisce:

Como Gianni de Malines mo fanno dui anni questo Natal proximo passato, ritornando ditto Gianni de Barbarìa, et essendo incontrato in monsignor Uberto da Gambara figliuolo del quondam.... nel territorio de Verona, ovvero de Brexa, il prefato Monsignor fece grande et bona cera ad esso Gianni, et dipoi ch'el ebbe inteso da esso Gianni ch'el voleva ritornare in Alemagna, li dixe che li voleva dimostrare un miglior partito, dicendoli ch'el voleva che l'andasse a Ferrara a ritrovare il capitano Rodolpho El suo patrone vechio, et fare intendere al predetto Capitano che, s'el voleva, lo acconzarìa con bonissima conditione con la Santità de Nostro Signore, et potrìa tore bona licentia dal Duca et andarsene perchè il Signor era persona misera et hortulano, [cxlix] et dal quale potrìa poco guadagnare: il che facendosi, prometteva a Gianni farli havere bona conditione da esso Nostro Signore. Et havendo ditto le preditte cose ad esso Capitano, esso Capitano rispose che lui era gentilhomo et persona solita a spendere assai dinari, per il che dagandoli il Duca XX ducati il mese di provisione, se ne potesse havere mazore dal Papa la accettaría, potendo havere bona licenza dal sig. Duca: per il che voleva che lui ritornasse cum lettere de credenza sua dal prefato Monsignore, et vedere se a Sua Signoria li bastava l'animo che Nostro Signore li daesse ducati 50 il mese di provisioni, et per levarlo li mandasse ducati cento, che lui andarìa, tolendo bona licentia dal prefato sig. Duca. E così detto Gianni ritornò da esso Monsignor cum ditte lettere di credenza a Varuolo de la Gisa, due milia longi da Bressa, et espose ad esso quanto li havea commisso esso Capitano; et allora il prefato Monsignor, havendo inteso la risposta del Capitano, disse ad esso Gianni: «Gianni, io t'ho a parlare in secreto, notificandoti che heri sira ebbi una staffetta da Roma; et alhora cominzò a dire al ditto Gianni qualmente la Santità di Nostro Signore non toleva Capitano alcuno se non facevano prima qualche apiacere a Sua Santità; et che quando il prefato Capitano facesse un apiacere a Sua Santità li farìa havere non solo 50 ducati, ma li farìa dare 300 ducati de provisioni il mese et altre cose assai ch'el seria sempre richo, così como S. Santità havea fatto al capitano Zucaro, al qual, per l'apiacere ha fatto a S. S., li dà 300 ducati il mese de provisioni, et niuno però li crida dreto per questo. Et il Capitano qual fa tanto conto de l'honore suo, et fa bene, non bisogna habia a dubitare de alcuno dishonore per servire il Papa, perchè non è put.... chi serve un homo secretamente, ma chi sta in bordello.» Al quale [cl] Monsignore Gianni rispose: «che piacere era questo che Sua Signoria voleva che 'l Capitano facesse a Nostro Signore?»; et alhora 'l prefato Monsignor li dixe: «Sapi, Gianni, che Sua Santità vole fare guerra al Duca de Ferrara et già prepara gente per questo effetto, et sapemo ch'el Duca ha tutta la sua fede et speranza in el capitano Rodolpho El, qual li habii a menare gente et fantarìa de Alemagna. Potrìa esso Capitano nel suo ritorno ch'el farà cum ditti fanti fingere essere stato preso da le genti del Papa, e andare a li servitii de Sua Santità con li fanti che lui conducesse; et noi daressimo dinari in gran quantità sì ad esso Capitano como a le genti che lui conducesse. Et oltra li doni quali li darìa Sua Santità, li darìa provisione de 300 ducati el mese et farlo capitano de tutte le fantarìe tedesche che Sua Santità havesse.» Sopra di che Gianni rispose: «Non domandate simil cosa al Capitano, perchè non è homo da fare simil cosa, perchè sempre mai in Brexa, et in ogni altro loco et expeditioni dove lui è stato, ha fatto più conto de l'honore che de ogni altra cosa: ma che ben sapeva che quando il Capitano fosse a servitio di Nostro Signore, non mancarìa di servire Sua Santità in ogni occorrentia contro il Duca et contro qualunque altra persona.»

Il che intendendo esso Monsignore, pure instava che lui riportasse in suo nome ditte parole al ditto Capitano; et se bene il Capitano non volesse attendere a tal partito, non dovesse restare de dirge quanto per lui era stato commisso: commettendo ad esso Gianni, che de quanto havesse in risposta dal Capitano volesse advisargelo per una sua, la qual dovesse dar ad un suo staffiero qual a posta per questo mandarìa in casa del sig. Enea di Pii.

Et Gianni ritornato in Ferrara non volse già parlare [cli] al ditto Capitano di tal cosa, cognoscendo la sua bona natura; nondimeno fingendo haverli parlato, dixe al ditto staffiero, chiamato sopra nome Schiavon, che 'l Capitano non voleva per conto alcuno attendere a simil cosa, et lo dovesse dire al prefato Monsignore.

Dipoi la proxima quaresima seguente esso Monsignore da Gambara se trasferite a Ferrara, et alloggiò in casa del prefato sig. Enea, et mandò per il Capitano et lo convitò in casa de ditto sig. Enea, in presentia et a tavola del prefato sig. Enea. Et desinato, pigliò il Capitano et dixe volere andare a Francolino per andare a Venezia, et dixe al ditto Capitano nel zardino (presente Gianni preditto qual era interprete tra esso Capitano et ditto Monsignore) se li volea tocare la mano: al che rispose il Capitano, che molto voluntieri. Et così tocandoli la mano, Monsignor dixe verso esso Capitano: «Per l'amore vi porto, io vi voglio fare richo.» Al qual rispose il Capitano: «In che modo, Monsignore?» Rispose Monsignore, che lo voleva conzare cum la Santità del Papa, et farli dare magiore provisione che non haveva, et farlo star bene tutto il tempo de la vita sua. Al qual Monsignore esso Capitano rispose, che era contento, et lo pregava, pur che li fosse l'honore suo, facendoli havere bona provisione et havendo bona licenza dal sig. Duca, che le ne restarìa obligato. Et Monsignore rispose: «Como, Capitano, credete ch'io volesse cosa alcuna che fosse vostro dishonore, et che non gli fosse l'honor vostro? Lassative pur consigliare a me, e fati a mio modo, che farò ben di modo che serete richo et cum vostro honore.» Del che il Capitano restò contento, purchè li fusse l'honore suo, et non altrimente. Et fatto questo parlamento, se partirno d'insiemi.

Qui seguita narrando, che Gianni andò a Napoli e fu fatto dal Vicerè Castellano della Rocca di Sora ove [clii] stette due anni circa: Che nel frattempo Monsignor Gambara scrisse da Roma una lettera al Capitano Ello la quale si dice riportata in Processo, ma non vi si trova: Che il Gambara si portò a Ferrara in casa di Enea Pio ove feee chiamare il Capitano Ello per donargli a nome del Papa 100 scudi e rinnovargli la proposta che andando a far fanti pel Duca conducesse detti fanti dalla parte del Papa; al che il Capitano si rifiutò, accettando per altro i 100 scudi come due mesi anticipati di paga del servizio che fin d'allora si obbligava di prendere sotto il Papa: Che il Gambara passati i due mesi gli mandò altri 100 ducati per una nuova anticipazione di due mesi di paga, e fece dirgli a mezzo di un suo famiglio, che avrebbe accolto ai servigi del Papa anche il figlio del Capitano, ch'era a Cotrone, con 100 ducati al mese, purchè non si rifiutasse d'aiutarlo e dargli avviso, quando parerà tempo, in qual notte potesse venire con genti atte da Bologna a pigliare il Duca con il Cardinale (insieme ad esso Capitano, acciò che la cosa vada più coperta per l'onor suo): e facendo che uno di questi due casi abbia effetto, cioè che 'l Duca o il Cardinale sia preso, gli offeriva a nome del Papa 3,000 ducati, più 100 al mese di provvisione propria, oltre quella pel figliuolo, e finalmente larghi compensi a coloro che avessero agevolata la cosa: Che il capitano Ello non ne volse sapere, ed anzi montò in collera, e fu a denunziare tutto ciò al Duca, il quale gli suggerì di lasciar correre la pratica, tenendolo informato: Che il Gambara più tardi chiamò Gianni da Napoli, scrivendo al Vicerè che gli dèsse licenza per un mese; e che essendosi Gianni portato a Roma, tornò a pregarlo di persuadere e guadagnare il capitano Ello, promettendo che il Papa darebbe a quello in regalo diecimila ducati, mantenendogli i 100 [cliii] di provvisione al mese, e farebbe inoltre il figliuolo di quello Cardinale[152], con altre promissioni a favore dello stesso Gianni. — E qui il Processo continuua di questo tenore:

Gianni rispose, che era per andare a riferire al Capitano quanto gli dicea Sua Signoria; ma che a fare simil effetto sarìa bono l'havesse simil parole dal Papa che li havesse a mantenere quanto li era promesso; et alhora esso Monsig. dixe: «Mo ben: io farò che tu parlerai questa sira al Papa, e così tu venirai a le XXIV hore, ch'io te introdurò al Papa.» Et così la ditta sira che fo al principio de januario de' 4 di esso, Gianni andette col prefato Monsig. al palazzo, et dipoi poco spatio fu introducto a li piedi di Sua Santità, et intrato dentro, et basatoli li pedi santissimi et beatissimi, Sua Santità l'interrogò se era quell'allievo del Capitano Rodolpho, a la cui Sua Santità Gianni rispose, sì; et alhora Sua Santità li dixe: «Avete ben inteso quel vi ha ditto il Protonotario di Gambara (qual era lì presente)? Ve basta l'animo che 'l Capitano lo farà? Se 'l Capitano farà quel che noi desideramo, adesso è il tempo de doventare richo, perchè s'el ne darà in le man il Duca di Ferrara, qual ogni modo deliberamo de havere, noi il faremo richo lui et voi; e tutto quel v'ha ditto Monsignore vi servaremo: et così state suso il petto nostro. Et hora è il tempo di fare simil cosa, perchè lo è morto il Cardinale et havemo il Marchese de Mantua da la nostra, et non ha amico alcuno, et lui è amalato de la persona, de maniera che questa cosa facilmente se potrìa condure, et tanto più che se farìa cum honore de esso Capitano, perchè se pigliarà ditto Capitano insieme col Duca. Nè dée pensare il Capitano, che [cliv] questo sia peccato alcuno, perchè Ferrara è nostra, et operando il Capitano ch'ella ne sia restituita, non fa peccato alcuno. Et per più sua certezza, quando se harà a confessare, dirà al prete che lui ha aiutato il patrone a ricuperare una possessione qual era occupata da altri, chè senza dubio il confessore lo absolverà et li dirà che non è peccato. Et tanto più il Capitano lo debe fare, chè 'l Duca è un miserazzo et un hortulano.» Et sopraggiunse Monsignore: «Et un buzarone.» Il Papa confirmò: «Cusì è la verità, che è il magior buzarone del mondo!» Et poi le predette cose et molte altre ditte per il Papa et Monsignore, esso Gianni promise di fare il possibile; et alhora il Protonotario dixe, replicando: «Su, hai mò inteso? Tu porai dire al Capitano, che tu l'hai de bocca del Papa.» Et così preseno bona licenza, et se ne partirno da Sua Santità...

Gianni avviandosi alla volta di Ferrara giunse a Bologna, e lìe inteso che 'l Duca havea mandato il Capitano a Trento per far fanti, lì andete drieto, e così lo ritrovò a Trento, et a quello narrò quanto havea in commissione et dal Papa et dal prefato Monsignore, persuadendolo a non attendere a simil pratica[153]; benchè fusse superfluo, perchè esso Capitano sempre fu de animo di non volervi attendere, stimando più l'onore suo che 'l resto. Et havendo inteso esso Capitano che i Svizzari non calavano più, ritornorno in compagnia a Ferrara et narrorno il tutto al Duca. Il qual, secondo che esso Capitano dice, in fin a quell'hora poca fede li havea prestato: ma mò avendo inteso quanto li havea referto Gianni, li comenzò a prestar fede; et volendoli Gianni [clv] mostrarli le lettere scrittele in Sora per Monsignor de Gambara, il Duca non le volse vedere, dicendo prestarli fede assai: per il che vedendo Gianni che esse lettere, portate perchè le fossero testimonio, non esserli necessarie, le brusò[154].

Il Gambara tornò più volte a tentare il capitano Ello per mezzo di Gianni; e trovandosi a Bologna con quest'ultimo, saltò fuori col fargli il seguente progetto:

«Tu dirai al Capitano, che, volendo expedire questa cosa, il modo è questo: Che esso Capitano una domenica mattina fingendo andare a bevere cum li bombardieri che sono in Castel Tealdo, intrato dentro con alcuni suoi fidati occida detti bombardieri et ritenga in sè ditto ponte et porta, ritenendo cum sè quelli che li sono fidati, dandoli denari. Et noi avvisati da te, Gianni, qual volemo sii cum noi; perchè tu, venuto qui a Bologna il venere innanti a dirne como le cose sono in ordine per ditta domenica, noi, inteso questo, il sabbato che se fa il mercato faremo ritenere tutti li somieri, e fingendosi ch'el si sia fatto costione tra due gentil homini in Bologna, faremo serar le porte a ciò niuno possi uscire; et la notte cum fanti sopra ditti somieri, che non saranno manco di mille[155], et cum cavalli che non saranno meno di 500, quali tene il Papa qui in Bologna, et cum due mila fanti che condurà Ramazoto et altre gente atte a ciò, ci troveremo la matina al tempo debito al detto posto de Castel Tealdo, et gionti intraremo dentro, et de mano in mano ne seguitarà il Presidente de Bologna cum il popolo di Bologna et cum altra gente venuta de Romagna et de altro loco, et così [clvi] la cosa riuscirà: et in la intrata nostra faremo correre 25 trombetti per Ferrara, gridando Chiesa Chiesa, et confortando ogniuno per parte de la Santità di Nostro Signore che non se movano: et per salvezza de honore del Capitano lo piglieremo anchora lui.»................

················

Resterebbe a dire come il progetto del Gambara fosse tirato in lungo d'intelligenza del Duca, per meglio indagarne l'importanza e diramazione, e come in questo mentre il capitano Ello potè carpire al Protonotario del Papa alcune migliaia di scudi. Il processo viene poi finalmente a concludersi con una lettera che si dice diretta dal capitano Ello al Gambara, intesa a sciogliere bonariamente ogni pratica; lettera che ci offre i particolari seguenti[156]:

«Prego V. S. che mai più non mi tenti de tal cosa, perchè io non la voglio fare; et ancho vi avviso che quando bene io la volesse fare non sarìa così facile come forsi voi pensati, perchè questo sig. Duca vive in grande zelosìa et quello Castel Tialdo se guarda con un altro modo che non soleva, et ogni dì se mutano le guardie, e nessuno sa quando debbia toccarli la guardia. Et quando Sua Signoria va fora de la terra, non sta mai che tre o quattro dì, et non se sa mai quando vole andare, se non all'improviso: et oltra la guardia de li alabardieri mena una compagnia de trenta cavalli leggeri et seco lance spezzate, et poi ancho più de 150 persone de la famiglia, che la maior parte sono apti a menar le mani. Et quando è a Belriguardo, quel palazzo è tanto (grande), che non bastariano tre millia uomini [clvii] a circondarlo; sì che uno che fusse dentro non potesse scampare. Et quando ancora va a Porto, sta in loco circundato di fossi, dove dieci homini bastariano a resistere contro mille. Et per venire a questi dui lochi bisogna passare il Po et traversare assai campagna, et le case se trovano spesse in modo che de dì non se potrìa far in effetto nessuno, et de notte li cani bastariano a discoprir ogni cosa: perchè ancho sempre S. S.ria fa fare le sentinelle de notte alli suoi cavalli leggeri; et ancho in casa sempre de ogni hora de la notte sta gente levata de li suoi creati. Et quando va a Comachio sta in una casa in mezzo la valle, dove non se pò andare se non per canali stretti, et lì ha barca armata con falconetti et archibusi et fa fare sempre dì et notte le guardie verso Ravenna et verso Venezia.

«Et sappia che non bisogna pensare de fare adunar gente in Bologna per questo effetto sotto nessuna altra scusa, perchè io ho inteso per bona via che 'l sig. Duca ha in quella cittade tri o quattro gentilhuomini de li primi, suoi amici, che lo avvisano de tutto quello che se fa et se dice: et come se moveno fanti o cavalli da dieci in su, incontenenti S. S. sta con li occhi aperti per la zelosìa che ha; sì che non bisogna pensare che sia così facile.

«Prego V. S. che mai più no cerchi di mettermi in cosa che mi non ho mai fatto, nè homo de casa mia: et se V. S. me vole far bene, me ne faccia per altra via.

«Ho fatto scriver questa a uno mio fidato che sa italiano: e a V. S. me raccomando.»


La lettera non è che in forma di minuta, senza firma, e della mano medesima che stese questo abbozzo di Processo, il quale difetta pur esso di qualsiasi sottoscrizione [clviii] ed autenticità, e così dei tredici documenti citati in appoggio del Processo, riscontrandovi solo gli spazi lasciati in bianco.

Documento XIII

Translato di latino in vulgare di una Littera scripta dallo ill. sig. donno Alphonso da Este duca di Ferrara per sua iustificatione allo Imperatore, et mutatis mutandis agli altri Principi christiani.

Perchè essendo io feudatario della Sancta Chiesa, come sono, penso che molti non solamente potriano maravigliarsi ma ancho biasimarme, ch'io mi fussi mosso in servitio et adiuto del Re christianissimo, nella guerra cominciata a' mesi passati contro Sua Maestà dal presente summo Pontefice Leone X, non sapendo la cagione che m'havesse inducto a farlo: io così come in questo caso tengo d'essere senza colpa et iustificato nel conspecto del divino tribunale, dinanzi al quale sono palesi li torti et le ingiurie che m'hanno provocato, così voglio rendere ragione del mover mio, et iustificarmi ancho presso tutti li principi christiani, il primo de' quali è la Cesarea et Catholica Maestà Vostra, della quale io fui et voglio esser sempre osservantissimo servitore. Per questa mia adunque, la quale con la debita reverentia mando in mio loco, la predicta Maestà V. Cesarea intenderà como quando el presente summo Pontifice fu exaltato a quella S. Sede, io n'hebbi una tale et tanta letitia, che non per mezo de' miei oratori, come si sole, ma personalmente andai a Roma a baciarli li piedi, et congratularmi con S. Santità. Et prima ch'io me partissi per tornare a Ferrara mi diede ferma speranza di restituirmi in breve la mia città di Reggio, [clix] la quale iniustamente da Papa Julio suo precessore insieme con la città di Modena mi era stata tolta sotto pretexto di uno monitorio sopra falsissime cause formato et fulminato contra me................................ Nel 1514 del mese di giugno per un breve sottoscripto de mano propria di S. Santità et delli Rev. Cardinali de' Medici, et de S. Maria in Portico, il qual breve è presso me, promise restituirmi la decta città di Reggio fra 5 mesi, et.... restai deluso.... Et quando il prefato PP. Leone fece la decta promissione di restituirmi Reggio, io feci con S. Santità, per mezzo del sig. Cardinale mio fratello, una compositione di levare del sale suo da Cervia per il mio Stato, la qual mi fu di molto peso et inextimabil danno, perchè volse che io me obligassi non farne a Comacchio, ove ne potrei fare ogn'anno grandissima quantitade..... Et essendo io in tractato di rihavere Modena, ch'era nelle mani dello Imperator Maximiliano di immortal memoria, avo paterno di V. Alteza, il prefato Papa Leone vi si interpose a disturbarmi la pratica, et procurare di havere essa Modena per sè... per una tal summa di dinari, che poco manco dava di rendita ogn'anno... Ma poi... col mezo de l'episcopo d'Adria orator mio per la decta restitutione presso S. Beatitudine, ella monstrò d'essere al tutto disposta reintegrarmi del mio, pagando io una buona summa di denari delli quali, secondo la compositione fatta, feci deposito et diedi buone cautioni in Fiorenza, et fu fatto lo instrumento per Pietro Ardinghello cittadino fiorentino et segretario di prefata S. Beatitudine, et era già publicato per tutto che le mie terre mi erano restituite; et nientedimeno fui ancho deluso ... et si diede a pensare di volermi togliere per qualunque modo potesse quello che mi restava. Et havendo per un amplissimo breve del 1515 tolto la protectione [clx] di me et de' miei figliuoli et Stato, la quale protectione havea ancho tolto per il suprascripto breve del 1514..... ha sempre cercato capitulare a mia ruina........ Et ritrovandome io gravemente infermo lo inverno del 1519 et sendosi divulgata fama ch'io morrei di quella infirmitade, epso PP. Leone mandò lo episcopo di Ventimiglia, che sotto colore di voler fare altra impresa, fece adunatione di parecchie migliara di fanti sul Mirandulese nelle confine di Ferrara per assalirla et occuparla a l'improviso, o, se io fussi morto, per toglierla a' miei figliuoli, li quali per la loro innocentia et tenera etade non meritavano già una sì crudele ingiuria da Sua Beatitudine........................

Ma io ho ultimamente inteso, cognosciuto et toccato con mani che il prefato PP. Leone, non per colpa mia, ma per lo odio ch'el mi porta gratis, per via più detestanda ha teso insidie alla vita et Stato mio, et per mezo di scelerati soi ministri ha tentato di fare corrompere, con una grossa summa di denari et altre promissioni, alcuni miei stipendiati, in che ha speso miara di ducati. Ma quella infinita bontà che resiste alli iniqui pensieri de gli huomini, et difende la iustitia, non ha voluto che un così impio disegno sortisca effecto, perchè dalli decti miei stipendiati mi è stato rivelato il tutto. Et essendo di tale tractato conscie alquante persone, ho facto distendere in scripto tutto il processo della cosa che in autentica forma è presso me, et li testimonij de sì abominevole delitto son vivi, et con qualcuno di epsi el medesimo PP. Leone di bocca propria ha parlato sopra il detto tractato in modo da fare stupire chi lo intendesse. Onde vedendo io che colui che doverìa essere exemplo di virtute et sanctitade a tutto il mondo per lo adorando loco ch'el tiene, è caduto in così horrendo pensiero, nè sapendo più come difendermi [clxi] da tante insidie; è stato forza che la mia lunga et humil piacientia provocata tante volte con tante offese si sia alfine convertita in disperatione..... ben ch'io voglia persuadermi che le continuate instigationi et venenose lingue de' miei malivoli sian state quelle che habbino havuto forza de indurlo a fare contra me quanto è soprascripto...................................

Io mi sono bene (con mia gravissima displicentia) ridutto a fare questa excusatione, perchè non harei voluto dire di colui ch'è capo della nostra fede, cosa che tanto disdice in la sua suprema dignitade; ma credo di meritare perdono presso ognuno, se con iustitia et verità difendo me et l'honor mio: protestando però ch'io non sono per manchare mai verso la Santa Romana Chiesa di quella fede, osservantia et servitute che da ogni fidele vassallo et christiano se le deve. Supplico alla Cesarea et Catholica Maestà Vostra che, intendendo la innocentia mia, se degni averme non solamente per excusato ma ancho per raccomandato come osservantissimo suo vassallo et servitore, et per quanto specta a lei non voglia comportare ch'io sia con tanto odio iniquamente perseguitato. Et quando V. Altezza non si mova per la riverente servitù ch'io le porto, nè perchè io sia pur nato del sangue suo, oltra ch'io le sia vassallo, muovasi almeno per riverentia di Dio, il quale l'ha electa a così alta sede et factola si potente signore perchè ella favorisca la iustitia et non la lassi opprimere: et io me offero apparecchiato di far constare alla V. Imp. Maestade et a tutti gli altri Principi christiani quanto è suprascripto delli detti brevi, processo et testimonij a mia iustificatione, che non allego cosa che non sia verissima.

Stampata in Ferrara, del mese de novembre 1521.

[clxii]

Documento XIV

Resposta alla invectiva qui annexa di don Alfonso già duca di Ferrara, publicata contro la sancta et gloriosa memoria di Leone PP. X, sotto pretexto de una Littera scripta alla Cesarea Maestà. — Translata di latino in vulgare.

Non è alcuna maraviglia, sacratissimo et victoriosissimo Cesare, se don Alphonso da Este, già duca de Ferrara per beneficio et gratia della Sancta Sede Apostolica, sendose manifestato ribelle di epsa, et atroce inimico del summo Pontefice et de V. M., si sforzi con bugie retrovare scuse, con le quali possi al manco apparentemente con parole palliare et difendere le sue male opere, sendo consueto a ciascuno che fa quel che non debbe, o nascondere li soi peccati potendo, o, sendo palesi, affaticarse ritrovar cause per le quali dimonstri non voluntariamente, ma sforzato, o per errore o caso, essere cascato in epsi. Ma ben è forte da maravigliarse habbi presumpto alla M. V. sapientissima indrizzare queste sue calunniose, mendace et sacrilege littere..... Chè pur gran cosa è (o Alfonso d'Este) se siete stato sempre sì obbediente et fidele alla Sede Apostolica, como scrivete, che doi sommi Pontifici tanto gravi et successivi ve habbino declarato inimico publico de Sancta Chiesa, excomunicato et maledecto, cioè Julio et Leone, maxime sendo a voi questo ultimo tanto benevolo avanti pervenesse al summo pontificato, et anchor nel principio d'epso (come dicete). Certo è cosa aliena dal senso humano, che gratis et senza scusa, alcuno deventi inimico del proximo; ma molto più che 'l grand'amico se facci [clxiii] inimico spontaneamente. Però se inimico vi s'è facto, d'amico ch'el vi fusse, voi l'havete indocto a così fare, continuando nel concepto odio verso l'Apostolica Sede, contra la quale erigeste le corna a tempo della sancta memoria de Julio, ch'anchor lui nell'initio del suo pontificato ve amò et gratificò, et era compatre del sig. vostro patre: ma con la ingratitudine vostra, liberato che vi hebbe dalla subiectione de' signori Venetiani, andaste a toglier protectione de' principi extranei, dalla qual insuperbito, accresceste datij et gabelle, publicaste legge et edicti contra la iurisditione del vostro supremo signore, presumeste voler far il sale, che mai epsi signori Venetiani vi havevano permesso, a chi non erave subdito, et contra il diritto del vostro natural principe, in tanto preiudicio della Camera apostolica, usurpar voleste quelle regalìe, che sono riservate ai supremi Signori in tutti i regni et parte del mondo. Per la qual vostra cupidità che non tentaste? Che lasciaste a fare contra la povera Chiesa et vostro principe? Primo seminaste la guerra, poi el scisma, et con le arme apertamente l'esercito scismatico in persona adiustate. Sallo Bologna che dall'obbedientia della Chiesa con scismatici rivoltaste; sallo Ravenna che spogliaste; sallo Romagna nella qual tante rapine faceste.............. Sforzaste Julio ad esservi inimico, parimente havete forzato Leone, il quale, como mansuetissimo, nel principio del suo pontificato pensò con dolcezza et beneficij retraherve da quel mal animo, da quel confirmato odio teneate verso la Chiesa de Dio et sua S. Sede, nella qual epso presidea.....................

Et perchè costui (Alfonso d'Este) tanto se querela di questo Reggio, nominandolo terra sua, como se da soi maggiori fusse stata edificata, et per naturale et antiqua successione li pervenesse, parmi necessario aprire [clxiv] como epsa terra fusse occupata da casa sua, non son molti anni, et le ragioni li pò pretendere. Manifestissima cosa è Reggio essere delli antiqui beni della Chiesa Romana, contenuta nell'Exarcato de Ravenna, et per più concessioni et donationi facte da Romani Imperatori ad epsa Chiesa; ben che poi per discordie successe tra alcuni summi Pontifici et electi Imperatori sia stata certo tempo posseduta in nome dell'Imperio, et penultimamente dalla casa de' Visconti et dal duca Jo. Galeazzo conte de Vertus, a morte del quale per l'avol de don Alfonso, marchese Nicolò, fu a tradimento occupata insieme con Parma, tagliato a pezzi messer Otto Terzo suo compatre, custode de quella città, ricercato venir a Rubera ad amichevole parlamento, ma da Parmesani cognosciuto, di sabito fu repulso, havendo lassato epso Jo. Galeazzo Philippo Maria suo figlio di tenera età, impotente a conservare et difendere l'amplo Stato paterno perturbatoli da diversi tiranni, et dall'ill. Signoria di Venetia, et così per occasione delle continue guerre tra epsa Signoria et duca Philippo fu retenuta occupata dal decto marchese Nicolò, senza alcun titolo: la qual poi dalla sancta memoria di PP. Julio per la ribellione de don Alphonso et esser scismatico, che è tocco di sopra, fu in guerra recuperata per la Chiesa, con permissione et consenso della gloriosa memoria del divo Maximiliano Imperatore, avolo di Vostra Maestà del qual extano le littere. Il che lui dice essere stato facto iniustamente, sotto pretexto de un monitorio etc. Si mo: è iniusto o iuxto recuperare alla Sancta Sede el suo occupatoli indebitamente da un ribelle et scismatico in guerra iustissima? È si chiaro che non bisogna explicarlo. Et tamen costui exclama, como si jure divino questa città fusse sua, quale suo avo a tradimento rubò.......................

[clxv]

L'altra querela, Cesarea Maestà, è da Modena, ove dice che tractando lui rehaverla, sendo pervenuta alle mani de Maximiliano Imperatore di perpetua memoria, el PP. se li interpose con procurare d'haverla epso, et che non la pigliò per la Sede Apostolica, et la hebbe a vil pretio, poco più di quello se ne cavava ciascun anno d'entrata, et promisse al Card. suo fratello darla poi a lui, et che nol fece etc. Al che si responde prima a l'ultimo, quanto sia della promessa, che pure adduce il fratello per testimonio, a chi non sarebbe da prestar fede: poi dato l'havesse promesso incautamente per importunità, obligato era a non servarla per le sopra allegate ragioni. Circa el contracto, dico che forte se n'inganna, anzi principalmente da S. Santità fu facto per la Chiesa: ma si lui non sa la forma di epso, ricerchila. Quanto al pretio el fu quello se convenne tra le parte, et de che se contentò la Cesarea Maestà de gloriosa memoria, qual fu anchora più volte per darla gratis, ma pigliò quella summa di denari per adiutarsene al bisogno della guerra contra Venetiani. Ma questo non appartiene a lui: sia stato il pretio grande o piccolo, unum est che fu maggiore assai di quello dice, anzi in molti anni la intrata non ascende a quella summa. Ben è vero che al tempo la occupava lui, per tiraneggiare li populi e mungerli sino al sangue, ne cavava fructo assai maggiore di quello facea la Cesarea Maestà quando la tenea, nè di poi la S. Sede, chè il simil anchor facea di Reggio............... Nè in epsa pò don Alphonso pretendere veruna altra ragione che simile a quella di Reggio, perchè pure da soi maiori fu rubata, scacciando li Vicarij Imperiali che la governavano ne' tempi perturbati. Non havendo adunche lui megliore ragioni in Modena che in Reggio, et la Sede Apostolica le medeme, sendo stata recuperata [clxvi] nella dicta guerra et per quelle istesse cause; se di sopra havemo declarato et provato iustamente esserli stato levato Reggio, et recuperato per la Chiesa, viene anchora ad essere provato el simile de Modena, et molto più adgiongendosi la vendita et contracto facto per la Cesarea Maestà, il quale per ogni ragione havea potuto fare, dato che colui fusse stato prima vero feudatario senza esserne decaduto, como era per molto grave colpe, perchè havendo epso il feudo, el Signore d'epso, che l'havea recuperato, ne potea fare il suo beneplacito.

················

Ma perchè si parla di Ferrara, ragionevol cosa è, sì como di Modena et di Reggio si è facto, declarare como iniustamente nel principio pervenesse in potere di questi da Este et con maggior iniustitia et iniquità sia stata poi ritenuta. Già notissimo è Ferrara essere delle certe et antique cose della S. Chiesa, posseduta centinara d'anni dal tempo de Carlo Magno sin che fu occupata per costoro, circa el tempo che Pontifici stavano in Avignone, sendo stati posti stipendiati alla custodìa di epsa città contro un certo Salinguerra cittadino che se era elevato in tiranno: ma quelli che la doveano defendere la usurporno, sendo le cose della Chiesa travagliate. La qual alquanto respirando non volendo tolerare tanto iniuriosa iactura, scacciogli, recuperando la città: ma poi pur epsi la reoccuporno, con adiuto de' tiranni circumvicini, che in quel tempo molti se n'erano elevati in quelle bande per le perturbationi della Chiesa et dell'Imperio, como acader sole che sempre tiranni pululano, afflicti e principi che li hanno a reprimere: et così correndo tal vicissitudine per alcuni anni, furno scacciati più volte hor per el Pelagura Legato de Bologna, hor per altri ministri della Sede Apostolica et excomunicati, como ne appare anchor el processo nell'Archivio [clxvii] de Avignone. Ma di poi, sondo pur la corte absente, et oppresso il Stato ecclesiastico dalla potentia de' Visconti, parve al summo Pontifice defferir la lor punitione ad altro tempo più comodo, tolerandoli cum conditione pagassero dieci mila ducati de annuo censo alla S. Sede, per attendere al più importante: et così la obtennero con iniqui principii, primo a tradimento, poi per violentia et necessità, confirmandoseli nel funesto tempo che in breve successe del scisma, che durò tanti anni. Et non contenti di questo, alquanto di poi usurporno Argenta all'Arcivescovato di Ravenna, per il che furno di novo excomunicati et astrecti a restituirla; ma appresso la reoccuporno; et non satii usurporno anchor Comacchio et Lugo. Dipoi cominciando a rehaverse la S. Sede, sendo le cose della Chiesa anchor debile, se son mantenuti con appoggiarse sempre a chi inimicava ad epsa Sede, con procurare al continuo stesse bassa et travagliata, ad ciò non havesse facultà di ripetere el suo, et cercato ognhora diminuire quel censo, secondo le occasioni o necessità de' summi Pontifici, che se li sono offerte. Tanto che da diecimila ducati, l'hanno reducto a nulla, cioè a cento, che ultimo li fu concesso da PP. Alexandro quando don Alphonso pigliò sua figlia spuria per moglie, nella qual occasione anchora usurpò Cento et la Pieve, terre del Vescovato de Bologna, quantunche epso Alexandro avanti tal contracto havesse statuito et tractato recuperar Ferrara alla Chiesa, como prima di lui Sixto et Pio pessime disposto verso el duca Borso, secondo le sue epistole attestano. Tacio li precedenti per non tanto extenderme, sendomi stato bisogno summariamente quasi texere una historia, per far cognoscere quanto iniquamente sia stata usurpata et retenuta epsa città de Ferrara a la Sancta Sede, lassando anchora de scrivere quante volte sia devoluta, sì [clxviii] per le rebellioni de' maggiori de don Alphonso, como per essere mancata la linea loro legittima, chè al più del tempo bastardi hanno signoreggiato in epsa casa: della quale se si volessero contare le sanguinolente et abominevole tragedie, le occisioni, li stupri, se maraviglierebbe ognuno che tanta iniquità fosse perdurata sino a questi tempi; quali, et per non esser troppo longo, et per non voler toccare cose calunniose, non pertinenti alla resposta, preterisco: ma le historie de' moderni scriptori, communi ad ognuno, ne sono piene. Questo non lassarò, per far a proposito, che l'avo de costui, march. Nicolò, sendo bastardo, lassò Ferrara per testamento al march. Leonello pur bastardo suo figlio, Modena al Sig. Hercole patre de don Alphonso, Reggio, che havea occupato lui, al Sig. Sigismondo figlio legitimo; et epso mar. Leonello morendo lassò il Stato di Ferrara al Sig. Nicolò suo figlio legitimo, nato de matre della casa del march. de Mantoa, al quale il sig. Hercole la occupò, et ad epso suo nepote crudelmente fece tagliare il capo. Parimente levò Reggio al sig. Sigismondo suo fratello: et si alcuno volesse defendere questa occupatione, allegando el bastardo non poter succedere nel Stato, che dirà egli di Reggio che era lassato al legitimo, et cosa acquistata di novo per el testatore? Poi se li responde che parimente el march. Nicolò avo non potea tenere Ferrara per essere bastardo, et però nulla ragione li potea anchora havere el figlio legitimo; et si titulo alcuno o investitura li acquistò per sè et il figlio bastardo, como fece per epso march. Leonello, che lui solo qualche ragione pretendere li potea, et nulla il signor Hercule, et non dimeno el figlio legitimo d'epso signor Leonello decapitò con levarli el Stato.... Di san Felice gli è chiaro che antiquamente [clxix] era infeudato a' signori di Carpi predecessori del sig. Alberto Pio.

L'ultima querela di don Alphonso, sacratissima Maestà, è troppo abominevole, impia et scelesta: non li parendo assai haver calunniato il buon Pontifice, descrivendolo ingrato, fedifrago, cupido, iniusto, ardisce anchora accusarlo de crudeltà, facendolo sicario et sanguinolento. Temerità tanto grande et impietà, che non meritarebbe risposta de parole, ma di debito supplicio. Al che la vita innocentissima de PP. Leone nota a l'universo da sè responde et purga; oltra che la calunnia da lui non se prova nè cum effecti, nè cum argumenti nè alcuna coniectura; ma sol exagera la cosa con parole grave, exordiendo che S. Santità l'havea in odio gratis: cosa aliena non solo da li efferati homini, che non portano odio si non per qualche causa, ma anchora dalli bruti animali; et lo impone ad una natura tanto mansueta, suave et benefica, et dice havere toccato con mano S. Beatitudine per mezo de' scelerati soi ministri con via detestanda haverli poste insidie nella vita, allegando di ciò havere testimonij soi famigliari, et stipendiati, tentati per tale effecto, et esserne facto processo, quale ha appresso di sè con epsi testimonij vivi, con alcuno de' quali el PP. istesso ha parlato di bocca propria sopra decto tractato, in modo da far stupire chi lo intendesse. Per certo subtile inventione, exquisita astutia, ma mal colorita fabula!.................................. A voi dico, don Alphonso: Chi sarebbe questi se maraviglierebbono, si non li grossieri, incapaci et sciocchi, che havendo voi conficto uno processo, stato iudice et parte, electi testimonij vi son piaciuti, che l'havessi exteso a vostro modo? Maraviglia sarebbe che havendo facta la ribaldaria, non vi fussi sforzato farla compita [clxx] et apparente quanto poteate. Ma non vedete voi che quanto la confingete più atroce, per movere li affecti de chi leggesse le vostre Littere, tanto la rendete men verisimile? Chè non vi havendo altro argomento nè prove (chè ben sapete vostri famigliari non fanno fede nè processo facto avanti voi et vostri iudici, in casa vostra et in causa propria) doveate tutto affidarve in la verisimilitudine, volendo allucinare la mente di qualcuno? Questi testimonij che dicete essere vivi, con li quali ha parlato el Papa, o sono vostri ministri et famigliari, o soi. Si de' vostri, non è da credere che un principe sì prudente et circonspecto, qual era Sua Santità, anchor havesse tal animo, si fusse confidato dirlo a loro: si erano de' soi, non è verisimile l'havessero palesato a voi, con tradire un suo sì gran patrone: poi, si così è, produceteli, comparischino questi vostri egregi testimonij, et se cognoscerà la vostra iniquità et sceleraggine; chè me sforzate pure a così dire, parlando voi tanto inhonesto et sordidamente del summo Pontifice vostro supremo Signore. Doveate questo processo far produrre et estenderlo davanti altro tribunale che'l vostro, che non se sa (pur sono astrecto toccare delle cose che tacere volevo) come se formano li processi in casa vostra? Sannolo li infelici vostri fratelli crudelmente incarcerati tanti anni sono: sallo el sangue et le viscere de quelli poveri gentiluomini dilacerati.....................

Quanto a l'antiqua amicitia adducete tra casa de' Medici et vostra.......... se li eravate amico, perchè faceste in Francia appresso el re Loysi et reverendissimo Rhoano Legato tanti mali officij contra loro? Bisogna adunche dire, o che mai li fuste amico, ma della fortuna loro quando era florida, et li voltaste le spalle como la se mutò, o che siate stato perverso et malvagio [clxxi] a non subvenire e vostri amici in le necessità; ma, che è peggio, adiutare a perseguitarli, et voi istesso a procurarli el male: et questo quanto all'antiqua amicitia basti....... mai la vostra amicitia fu utile ad alcuno, dannosa sì, per non risguardar in epsa si non quanto serve al vostro commodo......................... Ma el mendace ha fronte a dire tutto quello pare li venga bene, maxime quando non l'ha a provare altrimente; per il che presume poi anchora dire epso medemo PP. Leone havere affirmato, che iniustamente Julio el perseguitava, chè troppo è ridiculo che S. Santità qual era Legato del PP. et in facto all'occhio vedea le sue pessime opere, più volte narrate, la union cum scismatici, le insidie facea al Stato de Bologna et di Romagna, dicesse el PP. indebitamente perseguitarlo. Pur, adducendo il Cardenale suo fratello per testimonio, se li vuol credere; maxime se li occhi di don Julio suo fratello lo consentessero!

............ L'eredità sua (del card. Ippolito) qual tutta era de beni ecclesiastici (che ben sa delli paterni epso non hebbe mai alcuna parte), sì grossa summa de denari, tanti altri beni de ogni sorte che a maior valore ascendono de cento miara de ducati, se ha usurpati, che tucti perveneano al summo Pontifice, et nientedimeno gli l'ha permessa, sino a riportarse a Ferrara quella parte n'haveva in Roma! È questo picciol dono? beneficio da tacere? inditio de mala voluntà verso lui, et di volerli toglier Ferrara? chè pur l'anno passato fu questo; anchor che S. Santità sapesse epso Cardenale essere morto repentinamente senza poter testare (oltra che non havea sufficiente facoltà), quantunque lui facesse scrivere un testamento falso, per potere sotto qualche colore occupare quelli beni, contra il quale vi erano [clxxii] li testimonij parati a provare la falsità: et questo beneficio con li altri tace, non volendo essere meno ingrato con la lingua che con le opere.

Volse (Alfonso) implicitamente diminuire l'authorità pontificia, accostandose alla venenata doctrina de l'heretico Martino Luther, la quale però sin l'anno passato per molti giorni fece publice predicare in Ferrara et anchora in Venetia, ben che non tanto apertamente, dal suo barbato frate Andrea da Ferrara de l'ordine d'heremitani, che anchora maiori errori publicò delli lutherani. Onde mandando il PP. a comandarli lo facesse pigliare, epso obedire nol volse, ma lo fece nascondere: colpa anchora maiore delle altre per essere causa d'heresìa, per la qual sola meritava essere privato (di Ferrara) et severissime punito..................

Accusa, invictissimo Cesare, questo inimico da V. Maestà la gloriosa memoria de PP. Leone in queste sue Littere publicate de poi la morte di epso (ben che ad ciò il tutto sia mendace, la data sia facta avanti il suo deflendo caso, cioè di novembre: ma niuno se ritrovarà a chi tal Littere siano pervenute a mano, si non molti giorni de poi mancò S. Santità); accusalo de inconstantia, de perfidia, de cupidità, de iniustitia, de crudelità: fallo un sicario, un homicida; cosa pur troppo aliena, appresso ad ognuno che l'ha cognosciuta, da quella mitissima, dolcissima et beneficentissima natura, qual da posteri serà celebrata et predicata como cosa rarissima et singulare[157], morta che serà l'invidia et odio d'alcuni; chè satisfare et contentare ogn'uno non se pò per chi administra magistrati et potissime grandi, quanto quello del summo pastore et de Vostra Maestà.

[clxxiii]

Dovea bastare a don Alphonso, volendo calonniare el bon Pontifice, dire non li havere servate le promesse, non voluto donargli Reggio, havere tentato ricuperare Ferrara, non permesseli la regalie del sale; et ahstenerse dire haverlo voluto fare amazare, farlo un crudele et sanguinario tiranno; chè le prime cose appresso alcuni forsi sarebbono parse verisimile: ma quest'ultima denota il tutto essere conficto et mendacio evidentissimo.

Excusatione chiama un libello famoso, un parlare sì petulante et temerario, una invectiva piena de tante calunnie, ove parla de' summi Pontifici con quel poco respecto farebbe d'alcuno infame et vil plebeio, d'uno de' ministri del suo macello o fucina; ove lo chiama ingrato, perfido, doloso, periuro, sicario et homicida... ha dato a cognoscer il rancore esser radicato contra la S. Sede, perseguitare la Chiesa Romana con li Pontifici, et che tale serà verso il successore qual è stato contra Julio et Leone, della cui morte si è pur troppo dishonestamente rallegrato, facendo dimostrationi tanto aperte et inreverenti contra chi pure li era Signore et tenea il loco de Dio in terra, con donare il nuncio li portò la nova (contra il costume della sua avaritia) grossamente di vaso di argento et altre cose, aprire le prigioni, intonar l'aere di sono di bombarde, et fare altri segni da quasi essere impazato. Dal qual furore mosso, parendoli, vacante Sede, più agevolmente poterli nocere, ritornò fori con le arme hostilmente, quale il S. Pontifice li havea represse, repigliando il Finale et san Felice destitute de presidio, et oppugnando Cento et altre terre, parte cum arme, parte cum pratiche et tradimenti; benchè di Cento custodito non li reuscì, nè di Cotignola: de Luco sì con littere falsificate, et del Frignano et alcuni altri lochi. Di Reggio et Modena non [clxxiv] parlo, per le quali occupare nulla arte o fallacia ha pretermessa, prohibendoli l'avaritia havere unite forze per oppugnarle, credendose però quelle havea doverli bastare (congionte con le Franzese che oppugnavano Parma) conseguite l'havessero.............

V. Maestà farebbe iniuria........ si lo esaudisse, ma molto più a sè stessa, tolerando un crudele tiranno, inimico della S. Sede, del Sacro Imperio et de V. Maestà, alla quale pur debbe CCCC milia ducati, usurpatore de' beni d'altri, che, como narrato è, non tiene nè pretende in cosa alcuna ove habbi veruna ragione; havendo rubato et occupato ad altri quanto questa casa ha mai posseduto: Ferrara alla Chiesa, Modena et Reggio al sacro Imperio, Comacchio pure alla Chiesa et a' Rhavennati, Poleseno de Rovico a' Paduani, Graffignana a' Lucchesi, Frignano a varie famiglie de gentili homini per loro annichilate, Argenta et Luco all'Arcivescovato de Rhavenna, san Felice a' Carpesani, Brixello a' Coregeschi, Bagnacavallo alli Barbiani, Nonantula all'Abbatia. Le quali cose lui vorrebbe tenere occupate, et ne parla como si fussero sue cum ogni antiquo et novo iusto titulo, et tamen in Ferrara non ne ha alcuno: primo rubata, poi con violentia occupata, appresso decaduta, ultimo lui privatone da doi summi Pontifici per iustissime cause sopra narrate. In Modena et Reggio manco, quali pure nel principio furno usurpate al Sacro Imperio, che poi ne son decaduti per censi non pagati et multiplice rebellioni. Et lui oltra le medeme cause essere stato scismatico, haverle perse in iusta guerra, ultimo permesse et contractate per el divo Maximiliano Imperatore alla S. Sede Apostolica, restituendola nelle sue antique ragioni, parimente manco in le altre cose minori sopra narrate, nelle quali particularmente discorrere sarebbe tedioso.

[clxxv]

Però la Maestà V. qual è posta da Dio nel più sublime loco per essere executor della iustitia, extirpatore et profligatore de' tiranni, protector della S. Sede Apostolica, defensore et administratore del Sacro Imperio, da epsa Sancta Sede in primis oppressa, li vien supplicato dal venerando spirito del buon PP. Leone suo amantissimo patre sì vituperosamente iniurato, dal Sacro Imperio, da tutti l'Imperiali d'Italia, da' poveri subditi et altri violentati da la tirannide de costui, non voglia patire che più perduri tanta iniustitia, iniquità, impietà: che più persista questa voragine de avaritia, questo insidiatore della S. Chiesa Romana, del Sacro Imperio, de ogni nobilità et de tutti i boni, per essere lui perversissimo: ma voglia levare questa pietra de scandalo de Italia, con liberare quelli miseri populi dal suo tirannico iugo, et restituire la S. Sede Apostolica in le sue ragione, mettendola in quiete et pace: qual mai haverà perstando questo suo atrocissimo inimico con potentia et Stato.

In Roma, a' di VI di gennaro M.D.XXII.

Documento XV

Alla marchesana Isabella Estense Gonzaga in Mantova

Ill.a Sig.a et patrona mia observ. — Benchè io da me stesso mi cognosca havere habuto molto de l'aseno verso V. Sig., non di mancho non restarò de fare un bon animo como e non fusse quello, faciendo intendere a quella che epsa me è debitora de uno bussolo de compositione et de una bochaleta de acqua che sia bona; perchè io non la voglio de acqua de cisterna, como fu quella de Camilazo: ma la S. V. lo ha trattato proprio como el [clxxvi] merita, perchè la adopera simile cossa in concubine sporche, che pure a dirlo el me vene angostia. Sì prego V. S. a non me manchare de la promessa, perchè io serìa desfato; perchè la desgratia mia si ha voluto che da poi che la S. V. me attachò quello sudore de man abe reguardo che sempre el me sta la mano sudoloxa, che el m'è forza quando io vo a concubine prima tignire sempre la mano uno pezzo a frescho: per modo che se io non me aiuto con qualcossa che amorzi quello sudorozo, io non achataria asena nè vacha che me levasse. Si V. S. intende el bisogno, così io mando uno messo a posta. Prego la Ex. V. a darli bona expeditione, perchè in vero la cossa importa. Non dirò altro, si non che a V. S. Ill. con tutto il core me raccomando.

In Ferrara, adì VII di junio M. D. 5.

Di V. Ex.

Servo

Rainaldo Ariosto.

Documento XVI

Al duca Alfonso I d'Este in Ferrara[158]

Ill. et Ex. Sig. colendiss. — Fui alla comedia domenica sera, et feceme intrare Monsig. de' Rangoni[159] dove era Nostro Signore con questi suoi Reverendissimi Cardinali gioveni in una anticamera di Cibo[160], et lì pasegiava [clxxvii] N. S. per lassar introdure quella qualità di homini li parea; et intrati a quel numero voleva S. Santità, se avviamo al loco de la comedia, dove il prefato N. S. si pose a la porta, e senza strepito, con la sua benedictione, permesse intrare chi li parea; et introssi ne la sala, che da un lato era la sena et da l'altro era loco facto de gradi dal cielo de la sala sino quasi in terra, dove era la sedia del Pontifico: quale, di poi forno intrati li seculari, intrò et posesi sopra la sedia sua quale era cinque gradi alta de terra, et lo seguitorno li Reverendissimi con li Ambasatori, et da ogni lato de la sedia si poseno sicondo l'ordine loro. Et seduto il populo, che potea esser in numero de dui milla homini, sonandosi li pifari, si lassò cascare la tela, dove era pincto Fra Mariano[161] con alcuni diavoli che giugavano con esso da ogni lato de la tela, et poi a mezzo de la tela v'era un breve che diceva: Questi sono li capreci di Fra Mariano. Et sonandosi tutavia et il Papa mirando con el suo occhiale la sena che era molto bela, de mano de Rafaele, et representava bene per mia fe forme[162] de prospective, che molto forno laudate: et mirando anchora il cielo che molto si representava belo, et poi li candeleri che erano formati in litere, che ogni litera substenìa cinque torcie, et diceano LEO X. PON. MAXIMVS, sopragionse el Nuncio in sena, et recitò l'argumento, in demostrare che Ferrara era venuta lìe sotto fede de [clxxviii] Cibo per non tenersi de minor vaglia di Mantua, che era stà portata l'ano passato da S.a Maria in Portico[163]: et bischizò sopra il titolo de la comedia, che è de' Suppositi, de tal modo che 'l Papa ne rise assai gagliardamente con li astanti; et per quanto intendo se ni scandalizorno Francesi alquanto sopra quelli Suppositi[164]. Se recitò la comedia et fu molto bene pronuntiata; et per ogni acto se li intermediò una musica de pifari, de cornamusi, de dui corneti, de viole et leuti, de l'organeto che è tanto variato de voce che donò al Papa Monsig. Ill. de bona memoria[165], et insieme vi era un flauto et una vece che molto bene si commendò. Li fo ancho un concerto de voce in musica, che non comparse per mio iuditio cossì bene come le altre musice. L'ultimo intermedio fu la moresca, che si representò la Fabula de Gorgon, et fu assai bella; ma non in quella perfectione ch'io ho visto representare in sala de Vostra Signoria; et con questa se finè: et li audienti si comentiorno [clxxix] a partire, e in tanta presia et calca, che per mia sorte fui spinto a traverso una bancheta, et portai pericolo de non rompermi una gamba, de modo ch'io fui necessitato dire: guarda la mia gamba; et lo replicai più de quatro volte. Al Bondemonte[166] fu data una grande ciucata per uno Spagnolo[167], et in quello che esso comentiava a menar pugni contra lo Spagnolo palafrenero, fui adiutato a livarmi: ma certo è ch'io passai gran pericolo de la gamba; et ne havi da Nostro Signor recompenso de una larga benedictione, con una bona ciera. Et passati ne le camare ove eran preparate le tavole de la cena, me incontrai in Monsignor de' Rangoni et Salviati ch'io era con il Nuntio venuto de Madama[168] che si chiama Lanfranco Spinola: et il prefato Rangoni me disse: «La vostra fè rara[169].» Et io respondendoli: «Molto bene, Monsignor, la fede rara è quella che è preclara et pretiosa.» Et alhora Salviati disse: «Lui dice el vero, tanto più che le belle inventione vengono da Ferrara.» Et alhora parlàmo de Mess. Ludovico Ariosto, et quanto vale in questa arte. Dipoi se retiràmo il prefato Mess. Lanfranco et io; et parlando de questa comedia, si dolea che a la presentia de tanta Maestà si recitasseno parole che non fosseno honeste; et invero in quel principio gli sono alcune parole rematici. Esso con M. Poitom et un altro francese andorno a cena con il Bondemonte; et benchè il Bondemonte invitasse ancho [clxxx] me in quel instante cossì là, deliberai refiutarlo et andarmine a la mia ceneta. Il giorno avante de quella sera si corsero li cavalli, et poi comparve una compagnia de gieneti, capo Mons. Corner, vestiti a la Moresca variamente, et dipoi un'altra tuta a la Spagnola vestita de raso alesandrino con fodra de cangiante capino et saio, capo Serapica[170] con molti camareri al numero questa de vinti cavali, a la quale el Papa havia donato per ciascuno quarantacinque ducati; et certamente che era bela livrea con stafieri et trombeti vestiti de quelli medesimi colori de seda: et gionti in piacia comentiorno a due a due a correre verso la porta del palazo ove stava il Papa ad alcune fenestre: et facta questa corsa per ambe le compagnie, la Serapica se ritirò da l'altro lato de la piacia et la Cornera verso San Pietro. Et la Serapica prese le cane, et vene ad assaltare la Cornera che havea anchora lei le cane, et slanciate le cane la Serapica contra la Cornera, essa poi la inseguitò con le sue cane: et cossì ferno per volte assai l'uno contra l'altro, che era piacevole vedere et non pericoloso, et eravi de molto belli cavali et cavale gienete. Il giorno seguente se travagliorno con li tori, et io era con il sig. Mess. Antonio, sicondo scrissi, et si amaciorno tre homini, et quatro feriti da li tori, et cinque cavali forno feriti et dui ne sono morti; et fra li altri un de Serapica che era belissimo gineto, et lui fu butato in terra et passò gran pericolo, perchè il toro vi era intorno, et se non fosse stà stimulato con ferite non se gli levava da presso, che lo amaciava. Et intendo che 'l Papa [clxxxi] dicea, povero Serapica, et molto si dolea. Li morti forno portati in campo sancto per mundarvi (sic) le osse. La sera intendo si recitò una certa comedia de un frate, el quale havea facto Uno arboro de male (?)[171], et per non esser successa a molta satisfacione, il Papa in cambio de Moresca fece balciar questo bom frate sopra una coltra, et dete una gran panciata sopra el tabulato de la sena. Dipoi li fece tagliar tute le strenghe intorno et tirare le calcie a li calcagni, et il bom frate ne morsicò de quelli palafreneri tre o quatro de mala sorte, et fu necessitato tandem a montar a cavalo[172], et cum le mane li forno date tante sculaciate che, siccomo mi è referto, li sono bisognate molte ventose et su la schena et su le chiape, et stassi in lecto et non bene. Dicesi che 'l Papa lo fece fare in exempio de altri frati a ciò se levino de pensier de non farli veder sue fraterie. Pur questa Moresca lo fece assai bem ridere. — Hozi veramente si è corso a l'Anelo denanti la porta del palazo, stante il Papa a quelle finestre, et con li prezi già scripti, adiunctoli urinali; et poi si sono corsi li bufoli, che è gran piacere a vedere quelle bestiacie correre, che per un poco vano in anti et poi tornano a drieto, et quando giongeno al palio, inanti lo possano tocare, li vol del tempo assai, chè mo vanno un passo inanti et quatro in drieto, et de modo sterno in contrasto a quella asesa, che l'ultima vi gionse fu quella andò inanti et have il palio, et forno in numero diece, et per mia fe che fu gran solazo. Me ritirai poi a casa de Bembo[173], et visitai [clxxxii] Sua Signoria, che vi era lo episcopo Bajosa[174], et non si parlò se non de mascare et cose piacevole: et ancho si parlò quanto bene et vertuosamente V. Ex. fa instituire li figliuoli: et molto lauda V. S. il prefato Mess. Pietro, et dice esservi gran servitore. Altro non ho; et per esser la sera de carnevale son stato in questa cianciarìa; et a V. S. humilmente sempre mi raccomando: che 'l Signor Dio la conservi felicissima.

De Roma, adì VIII marzio M. D. XVIIII,
hora 4ª noctis.

De V. S. Ill.

Servo

Alphonso Pauluzo.

Fuori — A lo Ill.mo et Ex.mo S.r mio col.mo il Sig. Duca de Ferrara.

Documento XVII

Supplica ad Ercole II Duca di Ferrara

Ill. et Ex. Sig.

Expongono a V. Ex. li fedelissimi sudditi et servitori suoi Gabriele, Galasso, Alessandro fratelli, et Virginio lor nepote de li Ariosti, che essendo sin de l'anno 1519 morto mess. Rainaldo lor fratello consobrino, et essi rimasi suoi heredi ab intestato, con l'altra eredità, come di cosa sua, pigliarono pacifica possessione d'alcune terre arative, prative et d'altra sorte, poste nel territorio di Bagnolo, quali, già molti et molti anni sono, furono concesse a livello da l'Ill. duca Hercole [clxxxiii] avo di V. Ex. a mess. Francesco Ariosto scalco alhora di sua Ill. S. et padre di detto mess. Rainaldo. Et essendo stati già parecchi giorni in quieta possessione di queste terre, dal quondam mess. Alfonso Trotto alhora fattore generale, forono, senza nessun colore di ragione, de facto et ingiustissimamente non solo spogliati del possesso di detti beni, ma insieme con quelli de i frutti anchor ch'erano avulsi a solo alla morte di mess. Rainaldo. Onde di ciò dolendosi i poveri servitori all'Ill. padre di V. Ex., et supplicandogli, che poi che dal suo fattore era stato lor fatto così expresso et manifesto torto, si degnasse dare loro qual si volesse altro giudice dal fattore in fuori, dinanzi a cui s'havesse a conoscere et decidere di ragione questa causa, non potero ottenerlo; anzi Sua Ex. gli rimesse pur a detto fattore. Onde non potendo essi farne altro, forono sforzati cominciare la lite in Camera, dove fu agitata, et instrutto il processo, publicati li testimonij, et condotta la causa sino alla sententia: alla quale instando essi, il fattore per l'odio che portava gratis a mess. Lodovico, et per rispetto di lui a tutti gli altri presenti fratelli, non comportò mai che se ne potesse vedere il fine; ma quando con una cavillatione, quando con un'altra, maxime allegando l'absentia di mess. Ludovico Cato consultore de la Camera, che la maggior parte di quelli anni stette sempre hora appresso 'l Papa, hora l'Imperatore, et ultimamente oratore appresso il Re christianissimo andò sempre diferendo questa expeditione ingiustissimamente, et con extremo danno de i poveri supplicanti. Quali veggendo apertamente inimico alla lor giustizia colui a chi erano sforzati domandarla, hanno lasciato passare molti anni senza instare più per la expeditione di detta causa: et se in questo tempo pur hanno in essa processo a qualche atto di ragione, è stato più tosto per tenerla viva [clxxxiv] et in memoria del mondo, che perchè ne sperassero nessun bon fine.

Non sono però mai stati senza speranza che'l tempo apportasse un dì occasione, che le sue ragioni havessero ad havere più giusto et benigno giudice che alhora non haveano. La quale poi che finalmente è giunta, et che V. Ex. non meno per merito de le sue infinite virtù che per debito de la paterna successione et primogenitura è collocata nel suo ducal seggio, ricorrono a lei come a desiderato et lungamente aspettato lor refugio i servitori presenti, supplicandola che non voglia più comportare che siano, come sono stati già quindeci anni, stratiati et menati in lungo da le cavillationi et calumnie si del Fattore passato come d'altri procuratori, notari et agenti de la sua ducal Camera; ma si degni commettere per suo rescritto alli presenti Mag. suoi Fattori et altri a chi spetta, che reiecte le cavillationi et calumnie, debbano finalmente con effetto et con celerità terminare pro iustitia detta causa, attento che già più anni sono si trova instrutta, publicati li testimonij et fatto ciò che è da fare.

Il che essi riceveranno in singolar gratia da lei, la quale Dio lungamente conservi in quella felicità ch'ella stessa desidera.

Factores generales supplicantibus justitiam faciant, causamque ipsam expediant, reiectis calumniis et cavillationibus quibuscumque. Ita ut supplicantibus ipsis iusta querela locus relinquatur.

XXIII decembris 1534.

Bartholomeus Prosperi.

[1]

LETTERE DI LODOVICO ARIOSTO

I inedita[175]

Domino Aldo Manucio....

viro doctissimo ac mihi colendissimo,

Venetiis.

Cum Sebastianus Aquila vir bonarum artium sedulus cultor, qui apud nos praeter medicinam quam publico stipendio docet, Academicum Dogma profitetur, Platonem in Timaeo diebus festis maxima audientia legat; non mediocre desiderium studiosis [2] incidit habendi libros Marsilii[176] et aliorum, qui aliquid de hac secta a graecis scriptum latine transtulerunt. Et cum tu possis illos potissimum explere, nam id cum ex aliis tum superioribus diebus ex Alberto Pio[177] viro magnifico ac litteratissimo cognovi, qui abs te rediens ad nos volumen inter ceteros attulit, in quo Platonicorum quorumdam opera quaedam congesta sunt; ego ut his doctis viris qui me ad id hortantur morem geram, et ut tuae utilitati consulam, quam non minimam existimo si quae imprimenda curasti a pluribus emantur, meum officium duxi te litteris obsecrare ut nostro huic honesto desiderio obsequi velis. Quare si tot litteratorum rogationes non despicis, quicquid in hac re habes ad nos mitte. Nam praeter tuum commodum studiosis etiam laborem ob hoc navigandi Venetias demes. Vale.

Ferrariae, nonis Januarii 1498.

Ludovicus Areostus.

II

Al cardinale Ippolito d'Este

Ill.mo Signor mio. Per eseguire quanto Vostra Signoria mi commette io mi sforzarò di intendere [3] quelle nove che saranno possibili da intendersi, e di giorno in giorno ne terrò avvisata quella. Al presente si parla assai per Ferrara di Beniamin ebreo da Riva[178] che ha fallito di 14 mila ducati che avea da altri ebrei forastieri a guadagno, e questo per avere esso credito col conte Rinaldo Sacrato e col conte Jeronimo Roverella e con altri di qualche migliaro di ducati che non può esigere. A Ferrara sopra di questo si dicono molte ciancie: che è stato il Duca che avendo inteso che avea molti denari di cristiani ad interesse, ha voluto sapere chi sono questi che per suo mezzo prestano ad usura, e ha voluto torgli tutti questi denari che erano di cristiani usurari;[179] e la fama sovvertendo la veritade, dice che'l conte Rinaldo prefato avea su quel banco duemila ducati a guadagno, e così molti altri che si nominano. Pur Marco Marighella, al quale in queste cose si può dar fede, mi ha certificato esser così come prima ho scritto, e m'ha detto ancora che molti argenti di V. S. sono su quel banco; e avvenga che'l signor Duca abbia fatto il salvo condotto a Beniamin, pur non vi sono molto sicuri, perchè un giorno se ne potrebbe fuggire. M'ha detto ancora Marco che stanno in pericolo di fallire de li altri appresso, perchè siamo a un tempo che ciascuno [4] c'ha denari fuora cerca di ritornarseli in borsa.

Per li denari che ha dimandato il Duca in prestito ad alcuni particolari, si teme per la cittade che non segua in generale: anzi ho odito dire, benchè io creda che sia falso, che vuol mettere una colta sul Comune di centomila ducati, e di questo si fanno diversi parlamenti fra il popolo, chè niuno se ne contentaria.

In tutto lo Ferrarese è tristissimo recolto di vino, adeo che vale 14 e 15 lire la castellata: il formento è a 12 bolognini il staro.[180] Quelli che ne hanno da vendere stanno in speranza che debba incarire molto.

Per quanto io ho vedute alcune lettere di alcuni che abitano Adria, in quella terra, e così in tutte quelle ville che sono ne l'estremità del Po e presso la marina, si sta con gran sospetto che crescendo l'acque, Veneziani non li assaglino con l'armata,[181] più presto per robarli e farne preda e strazio per l'odio che ci hanno, che per avere animo di tenerli: [5] e alcuni di detti lochi si hanno già fatto provvisione di case in Ferrara, dove salvino le persone e meglioramenti loro. Ricevuta ch'io ho la lettera della S. V., ho dato a quella questi pochi avvisi qualunque si siano, per non essere imputato di negligenza. Di giorno in giorno starò attento e farò ogni instanza di sapere, e praticarò più alla piazza e alla Corte che dopo la partita di V. S. non facevo; e di ciò che mi verrà a notizia le ne darò avviso. Alla quale, post manuum oscula, humiliter mi raccomando.

Ferrariae, VII septembris MDIX.

Ill. D. V.

Servitor fideliss.,

Ludovicus Ariostus.

Fuori — Ill.o et R.o D.o Domino meo unico D.o Cardinali Estensi — In Castris Caesareis.

III

Al medesimo

Ill.mo Signor mio. Luni passato per una faccenda di un mio cognato andai a Nonantola dove visitai il Rev. Cesarino,[182] dicendogli che io ero venuto a far reverenza a Sua Sig., perchè mi rendevo certo che se V. S. si fusse ritrovata a Ferrara averia mandato in ogni modo alcuno de' suoi a far tal effetto, [6] e che risapendo poi che ritrovandomi io in loco dove l'avessi potuto fare e fussi mancato, ne averei da V. S. avuto riprensione. Il Cardinale prefato mi fece gratissima accoglienza e carezze assai per amore di V. S., e poi mi disse avere a' dì passati mandato un suo sescalco per visitare in campo V. S., e che dopo la partita di quello mai non ne avea inteso novella e ne dubitava molto, e mi pregò ch'io ne scrivessi a V. S. e ch'io intendessi se quella ne sapeva cosa alcuna. Appresso mi disse di un levorero che aveva inteso che'l Mastro da stalla di V. S. avea bellissimo, mostrando nel dir suo avere desiderio di averlo. Io gli feci intendere che uno del prefato Mastro da stalla avea V. S. a' dì passati donato ad un Spagnolo e dubitavo che fusse quello che era stato a Sua Sig. laudato, perchè altro cane non sapea che fusse del Mastro da stalla di quella bellezza. Egli vide, stando io lì, una mia bracca ch'io avea molto cara per la sua bellezza perchè io la volea da eredi,[183] e me la domandò in dono. Io non gli la seppi negare, benchè me ne dole ancora. Sabato si partì per andare a Roma, e mi lasciò in commissione ch'io lo raccomandassi a V. S. Ill.ma come a suo patrone, con mille parole umane e di servitù, che serìa longo a scrivere. La differenza ch'avea con li uomini di Nonantola, che erano decaduti, ha commesso a Mess. Teodosio Brugia, il quale essendo io lì ha come adattata, che quelli uomini riaveranno le loro investiture pagando singulatim [7] chi assai, chi poco secondo le facoltà e il tempo delle decadute loro; e credo, secondo il principio c'ho visto, che il Cardinale ne trarrà parecchie centinara di ducati.

Venuto in questa terra, ho trovato due Siciliani che hanno avuto campo dal Duca per combattere. Un Marino da la Maitina ha chiamato un Francesco Salamone[184] per provargli di certa causa matrimoniale, di che credo che V. S. sia informata. Quando io credessi che V. S. non la sapesse, me ne informarei meglio e pienamente le ne darei avviso. Vèneri prossimo si dice che combatteranno se seranno d'accordo, ma sino adesso sono in discordia, e questo è che quel Marino ha scritto volere provare a quel Francesco quattro cose: l'una ch'una certa sua nipote o figliastra è moglie di questo Francesco; alla quale Francesco risponde, che questo che la ragione civile o sia canonica può decidere non vole ponere in fortuna di arme. All'altre tre si attacca, che una è che Marino dice che esso pose questo Francesco a dormire con la prefata sua nipote; l'altra che questo Francesco ha malmessi e dilapidati li beni de la prefata; la terza che questo Francesco non avrà ardire di venire in campo perchè [8] è codardo e che è un giudeo. A queste tre querele risponde Francesco, che Marino mente: ma questo Marino par che si attenga alla prima, per la quale Francesco non vuol combattere. Questo è quanto sino a questa sera è successo di questa cosa. Così Ercole il quale fa compagnia a quel Francesco mi ha detto. Di questa cosa che a Ferrara ho trovato di novo, se non fusse per darne a V. S. avviso, avrei poco pensero, verso un'altra che mi dispiace assai, perchè tutto oggi si è andato per li Massari in volta, facendosi comandamento alli cittadini che in termine di due dì ognuno abbia portato al Tesorero del Comune li denari che gli toccano de la colta imposta novamente per il Duca, come se tutti fussimo bancheri che avessimo denari in cassa. E tutto il popolo dal maggiore al minore dice male e peggio; e io ho odito dire da alcuno che se V. S. fusse in questa terra, non seriano queste cose; e che poi che quella ha adattati li fatti del Duca col Re di Francia e con l'Imperatore, serìa necessario anco che tornasse a Ferrara per adattare le cose del popolo col Duca. Oltra questa colta è stata imposta sopra li feudatarî un'altra gravezza, che è circa il quarto de la intrata. Io chiamo feudatarî tutti quelli che riconoscono roba de la casa da Este; ma questa non appartene a me perchè non ho roba di tal sorte; ma se io ne avessi non mi gravaria già a pagare. Nanti ch'io andassi a Nonantola, un dì vidi un tumulto di contadini che si lamentavano a M. Antonio di Costabili di infiniti lavoreri che ogni dì multiplicavano, [9] e minacciavano di fuggirsi di Ferrarese; e odii un nodaro d'argini[185] che attestava che de la sua guardia n'erano già fuggite tre o quattro famiglie. Per Ferrara si ragiona, ma noi dico già ch'io lo sappia certo, pur si dice publicamente, che a questo Natale Mes. Antonio serà casso del giudicato de' Savi, e in suo loco andarà Benedetto Brugia. Quelli che credono che tal cosa abbia a succedere estimano da lungi a che effetto serà fatta. Io scrivo cose di fastidio a V. S. perchè non ho da piacere: alla quale humiliter mi raccomando.

Ferrarie, XXII octob. MDIX.

Ill. et R. D. V.

Servitor fidelis,
Ludovicus Ariostus.

IV[186]

Al medesimo

Ill.mo Sig. mio................. Al Sig. Cardinale Regino[187] ho fatto sentire il desiderio che V. S. avrebbe che Mess. Giovanni.... avesse la compagnia che era del conte de la [10] Mirandola,[188] e oltra questo le ho commendato il prefato Mess. Giovanni quanto mi fu possibile, del quale il prefato Sig. Cardinale avea poca notizia. Sua Sig. Ill., per amor de la S. V., si è offerta di far tutto il poter suo acciò che si consegua l'intento, avvenga che n'abbia poca speranza; però che poco dinanzi, pregato dal Sig. di Pesaro, ne ha parlato con la Santità del N. S. acciò che il Sig. di Pesaro avesse tal condotta, e dal N. S. n'ha avuto repulsa; e per questo estima che abbia tra sè disposto di darla a qualche suo. Tuttavia non restarà far ogni opera per satisfare a V. S. Quel dì ch'io giunsi qui, il conte Lodovico da Canossa[189] incidenter mi disse che'l Papa aveva eletto in loco del conte de la Mirandola il Sig. Ottaviano Fulgoso, e che poi parea che si fosse pentito, e che credea che divideria quella condotta tra più d'uno.

Dopo ch'io mi partii da Ferrara[190] è sempre piovuto il dì e la notte, e di qua le acque de li fiumi sono in su le ripe, sicchè è molto pericoloso il porsi [11] in cammino. Per questo V. S. mi averà per escuso s'io sarò un po' tardo al ritorno; ch'io ritornarei mal volontieri nei pericoli di affogarmi c'ho scorsi al venire in qua. Oggi è arrivata la nova che V. S. insieme col Duca ha rotta l'armata Veneta in Po,[191] di che a mio giudicio tutta questa Corte si è rallegrata; e il Sig. Cardinale Regino nel sortire da S. Santità trovò a caso che 'l Cornaro[192] descriveva questa vittoria con ogni particolarità. Me ne sono allegrato, chè oltra l'util publico la mia Musa averà istoria da dipingere nel padiglione[193] del mio Ruggiero a nuova laude di V. S., alla quale mi raccomando.

Romae, XXV decembris MDIX.

Servitor,
Ludovicus Ariostus.

[12]

V

Al medesimo

a Parma.

Ill. Sig. mio. Lorenzo di Pasti è giunto or ora qui in cittadella dove io mi trovavo a parlar col Capitano, e mi ha detto che venendo ha ritrovata una spia che gli ha fatto intendere, che subito che 'l Campo nostro si levi da Carpi, quello di Modena è per venire alla volta di Reggio, credo lasciando Rubiera da parte: e perchè detto Lorenzo ha dubitato che se andasse prima a Carpi per tornare poi a Sassuolo e a Rubiera, non fusse poi tardo col soccorso, ha mutato proposito, e ha mandato un messo a posta al Sig. Enea[194] con una sua, informando Sua Sig. del caso e del parer di V. S. circa a poner 200 fanti di quelli di Rubiera e Sassuolo in questa cittadella, acciò che 'l detto Sig. Enea [13] abbia a dimandarne licenza a Monsignore Gran Maestro[195] e mandar subito la lettera a Sassuolo, dove si trovarà questa notte Lorenzo per non perder tempo; e così il messo direttivo al Sig. Enea è già in via, e similiter Lorenzo ora che sono XXIII ore e mezza. Il Capitano qui de la cittadella prega V. S. che lo voglia soccorrere di alcuno de li suoi che stiano seco qui per quattro o cinque giorni, finchè si veda a chi riescono queste cose, e dimanda Domenichino, Giacomo da le Sale, Pier Moro,[196] Francesco Maria da Sassuolo e tali di che se ne possa fidare e valere. Lorenzo di Pasti ha già incaparrato di venire domani a V. S., alla quale mi raccomando.

(Regii,... octobris)[197] MDX.

Servus,
Lud. Ariostus.

[14]

VI

Al medesimo

a Parma.

Ill. Sig. mio. Questa mattina si sono radunati dodici primi cittadini di Reggio, che questa Comunità ha eletti provveditori de la guerra, alli quali io ho parlato acciò che facciano elezione di cinque o sei uomini che stiano appresso il Sig. Gran Maestro, secondo che da V. Sig. mi è stato imposto; li quali mi hanno fatto intendere aver già fatto provvisione di più numero di questo. Prima hanno dato l'impresa di vendere il pane che va in campo, ed essergli assistente, a due cittadini che hanno due famigli con loro. La cura del vino a Gian Giacomo Messore con autoritade e patente di comandare a tutti li uomini del distretto. La cura de le spelte ha uno Gian Francesco Camonchiela, il quale ha due compagni. Sopra li guastatori hanno fatto che ogni villa vi ha li suoi Massari, e Giambattista Cassola con due famigli ne ha la cura. Oltra di questo gli hanno dato carico di parlare per le cose che occorreno al Gran Maestro, e tenere avvisato di continuo la Comunità di quanto serà di bisogno, e questo ieri andò per tale effetto. Quattro beccari tengono di continuo in campo, e molti venditori di altre robe. Ne la terra hanno messo grande ordine che le vittuarie vadano abbondantemente in campo, e vi sono officiali salariati sopra questo. Di mandare oltra questi altre persone a stare presso al [15] Gran Maestro, si sono molto ritirati indietro, allegando non esser possibile a patire maggiore gravezza di quella che hanno, perchè tutti questi e li famigli c'hanno sono salariati con gran provvisione da la Comunità, imperocchè per li mali portamenti che gli usano Francesi si trovano pochi che vogliano andare a tal cure, perchè nel vendere le robe spesso rilevano di bone bastonate.

M'hanno fatto intendere ancora che gran difficoltade è a trovar spelte per mandare in campo, perchè prima li contadini non hanno, avendo già pagato e dato al Duca quelle che ogni anno gli sono obbligati:[198] li cittadini autem ascondono quella che hanno o negano di darla, e questo avviene perchè prima valeva dieci soldi il staro, e ora gli è dato metà, chè non la ponno vendere in campo più di nove soldi; e quando l'hanno condotta in campo, la vogliono alla misura di Rubiera che è maggiore della Reggiana; poi li pagano di moneta e vogliono che corra secondo che fa a Parma, che secondo la ragion loro (di che io poco mi intendo) gli ritorna in gran detrimento, e molto gli è meglio venderla qui a Reggio, che far spesa di mandarla in campo con tanta iattura. Oltra di questo ognun pensa che partito il campo valerà molto in Reggio, e con speranza [16] di venderla poi, la tengono occulta, e che quando lasciassero vendere la roba il prezzo suo, sponte portariano le persone la roba dove valesse con speranza di guadagno; così de la spelta come de l'altre cose. Oltra di questo bisognaria provveder che li conduttori che vanno in campo, vadano securi: ma li togliono spesso li buoi e li fanno lavorare in altro. Oltra di questo li rompono le casse e brusano in che la portano. Così ancora accade a li guastatori, che da li soldati sono tirati a nettare le lor stalle, e per questo avviene che chi va una volta in campo non gli vole tornare l'altra; nè questa Comunità può avere un carro se non manda li balestrieri a pigliare li villani per forza, e così ancora li guastatori se ne fuggiono, e di questo mi son trovato in fatto. Vorrìa ancora che V. S. scrivesse al conte Gian Boiardo che facesse condurre del vino in campo per esserne nel suo paese gran quantitade e prossimo al campo; così al Sig. Mess. Ercole per San Martino e Campogaiano, e a questi Castellani di Manfredi che tutti l'aiutasseno e mandassero vittuaglia in campo, perchè il distretto di Reggio per sè non basterà a provvedere al tutto: e mandare del pane, chè, oltra l'altre incomoditadi, sono pochi forni in questa terra. Io del tutto dò avviso a V. S. la quale farà poi il parer suo. Del mandare altre persone in campo si escusano gagliardamente, e m'hanno pregato ch'io avvisi V. S. de le provvisioni che han fatto, sperando che quella abbia a rimanere satisfatta. Se quella vuol che di novo insti che mandino altri, mi avvisi, ch'io lo [17] farò. Ma mi par bene che sarà difficultade a disponerli. Io aspettarò la risposta di V. S., alla quale mi raccomando.

(Regii... octobris MDX).[199]

Servitor fideliss.,
Ludovicus Ariostus.

Qui è nova giunta or ora, e si parla per vera, che 500 Spagnoli sono fuggiti dal papa nel campo nostro.

Vorriano e che V. S. mandasse qui uno con autorità e patente di poter comandare a tutti li gentiluomini e Castellanze che avessero a far la rata sua in questi bisogni, perchè il Capitano gli pare che li vada con troppo rispetto.

VII

Al medesimo

a Parma.

Illustrissimo signor mio. Come ieri fui a Reggio, intesi che'l signor Alberto si ritrovava a Carpi: e volendo andar a ritrovarlo, fui avvertito che li Stradiotti ecclesiastici erano corsi a Correggio, e avean preso un figlio del signor Borso, e che erano etiam corsi a San Martino le due vie per le quali si va a Carpi. E per questo subito mandai a posta [18] uno a piedi con una lettera al signor Alberto, avvisando Sua Signoria ch'io ho da parlargli d'una sua faccenda importantissima, e di quella medesima di che più volte avessimo insieme ragionamento a Roma. E nella lettera non ho nominato V. S., e l'ho pregato che veda qual loco gli pare dove gli potessi parlare senza pericolo; e non si potendo altramente, mi mandi un suo fidato ch'io conosca, con una sua di credenza. Mentre ch'io l'aspetto, V. S. mi avvisi se mandandomi un suo fidato, io gli ho da parlare circa ecc. Ed a Vostra Signoria mi raccomando.

Questa notte gli Ecclesiastici sono corsi a San Martino, e questa mattina sono venuti presso due miglia a Reggio, e hanno menato via il bestiame. Si dice che sono stati alle mani con Badino, e gli hanno presi due o tre balestrieri.

(Regii, 29 octobris 1510).[200]

Servitor,
Lodovico Ar.

VIII

Al medesimo

a Parma.

Ill.mo Sig.re Io dubito che'l mio messo non sia stato preso, perchè a questa ora non è tornato ancora e lo spazai sin da ieri a 19 ore, ed è uomo c'ha bisogno di tornare presto: pur quando sia così [19] è manco mio danno che non sería s'io stato fussi in suo loco. Li inimici son corsi presso a Reggio un miglio pur a la via di Carpi e hanno menato via gran numero di bestiami. Questi franciosi si sono tandem armati o che s'armano tuttavia: se escono non credo che vadano a tempo. Dum hoc scribo mi è detto che Mess. Sigismondo de' Santi segretario del sig. Alberto da Carpi è venuto, e sono ito a parlarli. E da lui ho inteso, poi che averia parlato col Gran Maestro, avere commissione di venire a Vostra Signoria. Io gli ho dimandato se per nostre faccende, e m'ha detto per quella medesima causa per la quale io ero mandato a lui: per il che dimattina veniremo. Egli, per quello che m'ha detto, ha l'ultima intenzione del Signor suo circa l'effetto ecc. Tornando a casa ho trovata una squadra di francesi menare prigioni circa XXX tra uomini d'arme e cavalleggeri ecclesiastici che avevano preso a S.ta Agata, loco presso San Faustino. Quelli che sono iti verso S. Martino non sono tornati ancora: ben si dice, ma credo che non sia vero, che li nostri qui insieme con Badino hanno assediati parecchi cavalli in S. Martino. Il mio messo ornai son certo che sia preso, chè sono presso XXIIII ore e non è tornato ancora. A Vostra Signoria mi raccomando.

Regii, XXX octobris MDX.

Servus,
Ludovicus Ariostus.

[20]

IX

Al cardinale Giovanni de' Medici.[201]

Reverendissime Domine, D.e mi colendissime. La servitù ed osservanza mia, che da molti giorni in qua ho sempre avuta verso Vostra Signoria Reverendissima, e l'amore e benignità che quella mi ha dimostrata sempre, mi danno ardire che, senza adoperare altri mezzi, io ricorra ad essa con speranza di ottenerne ogni grazia. E quando intesi a' dì passati che Vostra Signoria Reverendissima aveva avuta la legazion di Bologna, n'ebbi quell'allegrezza che avrei avuta se il padron mio cardinale da Este fosse stato fatto Legato; sì perchè d'ogni utile e d'ogni onore di Vostra Signoria sono di continuo tanto desideroso e avido quanto un vero ed affezionato servitore deve esser d'ogni esaltazione del padron suo; sì anche perchè mi parve che in ogni mia occorrenza io fossi per avere quella tanto propizia e favorevole, quanto è debitore un grato padrone ad un suo deditissimo servo.

Supplico dunque Vostra Signoria Reverendissima di volermi per Bolla dispensare ad tria incompatibilia, ed a quel più che ha autorità di fare, o ch'è in uso, ed a più dignitade, insieme con quelle ample clausole che si ponno fare; et de non promovendo [21] ad sacros ordines,[202] per quel tempo che più si può concedere. Io son ben certo che in casa di Vostra Signoria Reverendissima è chi saprà far la Bolla molto più ampia che non so dimandare io.

L'arciprete di Santa Agata, presente esibitore, il quale ho in loco di padre, ed amo per li suoi meriti molto, venirà a Vostra Signoria per questo effetto.[203] Esso torrà la cura di far fare la supplicazione di quello che io dimando. Supplico Vostra Signoria Reverendissima a farlo espedir gratis: la qual mi perdoni se io li parlo troppo arrogante; chè l'affezione e servitù mia verso quella, e la memoria che ho delle offerte fattemi da essa molte volte, mi darebbono ardire di domandarle molto maggior cose di queste (ancorchè queste a me parranno grandissime), e certitudine d'ottenerle da Vostra Signoria. Si ricordi che deditissimo servo le sono: alla quale umilmente mi raccomando.

Ferrariae, 25 novembris 1511.

D. V. Reverendissime

Deditissimus et humilis servus,
Ludovicus Ariostus Ferrariensis.

Fuori — Reverendissimo in Christo Patri et Domino, Domino meo col. D. Cardinali de Medicis, Bononiae Legato dignissimo.

[22]

X

Al marchese di Mantova

Illustrissimo ed eccellentissimo Signor mio. Prima per il Molino, e poi per Jerondeo, mi è stato fatto intendere che Vostra Eccellenza averia piacere di vedere un mio libro, al quale già molti dì, continuando la invenzione del conte Matteo Maria Boiardo, io diedi principio. Io, bono e deditissimo servitore di V. S., alla prima richiesta la avrei satisfatta, e avuto di grazia che quella si fusse degnata leggere le cose mie, se il libro fosse stato in termine da poterlo mandare in man sua. Ma, oltre che il libro non sia limato nè fornito ancora, come quello che è grande ed ha bisogno di grande opera, è ancora scritto per modo, con infinite chiose e liture, e trasportato di qua e di là, che fôra impossibile che altro che io lo leggessi: e di questo la illustrissima signora Marchesana sua consorte me ne può far fede; alla quale, quando fu a questi giorni a Ferrara, io ne lessi un poco. Ma pur dispostissimo alli servizii di V. E., cercarò il più presto che mi serà possibile di far che ne veda almeno parte; e ne farò transcrivere, cominciando al principio, quelli quinterni che mi pareranno star manco male; e scritti che siano, li manderò a V. S. Illustrissima. Alla quale umilmente mi raccomando.

Ferrara, 14 luglio 1512.

Deditissimo servo di V. S.,
Lodovico Ariosto.

Fuori — Illmo et Ex.mo principi et D.no meo Obser.mo, Dom. Marchioni Mantuae. Mantuae.

[23]

XI

Al principe Lodovico Gonzaga,

in Mantova.

V. S. Eccellentissima ha certamente della fada e del negromante, o di che altro più mirando, nel venirmi a ritrovar qui con la sua lettera del XX augusti, or ora che sono uscito dalle latebre e de' lustri delle fiere, e passato alla conversazion degli uomini. De' nostri periculi non posso ancora parlare: animus meminisse horret, luctuque refugit, e d'altro lato V. S. ne avrà odito già. Quis jam locus quae regio in terris nostri non plena laboris? Da parte mia non è quieta ancora la paura, trovandomi ancora in caccia, ormato da levrieri, da' quali Domine ne scampi. Ho passata la notte in una casetta da soccorso, vicin di Firenze, col nobile mascherato,[204] l'orecchio all'erta e il cuore in soprassalto. Quis talia fando etc. l'illustrissimo signor Duca, con il quale ieri ha conferito longamente il C. Pianelli, parlerà de' duo affari al Cardinale,[205] il quale fra giorni si aspetta da Bologna, ed io medesimo, per quanto sia bono a poterla servire, adoperrò ogni pratica, essendo dell'onore di Vostra Signoria, qual affezionato [24] servitore, bramosissimo. Quello sia da fare e da sperare saprà da Mess. Rainaldo,[206] e fido che ne sarà satisfatta, quantunque io non sia troppo gagliardo oratore. Il cielo continua tuttavia molto obscuro, onde non metteremoci in via così subito per non aver ancora da andar in maschera fuori di stagione e col bordone. Voglia V. S. recarmi alla memoria della illustriss. sig.a Principessa Flisca[207] quanto è permesso a observantissimo e deditiss.o Servitore, e a quelle in buona grazia mi raccomando.

Florentiae, I octobris MDXII.

XII

A messer Benedetto Fantino

Mes. Benedetto mio onor. Ho avuto per il mio ragazzo una vostra lettera molto tarda, perchè da Firenze, dove si è fermato qualche giorno, è venuto in qua a piedi ed è stato assai per via. Del negozio vostro non ho fatto ancora nulla; non perchè non me lo sia raccordato, ma perchè non vi ho saputo capo nè via. Io son arrivato qui in abito di staffetta,[208] e per non aver panni ho schivato di [25] andare a persone di dignità, perchè qui, più che in tutti gli altri lochi, non sono estimati se non li ben vestiti.[209] È vero che ho baciato il piè al Papa e m'ha mostrato di odir volontera: veduto non credo che m'abbia, chè dopo che è Papa non porta più l'occhiale. Offerta alcuna nè da Sua Santità nè da li amici miei divenuti grandi novamente[210] mi è stata fatta; li quali mi pare che tutti imitino il Papa in veder poco. Io mi sforzarò e oggi cominciarò, che non serà più longo, a vedere se io potrò aver mezzo alcuno con quel Mes. Paris.[211] Usar Mes. Bernardo[212] per mezzo, credo poter male, perchè è troppo gran maestro, ed è gran fatica a potersegli accostare; sì perchè ha sempre intorno un sì grosso cerchio di gente che mal si può penetrare, sì perchè si convien [26] combattere a X usci prima che si arrivi dove sia: la qual cosa a me è tanto odiosa, che non so quando lo vedessi; nè anco tento di vederlo, nè lui nè uomo che sia in quel palazzo: pur per vostro amor sforzarò la natura mia; ma potrò far poco, perchè fatta la coronazione, che serà fra 4 dì, faccio pensiero di venirmene a Ferrara. Io intendo che a Ferrara si estima che io sia un gran maestro qui: io vi prego che voi li caviate di questo errore, cioè quelli con che vi accade a parlare, e fategli intendere che son molto da manco che non ero a Ferrara, acciò che richiedendomi alcuno qualche servicio, e non lo facendo per impossibilità, e non lo sapendo essi, mi accusassino di asinità. Altro non m'accade, se non che a voi mi raccomando.

Romae, 7 aprilis MDXIII.

Vostro,
Ludovicus Ariostus.

Fuori — Al Mag. come fratello hon. M. Benedetto Fantino Cancellero dell'Ill.o et R.o Card. de Ferrara,-in Ferr.

XIII[213]

Al doge di Venezia

Ill.mo et Ser.moPrincipe et Signore mio observantissimo. — Supplico alla Sublimità Vostra io devoto et affectionatissimo servo suo Ludovico Ariosto [27] Nobile Ferrarese et familiare del Reverendissimo Signor Cardinale Estense come havendo cum mie longe vigilie et fatiche, per spasso et recreatione de Signori et persone di anime gentili et madonne composta una opera in la quale si tratta di cose piacevoli et delectabili de arme et de amori, et desiderando ponerla in luce per solazo et piacere di qualunche vorà et che se delecterà di leggerla; et anche cum quello più benefitio et remuneratione delle fatiche mie duratoli più anni in componerla che conseguire posso; ho deliberato di farla stampire dove meglio a me parerà. Ma dubitando che qualche altro in concorrentia della stampa, che io ne farò,[214] subito che tal mia opera et stampa sia fuori, non se intrometta a restampare o farne restampare una altra, et che non pigli il bene et utile de le fatiche, che doverieno venire a me: pertanto prego et supplico la prefata vostra Sublimità, che [28] quella sia contenta per suo decreto et privilegio concedermi de gratia, che per tutto el tempo della vita mia non sia licito a persona cossì terriera come forestiera et di qualunche grado se voglia esser o sia, che ardisca, nè presuma in le terre et loci et dominio di vostra Serenità presumere di stampare, nè di fare stampare in forma alcuna de lettera, nè di foglio grande, piccolo, nè piccolino, nè possa vender o fare vender ditta mia opera senza expressa licentia et concessione de mi Ludovico Ariosto auctore de ipsa, sotto pena de perder tal opere tutte, che si trovassero stampate, o vendersi, et de ducati mille per cadauno che presumerà stamparla o farla stampare, o vendere o farla vender: la quale pena per la mità si applichi a cui piacerà alla Sublimità Vostra, et l'altra mità et libri stampati o venduti a mi Ludovico prenominato servitore di quella. Cujus gratiæ etc.

Die 25 Octobris 1515[215]

Quod suprascripto supplicanti concedatur gratia, quam ut supra petit.

Consiliarii:

Marcus de Molino
Petrus Marcello
Hieronymus Teupulo
Franciscus Bragadeno.

[29]

XIV

Ad Alfonso d'Este duca di Ferrara

Illustrissimo signor mio. Or ora, che son XIX ore, son giunto in Fiorenza; e ho trovato che questa mattina il duca d'Urbino[216] è morto. Per la qual cosa sono assai in dubbio di quello che ho a fare; perchè andar a condolermi de la morte della duchessa,[217] non so con chi; massimamente che mi par che la morte del duca importi tanto, ch'abbia fatto scordare il dolore della duchessa. Finalmente mi risolvo di aspettare nôva commissione da Vostra Eccellenza, ed in questo mezzo starmi nascoso con messer Pietro Antonio, acciò parendo ch'io mi condoglia col cardinal de' Medici o con quel de' Rossi,[218] de' quali l'uno o l'altro s'aspetta oggi o domattina, io possa far l'uno e l'altro officio. E anco quando a Vostra Eccellenza paresse ch'io facessi solo quello per il che fui mandato, io potrò dire com'ero venuto per dolermi della morte della duchessa; ma avendo veduto questo nôvo caso, mi son restato, per non essere importuno. Sicchè Vostra Eccellenza mi avvisi quanto ho a fare: e s'anco io fallo a non far quello che mi è stato commesso, [30] quella mi perdoni; c'ho fatto per far bene. Ed in grazia di Vostra Signoria illustrissima mi raccomando.

Florentiae, 4 maii (1519).

Humilis. serv.,
Lud. Ariostus.

Fuori — Illustriss. et Excellentiss. Dom., D. meo singulariss. Duci Ferrariae.

Ferr. cito cito.

XV

Al marchese di Mantova

Illustrissimo ed eccellentissimo Signor mio. Più presto per ubbidire a quanto V. E. mi comandò, le mando la mia Cassaria, che perch'io la reputi cosa degna di andarle in mano. Ho tardato alquanto a mandarla, perchè non ho avuto così presto chi me la trascriva. Qualunque ella si sia, V. E. la accetti con quella benignità colla quale è solita di vedere le altre mie sciocchezze. In buona grazia della quale umilmente mi raccomando; e la supplico che, dove mi creda bôno a poterla servire, si degni di comandarmi.

Di V. E.,

Ferrara, 6 giugno 1519.

Umil servitore,
Lodovico Ariosto.

Fuori — All'Ill.mo ed Ecc.mo Principe Signor Colen.mo il Signor Marchese di Mantova.

[31]

XVI

Al medesimo

Illustrissimo ed eccellentissimo Signor mio. Perchè credo che V. Ecc. amava assai messer Rinaldo mio cugino e fratello, e grande servitor suo, mi parrìa di commetter gran fallo a non dar avviso che oggi a nove ore è passato di questa vita, ed in quattro dì si è spacciato, dopo che era tornato dalli bagni di Caldera. Tutti noi suoi amici e parenti ha lasciato di mala voglia, ma sopra tutti Madonna Contarina[219] sua moglie; la quale, ancor che sia molto tribolata e in tanta agonìa che io dubito che non gli môra appresso, pur non si è scordata di pregarmi che io ne dia avviso a V. Ecc., che crede che sarà partecipe del suo dolore. Alla quale meco insieme bacia le mani, e in buona sua grazia si raccomanda.

Di V. Ecc.

Da Ferrara, 7 luglio 1519.

Devotissimo servitore,
Ludovico Ariosto

XVII

Alla marchesana di Mantova

Ill.a ed Ecc.a mia Signora. Con gravissimo e intollerabile mio dispiacere avviso Vostra Eccellenza che mess. Rinaldo Ariosto mio onorandiss.mo cugino [32] e fratello, e suo fedeliss.mo servitore, questa mattina circa le nove ore è passato della presente vita oppresso da subita infermità di non poter orinare, e in quattro giorni n'è stato rubato e n'ha lasciati tanto malcontenti quanto sia possibile al mondo, massimamente Madonna Contarina sua consorte, la quale mi ha pregato ch'io ne dia a Vostra Eccell. avviso, rendendosi certa che le n'avrà compassione, e sarà partecipe di qualche porzione del suo dolore: la qual meco insieme in bona grazia di Vostra Eccell. umilmente si raccomanda.

Ferrariae, VII julii MDXIX.

Di Vostra Eccellenza

deditissimo servitore,
Lud. Ariosto

Fuori — All'Ill.ma ed Ecc.ma mia Sig.ra osser.ma Sig.ra Marchesana di Mantova,

a Mantova.

XVIII

A messer Mario Equicola

Messer Mario mio pregiatissimo. Io ringrazio molto V. S. della offerta ch'ella mi fa di prestarmi l'opera sua, accadendomi, nelli miei litigi: la quale accetto di buon animo, e credo di usarla; ma non mi basteria il scrivere quello che io dimandassi. Ho pensiero di trasferirmi un giorno a Mantova, ed informarvi bene di quello che io voglio: ma non [33] è il tempo ancora. Circa l'oda che voi mi dimandate, la cercherò tra le mie mal raccolte composizioni, e le darò un poco di lima al meglio che io saprò, e manderòllavi. È vero che io faccio un poco di giunta al mio Orlando Furioso, cioè io l'ho cominciata: ma poi dall'un lato il duca, dall'altro il cardinale, avendomi l'un tolto una possessione, che già più di trent'anni[220] era di casa nostra, l'altro un'altra possessione di valore appresso di dieci mila ducati, de facto e senza pur citarmi a mostrare le ragioni mie,[221] m'hanno messo altra voglia che di pensare a favole. Pur non resta per questo ch'io non segua, facendo spesso qualche cosetta. S'io seguiterò, non mi uscirà di mente di fare il debito mio; e tanto meglio che non ho fatto pel passato, quanto questo debito da quel tempo in qua è cresciuto in infinito. Messer Mario, siate certo ch'io son vostro, prima per inclinazione naturale, già è molto tempo, poi per vostri meriti verso di me. A voi mi raccomando, e pregovi che alcuna volta vi degnate di ridurre alla signora Marchesana in memoria che io le sono deditissimo servitore. [34] Al magnifico Calandra vi degnerete anco di raccomandarmi.

Ferrara, 15 ottobre 1519.

Vostro,
Ludovico Ariosto

Fuori — Magn. ac Doctissimo Viro Dom. Mario Equicolae, mihi amicissimo, Mantuae.

XIX

A papa Leone X

Beatissime Pater. Avendomi Galasso mio fratello a' dì passati fatto intendere che Vostra Santità averìa piacere ch'io le mandassi una mia commedia[222] ch'io avea tra le mani; io, che già molti giorni l'avevo messa da parte quasi con animo di non finirla più, perchè veramente non mi succedea secondo il desiderio mio, son stato alquanto in dubbio s'io mi dovea scusare di non l'avere finita, e che per recitarla questo carnevale mi restava poco tempo di finirla (e questo pel timore del giudizio di questi uomini dotti di Roma, e, più degli altri, di quello di Vostra Santità; chè molto ben si conoscerà dove ella pecca, e non mi sarà ammessa [35] la scusa d'averla fatta in fretta); o se pure io la dovea finire al meglio ch'io potea, e mandarla, e far buono animo, e conto che quello che conoscevo io nessun altro avesse a conoscere. Finalmente, parendomi troppo mancare dal mio debito, ed essere ingrato alle obbligazioni grandissime che io ho a Vostra Santità non satisfacendo a tutti li suoi cenni, ancora ch'io ne dovessi esser riputato di poco giudizio; perchè forse la mia scusa, benchè vera, non sarìa accettata; ho voluto fare ogni opera per mandarla, e più presto esser imputato ignorante o poco diligente, che disobbediente ed ingrato: e così l'ho ritolta subito in mano. E tanto ha in me potuto l'essermi stata da parte di Vostra Santità richiesta, che quello che in dieci anni, che già mi nacque il primo argomento, non ho potuto, ho poi in due giorni o tre condutto a fine: ma non che però mi satisfaccia a punto, e che non ci siano delle parti che mi facciano tremare l'animo, pensando a qual giudizio la si debbia appresentare. Pure, quale ella si sia, a Vostra Santità insieme con me medesimo dono. S'ella la giudicherà degna della sua udienza, la mia Commedia avrà miglior avventura, ch'io non le spero: s'anco sarà riputata altrimente, prendasene quel trastullo almeno che delle composizioni del Baraballo[223] già si soleva [36] prendere; chè, pur che in qualche modo la diletti, io me ne chiamerò satisfatto. Alli cui Santissimi piedi umilmente mi raccomando.

Di Ferrara, alli 16 di gennaro 1520.

S. Vestrae.

Humilis et devotus servus,
Lud. Ariostus.

Fuori — Sanctiss. D. N. Leoni Decimo.

XX

A Messer Mario Equicola

Magnifico messer Mario mio onoratissimo. — Per messer Giangiacomo Baretone ho avuto sei lire di vostra moneta, le quali Vostra Magnificenza mi ha rimesse, credo, per parte delli denari che si hanno d'avere dal venditore delli miei Orlandi a Verona. Di che ringrazio quella, ma mi paiono pochi a quelli ch'io aspettava; e non posso credere che quel libraro non li abbia espediti tutti, perchè in nessun altro luogo d'Italia non so dove ne restino più da vendere: e se fin qui non li ha venduti, non credo che più li venda. Per questo sarìa meglio che il libraro li rimettesse quì, perchè subito troverei di espedirli, poichè me ne son dimandati ogni dì. Vostra Magnificenza, essendo risanata, come spero che ella sia, la prego che si sforzi di saper la cosa; chè troverà che i libri sono venduti, e che quel [37] libraro vuole rivalersi di quelli denari. La si ricordi che io sono suo, e sempre me gli raccomando.

Ferrara, 8 novembre 1520.

Vostro,
Lodovico Ariosto.

Fuori — Magnifico Domino Mario Equicolae, Secretario. Mantuae.

XXI[224]

Al capitano di Barga

Mag.ce tanq. fr. hon. Avendo lo Ill.mo mio S.re duca di Ferrara fatta elezione di me al governo di questa provincia sua di Carfagnana, e sapendo io quanto sua Ecc.a è desiderosa che li sua sudditi stiano in pace ed abbino a conversare senza sospetto con li circonvicini e precipuamente con li sudditi della Eccelsa Repubblica di Firenze, attenta la integra amicizia che sempre fu ed è fra prefata Eccelsa Rep. e sua Eccell.a, mi è parso essere mio debito nel gionger mio qui visitare con questa mia V. S. con pregarla che nelle occorrenze del governo di questi sudditi a noi dato voglia essere meco ed io con quella, sicchè con ogni industria e possibilità ci sforziamo di ridurli in quella pace, unione e quiete in la quale li Eccelsi ed Illu.mi nostri Signori sempre sono stati e di presente sono.

[38]

Appresso perchè alli dì passati un Giovanni Baricca da Barga a tempo di notte venne a Castelnovo con uno bandito di qui, ed alcuni uomini di commissione de' loro superiori andando per pigliar detto bandito, per caso vi si ritrovò in compagnia un Battistino forastiero, ma che abitava qui, il quale feritte detto da Barga, contro però la volontà di tutti gli uomini di Castelnovo; e sì come ho detto, essendo pur debito di noi ufficiali ridurre li sudditi in buona pace, oltre che ne ho espressa e particolar commissione di tal cosa dal mio Ill.mo S.r Duca, prego V. S. che in questo sia contenta di fare ogni opera dal canto suo per disporre ad accordo detto suo da Barga con li parenti suoi e questi di Castelnovo, dalli quali ne è riferito che si chiama offeso (e veramente a torto), perchè loro incresce tal caso quanto dir si può, acciò che inveterando non sortisca alfine maggior male: e se 'l delinquente fusse in mani nostre ne faremmo tale dimostrazione che questo da Barga ne resteria satisfatto in modo che anche V. S. conoscerebbe essermi dispiaciuto tale eccesso; ed in questo mi governerò secondo il consiglio e buon parere di V. S. ed in qualunque altra mia occorrenza. Alla quale offrendomi dispostissimo sempre mi raccomando.

Ex Castelnovo Carfignane, 2 martii MDXXII.

E. M. V.

Tanq. fr.ter LUDOVICUS ARIOSTUS
Duc.lis Com.s gen.lis in Carf.na

[39]

XXII[225]

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Mando a V. S. Belgrado da Valico con quello spiedo e giannettone, che quelle mi scriveno lui tolse alla famiglia del vicario del Borgo alli giorni passati; e perchè ditto Belgrado è stato obedientissimo a tale restituzione, anco che in ditta rissa ricevesse delle ferite, per le quali in liberarsi ha speso assai; e sì come lui a bocca dirà a V. S. fu promisso di satisfare la medicatura e ogni suo danno che patisse, per essersi intromisso a tale impresa; pertanto V. S. si degnino in le cose licite e oneste esaudire ditto Belgrado, attento che per mio mezzo volentieri ha ricorso alle prefate, alla cui bona grazia di continuo mi raccomando sempre: quae bene valeant.

Ex Castelnovo Carfagnanae, 22 martii 1522.

E. D. V.

Observantissimus LUDOVICUS ARIOSTUS
comes et ducalis commissarius generalis
in Carfagnana[226].

[40]

XXIII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Sì come scrivino a me le S. V., quel Belgrado da Valico averli narrato le sue ragioni, con avere anco restituito il giannettone e lo spiedo, mi dicono appresso, che hanno dato commissione al vicario del Borgo, che vogli udire benignamente ditto Belgrado, con administrare giustizia; e perchè ditto Belgrado è povero uomo, e devotissimo delle S. V., e anco ha ricevuto di tal rissa più che alcun altro, e si commisse oltra il suo volere; per tutti questi rispetti, e ultimo loco per amore mio, avendolo ritrovato obedientissimo circa le restituzioni di dette arme, supplico V. S. si degnino commettere al loro vicario che impuoni silenzio contra di ditto Belgrado. Circa quelli dal Silico, che alli dì passati ferirno quelli di Castiglione, ne farò ogni rigorosa dimostrazione di giustizia, e quel più che mi ricercherà il vicario di Castiglione, acciò le S. V. effettualmente cognoschino quanto mi sia dispiaciuto tale eccesso perpetrato. E a V. S. mi raccomando, quae feliciter valeant.

Ex Castronovo Carfagnanae, 8 aprilis 1522.

[41]

XXIV

Al duca di Ferrara

Ill.mo ed Ecc.mo Signor mio. V.ra Ecc.a a questi dì mi ha dato commissione ch'io m'informi come sia stata fatta quella elezione per gli uomini di Trasilico del lor podestade; se giuridicamente e secondo il consueto, o pur altrimenti: et oltra di questo ch'io pigli notizia della condizione dell'uomo e ch'io la riferisca. V.ra Ecc.a dunque intenderà, che soleva essere costume che insieme con alcuni uomini deputati da quella Vicaria il Commissario faceva la elezione, la quale appresso V.ra Ecc.a confirmava; ma poi da quella fu loro concesso che essi senza il Commissario potesson fare la elezione del lor podestade, che essa poi avea da confirmare, se le parea: e acciò che V.a Ecc.a ne sia più chiara, le mando le copie delle lettere su le quali questi uomini di Trasilico si fondano. Circa alla condizione dell'uomo, per quanto a me pare, e per quanto io me n'ho potuto informare, è assai tenuto uomo da bene, secondo gli altri che son qui: è vero che egli e Pierino Magnano hanno per lor mogli due sorelle, ed al presente abitano amendue nella casa della loro suocera, l'uno per sospetto e per esser più sicuro dentro da le mura in casa della suocera, che nel borgo dove ha la propria casa, e questo è Pierino; e l'altro per essere da Camporeggiano, e non avere casa qui. Amendui entrano per una porta, ma [42] le loro stanze, secondo ch'io intendo, hanno separate, e ciascuno mangia da sua posta. Che costui seguiti parti, non ne fa dimostrazione estrinseca, ma so bene che Bastiano Coiaio, un figliolo del quale è cognato di costui e di Pierino, perchè ha l'altra sorella, ha fatto la pratica per far che costui sia podestade; e che Bastiano l'abbia fatto a qualche suo disegno, più presto si può dubitarne che non, perchè lui non ho a modo alcuno per persona neutrale, ancora che si sforzi di farlo credere a me. Tuttavia V.a Ecc.a può essere certa che avendo da essere podestade di Trasilico uomo di questo commissariato (non voglio dir di Castelnovo solo), è forza che sia notato o per bianco o per nero: e se ben non fusse in effetto (il che sería difficillimo a trovare), pur serà sempre in sospetto ad una delle parti. Il padre di costui è un ser Giovanni notaio e procuratore a Camporeggiano, il quale al tempo che Lucchesi ebbono questa provincia fu mandato da loro ad un suo Castello detto Camaiore per notaio. Ch'egli fusse in trattato mi saria difficile a ritrovare per la verità, perchè s'io ne dimanderò la parte italiana, mi diranno che non fu vero, e ch'egli è uomo da bene; se dimanderò la francese, tutti mi diranno che fu vero, e mi aggiungeranno tutto il male che imaginar si potranno: ma sia il padre come si voglia, che da quella macchia in fuore, che potria essere così falsa come vera, non ne sento dir se non bene. Il figliolo è assai costumata persona, ed essendo già stato eletto e avendo dalla elezione in qua sempre fatto [43] l'officio del podestade, non potria essere dimesso senza suo gravissimo scorno ed ignominia: e parendomi che la intenzione di V.a Ecc.a sia più presto di gratificarsi questi uomini che dar loro alcuna mala contentezza; poi che quella si è degnata in questo dimandare il mio parere, io dirò che mi parria che costui non fusse rimosso per porre in quel luogo alcun altro di questa terra, perchè potria essere causa di dar principio a qualche altra nimicizia. Soggiungerò bene che non sería se non ben fatto, che venendo li uomini di Trasilico a Ferrara, come son per venire, che V.a Ecc.a operassi che fussino contenti di far che 'l Capitano della Ragion di Castelnovo fusse ancora suo podestade, con capitolo espresso che avesse a procedere secondo li loro statuti, perchè, così facendo, l'officio del Capitano si faria migliore, e V.a Ecc.a potria mandare qui un dottore di qualche sufficienza, che con questa aggiunta n'avria da poter star meglio; ch'ogni modo il podestade ch'essi eleggono sta sempre a Castelnovo, e se voglion ragione sono sforzati a venir qui, e appresso hanno le più volte per podestate persona che sa a pena leggere: poi non è possibile ch'eleggano podestade di questo luogo che non sia parziale. Volerne mandare a torre uno di fuore, o che stia là con loro, l'officio non può far la spesa. La ostinazione di volere un podestade particolare dipende da dui o tre villani che governano quel Comune, che ogni anno, quando per un paio di calze, quando per un fiorino o dui, vendono a questi notaroli la lor podestaria. Ho voluto [44] che V.a Ecc.a sia del tutto fatta accorta, al miglior giudicio della quale mi rimetto sempre: ed in sua bona grazia umilmente mi raccomando.

Ex Castelnovo, XIX aprilis MDXXII.

XXV

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Ringrazio V. S. delle benigne offerte e buona disposizione verso il mio illustrissimo signor Duca, e dello avviso dato a me; e del tutto per mio debito e per consolazione di sua Eccellenza ho scritto a pieno. Prego V. S. si degnino, accadendo la opportunità e il bisogno per lo avvenire, sì dal canto di Toscana, come anco di Lombardia, farmi participe delle nuove averanno, offerendomi al simile con ogni sollecitudine verso quelle. Circa quelli dal Silico che ferirno, sì come è stato ditto, quelli dui da Castiglione, come per altre mie ho promisso a V. S., non resteranno impuniti dello eccesso perpetrato; e penso domane o l'altro andare fino a Castiglione per parlare con il vicario di V. S., e provedere che di nuovo si assicurino ambi li comuni di Castiglione e Silico, acciò possino praticare in qualunque loco, e l'uno a casa de l'altro senza sospetto. Spero fra ditto vicario e me faremo buona opera. E a V. S. offerendomi sempre mi raccomando; quae bene valeant.

Ex Castronovo Carfagnanae, die 20 aprilis 1522.

[45]

XXVI

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Lo illustrissimo signor mio mi scrive che hanno da essere garbugli in Toscana, e che io usi ogni diligenza per intendere di ora in ora il successo di quelli; e specialmente mi commette sua Eccellenza che io abbia ricorso dalle S. V., rendendosi certo che da quelle si averà del tutto la verità: e così con questa mia prego V. S. si degnino di tale occorrenza farmene participe acciò io possi esequire lo intento del mio illustrissimo signore. E tutta la spesa delli messi che manderanno a posta, de la quale parte S. V. mi aviseranno, satisfarò a pieno; e anco di quella spesa che alle prefate accascherà fare per mandare in li lochi necessarii per avere la verità, sono contento che in quello parerà onesto a V. S. di concorrere; chè così è anco la mente del mio illustrissimo signore. E a V. S. offerendomi mi raccomando sempre: quae bene valeant.

Ex Castelnovo Carfagnanae, 25 aprilis 1522.

XXVII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Questo presente esibitore del mio commissariato mi fa intendere, esserli stato rubato uno suo mulo da [46] certi suoi vicini; e che avendo ricercato di ritrovare detto suo mulo alli giorni passati, uno Giovanni di Niccolò Giusti da Pescaglia ebbe a dire, che sapeva colui che lo aveva rubato detto mulo: e ora volendo il predetto esibitore intendere da ditto Giovanni, chi era stato quello che glielo aveva rubato, ditto Giovanni li ha negato, e non li vuole dire la verità. Pertanto V. S. saranno contente commettere sia chiamato ditto Giovanni, ed esaminato quello lui sa di questo furto, acciò che il povero uomo possi trovare la via di rinvenire il malfattore e la sua robba; perchè, per quanto mi dice, quello Giovanni sa il tutto. E a V. S. offerendomi, mi raccomando sempre.

(Castelnovo.... 1522).

XXVIII[227]

Agli Otto di Pratica

Magnifici et excelsi Domini mihi observandissimi. Per obedire a quanto Vostre Signorie mi comandano; perchè le loro esortazioni voglio che mi sieno in luogo di comandamento; ho fatto chiamare a me quelli sudditi al mio officio, delli quali Bartolomeo da Barga si duole che da Buonconvento si [47] sieno fuggiti con la paga; e ritruovo che molto ben difendono la ragione loro, e dicono che Bartolomeo mandandoli a chiamare a casa loro fece dare al capo (che tutti eran sette) certi scudi, promettendo come fussino a Castel Fiorentino, che darebbe loro la paga integra; e che venendo a trovare il detto Bartolomeo a Barga, n'ebbono la medesima promissione; e di più disse loro, che se a Castel Fiorentino non facea lor dar la paga, fusse lor licito di ritornarsine indietro con quelli denari che avevano: e quando furono a Castel Fiorentino, e non avendo denari, e per questo volendo tornare a dietro, furon pregati dal detto Bartolomeo che si conducessero fin a Poggibonici, dove avrebbon denari; e che mancando, senza altra eccezione se ne tornassino a Poggibonici. Non ebbono anco se non parole, e pur con li medesimi preghi e promissioni furo anco tirati fin a Siena: dove venendo li nimici, feron senza aver avuti altri denari le fazioni e il debito loro. Quindi volendoli di nuovo Bartolomeo condurre a Buonconvento, negaro di non volervi andare: pur, parte con prieghi, parte con dar loro alcuni pochi denari; che tutti cominciando da li primi ch'avevano avuto a casa e tra via, non passaro fra sette compagni in tutto la somma di X ducati; fece tanto, che li trasse a Buonconvento, refermando pure il medesimo, che se quivi non dava loro tutta la paga, se ne tornassino liberamente. E così condotti a Buonconvento con grandissimo disagio e carestia, non fu dato lor la paga più che in gli altri luoghi; e per questo non fuggendo, ma [48] più presto partendosi di patto se ne tornaro a....[228]: e fra il giorno che si partiro da casa, fin a quello che si partiro da Buonconvento, corsero 14 giorni. Io per ubbidire Vostre Signorie, e insieme per non mancare del dovere, e non essendo io molto nè assai ancora esperto nelle ragioni pertinenti al mistier del soldo, ho fatto alquanto di ragunanza di uomini, che sono usati d'aver compagnie di fanti, avendo fatto che due mandati da Bartolomeo in questa terra, e dall'altra parte questi incolpati di esser fuggiti, han dette le ragioni loro. Ultimamente mi dicono che 'l soldo di questi fanti ha da cominciar dal dì che giunsero a Castel Fiorentino, secondo l'ordine e il costume solito del mistier del soldo; maisì, quando sia vero che Bartolomeo dicesse loro, che non avendo denari, cioè la paga intiera a Castel Firentino, se ne potessono tornar indrieto; che li patti rompono le leggi; che 'l soldo ha da cominciar dal dì che furon levati da casa e ebbon la prima prestanza. Li mandati da Bartolomeo non negano nè affermano questo patto. Io volevo assignare termine alli fanti a provar questo, ma li mandati da Bartolomeo non se ne sono contentati, e dubito che non sieno per farne a Vostre eccelse Signorie alcuna sinistra e men che vera relazione. Per questo ho voluto a quelle dare avviso del tutto, acciò ch'elle ancora ne sieno giudici, chè so che non si partiranno dalla giustizia, essendo io per non mi partire dà quanto parerà a [49] quelle, delle quali son deditissimo; e in sua bona grazia mi raccomando sempre.

Ex Castronovo, 21 maii 1522.

Di Vostre eccelse Signorie

Observantissimo
Ludovico Ariosto
Ducale Commissario in Grafagnana.

XXIX

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Ho veduto quanto V. S. mi raccomandano Francesco Martino suo: non mancherà per me di farli, mediante la giustizia, ogni favore; e perchè sono in questa terra alcuni Statuti, che il commissario non si può impacciare in le cause pertinenti al capitano della Ragione, la qual via è alquanto lunga; io ho avvisato il prefato del modo che ha da tenere per venire a presta espedizione. E come in questa, così in ogni altra cosa sono paratissimo sempre di ubbidire V. S., alle quali mi raccomando.

Ex Castro novo, 23 maii 1522.

XXX

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Signor mio. Le troppe grazie che V. E. fa a questi uomini de la Vicaria di Camporeggiano li inasinisce (chè più onesto vocabolo non so loro attribuire), e nessuna cosa son per far mai [50] se non per forza: io dico questo, chè mi par che usino gran torto al Capitano di Camporeggiano, che avendo esso fatto giustiziare quel ribaldo ch'aveva in prigione, e per li ordini e usanza che qui è dovendo per questo avere lire cinquanta, negano, per quanto me ne avvisa il Capitano, di volerlo soddisfare; e credo che vorranno avere ricorso a V. E., confidandosi che così come quella è lor benigna e liberale nel suo particolare, così anco debbia lor essere in quello che con gran fatica e continuo fastidio li officiali si guadagnano. Supplico V. E. abbia raccomandato il Capitano perchè è da bene e dotto e buono e fedele servitore di quella, per accrescergli l'animo a lui e agli altri di punir li tristi.

Appresso gli significo che ora son capitati qui alcuni che vengono di Maremma, che dicono che molti fanti ch'avevan preso denari a Pisa e poi s'erano imbarcati a Livorno per ire alla guardia di Genoa, son stati tenuti in posta da Messer Andrea Doria, o sia da frate Bernardino,[229] ad un luogo detto Meloria, e morti, feriti e presi con li legni che li conducevano. O vera o falsa che sia la nova la dò a V. E. nel modo che io l'ho; in bona grazia de la quale umilmente mi raccomando.

Ex Castelnovo, 22 junij 1522.

[51]

XXXI

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici et excelsi domini mihi observandissimi. Io sono stato a questi giorni a Ferrara, dove fra le altre commissioni che ho avute dal mio illustrissimo signore, è stato che, per quanto si estende il mio potere, io sia sempre pronto a servire e fare cosa che piaccia a V. S., e specialmente ch'io non patisca che li ribelli della vostra eccelsa Repubblica vengano in questa sua provincia, e che venendoci, io li pigli e persegui non altrimenti che li ribelli e inimici di sua Eccellenza; e così sono apparecchiato di fare, e questa e ogni altra cosa, che di V. S. io pensi essere a beneficio e piacere. E perchè intendo che, non essendo io qui, V. S. si sono dolute col mio locotenente di certi assassinamenti che alcuni ribaldi di questa provincia banditi hanno fatto contra terre di quelle, oltra quello che io credo che 'l prefato locotenente abbi scritto, anch'io replico, ch'io n'ho grandissimo dispiacere e non minore desiderio di rimediarci, pur ch'io lo possi fare. Io n'ho scritto al mio illustrissimo signore, e penso che sua Eccellenza in ogni modo mi mostrerà qualche via di potere castigare li malfattori, meglio ch'io non ho potuto fare, nè posso fin qui più, oltra quello che credo che il mio signore disegnerà di fare. L'avviso di V. S. credo che mi saria per giovare molto, scrivendo quelli alli vicari loro che confinano con questa ducale provincia, [52] che per perseguitare tali uomini di pessima vita, ad ogni mia requisizione venissero coll'armi in aiuto delli miei balestrieri, e non dessino in loro terre ricapito alli nostri banditi; che 'l medesimo anch'io sono per fare contra li ribelli e banniti di V. S.: in buona grazie alle quali mi raccomando sempre.

Castelnovi, 12 septembris 1522.

XXXII[230]

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Sign. mio. Oltra quello che per un'altra mia ho scritto a V. Ecc. circa i disordini che sono in questo paese, alli quali senza l'aiuto di quella non è possibile, non avendo più forza di quello ch'io m'abbia, io possa rimediare; benchè non manco di tutti quelli rimedî ch'io posso: prima ho fatto fare contra li assassini di Pontecchio e suoi seguaci (tra quali è quel Battistino Magnano, il quale fu causa de la discordia tra quelli di Barga e di questa terra) una grida,[231] de la quale mando a V. Ecc. qui inclusa la copia, acciò che a quella piaccia di confermarmela per sue lettere: e appresso [53] ho scritto al Commissario fiorentino da Fivizzano e alli Signori Lucchesi acciò che tutti insieme mettiamo in ordine una bella caccia, sicchè da ogni banda si dia addosso a questi ladri, li quali tuttavia non cessano di far ogni dì assassinamenti e por taglie a chi lor pare, e hanno ardimento di mandare a dire a gli uomini qui di Castelnovo, che se non mandano loro certi denari che domandano, li verranno a tagliare a pezzi fin in questo Castello: e forse avriano ardire di farlo, perchè hanno chi fa lor spalle e li nutrisce e difende. E perchè V. Ecc. conosca ch'io non m'inganno in tutto, le mando similmente qui incluso una lettera che oggi mi è venuta in mani, voglio dire la copia d'una lettera che scrive Bastiano Coiaio a questi banditi del Silico, il quale Bastiano è, come per un'altra mia ho scritto a V. Ecc., il consigliere e guidatore de la fazione di Pierino, e in casa del quale li banditi spesso si riducono a consiglio, come ne sono esaminati testimonî appresso il Capitano qui. E acciò che V. Ecc. intenda il tenore della lettera, quella sappia, che quel dì proprio ch'io giunsi qui fu tolto un mulo a Camporeggiano e trafugato a Cicerana in mano del Moro dal Silico, il quale è fratello di quelli che ammazzâro Ser Ferdiano, ed esso ancora per altre cause ha bando: tuttavia sta nel paese, e tiene la Rocca di Cicerana. Colui a chi fu tolto il mulo è stato ritenuto a non venire a lamentarsi a me, parte con minaccie, parte con promissione di fargli restituire il mulo. Oggi si condusse a Bastiano Coiaio il quale gli ha fatto la lettera della [54] quale io mando la copia; ma prima ch'abbia dato la lettera è stato indotto venire a me, e io gli ho dato giuramento quella lettera essere di mano di Bastiano e che esso glie l'ha veduta scrivere, e poi n'ho fatto la copia, la quale io mando acciò che V. Ecc. conosca che esso Bastiano ed Evangelista, che sono partesani e consiglieri di Pierino, sono quelli che aiutano e consigliano questi banditi; e chi li levasse di questa terra insieme al loro capo Pierino la risanerebbe, come chi ne levasse tutto il morbo.

Questa è la copia de la lettera:

«Adì 13 di sett. 1522.

«Moro. Io sì ho visto li conti fra Bastiano Catucio e quelli di Pierlenzo, in modo ch'io vedo che quelli di Pierlenzo si hanno torto, sicchè pertanto egli diceva che voleva andare dal Commissario e io non ho volsuto per onor tuo, perchè il mulo l'avete in le man vostre; e per tanto a me pare che per mezzo tuo tu gli facci rendere il suo mulo in ogni modo, senza fargli pagar nulla; e questo sia l'onor di noi: e se gli voleva por taglia, non lo doveva menar costì in le man vostre: pertanto fatelo sùbito; se non voi avrete un comandamento di renderlo, perchè qua si dice che voi l'avete in le mani. Appresso farete quanto Giorgino vi dirà, e fate che non sia fallo perchè a Ser Evangelista e a tutti noi ci pare che lo facciate e sùbito. De l'altre cose io vi terrò avvisato [55] per il mio mezzadro del tutto. A me pare che voi dobbiate dare il mulo a Giorgino; e non sia fallo, perchè a noi serà vergogna grande: e se quelli di Pierlenzo credono aver nulla da Ser Bastiano Catucio, facciami intendere sue ragioni, e poi lasci fare a me.

«Bastiano Coiaio, in Castelnovo.»

Questa è la copia de la lettera, sopra la quale V. Ecc. faccia quel giudicio che le pare; e a questa e a molt'altre cose pertinenti a questa provincia supplico che faccia quella provvisione che le pare più espediente: in buona grazia de la quale umilmente mi raccomando.

Castelnovi, XII sept. 1522.

XXXIII

A messer Obizo Remo

Mag. Mes. Obizo. Vostra Mag. vederà per quest'altra mia quanto io scrivo al Signore.[232] Prego quella che faccia presto ch'io abbia risposta, perchè veramente che se non si rimedia a questi disordini, ne nascerà un dì uno che non vi si potrà rimediare. Pierino è pur anco in questa terra, e per quanto intendo non mi par ch'abbia voglia di venire a Ferrara, e non si può pensare altro, se [56] non che costui sia consapevole di qualche gran maleficio, e non è sicuro che non si sappia, e per questo dubita di venire. Già son sei dì ch'io son qui, e ancora non è stato ardito di venire dove io sia. Ieri sera arrivò un suo messo che aveva mandato a Ferrara, ed è quello al quale io dò la colpa che tra via abbia tolte le lettere a quel nostro corriere. Ogni modo io gli vo porre le mani addosso, ma voglio aspettare che Pierino sia partito, se si ha a partire. Costui, cioè Pierino, ha pratica secreta a Ferrara di persone che gli fanno animo di poter far ciò che vole, e dopo che V. S. gli scrisse quella lettera ducale, venne da Ferrara un balestriero il quale ha nome Quirino da Brescello, e parlato che gli ebbe tornò subito indrieto. Prego V. Mag. che faccia intendere ogni cosa al Sig., e forse non serìa male intendere da quel balestriero che venne a fare. Appresso per levare spesa a questi poveri uomini, acciò che per ogni cosa non abbino a venire a Ferrara, piglio cura di mandare lor supplicazioni; e così mando questa inclusa, la qual parendo a V. M. di segnare, la rimetta, che farò che la Cancellaria non perderà il suo consueto: e a V. M. mi raccomando, e desidero di intendere che Mes. Bonaventura[233] sia ben guarito.

Castelnovi, 14 sept. 1522.

Di Vostra Magnificenza
Ludovico Ariosto

[57]

Post scripta. Pierino Magnano mi ha fatto pregare (chè esso, non so per che causa, se non quia malus odit lucem, non è mai venuto dove io sia) ch'io prolunghi il suo termine di comparire a Ferrara otto giorni ancora. Sono stato contento: non so se verrà.

Fuori — Mag.o Domino Obizo Remo Ducali Secretario mihi honor.o — Ferrariae.

XXXIV

Agli Otto di Pratica in Firenze

Magnifici et excelsi Domini mihi observandissimi. Fin il maggio passato io scrissi a Vostre eccelse Signorie quello ch'io avevo fatto e potuto far con ragione nella causa che Bartolomeo di messer Jacopo da Barga ha con alcuni di questa ducale provincia, che esso dice che con la paga si fuggirono da lui a Buon Convento, e pienamente feci a Vostre Signorie (s'elle ebbero la mia lettera) intendere che avendo l'una parte e l'altra a paragone, avevo trovato quello che anco replicherò di novo, acciò che quelle non abbino di me questa mala openione, che a persona del mondo io volessi mancare di ragione, e tanto meno ne vorrei mancare alli sudditi suoi, che oltra che Vostre eccelse Signorie ho in riverenza, per rispetto della buona amicizia ch'io so essere tra il mio ill.mo signore Duca e cotesta eccelsa Repubblica, anche io particolarmente e per antiqua conversazione ch'i' ho [58] avuta in Fiorenza e per una naturale inclinazione son molto affezionato a cotesto Stato e desideroso di ubbidire li comandamenti suoi. Vostre Signorie dunque intenderanno di novo, che la cosa sta in questo modo: che Bartolomeo mandò a levare alcuni di questa provincia, che in tutto furon sette, e diè loro certi pochi denari, promettendoli come fussino a Castel Fiorentino, avrebbono il supplemento della paga; e essi dubitando di non essere menati a vento, gli protestaro, che non avendo quivi li lor denari, se ne voleano poter ritornare con quelli pochi denari che avevon presi; e così non niega uno, che Bartolomeo mandò quì, essere vero: come furono a Castelfiorentino, non v'era chi dèsse denari, e questi nostri voleano ritornarsi; ma pur pregandoli Bartolomeo, furon contenti d'andare a Poggibonici; ma protestando di novo, se quivi non avean la paga, se ne ritornerebbono a casa; da Poggibonici, con simili preghi e promesse, furono tratti a Siena. Non essendo anco a Siena chi lor dèsse denari, se ne volsono ritornare; pur Bartolomeo pregando e promettendo e dando loro anche qualche quattrino, fece tanto che restaro: e venendo il campo a Siena, furo in su le mura, e feron la lor fazione; e da Siena poi, senza dar lor la paga, con simili preghi e promesse furon tratti fino a Buon Convento; dove non avendo anco la paga, nè speranza di averla, e per la più parte dissolvendosi il campo, se ne vennero con molti altri, e se ne portaron quelli pochi denari che avevan preso; che in sette compagni furon circa dieci o dodici ducati. Questo ch'io [59] scrivo a Vostre eccelse Signorie fu confirmato da una parte e dall'altra in mia presenza esser vero. Ma perchè la professione mia non è d'arme, non mi confidando di sapere giudicare in questa causa, chiamai, con un dottore che abbiamo qui assai ben dotto, molti uomini da bene, c'hanno fatto il mestiero del soldo; li quali disseno, che a quel dì che arrivaro a Castelfiorentino doveva cominciare il servizio di questi fanti, e poi compensare chi era più, o li dì ch'avean servito o la rata delli denari che avevan presi. Questa determinazione non piacque a chi era venuto per Bartolomeo, e si partiron; e hanno fatto querela a Vostre eccelse Signorie come io non gli voglia far ragione. Quelle intendono il caso, e perchè son prudentissime, e hanno costì copia di soldati e persone che intendono meglio l'uso dell'arme, che non fo io, nè questi qui meco, con li quali io mi posso consigliare; supplico Vostre eccelse Signorie che giudichino questa causa, e che mi avvisino quello che vogliono ch'io faccia, ch'io sono per condennare e assolvere questi miei, secondo il giudicio di quelle: e quando Bartolomeo dicessi che la cosa stessi altrimente, io manderò a star seco al paragone uno di questi fanti, che chiariranno le menti di Vostre Signorie; in bona grazia de le quali mi raccomando sempre.

Castelnovi, 24 septembris 1522.[234]

[60]

XXXV

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Perchè, per grazia di Dio, tutta questa ducale provincia di Garfagnana fino a qui è sana e senza un male al mondo, vorrei con tutti li modi che mi sieno possibili, che anco per lo avvenire si conservasse, e per questo non cesso di far fare buona guardia di non lasciare venire persone di paese sospetto: ma questi sono mali che nascono tanto improvviso, che non mi confido di conoscere bene da chi mi debbia guardare. Per questo ho voluto ricorrere a V. S. come a quelle nelle quali ho grandissima fede, e credo che poco meno amino li sudditi del mio illustrissimo signore che li suoi proprii; così le supplico che sieno contente per questo messo, ch'io mando a posta, di avvisarmi le terre da chi mi debbio guardare, e che anche mi consiglino, s'io debbo lassare fare la fiera; la quale, sperando che le cose migliorasseno, avevamo differito a'cinque di ottobre. E in buona grazia di V. S. mi raccomando.

Castelnuovo, 28 settembre 1522.

XXXVI

A Obizo Remo

Magn. mihi hon. Ieri ho avuta una lettera del Sig. nostro mandatami da Cristoforo Casanova da [61] Sestola in risposta de la grida, de la quale mandai la copia. Del procedere contra li assassini da Pontecchio e gli altri banditi, non dubitate ch'io 'l faccia senza il consiglio del Capitano qui, e ch'io possa essere imputato di far contra ragione. Mi piace che 'l Sig. sia contento ch'io pigli accordo con Sig.ri Lucchesi e Fiorentini che li lor banditi non sieno sicuri sul nostro, nè li nostri sul loro: io tratterò la cosa maturatamente sì che vada di pari, e non abbino vantaggio da noi. Credo che a quest'ora abbiate Pierino a Ferrara. A Bastiano Coiaio ho dato alquanto di dilazione, e non lo costringerò a venire altrimenti finchè io non abbia risposta alle lettere che circa questo ho scritto a Vostra Mag.; e Ser Evangelista in nome di questa Comunitade ha scritto al Sig. il testificato di avere esso dato recapito a' banditi. Per un'altra mia avrete veduto esso viene malissimo volentieri, e dice che questa è la sua ruina, e mi prega e mi fa mille croci ch'io faccia opera che non venga. Io gli ho compassione; pur in questo mi rimetto a chi ha miglior giudicio di me, e a chi la misericordia non corrompe la giustizia. Io 'l confesso ingenuamente, ch'io non son uomo da governare altri uomini, chè ho troppa pietà, e non ho fronte di negare cosa che mi sia domandata.

Li balestrieri che seranno esibitori di questa son due uomini da bene e bene in ordine e valentuomini: quanto gli ho saputo imputare è che hanno moglie in questa terra. Io li raccomando a V. Mag. che faccia che non perdano il lor loco. Ce n'è restato [62] un altro detto il Magnano, il quale per essere ammalato non ha potuto venire. Venirà più presto che potrà. Prego Vos. Mag. che operi che per questo non perda il suo loco, chè anco così mi promise mess. Giovanni Ziliolo. Quest'altri che restano avranno il bisogno, e non accade mutarli per adesso altrimente. Quel Giovanni Frascolino che Vos. Mag. mi raccomanda, non è comparso. Se fin adesso non è partito da Ferrara, non curo che venga altramente nè lui, nè altri, perchè di questi ch'i' ho mi contento.

Ringrazio Vostra Mag. dell'avviso che mi ha dato del Sig. Don Ercole,[235] e così starò con speranza di meglio, e che quello che fu promesso a Mes. Lod.o Cato[236] in Ispagna sia quello che tutti desideràmo. Altro non occorre al presente. A Vostra Magnificenza mi raccomando.

Castelnovi, 2 octobris 1522.

[63]

XXXVII

Al medesimo

Mag.co Mess. Opizo mio onor. — Bastiano presente esibitore viene per supplicare al Signore nostro in suo nome e forse anco per suo zio Leone, ambidui da Gragnanella, che voglia lor rimettere la condennazione nella quale sono incorsi per aver feriti l'un l'altro, e son quelli a punto di che V.a Mag.za mi scrisse addì passati che la intenzione del Signore nostro era di non far loro altra grazia più di quella ch'avevan per li Statuti. Pur perchè son poveromini e me n'hanno pregato, io li raccomando a V.a Mag.za che faccia il Signore star contento delle 35 lire c'ha pagato ciascun di loro. Gli è vero che l'ordine era che non avessino ad uscire di prigione finchè non avessino satisfatto a tutta la somma; pur a' preghi di molti uomini da bene son stato contento di far lor termine del resto de la metade per tutto questo mese e dell'altra metade per tutto novembre; ma ben ho assicurato la Camera che al tempo debito sarà pagata. Or, come dico, Sebastiano viene per impetrar grazia, e così io lo raccomando a V.a Mag.za, facendoli fede che paga mal volentieri; e a V.a Mag.za mi raccomando.

Appresso, io scrissi addì passati come un Balduccio da Carreggini imputato di aver morto un Togno che stava alla Isola Santa si era venuto sponte a porre in prigione del Capitano di Camporeggiano, [64] ma che subito, cioè l'altro dì che 'l detto Balduccio si era posto in prigione, il detto Capitano si era partito dall'ufficio con la licenza alla usanza delle Suore da Genova,[237] e ito un poco a spasso a casa sua in Lunigiana: e per questo e perchè non stavo sicuro che costui, con speranza di purgare li indizi con poca lavatura si fusse d'accordo andato a porre in prigione, avevo disegnato di mandare a torre questo prigione e di tenerlo qui a Castelnovo acciò che non si esaminasse senza me; ieri, essendomi per altre faccende accaduto andare a Camporeggiano, avevo pensato di menarlo meco in qua, e tanto più me ne venne voglia quando vidi in che modo era tenuto, però che va libero per la rôcca e senza guardia, e a lui sta l'andare e il stare. [65] Pur a' prieghi di Ser Constantino, il quale è il notaro di quel loco, fui contento di non far questa ingiuria al Capitano, ma ben comandai al cavalliero del Capitano che lo ha in guardia, ed anco al notaro, che lo dovessino tenere in prigione e con li ferri alli piedi, e che anche quando accadesse che purgasse li indizi, non lo lasciasseno senza mia commissione. La parte offesa ha fatto gran querela a me che costui sia tenuto così largamente e vorria ogni modo ch'io pigliassi questa causa in me, e credo che supplicherà. Io non mi curerei già di questo impaccio perchè ci son mal atto, ma non sería male che alla cognizione di questo s'accompagnasse il Capitano di Castelnovo con quell'altro di Camporeggiano, acciò che una volta s'incominciasse [66] in questo paese a punire li malfattori, che per l'impunitade c'hanno avuto pel tempo passato e pel poco braccio che li officiali han qui, moltiplican di sorte che non è sicuro il paese in alcun lato. Ma la Vicarìa di Camporeggiano sta molto peggio, che di poi ch'io son tornato da Ferrara è stato morto uno a San Romano, un altro in un altro loco pur di quella Vicarìa è stato preso da quel Ginese (che anche amazzò il conte di San Donino) e legato ad un arbore nudo, e poi che l'ha avuto legato gli ha dato sedici ferite: e tutta la notte quel pover uomo è stato legato nella selva, nè fin al giorno a grande ora ritrovato, e pur ancora è vivo. Quelli ribaldi da Ponteccio stanno tuttavia a casa e ancora hanno ardimento di mandare a domandarmi accordo, e per l'uno di essi, cioè Bernardello, è venuto Simon Contardo e mi ha offerto che quando io gli perdoni, che darà sicurtà di trecento ducati di non fare dispiacere ad uomo del mondo e di vivere costumatamente e di pagare tutto quello che ha tolto dalli castronari di Domenico di Amorotto, e sopra questo di donare a me, o voglia un muletto o voglia X ducati d'oro. Similmente è venuto un altro da parte di Bertragnetto e mi ha fatto la medesima offerta, ed anco lui, per la sua parte, di donarmi altri X ducati; poi ieri, ch'io fui a Camporeggiano, gli Otto di quella Vicarìa mi pregarno del medesimo per tutti quelli assassini che darebbono securtade di 300 ducati di vivere d'uomini da bene. Io ho mostrato di dar loro qualche speranza, e questo perchè mi proponevano [67] che s'io volevo far loro un salvo condotto che mi venisseno a parlare, mi farebbono intendere che il torre de li denari a quelli Lombardi, che poi restituiro, e il torre di prossimo questi castroni era stato lor fatto fare sotto fede che ne farebbono piacere al Signore nostro, e che parlandomi mi direbbono chi fusse stato quelli che a ciò li avesse persuasi. Io non ho voluto a patto ignuno che mi vengano a parlare, nè far loro alcun salvo condotto, ma ho lor fatto dire che mi scrivano tutto questo che mi voglion dire a bocca, e così son rimaso con loro. Gli ho usato anco un poco di mansuetudine, perchè ho pratica con alcuni uomini da bene da Sillano, che assicurandoli un poco sperano di darmeli ne le mani. Questi altri dal Silico che amazzaron Ser Ferdiano stanno tuttavia al Silico e a Cesarana. Io non cesso di pensare e di fantasticare come senza spesa del Signore nostro io possa accrescere le mie forze per far che almeno questi ribaldi abbian paura di me. E per questo ieri fui a Camporeggiano dove avevo commesso che fusson chiamati gli Otto di quella Vicarìa; ma per essere andato il mio comandamento tardi, non ne potei avere se non quattro. A questi feci intendere come a' dì passati ch'ero stato a Ferrara avevo avuto lungo parlamento con l'Ecc.a del Signore circa li delitti ch'ogni dì si commettevano in la lor Vicarìa, e che Sua Ecc.a volea provederli ogni modo, e che stava in pensiero di mandare un'altra volta il suplemento fin alli 25 balestrieri, e che voleva più presto che essa Vicarìa si dolesse di pagare questi [68] balestrieri, che fusse lasciata a questo modo in preda alli assassini e ribaldi; ma che da l'altra parte avendo pietà alla povertà sua, era stato perplesso assai: ultimamente aveva eletto questo espediente, che la Vicarìa di Camporeggiano eleggesse cinquanta uomini sotto dui caporali, e quella di Castelnovo cinquant'altri sotto dui altri caporali, e questi fussino obligati, o tutti o parte secondo li bisogni, ad ogni richiesta del Commissario venire armati e insieme con li balestrieri andare a fare le esecuzioni che serian lor commesse, ed ogni volta che fusseno messi in opera, ogni Vicarìa fusse obligata a pagare li suoi a sei bolognini per fante il giorno, chè questa serìa poca spesa alla Vicarìa: e pigliandosi questo ordine non accaderà che 'l Signore mandi qui altri balestrieri. Alli quattro Otto che qui si trovaro piacque questo modo, e dissero che era poca spesa e per riuscire loro in grande utile, ma che volevano termine a rispondermi finchè avessino parlato col resto degli Otto e che speravano che a questo tutti seriano di una volontade. Io ho voluto di questo avvisare V.a Mag.za acciò che accadendo che qualcuno di questi venisse a Ferrara e ne parlassi, io non paressi bugiardo. Con quest'altra Vicarìa di Castelnovo credo facilmente di ottener questo ordine, il quale succedendo come spiero,[238] non credo che li banditi si fermino troppo in questa provincia.

[69]

Pierino Magnano oggi son 12 giorni che con mie lettere si partì da Castelnovo, e mi disse che voleva venire ad ubbidire il Signore. Se sia a questa ora giunto o no, V. Magn. lo può sapere meglio di me. A me è detto (ma non so se ben lo debbia credere, perchè la persona che me l'ha detto non è troppo sua amica), che dopo che si partì di qui è stato alcuni dì ascoso con alcuni banditi nel campanile di Villa, terra qui vicina, e che poi è ito a Pistoia. A Bastiano Coiaio ho fatto un altro comandamento, e assegnatoli un termine che mi è parso conveniente di appresentarsi dinanzi al Signore.[239] Esso sta pur con speranza, che, prima che 'l termine finisca, il Sig. abbia da revocare questa commissione. Come ho detto, ieri fui a Camporeggiano, e quelli uomini si maravigliano che 'l Sig. non manda un Capitano nuovo, o non conferma questo che sin qui ci è stato, perchè il suo termine finì a San Michele. Il Capitanato di Camporeggiano è molto migliore di questo di Castelnovo, e ora che le cose sono pacifiche, credo ch'ogni uomo da bene ci verria volentieri. Altro non m'occorre al presente. A V. Magn. mi raccomando.

Castelnovi, 5 octob. 1522.

[70]

XXXVIII

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Ancora che pochi dì siano ch'io scrivessi a V. S. del medesimo tenore, e ch'io abbi ritrovato quelle prontissime a compiacermi di quanto io l'ho pregate; pure avendo di nuovo circa questa materia avuto lettere e nuova commissione dallo illustrissimo mio signore, mi è parso di replicare con questa altra, e fare loro intendere, come sua Eccellenza per quiete di questa provincia desidera che fra V. S. e sua Eccellenza sia rinnovata quella consuetudine e patto, ch'io intendo che altre volte ci soleva essere: che li banniti di questa provincia per alcuno caso enorme, come rebelli ovvero assassini ovvero omicidiali volontarii, non possano essere securi nel dominio di V. S., et e converso; e che capitando alcuni di tali banditi da V. S. in questa ducale provincia, il Commissario qui sia obbligato a dare ogni favore a chi li domanderà per parte di V. S., perchè li abbi nelle mani, et e converso: pertanto io supplico V. S. che siano contente di compiacere in questa onesta domanda il mio signore, e scriverne una lettera nel miglior modo che paia a quelle, la quale io abbia a fare registrare nelli Statuti di questo loco; e io farò il medesimo o per mie lettere, ovvero ch'io ne farò venire una ducale come più piacerà a V. S.; in buona grazia delle quali mi raccomando sempre.

Castelnovi, 9 octobris 1522.

[71]

XXXIX

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. V. S. vedranno quanto questa comunità di Castelnuovo le raccomanda uno fratello di prete Riccio, il quale costì è stato preso per imputazioni di monete false. Quando sia novizio ne l'arte, e mai più non abbi fatto simile errore, e sia stato sedotto dal compagno (sì come è più facile che li cattivi corrompeno li buoni, che li buoni reducano li cattivi al ben fare), io ancora insieme con gli altri lo raccomando a V. S.: ma quando anco sie inveteratus malorum, io non sono per impedire la giustizia. E a V. S. sempre mi raccomando.

Castelnovi, 14 octobris 1522.

XL

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Mi è stato referito che a Ceserana, terra qui prossima e di questa ducale provincia, è nascosamente uno di quelli Totti ribelli di V. S., in compagnia degli figliuoli di Peregrino dal Silico banditi di questo ducale sito; e per non avere io più braccio di quello che io mi abbi, vi stanno contra mia volontà. Per questo mi è parso di avvisare V. S., che con quello mezzo che loro paia il migliore veggano per la via di Lupinaia o altre loro terre in quelle confine, [72] di informarsi se questo che mi è stato detto è vero o no, che anch'io dal canto mio mi sforzerò di informarmene meglio che potrò: e ritrovandosi essere vero, mi pareria ben fatto che V. S. mandassero il loro bargiello una notte, o veramente qui a Castelnuovo o in qualche altro loco, dove più giustamente questi balestrieri che io ho qui si potesseno congiungere con lui e andare a Ceserana, e in un tratto pigliare il ribelle di V. S. e li banniti di questa provincia. Prego dunque quelle, che usino diligenza per trovare la verità di questo che io scrivo, che anch'io farò il simile; e quello che ne arà prima certezza, ne avviserà l'altro. E a V. S. sempre mi raccomando.

Castelnovi, 14 octobris 1522.

XLI

Al duca di Ferrara

Ill. Sig. mio. Ieri il Moro dal Silico mi appresentò la grazia che V. Ecc. gli ha fatto per un certo omicidio che meritava più presto clemenza che severità. Oggi ho avuto lettere e messo a posta dal Commissario di Frignano, che mi avvisa che questo Moro insieme con li fratelli e altri compagni, de li quali esso Moro era capo, tornando di Frignano in qua, dove erano iti in soccorso di Virgilio, intrôro in casa d'un suddito di V. Ecc. lì da Frignano, e gli spezzâro gli usci e le casse, e depredarono roba e valuta di cento lire, non essendo in casa altri che una vecchia; e mi prega ch'io [73] faccia restituire questa roba. Se 'l Moro mi torna più dinanzi, io lo piglierò e farò che 'l Capitano lo punirà come merita il delitto, senza guardare a grazia che gli abbia fatto V. Ecc., perchè non si estende in questo nè in altri assassinamenti che mi è stato detto che questo Moro insieme con li fratelli hanno fatto; ma dubito che non ci tornerà, perchè questo poveruomo che è stato rubato, prima che sia venuto da me, è stato dal figliuolo e dal nipote di Bastiano Coiaio e da ser Evangelista a provare se per lo meno potesse riavere la sua roba: e a ciò dice di essere stato consigliato da questi altri di Frignano che sono uniti col Moro in lega; e non avendo potuto aver niente è ricorso a me; sì che dubito n'avrà preso sospetto, e non tornerà più a me. Se non torna, parendo a V. Ecc., gli annullerei la grazia: in buona grazia della quale humillime mi raccomando.

Castelnovi, XIX novembris (1522).[240]

Humillimus servitor,
Ludovicus Ariostus.

[74]

XLII

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. A' dì passati scrissi a V. S. del desiderio che aveva lo illustrissimo signor mio, che li banditi per omicidi volontari di questa ducale provincia e ribelli non fusseno sicuri nel dominio di V. S., massimamente in queste terre che ne confinano qui in Garfagnana; con obbligo che sua Eccellenza facesse il medesimo verso V. S.: e perchè quelle non mi hanno mai dato soluta risposta, e perchè anco di nuovo lo illustrissimo signor mio me ne ha scritto, ho replicato questa, per la quale le prego che mi rispondino, e siano contente di concedermi quanto li domando, che veramente farà la quiete e tranquillità di tutta Garfagnana. E a V. S. mi raccomando.

Castelnovi, 22 novembris 1522.

XLIII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mihi honorandissimi. Perchè ogni dì si rinfresca qualche nuova circa la peste in questi luochi, che non sono da noi però molto distanti, mi pare che sia mio debito e ad ogni altra persona che non sia in tutto stolta, di porre questa cosa per il maggiore pensiero che io abbia; e come se la guerra mi instasse, io avrei ricorso a V. S., come a quelle nelle quali dopo il [75] signor mio ho maggior fede, così in questa peste che non mi spaventa meno che farebbe la guerra, userò la medesima confidenza. Di nessuna cosa ho più dubio, che delli miei mulattieri, li quali mandati da Acconcio salinaro vanno e vengono da Pisa; e questo solamente per li alloggiamenti che fanno per via, che non so come siano securi: per questo mi è parso ricorrere a V. S., e pregarle siano contente di fare trovare o in Lucca o fuora di Lucca ne' borghi una stanza dove detti mulattieri possano albergare senza andare alla publica ostaria; della qual stanza esso Acconcio pagherà l'affitto, e se la fornirà secondo il suo bisogno. Maggior grazia ancora avrei da V. S., che quelle si degnassero di provvedere che detti mulattieri di Acconcio non avessero da passare Lucca, ma che V. S. commettesseno alli suoi carrattieri e vetturali, che ad istanza di detto Acconcio levasseno da Pisa la quantità del sale che li bisogna, la quale è in tutto staia 3000 e la conducessino a Lucca, e secondo l'ordinario e solito pagamento; dove si porrebbe in una stanza deputata a questo, e di costì si manderebbe per li nostri vetturali a tôrre qui a Castelnuovo: assicurando V. S. per tutte quelle cauzioni che loro paresse, che non avessino di tal cosa a patire danno alcuno. Io prego di questa grazia V. S. sì per più securità di mantenere sano il paese, sì anco perchè la montagna di Modena ha gran bisogno di sale; e dubito che li vetturali nostri non potranno supplire così presto, come richiede il bisogno: e lo illustrissimo signor mio mi ha dato commissione [76] ch'io usi diligenza, che questi sali si conduchino presto. S'io piglio troppa securità di V. S., quelle lo attribuischino più presto a molta fede che io ho in esse, che a presunzione: alle quali sempre mi raccomando.

Castelnuovo, 25 novembre 1522.

Se V. S. fusseno contente di dare uno alloggiamento a Sesto alli ditti vetturali, verrebbe comodo assai, e forsi manco disconcio a V. S.

XLIV

Al Duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Signor mio. Per ubbidire alla Ecc. V. ho fatto chiamare gli uomini de la Vicarìa di Trasilico, e fatto loro intendere da parte di quella che eleggano un altro potestade, chè V. Ecc. non vuole che Ser Tomaso Micotto più faccia l'ufficio. Essi uomini mi domandaron termine a far questa elezione sei giorni, e poi tornâro in capo di due, e mi dissero che mi pregavano ch'almeno io dessi dilazione a questo Ser Tomaso che potesse venire al cospetto di V. Ecc. prima ch'io lo privassi de l'officio, e che essi n'eleggessino un altro, con speranza che quella serìa contenta che per due mesi ancora seguitasse finchè fusse in capo de l'officio che gli fu dato per un anno; e che essi mi facevano questi preghi perchè erano pregati da detto Ser Tomaso, che non gli facessino questa ingiuria; e che essi erano sforzati avergli rispetto, fussino li [77] suoi portamenti come si vogliano, per essere di buon parentado in questi paesi. Io nè in tutto ho voluto negare la loro domanda, nè anco compiacerli con disubbidienza di V. Ecc., e feci che elessino un potestade che rendesse lor ragione finchè Ser Tomaso o rifermato o in tutto escluso ritornasse da Ferrara; e così elessino Mess. Achille Granduccio, che solo in tutta Garfagnana si trova essere dottore, e veramente, oltra la dottrina, uomo molto da bene, che anco V. Ecc. ne può avere avuta qualche prova, chè non son molti giorni che era Giudice de' Malefici a Ferrara. Quando poi V. Ecc. vorrà che o al presente o al principio de l'anno, o a marzo, che fu il tempo che questo Ser Tomaso entrò in officio, che questi uomini facciano la consueta elezione, s'eleggeranno questo medesimo che hanno ora instituito, cioè Mess. Achille. La elezione non potria essere migliore: se anco eleggeranno altri, io ne farò giusta relazione a V. Ecc.

Appresso, per essere alquanto di discordia fra il Capitano di Camporeggiano e uno Leonardo da San Romano, al quale a' dì passati V. Ecc. ha fatto grazia libera d'una condennagione che gli avea data detto Capitano (e la discordia è che 'l Capitano vorrìa esigere il caposoldo, cioè due bolognini per lira di detta condennagione, allegando che la mente di V. Ecc. non è di donare quello che proviene agli officiali), io son stato alquanto sospeso di determinare questa differenza, chè da una parte mi pare che l'esattore non debbe aver guadagno dove non ha fatica di riscodere; e io che sono esattore a Castelnovo [78] e similmente ho d'avere li due bolognini per lira, mai non gli ho domandati di condennagione ch'io abbia riscossa: da l'altra parte la ragione del Capitano non mi pare di poco momento, che dice questo essere suo emolumento, e che levandogli li emolumenti non ci potrà vivere; e che se non ne avrà frutto non farà per l'avvenire de le condennagioni: sicchè prego V. Ecc. che si degni di chiarirmi quello c'ho da far, o più presto da tollerare circa questo, perchè il Capitano ha voluto ogni modo detto caposoldo. Ben la supplico che non faccia, come si dice, de l'un figliolo e de l'altro figliastro, chè dovendo avere lui li due bolognini per lira anch'io li abbia; tanto più ch'io ho la fatica de l'esigere, che esso li ha senza fatica di esigere: perchè a Camporeggiano è poi anco un esattore separato che oltra quelli del Capitano tolle anche egli due bolognini per lira; e come vadano quelle esazioni di quella Vicarìa, il fattore lo debbe sapere, se mai ne vede conto.

Perchè V. Ecc. sappia tutto quello che accade in questa provincia, io scrissi a' dì passati a quella che 'l Capitano predetto aveva avuto ne le mani un Balduccio il quale insieme con prete Matteo e due altri ribaldi avevano gettato giù d'una balza e ammazzato un poveruomo, il qual Balduccio s'è ora venuto a porre spontaneamente in mano del detto Capitano, e che intendendo io che lo tenea molto sciolto, e per questo avendo suspicione che 'l Giudice e il malfattore fussino d'accordo insieme, commisi al notaro di Camporeggiano, non ci essendo [79] il Capitano, che gli commettesse da mia parte che non lo lasciasse senza mia licenza; e che poi senza farmene intendere alcuna cosa lo assolse e liberò di prigione: a questo non mi è stato mai dato alcuna risposta. Appresso ho a significare a V. Ecc. un'altra cosa simile, non per dir male, ma perchè V. Ecc. intenda tutto quello che intendo io pertinente a questo officio. Fu a' dì passati fatta una rissa qua su a San Romano, dove padre e figliolo intervenne ad uno omicidio, e io di questa cosa esaminai due o tre testimonî che deponevano assai gagliardamente che 'l padre e il figliolo n'erano colpevoli, e tal testificato mandai al detto Capitano. Appresso intesi, non già che 'l Capitano mai me n'abbia avvisato nè detto parola, che 'l padre si era andato a porre in prigione, e poi ho sentito che è stato liberato e assoluto. Signor mio Ill., a me pare, se in queste cose non fosson fraudi, non si schivariano di comunicarle meco, e vengo in dubbio che detto Capitano non metta in effetto quello che, essendo già in contesa con gli uomini de la sua Vicarìa, che gli negavano di dare un certo premio per aver esso fatto giustiziare un ribaldo, disse presente molti uomini da bene: che poi che di questa esecuzione di giustizia negavano di premiarlo, impiccaria per l'avvenire le borse e non i ladri. Questo non ho scritto per referir male, ma per avvertire V. Ecc. che quando le fusse rapportato, che qui non si fa giustizia, ella non creda che sia mia colpa. Io avrei più ardire di riprenderli se non fusse che allegano c'hanno comprato [80] l'ufficio, e che bisogna che se ne rivagliano: pur o comprino o abbiano in dono, mi parrìa lor debito che di queste cose che importano mi dovesson far partecipe.

Appresso un Mess. Gian Giacomo, il quale sta alla badia di Frassinoro, e al quale ho qualche obbligazione per onore che sempre a me e alli miei ha fatto quando mi accade di andare e di mandare innanzi e indrieto; e per questo (ma più perchè mi credo che sia gran servitore di V. Ecc.) l'amo e desidero ogni suo bene; esso mi scrive la qui inclusa lettera per la quale si duole come V. Ecc. vederà.[241] V. Ecc. giudichi se si duole a ragione o torto. Di questo fo fede a quella, che per quello ch'io lo conosco gli è molto fedele e affezionato, e anco Ser Tito qui notaro potrìa di questo fargli più certa testimonianza. Esso scrive, e anco più volte ha cercato di persuadermi, che Domenico d'Amorotto sia buon servitore di V. Ecc. Che esso sia o non sia, V. Ecc. lo debbe sapere meglio di me: io per me di questa bona opinione di Domenico non son ben chiaro, perchè gli effetti che per li tempi passati ho veduto mi paron contrarî: pur avendo esso più possanza in questi paesi che non hanno li [81] officiali di V. Ecc., non mi pare che sia fuor di proposito mostrare di credere che più presto ne sia amico che inimico, finchè un dì Mess. Domenedio provegga che possiamo più di lui. Io mi son sforzato fin adesso di tenermelo per amico, e anco di persuadere a lui che V. Ecc. l'abbia per buon servitore: e questo credo che sia stato bona causa, che fin adesso non ha, sotto specie di parzialitadi, molestata questa provincia. Se questo mio discorso par bono a V. Ecc., prego quella che anco con estrinseche dimostrazioni si sforzi di tenere Domenico, se non amico, almeno non nimico. Se anco le par meglio ch'io faccia altramente, me ne dia norma.

Io ho da significare a V. Ecc. come a questi dì due preti, l'uno da Reggio, e l'altro qui da Sillano, andaron a trovare il Sig. Alberto da Carpi[242] a Lucca mandati da Domenico d'Amorotto, il quale Domenico domandava di essere fatto Commissario similmente del piano di Reggio come è de la montagna, [82] e s'accompagnâro qui con uno, al quale per via disseno quello che andavano a fare; e questo l'ha riferito a me, e dettomi come il Sig. Alberto ha fatto a Domenico quanto ha domandato.[243]

Qui si dice che Pierino Magnano si è presentato al cospetto di V. Ecc.: quando sia vero, aspetto da lei intendere come m'ho da reggere, circa la confiscazione de li suoi beni. Io ho fatto condurre certa poca quantità di grano che era ad una sua possessione. Ancora che si sieno (come anco ho scritto) appresentati chi dicon averlo comprato dal figliolo, l'ho fatta condurre qui in rôcca, e ci farò anco condurre un poco di vino, e tutto quello che di lui si trova mobile: ma non ne farò altro contratto finchè non ho novo avviso da V. Ecc., salvo ch'io pagherò li balestrieri e le spese de la condotta. Altro non occorre al presente. In bona grazia di V. Ecc. mi raccomando.

Castelnovi, XXV novembris 1522.

Umil servitore,
Ludovico Ariosto

[83]

XLV

Al medesimo

Ill. ed Ecc. Signor mio. È accaduto che per far scrivere le robe mobili di Pierino che si trovava avere a Castelnovo e di fuore, e che non parendo a me che fusse in tutto sicuro che 'l mio Cancelliero vi andasse solo, ho mandato seco li balestrieri col suo capo ogni volta in la terra, e tre è accaduto che li detti balestrieri son cavalcati fuore ad un luogo distante di qui quattro miglia detto Villa: la prima volta vi andâro a scrivere detti beni e li consegnâro in mano del prete de la villa, e non parendo a me che fussino ben depositati, volsi che vi tornasseno e che li mettessino in mano de l'officiale de la Villa; la terza volta vi sono iti per farli condurre in qua, e così hanno fatto condurre circa un moggio e mezzo di grano che v'era, e lasciato comandamento a quelli uomini che conducano un poco di vino che v'è. Ora non sapendo io come io avessi a satisfare il Cancelliero, li balestrieri e il suo capo, scrissi a questi dì agli Magnifici del Consiglio che mi avvisassino come io li avevo a pagare. Sue Magnificenze mi risposeno ch'io facessi il consueto e quel manco ch'io potessi, e che satisfatto a queste spese io mandassi il resto a l'esattore de la Camera. S'io sapessi certo qual fosse questo consueto, io non avrei avuto a domandare il parere di Sue Magnif.: ma qui non è Statuto nè lettera alcuna che sia pervenuta in man mia, che [84] parli di quanto appunto sia la mercede di tali esecutori. Li balestrieri ogni volta che cavalcano domandano un quarto di ducato per volta, e il Capitano un ducato; e se fanno esecuzione in Castelnovo, domandano la metade di questo, e dicono questo essere il consueto: e il Capitano per queste esecuzioni avrebbe voluto tre ducati e mezzo; e ogni balestriero tre quarti e mezzo: del Cancelliero non parlo perchè sta meco e si contenterà di quello che vorrò io. Io dissi di dare al Capitano due ducati, e mezzo ducato per balestriero, e tutti si dolgono come io voglia torre quel che lor proviene. Io supplico V. Ecc. acciò ch'un'altra volta io non abbia a contendere e dar causa che questi che mi hanno ad ubbidire mi voglian male, che faccia intendere com'è l'usanza ne li altri luoghi di V. Ecc. di satisfare li balestrieri per l'esecuzioni che fanno, e far che così de le cose che appartengono alli Criminali come di quelle che appartengono alla Camera, io sia puntualmente instrutto, perchè tal lettera io farò qui registrare ne li Statuti, acciò che per l'avvenire nè io nè li miei successori stiano più sospesi in tali cause. — Per la Dio grazia qui si vive molto quietamente e in pace, e ogni cosa anderìa bene se non fosse per la vicinanza ch'avemo d'alcune terre che sono infette di peste: ma io col Capitano de la Ragione e con alcuni uomini da bene di questa terra non cessamo di far tutte le debite provvisioni; ma gli è il pericolo ch'avemo a far con villani, che mal si ponno tenere che non vogliano ir trafficando: pur Dio n'ha aiutato fin qui, [85] spero che anco ne aiuterà: pur quando accadesse che alcuno si infettasse, supplico V. E. che sia contenta ch'io, senza scrivere altrimente, possa levarmi e venirmene a casa, perchè in ogni altro luogo mi darìa il core di poter schivar la peste fuor che qui, dove ho sempre villani all'orecchie, e non c'è alcuno che stesse a maggior pericolo di me. — Qui si dice che Pierino è a Ferrara: se 'l serà vero spero che da V. E. n'averò avviso. Quest'altri confinati, cioè il Coiaio e il Casaia, han scritto lettere a questa Comunità pregandoli che vogliano scrivere a V. E. che li rimandi a casa, e promettono di volere far miracoli di bontade: la lettera fu domenica letta in consiglio, e non fu uomo, di circa quaranta che c'erano, che rispondesse mai nè ben nè male. Io n'ho voluto dare avviso a V. Ecc., in bona grazia de la quale mi raccomando.

Castelnovi, 26 novembris 1522.

Umil. servitore,
Ludovico Ariosto.

XLVI

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Iacopino da Convalle, il quale da V. S. mi è stato raccomandato nella differenza che ha con suoi cognati, mi ricerca ch'io facci fede a quelle di quanto sia stato fatto da me nella causa sua. V. S. intenderanno come a sua instanza io feci citare suoi cognati, delli quali uno detto G. Francesco, il quale è principale di loro, e al quale li altri fratelli si [86] rimettono, non potè comparire per essere stato prima da me proibito di uscire di casa, per essere egli stato in luoco sospetto di peste; e dipoi che fu passato il termine della sospizione, la vicaria, della quale egli è, fu anco da me vietata di venire in questa terra pure per simile sospetto, sì che esso non è potuto comparire se non a l'ultimo comandamento; e questo ho detto perchè Iacopino vorrebbe che prima che si intendesse altro, lo satisfacesseno delle sue spese; e a me non è paruto di farlo, e di non giudicare di spese se non poi che averò cognosciuto li meriti della causa. Iacopino ha prodotto due testificati; in l'uno mostra che gli furono promessi in dote 22 ducati, e questo testificato è stato fatto citata la parte; poi ha fatto fare un altro esamine, ne lo quale mostra che non sterno a quelli primi patti, e che questi suoi cognati poi gli promisero 25 ducati: ma a questo secondo esamine non fu citata la parte. Li cognati dicono avere satisfatto Iacopino di questa dote, e di qualche cosa di più; Iacopino lo nega: a me pareva di dare qualche dilazione alli cognati di provare; Iacopino non se ne contenta, e mi prega che io facci relazione a V. S. del termine in che si trova la causa, e così la faccio. Alle quali sempre mi raccomando.

Li cognati di Iacopino dicono che hanno le loro prove nella vicaria del Borgo, e che sono stati per farli esaminare; ma che per essere loro stati creduti in sospetto di peste, hanno incorso in pericolo della vita.

Castelnuovo, 12 decembris 1522.

[87]

XLVII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Perchè dubito che una lettera del medesimo tenore di questa, che a' dì passati io scrissi a V. S., non sia venuta in sue mani per colpa del portatore, replico con questa altra per fare loro intendere che lo illustrissimo signor mio mi aveva dato commissione ch'io ricordassi a V. S. come sono passati due anni che tra il comune di Valico di sopra e quello di Cardoso fu fatta una dichiarazione di confine, intervenientibus utrinque commissariis, e di concordia ne fu contratto uno instrumento, e dal prelibato signor mio ne fu mandata la ratificazione e confirmazione a V. S.: e V. S. mai non hanno mutuo mandata a sua Eccellenza. E perchè sua Eccellenza desidera di averla ad ogni buono fine, m'ha commisso ch'io scriva a quelle che siano contente di mandarla; onde così io le prego e più presto che ponno, acciocchè da sua Eccellenza io non sia tenuto per negligente.

Appresso, questi di Valico si dolgono, che contra li patti alcuni di Cardoso hanno passato le confine, e arato e seminato sul terreno che non è suo: io prego V. S. che si degnino d'intendere la veritade, e non comportare che sia alli nostri fatto torto. Alle quali mi raccomando.

Castelnovi, ultimo anni 1522.

[88]

XLVIII

Agli Otto di Pratica in Firenze

Magnifici et excelsi domini mihi observandissimi. È accaduto ch'uno, detto il Pretaccio da Barga, suddito di Vostre Eccellenze, aveva per un suo figliolo domandata per moglie una fanciulla di questa terra, ed eragli da li tutori stata promessa. E mentre che si veniva ordinando per fare il sponsalizio, la fanciulla, nescio quo spiritu ducta, è intrata in un monasterio che abbiamo qui, dell'ordine di San Francesco, ed èssi fatta vestir suora. Ma prima che si sia vestita, io insieme con tutori e parenti di lei ho fatto ogni opera possibile per rimoverla di questa opinione e far che 'l parentato segua; ma non l'ho potuto ottenere. Per questo il Pretaccio non riman soddisfatto, e vorrebbe per violenza avere costei, e minaccia alli tutori e alle monache grandemente. Io me ne sono doluto col capitano di Barga, e sua Magnificenza me n'ha dato assai giustificata e conveniente risposta; ma non è restato però, che questa notte passata il Pretaccio non sia venuto per mezzo li borghi di Castelnuovo con più di 50 compagni armati, e ito ad una possessione qui presso de la fanciulla, e se ne dimostra come padrone: ed ècci fin a quest'ora. Io l'ho fatto ammonire che se ne levi subito. Non so quello che seguirà. Mi è parso di ricorrere a Vostre Eccellenze, e pregarle che si degnino di scrivere subito e d'operare in modo che questo suo suddito desista da usare violenza, e segua [89] li modi de la ragione, acciò che costui non sia causa di attaccare alcuna nimicizia fra li sudditi del mio Ill.mo Signore e quelli di Vostre Eccellenze, dove credo che la volontà de li Signori sia bene unita e ottimamente disposta l'uno verso l'altro: e in bona grazia di Vostre Eccellenze mi raccomando sempre.

Castelnovi Grafagnanae, 7 ianuarii 1523.

XLIX

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Perchè V. S. potriano avere inteso che alla Pieve Fossana, loco il quale è tra Castiglione suo e questa terra di Castelnuovo, è stato sospetto di peste; e per questo pensando le cose maggiori e di più pericolo che non sono, averanno forsi fatti divieti, che quelli che vengano di qui non possino intrare in Lucca; certifico V. S. come un Lucca Pierotto per uno suo figlio che nascosamente era andato, non so dove, si è infettato di modo, che due o tre sono morti di casa sua; ma presto si è fatto provvisione, chè tutta quella famiglia si è fatta ire in loco separato, e proibito a tutti quelli della Pieve, che non escano de le loro confine; benchè, grazia di Dio, in quella terra non si sia la peste scoperta in altra casa, e a Castelnuovo non è male nè sospezione alcuna, e stiamo con buonissime guardie. Io scrivo questa a V. S., perchè sappiano come sono le cose, e per pregarle che siano contente che lo esibitore [90] di questa, che serà mio fratello messer Galeazzo Ariosto, entri e alloggi in Lucca, il quale è venuto da Ferrara per ire a Carrara a trovare il reverendissimo cardinale Cibo suo padrone; e questo riceverò da V. S. per uno grandissimo piacere; le quali ringrazio della copia che a questi giorni mi hanno mandata, di quella ratificazione pertinente alli uomini di Valico e di Cardoso. E in buona grazia di V. S. mi raccomando.

Castelnovi, 29 ianuarii 1523.

L

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Giovanni da Montepulciano, esibitore di questa, farà intendere a V. S. di un torto che li fece uno di quelli delli quali sono stati confiscati li beni per loro mali importamenti da V. S.; e mi dice che del tutto è informatissimo il spettabile Baldassarre da Montecatino, il quale domandato da quelle ne potrà fare buona relazione. Prego V. S. che prima per la giustizia, e poi per misericordia di questo povero uomo, il quale è da bene e merita essere aiutato, e appresso per mio amore, si degnino di prestargli ogni favore e aiuto conveniente: in buona grazia delle quali mi raccomando sempre.

Castelnovi, 18 ianuarii 1523.

Post scripta. Le S. V. non si diano maraviglia se la lettera è tardata; la causa è stata per il suspetto [91] che è stato di qua di non potere entrare in Lucca: tuttavia ogni volta che si presenterà alle S. V., prego quelle li sia raccomandato per mio amore.

Castelnovi, 17 februarii 1523.

LI

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Alli dì passati scrissi una lettera a V. S. di uno torto che fu fatto a Giovanni da Montepulciano per uno di quelli de li quali sono stati confiscati li suoi beni per li loro mali portamenti, e che del tutto è informatissimo il spettabile Baldassarre Montecatini e Baccio del Fava vostro conestabile; li quali, dimandati da quelle, li potranno fare buona e vera relazione. Prego V. S. che prima per la giustizia e poi per misericordia di questo povero uomo il quale è da bene e merita di essere aiutato, e appresso per mio amore, si degnino di volerli far fare il debito suo conveniente, se non in tutto o in parte, e a quelle non li serà grave di darne avviso di quello, ed esse si risolveranno, notificando le S. V.; e serà una buona elemosina a farli del bene, per essere disfatto per tale conto: e V. S. intenderanno per la qui alligata tutto quello dimanda esso Giovanni, il quale vi sia raccomandato in buona grazia. E a V. S. mi offro e raccomando.

Castelnovi, 2 aprilis 1523.

[92]

LII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Essendo io a questi giorni stato a Ferrara, lo illustrissimo signor mio m'ha commisso ch'io replichi a V. S. quello che altre volte ho scritto, cioè che quelle siano contente, che li banditi di questa ducale provincia non siano securi nel dominio di V. S., et versa vice. Quelle ponno intendere li omicidii e assassinamenti che tuttavia accadeno in questi paesi, a li quali, per essere le giurisdizioni di V. S., de' signori Fiorentini e dell'illustrissimo signor mio così appresso l'una l'altra e come confuse, male si può provedere. Non ci vedo rimedio; ma che più presto le cose abbino a ire di male in peggio, se V. S. non mi soccorreno specialmente e presto, di non comportare che a li miei banditi sia dato recapito in le sue terre; et etiam per vedere che quando noi dessimo campana a martello per perseguitare tal gente di mala sorte, che le terre di V. S. accorressino in aiuto, che noi saremmo apparecchiati di fare per V. S. il medesimo: in buona grazia delle quali mi raccomando sempre.

Castelnovi, 10 aprilis 1523.

LIII

Al duca di Ferrara

Ill.mo ed Ecc.mo Signor mio. Alla mia giunta qui trovai che questi banditi del Costa da Pontecchio [93] con li figliuoli di Pellegrin dal Silico e alcuni lombardi de la fazione di Virgilio da Castagneto erano in numero di circa sessanta in Grafagnana, li quali, oltre a quello che avevano fatto fin a quel dì, di che il Capitano mi dice aver avvisato V. Ecc.a, di poi erano stati a Salcagnana e avevano preso un uomo da bene detto Cappello e l'avevano menato via legato e poi ammazzato. Parendomi gran carico mio e anco di V. Ecc.a patire stessino qui così senza contradizione alcuna, molte volte confortai questi di Castelnovo che volessino porsi insieme e ire a cacciarli, il che mai non potetti impetrare, come quelli che non si fidano l'uno de l'altro, e dubitavano che con intelligenza de la parte italiana fussino nel paese. Io pur mi deliberai di far il debito mio, e menai pratica con gli uomini di Sillano, li quali soli di tutta questa provincia gli avevano mostrato il volto ed erano stati seco alle mani, che luni mattina prossimo passato si trovassino a Camporeggiano con cinquanta de li suoi, che io mi troverei qui con quelle persone che potrei fare più presto; poi la sera innanzi mandai comandamenti nella Vicarìa di Trassilico che quelli che potevano portare armi la mattina del lunedì fussino a Camporeggiano: e così senza far motto ad alcuno la mattina del lunedì nell'aprire del giorno, con una gran pioggia, mi partii da Castelnovo con li balestrieri, cioè X, chè il Capitano loro con un altro balestriero restò ferito a Castelnovo, e avendo su la mezzanotte mandato a chiamare li uomini di Turrita, villa qui più prossima, con numero di circa [94] quaranta persone, me n'andai a Camporeggiano, credendo di trovarvi li uomini di Sillano; ma quelli villani non s'erano più mossi, come nulla appartenesse loro questa cosa: tutti gli altri comandati vennero a pezzo a pezzo. Fu forza mandare a chiamare questi di Sillano, senza li quali non mi pareva di poter far cosa che stesse bene, perchè sono armati e da far qualche espedizione, chè gli altri erano da fare in loro poco fondamento. Mentre ch'io faceva questa indugia, li avvisi delli uomini di Castelnovo andavano in volta, li quali più ad agio mi dà l'animo d'investigare e di trovare. Finalmente vennero quelli di Sillano, incirca sei persone, e mi fecero certa scusa infangata, che non m'avevano bene inteso, e poi mi certificaro che tutti li lombardi insieme con Filippo Pacchione, Bernardello e Battistino Magnano s'erano partiti e tornati di costa da l'alpe, e Bertagnetta e tre altri da Pontecchio partiti in discordia da li compagni si trovavano a Pontecchio, ed erano certi che erano avvisati e che non aspettariano, e che s'io volevo andare per bruciar le case, sarei causa di far bruciare la metade di questo paese; e così quelli da Camporeggiano e tutti gli altri mi pregavano che io non bruciassi, ch'io sarei causa de la ruina di questo paese. Per questo e perchè mi vedevo essere stato tardo per pigliarli, e perchè vedevo che nessuno mi seguiva volentieri, e che sul fatto quando accadesse qualche contrasto sarei abbandonato, come già due volte sono stati li balestrieri; l'una da quelli di Castelnovo contra li borghesani, l'altra da quelli [95] di Camporeggiano contra li banditi; mi parve di licenziare la gente. Subito mi furon ambasciatori di quelli banditi da Pontecchio, li quali mi pregavano come per la qui inclusa di Bertagnetta V. Ecc.a potrà vedere. Io per nessun modo son per farli tal salvocondotto: ben son per darli bone parole e vedere di assicurarlo alquanto, se mai potessi fare con astuzia quello che non posso per forza. Io avevo avvisato il Commissario di Frignano e signori Lucchesi, il Commissario di Fivizzano e alcuni altri che a me pareva che fussino buoni per serrare li passi quando questi ribaldi volessono fuggire; ma mentre che ho tardato a dar questi avvisi (che non ho potuto far sì secreto che li fautori suoi, cioè tutti questi de la parte taliana di Castelnovo, non se ne siano avveduti e non gli abbiano avvisati), si sono levati, come ho detto, e tornati in Lombardia. Io voglio che V.a Ecc.a intenda ogni cosa acciò che possa pensare e avvisarmi come mi ho da governare, chè veramente se non ci si fa qualche buona provvisione, questa provincia anderà di male in peggio e a V.a Ecc.a non resterà altro che 'l titolo di esserne signore, e la signoria in effetto sarà di questi assassini e delli capi e fautori c'hanno in questa provincia e specialmente in Castelnovo.

Ieri essendo a Camporeggiano feci chiamare il parlamento generale e proposi tre cose: l'una che fussino contenti di conferire con l'altra provincia ad accettare quindici o venti fanti scoppietteri appresso a gli balestrieri che ci sono, e pagarli per [96] un mese o per dui finchè questa provincia si riducesse in tranquillità e sicurezza. Questo non ho potuto con alcuna persuasione far che vogliano accettare, anzi si sono levati in piedi alcuni vecchi e hanno cominciato a ricordare li tempi passati e a dolersi che contra li capitoli ch'ebbeno quando si dettono alla Casa da Este V.a Ecc.a gli abbia dato la gravezza de li balestrieri, allegando che prima si solevano tenire ne le rocche li castellani, il stipendio de li quali esse Comunità pagano senza alcun loro utile, e che detti castellani erano obbligati a tenere chi dui, chi tre, chi quattro famigli, de li quali famigli poi si soleva prevalere il Commissario, e che questi erano più temuti ed erano più atti a tenere queta la provincia che non sono li balestrieri. Io risposi loro quello che mi parve conveniente; ma finalmente non ci fu uomo che volesse consentire di crescere spesa, ma più presto instavano che questa spesa de li balestrieri si levasse lor da dosso, o almeno che li denari con che si pagano li balestrieri fussino spesi in tanti fanti, che sarìa pur più numero, e in questi sassi niente vagliono li cavalli e che li fanti più quietamente e per sentieri e per balze, di notte e di giorno si potriano condurre in luoghi dove non ponno ire li cavalli. Questo lor parere ho voluto scrivere: V.a Ecc.a lo intenda e poi faccia il suo.

Io li proposi appresso che si facesse un battaglione di ducento o di trecento fanti ne la sua Vicarìa distinto sotto li suoi capi e che se gli desse l'arme o scoppietti o balestre o picche, con che fussino [97] sempre apparecchiati a poter obstare quando lombardi o altri forastieri volesson lor dar noia; chè di voler fare io per mezzo del suo aiuto alcuna esecuzione contro banditi o delinquenti son ben certo che non mi succederìa. Questi rimasero contenti di voler fare, e così ho cominciato a darli principio. Son quattro Vicarìe: mi sforzarò di fare che ciascuna faccia il suo, per potermene valere almeno contra l'insulti di forastieri.

Io feci lor la terza proposta, che mi dessino autorità di poterli obbligare di 25 ducati per persona di delinquente, perchè intendono di metter taglia a questi assassini, e proposi che non volevo che alcuno di essi rispondessi in voce ma secretamente con le fave, acciò che particolarmente non potessino essere notati e per questo offesi da li banditi, de li quali ero certo che avevano più paura, e gli avevano in maggiore osservanza e gli prestavano più ubbidienza che a V. Signoria. Li Sindici furono li primi a rispondere che davano l'autorità di questo agli Otto, sì come a quelli nelli quali era rimesso di poter spendere quello de le Comunità a lor modo. Gli Otto risposero che erano certi di tutti otto essere morti se facevano questo. Io mandai per le fave per far ballottare la cosa: si cominciaro a levare in piedi e ad uscire dal consiglio catervatim, dicendomi che non volevano intervenire a questo perchè erano certi che li banditi gli averebbero tutti per inimici e che se ne vendicariano sol per questo che avessino consentito che tal cosa si ballottasse. Or V.a Ecc.a può comprendere [98] in che paura è tutto questo paese per sei o dieci ribaldi che ci sono.

Ultimamente gli Otto che mi sedevano più appresso mi disseno che avriano di grazia di pagare questa taglia, fatto che fosse l'effetto, ma che non volevano essere autori, ma che più presto volevano mostrare essere sforzati da V.a Ecc.a e che sarìa bene che quella mi dèsse per una sua lettera commissione o per una grida emanata da quella, che io mettessi taglia a questi ribaldi, e l'uno che ammazzasse l'altro uscisse di bando e appresso guadagnasse dieci ducati, chè fariano più conto del denaio che d'essere rimessi. V.a Ecc.a ora consideri il tutto e mi significhi ch'io per me, senza l'aiuto e consiglio di quella, non so che mi faccia.

Per satisfare a quella di quanto ella mi commise de li prugnoli e delle trote, passando da Montefiorino e ritrovandovi il Commissario di Sestola, feci che subito spacciò un messo con certi pochi prugnoli che erano ivi apparecchiati per lui; e credo che V.a Ecc.a gli abbia avuti. Io ho fatto subito pescare a trote, e fin qui non ho potuto averne se non tre assai piccole, le quali subito ho fatto amarenare. Se n'avrò prima che io spacci il messo dell'altre, le manderò insieme; se non V.a Ecc.a si contenterà di queste perchè l'acque sono in questo paese ancora fredde di sorte, che non se ne può pigliare. Ho li messi fuori per trovare delli prugnoli: se ne potrò avere li manderò insieme; ma questo paese è più alto che 'l Frignano, e per questo più tardo a produrre le cose, sì che V.a Ecc.a [99] mi scusi s'io non posso fare al presente quanto è il mio debito e desiderio. Altro non occorre. In buona grazia di quella umil. mi raccomando.

Castelnovi, 15 aprilis 1523.

(P. S.) Appresso mi ero scordato di dire a V.a Ecc.a che tutto il consiglio di Camporeggiano mi pregava ch'io facessi a questi banditi salvo condotto di star nel paese, dando essi sicurtà secondo che per lettera loro inclusa propongono. Io risposi che questo non ero per fare senza saputa di V.a Ecc.a e che gli ne darei avviso.

V.a Ecc.a debbe anco sapere questo, che per derisione dell'officio questi banditi quando erano tutti insieme prima che si partissero del paese ferono far una grida che promettevano di donare ducento ducati a chi dèsse lor nelle mani vivo il Capitano Vicecommissario e cento morto: così m'ha detto esso Capitano che l'ha per cosa certa.

LIV

Al medesimo

Ill. ed Ecc. Signor mio. Ora ho ricevuto una di V. Ecc. per la quale quella m'instruisce quanto ho da fare contra questi banditi, li quali di nuovo hanno fatto li eccessi di che il Capitano de la Ragione avea dato avviso; ma perchè per un'altra mia, la quale per la via del Commissario del Frignano ho dirizzata a V. Ecc. io avviso quanto poi ho fatto, e qual sarebbe il mio disegno per avere [100] questi ribaldi ne le mani, non farò altro fin che da quella non ho nuova commissione. Le case sempre si ponno bruciare, ma non già sono atto d'avere li delinquenti ne le mani, se non aspettando il tempo, e usando grande industria. Pur io manderò la lettera di Vostra Eccell. al Commissario del Frignano, acciò che ad ogni mia richiesta mi somministri le genti e l'aiuto di che io lo ricercherò.

Li uomini del Poggio per aver negato di seguitare il Capitano de' balestrieri, e per aver prima dato mangiare e bere alli banditi, benchè io creda più presto per paura che per volontà; pur per non avere fatto il debito loro di dar la campana a martello, o di mandare ad avvisare l'officio, et etiam perchè sieno esempio agli altri; ho condennato secondo il tenore de le mie gride in 200 ducati, ed anco penso di non lasciar quelli di Camporeggiano impuniti, se con ragione potrò procedere: ma fanno assai escuse, che li banditi erano molti più in numero che tutto quel popolo, e che li balestrieri nostri giunseno improvviso, e così presto furon rotti, che essi non ebbono tempo di pigliar l'arme. Pur la cosa s'intenderà e similmente del Comun di Ponticossi, che fu richiesto e non volse seguire; e s'io potrò condennarli, non avrò loro remissione. A V. Ecc. starà poi a far la grazia, ne la quale spero che avrà rispetto a far satisfare il Capitano e quel povero balestriero, del quale il cavallo peritte, dei loro interessi.

Appresso perchè si approssima il tempo che questo Capitano de la Ragione sit functus officio, chè [101] questo giugno è il suo termine, io dubito di restar qui senza compagno, o vero che sia mandato in suo loco uno che non sia così a proposito de l'officio come è lui, che, come altre volte ho scritto e detto a bocca, è virile e uomo da farsi temere e ubbidire, ed esso con la sua severità tempera quel mio difetto che alcuni di Castelnovo m'hanno imputato, cioè di essere troppo buono;[244] dove se fusse mandato qui un altro che similmente fusse troppo buono, dubito che l'uno e l'altro insieme farìa una mistura che valerìa poco: per tanto prego V. Ecc. a far che non si parta finchè ella non abbia provvisto d'un altro simile a lui; che almeno non si parta di qui per tutto agosto. Altro non occorre al presente. In bona grazia di V. Ecc. umil.te mi raccomando.

Castelnovi, XVI aprilis 1523.

LV

Al medesimo

Ill. ed Ecc. Signor mio. Essendo io a questi giorni a Ferrara,[245] accadde che due figlioli di Ser Evangelista dal Sillico entrâro qui a Castelnovo una notte travestiti in casa d'una giovane; la quale ancora [102] ch'abbia nome di far piacere segretamente ad un uomo da bene di questa terra, pur non è p.... di ognuno, e sta e pratica senza essere schivata con le donne da bene; e gli messero le mani addosso per tirarla per forza di casa. Ella gridò, e fu aiutata. La mattina si venne a dolere al Capitano. Per questo un figliolo di Ser Evangelista, detto prete Job, il quale è chierico ordinato in sacris, trovò la madre di detta giovane, e gli ruppe la testa e lasciò per morta, ed è stata molti dì in pericolo di morire. Per questo il Capitano gli processe contra, e lo condennò in 200 lire. Ser Evangelista produsse le bolle de li ordini del figliolo, e fece venire una inibitoria dal Vescovo di Lucca. Per questi ed anco per altri rispetti il Capitano cessò dal procedere, in modo che 'l detto prete Job è tornato a Castelnovo. Questa cosa è di mal esempio, e anzi spiace sommamente, e se non fosse che io temo le censure ecclesiastiche per aver beneficio,[246] io non guarderei che costui fosse prete, e lo castigherei peggio che un laico: e quando io non potessi fare altro, almen li darei bando: che se bene li signori temporali non hanno potestà sopra li chierici, pur mi pare che nè anco li chierici debbiano poter star nel dominio de li detti signori contra lor volontà. Io n'ho voluto scrivere a V. Ecc. acciò che quella gli faccia quella provvisione che le pare; e d'ogni [103] cosa che determini dia più presto al Capitano la commissione che a me, perchè esso non ha beneficî come ho io. E in buona grazia di V. Ecc. umil. mi raccomando.

Castelnovi, 17 aprilis 1523.

Post scripta. Avevo scritto al Vescovo di Lucca, de la cui diocesi è Castelnovo, e a quel di Luna, che è superiore alli preti di Camporeggiano, acciò che mi dessino autorità sopra li preti. Il Vescovo di Lucca si trova ammalato, sicchè non ho potuto ancora averne risposta. Questo di Luna mi risponde la qui inclusa lettera, per la quale V. Ecc. può giudicare che se vogliamo ricorrere alli Vescovi avremo poco aiuto: ed io anco n'ho fatto esperienza, chè questa passata estade mandai in mano del Vescovo di Lucca quel prete Matteo[247] che avea ferito il mio Cancelliero, ed era omicida e assassino publico, e con poca acqua lo mandò assolto: e prima ch'io venissi qui, un prete Antonio da Soraggio, ch'avea morto un suo zio, fu in mani del Vescovo di Luna, e con un misereatur fu liberato.

[104]

LVI

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Li uomini di Valico mi hanno pregato ch'io facci opera d'impetrare grazia appresso V. S. per uno delli suoi detto Belgrado, che è prigione di quelle. Quello che detto Belgrado abbia fatto di male di nuovo, non m'hanno saputo dire, se non ch'è imputato d'aver voluto puorre taglia a certi di ch'io non so il nome, e in sua escusa mi allegano che questi tali erano debitori di lui; e più presto ha cercato per quella via che ha potuto di avere il suo, che egli avesse intenzione di volere quello che non gli apparteneva. Questo atto, ancora che sia violenza, chè non è licito ad alcuno farsi da sè ragione, pure merita, intercedendo persona quale io mi reputo di essere appresso V. S., per l'affezione e lo amore ch'io li porto, di esserli usato indulgenza e perdonanza; e così quanto so e posso, e prego e supplico V. S.: e se ben per li tempi passati questo Belgrado è stato alquanto più gagliardo a danno delli sudditi di V. S. e a difesa delli suoi di Valico in quelle differenze tra Valico e Cardoso, prego quelle che adesso non voglino ritoccare quelle piaghe che già più giorni dovrebbero essere salde, e così voglino rimettere ogni passata ingiuria, ch'io ne averò a V. S. perpetuo obbligo, e lo accumulerò appresso alli altri molti ch'i' li ho; e so che [105] al mio illustrissimo signore quelle faranno gran piacere: in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 18 aprilis 1523.

LVII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Cesare di Antonio Evangelista da Valico si trovò insieme con alcuni di Coreglia a fare certo omicidio, e perchè mi dice che tali suoi compagni hanno avuto da V. S. salvo condotto, è ricorso a me come a quello la cui intercessione spera che li debba giovare, e pregatomi che io supplichi a V. S. che in questo lo voglino trattare come hanno fatto li altri che sono in pari colpa: e così io, che debbo avere la protezione di questi sudditi dello illustrissimo signor mio, quanto so e posso lo raccomando a V. S. che lo faccino puorre nel medesimo salvo condotto, dove sono posti quelli da Coreglia, seguaci di Francesco da Castiglione: e in buona grazia di quelle mi raccomando.

Castelnovi, 19 aprilis 1523.

Dominationum vestrarum observantissimus
Ludovicus Ariostus.

LVIII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Per una de' 16 di questo da V. S. ho inteso la [106] buona volontà circa a quanto dal mio illustrissimo signore sono state ricercate, e come per concludere tale effetto sono per mandare uno suo commissario; e quelle mi domandano, se io ho autorità dal mio illustrissimo signore che basti a fare questo. Io non ho alcuno mandato altrimenti in scritto, se non che già molti giorni e mesi sua Eccellenza per una sua mi commise ch'io facessi opera con V. S., che li nostri banditi non fosseno securi nel dominio suo, e che similmente li banditi di V. S. non fosseno securi nel nostro. Allora io scrissi due volte o tre a V. S., e quelle mi rispuosero che circa questo farebbeno certo consiglio, e che poi mi avviserebbeno; e quelle, forse essendo in maggiori cose occupate, non mi mandarono mai la resoluzione. A questi dì prossimi io fui a Ferrara, e il signore duca mio mi commise di nuovo ch'io pure ritentassi e cercassi di nuovo fare lega con V. S., sì come sua Eccellenza ancora ha scritto a quelle. Altro mandato nè altra commissione in scritto ho io; bene vi rendo certe, che di tutto quello che io farò per quiete di questa provincia di Garfagnana, così pertinente a V. S. come a sua Eccellenza, essa se ne chiamerà contenta, e sarà per ratificarlo: pure non starò di avvisarne quelle, se, prima che la risposta venga, parrà a V. S. di mandare il suo commissario; o se anche si parrà meglio che si aspetti nuova commissione dal duca, faranno il suo parere. Al miglior consiglio delle quali mi rapporto sempre; e di continuo in sua buona grazia mi raccomando. Castelnovi, 19 aprilis 1523.

[107]

LIX

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Li uomini di Valico si lamentano che quelli di Cardoso ogni giorno menano il suo bestiame, oltra quello che già è stato determinato per li commissarii di V. S. da una parte, e quelli dello illustrissimo signore mio dall'altra, in loro grandissimo danno e pregiudicio: io prego V. S. che siano contente o di admonire li suoi sudditi che stiano taciti e quieti di quanto già è stato fatto, ovvero siano contenti che li uomini di Valico, se ritrovano bestie di quelli di Cardoso nel suo, le possino pigliare e menare qui a Castelnuovo; acciò che del danno e trasgressione che fanno patischino la pena. E in buona grazia di quelle mi raccomando.

Castelnovi, 20 aprilis 1523.

LX

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Sempre che il commissario di V. S. verrà, io lo vederò e onorerò, come è mio debito, molto volentieri. Di nuovo raccomando Belgrado, e così Giovanni da Montepulciano a quelle; in buona grazia delle quali mi raccomando sempre.

Castelnovi, 23 aprilis 1523.

[108]

LXI

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Signor mio. V. E. può sapere che per essere stato su quel di Cicerana assassinato un prete pisano da un Nicodemo e da un Minello sudditi de' Fiorentini, ma che tuttavia abitavano a Cicerana, e, per quanto dice il prete, da un Giuliano figliolo di Pellegrin dal Sillico e bandito per esser stato uno di quelli che ammazzâro Ser Ferdiano; benchè alcuni di Castelnovo li quali hanno la protezione di questi dal Sillico non vogliano che 'l prete dica che questo Giuliano vi fosse, e per questo l'hanno molte volte minacciato e minaccian tuttavia; pur la verità sta che esso Giuliano v'era: il qual Giuliano con questi assassini e con Baldone suo fratello e con altri banditi è sempre abitato a Cicerana in casa di sua mogliera e de la mogliera del Moro suo fratello, c'hanno due sorelle e hanno la casa comune; non ostante gli ordini che non si può dar recapito a' banditi, e non ostante che a quel Comune io n'ho fatto molte volte proibizioni e con gride publiche, e con comandamenti particolari in scritto e a bocca, e anco specialmente a questo Moro e alle mogliere, che sotto pena de la disgrazia di V. E. ed essere loro arsa la casa non lascino questi banditi venire in quella casa: per queste disobbedienze e per essere da li sopradetti stato assassinato questo prete, condennai il detto Comune di Cicerana 300 ducati, ancora ch'io conoscessi che 'l Comune non era in [109] tanta colpa di questo quanto era il Moro, chè il Comune aveva peccato per paura e per non poterne fare altro; imperò che questo Moro e li fratelli con li banditi loro seguaci e con la intelligenza c'hanno con alcuni di Castelnovo, si son fatti tiranni e signori di quel luogo. Ma io mi attaccai al Comune perchè non vedevo allora modo di avere questi malfattori e questo Moro lor ricettatore e fautore e partecipe ne le mani, e non mi pareva che ci fosse l'onore di V. E. che questo prete si dovesse ir lamentando di essere stato assassinato nel dominio di quella. V. E. di poi usando insieme giustizia e clemenza è stata contenta che quel Comune, purchè satisfaccia il prete de li suoi danni, del resto de la condennagione abbia grazia. Io che pur avevo animo che chi ha fatto il peccato ne facesse la penitenza, ho tenuto modo che questo Moro mi è venuto a parlare, e l'ho preso e l'ho in prigione, non solo per questo (avvenga che per questo saria degno di grandissima punizione, chè li danari de l'assassinamento son stati partiti in casa sua, e credo ch'esso n'abbia avuto una buona porzione), ma ancora perchè è sempre il capo o gran parte di tutti li assassinamenti che si fanno in questa provincia: ora egli era a San Pellegrino con quelli da Barga e da Sommacologna, or ne la Vicarìa di Sopra con quelli del Costa, or con quelli de la Temporia, per modo che mi pareva che fosse il Signore de la campagna di Garfagnana. Prego V. E. che ad instanza di alcuno che venisse a quella per volerglielo dipingere per un uomo contrario a quello [110] che egli è, non si muova a commettere che non si eseguisca quanto vuol di lui giustizia; ma la supplico appresso che commetta questa causa al Capitano qui di Castelnovo, e non a me che non è mio mestiero, ma in questo dia al Capitano autorità di Commissario; chè se una volta non si comincia a castigare li tristi in questo paese, moltiplicheranno in infinito. V. E. saprà appresso che, non ieri, l'altro, un fratello di costui bandito detto Baldone, con circa 12 compagni o 15, andò a Camporeggiano, e fece spalle ad un ghiotto detto Margutte da Camporeggiano perchè ammazzasse un Giannetto fabbro pur da Camporeggiano; ma l'avventura aiutò quel poveruomo che non fu morto; pur è restato ferito di due ferite, e ritornando indietro verso Cicerana, quando furon ad una villa detta la Sambuca, tolsero un par di buoi ad uno detto Gian-grasso, e li conducevan via, e quel Gian-grasso venne correndo a Castelnovo a me che era circa mezz'ora di notte, ed io feci subito montar li balestrieri a cavallo: ma quelli assassini sentendo venire li balestrieri lasciaron li buoi e se ne fuggiron verso Cicerana. È poi venuto a me Bastiano Coiaio, siccome quello che è procuratore di tutti li tristi, e mi vorria persuadere che questi erano iti a Camporeggiano per fare che quel Margutte facesse la pace con quel Giannetto, e che poi Margutte contra volontà de li compagni aveva voluto ammazzare quel Giannetto, e che questi buoi non avevan tolti per menar via, ma per far paura a un fanciullo acciò che li insegnasse una beretta che [111] tra via era caduta ad uno di questi compagni. Io ho voluto questa escusa sua scrivere a V. E. acciò che quella intenda la cosa e cognosca il vero da la bugia, e questi protettori de' ribaldi non li mostrino il nero pel bianco. Io ho esaminato oggi circa quattro testimoni che depongono, che già è passato l'anno, che 'l Moro con li fratelli si trovò al Poggio in compagnia di due da Sommacologna che ammazzâro un povero uomo suddito di V. Ecc. Io aspetto da quella circa a questo che sia data gagliarda commissione al Capitano qui: in buona grazia de la quale mi raccomando.

Castelnovi, 25 aprilis 1523.

LXII

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Li pecorai di questa ducale provincia si dolgono, e massime questi della vicarìa di Castelnuovo, che dalli daziarii di Lucca sono astretti a pagare de' lor bestiami le gabelle maggior del solito; e intendendo io che altre volte hanno voluto fare il medesimo, e che li commissarii miei predecessori se ne sono querelati a V. S., e quelle hanno proibito e con nuove dichiarazioni determinato, qualmente hinc inde nessuna cosa s'abbia a rinnovare; io ho voluto che V. S. sappiano questo, che senza saputa o volontà di quelle credo che molti gabellarii tentino puorre in usanza, con fiducia che V. S. [112] non l'abbino a comportare, e che vogliano che le medesime esenzioni che li uomini di questa Vicaria dànno alli sudditi di V. S., questi reciprocamente le abbino da quelli; dalle quali aspetto intendere che non siano per tollerare questo torto: e in sua buona grazia mi raccomando.

Castelnovi, ultimo aprilis 1523.

LXIII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Avendomi a questi giorni V. S. domandato se avevo tanta autorità dal mio illustrissimo signore di potere transigere e compormi con esse, o sia con il commissario che le sono per mandar qui, di quanto per più mie lettere io li ho ricercati, io subito scrissi a sua Eccellenza, e quella mi ha mandato una patente della quale questa è la copia:

«ALPHONSUS dux Ferrariae, Mutinae et Regii, marchio Estensis, comesque Rodigii.

Essendo li magnifici ed eccelsi signori Lucchesi, amici nostri onorandi, in quel medesimo volere e opinione che siamo noi, ciò è che li banditi dal territorio di loro signori non abbino refugio nè porto alcuno in le terre e territorio nostro di Garfagnana, nè li banditi e ribelli nostri similmente abbino ricapito nella giurisdizione e territorio di essi signori [113] Lucchesi; e volendo loro signori mandare uno commissario con ampia autorità a voi commissario nostro in Garfagnana per concludere capitoli e composizioni sopra questo; il che è per ridondare a beneficio comune e quiete delli loro sudditi e nostri, e per tor via molti scandali, omicidi e delitti, li quali più animosamente si commettono, quando per li delinquenti si sa dove si possano a salvamento riducere; siamo contenti che tra il magnifico commissario di detti signori Lucchesi e noi si faccino e fermino autenticamente capitoli e composizioni, per li quali si dichiari: che li banniti e ribelli hinc inde non abbino sicuro refugio e ricorso, li nostri nel dominio loro, e quelli di essi nel dominio nostro; e più, che ogni vólta che voi volessi per li nostri balestrieri e barigello fare pigliare alcuno bandito e ribelle nostro fuggito nel dominio di loro signorie, il barigello loro sia obbligato prestare ogni favore al nostro, e il nostro al loro per fare le catture che occorresse a farsi, aiutandosi mutuamente con tutto il sforzo e potere nostro e loro: e a concludere, fermare e stringere simili capitoli e composizioni col prefato signor commissario, quale essi signori Lucchesi manderanno, per questa nostra patente lettera, a voi messer Lodovico Ariosto, nostro commissario in detta provincia di Garfagnana, diamo e concediamo ampla, piena e valida autorità; promettendo di avere rato, fermo e approvato tutto quello che da voi sarà trattato, concluso e stabilito col prefato magnifico commissario delli prefati signori Lucchesi, quale sono per [114] mandare costì per questo buono e laudabile effetto. E in fede di ciò avemo fatta questa nostra, e sigillata con il nostro consueto sigillo.

Dat. Ferrarie, in palatio nostre residentie, die 27 aprilis 1523.»

V. S. veggono quanto sia la mente del mio illustrissimo signore; ora ponno a suo piacere mandare il suo commissario, che dal canto mio serò sempre apparecchiato a riceverlo con quella riverenza che è mio debito: in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, ultimo aprilis 1523.

Di V. S.

Obsequiosissimo
Ludovico Ariosto.

LXIV

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Peregrino esibitore presente, il quale abita a Corfino, terra di questa ducale provincia, si duole che tornando da Pisa con le sue bestie cariche di sale, li sono state ritenute a Lucca, e non li è stato detto la causa; e da martedì in qua non ha potuto avere licenza di partirsi, nè sapere perchè sia ritenuto: è ricorso a me, acciò che io lo raccomandi a V. S. che almeno possa intendere per che causa li sia fatto questo, acciò che, dicendo la ragione sua, si possi discolpare di quanto è imputato. Io lo raccomando [115] a V. S., che non li lascino fare torto; e più presto, quando abbi fallato, li usino clemenza e misericordia. E in buona grazia di V. S. mi raccomando.

Castelnovi, ultimo aprilis 1523.

LXV

Al duca di Ferrara

Ill.mo et Ecc.mo Signor mio. Circa a quanto V.a S.ria mi scrive, che non le pare che s'abbiano a far quelli fanti nè quelli battaglioni, mi rimetto al miglior parere di quella: mi pare però strano che li forestieri vengano con li banditi di questa provincia in ottanta e in cento ad ardere e amazzare e saccheggiare il paese, e non sia modo di risponderli. S'io m'avessi saputo imaginare meglior rimedio io l'averei proposto. Circa il porre quella taglia, mi par d'aver scritto che in quel consiglio di Camporeggiano non solo non fu concluso di porla, ma nè anco fu permesso che si ponesse a partito, e che quando io mandai per torre le fave, tutti catervatim si levaron di consiglio, ma che gli Otto che mi sedevano più appresso mi dissero che io authoritate propria la mettessi, e che poi io la facessi pagare alla sua Vicarìa, licet la maggior parte repugnasse poi; e mi dissero appresso che sarìa buono ch'io avessi di questo una commissione da V.a Ecc.a acciò che gagliardamente io la potessi eseguire, sicchè mi parrebbe che fosse buono che V.a Ecc.a mi commettesse per una sua che per una grida [116] da parte sua io mettessi taglia di dieci ducati sopra ciascuno di questi banditi che sono stati assassini, e che poi io la facessi pagare comunamente a tutta questa provincia, cum sit che non debbano aggravarsine essendo per tornare in tanto utile loro quanto sarebbe estirpando questi ribaldi del paese. Io son ben certo che ancora che quelli Otto mi dicessino così, che serà fatica che lo vogliano fare e verranno a querelarsine a Ferrara. Io avevo proposto di far li battaglioni a questo effetto, che quando accade simile cosa, che forse è per accadere più presto e più spesso che V.a Ecc.a non pensa, e che montando io a cavallo per obstarli, avessi subito chi mi seguisse, chè mentre io comando li Comuni che mi vengan dietro, l'un guarda l'altro, e chi dice che non ha armi e chi trova altra scusa, e se pur vengono, la cosa va in lungo di modo che li banditi han tempo di far li lor disegni e di partirsi a salvamento. S'anco quando tali cose accadono voglio ricorrere per aiuto dal Commissario di Sestola, non può la venuta esser sì presta nè sì segreta che i banditi non abbian tempo di far ciò che vogliono. Quando io non avessi dubitato di errare, averei avuto il modo di pigliare o di tagliare a pezzi tutti questi ribaldi e la sua compagnia, imperò che Domenico di Amorotto m'ha fatto per sue lettere intendere che ogni volta che costoro si riducano o a Dallo o a Pontecchio dove è il lor nido, io lo avvisi e gli dia termine dui o tre dì, che verrà con trecento compagni lor da un canto, sì che con ogni poco di gente con che io mi movessi dall'altro [117] canto, sarei atto a amazzarli o farli dare in mano del lor nimico che li amazzasse. Io ho accettato la profferta e risposto che quando sia il tempo lo avviserò: pur non lo farei senza saputa e commissione di V.a Ecc.a, nè mi parrebbe male, quando non si può fare altrimenti, d'imitar Cristo che disse de inimicis meis cum inimicis meis vendicabo me; avvenga ch'io non abbia Domenico per inimico di quella, se alle lettere sue si può dar fede, che mi scrive che per V.a Ecc.a è per porre la roba e la vita propria. Supplico quella che circa questo mi risponda acciò che tornando questi ladroni o che io non perdessi tanta occasione quanta sarìa di pigliarli o d'amazzarli, o che io credendo di far bene non facessi cosa contro la volontà di quella.

Se non fosse che pur ho speranza o per una via o per un'altra di avere di questi ribaldi alcuno nelle mani, già avrei mandato a torre quelli cavalli e fanti che sono in Frignano e avrei fatto ardere e spianare le lor case; ma perchè questa vendetta contro le case si può fare da ogni tempo, mi pare che sia meglio attendere e far ogni pruova d'aver li banditi o alcun di essi in mano. E m'è dato intenzione per certe spie c'ho messo che n'averò qualcuno. Io attenderò qualche giorno e poi manderò a chiamare quelli cavalli e farò quanto da V.a Ecc.a ho in commissione; ma non so però quanto tempo li detti cavalli sieno per stare in Frignano, che già non vorrei mentre ch'io diferisco a farli venire da questa parte fossino richiamati a Ferrara, e quando io li volessi poi che mi fossino lontani: per questo [118] mi parria ben fatto che se non avessino più da fare in Frignano, che quando fossino per tornare a Ferrara più presto venissero a stare qualche giorno in questa provincia al medesimo modo che stanno in Frignano: pur mi rimetto al parer di V.a Ecc.a

Circa a quanto quella mi commette, che io non condanni questi Comuni c'hanno dato ricapito alli banditi secondo che meritano in effetto; che se li nostri balestrieri vanno da luogo a luogo non gli dariano un boccal di vino, nè pur un'abbracciata di paglia, e alli banditi portano incontro la vittovaglia senza esser richiesti; io farò quanto V.a Ecc.a mi commette da qui innanzi, ma la commissione è giunta tardi per quelli del Poggio che già ho condennati 200 ducati per non avere voluto seguitare il Capitano de li balestrieri: pur la condennagione non è a libro, la qual ho fatta grande sì per terrore degli altri sì anco per più facilmente indurli a pagar il cavallo del balestriero: e sebben gli avessi condennati, non era però ch'io non credessi che V.a Ecc.a avesse loro a far grazia, ma fra tutti almeno erano buoni senza molta contradizione a pagare il cavallo e l'interesse del Capitano ferito, chè se V.a Ecc.a permette che questo povero balestriero resti in danno, tutti gli altri si faranno restii di andare in luogo dove siano a risco di perdere, e questi villani si faranno ogni dì più insolenti.

Circa a quel prete che V.a Ecc.a mi commette ch'io lo rimetta al Vescovo, la mia lettera non è stata ben intesa. Sappia V.a Ecc.a che questa provincia di Grafagnana è subietta in spiritualibus a [119] dui Vescovi: la Vicarìa di Castelnovo e di Trassilico al Vescovo di Lucca, quella di Camporeggiano al Vescovo di Luna; e perchè, come altre volte credo aver scritto, li peggiori e li più parziali di questo paese sono li preti, essendo io a questi giorni a Ferrara, procurai d'aver lettere di V.a Sig.ria l'una direttiva a l'un Vescovo e l'altra a l'altro. Quel di Lucca si è trovato essere a Milano e ancora non ho avuto risposta, quel di Luna rispose la lettera che ha veduto V.a Ecc.a Al qual Vescovo di Luna non mi accade al presente di rimetterli alcun prete ne le mani perchè non ho alcuno ne la sua diocesi che abbia fallito; ma in omnem eventum gli avevo domandato quella potestade perchè non può star troppo a scoprirsene qualcheuno. Quel prete Job figliuolo di Ser Evangelista, del quale mi son doluto con V.a Ecc.a,[248] che senza aver fatto pace con le donne offese voleva sotto questa ombra di esser prete star in questa terra, è subietto al Vescovo di Lucca, e lui non ho a chi rimettere perchè il Vescovo non c'è: il suo Vicario credo ci sia, ma della ragione che faranno, senza farne altra pruova, ne sono chiarissimo, che già ho l'esempio di quello che fu fatto a prete Matteo ch'io rimessi lor nelle mani, il quale aveva ferito uno officiale di V.a Ecc.a e fatto omicidii e mille altri delitti e non fu pur messo in prigione. Io voglio di nuovo pur dire anco quattro parole circa questo prete Job, poi V.a Ecc.a terminerà [120] quello che le parrà. Credo che sia stato fatto intendere a quella che ha fatto ingiuria a una puttana, e per questo paia che sia cosa da passarsene leggiermente. V.a Sig.ria intenda che la violenza c'hanno patite queste donne si arreca fra gli altri a grandissima ingiuria uno cittadino qui detto Acconcio delli più ricchi e di più parentado e di più credito di questo luogo, imperò ch'esso, a parlar chiaramente è innamorato in questa giovine e l'ha segretamente a suo comando, e di questa cosa era per farne dimostrazione di mala sorte, e tanto più che lui è di fazione contraria a ser Evangelista e le inimicizie e parti di questa terra cominciaro fra queste due case e il detto Acconcio reputa per suo dispetto, più che per altra causa, quelle donne sieno state violentate e battute....[249]

Castelnovi, 2 maii 1523.

LXVI

Al medesimo

Ill.mo ed Ecc.mo Signor mio. Per altre mie V.a Ecc.a avrà inteso la causa che mi fa soprassedere a non ardere e spianare le case di questi banditi assassini, chè pur vorrei far prima ogni possibile opera d'averli nelle mani. Tre se ne truovano, per quanto mi è detto, a casa sua a Pontecchio, che vi stanno assai sicuramente, con speranza di avere da [121] V.a Ecc.a il salvo condotto, che per la Vicarìa di Camporeggiano intendo hanno fatto domandare. Questi mi è dato intenzione di darmi presi, avvenga ch'io non creda ad uomo di questo paese cosa che mi prometta; pur starò alcuni giorni a vedere. Li altri assassini, cioè Bernardello e Bertagnetta e Pellegrinetto e altri ch'io non so il nome si truovano alla Villa al soldo di quel Marchese detto il Marchese Malaspina, e di poi che vi sono andâro insieme con un servitore per assassinare un certo mercadante che quindi passava, e lo assassinâro: il che sentendo quel Marchese, mandò lor drieto e fece restituire le robe al mercadante, e di sua mano (intendo) amazzò quel suo servitore che era ito in compagnia di questi ribaldi. A loro non fece altra ingiuria che di parole e di minaccie se più facevano nel suo paese tal tristizia. Ora, rimettendomi però sempre al parere di V.a Ecc.a, mi parrebbe che quella scrivessi caldamente a questo Marchese e lo pregasse che pigliassi questi ribaldi e li dèssi in mano a chi V.a Sig.ria o il vostro Commissario mandassi a torli. Mi pare che avendoli V.a Ecc.a per questa via, sería con poca fatica e risulterebbe a grandissimo utile di questo paese e a gran terrore degli altri ribaldi e a non poco onore di V.a Ecc.a

La lettera in favore di Belgrado si è avuta, ed io subito l'ho mandata al fratello di lui acciò che non perda tempo, sicchè credo che a quest'ora sia a Lucca. Io farò intendere agli uomini di Vallico il buon animo di V.a Ecc.a verso loro, nè credo che [122] questa opera sia spesa malamente, perchè quel Comune è buon suddito e servitore di quella ed è gagliardo di assai gente e di buona gente più che Comune di questa provincia. Altro non accade di nuovo, se non raccomandare a V.a Ecc.a il balestriero c'ha perduto il cavallo e fu ferito, e il Capitano che non è ancora ben guarito della ferita ch'ebbe a Camporeggiano; e in buona grazia di quella mi raccomando.

Castelnovi, 3 maii 1523.

LXVII

A Messer Santuccio Santucci[250]

Magnifice tanquam frater honorandus. Credo che Acconcio avrà avvisato V. M. delli suoi muli e del sale che li sono ritenuti a Lucca. La causa io non la so; ma questo accade spesso, che li nostri, che vengono da Pisa con sale, ritrovino a Lucca simili impedimenti. Io ne scrivo la qui alligata a cotesti magnifici signori: prego V. M. che facci opera che tali modi non siano usati da quelli daziarii: o se qualche rispetto muove quelli magnifici signori, che vogliano essere intesi a cenni più presto che a dirlo, prego V. M. che operi che si parli chiaro, acciò che io ne possi avvisare lo illustrissimo signor mio, che vi pigli qualche modo che a sua Eccellenza paia più espediente. Appresso prego ed esorto V. M., che facci ogni possibile opera di pacificare cotesti [123] suoi di Gallicano, acciò che noi ancora, che saremmo vicini a tal fuoco, quando seguisse, possiamo estinguendosi vivere più sicuri. E a V. M. mi raccomando.

Castelnovi, 5 maii 1523.

Di Vostra Magnificenza
Ludovico Ariosto.

LXVIII

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Io prego V. S. che voglino con li suoi daziarii fare tale provvisione circa il passare di questi sali che vengono da Pisa, che ogni giorno io non abbi da querelarmi appresso quelle. Oltre quanto a' dì passati ho scritto per alcuni nostri vetturali, alli quali sono stati ritenuti li muli e il sale, di nuovo Acconcio, salinaro qui per lo illustrissimo signor mio, si duole che similmente li sono stati li suoi muli e il sale ritenuti, e non può intendere la cagione, come sia che già V. S. concesseno al prefato signor duca il passo per xm staia, per mandare per mano del detto Acconcio in Lombardia, e fin qui ne ha mandato seimila: il resto è comprato a sua instanza in Pisa come V. S. se ne ponno benissimo chiarire; e ora essendoli usati questi termini, pare che quelle non vogliano attenere quanto già una volta è stata sua volontà. Questo non voglio nè posso credere bene; è più verosimile, che senza sua saputa li daziarii usino queste nuovità. Io prego V. S. che faccino [124] tal monizioni a questi suoi, che non sieno causa assediarne di sali, massime non ne avendo quelle al presente tal quantità in Lucca, che senza andare a Pisa ne possino tenere fornite per il medesimo pregio; che, data paritate, più volentieri si darebbe a V. S. utile, che ad altre persone: quelle siano contente che, pagandosi le debite gabelle, il sale possi senza impedimento venire, così per uso di questa ducale provincia, come per mandare per la quantità concessa in Lombardia. E quando anche qualche rispetto muova V. S. a fare usare questi modi, le supplico me lo faccino sapere, acciò che io ne avvisi lo illustrissimo signor mio, acciò che per utile e comodo delli sudditi facci quello che li paia più espediente. E in buona grazia di V. S. mi raccomando.

Castelnovi, 5 maii 1523.

LXIX

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Li uomini di Valico di sotto e delle Fabriche mi sono venuti a fare querela, che uno loro uomo, il quale era venuto per mie faccende a Lucca, vi è stato ritenuto per commissione di V. S., e ad instanza delli uomini di Gello, li quali si pretendono che questi uomini di Valico e delle Fabriche debbino loro pagare certe colte, per vigore di una stima che già diede uno messer Antonio di Mercatello commissario a questo dello illustrissimo signor nostro; [125] alla quale stima il prefato signore non ha mai voluto consentire nè ratificarla, sì come quella che fu data oltre la commissione che 'l detto commissario aveva da sua Eccellenza. E come V. S. per le qui incluse copie potranno vedere, essi uomini di Valico e delle Fabriche fariano contro la volontà del prefato signore nostro, quando consentisseno a pagare dette colte: e se bene qualche volta per li tempi passati, li detti uomini avessero pagate tali colte o per paura o per ignoranza o per altre cause, non ponno nè denno per questo pregiudicare alla giurisdizione del suo signore. Pertanto prego quelle, che faccino rilassare questo nostro ritenuto dalle Fabriche; e se le si credono avere alcuna ragione in questo, siano contente scrivere allo illustrissimo signor mio, e amicabilmente trattare la cosa, e venire a una composizione, in la quale nè l'una parte nè l'altra sia ingiustamente oppressa, e non volere cominciare alle represaglie; che saria totalmente contrario a quello che pare sia la intenzione dello illustrissimo signore mio e di V. S., che questi due Stati stiano fraternalmente uniti e bene d'accordo. E a V. S. mi raccomando.

Castelnovi, 10 maii 1523.

LXX

Al Duca di Ferrara

Ill.mo ed Eccell.mo Signor mio. Veduto quanto Vostra Eccell.a mi commette per lo accluso rescritto, io riferisco a quella che mess. Gio. Piero e Baldassare [126] e Bartolomeo Attolini[251] sono reputati per Castelnovo e tutta Grafagnana uomini da bene quanto altri che ci sieno, e meritano che alli lor libri sia dato fede, ch'è d'aver circa questo la concessione ch'altri di questa terra hanno avuta, come io ne mando la copia d'una che già per la felice memoria dell'Ill.mo Duca Ercole e poi per Vostra Eccell.a fu concessa a maestro Pietro de' Lavelli et inde a Pierino suo figliuolo, magnani; giusta la forma della quale Vostra Eccell.a può conceder questa alli soprascritti fratelli: in buona grazia della quale mi raccomando sempre.

Castelnovi, XIIII maii 1523.

LXXI

A messer Benci de' Benci[252]

Magnifice tamquam, frater honorande. Bartolino Zanotto da Corfino, terra di questa ducale provincia, è venuto a me a dolersi che a questi giorni alla Barca sul territorio de' Signori Lucchesi è stato assassinato da Paulaccio da Barga, e da Donatello [127] da Somma Cologna, e altri compagni tutti da Barga e da Somma Cologna, e oltra che gli deron molte ferite, gli levarno una cavalla e un par di buoi e uno gabbano di valuta circa due ducati e trenta bolognini in denari, e se non erano due di quelli compagni, di che l'uno si chiama Matteo Mazzoni da Barga, e l'altro il Moro, pur da Barga, l'avrebbono finito di amazzare: ma questi ne ebbono pur piatade, e lo difesero de la vita. E perchè Vostra Magnificenza credo sappia per le gride che hinc inde si son fatte, ch'è la intenzione del mio Ill.mo Signore e de la eccelsa Repubblica Fiorentina, che li sudditi de l'uno e de l'altro dominio non vadano a danno nè in l'uno, nè in l'altro territorio, ne ho voluto dare avviso a Vostra Magnificenza, perchè non solo mi dolgo che siano iti alla Barca (chè di quel che sia fatto fuori de la mia giurisdizione non n'ho da pigliare cura, se non gli fosse lo interesse de li nostri sudditi, che non ponno ire da loco a loco, che non tocchino de le terre de' dominii confinanti), ma mi dolgo più che questi medesimi con quelli e altri compagni sudditi di V. M. vengono quasi ogni giorno nel territorio nostro, e fannoci assassinamenti, e cose di pessima sorte. Pertanto prego Vostra Magnificenza, che prima al caso di questo povero uomo, e appresso a molti altri che sono per accader ogni giorno, voglia riparare, acciocchè la unione fatta tra il mio e Vostri Signori, paia esser fatta non solo in parole, ma in effetto ancora; e sopra tutto prego V. M. che faccia restituire, se gli è possibile, a questo Bartolino quanto ha perduto. [128] Mi dice che in quella compagnia era un Lorenzo Bertacca (il qual fu quello che gli levò li buoi) da Barga. E a Vostra Magnificenza mi raccomando.[253]

Castelnovi, 18 maii 1523.

Ludovicus Ariostus
Ducalis Commissarius.

LXXII

Al Duca di Ferrara

Ill.o ed Ecc.o Signor mio. Io mi trovo avere questo Moro di Pellegrino dal Sillico in prigione, contra il quale di commissione di V. Ecc. il Capitano ha processo e procede: prima per aver sempre dato ricapito a' suoi fratelli banditi e ad alcun'altri pur banditi e assassini, come a quelli che insieme con un suo fratello detto Giulianetto assassinâro quel prete pisano e gli tolsero cento ducati, alla restituzione de li quali è stato gravato il Comune di Cicerana: appresso gli procede contra per essere caduto per le mie gride in disgrazia di V. Ecc. ed in confiscazione di tutti li suoi beni, per essere ito con genti e banditi e altra sorte in Lombardia in aiuto di una di quelle parti: appresso gli procede per essersi trovato al Poggio, terra di V. S., in compagnia di alcuni che amazzâro uno suddito [129] di quella. Le prime due inquisizioni confessa de plano: questa ultima, ancora che confessi che insieme con quelli che feron tal omicidio (li quali dice che ritrovò tra via) esso entrò in la terra del Poggio, e anco si partì quasi in un tempo con loro; pur niega che di tale omicidio esso fosse consenziente: quod quomodocumque sit vel futurum sit, questi che hanno la protezion sua sono per supplicare a V. Ecc. e domandarli grazia, e apparecchiano a tutte queste imputazioni escuse accettabili. Se Vostra Ecc. per qualche rispetto è per esaudirli, io non sono per pregarla per il contrario: solo voglio ricordarle che fra ogni grazia che sia per farli, si ricordi che questo povero Comune di Cicerana non resti nel danno de li cento ducati c'ha pagati al prete pisano: chè se a V. Ecc. è paruto giusto che essi uomini, per aver tollerato che ne la lor terra questi banditi e assassini si sieno alloggiati, debbiano pagare li suoi danni al prete, tanto è più giusto che questo Moro, per averli alloggiati in casa sua o sia di sua mogliere malgrado di quel Comune, sodisfaccia ogni pena che per sua causa ha patito quel Comune; nè può allegare alcuna escusa che contra sua volontà sieno stati in quella, la quale per ragione de le mogliere è comune tra lui e suo fratello Giulianetto, cum sit che parimente è caduto alla medesima pena per essere ito cento volte e praticato mille con essi banditi, che per ogni volta e per ogni bandito è sempre caduto alla pena di cinquanta ducati: e perchè V. Ecc. ne sia ben chiara, le mando la copia de le gride.

[130]

Ancora voglio raccordare a quella che, facendoli grazia del resto, voglia per quiete di questo paese fare che, volendo uscire di prigione, dia sicurtà sufficiente che per un anno o per due non venirà in questa provincia; ed anco se paresse onesto a V. Ecc. che desse sicurtà per li fratelli banditi, che fin che V. Ecc. non facesse lor grazia non avessino a venire in questo paese, serìa a mio giudicio la salute e il riposo di questa ducale provincia. A me basta di proporre quello che mi pare che fosse ben fatto: di V. Ecc. è poi in disposizione di comandare quanto le pare: in buona grazia de la quale mi raccomando.

Castelnovi, 28 maii 1523.

LXXIII

Al medesimo

Ill.o ed Ecc.o Signor mio. Oggi alcuni modanesi uomini da bene e boni cittadini, e fra gli altri un Francesco Guidone, il quale dice essere parente del Capitano Mesino dal Forno,[254] venendo per andare alli bagni, quando son stati a Frassinoro, dubitando [131] di essere assassinati, hanno tolto in compagnia e scorta Mess. Gian Giacomo Cantello con una grossa compagnia di gente, il quale Mess. Gian Giacomo gli ha accompagnati fin 4 miglia appresso a S. Pellegrino; poi gli disse che non ci era più pericolo, e li lasciò, e diede volta. Non furon slongati un tratto di balestra che furon assaltati dagli assassini che pur sono de la fazione di Mess. Gian Giacomo, che erano iti innanzi alla posta, et etiam da alcuni di quelli che li avevano accompagnati con Mess. Gian Giacomo fin lì, li quali erano tornati indrieto, per modo che presero quel Guidone dicendoli che era de' lor nemici, e gli hanno tolto non solo quelli danari che li hanno trovato addosso, ma ancora messogli taglia; sì che bisognò che li compagni, chi con 4, chi con 6 ducati, e chi con più e chi con meno lo riscodessono, chè dicevano di volerlo ammazzare: e poi hanno levato ancora il resto de li danari ch'avevan gli altri compagni. Son venuti a Castelnovo molto di mala voglia, e dànno la colpa che Mess. Gian Giacomo sia stato consenziente di questo assassinamento, e molto si lamentano di lui. Io non credo già che la colpa sia di lui, se non quanto non può forse vietare alli suoi seguaci che facciano di simili mal'opere; pur io gli ho scritto e pregatolo, che faccia ogni opera possibile per far restituire questi danari, e tanto più quanto la colpa è data a lui. Non so quello che mi risponderà. N'ho voluto dar avviso a V. Ecc. alla quale non voglio già dar ricordo di quello ch'ella sa meglio quello che debbe fare, che non so io: pur [132] la certifico che nè al bosco, nè dentro alle terre, nè serrato in le case, nessuno in questo paese è sicuro da li omicidi e assassini.[255] Io fo fare ogni notte la guardia a questa casa, o rôcca che sia, dove abito, e ci fo dormire, oltra li miei famigli, sempre due balestrieri perchè ogni dì son minacciato che mi verranno a tôrre questo prigione, ch'io ci ho, per forza: e a V. Ecc. mi raccomando.

Castelnovi, 28 maii 1523.

LXXIV

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici etc. Già sono alcuni giorni, che per una mia pregai V. S. che volesseno provvedere, che li uomini di questa ducale provincia potessino passare, pagando li debiti dazii, con li sali che portano da Pisa, senza essere ritenuti e molestati costì, sì che noi non fossimo assediati e fatti restare, per li nostri bisogni e della montagna subietta allo illustrissimo signore mio, senza sale. V. S. mi rispuoseno, che sopra di questo farebbeno consiglio e poi mi avviserebbeno; e perchè fin qui non me n'è stato scritto altro, e il nostro bisogno si potria fare maggiore, ho voluto con questa replicare, e pregare V. S. che a ciò diano espedizione, e faccino secondo che si richiede alli buoni vicini e alla [133] fede e buona amicizia che ha il mio illustrissimo signore in quelle; in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 28 maii 1523.

LXXV

Ai medesimi

Magnifici etc. A' dì passati io scrissi a V. S. in raccomandazione di quello poveretto di Belgrado ritenuto nelle loro forze, e so che dal mio illustrissimo signore fu loro scritto; e forse a tali preghi quelle si sono inclinate a non lo fare morire; di che io particolarmente ne referisco loro grazie. Resta, perchè questi suoi parenti mi dicono che, quando esso desse sicurtà di non offendere mai alcuno suddito di V. S., che esse lo libereriano ancora dalla prigionia; ma perchè la pagarìa che quelle vorriano che desse è molto grande ed eccede la facoltà di lui, e perchè esso si trova preso e' non è chi possa fare per lui, vorrei ancora da quelle grazia di due cose: e così le supplico che siano contente di concedermele: una, che domandasseno a Belgrado una pagaria di qualità conveniente al grado suo e che esso potesse dare; l'altra, che lasciando esso in forza di V. S. uno suo figliuolo per statico, fusseno contente di lasciarlo, tanto che potesse procurare e procacciarsi di persone che entrassino in pagarìa per lui. Mi parria ancora, quando paresse a V. S. che fusse onesto, che poi che esso ha da promettere di non offendere mai alcuno del dominio di [134] V. S., che esso ancora per quella via fusse cauteggiato di non essere dalli sudditi di quelle offeso; chè non saria licito che altri potesse nuocere a lui, ed esso fosse legato, sì che non si potesse difendere. Pur mi confido in V. S. che sono giustissime, che non faranno cosa fuori di ragione: in buona grazia delle quali mi raccomando.

Oggi ho per una di V. S. visto quanto esse mi rispondono circa a quanto li aveva scritto delli sali, e inteso il pericolo che abbiamo appresso della peste: non manca nè mancherà premure per farli ogni buona provvisione. Acconcio verrà a trattare la cosa dei sali con V. S.

Castelnovi, 29 maii 1523.

LXXVI

A messer Lorenzo Pandolfini, potestà di Barga

Magnifice et clarissime tanquam frater honorande. Un famiglio qui de' frati di San Francesco venendo ieri da Lucca, tra nona e vespero, sul piano di Barga, dove si dice il Sasso di Menante, fu assaltato da tre; de li quali, uno era di 18 anni in circa con un giubbarello di pignolato negro stracciato, berretta nera, e con calze da mezza coscia in giù, verdi; uno di 25 anni in circa, con un giubbone di pignolato bigio, con calzoni larghi di tela bianca e berretta nera; l'altro con una barba rossa da orecchie, e con un colletto di coiame; li quali, prima quel più giovane gli lanciò una partesanella, e gli ferì un muletto, sopra qual era, ne la groppa assai [135] in profondo; e poi lo presero, e gli tolsero certo poco di taffetà che portava ad uno di questa terra e certe altre robe non di molta valuta: e perchè Vostra Magnificenza, ancora che sia nuova in l'officio, può aver inteso li assassinamenti che ogni dì si fanno qui d'intorno, nè io sono atto a provvederli, perchè fatto c'hanno il male si riducono or sul territorio de' Signori Fiorentini, ora de' Lucchesi; e appresso questi malfattori vanno le più volte in più compagnia, che non sono li balestrieri ch'io tengo qui per mia guardia; e per quanto intendo la maggior parte di questi sono da Somma Cologna e da Barga, che vengono e fanno il male, e poi fuggono a casa: siccome anco pochi dì sono ch'io scrissi al precessor di Vostra Magnificenza di uno assassinamento che costì alla Barca avevan fatto ad un poveretto di questa ducale provincia, alcuni pur da Barga e da Somma Cologna, che gli tolsero un par di buoi e una cavalla e panni e denari, e mai di quella mia lettera ho avuto risposta, con tutto ch'io gli avvisassi il nome di molti di quelli che s'erano trovati a far tale assassinamento. Ora se a tanti mali non si piglia riparo, dubito che non solo li viandanti e uomini del paese che vanno a lavorare fuori non saranno sicuri, ma nè noi ufficiali ancora saremo sicuri ne le terre e ne le rôcche. A' dì passati feci fare una grida[256] per parte del mio Ill.mo Signore, che nessuno di questa ducale provincia, sotto pena de la disgrazia [136] di Sua Eccellenza e de la confiscazione di tutti li suoi beni, non ardisse di venire in armata nè altrimente a far danno ne le terre de li eccelsi Signori Fiorentini: e perchè lo Ill.mo Signor mio mi avea dato questa commissione, pensavo che la medesima grida fosse stata fatta ne le terre de' prefati eccelsi Signori. Che la sia o non sia stata fatta non so; so bene che molti di tutte coteste terre ogni dì vengono in armata, in compagnia d'altri ribaldi di questo paese, e fanno in questa nostra provincia cose di mala sorte. Ho voluto fare questo poco preambolo a V. M., acciò che quando quella sia d'animo che questi tristi si castighino dovunque si truovino o ne le nostre o ne le vostre terre, e anco de' signori Lucchesi; che per quanto mi scrivono sono assai bene disposti per assicurare le strade e il paese; potiamo scrivere l'un l'altro, e dar buono ordine, acciò che non stiamo qui totalmente inutili. Oggi ho avuto una di Vostra Magnificenza, per la quale mi raccomanda quella povera vedova. Io non mancherò di far che 'l Capitano, del quale è ordinario officio, gli amministri giustizia, remosse le lunghezze e cavillazioni, e anche io per amor di V. M. mi interporrò per intender che non le sia fatto torto; e a quella mi offero e raccomando.

Castelnovi, 29 maii 1523.

Ludovicus Ariostus
Ducalis Carfignanae Commissarius generalis etc.

[137]

LXXVII

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici etc. Messer Giovanni Battista da Sassolo medico, abitante a Silano, luoco di questa ducale provincia, è creditore di certa sua dote costì in Lucca: io lo raccomando a V. S., si perchè in ogni loco le cause delle doti sogliono essere favorevoli, sì ancora perchè li uomini virtuosi denno essere aiutati da tutti li signori e uomini da bene, massimamente a cagione essendo forestiero, oltra le predette cause, merita di essere espedito con celerità; sì che di nuovo lo raccomando a V. S. Oggi ho avuto risposta dal primogenito dell'illustrissimo signor mio circa a quanto alla Eccellenza del signor duca io avevo scritto per la ratificazione della convenzione ch'io feci con il magnifico commissario di quelle: sua Signoria mi scrive che di giorno in giorno aspetta il padre che torni da Venezia, e che alle giunte di sua Eccellenza mi sarà mandata tale ratificazione. E a V. S. mi raccomando.

Castelnovi, 3 iunii (1523).

LXXVIII

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici etc. A questi giorni ebbi una di V. S. in raccomandazione di alcuni padri di S. Agostino, alli quali sono molestate e rubate alcune terre da uno Streglia dal Silico; e pare che in quella V. S. [138] abbino ricordo, che per un'altra mia io permettessi di mandare per li fratelli di detto Streglia, perchè sodasseno e assecurasseno detti padri. Quello ch'io scrivessi non so, perchè non servo le copie delle lettere, e non ho tanta memoria che io mi ricordi tutto quello che ho fatto. Potria essere che io avessi scritto; ma s'io scrissi così, fu mio errore, perchè sono pochi delli detti fratelli che non siano banditi o condennati: e s'io potessi averli in le mani, averei da castigarli di maggiore fallo che di questo; ma essi sono più forti in questo paese che non sono io. È vero che io ne ho uno in prigione, il quale, quantunque io non creda che sia buono, pure è il manco cattivo delli altri. Se li detti padri manderanno o costituiranno in questa terra uno per loro, io manderò uno comandamento a questi fratelli che non debbino molestare sotto qualunque pena dette terre: se compariranno, saria ben fatto che fusse qui chi dicesse la ragione delli frati; e di ragione non mancherò loro, purchè la forza non possa più che la ragione: ma se V. S. vorranno aiutare questi padri, li potranno aiutare con fatti, dandomi un giorno modo di avere questi ribaldi nelle mani; altramente la ragione si potrà dire ma non fare, nè solo in le terre di questa ducale provincia, ma anche in quelle di V. S.; chè d'ogni cosa mi paiono li assassini signori, e non il mio illustrissimo, nè voi magnifici signori: in buona grazia delli quali mi raccomando sempre.

Castelnovi, 4 iunii 1523.

[139]

LXXIX

Ai medesimi

Magnifici etc. Prego di nuovo V. S. che siano contente di fare rilassare quello povero uomo dalle Fabriche, che ad istanza delli uomini di Gello è stato costì a Lucca ritenuto per le 15 lire ch'essi pretendono di dovere avere ogni anno da quel comune delle Fabriche, secondo la stima che messer Piero Antonio da Mercatello, per la parte dello illustrissimo duca Ercole di bona memoria, diede insieme col commissario di V. S.; e perchè, come per una copia di una lettera dello illustrissimo signore presente quelle hanno potuto vedere, che sua Eccellenza non si contenta di tale stima, io ne avevo scritto a quella, e circa a questo mi significasse come io mi avessi a governare, e perchè dal figlio e da chi è rimaso in suo loco mi è fatto intendere, che di tal cosa fino alla tornata di sua Eccellenza non si ponno risolvere, la quale tornata non sarà ancora fra X giorni, e mi commetteno ch'io preghi V. S. che faccino rilassare il prigione; perchè mi certificano che sua Eccellenza alla sua tornata ne scriverà a V. S., nè si partirà dalle cose oneste e dal dovere, e si rendeno certi che V. S. e sua Eccellenza rimarrete d'accordio: pertanto io replico questa e prego di nuovo quelle, che faccino rilassare il detto prigione, e amicabilmente e non per via di represaglia vogliano vedere e difendere le loro ragioni e delli loro uomini, acciò che non diano [140] materia alli nostri di difendersi per le vie medesime; perchè quando li nostri facesseno qualche cosa simile, so che dispiacerebbe allo illustrissimo mio signore: pure non potria fare che non fusse fatto. Io, che sono servitore di quelle, vorrei vedere che tali differenze fusseno trattate più presto per amore che per violenza e ingiuria. Alle quali mi raccomando.

Castelnovi, 5 iunii 1523.

LXXX

A Messer Niccolò Rucellai, capitano e commissario di Pietra Santa

Magnifice tamquam frater honorandissime. Gli uomini di Vagli m'hanno riferito Vostra Signoria essere al tempo constituito ritrovatasi sul luogo de la differenza, di che mi son maravigliato; chè la causa che aveva ritenuto me, pensavo ed ero certo che dovesse anco avere ritenuto lei; imperò che domenica montai a cavallo, che poteva essere circa 19 ore, per andare quella sera a Vagli, ch'altrimente non potevo ritrovarmi il dì del luni constituito, sul fatto. Ed essendomi già mosso, si levò un tempo tanto orribile di tuoni, e con sì gran pioggia, che son molt'anni che non se ne vide la pare, che durò tutto il giorno senza mai allentarsi, e piovè la notte e la mattina seguente. Io stavo pur aspettando che 'l tempo si richiarasse per venire, perchè la via di qui a Vagli è di sorte, che per il miglior tempo del mondo avrò fatica a venirvi, se non a piedi. E quando mi volsi movere, mi vennero [141] incontra alcuni, che mi dissero che V. S. era già stata su la differenza, e ch'io venirei indarno. Io me ne maravigliai, che sì male tempo fusse stato dal canto nostro, e che verso Pietra Santa non fosse stato il simile, perchè se fosse stato tale, saria stato impossibile il venire per Vostra Signoria, come fu per me. M'incresce che V. S. abbia avuto tal disconcio, e poi sia venuta indarno: m'incresce appresso d'avere inteso che Vostra Signoria sia venuta con tanta gente, con scoppettieri in buon numero; chè mi pare, essendo così, che più presto fosse venuta per combattere, che per terminare con giustizia ed equità le contese di questi sudditi. E più me ne par strano, quando Vostra Signoria mi scrisse ch'io volessi venire con poca gente, che in verità venendo io, non menavo meco oltra dieci o XV persone. Poichè siamo qui che io non son venuto, e anco al presente non è più d'importanza di venire, che un'altra volta, che omnino, per quello ch'io intendo, la pastura di quelli luoghi ora fin a settembre tocca agli uomini de la Cappella; io non venirò più ora, ma ne darò avviso al mio Ill.mo Signore, il quale forse mi farà un mandato di potere tutto quello ch'io farò, fare rato e fermo: e forse anco farà elezione di qualche persona che gli paia più sufficente in questo di me, che non son dottore, come Vostra Signoria, nè anco ho copia di dottori in Grafagnana da potere menar meco, come intendo che Vostra Signoria ha in Pietra Santa. Ma mi pare anco, che oltra la dottrina, quelli di Pietra Santa vogliano far di forza, non avendo voluto restituire [142] le bestie a questi poveromini di Vagli; chè ancora che io non sia dottore, pur mi pare che la equità nol comporti; perchè, mentre la cosa sta in differenza, non dovrebbono volere star per forza in possessione. Io prego Vostra Signoria per singulare piacere, e come mio particulare comodo, che sia contenta di far restituire a questi di Vagli le lor bestie, offerendomi io versa vice per amor di Vostra Signoria, e in specie per ogni uomo di Pietra Santa compensare questa cortesia in maggiore cosa, dova accada ch'io li possa gratificare; e per me non mancherà, scrivendo al mio Ill.mo Signore, di operare perchè tal cosa, o per mio mezzo o per altrui, pigli buono assetto: e a V. S. mi offro e raccomando.[257] Castelnovi, 9 iunii 1523.

LXXXI

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Signor mio. Il Moro di Pellegrin dal Sillico è stato ed è in prigione, come sa V. Ecc.: la principal causa perchè io 'l presi fu per far satisfare questi poveri uomini di Cicerana de li denari in che per aver patito che li banditi fossino stati ne lor terra, erano stati condennati, e parendomi che se li uomini di detto Comune erano incorsi in pena per non aver proibito che li banditi [143] stessino in la lor terra, maggiormente doveva essere condennato questo Moro, che li aveva sempre tenuti in casa, mangiato e bevuto, e andato e stato tuttavia in lor compagnia; che per ciascun di questi capi, secondo la mia grida, di che a Mess. Obizo[258] mandai la copia, si doveva condennare. Poi che questo Moro è stato in prigione, non è mai apertamente comparso alcun di Cicerana a dolersi di lui, e questo per le minaccie che son lor fatte da Giulianetto e altri fratelli del Moro e da altri banditi, che pur senza alcun timore di V. S. stanno in Cicerana, e anco da li fautori c'hanno questi di Pellegrino dal Sillico in questa terra; e fin qui non è mai stato uomo di quello Comune ardito di presentare al Capitano, a cui la causa è commessa, uno rescritto c'hanno da V. Ecc., che sieno gravati realiter et personaliter il Moro e il fratello ad ogni danno e interesse che, per aver essi fratelli ricettati li banditi e assassini, essi di Cicerana abbiano patito. È ben vero che molte volte sono a uno e a due venuti segretamente a pregarmi ch'io li aiuti, e a farmi intendere li rispetti che li ritengono di fare le debite querele, e che quella terra è giunta a tanta tirannide e a tanta paura di questi ribaldi, massimamente di quel fratello del Moro detto Giulianetto, che li batte, ferisce, ruba, sforza e minaccia, ch'alfin sarà lor forza di abbandonar le lor case e andarsene dispersi pel mondo. Io mosso a pietà di loro, e pel debito c'ho verso la giustizia, [144] ho molte volte pregato il Capitano qui che condanni il Moro siccome ricettatore de' banditi a pagare e satisfare il detto Comune di quello ch'esso per cagion del Moro e del fratello ha patito: esso Capitano non l'ha mai voluto fare, e rispostomi che 'l Moro non può essere condennato per aver ricettato banditi, cum sit che dinanzi da sè è provato per testimoni che di tal recezione il Moro non ha colpa, ma che avendo la casa comune col fratello non ha potuto vietare al fratello di non far de la sua parte quello ch'egli ha voluto, e che gli è stato il fratello Giulianetto e non esso che ha dato ricetto a' banditi. Io ho replicato al Capitano, che se per questo capo pur non lo può condennare, perchè non lo condanna per avere mangiato e bevuto con loro, parlato, conversato e menatoli seco in Lombardia e altrove, che per ciascun di questi capi, secondo la mia grida, debbe essere condennato? Mi risolve che non vuol farlo, e che l'ha condennato quello che è stato conveniente. Ultimamente con comandamento penale ho fatto che li uomini di Cicerana m'hanno esibita quella lor supplicazione col rescritto di V. Ecc., nel quale è commesso al Capitano come Commissario, che faccia che da questo Moro e dal fratello Giulianetto, li quali sempre hanno in lor casa dato ricetto a' banditi, sia del patito danno per lor causa satisfatto il Comune di Cicerana, e questa supplicazione in presenza del Notaro e con testimonî ho data al Capitano, e fattoli instanza in nome del Comune di Cicerana (del quale in questo caso mi par conveniente [145] ch'io sia procuratore) che eseguisca quanto in essa supplicazione si contiene. Per questo il Capitano non si è voluto muovere dal suo passo, ma risponde, che se quelli di Cicerana vorranno ragione, bisognerà ch'essi siano quelli che si scoprano e che la domandano; e per questo son venuto in sospetto, che a' preghi e contemplazioni di qualcuno esso Capitano tenga questa via, acciò che 'l Moro vada esente, e che quelli di Cicerana restino nel danno; e che se bene ha condennato il Moro ne la confiscazione de li suoi beni, e ne la disgrazia di V. Ecc. per essere ito in Lombardia in aiuto d'una delle parti, contro la grida ch'io feci fare in nome di V. Ecc., forse si persuada (volendolo aiutare) che di questo troverà più presto remissione e perdono da V. Ecc. che non farebbe del danno che per sua causa hanno patito gli uomini di Cicerana. Del tutto ho voluto avvisare quella, acciocchè andando le cose come si vogliano, non creda mai che di mia volontà la giustizia, la equità e la misericordia, dove si conviene, non abbia luogo: ed in sua buona grazia mi raccomando sempre.

Castelnovi, XV iunii 1523.

LXXXII

Al medesimo

Ill. ed Ecc. Signor mio. Per un'altra mia ho avvisato V. Ecc. de l'assassinamento fatto d'una grandissima quantità di bestie minute e grosse da alcuni fanti che stanno a Frassinoro, in favore di [146] Mess. Gian Giacomo Cantello. A lui io scrissi subito, e questa Comunità scrisse, nè ancora n'ho avuto risposta. Poi questi uomini a chi son state levate le bestie sono iti per ricuperarle, e sono iti indarno, come a bocca il latore di questa potrà riferire. Questi uomini subito han fatto ripresaglia di X muli di alcuni che sono da Castelnovo di Reggiana e sono per farla di quante robe di Lombardi passeranno di qui. Io gli ho ammoniti a non far ripresaglie, se prima non ricorrono a V. Ecc., la quale o li aiuterà scrivendo di sorte a Mess. Gian Giacomo e a Domenico di Amorotto che le bestie saranno restituite, o vero li consiglierà quello c'hanno a fare; e per questo mandano: ma non li ho potuto persuadere che restituiscano li muli; pur ho fatto che li porranno in man mia. Domani tutta la Vicarìa è chiamata a Consiglio per far provvisione, che quando per amor non possan riavere il suo, di rivalersi per qualche via. Io dubito che non si attacchi qualche gran discordia tra Lombardi e questi Toschi, e che cominciando questi Grafagnini qualche impresa, e poi (come son di natura non troppo valenti e mal d'accordo insieme) non la sostenendo, diano materia alli Lombardi di passar di qua, e ridurre questa provincia ne li termini che è il Frignano. Non mancherà per me finchè 'l male è fresco di rimediare; ma senza l'aiuto e consiglio di V. S. non mi dà l'animo di farlo. In bona grazia de la quale mi raccomando.

Castelnovi, 20 iunii 1523.

[147]

LXXXIII

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici etc. V. S. avranno inteso quello che in su l'Alpe di S. Peregrino, territorio di V. S., per li uomini parte della montagna di Modena e parte di Reggio è stato fatto a danno di molti poveri uomini di questa provincia di Garfagnana. Io ne ho subito dato avviso al mio illustrissimo signore;[259] quello che sua Eccellenza farà non so. Mi è parso anco di scriverne a V. S., le quali per essere più vicine e per questo forse più preste a rimediare, ci piglieranno qualche provvisione, che non ci so pigliare io, che per essere lontano dal mio signore, tardi del suo aiuto mi posso valere. Ancora che a me non stia di consigliare quelle, pure mi pare che non saria fuor di bisogno di querelarsene e con la Santità di N. S., con li signori Fiorentini et etiam con il duca mio, e tutti insieme provvedere a tanti mali che ogni dì ci moltiplicano; di modo che di tutte queste montagne li assassini e uomini di mala condizione sono signori, e non il Papa, nè i Fiorentini, nè il mio signore, nè V. S.: in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 20 iunii 1523.

[148]

LXXXIV

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Oggi ho avuto la ratificazione autentica dallo illustrissimo signor mio circa a quanto il magnifico Commissario di V. S. e io rimanemmo d'accordio per provvedere alle violenze, assassinamenti e omicidii e altri delitti che sono fatti in questa Garfagnana; e così la mando a quelle, e le prego e supplico che così come l'ordine è buono, così anco si ponghi ad effetto, e che ormai si li dia tal principio, che si possi sperare che abbi a succedere in meglio. A' dì passati io credo che io avvisassi V. S. ch'alla Barca, sul suo territorio, fu assassinato uno nostro da Corfino detto Bartolino, e li fu tolto un paro di buoi, una cavalla, li panni del dosso e denari in buona somma secondo il grado dell'uomo: li assassini furno di Barga e Sommocolognora et etiam delle terre di V. S., secondo che mi riferì colui che patì il danno. Poi sono circa 4 o sei dì che sul nostro, fra Cascio e questo di Castelnovo, furono assassinati alcuni da Minucciano e di altri luoghi sudditi di V. S.; e per quanto il sostituto del vicario di Minucciano mi scrive, il malfattore fu uno nostro da Camporeggiano, ma bandito, e nulla ha di roba. Questa mattina mi è venuto a far querela uno nostro da Reggio, che quelli della Barca in persona l'hanno assassinato, toltoli alcune some che conduceva di grano e altre robe, e feritolo; [149] or io ho veduta la ferita. Io credo di udire anco questa sera qualche altro delitto, e domani un altro, e l'altro dì uno altro, e ogni giorno, non vi si facendo altra provvisione. Io prego V. S. che mi voglino aiutare a rimediarci, cioè che per qualche giorno mandino il suo bargello per stare a Gallicano, che egli da un lato e li miei balestrieri da un altro vedremo o di pigliarli o di fare loro tal paura che abbandonino l'impresa. Lo illustrissimo mio signore n'ha scritto a' signori Fiorentini, e il capitano di Barga mi ha avvisato che la intenzione de' suoi signori è di provvederci ogni modo, e che esso ne ha strettissima commissione: pure io non ne vedo esecuzione alcuna. Se V. S. si degnasseno, appresso quello che ho scritto io, di chiamare in questa unione li signori Fiorentini ancora, e sollicitarli, instigarli e spronarli, non credo che potesse se non giovare. Io ricordo quello che mi occorre; V. S. prudentissime faranno quel che loro parrà il meglio, chè pure che si facci qualche buona opera, o per una via o per una altra, io mi chiamerò satisfatto: sopratutto le supplico, che il delitto di questi della Barca, che sono persone che molto bene si potranno avere a casa loro, non si lasci impunito. Costui che dice essere stato rubato, si offerisce di stare con essi al paragone. Se in questo mezzo mi capiteranno nelle forze, che vengano a Castelnuovo, io farò il mio debito. A V. S. mi raccomando.

Castelnovi, 6 iulii 1523.

[150]

A questa sarà alligato lo instrumento della ratificazione dello illustrissimo signor mio: ora da V. S. aspetto la loro ratificazione similmente autentica.

LXXXV

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. L'esibitore di questa è Tomeo di Andrea da Bargechia, il quale, come farà intendere a V. S., ha ricevuto grandissimo torto da uno suddito di quelle, e anco non molta ragione dal vicario di Gallicano. Io non mi diffonderò molto, perchè esso a bocca e per le sue scritture narrerà meglio il caso suo che io per lettere. Io raccomando a V. S. la giustizia, ben che credo che non accada, e appresso questo uomo; e in buona grazia di quelle mi raccomando sempre.

Castelnovi, 7 iulii 1523.

LXXXVI

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Signor mio. Ho avuto la notificazione di V. Ecc. di quanto quel Commissario dei Signori Lucchesi e io avevamo concluso, e così subito l'ho mandata a Sue Signorie insieme con una mia, per la quale molto mi dolgo e lamento de li assassinamenti che in queste confine tra la lor giurisdizione e nostra, ogni or da li loro, or da li nostri [151] sudditi son fatte; di modo che pochi di questi, che tornano di quel di Roma o di Siena da lavorare, passano che non sieno spogliati e predati. Io li ho pregati che mandino il loro bargello per qualche giorno a star a Gallicano, luogo qui vicino a quattro miglia, acciò che insieme con li nostri balestrieri possiamo pigliare o dar la caccia a questi ladri. Di questo medesimo ho scritto ancora al Capitano di Barga, e m'ha risposto averne scritto a' suoi Signori, e che circa a questo ha strettissime commissioni da loro; pur nè di qua nè di là veggo ancora uscire alcun buono effetto. Io non starò d'instare, sollicitare e importunare. Circa alla differenza degli uomini di Vagli con quelli di Pietra Santa, quello che V. Ecc. ha scritto a Fiorenza e a Roma, non credo che possa se non giovare. Questi uomini dovevano venire a Ferrara, e portare loro instrumenti e contratti, e chiarire la mente di quella, che ad essi è fatto forza e violenza e ingiustizia da quel Capitano di Pietra Santa;[260] il quale, secondo che mostra per l'opere, debbe essere uomo di poca ragione, chè non solo mai non ha voluto restituire le bestie che furon tolte, e tolte sul nostro, ma poi parte n'ha fatto ammazzare alla beccaria, e il resto vendere all'incanto per ventiquattro ducati: ma questi uomini di Vagli mai non si sono potuti accordare di trovare li danari da pagare un messo che venisse a V. Ecc., e stanno pure in questa ostinazione che vorrebbon ch'io dessi loro licenza di far [152] all'incontro ripresaglia d'uomini e di bestie che càpitano dal canto nostro. Io gli ho pur tenuti in freno, facendo lor sapere che faranno cosa che dispiacerà a V. Ecc.: quel Capitano non resta di minacciar che se li nostri saranno arditi di levar pur una capra de le loro, anderà a bruciar Vagli. Questi di Vagli cognoscono che per sè non sono possenti a resistere a quelli di Pietra Santa, e vorriano che se si attaccasse la zuffa, io li soccorressi: ma io che omai cognosco la natura de li Grafagnini, che con tutti li comandamenti del mondo non ne potrei far muovere uno a simil cose, chè già n'ho fatto più d'una esperienza, eleggo per minor danno e minor vergogna confortare li nostri a star con la testa rotta, e ricorrere a V. Ecc. per consiglio.

Contra li sudditi de' Lucchesi per la differenza c'hanno li nostri da Vallico con loro, si potria essere più audaci, perchè li nostri sudditi, massime quelli di Vallico, mostrano aver poca paura di quelli di Gelo, e anco fanno poca estima de li Signori di quelli: ma io son stato rispettivo a non li lasciar fare, perchè le lettere ch'ogni dì mi vengono da V. Ecc. sempre mi tolgono ogni ardire, e mai non sento altro, se non che io vada destramente, e che io non attizzi li galavroni: di modo che par che V. Ecc. non pur abbia rispetto alli signori de le città, ma ancora alli villani de le montagne di Reggio; sì come a' dì passati, essendo stata fatta quella preda di tanta quantità di pecore da li seguaci di Gian Giacomo Cantello e di Domenico d'Amorotto, [153] e per questo li uomini qui de la Pieve aveano ritenuti certi muli d'uno di Castelnovo di Reggiana; e io di questa cosa avendo dato avviso, subito mi è stato rescritto, che senza dilazione alcuna io faccia restituire questi muli, e che io non attizzi li galavroni; sì che parea che non li facendo restituire subito io dovessi aver qui il campo del Papa: ma io li avea già fatto restituire, ma ben con sicurtà di rappresentarli o di pagarne la valuta ad ogni mia requisizione. Queste lettere, e altre simili a queste, mi tolgono l'ardire e mi fanno avere quel tanto rispetto, e quel che mi fa essere tenuto troppo timido, che V. Ecc. in me riprende per la sua lettera: chè da un lato aver poca forza e poco braccio all'officio, ed essere capo dei sudditi che non sono (cioè questi altri a chi non s'appartiene) per seguitarmi in alcuna impresa dove si maneggi arme; e da l'altra parte esser tuttavia ammonito e fatto pauroso da le lettere di V. Ecc., e sempre dettomi ch'io sopporti e ch'io proceda con prudenza e desterità, son sforzato che s'io fossi un leone io diventassi un coniglio.

Questi di Vallico, quando la lettera di V. Ecc. è giunta direttiva alli Signori Lucchesi in favor loro, già avevano mandato suoi ambasciatori per questa causa a quella. Ma pur che sian venuti non è male, chè meglio informeranno V. Ecc. del bisogno.

Ancora ch'io n'abbia scritto, non starò di replicare che questi uomini a chi son state levate le bestie, son di mal animo, e mi dicono gagliardamente che se non le rianno per favore e mezzo di [154] V. Ecc., si deliberano di non stare in questa perdita e si rivaleranno su gli uomini di Lombardia dove potranno, se ben fusson certi di perdere, non che la roba, ma la vita. Io ho scritto di questa cosa più volte al Cantello e a Domenico: mostrano ne le lor risposte che sua non sia la colpa, e che gli ne rincresca: ma poi non mi pare che l'effetto si accordi con le parole.

Si va pur dicendo che questa armata di Francia si vede in mare, e chi dice ottanta e chi cento vele; ma io non ho certo autore: questa è ben certezza, che tutte queste terre di mare ne stanno in gran sospetto. A V. Ecc. mi raccomando.

Castelnovi, 7 iulii 1523.

LXXXVII

Al medesimo

Ill. Signor mio. Mando a V. Ecc. queste due lettere, l'una de' Signori Fiorentini, l'altra de' Lucchesi. Credo sian le risposte di quanto ha scritto loro V. Ecc. per quelle confine e ripresaglie. Quelli di Pietra Santa vendêro le bestie per 24 ducati; pur quando li nostri dessero sicurtà di pagarle in casu sucumbentiae, le restituiriano. Quel Commissario mi fa instanza che di novo mi voglia trasferire sul loco per terminare tal confine; ed io non voglio pigliare ardire senza commissione di V. Ecc. porre a' danni di quella termini, perchè mi rendo certo, che tra per sapere meglio dir la sua ragione perchè è dottore ed ha molti dottori in compagnia, [155] che io non ho qui alcuno, e per essere più potente e più arrogante di me, vorrà o non mettere confine o porle a suo modo: io m'ho sempre escusato, che non ho mandato da V. Ecc., e senza quello non son per venire in su quel loco.

Intendo che Mess. Giovanni Ziliolo[261] è in Frignano per rassettare quel paese: mi pare che stando là potrebbe anco rassettare questo; e questo saria mettendo le mani addosso a quelli del Costa e a quest'altri del Sillico e a parecchi da Somma Cologna, che intendo che sono venuti in Frignano in soccorso de le parti di Virgilio.

Li portatori di questa saranno, credo, uomini mandati da la Vicarìa di Camporeggiano per dolersi d'una sentenza data contra di loro. Io l'ho data secondo acta et probata e per consiglio del Capitano qui, e tenendomi alle commissioni di V. Ecc., alla quale mi raccomando.

Castelnovi, XI iulii 1523.

LXXXVIII

Al medesimo

Ill. ed Ecc. Signor mio. Molte differenze di confine mi danno grandissimo travaglio ch'avemo con Fiorentini da un canto e con Lucchesi da l'altro. [156] Tutto il dì fanno ripresaglia or d'uomini or di bestiami: questi uomini si dolgono, e vorrebbono fare il simile contra di loro: io per ubidir V. Ecc. li tengo repressi, or con ammonizioni or con minaccie, perchè non usino la violenza: ma questo nostro troppo rispetto fa gli avversari più ogn'ora insolenti e arroganti, chè quello che noi facemo per bontade e desiderio di vivere in pace, essi estimano che sia per viltade, e ogni dì si fanno più innanzi e trattano li sudditi di V. Ecc. come fussino lor schiavi. A' dì passati mi dolsi de' Signori Lucchesi ch'avevano ritenuto uno da le Fabriche per XV lire, che volevano e vogliono che li uomini de le Fabriche paghino l'anno per colta alli loro uomini di Gelo, facendo lor fondamento ne le confine che già Mess. Pier Antonio Mercatello pose tra il territorio di V. Ecc. e il loro. Io n'ho scritto a V. Ecc. e mandatoli alcune copie; ma nel tempo ch'Ella si è ritrovata essere fuor di Ferrara, dal Sig. Don Ercole mi fu risposto che alla tornata di V. Ecc. sarei instrutto di quanto circa questo io avessi a fare, e così ne aspetto risposta. In questo mezzo ho pregato li Signori Lucchesi che lascino quell'uomo da le Fabriche che avevan prigione finchè V. Ecc. sia ritornata e m'abbia avvisato del suo parere circa ciò, e così son stati contenti di rilassarlo con promessa di ritornare in capo d'un mese ne le lor forze. Mi è parso di darne per questa un poco di ricordo, acciò che quella non credesse che la cosa non fosse di molta importanza. Ma questa cosa, ancora che molto importi, non importa quanto [157] un'altra differenza che è fra gli uomini de la Cappella del Capitanato di Pietra Santa e li nostri di Vagli di sopra. Il Comune de la Cappella ha fatto ripresaglia di una gran quantità di bestie grosse ritrovate pascere in un luogo confinale fra essi e li nostri di Vagli, e secondo l'instrumento che li uomini di Vagli m'hanno esibito, e secondo che ancora in fatti ho mandato a vedere, son certo che tal bestiame è stato tolto su quello che è di nostra giurisdizione e non de la loro. Io n'ho scritto al Capitano di Pietra Santa, e dolutomi che non faccia osservare quello che per lo instrumento pare che già gran tempo fosse stabilito: esso mi scrisse indrieto, che ad un certo dì constituito io mi ritrovassi sul loco a veder le ragioni d'una parte e de l'altra, e che intanto voleva ritenere le bestie, acciò che ritrovandosi li nostri uomini aver passato su le confine e lochi loro, ne fussino puniti; e appresso mi scrisse ch'io andassi con poche persone, che esso farebbe il simile, per fuggire li tumulti e li scandali. Io, quantunque mal volentieri mi trovassi a questa disputa, conoscendo che questo Capitano di Pietra Santa è dottore ed era per menar seco dottori e notari, di che intendo in quel luogo esserne copia, ed io non avendo chi menar meco, perchè il Capitano de la Ragione non ci voleva venire, per essere via di più di XV miglia la più aspra che sia in questo paese ed è impossibile che possa farsi a cavallo, ed esso, per essere uomo grave, non pur ne vuole andare a piedi; nè altro dottore è in tutta Grafagnana, se non Mess. Achille che [158] gravissimamente è ammalato; pur mi disposi di andare: e così una domenica circa a XX ore mi mossi per ire quella sera ad albergare a Vagli e ritrovarmi il luni, che era il giorno constituito, sul luogo, il quale è alla sommità di Petra Pania. Fosse naturale accidente, o fosse volontà di Dio, a quell'ora si levò il più orribil tempo che fosse già dieci anni in questo paese, sicchè le fulmini ammazzâro quel giorno uomini e bestie; e fu la maggior pioggia e la più lunga che da questi tempi fosse mai: durò senza intermissione tutto il giorno e gran pezzo de la notte. L'altro dì, quando il tempo cominciò a rischiararsi e ch'io mi volsi movere, mi venne un messo che 'l Capitano di Pietra Santa era stato sul luogo, il che potè fare agevolmente per esservi molto vicino, e intendo che da quel canto non era stato alcun mal tempo: nè ancora che fosse stato buon tempo ci vorrei essere ito, perchè intendo che, contra l'ordine dato, vi era venuto con forse ducento persone armate e vi aveva appresso cento scoppettieri, e avea mostrato di venire più per combattere e ottenere per forza, che per vedere di equità. Io subito gli mandai un messo ch'era de li uomini di Vagli con la inclusa lettera, e come V. Ecc. potrà vedere lo pregavo che restituisse queste bestie. Esso non si è degnato di darmi altra risposta; anzi per mostrare più superbia mi ha rimandata la mia lettera indrieto, e detto al messo che non vole restituire le bestie, anzi che gl'incresce che ne restituisse una parte a' dì passati a' miei preghi. A questa cosa io non so pigliare rimedio, perchè ancora [159] ch'io fossi ito o di nuovo mandassi sul luogo, so che questo Fiorentino e con le sue leggi e più con la forza vorrebbe vincere; e più presto la mia andata sarebbe a pregiudicio che a profitto del Stato di V. Ecc.[262] Questo paese, che questi di Pietra Santa vorrebbono occupare, non è da lasciar perdere così pianamente, perchè va a confinare col Stato de la Marchesa di Massa, e per quella via potemo noi condur sali e altre robe di tutta quella spiaggia; chè se Fiorentini l'usurpassino vi porrebbono la Gabella con grandissimo detrimento di questo paese.

L'uomo che sarà portatore di questa supplirà a bocca dove io mancassi nel scrivere, perchè credo che ne sarà informatissimo. Bisognerà a mio giudicio che se ci avremo a condurre su queste confine, che l'una parte e l'altra vi vada con quella gente sola che sia atta a giudicare di tal lite, perchè per l'odio che è tra li nostri di Vagli e li uomini de la Cappella e di Pietra Santa, si potrebbe attaccare una scaramuzza di mala sorte: e dovendo V. Ecc. mandarci, io non sarò buono; salvo se V. Ecc. non mi desse compagnia di dottore e persona bene instrutta. Ma saria forse meglio che la causa fosse commessa o a Lucca o a Sarzana, sicchè senza andare quelli che sono parte sul loco, si giudicasse per la giustizia; chè la lite mi par che stia in prove di testimonî: qual sia quel luogo che nomina lo [160] instrumento Acquaruolo, e quali sieno quelli che si chiamano li pascoli d'Arni. Pur V. Ecc. farà il suo parere: in buona grazia de la quale mi raccomando.

Castelnovi, xiij (iulii) 1523.

LXXXIX

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. A questi dì ebbi una di V. S. diretta allo illustrissimo signor mio; credo fusse in risposta di quanto sua Eccellenza aveva scritto per la differenza fra li uomini delle Fabriche e di Gello: la lettera mandai domenica prossima passata, perchè prima non ho avuto mezzo. Sua Eccellenza ha per questa che io mando replicato, per non avere ancora avuta quella di V. S.: questo ho scritto, acciò che elle non ne pigliassino ammirazione; alle quali del continuo mi raccomando.

Castelnovi, 13 iulii 1523.

XC

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Signor mio. Per uno mandato da la Vicarìa di Camporeggiano mandai a Vostra Ecc. una lettera de li Signori Fiorentini, e una de li Signori Lucchesi. Credo che lo esibitore di questa sarà uno mandato da li uomini di Vagli di sopra, alli quali, come per altre mie ho scritto a Vostra Ecc., da li [161] uomini di Pietra Santa è usata gran violenza. Vostra Ecc. farà vedere li loro instrumenti e anco si degnerà pigliarne informazione dal Mag. Mess. Agostino da Villa,[263] il quale intendo che già fu sul fatto e se ne chiarì benissimo, poi quella farà e commetterà secondo il suo parere.

Ho poi avuta una di V. Ecc. dì X di questo, e insieme una direttiva alli Sig.i Lucchesi. Quella che va a' Lucchesi per li uomini medesimi di Vallico, che ne sono stati portatori, ho mandata a Lucca, e ne aspetto risposta. Io mandai anco l'altra ch'io ebbi a' dì passati, e credo che quella ch'io ho mandata per l'uomo da Camporeggiano sia la risposta. Se li prefati Sig.i Lucchesi faranno il lor debito, n'avrò piacere; quand'anco non lo facciano, non mancherà per me; poichè io so la intenzione di V. Ecc. di portarmi con loro come essi si porteranno con noi: se faranno ripresaglia di nostre robe o nostri uomini, farò altrettanto a loro. Circa alle novelle da Pisa, poco si può intendere di verità, perchè vi è la peste. Io non lascio entrar qui persona che venga di là, nè alcuno de' nostri andare a quella via.

Noi semo stati in gran pericolo circa la peste: perchè questi contadini, fatto Pasqua, hanno usanza di andare in gran quantità su quel di Roma e ne le Maremme a guadagnare, e poi, segati li grani, tornano a casa, e nel ritorno molti hanno seco il [162] morbo. Io ho durato grandissima fatica a far che non sieno ricettati ne le lor terre, ma confinati chi qua chi là, e provvisto lor al bosco de li lor bisogni; pur non ho possuto provveder tanto, che molti furtivamente non sieno andati alle mogli ed alle lor case; e in una de le terre nove detta Roggio si è attaccata la peste, sì che subito ne son morti nove. Provvisioni grandi se gli son fatte e fanno tuttavia, e spero che non si dilaterà più innanzi. Questi Maremmani han fornito di venire, sicchè non abbiamo dubbio di peggio. Sia come si voglia, n'ho voluto dare avviso a V. Ecc.

Circa a quanto V. Ecc. mi commette, ch'io l'avvisi di che genti io avrei bisogno per rassettare questo paese, io n'ho già dato avviso a Mess. Gioan Ziliolo, e forse esso avrà mandata la mia lettera a V. Ecc., pur lo scriverò anco a quella. Qui non è alcuna terra ribelle che si bisogni brugiare o saccheggiare, nè alcuno capo di parte ch'abbia sèguito di 200 o di 300 uomini, sicchè per questo sia bisogno mandare esercito di qua. Qui sono quelli del Costa che sono circa sei; li figlioli di Pellegrino dal Sillico altrettanti, e qualche altro giottoncello che li seguita da Barga e da Sommocologna, che senza l'aiuto de' Lombardi non ponno far gran squadra; e quando hanno avuti li Lombardi con loro, cioè quelli Pacchioni e alcuni da la Temporia, non sono arrivati a cento, ma spesso sono stati in trenta o in quaranta. Io so che, come s'intenda che Mess. Giovanni sia per passare o mandar gente di qua, si leveranno: nè finchè ci stia ci appariranno; ma non [163] sì presto sarà partito che saranno qui: nè altra punizione si potrà dar loro, se non di mettere le mani addosso a' loro padri, fratelli e parenti, e non li lasciare che non diano sicurtà che non torneranno li malfattori nel paese. A quelli che non hanno padre, saccheggiar le case e poi arderle e spianare, tagliar le viti e gli arbori, e distruggere li lor luoghi, ch'ogni modo non si potria trovar chi li comprasse, nè aver se ne potria frutto per la Camera; ed anco saria forse bene di non aver rispetto in questo alli padri, nè alle mogliere per dar lor punizione, chè con tante proibizioni di V. Ecc. han sempre dato lor recapito. Poi sarìa bene batter per terra tutti li campanili, o vero aprirli di sorte che non potessino dar ricorso alli delinquenti: et similiter le rôcche che V. Ecc. non vuol far guardare, o saltem alcuna, come quella di Dallo, dove quelli del Costa signoreggiano. A far tutte queste cose basteriano cento fanti, e anco cinquanta: li cavalli qui ponno far poco frutto; pur questi pochi che ci abbiamo con li fanti saranno a sufficienza. Io mandai ieri questo capo di cavalli leggieri che sta qui, cioè Antonio da Cento, a parlare a Mess. Giovanni Ziliolo per vedere se potesse avere fino a 20 fanti, per tornare secretamente di notte, e provare se potesse avere in Cicerana questi banditi: non so quello che sarà, pur dubito più del no che io spieri del sì; perchè, poi che sentono questa furia in Frignano, stanno tuttavia su l'ale. M'era stato detto che volevano andare a trovare Mess. Giovanni, ed io lo aveva avvisato: e si mossono, e poi sono tornati [164] indrieto. Quelli del Costa intendo che sono passati in Lombardia a danno de le reliquie di Domenico di Amorotto;[264] non so se V. Ecc. avesse modo di farli pigliare là, che saría una salutifera opera. Impiccati che fossino X ribaldi di questo paese, il sarìa tutto risanato. Il barigello di Lucca oggi è venuto a Gallicano con commissione da' suoi Signori di far quanto io gli comandarò, e gli è accaduto venire in tempo che'l nostro Capitano di balestrieri non ci era. Mi ha scritto e rescritto, e semo d'accordo che ad ogni mia richiesta tornerà: io lo avrei fatto aspettare, ma essendo scoperta la sua venuta tutti li tristi avranno sgombrato. Io gli ho mandata una nota del nome di questi banditi. Mostrano le lettere sue che ci viene di buono animo, e così anco le lettere che sopra ciò m'hanno scritto li Signori Lucchesi. Altro non occorre. A V. Ecc. mi raccomando.

Castelnovi, XV iulii 1523.

XCI

Al medesimo

Ill. ed Ecc. Signor mio. Pier Morello m'ha portato una di V. Ecc. ne la quale essa mi riprende ch'io abbia mandato a consigliare la causa ch'egli [165] ha col pisano a Lucca, e che più presto io non l'abbia mandata a Ferrara. Ma acciò che la ragione mia anco s'intenda, V. Ecc. intenderà come questa causa fu commessa al Commissario e alli quattro soprastanti alla gabella, ed essendo venuto per questo in mia mano questa causa, io ne presi consiglio a' dì passati con Mess. Raffaele da Carrara allora Capitano di Camporeggiano, e questo perchè il Capitano qui di Castelnovo è sospetto grandemente al pisano. Esso Mess. Raffaele, veduto il processo, mi fece la sentenza in scritto; ne la quale assolveva il pisano a solutione datij per quelli legnami de quibus in causa, e Pier di Morello ab expensis. E non mi fidando io che questa sentenza fosse de jure per certi andamenti che avevo veduto, ne mandai la copia a V. Ecc., e la pregai che la facesse vedere al Consiglio, e dissi di volere appresso mandare il processo. Ma V. Ecc. mi fece rispondere, che non voleva che altrimenti il Consiglio si intromettesse in questa causa, che pur io la terminassi secondo il parer mio e de li quattro soprastanti. Dopo, fra pochi dì, venendo io a Ferrara e parlando di questo col Mag. Mess. Matteo Casella,[265] Sua Mag. mi disse ch'io non andassi cercando altri consigli, ma che secondo il parer de li quattro io la espedissi: e così, tornato ch'io fui qui, tolsi il processo e chiamai li quattro li quali [166] si trovano essere al presente, e poi ch'ebbi udito il parer loro, chiamai li altri quattro, e gli altri quattro ancora ch'erano stati prima, e finalmente quanti uomini di questa terra per diversi tempi erano stati a quello officio de la gabella; li quali nemine discrepante ho ritrovati tutti conformi, che di tal petizione il pisano debbia essere assoluto, fondando questo lor parere, parto sopra li capitoli de la gabella, parte su la consuetudine che mai non si pagò, ma più che dicono che la volontà di chi tali capitoli constituì, non fu mai che di tal cose s'avesse a pagar dazio, e ne sono alcuni vivi che si trovâro a farli: e aggiungono ancora, che quando questi capitoli non fussino ben chiari, tutta questa terra sarebbe per far generale consiglio, e chiarire nominatamente che di tal cose non s'avesse a pagar dazio; e questo perchè quando tali imprese di legnami si facevano, si dava guadagno a poveromini che mettevano opere e fatiche in tal condotte di mille ducati l'anno; il che poi che questa lite è cominciata è cessato con grandissimo danno del paese. Veduto io che 'l parer di tutti gli uomini di questa terra era risoluto che 'l pisano erat absolvendus, proposi loro che anco giudicassino, se Piero dovea essere condennato in le spese, e in certa pena in che per li capitoli incorre il gabelliere che domandi quello che non ha d'avere, e se lor pareva an Petrus habuerit iustam causam litigandi, an non. A questo non potei condurre alcun di essi che volesson giudicare, allegando che questa era materia da dottori e non da essi, che sono [167] volgari e idioti. Per questa causa, desiderando io di dar sentenza che fosse giustificata e che quando si avesse a vedere altrove non fosse riprovata, presi espediente di mandare il processo a Lucca per farmi chiarire questo punto, sì come luogo più vicino, sperando di mandare un dì il processo e l'altro averne la espedizione. Ma la cosa è successa altrimente, perchè il dottore a chi lo mandai si trovò ammalato e mai non l'ha potuto vedere; ma ora ch'io intendo la volontà di V. Ecc. lo manderò subito a tôrre e lo rimetterò a Ferrara.

Credo che Pier Morello si sia venuto a doler di me, come di persona che non spiera poter trattare a suo modo contra la giustizia, perchè mai non gli ho risposto, come forse sperava; imperò che nel principio ch'io venni qui egli mi fece offerire prima per Ser Tito allora mio Cancelliere, e poi a me in persona, di volermi dar la metade di ciò che si poteva cavare da questo pisano, ed anco miglior condizione, pur ch'io lo favorissi usque ad victoriam in questa causa. S'io ho fallito a mandar il processo a Lucca, m'incresce: ma non ho però fatto cosa che altri miei predecessori non abbiano fatto, e che mi paia che sia contra il dovere, essendo di qui a Lucca XX miglia e di qui a Ferrara cento: nè anco ho Lucca per città nimica di V. Ecc., nè dove una parte abbia più amicizia o parentado che l'altra; nè all'una parte nè all'altra io dissi dove o a chi io l'avessi mandato, nè so come Piero poi l'abbia inteso; ma dubito che esso abbia paura de la ragione in ogni loco, e che non abbia fatto questa [168] querela perchè dubiti più di Lucca che d'altro luogo, ma perchè ogni indugia e dilazione fa per lui.

Se 'l pisano si duole perchè sia menato in lungo, ha ragione perchè ha frustato tanto tempo qui, che se fosse stato in paradiso gli dovrebbe rincrescere: ma la colpa non è mia. Questi uomini vengono mal volontiera a dar questa sentenza, e studiosamente vanno tutti differendo finchè possano uscire d'officio, e lasciar questo carico alli successori: ma quando fosse commessa nominatamente a quelli quattro che erano in officio al tempo che la causa fu commessa, cioè Soardino, Maestro Gianpiero Atolino, Simon di Lorenzo e Valdrigo,[266] o ad alcun altro che avesse essere giudice usque ad expeditionem cause, credo che attenderebbono alla espedizione, e non a mirar di dare il carico al successore. Tutti sono d'accordo a dire che Piero ha il torto, ma non gli vorrebbono far male. Se pare a V. Ecc. che io mandi il processo, e che io aspetti da Ferrara la sentenza o che pur ch'io la dia secondo il consiglio di questi uomini secondo la commissione di V. Ecc. senza altra consultazione, quella mi faccia dar avviso, che subito io gli darò espedizione. In buona grazia de la quale mi raccomando.

Castelnovi, XVI iulii 1523.

[169]

XCII

Al medesimo

Ill. Sig. mio. Avevo mandato il Capitano de li balestrieri qui a Mess. Gioan Ziliolo perchè avessi in presto fino a XX fanti che volevo che venissono di notte per provare se si potean pigliare li fratelli del Moro dal Sillico che tuttavia stanno a Cicerana, cioè quelli che assassinâro il prete pisano; ed è tornato senza, riferendomi che da V. Ecc. Mess. Gioanni non ha commissione alcuna di mandar gente di qua. A questo prego V. Ecc. che faccia quella provvisione che li pare, secondo che per l'altra mia scrivo.

Il Camerlingo di Camporeggiano è qui che non ha portato se non una parte de li danari de li balestrieri, e dice che quelli de le terre nuove, cioè Dallo, Pontecchio e il Castello, e l'altre de la Vicarìa di sopra, negano di voler più conferire alla provvisione di quelli, allegando che ogni modo[267] non gli giovano, che sono assassinati e depredati da li Lombardi e da altri, e non è chi li soccorra; e non solo di questa paga, ma di due passate sono debitori. Io gli ho subito fatto far li comandamenti con protesto se non pagano ecc., ma non si trova messo che voglia ire in quel luogo: vederò di mandarli [170] un balestriere, se io potrò. È passato un anno che io feci in scritto alcuni comandamenti alli padri e fratelli di quelli assassini da Pontecchio, e li mandai alli officiali a Camporeggiano, acciò che per uno di quelli messi gli mandassino, e mai non hanno potuto far che messo vi voglia andare, e più che uno di questi citati in questo tempo è venuto a Camporeggiano a certo parlamento, e il notaro del Capitano che avea questi comandamenti in mano non è stato ardito di fargline motto, e questo per esser di questo paese; chè dice che non vole essere amazzato per questo.

Appresso,[268] certi banditi che sono assassini, e sono due deserti[269] che non hanno nè credito nè sèguito, stanno tuttavia a Camporeggiano, e non solo quelli officiali non si pongono alla prova di pigliarli, ma pur mai non me n'hanno scritto: il che intendendo io per altra via, vi mandai li balestrieri e giungendo improvviso si trovò che uno di questi tristi, detto il Frate, giocava a carte con uno da Camporeggiano col circulo di tutta la terra intorno, e come li balestrieri si scopersono lo ascosero, [171] e lo fêro fuggire in un campo di canape: e tutti lo vedevano e sapevano, nè fu alcuno che volesse cennare alli balestrieri, e fra gli altri ci era Ser Costantino da Castelnovo ivi notaro, il quale poi si escusa che non vole essere ammazzato. E appresso, colui che ivi fa l'ufficio del Cavalliero stette quel dì medesimo a battere su un'ara con questo ribaldo il quale da XX giorni in qua ha assassinato circa sei persone in più volte, poveromini che veniano di Maremma, e tolto loro fin a XV ducati. M'incresce, chè par che qui io non abbia da far altro che di riferir male: pur lo fo perchè tutta la colpa, se le cose non vanno bene, non cada sopra di me. A V. Ecc. umil. mi raccomando.

(Castelnovi), XVII iulii 1523.

S'io volessi anco aggiungere cha a Camporeggiano o in quella Vicaria si son fatti maleficî di più sorte, contra li quali non si è mai processo, direi male, ma direi però la verità.

XCIII

Agli Otto di Pratica in Firenze

Magnifici ed eccelsi Signori miei osservandissimi. Baccio de la Masa, esibitore di questa, è venuto a me facendomi intendere, come da Vostre Signorie è stato chiamato a Fiorenza, e non sapendo per che causa, ha avuto ricorso al magnifico Potestade [172] di Barga; il quale gli ha detto, questo non dovere essere per altro, se non per le querele che di quelli di Barga e di Somma Cologna son venute dal Commissario di Castelnuovo; e mi ha pregato, che appresso Vostre Signorie io faccia fede de la verità. Io dunque, perchè non fu mai mia intenzione di ascondere o di fingere quella, dico che di questo Baccio non ho mai avuto richiamo alcuno: anzi il dì di San Piero prossimo passato egli fu a ritrovarmi per comporre certa lite e discordia, che fra un certo Giuliano Grigoro e alcuni sudditi del mio Ill.mo Signore era sorta; e questo perchè li nostri si dolevano che questo Giuliano era stato in grossa compagnia a Massa, terra di questa ducale provincia, e avea usata certa violenza contra di loro: e da quel giorno in qua le cose sono state molto quiete, e mi ho creduto che sia stata assai opera di questo Baccio; e così ne fo fede a Vostre Signorie, alle quali mi raccomando.

Castelnovi, 20 iulii 1523.

XCIV

Ai medesimi

Magnifici et excelsi domini, domini mihi observandissimi. Molte volte mi son doluto agli capitani di Barga de li latrocinii e assassinamenti e altre violenze, che alcuni tristi da Barga e Somma Cologna tuttavia fanno in questa ducale provincia di Grafagnana, nè mai ho veduto effetto per il quale [173] questi ribaldi si ritraggano da le lor malopere; che sempre in buona quantità, armata manu, or in compagnia de li nostri banditi, ora da per sè, non sieno in questo paese, ora assassinando, ora mettendo taglie, e sempre or in questa villa, or in quell'altra volendo vivere a discrezione. Io da parte dell'illustrissimo mio Signore già molti dì sono ho fatto per publica grida proibizione, che nessuno de li nostri vada in armata, nè in compagnia di alcuno, sul territorio di V. S., sia per qual cagione si voglia; ma non mi par che dal canto de li officiali di Vostre Signorie mi sia stato renduto il cambio; imperò che io non sento mai altro, se non che or uno, or un altro è stato assassinato, e sempre vi si truovano genti or da Barga, or da Somma Cologna, in compagnia. Li quali delitti riferire ad uno ad uno saria troppo lungo, massime avendone io più volte, e secondo che sono accaduti, fatto intendere al Capitano di Barga. Di nuovo ho da riferire a V. S., che un Togno di Nanni del Calzolaro da Somma Cologna, e un Francesco detto Francio figliuolo di Biagio di Gigrò, Stefano di Barzante di Stefano con altri cinque compagni, sono iti su quel d'una terra di questa provincia detta Cicerana, e hanno, spezzando e rompendo casse e sforzando il mandriano, saccheggiato una quantità di cacio, il quale era di uno Nardino da Cicerana. Mi è parso ancora che questa cosa non importi quanto molt'altre che ogni dì si sentono, di farne a V. S. querela, e pregarle che si degnino pigliarci qualche provisione, acciò che in effetto cognosciamo [174] essere vero che lor dispiaccia tali portamenti: in buona grazia de le quali mi raccomando.[270]

Castelnovi, 23 iulii 1523.

XCV

Ai medesimi

Magnifici ed eccelsi Signori miei osservandissimi. Ancora che io creda che 'l magnifico Potestà di Barga abbia fatto intendere a Vostre Signorie che quello Giuliano Grigoro abbia dinanzi a quelle difesa la sua causa con molte bugie; non resterò io ancora di certificarle, che colui di che si duole questo Giuliano che gli ammazzasse quel suo parente, non è persona di questa provincia, nè suddito alla giurisdizione mia. Anzi, per quanto intendo, la colpa di tale omicidio ha uno Bogietto da Somma Cologna, forse aiutato da qualche lombardo, sopra li quali io non ho potestade nè autorità alcuna, anzi sono banditi e ribelli del mio illustrissimo Signore. Ma s'a lui è stato fatta questa ingiuria da quelli di Somma Cologna, forse con aiuto di qualche uno di questi c'ho detto, che a questa ducale provincia niente appartengono, che colpa n'hanno gli uomini nostri di Massa? che nè parentado, nè amicizia, nè forse cognizione hanno ancora con questi che l'hanno offeso, sì che egli già due o tre volte sia venuto, poich'io sono in questo officio, con quaranta o cinquanta persone in la villa di Massa e [175] altrove, e abbia rotto usci e casse, e tolto pane e formaggio e roba da vivere, e voluto essere alloggiato a discrezione, come se fosse rotta la guerra. E appresso in questi tempi sono alcuni stati assassinati alla strada, che non si è potuto sapere da chi, ma publicamente si è dato colpa alli compagni di questo Giuliano.

Circa a quell'altro Baccio de la Masa, gli è vero che venne a me, e mi pregò ch'io facessi fede appresso Vostre eccelse Signorie, come io non mi dolevo di lui, e menò seco alcuni di questa terra di Castelnuovo ch'io tenevo per uomini da bene, che mi attestaro che questo Baccio era persona quieta e ch'amava la pace e la tranquillitade, e che mai non s'era interposto se non a far buone opere. Per questo io lo compiacqui di fargli quella lettera, che non sapendo io per me alcun male di lui, non mi pareva anco di dovermilo presumere e imaginare. Gli è ben vero che poi da molt'altri mi è fatto intendere, che costui è tutto il contrario di quello che da quelli altri mi fu dipinto, anzi che esso è consigliere, impulsore, capo e guida di tutti li mali che Donatello da Somma Cologna fa in questa Grafagnana: del quale Donatello m'ho più da dolere che d'altro suddito di Vostre Eccellenze; chè di lui son pochi giorni ch'io non abbia grandissimi richiami or d'avere fatto una cosa, or un'altra, da farne venire orrore a Vostre Signorie, quando lo intendessino: e sul libro de le nostre condennagioni è il suo nome più scritto che d'alcun altro. Se questo Baccio abbia colpa di tanti mali, o [176] pur sia uomo da bene come quelli altri me l'avevano dipinto, io lascierò giudicare a chi lo conosca meglio di me; perchè essendo gli uomini di questa provincia la più parte faziosi, e che parlano a passione, non mi fido a dar fede più a questi che a quelli. Vostre Signorie, che sono prudentissime e piene di giustizia, credo che ben ci sapranno e vorranno pigliar riparo; nè il mio illustrissimo Signore dal canto suo mancherà di quanto gli sarà possibile, perchè le strade sieno sicure, e gli uomini da bene nelle case loro. Per adesso saria buona opera a provvedere che li sudditi di Vostre Signorie non venisseno per causa alcuna, nè spontaneamente nè chiamati, in questa ducale provincia, se non a due o tre insieme per far lor faccende, e non in armate come fanno tutto'l dì; sì come anche io ho provvisto, di commissione del mio illustrissimo Signore, che li nostri non possano venire nel dominio di Vostre Signorie. E pur alcuni non obbediscono, e sono banditi e gente di sorte, sopra la quale, perchè non hanno altro al mondo che la persona, io non ho potestade alcuna. In bona grazia di Vostre Signorie mi raccomando.

Castelnovi, 6 augusti 1523.

XCVI

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Circa a quelli della vicaria di Minucciano, che sono stati assassinati da due da Camporeggiano, di che [177] V. S. un'altra volta mi hanno scritto, rispondendo dico, che se io avessi potuto avere li malfattori in le mani, o che di quelli che sono stati imputati si trovasse roba che potesse satisfare il danno, io non avrei aspettato che da V. S. mi fosse stato scritto a fare il debito mio; ma prima, non mi consta che tale assassinamento sia stato fatto da quelli di Camporeggiano, se non quanto si presume, per essere uomini di mala sorte, e che hanno fatto di tal cose; ma per questo non sono restato, come io fussi certo che fussino stati quelli, di fare ogni opera per averli nelle mani, e fo tuttavia: ma fin qui non mi è successo andare contro la roba. Ho provato l'uno di essi detto il Frate: non si trova ch'abbi altro al mondo che una casetta di valore, per quanto io intendo, di due o tre scudi; quella ho fatto porre all'incanto, nè mai se li è trovato compratore: l'altro compagno, detto Margutte, ha poco similmente, e di quel poco che si gli trova è comparsa la madre ed uno instrumento di donazione fatto già 3 anni, al quale instrumento nè anco io sarei per attendere, se si trovasse compratore a certa parte di selve e di campi, che sono di queste ragioni: ma io non ho autorità di sforzare alcuno a comprare contra sua voglia; sì che o V. S. mi abbino per escusato, o mi mostrino che via io abbia a tenere da far satisfare cotesti suoi sudditi, senza mancare di ragione. E in buona grazia di quelle mi raccomando.

Castelnovi, 7 augusti 1523.

[178]

XCVII

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Signor mio. Meglio informato come il Moro è fuggito, ho trovato un coltello in prigione, il quale per quattro testimoni è provato esser di quel figliolo di Bastiano Coiaio il quale tutto ieri, come per l'altra mia ho scritto, stette seco in parlamento. Con questo coltello il Moro ha cavato dentro via una fessura in l'uscio, con la quale è ito a trovar la chiavatura che di fuora era col cadenazzo, e con questo coltello ha respinto il chiavistello, e così si ha aperto. Questo sia per più chiarezza a Vostra Ecc. Se questo figliolo di Bastiano io potrò, farò pigliare. Suo padre mi è stato a ritrovare, e con la sua solita insolenza ha detto parole assai altiere, come è suo costume, e mi ha voluto mostrar ch'io non scrivo cosa a Vostra Ecc. ch'egli non ne sia avvisato. In somma non può patir ch'io abbia scritto male di questi fratelli dal Sillico, e le sue parole più tendono per far che per paura io desista di avvisar di volta in volta le cose come occorrono a Vostra Ecc., che per buoni portamenti mi voglia far suo amico: poi che venendo di certo suo luogo scontrò il Moro che fuggiva, il quale gli aveva narrato di punto in punto come era uscito di prigione. Vostra Ecc. può per questo solo conietturar se esso era conscio di questo ordine; chè non mi par così verisimile che a ventura l'avesse trovato, di quello che lo stesse ad [179] aspettar alla posta. In buona grazia di Vostra Ecc. mi raccomando.

Castelnovi, 29 augusti 1523.

XCVIII

Al medesimo

Ill. ed Ecc. Sig. mio. Appresso quello che de la morte del conte giovine[271] di San Donnino e de la madre ho scritto, V. Ecc. intenderà come mi è venuto alle mani uno instrumento per il quale Pier [180] Madalena, padre di questo Gian Madalena che di sua mano ha fatto l'omicidio, promette a quel conte Giovanni che poi fu morto da Genese, che nè esso Piero nè alcuno de li figliuoli nè de la sua famiglia offenderà nè farà offendere il detto Conte, nè alcuno de la famiglia di esso, sotto pena di ducati ducento da essere applicati per la metade alla Camera di V. Ecc., l'altra metade alla parte offesa. Per questo ho chiamato a me il detto Piero e l'ho cacciato in prigione, dove spero di tenerlo più cautamente che non ho saputo fare il Moro. Ecci un'altra pagarìa di centocinquanta ducati, che quel Genese non offenderìa il Conte prefato nè li suoi: de la quale pagarìa questo Piero è per cento; e già è passato l'anno che per questo io lo distenni e volevo che pagasse: ma quel Giovanni suo figliolo che ora ha fatto questa orribile scellerità, venne a V. Ecc. e portò una commissione che si procedesse iure medio, di modo che si è agitato il processo lungamente. All'ultimo avevo date le scritture in mano del Capitano qui acciò che mi consigliasse in ferenda sententia; ma esso (non so perchè) non si è mai risciolto. Saria buono che V. Ecc. o scrivesse che, messi li processi da parte, io stringessi questo ribaldo vecchio, il quale credo ch'abbia poco meno di cento anni, a pagare tutte queste pagarie, di consenso e istigazione del quale è publica opinione che tutti questi mali sieno seguiti: ovvero che si scrivesse al Capitano qui exhiberet consilium; e se vi avesse dubbî mandasse quelli o tutto il processo a Ferrara: perchè il non far pagare le pagarie [181] o porle in disputa è causa di tutti questi mali che sono in questa provincia. A Vostra Ecc. mi raccomando.

Castelnovi, 29 augusti 1523.

A San Donnino in favore di questo Madalena s'ingrossa gente, e fra gli altri vi sono quelli del Costa, eccetto Bernardello, il quale intendo che è alle Verugole in favore delli Castellani, e mi è detto che da quell'altro canto si fa un'altra armata dove è ito Battistino Magnano con quelli da Sommacologna, e che questi dal Sillico vi sono iti o sono per andare. Dubito, chi non l'estingue presto, che s'accenda un foco in Garfagnana non minor di quel che è stato in Frignano.

Il figliuolo di Lucca Piretto è tornato, e questi che lo favoriscono si lamentano di me che ho scritto che è capo alla Pieve de la parte taliana,[272] e tutto [182] quello c'ho scritto m'hanno saputo dire. Mi duole che mi sien rotti li patti, che per altre sue V. Ecc. mi ha promesso, di tener secreto tutto quello ch'io sia per scrivere.

XCIX

Al medesimo

Ill. ed Ecc. Signor mio. Mando la copia de l'instrumento per vigore del quale ho posto Pier Madalena in prigione. V. Ecc. farà giudicare se per quello è obbligato o non a tal pagheria; e m'avviserà s'io lo debbo tenere in distretto, o se pur dando sicurtà, come costoro che mi pregano per lui m'instanno, lo debbo lasciar per rôcca.

Un Battistino Magnano bandito di qui per assassinio, è passato con alcuni compagni, e fra gli altri con Bernardello da Pontecchio e altri circa 18, e nel passare hanno fatti due prigioni: l'uno è figliolo d'un detto il Vergaia da Corfino, e gli hanno posto taglia trenta ducati, e avuta la sicurtà da uno da Corfino che fra tre dì pagherà, l'hanno lasciato. De l'altro non mi ricordo ora il nome nè la quantità de la taglia. Il padre di questo a chi è stato posto taglia, e colui che gli ha fatto la sicurtà, son ricorsi a me, che non vorriano pagare, e tuttavia aspettano che le case gli sieno saccheggiate. Io non gli ho saputo dare altro che parole, e che io aspetto da V. Ecc. buona provvisione a rassettare il paese. Quando io non avrò più che dire, e che avrò totalmente perduto il credito, me ne fuggirò di notte, [183] e me ne venirò a Ferrara. Mentre io scrivo mi è venuto nuova che tra Sillicano e Gragnanella è stato morto e assassinato un altro. Ognuno è di malavoglia, e dicono mal di me, ma più di V. Sig.ia, in buona grazia de la quale mi raccomando.

Castelnovi, ult.o augusti MDXXIII.

C

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Perchè per sospetto della peste di Fiorenza e di Pisa sono stato consigliato non lasciare che la fiera si faccia, solita essere fatta a questa Nostra Donna di settembre qui a Castelnovo, con mala contentezza di questi uomini dalle ville dintorno: alli quali pure io desidererei satisfare, quando senza pericolo d'infettarsi io pensassi che si potesse fare, di farla almeno alla fine di questo mese, poi che non si è potuta fare a principio: e perchè cognosco V. S. prudentissime, e che non mi siano per consigliare se non fedelmente, mi ha parso, prima ch'io determini altro, di ricorrere a quelle, e pregarle che circa questo si degnino dirmi il parere loro; se sono di parere ch'io facci fare questa fiera a S. Michele, non si innovando altro, o pure che per questo anno io la proibisca in tutto; che tanto eseguo quanto quelle mi consigliano: in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 4 septembris 1523.

[184]

CI

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Lo illustrissimo signor mio mi ha mandata la qui annessa lettera con commissione che io la rimetta per messo a posta a V. S. acciò che ne abbi a riportare risposta: e così per lo esibitore presente, il quale sarà Giovanni da Montepulsano, la mando; il quale Giovanni raccomando a V. S. per certo torto che già li fu fatto, del che il povero uomo è rimaso disfatto: e tutto quello che V. S. li faranno, o per giustizia o per misericordia, tutto serà ben collocato, per essere persona da bene. E a V. S. mi raccomando.

Castelnovi, 8 septembris 1523.

CII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Ieri ebbi una lettera dell'illustrissimo signor mio, per la quale mi commette che io le avvisi di quanto serà seguito circa la cosa di Belgrado; e insieme mi mandò la copia di una lettera, che per questo ultimamente ha scritto a V. S.: sì che, per non mancare del debito mio, mi è parso di mandare di nuovo lo esibitore presente, acciò che mi riporti quanto di questo sia seguìto. Prego V. S. che siano [185] contente di compiacere in questo sua Eccellenza: e in buona grazia di V. S. mi raccomando sempre.

Castelnovi, 17 septembris 1523.

CIII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. V. S. ponno avere inteso come li figliuoli di Piero Madalena da Santo Donnino ammazzaro il conte Carlo e la madre, loro signori, e appresso saccheggiaro la casa; e perchè intendo che queste robe e le loro particolari appresso hanno fuggite e salvate a Gurfigliano, terra di V. S., prego quelle che per amore dello illustrissimo signor mio, che di questo gravissimo delitto si chiama molto offeso, et etiam per la giustizia, siano contente di scrivere subito a chi parrà ad esse, che tali robe siano ritenute come pertinenti allo illustrissimo signor mio, e non comportare in modo alcuno che tornino in mano alli malfattori. E a V. S. mi offero e raccomando.

Castelnovi, 19 septembris 1523.

CIV

Agli Otto di Pratica di Firenze

Magnifici ed eccelsi Signori miei osservandissimi. Non sono ancora due anni ch'un ribaldo detto Giovanni di Pier Madalena, d'una terra di questa ducale provincia detta San Donnino, fece ammazzare il conte Giovanni suo signore e di quel luogo, il [186] quale era da lui riconosciuto in feudo dall'illustrissimo Duca mio; ma la cosa non si è scoperta fin al presente, ch'esso di nuovo accompagnato da alcuni ribaldi ha morto un giovenetto e la madre insieme, figliuolo e moglie del detto conte Giovanni, e totalmente ha estinto quella progenie; e appresso ha saccheggiato la casa, e statovi dentro molti giorni, ed esibitosi come erede: poi finalmente avendomi il mio Ill.mo Signore mandato il braccio di parecchi fanti da poter castigare lui e gli altri delinquenti, si è levato e, secondo che mi è riferito, si è ridotto ad Ugliano giurisdizione di Fivizzano, dominio di Vostre Signorie: e perchè le convenzioni tra il mio Ill.mo Signore e Vostre Signorie sono, che li banditi de l'uno non possano stare nel dominio de l'altro; prego quelle che sieno contente di commettere al suo magnifico commissario di Fivizzano che faccia pigliare questo ribaldo, e preso che sia, avvisarmi, ch'io lo manderò a tôrre, o che per qualche altro modo operi ch'io l'abbia ne le mani, acciò che tanto e sì enorme delitto non resti impunito; ch'io similmente ad ogni requisizione sua e d'ogn'altro officiale di Vostre Signorie serò pronto a far il medesimo e cosa di maggior importanza di questa, quando me ne sia solamente accennato. E in buona grazia di Vostre Signorie mi raccomando sempre.

Castelnovi, 24 septembris 1523.

[187]

CV

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi.

Maestro Giovanni Battista de' Rossi, abitatore a Sillano, mi ha pregato ch'io lo ricomandi a V. S., che, come quelle ponno sapere, ha costì avuto dal potestate una sentenza in suo favore, ma pare che la esecuzione di quella non possa fare venire a capo circa alle spese della lite; e perchè, dove mi è occorso poterlo fare con giustizia, sono stato sempre favorevole alli sudditi di V. S., per quello tanto più arditamente domando il cambio da quelle: e così le prego, prima per la giustizia, la quale per sè debbe essere anteposta a tutti li altri rispetti, e poi per amor mio, per inanimarmi a proseguire di bene in meglio in fare piacere alti sudditi di V. S., che mi occorreno, che siano contente di non patire che più lungamente questo uomo si consumi su l'ostaria, ma farli dare quella più presta espedizione merita la ragione che ha dal canto suo. E a V. S. in maggiore cosa di quella mi offero paratissimo: in buona grazia delle quali mi raccomando. Castelnovi, primo octobris 1523.

CVI

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. L'esibitore di questa è uno nostro da Vergemoli, [188] al quale fu consegnato per dote un poco di selva su quello di Castiglione, e già 4 o 5 anni l'ha côlta: ora li è proibita dal magnifico vicario di V. S., sì come a forestiero, perchè forsi non vuole che il frutto vada fuori del dominio di quelle. Ora avendo io compassione al povero uomo, e parendomi che li sudditi del mio illustrissimo signore siano anco di V. S., e che hinc pro inde debbino indifferentemente essere trattati, lo raccomando a quelle, che sieno contente di non lo lasciare molestare; perchè anch'io sono per fare il medesimo alli sudditi di quelle, che so che hanno e selve e altre intrate da ricogliere in questa ducale provincia: e in buona grazia di V. S. mi raccomando.

Castelnovi, 7 octobris 1523.

CVII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Lo esibitore di questa viene a V. S. per espedire la cosa di Belgrado. E perchè pare che alla liberazione sua resti l'avere la pace da alcuni che si chiamano offesi da lui, io prego V. S. che si degnino di mandare per questi tali; perchè quelle con una parola saranno più atte a fare che la pace segua, che li parenti di Belgrado con ciò che ponno fare. Io testifico a V. S. che la liberazione di lui sarà tanto grata allo illustrissimo signor mio, quanto cosa che al presente potesse avere da quelle, e altrettanto molesta, quando veda che sia menata in [189] lungo; e io in particolare la accumulerò appresso l'altre obligazioni, ch'io ho da V. S.: in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 8 octobris 1523.

CVIII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Io ringrazio V. S. di quanto a' miei preghi hanno concesso a quello nostro da Vergemoli che possa cogliere le sue castagne; ho anco speranza che quando saranno secche e serà per estraerle non li faranno peggio ch'io sia per fare alli sudditi di quelle; ora perchè nel medesimo caso sono molti nostri che hanno similmente selve nel dominio di V. S., li quali mi daranno molto da fare se particolarmente avrò da scrivere per ciascuno; prego V. S. che siano contente di fare una commissione generale a tutti li suoi officiali, che li nostri che hanno selve nelle giurisdizioni loro le possino cogliere senza alcuno impedimento, ma non estraerle senza nuova concessione, che anch'io farò dal canto mio il simile, chè altramente le castagne andarebbeno a male, non essendo chi le cogliesse, e sarebbe dannoso a molti e non utile ad alcuno. E in buona grazia di V. S. sempre mi raccomando.

Castelnovi, 12 octobris 1523.

[190]

CIX

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Io ringrazio V. S. della provvisione fatta circa che li nostri possino côrre le loro castagne nel dominio di V. S., e io anco farò il simile dal canto mio. Circa a quel Belgrado, io avviserò il signore mio di quello che si è fatto e di quanto V. S. mi scriveno. Appresso, lo esibitore di questa è uno lombardo suddito dell'illustrissimo signore mio, il quale ha una selva su questo di Castelnuovo, e aveva côlte certe poche castagne insieme con alcuni altri, e sopra 3 asini le portavano verso casa loro, e su quello di Castiglione insieme con li asini sono loro state levate per commissione di quello vicario. Quasi tutto in un tempo io feci fare qui il divieto che nessuno potesse portar fuora di questa provincia castagne, e appresso, ricercato dal detto vicario di Castiglione, insieme con sua Eccellenza sono convenuto, che trovando portare fuora di questa provincia castagne che ancorchè dicano averle tolte in questa ducale provincia, e che siano senza mia bulletta, che le toglia, che saranno ben tolte; ma perchè prima che io avessi fatto questa convenzione con il detto vicario, già questi poveri uomini, non sapendo essere qui di questo alcuno divieto, avevano levate quelle castagne, e appresso, per essere venuti di nuovo sotto la ubidienza del signore mio, e per questo credendo di poter condurre via roba [191] come piacesse loro, sono caduti in questo errore, il quale appresso di me par che meriti perdono; pertanto io ne ho scritto al detto vicario e pregatolo che restituisca le robe e le bestie. Sua Eccellenza mi ha risposto avere scritto questo caso a V. S., e aspettarne risposta: mi è parso di scrivere anch'io per non tenere questi uomini in tempo; e così prego V. S. che scrivino al detto vicario che renda queste robe, attento che sono state tolte prima della convenzione fatta fra noi, e non importano alcuno danno al paese di V. S., perchè sono robe di questa provincia; e in buona grazia di V. S. mi raccomando.

Castelnovi, 17 octobris 1523.

CX

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. L'avere io scritto più volte a V. S. e da quelle avuto risposta, e l'essere rimaso in buona e ferma conclusione e stabilimento di quanto s'abbia a seguire, ora mi fa star sospeso d'onde proceda che di nuovo siano impediti li passaggi de' sali ad Acconcio, officiale sopra questi per il mio illustrissimo signore, e che li sia bisogno mandare di nuovo a querelarsi a V. S., e a me di scrivere in suo favore. Sia processo d'onde si voglia, prego quelle che siano contente di commettere alli suoi doganieri, di modo che ogni giorno non ci impediscano li sali, e non diano questo incomodo a questi ducali [192] sudditi; chè quando sia sospizione che Acconcio sia per lasciare parte di questi sali nel dominio di V. S., e usare alcuna fraude a danno delle intrate di quelle, esso si offerisce di dare pagatore di 500 e mille ducati costì in Lucca, e cauteggiare in modo V. S. che saranno sicure che grano non ne resterà nel suo dominio: in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 19 octobris 1523.

Acconcio scrive, e mandasi uomo a posta per parlare più diffusamente circa questa materia: prego V. S. che lo espedischino bene e di modo che sempre non si abbi a ritornare da capo, e che per questo non si dia molestia allo illustrissimo signore mio.

CXI

Ai medesimi

Magnifici ac potentes Domini mei observandissimi. M. Giovanni Battista esibitore di questa, per il quale molte altre volte ho scritto a V. S., pure si duole che quantunque sia stato giudicato che la ragione sia dal canto suo, non ne può avere la esecuzione circa le spese; e a me ricorre come a quello che li pare che sia mio officio di avere in protezione lui e li altri sudditi dello illustrissimo signor mio. Per questo di nuovo scrivo a V. S., e le prego che non comportino che li favori di alcuni particolari possino più che la giustizia, e non mi diano esempio che anche io per favorire li miei, quando accada, [193] usi questi modi verso li sudditi di V. S.; perchè dove la ragione vada di pari non sono per mancarvi, quando anco si abbi ad avere più rispetto alli sudditi che a quelle; forse farò secondo me ne sarà dato la norma, pur mi confido che V. S. non mancheranno nè patiranno che la giustizia non abbi il loco suo. Appresso io feci intendere ad Acconcio quello che V. S. mi rispuoseno; esso si offerisce di dare a quelle la cauzione che sia onesta, costì in Lucca; ora ripeto che le mi significhino di quanta somma vogliano che sia la pagarìa; in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 28 octobris 1523.

CXII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes Domini mei observandissimi. V. S. averanno inteso lo assassinamento che fu fatto a Santo Peregrino a quelli figliuoli e nepoti di maestro Andrea da Santo Donnino, suoi cittadini. E perchè ho informazione che uno di questi ribaldi detto Donatello da Sommocolognora, il quale non pure quella, ma molte altre ne ha fatte di simile sorte, ora per essere di nuovo bandito dal dominio de' signori Fiorentini si riduce a Cicerana, e non si potrebbe ire in fallo ch'ivi si troverebbe, mi è parso di darne a V. S. avviso, acciò quelle, parendoli, mandassino secretamente il suo bargello a Fiattone, il quale è loco molto presso a questa Cicerana; e come il bargello fusse mosso, mi mandasseno [194] innanzi lo avviso, che da un'altra via manderei li miei balestrieri, acciò che tutti a uno tempo, cioè di notte, giungessino a Cicerana, che facilmente potrebbe essere che costui e delli altri ribaldi si piglierebbeno quivi, che sarebbe la salute di queste terre e di V. S., e del mio illustrissimo signore. Se anco quelle per la via di Fiattone o di Monte Perpori, e altri loro loci vicini a Cicerana potessino fare andare qualche spia, sì che questi latroni si potessino fare cadere ne la rete, sarebbe opra laudevile. Io non cesserò dal canto mio di fare il simile e avvisarne V. S.; in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 3 novembris 1523.

CXIII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Già molti dì sono che uno Tomeo da Valico di sotto rubò uno mulo ad uno suo zio; e avendo io processo contra di lui, per essere figliuolo di famiglia, non è mai comparito nè stato in loco dove io li abbi avuto potestade sopra. E perchè il povero uomo al quale è stato fatto il danno, il quale è suo zio, ne riceve grandissimo detrimento, e ne potria uscire qualche scandolo, chè li figliuoli di questo a chi è stato rubato potriano offendere o il padre o li fratelli di questo tristo; io, per vietare questo scandalo e per provvedere alla indennità di questo povero uomo, volentieri averei il prefato Tomeo in [195] le mani. E perchè intendo si riduce al Borgo, prego V. S. che commettino a quel suo vicario, che essendoli mostrato lo ritenga a mia instanza, e mandando io per lui, me lo dia nelle mani, perchè è bandito di questa provincia, e secondo li capitoli nostri con V. S. non ponno negare questa grazia; alle quali mi raccomando.

Castelnovi, 6 novembris 1523.

CXIV

Al Duca di Ferrara

in Castris Herberiae.[273]

Ill. ed Ecc. Sig. mio. Subito ch'io ebbi una di V. S. data a' dieci di questo, la quale mi fu portata per un di Frignano a' XVI, subito mandai una persona di qui assai destra a Pescia e indi a Pistoia, e per altra via ho cercato ed ho avuto avviso da Pisa e da Pietrasanta, e per un'altra da Barga, e non trovo che in alcuno di questi luoghi si faccia o s'intenda ch'in altra terra di fiorentini si faccia gente d'alcuna sorte. Solo passando di qui un fante di questo paese cercava di comprare certi scoppietti: gli fu domandato che ne voleva fare: [196] rispose che Polinoro da Vallico, uomo pur suddito di V. Ecc., aveva commissione da uno che guarda la porta di Pietrasanta di fare 150 fanti, con li quali aveva a passare in Lombardia per la via di Fornovo per entrare in un castello di non so che gentiluomo; ma non sapeva esprimere il nome nè il loco: pur non ho poi sentito altro, e credo che anco questa sia una fola. È ben vero che questo Polinoro è molto del conte Guido Rangone,[274] ed è stato molto tempo con lui soldato in Modana e altrove. Io avrei mandato per lui, ma non si lascia trovare per essere molto fitto di debiti in questa terra. Se pare a V. Ecc. che s'abbia a rinnovar la grida che nessuno possa ire al soldo fuore, me ne dia avviso: io la feci bene a' dì passati ancora ch'io non n'avessi commissione. Li esibitori di questa seranno il Moro dal Sillico e li altri fratelli de li quali a' dì passati V. Ecc. mi scrisse che io facessi che venisseno in campo, che darebbe lor soldo. Si escusano se fin qui hanno differita la loro venuta: è stato per povertà e non avere avuto il modo di levarsi; il che molto ben ho lor creduto perchè so che sono poveri. Ora che hanno colte certe loro castagne, che è quella poca facultà che hanno, vengono. [197] Se V. Ecc. darà lor recapito, credo che ne avrà buon servizio, perchè credo che sieno valenti e fidelissimi a chi servono. Altro non occorre: in buona grazia di V. Ecc. mi raccomando sempre.

Castelnovi, XX novembris 1523.

Io feci che Pierino Magnano scrisse a Pistoia ad un suo amico fingendo che aveva sentito che vi si dava danari, il che essendo vero voleva mandare certi suoi amici a pigliarne. Questa è la risposta ch'io mando qui inclusa.

CXV

Al medesimo

in Castris Herberiae.

Ill. ed Ecc. Sig. mio. Io ebbi una di V. Ecc. dì 3 di novembre, non ieri, l'altro[275] che n'avâmo 21. Il portatore fu un prete che mi disse averla avuta da uno da Sillano, che diceva averla avuta da un altro, la quale era in risposta di molte mie. Replicare non mi accade altro, se non circa quelli assassini che praticavano a San Pellegrino, che se io per me fossi sufficiente a farli pigliare, non domanderei a V. Ecc. aiuto; ma li balestrieri ch'io ho qui non sono atti a farlo, chè li assassini prima sono [198] più di loro, poi quando li balestrieri si partono di Castelnovo, come altre volte ho scritto, li avvisi corrono subito intorno, e sempre vanno indarno. Questo Donatello e Ceccarello, capi di questi ribaldi, al presente sono stati di novo banditi dal Commissario di Barga e molto perseguitati da lui. Lui ha scritto a me, ed io a lui per averli ne le mani: non so come la cosa succederà. Si eran ridotti a Cicerana, terra di V. Sig.ia qui presso a 4 miglia, e qui stavan sicuri perchè v'avevan le spalle di questi figlioli di Pellegrino dal Sillico e altri banditi che tuttavia stanno in quel loco. Ora che li figlioli di Pellegrino erano per venire a trovare V. Ecc., che non so se saranno venuti, rimarranno disarmati de le migliori difese che avevano, e forse quello che non si è potuto far sin qui, ora si potrà fare. Ma quando anco fosseno stati sì arditi che fusseno venuti in compagnia loro a trovar V. Ecc., quella potrà fare quello che le parrà il meglio. Dicole bene che ha una bella occasione di purgare questo paese di molte male erbe, chè credo che anco quel Battistino Magnano, che appresso a Bernardello è il maggior assassino che avesse questo paese, si trovi al soldo di V. Ecc., o se non v'è al presente è stato male a lasciarlo partire, chè pur intesi che v'era. E ben vero che questo paese resta ancora senza questi con qualche bandito, ma non sono assassini come questi altri.

Circa a quelli di Pier Madalena, poco più gioverà loro il lor clericato, perchè furon banditi la forca e confiscati li lor beni, come n'ho scritto diffusamente [199] a Mess. Bonaventura.[276] Io scrissi al Commissario di Fivizzano per avere Gian Madalena che allora era in quel loco, e mai non me n'ha dato risposta. Adesso non so dove sia, ma me ne informerò più certo, e ne avviserò V. Ecc.

Appresso mi venne una lettera da Lucca che mi avvisava come Medici era creato papa;[277] la qual nuova come si udì da questi di Castelnovo, parve che a tutti fosse tagliata la testa, e ne sono entrati in tanta paura, che fûro alcuni che mi volean persuadere che quella sera medesima io facessi far le guardie alla terra; e chi pensa di vendere, e chi di fuggir le sue robe. Io mi sforzo di confortarli, e dico lor ch'io so che stretta amicizia è tra V. Ecc. e Medici, e che non hanno da sperar se non bene. Mi è parso di darne a V. Ecc. avviso, acciò che se quella ha qualche cosa con la quale io possa lor dar buono animo, si degni di significarmela, e se non l'ha, almeno di fingerla. Altro non occorre. In buona grazia di quella mi raccomando.

Castelnovi, 23 novembris 1523.

CXVI

Al medesimo

Ill. ed Ecc. Signor mio. Mentre io andavo investigando come informarmi di certo dove si trovasse Gian Madalena per avvisarne V. Ecc., secondo che [200] Ella per la sua dì 3 di questo mi avea commesso, mi è stato riferito come ier sera, che fu lunedì, giunsero a S. Donnino, cioè Giovan Madalena e li fratelli Olivo e Nicolao da Pontecchio e quell'altro che intervenne all'omicidio del conte Carlo, detto il Sartarello, e Genese, il quale già ammazzò il conte Giovanni, e altri che sono circa a 14, e così vi si ritrovano al presente. Li balestrieri non sariano atti non che a pigliarli, ma nè ad affrontare,[278] massime in quel loco, dove sono in le case che pretendono che siano loro, e in quel Comune dove sono più favoriti che non v'erano quelli poveri Conti. V. Ecc. si degnerà avvisarmi quanto le parrà ch'io faccia o possa fare: in bona grazia de la quale mi raccomando. Castelnovi, 24 novembris 1523.

CXVII[279]

A Messer Bonaventura Pistofilo[280]

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Questo Coiaio, del quale ho scritto, sta pur in questa terra e si lascia vedere, e dubito che domani [201] che è il giorno del mercato si farà vedere su la piazza. Io non posso pensare che questa presunzione venga da altro che sia qualche trama, che se li balestrieri si movano per ire a pigliarlo, di far lor danno e vergogna, e dar forse principio a qualche ordine già tramato con Barghesani. In fin ch'io non ho avviso da voi, son per serrar gli occhi, chè credendo di far bene, non vorrei far male. Quando il Sig. nostro avesse buona intelligenza col papa novo e con Fiorentini, e non dubitassi di cose nove, saria di far di due effetti uno: o mandar qui fin a XXV fanti, o scrivermi ch'io comandassi Bastiano suo zio e tutti li Coiai, cioè Nicolao, Bartolomeo e Fantino e Bernardino tutti fratelli di Franceschino, dinanzi a Sua Ecc., sotto quella pena che gli paresse, perchè in casa loro si riduce e si è ridotto altre volte. Le alligate mandavo per uno da Molazzana, ma è ritornato indrieto con le lettere, perchè dice tra via avere inteso che 'l Sig. nostro si è partito da Reggio e va verso Milano. Per questo io mando questo messo a posta che vi venga a ritrovar dove voi siate. A V. Magn. e a Mess. Obizzo ed alli amici mi raccomando.

Castelnovi, 26 novembris 1523. Lud. Ariostus.

Scrivendo il Sig. ch'io comandi costoro a Ferrara, vi prego facciate che non paia a mia instanza, ma sì bene ch'io abbia avvisato che questo Franceschino sia stato qui.

Fuori — Al Magn.o mio hon.o Mess. Bonaventura Pistofilo ducale Secretario ecc.

[202]

CXVIII

Al Duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Signor mio. Oggi uno mandato da gli uomini di Meschioso mi ha dato una lettera di V. Ecc., per la quale mi commette ch'io lasci a quelli uomini cavare di questa provincia tutte le castagne che hanno côlte ne le selve lor proprie o in quelle che hanno condotte ad affitto. Prima ch'io abbia dato lor licenza, ho voluto avvisare V. Ecc. che questa provincia si truova in gran carestia, chè ora il frumento si vende 20 bolognini il staiolo, assai minore del nostro staro di Ferrara, e le castagne, perchè ne sono state pochissime, sono in più prezzo che sieno ancora state poi ch'io son qui. E già son fatti cinque o sei mercati, che in tutto non è comparso più ch'un sacco di grano. Intorno intorno tutte le tratte son serrate, che da nessun luogo ne può venir granello. Di Lombardia, che forse ne potria venire, non ne compare se non pochissimo; nè anco ce ne verrìa, se non fosse ch'io ho fatto un ordine, che chi porta uno staro di frumento o d'altro grano, può portar fuori due di castagne. Se V. Ecc., inteso che abbia questo ch'io scrivo, sarà pur di volontà ch'io lasci portar fuori le castagne a tutti li sudditi lombardi suoi, io la ubbidirò, ma questa provincia si affamarà di modo che di questo avrà poco obbligo a V. Ecc. Queste proibizioni c'ho fatte sono a mio danno; ma ho preposto l'utile comune al mio, perchè per ordine [203] antico li Commissari pigliano tre quattrini di ogni soma di roba da mangiare che va fuori. V. Ecc. comandi, alla quale mi raccomando.

Castelnovi, 26 novembris 1523.

CXIX

Al medesimo

Ill. ed Ecc. Signor mio. Perchè a' dì passati V. Ecc. mi commise che s'io sentivo che di qua si facesse movimento alcuno io gli dessi avviso, ora gli fo intendere come le genti d'arme de' Fiorentini si raccolgono a Pisa, cioè genti a cavallo, e si sono cominciate ad inviare a pezzo a pezzo. A Pietra Santa ne alloggiaron certi pochi, e dicevano quelli, che aspettavano cinquecento cavalli per dirizzarsi alla volta di Lombardia. Non m'ha saputo dir colui che ha portato l'avviso, se siano uomini d'arme o cavalleggieri, se non che erano tutti coperti a ferro. Bastiano Coiaio m'ha detto questa mattina che anco a Pisa si dà denari a' fanti. Manderò oggi persona a posta ad informarmi meglio: intanto ho voluto mandare questo messo, sì perchè porti questo avviso, sì anco perchè desidero risposta di molte lettere che a' dì passati scrissi. Avevo mandato un altro, ma non è stato ardito di passar Reggio, e mi ha riferito che le strade son rotte, e che ha mandate le lettere per via di Mess. Ieronimo Nasello. In buona grazia di V. S. mi raccomando.

Castelnovi, 8 decembris 1523.

[204]

CXX

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici e potenti miei signori osservandissimi. Avendo il vicario di Gallicano ricercatomi ch'io facci pigliare a sua instanza uno Agostino di Piero Andrea da Verni, l'ho fatto pigliare e l'ho nelle forze mie ad ogni riquisizione di V. S.; con speranza che abbino a fare il medesimo, quando alcuni delli banditi di questa provincia ducale vengano nel suo dominio. Poi ch'io l'ho fatto pigliare, li uomini nostri del comune di Carreggine mi hanno fatto gran querela di questa cattura, dolendosi ch'essi lo avevano fatto venire per condurre una certa pace nel loro comune, e esso era venuto sicuramente non sapendo della convenzione e capitoli che sono fra V. S. e lo illustrissimo signor mio, e per questo mi facevano instanza ch'io lo lasciassi; e vedendo ultimamente che senza volontà di V. S. io non sono per lasciarlo, mi hanno pregato ch'io scriva a quelle in suo favore, e ch'io lo raccomandi. Quello ch'importi il suo caso io non so; io vorrei far piacere ad ogni uno, ma non mai contra la giustizia. Quando, lasciandolo, e per questo succedendo questa pace nel comune di Carreggine, abbi ad essere più utile che a punirlo delli delitti che li sono imputati, prego V. S. che siano contente che io lo lasci: quando sia anco altrimenti, quelle faccino e disponghino come loro pare, ch'io non mi partirò dalli comandamenti loro; in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 24 decembris 1523.

[205]

CXXI

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Io ho consegnato il prigione al barigello di V. S.; quelle ne disporranno quello che a loro piacerà; e non solo in questo, ma in ogni altra cosa, dove io crederò di far piacere a V. S., sarò sempre prontissimo, con fiducia che quelle abbino a fare il medesimo verso il signore mio: bene le prego che il capitano e li balestrieri nostri che l'hanno preso e condurranno sino al Borgo, siano raccomandati a V. S., che non faccia loro peggio che il signore mio, che di ogni cattura di bandito vuole che il capitano abbi 4 ducati, e li balestrieri uno ducato per uno: e perchè a questi balestrieri è stato detto che questo prigione ha certa taglia drieto, quando sia vero, non dubito che V. S. siano per mancare: di ogni cosa che a me ne pervenisse ne fo un dono a V. S.; in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 27 decembris 1523.

CXXII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. L'esibitore di questa, Giovanni da Santo Nastasio, è quello al quale V. S. ai miei preghi concessero di cogliere una sua selva che ha nella vicarìa di Castiglione; ed io mi contentai allora di questo, con [206] speranza di fare che poi permutasse le castagne côlte con qualcuno de' sudditi di V. S., che similmente avesseno selve in questa ducale provincia; ma li sudditi di V. S. sono stati più cauti, che hanno estratto, non so come, le loro castagne senza che io sia stato richiesto a dare loro licenza, o che io abbi saputo; nè questo povero uomo è per avere le sue castagne per permutazioni, ma bisogna che le ottenga di grazia; e per questo io lo recomando a V. S., e le prego che esso (non ostante alcuno divieto) possa avere il suo, offerendomi, quando accada, ricompensare li sudditi di V. S. in maggior cosa di queste: alle quali mi raccomando.

Castelnovi, 27 decembris 1523.

CXXIII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Lo esibitore di questa è un povero uomo, il quale fu condotto da uno lombardo ad andare a caricare certe castagne che erano a Massa, qui di mia giurisdizione, per portarle in Lombardia; ed esso povero uomo avendo tolti li asini in presto, e credendo che colui che lo aveva condotto avesse licenza, lo andò a servire; e quando fu su quello di Castiglione, li fu dalla famiglia del vicario tolto li asini e le some; e avendo allora dato sicurtà di rapresentare detta roba, li furono restituiti li asini. Ora la sicurtade è astretta a rapresentare li asini, come esso più diffusamente conterà il caso suo, del quale il vicario [207] di Castiglione è benissimo informato, e mostra di averli compassione non meno di me; pur si recusa chè quello che esso ha fatto non può tornare in drieto senza grazia di V. S. Io raccomando sommamente questo poveretto a V. S., il quale non ha al mondo cosa che sia sua, se non grave famiglia, alla quale, affaticandosi e stentando, fa le spese al meglio che può: e da una parte li è minacciato da colui di chi sono li asini; e dall'altra, dal lombardo di chi erano le castagne, che è uomo di pessima sorte. Prego V. S. che per clemenza e pietà, e attento la innocenza e povertà di costui, e appresso per mio amore, sian contente di farli restituire tutto quello che li è stato tolto, offerendomi anch'io, quando troverò alcuni delli suoi sudditi in simile fallo, d'averli per amore di V. S. misericordia: in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 12 ianuarii 1524.

CXXIV[281]

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Signor mio. Ho visto quanto V. Ecc. mi commette circa la lettera per la quale a' dì passati [208] ella m'avea dato autorità di poter far accordi e composizioni, acciò che questi sudditi fuggissino li dispendi della giustizia, e che s'io l'ho fatta registrare ch'io la cancelli... Se V. Ecc. ha volontà che questa lettera si cancelli di su il registro, lo può ottenere, non già con mio biasimo, ma più presto con mio onore, e cioè differendosi a far tal cancellazione finchè io esca di officio. Frattanto io non m'interporrò in alcuna cosa sicchè il Capitano si lamenti ch'io gli turbi il suo guadagno: poi alla mia partita, rivocando una tal lettera, non si farà carico ad alcuno, anzi io ne guadagnerò qualche onore, mostrando che quella abbia avuto in me quella fede che poi non vorrà avere ne gli altri: e perchè V. Ecc. non creda che questo abbia ad essere lungo tempo, si ricordi che a' sette giorni di febbraio prossimo saranno compiuti due anni ch'io sono in questo officio,[282] il quale volentieri muterei [209] in un altro dove io fossi più vicino a quella, quando con sua bona grazia io potessi farlo; come sarebbe il Commissariato di Romagna, che per qualche pratica ch'io ho pur imparata qui in Grafagnana mi darìa a sperare di far meglio quello officio ch'io non ho saputo far questo; ed in buona grazia di V. Ecc. mi raccomando sempre.

Castelnovi, XII jan. 1524.

CXXV

Al medesimo

Ill. ed Ecc. Signor mio. Se ieri avessi saputo che 'l Capitano de la Ragione qui di Castelnovo fosse per venire a Ferrara, non mi sarei trattenuto in lungo a scrivere a Mess. Bonaventura la mala condizione in che si truova al presente questo paese per causa di cinque o sei ribaldi che sono ritornati al loro solito esercizio, perchè, meglio ch'io non lo posso scrivere, il Capitano prefato, così bene informato come io del tutto, lo potrà riferire a bocca; e forse troverà più credenza che non hanno fatto sin qui le mie lettere. Solo prego V. Ecc. che per onore e utile suo e salute di questa provincia sia contenta di ascoltarlo circa li portamenti che fa Bernardello con sèguito di qualche altro, e come si portano quelli di Pellegrino dal Sillico, che qui si dice c'hanno avuto la grazia da V. Ecc., e di quello che di nuovo fa Battistino Magnano con Donatello, Ceccarello e altri assassini publici e in che disperazione si truova questo paese, il quale estima [210] non essere in alcuna memoria di V. Ecc. Altro non occorre. In buona grazia di quella mi raccomando.

Castelnovi, 21 jan. 1524.

CXXVI

Al medesimo

Ill. Sig. mio. Se V. Ecc. avesse avuta una mia lettera per la quale significavo che colui ch'era venuto in favor di Ser Tomaso Micotto in nome della Vicarìa di Trasilico, era stato mandato da alcuni pochi che sono con il lor potestade in liga a rubare e a scorticare il resto de la Vicarìa, non credo che fosse stato prestato più fede a quella lettera che falsamente era in nome di tutta quella Vicarìa, che alle mie che non contengono mai falsità nè bugia alcuna. Io avevo data quella lettera ad uno da Cicerana il quale penso che la portò in luogo ove fu aperta e non lasciata andar più innanzi, e credo che sia rimasa qui in Castelnovo. Pur ritrovandosi il Capitano di Castelnovo costì, e volendo V. Ecc. pigliare informazione che uomo sia detto Ser Tomaso, e quanto tirannicamente e contra la volontà de li tre quarti di quella Vicarìa occupa quello officio, esso Capitano ne potrà dare vera informazione a quella; e se anco gli pare di far scrivere a qualche uomo da bene particolare in questa provincia e dimandare informazione di costui, credo che tutti riferiranno a una voce che gli è un tristo: salvo Pierino Magnano che è suo cognato, che però se gli è dato sacramento non lo [211] sapria negare, e Bastiano Coiaio che pur non ne diria male, parte perchè è cognato d'un suo parente, parte chè sua natura è d'avere la protezione de li Micotti; tutto il resto si concorderìano meco... A me pare se nella elezione di questo podestade si avesse a chiamare un uomo per casa e alla presenza del Commissario s'avesse a porre il parere per ballotte, che così la cosa succederìa senza fraude, ma dove solo si ha da chiamare li sindici ed officiali de li Comuni che lo eleggano, li poveruomini ne restano fraudati, perchè tutti questi sindici ed officiali ogn'anno si eleggono per volontà di officiali e sindici vecchi e del podestà, sicchè averanno Ser Tomaso: e chi tien con lui disegnato di continuare nel suo officio ha procurato che siano fatti sindici e officiali quelli che san che saranno in suo favore, e adesso son certi che non cesseran per mezzo di parziali e per tutti gli altri nominati di confermare questi elettori nella sua intenzione; e però se un uomo per casa avesse da dare il suo parere a ballotte, nessuno potria essere ingannato.[283] Esso spiera che al tempo che sarà il termine del suo officio io non abbia ad esser qui, e che avrò avuto il successore, e che poi guiderà le cose meglio a suo modo che non potrà fare essendoci io, come mi è stato riferito che Bastiano Coiaio ha detto. Non avendo a star qui, quando fosse con buona grazia di V. Ecc., e trovandomi da quella provveduto o d'altro officio [212] più vicino, o di esserle appresso con conveniente condizione, io avrei di gradimento il levarmi: non di meno, o dovendo star qui o dovendo partirmi, sempre desidererei che la giustizia avesse luogo.... V. Ecc. determini quello che le pare: a me basta di essere scaricato appresso a Dio e agli uomini che vedono come le cose passano, che per me non altro si cerca che la giustizia abbia luogo; e in buona grazia di V. Ecc. mi raccomando sempre.

Castelnovi, 23 jan. 1524.

CXXVII

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Io ringrazio V. S. di quanto mi hanno scritto, che per mio amore sono contente che li asini e le castagne siano rendute a questo povero uomo esibitore di questa; ma maggiore saria l'obbligo mio, se fosse seguito lo effetto. La ragione, perchè il vicario di Castiglione non abbia voluto rendere le castagne, non so; nè di lui mi vo' dolere, non la sapendo: pur la compassione che io ho a questo povero uomo, che ogni dì mi torna a piangere dinanzi, mi sforza di nuovo raccomandarlo a V. S.; le quali prego che, veduto il bisogno del poveretto e il poco guadagno che di questo può risultare a chi li ritiene dette castagne, faccia che il dono, che già m'hanno fatto, abbia esecuzione: in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 26 ianuarii 1524.

[213]

CXXVIII[284]

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Sig. mio. Se V. Ecc. non mi aiuta a difendere l'onor de l'officio, io per me non ho forza di farlo; chè se bene io condanno e minaccio quelli che mi disubbidiscano, e poi V. Ecc. li assolva o determini in modo che mostri di dar più lor ragione che a me, essa viene a dar aiuto a deprimere l'autorità del magistro.[285] Serìa meglio, s'io non ci sono idoneo, a mandare uno che fosse più al proposito, chè guastando tuttavia quello che bene o male io faccia si attenuasse la maestà del Commissariato, sì come è accaduto ne la rivocazione de la lettera già registrata, come ne l'assoluzione di Ser Tomaso e confirmazione ch'abbia a proseguire l'officio fin al suo termine, e altre cose che non voglio ora replicare. Se tali ignominie si facessino a me solo, non ne farei parola, perchè V. Ecc. mi può trattare come suo servo; ma ridondando tali incarichi più ne l'onor de l'officio, e susseguentemente [214] a far le persone con chi ho da praticare più insolenti verso li lor governi, non mi par di tollerarlo senza dolermene a V. S. — Di nuovo V. Ecc. può avere inteso, perchè n'ho scritto a Mess. Bonaventura[286] (se quella lettera sarà però giunta prima di questa), come quelli da le Verugole hanno prigione quel Genese che ammazzò il conte Giovanni da S. Donnino, ed io mandai subito subito un messo e poi li balestrieri per farlo condurre qui. Essi ricusâro di darmelo, dicendo che n'aveano avvisato Mess. Bonaventura, e finchè non avessino la risposta non erano per farne altro. Parendomi che non ci fosse l'onore de l'officio, replicai con lettere che essi lo conducessino qui, e mettessino per loro chi volessino che intervenisseno alli esamini, ch'io non ero per farne se non quanto volea la giustizia. Non mi hanno rescritto altro, se non che m'hanno mandato a dire a bocca pel messo, che non me lo vogliono dare; e hanno di più usato parole prima alli balestrieri e poi al secondo messo, che sanno che io avevo preso denari da li Madaleni, e per questo io non avevo fatto bruciare le lor case, e che dubitano che s'avrò questo Genese in mano io lo lasci per danari. Se appresso all'insolenze che per tutto il paese fanno questi di Simon prete, come V. Ecc. ne debbe saper qualche cosa (che già non è mancato per me di darne avviso), e al tenere di continuo banditi ne le rôcche appresso a Bernardello, ancora V. Ecc. vuol comportare che non rendano [215] ubbidienza al Commissario, prego quella che mandi qui uno in mio luogo che abbia miglior stomaco di me a patire queste ingiurie, che a me non basta la pazienza a tollerarle. Io non so quello che V. Ecc. determini circa a Bernardello, che non avendo pace da alcuno de' suoi nimici, de' infiniti che n'ha, debbia stare nel paese dovunque voglia, e col favore di questi da le Verugole avere sempre sèguito di compagnia armata, e ne' suoi bisogni aver ricorso ne la miglior fortezza che in queste parti abbia V. Ecc., e tuttavia sèguiti di mettere taglie, come altre volte n'ho scritto ed anco mandato a dire a bocca pel Capitano de la Ragione. Ma se nè a questo, nè alli assassinamenti che fa Battistino Magnano e Donatello e altri ribaldi, che hanno preso il campanile di Carreggine e vi sono stati parecchi giorni dentro come in una lor fortezza, non pare a V. Ecc. di provvedere, io non me ne debbio pigliar più cura che essa voglia. Ma dove importa tanto smaccamento de l'onor mio, io vuo' gridare e farne instanza, e pregare e supplicare V. Ecc. che più presto mi chiami a Ferrara, che lasciarmi qui con vergogna: in bona grazia de la quale mi raccomando.

Castelnovi, 30 jan. 1524.

Appresso, il messo c'ho mandato la seconda volta mi ha riferito, che Bernardello dice c'ha preso costui come suo nimico e ad instanza d'un grande uomo, e che non è per darmelo. Poi il prete da le Verugole ha detto avere avuto due lettere da li [216] officiali de' Lucchesi, sul qual territorio l'han pigliato, che fanno instanza che sia lasciato per un salvocondotto ch'avea questo Genese da' suoi Signori, e già cominciano questi da le Verugole a porre in disputa se costui sia ben preso o mal preso, come essere n'abbiano essi li giudici.

CXXIX

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes Domini mei observandissimi. Uno suddito di V. S., portando certe castagne da Castiglione, quando fu su quel di Massa di questa ducale provincia, li furono tolte, insieme con le bestie su che le portava, da uno di Massa; e dolendosene a me, e avendo io fatto chiamare questo da Massa, e interrogatolo, perchè avesse usata questa violenza, mi disse, perchè il simile era stato fatto a lui a Lucca, di certe some di sale che portava da Pisa. Io, senza volere ammettere alcuna sua ragione, feci che subito restituì le some e le bestie al suddito di V. S., e anco lo averei castigato, se non che molti uomini di questa provincia insieme con lui si lamentavano, che dalli dazieri di Lucca erano questi ducali sudditi molto male trattati, e nel sale e ne l'altre mercanzie, che li passaggi erano loro proibiti, e anche il pagamento delle gabelle accresciuto più del dovere, e che da V. S. non potevano avere ragione, ed era forza che molti facesseno come avea fatto questo da Massa, di rivalersi dove potevano, e che già per questo erano ricorsi [217] all'illustrissimo signor Duca nostro, e che avevano portato una lettera direttiva a V. S. Io li confortai dunque, poi che avevano questa lettera, che la mandassino per uomo a posta, e che intendessino il parere di V. S.; che credevo che tal violenze, di che essi si lamentano, non erano di loro volontà, ed ero certo che quelle non erano per comportare alcuna ingiustizia; e così il messo si manda con lettere ducali con speranza di ottenere da V. S. ogni cosa licita e onesta; le quali appresso prego che siano contente di fare restituire il suo sale a questo da Massa: in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 18 februarii 1524.

CXXX

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Ancora che mia natura sia di non intercedere per alcuni delinquenti, non di meno essendo io pregato da molti amici, ed essendo anche l'uomo per chi si prega suddito per origine dell'illustrissimo signore mio, sono sforzato a pregare quelle, si voglino degnare per amor mio, e per la osservanza che io loro porto, di rimettere e perdonare la condennazione fatta ad uno Geminiano di Cristoforo da Ricovolto, abitante al presente in Coreglia, per avere esso estratto castagne e farina di detto loco contro li divieti di V. S.: e tanto più mi induco a pregare quelle, perchè esso Geminiano mi dice [218] avere fallato per esempio di molti altri che hanno fatto il simile, e se avesse creduto di fare dispiacere a V. S., non saria incorso in tal fallo, ma più presto averia fatto, come è solito, che avria portato vittuaglia in detto loco. Prego quelle adunque si degnino avere raccomandato detto Geminiano: in buona grazia delle quali sempre mi raccomando.

Castelnovi, 27 februarii 1424.

CXXXI

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Circa quanto V. Ecc. per ricuperazione de l'onor mio ha determinato che s'abbia a far quando sarà tempo di confirmare o di eleggere di nuovo il potestà di Trasilico, io ne resto molto ben contento e satisfatto da quella, alla quale rendo infinite grazie, così di questo, come anco di aver commesso che Genese mi sia dato ne le mani, il quale prima che le lettere di V. Ecc. sien giunte io l'avevo avuto, e così l'ho nel fondo de la torre con li ferri a' piedi, nè temo che mi sia tolto perchè non mi fidarò a compiacenza d'uomo del mondo alleggerirgli la prigione, come io feci al Moro dal Sillico. Domani fo pensiero di cominciare ad esaminarlo, chè qui è rimaso luogotenente della Ragione un Mess. Achille Granduccio di questa terra, il quale già fu giudice al Maleficio a Ferrara, che serà ottimo per tale officio perchè c'è pratico e uomo da bene, e tratto le cose tuttavia con lui. Se poi V. Ecc. vorrà mandare il Commissario del Frignano [219] o altri, il potrà fare: ma non accade perchè Genese è già condennato la vita per la morte del conte Giovanni, che Mess. Ludovico Albinello allora Capitano lo ebbe condennato, e la condennagione appare sul libro de' Maleficî, sì che non accade a darne altra sentenza, e quand'anco occorresse, questo Mess. Achille si offerisce di far il bisogno. Il Commissario di Frignano non potria venir qui senza spesa di questa provincia, e questi uomini fuggono le spese più che ponno. Se a V. Ecc. pare che facciamo la cosa da noi o pur si aspetti altro mandato, quella faccia il voler suo.

Se contra Simon prete io avessi scritto alquanto gagliardamente, tratto un poco dal sdegno che mi negassino di dar questo prigione, io mi emendo, e non voglio dar la colpa a Simone, perchè so che sua intenzion era di darmelo subito che io lo richiedetti, ed anco gli altri suoi figlioli c'hanno più senno erano del medesimo parere; ma solo il prete, il quale ha assai de l'arrogante, e si tien troppo savio, vietava insieme con Bernardello e altri simili a lui, che non mi fusse dato. Quando ho mandato a tôrre il prigione, Bernardello assieme col prete erano andati non so dove. Simone mi aveva mandato a dire ch'io lo mandassi a tôrre, e poi facendomi molte scuse e domandandomi cento perdonanze lo consegnò alli balestrieri. Serà ben fatto, a mio parere ed anco di Simone, a non lasciare che Bernardello entri per qualche tempo in quelle rôcche, perchè è con troppo dispiacere di tutto il paese ch'un scellerato come quello abbia ad abitarvi. E [220] se per avere già morto Bertagna e... merita qualche grazia, secondo le gride che furono fatte, s'intende però (siccome anco fu da me publicato) ch'abbia grazia avendo le paci dalli suoi nemici, e intanto si può contentare d'un salvo condotto, ma non che debbia andare per tutta la provincia a suo modo.

Circa gli altri banditi, sono stati (come il Capitano ne ha riferito a V. Ecc.) un gran pezzo a Cicerana e poscia a Carreggine, e stati qualche giorno qui fortificati nel campanile de la chiesa, poi sono ritornati a San Romano, ove stanno il più del tempo in la canonica di quella chiesa, la quale serve a ricetto di Pierino Magnano: e quando li balestrieri sono iti a tôrre questo prigione, dicono d'averli veduti da lontano che erano circa diciotto, e mai non vanno in meno di XV, e sempre dove vanno si riducono alle chiese, e qui, da chi per amicizia, da chi per paura, si fanno portare mangiare assiduamente da gli uomini de la terra, e per questo io non posso condennare nè li Comuni, nè li uomini particolari, chè non si può provare che altrove abbiano recapito che da li preti, contra li quali io non ho autorità; e già l'ho domandata alli Vescovi di Lucca e di Sarzana, e non me l'hanno voluta dare. Io non veggo modo alcuno da farli dar ne la rete, perchè li nostri balestrieri non sono atti affrontarli per sè. Chi domandasse soccorso a' Lucchesi e Fiorentini, non credo che mandassino lor bargelli fin qui per esser troppo discosti, e quand'anco li mandassino, non potrebbero mandarli tanto secretamente [221] che li banditi non fossero avvertiti, sicchè avriano tempo di levarsi; nè uomini del paese mai crederei di poter mandare che non fusson di fazione; e qui tutte queste famiglie hanno uno ordine, che come una fazione si muove, subito quelli de la diversa parte avvisano li lor seguaci in l'altre terre. Circa questo già son parecchi dì che il Commissario di Barga è meco in pratica ch'io lo tenga avvisato dove questo Donatello e Battistino e li compagni si riducono, e che quando mi manderà un uomo il quale già io conosco ed è de la fazione contraria di questi ribaldi, ch'io mandi subito li balestrieri, perchè avrà in ordine parecchi uomini da prendere li assassini. Io non ho mancato di far sempre il debito, ma non siamo mai venuti a concluderlo, chè le notizie di ogni mossa si spargono subito in questa terra, e di qui volano dove poi bisogna. Se questi balestrieri fussino dieci o dodici fanti, sicchè senza richiedere uomo del paese io potessi porne venticinque insieme, il Capitano de li balestrieri mi dice che anderia per tutto, e non lasceria fermare questi tristi in luogo alcuno. E avendo questo braccio, bisogneria un'altra cosa a mio giudicio: che il detto Capitano avesse commissione da V. Ecc. che tutti quelli luoghi dove trovasse che banditi fussino allogati, e tanto se ci fussino o non ci fussino li banditi allora dentro, cacciasse subito il fuoco, e massime in le canoniche de le chiese, e mostrasse il Capitano farlo come da sè. Io son stato più volte in animo di far bruciar questa canonica di S. Romano, che non è mai sì [222] povera che non abbia qualche bandito, e già due o tre volte v'ho mandato li balestrieri senza prenderne alcuno, chè quando sono intrati dentro hanno trovato essere il letto caldo, e non è possibile che 'l bandito non vi fosse allora; pur tutta la terra è stata unanime a negare di averlo veduto. Questo San Romano è luogo alto, chè uomini non vi ponno ire che non sieno veduti. Io, come ho detto, avrei voluto comandar che brugino quella canonica, poi ho avuto timore che quel Mess. Nicolò che è sollicitatore a Roma non soffra qualche fastidio in Roma: ma se V. Ecc. comanda al Capitano quanto ho detto, saria un'opera santa; e far altrettanto al prete da Sillano, a quel da Ogno, da Cicerana, da Carreggine, e finalmente a quante chiese sono in questo paese; chè tutte, parte perchè li preti voglion così, parte perchè non ponno fare altrimenti, servono a ricetto di banditi.

Poi che V. Ecc. mi scrive che 'l Commissario di Frignano è per venire prima a Ferrara che possa venir qui, io differirò di mandargli la lettera a lui direttiva,[287] finchè da V. Ecc. avrò altro avviso. Circa al salvocondotto che questo Genese diceva avere da' Signori Lucchesi, ho già provvisto sicchè non mi potrà ostare; nè per quanto intendo li Signori [223] Lucchesi l'avevano fatto, ma l'officiale del luogo dove fu preso, il quale avrà pazienza.

Giorni sono V. Ecc. per un'altra sua mi commise ch'io comandassi a Porfirio e Polinoro da Vallico di venire a trovare V. Ecc., e così mandai subito li comandamenti al Potestà di qui che li mandasse a Vallico, ed oggi m'ha riferito di averlo fatto, e che Porfirio l'ha avuto in persona, quell'altro, cioè Polinoro, l'ha avuto alla casa. S'altro avrò da aggiugnere a V. Ecc., lo farò per altre lettere, che questa è lunga anche troppo: in bona grazia de la quale mi raccomando.

Castelnovi, VIII martii MDXXIV.

CXXXII

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Li esibitori di questa sono poveri uomini di questa ducale provincia, li quali, per la gran carestia che è in questo paese, erano iti al Borgo, e avevano comprato tre some di farina di castagne; e, o fusse per ignoranza o per avanzarsi li denari della bolletta, caricaro le some senza altra licenza, e quando furo su quel di Gallicano s'incontraro per lor disgrazia nel Vicario, che loro levò la farina e le bestie; al quale caso, se V. S. per lor solita clemenza non hanno misericordia, li poveri uomini rimarranno disfatti e moriranno di fame. Io, astretto da' lor preghi e da compassione che ho alla povertade, scrivo questa a V. S., siccome a quelle nelle [224] quali ho fiducia che non mi siano per negare alcuna grazia ch'io loro dimandi, e che appresso conosco clementissime e di pietade piene; così le prego che abbino questi poveretti per raccomandati, e siano contente di donare e fare loro elemosina di questo, che per avere disubbidito alli ordini di V. S. debitamente arebbeno perduto: in buona grazia delle quali medesime mi raccomando.

Castelnovi, 17 martii 1524.

CXXXIII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Perchè noi siamo per fare la fiera qui a Castelnuovo, e pure si va ragionando che in qualche loco verso Roma e per le maremme è sospetto di peste, e perchè mi rendo certo che V. S. ne siano informatissime, le prego che siano contente di avvisarmi come passano le cose, e da che luochi si avemo a guardare; e quando la cosa fusse pericolosa, seranno pregate di far fare una grida, che nessuno, che venga senza bolletta e fede della sanità, serà accettato a Castelnuovo: e con buona grazia di V. S. mi raccomando. Castelnovi, 28 martii 1524.

CXXXIV

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. V. S. Intenderanno dalli esibitori di questa, suoi [225] sudditi, quanto si sia eseguito in quello che V. S. mi hanno domandato. Il prigione è al piacere di quelle: in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, ultimo martii 1524.

CXXXV

Al Vicario di Gallicano

Magnifico vicario. A questa ora, che è circa mezza ora di notte, essendo li miei servitori iti per dare mangiare a quello prigione da Colognora, che io avevo qui ad instanza di V. Magnifica Signoria, hanno trovato che con la propria cintola, avendosi legato l'uno capo al collo e l'altro ad uno piede, si è strangolato. Mi è parso di darvene subito avviso, acciò che V. M. mandi uno al quale io lo consegni morto, poichè non lo posso consegnare vivo. E a V. M. mi raccomando.

Castelnovi, 3 aprilis 1524.

CXXXVI

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Ancora che io creda che V. S. siano informate come successe del prigione che a loro instanza io feci prendere alle Fabriche, perchè io ne diedi subito avviso al vicario di Gallicano; pure per più sicurezza mi pare mio debito di avvisare quelle, come, avendolo io fatto porre nel fondo della Torre, esso con una cintola, che a pena era due braccia di lunghezza, [226] ligandosene una parte al collo e l'altra a uno piede, si strangolò: cosa che pareva impossibile a seguire. Io aveva scritto al detto vicario, che mandasse persona a chi io lo consegnassi morto, poi che io non lo aveva potuto consegnare vivo; ma poi non comparendo alcuno, e non essendo cosa da potere conservare, io lo feci seppellire fuori nella gierra del fiume. Questo serà per avviso a V. S.; alle quali mi raccomando, e al lor comandamento sempre mi offero paratissimo.

Castelnovi, 9 aprilis 1524.

CXXXVII

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Signor mio. Questa mattina per tempo giunsi a Castelnovo e trovai tutto il paese in grandissima paura, sentendo da questi di Castelnovo, che quasi ognuno aveva fuggita la sua roba. Ritrovai qui circa quattrocento persone forastiere, venute ad instanza qual di Pierino Magnano, qual di Aconzio, e qual di Soardino e qual d'altri, che tutti hanno mostrato buona servitù verso V. Ecc., li nomi particolari de' quali riferirò più ad agio a quella. De la potestarìa di Montefiorino eran venuti circa cinquanta fanti; da molte altre potestarìe de la montagna di Modena e di Reggio aveva avuto risposta a mie lettere, che circa questo avevo lor scritto da Montefiorino, e prometteanmi di mandar subito buona quantità di genti; sicchè s'io non avessi ricuperato quello che avean preso, avevo bona speranza che [227] non mi avrebbono tolto Castelnovo. La mia intenzione era di difendere e non di combattere, finchè da V. Ecc. non avevo risposta, e mi spiacque che ieri li nostri li andâro ad assaltare a Camporeggiano, e rimasero de li nostri morti circa 2, avvenga che si portaro benissimo, e de li nimici sei, benchè di questo il Capitano de la Ragione debbe aver scritto diffusamente a V. Ecc. Oggi di nuovo son venuti due casi per noi ottimi: il primo che li nimici si sono attaccati insieme ed hanno ferito il lor Capitano a morte, del che avendo io avuto spia, avevo fatto porre insieme circa 500 fanti per tornare a Camporeggiano e dar lor dentro; ma in questo tempo è giunto Ser Costantino notaio a Camporeggiano il quale era prigione, e mi ha riferito che Morgante Demino oggi stesso era giunto a Camporeggiano, con XXV cavalli e 60 schioppettieri chiamati dalle genti del Sig. Giovannino,[288] ch'avean fatto che a loro venisse in soccorso, perchè erano stati assediati e fatti quasi prigioni: e il detto Morgante quando vide che aveano minor forza di V. Ecc. fe' loro di male parole, dicendo che questo era senza saputa del Sig. Giovannino,[289] e comandò che lasciasson l'impresa e gli andasson drieto, e fe' liberare il detto Ser Costantino notaio senza nullo [228] ostacolo, e a lui consegnò la rôcca di V. Ecc. e gli raccomandò quel Capitano Todeschino che è ferito a morte, che gli fesse salvare la vita; e così la rôcca è restituita, ed è in man nostra. Io ho subito mandato il Capitano con li balestrieri che vi stia dentro finchè mandi altro, e gli ho comandato che salvi quel Todeschino e lo faccia medicare. Fo pensiero di andare domani ad esaminarlo per intendere chi lo ha fatto venire, chè son certo che è stato chiamato da alcuni de la provincia, tanto più che Ulivo e Nicolao da Pontecchio e due figlioli di Pier Madalena e il Bosatello, e sì il Cornacchia, sono in squadra de li nemici. E qui V. Ecc. mi perdoni, che mi voglio lamentare di lei un poco, chè l'altro dì essendo io a Ferrara e cercando d'una supplicazione fra molte che ve n'erano di segnate in mano di Mess. Bartolomeo di pugno di V. Ecc., ne vidi una ne la quale supplicavano questi due fratelli Ulivo e Nicolao, che oltra gli altri lor delitti commessi in compagnia ad ammazzare quelli poveri conti di San Donnino supplicavano e dimandavan grazia di certo omicidio con tale di che avevan la pace, e la lor supplicazione era stata esaudita alla libera, ed era stata segnata questa proprio nel tempo ch'io ero a Ferrara. A me pare che in ogni cosa di Carfagnini, ed essendo io a Ferrara, dovevo esser domandato di che condizione eran costoro: sed de his satis.

V. Ecc., se un Signor può essere obbligato a un suddito, ha grande obbligo a Morgante Demino perchè si avventura; e se la sua bona fede non ne [229] aiutava, V. Ecc. non so quando fosse mai più per riavere questa rôcca di Camporeggiano, perchè a mio giudicio è la più forte di questo paese, e non merita già di esser tenuta da quella in sì poco conto come ella è, che non vi si debbia tenere dentro che un Capitano dottore con un solo famiglio. Meglio sarìa minar queste rôcche totalmente, che tenerle senza guardia; che oltre che tutti questi uomini si lamentino fin al cielo che V. Ecc. pigli li lor denari, e le rôcche che li potriano difendere da li assassini e da tali novità sieno abbandonate, anco V. Ecc. può credere che non venirà sempre Morgante Demino a farle restituire.[290] Altro non occorre. A V. Ecc. mi raccomando sempre.

Castelnovi, 5 iulij 1524.


Appresso, questi nimici hanno menato con loro alcuni sudditi e servitori di V. Ecc. prigioni. Io ho scritto e pregato Morgante che li facci liberare, se potesse. Degnando V. Ecc. di scrivergliene un'altra, serìa a gran satisfazione del paese. Ancora questi uomini hanno grandissimo sospetto che questi [230] ribaldi.... faccin testa, e non potendo rubar le castella, assassinare le ville. Per questo supplicano a V. S. che non resti di dare la provvisione che pare a quella.

CXXXVIII

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Essendo io ritornato da Ferrara, ho ritrovato questa provincia nel disordine, che credo V. S. abbino inteso; della qualcosa, per lo effetto che dipoi è seguito, io son certo che alcuni ribaldi banditi di questo paese siano stati quelli che siano iti a far venire queste genti, con speranza di dare loro questa provincia a sacco. Sit quomodocumque, con queste genti era uno Bogietto da Sommocolognora detto il Cornacchia, li latrocinii e assassinamenti del quale credo che a V. S. siano notissimi; e Olivo e Nicola da Pontecchio, e uno delli figliuoli del già Pier Madalena, che ammazzarono il conte Carlino da San Donnino e la madre: ora ho avuto certo avviso che a Curfigliano, terra di V. S., si ritrova questo Cornacchia, e qualcuno di questi altri sopranominati. Non credo che bisogni ch'io ricordi a V. S. le convenzioni fatte tra lo illustrissimo signore mio e V. S. per il magnifico messer Santuccio suo e me, nè quello che in simili casi io abbi fatto ad ogni richiesta di V. S., che io mosterrei avere diffidenza di quelle, e per la verità non ho minor fede in quelle che nell'illustrissimo signore [231] mio, a conservazione di questo stato e della giustizia; solo mi pare che basti significarli che questo ribaldo Cornacchia si trova a Gurfigliano (delli altri non sono così certo), e pregare V. S., e così le prego, che con quanto migliore modo che ponno o mandando il suo bargello o comandando alli suoi sudditi del loco che faccino lo effetto, operino di modo che questo ribaldo sia preso; e così se altri delli sopranominati ci sono: e preso che sia, dare avviso. Io domando a V. S. questa grazia: alle quali sempre mi raccomando.

Castelnovi, 7 iulii 1524.

CXXXIX

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici et excelsi domini. Ho visto quanto le V. eccelse S. mi scriveno circa la differenza delli uomini di Cardoso, sudditi di quelle, e li nostri di Valico. Mi rincresce della loro insolenza; farò chiamare le parti, e per quanto a me si aspetta, non mancherò di ragioni; e se li nostri aranno fallito, non mancherò di punirli; perchè ancora noi desideriamo, che li uni e l'altri de' vostri e nostri sudditi vivino in concordia e pace: e alle prefate Vostre eccelse Signorie del continuo mi raccomando.

Ex Castronovo Carfagnane, die 15 iulii 1524.

[232]

CXL

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Da questi vostri di Cardoso intenderanno le V. eccelse Signorie, a quello sia rimaso in la loro causa con quelli nostri di Valico: io non sono per fare altra differenza fra li sudditi di quelle e li nostri, nè patirò, per quanto potrò, li sia fatto torto nè violenza; e alle prefate V. eccelse Signorie del continuo mi raccomando.

Ex Castronovo Carfagnane, die 18 iulii 1524.

CXLI

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Signor mio. Quando io venivo in qua ed a Montefiorino, gli uomini del Sig. Giovannino erano in Carfignana. Come n'ebbi l'avviso, a V. Ecc. spacciai tre messi, l'uno a Minozzo, l'altro a Quaro, l'altro a Toano, li quali mi diede il potestà, e uno ne mandai a Reggio, che pagai del mio; poi quando fui qui, il detto potestà mi mandò per uno de li suoi uomini alcune lettere di V. Ecc. che a lui erano state rimesse da Sestola, e mi scrisse ch'io fessi pagare il messo. Per quella prima volta io feci pagare quel messo, ma con gran fatica e lamentazione di questi uomini di Castelnovo, che allegavano che ad essi non tocca pagare li messi che a servizio di V. Ecc. sono mandati in qua, e [233] che ben debbe bastare che paghino quelli che essi mandano o a Ferrara o a Reggio o in altro luogo in servizio di V. Ecc. Parendomi che avessino ragione non volsi che pagassino un altro messo che di poi detto potestà m'avea mandato pur con lettere di V. Ecc. a lui rimesse da Reggio, e gli scrissi che facesse che li suoi uomini lo pagassino, o vero se ne dolesse a V. Ecc. acciò che quella determinasse chi avesse a pagare tal messo. Esso potestà m'ha risposto quanto quella potrà vedere ne la sua qui inclusa; e perchè stando la cosa in controversia potria accadere che anderebbon lettere a Montefiorino che sariano d'importanza per dover essere portate qui, e li uomini di Montefiorino non le vorrebbon mandare, mi è parso di avvisarne V. Ecc. acciò che quella faccia vedere chi debba pagare questi messi...

A me pare che gli uomini di Montefiorino abbiano gran torto, che a loro non sta di giudicare se le lettere che V. Ecc. loro manda perchè le portino qui sieno a utilità di questa provincia, o particolarmente di V. Ecc.; chè se 'l Capitano di Reggio o Signori Lucchesi o altri mandasse qui una lettera perchè la mandassi a Montefiorino per importanza di V. Ecc., questi uomini pagheriano il messo, e non cercheriano che quelli di Montefiorino lo pagassino. Prego quella che determini questa controversia, e parendole che gli uomini di Montefiorino abbiano torto, gli faccia con sue lettere capaci del loro errore; ed in buona grazia sua mi raccomando.

Castelnovi, XX julij 1524.

[234]

CXLII

Al medesimo

Ill. Sig. mio. Io non so quello che V. Ecc. avrà disposto circa quelli schioppettieri che gli uomini di questa terra m'hanno detto aver domandato a quella, e per questo effetto aver mandato Bigo Camonchiella cavalleggiero qui che le ne faccia instanza a bocca; avvenga ch'io creda che l'animo di questi che sono stati principali a ricercar questo da lei, non sia che V. Ecc. li compiaccia, ma più presto che negando dia loro buona escusa che un'altra volta, accadendo il bisogno, si possano rendere a chi li vorrà per sudditi; perchè publicamente dicono, che almeno, poi che quella non li vuol difendere, gli desse licenza e li ponesse in libertà, che si potesson dare a chi fosse atto a poterli difendere e tener in pace. E V. Ecc. non creda che se a questa poca di guerra si sono tenuti, e hanno mandato a tôrre persone forestiere a lor spese, che sia stato per amore sì grande che portino a quella; ma l'hanno fatto per lor difensione e per aver scorta da fuggire e da salvarsi, accadendo il bisogno, ed anco, se venía lor ben fatto, per tagliare a pezzi li lor nimici. La parte italiana è stata quella c'ha fatto questa ragunanza, e con essi Aconzio, avvenga che sia francioso di parte, per il nuovo parentado c'hanno fatto insieme, imperò che vedevano che queste genti del Sig. Giovannino avevano con loro li figlioli di Pier Madalena e il Cornacchia [235] e Olivo, che sono di fazione francese: e se li fanti del Signor Giovannino fusson stati in più numero che non erano, e se anco così pochi com'erano davano l'assalto alla terra, V. Ecc. stia sicura che tutti fuggivano, e la terra si abbandonava; e di questo n'ho argomento, chè tutti e tutti affatto avevano fuggite le donne e li fanciulli e tutta la lor roba, nè in questa terra era rimasa altra roba che la mia che avevo in rôcca; io dico non ne eccettuando alcuno. Io son certo che Pierino Magnano procurerà di fare grandi li meriti di Battistino Magnano suo fratello e de li altri banditi e assassini suoi seguaci, perchè V. Ecc. faccia lor grazia.... sono in circa XII o XV, e vanno rubando intorno il bestiame, e fanno qui la beccarìa e vendono la carne a gran denari, poi si lievano e vanno alle ville vicine e mettono taglie a chi lor pare, e fra l'altre a un Cappellano d'un prete hanno tirato tanto li c..... che gli hanno fatto pagare otto ducati: poi hanno trovato il padrone; ma quello si è posto su le gambe, e fuggì fin a Castiglione; e se gli uomini di Castiglione non saltavan fuor in suo soccorso lo ammazzavano. Un altro prete hanno preso e dicevano che lo volevano menare al suo potestade in Camporeggiano, cioè a Battistino Magnano, e quel poveruomo per paura si ha posto taglia e pagato certi ducati, sicchè l'hanno lasciato. Io anderei troppo in lungo s'io volessi scrivere a V. Ecc. tutti li richiami ch'io n'ho, ma più ad agio ne farò una lista e la manderò a quella. Non tacerò questo ancora, che uomini di Salacagnana sono [236] venuti in quattro insieme mostrando di venire per altro, e quando sono stati a me hanno cominciato a piangere, e non m'hanno voluto dire altro. Io ho lor domandato che voglion da me: m'hanno risposto che non ponno parlare per essere minacciati della vita se parlano, e per l'amor di Dio che non dica che di questo m'abbiano fatto motto........

Ser Costantino notaro di Camporeggiano è fuggito in questa terra, e non è per tornare all'officio, chè questi nuovi officiali non lo vogliono in casa sua. Il Capitano con suo poco onore ancora credo che faccia quanto essi gli comandano. Io ho desiderio di avere questi ribaldi e di farli subito, senza udire altro, impiccare; ma io non son sufficiente, parte perchè non ho se non dieci balestrieri, ed anco perchè di essi non mi fido, che per il lungo tempo che sono stati in questo paese non sono meno parziali de li Grafagnini, chè la maggior parte v'ha moglie e parentado, e per questo ho scritto e pregato il Capitano di Reggio e il Commissario di Sestola, che mi servino di 30 fanti per uno. Non so quello che mi risponderanno. Se 'l presente mio scrivere parrà differente a quello che a' dì passati, cioè subito ch'io fui giunto, io scrissi a V. Ecc., chè allora lodai alcuni di Castelnovo che a salvazione e stato di quella si erano portati benissimo, quella non si maravigli nè m'imputi per uomo incostante e leggiero; ma allora io scrissi quello che mi parea e ch'io credeva: ma il veder succedere mali effetti, mi fa credere e toccare con mano questo che ora io scrivo. Ed anco m'ho da lamentare di Pierino, [237] che di qui si partì con parecchi fanti, e andò a Camporeggiano a parlar a questi ribaldi, e in quella povera terra, secondo che mi riferîro quelli di Camporeggiano, volse alloggiare a discrezione, e dar lor questa giunta, oltra li danni che aveano patito. Io l'ho detto altre volte e sono stato male inteso, pur io lo dirò anco di nuovo, che la salute di questa terra, senza dare altra spesa a V. Ecc., saria di tenere confinati lungi di qui in perpetuo e in eterno quelli che sono banditi..............

Io sempre scrissi e son per scrivere liberamente a V. Ecc. tutti quanti li andamenti ch'io veggo, sì per mutar proposito, sì ora a lode ed ora a biasimo, secondo li portamenti: ben prego V. Ecc. e li Secretarî, che di quello ch'io scrivo o male o bene mi tengano secreto, chè Dio mi è testimonio, che non affezione, non odio ch'io porti più a l'uno che a l'altro, ma l'amore de la giustizia mi spinge a scrivere e dire quello che accade.

Appresso, questo ferito Capitano de le genti del Sig. Giovannino credo che risanerà: quando è stato un poco meglio io l'ho interrogato da lui solo e da me, e poi ho fatto una nota di quanto m'ha risposto, copia de la quale mando a V. Ecc. Credo che in parte dica il vero e in parte anco lo taccia: non di meno quella può fare congiettura del resto. Io le manderò anco alcuni altri testificati ad agio. Il prete da Soraggio de li Bosi che ad instanza del Commissario di papa Clemente era stato preso, cioè che diede quando venne qui, or ora è morto dopo un mese ch'era stato ammalato. Non [238] ho mancato, poi ch'io son stato qui, ch'io non gli avessi fatto levare li ferri e andare li medici e li parenti, e padre e fratello per sua cura, e fargli tutte quelle provvisioni che mi sian state possibili; tuttavolta è morto, e sta ben morto, perchè era una mala bestia, e teneva in grandissima paura tutto Soraggio, e stuprava uomini, e dava ferite e bastonate, e ogni dì n'avevo reclami. Altro non accade: a V. Ecc. sempre mi raccomando.

Castelnovi,[291] XX iulij 1524.

CXLIII[292]

Al medesimo

Ill. Sig. Sig. mio osseq. Benchè io creda che non abbia di bisogno, pure perchè alle volte interviene de le cose ch'altri non pensa, non sarìa fora di proposito che V. Ecc. facesse provvedere una soma di polvere in queste fortezze, fra qui in Castelnovo, Camporgiano e le Verucole, in ogni caso che potesse avvenire, perchè la polvere qua è molto cara: e avendone V. Ecc. in Rubiera, quando quella ne volesse mandare una soma di là, io comanderò da qui a qualche giorni di farla pagare de li denari de la gabella qui. Al presente non ci è ordine di [239] pagarla, per avere la gabella debito per altre occorrenze. V. Ecc. farà cosa grata a questi uomini, e ancora li inanimerà; chè a non farlo, queste fortezze non hanno provvisione alcuna quando accadesse alcuna cosa; sicchè V. Ecc. pigli quello più espediente le pare: alla bona grazia de la quale del continuo mi raccomando.

Ex Castelnovo Carfignanae, die 24 iulij 1524.

Excellentiae Vestrae

Servitor,
Ludovicos Ariostus.

CXLIV

Al medesimo

Ill. ed Ecc. Signor mio. Chi facesse impiccare quattro o cinque che sono in questa provincia, basteria, senza bisogno di mandare qui altri balestrieri, nè fare altra spesa: e questi sono Battistino Magnano e Donatello e certi suoi compagni da una parte e l'altra, e quel Cornacchia da Sommacologna, de li quali tutti n'ho fatto più volte querela a V. Ecc. Circa al Cornacchia ho scritto già il modo come si potria avere per la via de' Lucchesi: ma questi altri che sono di più importanza, adesso è accaduta la occasione che V. Ecc., volendoli, li potrà avere. È accaduto per quel prete de li Bosi che è morto qui prigione, che Mess. Nicolò cognato di Pierino Magnano ha mandato a pigliare la possessione a suo nome de la chiesa di Soraggio, e v'ha mandato e vi fa stare continuamente Battistino prefato [240] e Donatello e li compagni che sono in tutto circa XII, tutti banditi e assassini. Questo Soraggio confina con Reggiana, e da Castelnovo di Reggiana vi si può ire in un tratto: bisogneria a mio giudicio che V. Ecc. commettesse al Capitano di Reggio che mandasse segretamente li suoi balestrieri con buon numero di genti a piedi che arrivassino una notte a questa chiesa, che tutti li pigliarebbono a man salva, e questa provincia resteria netta. Sarìa anco bene che 'l Capitano de' balestrieri avesse una patente di V. Ecc. acciò che potesse comandare nel paese che se gli movesse contra, e quando non si potesson pigliare, s'assediarìa la chiesa, che si avriano ogni modo. A questo effetto avevo scritto al Commissario di Pietrasanta che mi mandasse fin a 30 uomini: si è escusato che sono occupati ne li ricolti, e anco me ne dissuade perchè sono villani, e per conseguenza cattiva gente. Avevo scritto al Capitano di Reggio, ma il prolungare che fa a darmi risposta, mi fa dubitare che non sia per far a mia instanza cosa alcuna. Ora io ricorro a V. Ecc., in buona grazia de la quale mi raccomando.

Castelnovi, 24 iulij 1524.

CXLV

Al medesimo

Ill. Sig. mio. Gli uomini di Cicerana or ora m'hanno riferito che Donatello con parecchi banditi è in quella terra, e ieri usò certa violenza a un poveruomo, [241] che messero taglia ad esso poveruomo, e, non la potendo pagare, lo battêro. Se quelli dal Sillico che vorriano la grazia da V. S. facessino quello che già s'hanno profferto, di cacciar li altri banditi, questi ribaldi non si ardiriano di stare in Cicerana.

Appresso, li balestrieri oggi erano iti così a solazzo a piedi alla Pieve, che qui a un miglio è lontana, e volendo andare alla canonica, fu loro asserrato l'uscio incontro da questi fratelli del Moro dal Sillico banditi, e facendo punta li balestrieri d'entrare dentro, si affacciò un di loro, e disse alli balestrieri che se non si levavano li taglieriano a pezzi. Il Capitano mandò subito ad avvisare. Io m'ero mosso con questi altri balestrieri per andarlo a soccorrere, e quando son stato fuori del paese mi è venuto un balestriero all'incontra, che mi ha detto che il prete per un uscio di drieto li ha fatto fuggire. Io sono tornato indrieto, ed ho scritto questa perchè ho un messo ch'or ora parte, nè posso sapere questa cosa in tutto, perchè il Capitano de' balestrieri non si è ancora veduto, ma solo per avvisare V. S...............

CXLVI

Al medesimo

Ill. Signor mio. Io credo che l'esibitore di questa Mess. Giacomo pisano si lagnerà che la causa che già molto tempo pende fra lui e Pier Morello non sia stata condotta a fine; e perchè V. Ecc. non creda che la colpa sia mia, io le fo intendere, [242] come avendo io chiamato li quattro deputati sopra la gabella, alli quali e insieme a me la causa fu commessa, e ben veduti e considerati li capitoli de la gabella, e pigliato informazione da tutti quelli che per li tempi innanzi erano stati conduttori di essa gabella, e da quelli ch'avevano ricordo di poi che tal gabella fu constituita fin al dì d'oggi: ed essendo ben certi che se Mess. Giacomo doveva essere assoluto o non da la parte di esso Pier Morello, solo ne restava un dubbio se la parte perdente dovea essere condennata ne le spese o non; nè essendo li prefati quattro nè io giurisperito, ci accordammo di domandare sopra questo dubbio consiglio: e perchè li Capitani giurisperiti della provincia vedevamo sospetti alle parti, deliberai di mandare il processo a Lucca, siccome in luogo dove più presto avessimo risposta che da Ferrara, la quale ci pareva troppo rimota. In questo tempo Pier Morello, o diffidandosi di Lucca e che il consiglio venisse per lui o pur desiderando di mandare la cosa in lungo, ebbe ricorso a Ferrara, e fece venire una lettera la quale commetteva che per modo alcuno io non avessi a risolvere secondo il consiglio di Lucca, ma che volendo consiglio l'avessi a domandare a Ferrara. Per questo io domandai il processo alle parti per mandarlo a Ferrara, e prima questo pisano rispose che non voleva dar la sua copia fuori nè permettere che la sua causa fosse veduta da altri, ma che fusse giudicata secondo il Sig. l'aveva commessa, cioè da me e da li quattro. Pier Morello non voleva dare se non quelli atti che erano stati fatti [243] dai predecessori............ per questo io non ho fatto altro, se non che mi sono assunto di accordarli; ma Pier Morello non volse venire ad accordo. Gli uomini di Castelnovo mal volentieri vengono a dar sentenza contro li quattro che erano l'anno passato, per non far danno a l'una parte o a l'altra. Pur quando V. Ecc. mi liberi ch'io sentenzî secondo la prima commissione, cioè secondo il parere de li quattro, io espedirò la cosa subito. Quando anco le paia che si pigli consiglio a Ferrara, mi commetta ch'io astringa l'una de le parti o amendue insieme a far levare il processo, ch'io lo manderò a V. Ecc., in buona grazia de la quale mi raccomando.

Castelnovi ......... 1524.[293]

CXLVII

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Anco per altra mia vi abbia scritto il medesimo, per questa ancora avviso le eccelse S. V., che non mancherò di fare satisfare quelli vostri di Cardoso [244] delle loro capre; e anco circa il fieno, che loro dicono esserli stato tolto da questi di Valico, non mancherò loro di ragione: e a V. eccelse S. mi raccomando.

Ex Castronovo Carfagnane, 25 iulii 1524.

CXLVIII

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Signor mio. La lettera di V. Ecc. dì XXI di questo mese, appresso il buono effetto venuto con quella de li 25 schioppettieri, e così il Castellano mandato per le rôcche de le Verugole, sono stati tanto grati agli uomini da bene ed amatori di pace di questo paese, che di nuovo quella può far conto di aversegli acquistati per fidelissimi sudditi. Alla lor giunta tutta li banditi hanno sgombrato il paese, nè credo, finchè ci stiano, che se ne senta alcuno. Io ho messo di questi schioppettieri una parte a Camporeggiano e una parte a Castelnovo, ma nè a Castelnovo nè a Camporeggiano li lascierò fermare, perchè vorrò che vadano in volta per il paese; e così ieri cominciai, e ne menai meco una parte a Sassi, per far provvisione a quella rôcca, come V. Ecc. per la sua mi commette, de la qual rôcca, non so se quella n'abbia ricordo, ma sappia che gli è luogo molto più forte de le Verugole, e di manco guardia assai, e fra gli altri Cristoforo Casanuova ne potria dare cognizioni a V. Ecc. che già l'ha veduta e parlatone meco. È situata in luogo importante perchè è alle confine de' Fiorentini e [245] de' Lucchesi, e tanto vicina a Castelnovo, che quando accadesse un bisogno, e vi fosse un Castellano, questi uomini più volentieri vi fuggiriano le sue robe e le sue brigate, che non fariano a Barga e ne l'altre terre vicine, come hanno fatto a questi dì. E perchè V. Ecc. mi scrive, ch'io veda di aver questa rôcca in le mani e ch'io vi ponga un Castellano a mio modo, io fo congiettura che a quella sia stato scritto che qualche bandito la tenesse e qualche nimico di V. Ecc. Quella sappia che in quella rôcca non stà alcuno, nè anco vi può stare perchè è tutta discoperta: gli è ben vero che in questi sospetti il Casaia e alcuni de la parte francese che avean sospetto de li banditi, e la parte italiana che da Rocca e da S. Romano ha fatto venire Pierin Magnano si erano ridotti a Sassi perchè la chiesa di quella terra la quale è congiunta con la rôcca è d'un Antonino nipote del quondam Ser Ferdiano, e la più parte de la terra di Sassi è de la parte francese; e per questo non solo adesso, ma anco in gli altri tempi li banditi che sono de la parte francese spesso danno di capo a Sassi, con grandissimo dispiacere de la parte taliana che non vorria che li nimici avessino ridotto alcuno; e non pongono all'incontro che essi taliani tengono la rôcca di Cicerana e quella del Sillico, che son qui in su gli occhi a Castelnovo, e con molta più querela del paese, perchè nè a Sassi, nè a quella via è mai stato fatto assassinamento alcuno, ma di quello che sia stato fatto da quest'altro canto V. Ecc. si debbe ricordare: ancora li pover uomini di Cicerana stan [246] nel danno de li cento ducati che pagâro al prete. Sarìa ogni modo ben fatto che ne la rôcca di Sassi stesse un Castellano col suo salario, che sono undici lire al mese che paga questa gabella di Castelnovo, e credo che abbia certo poco ancora di condennagione. Forse un uomo con un famiglio basteria a guardarla per tempo di pace, e li banditi sapendo che ci fosse un Castellano non capitariano a Sassi, e il prete medesimo nipote di Ser Ferdiano e questi uomini me ne pregano, perchè il venire che fanno li banditi e seguaci in quel luogo non è lor se non dannoso; ma non li ponno negare, per averli essi già serviti ne li lor bisogni, di dar lor mangiare e bere. E perchè V. Ecc. mi scrive ch'io vi ponga un Castellano a mio modo, secondo che mi pare il bisogno, avevo pensato di porvi due di questi schioppettieri mandati, ma vedendo che non c'è alcun coperto, ho lasciato stare ed ho fatto chiamare li uomini de le Terre nove per domani a parlamento, li quali uomini sono obbligati a riparare questa rôcca, perchè V. Ecc. dona la tassa della metade de le lor condennagioni, e farò che subito sia riparata e che il Castellano vi possa abitare, perchè non avessero a farlo queste genti del Sig. Giovannino. So che Pierino ritiene che il Casaia e prete Bartolomeo da Gragnanello non siano di questa parte francese, ma io non ho di ciò alcun sentore nè indicio alcuno: e se ben il Casaia e il detto prete si partì e andò a Sassi, il Capitano de la Ragione mi farà fede che fu di suo consiglio e commissione, e questo perchè avendo [247] Pierino fatto venire questi banditi, e da l'altra parte avendo il Casaia fatto venire degli altri forestieri, de la contraria parte, e dubitando che l'una parte e l'altra si attaccasse insieme, perchè ne vedeva di manifesti segni, consigliò li detti Casaia e il prete più presto a levarsi che a tener qui pericolo di voltare ogni cosa sottosopra, e così feceno. Ora Pierino quanto può s'affatica di voler mostrar che la partita di questi sia stata una ribellione, e quando questo Capitano del Sig. Giovannino rimase ferito a Camporeggiano, Pierino, oltra che io avessi mandato li balestrieri, mandò una quantità de li suoi a torlo, e se lo voleva far portare in casa, e poi ch'io l'ho avuto in rôcca, ogni dì veniva o mandava a persuaderlo che si levasse di qui e andasse a casa sua perchè staria meglio, di modo che ho avuto fatica a far che questo ferito aspettasse la risposta di V. Ecc. E questo Pierino facea tutto perchè avendolo in casa sperava di farlo dire a suo modo. Ultimamente poi c'ho avuto la risposta di V. Ecc. l'ho lasciato partire; ma prima l'ho persuaso, e così è stato contento di farsi portare in l'alloggiamento del Capitano de' balestrieri, come loco che non sia sospetto nè all'una parte nè all'altra, ma dubito che non camperà: pur se campa oggi, il medico dice che n'averà speranza. E quanto Pierino si affatica a voler far conoscere che il Casaia abbia colpa di questo movimento, fa altrettanto il Casaia per farmi vedere che se ho sospetto che in ciò v'ha colpa, ch'ella sia di Pierino............. [248] e che poi quando il tamburino venne a domandare la terra, venne seco un parente di Pierino pur da Fivizzano e parlò con un altro parente di Pierino da Barga che era qui lungamente, e poi quel da Barga parlò con Pierino, e Pierino gli fe' mandare da mangiare e da bere per sei compagni: e che poi che questa gente si fu ritirata a Camporeggiano, in Camporeggiano Pierino parlò lungamente col Capitano Todeschino che ora è qui ferito e ancora parlò con altri suoi parenti che erano nel campo di là. Queste cose son ben vere, ma non credo già che Pierino le facesse a male effetto; pur li suoi nimici le interpretano del modo che esso fa la lor partita, sicchè l'una parte e l'altra ha che dire, e così è come la intendo io. Voglio anche che V. Ecc. le sappia, perchè ne possa far quel giudicio che le pare, e come ho fatto pel passato sarò per far per l'avvenire, di avvisar sempre V. Ecc. di tutto quello che sento, e dir male e bene de l'una parte e de l'altra secondo i lor portamenti. Fin ch'io starò in questo officio non sono per avervi alcuno amico, se non la giustizia.

Ho fatto a Pierino e agli altri li ringraziamenti o comendamenti che V. Ecc. mi commette, chè ho lor letto la lettera di V. Ecc. ne le parti che appartengono a loro, avvenga che per una lettera di quella già serà fatto il medesimo.

Ho scritto al Capitano di Fivizzano, e a quelli officiali in Lunigiana, e ho fatto far una grida publica che gli uomini di Fivizzano e d'ogni altro luogo possano venire sicuramente in questa provincia. [249] Ho fatto chiamare il parlamento per li uomini de la Vicaria di Castelnovo, dove parlerò delle cose de li uomini di Silicagnana, et etiam di por sul generale la spesa fatta per questo movimento, secondo che V. Ecc. mi comanda. E lunedì anderò a far il medesimo a Camporeggiano, chè per quel dì ho fatto chiamare quelli altri a parlamento, dove parlerò e mi sforzerò che sia fatto provvisione alle rôcche de le Verugole. Del successo avviserò poi V. Ecc., in buona grazia de la quale mi raccomando intanto.

Castelnovi, penultimo iulij 1524.

Or ora son venuti due del paese di Lucca, che dicon tornare di Lunigiana, e riferiscono che le genti del Sig. Giovannino hanno presa una fortezza detta la Bastia ch'era tenuta inespugnabile, e questo per mezzo de li mastri che l'avean fatta, con certi altri, e che sono a campo a un altro luogo detto Monti del marchese Spinetta, e che quelli fanti dicono che avuti questi anderanno a Fossadinovo, ovvero torneranno in Carfagnana.[294]

[250]

CXLIX

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Perchè ho inteso che a Gurfigliano, in casa di quello prete Michele, sono alcune robe della buona memoria del conte Giovanni da Santo Donnino, rubate da quello Giovanni Maddalena; prego le V. eccelse S. voglino sequestrare quelle robe in mano a quello prete per inventario, acciocchè quelli che le ruborno non l'abbino a godere, e che le possino avere coloro a chi pervengano di ragione: e alla buona grazia delle prefate V. eccelse S. mi raccomando.

Ex Castronovo Carfagnane, die primo augusti 1524.

CL

Al duca di Ferrara

Ill. ed Ecc. Sig. mio. Ebbi da V. Ecc. l'avviso come ella avea commesso al Capitano di Reggio che mandasse a Soraggio per pigliar quelli banditi [251] ch'eran nella chiesa, ed io per essergli più presso a dar soccorso se bisognasse, mi mossi con li schioppettieri verso Camporeggiano e allora incontrai uno che mi diede una lettera di Giacomo di Pasino Capitano de li cavalleggieri di Reggio, per la quale mi avvisava che la sera dinanzi era giunto a Soraggio e avea trovato in la chiesa un figliolo e un nipote di Bastian Coiaio e altri compagni, circa X, e tutti li avea presi, e che li menava verso Reggio: ma il medesimo messo che mi diè la lettera mi disse che alla giunta di questo Giacomo di Pasino a Soraggio, Battistino Magnano e Margutte da Camporeggiano banditi e assassini pubblici eran con gli altri, ma che facendo lor spalle quest'altri che non eran banditi, se n'erano fuggiti, e che ci avean avuto tempo perchè avean veduto venire li balestrieri da lungi, imperocchè questa compagnia era giunta a Soraggio su le XXII ore: de la qual cosa ho avuto dispiacere che questo Giacomo non sia stato tanto avveduto, che non abbia saputo giungere di notte, o su l'alba, sicchè non s'abbia lasciato vedere prima che sia stato lor addosso. Io non so se l'abbia fatto scioccamente, o pur d'industria, perchè di poi m'è stato detto che la moglie di Bastiano Coiaio è parente di Giacomo di Pasino. Sit quomodocumque, io sento grandissimo dispiacere che quelli due ribaldi sieno campati. Donatello con un altro bandito detto Venturello s'era partito poco prima. Io non so che farà il Capitano di Reggio di questi che son stati menati prigioni: non sarìa male di dar loro qualche ricordo, chè sempre non [252] avessino a favorire e star con banditi: e forse chi li esaminasse intenderia da loro qualche andamento di questi ribaldi. V. Ecc. farà quello che gli parrà.

Ier sera fui alle Verugole, e trovai quella rôcca fornita solo di tutti li disagi: ho detto al Castellano che mi mandi la nota di quanto gli bisogna...... Io non mi partirò da Camporeggiano dove sono ora, che gli farò provvisione di tutto quello che occorrerà; ma ho da far con mali villani. Ieri feci chiamare a parlamento perchè facessino provvisione di quattro guardie da porre ogni notte in le Verugole: mi risposeno che non lo volevano fare perchè non erano obbligati, e che pagavano per quelle rôcche 4 bolognini il dì, e che toccava a V. Ecc. farle guardare, e non già ad essi: pur impetrai dopo molte parole che ne mandassino due per quindici giorni, tanto ch'io avessi scritto e avuto da V. Ecc. risposta, e difficilmente furon contenti. Come già quella può sapere, il luogo è grande e col suo salario compito si vi solea tenere 14 persone, sette per rôcca. Ora che la cosa è ridotta a cinque, male si potranno guardare, cioè quando accadesse qualche novità di guerra; ma quando fossimo liberi da quel sospetto, credo sieno assai: pur Bernardino dal Doccie non sta molto sicuro, mentre che queste genti del Signor Giovannino stanno in Lunigiana, che partendosi la sera potriano essere all'alba alle Verugole; e per questo m'ha pregato ed io son stato contento di dargli due di questi schioppettieri appresso. La provvisione più necessaria, che è di far murare una porta che non è molto importante, [253] che serà più sicura che far di novo perchè è marza e guasta, e far conciar la cisterna, farò prima ch'io mi parta di qui; e ho pur disposto gli uomini che questo faranno a sue spese. Circa il resto io vederò li suoi capitoli, e quello che saranno obbligati vorrò che facciano. Del resto V. Ecc. serà prima avvisata che si faccia altra spesa. Qui ne la rôcca di Camporeggiano ho posto Santo Giacomello Castellano, la quale similmente è senza provvisione alcuna: di questa similmente, come di quell'altre, farò poi ch'avrò veduti li capitoli di questa Vicarìa: ma poca spesa farebbe questa Vicarìa non molto forte; e fortificata questa cognosco che in queste parti non sariano di bisogno altre fortezze nè di fare altra spesa, e poi vi porrò due fanti finchè V. Ecc. mi avviserà diversamente. Altra persona non saprei che porvi, perchè nessuno del paese saria buono, nè nessuno vi vorria entrare, se non sapesse d'avere la provvigione di che V. Ecc. non me ne dà avviso alcuno. V. Ecc. scrive che manderà anco un Capitano a Camporeggiano, e non ha mandato se non quello de le Verugole. Non so quanto abbia determinato, ma dico ben secondo il mio parere che stava meglio un Castellano in la rôcca di Camporeggiano che in le Verugole per essere più utile a quelli uomini che in Camporeggiano stesse un poco di guardia che in le Verugole che è lor più lungi, ed anco mi pare che con poca poca spesa la rôcca di Camporeggiano si farìa molto più forte che quella de le Verugole, ed è di minor guardia assai; pur a quella stà di fare il parer suo. Ma [254] riparato e provvisto a queste tre rôcche, Verugole, Camporeggiano e Sassi, meglio saria minar l'altre, o smantellare e aprire di sorte che banditi o altri nimici non vi potesson alloggiar dentro; ma meglio e più pace del paese saria a guardarle. Ecci anco la rôcca di Trassilico, che quando V. Ecc. non vi voglia porre altro Castellano, non sarìa forse mal fatto che il potestade vi stesse dentro, poi che a quella pare che 'l podestà abbia da stare a Trassilico, perchè vi starìa esso più sicuro e sarìa causa che quelli uomini la terrìano riparata, come sono obbligati; e intendo che è condotta a tal ruina, che forse il volere ripararla sarebbe oramai tardi: pur quando questa fosse volontà di V. Ecc. la anderei o manderei a vedere. Circa alle rôcche sia per ora detto assai.

Di quanto V. E. mi scrive di far salvo condotto a quelli banditi che per la lettera venuta da parte di questi uomini era stata pregata, dirò a quella.... che l'intenzione del paese è stata di supplicare V. Ecc. che abbia per raccomandata questa provincia e per sua salute faccia le provvisioni necessarie, ma dimandare salvo condotto o grazia per Bastiano Magnano e Donatello e Venturello e certi altri assassini o di pessima sorte, V. Ecc. sappia che nè il Comune, nè uomo da bene è stato chiamato a questo, ma Pierin Magnano e Maestro Gian Piero e Aconzio, c'hanno fatto una lega insieme e voglion guidare ogni cosa a lor modo con Ser Evangelista or Cancelliero de la Comunità, hanno fatto questa lettera a V. Ecc., senza chiamar consiglio, e senza [255] participazione d'alcun altro. Se questi ribaldi fosson banditi per uno omicidio o due soli, V. Ecc. potria compiacere, non dico il Comune, chè esso non domanda questo, ma ciascun di questi particolari: ma voler far grazia ad ammazzatori, publici assassini, e che non vivon se non di porre taglie, se tutto il mondo ne pregasse V. Ecc., quella non lo dovria fare. Il balestriero che fu mandato di qui con lettera di credenza è uomo da bene per soldato, ma è tanto di questa parte taliana per aver moglie una parente di Ser Evangelista, ch'io dubito ch'abbia detto a V. Ecc. a favor d'una de le parti e a biasimo de l'altra più che non richiede il dovere, e massime ch'abbia fatto grandi li meriti di questi banditi, li quali se son venuti in favore di questo paese V. Ecc. non creda che sia stato perchè gli siano tanto affezionati più degli altri, ma per difensione de la lor fazione, vedendo che con li nimici veniva il Cornacchia e li figlioli di Pier Madalena, e quelli da Pontecchio, cioè Ulivo e il fratello che sono lor nimici capitali: pur e di questa come de l'altre cose mi rimetto a V. Ecc......

Or ora ho avuto avviso che 'l Capitano Todeschino che fu ferito è morto. Un che gli attendeva ne la sua infermitade e a chi io aveva commesso che meglio che potea si sforzasse di cavarne quel che l'avea mosso a venir in qua, mi ha riferito che sino alla morte è stato nel fermo proposito che 'l Sig. Giannino nulla ne sapea, ma che quel giudice da Fivizzano l'avea mosso, con speranza che, succedendo le cose ad vota, il Sig. Giannino dovesse [256] essere contento e pigliar questa escusa che li uomini l'avesson chiamato. Io scrissi a V. Ecc. che la Bastia era perduta; di poi hanno avuto monte di Simone dove hanno preso il marchese Spinetta e moglie e figlioli. Si dice che v'è stato tradimento. Son per ire a Fosdinovo, dove il marchese Lorenzo si fa forte ed ha aiuto da San Giorgio.[295] Altro non occorre. A V. Ecc. mi raccomando.

Camporegiani, 2 augusti 1524.

CLI

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini etc. Ho visto quanto le V. eccelse S. scriveno: le ringrazio del buono [257] animo. È ben vero che io prego quelle, che la medesima commissione hanno dato al suo vicario di Castiglione, la voglino ancora dare al vicario del Borgo, di Camaiore, ed altri suoi officiali; che scadendo che quelli tali li capitasseno alle mani, tengano via di averli e pigliarli. Circa quello che le prefate V. eccelse S. mi scriveno della commissione data al suo bargello di venire dove accaderà, per adesso la grazia del mio illustrissimo Signore mi ha dato braccio, che se capitano in queste parti, da poterli castigare. Ho parlato a bocca con il suo vicario di Castiglione, e conferito l'ordine si ha a tenere acciò la cosa abbi effetto: e alle V. S. di continuo mi raccomando.

Ex arce Camporeggiani, die 2 augusti 1524.

CLII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Ieri, essendo a Carreggine, mi venne un messo di V. S. con sue lettere, per le quali mi avvisano, come li cavalli e fanti mandati dal governatore di Reggio avevano preso a Soraggio alcuni banditi di V. S., e che io facessi intendere al detto governatore le convenzioni e capitoli che sono fra V. S. e il mio illustrissimo signore; e io, come sempre, desideroso di fare piacere e servizio a quelle, per il medesimo messo scrissi al governatore in buona forma, e non dubito che non faccia il medesimo ch'io ho fatto per il passato e sempre sono per fare, purchè si [258] trovi essere vero che in questi, che il capitano del governatore ha menato a Reggio, siano quelli banditi di V. S.; ma nella lista che mi mandò il detto capitano, quando si partì da Soraggio, già non era nominato quel Jeronimo. Pure credo che oculata fide il governatore di Reggio farà vedere al messo di V. S. tutti questi prigioni, acciò che conoschi li suoi banditi, se vi sono; ed essendovi, e non li volendo il governatore dare (il che però non credo), io sono per scrivere cento lettere non che una all'illustrissimo Signore mio, acciò che V. S. abbino il suo intento. Bene le prego, che per fare la volontà mia, che ho verso quelle di buona optima[296] che l'officio c'ho sempre fatto e sono per fare per quelle, esse all'incontro vogliano fare per me, di porre qualche industria di far pigliare e darmi nelle mani Battistino Magnano di Castelnovo e Margutte da Camporeggiano suo compagno, li quali intendo che spesso si riducano in Tramonte e su quel di Castiglioni, e vanno villeggiando per le terre di V. S.; che più facilmente riusciria a V. S., delle quali non hanno sospetto, a farli pigliare, che a me dal quale si guardano con troppo vigilanza, massimamente al presente che il signore mio m'ha mandato 25 stioppettieri a piedi, oltra li cavalli ci ho per ordinario. Quando V. S. mi faccino uno piacere di questa sorte, stiano secure, che quello c'hanno di me in maggior parte al presente, averanno poi in tutto, sì che non meno potranno disporre [259] di me e di questa provincia in cosa di giustizia, che possa lo illustrissimo Signor mio. In buona grazia di V. S. sempre mi raccomando.

Camporeggiani, 5 augusti 1524.

CLIII

Agli Otto di Pratica in Firenze

Magnifici et excelsi domini mihi observandissimi. Li esibitori di questa, Barone e Corsetto da Vagli di sopra, vengono a V. S. per far loro intendere, in nome del suo Comune, di certe bestie che fur lor tolte dagli uomini de la Cappella del capitaneato di Pietra Santa; di che esse forse debbono essere informate, chè di questo anco l'anno passato, quando fu il caso, lo Ill.mo Signor mio scrisse a Vostre Signorie, o fosse alli predecessori suoi; e quelle mi par che commettessino, che a questi nostri di Vagli fosson le bestie restituite, o che essi fosson soddisfatti del prezzo: ma tal commission non fu però eseguita. Ma che ne fosse causa, li detti uomini mandati riguaglieranno Vostre Signorie, le quali prego dieno lor buona udienza e indubitata fede, perchè non sono per esporre se non la verità; e che appresso nella differenza c'hanno per certi lor paschi con detti uomini de la Cappella, che sia lor servato quello che per antiqua composizione (come appare per li contratti che son fra l'un Comune e l'altro) è stato lungamente in uso, e le parole del contratto sieno interpretate per la equità e non con cavillazioni, sì che tranquillamente [260] possano vicinare insieme. Ho fede nella benignità di Vostre Signorie che si degneranno ascoltare le ragioni di questi nostri, e non tollereranno che sieno trattati con tal violenza da questi de la Cappella; li quali per esser sotto la protezione e favore di Vostre Signorie si arrogano più di autorità, che non credo che sia volontà di quelle ch'abbiano. Che se bene per essere suoi sudditi li hanno cari, non credo che però abbiano men cara la giustizia. Credo che di questo anco a Vostre Signorie scriva il capitano suo di Pietra Santa, il quale è assai informato della cosa, e mi confido nella prudenza e bontà sua, che farà relazione della verità. E in buona grazia di Vostre Signorie sempre mi raccomando.

Castelnovi Carfignanae, 29 augusti 1524.

CLIV

Ai medesimi

Magnifici et excelsi Domini mihi observandissimi. Io ho dato commissione agli esibitori di questa, che poi che delle sue faccende, per che vengono, avranno parlato a Vostre Signorie, che anco da mia parte faccian loro intendere uno assassinamento fatto ieri a un pover uomo di questa provincia (appresso gli altri grandissimi, che a' dì passati gli avevan fatto) da alcuni ribaldi da Barga, e in specialità da uno detto Matteo del Mazone. Prego Vostre Signorie che circa questo prestino lor fede, quanto a me proprio; e che appresso, intesa la cosa, ne [261] faccian quella dimostrazione che merita la giustizia, e io ho fede che sieno per fare, sì che questi da Barga ne piglino tal esempio, ch'ogni dì non abbiano questa provincia in preda. In buona grazia delle quali sempre mi raccomando.

Castelnovi, 29 augusti 1524.

Ho preso informazione, e intendo che col detto Matteo era un detto il Moro del Pazaglia, Luchino di Paolo d'Ochi e un detto Coietto, e altri, di chi non so il nome.

CLV

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini, domini observandissimi etc. A' giorni passati scrissi a V. S. di certe robe e forzieri sono appresso quel don Michele rettore della terra vostra di Gurfigliano; le quali sono robe tolseno quelli tristi che assassinorno quella povera donna del conte Gian Maria da Santo Donnino e il figliuolo, che le portorono là; e V. S., per sua grazia, per sue lettere commisseno a detto prete le tenesse appresso di sè, nè le dovesse dare senza licenza di quelle. Il perchè queste robe, se sono di quelle del conte, si spettano alli frati e monache qui di Santo Francesco, che sono eredi, e a uno altare: se anco sono di quelle di quelli assassini, si spettano alla camera del mio illustrissimo Signore. E perchè quelli ribaldi su ciò molestano il [262] prete, e le vorrebbeno; per tanto, acciò non si possino gloriare di avere la roba e morte le persone, e che la sia data a chi si spetta, V. S. siano pregate, e anco per la giustizia, commettere al suo magnifico vicario di Castiglioni, mandi per dette robe per parte di quelle, e me le facci portare qui a me; e io molto bene farò pagare li portatori; e a V. S. mi raccomando, offerendomi ad similia etc.

Castelnovi Carfagnane, 7 septembris 1524.

CLVI

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Io ebbi grandissima allegrezza, quando io viddi passare di qui le genti di V. S.; ma maggiore, quando per lettere di quelle, e per una del suo magnifico commissario mandato a Castiglioni, ho inteso che sono mandati ad effetto di reprimere la temerità di alcuni omicidiali sudditi suoi, e anco di questa provincia, che sono tutti una lega. Io sarò insieme con il commissario di V. S. spesso, e con lettere e in persona; e in tutto quello che io potrò, per operare che la violenza non possa più della giustizia, non mancherò; e V. S. stiano sicure, che non meno ponno disporre di me che di uno suo deditissimo, perchè così è la volontà dello illustrissimo Signor mio, e appresso la inclinazione mia e osservanza che ho verso quelle, in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 19 septembris 1524.

[263]

CLVII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini, domini observandissimi etc. Per altre mie quali scrissi pochi giorni fa a V. S., e circa quelle robe furono tolte a Santo Donnino per quelli che assassinorno quella povera donna del conte Giovanni e il suo figliuolo, le quali robe si ritrovano in Gurfigliano, terra di V. S., appresso di quello prete Michele rettore lì, e pregai V. prefate S. volessero commettere al suo magnifico vicario di Castiglioni, che mandasse per dette robe, e me le facesse condurre qui a me, che io farei satisfare alli portatori; e questo per essere robe tolte in el mio commissariato, e che si spettano a frati, monache, e uno altare lì in Santo Domenico; e per quanto mi hanno riferito li frati qui, dicono aver avuto da V. S. che quelle risponderebbeno a me, e che si contentavano veder le ragioni di detti frati, monache e altare: pertanto per questa mia faccio noto a V. S. che io ho visto li testamenti e del conte Carlo vecchio e del conte Giovanni suo figliuolo ultimamente fatti per cadauno di loro, abbenchè per certi altri vostri cittadini costì e della casa di Santo Donnino mi fusse mostrato un altro testamento di detto conte Carlo, il quale per l'ultimo suo prefato fu ed è annullato; e per adesso mando a V. S. la copia dell'ultimo testamento del conte Giovanni, per virtù del quale dette robe si spettano a detto altare, frati e monache, [264] acciò quelle siano chiare, che senza causa licita e onesta non mi sono mosso a così richiedere V. S., le quali so che per giustizia e conscienza non sono per mancare alle giuste domande: e così le prego di nuovo, voglino fare ordinare, per quel miglior modo a loro parerà, che io abbi queste robe per distribuirle a chi giustamente si pervengano. E a quelle mi raccomando e offero.

Castelnovi Carfagnane, 20 septembris 1524.

CLVIII

Ai medesimi

(inedita)[297]

Magnifici ac potentes Domini mei observandissimi. Hercole Saltarello, nostro gentilhomo ferrarese, per sue lectere et per homo mandatomi a posta, mi pregha con grandissima instantia ch'io facci opera di acconciarlo con Y. S. per soldato, overo per capo di qualche cavalli leggieri o fantarie, et nel suo scrivere monstra che crede V. S. siano per fare molto per me. Io perchè non posso negare alli amici, maximamente che siano homini da bene, alcuna cosa che mi ricerchino, ancora che la mia domanda mi paia un poco temeraria, ho più presto voluto incorrere in colpa di presumptione che di ingratitudine verso di amici et compatrioti mei, sì che V. S. [265] mi perdoneranno s'io parrò troppo audace, et per loro humanità più che per miei meriti saranno contente, potendolo fare senza loro incommodo, di dare ricapito per mio amore a questo homo da bene, per il quale io prometto che sarà fedelissimo, et lo conosco per valente et discreto et per fare honore a chi l'havrà a V. S. rachomandato: in buona gratia delle quali mi rachomando sempre.

Castelnovi, XIII oct. 1524.

D. V. S. obser.mo

Lod.o Ariosto.[298]

CLIX

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Già sono molti giorni e mesi passati, che, essendo ad instanza delli uomini di Gello stato ritenuto a Lucca uno delli nostri uomini delle Fabriche, il mio illustrissimo signore scrisse a V. S. quanto per [266] la annessa copia esse si potranno ricordare; e V. S. furno contente farlo rilasciare, e parve che ponesse silenzio a questa differenza, perchè da quel tempo in qua non se n'è poi sentito altro. Or di nuovo mi riferiscono li nostri uomini di Valico di sotto, che pure per tal causa e per la medesima instanza uno delli suoi uomini è stato sostenuto al Borgo: per questo mi è paruto, più presto che consentire a loro volontà che dimandavano di fare ripresaglia d'alcuno delli sudditi di V. S., di ricordarli con questa mia, quanto questa cosa sia per dispiacere allo illustrissimo Signor mio, quando la intenda, e pregare e domandare di grazia a V. S., delle quali sono deditissimo, che siano contente di commettere che questo nostro sia subito relassato, e commettere alli suoi uomini di Gello, che desistano da questa impresa; e più presto quietamente e di concordia è da trattarla con lo illustrissimo Signore mio, che di nuovo si facci rivedere questa causa; chè, per quello che già fu fatto, sua Eccellenza si tiene avere riceputo torto, e il suo commissario non si portasse molto bene. Di questo prego di nuovo V. S., alle quali sempre mi raccomando.

Castelnovi, ultima octobris 1524.

CLX

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Ricercato da questi mercatanti reggiani, li quali desidereriano intrare in Lucca, fo fede a V. S., [267] come quasi ogni giorno ho lettere dal capitano di Reggio, e da' miei amici particolari, che mi avvisano di ogni cosa che accade in quella terra, e non sento, per lettere che vengono di là nè per persone, che vi sia alcuno sospetto nè pericolo di peste. Altro non occorre: a V. S. mi raccomando.

Castelnovi, 8 novembris 1524.

CLXI

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Io non ho dal signore Duca mio avviso alcuno di questo passaggio del Duca di Albania, nè da un commissario di sua Eccellenza che intendo essere con il detto Duca d'Albania, e me ne maraviglio forte. Dalli uomini di Silano, per lettere e per relazione a bocca di 3 delli miei che vi ho mandati a posta, ho inteso come iersera a ore due di notte arrivò a Silano uno terriero del detto Duca, che domandava vettovaglia per 14m. persone tra piedi e cavallo; e che questa sera, che serà alli 30 di decembre, arrivaranno a Silano. Ora io mando due altri nomini per avere più chiara informazione; e a V. S. mi raccomando.

Castelnovi, penultimo decembris 1524.

[268]

CLXII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. È accaduto a questi dì, quando la gente del Duca di Albania passorno per questa provincia, che alcuni soldati presero a Vitiana uno delli nostri, il quale andava drieto il campo per pigliare denari; che, per quanto ne ho relazione da uomini degni di fede, è giovane da bene; ma quelli soldati, o per rubarlo o per qualche suspizione che a loro nascesse, lo presero, come ho detto, e legaronlo, imputandoli che era delli banniti di questo paese, e che andava drieto al campo per fare qualche tristizia. Di poi accadde, che giungendo a Diecimo, incontrando uno suo parente detto Cristoforo di Lucca da Dessa, ed essendo da lui conosciuto, fu per opera di colui aiutato e favorito in modo che se ne fuggì. Pare che dalli prefati soldati sia stato fatto relazione a V. S., di sorte che hanno fatto pigliare il detto Cristoforo siccome uno commettitore di grandissimo fallo per avere liberato costui. Io fo fede a V. S. che questo che prima fu preso, nominato Battista di Gio. Andrea da Sassi, è di buonissima famiglia, nè da chi lo conosce è reputato se non per giovane da bene, e non ha bando nè condennazione alcuna; sì che nè quell'altro che l'ha liberato ha commesso per questo grande errore: onde io lo raccomando a V. S., e le prego che se non l'hanno ritenuto per altra causa, siano [269] contente per amore mio liberarlo: in buona grazia delle quali sempre mi raccomando.

Castelnovi, 13 ianuarii 1525.

CLXIII

Agli Otto di Pratica di Firenze

Magnifici et excelsi domini, domini mihi observandissimi. Credo che a Vostre Signorie sia a mente, che alcuna convenzione è tra esse e lo Ill.mo signor Duca mio di non permettere che li banditi del dominio dell'uno stiano su quel dell'altro. La qual convenzione, poichè per il prefato Signor mio mi fu notificata, ho sempre integramente osservata in questa provincia a me da Sua Eccellenza commessa; chè li banditi di cotesta eccelsa Repubblica ho avuto nel medesimo conto ch'io ho li banditi e ribelli di Sua Eccellenza; e quanto più mi pare di fare il mio debito, tanto mi dà più da dolere il non mi vedere rendere il cambio. Già molti dì sono mi dolsi con Vostre Signorie che in Fivizzano, e nel suo capitaneato, era dato ricapito ad alcuni che di qui eran banditi per omicidii e assassinamento fatto in le persone del figliolo e della madre delli Conti di san Donnino; e da Vostre Signorie mi fu risposto che circa a questo avevan scritto al suo Commissario di Fivizzano, come avesse da fare. Ma qual fusse tal commissione e come quel Commissario avesse da fare, io non potei saper mai; se non che vedendolo pure perseverare in patire che tali ribaldi stessino in la sua provincia, mi pensai [270] che così fusse di mente di Vostre Signorie, e mi stetti senza replicare altro, persuadendomi, che per qualche ragionevole rispetto esse volessino così; e mi bastò che quelle fussino da me state avvisate. Così voglio fare ancora al presente: notificare ad esse, che uno detto Bernardello da Ponteccio, bandito di questa provincia per tanti omicidii, furti, assassinamenti e violenze d'ogni sorte, che a volerle esplicare non basteria nè questo nè dieci altri fogli appresso; poichè non trova più ricapito altrove; chè non è luogo qui intorno dove non abbia fatto qualche enormissimo delitto; si è ridotto a Fivizzano, e per quanto mi ha riferito chi lui, e due suoi compagni non migliori di lui, l'un detto Pellegrino e l'altro Rafaello, ha veduti su quello mercato, hanno il salvocondotto da quel Commissario di starci sicuramente. Io n'ho voluto dare avviso a Vostre Signorie, e supplicarle, che se non è di suo consenso che ci stiano, e che si manchi delli capitoli e convenzioni, sieno contente per amor della giustizia di commettere che questi tre assassini famosissimi sieno presi, e fare che sia di loro eseguito secondo il merito; chè mi rendo certo che anco nel dominio di Vostre Signorie abbino commesso più di un delitto notabile, e quando qualche rispetto ritenesse quelle da far questo effetto, almeno comandino che siano cacciati, e non patischino che tal peste infetti il suo paese. Se anco per qualche causa (che io non so) a Vostre Signorie piace che abbino ricapito e favor su 'l suo, io non sono per oppormi alla volontà loro, e mi basterà che non [271] sia mancato per me di non averne dato avviso: e se bene non serò ricambiato circa questo officio e debito, non resterà per questo ch'io non osservi, quanto dal mio Signore illustrissimo mi è stato imposto, di avere li banditi e ribelli di Vostre Signorie come capitali nimici di Sua Eccellenza, e che in questa e in ogni altra cosa ch'io possa, io non studi di sempre gratificare Vostre Signorie; in bona grazia delle quali sempre mi raccomando.

Castelnovi, 17 ianuarii 1525.

CLXIV

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes domini, domini mei observandissimi. Uno Paolino da Molazzana e uno Cecchino da Colomini sono ricorsi a me come, per lo officio che io tengo, loro protettore, che io preghi V. S. e li raccomandi due, l'uno figliuolo de l'uno, e l'altro fratello de l'altro; li quali esse hanno in pregione per essersi trovati con certi altri, che andavano drieto al campo del Duca di Albania a partecipare di certa carne; di che V. S. debbono essere meglio informate che me. Quando il loro delitto sia piccolo, come questi me lo narrano, che non si sieno trovati ad ammazzare le bestie, ma a pigliare della carne poi che sono state morte, li raccomando a V. S.; tanto più che essendo essi ancora soldati della compagnia di Betto Cartolaro, come questi mi dicono, l'avevano fatto con più sicurtà: sì che, essendo così, prego V. S. che per mio amore non li [272] faccino patire per altri più di quello che merita la loro colpa; che quando fussino stati principali a questo o altro delitto notabile, io non sarei per pregare per loro, anzi mi dolerei che la giustizia non avesse suo loco. In buona grazia di V. S. sempre mi raccomando.

Castelnovi, 18 ianuarii 1525.

CLXV

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini, domini mei observandissimi. Le S. V. vederanno quanto a quelle, e similmente a me per le qui allegate, scrive il capitano di Reggio circa di quelli assassini presi dal barigello di V. S.; di che, quando al detto capitano sia stato referito la verità, come scrive, prego V. S., per amore della giustizia, siano contente darceli in le mani; chè cosa più grata non potriano fare allo illustrissimo Signore mio: e a quelle in buona grazia del continuo mi raccomando.

Castelnovi, 2 februarii 1525.

CLXVI

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Io sono per eseguire quanto V. S. mi ricercano, di fare publicare la taglia in contra quel Jeronimo da Castiglione ad ogni loro requisizione; nondimeno, perchè da alcuni giorni in qua il mio capitano delle [273] genti che ho qui è in pratica con certe spie che li promettono di darglielo in le mani, mi pare, così parendo anche a V. S., di soprasedere alquanto, e vedere lo effetto che farà questa spia: che se al fine le promesse riusciranno vane, sempre si potrà venire a questa publicazione. Il detto Jeronimo non si trova al presente, per quanto mi è riferito, nel paese; e questo saria uno avvertirlo che non ci venisse, e che non si fidasse di venire in questa ducale provincia: pure al più savio parere di quelle mi riporto; in buona grazia delle quali mi raccomando sempre.

Castelnovi, 12 februarii 1525.

CLXVII

Ai medesimi

Magnifici etc. Alcuni nostri da Carreggine erano iti al Borgo, e avevan comprate due some di farina di castagne per portarsele a casa, non sapendo che ci fusse divieto alcuno questo anno, sì perchè loro parea che questo anno è assai buona ricolta, e che le cose dovessero essere più larghe del solito, sì ancora perchè vedevano che di questa ducale provincia si lascia estraere alli sudditi di V. S. ciò che vogliano: e mentre che le some si caricavano, che ancora non si erano partite dal loco, dalla famiglia di quel vicario fur loro levate le bestie e le some, sì come côlte in frodo. Io ho voluto ricorrere a V. S. sì come a quelle che mai m'hanno negata grazia ch'io abbi loro domandata, [274] e pregarle che faccino rendere a questi poveri uomini la sua roba; che prima intendo, che questo anno non è stato fatto divieto alcuno per bando, o per altra via, che s'abbi potuto intendere che le robe che si vogliono per uso suo non possino ire fuora; e poi queste some sono state prese prima che si siano partite del loco, chè pure, quando apparisse che ci fusse frodo, l'uomo suddito delle S. V., che le ha vendute a persone che non le possano estraere, doverìa essere punito; chè esso non può avere la scusa di non sapere li ordini, come per la verità l'hanno questi nostri di Carreggine, chè questi sono forestieri e non sanno quello che di tempo in tempo, secondo li bisogni, sia determinato. In somma, io prego V. S. che quelli boni portamenti che tuttavia io uso verso li suoi sudditi, anco esse voglino che siano usati verso quelli del mio illustrissimo Signore: in buona grazia delle quali mi raccomando.

Castelnovi, 24 februarii 1525.

CLXVIII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi. Altra volta scrissi alle V. S. in recomendazione del presente latore, che è Gemignano di Cristoforo da Riccovolto abitante a Coreglia, quale era incorso in certa pena per cavare robe dal distretto delle S. V.; e, secondo che esso mi riferì, le S. V. erano contente per amor mio lassarli la parte toccava a quelle, pure che fusse d'accordio con li daziarii, e [275] parmi che costui per povertà non abbi satisfatto li daziarii; e di nuovo è stato preso: pertanto prego le S. V, che quello che per amor mio lassavano a questo nostro suddito a quel tempo, o vero il Collegio che allora era, di volerlo fare ancora adesso, offerendomi in queste e in cose maggiori sempre al beneplacito delle S. V.: alle quali sempre di buono core mi raccomando.

Ex Castronovo Carfagnane, ultimo martii 1525.

CLXIX

Ai medesimi

Magnifici etc. Ho visto quanto V. S. mi scriveno in recomendazione di Bartolomeo e Girolamo Mariani dal Borgo; le S. V. sanno che mi possono comandare: io non sono per mancare del debito mio, e prestare tutto quello favore a quelli suoi, che per me giustamente si potrà, con breve espedizione, come sono obbligato per amore delle prefate V. S.: alle quali di buono core mi raccomando.

Ex Arce Castri novi, 27 aprilis 1525.

CLXX

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. A questi giorni ho ricepute due di V. S., una delli 8, l'altra de' 12 del presente, per le quali mi avvisano li mali deportamenti che fanno quelli di Valico di [276] sotto alti suoi di Coreglia e di Motrone; il che mi è dispiaciuto sommamente: ma non mi meraviglio di quelli di Valico, perchè alli giorni passati hanno avuto ardire di volere mettere mano alli nostri balestrieri che erano andati là per fare certe esecuzioni. Sono certo che il mio Signore ne farà dimostrazione verso loro, come già m'ha scritto sua Eccellenza: ho mandato a chiamare quelli tali che V. S. mi mandorno nominati in una sua lista, quali oggi hanno mandato qui a me due suoi incaricati, per intendere la causa perchè io li chiamo: ho detto loro che io voglio che comparischino personalmente: comparendo o no, procurerò contra di loro a quanto vorrà la giustizia, nè mancherò di fare tutto quello potrò, se aranno fallito, di punirli, come sono obbligato per le V. S. e per la ragione. Circa quanto V. S. mi scrivono di Belgrado, arìa grandissimo piacere fusse relassato di prigione, e che V. S. pigliasseno da lui la sicurtà conveniente al grado suo di vicinare bene con li suoi sudditi, che io ci veggio male ordine che lui trovi sicurtà di 400 o 500 ducati, ma sì bene una sicurtà onesta, e così lo recomando alle S. V.: alle quali mi raccomando.

Ex Castronovo Carfagnane, die 14 maii 1525.

CLXXI

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. È stato qui da me uno Bernardo Guassello da Castiglioni, [277] suddito di V. S., e dice, che mandando alli dì passati una soma di capretti a Lucca suso un asino, quale aveva tolto in presto da una vedova da Ponticosi, li fu levato da certi di Aquilea, allegando che lo asino è loro; e parmi che costì in vescovato sia stato giudicato l'asino essere di quelli di Aquilea; adesso dice la causa essere davanti le S. V.: e perchè io ho parlato con quelle due prove da Ponticosi, e anco con delli altri, che la verità è, che l'asino è quello di quella vedova, e che lei glielo prestò, e che già sono 3 anni che lei il comprò, prego le S. V. che, se bene costui non ha indotto tante prove come li suoi avversarii, e questo per la incomodità e spese, che quelle si voglino aderire alli più degni, perchè questi dei Ponticosi sono uomini da bene e uomini che non diriano questo, se non fusse la verità; e che perciò non permettino sia fatto torto a questo suo, come sono certo faranno: alla buona grazia delle quali mi raccomando.

Ex Castelnovo Carfagnane, die 24 maii 1525.

CLXXII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Verrà dalle S. V. prete Giovanni da Mulassana, e narrerà a quelle li mali portamenti di prete Martino da Vergemoli, e massime il minacciare li fa d'andarli alla casa con gente, se lui non si accorda seco: e perchè sono certo che le S. V. amano la [278] giustizia, e non hanno men caro li sudditi del signor Duca che li suoi proprii, prego quelle che voglino fare qualche provvisione che quel prete Martino non li abbi ed innovare cosa alcuna, e che sia il vescovo che giudichi fra loro, e non le armi, perchè ne porria resultare qualche grande scandalo. Circa quelli di Valico, in risposta dico alle S. V., che, trovandomi alla fine del mio officio, non passeranno 8 o dieci giorni che io verrò costì in persona, e menerò meco qualche uomini di Valico, e avanti che io parti di costì piglieremo quel più espediente modo che parerà alle S. V., acciò che innanzi che io parti di qua, si operi questo bono effetto che esso Belgrado sia liberato, e quelli di Motrone e di Valico restino boni amici. E alle S. V. mi raccomando.

Ex Castronovo Carfagnane, 29 maii 1525.

CLXXIII

Ai medesimi

Magnifici ac potentes domini mei observandissimi. Anco che per un'altra mia io abbi differito con le S. V. di parlare con esse, circa al caso di Belgrado, alla mia venuta costì, sono stati poi da me questi di Valico, e hannomi detto, che altre volte hanno menato costì a Lucca li loro pagatori del suo territorio, e quando sono stati costì, gli è stato detto nelle orecchie si vadino con Dio, adeo che questi di Valico si diffidano di potere trovare pagatore nel territorio di quelle, perchè questi suoi temeno che [279] se entrano pagatori per Belgrado, non fare dispiacere alle S. V.; ma mi propongono un altro modo, che li suoi di Mutrone dieno le sicurtà loro nel territorio delle S. V., e li di Valico nel paese, quando bone e sufficienti, e che l'una sicurtà e l'altra si obbligano in forma camerale: sì che V. S. si degnino avvisarmi quello loro pare, perchè potriano passare 12 o 15 giorni innanzi che io potessi venire costì, e averia più caro di venire con risoluzione che in confuso. E a V. S. mi raccomando.

Ex Castronovo Carfagnane, 30 maii 1525.

CLXXIV[299]

Al doge di Venezia

Ser.mo Principe et Signor mio Ex.mo Supplicai alla Serenità Vostra nel 1515 a dì 25 ottubrio[300] io devotissimo servo suo Ludovico Ariosto nobile Ferrariense, et familiare dell'Ex.mo S.r Duca di Ferrara, come havendo già alcuni anni con mie longe vigilie et fatiche per spasso et recreatione de Signori et persone de animo gentile composta una opera di cose piacevole et dilettevole di armi et amor, chiamata Orlando furioso, et desiderando alhora ponerla in luce per solazzo et piacer d'ognuno, che mi concedesse gratia, la qual etiam obtenni da essa et dal Collegio suo, che niuna persona nè terriera, [280] nè forestiera di qualunque grado esser si vogli ardisse nè presumesse in le terre et loci del dominio di Vostra Sublimità de stampar nè far stampar in forma alcuna di littera nè di foglio grande, piccolo, nè piccolino, nè che potesse vender nè far vender ditta mia opera senza expressa licentia et concessione de mi supplicante author di essa, sotto pena di perder tutte tal opere, che si attrovasseno stampate et de ducati mille per cadauno che le avesse stampate, o fatte stampar, vendute o fatte vender, la mità della qual pena fosse applicata a chi piacesse a Vostra Sublimità, et l'altra mità cum li libri stampati o venduti a mi Ludovico prenominato. Et perchè per nova leze Vostra Serenità ordinò, che tal gratie non fossono viridice se non fussero approbate per lo Ex.mo Conseglio de Pregadi, questa mia opera è stata stampata da molti incorrettissima,[301] onde mi è stà necessario prender fatica di correggerla, et anchora la ho riconzata et riformata in molti loci. Et volendola ora dar fuori cum queste nove corretione,[302] supplico alla Sublimità Vostra, che la istessa gratia, che mi concesse del 1515 a' 25 di ottubrio, come [281] ho ditto di sopra, se degni hora confermarmi, et de novo conceder in questa mia opera cussì corretta et emendata, sì che niuno nè terrier, nè forestier di qualunque grado presuma di stamparla o farla stampar, nè venderla o farla vender cum queste corretione nove in le terre, loci, et dominio di Vostra Ill.ma Signoria mentre ch'io vivo, senza mia expressa licentia et concessione; sotto le dette pene ut supra specificate nella gratia concessami per Vostra Serenità con el suo Collegio del 1515 preditto. Alla gratia della qual humiliter mi ricomando.

Die dicto (7 genn. 1527).[303]

Quod suprascripto supplicanti concedatur quantum petit.

De parte 126
De non 14
Non syncere 3

Marinus Molino
Daniel Rhener
Io. Emilianus
Aloy.s Mocenicus eqs.
Marcus Minius
Franc.s Donatus eqs. Consiliarii.

Facte fuerunt lit. patentes die 14 mensis suprascripti 1527.

[282]

CLXXV

A Messer Pietro Bembo

Virginio mio figliuolo viene a Padova per studiare. Io gli ho commesso, che la prima cosa che faccia, venga a far riverenza a V. S., e si faccia da lei conoscere per suo servitore. Io priego V. S., che dove gli sarà bisogno il suo favore, sia contenta di prestarglielo; e sempre che lo vedrà, lo ammonisca ed esorti a non gittare il tempo.[304] Alla quale mi offro e raccomando sempre.

Io son per finir di riveder il mio Furioso: poi verrò a Padova per conferire con V. S., e imparare da lei quello che per me non sono atto a conoscere. Che Dio conservi sempre.

Ferrara, alli 23 febraro 1531.

Di Vostra Signoria Servitore,
Lodovico Ariosto.

Fuori — Al Reverendiss. Monsignor Pietro Bembo.

CLXXVI (inedita)[305]

Al conte Nicolò Tassone d'Este[306]

Signor Conte mio hon.mo Vostra Signoria non si gravarà s'io le darò fatica, chè l'humanità sua verso [283] di me mi daria ardire di affaticarla in molto maggior cosa di questa, con fidutia che non meno la faria volentieri che io haveria piacere ch'ella lo facesse. Io vorrei stampare di nuovo il mio Orlando furioso acciò che io gli emendassi molti errori, che, oltra quelli che per poco diligentia vi ho fatti io, hanno fatto ancora li stampatori; et anche vi ho fatto alcune aggiunte che spierò che non spiaceranno a chi le leggerà. Et perchè vorrei essere sicuro che li stampatori non l'havessino a stampare contra mia volontà, prima ch'io lo stampisca, ho ottenuto da quasi tutte le potentie d'Italia che finachè viva nessuno lo possa stampare senza mia licentia. Io vorrei ancho ottenere il medesimo da l'Illu.mo Sig.r Duca di Milano, et così prego Vostra Signoria che sia contenta d'impetrarmi questa gratia da Sua Excellentia, et acciò sia informata di quello che vorrei, le mando qui annessa una copia de la lettera che circa questo mi ha fatto il Sig. Duca di Mantova.[307] Di questo io la priego strettamente, alla quale mi offro et raccomando sempre, e la prego che mi raccomandi in bona gratia del Sig. Conte Massimiano.[308]

Ferrariae, XIX iunii 1531.

Di Vostra Signoria

Ludovico Ariosto.

[284]

CLXXVII

Al marchese di Mantova

Ill.mo ed Ecc.mo Sig. mio osserv.mo Essendo io in procinto per mandare di nuovo a stampa il mio Orlando furioso, e per questo bisognandomi far condurre da Salò quattrocento risme di carta, supplico Vostra Eccellenza che sia contenta di commetter che per le sue terre possa esser condotta liberamente senza pagamento di alcun dazio, sì come anche la felice memoria del Marchese suo padre mi concesse di poterne condurre fin alla somma di mille risme, della qual somma io mi feci condurre solo risme duecento. E perchè non reputo che Vostra Eccell.a m'abbia per manco servitor suo che m'avesse il padre, con non minor fiducia ricorro a quella, e la supplico che mi faccia questa grazia; e non solo per questa volta, ma per sempre che mi accadrà di stampare: chè se ora ho aggiunto da quattrocento stanze al detto libro, spero ad altra addizione di aggiungervene molte più: e come in questa ho nominato Vostra Eccell.a con qualche laude, non sono anco per tacerla nell'altra. Io fo pensier anco di stampare alcune mie cosette; sicchè quella non voglia tenermi per importuno e poco discreto se sempre ch'avrò bisogno di carta domanderò a quella il transito per le sue terre libero: in buona grazia [285] della quale umilissimamente mi raccomando sempre.[309]

Ferrariae, XV januarii MDXXXII.

Di Vostra Eccellenza

Ossequiosiss.o servitor,
Ludovico Ariosto.

Fuori — All'Ill.mo ed Ecc.mo Signor mio osservandiss.mo il Sig. Duca di Mantova.

CLXXVIII

A Gianfrancesco Strozzi

Magnifico messer Giovanfrancesco. V. S. intenderà per la lettera di frà Gasparo, come è venuto a Ferrara indarno; e questo per colpa del portator delle lettere, che al passar che fece di qui, non mi parlò, ma diede le lettere a casa mia, e se ne portò con lui il decreto, il quale poi pur oggi per le mani di frà Gasparo ho avuto: sicchè non l'ho potuto far vedere, ed è forza ch'io lo ritenga per far quanto circa questo accade; ma n'avrò buona custodia, non meno che n'avria il magnifico vostro padre: e poi ve lo rimetterò a salvamento, o pur farò quanto mi scriverete. Col magnifico messer [286] Guido non ho voluto parlar circa le possessioni di Quartesana, se prima non vi avviso che la possessione che voi vorreste non è in sua potestate, però che subito dopo la morte di madonna Leona, gli fu forza a venderla per restituir la dote alli suoi eredi; e solo gli resta in Quartesana quella sua bella possession grande, che vale forse otto o dieci mila ducati: chè più tosto credo che darìa via la moglie che la possessione, perchè non ha se non quella appresso a quel bel palazzo. Di quelle che vi vorrìa dare in godimento a Recano,[310] non siete ben informato circa il condurre delli ricolti; perchè li lavoratori sono obbligati a condurre ogni cosa a Ferrara. Gli è vero che per le rotte di Po due volte si è affondata; ma Dio sa se questo accaderà più, perchè tal rotta è stata perchè li Mantovani han tagliato l'argine: alla qual cosa penso che i signori Veneziani ed il duca nostro abbian da provedere, o per una via o per un'altra, che non lo faccian più. Circa questa e l'altre particolarità si tratterà quando sia fatto quello che principalmente s'ha da fare: che sarà alla tornata di madonna Simona e di frà Gasparo, che gli è forza che torni un'altra volta.

Madonna Alessandra[311] si raccomanda a V. S., ed a vostra sorella; e per questo messo le manda due [287] drappeselli, di quelli ha fatto far a posta; che tutti due insieme ha pagato uno scudo d'oro, ma con gran parole e contese, che 'l giudeo che li ha fatti, ne volea quattro lire: pur gli è convenuto aver pazienza. E si offerisce in quello che può, e la prega che le comandi: e così fo io.

Ferrara, 19 ianuarii 1532.

Di Vostra Signoria,
Lodovico Ariosto.

CLXXIX

Al medesimo

Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Io ho fatto vedere il decreto vostro al magnifico messer Buonaventura,[312] il quale mi dice, che non è bisognato nè bisogna farlo confermare altrimente, perchè così è valido, e che ve ne sono assai altri simili, che sono buoni e validi. Pur oggi n'ho parlato col magnifico messer Guido, il quale mi ha detto di volerlo vedere ancora lui, e così glielo mostrerò: il quale messer Guido ho pur trovato disposto più che mai. Appresso ho parlato ancora con messer Bonaventura di questa nostra pratica; al quale è piaciuta assai, e mi ha promesso, come madonna Simona sia tornata da Modena, dove è andata per lo parto che si aspetta della figliuola, di parlarne con lei; il che facendo (come farà), ed [288] essendo persona che può molto disporre di essa, credo che non bisognerà per questo dare fatica a frate Gasparo di tornare in questa terra. Quando ella sarà venuta, e di quello che si sarà fatto, vi darò avviso.

Madonna Alessandra si raccomanda a V. S., e dice d'aver avuto uno scudo, e li parèa d'avervene avvisata, quando mi fe' scrivere che quelli due drappeselli aveva avuto per uno scudo. Ha poi avuto per il cancelliere delli Furgosi cinquanta bolognini, e per il velo della Madonna (che poi non vi parse che si comprasse) aveva anco avuto trenta bolognini, li quali tutti insieme, senza lo scudo, fanno lire quattro: ma li primi drappeselli costaro tre lire e mezza tutti due; sicchè vi resta debitrice di dieci bolognini: li quali, quando vi accaderà di volere altro in questa terra, vi saranno menati buoni. Pur vi avvisa che così come ogni dì cresce in questa terra il prezzo dell'altre cose; anche questi Giudei vanno crescendo quello delli suoi lavori. S'ella non vi avvisò il prezzo delli primi drappeselli, dice che non restate per questo di comandarle ed adoperarla; chè non era tanta somma che ci avesse a gravare, se ben voi non le aveste mandati i danari: e che quando non vi vorrete servir di lei, voi e vostra sorella e tutta casa vostra, dubiterà che non le vogliate bene. Alli quali tutti si raccomanda sempre, ed io appresso.

Ferrara, 20 ianuarii 1532.

Di V. S. sempre,
Lodovico Ariosto.

[289]

CLXXX

Al marchese di Mantova

Ill.mo ed Eccell.mo Signor mio osservandiss.mo Io mi chiamo perpetuamente obbligato a Vostra Eccell.a del dono ch'ella mi ha fatto, che la mia carta possa passar pel dominio suo senza pagar dazio; ma più me le obbliga molto l'aver per le sue lettere veduto quanto di bona voglia mi ha concesso questo, e datomi speranza di maggior cosa quando mi accada. Io all'incontro mi sforzerò di non parer ingrato a tanta benignitade, ed anco in questa poco di aggiunta ch'io son per dar al mio Furioso Vostra Eccell.a potrà veder ch'io ho di lei parlato onoratamente: in bona grazia della quale mi raccomando sempre.

Ferrarie, XVII febr. MDXXXII.

Di Vostra Eccellenza

Devotissimo servitor,
Ludovico Ariosto.

CLXXXI

A Gianfrancesco Strozzi

Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Ho avuto, insieme con messer Guido e con madonna Alessandra, gran dispiacere della lettera, che vi sia stata aperta. S'userà per l'avvenire più diligenza, che non accada più. Lo amico non è ritornato ancora dal loco dove era andato: pur si [290] aspetta in breve. Come sia ritornato, farò quanto per l'altra ho promesso a V. S. Circa il nome delli lavoratori, l'uno ha nome Pier Antonio Tomi, e l'altro Santo Zago. Madonna Alessandra mi dice, che non facciate fondamento sopra queste possessioni, perchè ha da messer Guido intenzione che più tosto vi saran date per una dimostrazione, che perchè sieno in effetto quelle che v'abbiano a fare le spese, perchè lui (non) vi mancherà di tutto quello che avrete bisogno. Purchè si faccia che l'amico sia contento, non vi avete a pigliar cura d'altro. Altro non dirò. Mi offero, e raccomando, insieme con madonna Alessandra, a Vostra Signoria.

Ferrara, 20 febr. 1532.

Di Vostra Signoria,
Lodovico Ariosto.

CLXXXII

A Giovan Giacomo Calandra[313]

Mag.co mess. Giovan Jacomo mio onor.mo Io mando per l'apportator della lettera di Vostra Signoria quattro commedie, cioè tutte quelle che mi trovo mai aver fatte. Quella sarà contenta di donarle da mia parte all'Ill.o sig. Duca. S'io ne finirò un'altra che già molt'anni cominciai, e, menatala un pezzo innanzi, per altre occupazioni la messi da parte, io ne farò copia a Sua Eccell.a Adesso io sono così [291] occupato per mettere un'altra volta il mio Furioso a stampa con alquanto di addizion, che non posso attender ad altro. E se in queste commedie troverete qualche errore circa l'osservazion della lingua, scusatemi, chè ancora ch'io li abbia veduti non ho avuto tempo di correggerli. Oltre quello ch'io ne scrivo al sig. Duca, Vostra Signoria lo pregherà da mia parte, che, per inavvertenza di chi avrà le commedie nelle mani, non si lascino sicchè vadano a stampa, come sono andate delle altre volte con mio gran dispiacere: e a Vostra Signoria mi offro e raccomando.

Ferrariae, XVIII martii MDXXXII.

Di Vostra Signoria

Ludovico Ariosto.

Fuori — Al molto mag.co mess. Giovati Jacomo Calandra maggior mio onorand.mo

Mantova.

CLXXXIII

Al marchese di Mantova

Ill.mo ed Eccell.mo Signor mio. Io mando a Vostra Eccll.a per questo suo gentiluomo, il quale è venuto qui, tutte le commedie che mi trovo aver fatto, che sono quattro; come io promisi di far per una mia che scrissi a Braghino: ed ora da mess. Giovan Jacomo Calandra mi sono state da parte di Vostra Eccell.a domandate. Due ci sono che non credo che quella abbia più vedute; l'altre, ancora [292] che sieno a stampa per colpa di persone che me le rubaro, non sono però nel modo in che io le ho ridotte; massimamente la Cassaria che tutta è quasi rinnovata. Se le satisfaranno a Vostra Eccell.a n'avrò piacere grandissimo. Quella supplico che sia contenta di non lasciarle andare in modo che sieno stampate un'altra volta, che oltre che non credo che le stampassino più corrette che abbian fatto l'altre volte, io ci cognosco dentro delli errori circa la lingua, che, per trovarmi ora occupato in altro, non ho avuto tempo di correggerli; ed anco chi le ha trascritte non ci ha usato quella diligenza che avria possuto: ed io, perchè questo uomo di Vostra Eccellenza non ne venga senza, non ho tempo di ridurle altrimenti; chè piuttosto voglio ch'ella le abbia ora non così ben scritte, che indugiando darle sospetto ch'io sia men pronto al servizio suo di quello che è mio debito di essere. In buona grazia della quale mi dono e raccomando sempre.

Ferrariae, XVIII martii MDXXXII.

Di Vostra Eccellenza

Devotiss. servitor,
Ludovico Ariosto.

CLXXXIV

A Gianfrancesco Strozzi

Magnifico mio onorando. Pel messo di Vostra Signoria ho avuto una lettera, per la quale ho inteso la morte del suo magnifico padre: cosa che mi è dispiaciuta, perchè d'ogni piacere e dispiacere [293] di V. S. ne son partecipe, come debbe esser un amico per l'altro; ma queste cose son tanto generali, che non si può dire altro se non confortarla, e conformarsi con la volontà di Dio, ed aver pazienza. Circa l'altra parte, io ho già (come io scrissi a V. S.) parlatone con messer Bonaventura, e da lui ebbi intenzione che farebbe quel medesimo effetto che 'l disegno nostro era ch'avesse a fare il frate: tuttavia non l'ha fatto ancora. Io gli sarò alle spalle, e farò che lo farà ogni modo. Ho parlato all'amico di nuovo, e cercato che si risolva; ma gli è tanto lungo in tutte le sue cose, che gli è impossibile cavarne ferma risoluzione; e adesso massimamente si rende più irrisoluto del solito, perchè si trova molto di mala voglia, chè la maggior parte del suo si trova sotto l'acque, ed ha quasi dubitazione che le entrate ch'egli ha non possano supplire solamente al viver di casa, perchè, come sapete, ha gran spesa alle spalle. Dio sa, che nè per madonna Alessandra nè per me si manca di far tuttavia buono officio, e di combatterlo per amor vostro: ma non si può aver dalle persone se non quello ch'esse vogliono. Il vostro decreto è in loco salvo: del quale, come io credo avervi scritto, parlai a messer Buonaventura: il quale mi disse, che essendovi quella clausola, — per sè e figliuoli e discendenti, — non accadeva altra riformazione. Ma non ci è stato tempo di farglielo vedere, perchè, per il male del duca nostro, c'ha avuto qualche giorno, e per altri travagli, non ha avuto tempo di vederlo; ma se gli farà vedere, e lo solleciterò [294] che faccia quest'altro effetto: benchè non l'ha potuto far fin adesso, perchè la figliuola dell'amica, la quale è maritata in questa terra, è stata male di parto, e la madre è stata a casa sua sempre. Non si è mancato fin qui, bench'io non vi abbia scritto altrimente, di far il debito nostro, nè si mancherà. Parlato che si sia alla donna, se si potrà disporre, credo che 'l resto sarà facile, e subito vi si avviserà: se poi vi parrà che vi sia data la lunga, potrete poi provedere alli casi vostri. Altro non occorre. Mi vi offero e raccomando sempre, e così madonna Alessandra.

Ferrariae, 29 martii 1532.

Di Vostra Signoria,
Lodovico Ariosto.

CLXXXV

Al medesimo

Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. La pratica nostra per un'altra mia vi messi un poco in dubbio: e perchè, per quello ch'io vi scrissi allora, non vi vorrei aver tolto di speranza, sicchè voi cercassi qualch'altra impresa nuova, per questa vi significo che le cose anderanno bene; perchè l'amico ha parlato con la mogliere, la quale ha rimesso a lui che faccia come gli pare, e l'amico mi ha parlato da sè, il quale è tutto disposto a voi, purchè non ci partiamo dalle condizioni di che già avemo ragionato: cioè che per adesso egli non abbia da sentire altra spesa; perchè, come v'ho scritto, [295] si trova per le acque mezzo ruinato, ed avrà fatica a far le spese alla sua famiglia quest'anno. Vi consegnerà le possessioni che sapete, pel vostro vivere; con riserva, che quando s'affondassino, di far come per altre v'ho scritto; e che voi abbiate a prestargli il modo di vestire, restandovene esso padrone. Io v'ho scritto questa in fretta: poi vi dirò più ad agio le cagioni che l'aveano fatto un poco parer restìo. A V. S. mi raccomando.

Ferrariae, 5 aprilis 1532.

Io forse vi scriverò fra pochi dì che vegnate in questa terra, e, senza mezzo di frati, tratteremo e concluderemo fra noi. Io v'ho da dare un avviso: che quel vostro che piativa la casa, come ha sentito la morte di vostro padre, si ha voluto intromettere, e farsi mezzo in questa pratica. Ma l'avemo spazzato. Madonna Alessandra vi si raccomanda.

Vostro,
Lodovico Ariosto.

CLXXXVI

Al marchese di Mantova

Ill.mo ed Ecc.mo Signor mio osservand.mo Mi duole che le mie commedie per essere in versi non abbiano satisfatto a Vostra Eccell.a A me pareva che stessero così meglio che in prosa: ma li giudicii son diversi. Le due ultime io le feci da principio nel modo così strano, e mi duole di non averle anch'io fatte in prosa per aver potuto satisfarne [296] a quella. La quale sia contenta d'accettare il buon animo. Io le riferisco grazia che me le abbia (poi che non fanno per lei) rimandate subito. In buona grazia della quale mi raccomando sempre.

Ferrariae, V aprilis MDXXXII.

Di Vostra Eccellenza

Servitore deditissimo,
Ludovico Ariosto.

CLXXXVII

A Gianfrancesco Strozzi

Magnifico mio onorando. Ora ritrovandomi in casa di madonna Alessandra, è arrivato un vostro messo con una vostra lettera; ed è arrivato a tempo, perchè avevo bisogno di scrivervi, e non sapeva come mandarvi la lettera. Non ieri, l'altro, venne una febbre a messer Guido, ed oggi, che è il terzo giorno gli è ritornata. Egli mi pare che si metta alquanto di paura, ancora che li medici gli dicano che il male non è pericoloso; e dice che si vuol confessare domani ed acconciar li fatti suoi e per l'anima e pel corpo: ed oggi, essendolo io andato a visitare, mi disse (ch'altri non v'era che egli ed io) ch'io vi scrivessi che veniste in questa terra, perchè vuole che quello che si ha da fare si concluda. Io poi sono venuto di qua a casa di madonna Alessandra; e conferendo seco questa vostra venuta, è di parere che non dobbiate correre così in fretta, perchè le pare che sarìa un far disordine e tumulto, [297] non essendo ancora placata quella fera salvatica. Io avrei ben desiderato che questo vostro messo avesse avuto volontà d'aspettar tutto domani, acciò che riparlando io con messer Guido poi che la febbre fosse cessata, avessi meglio potuto sapere quello che vorrà fare poichè sarete in questa terra; ma volendosi partire, non ho voluto che venga senza questa mia. A me parria, e così a madonna Alessandra, acciò che non veniste a volo per forse ritornarvene senza conclusione indietro, che voi non veniste all'avuta di questa; ma che voi mi mandaste qui un vostro messo subito, per lo quale io vi potessi dare avviso più maturo dell'intenzion di messer Guido risoluta, poi ch'io avessi potuto parlar seco, che non fosse sì gravato dal male come è oggi. Pur io mi rimetto a voi, che facciate in questo quanto vi pare.

Della casa non s'è fatto altro, poichè fin qui non non ne abbiamo ritrovate. Quelli de' Trotti dicono che non vogliono affittar la lor casa, ma venderla. Io non starò di cercare. Madonna Alessandra farà le vostre raccomandazioni, ma non tutte. Mi vi offero e raccomando. Ferrariae, 21 iunii 1532.

Vostro,
Lodovico Ariosto.

A Villabona.

CLXXXVIII

Al medesimo

Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Avendo a questi dì avuto una vostra lettera, subito [298] le diedi risposta, ancora che fosse direttiva a madonna Alessandra, con speranza di mandarla per lo messo che ci avea portata la vostra, perchè promise di venire a tôrla la mattina, ma poi non venne; sicchè la lettera restò qui più di tre giorni poichè fu fatta. Finalmente la dirizzammo a Lendenara in mano d'un Ercole Malmignato, con speranza che ve l'abbia a mandare: forse che a quest'ora l'avete avuta, e forse anco che no. Quando pur fosse andata in sinistro, mi è paruto di replicarvi questa, la quale il fattore di messer Guido a Recano mi ha promesso di mandarvela per un messo a posta. Voi dunque intenderete, se già non l'avete inteso, che quando la vostra lettera arrivò, messer Guido si era ammalato d'una febbre molto acuta; ed essendolo io andato a visitare, mi disse ch'io vi scrivessi che voi venissi subito, per dar fine a quanto era tra voi promesso. Poi, cessando la febbre ed essendo ritornato meglio in sè, disse a madonna Alessandra, che vi rescrivessi che voi non vi affrettassi di venire, ma che sarìa buono che voi mandassi qui un vostro messo, il quale quando fosse accaduto peggio a messer Guido vi potesse subito venire a darne avviso, acciocchè voi lasciando ogni cosa aveste a venire. E così ella ve lo scrisse di sua mano, ed anco vi mandò la mostra di certi capelli. Ora intenderete che messer Guido sta assai bene; e gli è fallato un termine della febbre: speriamo che non ne avrà più. Per questo non ci accade ad affrettarvi altrimente per adesso; ma aspettare le cose vostre per poter poi venire espedito. [299] Ben vi conforta madonna Alessandra, ed io similmente, che cerchiate d'espedirvi più tosto che sia possibile, e che vegnate poi, acciò non intervenisse qualch'altra cosa che vi avesse a far danno. Altro non accade. Madonna Alessandra ed io vi ci raccomandiamo. Se avrete la lettera di sua mano, avrete inteso di quella camorra,[314] e d'altre cose ch'ella vi scrive: se non l'avrete avuta, ve lo replicheremo un'altra volta.

Ferrariae, 28 iunii 1532.

Vostro,
Lodovico Ariosto.

A Villabona.

CLXXXIX

Al medesimo

Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Oltre quello che madonna Alessandra scrisse ieri al sicuro, chè credo ch'avrete veduta la lettera, vi avviso che messer Guido ha publicato il parentado fra voi e lui a tante persone, che non può esser che molte donne non comincino a visitar la sposa. Per la qual cosa madonna Alessandra vi prega, che, con quella più fretta che potete, mandate o da far una veste o una sottana, ma più tosto una sottana; ed anche un scuffiotto; e che rimandiate il sarto incontanente sì per questo, sì [300] ancora che sua mogliere sta gravissimamente, nè si spera che abbia a campare; e ritrovandosi lui fuori, non può esser senza pericolo della sua roba. Se le donne l'anderanno a visitare, e non si trovi meglio vestita, sarà vergogna di tutti. Sicchè affrettatevi quanto potete, e voi non passate li 20 dì di questo mese a trovarvi qui per sposarla: chè solo questa causa intertiene messer Guido, che non va a l'officio, ed ogni dì è sollecitato d'andarvi. Circa il vostro venire con compagnia, so che madonna Alessandra vi ha scritto. A messer Guido non pare che vegnate se non più privatamente che potete; perchè, per aver avviate le sue robe, non avrìa modo di accettarvi con gran compagnia. In questo si ha da eseguire la sua volontade. Mi vi offero, e raccomando.

Ferrariae, 12 augusti 1532.

Vostro,
Lodovico Ariosto.

CXC

Al medesimo

Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Madonna Alessandra non accetta la vostra scusa, nè per questo vi leva quel nome che v'ha dato nella sua lettera, per allegar voi d'aver faccende che vi ritengono: chè a lei pare, e così anco a noi altri, che nessuna, fosse di che importanza si volesse, vi dovesse più importar di questa. La scusa che ci proponete che dovria usar vostro suocero, non sarìa accettata per buona dal signor Duca; perchè già [301] son dieci giorni che va fuor di casa, e a voler mostrar di esser ricaduto non sarebbe più a tempo. Sicchè pensate di metter ogni cosa da parte, e di venir più tosto sei giorni innanzi il 28, che un'ora da poi, sì perchè siete aspettato e desiderato, sì perchè fate gran danno con la vostra tardanza a messer Guido; prima appresso al signor Duca, che lo sollecita che vada all'offizio, e poi perchè, aspettandovi, sta con gran spesa. Chè 'l genero e la figliuola e figliuolini son venuti da Modona, e l'altro genero e figliuola son venuti da Carpi; e, fra l'uno e l'altro, vi sono già parecchi dì alle spalle con presso a venti bocche, senza i cavalli: e si aspetta anco da Mantova madonna Leonara sua sorella; sicchè a pena han potuto servar una camera per voi. E più incresce a messer Guido che tutti stanno incomodi, perchè ha già mandato buona parte innanzi delle sue robe: in somma, voi avete da venir più tosto oggi, che tardare a domani.

Gli scuffiotti si sono avuti da Mantova; che sono bellissimi, e son molto ben piaciuti. Li danari si avranno dal fattor vostro; e si farà, circa il comprar l'oro, quel ch'è di bisogno. Intanto ella ed io vi ci raccomandiamo; ma molto più di noi, per quanto mi dice madonna Alessandra, vi si raccomanda la consorte vostra.

Ferrariae, 20 augusti 1532.

Vostro,
Lodovico Ariosto.

Fuori — Al molto magnifico quanto fratello onorando Messer Gianfrancesco Strozzi.

[302]

CXCI

Ad Isabella Gonzaga marchesana di Mantova

Illustrissima ed eccellentissima signora mia osservandissima. Io mando a Vostra Eccellenza uno delli miei Orlandi furiosi,[315] che avendoli meglio corretti e ampliati di sei canti, e di molte stanze sparse chi qua chi là pel libro, mi parrebbe molto uscir del debito mio, s'io, innanzi a tutti gli altri, non ne facessi copia a Vostra Eccellenza, come a quella che riverisco e adoro, e alla quale so che le mie composizioni (sieno come si vogliono) essere gratissime sogliono. Quella si degnerà di accettarlo, insieme col buono animo col quale io le fo questo picciol dono: in buona grazia della quale mi ricomando sempre.

Ferrariae, 9 octobris 1532.

Di Vostra Eccellenza

Servitor deditissimo,
Ludovico Ariosto.

CXCII[316]

A Margherita Paleologa Gonzaga, in Mantova

Ill.ma et eccell.a Signora osserv.ma Essendo io sempre stato deditissimo servitore dell'Ill.ma casa di [303] Gonzaga, è di necessità che essendo V. Eccell.a fatta di quella, io sia verso di lei quello che io sono stato verso gli altri; e perchè quella mi cognosca per suo, mi è paruto di farle un piccol dono di questo mio libro di Orlando furioso, il quale meglio corretto e ampliato ho fatto ristampare di novo. Quella sarà per sua benignità contenta di accettarlo per segno d'un principio di mia servitù ed annumerarmi nel numero de' suoi servitori; in bona grazia della quale mi raccomando sempre

Di Vostra Ecc.a

Ferrara, 9 ottobre 1532.

Servitore,
Lodovico Ariosto.

CXCIII

Al principe Guidobaldo Feltrio della Rovere

Illustrissimo ed eccellentissimo signor mio. La lettera di Vostra Eccellenza dì sette del mese passato ho ricevuta molto tardi, perchè messer Antonio Bucio portatore di essa venendo a Ferrara, non mi ci trovò, però che più d'un mese son stato col Duca patron mio a Mantova. Poi ch'io son ritornato, mi ha dato la lettera, e dettomi a bocca quanto sarebbe il desiderio di V. E. di avere alcuna mia Comedia che non fosse più stata recitata. Mi ha doluto e duole di non poter satisfare a quella in cosa di così poca importanza, alla quale vorrei poter servire con le facultadi e con la vita. Ma sappia V. E., ch'io non mi trovo aver fatto se non quattro [304] Comedie, delle quali due, i Suppositi e la Cassaria, rubatemi dalli recitatori, già vent'anni che fûro rappresentate in Ferrara, andaro con mia grandissima displicenzia in stampa: poi son circa tre anni che ripigliai la Cassaria, e la mutai quasi tutta e rifeci di nuovo, e l'ampliai ne la forma che 'l signor Marco Pio ne mandò copia a V. E.; e in questa nuova forma è stata rappresentata in questa terra, e non altrove. L'altre due, cioè la Lena ed il Negromante, sono state recitate in questa terra solamente, per quanto io sappia. Altre Comedie non ho. Gli è vero che già molt'anni ne principiai un'altra, la quale io nomino I Studenti;[317] ma per molte occupazioni non l'ho mai finita; e quando io l'avessi finita, non la potrei difendere che 'l signor Duca mio patron ed il signor don Ercole non me la facessino prima recitare in Ferrara, ch'io ne dessi copia altrove. Sì che V. E. mi abbi scusato in questo. S'in altra cosa posso servirla, disponga di me come d'un suo deditissimo servitore. In buona grazia della quale mi raccomando sempre.

Di Ferrara, agli 17 di decembre 1532.

Di Vostra Eccellenzia

Servitore deditissimo,
Lud. Ariosto.

Fuori — All'Ill.mo Signor mio Obser.mo Signor Guido Baldo Feltro da la Rovere, Ducale primogenito d'Urbino ecc. — A Pesaro.

[305]

LETTERE SCRITTE DA LODOVICO ARIOSTO A NOME DEL CARDINALE IPPOLITO D'ESTE

I

A Beltrando Costabili

in Roma.

Mess. Ludovico delli Ariosti familiare nostro carissimo viene per certe sue faccende costì, e bisognandoli il favore e aiuto vostro averà ricorso a voi, e noi riceveremo da voi piacere assai se in quello che vi richiederà per la giustizia lo favorirete e aiutarete quanto vi serà possibile; offerendosi noi in maggior cosa per voi: et bene valete.

Ferrariae,..... maij MDX.[318]

Hipp. Card. Estensis.

[306]

II

Al Rev. Padre....

R. in Cristo P. tamq. Fr. car. Noi amamo grandemente frate Anselmo de' Conti da Padua, sì per le virtù sue, come che suo patre e parenti suoi son molto nostri, e desideramo fargli ogni piacere: e per questo, quanto ne sia possibile, lo raccomandamo alla R. Paternità Vostra, che per amor nostro voglia favorirlo e averlo nel numero de li suoi più cari, e dove può farli beneficio e onore lo faccia, chè tutto quello che per amor nostro gli farà avremo tanto grato quanto se in la persona nostra fusse fatto; e a V. R. Paternità per sempre ci offerimo e raccomandamo, quae bene valeat.

Ferrariae, X iunij MDXVI.

Hipp. Cardinalis Estensis.

III

Al Rev. Don Rufino Berlinghieri, Vicario nostro

in Milano.

Ven. nobis car. Noi vi mandiamo qui incluse le copie di due lettere che Mess. Ludovico ne ricerca che scrivamo, una a voi e l'altra al Sufraganeo nostro, per utile de la Cancelleria de lo Arcivescovato nostro di Milano: e perchè noi non vorressimo far cosa contra giustizia, nè dar causa che persona si dolesse con ragion di noi, ne è parso, [307] prima che mandiamo le lettere, di mandarvene le copie: così voi le vederete e ne darete subito avviso se tal lettere seranno giustificate o non, perchè in questo ci reggeremo secondo la relazione vostra: et bene valete.

Ferrariae, XXIX novembris MDXVI.

Hipp. S. Luciae in Silice
Diaconus Card. Esten.

IV

Al medesimo

Perchè nessuno si intrometta ne le cose che appertengono alla Cancelleria de lo Arcivescovato nostro di Milano, se non Mess. Paolo Rena e Mess. Filippo da Calcano, li quali Mess. Ludovico Ariosto per l'autorità che di questo gli avemo data ha eletti all'officio di quella,[319] volemo che per nostra parte facciate uno editto, che nessuno altro notaro, se non li prefati Mess. Paolo e Mess. Filippo o li sostituti loro, si debbia intromettere in alcun atto appertinente a ditta Cancellaria, massime di collazioni e di instituzioni di beneficî ne la città e diocesi di Milano, sub poena nullitatis [308] actus et contractus, et ulterius sub poena quinquaginta ducatorum aureorum auferendorum a quolibet contrafaciente, aplicandorum pro dimidia mensae nostrae Archiepiscopatus, et pro alia dimidia Cancellariae, e così voi ancora avrete a mente di non interponere la vostra autorità in alcuno contratto, se uno de li prefati Cancellieri non serà rogato de lo instrumento iuxta solitum.

V

Al Sufraganeo nostro

in Milano.

Perchè avemo piacere che li familiari nostri alli quali avemo concessa la Cancellaria de lo Arcivescovato nostro di Milano ne abbiano quel maggior profitto che onestamente e per la giustizia se ne può avere, ne è parso per questo di avvertire la P. V. che dove può far loro utile, ne farà gran piacere a farlo, e questo serà non lasciando preterire li tempi che non tenga le ordinazioni solite. Oltra di questo sappia che non volemo per modo alcuno che ammetta altro notaro che li Cancellieri nostri, cioè Mess. Paolo Rena e Mess. Filippo da Calcano, o li sostituti loro. Ancora che reputamo che V. P. non sia per fare altramente, pur la ne avemo voluta avvisare acciò lo faccia più volontiera, conoscendo essere così di mente nostra; et bene valete etc.

[309]

GRIDE FATTE PUBBLICARE DA LODOVICO ARIOSTO IN GARFAGNANA[320]

I

Contro i ricettatori de' banditi

Per parte e comandamento del Magn. e Generoso conte Lud. Ariosto ducal generale Commissario in Garfagnana, per questa publica presente grida si notifica a ciascuno uomo particolare di che grado o condizione si voglia essere o sia, che non ardisca per modo alcuno di ricettare nè di dì nè di notte, nè dar mangiare nè bere, nè aiuto nè favore in modo alcuno che si possa dire nè imaginare ad alcun bandito dello Stato dell'Ill. Sig. Duca nostro, nè con detti banditi andare in compagnia, nè menarli seco, nè parlar nè stare, nè scrivere nè tôr lettere, nè praticare in alcun modo con essi, sotto pena di ducati cinquanta per ogni volta, e [310] per ciascun bandito, da essere applicata per li due terzi alla Camera Ducale, e l'altro terzo all'accusatore, al quale con un testimonio degno di fede e con il suo giuramento s'abbia da dar fede: e chi non averà modo di pagare la detta pena, gli sia commutata in quattro tratti di corda, e sia obbligato ognuno particolarmente subito che vederà alcun bandito di andare con prestezza alla chiesa più prossima, e di sonar la campana a martello, e sia obbligato ogni Comune, ed ognuno particolarmente di detto Comune che sia atto a portar armi e verisimilmente possa udire detta campana, di pigliar subito le sue armi, e seguitar detti banditi, e pigliarli o ammazzarli, e pigliandoli condurli in le forze dell'officio ordinario, ovvero del Commissario: e chi mancherà di eseguire questo cascherà in la pena di ducati venticinque, da essere applicati alla Ducal Camera per li due terzi, e l'altro terzo all'accusatore, da essere pagati senza dilazione e termine alcuno; e se alcuna persona non averà modo di pagare, se gli commuterà questa pena in tre tratti di corda, da esserli data subito, senz'altra remissione.

Die 27 feb. 1522.[321]

[311]

II

Contro il metter mano all'armi in rissa o tumulto

Per parte del Mag. Sig. Commiss. Conte Lud. Ariosto ducal Commiss. di Garfagnana, si fa comandamento che qualunque volta accaderà che in su la calcinaia, o in altri lochi della terra di Castelnovo [312] si faccia questione, rissa o tumulto, che nessuno sia ardito di metter mani a l'arme, se non li balestrieri dello Ill. Sig. nostro, e qualunque serà trovato con arme inastate o spade o pugnali nudi, caderà subito in pena di 25 ducati, da essere applicati li due terzi alla Camera Ducale, e un terzo all'accusatore; e chi non averà modo di pagare, averà tre tratti di corda.[322]

Die 14 octobris 1522.

[313]

III

Contro l'andare in armata sul Fiorentino[323]

Desiderando il nostro Ill. Sig. Don Alfonso Duca di Ferrara, Modena e Reggio, Marchese d'Este e Conte di Rovigo ecc. di vicinar bene con li eccell. Sig.ri Fiorentini, per questa presente publica grida notifica e proibisce a ciascun suddito di qualunque condizione si voglia essere o sia, che non ardisca nè presuma andare ne le terre o lochi delli prefati eccell. Sig.ri Fiorentini in armata ovver guarnigione, sotto alcun pretesto o scusa di fazione o parentado o altra causa, nè ardisca dare alcuna molestia alli sudditi d'essi Sig.ri, altrimenti incorrerà [314] nell'indignazione e disgrazia di S. E. e in confiscazione di tutti li suoi beni ecc.

Die ultimo aprilis 1523.

IV

Sul doversi vendere il pane nelle botteghe, nè portarlo dietro a' viandanti

Da parte ecc. Si fa intendere ad ogni persona che voglia far pan da vendere, che non abbia a tener fora nè a venderlo in altro loco che veramente drento dalle porte della terra ovvero su la calcinaria[324] a loco deputato, e nessuno ardisca di partirsi dalla sua bottega o dal suo banchetto con pane per andar drieto a' viandanti per vendere, sotto pena di perder tutto il pane che si troverà aver fora di loco concesso, ed essere condennato 10 scudi per volta, da essere applicata la metà, della pena all'inventore, e l'altra metà da esser data per limosina ecc.

Die 20 iunij 1523.

[315]

V

Sopra l'ammazzare i banditi[325]

Perchè nessuno possa pretendere d'ignoranza, per questa presente grida si replica da parte del Mag. Sig. Commissario generale di Garfagnana, che ogni bandito o condennato che ammazzi un altro che sia bandito per omicidio guadagnerà la grazia libera, avendo la pace da' suoi nemici; e intanto che la pace si praticherà averà un salvo condotto di poter star nella provincia: e se ammazzerà un bandito, e non fusse esso bandito nè condennato, guadagnerà la grazia per un ch'esso voglia, purchè non sia bandito per ribello o per assassino.

Die 3 martii 1524.

VI

Contro Gio. Madalena e Nicolò da Pontecchio banditi[326]

Per parte ecc. Si fa comandamento ad ogni persona di che condiziono voglia essere e sia di questa ducal provincia di Garfagnana, che non ardisca sotto pena di 50 ducati di dar alloggiamento o recapito o mangiare o bere a Gio. Madalena da S. Donnino nè a Nicolò di Gaspar da Pontecchio.

[316]

E si notifica a ogni persona che andrà in sua compagnia con arme, e lor presterà favore contro chi li volesse offendere, cascherà subito in bando della testa e confiscazione de' suoi beni, e poterà essere morto senza punizione alcuna.

E da l'altra parte chi ammazzerà li due predetti, cioè Gio. Madalena e Nicolò da Pontecchio, ovvero li darà presi in mano de l'officio, se serà bandito guadagnerà la grazia per ogni delitto che avesse fatto, e quando non fosse bandito poterà cavar un altro di bando e chi più li piacerà, purchè per altro non sia bandito per ribello o per assassino.

Die decimo martii 1524.

VII

Sopra l'ammazzare i banditi

Volendo l'Ill. ed Ecc. Sig. nostro Don Alfonso Duca di Ferrara, di Modena[327] e di Reggio, Marchese d'Este e Conte di Rovigo ecc. provveder che li delitti ed eccessi gravissimi che ogni dì accadeno in questa sua fedel provincia di Garfagnana per causa delli banditi che contro la volontà di S. Ecc. ci stanno e abitano con grandissimo danno [317] de' suoi fedeli sudditi, per questa presente grida conferma tutto quello che per altre gride da parte di S. Ecc. e del suo Mag. Commissario altre volte è stato notificato circa tal materia, e appresso per questa fa intendere ch'ogni bandito che ammazzasse un altro bandito di questa provincia per omicidio, averà la grazia di sè, e gli serà perdonato ogni pena in la quale fusse incorso.

Die 14 maij 1524.[328]

VIII

Sul denunciare il grano che si ha in casa

Per parte del Mag. Sig. Commiss, si comanda, sotto pena della disgrazia di S. Ecc. e di 50 ducati per ciascheduno disobbediente, che tutti quelli che hanno grano in casa, in poca o assai quantità, che fra il termine di una settimana lo debbano denunziare a S. S., altrimenti ecc.

Die prima jan. 1525.

[319]

LETTERE SCRITTE DA LODOVICO ARIOSTO A NOME

di Alessandra Benucci vedova Strozzi[329]

I

A Lorenzo Strozzi

in Firenze.

Magnifico M.r Lorenzo mio onorand.o Con mio gran dispiacere mi ha detto Goro da parte vostra ch'io faccia provisione di mandar a torre mie figliuole, altrimente voi me le manderete infin qui. Io non so chi vi mova a dir questo, perchè se quel monasterio ove sono ha mal governo, la colpa non è mia: e se Tito lor padre vi le messe quando eran più fanciulle, lo fece contra mia volontà; ma esso poteva sforzare me e loro insieme, chè sempre io dubitai di questo che ora mi avviene, che seriano [320] allevate con poco timore e non com'erano state allevate da me insino a quel dì e siccome io allevai l'altra che qui mi rimase, la quale poi ho messa per mezzo della Regina di Napoli che sta a Ferrara in un monasterio in Mantoana, il quale è stato fondato da Madonna Antonia sorella di detta Regina: e per la bona creanza che avea avuta quella fanciulla da me, vi andò e vi sta volentieri e ogni volta ch'i'ho novella di lei ne ho grandissima consolazione. Ma ben tutto il contrario mi accadde di queste altre due, che sempre ho da sentire di loro cosa che mi dispiace, e tanto più mi dispiace quanto vi posso meno pigliar rimedio, chè se io fussi stata più appresso non arieno l'arroganza di dire e di fare a lor senno come hanno, e molte volte mi serei transferita a Fiorenza se io avessi possuto; ma parte il non avere il modo, e parte il non aver compagnia con chi io possa venir con mio onore, mi ha ritenuta contra la mia volontà: e sarei venuta con Madonna Costanza Salviata, ma la mia disgrazia volse che mi trovava in letto inferma, come vi può sua Signoria render vera testimonianza. Ma se io dovessi ruinarmi di questo poco che mi resta e venir sola, delibero ogni modo di venir questa prossima quaresima; e benchè io creda che la mia venuta serà di poco utile perchè hanno già presa la briglia con li denti e bisognarìa maggior prudenzia e maggior autorità della mia a reprimer l'audacia nella quale sono infistolite per il mal governo che hanno avuto: non di meno io farò a loro e a tutti li altri cognoscere che non hanno da sperar alcuna [321] cosa meglio per tornare a Ferrara, perchè di quel di suo padre non rimase tanto che avesse potuto a me e ad essi figliuoli far le spese tutto uno anno. E perchè Goro mi ha detto ancora che voi e alcuni altri avete opinione che Tito si ritrovasse gran quantità di denari, Dio volesse che fosse stato il vero, ch'io non arei patito li disagi che ho patito e patisco tuttavia, e averei potuto locar meglio la mia brigata che io non ho fatto e non arei consumato dieci anni del fiore della mia etade, come ho fatto in viduità, subietta a mille iudicii temerari, come spesso accade alle povere forastiere che non hanno da sè nè hanno parenti a chi rivolgersi; ma Mess. Guido Strozza è bonissimo testimonio se io trovai quantità di denari a Tito, che mentre il poveretto era amalato, esso ebbe la chiave di ciò che era in casa, e sa che non ci trovò tanti denari che lo potesse far seppellire senza il suo aiuto, e sa quante massarizie di casa mi fu forza a vendere se io volsi pagare la cera della sepoltura e quello che si era tolto dalla speciaria per la sua infermità; ed esso e Madonna Simona sua mogliere sanno quello che mi hanno dato e danno tuttavia, chè se essi non fussino non so come avessi possuto vivere e come allevare la povera famiglia che mi era rimasa: chè se io avessi avuto da me, non sarei stata così da poco ch'io avessi voluto andare alla mercede di altri. E perchè mie figliuole non stimino ch'io abbia tanta roba in casa che vendendola si possan cavare le doti da maritarle, io mando loro lo inventario di tutto quello che io mi trovo [322] del loro padre. Ora lo esaminino e veggano se fra sei che sono, partendo questa roba, se ne può cavare tanto tesoro che elle si possino maritare o intrare in uno monasterio che lor piaccia più di questo ove la lor disgrazia e la poca prudenzia del padre le fece intrare. A quanto Goro mi ha detto, che voi le manderete in qua, rispondo ch'io credo che Goro abbia detto più che non avea commissione da voi; pure se vi par vergogna che essendo elle delli Strozzi voi ve le veggiate in su gli occhi in un monasterio che non ha quel governo che serìa conveniente, pensate che nè anco questi altri Strozzi da Ferrara vorranno questa vergogna che serìa molto maggiore della vostra, che fusson cavate d'un monasterio da Fiorenza e mandate a Ferrara, perchè tutto il mondo dirìa che per qualche loro gran fallo fusson rimandate a casa. E messer Guido dice che se voi le manderete, ben saranno qui delli cavalli da rimandarle indrieto: ma, come ho detto, non credo che siate per far questo, chè se lo onore di casa vostra vi move, serà molto più onore a pigliarvi cura, avendo come avete il Papa parente ed amico, di far metter l'osservanzia, vogliano o non vogliano quelle monache, e dar loro miglior governo. Questo mi par che serà più vostro onore che di fare a me questa ingiuria e questo scorno, che non credo di averlo meritato con voi, nè anco Tito lo meritò che alla sua memoria poniate questa macchia, nè anco li Strozzi di questa terra debbono essere in sì poco conto appresso di voi che debbiate lor fare questo dispiacere. E se [323] mie figliuole seranno renitente ad accettar la osservanzia o a far alcun'altra opera, ben sono delle carceri e delli altri modi da castigarle, meglio ora che sono donne fatte che non sono state castigate da fanciulle. Io vi prego cogli altri Strozzi insieme che abbiate compassione a queste povere orfane, se bene esse non cognoschino il suo bene nè il suo male, perchè levandole donde ora sono, sereste causa che andassino al disonore del mondo. Se voi sapessi il grado e le necessitadi in ch'io mi trovo avereste a me compassione ancora; e mi vi raccomando.

In Ferrara, a li 5 di ottobre 1525.

Alessandra Strozza.

Fuori — Al Mag.co mio onor.mo Mess. Lorenzo Strozzi, in Firenze.

II

A Giovanfrancesco Strozzi

in Padova.

Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Io ebbi a questo dì una di V. S., la quale mi è stata cara per intender di quella: ma non che per sollecitarmi o ricordarmi della vostra cosa mi fosse di bisogno; perchè io non l'ho meno a côre, che se fosse particolarmente a mio grande utile, e mai non mi accade occasione di parlarne, ch'io non lo [324] faccia con quella fede che mi par che mi sia debita. Ma circa questo non possiamo più stringere messer Guido[330] di quello che voglia essere stretto; il quale per modo alcuno non vuol che si parli di maritar quest'ultima figliuola, finchè non si sia disbrigato di quelle che già ha maritate, e che la Isabella non sia messa nel monasterio: la quale vi doveva esser posta fin all'Ognissanti passato, e la dote e le masserizie che le bisognano tutte sono in ordine: ma ella da quel tempo in qua è sempre stata inferma, e molte volte in pericolo di morte, e tuttavia sta male: sicch'ella è gran causa che non si può venire a risoluzione alcuna. Ben questo vi affermo, che negli Strozzi da Fiorenza non ha disegno alcuno; e, per certe occorrenze, è tanto mal satisfatto da loro, che non li può sentir nominare. Questo è quanto vi posso dire. Io ho buona speranza, e questa medesima posso offerire a voi. Io son sana, Dio grazia. Messer Guido e il conte Lorenzo[331] piateggiano gagliardamente circa la casa che il scrittor di questa[332] dice che vi parlò a Venezia: il quale sta bene, ed a V. S. si raccomanda, e non mancherà di fare il debito suo sempre che verrà l'occasione. Altro non occorre. A V. S. mi [325] raccomando, e la ringrazio di quanto mi ha scritto di Tito mio.

Da Ferrara, 22 ianuarii 1531.

Di V. S.,
Alessandra Strozza.

Fuori — Al magn. Mess. Giovanfrancesco de' Strozzi, a Padova.

III

Al medesimo

Questa sarà in risposta di tre lettere di V. S.; alle quali, fuorch'una ch'io le scrissi di villa, non ho possuto risponder prima, perchè dopo il mio ritorno non sono mai stata ferma, ma andata di qua e di là, come carnovale. Alla prima, nella quale Ella mi dava commissione di far fare quelli drappeselli, non potei satisfare, perchè mi fu data tra via quando io andavo in villa; e non mi trovando io quì, se ben ci avessi scritto, non avrei possuto far cosa buona: ma tosto ch'io son ritornata, gli ho fatto fare, e pel primo che m'accada sufficiente, ve li manderò. Aveva anco ordinato il velo per la Madonna; ma il cancelliero del signor Alessandro mi ha detto da parte di V. S. ch'io non lo faccia far più, e terrò li danari per li drappeselli. Il medesimo che diede la lettera di V. S. al capitano Batistino, la diede ancora al conte Lorenzo; e perchè ho inteso che 'l conte Lorenzo dice che non l'ha avuta, sappiate che dice le gran bugie.

[326]

Io ho inteso delle nozze ch'avete fatte; delle quali ho preso tanto contento, quanto di cosa ch'io avessi potuto udire. Così Dio faccia che sieno felici e fauste, e che fra pochi giorni io senta che si faccian l'altre di madonna Lucrezia, e quelle di V. S. Circa che vi dolete che il Cancelliero di questa[333] fosse ammalato a Padova e V. S. niente ne seppe, V. S. sappia, che quando gli venne alli bagni la prima febbre, accadette che vi si trovò il cavaliero degli Obici, e lo pregò che venisse a Padova ad alloggiar seco finchè fosse risanato; e tanto lo persuase, che lasciò di venire a Ferrara, come avea prima deliberato, e andò a Padova, dove ebbe un'altra febbre, che fu terzana. Ed avendo egli disegnato, risanato che fosse, di star qualche giorno in Padova, dove avria visitato V. S. e gli altri suoi amici, sopraggiunse il signor Duca, e lo menò seco a Vinegia, che ancora era debole e non ben guarito, sicchè gli mancò il tempo di far quello ch'era il debito suo: e però V. S. lo scusi. S'un'altra volta gli accadesse a venire in quelle parti, rifarìa questo dove ora par che sia mancato; ed a V. S. molto si offerisce e raccomanda.

Il lino ebbi; del quale, oltra quello che di villa io le scrissi, senza fin la ringrazio, e per amor suo me lo goderò; ancora che mi pare che dovea bastare, chè l'anno passato V. S. me ne donò. Così mi pare che la si voglia far mia feudataria. Alla quale mi raccomando sempre, e la priego che da [327] mia parte abbracci la madonna sua madre, e sue sorelle; e all'una e all'altra senza fin mi raccomando, e s'io posso lor far servizio, che senza rispetto mi comandino, c'ho gran piacere e desiderio di far lor cosa grata.

Ferrara, 26 ottobre 1531.

Di V. S.,
Alessandra Strozza.

IV[334]

Al medesimo[335]

Magn.o M. Giovan Franc.o qual fratello hon. Heri sera hebbi una de V. S. del primo dell'instante, per la qual ho visto quanto quella me scrive, precipue del Mag.co Ariosto. Non ve pigliati admiration alcuna se non ve ho scritto, rispetto che aspetava scrivervi una gran nova de sua Sig.ria e al presente ve la notifico, qualmente ditto M.co Ariosto è statto alquanti giorni con la Excell.tia dello Ill.o Sig.r Marchese del Guasto, et al partir suo gli [328] à donati D. 100 d'intrata all'anno per lui e per sui heredi, et gli ha donato un lapis lazari belissimo legato in oro cum una catena d'oro e una crosetta cum Iesù Christo d'oro. In vero che è una cossa belissima da veder, sì che per hora sua Sig.ria se ritrova qua in Ferrara sano e molto contento di questo dono che il prefatto S.r Marchese gli à donato. Quanto al sposalitio della Mag.ca madonna vostra sorella, certo io ne ho hauto tanto apiacer quanto fusse stata una mia sorella, e tanto più quanto mi è stà riferto per il Canc.ro dello Ill.o S.r Alessandro Fregoso, qual mi ha dimostrato esser una delle bellissime spose habbia mai visto, e il simile della bona gratia c'haveva sua S.ria dell'andar fora di casa, maxime de belissimi gesti e movezi che quella tien in sua persona. Et etiam di quello Mag.co sposo, giovine, galante, cortese; cossa che in verità non desidero altro, et ne non è mai giorno che non prego l'altissimo Dio che li conserva tutti doi in eterno nella sua contenteza: et credo che ogni giorno se troveranno più contenti l'uno per l'altro.

Quanto alli drapeselli, io ve li mando per uno de quelli del S.r Alessandro, e non ve pigliati admiration niuna se son statta tarda a mandarli per amor de quello nostro non se trovava qua in la terra.[336] Il Mag.co Mess. Guido Strozo se alegra molto del sponsalitio della Mag.ca sorella di V. S. et molto se arecomanda, e il simile fa il M.co mess. [329] Ludovico Ariosto. Il M.co M. Guido à fondate tutte le sue possessioni da Rechan: del resto stiamo benissimo. Altro per ora non mi occorre, se non ch'a V. S. cum tutti di casa humilmente mi offero: et ribasandovi la man, a quello M.co sposo e la sposa fazo il medemo.

Da Ferrara, alli XVI novembrio MDXXXI.

Di V. S.

Come sorella,
Alessandra Stroza.

V

Al medesimo

a Villabona.

Magnifico messer Giovanfrancesco. Oggi abbiamo avuto una vostra de' quattro di questo. Non accade a far altra scusa perchè non v'avemo prima scritto: volevamo prima aver la vostra, ch'ogni modo aspettavamo d'aver oggi; e domani, o avendola o non avendola, vi volevamo scrivere per le navi. Voi intenderete che 'l magnifico vostro suocero è senza febbre già cinque dì sono, ma tanto fiacco che par non si possa riavere; e per disgrazia che facesse qualche disordine e che ricadesse, avrei poca speranza nei fatti suoi: e per questo io vi conforto ad accelerarvi più che potete di venir alla conclusione; ch'almanco al fin d'agosto siate in questa terra ben espedito d'ogni cosa. Messer Bonaventura[337] mi ha detto questa mattina, che di dì in dì [330] aspetta la dispensa. Se voi avessi così dal canto vostro in ordine il resto, si farìa poco indugio per la dispensa.

Noi credemo di mandarvi il disegno del ricamo della veste morella: pur non lo promettiam certo. Nella veste anderanno ventisei braccia di raso, e nelle sottomaniche due, che faranno ventotto; e nulla manco, per esser grande come ella è. Io non so la quantità dell'oro che v'andrà. Io so ben che madonna Beatrice Gualenga se ne fe' ricamar una questo carnevale, e fece le cordelline d'oro e di seta, e vi si messero due libre d'oro, che messer Guido le mandò a tôrre a Fiorenza. Credo che facendosi queste d'oro schietto, non ve n'andrà meno di tre libre, perchè hanno da esser cordelle, e non cordoni, che mostrano più ricco e più bello. Io vi conforto a non guardare un poco più o un poco meno: chè quando si ha da far una spesa, si vuol far magnifica, o lasciarla stare. Mi piace che abbiasi trovato il velluto rizzolino, che sia bello. Similmente per le sottomaniche bisogneranno ventotto braccia. Circa gli scuffiotti, mi piace che ne facciate fare uno morello e d'oro, massimamente che si confarà con la veste; e così vorrei che l'altro fosse rizzolino e d'oro, essendo l'altra camorra così fatta, cioè rizzolina. La consorte vi prega che siate contento, che facendole una camorra bianca, ch'anco abbia uno scuffiotto bianco e d'oro; e tanto più quanto ella sta molto bene col bianco. Io vi avvertisco a cercar oro sottile, che farà tanto più bello lavoro. E se voi mi rimetterete queste robe, [331] si terrà conto e del numero e del peso, sicchè non ne sarete fraudato d'un ferlino;[338] e quando la veste sarà messa insieme per mandarla al ricamatore, io la peserò; e la peserò di nuovo quando il ricamatore me la ritornerà: e la farò lavorare tanto secretamente, che non si saprà; sicchè parerà poi, che voi l'abbiate mandata da Padoa bella e fatta. Altro non accade. Abbiamo fatte le vostre raccomandazioni. Il suocero, la consorte, e la cognata e noi senza fine ci raccomandiamo a Vostra Signoria.

Ferrariae, 5 iulii 1532.

Vostri,
Alessandra Strozzi ed il suo Cancelliere.

VI

A madonna Lucia Strozzi

Molto magnifica madonna onoranda. Io avvisai a questi dì al magnifico figliuolo di V. S. del male del Messer, e poi come era guarito, anzi era andato due volte o tre fuori di casa. Ma dipoi è ricaduto, e ieri ebbe una gran febbre. Mi è paruto mio debito di darne avviso; e perch'io non so dove messer Giovanfrancesco si ritrovi, ho voluto darne avviso a V. S., la quale sarà contenta di avvertirlo, che fin che 'l Messer non è ben sano, stia in loco dove possiamo sapere di lui per avvisarlo, se [332] bisognerà. Alla quale mi raccomando, ed insieme a madonna Lucrezia, per infinite volte.

Ferrariae, 18 iulii 1532.

Quanto ubbidiente figliuola di V. S.,
Alessandra Strozzi.

Fuori — Alla molto Magn. come madre onor. mad. Lucia moglie già del Mag. Mess. Carlo de' Strozzi. — A Padova.

VII

A Giovanfrancesco Strozzi

(Il magnifico Ambasciator di Ferrara sia contento di fare ch'abbia recapito fedelmente).

Messer Giovanfrancesco mio onorando. Credo che per un'altra mia avrete inteso (la quale, non sapendo ove voi fossi, aveva indirizzata alla magnifica vostra madre) come messer Guido era ricaduto, e per questo vi facevo più fretta di dare espedizione alle vostre faccende, per attender a questa. Ora vi significo come, ancora che 'l male se gli sia molto alleggerito, e speramo che tosto riaverà la sua sanità, pur non è uscito ancora del letto; ed appresso, voi intenderete che 'l signor Duca nostro l'ha eletto per commissario di Romagna, dove avrà da trasferirsi con tutta la sua famiglia tosto che sia guarito. E per questo mi parrebbe che se ben la causa delli Calcagnini v'importa, la metteste da parte un poco per attendere a dar espedizione a questa; sicchè, [333] innanzi che messer Guido si partissi di questa terra, voi avessi sposata vostra mogliere, e che voi fossi sicuro che la pratica non vi potesse esser turbata. Chè sebbene il signor Duca è rimaso satisfatto da messer Guido, il figliuolo non cessa di fargli dar delle battaglie; e sempre mai in tutte le cose l'avvenire è pericoloso: onde, per tutti i rispetti, sarà bene che cercate l'espedizione; ed io son quasi in animo, senza aspettar altra vostra risposta, di mandarvi il Sivero con uno sarto, acciò che si possa far tagliare quei panni.

Oltre di questo poi, avete a sapere, ch'espedita che sia questa cosa, non vi accaderà di provvedervi di casa altrimente; perchè, mentre che messer Guido starà in quell'officio di Romagna (che non potrà esser meno di due anni), voi potrete goder la casa di questa terra: in questo mezzo, con vostra comodità, provvedervi d'un'altra casa, dove vi possiate ridurre quando esso ritornerà. A questi dì esso disse al Cancelliere di questa, che vi scrivesse che a lui pareva che facessimo opera di comprar la casa di quei giovini de' Trotti da Santa Maria del Vado; ch'ogni modo non vi mancherà mai a chi venderla pel prezzo che voi l'aveste comprata: e le gabelle del comprare e del vendere non costeranno quanto gli affitti di quella o d'un'altra casa che voi toleste a pigione. Egli non ve ne scrisse altrimente, perchè tosto di poi successe quest'altra cosa, per la quale potrete avere una casa ottima senza pagarne pigione, pur che vegnate a capo di quanto avete a fare: ed io n'ho già parlato a messer [334] Guido, e l'ho trovato di modo disposto, che spero che sarà contento di lasciarvi in casa. Ma non cesserò di dire e ridire, e importunar tanto che o volontieri o suo malgrado lo farà ogni modo; ma per quello ch'io n'ho finora, credo che lo farà volentieri.

Circa l'oro, io vi dico, che senza dubbio quello di Fiorenza sarà migliore; ed io, senza aspettare altro avviso da voi, ho fatto scrivere a Fiorenza, e quest'altra settimana sarà quì. Non accade altro se non che mandate trentatrè ducati d'oro per pagarlo: se costerà più o meno, se ne terrà buon conto. Io credo di mandarvi un altro disegno della veste; ma non l'ho potuto ancor aver dal maestro. A me piace più del primo; e l'uno e l'altro non è stato più visto: ed io, senza che voi me lo ricordassi, non farei fare una simil cosa che fosse stata vista indosso ad altri. Ho parlato con la consorte; la quale, prima, si vi raccomanda per infinite volte. Circa li ventagli, quel dal manico d'oro vorria che fosse di penne morelle gialle, alla similitudine della veste; l'altro dal manico bianco fosse anco di penne bianche. Le sottane, ne vorrìa una di raso incarnato, listata di tela d'oro, o di quello che piacerà a voi; l'altra di velluto alto e basso, di colore che parrà a voi: e così d'ogni cosa si rimette al parer vostro; chè tutto quello che piacerà a voi, piacerà a lei ancora. Del raso bianco, qui non se ne trova braccio, ch'io n'ho fatto cercar per tutto: bisognerà che mandiamo a Bologna, non vi piacendo di quello di Venezia. Della seta chermesina ch'avevo domandata, non la vorrei [335] più; ma in quel cambio, due onze di morella, ch'abbia il chermisino, che non perda il colore a lavarsi; e quattro onze d'oro, che sia sottile e ben coverto. Lo potrete far vedere a persone che se n'intendano, perchè vorrei far un colletto al modo della veste: e mandatelo presto, perchè si possa cominciar a lavorare; chè in queste cose bisogna mettere assai tempo. Oltra quello che vi scrisse madonna Alessandra, il Cancelliero vi conforta di espedirvi tosto, perchè sempre fu pericolo nell'indugio. E l'uno e l'altro, e prima la consorte e messer Guido senza fine vi si raccomandano.

Ferrariae, 23 iulii 1532.

Vostra,
Alessandra Strozza.

Fuori — Al Magn. Messer Giovanfrancesco de' Strozzi, a Venezia.

VIII

Al medesimo

Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Per lo messo di Vostra Signoria ho avute tutte quelle cose ch'ella mi scrive di mandarmi per lui. E prima, circa i danari, ho fatto che ser Iacomo Ziponaro gli ha portati al mercadante, e satisfattolo, e fattosi render lo scritto, il quale vi rimando; ed esso ser Iacomo di questo scriverà a V. S. più a pieno. Circa la corona e le perle e le altre cose [336] che 'l vostro messo dovea portare a Lugo[339] a madonna Leona,[340] ci è parato di non lasciarle andar più inante; perchè Lugo si trova da questo tempo tutto allagato dintorno, e non vi può andare se non chi molto sia pratico della strada, e molto peggio persona a cavallo: e oltre a questo, tutto il paese è pieno di cavalli e di fanteria dell'imperatore,[341] [337] che starebbe a pericolo di essere rubato. Io ho mandate le lettere: le cose ho ritenute appresso di me, cioè il zebelino, la corona, le perle da orecchie, le pantofole e l'ufficio. Come mi occorra messo fedele e sufficiente, e che si possa andare intorno, gliene manderò: intanto saprà ella che sono appresso di me. Della catena che avete mandata a me, molto riferisco grazie a V. S., ancora che non accadèa di pigliare adesso questo disconcio, non vi ritrovando meglio in danari di quello che vi dovete trovare; chè sempre si potèa fare. Io la salverò così a nome vostro come a mio, chè non meno ne porrete disporre, come se fosse in man vostra. Ben vi avvertisco e priego che non parliate di avermi fatto questo dono; perchè se venisse all'orecchie di vostra suocera, nè voi nè io avressimo mai più pace con lei. Io la terrò molto bene occulta, nè altri saprà ch'io l'abbia, che voi e il Cancellier di questa.

Circa il servitore che V. S. mi scrive, quella saprà che dopo la partita vostra esso ha preso moglie: nondimeno esso è per venire volontieri; ma io non l'ho voluto mandare, se prima non vi ho fatto intendere questo termine in che egli si ritrova. La moglie che egli ha preso, è donna attempata e senza figliuoli, e gli ha dato una casa ed un casale, e sta così bene che non avrà bisogno del vostro. Lui commendo a V. S. per uomo fidatissimo e sufficiente: tuttavia farete in questo il parer vostro. Dell'Ebrèo io non vi scriverò altro, perchè il servitor vostro vi riferirà a bocca quello ch'io [338] gli ho detto. Del vostro non venire in qua non solo vi escuso, ma vi laudo; chè mi maraviglio come possa alcuno andare intorno. Altro non occorre. Insieme col Cancelliere mi vi raccomando, e vi priego che a madonna vostra madre ed alla sorella mi raccomandiate.

Ferrara, 25 decembre 1532.

Di V. S.
Alessandra Strozza.

[339]

ALTRA LETTERA DI LODOVICO ARIOSTO SCRITTA A NOME
DEL CARDINALE IPPOLITO D'ESTE

A Francesco Gonzaga Marchese di Mantova

Ill.me et Ex.me dne Cognate et dne mi obser.me Essendo per far stampare un libro di M. Ludovico Ariosto mio servitore, et a questo bisognandomi mille risme di carta, mando il presente exhibitor per condurne hora una parte da Salò, e fatto che habbia questa condutta per rimandarlo o lui o altri, tanto ch'io n'habbia tutta questa summa. Prego V. Ex.tia che per mio amore sia contenta de commettere a' suoi ufficiali, che sia lasciato passare senza pagamento alcuno de dacio o altro impedimento de volta in volta che mostrarà la presente, che gli ho fatta e gli farò per questo effetto, finchè m'habbia condutta la quantità delle mille risme che per quest'opera mi son de bisogno; et V. Ex.tia lo deve fare volontera, perchè essa anchora n'haverà la sua parte del piacere, et leggendola vi trovarà esser nominata con qualche [340] laude in più d'un loco; et se ben forse non così altamente che se arrivi alli meriti de V. Ex.tia, almeno per quanto s'hanno potuto extendere le forze del compositore.

Quae bene valeat, et a cui mi raccomando.

Ferrariae, XVII sept. MDXV.

Servitor et Cognatus
Hipp. Card. Estensis.[342]

Fuori — Ill.mo et Ex.mo Dno Cognato et Dno meo observ.mo Domino Marchioni Mantuae.

[341]

APPENDICE DI DUE LETTERE INEDITE DI LODOVICO ARIOSTO

I

Al Magnifico Nicolò de' Conti in Padova

Magnifico parente mio hon.mo Vostra Mag.tia se sarà forse maravigliata che non le habbia mandato le copie di quelle sue investiture, di che essa et a Gabriele mio fratello et a me a' dì passati ha molte volte scritto. Sappia che, oltre le investiture le quali feci vedere al suo messo e ch'egli mi disse non erano a proposito, se ne trovò poi un'altra la quale si sperò potesse essere quella che V. Mag.tia cercava, ma niente fu perchè essa si rimette ad un altro istrumento fatto del.... libro di tal millesimo. Credevo che fusse a casa.... de la camera, che così m'havea detto il notaro che intorno.... tal libro; et essendo questo Consultore stato fuor de la terra molti giorni, ho aspettato il [342] suo ritorno. Quando poi è venuto, gli ho fatto cercare, et finalmente non c'è questo libro.... Speranza resta che si potrà trovare nella torre del Castello, dove scritture vecchie si conservano: così ho messo ordine che vi sii cercato. Intanto perchè V. Mag.tia non m'imputi di negligentia, gli n'ho voluto dare avviso. Non restarò di far cercare finchè sarò chiaro se questa sua investitura si trova o non. Intanto me le raccomando.

Ferrariae, 4 augusti MDXX.

Di Vra Mag.tia
Ludovico Ariosto.[343]

Fuori — Mag.co et generoso affini et tamquam fratri ac parente et fratello, Domino Nicolao de' Comitibus, Paduae.

[343]

II

Agli Anziani della Repubblica di Lucca

Magnifici ac potentes Domini mihi observandissimi. — Li exibitori di questa sono homini della villa di Cascio di questa ducale provincia, li quali havevano tolto a corre certe castagne al terzo sul territorio di Gallicano, et poi che vi hanno posto le loro spese et fatiche, sono vietati per la prohibitione di V.e S.e di potersele portare a casa. Io confidentemente pregho V.e S.e per questa volta et [344] per questi poveri homini, che in tutto sono quattro, che siano contente, che poi che hanno hauto le fatiche habbino ancho il fructo. Alle quali sempre mi rachomando.

Ex Castro Novo, XXV sept. MDXXII.

D.i V.e obser.mus
Lud.cus Ariostus
Duc.lis Commissarius.[344]

[345]

SONETTO DI LODOVICO ARIOSTO
A GIULIANO DELLA ROVERE
eletto papa nel 1503 col nome di Giulio II[345]

L'arbor ch'al viver prisco porse aita,

Poi si converse a miglior tempo in oro,

Or ha prodotto un sì soave alloro,

Che la fragranza in fino al ciel n'è gita.

Oh fra' mortali e fra gli Dei gradita,

Felice pianta! oh vivo e bel tesoro!

Per te s'allunga il seme di coloro

Che per cosa divina il mondo addita.

Quinci i rami gentil, quinci i rampolli

Ch'empìo di gloria e di trionfo il mondo,

E fan Roma superba e li suoi colli.

Godi, sacra colonna, e scorgi a tondo:

Alta sei d'ogni parte e senza crolli,

Nè del tuo stato mai fu il più giocondo.

[347]

DUE STANZE COLLE QUALI INCOMINCIA UN CODICE SINCRONO

POSSEDUTO DAI SIGG. EREDI ROSSI
DE' CINQUE CANTI DELL'ARIOSTO
PUBBLICATI LA PRIMA VOLTA IN VENEZIA NEL 1545
DOPO L'ORLANDO FURIOSO

Stanza 1ª del Codice

Oltre che già Rinaldo e Orlando ucciso

Molti in più volte avean de' lor malvagi;

Ben che l'ingiurie fûr con saggio avviso

Dal re acchetate e li comun disagi,

E che in quei giorni avea lor tolto il riso

l'ucciso Pinabello e Bertolagi:

Nova invidia e nov'odio anco successe

Che Franza e Carlo in gran periglio messe.[346]

[348]

Stanza 2ª del Codice, e 1ª dell'Ediz. 1545

Ma prima che di questo altro vi dica,

Siate, Signor, contento ch'io vi mene,

(Chè ben vi menerò senza fatica)

Là dove il Gange ha le dorate arene;

E veder faccia una montagna aprica,

Che quasi il ciel sopra le spalle tiene,

Col gran tempio nel quale ogni quint'anno

L'immortal fate a far consiglio vanno.

[349]

PRIVILEGI ACCORDATI A LODOVICO ARIOSTO PER LA STAMPA
DEL SUO «ORLANDO FURIOSO»

I

Della Signoria di Firenze

(Arch. della Repubblica. Registri delle deliberazioni de' Signori e Collegi)

«Die XII mensis martii 1515 [stile comune 1516].

«Item prefati Domini et Vexillifer simul adunati etc., et servatis etc., deliberaverunt et deliberando mandaverunt omnibus et singulis impressoribus, liberariis et aliis quibuscumque de civitate, comitatu et districtu Florentiae, quatenus modo aliquo non audeant vel presumant imprimere, nec imprimi facere nec vendere nec vendi facere librum sive novum opus quod intitulatur Orlando furioso, noviter editum per dominum Ludovicum de Ariostis, sine expressa licentia dicti domini Ludovici, sub poena eorum indignationis. Mandantes etc.»[347]

[350]

II

Di Papa Leone X

«DILECTO FILIO LUDOVICO DE ARIOSTIS FERRARIENSI LEO PAPA DECIMVS.

«Dilecte fili salutem et Apostolicam benedictionem. — Singularis tua et pervetus erga nos familiamque nostram observantia egregiaque bonarum artium et litterarum doctrina, atque in studiis mitioribus, praesertimque poetices elegans ac praeclarum ingenium, jure prope suo a nobis exposcere videntur, ut quae tibi usui futura sunt, justa praesertim et honesta patenti, ea tibi liberaliter et gratiose concedamus. Quamobrem cum libros vernaculo sermone et carmine, quos Orlandi furiosi titulo inscripsisti, ludicro more, longo tamen studio et cogitatione, multisque vigiliis confeceris, eosque conductis abs te impressoribus ac librariis edere cupias; cum ut cura diligentiaque tua emendatiores exeant, tum ut si quis fructus ea de causa percipi potest, is ad te potius, qui conficiendi poematis laborem pertulisti, quam ad alienos deferatur: volumus et mandamus ne quis te vivente eos tuos libros imprimere, aut imprimi facere, aut impressos venundare, vendendosve tradere ullis in locis audeat sine tuo jussu et concessione. Qui contra mandatum hoc nostrum fecerit et admiserit, universae Dei Ecclesiae toto [351] orbe terrarum expers excommunicatusque esto, nec non librorum omnium amissione, ac ducatorum centum (quorum quinquaginta fabricae divorum Apostolorum Petri et Pauli de urbe, reliqui quinquaginta tibi et accusatoribus executoribusque pro rata adscribantur) poenis plectatur. Mandantes propterea universis et singulis Venerabilibus fratribus Archiepiscopis et Episcopis, eorumque in spiritualibus Vicariis Generalibus, et aliis ad quos spectat in virtute Sanctae obedientiae, ut praemissa servari omnino faciant, contrariis non obstantibus quibuscumque.

«Datum Romae apud Sanctum Petrum sub annulo Piscatoris, die XXVII Martii M. D. XVI. Pontificatus nostri Anno quarto.

«Iacobus Sadoletus.»[348]

[352]

III

Di Gio. Francesco Gonzaga marchese di Mantova

«Franciscus Marchio Mantuae, etc.

«Havendo lo nobilissimo et doctissimo M.r Ludovico Ariosti gentilhomo ferrarese, familiare del R.mo et Ill.mo Sig. Card. da Este nostro cognato et fratello honorandissimo novamente fatto imprimer una elegantissima opera volgar di battaglie composta per lui, intitolata Orlando furioso, amando noi esso M.r Ludovico singolarmente per le sue rare virtù et per la observantia sua verso noi, et per l'honor che 'l ne fa ne li suoi dottissimi scritti, disposti sempre a gratificarlo in molte maggior cose, per la presente nostra gli concediamo che in tutto il tempo di sua vita niuna persona possa imprimere la soprascritta opera nè in la città, nè in lo dominio nostro di Mantua, et questo acciò che lui più comodamente possa vender gli volumi di essa opera che l'ha fatto imprimer. Comandiamo adunque in virtù della presente nostra a qualunque nostro officiale così in la città di Mantua come nel resto del dominio nostro a cui [353] la presente sarà mostrata ad instantia del prefato Mess. Ludovico, faciano observar quanto in essa si contiene, prohibendo ad ognuno lo incominciar ad imprimer la dicta opera et a perficerla quando l'havessero cominciata ad imprimer, che così è di nostra volontà et intentione.

«Datum Mantuae sub fide nostri majoris sigilli, die XXV Maij MDXVI.

«Jo. Jacobus Calandra secretarius, mandato Domini ex relatione M. Equitis domini Ptolomei Gonzagae primi secretarii et consiliarii, subscripsit.»[349]

IV

Della Signoria di Venezia

«Andreas Gritti, Dei gratia Dux Venetiarum et Universis et singulis Rectoribus, Potestatibus, Jusdicentibus locorum et terrarum Dominii nostri, ac Officialibus huius civitatis: fidelibus dilectis salutem et dilectionis affectum.

«Alli VII de l'instante havemo concesso con el Consiglio nostro de Pregadi gratia et facultà al dilettissimo nostro Ludovico Ariosto, nobile ferrarese, famigliare dell'Eccellentissimo Signor Duca di Ferrara, che una opera sua chiamata Orlando furioso per lui composta et novamente corretta et reformata possi lui solo farla stampar et vendere. Nè ad altri questo sia licito nelle terre et loci nostri, [354] con quelli modi et conditioni et sotto quelle pene che pel Collegio nostro li fu concesso del 1515 a dì 25 Ottubrio. Perhò vi commettemo che ditta nostra gratia li osserviate et da tutti faciate inviolabiliter osservare.

«Datum in nostro Ducali Palatio, die XIIII Januarii, inditione prima, M. D. XXVII.»[350]

V (inedito)

Di Federico Gonzaga Duca di Mantova

«Federicus Dux Mantuae etc. — Essendo noi sempre facili in compiacere ne le loro honeste domande a quelli che ricorreno a noi anchora che non habbiamo lor cognitione, nè da essi possiamo sperare honore nè altro, ragionevolmente dovemo essere facilissimi a compiacere a quelli che conoscemo, e non solo a noi ma a molt'altri hanno dato cognitione de le lor virtù et ne possono con esse dare, et già n'hanno dato laude et fama, come il Mag.co et Dott.mo Mess. Ludovico Ariosto Gentilhomo [355] ferrarese, qual ne li suoi elegantissimi scritti a noi et a casa nostra ha fatto honore, per il quale havemo da esserli non mediocremente obligati. Esso havendo novamente revista et ampliata l'opera di battaglia tanto laudata composta per lui sotto il nome d'Orlando furioso, et volendo farla stampare e dar fuore, n'ha fatto pregare a contentarci di provedere che nel dominio nostro, senza sua licentia non sia impressa, acciò ch'altri non abbia a guadagnare de le fatiche sue: nel che molto volentieri li compiacemo; et così per la presente nostra comandiamo et vetiamo che tanto ch'egli vive niuna persona nè ne la città di Mantova nè in altro loco del dominio nostro possa imprimere la detta opera senza sua expressa licentia, nè venderla quando altrove fosse stampita senza detta licentia, sotto pena di perdere li libri et un ducato per volume da essere scosso irremissibilmente da chi contrafarà, et applicata la metade alla Camera nostra fiscale, e l'altra metade come piacerà a Mess. Ludovico, ad ogni requisitione del quale comandiamo a tutti li nostri officiali così ne la città di Mantova, come nel resto del dominio nostro, che facciano pienamente servare quanto ne la presente si contiene: che così è nostro fermo volere.

«Datum Mantuae sub fide nostri maioris sigilli, Die XVIª Jan. MDXXXI.»[351]

[356]

VI

Di Francesco Visconti II Duca di Milano, ecc.

«Franciscus Vicecomes, etc. — Essendo Nui sempre facili in concedere tutte le dimande che per qualunque causa hanno in sè honestà, tanto più dovemo essere facilissimi in concedere quelle che per virtù sono honestissime. Ricercandone adunque il nobilissimo et doctissimo Mess. Ludovico Ariosto Gentil'homo Ferrarese che vogliamo provedere non si possi stampare nel nostro dominio senza sua licentia durante la lui vita l'opera per lui novamente revista et ampliata, sotto il nome di Orlando furioso, ad ciò che altri non habbi ad guadagnare de le fatiche sue, non habbiamo possuto in cosa tanto honesta desdirli: et però per tenore de le presenti concedemo che vivendo il detto Ariosto, niuna persona del Stato nostro, nè altri possi stampare, nè fare stampare, nè stampato altrove vendere nel nostro Dominio la detta opera senza sua espressa licentia, sotto pena de perdere li libri et uno ducato per caduno volume, da essere scosso irremissibilmente da chi contrafarà, et la mittà sia applicata alla Camera nostra, l'altra mittà come piacerà al detto Ariosto. Ad ogni requisitione del quale commandiamo [357] a qualunque nostri offitiali et subditi ad chi appartenerà, che facciano pienamente osservare quanto ne le presenti si contiene, perchè così è nostra ferma voluntà.

«Datum Comi sub nostri fide sigilli. Die XX Julii M. D. XXXI.»[352]

VII

Dell'Imperatore Carlo V

«Carolus Augustus divina favente clementia Romanorum Imperator ac Germaniae, Hispaniarum, utriusque Siciliae, Hierusalem etc. Rex, Archidux Austriae, Dux Burgundiae et Galliae Belgicae Dominus etc.

«Librum Orlandi furiosi per Ludovicum Ariostum alias editum et nunc denuo purgatum et locupletatum, nulli hominum per universum Romanum Imperium, Regnaque nostra nisi uni Ariosto aut ab eo mandatum habenti quamdiu is vixerit typis excudere excussumve alibi vendere fas sit, qui secus fecerit viginti Marcarum auri poena plectatur. Harum rei testimonio litterarum manu [358] nostra subscriptarum, et sigilli a tergo impressione munitarum....

«Datum in Oppido nostro Bruxellensi. Die XVII mensis Octobris, Anno Domini M. D. XXXI. Imperii nostri undecimo, Regnorumque nostrorum omnium sextodecimo.

«Ad Mandatum Caesareae et Catholicae Majestatis perpetuum.

«Alf. Valdeius[353]

VIII

Di Papa Clemente VII

«Dilecto filio Ludovico Ariosto Nobili Ferrariensi Clemens Papa VII

«Dilecte fili salutem et Apostolicam benedictionem. — Cum sicut nobis exponi fecisti tu librum tuum qui Orlandus furiosus inscribitur a te jamdiu editum et impressum vitio mendosum corrigere et supplere ac in melius reformare, aliaque pariter tui ingenii opera imprimere desideres verearisque ne alii te inscio vel invito illa imprimant, seu impressa vendant; Nos qui tuo ingenio [359] et virtuti libenter favemus, tuamque postulationem aequissimam agnoscimus, tuis precibus super hoc nobis porrectis inclinati inhibemus omnibus et singulis per omnem Sanctae Romanae Ecclesiae Ditionem temporalem constitutis praesertimque Bibliopolis et librorum impressoribus sub excomunicationis latae sententiae, et insuper amissionis librorum et XXV aureorum tibi applicandorum totiens quotiens contravenerint et eo ipso incurrenda poena, ne sine tua expressa licentia, consensu et voluntate tam dictum librum Orlandi furiosi de novo a te imprimendum quam quaevis alia per te in latino, seu vulgari sermone, in prosa vel in metris hactenus composita, et deinceps componenda opera quae tu imprimi feceris ulli alii donec tu vixeris imprimere aut imprimi facere seu vendere, aut venales habere praesumant. Mandantes universis locorum nostrae temporalis Ditionis tam Archiepiscopis et Episcopis eorumque Vicariis, Gubernatoribus, Locatenentibus, Potestatibus et Tribunalibus, ac Executoribus quibuscumque, ut ad omnem tuam vel tuorum requisitionem praesentes litteras tibi efficaciter observari, et poenas praedictas a contravenientibus irremissibiliter exigi faciant et curent cum effectu, contrariis non obstantibus quibuscumquae. Volumus etiam praesentium transumptis manu notarii publici subscriptis, et sigillo personae in dignitate ecclesiastica constitutae munitis, plenam in iudicio et extra ac eandem prorsus fidem adhiberi, quae literis originalibus adhiberetur si essent ostensae.

[360]

«Datum Romae apud Sanctum Petrum, sub annulo piscatoris. Die ultima Januarii MDXXXII. Pontificatus nostri anno nono.

«Blosius[354]

FINE

[361]

INDICE

Avvertenza Pag. V
 
Prefazione storico-critica intorno Lodovico Ariosto e il suo tempo IX
Aggiunta alla Prefazione CXXXI
 
Documenti alla Prefazione
 
I Lettera di Lodovico Ariosto (seniore) a Paolo Costabili CXXXIII
II Lettera di Nicolò Ariosto al duca di Ferrara Ercole I CXXXIV
III Lettera del medesimo alla duchessa d'Aragona d'Este CXXXV
IV Lettera del cardinale Ippolito d'Este a Beltrando Costabili in Roma CXXXVI
V Lettera del duca di Ferrara Alfonso I a Sigismondo Salimbeni in Venezia CXXXVIII
VI Lettera di Beltrando Costabili al cardinale Ippolito d'Este CXL
VII Lettera di Benedetto Fantino a Gherardo Saraceni CXLII
[362]
VIII Lettera del duca Alfonso I al cardinale Ippolito d'Este in Firenze CXLIII
IX Lettera del medesimo al suddetto in Parma CXLIV
X Lettera del medesimo al suddetto in Ferrara CXLV
XI Lettera del medesimo al suddetto in Ferrara CXLVI
XII Processo contro monsignor Uberto Gambara, 1521 CXLVIII
XIII Lettera del duca di Ferrara Alfonso I all'Imperatore contro papa Leone X, 1521 CXLVIII
XIV Risposta della Corte di Roma alla lettera suddetta, 1522 CLXII
XV Lettera di Rinaldo Ariosto ad Isabella Estense Gonzaga in Mantova CLXXV
XVI Lettera di Alfonso Paolucci al duca di Ferrara Alfonso I CLXXVI
XVII Supplica dei fratelli Gabriele, Galasso e Alessandro Ariosto e Virginio loro nipote ad Ercole II duca di Ferrara, 1534 CLXXXII
 
Lettere di Lodovico Ariosto, n. cxciii per ordine cronologico (1498-1532), dirette:
 
  Ad Aldo Manuzio (il vecchio) inedita 1
  Al cardinale Ippolito d'Este 2 e seg.
  Al cardinale Giovanni de' Medici 20
  Al marchese di Mantova 22 e seg.
  Al principe Lodovico Gonzaga 23
  A Benedetto Fantino 24
  Al Doge di Venezia 26 e 279
  Al duca di Ferrara Alfonso I 29 e seg.
  Alla marchesana di Mantova Isabella d'Este Gonzaga 31 e 302
  A Mario Equicola 32 e 36
[363]
  A papa Leone X 34
  A Benci de' Benci, capitano di Barga 37 e 126
  Agli Anziani della Repubblica di Lucca 39 e seg.
  Agli Otto di Pratica in Firenze 46 e seg.
  Ad Obizo Remo, segretario ducale 55, 60 e 63
  A Santuccio Santucci, commissario in Lucca 122
  A Lorenzo Pandolfini, podestà di Barga 134
  A Nicolò Rucellai capitano e commissario di Pietrasanta 140
  A Bonaventura Pistofilo segretario ducale 200
  Al Vicario di Gallicano 225
  A Pietro Bembo 282
  Al conte Nicolò Tassone d'Este, inedita 282
  A Gianfrancesco Strozzi 285 e seg.
  A Gio. Giacomo Calandra 290
  A Margherita Paleologa Gonzaga 302
  Al principe Guidobaldo Feltrio della Rovere 303
 
Lettere scritte da Lodovico Ariosto a nome del cardinale Ippolito d'Este:
 
I A Beltrando Costabili 305
II Al rev. Padre 306
III Al rev. don Rufino Berlinghieri 306
IV Al medesimo 307
V Al Sufraganeo nostro in Milano 308
 
Gride n. VIII fatte pubblicare da Lodovico Ariosto in Garfagnana 309 a 317
 
Lettere scritte da Lodovico Ariosto a nome di Alessandra Benucci vedova Strozzi:
 
I A Lorenzo Strozzi in Firenze 319
II A Giovanfrancesco Strozzi in Padova 323
III Al medesimo 325
IV Al medesimo 327
V Al medesimo 329
VI A madonna Lucia Strozzi 331
[364]
VII A Giovanfrancesco Strozzi 332
VIII Al medesimo 335
 
Altra Lettera di Lodovico Ariosto a nome del cardinale Ippolito d'Este:
 
  A Francesco Gonzaga marchese di Mantova 339
 
Appendice di due Lettere inedite di Lodovico Ariosto:
 
I A Nicolò de' Conti in Padova 341
II Agli Anziani della Repubblica di Lucca 343
 
Sonetto di Lodovico Ariosto a Giuliano della Rovere eletto papa nel 1503 345
 
Due stanze colle quali incomincia un codice de' Cinque Canti dell'Ariosto 347
 
Privilegi accordati a L. Ariosto per la stampa del suo Furioso:
 
I Della Signoria di Firenze 349
II Di Papa Leone X 350
III Di Gio. Francesco Gonzaga marchese di Mantova 352
IV Della Signoria di Venezia 353
V Di Federico Gonzaga duca di Mantova, inedito 354
VI Di Francesco Visconti II duca di Milano 356
VII Dell'Imperatore Carlo V 357
VIII Di Papa Clemente VII 358

NOTE:

1.  Canto XIII, st. 73.

2.  Nicolò da Casola bolognese indirizzò nel 1358 il suo Attila, poema in lingua francese, ad Aldobrandino d'Este e a Bonifazio Ariosti:

Por fer a le Marchis da Est un riche don,

Ovoiremant a suen oncles dam Boniface il baron.

Il Dolfi pretende che Bonifazio sposasse Misina figlia di Azzo d'Este.

3.  Nel diploma dell'imperatore non si trova nominato Ugo, il maggiore dei fratelli Ariosti, che però in una lettera del duca di Ferrara Ercole I è detto anch'esso conte e cavaliere.

4.  Lod. Ariosto, Opere minori, ordinate e annotate per cura di F. L. Polidori. Firenze, 1857, tomo I, pag. 360.

5.  Riportiamo in Appendice una lettera dell'arcip. Lodovico (Docum. I).

6.  Schivenoglia, Cronaca di Mantova. Milano, 1857, vol. II, pag. 167. — Diario ferrarese in Muratori, Rer. ital. scrip., vol. XXIV, col. 237. Nicolò di Leonello d'Este, notizie da noi pubblicate negli Atti e Memorie di storia patria. Modena, 1870, vol. V, pag. 422 e 436 in cui si riporta una lettera dello stesso Nicolò d'Este diretta al Mag. Lorenzo de' Medici in data 16 dicembre 1471, che narra distesamente i particolari dell'attentato.

7.  Vita di Lod. Ariosto, scritta dall'ab. Girolamo Baruffaldi. Ferrara, 1807, pag. 12.

8.  Croniche di Reggio lepido originate secondo le vite de' suoi Vescovi, di Fulvio Azzari reggiano. Tomi 2, in-fol. MS. presso la Bibl. Estense di Modena.

9.  Memorie stor. di Reggio. Carpi, 1769, T. III, pag. 563, e non già tomo I, pag. 612, come dice il Baruffaldi.

10.  Vita di Lod. Ariosto, cit., pag. 32.

11.  Questo figlio di Lucrezia Borgia nacque secondo l'Azzari il 7 settembre 1505 e secondo il Panciroli due giorni dopo. Gli fu posto nome Alessandro, in memoria di papa Alessandro VI padre di Lucrezia. Morì poco dopo «per non essere il parto a termine», come nota anche Bonaventura Pistofilo nella Vita di Alfonso I, da noi pubblicata negli Atti e Memorie di storia patria (Serie I). Modena, 1865, vol. III, pag. 493. Il Frizzi fa che il parto succeda a Rovigo: errore invece di Reggio.

12.  Tacoli, Memorie storiche di Reggio. Parma, 1748, Tomo II, pag. 789.

13.  Relazioni dei Governatori di Reggio al duca Ercole I di Ferrara, per cura del cav. Giovanni Battista Venturi. Vedi Atti e Memorie di storia patria. Serie III, vol. II. Modena, 1884, pag. 269.

14.  Notizie per la vita di Lodovico Ariosto, tratte da documenti inediti a cura di Giuseppe Campori, 2ª ediz. Modena, 1871, pag. 13 e 14.

15.  Nicolò non aggradì in quest'officio a' suoi stessi colleghi ed al popolo, di che abbiamo prova in 23 Sonetti satirici contro il medesimo da noi pubblicati per la seconda volta nelle Rime edite e inedite di Antonio Cammelli detto il Pistoia. Livorno, 1884, pag. 251 e segg.

16.  Vita di Lod. Ariosto, l. c., pag. 23.

17.  Ariosto, Opere minori, cit., Tomo I, pag. 346 e 362.

18.  Campori, Notizie per la vita di Lodovico Ariosto, ediz. cit., pag. 21-22, ove si notano due pagamenti fatti nel 1502 e 1503 all'Ariosto per l'ufficio suddetto ch'era rimasto ignoto a tutti i biografi del poeta.

19.  Poesie latine edite e inedite di Lodovico Ariosto, studi e ricerche di Giosuè Carducci. 2ª ediz. Bologna, 1876. E veggasi anche la nota alla lettera latina inedita dell'Ariosto, pag. 1 del presente volume.

In tale proposito crediamo opportuno riferire il seguente epigramma inedito dell'Ariosto, tratto dal codice Estense VI. B. 29 nel quale è scritto due volte:

Sum dat es, est; et edo dat es, est: genus unde, Magister,

Estense ? an quod sit dicitur, an quod edit?

20.  Dante, Paradiso, c. VIII, in fine.

21.  Essendo solito uccidere capponi ed oche che incontrava ne' campi altrui, il padre gli scrisse nel 1494 che dovesse astenersene, e attendere piuttosto a studiare.

22.  Lettere storiche, di Luigi da Porto. Firenze, Le Monnier, 1857, pag. 156. Veggasi pure a pag. 109.

23.  Storia della corte di Roma e di papa Alessandro VI, cap. 61.

24.  Bonav. Pistofilo, Vita di Alfonso I, l. c., cap. IX. — Il Pistofilo, segretario e favorito del duca, avrebbe avuto tutto l'interesse a tacere la presenza del cardinale al delitto, se non fosse stata troppo allora palese. Anche il Guicciardini l'afferma.

25.  Ariosto, Orlando furioso, c. XXXVI, st. 8.

26.  Frizzi, Memorie per la storia di Ferrara. Ferrara, 1796. Tomo IV, pag. 207.

27.  Bon. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. IX.

28.  Francesco de' Mantovani, Libro di alcune croniche. Ms. presso la Bibl. Estense di Modena. Per congratulare della scoperta congiura non mancarono lettere mandate da varie parti, e abbiamo da Modena la seguente diretta al duca Alfonso: — «Ill. Princeps et Excell. d. nr. sing. — Mandiamo a V. Ecc. per Oratori nostri li spettabili dottori di legge mess. Lodovico Bellencino cavaliero e mess. Giovanni Sadoleto, i quali in nome nostro si condoleranno con quella della congiurazione fatta e ordinata contro la persona di V. Ecc., e successive si congratuleranno che Dio abbia preservato per sua benignità la prefata V. Ecc. da simile detestabile congiurazione.

«Così preghiamo quella si degni dare fede circa ciò ad essi nostri Oratori come a noi proprii: ed a quella ci raccomandiamo di continuo.

«Mutinae, die XIV aug. 1506.

«E. Ex. V. fidel. servit.

«Sap. presidentes Reipubl. Mutinae.»

29.  Francesco de' Mantovani, Croniche mss. citate.

30.  Antonio Frizzi, Memorie per la storia di Ferrara, Tomo IV, pag. 205, ediz. di Ferrara, 1796.

31.  Pompeo Litta, Famiglie celebri italiane.

32.  Diomede Guidalotto nel suo Tirocinio delle cose vulgari (Bologna 1501), parlando di Angela Borgia quand'anche trovavasi in Roma, dice in un sonetto a Cristoforo Valdes:

Chi ad Angiola già pose il divin nome,

Fu, Cristofor mio, certo uom ch'ebbe ingegno,

Chè costei passa di natura il segno,

Da ornar, non una sol, ma cento Rome.

Che occhi vid'io, che man, che petto!... ecc.

È ricordata anche dall'Ariosto, Orlando furioso, c. XLVI, st. 4. Nella Cronaca modenese di Tommasino Lancillotto (Parma, 1862, T. I, pag. 141-42) si riporta il seguente fatto che ci dà prova della condotta dell'Angela Borgia anche dopo il suo matrimonio con Alessandro Pio: «Domenica, a dì 8 settembre 1510. La mogliera del sig. Alessandro Pio signore di Sassuolo è stata menata via da Sassuolo dal sig. Galeazzo Pallavicino in parmigiana, e lei ci ha dato Sassuolo nelle mani per essere della parte dei Francesi, contro la voglia del suo consorte».

33.  Ariosto, Opere minori, Tomo I, pag. 849.

34.  Idem, ivi, pag. 267 a 276.

35.  Ariosto, Opere minori, Tomo I, pag. 251.

36.  Canto III, st. 60-62, e canto XLVI, st. 95.

37.  Lettera d'Isabella d'Este duchessa di Mantova al cardinale Ippolito, del 5 febbraio 1507, in Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, libro III, capo III.

38.  Fin dal 1486 venne rappresentata in Ferrara la commedia de' Menecmi di Plauto, traduzione fatta ad istanza di Ercole I, la cui sola messa in scena gli costò mille scudi, e diedesi pure il Cefalo, favola pastorale di Nicolò da Correggio. Ma senza estenderci su questi spettacoli, ricorderemo almeno di aver rilevato dalla Cronaca del Zambotto, che per festeggiare l'arrivo in Ferrara di Lucrezia Borgia sposa ad Alfonso d'Este vennero recitate dal 3 all'8 febbraio 1502 cinque commedie tradotte da Plauto, e cioè l'Epidico, le Bacchidi, il Milite glorioso, l'Asinaria e la Casina.

39.  Bonav. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. XI.

40.  Ariosto, Furioso, canto XL, st. 3.

41.  Bon. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. XIV.

42.  Antichità Estensi. Modena, 1740, tomo II, pag. 296. Veggasi anche a pag. 410, ove in proposito della scomunica data dal papa a Cesare I nel 1597 col privarlo di Ferrara, Cento, la Pieve ed altri luoghi di Romagna, dice: «come lo spirito pacifico e mansueto, lasciato dal divino Salvatore per eredità alla sua Chiesa, potesse mai per beni temporali procedere a tanti castighi e maledizioni contra di un principe cattolico.»

43.  Baruffaldi, Vita di Lod. Ariosto, pag. 140 e 141.

44.  Campori, Notizie ecc., l. c., p. 43.

45.  Antichità Estensi. Modena, 1740, tomo II, pag. 298.

46.  Da Parma scriveva al suo segretario in Ferrara di mandargli «il corsetto, la gola di ferro, li spallazzi, la braga di maglia, li scanni, le balle e il guizzotto».

47.  Una lettera del duca in data 5 settembre 1510 rammenta fra questi un Alfonso Ariosto, come parve anche al Frizzi nelle sue Memorie storiche della nobil famiglia Ariosti. Vedi Raccolta di opuscoli, ecc. Ferrara, 1779, tomo III.

48.  Baruffaldi, Vita di Lod. Ariosto, pag. 137.

49.  Isabella d'Este marchesana di Mantova così scriveva al cardinale Ippolito suo fratello in Parma sotto la data del 7 dicembre 1510: «Io mi conforto, che da tutti quelli che vengono da Ferrara mi è certificato che gentiluomini, cittadini, artisti, preti, frati e donne con grande animo lavorano alli ripari, e sono in buona disposizione di difendersi e star saldi; che mi fa sperare che li nemici si pentiranno d'andarvi.»

50.  Ariosto, Opere minori, tomo I, pag. 232. V. anche nel Furioso, canto XIV, st. 2 a 9, e c. XXXIII, st. 40 e 41.

51.  A tale oggetto il duca aveva già mandato a Roma il celebre giureconsulto reggiano Carlo Ruini, ma il papa non accettando scuse e giustificazioni, proruppe in nuove lagnanze contro il duca, accusandolo di tirannia, imputandogli l'uccisione di Ercole Strozzi la notte del 6 giugno 1508 e di un prete ricco a denari e per beneficii, come pure di aver coniata moneta falsa di cui aveva le prove, e perciò disse aver deliberato di privarlo giuridicamente del feudo di Ferrara (Campori, Notizie ecc., l. c., p. 47-48).

52.  Ariosto, Furioso, canto XIV, st. 4.

53.  Anselmo Micotti, Descrizione di Garfagnana. Ms. presso la R. Biblioteca Estense di Modena.

54.  Giovio, Vita di Alfonso I, trad. del Gelli. Fir., 1553, pag. 127.

55.  Ariosto, Opere minori, tomo I, pag. 283.

56.  Idem, Furioso, canto XXXV, st. 2.

57.  Il Baruffaldi, Vita di Lod. Ariosto, pag. 174, seguendo la Cronaca di Jacopo da Marano, dice che il cardinale Ippolito ritornò a Ferrara il 7 luglio 1516. Vi è certamente l'errore di un mese, poichè a pag. 146 di questo volume riportiamo una lettera del cardinale datata di colà il 10 giugno.

58.  Vedi lettera dell'Ariosto, 25 dicembre 1509, pag. 9 a 11 del presente volume e note relative.

59.  Campori, Notizie ecc., l. c., pag. 56, ov'è pubblicata per la prima volta la lettera del cardinale. La riportiamo in appendice alla presente edizione, avendo rilevato essere tutta di pugno dell'Ariosto.

60.  Il Baruffaldi dice che il vicario del cardinale a Milano era Beltrando Costabili, confondendolo forse col socio del beneficio. Vita di Lod. Ariosto, pag. 178.

61.  Bonaventura Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. II. Questa vita rimase imperfetta al cap. CIV per la morte dell'autore avvenuta il primo ottobre 1533, un anno prima di quella del duca. È lodata dal Muratori perchè scritta da persona molto bene informata delle cose da lui stesso trattate a nome di Alfonso I; ma pecca di soverchia parzialità al medesimo.

62.  Napoléon III, Études sur le passé et l'avenir de l'artillerie, liv. I, chap. 2 (Bataille d'Aguadel).

63.  A' suoi maggiori cannoni d'assedio pose nome di diavolo, di gran diavolo e di terremoto (ricordandolo anche l'Ariosto nel Furioso, c. XXV, s. 14), e così chiamò Giulia una famosa bombarda perchè fatta col bronzo della statua che i Bolognesi avevano innalzata a Giulio II col magisterio del divino Michelangiolo. Su questa bombarda stanno nell'Archivio di Stato in Modena degli Epigrammi a penna dettati da diversi autori in latino ed in italiano, ed eccone un saggio:

Tela Jovis supero, tremefactaque pondera terræ,

Alphonsi Estensis machina facta manu....

Chi non dirà che Giove e 'l ciel s'adiri,

Se avvien che 'l fulminar mio si rimiri?...

Gli avanzi delle artiglierie del duca Alfonso conservaronsi in Modena sino alla fine del secolo scorso, in cui se ne appropriarono i Francesi.

64.  Pietro Ghinzoni, Nozze e commedie alla corte di Ferrara nel febbraio 1491 (v. Archivio storico lombardo, anno XI, fasc. IV, dicembre 1884). La citata grida aggiunta in fine dal traduttore dei Menecmi ci fa conoscere che la recita venne eseguita sulla riduzione libera in ottava e terza rima che fu poi stampata a Venezia 1528 e 1530, due edizioni molto scorrette. L'Anfitrione, commedia di Plauto recitata la sera dopo, fu tradotta prolissamente in terza rima da Pandolfo Collenuccio. Trovasi pubblicata a Venezia nel 1530, e da ultimo nella Biblioteca rara del Daelli (Milano 1864); ma convien credere che per recitarla (e ciò avvenne anche due volte nel 1487) si dovesse accorciare in più luoghi, giacchè a darla conforme la stampa, e con intermezzi, sarebbe occorso troppo tempo.

65.  Francesco de' Mantovani, nel suo Libro di alcune croniche, mss., parlando di Lucrezia, dice: «Il papa li voleva bene, a tale che niuno non poteva ottenire beneficii, se non per via di lei, e per questo guadagnava un tesoro.» Il Raynal, Ann. Eccles., dichiara che le fu talvolta ceduto dal padre il governo temporale di Roma.

66.  Veggasi a pag. XXXV, nota 2 del presente volume.

67.  Ariosto, Opere minori, vol. I, pag. 327.

68.  Archivio storico italiano. Appendice, tomo II (Firenze, 1845), pag. 307 e 308.

69.  «Oltre cento mila scudi d'oro di dote.... e molte gioie e argenti, ch'ella portò seco venendo a marito, papa Alessandro dette anco all'illustrissima casa d'Este il dominio di Cento e della Pieve. Oltre di questo, come si soleva pagare di censo e per ricognizione di Ferrara alla Sede Apostolica quattro mila scudi l'anno, dedusse il censo a cento ducati l'anno, col consenso del sacro Collegio de' cardinali.» Bon. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. V.

70.  Gli diresse un carme latino, e gli fece l'epitaffio in morte. Opere minori, tomo I, pag. 333 e 361. Lodato anche nel Furioso, canto XLII, st. 83.

71.  Pompeo Litta, Famiglia d'Este. — Ariosto, Opere minori, tomo I, pag. 361 in nota.

72.  Simone Fornari, La Sposizione sopra l'Orlando furioso di L. Ariosto. Fiorenza, 1549, pag. 690-91. Vedi anche Carducci, Delle poesie latine edite e inedite di L. Ariosto, ed. cit., pag. 192-195; e Campori, Notizie di Lod. Ariosto, pag. 47, in nota.

73.  Girolamo Mugiasca (il Comasco) scriveva da Bologna il 30 giugno 1508 al cardinale Ippolito d'Este: «Della morte del signor Ercole Strozzi qua se ne parla assai, e la pubblica voce è che la cagione della morte sua sia stato il signor Alessandro da Sassuolo. Oggi parlando con uno quale dirò a V. S. a bocca, m'ha detto che ne vien data imputazione a Mesino del Forno, benchè non gli sia da credere. Iddio sa la verità!...» (Arch. di Stato in Modena).

74.  Al capitolo II.

75.  Bon. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. LVIII.

76.  Idem, ivi, cap. XXXVII.

77.  Bon. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. XXXIX.

78.  Idem, ivi, cap. XL.

79.  Questa pittura doveva rappresentare il trionfo di Bacco nell'India, poi sembra che per essere stato un egual soggetto trattato da altri, si volesse mutare.

80.  Nel maggior travaglio della duchessa venne incaricato un tal Colle alias Libo d'implorare l'aiuto di Dio con una speciale pregaria, che incomincia: Oh! creante, e increato; ed egli riferendo di averlo fatto prosteso nella sua solitaria camera con fervore e lagrime infinite, soggiunge che all'ultima sillaba dell'orazione «fu rapito nel più alto cielo, dove fra le divine e maravigliose cose vide una cattedra tanto ricca e tanto bella, che lo admirabile suo lavoro cosa impossibile narrar sarebbe, sopra la quale era questo motto: locus Lucretiae»! (Arch. di Stato in Modena).

81.  Bon. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. V.

82.  Frizzi, Storia di Ferrara, ediz. cit. T. IV, pag. 263.

83.  Gregorovius, Lucrezia Borgia, secondo documenti e carteggi del tempo. Traduzione dal tedesco di Raffaele Mariano. Firenze, Le Monnier, 1874, pag. 291, 314-319.

84.  Bon. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. XLVIII.

85.  Antichità Estensi, tomo II, pag. 323. Il Muratori espone che si vergognerebbe di riferir cosa cotanto ripugnante al decoro di papa Leone, e di cui l'animo grande di papa Giulio non sarebbe stato capace, se il famoso storico Francesco Guicciardini non avesse levato il velo a tentativo sì enorme. Ma il Guicciardini dice che si cercò solo di avere a tradimento la porta di castel Tedaldo in Ferrara (come Giulio II, stando in Bologna, tramò pure di averla), non di far assassinare il duca. Vedi Storia d'Italia, libro XIII, in fine: e ciò sta in relazione all'ultima parte del processo contro il Gambara.

86.  Ariosto, Satira II, v. 102.

87.  Dante, Purgatorio, canto XXIV, v. 24.

88.  Bon. Pistofilo, l. c., cap. L.

89.  Abbiamo tre edizioni della Lettera del duca, una di Ferrara e due di Venezia, di 4 carte in forma di quarto piccolo. La risposta della corte di Roma impressa in quella città è di carte 20, più altre 4 carte in fine che contengono la ristampa della Lettera del duca, nel formato pure di quarto piccolo.

90.  Il Muratori parla della Lettera o Manifesto del duca contro Leone X, ma sembra che non conoscesse la risposta che vi fece la corte di Roma. Antichità Estensi, tomo II, pag. 326.

91.  Rinaldo Ariosto aveva tre figliuole, Lucrezia e Costanza maritate ne' conti Antonio e Ruggiero da Bagno, e l'altra per nome Bianca (oltre ad Ercole naturale che si fece frate minore di S. Francesco), non aventi diritto alla successione dei beni feudali. La marchesana di Mantova sentendo che le facoltà libere lasciate dal conte Rinaldo si trovavano molto scarse, fu sollecita di raccomandare con lettera del 21 luglio 1519 al duca di Ferrara le due sorelle Lucrezia e Costanza affinchè potessero conseguire il pagamento di due mila scudi che il padre aveva loro assegnato per dote. — La parentela dei da Bagno cogli Ariosto prestò occasione al nostro Poeta di indirizzare unitamente al proprio fratello Alessandro e a Lodovico da Bagno la Satira II, e tanto più che quest'ultimo fu anche cancelliere del cardinal d'Este.

92.  Il Fattor ducale in Ferrara era capo direttore dei beni Camerali colla presidenza all'economia e contratti privati del principe. L'amministrazione dei beni Camerali era giudice in causa propria, e questo privilegio venne conservato altresì in Modena sotto gli Austro-Estensi finchè durò il loro dominio.

93.  Supplica dei fratelli Ariosto al duca Ercole II, che si vedrà riportata come ultimo documento sotto il n. XVII.

94.  Ariosto, Opere minori, tomo I, pag. 307 e 308.

95.  Ariosto, Opere minori, tomo II, pag. 356, nota 4.

96.  Questa seconda possessione formava forse il miglior beneficio ecclesiastico fra quelli avuti dal cardinale Ippolito, e che l'Ariosto fu obbligato di rinunciare, cessando di servirlo.

97.  March. Giuseppe Campori, Notizie inedite di Raffaello d'Urbino negli Atti e Memorie di storia patria. Modena, 1863, Tom. I, pag. 130: e vi è pure per la prima volta stampata la suddetta lettera del Paolucci.

98.  Ariosto, Opere minori, Tom. II, pag. 352.

99.  Baruffaldi, Vita di Lod. Ariosto, pag. 283 e 284.

100.  Guido Panciroli, Storia della città di Reggio, trad. di Prospero Viani. Reggio, 1846, lib. VII.

101.  E qui pure sarebbe a dire che l'Ariosto poteva in una successiva rivoltura di cose correr pericolo di veder su lui rinnovata la minaccia fatta al commissario fiorentino, e andar sommerso nell'acque della Turrita e del Serchio, a somiglianza di quanto fu detto per l'incarico avuto presso Giulio II.

102.  Anselmo Micotti, Descrizione cronologica di Garfagnana, ms. presso la Biblioteca Estense di Modena.

103.  Di queste tasse e diritti di somministrazioni di fieno e paglia per mantenimento di cavalli od altro parlano gli Statuti delle Vicarie di Garfagnana posseduti nella Biblioteca Estense di Modena; ed un prospetto levato dagli Statuti di Camporgiano fu pure presentato dal compianto prof. cav. Olinto Dini alla Deputazione di storia patria di cui faceva parte (v. Atti e Memorie della Deputazione suddetta. Modena, 1864, Tom. II, pag. VI). Il celebre Fulvio Testi, che nel 1640 andò governatore di Garfagnana, ha nelle sue Lettere: «chi si diletta d'aver nette le manine caverà 1300 in 1600 scudi l'anno, computandovi il certo e l'incerto: chi ha la coscienza più larga si provecchierà 2500 e fors'anche 3000 scudi».

104.  Girolamo Garofolo, Vita di Lodovico Ariosto, che sta in fronte all'Orlando furioso dell'edizione di Venezia, 1584, colle figure in rame del Porro.

105.  Ariosto, Opere minori, Tom. I, pag. 218 a 220, ove l'Ariosto descrive senza meno il primo viaggio che fece andando al governo di Garfagnana e non un viaggio posteriore, qualunque sia il tempo in cui abbia dettata la sua Elegia: chè qui la passione è propria del primo e più forte distacco dalla donna amata, qui scorgesi il pentimento di aver allora accettato quell'officio, e qui il poeta vien quasi a dirci che non aveva altra volta veduta la sua residenza di Castelnovo, figurandosela col pensiero in relazione alla scena che gli stava dintorno:

«Deh! chi spero io che per sì iniqua strada,

Sì rabbiosa procella d'acqua e venti,

Possa esser degno che a trovar si vada?...

Altre pioggie al coperto, altre tempeste

Di sospiri e di lagrime m'aspetto».

106.  Il sig. cav. Vittorio Della Nave quando venti e più anni sono tenne l'ufficio di Sottoprefetto in Garfagnana ebbe il lodevole pensiero di cercare e ricuperare quasi tutte le lettere (andate in gran parte smarrite) che il duca Alfonso I diresse all'Ariosto durante il suo commissariato, e ne preparò anche accurata copia in un grosso e ben ordinato volume con altri documenti relativi alla provincia medesima prima e dopo quel tempo; volume del quale degnossi ultimamente far dono gradito alla R. Deputazione modenese di storia patria. Le lettere scritte dal duca all'Ariosto in Castelnovo dall'8 marzo 1522 al 5 giugno 1525 sono 117, e servono per la maggior parte di risposta a un centinaio di lettere che si citano mandate dall'Ariosto allo stesso duca e ai suoi due segretari Pistofilo e Remo. Non essendosi rinvenuto nell'Archivio di Stato in Modena che una metà circa delle citate lettere, è dunque da lamentare che l'altra metà andò perduta nei vari incendi sofferti dall'Archivio Estense in Ferrara. E noi che conoscevamo soltanto le ultime sedici lettere suddette offerte molti anni sono alla stessa Deputazione dal ricordato socio prof. Olinto Dini, non abbiamo potuto abbastanza giovarci delle anteriori perchè il dono del signor Della Nave arrivò allorchè il testo delle presenti lettere dell'Ariosto terminavasi di stampare.

107.  Fra le cure del commissariato si assunse anche quella di tenere i registri di dare ed avere, e nell'Archivio di Stato in Modena abbiamo un libro di 20 carte in foglio scritto di pugno dell'Ariosto, e intestato Conto de' Balestrieri a l'anno MDXXII. A destra trovasi il Dare della Camera ducale dalle Vicarie diverse, tassate del mantenimento proporzionale degli uomini d'arme. I Balestrieri erano 10, che percepivano L. 1,2 il giorno, e il capitano Giovanni Manara col suo famiglio L. 2,6 di moneta lunga ferrarese, ossia di marchesini.

108.  Il duca a queste proposte rispondeva il 31 luglio 1523, che «sarìa troppa gran ruina e crudeltà di bruciare case, tagliare vigne, minare i campanili, e che i padri fossero tenuti per gli figliuoli»; ma essendo poco dopo avvenuto l'assassinio della intiera famiglia dei conti di San Donnino per opera dei Madalena, altra famiglia potente e rivale dei detti conti, il duca ne provò tale risentimento, da permettere all'Ariosto di usare ogni giusta severità contro i delinquenti, con spianare e bruciare ancora le case loro: e gli mandò a tale effetto un rinforzo di soldati da pagarsi colle confiscazioni e condannazioni; e quando avesse alcun dubbio in iure, si consultasse col capitano della ragione (Lett. del 13 settembre).

109.  Le relazioni degli Anziani della Repubblica di Lucca col commissario di Garfagnana furono sempre cordiali; ed anzi racconta il citato Garofolo, che «occorrendo all'Ariosto per certi particolari del suo ufficio abboccarsi con uno de' principali gentiluomini di Lucca, si trasferì secondo l'ordine appuntato tra loro a S. Pellegrino, dove non pure trovò il gentiluomo, ma molti altri de' primi della terra, che in compagnia di molte gentildonne, tratti dalla fama del suo valore, erano concorsi e per vederlo e per onorarlo, e così trattenutolo ad una onorevolissima abitazione, l'accolsero ad una mensa molto splendidamente apprestata, facendogli a gara segnalate cortesie, ed usando verso lui insolite dimostrazioni di amore e di riverenza».

110.  Fra le quattro o cinque gite dell'Ariosto a Ferrara durante il suo commissariato di Garfagnana, quella che avvenne tra il mese di marzo e l'aprile del 1523 fu ordinata dal duca, il quale gli scrisse di recarsi a Ferrara per 15 o 20 giorni a motivo di certo negotio che avemo a cuore, non gravandolo però di molta fretta.

111.  Valentino Carli, Storie della Garfagnana antica, libro VI. Ms. presso la Biblioteca Estense di Modena.

112.  Il Carli ci dà pure poco prima un esempio d'inesattezza storica, narrando che il capitano Todeschini alla testa di mille soldati Côrsi tentò alla morte di Leone X impadronirsi della Garfagnana prima che il duca vi mandasse un suo commissario; che avutosi da lui Camporgiano, spedì un tamburino a chiedere la resa di Castelnovo; che nell'essere respinto venne a contesa col capitano Segalara suo compagno d'armi, restando ferito di una stoccata mortale nel petto; e che fatto prigioniero dai Castelnovesi morì nel 1522. — Questi fatti avvennero invece nel movimento fatto in Garfagnana dalle bande nere di Giovanni de' Medici di cui faceva parte il Todeschino morto il 2 agosto 1524, come l'Ariosto accenna nelle presenti sue Lettere a pag. 228, 237, 248 e 255.

113.  Abbiamo negli Statuti di Castelnovo, lib. II, cap. 16: «Nel giorno del mercato pubblico del giovedì, niuno terriero o forestiero possa esser fatto prigione, nè distenersi, ecc.»

114.  Daniello Bartoli, Degli uomini e de' fatti della Comp. di Gesù, libro I, cap. 26.

115.  Bon. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. LVII.

116.  Vita di Alfonso I, cap. LIX.

117.  Bon. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. LXVI.

118.  Idem, ivi, cap. LXVII.

119.  Bon. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. LXXII.

120.  Bon. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. LXXIII.

121.  Archivio storico italiano, nuova serie. Tomo IX, parte II, pag. 128.

122.  Bon. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. LXXIV. Il codice Antonelli di Ferrara da noi tenuto a confronto, dice: da uno archibugiero del papa; diversità di lezione, la quale offre nuova prova dell'incertezza che fin d'allora correva sull'uccisore del Borbone, di che il Cellini nella propria Vita si vantò essere stato egli stesso.

123.  Bon. Pistofilo, l. c., cap. LXXV.

124.  Antonio Frizzi, Memorie per la storia di Ferrara, tomo IV.

125.  Prologo di Gabriele Ariosto alla commedia La Scolastica: in Lodovico Ariosto, Opere minori, tomo II, pag. 426-427.

126.  Vita di Lod. Ariosto, pag. 207.

127.  Lod. Ariosto, Opere minori, tomo I, pag. 222-225.

128.  Lo storico Guicciardini ha secondo un ms. de' suoi Avvertimenti politici, che trovasi presso di noi: «Dico che il duca di Ferrara, che fa mercanzia, in questo non solo fa cosa vergognosa, ma è tiranno, facendo quel ch'è ufficio de' privati e non suo; e pecca tanto verso i popoli quanto peccherebbono essi verso lui, volendo intromettersi in quel ch'è ufficio solum del principe.»

129.  Lod. Ariosto, Opere minori, tomo II, pag. 353.

130.  Ugo Foscolo, Sui poemi narrativi e romanzeschi italiani, traduzione dall'inglese del Maggi.

131.  Abbiam veduto come il marchese del Vasto fosse prodigo all'Ariosto in Correggio del regalo di alcuni oggetti preziosi e di una pensione vitalizia (pag. 327), ond'egli non mancò di encomiarlo in quest'ultima sua ristampa del Furioso: e abbiam anche veduto quanto il cardinale Ippolito e il duca Alfonso I si mostrassero avari di questa sorta favori verso colui che li aveva sì altamente celebrati con tutta l'Estense progenie. Pure il cav. Luigi Lamberti, cui dobbiamo in gran parte la pubblicazione nel Poligrafo di Milano dell'Egloga del nostro autore, dichiara che «se l'Ariosto non raccolse dal suo poema quel frutto che a sì squisito lavoro si competeva, ebbe però alcuna cosa di cui non si fa menzione dagli scrittori della sua vita». Questa notizia egli la trae da una lettera latina inedita di Paolo Manuzio, che Santo Fattori vide nell'Archivio di Modena, e diretta al cardinale Ippolito d'Este al quale il Manuzio (nel 1557) aveva dedicata la sua opera De legibus Romanis, e che dice: «.... Io mi doleva che il figlio del tuo fratello, giovane di animo prestante, infiammato dall'amore dell'immortalità per le fole dell'impazzito Orlando stampate col nome di lui, avesse donato una collana d'oro del valore di cinquecento scudi; e che tu, uomo cotanto grande, con tante ricchezze e di sì gran fama, pel libro delle Romane leggi, non punto comparabile, siccome credo, con quelle furie d'Orlando, non avessi mandato a me neppure un fermaglio di rame.... Venezia, 1 feb. 1557». (V. Vita del Lamberti nelle Notizie bibliog. in continuaz. della Biblioteca modenese del Tiraboschi. Reggio, 1835, Tom. IV, pag. 75, 76). Ma il Lamberti non s'accorse che qui si parlava del cardinale Ippolito II d'Este nipote del I, come la data della lettera e della edizione del libro del Manuzio lo dimostrano: e così è da stabilire che il regalo che mosse la brutta invidia cadde in vece su Girolamo Ruscelli, il quale nel 1556 dedicò al principe Don Alfonso d'Este figlio ad Ercole II una ristampa del Furioso uscita in Venezia pei tipi del Valgrisi colle figure che si ritengono designate dal pittore Dosso Dossi.

132.  Il Frizzi nelle sue Memorie storiche della famiglia Ariosti sembra far qualche calcolo di alcuni Rogiti di data assai prossima alla morte di Lodovico ov'è detto laureatus poeta. Questa qualifica la troviamo data nelle cronache reggiane a Gabriele Malaguzzi padre della Daria onde nacque l'Ariosto, e nelle cronache ferraresi a Lodovico Carbone e a Tito Strozzi: il che significa l'essere riconosciuto da tutti come buon poeta anche senza bisogno di materiale incoronazione. L'Ariosto poi col suo poema si pose da sè stesso in capo tal serto, che ben vale quanto quello e più di quello che non potè essergli conferito dalle mani dell'imperatore.

133.  Bon. Pistofilo, Vita di Alfonso I, cap. CII.

134.  Baruffaldi, Vita di Lod. Ariosto, pag. 239-240.

135.  In fine di questo volume, oltre di ristampare un sonetto che trovammo inedito dell'Ariosto, aggiungiamo sull'appoggio di un ms. sincrono de' Cinque canti la prima ottava mancante in tutte le edizioni, ma che in parte è conforme alla st. 68 del XLVI ed ultimo canto del Furioso. Il Barotti sospettò che il canto II fosse scritto dall'Autore tra il 1516 e il 1520, per quanto dice nell'osservazione che pose alla st. 52: però sembra che messer Lodovico vi attendesse assieme agli altri quattro dopo essersi portato al suo commissariato di Garfagnana (1522-25), poichè nella st. 18 dello stesso canto II parla del ferro che raccolto nelle montagne di quella provincia veniva separato in un villaggio, per ciò detto Forno Volasco, di cui nota lo stretto e difficile sentiero da lui senz'altro percorso.

136.  Sono infiniti i miglioramenti di locuzione che l'Ariosto venne introducendo nel suo poema dopo la prima stampa del 1516: ma anche in questa noi vediamo camera (che pur è nella commedia La Cassaria tanto in prosa che in versi), fata, giglio, lancia, e non una sola volta ciambra, fada, ziglio, lanza che sempre s'incontrano come segni più espressi della pronunzia provinciale nel Rinaldo ardito. L'Ariosto che si studiava di mutare: Si tol la vista in La vista tolletrastul in piacermetal in bronzo (III, 67; IV, 22; XIX, 76), è mai possibile che potesse poi seguitare a dettar versi con troncamenti di questa fatta: L'amorosa mia don gran tempo aspetta — Cui sotto il ceppo ha il col per esser morto — Il fer li pose con tanta possanza, ecc. (Rin. ard., I, 10 e 5, V, 12)?

Un difensore dell'originalità ariostesca di detto codice comparve da ultimo nella persona del bibliofilo Paolo Antonio Tosi di Milano, il quale si mostrò punto dalle nostre osservazioni in contrario, e vi fece risposta alla sua maniera, che stampò in Busto Arsizio nel 1863, poi in appendice alla Bibliografia dei romanzi di cavalleria, Milano, 1865. Giova però ricordare che il Tosi era divenuto proprietario di questo codice, che non trovava un padrone un po' stabile; nè deve quindi far caso se il libraio sbracciavasi per tener in credito la sua mercanzia.

137.  Queste due morti per indigestione trovano riscontro nell'epigramma giovanile fatto dall'Ariosto sul cognome Estense e che abbiamo prodotto a pag. XXI in nota.

138.  Vita di Alfonso I, cap. II.

139.  Cantù, Storia universale, ottava ediz., Tomo IX, pag. 379.

140.  Ms. citato, presso la R. Biblioteca Estense di Modena.

141.  Archivio storico italiano. Appendice. Tomo II, pagina 67-68.

142.  Memorie storiche e documenti sulla città e sull'antico principato di Carpi, studi e indagini della Commissione municipale di storia patria e di arti belle di detta città. Carpi, 1879-80, Vol. II, p. 12 a 20 e 355.

143.  Sembra che a Nicolò Ariosto cadesse in mente il verso di Dante: Io credo ch'ei credette ch'io credesse (Inf., c. XIII, v. 25).

144.  Invece di cerchorno extinguerli la luce de li occhi, il cardinale corresse di suo pugno la minuta del segretario, temperando l'enormezza a lui dovuta, con lo batterono ne li occhi.

145.  Corretto come sopra con la causa di questo, per quanto ecc.

146.  Corretto come sopra con a fare tal scandalo. Di che ecc.

147.  I due fratelli Alfonso ed Ippolito d'Este erano stati tenuti a battesimo dalla Repubblica di Venezia.

148.  Questa lettera fu scritta in cifra.

149.  Questa lettera è tutta di pugno del duca Alfonso I.

150.  Obizo Remo segretario del duca.

151.  Diavolo, Gran-diavolo e Terremoto erano i nomi dati dal duca a' suoi più grossi cannoni, oltre la Giulia famosa bombarda; come si è detto a pag. LVIII, nota 2.

152.  Or sembra che incomincino le esagerazioni.

153.  Non è verosimile che Gianni dopo aver voluto le assicurazioni dalla bocca stessa del Papa per rendere più efficaci i di lui maneggi, fosse poi corso a persuadere in senso contrario il capitano Ello.

154.  Anche questo bruciamento di lettere si direbbe essere una scappatoia ritrovata dal compilatore del Processo.

155.  Il progetto di questa impresa coi mille somieri è ridicolo.

156.  Sarebbe stato della natura di Alfonso I lasciare che il progetto del Gambara fosse messo in atto per tirar questi nell'agguato e farne vendetta.

157.  E non mancò infatti il favore che fece verificare fino ai giorni nostri una sì grande aspettativa, onde quel secolo prese nome di Leone X.

158.  Quest'importante lettera fu pubblicata per la prima volta dal signor march. Giuseppe Campori (come si è detto a pag. LXXX, nota 1), ed è ora riscontrata sull'originale. Le note che abbiam conservate del lodato editore hanno il contrassegno: (G. C.).

159.  Ercole Rangoni cardinale (G. C.).

160.  Il card. Innocenzo figlio di Franceschetto Cibo e di Maddalena de' Medici sorella di Leone X (G. C.).

161.  Fra Mariano Fetti laico domenicano che fu successore di Bramante e antecessore di Sebastiano Veneziano nell'ufficio del piombo. Costui fu principalissimo giullare della corte di Leone X insieme col Baraballo, col Querno e simili; ma fu anche in un tempo amico e fautore degli artisti (G. C.).

162.  Il signor march. Campori lesse: forami. — Il Fanfulla della domenica (n. 4, 24 gennaio 1886), che ristampò in parte questa lettera, ha: per mo se foravano. — E avendo detto più sopra: «capreti di Fra Mariano», invece di capreci, lo riteniamo errore di stampa.

163.  Figurando la scena dei Suppositi la città di Ferrara, dice che Ferrara era venuta a Roma sotto fede del card. Cibo (nelle sue stanze) per non esser da meno di Mantova, ossia di un'altra commedia colla scena in Mantova, la quale l'anno avanti era stata egualmente portata a Roma dal card. di Bibiena (per favore e cura di lui). Un giuoco pressochè eguale di parole è fatto dall'Ariosto anche nei due prologhi della commedia Il Negromante che ha la scena in Cremona, e da poter servire alle recite di Roma e Ferrara.

La commedia poi che si accenna recitata in Roma nel 1518 potrebb'essere, fra l'altre, l'Eutichia di Nicola Grasso mantovano, la quale ha la scena in Mantova e si dice nel Prologo esposta in diverso luogo (però in un pubblico teatro): commedia che fu stampata in Roma l'anno 1524, contemporaneamente ai Suppositi in prosa dell'Ariosto, ed alla Calandra del Bibiena ecc.

164.  Veggasi il Prologo dei Suppositi in prosa ed in versi: ma sembra che l'Ariosto facesse per la rappresentazione di questa commedia in Roma un nuovo Prologo in cui si accennasse la gara tra Mantova e Ferrara e avesse ancora maggiori bisticci aromatici (allusioni men che oneste) per soddisfare vie più all'umore di Leone X.

165.  Cioè il card. d'Aragona (Vedi Fanfulla cit.)

166.  Uomo del duca d'Urbino (Vedi Fanfulla cit.).

167.  Qui nel Fanfulla è saltata una riga, e perciò il senso resta interrotto.

168.  Forse Madama Margherita zia di Carlo V, la quale tenne il governo delle Fiandre dal principio del 1508 al 1º dicembre 1530, nel qual giorno morì (G. C.).

169.  Fè rara per Ferrara; allusione al fatto svolto nella commedia che si finge avvenuto in quella città e al ferrarese Ariosto autore di essa (G. C.).

170.  Principale favorito e cameriere del Papa, che dopo la morte di lui fu messo in prigione per sospetto non si fosse appropriato certe preziose masserizie del medesimo. Fu poi assoluto. Vedansi in proposito le Lettere di Principi (G. C.).

171.  Che parrebbe titolo di fondo morale; se pure non è da leggere Uno arboro de mele. — Il Fanfulla ha «uno arboro de mati» (cuccagna?).

172.  Cioè montare a cavalluccio d'un palafreniere. Così diciamo: Dare un cavallo, a chi fa spropositi da essere frustato, posto a cavalluccio d'un altro.

173.  Il celebre Pietro Bembo segretario del Papa, e poi Cardinale (G. C.).

174.  Lodovico Canossa vescovo di Bayeux (G. C.).

175.  Dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano, favoritami in copia dal degn. sig. Bibl. cav. Antonio Ceruti. È una lettera «della gioventù del nostro grande poeta, che fu tutta latina», come giustamente osserva il ch. Carducci; e in essa tanto per fatto dell'Ariosto che delle lezioni date dall'Aquila si avvalorano i buoni risultati del risorgimento degli studi classici in Ferrara (V. Poesie latine di Lod. Ariosto, studi e ricerche di G. Carducci, Bologna, 1876, 2ª edizione).

176.  Di Marsilio Ficino erano già a stampa: Theologia Platonica (Florentiae, 1482); Platonis, Opera latine interpr. (Venetiis, 1491); Commentaria in Platonis Parmenidem, Sophistam, Timaeum etc. (Florentiae, 1496).

177.  L'Ariosto fu amico e condiscepolo di Alberto Pio principe di Carpi, e a lui intitolò alcuni de' suoi carmi.

178.  Dell'ebreo da Riva, che teneva banco di prestiti in Ferrara, è fatto cenno dall'Ariosto anche nella commedia La Lena, atto 3º, sc. 6ª.

179.  A scemar le usure il Duca aprì in Ferrara il 3 gennaio 1508 un Monte di pietà. In Modena e Reggio eravi fino dal 1494.

180.  Sarebbero in oggi da lire 34,68, a lire 37,16 per oltre 7 ettolitri di vino: e lire 1,49 per circa 23 chilogr. di frumento.

181.  Intende l'armata di 18 galee che i Veneziani spedirono in Po sotto il comando di Angelo Trivisani a danno specialmente del duca Alfonso di Ferrara che aveva ricuperato il Polesine di Rovigo. Il Duca faceva parte dell'infausta lega di Cambray promossa dal Papa contro la Repubblica Veneta. Il cardinale Ippolito, d'indole guerresca, trovavasi colle genti di suo fratello a rinforzare il campo Cesareo sotto Padova.

182.  Il cardinale Giuliano Cesarini fu abbate commendatario di Nonantola dal 1505 fino al 1510 in cui morì.

183.  Cioè: per averne le figliature.

184.  Questo Salomone, essendo uno de' tredici valorosi italiani che nel 1503 vinsero in Barletta la famosa disfida con altrettanti francesi, è più avanti a torto chiamato un codardo giudeo. Fu però vinto nel duello che ebbe con Marino dalla Maitina in Ferrara il 14 novembre 1509 (V. A. Bertolotti, La disfida di Barletta, in Arch. stor. lomb., an. IX, fasc. IV, dicembre 1884).

185.  I notari d'argini sorvegliavano di continuo i lavoratori di Po, secondo il comparto dei giudici d'argini. Nella Lena, atto 3º, sc. 2ª, l'Ariosto ricorda anche i giudici alle fosse, che scavavansi attorno di Ferrara.

186.  È in parte consunta dal fuoco. Le parole o lettere in corsivo sono state da me supplite ove parvero probabili.

187.  Pietro Isualli arcivescovo di Reggio in Calabria.

188.  Il conte della Mirandola, Lodovico Pico, mandato da papa Giulio II alla testa di una campagnia di duecento fanti e altrettanti cavalleggieri in aiuto del duca Alfonso, restò ucciso il 15 dicembre 1509 da una palla d'artiglieria delle navi veneziane, dopo aver respinto gli stradiotti nel bastione che avevano eretto sulla riva del Po in faccia alla Polesella, e mentre cavalcava a fianco del cardinale Ippolito.

189.  Lodovico Canossa vescovo di Tricarica.

190.  L'Ariosto partì da Ferrara il 16 dicembre 1509, come rilevasi dal Furioso, c. 40, st. 3, subito dopo avvenuta la morte del conte della Mirandola, per chiedere soccorso al Papa.

191.  La rotta dell'armata Veneta in Po accadde la mattina del 22 dicembre a merito principalmente del cardinale Ippolito, che fece tagliare in più luoghi gli argini del fiume, ed appostarvi a pelo d'acqua dei grossi cannoni e delle colubrine di nuova e miglior costruzione del duca Alfonso. La scarica impreveduta scompigliò la flotta, e decise della vittoria. Furioso, c. 3, st. 57. Tre Ariosti vi presero parte. Id., c. 40, st. 2 a 5.

192.  Il cardinale Marco Cornaro d'illustre famiglia veneta.

193.  Accenna all'ultimo canto del Furioso (che potrà dirsi fosse nel 1509 terminato ma non completato), ove si descrive il maraviglioso padiglione, sotto il quale la maga Melissa volle che seguissero le nozze di Ruggiero e Bradamante da cui doveva uscire la famiglia d'Este, perchè in detto padiglione la profetica Cassandra, ricamandolo per Ettore, aveva figurata la puerizia e le future imprese del lontanissimo nipote cardinale Ippolito! In sì magnifico quadro di adulazione non mancò quindi di essere dipinta la vittoria su l'armata Veneta (c. 46, st. 97). Forse l'idea di questo fantastico padiglione venne al poeta per aver veduto in Ferrara quello che il duca Ercole nel 1494 regalò a Carlo VIII, tutto di seta ed oro, «fatto in forma di una casa, con sala, camera ed altre dentro,» come si legge nella Cronaca modenese di Iacopino de' Lancillotti (Parma, 1861, p. 127) edita dalla Deputazione di Storia patria di Modena.

194.  Enea Pio di Carpi comandava la squadra ov'era andato a militare Lodovico Ariosto, e il nostro poeta in uno de' suoi carmi, parlando di sè stesso, dice: Pio celebri sub principe miles (V. Opere minori di Lod. Ariosto per cura di F.-L. Polidori. Firenze, Le Monnier, 1857, T. I, p. 340).

195.  Carlo d'Amboise signor di Chaumont, gran maestro (governatore) di Milano, che si portò a difendere il duca Alfonso. Il papa, dopo aver ricuperato alcune terre che appartenevano alla Chiesa, abbandonò la lega di Cambray, e unito ai Veneziani mosse guerra al duca di Ferrara, il quale alla propostagli alleanza di Giulio II a condizioni onerose aveva preferita quella del re di Francia.

196.  Questo Pier Moro è ricordato nel Furioso, c. 40, st. 4.

197.  Il duca d'Urbino colle armi del papa e il favore dei Rangoni occupò Modena il 18 agosto 1510, e due giorni dopo ebbe Carpi. Sassuolo non fu costretto alla resa che il 21 ottobre. Rubiera e Reggio tennero forte per allora. Alla sola data dell'anno in questa lettera credo poter fissare anche quella del mese di ottobre, poco prima della resa di Sassuolo, e quando già il Chaumont aveva riavuto Carpi. Che fosse scritta in Reggio è per sè chiaro abbastanza.

198.  Nel 23 aprile 1510 il Duca aveva avuto dai Reggiani mille staia di frumento ed altrettanti di spelta e di frumentone, con salsumi e mille cogni di vino per la guerra coi Veneziani. Panciroli, Storia di Reggio, trad. di Prospero Viani, lib. VI.

199.  Il campo Francese andò a Reggio il 29 ottobre 1510, e perciò la data di questa lettera può fissarsi alla fine di detto mese.

200.  Le date fra parentesi s'intendono supplite da me.

201.  Poi papa Leone X.

202.  

Io nè pianeta mai, nè tonicella,

Nè chierca vo' che in capo mi si pona.

Ariosto, Sat. I, v. 113-114.

203.  

E provveder ch'io sia il primo, che mocchi

Sant'Agata, se avvien che al vecchio prete,

Sopravvivendogli io, di morir tocchi.

Ariosto, Sat. I, v. 103-105.

204.  Era questi il duca di Ferrara Alfonso I che travestito da frate fuggiva da Roma in compagnia dell'Ariosto la grand'ira di Giulio II il quale faceva inseguirlo e ad ogni modo voleva averlo nelle mani.

205.  Giovanni de' Medici.

206.  Rinaldo Ariosto cugino di Lodovico.

207.  Francesca del Fiesco moglie di Lodovico Gonzaga.

208.  «Così alla mia speranza, che a staffetta Mi trasse a Roma,» dice alla Satira VI. Non appena seppe l'Ariosto che Giovanni de' Medici suo amico era stato eletto papa (11 marzo 1513), corse a Roma per fargli ossequio e congratulazioni anche a nome del duca. Leone X mostrò gradirne la visita; ma la concepita speranza di essere beneficato coll'offerta di qualche carica rimase al poeta delusa.

209.  Lamentavasi quindi nella Satira II colla famosa terzina:

Apollo, tua mercè, tua mercè, santo

Collegio delle Muse, io non possiedo

Tanto per voi, ch'io possa farmi un manto.

210.  Molti suoi amici avevano conseguito impieghi onorifici e lucrativi, o erano in procinto di diventar cardinali: il papa alla prima creazione ne fece trentuno; onde l'Ariosto disse alla Satira VI: «.... vidi A tanti amici miei rosse le spoglie.»

211.  Paride Grassi maestro delle cerimonie sotto Giulio II, promosso da Leone X a prelato di palazzo.

212.  Bernardo Dovizi da Bibbiena segretario particolare del Medici, creato poscia cardinale datario. Era anch'esso amico dell'Ariosto, che nella Satira IV lo chiama il suo Bibbiena.

213.  Dall'Archivio de' Frari in Venezia: Notatorio, Collegio I, anni 1515-1520, a carte 23. Questa domanda di privilegio e quella che si legge più avanti sotto il 7 gennaio 1528 vennero pubblicate per la prima volta nella mia seconda edizione delle Lettere dell'Ariosto, Bologna 1866, sopra una copia favoritami da Mons. Giuseppe Antonelli. Ricomparvero, credute ancora inedite, nel Buonarroti (Quad. VI, giugno 1868) a cura del signor Andrea Tessier, il quale avendo dato il testo conforme all'originale lo riproduco anch'io egualmente.

214.  L'Orlando Furioso dell'Ariosto uscì la prima volta in Ferrara per maestro Giovanni Mazzocco dal Bondeno, adì 22 aprile 1516, e la seconda volta da lui corretto e quasi tutto formato di nuovo e ampliato pure in Ferrara per Gio. Battista dalla Pigna milanese, adì 13 febbraio 1521, in forma di 4º.

215.  Sì di questo che di altri privilegi accordati all'Ariosto per la stampa del suo poema, veggansi le due ricordate edizioni 1516 e 1521, ove però il privilegio veneto manca della data de' 25 ottobre 1515.

216.  Lorenzo de' Medici, il giovine.

217.  Maddalena de la Tour d'Auvergne.

218.  Il card. de' Rossi era figliuolo di una sorella naturale di Lorenzo de' Medici detto il Magnifico.

219.  Contarina Farnese. Di boria nobilesca, fu esigente col marito che la compiaceva soverchiamente nelle spese di lusso, sì che meritò le censure del nostro poeta. Satira III, v. 138.

220.  Trecent'anni leggono per errore le prime edizioni.

221.  Allude alla tenuta di Bagnolo ereditata dal cugino Rinaldo Ariosto, negatagli dal fattore ducale Alfonso Trotti, ed alla rinuncia che dovette emettere de' benefici ecclesiastici per non aver voluto seguire in Ungheria il card. Ippolito d'Este. Vedi anche l'ultimo documento alla Prefaz. storico-critica di questo libro. All'Ariosto furono attribuiti due sonetti satirici contro il Trotti perchè si trovarono scritti di sua mano (Opere minori, T. I, p. 307-8). Io li credo invece dettati da Antonio Cammelli detto il Pistoia.

222.  Il Negromante. Non pare fosse recitata in Roma, ove però l'anno prima si diedero i Suppositi dell'Ariosto colla scena dipinta da Raffaello nel palazzo papale, stando lo stesso Leone X a regolare l'entrata degli spettatori. Sulla recita delle sue commedie parla l'Ariosto nella lettera del 17 dicembre 1532 più avanti riportata.

223.  Chiamato anche l'abbate di Gaeta dal luogo ove nacque. Credendosi assai valente verseggiatore serviva da buffone a Leone X, il quale nel 1515 lo mandò con sontuoso e burlesco trionfo sopra un elefante per Roma fra le risa e gli scherni del popolo a farsi incoronare poeta.

224.  N'ebbi copia, come inedita, dal ch. Gaetano Milanesi.

225.  Questa e così le altre lettere dirette agli Anziani suddetti furono tratte dai copiari dell'Archivio di Stato in Lucca e pubblicate la prima volta dal signor Angelo Fondora nel Gior. stor. degli Archivi Toscani, 1862.

226.  Le sottoscrizioni sono omesse nelle seguenti lettere, quando si trovano conformi alle antecedenti.

227.  Le lettere agli Otto di Pratica e ad altri ufficiali della Repubblica fiorentina vennero tratte dall'Archivio centrale di Stato in Firenze per cura del ch. G. Milanesi, e pubblicate la prima volta nel Gior. stor. degli Archivi Tosc., 1864.

228.  Forse casa.

229.  Andrea Doria il più grand'uomo di mare del suo tempo e che divenne il ristauratore della libertà genovese. — Fra Bernardino d'Airasa ammiraglio gierosolimitano.

230.  Questa lettera per gl'incendi avvenuti all'Archivio Estense in Ferrara e per l'acqua adoperata ed estinguerli è in parte corrosa e tanto dilavata nell'inchiostro che mi fu difficile interpretarla. Con le parole in corsivo ho cercato supplire ov'eravi assoluta mancanza.

231.  Per le Gride dell'Ariosto citate più volte in queste Lettere, veggasi in fine del volume.

232.  Intende la lettera precedente diretta al duca, a cui questa serve di accompagnatoria.

233.  Bonaventura Pistofilo anch'esso segretario del duca.

234.  Questa lettera, com'è detto in principio, ripete in gran parte la XXVIII del 23 maggio 1522.

235.  Don Ercole d'Este primogenito del duca, che trovavasi a Roma per raccomandare al nuovo papa Adriano VI la restituzione di Modena e Reggio.

236.  Lodovico Cato era stato spedito ambasciatore al papa in Ispagna, ove questi trovavasi all'atto dell'elezione (8 gennaio 1522). Le provincie ricuperate dal duca al tempo della sede vacante, e così la Garfagnana, gli furono lasciate in possesso.

237.  Molti sono i decreti pronunziati dalla Repubblica di Genova dal 1445 al 1490 intorno alla necessità di riformare la disciplina e lo stato degli ecclesiastici. Un frammento di costituzione già emanata dall'arcivescovo Jacopo da Varagine e confermata fin dal 1299 da Porchetto Spinola fa conoscere come vi fossero sacerdoti che nec clericater vivunt, nec abitum clericalem deferunt. Una lettera di frate Zanetto, o Giovanni da Udine, maestro generale dell'Ordine de' Minori di S. Francesco (1472) asserisce che i frati e le monache della provincia di Genova incontinenter, sine freno et irreligiose vivunt (Foliat. Notar. Ms. della Civico-Beriana). È certo poi che le domenicane de' SS. Giacomo e Filippo si arbitravano lasciare la clausura a loro piacimento, e quando tornavano al chiostro dicevano alla priorissa: Madre, con vostra licenza, siamo ite a diporto (Bandello, Novelle). Nei registri Diversorum Communi Januae si leggono i seguenti decreti della Signoria: 1445, Decretum contra vitam monalium SS. Philippi et Jacobi. — 1466, De monacabus cohibendis. — 1467, Contra moniales. — 1472, De reformatione status monialium. Un breve di Alessandro VI lamenta (1497) che: moniales ipsae, abiecta religionis honestate, extra dictum monasterium (de' SS. Giacomo e Filippo) pro libito et desiderio suo per totam urbem vagantur, et inhonestam vitam ducunt in ipsius religionis oprobrium, animarum earundem periculum, et totius populi ianuensis scandalum non modicum; e comanda al Maestro generale dell'Ordine di S. Domenico che si ponga ogni cura e si adoperi ogni mezzo ad infrenare gli scandali e sradicare i disordini. Un breve di Clemente VII (1529) commette all'Arcivescovo di Genova ed al Priore di S. Teodoro di attendere alla riforma de' monasteri, dicendo chiaramente che le monache continuavano nella rilassatezza del costume ex maiori frequentia et familiaritate cum clericis, religiosis et secularibus personis, e altrettanto ripete Giulio III in una bolla del 4 settembre 1551. (Da docum. esaminati e comunicatimi dall'amico G. B. Passano).

238.  All'orecchio poetico dell'Ariosto parve più sonoro introdurre spesso in questo vocabolo il dittongo mobile, che si perde quando l'accrescimento della parola porta innanzi la sede dell'accento, come in niego, priego, siedo ecc.

239.  Gli imputati di aver dato recapito ai banditi, che entro il termine assegnato non comparivano al cospetto del duca in Ferrara per giustificarsi, erano considerati come colpevoli di ribellione e cadevano nella confisca dei beni.

240.  Anche questa lettera è in parte consunta dal fuoco, come si vede per le parole supplite in carattere corsivo. Non potendosi più leggervi la data dell'anno, l'ho fissata al 1522 coll'aiuto della Cronaca modenese di Tomasino de' Lancellotti (Parma, 1862, vol. I, p. 419), ove sotto il 10 novembre 1522 si nota una grande rotta che Virgilio da Castagneto e suoi seguaci (il Moro dal Sillico, fratelli e compagni) ebbero nell'azzuffarsi colla banda di Domenico d'Amorotto: due fazioni di briganti tendenti a soverchiarsi.

241.  Gian Giacomo Cantello nella citata lettera (diretta il 15 nov. al conte Lud. Ariosto) si scusa altresì degli inconvenienti a cui venne forzato con Domenico de Morotto nel respingere l'assalto che fu dato ad entrambi poco tempo prima sul monte di Mocogno da una fazione contraria, la quale ebbe eccitamento, come egli si duole, dagli ufficiali ducali.

242.  Alberto Pio di Carpi, buon cultore di lettere e amico dei letterati (Aldo Manuzio, che fu suo maestro, gli dedicò alcune opere da lui impresse), teneva allora a nome del papa le fortezze di Reggio e Rubiera, e fu creduto volesse tradirle ai Francesi, sperando con ciò di allontanare il pericolo imminente di perdere del tutto per opera del duca di Ferrara il dominio di Carpi, già ceduto per una metà da Giberto di lui cugino ad Ercole I nel 1500. — Alberto favoriva l'Amorotto per averne un aiuto che poi non riescì, e fors'anco perchè accrescesse nella provincia del Frignano imbarazzi al duca, il quale in una lettera del 22 nov. 1522 diretta al suo ambasciatore Lod. Cato trovo che ne fece lagnanze alla corte di Roma.

243.  Di Domenico d'Amorotto (o Morotto) di Carpineti, figlio di un oste, che, reso temibile per delitti di sangue e straordinario ardimento, tentò più fiate, alla testa de' suoi ribaldi seguaci, d'invadere Reggio, e, quantunque respinto e cercato a morte, ebbe due volte dal Guicciardini governatore papale, per farlo a sè favorevole, il commissariato della montagna Reggiana, parla a lungo il Panciroli nella Storia di Reggio, e Tomasino de' Lancellotti nella Cronaca di Modena. Francesco Rococciolo in fine di un suo poema latino intitolato Mutineis, che si conserva ms. nella Bibl. Estense di Modena, tocca pure dell'Amorotto.

244.  Della sua bontà parla degnamente anche nella Lettera XXXVI: ma «bisogno era di asprezza, Non di clemenza all'opre lor nefande» (Satira V), e perciò dice gli fosse imputata a difetto.

245.  L'Ariosto, per non morir dalla noia in Castelnovo, avea bisogno di portarsi ogni cinque o sei mesi a passeggiarne uno nella piazza di Ferrara, come ricorda nella Satira VI.

246.  Così per non perdere le rendite ecclesiastiche tenne sempre occulto il suo matrimonio con Alessandra Benucci vedova Strozzi.

247.  Di prete Matteo è toccato anche alla Lett. XLIV. Tali richiami ed insinuazioni tendevano a far rimovere il duca da quanto aveva più volte ordinato all'Ariosto, come rilevo da lettera scrittagli da Ferrara il 29 marzo 1522, ove leggesi: «Circa quel prete Matteo, avete visto quel che per un'altra v'avemo scritto, e così vedrete di eseguire; perchè, per ordinario, nè voi nè altro nostro officiale si può impacciare a castigar preti ecc.»

248.  Vedi Lett. LV.

249.  Manca il fine, che doveva trovarsi in un altro foglio o mezzo foglio perduto.

250.  Commissario lucchese.

251.  Il medico Gio. Pietro Attolini coi fratelli surricordati furono alla testa della congiura che nel 1521 levò la Garfagnana dalla dipendenza de' fiorentini per ridarla al duca di Ferrara: circostanza che dev'essere stata principale movente ad ottener privilegi. Veggasi anche la Prefazione al presente volume.

252.  Capitano di Barga.

253.  Veggasi anche la Lettera LXXXIV diretta agli Anziani di Lucca.

254.  Mesino dal Forno, valoroso condottiero di una compagnia di cavalleggeri nella guerra coi Veneziani, ebbe nel 1521 il Capitanato delle fanterie di Alfonso I per ricuperare il Finale. Ma all'epoca di questa Lettera congiurava col di lui fratello Girolamo contro il duca, e n'ebbe per un tempo l'esilio.

255.  Perciò disse alla Satira V, v. 145-147.

O siami in rôcca, o voglia all'aria uscire,

Accuse e liti sempre e gridi ascolto,

Furti, omicidi, odii, vendette ed ire.

256.  Riportata fra le Gride in fine di questo volume, n. III.

257.  V. la Lett. LXXXVIII diretta dall'Ariosto al Duca, ove anche più evidente apparisce la mala volontà della Repubblica di Firenze, che tendeva a ricuperare Pietra Santa.

258.  Obizo Remo segretario ducale. V. Lett. XXXIII.

259.  Come vedesi alla Lettera LXXIII.

260.  Niccolò Rucellai.

261.  Commissario ducale spedito nel Frignano con molti uomini d'arme, e che ad estirpare la fazione dell'Amorotto abbruciò Mocogno, Riva e Gaiano (Cronaca modenese di Tom. de' Lancellotti, anno 1523).

262.  Quanto è detto di sopra si riferisce alla precedente Lettera LXXX.

263.  Consigliere ducale tenuto in molta grazia, e mandato nel 1519 ambasciatore a Carlo V.

264.  Ucciso il 5 luglio 1523 con molti seguaci di sua parte nella pianura fra la Riva e Montespecchio per opera della contraria fazione di Virgilio da Castagneto, anch'esso morto nel conflitto (Tomasino de' Lancellotti, Cron. modenese, T. I, pag. 238-39).

265.  Consigliere di giustizia. Fu nel 1522 oratore a Roma per togliere gli interdetti di Giulio II e Leone X sopra Ferrara.

266.  Donde l'illustre famiglia de' conti Valdrighi in Modena.

267.  Usa sempre ogni modo, ommessa a maggiore speditezza e fuggir l'iato, la preposizione a, più conforme al latino omnimodo.

268.  Appresso per dopo, locuzione avverbiale elittica molto usata in queste Lettere e che l'Ariosto qualche volta riempie: Appresso gli significo che ecc.

269.  Notisi deserto per chi non ha credito nè sèguito, che in questo luogo è bellissimo modo: ma forse a taluno non potrà piacere la frase di certi banditi.... e sono due deserti, ove il numero indeterminato si riducea un determinato troppo ristretto, ed ove anche i nomi de' banditi non sono affatto indeterminati poichè uno era detto il Frate.

270.  Veggasi anche la Lettera LXXVI.

271.  Cioè il conte Carlo figlio di Giovanni che fu anch'esso ucciso. Manca la lettera antecedente qui accennata; ma veggansi in proposito le successive lettere CIII e CIV. Il duca scriveva all'Ariosto il 23 maggio 1524: «Perchè lo assassinamento nella persona del conte Carlo da Sandonnino e della madre, con rapimento delle lor robe, fu tanto atroce e di sì malo esempio, e tanto ci dispiacque, che sempre avemo giudicato che tutti quelli che ne furon partecipi e colpevoli meritino d'esser severissimamente puniti e desideriamo che la giustizia abbia loco.... vi replichiamo che non solamente contra quel Iacopo Buoso che avete nelle mani, ma anco contra qualunque altro capitasse nelle vostre forze, che in modo alcuno avesse colpa nel detto assassinamento, volemo che possiate procedere, condannare ed eseguire rigidamente secondo che ricerca la natura del caso, non come Capitano, ma come Commissario ecc.» Una contessa Vittoria di San Donnino (la cui famiglia ebbe un Vescovo di Modena nel 1465) fu madre del celebre cardinale Pietro di Giammaria Campori, nato in Castelnovo verso l'anno 1554.

272.  Per parte italiana (contraria al duca di Ferrara alleato colla Francia) s'intende la Lega che per cacciare d'Italia i Francesi era stata fatta dal papa coi Veneziani e l'imperatore. Qui però, da quanto si scorge più innanzi alla Lett. CXIV, si accenna a chi favoriva di prender soldo nell'unica milizia veramente italiana comandata da Giovanni de' Medici detto dalle bande nere che allora dimorava in quelle vicinanze, avendo comprato alcune terre nella Lunigiana, e fabbricatovi una fortezza. Ad istanza del cardinale Giulio de' Medici, che fra poco vedremo papa, Giovanni erasi ritirato dai servigi della Francia per darsi a quelli della Lega (Vedi E. Ricotti, Storia delle Compagnie di ventura, vol. IV).

273.  Alla morte di Adriano VI, 14 settembre 1523, essendosi il duca affrettato di ricuperare i suoi Stati durante la sede vacante, ebbe Reggio il 29 detto mese, ed ora trovavasi in Rubiera, che, fatta sollevazione contro Lionello Pio governatore papale, gli aperse le porte. Avverte il Panciroli, Storia di Reggio, che a' suoi tempi Rubiera era considerata la più celebre di tutte le fortezze tra Milano e Cesena.

274.  Il duca, prima di passar sotto Reggio, tentò ancora di riaver Modena, ma Guido Rangoni alla testa di molti soldati la mantenne nel governo della Chiesa. Perciò il nuovo papa Clemente VII donavagli molte terre e lo conservava al presidio di Modena sino al 1526, in cui fu destinato al comando dell'esercito della Chiesa per la nuova Lega contro Carlo V.

275.  Cioè non ieri ma l'altro giorno avanti, corrispondente all'affermativo ier l'altro, e che può meglio precisare il giorno che non fa l'altro ieri. L'usò anche nella Lett. LXI, p. 110.

276.  Pistofilo. Manca la Lettera qui accennata.

277.  Giulio de' Medici fu eletto papa col nome di Clemente VII il 19 novembre 1523.

278.  

Qui vanno gli assassini in sì gran schiera,

Che un'altra, che per prenderli ci è posta,

Non osa trar del sacco la bandiera.

(Ariosto, Sat. V).

279.  Manca in questa Lettera la prima metà del foglio.

280.  «Ecco il dotto, il fedele, il diligente Segretario Pistofilo»: così l'Ariosto all'ultimo canto del Furioso, e gli diresse anche la Satira VI, per ringraziarlo delle offerte di ottenergli che fosse mandato ambasciatore a Clemente VII, invece del commissariato di Garfagnana.

281.  Questa Lettera e la maggior parte di quelle che seguono dirette al duca di Ferrara sono molto consunte dal fuoco e dall'acqua. S'intendono sempre mancanti nei luoghi punteggiati, o supplite per approssimazione colle parole in corsivo. Nella parte omessa della presente ho potuto rilevare da parole qui e là intelligibili, che l'Ariosto si lagna del Capitano della Ragione il quale, all'unico scopo di accrescere il proprio guadagno, non solo vietavagli qualunque ingerenza nel di lui officio, ma avrebbe ancora voluto far buona parte di quello del Commissario, giacchè ottenne altresì che fosse rivocata ogni autorità di comporre litigi senza la sentenza del giudice.

282.  Da ciò si ricava che il 7 febbraio 1522 fu il giorno preciso in cui l'Ariosto venne nominato Commissario, come dalla Satira V si conosce che solo nel 20 del mese stesso si portò in Garfagnana. Veggasi anche l'Elegia III ove descrive il suo viaggio con procella d'acque e venti.

283.  Notinsi i motivi e la proposta di questa votazione.

284.  A questa magnifica Lettera (salvatasi fortunatamente dal fuoco) allude il Tiraboschi, ove dice: «Una tra le altre è degna di considerazione per la libertà con cui (l'Ariosto) in essa si duole che il duca non sostenga la sua autorità e gli ordini da lui dati in quel suo governo, ma si lasci talvolta piegare ad annullar le sentenze da esso date.» (Storia della Lett. ital. T. VII).

285.  Magistro per magistrato. Così il Davila dice maestro il maire de' Francesi. (Storia delle guerre di Francia, lib. II).

286.  Anche questa lettera diretta al Pistofilo è perduta.

287.  La desinenza in ivo applicata ai participî dà ai medesimi la forma esteriore dei nomi qualificanti, che perciò diconsi non aggiunti ma aggiuntivi. Per conseguenza direttivo ha virtualmente e in potenza quello che diretto ovvero indirizzato ha in atto.

288.  Intende le genti di Gio. de' Medici, o come dice altre volte di parte italiana, le quali essendo venute a contesa coi marchesi Malaspina, devastarono la Lunigiana, occupando e malmenando ancora alcuni luoghi di Garfagnana.

289.  Gio. de' Medici trovavasi allora a Roma.

290.  L'Ariosto potrà essersi compiaciuto della coincidenza di un nome cavalleresco in chi fece restituire al duca la rôcca di Camporgiano, vedendo assunti per nomi di guerra quelli che erano resi celebri dai poeti romanzieri dell'epoca. È a notarsi altresì che la Lett. LXI ricorda un ghiotto Margutte, il cui soprannome di biasimo sembra derivato dal poema di Luigi Pulci, potendo anche questo Margutte ripetere coll'altro: «Io fui prima alle strade malandrino.» (Morgante Maggiore, cant. 18, st. 136).

291.  La Lettera ha la data di Ferrara per errore di penna, chè senza dubbio venne scritta, come l'antecedente dello stesso giorno, da Castelnovo.

292.  Questa Lettera, a differenza di tutte le altre, non pare di pugno dell'Ariosto.

293.  Questa Lettera ripete in gran parte quello che fu detto nella XCI del 15 luglio 1523. Manca della data del giorno e mese, e l'ho qui posta dopo l'antecedente, che resta interrotta perchè consunta nell'ultima parte, avendo nel presente caso seguito l'ordine dell'antica collocazione in filza di tali autografi. — Dalla data del 1524 rimasta leggibile, si rileva che la causa dopo un anno era nello stesso piede di prima.

294.  Abbiamo la risposta del duca Alfonso a questa Lettera, in data del 4 agosto, ove dice che in quanto alle rôcche non vuol fare per ora altri Castellani nè altre provvisioni, ma che gli piace e giudica ben fatto che il podestà di Trassilico si riduca ad abitare nella rôcca di detto luogo, sperando che la desterità dell'Ariosto sia per indurre quella Vicaria a ripararla. Approva che siasi scritto al Capitano di Fivizzano ed alli officiali di Lunigiana per ordinare gli uomini loro, e richiama l'attenzione del Commissario affinchè i disordini accaduti in generale ne' giorni passati non facciano sorgere scandalo di inimicizie particolari. Si raccomanda infine che la buona giunta (di 25 uomini) mandata alli balestrieri ordinari sia tenuta unita, onde serva per timore e castigo dei delinquenti e ribaldi, per quiete dei buoni e per servigio dello Stato, sicchè la spesa non sia gittata e fatta invano.

295.  Queste ultime notizie date dall'Ariosto, unitamente a quelle aggiunte nella Lettera antecedente, mossero il duca a scrivere il 12 agosto al suo segretario Pietro Antonio Torello residente in Napoli presso la corte di quel Vicerè: «.... se ben la persona del Sig. Gioannino de' Medici si trovi in Roma, la gente sua che è in Lunigiana va pigliando li castelli e lochi di quelli marchesi Malaspini, e già ha tolto tutto al marchese Spinetta, e fatto prigione lui con gli figliuoli e moglie in un castello chiamato Monti, e ora dicono che è d'intorno a Fosdinovo che è del marchese Lorenzo, il quale intendemo che è aiutato da San Giorgio, cioè da Genova: e a favore della detta gente di esso Sig. Gioannino, per quanto semo avvisati, son venuti sette pezzi d'artiglieria con le sue munizioni per mare da Pisa: il che tutto comunicarete per parte nostra con lo Ill. Sig. Vicerè, se ben pensamo che S. S. Ill. possa saperlo per altra via meglio che noi; e a S. Ecc. molto ci raccomandate.»

296.  Così ha il manoscritto.

297.  Dal R. Archivio di Stato in Lucca, e ne resto obbligatissimo agli amici cav. Salvatore Bongi direttore, e cav. Giovanni Sforza archivista.

298.  Gli Anziani gli risposero il 14 d'ottobre: «M.ce Dom.e Ci ritroviamo una di V. M.tia in commendatione di Hercole Saltarello gentile homo ferrarese, il quale desidereria essere electo capo di qualche cavallo leggeri o di fantaria in questa nostra città et indichiamo sia persona di buona qualità, integrità et experientia, poi che quella intercede per lui. Ma vivendo noi qua al presente pacificamente, nè havendo bisogno condurre gente, non vediamo ordine poterli gratificare; et quando haremo a fare electione di simili persone, non mancheremo ricordarci di lui per causa di V. M. et demostreremo le commendationi sue non essere state vulgari.»

299.  Dall'Arch. de' Frari in Venezia. Reg. n. 24, Terra, 1525-27, a carte 227-28, riprodotta nella sua originale ortografia.

300.  Veggasi in questo vol. la Lettera XIII, p. 26.

301.  E cioè due volte a Milano e quattro a Venezia a tutto il 1526, sebbene una di Venezia 1524 porti sul frontispizio con licentia del ditto autore.

302.  Allude a una terza edizione originale che l'autore fin dal 1527 proponevasi di fare del suo poema e che venne soltanto in luce a Ferrara per Francesco Rosso da Valenza adì 1º ottobre 1532, in-4, di nuovo corretto e ampliato di sei altri canti, come si è già avvertito.

303.  More veneto, corrispondente al 7 genn. 1528. L'Ariosto avendo tardato sino al 1532 a far uso di questo rinnovato privilegio veneto approvato dal Consiglio di Pregadi, il Furioso seguitò a ristamparsi senza utilità dell'autore, che morì il 6 giugno 1533.

304.  Veggasi la Satira VII dell'Ariosto diretta al Bembo ove con più efficacia raccomanda il figlio Virginio.

305.  Dall'Archivio di Stato in Milano. Favoritami dal chiarissimo signor soprintendente comm. Cesare Cantù.

306.  Oratore Estense presso il duca di Milano.

307.  Riportata in fine del volume fra i Privilegi per la stampa dell'Orlando furioso.

308.  Conte Massimiliano Stampa.

309.  Lettera di qualche importanza per l'intenzione manifestata dall'Ariosto di dare alle stampe altre sue cose oltre il poema che venne in luce nell'ottobre di quest'anno con l'aggiunta di sei canti; benchè la morte che il sorprese l'anno seguente non gli lasciasse tempo neppure di dar principio all'effettuazione di questi suoi pensieri. (G. Campori).

310.  Quartesana e Recana, due villaggi del Ferrarese, dove la casa Strozzi aveva molti poderi. (Barotti).

311.  Alessandra Strozzi vedova Benucci sposata dall'Ariosto secretamente per non perdere i suoi benefici ecclesiastici. Veggansi in fine del volume sette Lettere scritte o dettate quasi sempre dall'Ariosto a nome di Alessandra.

312.  Il segretario e biografo del duca Alfonso, Bonaventura Pistofilo, più volte ricordato.

313.  Letterato e dotto in molte discipline, segretario del marchese di Mantova, nominato al canto XLII del Furioso (G. C.).

314.  Camorra, per Camurra alla sanese, o Gamurra alla fiorentina. Veste di panno da donna. (Barotti).

315.  Dell'ediz. di Ferrara per Francesco Rosso da Valenza, colla data del primo ottobre 1532, in-4.

316.  Dall'Arch. Gonzaga in Mantova, e pubblicata la prima volta dal signor Aless. Luzio nel Gior. Storico della letter. ital., anno I, 1883, vol. II, p. 167.

317.  Detta poi La Scolastica da Galasso e Virginio Ariosto che la terminarono.

318.  Questa minuta di Lett. manca della data e della firma. L'ho giudicata dei primi di maggio 1510, quando l'Ariosto fu spedito in Roma a cercar favore e discolpe al card. Ippolito, accusato di essersi intruso nell'Abbazia di Nonantola dopo la morte del cardinale Cesarini, e di aver forzato quei monaci ad eleggerlo Abbate; di che il papa sdegnato minacciava fargli contro un processo.

319.  L'Ariosto ebbe tre benefici eccles. dal card. Ippolito, ma essendosi rifiutato di seguirlo in Ungheria ne perdè la grazia, e dovette rinunciarne due nel 1517. Forse per queste recenti Lettere a favore di Lodovico, e perchè dato in società di un Costabili, venne per convenienza conservato nel beneficio di Milano, che fruttavagli «il terzo Di quel che al notar vien d'ogni negozio.» Sat. II.

320.  Ricordate più volte nelle Lettere LIV, LXXII e LXXXI ecc.

321.  Il duca approvava questa grida dirigendo all'Ariosto la Lettera che qui si riporta, poichè le nuove proposte di compensi per cattura e giudicatura de' banditi vengono a formarne il complemento. Segue indi l'autenticazione notarile che l'Ariosto fece farvi.

«M. Lud. Noi avemo avuto la lettera vostra dì 27 del passato, per la quale avemo inteso come in esecuzione di quel che vi avemo commisso, avete fatto ardere la casa di quel Genese che occise a' dì passati il conte Giovanni da S. Donnino, di che vi commendiamo, e per questa nostra approviamo e confirmiamo la grida che avete fatto publicare contra quelli che dànno ricetto a' banditi, e vi diamo piena libertà che procediate alla esecuzione contra qualunque contraffacesse, secondo la comminatoria apposta in detta grida, come parrà a voi; alla prudenza e discrezione del quale ci riportiamo.

«E perchè li banditi abbino causa di star più dalla lunga, e li officiali ed esecutori di far più volentiera e con più diligenza l'officio loro in cercar di avere nelle mani li delinquenti e punirli, vorressimo da mò innanzi il Capitano de' Balestrieri avesse per la cattura d'ogni bandito in pena capitale quattro ducati, e ciascuno balestriero un ducato, e il Cap. della Ragione che commettesse la esecuzione della giustizia avesse quattro ducati, la qual spesa si dovesse pagare in comune, perchè per comune benefizio avemo pensato questa ordinazione. Fate dunque congregare il Consiglio generale, e proponete la cosa, facendo intendere a quelli nostri dilettissimi sudditi la causa che ci move, ed esortandoli a contentarsi di fare la detta spesa; attento che è da credere che li banditi si guarderanno di praticare in quella nostra provincia per non essere presi, come intendino che sia posto questo ordine, e conseguentemente essa spesa si averà da pagare di rado; e se pur si pagherà spesso, purgherà essa provincia; e così non può il detto ordine essere se non utile, partorire buon frutto a l'uno e a l'altro modo: e se essi uomini se ne contenteranno, come credemo, fate che 'l si registri, e che si ponga in osservanza, e daretene avviso; e se a voi e a' detti uomini paresse che si dovesse construire o maggior o minor mercede a' detti officiali ed esecutori, similmente daretene avviso. Bene valete.

«Ferrariae, IV maij 1522.

«Ego Laurentius filius q. providitoris Antonij a Porta de Castelnovo Carfignanae publicus Apostolica, Imperialique Auctoritate Notarius, de mandato Mag. D. Ludovici de Ariostis de Ferraria ducalis generalis Commissarij provinciae Carfignanae sup. proclama una cum suprascriptis litteris ducalibus de verbo ad verbum sicut in suis originalibus inveni exemplavi, nil addito vel diminuto quod sensum mutet, et quia facta diligenti auscultatione de ipsis exemplis ad eorum originalia sup. utraq. concordare inveni: idcireo in fidem praemissorum hic me subscripsi meisque solitis et consuetis signo et nomine autenticavi.»(l. ✠ s.)

322.  A scemare il disgusto che fa nascere la brutta formola d'uso generale e qui più volte ripetuta di minacciare la pena della corda, giova osservare che nelli Statuta Castronovi Carfignanae, approvati nel 1505, si ha al lib. IV, cap. 8: «reiterari nemo possit ad torturam nisi praecedentibus novis indicijs, et cum omni moderamine ita quod corpus valeat sustinere: et si persona ultra modum torta decesserit in tormentis, Capitaneus (justitiae) eadem poena debeat puniri.» Questi Statuta (col moderativo del taglione) si conservano mss. nella R. Biblioteca Estense, che li possiede pure volgarizzati e scritti nel 1576 da Francesco Porta Garfagnino, con carattere, lettere capitali e frontispizio, il tutto condotto e figurato sì bellamente, che il libro ne par quasi inciso. Francesco apparteneva alla famiglia del celebre pittore Giuseppe Porta così felice imitatore del suo maestro Francesco Salviati, e che in Venezia contribuì molto ad illustrare co' suoi disegni ed intagli in legno parecchi libri stampati dal Marcolini assai ricercati dagli amatori di belle arti.

323.  Citata nella Lettera CXIV del 20 nov. 1523.

324.  Di questa calcinaria, o calcinaia, come leggesi alla Grida II, non trovo alcun'altra memoria. Corrisponde forse alla carbonaia, che è lo spalto con fosse che gira attorno de' luoghi murati. Vedi Tommasi, Sommario della Storia di Lucca, nell'Arch. Stor. Ital., T. X, pag. 53 e 66.

325.  Citata nella Lettera CXXXI.

326.  Un'antecedente Grida contro gli assassini di Pontecchio è ricordata nella Lettera XXXII, p. 52.

327.  Quantunque Modena non fosse stata ricuperata dal duca Alfonso che nel 6 giugno 1527, approfittandosi del momento che il papa era fatto prigioniero e che Roma mettevasi a sacco da Tedeschi e Spagnuoli, pur non lasciavasi di chiamarlo duca di Modena, come vedesi anche alla Grida III.

328.  Il ms. ha 1521, che ritengo errore di penna in luogo di 1524.

329.  Ad eccezione della Lett. IV, vennero tutte scritte o dettate dall'Ariosto a nome ed anche sotto il titolo di cancelliere della Strozzi la quale più tardi divenne sua secreta moglie.

330.  Guido Strozzi, figlio di quel Tito e fratello di quell'Ercole de' quali abbiamo, dalle stampe d'Aldo e del Colineo, un lodato volume di latine poesie (Barotti).

331.  Lorenzo Strozzi fratello di Guido.

332.  Lo stesso Lodovico Ariosto, il quale era stato poco tempo prima a Venezia col duca Alfonso, come si vedrà nella Lettera seguente.

333.  Intendasi sempre lo stesso Lodovico Ariosto.

334.  L'autografo fa parte della ricca collezione storica ferrarese del fu mons. can. Giuseppe Antonelli da cui l'ebbi da pubblicare per la prima volta. Ora la detta collezione venne acquistata a lodevole corredo della Biblioteca Comunale di Ferrara.

335.  Questa Lettera, è tutta di pugno e locuzione di Alessandra Strozzi, e per essa si accrescono i dettagli di un fatto importante ricordato dal Baruffaldi nella Vita di Lodovico Ariosto, Ferrara, 1807, pag. 210.

336.  Cioè: per amore dell'Ariosto.

337.  Pistofilo.

338.  Sedicesima parte di un'oncia.

339.  Dalla Lettera de' 23 luglio 1532 siamo accertati dell'elezione fatta dal duca di Guido Strozzi in commissario di Romagna, da quella delli 12 agosto, che ogni dì era lo Strozzi sollecitato a portarsi al suo governo; da quella de' 20, che aveva già mandato buona parte innanzi delle sue robe; e da questa de' 25 dicembre abbiamo bastante ragione per credere che fosse già nell'esercizio del suo commissariato, se in Lugo (residenza consueta de' commissarii ducali) si trovava la moglie di lui, e non di passaggio ma di piè fermo, come si argomenta da quanto si segue a leggere in questa medesima Lettera. E quindi mi fa maraviglia che il Bonoli, nella sua Storia di Lugo, al lib. 3, c. 19, dove registra i commissarii della Romagna, riponga a quel tempo Scipione Bonléo dal 1530 sino al 1535, e di Guido Strozzi non faccia menzione, nè prima nè dopo (Barotti). — Nell'Archivio di Stato in Modena lessi io una lettera di Guido Strozzi al duca di Ferrara datata da Lugo 6 ottobre 1532, che lo mostrava nell'esercizio della sua carica.

340.  Temo che vi sia sbaglio nell'originale, e che debba dire madonna Simona, moglie di messer Guido Strozzi, di cui nella Lettera del 20 gennaio 1532. La Leona figlia d'Alberto Petrati, fu moglie di Roberto Strozzi fratello di Tito, che fu il padre di messer Guido. Di essa si parla nella Lettera del 19 gennaio dell'anno suddetto; ed era morta senza figli circa l'anno 1528 (Barotti).

341.  Quattromila Spagnuoli sotto il comando del marchese del Vasto, acquartierati in Lugo. Bonoli, Istoria di Lugo, lib. 3, c. 29 (Barotti).

342.  Fu pubblicata la prima volta dal ch. sig. march. G. Campori nelle citate sue Notizie per la vita di L. A., p. 56. Sembrandomi questa lettera tutta cosa dell'Ariosto, mi rivolsi al cortese direttore dell'Archivio Gonzaga di Mantova, ove si conserva, per sentire se era di pugno del poeta; il che essendomi stato confermato, compresa ancora (a quanto pare) la sottoscrizione, ritengo che il Cardinale dicesse soltanto all'Ariosto di scrivere in suo nome al Marchese per avere l'esenzione del dazio della carta, ma che Lodovico ad agevolare il buon esito della soprabbondante richiesta delle mille risme (sufficienti altresì per le prevedibili ristampe del poema) ottenesse di esporre che l'edizione era fatta dal Cardinale. Il quale se veramente ne avesse sostenuta la spesa, non avrebbe mancato l'Ariosto al dovere di farlo in più esplicito modo conoscere; e poichè occorse tanto al cardinale Ippolito quanto al duca Alfonso di regalare alcuni esemplari del Furioso, non sarebbe loro abbisognato di cercarli altrove, nè l'autore poteva permettere che ne pagassero il prezzo, come venne accennato a pag. LV della mia Prefazione.

343.  È tratta così manchevole (salvo le parole in corsivo da me aggiunte in senso probabile) dal codice 9 della Biblioteca particolare del sig. march. Trivulzio di Milano, e l'ebbi dalla gentilezza del sig. conte senatore Giulio Porro Lambertenghi, il quale con sua lettera del 18 novembre 1886 (forse l'ultima ch'egli scrisse essendo disgraziatamente morto in Fino, provincia di Como, dopo soli quattro giorni) mi avvertiva che non è autografa, ma copia mandata al marchese G. G. Trivulzio dal Tomitano, il che pure rilevasi dal Catalogo dei codici manoscritti della Trivulziana compilato dal Porro (Torino, Bocca, 1884), pag. 210. — Ed ebbi altresì tratta da copia la seguente scrittura unita allo stesso codice 9:

«A questo dì di San Michele 1518 io Lodovico Ariosto ho consegnato a Guido da Guastalla mio lavoratore in San Vidale le infrascritte bestie buine in socida per anni cinque: a partire in capo di anni 5 il guadagno per mezzo, et stando il mio capital fermo; et al tempo del partire avrò a cavare del chioppo altre tante bestie della medesima sorte et etade ch'io consegno a lui al presente et per il medesimo capitale ch'io apprecio a lui, che a suo pericolo e spesa le habbia a custodire et governare secondo li modi et Statuti di Ferrara, videlicet:

Una vacca bruna stellata, detta ghirlanda, con una vedella lattante, di precio l'una e l'altra di lire tredeci.

Una vacca rossa detta la rossina, con uno vedello dietro lattante, l'una e l'altro di precio lire undeci.

La soprascritta bruna ha fatto un vitello maschio questo Luglio 1519.

La vedella soprascritta c'havea de capitale lire 13, ha fatto un vitello questo anno del 1521, et essa è morta.»

Il suddetto Catalogo della Trivulziana ricorda inoltre a pag. 211 che nel codice 577 si contiene una lettera dell'Ariosto, ma questa era già stata pubblicata e leggesi nel presente vol. a pag. 302.

344.  Dall'Archivio di Stato in Lucca, e favoritami dagli amici Bongi e Sforza unitamente alla lettera CLVIII, p. 264.

345.  Tratto dal cod. Estense VI, C. 34, e pubblicato da me come inedito nella seconda edizione di queste Lettere, Bologna, 1866.

346.  Questa stanza ommessa sempre ai Cinque canti veniva a togliere ad essi quella súbita imperfezione che apparve tanto disgustosa ai successivi editori, da far loro tralasciare anche la stanza seguente. Credo per altro che la prima fosse avvertitamente soppressa da Virginio figlio del poeta, che diede questi Canti da stampare ad Antonio Manuzio, sia perchè in massima parte è conforme alla stanza 45, canto XL ed ultimo, ediz. 1516 (corrispondente alla 68, canto XLVI, ediz. 1532), sia per mostrarcelo d'un tratto componimento manchevole e non già una continuazione regolare del Furioso. L'Ariosto compose, almeno in parte, i Cinque canti quand'era Commissario in Garfagnana, 1522-25 (v. Prefaz., p. CXXI), con intendimento di servirsene in una terza ristampa del suo poema, da condurre in cinquanta canti fino alla rotta di Roncisvalle, come fu detto da Galasso fratello del poeta; poi ne dimise il pensiero per attendere unicamente a rivedere e ampliare in miglior modo il Furioso, il quale restò compitissimo colla guarigione d'Orlando e la morte di Agramante. Il prof. Adolfo Gaspary ha creduto poter fissare che i Cinque canti rannodavansi al poema colla prima stanza da me riportata e che li abbandonò per sostituirvi gli ultimi impedimenti famigliari al matrimonio di Ruggiero con Bradamante (Zeitschrift für roman philologie, III, p. 232); ma non essendo essi in relazione coi fatti narrati in antecedenza, restano dunque un tentativo di più vasto lavoro che non ebbe seguito, sebbene l'Ariosto vi tornasse sopra parecchie volte, come si rileva dalle varie lezioni che presentano i mss. e che vennero raccolte dal Barotti (Venezia, 1766), dal Molini (Firenze, 1822) e da me (2ª ediz. di Bologna, 1866).

347.  Pubblicato dal ch. Cesare Guasti nel Giornale storico degli Archivi Toscani. Firenze, 1858, vol. II, p. 139.

348.  Questo privilegio trovasi al recto della seconda carta della prima edizione dell'Orlando furioso uscita in Ferrara per Mastro Mazocco del Bondeno adì XXII de Aprile M. D. XVI in-4º, e sotto di esso leggesi: «Similemente il Christianissimo Re di Francia et la Illustrissima Signoria de' Venetiani et alcune altre potentie prohibiscono che ne le lor terre a nessuno sia licito stampare nè far stampare, nè vendere nè far vendere questa opera senza expressa licentia del suo Authore, sotto le gravissime pene che ne li ampli lor privilegi si contengono.»

Non conosco il testo del privilegio del Re di Francia. Per quello della Signoria di Venezia tiene luogo la supplica che l'Ariosto diresse al Doge di Venezia, col rescritto: concedatur gratia ut supra petit, in data 25 ottobre 1515, di cui a p. 26; ma perchè non gli venne rilasciata speciale lettera patente, l'Ariosto si limitò qui a farne semplice ricordo. Anche la 2ª edizione del Furioso data dall'autore in Ferrara nel 1521, per quanto concerne i privilegi, ripete soltanto ciò che fu detto nella 1ª.

Il privilegio di Leone X fu pure tradotto in italiano da G. Aiazzi e stampato (non però intieramente) da P. Fanfani nel fasc. I dell'Istruzione secondaria, Firenze, 1876.

349.  Pubblicato dal lodato sig. march. G. Campori, Notizie ecc., pag. 84.

350.  Stampato in fine dell'Orlando furioso, 3ª ediz. di Ferrara, Francesco Rosso da Valenza, 1532, in-4º. — Veggasi a pag. 279 la seconda supplica dell'Ariosto al Doge di Venezia, 7 genn. 1527, intesa ad ottenere che gli fosse confermato il privilegio ottenuto nel 1515, giacchè a render valide tali grazie occorreva per nuova legge l'approvazione del Consiglio di Pregadi. Ma la 3ª ediz. del Furioso, che l'autore sperava presto pubblicare, tardò ancora cinque anni, e nel frattempo il suo poema si ristampò 17 volte senza dargli alcun utile; poi venne poco dopo a morire.

351.  È tratto da una copia mandata dall'Ariosto al conte Nicolò Tassone il 19 giugno 1531, da servire di norma per ottenere un egual privilegio dal Duca di Milano. Vedi a pag. 282.

352.  Stampato in fine della 3ª ediz. ferrarese dell'Orlando furioso, 1532.

353.  Stampato in principio della 3ª ediz. ferrarese dell'Orlando furioso, 1532.

354.  Stampato in principio della 3ª ediz. ferrarese dell'Orlando furioso, 1532. E de' privilegi tratti dalle rarissime edizioni originali ebbi pur copia dalla gentilezza del signor dott. Aldo Gennari, Bibliotecario Comunale in Ferrara.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.