The Project Gutenberg eBook of Annali d'Italia, vol. 7

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Title: Annali d'Italia, vol. 7

Author: Lodovico Antonio Muratori

Release date: July 20, 2018 [eBook #57549]

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ANNALI D'ITALIA, VOL. 7 ***

ANNALI

D'ITALIA

7


Copertina

ANNALI
D'ITALIA

DAL

PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE
SINO ALL'ANNO 1750


COMPILATI

DA L. ANTONIO MURATORI

E

CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI

Quinta Edizione Veneta


VOLUME SETTIMO


VENEZIA

DALL'I. R. PRIVILEGIATO STAB. NAZIONALE
DI GIUSEPPE ANTONELLI ED.


1846


INDICE


ANNALI D'ITALIA

DALL'ANNO 1501 FINO AL 1750

[9]

   
Anno di Cristo MDCLXXV. Indiz. XIII.
Clemente X papa 6.
Leopoldo imperadore 18.

L'anno fu questo del giubileo romano, aperto con gran solennità da papa Clemente X, non avendo mancato il santo padre di contribuir molte limosine in alimento de' poveri pellegrini, di lavar loro i piedi e di regalarli. Più ancora avrebbe desiderato di fare, se la nemica podagra non l'avesse per lo più sequestrato in letto. Il concorso de' popoli non fu molto, perchè in troppi paesi bolliva la guerra, ed era in certa maniera cessata da gran tempo la novità di quella santa funzione. Gran tempo ancora continuò in Roma il dibattimento della controversia insorta fra il cardinale Altieri e gli ambasciatori delle corone, per l'editto pubblicato intorno alla nuova imposta della dogana. Ma finalmente nel luglio dell'anno presente, coll'interposizione del cardinale Colonna, ebbe fine, con aver dichiarato esso Altieri, non essere mai stata sua intenzione di comprendere in quell'editto i ministri delle corone, e che il papa farebbe sapere ai lor padroni che [10] non era mai stata diversa la mente sua, con altri ripieghi di rispetto verso gli ambasciatori suddetti. La politica del mondo coll'empiastro delle bugie suol bene spesso sanar le piaghe. Si potea sulle prime terminar questa battaglia colla confessione di ciò che, detto colle labbra, ma non col cuore, sì tardi venne alla luce. Un grave sconcerto accadde nell'anno presente in Toscana. A Cosimo III gran duca avea la gran duchessa Margherita Luigia d'Orleans partoriti due principi, cioè Ferdinando primogenito e Gian-Gastone, ed una principessa, cioè Anna Maria Luigia, che fu col tempo elettrice palatina. Fra questi due nobilissimi consorti sorsero dissensioni ed amarezze tali, che passarono ad una irreconciliabil divisione. Comunemente si credette che la vedova gran duchessa madre del duca, cioè Vittoria dalla Rovere, non approvasse la libertà franzese della nuora, e movesse il figlio a far delle doglianze. Savio principe sempre fu il gran duca Cosimo. Disgustata ritirossi la giovine gran duchessa in una casa di campagna con animo risoluto di tornarsene in Francia; ma fu ivi fermata e custodita dalle guardie postevi da esso gran duca, il quale non lasciò d'interporre, quanti mai [11] seppe, ambasciatori e cardinali per rimuoverla da questo disegno, e persuaderle la riunione; ma senza che riuscisse ad alcuno di far breccia nel suo cuore.

Andarono le ragioni dell'una e dell'altra parte a Parigi; e il re, a cui non piaceva di disgustare un sovrano di tanto riguardo, e nè pur voleva abbandonare una principessa sua cugina, spedì a Firenze il vescovo di Marsiglia, sperando che alla di lui eloquenza e destrezza, sostenuta dal carattere di suo inviato, potesse riuscire di riconciliar gli animi loro. Ma questo prelato perdè la carta del navigare in tutto il suo negozio, trovandosi più che mai ostinata nel suo proponimento la gran duchessa. Sì fatte durezze cagion furono che il marito anch'egli concepì una gran ripugnanza a riunirsi con chi ne mostrava tanta verso di lui; e però venne alla risoluzione di lasciarla andare con un convenevole, cioè ricco annuo assegnamento. Ma prima restò concertato col re Cristianissimo, di consenso di lei medesima, che essa in Francia si eleggerebbe un chiostro per passarvi il resto de' suoi giorni, senza poter comparire alla corte. Sul fine dunque di giugno, servita da tre galee, arrivò questa principessa a Marsiglia, portando in Francia una rara bellezza e insieme una egual saviezza; passò dipoi a chiudersi senza rigorosa clausura nel monistero di Montmartre, dove il re e tutta la famiglia reale furono a visitarla. Questo divorzio fece poi scatenare le lingue e penne maligne degl'interpreti delle azioni altrui, imputandone chi all'una e chi all'altra parte il reato, con vitupero di principi tanto sublimi. La verità si è, che tanto essi principi che i mediatori della pace usarono la prudenza di non rivelar questo arcano; e se lo penetrarono i Fiorentini pratici di quella corte, seppero anche tirarvi sopra la cortina sì in riguardo alla carità, che pel rispetto dovuto ai proprii sovrani. Certo è altresì che mai più non si trovò maniera di riunirli: disgrazia memorabile per l'insigne [12] famiglia de Medici, che forse non sarebbe venuta meno ai nostri giorni, se quella sì giovine e feconda principessa avesse continuata la buona armonia col consorte, e prodotti altri figli atti a supplire la poca fortuna dei primi.

Sul fine del gennaio dell'anno presente terminò il suo vivere, dopo essere giunto a più di novant'anni, Domenico Contarino doge di Venezia, a cui succedette nel dì 6 di febbraio Niccolò Sagredo procurator di San Marco. Similmente ebbe Torino di che piangere per l'immatura morte di Carlo Emmanuele II duca di Savoia, succeduta nel dì 12 di giugno e da lui abbracciata con sentimenti di vera pietà e di generosa costanza. Siccome egli avea sempre studiate le maniere di farsi amar dai suoi popoli, praticando con tutti una somma affabilità e cortesia, e una gran gentilezza verso le dame, onorandole del braccio, e mostrandosi liberale, splendido e generoso in ogni sua azione; così allorchè fu agli estremi della vita, volle che si aprissero le porte, acciocchè il suo popolo potesse anche veder lui morire, ed egli godere que' pochi momenti di vita della vista dei suoi cari sudditi. Oltre una lunga memoria delle sue molte virtù, ne lasciò egli non poche altre, per aver cotanto ingrandita ed abbellita la città di Torino, formata di Monmelliano una inespugnabil fortezza, fabbricati ponti, rotte e spianate montagne per far passar le carrozze, dove con difficoltà prima passavano gli uomini. A lui succedette in età pupillare il principe di Piemonte, cioè Vittorio Amedeo, unico suo figlio, che non aveva peranche compiuto l'anno nono di sua vita, sotto la tutela e reggenza di madama reale Giovanna Maria Batista di Nemours, sua madre: principe nato per esaltare la sua real casa ai primi onori, siccome vedremo andando innanzi. Noi lasciammo la ribellata città di Messina in gravi angustie sì per la mancanza dei viveri, perchè molto vi volea a sostener tanto popolo, e sì perchè gli Spagnuoli maggiormente [13] stringevano quella città, con aver presa la torre del Faro, il Piè di Grotta ed altri passi, dove attesero a ben fortificarsi. Ma eccoti arrivar colà, nel dì 5 di gennaio, spediti dalla corte di Francia, i marchesi di Valavoir e di Valbella con diecinove vascelli, che sbarcarono molte milizie e copiosa provvisione di vettovaglie, così che rimasero assai consolati quegli afflitti cittadini. Pure poco giovò questo soccorso, perchè gli Spagnuoli non solamente andavano di mano in mano accrescendo le lor forze per terra, ma eziandio con venti vascelli da guerra e diecisette galee tenevano bloccato il porto di Messina, e tentarono anche un dì di bruciare i legni franzesi: il che loro non venne fatto. Il non poter entrare viveri nè per terra nè per mare ridusse di nuovo in miseria quel popolo, ostinato nondimeno in rifiutare il perdono esibitogli, non perchè nol desiderasse, ma perchè temeva di avere a pagarlo troppo caro.

In rinforzo d'essa città giunse, nel dì 11 di febbraio, spedito da Tolone, il duca di Vivona, conducendo anch'egli nove vascelli da guerra, una fregata leggiera, tre brulotti e otto barche cariche di viveri. Stava ancorata la flotta spagnuola, ed appena scoprì i legni nemici, che salpò, e a vele gonfie andò a far loro il chi va là. Attaccossi una battaglia che durò più ore; e già rinculavano i Franzesi come inferiori di forze, quando il signor di Valbella, avvisato di quel combattimento, uscì del porto di Messina con sei vascelli da guerra, e diede alle spalle degli Spagnuoli. Ripigliato allora coraggio i Franzesi, ricominciarono una fiera danza con tal successo, che gli Spagnuoli con buon ordine si ritirarono fino a Napoli, lasciando nondimeno in poter de' nemici un vascello di quaranta cannoni. Per lo arrivo di questo aiuto gran festa si fece a Messina, tuttochè fosse un piccolo bicchier d'acqua a chi avea tanta sete. Intanto tre mila e cinquecento Tedeschi, ai quali aveano i Veneziani difficultato il [14] passaggio per l'Adriatico, pervenuti a Pescara, di là passarono con secento altri fanti napoletani a rinforzare il campo che tenea bloccata Messina. Ma sul principio di giugno anche agli assediati arrivò un altro numeroso convoglio di più di cento vele, vegnente da Tolone, sotto il comando del signore d'Almeras e del cavaliere di Quene, che sbarcò sei mila fanti e mille cavalli con ogni sorta di munizioni. Avendo poi questa gente tentato di levar la Scaletta e un altro posto agli Spagnuoli, ed essendo anche passata ad assalir Melazzo, dove si trovava in persona il vicerè, altro non ne riportò che delle buone spelazzate. Pure s'impadronirono della città d'Augusta, e andarono poi pel resto dell'anno facendo altre picciole fazioni, che non importa riferire, se non che tornarono gli Spagnuoli ad impossessarsi della torre del Faro, e per una tempesta perderono sette de' loro vascelli. Intanto fra i Messinesi e Franzesi cominciò a scorgersi poca intelligenza: il che accrebbe agli Spagnuoli la speranza di vincere in breve quella pugna. Gran guerra fu in quest'anno in Germania e Fiandra fra i collegati dall'una parte e i Franzesi dall'altra. Non mancarono assedii, battaglie e barbarici saccheggi di paese. Il celebre maresciallo di Francia Arrigo della Torre d'Auvergne, visconte di Turrena, colpito da una palla di cannone, vi lasciò la vita nel dì 27 di luglio, essendo mancato in lui uno dei più insigni capitani del secolo presente. Carlo IV duca di Lorena, ma duca solo di nome, perchè in mano de' Franzesi era il suo ducato, s'acquistò anch'egli gran nome colla presa di Treveri, facendo quivi prigione il maresciallo franzese duca di Crequì; ma poco sopravvisse egli a questa gloria, essendo mancato di vita nel dì 17 di settembre. Ne' suoi diritti e titoli succedette Carlo V suo nipote, che col suo valore maggiormente illustrò la nobilissima sua casa.

[15]


   
Anno di Cristo MDCLXXVI. Indiz. XIV.
Innocenzo XI papa 1.
Leopoldo imperadore 19.

Non potè più lungamente reggere al peso degli anni e agl'insulti della gotta papa Clemente X, ed infermatosi in età di più di ottantasei anni, passò a miglior vita nel dì 22 di luglio dell'anno presente. Di pochi furono le lagrime che accompagnarono il di lui funerale, non già perchè alcuna delle virtù principali che illustrano la vita e la memoria d'un romano pontefice, in lui si desiderasse, perchè fu papa di bella mente, di gran pietà, di giustizia e clemenza; ma perchè l'odio, che col suo governo universalmente si avea guadagnato il cardinal Paluzzo Altieri, ridondava sopra l'innocente papa, pieno sol di massime buone. Chi avea la fortuna di poter parlare a sua santità, se le cose erano fattibili, potea sperar buon rescritto; altrimenti ne riportava un bel no; ma il cardinale godeva il concetto di esser di coloro che alla prima udienza con una sparata di carezze e promesse incantano le persone, ma ritornando queste alla seconda udienza, truovano nate delle difficoltà; alla terza poi nè pur son conosciute per quelle che sono. Però dicevasi, e spezialmente lo dicevano i Franzesi disgustati di lui, ch'esso porporato avrebbe potuto tenere scuola aperta di artifizii e raggiri in Roma stessa, la qual pure vien creduta assai addottrinata in questo mestiere. Ma quel che più avea contro di lui aguzzata la satira, fu l'invidia, per aver egli saputo profittar della fortuna ed autorità sua, con accumular ricchezze, ed ingrandire la propria casa, tuttochè poi non si potessero imputare a lui di quelle scandalose licenze che si videro in qualche precedente nepotismo. Ora entrati i porporati nel sacro conclave, dappoichè ebbero per cinquantun giorni consumata la quintessenza dei lor politici maneggi per promuovere al trono pontifizio chi lor più piaceva, finalmente, [16] mossi da lume superiore, concorsero tutti nel dì 21 di settembre all'elezione di chi sopra gli altri meritava, ma non avea mai desiderato di maneggiar le chiavi di Pietro. Questi fu il cardinal Benedetto Odescalchi Comasco, nato nel 1611, che nel precedente conclave era anche stato vicino al triregno, perchè voluto da tutti i buoni, e fece poi in questa occasione quanta resistenza mai potè, non per affettata modestia, ma per umiltà, alla santa risoluzione de' sacri elettori. Prese egli il nome di Innocenzo XI in memoria d'Innocenzo X che l'avea promosso alla sacra porpora. Non si può dir quanto applauso conseguisse così fatta elezione, perchè l'Odescalchi portò seco al trono la santità, e ne possedè molto più da lì innanzi la sostanza che il titolo: personaggio di vita illibata ed austera, di somma gravità e zelo pel ben della Chiesa; prodigo, se si può dire, verso dei poveri, secondo il costume di sua casa, abbondante di ricco patrimonio, e limosiniere al maggior segno. Nè tardò il buon pontefice e buon servo di Dio a comprovar co' fatti l'espettazion comune delle sue singolari virtù. Sotto i precedenti pontificati aveva egli adocchiato tutti i disordini procedenti dal nepotismo, e con quanta facilità si divorassero le sostanze della camera apostolica, e come avesse tanta potenza il danaro. Volle provvedervi, e l'intenzione sua era di metter freno in avvenire a tali eccessi con una bolla che fosse sottoscritta dal sacro collegio, e giurata sotto pena di scomunica da chiunque s'avesse da promuovere al cardinalato e al pontificato. Ma viveano ed aveano gran polso alcuni de' nipoti degli antecedenti papi, che fecero testa, parendo loro di sottoscrivere una sentenza contra di loro stessi, qualora sottoscrivessero la condanna del nepotismo per l'avvenire.

Giacchè dunque non potè il santo pontefice ottener questo intento, coll'esempio suo almeno si studiò di abolire il pernicioso costume. Non avea il suo [17] predecessore Clemente X nipoti proprii, e andò a cercarne degli stranieri. Innocenzo XI, all'incontro, avea un nipote di fratello, cioè don Livio Odescalchi; ma nol volle a palazzo, nè ch'egli avesse parte alcuna nel governo, nè che ricevesse visite come nipote di papa. Ed affinchè non restasse a lui di che dolersi per tanta severità, gli rassegnò tutti i suoi beni patrimoniali, che co' proprii d'esso nipote davano una rendita annua di trenta mila scudi, dicendo che questo gli bastava per trattarsi da principe, senza participar delle rugiade del pontificato. Coerentemente a questo glorioso sistema elesse per segretario di Stato il cardinale Alderano Cibò, porporato di somma integrità, di prudenza singolare e di zelo non inferiore a chi l'elesse a tal carica. Lasciò ai Paluzzi Altieri e ad altri la pompa de' titoli del generalato e d'altre cariche militari, ma con levar loro gl'ingordi stipendii che per essi pagava la camera pontificia, con dire che la Chiesa non avea guerra, nè voglia di farla, ed essere perciò mal impiegate tante paghe. Riformò la tavola pontificia, e al servigio suo non ammise se non persone di gran probità e modestia, affinchè la famiglia sua servisse di una continua predica agli altri di quel che conveniva a fare. Allo ambasciatore di un monarca, che gli disse di avere il suo padrone ricevuta sotto la sua protezione la casa Odescalchi, rispose: Ch'egli non avea casa nè letto, e che teneva in prestito da Dio quella dignità per bene non già de' suoi parenti, ma solamente della Chiesa e de' suoi popoli. E perciocchè gravissimi abusi erano succeduti in addietro a cagion delle franchigie, pretese da' ministri de' principi in Roma per l'asilo che in esse trovavano tutti i malviventi, e per li contrabbandi che tuttodì si facevano, intimò loro di rimediarvi; altrimenti, giacchè Dio l'avea messo in quel governo con obbligo di vegliare alla quiete della città e al pubblico bene, vi avrebbe egli trovato il rimedio. Tosto ancora spedì a tutti i principi [18] cristiani lettere esortatorie alla pace, esibendosi pronto ad andare in persona ad un congresso, se fosse necessario, purchè si tenesse in qualche città cattolica, a fin di procurare un tanto bene. Per lo contrario, esortò il re di Polonia Giovanni Sobieschi a sostener la guerra contro de' Turchi, finchè avesse ricuperato dalle lor mani Caminietz, e gl'inviò nello stesso tempo un sussidio di cinquanta mila scudi. Con questi passi diede principio l'incomparabile Innocenzo XI alla carriera del suo pontificato, continuamente pensando alla riforma degli abusi, al sollievo de' suoi popoli e al bene della cristianità. Qui perdè la voce Pasquino; e se internamente si lagnavano i cattivi di sì rigoroso ad austero papa, ne esultavano ben pubblicamente tutti i buoni.

Gran teatro di guerra fu in questo anno la Sicilia. Dacchè si avvide la corte di Spagna che con tutti gli sforzi suoi apparenza non v'era di snidar da Messina i Franzesi, e di rimettere alla primiera ubbidienza quella città, fece ricorso alla collegata Olanda, per aver dei soccorsi e forze tali da abbattere la flotta franzese, che ne' mari di Sicilia mantenea la ribellion de' Messinesi. Fu dunque spedita una flotta olandese composta di ventiquattro vascelli da guerra sotto il comando del viceammiraglio Ruyter, il cui solo nome valeva un'armata per le tante segnalate sue azioni in combattimenti navali. Giunsero gli Olandesi sul fine del precedente anno a Melazzo, e, congiunti con nove galee ed altri legni spagnuoli, andavano rondando per qualche impresa; quando in quei mari capitò sciolta da Tolone e Marsiglia la flotta franzese comandata dai signor di Quene, in numero di venti navi da guerra e sei brulotti. Vennero alle mani presso di Stromboli, nel dì 7 di gennaio, le due nemiche armate; gran cannonamento, gran danno seguì da ambe le parti. Dopo molte ore di fiera battaglia cessarono le offese, con ritirarsi gli Olandesi a Melazzo, ed entrare i Franzesi nel porto di Messina, dove [19] sbarcarono le munizioni da bocca e da guerra che seco aveano condotto. Seguì poscia una ben calda mischia nel dì 28 di marzo fra gli Spagnuoli e Franzesi uniti coi Messinesi; perchè avendo i primi occupato il monistero di San Basilio fuor di Messina, il marchese di Vilavoir con sei mila armati andò ad assalirli. Non solamente perderono gli Spagnuoli quel posto, ma ancora più di ottocento dei lor soldati col conte di Buquoy, che li comandava. Già dicemmo che nell'agosto dell'anno precedente s'erano impadroniti i Franzesi della città di Augusta e delle sue fortezze. Al vicerè di Sicilia stava sul cuore la perdita di quella città, e però nell'aprile passò colà per tentare di riacquistarla, e pregò l'ammiraglio olandese Ruyter di secondar l'impresa per mare, siccome egli fece spiegando le vele a quella volta colla sua flotta. Colà comparve ancora il signor di Quene comandante della dotta franzese, e nel dì 22 di aprile si attaccò di nuovo fra loro un'aspra battaglia che durò più ore con gravissimo danno dell'una e dell'altra parte, e con restar conquassati i lor legni, ed esserne alcun d'essi affondato. Ognuno si attribuì la vittoria, secondo il solito dei combattimenti dubbiosi, e massimamente del mare, dove non è facile il conoscere l'altrui danno. Ma se non altro, un grave colpo toccò agli Olandesi, perchè il loro famoso Ruyter vi restò malamente ferito, e da lì a pochi giorni terminò la vita in Siracusa, dove s'era ritirata la sua flotta, che poi passò a racconciarsi a Palermo.

Ma qui non finì la voglia di combattere. Nel dì 21 di giugno pervennero a Messina venticinque galee, partite da Marsiglia con tre vascelli da guerra. Ingagliardito da questo soccorso il duca di Vivona, viceammiraglio franzese, determinò di fare una visita senza complimenti all'armata navale olandese e spagnuola che riposava nel porlo di Palermo. Ventotto vascelli, venticinque galee e nove brulotti componevano la di lui armata. Contavansi in quella degli Olandesi [20] e Spagnuoli ventisette vascelli e diecinove galee con quattro brulotti. Nel dì 2 di giugno s'azzuffarono le nemiche flotte; le artiglierie, ma spezialmente i brulotti, portarono un grande squarcio nella flotta degli Spagnuoli, che vi perderono almen sette vascelli e due galee, colla morte di gran gente, per confession degli stessi Olandesi. Ma, secondo la relazion de' Franzesi, la perdita degli Olandesi e Spagnuoli fu di dodici de' lor migliori vascelli, di sei galee, di settecento pezzi di cannone e di cinque mila persone. In gran credito salirono per questi conflitti i Franzesi, avendo fatto conoscere che non erano invincibili gli Olandesi, tenuti in addietro per sì formidabili in mare. E certamente di simili danze non ne vollero più essi Olandesi nel Mediterraneo, e se ne ritornarono poscia a casa loro. Essendo dunque rimasti i Franzesi padroni del mare in queste parti, ed avendo ricevuto da Tolone nel settembre un rinforzo di tre mila uomini, e nell'ottobre altri mille e cinquecento fanti e cinquecento cavalli, fecero in appresso delle incursioni in Calabria; nella Sicilia s'impadronirono dell'importante piazza di Taormina colla spada alla mano; presero la Scaletta e la demolirono, e si impossessarono di alcuni piccoli luoghi di quell'isola. Ancorchè mi faccia restare perplesso l'asserzione del veneto elegante storico Giovanni Graziani, che riferisce al precedente anno la morte di Niccolò Sagredo doge di Venezia; pure, seguitando io il Vianoli ed altre memorie, non crederei d'ingannarmi, con dirla accaduta verso la metà d'agosto nell'anno presente. Un avvenimento poi insolito, o almeno da gran tempo non veduto in quella sì ben regolata repubblica, diede molto da discorrere alla gente. Secondo i riti dell'ingegnoso ballottamento che si pratica per l'elezione dei dogi, era caduta la sorte in Giovanni Sagredo, personaggio certamente degno di quella dignità. Ma allorchè fu annunziato dal balcone il suo nome al folto popolo, raunato nella [21] piazza, cominciarono pochi dell'infinita plebe a gridar con alte voci: Nol volemo; e crebbe appresso a dismisura questo tumulto. Allora i saggi nel gran consiglio giudicarono meglio non approvar la elezione del Sagredo, a cui per ricompensa conferirono poscia altri dei principali onori della patria, ed elessero doge Luigi Contarino. Seguitò ancora in questo anno l'ostinata guerra della Francia contra de' collegati, le cui principali imprese furono la presa di Filisburgo fatta dal duca di Lorena, e l'assedio di Mastrich formato da Guglielmo principe di Oranges, ma con poca riuscita, avendolo costretto i Franzesi a ritirarsi. Intanto era stata destinata Nimega per trattarvi di pace colla mediazione di Carlo II re d'Inghilterra. Benchè si trattasse d'una città sottoposta agli eretici, pure tale era la premura del pontefice per questo gran bene, che s'indusse ad inviar colà monsignor Bevilacqua, per dar braccio e calore alla concordia, per cui nondimeno s'impiegarono invano parole e ripieghi nell'anno presente: sì alte erano le pretensioni d'ambe le parti.


   
Anno di Cristo MDCLXXVII. Indiz. XV.
Innocenzo XI papa 2.
Leopoldo imperadore 20.

Non rallentava i suoi pensieri lo zelante pontefice Innocenzo XI per mettere in istato l'alma città di Roma da poter servire d'esempio alle altre nella riforma de' costumi. Sopra tutto mirava egli di mal occhio il soverchio lusso, padre o fomentatore di molti vizii e divorator delle famiglie. Dopo aver preceduto colla moderazione introdotta nel proprio palazzo, dove era cessata la pompa e introdotta la modestia, nè si ammetteva se non chi portava la raccomandazione della probità di costumi, cassò anche una parte della guardia de' cavalli leggeri, perchè accresciuta senza necessità e mantenuta con troppa spesa. Poscia in concistoro fece un sensato discorso, riprendendo i cardinali, [22] che parendo dimentichi di essere persone ecclesiastiche, e personaggi posti sul candelliere per dar luce agli altri, usavano sì superbe carrozze e livree cotanto sfoggiate, raccomandando loro di regolarsi più modestamente in avvenire. Non mancavano a lui persone che di mano in mano il ragguagliavano di chi spezialmente della nobiltà menava vita dissoluta. A questi tali era immediatamente intimato lo sfratto, acciocchè il loro libertinaggio non animasse altri all'imitazione, o non servisse agli scorretti di scusa. Furono in oltre vietati tutti i giuochi illeciti, e le bische o case dove si tenevano assemblee scandalose di giuochi da invito. E perciocchè pel suddetto lusso i baroni romani, non volendo gli uni essere da meno degli altri, quanta facilità mostravano a far dei debiti, altrettanta difficoltà provavano a pagarli, con grandi sciami dei mercatanti e creditori; ne ordinò il santo padre al cardinale Cibò una esatta ricerca, e di fargli pagare con danari della camera, la qual poscia avea delle buone maniere per esigere quei crediti. E perchè si trovò non essere sufficiente un tal rimedio, continuando quei nobili a far delle spese eccessive e debiti, che in progresso di tempo condurrebbono alla rovina le lor case; con pubblico editto proibì ai bottegai, merciai, fornaci ed altri negozianti di vendere ad essi robe senza il danaro contante sotto pena di perdere i lor crediti. Erano poi in addietro giunte all'episcopato persone non assai degne di così illustre e gelosa dignità. Per ovviare a sì fatto abuso deputò il sommo pontefice quattro dei più zelanti cardinali e quattro prelati, per esaminar la vita, i costumi e il sapere di chi aspirasse al pastorale impiego in avvenire.

Quel nondimeno che teneva in non poca agitazione l'animo del saggio pontefice, era la prepotenza de' ministri ed ambasciatori delle corone, che in Roma da gran tempo tagliavano le gambe alla giustizia, ed erano giunti sì oltre, che non solamente nei lor palazzi prestavano un [23] asilo più sicuro che quel dei luoghi sacri a gran copia di sgherri, dì scellerati e malviventi; ma pretendeano eziandio che si stendessero i lor privilegii ed esenzioni anche a qualsivoglia lor dipendente e patentato, e a tutte le case adiacenti e vicine ai lor palazzi. Fece di gran doglianze Innocenzo XI per questo alle varie corti, ma senza frutto; nè volendo sofferire che coll'arrogarsi tanta autorità gli stranieri ministri si scemasse ed avvilisse la propria, cominciò con petto forte ad opporsi a sì fatto abuso. Fu il primo passo quello di vietar con rigoroso editto che niuno potesse alzar sopra le sue case o botteghe le armi di qualsivoglia monarca e principe secolare ed ecclesiastico, protestando di voler egli essere il padrone e l'amministratore della giustizia in Roma, come erano gli altri principi in casa loro. A quella augusta città giunto il marchese del Carpio ambasciatore del re Cattolico, quivi si diede a far leva di soldati pel bisogno della Sicilia, col pretesto che altrettanto avessero fatto i Franzesi. Ma perchè la gente ricusava di prendere partito, per la fama che non correano le paghe, e perchè si dicea maltrattato chi si arrolava; si sparse voce, per essere mancate varie persone, senza sapersi dove fossero andate, che gli Spagnuoli le avessero rapite, e poi segretamente inviate in Sicilia. Vera o falsa che fosse tal voce, la plebe romana tal odio concepì contro la nazione spagnuola, che ne facea scherni dappertutto, e ne seguirono non poche baruffe con delle morti e ferite: perlochè non osavano più gli Spagnuoli di uscir dei lor quartieri, o ne uscivano con pericolo. Ancorchè il papa si studiasse col gastigo dei più colpevoli di far conoscere la rettitudine sua e il suo rispetto alla corona cattolica, non rifiniva l'ambasciatore di far ogni dì più gravi doglianze, e di chiedere maggiori soddisfazioni. Nè gli bastò di desistere dal portarsi all'udienza del papa, ma fece anche negare dal vicerè di Napoli l'udienza al nunzio apostolico. Cagion fu questo affronto che dopo essersi [24] accorto il ministro quanta poca forza avessero le braverie contra di un pontefice, a cui la giustizia dava coraggio, allorchè in fine per suoi affari fu costretto a chiedere l'udienza dal pontefice, se la vedesse negata. Necessario dunque fu che il re Cattolico con sua lettera pregasse il santo padre di ammetterlo; e così terminò quella pendenza, con restarne maravigliato più d'uno, avvezzo al mirare quanta altura mostrassero i ministri di Spagna in Roma, e con qual riguardo procedesse verso di loro la corte pontificia. Nè si dee tacere che questo santo pontefice non sapea sofferire che nella sacra corte si vendessero gli uffizii, benchè non ecclesiastici, perchè o ne risultava danno alla camera, obbligata a pagare i frutti ai compratori, o poco onore ai papi, che per vendere ad altri quei medesimi uffizii promovevano compratori talvolta non degni a cariche più cospicue. Abolì egli dunque in quest'anno il collegio di ventiquattro segretarii apostolici, con restituir loro il già pagato danaro. Meditava anche di far cose più grandi, e a questo fine andò poi raunando grosse somme. Ma sopravvenute col tempo le guerre col Turco, che l'impoverirono, lasciò la cura di sì bella impresa ad un altro Innocenzo, che era stato suo mastro di camera, e consapevole delle sue nobili e sante idee.

Nella Sicilia in quest'anno durarono le ostilità, ma senza fatti che meritino di passare a notizia dei posteri. Quantunque gli Spagnuoli soli, rimasti alla difesa di quell'isola, si trovassero assai stanchi, poca nondimeno era anche la forza dei Franzesi, ai quali scarsamente vennero soccorsi da Tolone e Marsiglia. Ben si scorgeva non essere intenzione de' Franzesi di voler fermare il piede in quell'isola, loro unicamente premendo le terre annesse e confinanti col regno. Terminò intanto i suoi giorni il marchese di castel Rodrigo vicerè di Sicilia, e in luogo di lui prese pro interim quel governo il cardinale Portocarrero. Varie prodezze all'incontro [25] furono fatte in Fiandra e in Germania, dove sommamente prosperarono l'armi del re Cristianissimo. Riportarono i Franzesi una vittoria a Montcassel contro il principe d'Oranges nel dì 11 di aprile. S'impadronirono di Valenciennes, di Cambrai, di Sant'Omer, di Friburgo e di altri luoghi. Solo contra di tanti collegati il re Luigi XIV facea tremar tutti, e sempre più andava stendendo i suoi confini. Seguitavano intanto i ministri e i mediatori in Nimega a trattar di pace; ma perchè, secondo il costume, ognun la volea a suo modo, niun l'otteneva. Possenti erano gli uffizii di papa Innocenzo XI per dar fine a tante turbolenze, e sopra gli altri efficacemente vi si adoperava Carlo II re d'Inghilterra, il quale, chiarito oramai che le parole erano bombe vote, si diede a fare un grande armamento che recasse più vigore alla sua mediazione, minacciando chi ripugnava ad accettar le oneste condizioni d'un accordo. Ma passò anche l'anno presente senza che i popoli giugnessero a provar questo bene. Erasi nell'anno addietro, portata Laura duchessa vedova di Modena ad abitare in Roma, perchè avendo il giovane Francesco II duca suo figlio prese le redini del governo, sembrava a lei di non trovar più in Modena le convenienze sue. Con tante preghiere nondimeno la bersagliò il figlio duca, che nell'anno presente ella se ne tornò a convivere con lui.


   
Anno di Cristo MDCLXXVIII. Indiz. I.
Innocenzo XI papa 3.
Leopoldo imperadore 21.

Continuava il suo soggiorno in Roma la cattolica regina di Svezia Cristina, con far divenire il suo palazzo un'accademia di tutti i letterati. Ma non poteva ella più reggere al magnifico trattamento suo fin qui mantenuto, perchè le guerre passate fra i re di Svezia e Danimarca e l'elettore di Brandeburgo aveano portato non lieve eccidio alle rendite ch'ella s'era riserbate [26] nella Pomerania. Ebbe ella ricorso al sommo pontefice, implorando il suo aiuto; nè indarno l'implorò, perchè il santo padre le fece assegnare una pensione annua di dodici mila scudi, da pagarsi alla medesima dalla camera apostolica. L'anno fu questo in cui ebbe fine la ribellion di Messina, e l'ebbe assai lagrimevole. Trattavasi, come già dicemmo, della pace in Nimega. S'avvide il re Cristianissimo che gli era forza di abbandonar la Sicilia: tante premure ne faceano gli Olandesi, non che gli Spagnuoli. Però volendo risparmiare le tante spese che gli costava il mantenimento di Messina, città che già s'avea da abbandonare, non volle aspettare il tempo della pace, ed improvvisamente spedì ordine al maresciallo della Fogliada, il quale era stato spedito colà con richiamarne il duca di Vivona, che immediatamente con tutti i suoi se ne tornasse in Francia. Dopo avere il maresciallo imbarcata quasi tutta la sua gente col pretesto di voler fare un'impresa, portò questa dolorosa nuova al senato, e rimise ai Messinesi le guardie di tutte le fortezze. Indarno fu pregato di sospendere per un po' di tempo la sua partenza. Rispose essere così pressanti gli ordini suoi, che gli conveniva far vela in quel giorno, offerendo nondimeno di ricevere nelle navi chiunque dei Messinesi volesse far partenza con lui. Uscito ch'egli fu di quel luogo, furono molti di parere che bisognava trucidar quanti Franzesi ivi erano, e voltare il cannone contro le lor navi, e mandarle a fondo. Ma a sì bestial consiglio prevalse quello dei timidi e saggi. Però ad altro non pensarono i nobili e popolari, ch'erano stati più caldi nella ribellione, che di sottrarsi all'ira e vendetta degli Spagnuoli, da loro riguardati come gente implacabile. Che terribile scena, che compassionevole spettacolo fu mai quello! che urli, che singhiozzi, che lagrime! Ben sette mila persone andarono per imbarcarsi con somma fretta, perchè non più di quattro ore fu loro [27] dato di tempo. Chi lasciava moglie e figliuoli indietro, chi seco menava la famiglia tutta, portando quel poco di meglio che poteva, ed altri nulla prendendo: tanta era la loro ansietà d'imbarcarsi. Infatti due mila, gridando invano misericordia, ne restarono in terra, perchè il maresciallo, per timore di troppo carico fece sciogliere le vele, e se ne andò.

Ciò fatto, quella città che prima avea da sessanta mila abitanti, a ragion dei già morti nella difesa, o allora fuggitivi verso la Francia, o precedentemente ricoveratisi altrove, ridotta a sole undici mila persone, trovando sprovvedute di ogni munizion le fortezze, e sè stessa impotente a poter resistere, spedì deputati al governator di Reggio, pregandolo di venire a prenderne il possesso. V'andò egli, nè molto stettero a giugnere colà da Melazzo i duchi di Bornonville e di Conzano colle regie milizie, ai quali furono consegnate le fortezze. Sopraggiunse dipoi anche il nuovo vicerè don Vincenzo Gonzaga, che rallegrò l'infelice popolo con pubblicare un perdon generale finchè venissero gli ordini della corte di Madrid. Vennero questi, e pieni di fierezza. Cioè furono confiscati i beni di chiunque era fuggito; privata d'ogni privilegio la città, distrutte case, piantate memorie infami della ribellione; bandito chiunque avea cariche dai Franzesi, con altri rigori che io tralascio: tali certamente che quella illustre città per gran tempo rimase uno scheletro, nè mai più ha potuto rimettere le penne, perchè circa trenta mila Messinesi passati ad abitare in Palermo, e quivi abituati, non vollero più mutar soggiorno. E tuttochè la benignità del regnante ora Carlo re di Sicilia, compassionando lo stato di sì bella città, abbia slargata la mano in beneficarla, difficil cosa è che mai torni al suo antico splendore, e massimamente dacchè è rimasta affatto spopolata di nuovo per l'ultima peste. Ora non si può dire in quante ingiurie e villanie [28] prorompessero i Messinesi contro la nazion franzese e contra del re Luigi XIV, chiamandolo dappertutto ad alte voci un principe senza fede, un traditore, un mostro d'inganni, e che niun più in avvenire avea da fidarsi di promesse franzesi, per aver egli lasciato quel popolo in preda all'indiscrezione e vendetta degli Spagnuoli, senza procurar loro, o almen permettere, che gli stessi Messinesi si procacciassero prima qualche indulgenza e miglior condizione dal re Cattolico. Nè ammettevano per legittima scusa il dirsi da' Franzesi, avere i Messinesi fatto credere in Francia che dava loro l'animo di far ribellare Palermo e tutto il regno; perchè somiglianti promesse sapea ben valutare per quel che pesavano l'accorto gabinetto di Francia; nè già esso si mosse per questo ad abbracciar la difesa di Messina, ma sì bene per valersi di quel troppo credulo popolo a battere gli Spagnuoli, finchè così portasse il proprio interesse.

Qual poi fosse il fine dei poveri Messinesi condotti in Francia, eccolo. Furono dispersi per varie città, e mantenuti per un anno e mezzo alle spese del re; poscia obbligati sotto pena della vita ad uscire di quel regno con tanto danaro da far viaggio fino ai confini. Laonde si ridussero anche persone nobili a mendicare il vitto; altri divennero banditi, cioè assassini di strada; e circa mille e cinquecento dei più disperati passarono in Turchia, e rinegarono la fede: Più di cinquecento altri con passaporti degli ambasciatori spagnuoli se ne ritornarono alla patria, credendosi ben in sella; ma, a riserva di quattro, gli altri dal vicerè marchese de las Navas furono condannati alla forca od al remo. Se poi fosse più lodevole ed utile sì gran rigore, oppure qualche misura di clemenza verso un popolo che s'era punito da sè stesso, lo deciderà chi ha più senno di me. Erano tuttavia in piedi i trattati di pace nel congresso di Nimega, quando il re Luigi XIV, per migliorar le sue condizioni, [29] andò nel furore del verno a impadronirsi di Gante e d'Ipri. Poi si diede a maneggiar con tante arti gli spiriti olandesi, adescandoli specialmente colla restituzione dell'importante piazza di Mastrich, e con altri vantaggi che li ridusse a far seco una pace particolare, la quale fu stipulata nel dì 10 di agosto. Curiosa cosa fu il vedere che Guglielmo principe d'Oranges fingendo di nulla saper di quella pace, o sapendolo, per altri suoi motivi andò all'improvviso ad assalire l'armata franzese comandata dal duca di Lucemburgo, che allora assediava la città di Mons. Restò indecisa la vittoria; ma gran sangue costò all'una parte e all'altra il combattimento. Allora fu che gli Spagnuoli furono forzati a dar mano alla pace, riuscita ben diversa dalle precedenti lor lusinghiere speranze; perciocchè in mano del re Cristianissimo restarono la Franca Contea, Valenciennes, Bouchain, Condè, Ipri, Santo Omer, Cambrai ed altri luoghi. Le altre terre conquistate tornarono alla Spagna. Fu sottoscritta questa pace nel dì 17 di settembre in Nimega; e se riuscisse disgustosa agli Spagnuoli, non occorre a me di dirlo. Non si pose per questo fine alla guerra dell'imperadore e di altri collegati contro la Francia; ma dappoichè era riuscito ai Franzesi di staccar dalla lega Olandesi e Spagnuoli, eglino maggiormente alzarono la testa, e non poco si pensò ad ottenere una sospension d'armi, tanto che si trovasse maniera di condurre anche questi altri ad una intera pace.


   
Anno di Cristo MDCLXXIX. Indizione II.
Innocenzo XI papa 4.
Leopoldo imperadore 22.

Trionfò maggiormente in quest'anno Luigi XIV re Cristianissimo con dar la pace al resto de' principi già confederati contra di lui, e con darla da vincitore, cioè colle condizioni che a lui piacquero, e che gli altri furono necessitati ad accettare; [30] giacchè scorgevano mancar loro la forze per continuar la guerra soli contra di un re a cui tutta la dianzi gran lega non avea potuto resistere. Però l'imperadore Leopoldo nel dì 5 di febbraio per mezzo de' suoi plenipotenziarii in Nimega stabilì pace con esso re di Francia, cedendo a lui Friburgo, e ritenendo in suo potere Filisburgo. Sì dura legge fu ivi prescritta a Carlo duca di Lorena, tuttochè marito della fu regina di Polonia, sorella d'esso Augusto, ch'egli amò meglio di nulla ottenere per essa pace, che di far qualche guadagno con approvarla. Di grandi proteste furono anche fatte contra d'essa pace da altri sovrani, delle quali si può credere che ridesse il re di Francia. Seguirono poscia altre pacificazioni fra esso re Cristianissimo e il vescovo di Munster; fra la corona di Svezia ed esso re di Francia dall'una parte, e il re di Danimarca e l'elettore di Brandeburgo dall'altra, avendo la potenza della corte gallica talmente sostenuto gl'interessi dello Svezzese suo alleato, che gli fece restituire quanti Stati gli erano stati occupati da' suoi avversarii. In somma non d'altro si trattò in questi tempi che di posar l'armi, e di far fiorire dappertutto dopo tanti flagelli d'una pertinace guerra, la sospirata pace. Ma una sorda guerra intanto si esercitava in Inghilterra contra de' cattolici per una pretesa cospirazione che da quegli eretici e religionarii si attribuiva a chi seguitava la credenza della Chiesa romana: tutte cabale per impedire la succession di quel regno a Jacopo Stuardo cattolico duca di Yorch, dacchè il re Carlo II suo fratello mancava di legittima prole. Fu perciò consigliato esso duca di Yorch di ritirarsi fuori del regno colla duchessa sua consorte Maria Beatrice d'Este, finchè si calmasse la mossa persecuzione contra di loro. Vennero essi all'Haya, e poscia a Brusselles, dove anche si portò la duchessa vedova di Modena, Laura, per visitar la figlia, ed assisterla nel conflitto di quelle tribolazioni. Fermossi dipoi essa duchessa [31] di Modena in Brusselles fino all'anno 1684, per essere più alla portata dei bisogni della suddetta sua figlia.

Godeva intanto anche l'Italia un'invidiabil quiete, ed attendeva il sommo pontefice Innocenzo XI alla riforma del clero e de' costumi, mantenendosi in buona armonia con tutti i potentati. Non mancavano zelanti che lo spronavano a farsi rendere conto dal cardinale Altieri del maneggio suo nel precedente pontificato, per cui si vociferava che avesse patito non lieve discapito anche la camera apostolica. Non vi si potè egli indurre, siccome quegli che non amava, qualora si scoprissero delle magagne in quel porporato, che queste ridondassero in discredito del sacro collegio. E però al tribunale di Dio rimise questo rendimento di conti. Nella corte di Mantova ne' tempi presenti avea la dissolutezza preso un gran piede. Molto prima d'ora al piissimo imperadore Leopoldo erano state portate doglianze della poco lodevol condotta della duchessa vedova Isabella Chiara di Austria sua cugina, e madre del giovine duca di Mantova Ferdinando Carlo Gonzaga. Per prestarvi rimedio, aveva egli sotto pretesto d'altri affari spedito a Mantova il conte di Vindisgratz con ordine di prendere segrete informazioni. Saggiamente eseguì il conte le sue commissioni, ed avea già concertato di condurre il giovinetto duca e la duchessa a Casale per visitar quella piazza, e di rompere in tal congiuntura senza rumore le tresche passate. Ma, scopertosi il segreto disegno, all'improvviso la duchessa andò a ritirarsi nel monistero di Sant'Orsola, e il conte Bulgarini prese l'abito di San Domenico; e questo bastò per quetar le premure della corte cesarea. Già dicemmo presa in moglie dal suddetto duca Ferdinando Carlo Isabella Gonzaga principessa di Guastalla. Se ne svaghì egli ben tosto, e diedesi in preda ad altri amori, non solo illeciti, ma sconvenevoli anche di troppo alla sua dignità: al qual fine si portava egli di tanto in tanto a [32] Venezia, lasciando ivi la briglia sul collo alle sensuali sue cupidità, che si veggono anche descritte in libri stampati. Avvenne che Ferrante Gonzaga duca di Guastalla suocero suo cessò di vivere, lasciando solamente dopo di sè due figlie. Per essere marito della primogenita, il duca di Mantova volò a prendere il possesso di quegli Stati, reclamando indarno don Vincenzo Gonzaga cugino del defunto duca, ch'era vicerè in questi tempi di Sicilia, ed ordinariamente abitava nel regno di Napoli, dove la sua linea godeva i nobili feudi di Melfi e d'Ariano, credendosi egli chiaramente chiamato dalle investiture cesaree al ducato di Guastalla coll'esclusion delle femmine. Dispiacque non poco questa occupazione ai duchi di Modena e di Parma, e fecero de' forti maneggi a Milano e a Madrid, per sostener le ragioni di don Vincenzo; nè gli Spagnuoli trascurarono questo emergente sulla speranza d'ingoiar essi Guastalla, e contentar poscia esso don Vincenzo con altri Stati nel regno suddetto. Spedirono per questo a Mantova un ministro; ma vi trovarono orecchie sorde. Cominciarono dunque a rallentar la mano pel pagamento del presidio di Casale di Monferrato; del che si dolse il duca alle corti di Vienna e di Madrid. Quindi fu creduto che fin d'allora cominciasse il duca un monopolio per vendere Casale al re di Francia: risoluzione eseguita nei seguenti anni, siccome vedremo.


   
Anno di Cristo MDCLXXX. Indizione III.
Innocenzo XI papa 5.
Leopoldo imperadore 23.

Tante imprese, tanti acquisti fatti dal re Luigi XIV nelle passate campagne; lo aver egli data la pace a tanti suoi nemici con tanto suo vantaggio; ridotta la sua potenza e il suo gabinetto formidabile ad ognuno; e portata oramai la Francia ad un'altezza tale, che parea già tendere alla monarchia universale: stupore cagionavano ed encomii riscuotevano da tutti gli [33] amatori di quella gran monarchia. Nè più tardarono i suoi popoli ad accordare il glorioso titolo di Grande ad un re che per tante ragioni ben sel meritava. Ma non mancavano persone che avrebbono desiderato in quel monarca più giustizia e moderazione, senza di che non potea mai tenersi per assai limpido e giusto il titolo suddetto. Bolliva in questi tempi una gran lite tra esso re e la corte di Roma, per aver egli con suo editto stesa la regalia (cioè il preteso diritto di disporre delle rendite e de' benefizii delle chiese vacanti) sopra tutte le chiese di nuova conquista, e sopra altre del regno che non erano mai state sottoposte a questo peso dalla corona di Francia. Pretendeva all'incontro il sommo pontefice Innocenzo XI che questa fosse un'usurpazione manifesta; e tanto più perchè la stessa regalia, tal quale è di presente, s'è andata fondando a forza di abusi, e contro le determinazioni degli antichi canoni. Ma il re Luigi, che stimava aver più forza i suoi cannoni che i sacri canoni, tenne saldo; ed inviò a Roma nell'anno presente il focoso cardinal Etrè, non già per soddisfare il papa, ma per condurlo ad acquetarsi al regio volere. Sostennero anche i vescovi di Francia le pretensioni del re, e scrissero al pontefice con pregarlo di rilasciar su questo punto il rigore de' canoni, giacchè si trattava d'un re che più degli altri promoveva i vantaggi della Chiesa cattolica, spezialmente coll'abbassamento dell'eresia. E ciò scrissero in tempo appunto ch'essi faceano di molte premure a quel potentissimo re per liberar la Francia dal peso degli ugonotti, siccome egli fece dipoi. Queste amarezze fra la corte di Roma ed il re Cristianissimo partorirono, siccome diremo, degli altri sconcerti che diedero di moleste agitazioni allo zelantissimo pontefice di questi tempi. Nè si vuole ommettere, che, quando si credeano per la pace di Nimega poste a dormire le spade, i fucili e le artiglierie, si risvegliò dalla Francia un'altra specie [34] di guerra; perchè si sviscerarono gli archivii del parlamento di Metz e de' vescovi di quella città, e di Tull e Verdun, e della camera di Brisach, e si fecero muovere infinite pretensioni di feudi e luoghi, o infeudati o alienati o usurpati anticamente; pretensioni, dico, per la maggior parte rancide e distrutte dalla prescrizione, ma che in mano di sì potente re divennero armi di mirabil forza. Se ne dolevano a più non posso gli Spagnuoli, alcuni elettori ed altri confinanti, fra' quali anche il re di Svezia pel ducato di Due Ponti; ma conveniva ad ognuno chinare il capo. Per questa via si mise in possesso il re di varie piazze e paesi nella diocesi de' suddetti vescovati e nella bassa Alsazia; e ne patirono forte gli elettori Palatino e di Treveri, allegando essi indarno le paci precedenti. Giunse in quest'anno esso re Cristianissimo fino a proporre per re dei Romani il Delfino suo figlio, che ne' tempi presenti sposò la principessa Maria Anna Cristina, sorella del giovine elettor di Baviera.

Accadde nella corte di Savoia, parte nell'anno presente e parte nel susseguente, un imbroglio ch'io racconterò tutto in un fiato: imbroglio, dico, di cui non ben si conobbero le circostanze, tale nondimeno che fece grande strepito nelle corti. Avea fin qui tenuto il governo di quel ducato madama reale Maria Giovanna Batista di Nemours, vedova duchessa di Savoia, e fattasi conoscere per una delle più saggie principesse del secolo suo: tanta era stata la sua prudenza e giustizia, e tale la sua costanza in non lasciarsi mai smuovere dall'arti franzesi e spagnuole, per entrare in impegni di guerra. Essendo già il duca Vittorio Amedeo suo figlio pervenuto alla età di quindici anni, pensò ella a provvederlo di moglie. E siccome parte per politica e parte per genio, perchè nata in Francia, si mostrava assai divota di quella corona, così lasciò regolarsi dalle insinuazioni della corte di Parigi, per [35] istabilire il maritaggio del figlio coll'infanta di Portogallo, la quale si credea che, per mancanza di maschi, avesse da ereditar quel regno. Per quante pratiche avesse dianzi fatte il re Cristianissimo a fine di ottenerla in moglie al Delfino suo figlio, non potè conseguire l'intento, avendo avuto più forza i maneggi degli Spagnuoli, ai quali non potea piacere di vedere un giorno unito il regno di Portogallo col troppo potente di Francia. Studiossi dunque la corte di Francia di strignere il trattato di matrimonio fra essa infanta e il giovinetto duca di Savoia, co' fini politici (secondochè fu creduto) di avere in questo principe, se diveniva re di Portogallo, chi fosse ben affetto alla corona di Francia, e di promuoverlo anche al regno di Spagna, qualora il re Carlo II mancasse senza prole: nel qual caso avrebbe egli facilmente compensata l'assistenza de' Franzesi, con cedere loro la Navarra, oppure il ducato di Savoia e del Piemonte. E già erano concluse in Portogallo queste nozze, quando all'improvviso andò tutto in fascio con istupor della gente il concertato maritaggio. De' motivi che tagliarono l'ordita tela parlarono molto gli speculatori de' gabinetti principeschi. Altro non so dir io, se non che i grandi della Savoia e del Piemonte aspramente si dolevano di questo trattato, perchè fatto e sottoscritto senza menoma lor participazione e consenso; e molto più perchè lo consideravano di sommo detrimento a quegli Stati, tanto in riguardo al pubblico che al privato interesse. Però animosamente si presentarono alla duchessa, rappresentandole la dubbiosa eventualità della succession del Portogallo perchè poteano nascere maschi a quel re, ed erano assai forti le pretensioni del re di Spagna su quel regno. Aggiugnevano, che dovendosi mantenere il duca lungi da' suoi Stati, per le grosse somme che annualmente converrebbe somministrargli, tutti diventerebbero poveri. Peggio dipoi avverrebbe per quegli Stati, qualora passasse [36] nel duca la corona di Portogallo, perchè diverrebbero provincie; del che peggio non può avvenire a chi per sua fortuna ha il principe proprio; e che allora la Savoia e il Piemonte, oltre alla disgrazia di rimanere spolpati per le rendite ducali che passerebbono a Lisbona, facilmente ancora andrebbero in preda alla insaziabilità de' Franzesi.

Nulla si profittò con queste querele. Madama reale ne fece consapevoli i Franzesi, e questi si rinforzarono di gente a Pinerolo. Disperati que' nobili aspettarono un dì che la duchessa fosse uscita di città, e, presentatisi al duca Vittorio Amedeo, gl'intonarono le medesime riflessioni, con aggiugnere che si trattava della sua rovina, avendo la madre fatto tutto quel monopolio solamente per soddisfare alla propria ambizione, e poter continuare nella di lui lontananza il suo imperio; e doversi temere che i Franzesi il volessero lungi da' suoi Stati per ingoiarli, o riceverli senza fatica da una principessa che chiudeva in seno un cuor tutto franzese. Restò attonito il giovinetto principe, e dimandò tosto che rimedio vi fosse. Non altro, risposero essi, che di mettere in una fortezza la duchessa, la quale cotanto in pregiudizio del figlio si abusava della sua autorità. E senza dargli tempo di maggiormente riflettere, gli cavarono dalle mani un ordine da lui sottoscritto, benchè colle lagrime agli occhi, per l'arresto della madre. Ritiratosi poi il duca, e ripensando a questo caso, non sapea trovar posa, quando ecco arriva la duchessa al palazzo, e il truova tutto pensoso e malinconico; e chiestone il perchè, il vede prorompere in un dirotto pianto. Tanto colle carezze e coi baci si adoperò la valente duchessa, che gli trasse di bocca il segreto e il pentimento. Però, dopo averlo ben imbevuto del retto suo operare, ordinò che si rinforzassero le guardie del palazzo, mandò a prendere alcune poche compagnie di soldati da Pinerolo, e successivamente fece prendere i principali della congiura, facendo spargere [37] voce ch'eglino avessero tramato di dare in man degli Spagnuoli la persona del duca. Andò poscia in fumo tutto il trattato delle nozze suddette, e fu creduto, che per questa ripugnanza de' popoli si sciogliesse il contratto. Venuto colla flotta portoghese il duca di Cadaval a Nizza nel giugno dell'anno seguente, per condurre in Portogallo il duca Vittorio Amedeo, il trovò per disgrazia infermo, e durò la sua creduta finta indisposizione sino all'ottobre, in cui la flotta portoghese se ne tornò a Lisbona, ed allora il duca di Savoia ricuperò tosto la sua sanità. Ma, a riserva de' ministri, non arrivò alcuno a sapere il netto di quelle risoluzioni. E perciocchè niun processo fu fatto di que' nobili, nè si videro essi punto gastigati, inchinarono molti a credere che tutta quell'orditura fosse un colpo di destrezza di madama reale per rompere il matrimonio promosso con troppa forza da' Franzesi, ma troppo mal veduto dagli Spagnuoli e da' Piemontesi, e ch'ella con questo ripiego si facesse merito colla corte di Spagna, senza perdere per questo la buona armonia con quella di Francia, giacchè in tal congiuntura avea data a conoscere la sua confidenza con essi Franzesi. Nè ci volea meno d'una principessa di gran senno come era questa, per saper navigare fra Scilla e Cariddi. Merita bene che si faccia qui menzione che nel dì 17 d'ottobre di quest'anno venne a morte il conte Raimondo Montecuccoli cavalier modenese, che per tanti anni stato generale dello imperadore, immortalò il suo nome con tante sue segnalate imprese, ed anche colle sue memorie, le quali poi date alle stampe, son riguardate come un capo di opera nel genere suo per istruzione di chi si applica al mestier della guerra.

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Anno di Cristo MDCLXXXI. Indizione IV.
Innocenzo XI papa 6.
Leopoldo imperadore 24.

La pace della Francia coi potentati cristiani non valea meno della guerra al re Luigi XIV ne' tempi presenti. Il terrore dell'armi sue, che dopo le passate sperienze faceano tremare tutti i confinanti, prestava tal forza ad ogni sua pretensione, che niuno osava di contraddire, se non con parole e proteste inutili, mentre esso re Cristianissimo operando di fatto, e con isfoderar sole decrepite pergamene, e con interpretare in suo favore le paci antecedenti, si andava a mettere in possesso dei paesi ch'egli pretendeva a sè dovuti. Però in quest'anno ancora diede varie pelate agli Spagnuoli nella Fiandra e nel Lucemburghese. Arrivò fino a pretendere di sua ragione Lucemburgo stesso. Indarno strepitavano i ministri di Spagna e dell'imperadore. La luna seguita a far suo viaggio, senza mettersi pena dell'abbaiar de' cani. Nella stessa guisa trattava egli Innocenzo XI, pontefice costante in sostenere i canoni e i diritti della Chiesa, che non volea cedere per le controversie della regalia. Vero è che il cardinale di Etrè rilevava nella corte romana i meriti singolari del re Luigi, che in questi tempi promoveva a tutto potere nei suoi regni la religione cattolica colla depressione della mala razza degli ugonotti, ai figliuoli dei quali, giunti che fossero all'età di sette anni, fu permesso di abbracciar la fede della Chiesa romana. Ma, oltre al sapersi che anche per motivi politici il re era dietro a sterminar quegli eretici, non conveniva già ch'egli si facesse pagare per questo atto pio con altri atti pregiudiciali alle chiese. Quel nondimeno che maggiormente sorprese ognuno in questi tempi, fu il segreto felicissimo maneggio della corte di Francia per impadronirsi di Strasburgo, ossia di, Argentina, capitale dell'Alsazia, una delle più belle, delle più forti, delle più ricche città di Europa, e [39] repubblica allora di protestanti. Ciò che non possono parole, persuasive e ragioni, lo sa fare infine l'oro ben adoperato dal gabinetto franzese. Con questo si espugnarono prima gli animi dei principali di quella città, e poscia coll'apparenza della forza; giacchè all'improvviso essendosi portate sotto la medesima piazza numerose schiere e squadroni di Franzesi, giunse il re Cristianissimo ad impossessarsi nel fine di settembre di quell'importante città, e di rimettervi l'esercizio della religione cattolica, senza pregiudizio dei privilegii della protestante. Riuscì ben disgustoso a Cesare e ai principi della Germania questo colpo, ma ne esultò in Roma ed altrove qualsivoglia vero amatore del cattolicismo; e gran plauso ne riportò l'industria del re, che senza adoperar la violenza unì un sì nobile acquisto al suo dominio.

Nel medesimo tempo un altro colpo di non minore riguardo venne fatto in Italia da quel monarca, la cui indefessa vigilanza, aiutata da un insigne primo ministro, cioè dal marchese di Louvois, si stendeva dappertutto. Era gran tempo che esso re amoreggiava la città e fortezza di Casale di Monferrato, posseduta, come vedemmo, in altri tempi dall'armi franzesi. Accadde che Ferdinando Carlo duca di Mantova cominciò a risentir delle amarezze contro gli Spagnuoli, che gli contrastavano il dominio di Guastalla, con sostener le ragioni di don Vincenzo Gonzaga, a cui esso duca ingiustamente aveva usurpato quel ducato. Non era egli men disgustato della corte di Vienna, perchè Carlo duca di Lorena, al vedere il Mantovano mancante di prole, non solamente per le ragioni della regina Leonora di Austria sua moglie cominciò a muovere delle pretensioni sul Monferrato, ma anche, vivente esso duca Ferdinando, cercava di entrarne in possesso. Pertanto cadde in pensiero al suddetto duca di Mantova di armarsi colla protezion della Francia contra degli Austriaci. Ercole Mattioli Bolognese, suo confidente, quegli fu che in [40] Venezia mosse parola coll'abbate di Strada, ambasciatore del re Cristianissimo, d'introdurre in Casale presidio franzese, e l'ambasciatore non tardò ad informare ed invogliar la corte di questo boccone. Succederono dipoi varie commedie in esso affare. Imperciocchè, avendo spedito il duca a Parigi esso Mattioli, non con altro fine, siccome egli protestava, che per far paura agli Austrici, costui, valendosi d'un mandato che non si stendeva a Casale, stabilì con quella corte le condizioni della consegna della cittadella d'essa città. Penetrarono gli Spagnuoli questo segreto, e colle buone e colle brusche indussero il duca a riprovar l'operato del suo ministro. E infatti, o perchè dal Mattioli fosse veramente stato tradito, o perchè si fosse pentito del patto imprudente fatto, sopra di lui voltò tutta la colpa; e fu anche preteso ch'esso Mattioli, in passando per Milano, con rilevar quel fatto al governatore, avesse toccato un regalo di cinquecento scudi d'oro. Il bello fu che contuttociò fu egli con titolo d'inviato spedito a Torino, ma lasciatosi attrappolar dai Franzesi, che il chiamarono a Pinerolo, quivi terminò i suoi giorni in una prigione.

Seguitò nulladimeno il re Cristianissimo a pretendere che si eseguisse il concordato suddetto, ed inviò a Mantova il signor di Gaumont per incalzare il duca, il quale all'incontro spedì l'abbate di Santa Barbara a Parigi per placare sua maestà, facendole conoscere di non essere tenuto ad un contratto troppo irregolarmente stipulato da un infedel ministro. Finalmente nell'anno presente d'ordine del re venne a Mantova l'abbate Morello, e contuttochè i ministri dell'imperadore e di Spagna non omettessero diligenza alcuna per iscavalcarlo, pur seppe trovar maniera di vincere il punto. Fama corse ch'egli guadagnasse con regali i consiglieri del duca, e molto più coll'esibizione di cinquecento mila lire di Francia il duca medesimo, il quale, scialacquando le sue rendite in mille sfoghi d'intemperanza [41] di lusso, di sgherri, di musici, musichesse e buffoni, non ostante che vendesse tuttodì titoli di marchese e conte, privilegii ed esenzioni a chiunque ne volea, si trovava per lo più in necessità di danaro. Fatto segretamente il contratto in Mantova, o pure in Parigi, dal marchese Guerrieri ministro del duca, se ne vide tosto l'effetto. Erano calati nella state in gran copia i Francesi a Pinerolo. Fu chiesto il passo al duca di Savoia Vittorio Amedeo, uscito già di minorità; ed ottenutolo, il marchese di Bouflers si mosse colla vanguardia di circa quattro mila cavalli, e gli tenne dietro il signor di Catinat con otto mila fanti. Nel dì 30 di settembre il Bouflers arrivò a Casale, e fece la chiamata alla cittadella, che non si fece pregare a rendersi con uscirne la guernigione italiana di secento uomini. Sopraggiunse poi la fanteria franzese, che entrò nella città, ma non tardò poscia a ritornarsene in Piemonte, restando governatore della cittadella il Catinat, e il governo civile in mano del duca di Mantova. Ancorchè ad alcuni principi d'Italia non dispiacesse il mirare in man dei Franzesi l'importante piazza di Casale, perchè questa serviva di briglia agli Spagnuoli, soliti in addietro a voler dar la legge ad ognuno; pure sommamente detestarono questa viltà del duca di Mantova per altri motivi la corte di Savoia e la veneta repubblica; e molto più ancora l'imperadore e il re Cattolico. Ora il duca Ferdinando Carlo facea mille proteste, che contro sua volontà era seguito il fatto; che i suoi ministri l'aveano tradito; fece anche mettere prigione il marchese Guerrieri, benchè poi questa prigionia poco durasse. In oltre detto fu ch'egli in Venezia giurasse sull'ostia sacra di non aver per Casale tirato un soldo dalla Francia: proteste nondimeno che ebbero la disgrazia di non trovar fede presso i più, e meno presso i saggi Veneziani, i quali da lì innanzi il disprezzarono, gli tolsero il commercio coi lor nobili, e alla di lui gente negarono ogni rispetto ed esenzione; ancorchè egli non lasciasse [42] per questo di portarsi a Venezia nei tempi di carnevale a procacciarsi la gloria di superar tutti nella ricerca de' piaceri.


   
Anno di Cristo MDCLXXXII. Indiz. V.
Innocenzo XI papa 7.
Leopoldo imperadore 25.

Benchè fosse pace per tutta l'Europa, pure la corte di Francia non lasciava godere pace ad alcuno, continuamente attendendo a rendersi formidabile a tutti. Il maresciallo duca di Crequì, d'ordine del re Cristianissimo, formò una specie di blocco intorno alla importante città di Lucemburgo, di modo che impedendo l'entrata dei viveri in essa, timore insorse che pensasse ad impadronirsene: il che recò somma gelosia non solo agli Spagnuoli padroni di essa, ma anche all'Inghilterra ed Olanda, le quali interposero i loro uffizii per far desistere la Francia da quella novità, siccome in fatti avvenne. Era parimente inquieta la corte di Vienna, perchè dopo essersi studiata di quetare i torbidi dell'Ungheria, commossi dal Techelì e da altri malcontenti e ribelli, quando men sel pensava, vide coloro più che mai contumaci muovere aperta guerra alla casa d'Austria coll'impossessarsi di varie città in essa Ungheria. Gravi sospetti (per non dire di più) correano che l'oro della Francia fomentasse quella cancrena. Anzi essendosi udito che il gran signore de' Turchi facesse un incredibil armamento con disegno di venir egli in persona contra di Cesare nel prossimo venturo anno, non pochi si figurarono che a tal guerra fosse commossa la Porta dai medesimi Franzesi; tuttochè la stessa corte di Francia quella fosse che scoprisse ai ministri di Cesare e degli altri principi cristiani il disegno di quegl'infedeli: il che non si accordava col suddetto supposto. Era intanto arrivata al colmo l'insolenza de' corsari algerini; dolevasi ogni nazion cristiana della lor pirateria; e nel precedente anno aveano avuto l'ardire di dichiarar la guerra alla Francia. A questo [43] affronto, proveniente da quella canaglia, si mosse lo sdegno del re Luigi; e però contra di loro inviò in quest'anno una flotta di dodici vascelli da guerra, quindici galee e cinque galeotte, sotto il comando del signor di Quene. Arrivò questi davanti ad Algeri nel dì 23 di luglio, e salutò quella città nel seguente mese con alquante centinaia di bombe, che non poco danno cagionarono in quel popolo, non avendo esso con tutta la furia e copia delle sue artiglierie potuto impedir que' disgustosi saluti. Ma perchè il mare ingrossò, non potè quel generale far di più, e riserbò all'anno seguente il resto del gastigo.

Perchè poi continuava lo zelante papa Innocenzo XI a non voler accordare al re Cristianissimo l'estensione della regalia, questi, già avvezzo a risolutamente volere tutto quanto era di sua volontà ed interesse, fece raunar nell'anno presente l'assemblea di quei vescovi, che più degli altri erano disposti a secondare i suoi voleri, e colla loro autorità regolò essa regalia per l'avvenire, senza far più caso delle vive preghiere e forti doglianze del pontefice. Nè qui si fermò lo spirito di dispetto e di vendetta che avea preso luogo nel cuore di quel monarca; imperciocchè fece accettare e pubblicar da esso clero nel dì 23 di marzo quattro proposizioni che crudelmente ferivano i diritti e privilegii della santa Sede, molto prima disseminate dai Sorbonisti sotto lo specioso titolo di libertà della Chiesa gallicana. Cioè, che il romano pontefice non ha autorità diretta o indiretta sopra il temporale de' principi, nè può deporre essi sovrani, nè assolvere dal giuramento di fedeltà i loro sudditi. Che i concilii generali sono superiori ad esso pontefice. Che l'autorità dei decreti della Sede apostolica spettanti alla disciplina riceve la sua forza dal consenso delle altre chiese. E che nelle quistioni di fede non sono infallibili le sentenze della santa Sede, e solamente tali divengono quando vi concorre l'approvazion della Chiesa. Se così ardite [44] proposizioni dispiacessero al sommo pontefice e a tutta la corte di Roma, non occorre che io lo dica. Fu incitato più volte il santo padre ne' tempi susseguenti a condannarle; ma egli non vi si lasciò mai indurre, affinchè non credesse la nazion francese, che egli più avesse ascoltata la passione che la giustizia in sì fatta condanna. Però nè lasciò la cura ai suoi successori. Furono solamente da varii dotti scrittori confutate quelle opinioni, e questa battaglia si è rinnovata anche negli ultimi nostri tempi. Fu in pericolo l'Italia nell'anno presente del flagello della peste, che dopo essere stata a Vienna, in Boemia ed in altri luoghi della Germania, era giunta fino a Gorizia e ad altri confini dello Stato veneto. Tale nondimeno fu la solita vigilanza di quella provvida repubblica, che non potè fare ulteriore progresso questo fiero malore. Maggiore apprensione intanto si ebbe per li gran preparamenti d'armi e di gente che facea la Porta ottomana per terra e per mare. L'imperadore Leopoldo, perchè più minacciato degli altri, si diede anch'egli a far gente ed altre provvisioni, ma colla lentezza tedesca; fece anche aggiugnere delle fortificazioni alla sua capitale, giacchè essa non andava esente dal timore per la vicinanza di tante piazze, occupate in addietro nell'Ungheria dalla potenza de' Musulmani. Cominciò in oltre esso Augusto a trattar varie leghe col principi più potenti, le quali furono poi conchiuse solamente nell'anno seguente, ma che nulla frastornarono il terribile tentativo dei Turchi, di cui parleremo fra poco.


   
Anno di Cristo MDCLXXXIII. Indiz. VI.
Innocenzo XI papa 8.
Leopoldo imperadore 26.

Se mai ci fu anno che tenesse la cristianità in agitazione, i corrieri in moto, e l'universal curiosità in un continuo all'arme, certamente fu questo. Imperciocchè finalmente si avverò il sospetto [45] che il gran signore aspirasse a cose inusitate in danno dell'augusta casa d'Austria, essendo uscito in campagna il gran visir Mustafà Carà con un'armata che più il timore che la verità fece ascendere a trecento mila persone. Generalissimo dell'armi cesaree, ma armi troppo allora deboli per resistere a sì gran torrente, fu dichiarato il prode duca di Lorena Carlo V cognato dello stesso imperador Leopoldo. Spedito egli per contrastare il passo al potentissimo nemico esercito, ebbe per grazia di potersene tornare indietro salvo, colla perdita nondimeno di alcuni insigni uffiziali e di parte del bagaglio. Aveano trovato i Turchi il varco per istradarsi alla volta di Vienna. Tale costernazione perciò entrò in questa città allo scorgerne imminente l'assedio, che l'Augusto Leopoldo con tutta la sua corte mossosi di là nel dì 7 di luglio, si ritirò a Lintz, e poscia a Passavia, senza potersi esprimere la terribil confusione di que' benestanti, per fuggire anch'essi con quante carrozze e carra mai poterono trovare. Governatore di Vienna restò il valoroso conte Ernesto di Staremberg, che si preparò a ben ricevere gl'infedeli. Già erano stati atterrati i vasti e deliziosi borghi di quell'augusta città; e intanto precorrendo gl'incendiarii Turchi rovinarono col fuoco un amplissimo tratto dell'Austria, distruggendo villaggi, palazzi, case e delizie. Circa dieci mila bravi soldati formavano la guernigion di Vienna, oltre a tutti i cittadini rimasti nella città, che, deposto il timore presero l'armi, concorrendo anche i preti, i frati, le donne e i ragazzi a piantar le palizzate, a cavar terreno, ove bisognava, e a prestare ogni altro possibile aiuto. Entro la città furono poi spinte dal duca di Lorena alcune altre migliaia di difensori. Nel dì 14 di luglio comparve l'esercito turchesco, e cinse Vienna di assedio. Diedero costoro principio agli approcci, a gittar bombe ed altri fuochi artificiali nella città, a bersagliar colle batterie i baluardi, e a lavorar di [46] mine: al quale uffizio abbondavano di gente sperta, cioè di molti rinegati; laddove Vienna si trovava quasi affatto priva di contraminatori. Non mi fermerò io a far la descrizione di questo memorabile assedio, per cui tutta anche l'Italia restò sbigottita, nè d'altro parlava che d'un sì formidabile avvenimento. Tutti perciò correano alle orazioni, avendo il pontefice pubblicato un solenne giubileo in tal congiuntura per implorar la misericordia e la benedizione di Dio. Dirò dunque in succinto che continuò per tutto l'agosto lo sforzo dell'armi turchesche sotto Vienna, e giunsero esse a prendere il cammin coperto; a far più mine e breccie nelle mura, a dar più e più furiosi assalti; ma che maraviglie di valore fecero nella difesa anche i cristiani, sì col rispingere i nemici, sì col far vigorose sortite, non risparmiando il sangue proprio, e con tal felicità e bravura, che le migliaia di Turchi lasciarono ivi le vite. Ma già aveano gli ostinati musulmani fermato il piede nella punta d'un baluardo; e fu creduto che la città non si sarebbe più potuta sostenere, se il gran visire avesse con un generale assalto voluto sacrificar più gente. Forse fu ritenuto dalla speranza di cogliere per sè i tesori della città, ottenendola a patti; perchè col prenderla per assalto sarebbono le ricchezze cadute in mano dei soldati vogliosi del sacco. Ma incoraggiti i difensori dal sicuro avviso del vicino soccorso, più che mai attesero a nuove tagliate, sortite, ed altre azioni coraggiose, per prolungare il più possibile l'avanzamento de' nemici.

Avea ne' primi mesi di quest'anno l'Augusto Leopoldo conchiuse varie leghe, o per quiete o per difesa dell'imperio e degli Stati suoi nella preveduta gran tempesta onde era minacciato. Spezialmente per interposizione dello zelante pontefice Innocenzo XI seguì una confederazione fra lui e Giovanni Sobieschi re di Polonia nel dì 31 di marzo. Quanto più vide esso Augusto crescere il pericolo, [47] e poi formato l'assedio della sua capitale, tanto più affrettò i principi e i circoli della Germania, e il re suddetto di Polonia ad accorrere in aiuto. La causa era comune. Caduta Vienna, dovea tremare ogni principe e città di quei contorni. Concorsero dunque a sì urgente bisogno il prode re polacco con circa trenta mila dei suoi nazionali; Massimiliano Emmanuele elettor di Baviera e Giorgio elettor di Sassonia, e molti principi volontarii, fra i quali quattro della casa di Sassonia, due di Neoburgo cognati dell'imperadore, Eugenio principe di Savoia, due di Wirtemberg, due d'Olstein, quei di Analt e di Bareit, e il principe di Waldech generale delle milizie dei circoli. Unironsi quest'armi col generalissimo di Cesare, cioè coll'invitto Carlo V duca di Lorena, il quale durante l'assedio non era mai stato in ozio, ed avea battuto più corpi di Turchi, che portavano viveri e munizioni al campo loro. Fecesi l'union de' cristiani tedeschi e polacchi a Krems di là dal Danubio, e prese che furono le più savie risoluzioni, passò di qua dal fiume il poderoso esercito, consistente in ottantacinque mila combattenti, tutti ansanti di combattere per la fede e per la pubblica salute contro i nemici del nome cristiano. Divisa in tre corpi l'armata, con bella ordinanza calò dalla montagna di Kalemberg nel felicissimo dì 12 di settembre. Andava avanti il terrore, perchè i Turchi da' loro alloggiamenti scoprivano sì fiorito e ben ordinato esercito animosamente scendere dal monte al loro eccidio. Non fu lunga la resistenza fatta da coloro; perchè il primo visire Mustafà Carà, ritiratosi in luogo alquanto distante dalla battaglia, insegnò agli altri essere miglior partito il fuggire che il menar le mani. Lasciarono dunque gl'infedeli in preda ai vittoriosi Cristiani tutte le loro artiglierie, munizioni, viveri, insegne, tende e bagagli. Al re polacco, che conducea l'ala sinistra, e ai suoi toccò la fortuna di cogliere il quartiere [48] del primo visire, nel cui superbo padiglione trovò un immenso tesoro di arredi e contanti, e lo stendardo principale dell'armata turchesca: il che produsse poi invidia e doglianze nel resto dell'armata, perchè i soli Polacchi quei furono che principalmente si arricchirono.

L'avere impiegato i soldati gran tempo nello spoglio, cagion fu che non inseguirono i fuggitivi nemici. Entrarono nel seguente giorno 13 di settembre i trionfanti generali cristiani in Vienna, cioè il re di Polonia, i duchi di Baviera, Sassonia e Lorena, e gli altri principi, e alla vista de' mirabili lavori degli assedianti ed assediati rimasero attoniti. Nel dì appresso giunse alla medesima città, venuto pel Danubio, l'imperador Leopoldo (il che raddoppiò l'allegrezza), e non perdè tempo la maestà sua a rendere grazie a Dio col far cantare un solenne Te Deum per così insigne vittoria. Certo non si può esprimere il giubilo che si diffuse per tutta l'Italia all'avviso di quella sempre memorabil giornata. Le lingue d'ognuno si sciolsero in inni di gioia e di ringraziamenti a Dio, e massimamente in Roma, dove il pontefice Innocenzo XI con molte migliaia di scudi dati in limosina a' poveri, e con aprir le carceri e liberar tutti i prigioni non capitali, soddisfacendo egli del suo pei debitori, attestò la sua gratitudine al donator d'ogni bene. E perciocchè il santo padre riconobbe sì felice successo dall'intercession della Vergine santissima, essendo succeduta tal vittoria correndo l'ottava della sua Natività, istituì dipoi la festa del Nome di Maria in quella ottava. Fu poi dal re di Polonia inviato lo stendardo maggiore de' Turchi alla santità sua: spedizione che fruttò al regio segretario portator d'esso ricchi regali del papa, del cardinal Francesco Barberino e del principe di Palestrina. Coronarono l'armi di Cesare, comandate dal duca di Lorena, la presente campagna con una vittoria riportata contro i Turchi a Parcam, e coll'acquisto dell' importante città di Strigonia nel dì 27 [49] d'ottobre. Lo strepito di queste gloriose azioni talmente sgomentò i dianzi ribelli Ungheri seguaci del conte Emerico Techelì, che buona parte di que' comitati inviarono a rendere ubbidienza al legittimo loro augusto sovrano. Diede molto da discorrere, anzi da mormorare, in questi tempi la condotta del re Luigi XIV, il quale di dì in dì minacciava nuova guerra alla Spagna, insisteva nelle precedenti pretensioni, e ne sfoderava delle nuove; ed oltre a ciò tenendo una potente armata ai confini della Germania, tuttochè mirasse in tanto rischio la città di Vienna, e sì vicini i Turchi alla depression de' cristiani; pure non alzò un dito per dar soccorso al pericolante Augusto. E non è già ch'egli non l'esibisse alla dieta di Ratisbona, ma ne voleva essere ben pagato, con pretendere prima la cessione di Lucemburgo. Di sì generosa esibizione non vollero prevalersi i ministri della dieta, perchè il pagamento sarebbe stato certo; e qual fine potesse poi avere il lasciar entrare armato in Germania un re sì potente e sì vago di conquiste, non appariva assai chiaro. Certamente non sì potè levar di capo alla gente ch'esso monarca non avesse, non dirò commossa la Porta ottomana contro di Cesare, ma desiderata la caduta di Vienna, affinchè il corpo germanico si fosse poi trovato in necessità d'implorar la sua protezione ed assistenza, la qual forse sarebbe riuscita più pericolosa, che la guerra col Turco. Tali erano le speculazioni dei politici d'allora: se ben fondate, io nol so.

Sul fine di maggio in quest'anno tornò esso re Cristianissimo ad inviare il signor di Quene con una flotta ad Algeri, per gastigar quell'insolente nazione che nulla avea profittato della lezion precedente. Tal terrore, tal danno recarono a quella città le bombe, che i barbari inviarono a chiedere pace. Rispose loro il comandante franzese di non poterne parlare se prima non restituivano tutti gli schiavi cristiani. Nel termine di quattro giorni (era il fine di giugno) [50] ne condussero più di cinquecento. Ve ne restarono moltissimi altri; contuttociò il signor di Quene diede luogo al trattato della pace, e dimandò gli ostaggi. Uno d'essi fu Mezzomorto ammiraglio degli Algerini. Costui, perchè alte erano le pretensioni de' Franzesi, nè si concludeva l'accordo, dimandò di rientrare nella città, facendo credere di poter levare gli ostacoli alla pace. Altro non fece costui che commuovere a sedizione la milizia algerina; e fatto assassinare Baba Hassan dei, ossia bei, ossia re d'Algeri, ottenne di esser egli proclamato signore. Quindi ricominciò dopo la metà di luglio la guerra, e con più furore di prima volarono le bombe, che cagionarono la rovina di gran parte di quella città. Fecero que' Barbari alcune vigorose sortite, ma furono sempre respinti. Se ne tornò poi nel settembre la flotta franzese in Francia, senza avere stabilito accordo alcuno. Ma perciocchè nell'anno seguente 1684 ebbe avviso il Mezzomorto che in Francia si facea un più gagliardo apparecchio contra d'Algeri, spedì a muovere proposizioni di pace, e questa poi si ultimò nel dì 23 di aprile dell'anno suddetto con delle condizioni affatto onorevoli e vantaggiose per la corona di Francia. Nel dì 30 di luglio dell'anno presente terminò i suoi giorni Maria Teresa d'Austria infanta di Spagna e regina di Francia, che riempì di cordoglio tutto quel regno: tanta era la sua pietà, la sua carità verso i poveri, la sua inclinazione a tutte l'opere virtuose, la sua prudenza, e la sua mirabil pazienza e disinvoltura, senza mai risentirsi de' pubblici scandalosi adulterii del re consorte.


   
Anno di Cristo MDCLXXXIV. Indiz. VII.
Innocenzo XI papa 9.
Leopoldo imperadore 27.

Altro non s'udiva in questi tempi che doglianze degli Spagnuoli contra la Francia, la quale ogni dì si metteva in possesso di qualche luogo e signoria con [51] pretensioni di dipendenze, feudi ed altri titoli, che in mano di sì gran potenza diventano sempre irrefragabili. Si vede una lista di città, villaggi, castella ed altri luoghi occupati con questa muta guerra dall'armi franzesi dopo la pace di Nimega, lista ben lunga, e tale, che cagiona anche oggidì stupore e compassione verso chi restava sì fieramente pelato, senza osare di far altra opposizione che di lamenti. Intanto gli eserciti del re Luigi XIV erano sempre ai confini, cercando pur motivi di nuova guerra. Gli Spagnuoli in Fiandra non potendo più reggere a tanta oppressione, cominciarono le ostilità contra de' Franzesi fin l'anno precedente. Si fecero ridere dietro, perchè nè forze proprie aveano, nè collegati per sostener questo impegno. Non altro che questo sospirava la Francia; e però in esso anno passate l'armi del Cristianissimo all'assedio di Courtrai, s'impadronirono di quella città e di Dismuda. E mentre nell'anno presente i buoni Olandesi si sbracciavano in un congresso tenuto all'Haia per trattare di pace, o almeno di tregua, il re, che da gran tempo facea l'amore all'importante città di Lucemburgo, e conobbe il tempo propizio, trovandosi allora impegnate l'armi di Cesare contro il Turco, nel dì 28 di aprile mandò l'armata sua all'assedio di quella città. Era questa creduta inespugnabile, ma i marescialli di Crequì e d'Humieres disingannarono la gente, con aver obbligato alla resa quel presidio nel dì 4 di giugno. Dopo un sì bell'acquisto non ebbe difficoltà il re d'accordare, nel dì 29 di esso mese, una tregua di venti anni coll'Olanda, la qual poscia, per non poter di meno, fu accettata anche dal re di Spagna e dall'imperadore: con che il re Cristianissimo restò in possesso della città e ducato di Lucemburgo, con obbligarsi di restituire alla Spagna le città di Courtrai e Dismuda, spogliate prima di fortificazioni. Ma le paci e tregue della Francia in questi tempi non erano che sonniferi per addormentar le potenze, e duravano [52] fintanto che si presentava occasione di nuovi acquisti. Pareva poi alla corte di Francia che il giovinetto duca di Savoia Vittorio Amedeo II mostrasse più incitazione a Madrid che a Parigi. Però, quantunque madama reale bramasse di dare al figlio in moglie la principessa di Toscana Anna Maria figlia del gran duca Cosimo III, pure tante batterie ebbe dai ministri di Francia, che le convenne accomodarsi ad un altro accasamento. Fu dunque in Versaglies, nel dì 9 d'aprile, stipulato il maritaggio d'esso duca di Savoia colla principessa Anna figlia di Filippo duca d'Orleans, fratello unico del re Cristianissimo. Si mise in viaggio ben tosto questa principessa con accompagnamento assai nobile, e fu ricevuta ai confini dal duca suo sposo.

A queste allegrezze tenne dietro, nel seguente maggio, una dolorosa tragedia, che un nuovo campo aprì alle mormorazioni contro la prepotenza de' Franzesi, che avea fissato il punto massimo della sua gloria in farsi ubbidire da tutti, e in far tremare ognuno. Gran tempo era che non sapea sofferir quella corte di mirar la repubblica di Genova, secondo l'inveterato suo costume, cotanto aderente a quella di Spagna, e posta sotto il patrocinio del re Cattolico. Andava perciò cercando motivi di lite con essi Genovesi; e mancano forse mai ragioni al lupo, allorchè vuol divorare l'agnello? Pretesero i Franzesi di tenere un magazzino di sale in Savona, per provvederne Casale di Monferrato: novità che tornava in grave pregiudizio alle finanze della repubblica, e però non si voleva accordare. Quattro nuove galee aveano fabbricato essi Genovesi: diritto che niuno aveva mai contrastato alla loro sovranità e libertà. Col pretesto che queste avessero da servire per gli Spagnuoli, fu loro intimato di disarmarle. Più e più affronti si videro fatti dalle navi franzesi a quelle de' Genovesi e alle loro riviere; pure tollerava tutto la paziente repubblica. Fu poi spedito a Genova con titolo di residente [53] il signor di Saint Olon, e poco si stette a conoscere mandato a cagionar dei garbugli, avendo egli cominciato a proteggere i delinquenti, e a defraudar le gabelle (benchè assegnato a lui fosse un regalo annuo di mille e cinquecento pezze per sicurezza della dogana) e a far portare armi a' suoi dipendenti, che impunemente ogni dì facevano delle insolenze. Ma, per venire al punto principale, la corte di Francia, che prima coll'esempio d'Algeri, ed ora con quel di Genova, voleva imprimere in chicchessia il terrore della sua potenza, spedì con una flotta il signor di Segnelay, figlio del celebre signor di Colbert, mancato di vita nel precedente anno, che, presentatosi nel dì 17 di maggio sotto Genova, intimò alla repubblica la disgrazia e i risentimenti del re, se immediatamente non gli consegnavano i fusti delle quattro nuove galee, e non inviavano al re quattro consiglieri a chiedere perdono, e ad assicurare la maestà sua della loro intera sommessione agli ordini suoi. Perchè non si vide pronta ubbidienza a questa intimazione, cominciarono le palandre franzesi nel seguente giorno a flagellar quella bellissima città colle bombe. Sino al dì 28 del mese suddetto seguitò quell'infernale pioggia; nel qual tempo fecero i Franzesi anche uno sbarco di gente in terra, sperando forse in quella costernazione della città di potervi mettere il piede. Ma i Genovesi rinforzati da varii corpi di truppe regolate che loro inviò il governatore di Milano, ed animati dall'amor della patria e della libertà, renderono inutile ogni altro sforzo de' nemici, i quali nel suddetto dì 28 fecero vela verso la Provenza, e passarono dipoi ad esercitare la loro bravura contra degli Spagnuoli in Catalogna. Gravissimi furono i danni recati alla città di Genova e a San Pier d'Arena, per essere rimaste incendiate e diroccate varie chiese, palazzi, monisteri e case; ma non sì grande fu quell'eccidio come la fama lo decantò. E intanto ben molto soffrì nel suo materiale e nello [54] scompiglio del popolo quella repubblica, ma intatta seppe essa conservare la gemma della sua sovranità. Qual fine poi avesse questa tragedia, detestata da chiunque senza parzialità pesava le cose, lo diremo all'anno seguente.

Compiè la carriera del suo vivere nel dì 15 di gennaio dell'anno presente Luigi Contarino doge di Venezia, a cui, nel dì 25 di esso mese, fu sostituito Marco Antonio Giustiniano. Passavano in questi tempi controversie fra papa Innocenzo XI e la repubblica veneta, perchè, non volendo più soffrire il pontefice i tanti disordini che si sovente accadevano in Roma per le franchigie pretese dagli ambasciatori delle corone, avea dichiarato a tutti di voler libero il corso della giustizia contra dei malviventi e di chi facea contrabbandi. Per questa contrarietà aveano i Veneziani richiamato il loro ministro, ed altrettanto avea fatto il papa per conto del suo nunzio, che si ritirò da Venezia a Milano patria sua. Contuttociò il buon pontefice, in cui prevaleva ad ogni altro riguardo il zelo della religione e il bene della cristianità, con sommo vigore si adoperò per unire in lega contro il nemico comune l'imperadore Leopoldo, Giovanni Sobieschi re di Polonia e la veneta repubblica. Restò conchiusa questa alleanza nel dì 5 di marzo dell'anno presente. Quanto al re polacco, gli riuscì di ricuperare la città di Coccino, ma senza poter fare altra impresa di considerazione. Nè pur si mostrò molto favorevole alle armi cesaree la fortuna in quest'anno. S'era determinato nel consiglio di guerra d'imprender l'assedio della regale città di Buda. A questo fine, essendo uscito in campagna il duca Carlo di Lorena, prima s'impadronì di Vicegrado, poscia mise in isconfitta il bassà di Buda, uscito per contrastargli il passo; e dopo aver presa Vaccia, e forzati i Turchi a ritirarsi da Pest, valicò sopra più ponti il Danubio, e nel dì 14 di luglio mise l'assedio a Buda. Tentò più d'una volta il saraschiere di dar soccorso all'assediata città, ma sempre [55] fu respinto; anzi nel dì 25 di luglio uscito dalle trincee esso duca di Lorena col principe Luigi di Baden, col generale conte Caprara Bolognese, e la maggior parte della sua armata, andò ad assalir quella del saraschiere suddetto, e le diede una rotta con istrage e prigionia di molti Turchi, ed acquistò di molte bandiere ed artiglierie. Nel dì 9 di settembre arrivò anche l'elettor di Baviera sotto Buda, il cui assedio ostinatamente fu proseguito sino al fine d'ottobre; ma sostenuto con estremo vigore dagl'infedeli, che fecero continue sortite, e lavorarono forte di mine e contramine. Intanto per la perdita di molta gente negli assalti, e più per le malattie, essendo scemata assaissimo l'armata cesarea, si vide sul principio di novembre forzata a ritirarsi da quell'assedio, e a cercare riposo nei quartieri d'inverno. Si stese all'incontro la benedizione di Dio nell'anno presente sull'armi venete. S'era fortunatamente ritiralo da Costantinopoli il bailo di quella repubblica, travestito da marinaro, ed ella avea fatto un bel preparamento di milizie e navi, con eleggere capitan general Francesco Morosino, già celebre per molte sue segnalate precedenti azioni. Il pontefice Innocenzo XI somministrò quel danaro che potè in aiuto dei Veneti, e non solamente spedì ad unirsi colla lor flotta cinque sue galee, ma sette ancora di Malta, e ne ottenne quattro altre da Cosimo III gran duca di Toscana. La prima fortunata impresa che fecero i Veneziani, fu quella dell'isola di Leucate, dove, nel dì 6 d'agosto, s'impadronirono dell'importante fortezza di Santa Maura, e poscia di Vonizza, Seromero ed altri luoghi. Di là passarono ad assediare l'altra non men gagliarda fortezza della Prevesa, che costrinsero alla resa. Nello stesso tempo anche i Morlacchi occuparono Duare in Dalmazia. Con questo bel principio si dispose la repubblica a cose maggiori.

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Anno di Cristo MDCLXXXV. Indiz. VIII.
Innocenzo XI papa 10.
Leopoldo imperadore 28.

Nel dì 16 di febbraio del presente anno per colpo di apoplessia mancò di vita Carlo II re d'Inghilterra; e morì, secondochè han creduto non pochi storici, nella comunion della Chiesa e religion cattolica. A lui succedette Giacomo II suo fratello, professore anch'egli, e pubblico, della stessa religione. Si diferì poi la coronazione del novello re, e di Maria Beatrice d'Este sua consorte fino al dì 3 di maggio; e questa fu celebrata con incredibil solennità e pompa. Al mirare sul trono della Gran Bretagna un re cattolico, si dilatò l'allegrezza in tutte le provincie del cattolicismo per la conceputa speranza di veder cessare il funestissimo scisma di quel fiorito regno, e riunita un dì alla Chiesa sua vera madre quella potente nazione. Ribellaronsi al re Giacomo i conti d'Argile e il duca di Montmouth, figlio bastardo del re defunto; ma egli ebbe la fortuna di atterrarli amendue e di assodarsi sul trono. In quest'anno il re Luigi XIV prese a gastigar l'insolenza de' corsari tripolini con ispedire il maresciallo d'Etrè alla lor città, il quale così ben regalò di bombe quel popolo, che l'astrinse, nel dì 29 di giugno, a chiedere misericordia, a restituir tutti gli schiavi franzesi, e a pagar per emenda di tante prede da lor fatte cinquecento mila lire di Francia. Riportò il plauso d'ognuno questo gastigo, perchè troppo meritato da que' ladroni infedeli. Ma restò all'incontro disapprovato il rigore con cui quel monarca diede la pace alla repubblica di Genova con una capitolazione sottoscritta in Versaglies nel dì 22 di febbraio, per la quale fu obbligato quel doge, cioè Francesco Maria Imperiali, con quattro senatori a portarsi in Francia ai piedi del re per attestare alla maestà sua il dispiacere di avere incontrata la sua indignazione. Furono anche [57] obbligati i Genovesi a disarmar le quattro nuove galee, a dar congedo alle milizie spagnuole, e a rifare i danni cagionati dalle bombe franzesi a tutte le chiese e luoghi sacri della lor città. Per tale aggiustamento s'era adoperato vivamente il nunzio pontifizio Ranucci d'ordine del sommo pontefice, e perciò alla medesima santità sua fu rimesso il lassare il pagamento intimato alla repubblica pel suddetto risarcimento. Obbligò eziandio esso re, nel dì 30 d'agosto, i corsari tunisini alla restituzion degli schiavi franzesi, con altre condizioni vantaggiose alla Francia, anzi a qualunque cristiano che navigasse sotto la bandiera franzese. Ma quel che fece maggiormente risonare il nome del Cristianissimo monarca, fu l'editto da lui pubblicato nell'ottobre di quest'anno con cui rivocò ed annullò l'editto di Nantes del 1598, vietando in avvenire ne' suoi regni l'esercizio della setta calviniana. Che lamenti, che esagerazioni facesse tutto il partito de' protestanti per questa risoluzione del re Cristianissimo, non si potrebbe esporre se non con assaissime parole. Declamarono essi sopra tutto contro alcuni eccessi commessi nella conversion di quegli ugonotti, che o non vollero o non poterono uscir di Francia. Rumoreggiarono altri contro la poca economia del re, il quale lasciò partir dai suoi regni tante migliaia di famiglie eretiche, e con esso loro tanti milioni d'oro, e tanti artisti che andarono ad arricchir paesi stranieri. Ma il re volle preferire al proprio interesse il ben della sua monarchia, la quale, per gli esempli passati, non si trovava mai sicura, nutrendo nel seno gente di religion diversa; che non cessava di tentar di nuocere, e teneva sempre in sospetto la corona. In somma presso i cattolici sì pia e generosa azione di Luigi XIV tale fu, che basterà sempre a rendere glorioso ed immortale il suo nome.

Nella campagna dell'anno presente fu risoluto dall'esercito cesareo, comandato da Carlo duca di Lorena, di formar [58] l'assedio di Neukaisel, una delle piazze più forti che possedesse l'ottomana potenza nell'Ungheria. A dì 7 di luglio si diede principio alle ostilità contra di quella piazza. A questo avviso il saraschiere, forte di sessanta mila persone si portò a Vicegrado e se ne impossessò, e passò poi a stringere d'assedio la città di Strigonia. Allora il duca di Lorena, lasciato il generale conte Enea Caprara sotto Neukaisel, preso il meglio dell'esercito cristiano, andò per affrontarsi col saraschiere. Costui, ritiratosi da Strigonia, non voleva il giuoco; tanto fece il duca, che il tirò a battaglia, e lo sconfisse con acquisto de' padiglioni e di molte artiglierie, bandiere e munizioni. Animati da questo buon successo i cristiani, giacchè era fatta la breccia a Neukaisel, nè a tempo i Turchi presero la risoluzione di rendersi, v'entrarono a forza, e tagliarono a pezzi tutto quel presidio. Impadronissi dipoi il maresciallo Caprara di Eperies, Tokai e Kalò; e venne all'ubbidienza sua anche la città di Cassovia. Così ai generali Mercy ed Heisler riuscì di prendere la fortezza di Zolnoch, e di disfare il ponte d'Essech. Altre prosperose azioni si fecero in Bossina e Corbavia dall'armi cristiane. A queste imprese concorsero ancora da Parigi i principi di Contì e di Roccasurion fratelli, e il principe di Turrena, con lasciar ivi non pochi segni della lor intrepidezza. Quanto a' Veneziani, inferiore non fu la felicità delle lor armi sotto il comando di Francesco Morosino capitan generale. Nelle loro armate generale della fanteria era il principe Alessandro fratello di Ranuccio II duca di Parma. Militava parimente il principe Massimiliano di Brunwsich alla testa d'alcuni reggimenti del duca suo padre. Tra molti volontarii si contò anche Filippo principe di Savoia. Vi spedì papa Innocenzo XI le sue cinque galee, otto ne inviò la religion di Malta, e quattro il gran duca di Toscana. Rivoltesi pertanto le mire dei Veneziani al Peloponneso, che oggidì porta il nome di Morea, passarono all'assedio [59] della città di Corone. Non solamente gran resistenza fecero Turchi e Greci abitanti in quella città, ma forza fu di combattere più fiate con un esercito turchesco, che nelle vicinanze trincierato andava tentando di soccorrere la piazza. A costoro fu data una rotta nel dì 7 di agosto: il che fatto, più coraggiosamente si continuarono gli approcci e le offese contra di Corone. L'ostinazion de' difensori giunse a tanto, che i cristiani a viva forza sboccarono nella città, mettendo a fil di spada quanti incontrarono, e poscia a sacco tutte le abitazioni. Vi si trovarono cento ventotto pezzi di cannone, tra i quali ottantasei di bronzo, con abbondanti munizioni da bocca e da guerra. Rinforzata di poi l'armata veneta da tre mila Sassoni, prese Zernata, e poi Calamata, Chiefalà, Gomenizze ed altri luoghi. Con tali felici avvenimenti, che sparsero il giubilo per tutte le contrade d'Italia, ebbe fine la presente campagna.


   
Anno di Cristo MDCLXXXVI. Indiz. IX.
Innocenzo XI papa 11.
Leopoldo imperadore 29.

Si moltiplicarono in quest'anno le allegrezze per tutta l'Italia a cagion dei continuati progressi dell'armi cristiane, tanto cesaree che venete contro il comune nemico. Città italiana non c'era, dove giugnendo di mano in mano le felici nuove di questi avvenimenti, non si facessero falò ed innumerabili fuochi di gioia, con giubilo de' popoli, i quali non d'altro parlavano che di Turchi sconfitti e di città conquistate. Allora fu che il nome dell'imperadore ricuperò ancora in Italia il genio e l'amore dei più delle persone. Diede principio alle militari azioni degl'imperiali il generale conte Mercy, con rompere i Turchi e Tartari nei contorni di Seghedino. Il generale Antonio Caraffa s'impadronì del castello di San Giobbe. Tanta era la fiducia del prode duca di Lorena, che fu risoluto di nuovo l'assedio di Buda. Colà passato [60] l'esercito, trovò abbandonata la picciola città di Pest, e dopo aver valicato il Danubio sopra un ponte, cinse d'intorno quella città capitale dell'Ungheria. Trovata poca resistenza nella città bassa, tutte le forze si rivolsero contro il fortissimo secondo recinto. Carcasse, bombe, artiglierie faceano un orrido fuoco; erano frequenti e vigorose le sortite dei nemici, ora contro i Brandeburghesi e cesarei, ed ora contro i Bavari comandati dal loro elettore, con felice o pur con infelice riuscita. Si venne a più assalti, che costarono gran sangue, più sempre agli assalitori che agli assaliti. Aveano già i cristiani preso posto nel terzo recinto, quando si avvicinò il primo visire con un'armata di circa sessanta mila combattenti, voglioso di dar soccorso alla piazza. Fece costui molti tentativi, sacrificò anche della gente, e gli riuscì di far entrare alcune centinaia di fanti nella piazza; ma i cristiani per questo non rallentarono punto le offese. Uscì il duca di Lorena delle trincee con animo di far giornata col Barbaro, il quale giudicò meglio di ritirarsi; e però nel felicissimo dì 2 di settembre, dato un generale furioso assalto, colla forza entrarono i valorosi cristiani nell'ultimo recinto, e tutta restò in lor potere quella regal città. Grande fu la strage dei musulmani, a cui tenne dietro il saccheggio dato dalle avide milizie vincitrici. Ritrovaronsi nella città e castello almen trecento cannoni di bronzo, sessanta mortari, oltre ad una gran copia di attrezzi militari. Vi si trovò anche non lieve parte della suntuosa biblioteca, già ivi formata dal re Mattia Corvino, i cui manoscritti passarono di poi all'augusta libreria di Vienna. Che strepito facesse sì glorioso acquisto, non si può abbastanza esprimere. Parve che Dio avesse rivelato questo fortunatissimo giorno al santo pontefice Innocenzo XI, perchè egli nello stesso dì rallegrò infinitamente Roma colla tanto differita e tanto sospirata promozione di ventisette cardinali. Nel dì 9 [61] del suddetto mese giunse a Roma il corriere con sì lieta nuova; e però nel dì 12 col suono di tutte le campane, colla salva di tutte le artiglierie, con fuochi innumerabili di gioia, e poscia con solenne messa si celebrò il rendimento di grazie a Dio. Continuarono dipoi gran tempo ancora cotali allegrezze, non sapendo il popolo romano far fine al giubilo. Altrettanto ancora avvenne in assaissime altre città. Nè qui si fermò il corso delle vittorie cesaree. Venne sottomessa dal generale conte Federigo Veterani la ricca e mercantile città di Seghedino sul Tibisco. Occupò il principe Luigi di Baden Cinque Chiese, Siclos e Dardo al Dravo. In somma non v'era settimana che non portasse qualche nuovo motivo di letizia agli amatori del nome cristiano.

Veniva poi questa mirabilmente accresciuta da altri felici progressi delle armi venete in Levante. Erasi il capitan bassà nella primavera presentato sotto Chiefalà nella Morea con forte speranza di ricuperarla. Arrivò a tempo il capitan generale Morosini; ma quando si credea di dover cacciare colla forza que' Barbari dal loro accampamento, trovò che col benefizio della notte se n'erano fuggiti lasciando indietro l'artiglierie. Avea la repubblica eletto per primario generale delle sue armate di terra il conte Ottone Guglielmo di Konigsmarch Svezzese; e dopo aver presa i generali la risoluzione di passar contra di Navarino, a quelle spiagge approdarono nel sacro dì della Pentecoste. Due sono i Navarini cioè il vecchio e il nuovo. Il primo non volle liti, e con buoni patti immantenente si arrendè; però passò il campo intorno al nuovo, piazza assai forte, contro la quale si diede principio a un terribil fuoco di bombe e artiglierie. Avvicinossi il saraschiere con un corpo d'armata per tentare il soccorso. Usciti i cristiani, con tal bravura andarono a trovarlo, che il costrinsero a prendere la fuga, lasciando indietro cinquecento padiglioni, fra' quali il suo composto di sette cupole [62] e varie stanze, che occupava trecento passi di giro. A questa vittoria tenne dietro la resa di Navarino. Di là senza perdere tempo si voltarono i Veneti addosso alla città di Modone, che non fece lunga difesa. Quindi impresero l'assedio di Napoli di Romania, dove si trovò gran resistenza. In que' contorni allora comparve il saraschiere; ma non gli diedero tempo i cristiani di afforzarsi; perciocchè, iti a trovarlo, fecero di nuovo menar le gambe alla sua gente; dopo di che s'impadronirono ancora d'Argo, abbandonata da' Turchi. Perduta la speranza del soccorso, anche Napoli capitolò la resa. Oltre a ciò, Arcadia e Termis vennero all'ubbidienza della repubblica. Restò anche espugnata in Dalmazia la considerabil fortezza di Sign dal generale Cornaro nel mese di ottobre. Per questi avanzamenti delle cristiane armate giubilava il pontefice Innocenzo XI, sviscerandosi intanto per inviar quanti mai potea soccorsi di danaro all'imperadore Veneziani e Polacchi, tuttochè questi ultimi nulla di rilevante operassero contra del comune nemico.

Un'altra singolar consolazione provò il santo padre e Roma tutta per l'arrivo colà nel precedente anno del conte di Castelmene, spedito ambasciatore da Jacopo II re cattolico della Gran Bretagna alla santa Sede. Un'ambascieria tale, dopo quasi un secolo e mezzo di disunione di quella nazion potente, veniva considerata da tutto il cattolicismo come un grandioso regalo della divina provvidenza, se non che quel ministro procrastinava il mettersi in pubblico. Parimente nel dì 9 di aprile di quest'anno comparve a Roma Ferdinando Carlo duca di Mantova, i cui lunghi colloquii col papa diedero non poca gelosia ai Franzesi, che erano in rotta colla santità sua. Colà poscia pervenne ancora nel novembre di quest'anno Francesco II duca di Modena coll'accompagnamento di molta nobiltà e famiglia, per visitare la duchessa Laura madre sua e della regina d'Inghilterra, che tornata a [63] quell'augusta città, avea quivi fissata l'abitazione sua. Ancorchè il santo padre, per cagion della podagra che il tenea per lo più confinato in letto, desse poche udienze, pure ne diede una di quattro ore a questo principe, compartendogli ogni possibil onore e dimostrazione di amore e di stima. Passò dipoi esso duca per sua ricreazione anche alla gran città di Napoli, dove il marchese del Carpio vicerè sorpassò l'espettazione d'ognuno nelle tante finezze che praticò con questo sì illustre pellegrino. Un solo intrico era quello che teneva in grave agitazione l'animo del buon pontefice Innocenzo. Era mancato di vita nel precedente anno il cattolico Carlo conte palatino, ed elettore del Reno, senza succession maschile; e ne' suoi Stati, per dritto proprio, e in vigore ancora del suo testamento, era succeduto il duca di Neoburgo Filippo Guglielmo, fratello di Leonora Maddalena moglie augusta dell'imperador Leopoldo. Mosse tosto pretensioni sopra l'eredità del defunto elettore la duchessa d'Orleans Elisabetta, sua sorella, tenendosi ella chiamata a quegli Stati, o almeno a tutti i beni allodiali: laddove il duca di Neoburgo sosteneva il suo punto colle leggi dell'imperio, esclusive nelle femmine, e col testamento suddetto. Non fu pigro a prendere la protezion della cognata il re Lodovico XIV, e fin d'allora si cominciò a prevedere inevitabile una guerra a cagion di questo emergente. Contuttociò il re Cristianissimo con rara moderazione consentì di rimettere tal pendenza alla decisione del regnante pontefice; ma, questi dopo aver fatto esaminar le ragioni, sentendo troppo alte le pretensioni delle parti, non osava di discendere a laudo alcuno, per la chiara conoscenza che disgusterebbe l'una delle parti, e forse anche amendue. Siccome padre comune, e sommamente bramoso di conservar la pace fra i principi cristiani, in tempo spezialmente che procedeva sì felicemente la guerra contra de' Turchi, forte s'affliggeva per questo litigio, e moveva tutti i principi, [64] affinchè, interponendo i loro uffizii, non si venisse a rottura. Dalle premure del re Cristianissimo fu mosso in quest'anno Vittorio Amedeo II duca di Savoia a pubblicare un editto, per cui si comandava l'esercizio della sola religion cattolica nelle quattro valli abitate dai Valdesi, ossia dai Barbetti eretici: editto che niun buon esito produsse. Portossi dipoi questo sovrano sul fine dell'anno presente a Venezia, per godervi di quel carnevale, e ricevette da quel saggio senato tutti i maggiori attestati di stima. I curiosi politici immaginarono in tale andata non pochi misteri.


   
Anno di Cristo MDCLXXXVII. Indiz. X.
Innocenzo XI papa 12.
Leopoldo imperadore 30.

Col taglio di una pericolosa fistola al re Luigi XIV salvò in quest'anno la vita un valente chirurgo. Avrebbe ognun creduto, che quel monarca, avvisato con questo malore della fragilità della vita umana avesse da deporre o almen da moderare la sua fierezza. Ma non fu così. Anzi più che mai risentito, dopo aver fatto provar la sua potenza a tanti inferiori, volle anche farla sperimentare a chi meno egli dovea, cioè all'ottimo pontefice Innocenzo XI. Siccome più volte abbiam detto, era gran tempo che gli ambasciatori delle teste coronate si erano messi in possesso delle franchigie in Roma, pretendendo esenti dalla giustizia ed autorità del pontefice non solamente i lor palagi, ma anche un'estensione di molte case nei contorni, che servivano di sicuro ricovero a tutti i malviventi e banditi. Con questi indebiti asili non si potea nè esercitar la giustizia, nè mantener la pubblica quiete in quella nobilissima città. Perchè il pontefice avea dichiarato di non volere riconoscere nè ammettere all'udienza ambasciatore alcuno, se non rinunziava alla pretension delle franchigie, non si trovava più in Roma alcun d'essi, a riserva del duca d'Etrè ambasciatore [65] del re Cristianissimo, in riguardo di cui avea il santo padre promesso di chiudere gli occhi durante solo la di lui ambasceria. Venne questi a morte, e il papa ordinò tosto, che i pubblici esecutori liberamente entrassero nelle strade e case già pretese immuni. Nè pure in Madrid in questi medesimi tempi si volea più sofferire un somigliante eccesso degli stranieri ministri. Ma il re Luigi, a cui certo non piaceva che in Parigi alcun degli ambasciatori facesse in questa maniera da padrone, era nondimeno intestato che fosse un diritto della sua corona la franchigia del suo ministro in Roma, la quale, quantunque dovuta a lui e alla sua famiglia, pure irragionevole cosa era il pretendere che si avesse a stendere a quella esorbitanza che praticavasi allora in Roma sotto gli occhi del pontefice sovrano. Ma se Innocenzo XI era inflessibile su questo punto, con essere anche giunto a pubblicare una bolla che vietava sotto pena della scomunica le franchigie, anche dal canto suo Luigi XIV si mostrava costante in voler sostenere sì fatto abuso; nè per quante ragioni sapesse adurre il cardinal Ranucci nunzio apostolico, si lasciò smuovere da sì ingiusta pretensione.

Ora quel monarca, risoluto di far tremare anche Roma, scelse per suo ambasciatore Arrigo Carlo marchese di Lavardino; e quantunque sapesse le proteste del papa di non ammetterlo come ambasciatore, qualora non precedesse la rinunzia delle franchigie, pure lo spedì nel settembre di quest'anno alla volta di Roma con trecento persone di seguito. Fece anche imbarcare a Marsiglia e Tolone sino a quattrocento cinquanta tra uffiziali e guardie, che sul Fiorentino s'unirono col Lavardino. Con questo accompagnamento, come in ordinanza di battaglia, entrò in Roma il marchese nel dì 16 di novembre, essendo tutte in armi quelle centinaia di uffiziali e guardie, e con questo fasto andò egli a prendere il possesso del palazzo Farnese e di tutti gli adiacenti quartieri. Fece chiedere udienza al papa, [66] nè la potè ottenere; e siccome egli pubblicamente contravveniva alla bolla pontifizia, così tenuto fu per incorso nella scomunica. Cominciò più baldanzosamente con superbo corteggio di carrozze e di ducento guardie a cavallo, tutti uffiziali, e ben armati, a passeggiar per Roma. Teneva in oltre nella piazza del palazzo suddetto trecento guardie a cavallo con ispada sfoderata in mano, spendendo largamente per cattivarsi il popolo, e facendo ogni dì conviti e magnificenza in casa sua, ridendosi del papa, e minacciando trattamenti peggiori contra di lui: azioni tutte che non si sapeva intendere come si permettessero o volessero da chi si gloria di essere il primo figlio della Chiesa. Non mancavano persone, che consigliavano il santo padre di non tollerar questi affronti, e di far gente per reprimere tanto orgoglio; ma il saggio sofferente pontefice, risoluto di voler più tosto dimenticarsi di esser principe, come mansueto pastore non altro rispondeva, se non le parole del salmo: Hi in curribus et in equis: Nos autem in nomine Dei nostri invocabimus. Certamente fra le glorie di Luigi XIV non si può contare l'aspro trattamento da lui fatto a papa Alessandro VII. Molto meno poi si potrà lodare il più sonoro praticato coll'ottimo papa Innocenzo XI; perchè ragione non c'è da poter mai giustificare le franchigie, tali quali s'erano introdotte in Roma, nè la violenza usata dal Lavardino con evidente ingiuria alla sovranità e all'eccelso grado di chi è vicario di Cristo. Perchè poi esso Lavardino fece nel dì del Natale del Signore celebrar messa solenne nella chiesa di San Luigi, e vi assistè con tutta pompa, si vide sottoposta quella chiesa coi sacerdoti all'interdetto.

Un altro grave affanno provò in questi tempi il pontefice, per essersi scoperto in Roma autore di una pestilente setta (appellata dipoi il Quietismo) Michele Molinos prete spagnuolo, che colla sua ipocrisia s'era tirato addietro una gran copia di seguaci, anche di alto affare. Lo [67] zelantissimo pontefice, allorchè da saggi e dotti porporati restò ben informato dei falsi insegnamenti di costui, e delle perniciose conseguenze della palliata di lui pietà, ne comandò tosto la carcerazione; e di gran faccende ebbero successivamente i teologi e il tribunale della santa inquisizione per opprimere ed estirpare questa mala gramigna, che insensibilmente s'era anche diffusa per altre parti di Italia. Furono severamente proibiti i libri d'esso Molinos, e con bolla particolare del sommo pontefice nel dì 28 d'agosto fulminate sessantotto proposizioni estratte da essi libri. Si proseguì poi con severità, ma non disgiunta dalla clemenza, il processo contro l'autore di tal setta, e di chiunque l'avea o imprudentemente o maliziosamente adottata, di modo che, proseguendo le diligenze, da lì a qualche tempo se ne smorzò affatto l'incendio, e ne restò la sola memoria del nome. Non rallentò papa Innocenzo XI le sue premure per la guerra contro il Turco nell'anno presente; nè solamente inviò in aiuto de' Veneti le sue galee, ma ottenne ancora che la repubblica di Genova v'inviasse le sue. Tornossene da Roma in Inghilterra, ossia in Francia il conte di Castelmene ambasciatore del re Giacomo II. E Francesco II duca di Modena, dopo aver goduto singolari finezze in Napoli, si restituì nel febbraio ai suoi Stati, senza aver potuto condur seco la duchessa Laura sua madre, la quale nel susseguente luglio, con fama di rara pietà e saviezza, diede fine al suo vivere in Roma, lasciando lui erede de' suoi beni nel Modenese, e de' posseduti da lei in Francia la regina della Gran Bretagna Maria Beatrice sua figlia.

Mirabili furono in quest'anno ancora gli avanzamenti dell'armi cristiane contro la potenza ottomana. Nell'anno precedente s'era portato a Vienna, e poscia all'assedio di Buda, Ferdinando Carlo duca di Mantova con un copioso accompagnamento de' suoi bravi, e volle intervenire anche alla campagna dell'anno [68] presente. Della bravura di lui e de' suoi non fu parlato con gran vantaggio in Italia. Ora il valoroso generalissimo duca Carlo di Lorena e Massimiliano elettor di Baviera, risaputo che il primo visire con esercito, creduto di sessanta mila combattenti, tragittato il Savo, s'inoltrava per frastornar le imprese de' cristiani, si mossero contra di lui. Poi consigliatamente fecero una ritirata, la quale, presa per indizio di timore dal musulmano, lo animò a passare anche il Dravo. Nel dì 12 d'agosto a Moatz vennero alle mani le due possenti armate, e ne andò sconfitta la turchesca. Insigne fu questa vittoria, perchè tra uccisi dal ferro ed annegati nel Dravo vi rimasero più d'otto mila Turchi; incredibile il bottino per sessantotto cannoni, dieci mortari, immensità di provvigioni da bocca e da guerra, cavalli, buoi, bufali e cammelli, cassette d'oro e tende. Il padiglione del gran visire toccò all'elettore, che fu il primo ed entrarvi. Fu detto che tenesse un quarto di lega di giro, e quivi fu cantato un solenne Te Deum. Occuparono poscia i cesarei la città e castello di Essech; costrinsero alla resa la città di Agria, e poscia la fortezza di Mongatz. Quello che maggiormente accrebbe la gloria al duca di Lorena, fu ch'egli animosamente entrò nella Transilvania, ed obbligò la città di Claudiopoli, ossia Clausemburgo, e quella di Ermenstad capitale della provincia e tutte le altre della Transilvania ad ammettere presidio cesareo. Ritiratosi nel castello di Fogaratz l'Abaffi principe di quella contrada, si vide astretto, nel dì 27 d'ottobre, a capitolare col duca, mettendosi sotto la protezion di Cesare, ed accordando le contribuzioni e i quartieri d'inverno. Nel dì 9 di dicembre di quest'anno in Possonia tenuta fu la gran dieta del regno di Ungheria, a cui intervenne l'imperadore Leopoldo; ed ivi restò proclamato e coronato re d'Ungheria lo arciduca Giuseppe, primogenito di esso Augusto.

Colle sue benedizioni accompagnò la [69] divina clemenza anche l'armi della repubblica veneta; giunta in questo felicissimo anno a liberar tutto il regno della Morea dalla tirannia de' Turchi, e ad inalberarvi le bandiere della croce. Sbarcò l'armata veneta nel dì 20 di luglio alle spiaggie dell'Acaia, con disegno di assalire la città di Patrasso; ma perciocchè il saraschiere s'era in quelle vicinanze acquartierato, si videro i generali cristiani in necessità di rimuovere prima quest'ostacolo. Ora il conte di Konigsmarch, primo fra essi, seppe trovar maniera di passar colà, e di attaccar la mischia co' nemici, i quali dopo qualche resistenza diedero a gambe, lasciando indietro alcune centinaia di morti, artiglierie ed insegne. A cagion di questo avvenimento si ritirarono in salvo anche le guernigioni turchesche di Patrasso e del castello di Morea. Maravigliosa cosa fu il mirare, come presi da panico timore quegl'infedeli, appiccato il fuoco alle munizioni del castello di Romelia, che gran resistenza far potea, facessero saltare in aria i suoi torrioni, e poi se ne fuggissero. Giunse lo sbigottimento a tale, che si trovò abbandonata da essi la città di Lepanto, dianzi infame nido di corsari. Lo stesso saraschiere uscì coll'esercito suo di Morea; e in fine la città di Corinto, cioè la chiave di quel regno, venne senza fatica in poter de' cristiani, che vi trovarono quaranta pezzi di bronzo, parte inchiodati e parte fatti crepare. Anche Mistrà, che si crede nata dalle rovine della poco lontana Sparta, impetrò buone capitolazioni dalle vincitrici armi cristiane. Restò dipoi deliberata la conquista d'Atene e della sua acropoli, cioè della fortezza che difende quel borgo, giacchè un borgo è divenuta l'antica celebre città d'Atene. Fu colla forza ancor questa obbligata alla resa; imprese, che per tutta l'Italia, e spezialmente in Venezia, furono solennizzate con incessanti feste. Nè qui si fermarono le glorie venete. Oltre all'avere il generale Cornaro fatti ritirare i Turchi dall'assedio della fortezza di Sign, invogliò [70] il senato veneto di liberar l'Adriatico da un barbarico asilo di corsari, coll'acquisto di Castel nuovo in Dalmazia. A questo fine fu ottenuto che le galee del papa e di Malta concorressero all'impresa, ed ivi s'impiegarono anche due mila e cinquecento soldati oltramontani che erano destinati per l'armata di Levante: risoluzione di non lieve detrimento, perchè, a ragion di questa mancanza, siccome diremo, finì poi male la conquista di Negroponte, saggiamente ideata dal capitan generale Morosino. Con centoventi legni sul fine di agosto si presentarono i Veneziani sotto la suddetta riguardevol città e fortezza di Castelnuovo. Di gran fatiche costò la sua espugnazione, ma in fine ne uscirono i presidiarii e gli abitanti, lasciandone il possesso ai cristiani, che vi trovarono gran copia di munizioni e cinquantasette cannoni di bronzo. Ora tanto abbassamento della potenza ottomana cagionò sollevazioni in Costantinopoli, fu deposto il sultano Maometto, e sollevato al trono suo fratello. Non mancò la Porta in questi tempi di muovere a Vienna proposizioni di pace, e v'inclinavano alcuno de' consiglieri cesarei, giacchè si prevedeva vicino lo scoppio di nuove guerre dalla parte del re Cristianissimo. Ma prevalse il sentimento del duca di Lorena, a cui sembrava molto disdicevole il deporre le armi in mezzo al corso di tante vittorie, e mentre sì invitti e sgomentati si trovavano i dianzi sì orgogliosi musulmani.


   
Anno di Cristo MDCLXXXVIII. Indiz. XI.
Innocenzo XI papa 13.
Leopoldo imperadore 31.

Più feroce che mai si scoprì il re Luigi XIV nell'anno presente contra del buon pontefice Innocenzo XI, sperando pure col moltiplicare le violenze di ottenere ciò che egli non dovea pretendere, perchè contrario alla giustizia, alla pietà e alla riverenza professata dai re Cristianissimi alla Sedia apostolica. Ordinò dunque [71] al marchese di Lavardino di far ben conoscere al popolo romano il suo disprezzo per le censure pontifizie, di sostener più che mai vigorosamente il possesso delle franchigie, e di camminare per Roma con più fasto che mai, come se si trattasse di città sottoposta ai gigli, e in cui avesse da prevalere all'autorità del pontefice sovrano quella del re di Francia. Il santo padre mirava tutto senza scomporsi, risoluto di vincere colla pazienza l'indebita persecuzione. Gli furono proposte leghe; ma egli riponeva tutta la sua difesa nella protezion di Dio e nella giustizia della sua causa. Portossi una mattina il Lavardino colla guardia di trecento uffiziali da trionfante alla basilica Vaticana, ed ebbe non so se il contento, oppure il rammarico di veder fuggire i sacerdoti dagli altari, per non comunicare con chi era aggravato di censure. Non contento di passi cotanto ingiuriosi il re Luigi, fece interporre dal parlamento di Parigi un'appellazione al futuro concilio contro la pretesa ingiustizia del papa, il quale non altro intendea che di poter esercitare la giustizia in casa sua, come usano nelle loro città gli altri principi, e massimamente la corte di Francia. Richiamato da Parigi il nunzio pontifizio cardinal Ranucci, il re non volle lasciarlo partire, e gli mise intorno le guardie col pretesto della sua sicurezza. Tanto innanzi andò l'izza di quel monarca, tuttochè fregiato del titolo di Cristianissimo, che mandò le sue armi a spogliare il pontefice del possesso di Avignone, come se questi avesse imbrandite l'armi per far guerra alla Francia. Al punto di sua morte non si sarà certamente rallegrato quel gran re di avere così maltrattato il capo visibile della religione da lui professata, e per una pretensione che niun saggio potrà mai asserire appoggiata al giusto.

Nella primavera di quest'anno arrivò al fine de' suoi giorni Marc'Antonio Giustiniano doge di Venezia. Tale era il merito acquistatosi dal capitan generale [72] Francesco Morosino in tante sue passate prodezze, che i voti di tutti concorsero a conferirgli quella dignità, unita al comando dell'armi: unione troppo rara in quella prudente repubblica. Mentre egli dimorava nel golfo di Egina, gli arrivò questa nuova nel dì primo di giugno, e gran feste ne fece tutta l'armata. Otto galee di Malta comparvero in aiuto dei Veneti con un battaglione di mille fanti, e poscia quattro altre galee, e due navi del gran duca di Toscana con ottocento fanti e sessanta cavalieri. Ma andò a male un grosso convoglio di genti e munizioni spedito nella primavera da Venezia: colpo, che fu amaramente sentito dal Morosino. Contuttociò si prese nel consiglio militare la risoluzione di tentar l'acquisto dell'importante città di Negroponte, capitale della grande e ricca penisola appellata dagli antichi Eubea, conosciuta oggidì collo stesso nome di Negroponte. Ma non furono ben conosciute le maniere per progredire in così difficile impresa, e si cominciarono gli approcci dove non conveniva. Si venne al generale assalto di un gran trincierone fabbricato dagli infedeli, e fu superato con istrage loro, ed acquisto di trentanove pezzi di cannone e di cinque mortari; ma per questo e per tanti altri assalti, e più per le malattie cagionate dall'aria cattiva essendo periti lo stesso generale conte di Konigsmarch ed assaissimi altri valorosi uffiziali con gran copia di soldati; venuto che fu l'autunno, si trovò forzato il doge Morosino a ritirarsi ben mal contento da quello sfortunato assedio, senza poter fare altra impresa nella campagna presente. Maggior fortuna si provò in Dalmazia, dove il provveditor generale Girolamo Cornaro s'impadronì della fortezza di Knin, benchè armata di tre recinti, e poscia di Verlicca, Zounigrad, Grassaz e delle torre di Norin. Tali acquisti non compensarono già l'infelice successo di Negroponte, per cui rimase sommamente afflitta la veneta repubblica.

Ebbe all'incontro la corte cesarea [73] motivi di singolar allegrezza per la prosperità delle sue armi nell'anno presente. Alba Regale città dell'Ungheria, che può contendere il primato colla regal città di Buda, fu bloccata nella primavera; ed allorchè quel bassà e presidio videro giunte le artiglierie da Giavarino, il dì 10 di maggio si esentarono da maggiori perigli, cedendo quella città ai cristiani con assai onorevoli condizioni. Si formò in questi tempi anche il blocco di Zighet e Canissa, piazze di molta conseguenza. Spedito eziandio il conte Caraffa alla città di Lippa, dacchè ebbe alzate le batterie e formata la breccia, vi entrò, essendosi ritirati tutti i Turchi nel castello, il quale bersagliato dalle bombe, da lì a poco ottenne di rendersi con buoni patti; siccome ancora fece Titul. Nè pure il general conte Caprara stette in ozio, avendo col terrore fatto fuggire dalle due fortezze di Illoch e Petervaradino i nemici. Nella stessa maniera l'importante posto di Karancebes, chiave della Transilvania, fu preso dal general Veterani. In somma davanti ai passi delle cesaree armate marciava dappertutto la vittoria. Imprese più grandi meditava intanto il prode elettor di Baviera, giunto nel dì 29 di luglio all'esercito primario di Cesare, che era composto di quaranta mila bravi Alemanni, oltre agli Ungheri del partito austriaco. Le mire sue erano contro l'insigne città di Belgrado capitale della Servia. Passò felicemente di là dal Savo la coraggiosa armata, ancorchè in faccia le stesse il saraschiere con circa dodici mila cavalli e alcuni corpi di Tartari ed Ungheri ribelli, comandati dal Tekely. Quindi s'inoltrò a Belgrado, con trovare abbandonata da coloro una gran trincea, che potea far lunga difesa, e dati alle fiamme tutti i borghi della città, dove si contavano migliaia di case. Accostavasi il fine d'agosto, quando giunsero da Buda le artiglierie, le quali tosto cominciarono a fracassar le mura della città. Nel dì 6 di settembre tutto fu all'ordine pel generale assalto, a cui inanimato ciascuno dalla [74] presenza e dalle voci dell'intrepido elettore, allegramente volò. Superata la breccia, vi restava un interno fosso; ma nè pur questo trattenne l'ardor dei soldati, che penetrarono vittoriosi nel cuor della piazza, e sfogarono dipoi la rabbia, la sensualità e l'avidità della roba coi miseri abitanti. Restituita la croce in quella nobil città, nel dì 8 d'esso mese quivi si renderono grazie a Dio per sì maravigliosi successi. Passò dipoi con magnifico corteggio e passaporto un'ambasceria del nuovo gran signore Solimano all'imperador Leopoldo, per chieder pace. Anche nella Schiavonia in questi tempi Luigi principe di Baden, generale di gran grido, si rendè padrone di Costanizza, Brodt e Gradisca al Savo, e diede appresso una rotta al bassà di Bossina, o, come altri dicono, Bosna. Sicchè per tanti felici avvenimenti ben parea dichiarato il cielo in favore dell'armi cristiane, nè da gran tempo s'erano vedute sì ben fondate le speranze dei fedeli per iscacciar dall'Europa il superbo tiranno dell'Oriente.

Ma, bisogna pur dirlo: fu parere di molti che sempre sarà invincibile la potenza ottomana, non già per le proprie forze, ma per la protezione d'una potenza cristiana che non ha scrupolo di sacrificare il riguardo della religione, affinchè troppo non s'ingrandisca l'imperador de' cristiani. Almen comunemente fu creduto, che per reprimere cotanto felici progressi dell'armi cesaree contro del Turco, il re Luigi XIV movesse in questo anno l'armi sue contro la Germania. Se vere o apparenti fossero le ragioni del re suddetto di turbar la quiete della cristianità, meglio ne giudicheranno altri che io. Le pretensioni della cognata duchessa d'Orleans, almen sopra i beni allodiali del fu suo padre e fratello, erano tenute in Francia per giuste; ma non per motivi da mettere sossopra la Germania. Volea quella corte sostener le ragioni del cardinale Guglielmo di Furstemberg, eletto alla chiesa di Colonia da una parte dei canonici in concorrenza del principe [75] Clemente di Baviera fratello dell'elettore; benchè al primo mancasse il breve dell'eligibilità e si trattasse d'un affare spettante al corpo germanico, e che si sarebbe dovuto decidere dal romano pontefice e dal capo dell'imperio. Si fecero anche gravi querele dal re Luigi, perchè l'imperadore, il re di Spagna e molti principi della Germania, nei dì 28 di giugno del 1686, in Augusta avessero formata una lega a comune difesa. Veniva questa considerata a Versaglies per un delitto. Pertanto nel settembre di quest'anno esso re, pubblicato un manifesto, a cui fu poi data buona risposta, improvvisamente mosse l'armi contra dell'imperatore, le cui forze si trovavano impegnate in Ungheria, senza che fosse preceduta offesa o ingiuria alcuna dalla parte di Cesare. Filisburgo fu preso; s'impadronirono le armi franzesi di Magonza, Treveri, Bonna, Vormazia, Spira e di altri luoghi. Penetrarono nel Palatinato, occupando Heidelberga, Manheim, Franckendal ed ogni altra piazza di quell'elettorato. Avvegnachè la maggior parte di quegli abitanti fossero seguaci di Calvino, pur fecero orrore anche presso i cattolici le crudeltà ivi usate, perchè ogni cosa fu messa a sacco, a ferro e fuoco, con desolazion tale, che le più barbare nazioni non avrebbero potuto far di peggio. Stesesi questo flagello anche a varie città cattoliche, dove, benchè amichevolmente fossero aperte le porte, neppure gli altari e i sacri templi e i sepolcri, non che le case dei privati, andarono esenti dal lor furore. Per atti tali, accaduti in tempo che niun pensava alla difesa, e contra di tanti innocenti popoli, coi quali niuna lite avea la Francia, un gran dire dappertutto fu della prepotenza franzese.

Ma qui non finirono le tragedie dell'anno presente. Avea, nel dì 18 di giugno, la regina d'Inghilterra Maria Beatrice d'Este dato alla luce un principino, che oggidì con titolo di re Cattolico della Gran Bretagna e col nome di Jacopo III soggiorna in Roma. All'avviso di questo [76] parto mirabilmente esultarono i regni cattolici, per poco tempo nondimeno; perciocchè verso il fine d'autunno riuscì a Gugliemo principe d'Oranges coll'aiuto degli Olandesi di occupare il trono della Gran Bretagna, con obbligare alla fuga il cattolico re Giacomo II, il quale colla moglie e col figlio si ricoverò in Francia. Allora fu che per questo lagrimevole avvenimento maggiormente si scatenò l'universale risentimento contra del re Luigi, che collegato col suddetto re britannico, tuttochè vedesse gli Olandesi fare da gran tempo uno straordinario armamento di genti e di navi, pure niun riparo, siccome egli poteva, vi fece: tanta era la sua smania per far conquiste nella Germania, e, se lice il dirlo (giacchè universale fu questa doglianza), per salvare da maggior tracollo il nemico comune. Esibì egli veramente al re Giacomo venti mila Franzesi, che non furono accettati, perchè truppe straniere avrebbero maggiormente irritata la feroce nazione inglese. Tuttavia se il re Luigi avesse inviato un esercito a chiedere conto all'Olanda di quel grandioso preparamento d'armi, per sentimento dei saggi, non sarebbe seguita la dolorosa rivoluzione dell'Inghilterra, la quale a me basterà di averla solamente accennata. Così Dio permise, e a quel gabinetto ognun di noi dee chinare il capo. Seguì nel presente anno il maritaggio di Ferdinando de Medici principe di Toscana colla principessa Violante Beatrice, figlia di Ferdinando elettore e duca di Baviera, la quale condotta dipoi a Firenze, fu ivi accolta con sontuose solennità. Rovesciò in quest'anno un terribile tremuoto quasi tutte le fabbriche e mura di Benevento, e recò l'eccidio ad altre circonvicine città, e gravissimo danno anche a quella di Napoli. Fu considerato per miracolosa protezion del cielo che il piissimo cardinale Vincenzo Maria Orsino arcivescovo di Benevento, seppellito fra le rovine, salvasse la vita, avendolo destinato Dio a governar la Chiesa universale sulla sedia di San Pietro, siccome a suo tempo vedremo.

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Anno di Cristo MDCLXXXIX. Indiz. XII.
Alessandro VIII papa 1.
Leopoldo imperadore 32.

Il bell'ascendente, in cui si trovavano l'armi cesaree e venete, di dare una scossa maggiore alla sbigottita e cadente potenza de' Turchi, cominciò a declinare per colpa (non si può già negare) della terribile invasione dell'armi franzesi nella Germania. Buona parte di quelle truppe e forze che l'Augusto Leopoldo avrebbe potuto impiegare contra de' Turchi, convenne rivolgerla alla difesa delle provincie germaniche. Nè i Veneti poterono far leve di gente in essa Germania, perchè ognun di quei principi pensava alla casa propria che ardeva, o pur temeva di un pari incendio. Erano venuti gli ambasciatori della Porta a Vienna per trattare di pace o di tregua, e colà ancora si portarono i plenipotenziarii di Polonia e della repubblica veneta; ma perchè troppo alte erano le pretensioni delle potenze cristiane, ad altro non servì il congresso che ad un mercato di parole. Per conto de' Veneziani, sì indebolito era l'esercito loro in Levante, che formarono bensì il blocco di Napoli di Malvasia, dove seguì qualche azion di valore, ma senza poterla soggiogare sino all'anno seguente. Sorpreso in questo mentre da febbre il doge Francesco Morosino, capitan generale dell'armata, impetrò di tornarsene a Venezia, e quivi sul finir dell'anno fu accolto con tutto l'onore, ma senza quegli applausi che pur erano dovuti a conquistatore sì glorioso, non per altro che per l'infelice esito dell'impresa di Negroponte: quasichè il merito di tante belle azioni si fosse perduto, per non averne fatta una di più. Quanto alle armi cesaree in Ungheria, comandate dal valoroso principe Luigi di Baden, non erano già esse molto vigorose; e pure tenne lor dietro la felicità con far conoscere quanto più si sarebbe potuto sperare, se non avesse dovuto Cesare accorrere [78] in Germania per impedire i maggiori progressi del re Cristianissimo. Non avea il Baden più di venti in ventiquattro mila combattenti. Con questi, dopo un ostinato blocco, forzò l'importante fortezza di Zighet a rendersi. Quindi, senza far caso che il saraschiere si fosse inoltrato con poderoso esercito, per dar animo al quale era giunto sino a Sofia lo stesso gran signore col primo visire, marciò al fiume Morava. Dacchè l'ebbe valicato, venne alle mani coi nemici, e, data loro una gran rotta, s'impadronì de' lor padiglioni e bagagli, e almeno di cento pezzi di cannone. Gli restavano solamente sedici mila soldati, ma sì valorosi, che giunto egli alla città di Nissa, ne ordinò tosto l'assalto. Furono ivi di nuovo sbaragliati i Turchi, presa la città; fatti prigioni tre mila spahì coi loro cavalli; il ricco bottino divenne premio alla bravura di sì pochi Tedeschi. Anche la fortezza di Widdin sulla riva del Danubio, attorniata dall'esercito cristiano, non si fece pregare a rendersi. Appressatosi dipoi alla città d'Uscopia, posta ai confini della Macedonia, la ritrovò vota degli abitanti: tutte testimonianze della troppo allora infievolita possanza dei Turchi, e del credito con cui marciavano gli eserciti vittoriosi.

Bolliva intanto la guerra al Reno. Carlo duca di Lorena e gli elettori di Brandeburgo e Baviera comandavano le armi cesaree. Tutto ancora l'imperio, l'Olanda e l'Inghilterra si trovavano in lega per reprimere i Franzesi. Magonza e Bonna furono ricuperate, ma a costo di assaissimo sangue. Giacomo II re cattolico della Gran Bretagna, assistito da una flotta franzese ben provveduta di munizioni, con uno sbarco in Irlanda tentò la sua fortuna; ma ritrovatala sul principio ridente, poco stette a provarla contraria. Fin qui avea passati felicemente i suoi giorni in Roma Cristina regina cattolica di Svezia, quando venne la morte a richiederle il tributo a cui son tenuti tutti i viventi. Passò all'altra [79] vita nel dì 19 d'aprile, lasciando una illustre memoria della vivacità del suo spirito, della sua magnificenza e religione: del che diede ancora un bell'attestato nell'ultimo suo testamento. L'insigne sua raccolta di manuscritti passò per la maggior parte nella Vaticana, cioè nella biblioteca la più celebre e ricca del mondo. Ordinò il buon papa Innocenzo XI che a questa principessa eroina si erigesse un convenevole sepolcro nella basilica Vaticana in faccia a quello della gloriosa contessa Matilda. Ma non tardò lo stesso pontefice a tenerle dietro nel viaggio dell'altra vita, dopo aver provata somma consolazione, perchè il re Cristianissimo avesse richiamato in Francia il marchese di Lavardino suo ambasciatore. Si partì di Roma questo ministro nel dì ultimo d'aprile, con che cessarono in quella gran città le turbolenze da lui cagionate, ma con durar tuttavia il mare turbato nella corte di Parigi. Avea questo insigne pontefice con somma pazienza sofferto anche negli anni addietro molti penosi incomodi di sanità, per cagion dei quali poco si lasciava vedere in pubblico, senza che questi nulladimeno gl'impedissero punto le applicazioni al buon governo. Nel mese d'agosto divennero sì violenti le febbri, che si cominciò a perdere ogni speranza di sua salute. Restarono vacanti dieci cappelli cardinalizii; per quanto si studiassero i porporati e palatini d'indurlo alla promozione, adducendo anche apparenti motivi di obbligazione per questo, egli stette saldo in riserbare al suo successore la scelta de' soggetti, giacchè in quello stato non sembrava a lui di godere quella serenità di mente che si richiedeva per provedere la Chiesa di Dio di degni ministri. Senza aver potuto il nipote don Livio vedere per cinquanta dì la faccia del languente pontefice, finalmente fu ammesso. Non ne riportò che saggi consigli di seguitar le pedate de' suoi maggiori in sollievo de' poverelli e degl'infermi, di non mischiarsi negli affari della [80] Chiesa, e molto meno nel futuro conclave, acciocchè restasse una piena libertà agli elettori. Gli ordinò ancora d'impegnare cento mila scudi per le opere pie, secondo la dichiarata sua mente, e il rimandò colla benedizione apostolica.

Con ammirabil costanza fra i dolori del corpo e con singolar divozione spirò egli poscia l'anima, in età di sessantotto anni, nel dì 12 d'agosto, avendo corrisposto la sua morte santa alla riconosciuta santità della sua vita apostolica. Tali certamente furono le virtù e le piissime azioni di questo buon pontefice, che unironsi le voci ed acclamazioni di tutte le spassionate persone, e massimamente del popolo romano, per crederlo degno del sacro culto sugli altari. Essendosi a questo fine formati col tempo i convenevoli processi, giusta speranza rimane di vederlo un dì maggiormente glorioso in terra, dacchè tanti motivi abbiamo di tenerlo più glorioso in cielo. Gran tempo era che nella cattedra di san Pietro non era seduto un pontefice sì esente dal nepotismo, sì zelante della disciplina ecclesiastica, sì premuroso della giustizia e del bene della cristianità, nulla avendo egli mai cercato pel comodo proprio o dei suoi, ma bensì impiegati i suoi pensieri in bene del cristianesimo, e le rendite della Chiesa in aiuto de' potentati cristiani contra de' Turchi, e in sollievo ancora de' popoli suoi. Aveva un orrendo tremuoto quasi smantellata, siccome accennammo, la città sua di Benevento, sformate varie città della Romagna, recati immensi danni anche a Napoli e ad altre città di quel regno. Sovvenne a tutti il misericordioso padre con profusione d'oro; siccome ancora verso dei poverelli non venne mai meno la sua liberalità ed amore. Però non è da meravigliarsi se il popolo romano con incredibil concorso e divozione il venerò morto, e raccomandossi alla di lui intercessione, e fece a gara per ottenere qualche reliquia di lui. Chi non potè averne, quai pegni ben cari, tenne da lì [81] innanzi in venerazione i suoi Agnus-Dei. Si contano ancora assaissime grazie impetrate da Dio per mezzo di questo incomparabil pastore della sua Chiesa. Dopo varii dibattimenti nel conclave, appena giunti i cardinali franzesi, concordemente seguì l'elezione al pontificato del cardinale Pietro Ottoboni, patrizio veneto, personaggio dei più accreditati nel sacro collegio. Prese egli il nome di Alessandro VIII. L'età sua di settantanove anni non avea punto scemato il vigore della sua mente, con cui andava unita una rara prudenza ed accortezza, e una piena conoscenza degli affari del mondo. Perciò se ne sperò un buon governo, se non che sotto di lui tornò in campo il nepotismo, avendo egli senza perdere tempo creato generale di santa Chiesa don Antonio suo nipote, e creato cardinale Pietro Ottobono suo pronipote, assai giovine, conferendogli il grado di vicecancelliere, e molte badie e benefizii vacati sotto il precedente pontefice, e poscia la legazione d'Avignone; di modo che fu creduta colata in lui una rendita di più di cinquanta mila scudi annui. Ornò eziandio della porpora e dichiarò segretario di Stato Giam-Batista Rubini vescovo di Vicenza, suo pronipote per sorella. Finalmente accasò don Marco Ottoboni altro suo nipote con donna Tarquinia principessa Altieri. Non andò molto che la corte di Francia, ben affetta a questo nuovo pontefice, riconobbe la giustizia, non mai voluta riconoscere in addietro, delle pretensioni del santo pontefice Innocenzo XI, avendo il duca di Chaulne, già spedito ambasciatore del re Cristianissimo al conclave, rinunziato alle franchigie: punto di somma quiete ed allegrezza alla città di Roma e alla santa Sede. Avea in questi tempi Ferdinando Carlo Gonzaga duca di Mantova preso a fortificar Guastalla, e fu creduto con danari della Francia. Comparve colà all'improvviso il conte di Fuensalida, governator di Milano, con armata sufficiente a farsi ubbidire, e quelle fortificazioni [82] furono demolite. Di gravi doglianze e schiamazzi fece il duca alle corti per questa violenza, ma senza riportarne altro che compatimento. Riparò egli in breve i suoi disgusti colla continuazion de' piaceri, dietro ai quali era perduto.


   
Anno di Cristo MDCXC. Indiz. XIII.
Alessandro VIII papa 2.
Leopoldo imperadore 33.

Le applicazioni del novello pontefice Alessandro VIII erano tutte rivolte a rimettere la buona armonia fra la santa Sede e tutti i principi cattolici. Cessarono perciò le controversie che da gran tempo bollivano colla città di Napoli. Il re di Francia restituì Avignone con tutte le sue dipendenze al sommo pontefice, il quale dal canto suo mostrò buona propensione verso quel monarca, e si dispose ancora ad inviare a Parigi un nuovo nunzio; ma insistendo egli che i vescovi franzesi ritrattassero le proposizioni da lor pubblicate contro l'autorità dei romani pontefici, vi trovò delle difficoltà insuperabili. Intanto non mancò il santo padre di procurar la pace fra i principi cristiani, e di sovvenir con danari, e colla spedizion delle sue galee e di quelle di Malta, la veneta repubblica, le cui armi avendo ostinatamente proseguito il blocco di Napoli di Malvasia, e stretto poscia maggiormente l'assedio, finalmente ebbero la gloria di entrar vittoriosi, nel dì 12 d'agosto, in quella città. Dopo un tale acquisto il capitan generale Girolamo Cornaro pensò a quello della Vallona, fortezza, pel sito sulle rive dell'Albania, assai riguardevole. La presa del vicino forte della Canina pose tal terrore nei Turchi, che, fuggendo dalla suddetta fortezza, benchè ben fornita di artiglierie e munizioni, ne lasciarono libero il possesso ai Veneziani. Ma quivi, sorpreso poscia da malattia, lasciò la vita anche l'antedetto generale Cornaro. Terminò questa campagna coll'avere i Veneti forzata alla resa Vergoraz, situata sulla cima d'un [83] alto greppo, con che stesero il loro dominio sopra un gran tratto di quel littorale. Non si mostrò già così favorevole la fortuna all'armi di Cesare in Ungheria, anzi si provò affatto contraria. Fin qui avea Carlo V duca di Lorena, generalissimo dell'Augusto Leopoldo suo cognato, date pruove d'insigne prudenza e valore in tante conquiste fatte in Ungheria e al Reno, di maniera che il titolo di uno de' primi guerrieri e capitani del suo tempo gli era giustamente dovuto. Nel venir egli a Vienna per assistere ad un consiglio di guerra, assalito da catarro alla gola in vicinanza di Lintz, quivi in età di quarantotto anni diede fine al suo vivere, ma non già alla sua gloria, che vivrà sempre immortale nella storia.

Restò dunque appoggiato il primo comando dell'armi in Ungheria al principe Luigi di Baden; ma, per saggio che sia un capo, per valoroso che sia un general comandante, s'egli manca di braccia, a poco servirà la sua saviezza e valore. Grande armata aveano allestita i Turchi; a poco più di quindici mila Tedeschi si stendeva la cesarea in quelle parti. Essendo morto Michele Abassi principe di Transilvania, colà accorse il Techely, ed oppresso il generale Heisler, che con quattro reggimenti custodiva quelle contrade, se ne impadronì. Fu dal Baden ricuperata quella bella provincia, e lasciato ivi con sette reggimenti il generale Veterani; nel qual tempo, cioè nel mese d'agosto, il primo visire con potente esercito piombò addosso alla Servia. Obbligò Nissa a capitolar la resa, riacquistò Widdin e Semendria, e quindi prese ad assediar Belgrado, alla cui difesa stava il duca di Croy, e i conti di Aspremont ed Archino Italiani con sei mila scelti Alemanni. Forse la bravura di questi combattenti e la stagione inoltrata avrebbono potuto sostenere quell'importante città, se per malizia, come fu comunemente creduto, degli uomini non si fosse nel dì 8 di ottobre acceso il fuoco nella torre del castello, che la fe' col magazzino [84] volare in aria; e comunicato agli altri, dove giaceva polve da cannone, cagionò un vasto e deplorabil eccidio. Da sì fieri tremuoti rimasero conquassate le case della città; sopraggiunse anche il fuoco a fare del resto. In quella orribil confusione aiutati i Turchi da qualche traditore, non trovarono difficoltà ad entrar nella città, dove misero a fil di spada quanti soldati e terrazzani incontrarono, de' quali solamente settecento co' tre suddetti comandanti ebbero la fortuna di sottrarsi al furore delle loro sciable. Venne poscia alle lor mani anche l'isola di Orsova e la città di Lippa. Tante perdite sommamente afflissero la corte di Vienna, e non men quella di Roma; e il santo padre non tardò a destinar cento mila scudi in soccorso dell'imperadore, principe, la cui cassa contrastava sempre col bisogno, ed ora spezialmente che conveniva attendere anche alla guerra contro i Franzesi. Di questa io nulla parlerò, chiamandomi l'Italia a riferir ciò che più importa.

Erano già passati molti anni che in queste provincie si godeva la tranquillità della pace; ad altro non si pensava che a divertimenti e piaceri. La musica, e quella particolarmente de' teatri, era salita in alto pregio, attendendosi dappertutto a suntuose opere in musica, con essersi trasferito a decorare i musici e le musichesse l'adulterato titolo di virtuosi e virtuose. Gareggiavano più delle altre fra loro le corti di Mantova e di Modena, dove i duchi Ferdinando Carlo Gonzaga e Francesco II d'Este si studiavano di tenere al loro stipendio i più accreditati cantanti e le più rinomate cantatrici, e i sonatori più cospicui di varii musicali strumenti. Invalse in questi tempi l'uso di pagare le ducento, trecento, ed anche più doble a cadauno de' più melodiosi attori ne' teatri, oltre al dispendio grande dell'orchestra, del vestiario, delle scene, delle illuminazioni. Spezialmente Venezia colla suntuosità delle sue opere in musica e con altri divertimenti tirava a [85] sè nel carnevale un incredibil numero di gente straniera, tutta vogliosa di piaceri e disposta allo spendere. Roma stessa, essendo cessato il rigido contegno di papa Innocenzo XI, cominciò ad assaporare i pubblici solazzi, ne' quali nondimeno mai non mancò la modestia; e videsi poscia Pippo Acciaiuoli, nobile cavaliere, con tanto ingegno architettar invenzioni di macchine in un privato teatro, che si trassero dietro l'ammirazione d'ognuno, e meritavano ben di passare alla memoria de' posteri. Ma eccoti la guerra, gran flagello de' poveri mortali, che viene a sconvolgere la quiete della Italia e i suoi passatempi. Gran tempo era che il giovane duca di Savoia Vittorio Amedeo II, principe che in vivacità di mente non avea forse chi andasse al pari con lui, non sapea digerire il dominio dei Franzesi nel forte di Barraux, e in Pinerolo (fortezza situata nel cuore de' suoi Stati e sì vicina a Torino), e in Casale di Monferrato, troppo contiguo ai medesimi suoi Stati. Spine erano queste, per le quali non pareva a lui mai di poter vivere quieto in casa propria; e però ad altro non pensava che a scuotere questa specie di schiavitù. In occasione che l'imperadore, l'imperio, la Spagna, l'Inghilterra e l'Olanda erano entrati in guerra colla Francia, anch'egli si trovava impegnato nell'armi per domare i Valdesi, con altro nome chiamati Barbetti, sudditi suoi, ma eretici. Fece per questo gran leva di gente: nel qual medesimo tempo anche il conte di Fuensalida governator di Milano era occupato in un gagliardo armamento: il che diede per tempo a temere che si volesse dar principio eziandio a qualche sconvolgimento in Piemonte. Stava perciò attentissima la corte di Francia a tutti gli andamenti del duca, e il suo ministro in Torino spiava continuamente ogni sua azione. Essendosi portato esso duca in un carneval precedente a Venezia per divertirsi, non potè scostarsi dai fianchi quel ministro; e fu poi creduto che questo principe segretamente trattasse [86] in quella città coll'elettor di Baviera e con altri principi. Aveva egli anche ottenuto dall'imperadore il titolo di re di Cipri e di altezza reale, fin qui a lui contrastato da quella corte; ed anche l'investitura di ventiquattro feudi nelle Langhe, per li quali pagò cento venti mila doble alla camera cesarea. Scoprirono inoltre i Franzesi un commercio di lettere fra esso duca e Guglielmo principe di Oranges, che sedeva sul trono della Gran Bretagna, quasichè fosse un delitto al sovrano della Savoia la corrispondenza con chi era nemico della Francia.

Poco si stette a vedere quali risoluzioni producessero questi sospetti nella corte di Parigi; perciocchè, venuta la primavera, calarono in Piemonte sedici o diciotto mila Franzesi, il comando dei quali fu dato al signor di Catinat, luogotenente generale e governator di Casale. Si cominciò allora a parlar alto col duca Vittorio Amedeo, e fu creduto che questi esibisse di starsene neutrale. Ma perciocchè il Catinat (e questo è certo) richiese per sicurezza della fede del duca di mettere presidio nella cittadella di Torino e in Verrua, una briglia sì disgustosa non si sentì voglia quel principe generoso di volerla accordare, risoluto piuttosto di sacrificar tutto che di accrescere le sue catene. S'andò egli schermendo, finchè potè, per dar tempo al conte di Fuensalida di unir le sue truppe in aiuto suo, e di conchiudere i suoi negoziati di lega con altri principi. L'abbate Vincenzo Grimani Veneziano, testa da gran maneggi, quegli principalmente fu che mosse il duca ad entrare in questo impegno, e che manipolò il restante di quegli affari; perciocchè, ad istanza dei Franzesi, fu poi proscritto dal senato veneto. Non mancarono persone che credettero stabilita molto prima d'ora l'alleanza del duca coll'imperadore, Spagna, Inghilterra ed Olanda; ma i pubblici atti presso il Du-Mont ed altri ci fan vedere la sua lega col re di Spagna sottoscritta nel dì 3 di giugno del presente anno; l'altra con [87] Cesare nel dì 4 seguente, e quella con la Gran Bretagna ed Olanda nel dì 20 di ottobre. Si obbligarono i primi di somministrar possenti aiuti di milizie al duca, e gli altri la somma di trenta mila scudi per mese. Era intanto pressato il duca dal Catinat con vive minaccie, affinchè dichiarasse le sue intenzioni; e la dichiarazion sua fu di non poter ammettere le dure condizioni proposte dal re Cristianissimo, e ch'egli intendeva di volersi difendere dalle ingiuste di lui violenze. Si proclamò dunque la guerra; uscirono manifesti; accorsero a Torino sei mila cavalli ed otto mila fanti dello Stato di Milano; l'imperadore e gli elettori di Brandeburgo e Baviera fecero marciare alcuni reggimenti in Italia al soccorso suo, e tutto si vide in armi il Piemonte. Fu dichiarato il duca generalissimo delle armi collegate, e destinato il principe Eugenio di Savoia sotto di lui al comando delle truppe imperiali. Un corpo di alquante migliaia di soldati milanesi fu inviato a ristrignere la guarnigion franzese di Casale, ch'era molto ingrossata. Seguirono varie azioni di ostilità nei mesi di giugno e luglio, che io tralascio, finchè nel dì 8 d'agosto si venne ad un fatto d'armi. Ardeva di voglia il giovine duca Vittorio Amedeo di sperimentar la sua fortuna. Trovando egli il suo campo molto superiore di numero al franzese. Non aveva egli peranche imparato che alle truppe di nuova leva, quali buona parte erano le sue, e quelle dello Stato di Milano, si può far apprendere ben facilmente l'esercizio dell'armi, ma non già il coraggio. Perciocchè l'accorto Catinat avea risoluto o fatto finta di voler sorprendere Saluzzo, si mosse a quella volta anche il duca di Savoia con tutto l'esercito, e, passato il Po, trovò che il Catinat si ritirava; quando ecco, disposto un aguato di genti e di artiglierie franzesi presso la badia della Staffarda in certi paduli, diede un sì strano saluto alla vanguardia, oppure all'ala sinistra del duca, che la disordinò. Avanzatosi dipoi Catinat colla [88] cavalleria, ristringendo la nemica, che avea ai fianchi il Po, la costrinse a prender la fuga. Si combattè, ciò non ostante, per cinque o sei ore. La fanteria dello Stato di Milano attese a salvarsi; le sole truppe spagnuole e tedesche, piuttosto che cedere, salde nei loro posti, venderono ben caro le loro vite. Rimasero i Franzesi padroni del campo. Il duca Vittorio Amedeo, che non s'era mai trovato a battaglie, fece maraviglie di valore, e si ritirò poscia a Carignano con parte delle sue truppe. Circa quattro mila dei suoi rimasero estinti o annegati, e fra essi più di sessanta uffiziali; forse più di mille furono i prigioni, colla perdita di otto pezzi di cannone, di trentasei bandiere e di parte del bagaglio: se pur mai si può sapere la precisa verità delle perdite nelle giornate campali.

Le conseguenze di questa vittoria furono, che il Catinat trovò evacuato dalla guarnigion savoiarda Saluzzo, e i cittadini ne portarono a lui le chiavi. Non finì l'anno che anche la città e il castello di Susa vennero alla di lui ubbidienza. In questo mentre con altro corpo d'armata attesero i Franzesi a conquistar la Moriena e la Tarantasia. Sciamberì ancora con tutta la Savoia senza resistenza s'arrendè ai medesimi, a riserva di Monmegliano, fortezza per la sua situazione quasi inespugnabile, che restò da lì innanzi bloccata. Per questi cotanto sinistri avvenimenti era un gran dire dappertutto del duca di Savoia, censurando assaissime persone, chi per amore, chi per contrarietà di genio, la di lui condotta. Non trovavano essi prudenza nell'essersi egli imbarcato contro la formidabil potenza del re di Francia, la qual facea paura, e dava delle percosse a tutti i suoi nemici. Già parea a chi così la discorreva, di veder mendichi tutti i sudditi del duca, e lui stesso vicino ad essere spogliato di tutto il suo dominio, e ridotto colla corda al collo a chiedere quella misericordia che forse non avrebbe potuto ottenere. Lo stesso sommo pontefice, commiserando [89] il suo stato, gli esibì di trattar di pace. Ma il coraggioso principe, che ben sapea non potersi senza noviziato addestrare al mestiere dell'armi, invece di confondersi per le finora sofferte sciagure, tutto si diede a rimettere la sua armata, e ad animar le sue speranze per migliori soccorsi in avvenire. Gli giunsero infatti più di due mila Tedeschi calati dalla Germania; il Fuensalida gli spedì tosto circa quattro mila fanti; laonde in breve si trovò forte di venti mila combattenti, coi quali tornò in campagna assai vigoroso, e frastornò i maggiori progressi del Catinat. Nella dieta d'Augusta, dove si portò sul fine del presente anno l'imperador Leopoldo, fu proposta l'elezione in re dei Romani di Giuseppe re d'Ungheria, suo primogenito, ancorchè sembrasse l'età sua non peranche capace di tanta dignità. Concorsero in essa i voti degli elettori nel dì 24 di gennaio dell'anno presente, e seguì la coronazione sua con gran giubilo degli amatori dell'augusta casa di Austria. Attento sempre il pontefice Alessandro VIII a sbarbicare gli errori dalla Chiesa di Dio, procedette in questi tempi contro chiunque restava o per inavvertenza o per corrotto animo macchiato dei perversi insegnamenti di Michele Molinos. Condannò ancora in questo e nel seguente anno molte proposizioni contrarie alla sana teologia scolastica e morale, ed accrebbe la gloria della Chiesa cattolica colla canonizzazione di cinque santi. Entrò in quest'anno e prese piede la peste in Conversano e nei luoghi circonvicini; il che sparse gran terrore per tutta la Italia, e ognun si diede a precauzionarsi contra di questo formidabil nemico. Nel dì 3 d'aprile dell'anno presente Dorotea Sofia principessa di Neoburgo, che avea per sorelle un'imperadrice, una regina di Spagna ed una di Portogallo, fu sposata in Neoburgo a nome di Odoardo Farnese principe ereditario di Parma, e condotta in Italia. La magnificenza con cui il duca Ranuccio II Farnese suo padre celebrò queste nozze in Parma, [90] empiè di maraviglia chiunque ne fu spettatore, e superò l'espettazion d'ognuno; sì suntuose riuscirono le opere in musica fatte in quel gran teatro, e nel giardino della corte, sì ricche le livree, sì straordinarie le macchine, i caroselli, i balli, le illuminazioni, i conviti e il concorso dei principi e nobili forestieri. Per tante spese non s'incomodò poco quel sovrano, ma certamente fece parlare assaissimo dell'animo suo grande, benchè alcuni vi trovassero dell'eccesso.


   
Anno di Cristo MDCXCI. Indizione XIV.
Innocenzo XII papa 1.
Leopoldo imperadore 34.

Tuttochè il pontefice Alessandro VIII fosse pervenuto all'età di ottantun anni, pure il vigor della sua complessione e la vivacità della sua mente faceano sperare alla gente più lungo il suo pontificato; ma non già a lui, che spesso andava dicendo di essere vicine le ventiquattro ore, e di tenere il piede sull'orlo della fossa. Infatti sul principio dell'anno presente si affollarono i malori addosso alla sua sanità, e talmente crebbero, che nel primo di febbraio con somma esemplarità egli passò ad una vita migliore. Non s'era mai stancato il suo zelo in addietro per ridurre i prelati di Francia a ritrattar le quattro proposizioni da lor pubblicate in pregiudizio dell'autorità della santa Sede, ma senza mai poter vincere la pugna. Il cardinal Fussano di Fourbin, chiamato anche di Giansone, uomo di mirabil attività e destrezza, l'avea fin qui trattenuto con belle parole e proposte di poco soddisfacenti ripieghi. Ora il santo padre, veggendosi vicino a comparire al tribunale di Dio, non volle lasciar indecisa quella controversia; e però condannò le proposizioni suddette, confermando una bolla già preparata fin sotto il dì 4 d'agosto dell'anno precedente. Inoltre un giorno prima della sua morte scrisse su questo affare un amorevole paterno breve al re Cristianissimo. [91] Nel dì 11 del suddetto febbraio si chiusero nel conclave i cardinali. Grandi ed eccessivamente lunghi furono i dibattimenti loro per l'elezione del novello pontefice, essendo spezialmente stato sul tappeto il cardinale Gregorio Barbarigo, vescovo di Padova, uomo di santa vita, desiderato dai zelanti, ma rigettato dai politici. Stanchi ormai di sì prolisso combattimento, e spronati da caldo estivo, che più si fa sentire nelle camerette di quella sacra prigione, concorsero finalmente i porporati nell'elezione d'uno de' più degni soggetti del sacro collegio, cioè nella persona del cardinale Antonio Pignatelli, patrizio napoletano, ed arcivescovo di Napoli, che s'era segnalato in varie nunziature, e mastro della camera apostolica avea raffinate le sue virtù sotto la disciplina del santo papa Innocenzo XI. Seguì la di lui elezione nel dì 12 di luglio, e fu da lui preso il nome d'Innocenzo XII in venerazion dell'insigne pontefice che l'avea promosso alla porpora nel 1681. Sì nota era la sua probità e saviezza, che ognun si promise da lui un ottimo pontificato, e niuno in ciò s'ingannò. L'età sua passava i settantasei anni; personaggio d'ottima volontà, desinteressato, dotato di dolci ed amabili maniere, pieno di carità verso i poveri, e di un costante zelo per ben della Chiesa. Nel dì 15 dello stesso luglio fu solennizzata la di lui coronazione; e quantunque trovasse esausto l'erario della camera papale, pure non tardò ad inviare quanti soccorsi mai potè al re di Polonia e alla repubblica di Venezia per la guerra che tuttavia durava contra dei Turchi. Con occhio paterno ancora rimirò le miserie di que' popoli del regno di Napoli, contra dei quali inferociva la peste, e sopra d'essi diffuse le rugiade dell'incessante sua carità. In una parola, tosto comparve aver Dio eletto colla voce degli uomini un pastore che nulla cercava per sè, nulla voleva per li suoi parenti, e solamente i suoi pensieri e desiderii impiegava a far del bene alla sua greggia.

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Nulla ebbe in quest'anno da rallegrarsi la veneta repubblica delle sue armi in Levante, anzi ebbe di che attristarsi. Era stato eletto capitan generale delle sue armate Domenico Mocenigo, che sciolse le vele de Venezia con un convoglio numeroso di milizie e provvisioni da guerra. Ma più forti di lui si trovarono poscia i Turchi, e questi risoluti di riacquistar le fortezze di Canina e Vallona. Vennero in fatti quegl'infedeli all'assedio d'esse per terra. Da che fu creduto che non si potessero sostenere, furono minate le fortificazioni di Canina, tirato il presidio colle artiglierie e munizioni nelle preparate navi. Scoppiarono le mine e fornelli, riducendo quel luogo in un mucchio di pietre. La medesima determinazione fu presa ed eseguita per la Vallona, che tutta andò sossopra; sicchè i Turchi non acquistarono che due deserti. Arrivò bensì in soccorso dei Veneziani la squadra di otto galee maltesi con mille bravi fanti da sbarco, ma non già la pontifizia, ritenuta per la succeduta morte del papa. Nulla di più operarono dipoi i Veneziani; scorsero l'Arcipelago con desiderio di affrontarsi colla nemica flotta, senza nondimeno trovare un'egual voglia in quegl'infedeli. Cagion fu questo infelice andamento di cose che la repubblica sospirasse più che mai la pace; e di essa appunto si esibì in questi tempi di trattarne l'ambasciatore d'Inghilterra alla Porta. Maggior prosperità goderono l'armate cesaree in Ungheria. Aprì la campagna il principe Luigi di Baden con forte esercito, come fu fama, di quasi sessanta mila combattenti, la maggior parte Tedeschi veterani. Superiore contuttociò di numero era il turchesco, condotto da Mustafà primo visire, glorioso per avere ricuperata la Servia con Belgrado. Sapeva costui il mestier della guerra, ed ora con gagliardi trincieramenti deludeva l'ardor dei cristiani per una battaglia; ora, dando loro delle spetezzate sì nell'offesa che nella difesa, si faceva conoscere gran capitano. Non mancavano a lui ingegneri [93] franzesi. Ridusse egli a Salankemen presso il Danubio talmente in ristretto il principe di Baden, che per mancanza di viveri si vide questi col consiglio degli altri generali costretto a tentare una battaglia, benchè con grande svantaggio, perchè s'ebbe ad assalire l'oste nemica ne' suoi trincieramenti. Il dì 18 d'agosto fu scelto per quella terribil danza. Se l'ardire dei cristiani si mostrò incomparabile nell'assalto, minore non comparve quel dei giannizzeri e spahì, che, usciti delle trincee colla sciabla alla mano fecero rinculare l'ala destra dei Tedeschi, e poco mancò che non la mettessero in rotta. Accorso con alcune truppe fresche il Baden, sostenne l'empito dei musulmani, finchè riuscì all'ala sinistra di entrare in battaglia, di superar dal canto suo le trincee, e di cominciare un orrido macello dei nemici, che sconfitti cercarono lo scampo colla fuga. La vittoria fu completa coll'acquisto di cinquanta cannoni di bronzo, delle tende e della cassa di guerra. Perì lo stesso primo visire nel conflitto insieme coll'Agà dei Gianizzeri, e con molti bassà; e la fama, ingranditrice di sì fatti successi, fece ascendere il numero degli uccisi sino a diciotto mila, oltre alla gran copia de' feriti. Non aveano da gran tempo combattuto i Turchi con tanta bravura; e però dichiarossi ben la vittoria in favor de' cristiani, ma fu da essi comperata collo spargimento di gran sangue, essendovene restati uccisi da quattro mila, ed altrettanti feriti, colla perdita di molti insigni uffiziali. Di grandi allegrezze si fecero in tutta l'Italia, e massimamente in Roma, per così gloriosa vittoria. Tuttavia restò sì indebolita l'armata cesarea, che niun vantaggioso avvenimento le tenne dietro, fuorchè quello della città di Lippa, che fu presa dal generale Veterani; poichè pel gran Varadino, assediato dal Baden, furono ben presi i due primi recinti di quella città, ma l'ostinata resistenza del terzo rendè inutili tutti gli altri di lui sforzi per impadronirsene, e convenne battere la ritirata. Perchè Belgrado si [94] trovava troppo ben guernito di gente e di munizioni, troppo pericolosa impresa fu creduto il tentarne l'acquisto.

Continuò in quest'anno ancora la guerra del Piemonte. Il principe Eugenio di Savoia con grosso corpo di gente tenea in dovere la guernigion di Casale, che facea di tanto in tanto delle sortite; e in più riscontri vi perirono da cinquecento Franzesi. Intanto il Monferrato era malmenato da' Tedeschi, con gravi doglianze di Ferdinando Carlo duca di Mantova a tutte le corti. E perchè era creduto questo principe di cuor franzese, e fece anche leva di alquante milizie, cominciò la corte di Vienna a pretendere ch'egli licenziasse da Mantova l'inviato del re Cristianissimo; con che imbrogliarono forte i di lui affari. Le prodezze dei Franzesi contro il duca di Savoia nell'anno presente consisterono in ridurre alla loro ubbidienza la città di Nizza col suo castello, e il forte di Montalbano e Villafranca, luoghi posti sulla riva del Mediterraneo. Ciò avvenne nel mese di marzo e sul principio di aprile. Inoltre verso il fine di maggio il Catinat s'impadronì d'Avigliana, distante da Torino non più di dieci miglia, e ne restò prigioniera la guernigione. Prese anche Rivoli, e, passato di là all'assedio di Carmagnola, nel dì 9 di giugno quel presidio forte di due mila persone gli rilasciò la piazza con ritirarsi a Torino. Non potea il duca Vittorio Amedeo impedir questi progressi de' Franzesi, perchè inferiore di forze. Passarono baldanzosi essi Franzesi anche sotto Cuneo, e il signor di Feuquieres governatore di Pinerolo, che comandava quell'assedio, in diecissette giorni di trinciera aperta, non ostante la gran difesa di quel presidio e de' terrazzani, s'inoltrò sì avanti con gli approcci, che sperava in breve di far cadere quella città. Avendo egli dipoi dovuto passare a mutar la guernigion di Casale, restò la direzion dell'assedio al signor di Bullonde. Mossosi in questo tempo il principe Eugenio con quattro [95] mila cavalli per dar soccorso alla quasi agonizzante piazza, il Bullonde atterrito precipitosamente levò il campo, lasciando anche indietro un cannone, tre mortari, e gran provvision di bombe, polve ed altri attrezzi di guerra, siccome ancora di pane e farine, oltre a molti uffiziali e trecento soldati malati o feriti, che erano nel convento de' minori riformati. Cagion fu questa ritirata ch'egli processato fece dipoi una lunga penitenza in prigione. Per li precedenti acquisti, e perchè i Franzesi trattavano con crudeltà il paese, era entrato il terrore fino in Torino; laonde la duchessa credette meglio di ritirarsi a Vercelli. Ma dopo la liberazion di Cuneo si rinvigorì il coraggio dei Piemontesi, e incomparabilmente più, perchè otto mila Tedeschi, cioè parte dei soccorsi che si aspettavano dalla Germania, sul principio d'agosto pervennero a Torino: con che trovossi il duca in istato di campeggiare contro i nemici. Poscia nel dì 19 d'esso mese l'elettore duca di Baviera in persona con altre milizie sì di fanteria che di cavalleria accrebbe il giubilo di quella corte e città, dove entrò accolto con sommo onore. Ascesero questi soccorsi almeno a quindici mila bravi combattenti, che diedero molto da pensare al Catinat. Anche Guglielmo re di Inghilterra, ossia principe d'Oranges, avea inviato il duca di Sciomberg, valoroso signore, perchè servisse di generale al duca di Savoia. Accresciute in questa maniera le forze de' collegati, nel dì 26 di settembre la loro armata passò il Po, e il principe Eugenio fu spedito con mille e cinquecento cavalli ad investire Carmagnola, dove poi comparve anche l'esercito intero. Continuò l'assedio sino al dì 7 d'ottobre, in cui i Franzesi capitolarono la resa, con patto di andarsene liberi colle lor armi e bagaglio. Ma perchè nell'aver essi nel precedente giugno, allorchè presero la medesima Carmagnola, contravvenuto ai patti, con avere spogliati i Valdesi che v'erano di presidio, loro fu renduta la pariglia in tal [96] congiuntura. Tolsero i Valdesi l'armi e parte del bagaglio a quella truppa, e i Tedeschi per non essere da meno, li spogliarono del resto. Ricuperò ancora l'esercito collegato Avigliana e Rivoli. Intanto il Catinat abbandonò Saluzzo, Savigliano e Fossano; e perciocchè restava tuttavia contumace nella Savoia la fortezza di Monmegliano, e volevano i Franzesi levarsi quella spina dal piede, nella notte precedente al dì 18 di novembre aprirono la trincea sotto quella piazza, che fu bravamente difesa, per quanto mai si potè, da quel governatore marchese di Bagnasco. Le artiglierie, le bombe e le mine con tal frequenza e vigore tempestarono quelle mura, case e bastioni, che nel dì 20 di dicembre con molto onorevoli condizioni convenne capitolarne la resa.

Un'altra scena sul principio di novembre accaduta nel Monferrato diede molto da discorrere ai curiosi politici. Fin qui avea tenuto Ferdinando Carlo Gonzaga duca di Mantova nella città di Casale un governatore con guernigione, restando i Franzesi padroni della cittadella. All'improvviso il marchese di Crenant, governatore d'essa cittadella, nel dì 7 del mese suddetto, chiamato a desinar seco il marchese Fassati governatore della città, il ritenne prigione, imputandogli di aver tramato col generale cesareo Antonio Caraffa di dare ai Tedeschi l'entrata in quella città. Quindi s'impossessò di tutte le porte della città medesima, e disarmò il reggimento che ivi era pel duca. Non si seppe mai bene il netto di questa faccenda. Pretesero alcuni che il duca di Mantova fosse complice di quella novità; altri ch'egli non vi avesse parte, e che il solo marchese Fassati fosse il colpevole; ed altri in fine che questa fosse una soperchieria de' Franzesi, i quali non si facessero scrupolo di anteporre il proprio interesse alla buona fede, e volessero assicurarsi che il duca di Mantova loro non facesse qualche beffa. Maggiore strepito fecero ancora le [97] novità della corte imperiale contro i principi d'Italia. Giacchè i Franzesi aveano spedito di là de' monti gran parte della lor cavalleria a' quartieri, anche le milizie cesaree, mancando di sussistenza nel desolato Piemonte, si rivolsero a cercarla ne' feudi imperiali d'Italia. Al conte Antonio Caraffa, commissario generale di Cesare, data fu l'incombenza di provvedere a tutto: uomo pien di boria, di crudeltà, di puntigli; che tale si fece conoscere anche allo stesso duca di Savoia. Poco e nulla avea egli fin qui operato in favor di quel principe; gli fu ben più facile il far da bravo con gli altri sovrani d'Italia. Intimò egli dunque non solamente i quartieri, ma anche sì esorbitanti contribuzioni al gran duca di Toscana, ai Genovesi, ai Lucchesi, ai duchi di Mantova, Modena, e agli altri minori vassalli dell'imperio, che nè pur oso io di specificarne la somma, per non denigrare, a cagion di sì barbarica risoluzione, la fama del piissimo imperador Leopoldo, benchè sia da credere ch'egli non sapesse tutto, o non consentisse in tutto a sì fiera ed insolita estorsione, per cui si sviscerarono le sostanze degl'infelici popoli.

Neppure andò esente da questo flagello Ranuccio II Farnese duca di Parma, tuttochè i suoi Stati fossero feudi della Chiesa, e dovette dar quartiere a quattro mila cavalli, avendo il Caraffa fatto valere il pretesto che quel principe riconoscesse lo Stato Pallavicino, Bardi, Campiano ed altri piccioli luoghi dall'imperio. Sovvenne il buon duca di Modena Francesco II d'Este con gran sforzo del suo erario i proprii popoli, e contuttociò convenne impegnar tutte le argenterie delle chiese, e far degli enormi debiti, perchè dalle minaccie di saccheggi andavano accompagnate le domande del barbaro ministro. Certo è che il Caraffa non altre leggi consultò in questa congiuntura che quelle della forza, le quali portate all'eccesso, se riescano di gloria ai monarchi, niuno ha bisogno d'impararlo da [98] me. Infatti il nome dell'imperadore, che dianzi per le guerre e vittorie contra dei Turchi con dolcezza si memorava per tutta l'Italia, cominciò a patire un grave deliquio, altro non sentendosi che detestazioni di sì ingiusto e smoderato rigore; e dolendosi ognuno che il sangue dei poveri Italiani avesse anche da servire, trasportato in parte a Vienna, a far guerra in Germania, e a satollar que' ministri. E però il buon pontefice Innocenzo XII, commiserando l'afflizione di tanti popoli, più che mai si accese di premura, per condurre alla pace le guerreggianti potenze, e spedì calde lettere, e propose un congresso; ma senza che si trovasse per ora spediente alcuno alle correnti miserie. Esibì anche il re di Francia, a cui pesava forte la guerra d'Italia, come troppo dispendiosa, delle plausibili condizioni di pace, che non piacquero, e furono rigettate. Invece del conte di Fuensalida, che fu richiamato in Ispagna per le istanze del duca di Savoia, e portò seco le imprecazioni de' popoli dello Stato di Milano, venne al governo di quella provincia don Diego Filippo di Guzman marchese di Leganes, cavaliere che per essere di un tratto amorevole e manieroso, fu ricevuto con molto applauso. Si conchiuse in quest'anno il maritaggio della principessa Anna Luigia de' Medici, figlia di Cosimo III gran duca di Toscana, con Giovan-Guglielmo conte palatino del Reno, ed elettore. Nel dì 29 d'aprile in Firenze a nome d'esso elettore la sposò il gran principe Ferdinando suo fratello, e da lì a pochi dì seguì la sua partenza per Lamagna. Anche il duca di Baviera, perchè dichiarato governator della Fiandra, s'inviò a quella volta dall'Italia.


   
Anno di Cristo MDCXCII. Indizione XV.
Innocenzo XII papa 2.
Leopoldo imperadore 35.

Tanto seppe adoperarsi l'industrioso cardinale di Fourbin, appellato anche di Giansone, che a forza di gloriose promesse [99] indusse il pontefice Innocenzo XII nell'anno presente ad accordar le bolle ad alquanti novelli vescovi del regno di Francia. Moltissime di quelle chiese da gran tempo erano vacanti, e all'ottimo pontefice troppo dispiaceva il veder tante greggie sì lungamente prive di pastore. Questa sua indulgenza fu mal intesa da alcuni, perchè non si tirò dietro alcuna soddisfazione della corte di Francia alla santa Sede; ma non lasciò d'essere lodata dai saggi. Avea desiderato il santo pontefice Innocenzo XI, tutto pieno di belle idee, di tramandare a' successori pontefici l'abborrimento da lui stesso professato al nipotismo, sul riflesso di tanti disordini provenuti in addietro dal soverchio amore de' papi ai proprii parenti. Fu anche voce costante che avesse stesa una bolla in questo proposito, ma che incontrasse delle difficoltà a sottoscriverla in alcuni cardinali, che aveano profittato in addietro di questa prodigalità, quasichè un processo anche contra di loro stessi fosse il solo provvedervi per l'avvenire. Comunque sia, il buon Innocenzo XII, degno allievo dell'XI, seriamente sempre vi pensò, e col proprio esempio preparò gli animi d'ognuno a così santa e lodevol riforma. Il bello fu che non pochi maligni politici d'allora spacciavano per una semplice velleità quest'invenzione del papa, anzi s'aspettavano ogni dì che anch'egli, a guisa di Alessandro VII, soccombesse in fine alla tentazione, e lasciasse comparir trionfanti sui sette colli i suoi nipoti. Ma era troppo ben radicato il vero pastorale e principesco zelo in questo insigne vicario di Cristo; e però, dopo aver ben preso le sue misure, e fatta sottoscrivere da tutti i cardinali la bolla con cui si vietava da lì innanzi ogni eccesso in favor de' nipoti pontificii, la pubblicò nel dì 28 di giugno dell'anno presente, con obbligar tutti i porporati presenti e futuri all'esecuzione di essa, e a ratificarla con giuramento nei conclavi, ed ogni eletto pontefice a giurarla di nuovo. Dì consenso ancora, o [100] pure d'ordine d'esso santo padre, fu impiegata la felice pena di Celestino Sfondrati abbate di San Gallo, che poi venne promosso alla sacra porpora, in esporre i mali effetti del nepotismo: il che egli animosamente eseguì, con tessere la serie di tutti quei papi che non si erano guardati dall'eccessivo e sregolato affetto verso del proprio sangue; tutte a mio credere, incontrastabili giustificazioni della libertà che ho giudicato competere anche a me, per non tacere in questi Annali un disordine che mai più da lì innanzi non ha conosciuto nè deplorato la santa Sede, e chiunque lei ama e riverisce. Per questa nobil risoluzione non si può dire quanto plauso e credito si acquistasse il pontefice Innocenzo XII presso i cattolici tutti, e fin presso i protestanti medesimi.

Venne in quest'anno a Roma, a Venezia, a Genova e agli altri principi d'Italia spedito dal re Cristianissimo il conte di Rabenac, con commissione di sollecitare ognuno ad unirsi contro l'imperadore, ch'egli rappresentava come oppressore dell'Italia colle smisurate contribuzioni e coi gravosi quartieri, dei quali abbiam favellato. Ma ebbe un bel dire; grande impegno era la tuttavia ardente guerra col Turco; troppo gagliarde in queste parti le forze cesaree, e però altro non riportò che ringraziamenti ai suoi generosi consigli. Non lasciarono il papa e i Maltesi di spedire anche per la presente campagna le squadre delle lor galee in rinforzo de' Veneziani. Desiderosi questi di qualche segnalata impresa, andarono all'assedio della Canea, città forte dell'isola di Candia, e nel dì 17 di luglio, fatto lo sbarco, diedero principio alle offese, e il capitan generale Domenico Mocenigo prese le migliori disposizioni per effettuare il disegno. Ciò non ostante, sì vigorose furono le sortite dei Turchi, sì ostinata la difesa, sì fortunati i soccorsi inviati dal saraschiere all'assediata città, che dopo molto spargimento di sangue convenne levare l'assedio; e tanto [101] più perchè il saraschiere, avendo passato lo Stretto, minacciava la Morea. Fu in fatti assediata da' Musulmani la città di Lepanto, ma ne furono essi anche respinti. Niun'altra azione di vaglia si fece dipoi. Intanto il generale cesareo Heisler ebbe ordine di mettere il campo al Gran Varadino, città e fortezza di molta importanza nella Transilvania sulle frontiere dell'Ungheria. Gran tempo e sangue si spese per arrivarne all'acquisto. Ma finalmente, nel dì 3 di giugno si videro forzati i Turchi a rendersi a buoni patti, e nel dì 5, festa solenne del Corpo del Signore, quivi s'inalberò la croce con giubilo inesplicabile degli amatori della religion cattolica. Gran festa ne fu fatta in Roma e per tutta l'Italia. Nè pur ivi altra maggiore impresa si fece nell'anno presente.

Per conto della guerra del Piemonte, dacchè fu richiamato in Germania il general Caraffa, che avea trovata la maniera di farsi pel suo orgoglio, e più per la sua crudeltà, odiar da tutti in Italia, fu spedito al comando delle truppe cesaree il maresciallo Caprara Bolognese, uomo di gran credito per tante sue belle militari azioni. S'infermò egli in Verona, nè potè prima del dì 13 di luglio arrivare a Torino. Tenutosi consiglio da tutti i generali, giacchè non fu gradito d'imprendere l'assedio di Pinerolo, fu risoluto di penetrare nel Delfinato con dieci mila cavalli e sedici mila fanti, lusingandosi i collegati di veder le migliaia di ugonotti, che, cavatasi la maschera, si unissero all'esercito loro. Scomunicate erano le strade per li dirupi delle montagne: pure la speranza di arricchir tutti coll'ideato bottino metteva l'ali ai piedi d'ognuno. I generali erano lo stesso duca di Savoia, il marchese di Leganes, il maresciallo Caprara e il principe Eugenio. Presero Guilestre sulle prime, e quindi con assedio obbligarono la poco forte città d'Ambrum a presentar loro le chiavi. Quella eziandio di Gap senza fatica venne alla loro ubbidienza, e fu poi barbaramente [102] saccheggiata, ed anche data alle fiamme; crudeltà usata dai Tedeschi per dovunque passarono. Vi fu chi credette che se fosse proceduta innanzi quest'armata, Granoble e Lione avrebbero aperte le porte. Ma caduto infermo di vaiuolo il duca Vittorio Amedeo, ed avendo il Caprara e il Leganes ordini segreti di risparmiar le truppe, all'udire che accorrevano da ogni parte Franzesi, ad altro non si pensò che a ritornarsene indietro. Per varie strade ripassò quell'armata. L'infermo duca, portato come in un letto entro agiata seggetta, giunse a Cuneo, seco avendo la duchessa consorte, che, al primo avviso del suo male, coi medici avea valicato quelle aspre montagne. Non prima del dì 4 d'ottobre giunse a Torino, e quindi in villa, dove si convertì il suo malore in quartana doppia, che divenne poi continua, di modo che più volte si dubitò di sua vita. Verso la metà di novembre ricuperò egli la sanità primiera. Ed ecco dove andò a terminare questa che ognun si credea dovesse riuscire molto strepitosa campagna. Ma se pochi allori colsero allora i Tedeschi nel Delfinato, riuscì ben più felice la guerra da loro portata di nuovo ai paesi dei principi d'Italia, che soggiacquero anche nel seguente verno ad orride contribuzioni e quartieri intimati dal conte Prainer, degno delegato del tanto abborrito in Italia conte Caraffa, che poi nel seguente anno fu chiamato da Dio a render conto del suo incredibile orgoglio, e dell'aver riposta la sua gloria nell'assassinar gl'Italiani coll'esorbitanza delle contribuzioni. Continuò similmente il Prainer quei barbarici trattamenti, per li quali convien confessare che allora troppo divenne esosa in Italia la nazione tedesca; e fin lo stesso duca di Savoia ne fece amare doglianze alla corte di Vienna, dolendosi che quegli aiuti avessero servito, non già a migliorare gl'interessi suoi, ma solamente ad arricchirsi con ispogliare nemici ed amici, e a rendere anche lo stesso duca odioso agl'Italiani, come autore di questa guerra in Italia.

[103]

Era succeduta un tempo innanzi una ribellione del popolo di Castiglione delle Stiviere contra del principe loro signore Ferdinando Gonzaga; e questa in occasion delle imposte da lui messe in congiuntura delle contribuzioni tedesche. Saccheggiarono coloro il di lui palazzo; e s'egli non avesse avuta la fortuna di salvarsi colla principessa moglie nella rocca, non perdonavano alla sua vita. Ricorso egli al conte Caraffa, ricevè delle truppe; furono puniti i capi della ribellione; ed egli riassunse il comando. Ma essendo ricorsi a Vienna i suoi sudditi, con rappresentare nata la lor sollevazione da altri insoffribili aggravii loro imposti dal principe a cagion della moglie di casa Pico della Mirandola, affinchè ella si potesse divertire nei carnevali di Venezia, venne ordine al generale Palfi di arrestare il principe e la principessa, e si diede principio ai processi che non ebbero mai più fine. Si trattò più volte di rimettere quel principe nel suo dominio; ma perchè protestava il popolo (tanto era il suo odio) di voler piuttosto prendersi un volontario esilio, che di tornar sotto il di lui abborrito giogo, restò sempre incagliato l'affare, e resta tuttavia, dimorando oggidì in Ispagna i principi di lui figli, sovvenuti dalla generosità di quella real corte. Fu creduto che Ferdinando Carlo Gonzaga duca di Mantova soffiasse in quell'incendio; ma questo sovrano ricevette anche egli nel presente anno un man-rovescio dalla politica spagnuola. Già dicemmo occupata da lui la città di Guastalla sul Po per le mendicate ragioni della duchessa sua consorte, figlia dell'ultimo duca di Guastalla, quando per le investiture cesaree era chiamato a quel feudo il cugino d'esso defunto duca, cioè don Vincenzo Gonzaga, il quale a nome del re di Spagna avea governata la Sicilia. Assistito egli dalle milizie spagnuole e tedesche, improvvisamente fu messo in possesso di Guastalla; e datosi quindi a pretendere dal duca di Mantova le rendite indebitamente percette per tanti anni addietro, [104] col tempo ottenne che gli fossero assegnate le due terre di Luzzara e Reggiuolo coi lor fertili territorii. Così portava la giustizia; ma in cuore del duca di Mantova restò tanta amarezza, che nei tempi susseguenti, siccome vedremo, prese risoluzioni tali, che il trassero all'ultimo precipizio. Era già pervenuto all'anno trentesimo terzo di sua età Francesco II d'Este duca di Modena, senza che avesse peranche presa la risoluzion di accasarsi. Fu creduto alieno dalle nozze, perchè bene spesso languente per la sua debole complessione, e molto più per la podagra e chiragra, sue familiari compagne. La verità nondimeno è, che il principe Cesare d'Este, da cui era aiutato, ed anche più del dovere, al governo, gli sturbò tutti i trattati di maritaggio, per timore di scapitare nella sua privanza. Ma finalmente sposò egli nel dì 14 di luglio del presente anno la principessa Margherita Farnese, figlia di Ranuccio II duca di Parma, che condotta a Sassuolo fece poi la sua solenne entrata in Modena nel dì 9 di novembre.

Intanto commosso da tenerezza il cuore del pontefice Innocenzo XII al mirare lo stato lagrimevole dell'Italia per l'ostinata guerra del Piemonte, e gli oppressi e divorati popoli dalle smoderate contribuzioni e violenze di chi mostrava di essere calato di Germania per difendere dai Franzesi la libertà di queste provincie, raddoppiò le sue premure e i suoi uffizii per tutte le corti cattoliche a fin di promuovere la pace. Ma inutili furono anche per ora le sante sue intenzioni, e solamente ebbero effetto quelle che da lui solo dipendevano pel buon regolamento e vantaggio di Roma e della sacra sua corte. Con sua bolla soppresse varie giudicature straordinarie che si esercitavano per privilegio, e servivano a prolungar le liti e le sofisticherie con gravissimo danno di chi avea da litigare, rimettendo tutte le cause ai consueti giudici ordinarii. Giacchè più non serviva d'abitazione ai romani pontefici il vasto palazzo del Laterano, determinò il santo padre di farne [105] miglior uso con formarne un ospizio ai poveri invalidi, e pensò tosto a provvederlo di rendite convenienti al bisogno. Sua intenzione sulle prime fu di raccoglier ivi tutti gli storpii, ciechi ed inabili a lavorare, e di levar da Roma la molestia di tanti mendicanti oziosi, che ristretti potrebbero in buona parte guadagnarsi il pane in qualche lavoro. Ma col tempo si mutò questa idea, e lasciate le sole donne in quel palazzo, si provvide ai maschi poveri nell'insigne ospizio di Ripa, siccome accennerò a suo tempo. Con la bolla poi pubblicata nel dì 20 di maggio dell'anno seguente confermò il suddetto ospizio lateranense, e i fondi e proventi assegnati pel mantenimento di esso. Conoscendo ancora qual profitto potrebbe provenire dal porto di Cività Vecchia, se vi si stabilisse un buon commercio con varii privilegii, con fabbriche di case e magazzini, e col concorso di negozianti, si applicò a questa impresa, e diede gli ordini opportuni, acciocchè si purgassero ed accrescessero gli acquedotti, e si formassero nuove fabbriche. Fece anche alzare nella basilica Vaticana un magnifico mausoleo alla santa memoria d'Innocenzo XI suo benefattore, e preparare il proprio sepolcro, ma con poca spesa, col non volere in esso altra inscrizione che il semplice suo nome. In somma era nato questo sempre memorando pontefice per cose grandi, e dimentico di sè stesso e de' suoi, altro non avea in mente che il pubblico bene.


   
Anno di Cristo MDCXCIII. Indizione I.
Innocenzo XII papa 3.
Leopoldo imperadore 36.

Per quanti passi e dibattimenti si fossero fatti fin qui, per comporre le differenze che passavano fra la corte di Roma e di Parigi a cagion delle proposizioni adottate dai vescovi di Francia in pregiudizio dell'autorità della santa Sede, nulla s'era potuto ottenere che soddisfacesse al sommo pontefice. Finalmente [106] nel presente anno d'ordine del re Luigi XIV scrissero que' prelati a papa Innocenzo XII una lettera piena di sommessione, in cui disapprovarono gl'insegnamenti suddetti; e però giacchè non s'era potuto ottenere di più, fu creduto meglio di rimettere l'armonia primiera, e di conferire il resto delle chiese vacanti nel regno di Francia. Avea nell'anno precedente l'indefesso santo Padre cominciata un'altra gloriosa impresa e le diede il pieno suo compimento nel presente. Da gran tempo per varie necessità della santa Sede s'era introdotto il vendere alcuni non ecclesiastici uffizii della curia romana, e spezialmente i posti di auditore e tesorier della camera, e de' cherici d'essa camera. Andava ben alto il loro prezzo, perchè grandi ancora n'erano i proventi. Se alcuno de' prelati compratori d'essi uffizii veniva promosso al cardinalato, restavano vacanti quegli uffizii, e si vendevano ad altri. Intorno a questi vacabili v'ha un trattato del famoso cardinale de Luca nel tomo ultimo delle sue opere. Non si potea trattener la gente maligna dall'aguzzar le lingue contra di questo costume, quasichè fosse stata questa invenzione per vendere la sacra porpora sotto colore palliato a chi potea spendere; e quantunque non si promovessero per lo più se non persone degne, prese dai posti suddetti, pure sembrava aperto l'adito anche agl'immeritevoli, purchè danarosi, di conseguire le prime dignità. Volle ancor qui l'ammirabil pontefice chiudere la bocca agli amatori della maldicenza; e però nel dì 23 d'ottobre del precedente anno suppresse le venalità dei suddetti uffizii ed avendo procurato a lieve frutto più d'un milione di scudi, restituì ai compratori tutto il danaro da essi speso in acquistarli. Ora nell'anno presente a dì 3 di febbraio pubblicò un'altra bolla, con cui ordinò che da lì innanzi gli uffizii e luoghi di monti vacabili per la promozione alla sacra porpora non si perdessero, ma o si rassegnassero o se ne continuasse [107] a tirare il frutto, di maniera che niun vantaggio risultasse alla camera apostolica dall'esaltazione di que' prelati. In pro nondimeno della stessa camera ritornò il risparmio di molte propine che dianzi godeano i prefati compratori. Immensa fu la lode che riportò per queste segnalate azioni l'ottimo pontefice, il quale in benefizio d'essa camera avea dianzi tagliate le penne anche al grado dei vice cancellieri della Chiesa romana; e poscia ancora minorò il lucro de' cardinali vicarii, e finalmente soppresse la legazion d'Avignone, applicandone i proventi alla camera apostolica.

Poichè sembrava che la fortuna non andasse d'accordo col capitan generale de' Veneziani Domenico Mocenigo, fu egli destinato pretore a Vicenza. Trattossi dipoi nel maggior consiglio per eleggere a sì riguardevol impiego altro personaggio, ed i più concorsero nello stesso doge Francesco Morosino, già stato capitano generale, e glorioso conquistatore della Morea. Si scusò egli colla sua avanzata età d'anni settantaquattro; ma rinforzate le preghiere, si trovò in fine risoluto a sacrificare il resto de' suoi giorni in servigio della patria. Di grandi preparamenti si fecero per la di lui partenza, e passò egli in Levante; ma gran tempo impiegò nel viaggio, e spese il resto in varie disposizioni per assalir Negroponte nell'anno venturo, quando sul fine dell'anno, trovandosi a Napoli di Romania, fu colto da mortale infermità, che dì 6 del seguente gennaio mise fine ai suoi giorni e a tutte le sue gradezze umane. Riuscì in quest'anno al generale cesareo Heisler di conquistare la fortezza di Gena nell'Ungheria superiore verso le frontiere della Transilvania; dopo di che il general supremo duca di Croy, avendo fatto credere al saraschiere con lettera finta di voler imprendere l'assedio di Temiswar, all'improvviso si portò a cignere di gente Belgrado. Più di quel che credeva trovò i Turchi disposti a vendere care le lor vite, ed inoltre si udì [108] venire a gran passi il primo visire col Cam de' Tartari, per tentare il soccorso; laonde, dopo avere perduto in un mese sotto quella città da due mila soldati, parve di più spediente lo sciogliere quell'assedio e ritirarsi. Facevasi intanto guerra da' Franzesi in Fiandra, al Reno, in mare e in Catalogna con felicità delle lor armi, e queste riportavano palme anche in Piemonte. Il duca Vittorio Amedeo restò ancora in quest'anno aggravato da sì pericolosa malattia, che nel dì 7 di marzo gli fu ministrato il santissimo viatico. Riavuto che fu, nel dì 30 di luglio si portò a bersagliare il forte franzese appellato di Santa Brigida, che gli costò molto sangue, e nel dì 14 d'agosto finalmente si diede per vinto. Questo fu poi smantellato. Per tre giorni ancora la città di Pinerolo restò fieramente travagliata dalle bombe. Intanto rinforzato di molte nuove truppe il maresciallo di Catinat si andò accostando colla sua alla nemica armata, e trovandosi amendue a fronte, vennero nel dì 4 d'ottobre ad una fiera battaglia in vicinanza di Orbazzano. Questa riuscì favorevole ai Franzesi, in maniera che, secondo i lor conti (a' quali si dee far la sua detrazione), vi rimasero sul campo uccisi circa otto mila dei collegati, e restarono due mila d'essi prigioni, coll'acquisto di quasi cento insegne, quattro stendardi e gran copia d'artiglierie. Due mila Franzesi vi perderono la vita. Pretesero gli altri che la perdita de' Franzesi ascendesse a sei mila persone, e ad altrettanto quella de' collegati. Dall'una parte e dall'altra grande fu il numero degli uffiziali morti o feriti; ma certo è che i collegati riceverono una fiera percossa, laonde il Catinat stese largamente le contribuzioni ed anche gl'incendii in quelle parti. Restò nulladimeno anche dopo tal perdita sì forte l'esercito alleato, che i Franzesi non poterono impadronirsi, a riserva di Revel e Saluzzo, d'alcun altro luogo di conseguenza. Ora non mancò il re Cristianissimo di prevalersi di questa congiuntura [109] per insinuar di nuovo proposizioni di pace al duca di Savoia, ma nol potè peranche smuovere dal proponimento suo. Andarono poscia a' quartieri d'inverno le truppe alemanne, attendendo a scannare anche in questa vernata il paese de' principi dell'Italia, senza commiserazione a' popoli, che gridavano alle stelle per le esorbitanti estorsioni, credendo che di peggio non avrebbero fatto i Turchi nemici del nome cristiano.

Per questi flagelli funestissimo fu l'anno presente, ed anche per un altro sommamente lagrimevole spettacolo, cioè per un tremuoto nella Sicilia, le cui scosse non son già forestiere in quella per altro fortunata isola, ma senza che vi fosse memoria fra la gente d'allora di averne mai provato un sì terribile e micidiale. Cominciò nel dì 9 di gennaio a traballar la terra in Messina, e ne' susseguenti giorni andò crescendo la violenza delle scosse, talmente che atterrò in quella città gran copia delle più cospicue fabbriche, e parte ancora delle mura d'essa città, ma con poca mortalità, perchè il popolo, avvertito dal primo scotimento, si ritirò alla campagna e a dormir nelle piazze. Le relazioni che corsero allora, alterate probabilmente dallo spavento e dalla fama, portano che in altre parti della Sicilia incredibile fu il danno. Che la città di Catania, abitata da diciotto mila persone, andò tutta per terra, colla morte di sedici mila abitanti seppelliti sotto le rovine delle case. Che Siracusa ed Augusta, città riguardevoli, restarono diroccate, colla morte nella prima di quindici mila persone, e di otto mila nell'altra, in cui anche la fortezza, per un fulmine caduto nel magazzino della polve, saltò in aria. Che le città di Noto, Modica, Taormina, e molte terre e castella al numero di settantadue furono desolate, ed alcuna abissata in maniera che non ne rimane vestigio alcuno. Che più di cento mila persone vi perirono, oltre a ventimila ferite e storpie. Che in Palermo fu rovesciato il palazzo [110] del vicerè. Che la Calabria e Malta risentirono anch'esse non lieve danno. Che il monte Etna, o sia Mongibello, slargò la sua apertura sino a tre miglia di giro. Io non mi fo mallevadore di tutte queste particolarità. Certo è solamente che miserie e rovine immense toccarono alla Sicilia per sì straordinario tremuoto, e che non si possono invidiare ai Siciliani le ricche lor campagne e delizie, sottoposte di tanto in tanto al pericolo di una sì dura pensione.


   
Anno di Cristo MDCXCIV. Indizione II.
Innocenzo XII papa 4.
Leopoldo imperadore 37.

Dopo la morte del celebre Francesco Morosino fu conferita la dignità di doge di Venezia a Silvestro Valiero figlio del già doge Bertuccio. Cominciarono i Veneti quest'anno la lor campagna in Dalmazia con l'assedio di Citclut, fortezza pel sito assai considerabile, e di gran gelosia per li Turchi, perchè antemurale ad un buon tratto del loro paese. Comandava l'armi venete il provveditor generale Delfino, il quale, dopo aver sottoposto varii luoghi all'intorno, obbligò in fine il presidio turchesco a cedere la piazza, dove con giubilo de' cristiani fu ripiantata la croce. Bisogna ben credere che di molta importanza fosse quella fortezza, perchè la Porta ordinò che si facesse ogni sforzo per ricuperarla. Raunato ch'ebbe un esercito, il saraschiere ne imprese l'assedio. Fu ben ricevuto dal vigoroso presidio cristiano, e formò bensì egli le trincee, ma da più d'una sortita degli assediati furono queste rovesciate: laonde, dopo la perdita di molta gente, si vide obbligato a ritirarsi, con lasciare sul campo molti attrezzi militari. Ridussero poscia i Veneti alla loro ubbidienza un'altra ben forte rocca appellata Clobuch. Ma non passò gran tempo che i Turchi, più che mai vogliosi di torre Citclut dalle mani de' cristiani, vi tornarono sotto con oste più poderosa. Neppur [111] questa volta trovarono propizia la fortuna, e con poco lor gusto dovettero sloggiare di là. La più utile nondimeno e gloriosa impresa fatta da' Veneziani nell'anno presente, fu l'acquisto della rinomata isola di Scio. Dacchè giunsero ad unirsi colla veneta armata navale le galee pontifizie e maltesi, Antonio Zeno, dichiarato capitan generale, sciolse le vele a quella volta, e nel dì 8 di settembre vi fece lo sbarco. La città dominante di quell'isola porta lo stesso nome di Scio; intorno ad essa accampatosi l'esercito cristiano, diede principio alle offese. I vescovi latino e greco, già abitanti in quella città, n'erano usciti. Non più di otto giorni ebbero a faticar le artiglierie e le mine per prendere il castello di mare, e mettere sì fatto spavento in quegli Ottomani, che la stessa città con più di cento cannoni di bronzo e con tutti gli schiavi venne in poter de' Veneti. Che deliziosa, che fruttifera isola sia quella, e massimamente pel privilegio di produrre il mastice, è assai noto; e però di grandi allegrezze si fecero in Venezia per così vantaggiosa conquista. Nell'Ungheria troppo tardi uscirono in campagna i Tedeschi sotto il comando del maresciallo di campo conte Caprara; niuna impresa si fece degna di memoria, a riserva dell'acquisto di Giula, piazza di non lieve momento verso le frontiere della Transilvania.

Nel Piemonte le nemiche armate si andarono in quest'anno guatando di mal occhio, ma senza che alcuna d'esse si sentisse voglia di venire alle mani. Solamente fu sempre più stretto il blocco da gran tempo cominciato di Casale di Monferrato, e in quelle vicinanze tolto fu ai Franzesi il forte di San Giorgio. Venuto l'autunno, tutte le truppe tedesche si scaricarono di nuovo sui paesi de' principi italiani, con avere intimato il conte Prainer, commessario generale di Cesare, secondo il solito, insoffribili contribuzioni. A costui da lì a poco la morte anch'essa intimò di sloggiare dal mondo, e di dar [112] fine alle sue estorsioni. Tante nondimeno furono le doglianze portate alla corte di Vienna, che mosso a pietà l'Augusto Leopoldo ordinò che si sminuisse il rigore di tanti aggravii; ma non già per Ferdinando Carlo duca di Mantova, di cui si dichiaravano mal soddisfatti i Tedeschi, perchè creduto di genio franzese. Non poteano essi sofferire che dimorasse in Mantova il signor Duprè inviato del re Cristianissimo; però oppressero con aggravii i di lui sudditi, senza riguardo veruno agli ecclesiastici; e inoltre il generale cesareo conte Palfi, coll'abbate Rainoldi residente del re Cattolico, gli intimò di licenziare esso inviato franzese, e tre suoi proprii principali ministri, creduti fomentatori del di lui genio, entro il termine di quindici giorni, minacciando gravi ostilità se non ubbidiva. Ebbe il duca un bel dire, un bel gridare: gli convenne inghiottir la pillola, e congedare chi non piaceva alle corti di Vienna e di Madrid. Giacchè non potea reggere alla gotta, che passò al petto, Francesco II d'Este duca di Modena e Reggio, nel dì 6 di settembre dell'anno presente terminò la carriera del suo vivere, compianto da' sudditi suoi, perchè amorevolissimo e giusto principe, sotto di cui aveano goduto de' lieti giorni, siccome può vedersi nelle mie Antichità Estensi. Perchè non produsse alcun frutto il suo matrimonio colla principessa Margherita Farnese, a lui succedette nel governo di questo ducato il principe Rinaldo suo zio paterno, allora cardinale, che poi nell'anno seguente rinunziò la sacra porpora, ed assunse il titolo di duca. Fu parimente chiamata da Dio a miglior vita nel dì 6 di marzo Vittoria della Rovere, già moglie di Ferdinando II de Medici, gran duca di Toscana, principessa impareggiabile per le tante sue belle doti. Venne anche a morte nel dì 11 di dicembre dell'anno presente Ranuccio II Farnese duca di Parma e Piacenza, uomo de' vecchi tempi, principe di buon cuore, pio, generoso e pieno di [113] lodevoli massime, e pure più tosto temuto che amato da' sudditi suoi. Lasciò di belle memorie nella città di Parma, e nel suo ducal palazzo, e un nome degno di vivere anche ne' secoli venturi. Era premorto a lui nel dì 5 di settembre dell'anno precedente 1693 il principe Odoardo suo primogenito, soffocato, per dir così, dalla sua esorbitante grassezza; e questi dalla principessa Dorotea Sofia di Neoburgo sua consorte avea ricavato un figlio per nome Alessandro, che fu rapito dalla morte nel suddetto precedente anno. Di esso Odoardo solamente restò una principessa per nome Elisabetta, nata nel dì 25 d'ottobre del 1690, oggidì gloriosa regina di Spagna. Altri due figli viventi lasciò il duca Ranuccio II, cioè Francesco ed Antonio, il primo de' quali succedette al padre nel ducato, e nell'anno seguente con dispensa pontificia sposò la suddetta principessa Dorotea sua cognata. Funestissimo riuscì quest'anno al regno di Napoli per un furioso tremuoto, non inferiore a quel di Sicilia dell'anno precedente. Seguì nel dì 8 di settembre lo scotimento suo. Nella città di Napoli incredibil fu lo spavento, e il danno si ridusse solamente alla scompaginatura di molti palazzi, chiese, monisteri e case. Ma in terra di Lavoro alcune castella e villaggi andarono per terra. In Ariano e Avellino assaissime persone perirono, e quasi tutte le case caddero. Nella città Capoa, di Vico, Cava, e massimamente in Canosa, Conza ed altre parti, si patì gran rovina di edifizii, accompagnata dalla perdita di molte anime. Anche a quegl'infelici paesi si stese la mano misericordiosa e limosiniera del romano pontefice. Questo infortunio cagion fu che il vicerè di Napoli non potesse poi inviare quel rinforzo di genti e danari, per cui tante premure gli venivano fatte dall'armata collegata in Piemonte.

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Anno di Cristo MDCXCV. Indizione III.
Innocenzo XII papa 5.
Leopoldo imperadore 38.

Non si stancava il magnanimo papa Innocenzo XII di pensar tuttodì a sempre nuovi ed utili regolamenti per ben della Chiesa e de' suoi Stati. Aveva egli proposto di mettere freno al soverchio lusso di Roma, che, oltre all'impoverir le famiglie, portava fuori delle contrade ecclesiastiche immense somme di danaro. A questo grandioso disegno trovò egli, più di quel che pensava, delle gagliarde opposizioni, a cagion de' forestieri che capitano a Roma, e per li contrarii maneggi non men segreti che pubblici de' Franzesi, soliti a profittar della troppa bontà per non dir balordaggine degl'Italiani, i quali provveduti dalla natura di quanto può bisognare al loro nobile trattamento, invasati della novità delle mode, e più che d'altro vaghi delle manifatture oltramontane, pagano eccessivi tributi a' principi non suoi. Un'altra insigne impresa si propose il vigilantissimo pontefice, cioè la riforma di certi ordini religiosi (e non erano pochi) scaduti dall'antica lor santa disciplina, e divenuti delle lor regole poco osservanti, spezialmente del voto della povertà. Qui ancora, più che nell'altra, si scoprirono difficoltà senza fine, ripugnando chi già era ammesso in quegli ordini a mutar maniera di vivere, e ad accettar la vita comune, perchè diceano di esser sottomessi a quelle regole, non quali furono nei tempi antichi, ma colle interpretazioni ed usanze del loro secolo. Ordinò pertanto il pontefice che non s'inquietassero i già arrolati sotto quelle bandiere, ma che niuno in avvenir si ammettesse senza professare la riforma prescritta dalla congregazione deputata da sua santità, in cui fra gli altri monsignor Fabroni, che fu poi promosso alla sacra porpora, personaggio zelantissimo, ebbe la disgrazia di tirarsi addosso l'indignazione e l'odio di moltissimi [115] cappucci. Furono anche destinati per ciascun de' suddetti ordini rilassati due conventi, nei quali si facesse il noviziato e si osservasse il rigore suddetto. Il tempo fece poi conoscere che un Lodovico XIV re di Francia seppe ben introdurre la riforma nei religiosi claustrali del suo regno; ma Roma non arrivò a tanto in Italia. Patì quella città nel verno del presente anno un'inondazione del Tevere, che si stese per le campagne, col danno di non poche fabbriche e di molto bestiame, e con servire di veicolo ad una epidemia che dipoi sopraggiunse. Diede questa disgrazia al santo padre motivo di maggiormente esercitare la sua carità verso la povera gente che si rifugiò per soccorso in Roma. Inoltre, nel dì 10 di giugno un orribil tremuoto riempiè di terrore e danno il Patrimonio e i paesi circonvicini. Bagnarea andò tutta per terra con perdita di molte persone. Quasi interamente restò smantellato Celano, Orvieto, Toscanella, Acquapendente, ed altre terre e ville di quei contorni risentirono gran danno. Il lago di Bolzena, alzatosi due picche, inondò per tre miglia all'intorno il paese. Non fu men funesto un altro simile tremuoto che si sentì nella marca trivigiana nel dì 25 di febbraio. Nella sola terra d'Asolo rimasero dai fondamenti distrutte mille e cinquecento case; più di altre mille e ducento inabitabili; i templi colle lor torri diroccati; molti uomini colle lor famiglie seppelliti sotto le rovine.

Questa sciagura parve un prognostico di molte altre che nell'anno presente afflissero non poco la veneta repubblica. Per la perdita della riguardevole isola e città di Scio si era inferocita la Porta, e fin nell'anno addietro avea ammannita gran copia di legni e di gente per ricuperarla. Con questa flotta, condotta dal saraschiere, nel dì 8 di febbraio, prima che approdasse a Scio, determinò il capitan generale Antonio Zeno di misurar le sue forze; ma furono poco ben prese le misure; laonde cantarono la vittoria i Turchi, [116] e malconcie ne restarono le navi e le galee venete. Fu cagione sì sinistro colpo, ed un altro appresso, che Scio si rilasciasse alla discrezion de' musulmani con incredibil dolore de' cristiani abituati in quel delizioso paese, che tutti elessero un volontario esilio per non soggiacere alla vendetta e rabbia de' Turchi. Al capitan general Zeno, imputato di mala condotta, siccome ancora a Pietro Quirini provveditore ordinario, toccò di finire i lor giorni in carcere. Rimasero altri assoluti, ma dopo una prigionia di tre anni. Alessandro Molino venne poi creato capitan generale. Seguirono ancora ne' mesi seguenti altre lievi battaglie tanto in mare che sotto Argo, nelle quali maggior fu la perdita degl'infedeli che de' cristiani, ma senza che alcun di questi vantaggi compensasse il gravissimo danno patito per l'abbandonamento di Scio. Del pari in Ungheria si mutò la ruota della fortuna. Avea l'Augusto Leopoldo ottenuti otto mila Sassoni dall'elettore Federigo Augusto, il quale col titolo di generalissimo delle armi cesaree s'era indotto a passare in persona contro de' Turchi. Solamente ai 10 d'agosto pervenuto esso elettore al campo, quivi trovò i marescialli Caprara e Veterani, e l'altra uffizialità con cinquanta mila guerrieri alemanni, oltre ad alcune migliaia di milizie unghere. Avrebbe ognun creduto che con sì fiorito esercito avessero i cristiani a far prodigii in quelle parti. Trovarono essi lo stesso gran signore Mustafà venuto in persona a dar calore alla poderosa sua armata, con cui sperava anch'egli di operar gran cose. In poche parole, i Turchi occuparono Lippa, e la smantellarono. Poco tempo ancora spesero ad impadronirsi della forte piazza di Titul; e trovato il suddetto conte Federico Veterani maresciallo, staccato con sette mila bravi Tedeschi dal grosso dell'esercito per coprire la Transilvania, l'andarono ad assalir con tutte le lor forze, e v'era in persona lo stesso Sultano. La difesa che fece questo valoroso comandante per più ore contro quel torrente d'armati, [117] fu delle più gloriose che mai si udissero, e costò la vita a più di quattro mila Turchi. Sopraffatto in fine dall'esorbitante superiorità de' nemici il prode generale, con buona ordinanza si ritirò; ma coprendo in persona la retroguardia, riportò varie ferite; e perchè condotto via s'incagliò in una palude il cavallo, in cui era sostenuto, quivi restò poi trucidato dai musulmani. Anche Lugos e Caransebes caddero in mano di quegl'infedeli: con che nell'anno presente ebbe fine la sventurata campagna degl'imperiali in Ungheria.

Osservavasi oramai in Italia una più che mai prossima disposizione e risolutezza di Vittorio Amedeo duca di Savoia, del marchese di Leganes governatore di Milano, e de' comandanti cesarei, per cacciar da Casale di Monferrato i Franzesi. Era quella forte città, con un castello e con una molto più forte cittadella, come spina continua nel cuore degli Spagnuoli e del duca di Savoia, per la vicinanza de' loro Stati. L'aveano essi tenuta bloccata da gran tempo; ma da che ebbero concertato coll'ammiraglio inglese Russel di tenere a bada il maresciallo di Catinat colla sua potente flotta, che minacciava ora Nizza ed ora la Provenza, il duca e il marchese suddetto col principe Eugenio di Savoia, e col millord Gallowai generale delle milizie pagate dall'Inghilterra, si presentarono coll'armata collegata verso la metà di giugno davanti ad esso Casale. Nel dì 26 del medesimo mese venendo il dì 27 fu aperta la trinciera tanto contro la città che contro la cittadella. Ancorchè il marchese di Crenant facesse una gagliarda difesa, pure meravigliosa cosa parve che dopo soli dodici giorni di offese, e colla perdita di soli secento soldati dalla parte degli assedianti, egli si vedesse obbligato ad esporre bandiera bianca. Fu segnata la capitolazione della resa nel dì 9 di luglio; ed accordato che si demolissero le fortificazioni della città, del castello e della cittadella; e che, terminato l'atterramento, ne uscisse la guernigion franzese con tutti gli onori [118] militari, otto pezzi di cannone e quattro mortari; e che tornasse quella città in pieno dominio del duca di Mantova, come era ne' tempi andati. Restò eseguita la capitolazione, e tolto dalle viscere della Lombardia quel mantice di discordie e d'incendii. Si trovarono nella città settanta pezzi d'artiglieria di bronzo, nel castello ventotto, e nella cittadella cento venti. Per sì felice impresa in Milano e Torino gran festa si fece, ed essendo solamente nel dì 18 di settembre usciti i Franzesi di Casale, non s'impegnarono l'armi cesaree in alcun'altra azione, ed unicamente pensarono a ristorar le truppe ne' quartieri d'inverno. Non si potè intanto levar di capo a certi politici, che in quell'assedio si sparassero dagli assediati i cannoni senza palle, e che quella impresa fosse concertata fra il saggio duca di Savoia e la corte di Francia; la qual ultima, se restò priva di una buona fortezza, ne privò anche d'essa l'avidità degli Spagnuoli, perchè, facendo rendere Casale al duca di Mantova, deluse le speranze di quei che probabilmente lo desideravano, e poteano pretenderlo a titolo di acquisto. Nè si vuol tacere che nel dì 9 di settembre del presente anno in Roma terminò i suoi giorni il cavaliere Gian-Francesco Borri Milanese in castello Sant'Angelo. S'era egli meritata quella prigione per essere stato eretico visionario anzi autore di una setta, che appena nata ebbe fine, e solennemente fu da lui abiurata. In essa Roma, in Milano ed in altre città d'Italia, e in Inspruch, Amsterdam, Amburgo, Copenaghen, ed altri luoghi dell'Olanda e Germania, fece egli risuonare il suo nome, spacciando miracoli segreti, e spezialmente quello che tanto adesca alcuni troppo corrivi privati, e talvolta i principi stessi, con votar d'oro le borse loro, ed empierle di fumo. A lui si ricorreva come a medico universale per ogni sorta di malattia, e fin da Parigi si vedeano passar nobili malati ad Amsterdam per isperanza d'essere guariti da lui. Gran figura aveva egli fatto in [119] quella città col magnifico equipaggio, e trattato col titolo di eccellenza. In una parola, trovossi in lui un chimico creduto impareggiabile, un gran ciarlatano, e per conseguente un bravo trafficante della semplicità de' mortali.


   
Anno di Cristo MDCXCVI. Indizione IV.
Innocenzo XII papa 6.
Leopoldo imperadore 39.

Non rallentava il buon pontefice Innocenzo XII i suoi sospiri e le sue premure per rimettere la pace fra i principi cristiani; e, a fin d'impetrarla colle preghiere da Dio, pubblicò sul fine dell'anno precedente un giubileo, che nel presente per tutta l'Italia fu preso. Non lasciò ancora di eccitare i principi cattolici alla concordia, con inviar loro nuove paterne lettere; e spezialmente ne fece premura a Vittorio Amedeo duca di Savoia, il cui impegno avea tirato in Italia tanti imitatori de' Goti e de' Vandali a spolpare i miseri popoli. Sempre sono e saran da lodare le sante intenzioni dei romani pontefici per questo fine; ma l'interesse, che è il cominciator delle guerre, quello è ancora che le finisce. Che nondimeno il saggio pontefice s'internasse ancora in segreti maneggi per accordare il re Cristianissimo col duca di Savoia, comunemente fu creduto per quel che poscia accadde. Ed appunto questo principe si vide fare nel marzo del presente anno un viaggio alla santa casa di Loreto a titolo di divozione. La gente maliziosa, che non credeva cotanto divoto quel principe da scomodarsi per andar sì lontano ad implorar la protezion della Vergine, si figurò piuttosto che sotto il manto della pietà si coprisse un segreto abboccamento con qualche persona incognita intorno a' suoi affari (e questa fu, per quanto portò la fama, un ministro franzese travestito da religioso) giacchè sono talvolta ridotti i principi a somiglianti ripieghi, per deludere i ministri esteri che vanno spiando ogni menomo loro andamento e [120] parola nelle corti. Spedì ancora in questo anno il pontefice le sue galee unite a quelle di Malta in soccorso de' Veneziani; e sul principio di maggio, al dispetto dei medici, volle portarsi a Cività Vecchia, per visitar quel castello, quegli acquedotti e le fabbriche ivi fatte, giacchè gli stava fitto in capo il pensiero di fare di essa città un porto franco, libero ad ogni nazione, fuorchè ai Turchi. Per varie ragioni, e per le segrete mene del gran duca di Toscana, riuscì poi vano un siffatto disegno. Quanto ai Veneziani, perchè stava loro sul cuore la fortezza di Dolcigno, situata in Albania sopra una rupe inaccessibile, siccome infame nido di corsari infestatori dell'Adriatico, ne fu da essi risoluto l'assedio. Per quanto operassero i cristiani con varii assalti, con alquante mine, e con rispignere due volte i soccorsi inviati dai Turchi, a nulla servirono i loro sforzi, e però convenne ritirarsi. Andò intanto il capitan generale Molino colla sua flotta in traccia dell'ottomana, condotta dal Mezzomorto capitan bassà ed ammiraglio. Nel dì 9 d'agosto furono a vista le due nemiche armate, e già la veneta s'era tutta messa in ordinanza per venire a battaglia, quando si scoprì non accordarsi a questo giuoco l'astuto Mezzomorto, al quale non mancò mai l'arte di tenere a bada i cristiani, e di sempre sfuggire il combattimento. Così senza alcun vantaggio, e insieme senza danno alcuno, se la passarono i Veneziani in Levante per tutto quest'anno; ma con gravi lamenti di quel senato, veggendo inutilmente impiegati tanti convogli e tesori in quelle parti.

Cominciò in questi tempi a fare risonar il suo nome Pietro Alessiovitz czaro della Russia, che divenne poi col tempo incomparabil eroe, con aver tolto a' Turchi sul Tanai l'importante città e fortezza di Asac, ossia Asof. Propose quel principe con gran calore di entrare in lega con Cesare e co' Veneziani ai danni del comune nemico, e infatti ne furono stabiliti i capitoli in Vienna. Non [121] dissimile dalla fortuna de' Veneti fu quella degl'imperiali in Ungheria nell'anno presente. Si portò alla forte cesarea armata di nuovo l'elettor di Sassonia col titolo di supremo comandante; la direzion nondimeno delle militari operazioni era appoggiata a un capo di maggiore sperienza, cioè al maresciallo conte Caprara. Ma che? In quelle contrade comparve ancora di bel nuovo il sultano in persona, bramoso di segnalarsi in qualche impresa. Conduceva anch'egli una potente armata, qual si conveniva ad un pari suo. Invece dunque di accudire alla premeditata idea dell'assedio di Temiswar, o di Belgrado, nel consiglio militare fu preso il partito di provocare a battaglia i nemici. Si trovò attorniato da paludi e ben trincierato l'esercito musulmano, nè la furia delle cannonate potè muoverli ad uscire all'aperta campagna. Solamente seguirono alcune calde scaramucce, nelle quali il commissario generale Heisler valorosamente combattendo lasciò la vita, e qualche migliaio di soldati dall'una e dall'altra parte perì. Ritiraronsi poscia i Turchi, e senz'altro onore anche le milizie cristiane vennero ripartite ai quartieri. Assai curiosa, ma non già inaspettata, fu la scena che si rappresentò sul teatro del Piemonte nell'anno presente. Troppo rincresceva oramai alla Francia la guerra del Piemonte, perchè più dispendiosa di tutte le altre, dovendosi mandar tutto per montagne in Italia, e non potendo l'armata godere del privilegio di ballare e nutrirsi sul paese nemico. Alla riflessione del troppo impegno e dispendio si aggiunsero i premurosi impulsi del pontefice Innocenzo XII, commosso a pietà spezialmente verso i principi d'Italia, sì maltrattati dalle sanguisughe tedesche in occasione di questa guerra. Però il re Cristianissimo Luigi XIV tali esibizioni fece a Vittorio Amedeo duca di Savoia, che questo principe segretamente entrò in trattato, e coll'accortezza, che in lui fu mirabile, ne carpì dell'altre vantaggiose condizioni. [122] Leggesi presso varii autori il trattato di pace sottoscritto nel dì 29 d'agosto di quest'anno dal conte di Tessè luogotenente generale franzese, e dal marchese di San Tommaso, primo ministro del duca suddetto; certo essendo nondimeno che alcuni mesi prima era stabilito il concordato fra loro. I principali punti di esso accordo furono che in vigor d'essa pace il re Cristianissimo restituiva al duca tutti gli Stati a lui occupati della Savoia, di Nizza e Villafranca; e inoltre gli cedeva Pinerolo co' forti di Santa Brigida ed altri, con che se ne demolissero tutte le fortificazioni; e finalmente, che seguirebbe il matrimonio di Maria Adelaide principessa di Savoia, primogenita di sua altezza reale, con Luigi duca di Borgogna primogenito del Delfino, allorchè fossero in età competente; e che intanto essa principessa passerebbe in Francia, per essere ivi allevata alle spese del re. Vi ha chi scrive promessi anche quattro milioni di franchi al duca dal re Cristianissimo per compenso de' danni sofferti, ma con obbligo di tenere in piedi a spese del re otto mila fanti e quattro mila cavalli, qualora i collegati ricusassero di abbracciar quel trattato.

Accordate in questa maniera le pive, inviò il re Cristianissimo nella primavera qualche reggimento di più del solito al maresciallo di Catinat, il quale fece anche spargere voce di aver forze maggiori, e minacciava anche di rovinar Torino colle bombe. Mostravane il duca grande apprensione e paura, per colorir le risoluzioni prese e da prendersi; quando spedite furono da esso maresciallo per mezzo d'un trombetta le vantaggiose condizioni che il re Luigi XIV offeriva al duca Vittorio Amedeo per la pace di Italia. Andarono innanzi e indietro proposte e risposte; e finalmente restò accordata fra loro una sospension d'armi per quaranta giorni, cioè per tutto il mese d'agosto, che fu poi anche prorogata sino al dì 16 di settembre, a fin di proporre alle corti alleate la neutralità d'Italia [123] sino alla pace generale. Comunicata questa ai ministri di Cesare, della Spagna ed Inghilterra, esistenti in Torino, niun d'essi v'acconsentì; ma il duca come generalissimo lo volle. Allorchè giunse alle corti questa novità, si proruppe in gravi schiamazzi, e furono spedite esibizioni gagliarde al duca di Savoia, per mantenerlo in fede. Ma egli, che non isperava di acconciar sì felicemente i proprii interessi colla continuazion della guerra, come facea colla particolar sua pace coi Franzesi, stette saldo nel suo proposito. Inclinavano veramente gli Spagnuoli ad accettare la tregua, perchè scarsi di danaro, e con gli Stati esposti all'irruzion de' nemici, e nemici che con l'union del duca divenivano tanto superiori di forze; ma non mirando mai venire alcuna decisiva risposta dalle potenze confederate, attendeva il marchese di Leganes solamente a ben presidiare e fortificare le frontiere del ducato di Milano. Intanto, prima che spirasse il termine dell'accordata sospension d'armi, il maresciallo di Catinat fece nel dì 5 di settembre sfilar la sua armata, e, passato il Po, andò a trincierarsi in Casale di Monferrato. Spirato esso termine, senza che la neutralità fosse abbracciata dai collegati, eccoti unirsi le truppe di Savoia con quelle di Francia, formando un esercito di circa cinquanta mila persone. Ed ecco chi il giorno innanzi era generalissimo dell'armi collegate in Italia, uscire in campo nel dì seguente generalissimo dell'armi franzesi contra d'essi collegati, e nel dì 18 di settembre cignere d'assedio Valenza.

Mi trovava io allora in Milano, e mi convenne udire la terribil sinfonia di quel popolo contro il nome, casa e persona di quel sovrano, trattando lui da traditore, e come reo di nera ingratitudine, che si fosse servito di tanto sangue e tesoro degli alleati per accomodare i soli suoi interessi, con altre villanie che io tralascio. Ma d'altro parere si trovavano le persone assennate, considerando che egli, dopo aver liberato lo Stato di Milano [124] dalla dura spina di Casale, ora, stante la cession di Pinerolo e la ricupera dei suoi stati, serrava in buona parte la porta dell'Italia ai Franzesi: con che si scioglievano i ceppi non meno suoi che del medesimo Stato di Milano. Se in quel bollare di passioni non riconobbe la gente questo benefizio, poco stette ad avvedersene; e tanto più perchè, era incerto se, proseguendo la guerra, si fosse potuto ottenere tanto vantaggio. Certamente tutti i principi d'Italia fecero plauso alla animosa risoluzione del duca Vittorio Amedeo, non già che piacesse loro il vedere quasi chiuso in avvenire il passo in Italia all'armi franzesi per tutti i loro bisogni (e dico quasi, perciocchè restarono ai Franzesi le Fenestrelle, che essi poi fortificarono), ma perchè si veniva a smorzare un incendio che li avea malamente scottati tutti per l'insoffribile ed ingiusta avidità e violenza de' Tedeschi in succiare il sangue degli infelici popoli. Continuava intanto con vigore l'assedio di Valenza, e già quella piazza si accostava all'agonia, quando il conte di Mansfeld plenipotenziario dell'imperadore, e il marchese di Leganes governator di Milano, per evitar mali maggiori, si diedero per vinti, ed accettarono l'esibita neutralità. In Vigevano nel dì 7 di ottobre fu stabilito l'accordo con obbligarsi Tedeschi e Franzesi di evacuare quanto prima l'Italia. Ma perciocchè ai Tedeschi troppo disgustoso riusciva il dire addio ad un paese, dove aveano trovato alle spese altrui tante dolcezze, e gridavano per le paghe ritardate, e inoltre per l'avanzata stagione non si voleano muovere: altro ripiego non si trovò che di promettere loro ben più di trecento mila doble, compartendo questo aggravio sopra i principi d'Italia, cioè settantacinque mila doble al gran duca di Toscana, al duca di Mantova quaranta mila, altrettante al duca di Modena, trentasei mila al duca di Parma, quaranta mila ai Genovesi; al Monferrato venticinque mila, ai Lucchesi trenta mila; a [125] Massa quindici mila, al principe Doria sei mila, a Guastalla cinque mila, e il resto agli altri minori vassalli dell'imperio. Doveansi immediatamente pagare cento mila doble, e l'altre ducento mila e più, con respiro e in certe rate. Tutto fu puntualmente pagato e con piacere per questa volta, lusingandosi i principi e popoli di dover da lì innanzi respirare, e non soggiacere alle inudite estorsioni delle milizie imperiali. Lo stesso pontefice (tanto gli premeva l'uscita di Italia di quella nazione) non isdegnò di pagare quaranta mila scudi per accelerarne i passi. Di mala voglia, siccome dicemmo, abbandonarono i Tedeschi la Lombardia. Si dee ora aggiungere un'altra ragione, cioè, perchè tenendo l'occhio alla monarchia di Spagna, di cui si prevedeva vicina la vacanza per la poca sanità del re Carlo II, già aveano fatti i conti di piantare la picca nello Stato di Milano, e di assicurarsene per ogni occorrenza. Ma non andò loro propizia la fortuna, e bisognò tornarsene in Germania, carichi nondimeno di preda e di danari. Un impulso anche alla Francia di terminar questa guerra fu lo stesso motivo della sospirata succession del regno di Spagna. Furono poi smantellate le fortificazioni di Pinerolo e degli altri forti, restituito tutto al duca di Savoia, e tornò la quiete in Italia.

Era venuto per ambasciatore di Cesare a Roma Giorgio Adamo conte di Martinitz. Non si sa bene se per l'alterigia sua propria, o pure perchè la corte di Vienna facesse la disgustata col papa a cagione dei non continuati sussidi per la guerra contra del Turco, egli in questo anno cercò di far nascere del torbido in quella sacra corte. Contro il costume e rituale de' tempi andati pretese esso Martinitz di non voler cedere la mano al governatore di Roma nella processione del Corpo del Signore; laonde per ischivar gl'impegni, ordinò il pontefice che il governatore per quella volta si astenesse dall'intervenire alla funzione. Fecesi la [126] processione, in cui lo stesso santo padre portava il Venerabile; e l'ambasciatore all'improvviso si spinse fra i cardinali diaconi, pretendendo di andar con loro del pari. Grande imbroglio e non lieve scandalo si suscitò per questo, e cagionò che la procession si fermasse, e durasse per quattro ore, con grave incomodo del papa, mentre facea gran caldo. A queste sconsigliate bizzarrie del cesareo ministro seppe per qualche tempo mettere freno la prudenza del romano pontefice; laonde non seguì per ora altro maggior inconveniente, se non che quel ministro continuò con molto orgoglio, sino a rendersi intollerabile al mansueto pontefice in grave pregiudizio del cesareo monarca. Rinaldo d'Este già cardinale, poi divenuto duca di Modena, avea nel precedente anno conchiuso il suo matrimonio colla principessa Carlotta Felicita di Brunsvich, figlia di Gian-Federigo duca cattolico di Hannover, e di Benedetta Enrichetta di Baviera, palatina del Reno. Nel dì 28 di novembre d'esso anno seguì lo sposalizio di questa principessa con pompa nel palazzo ducale di Hannover, secondo i riti della santa Chiesa romana: con che si vennero a riunire le due linee degli Estensi d'Italia e di Germania, procedenti dal comune stipite, cioè dal marchese Azzo II, e divise circa l'anno 1070 come il celebre Leibnizio allora dimostrò, ed anche io con documenti chiarissimi provai poscia nelle Antichità Estensi. Accompagnata questa principessa dalla duchessa sua madre, e da un gran treno di famiglia e di calessi, ricevette nel Tirolo per parte dell'imperadore distinti onori, e più magnifici ancora per lo Stato veneto dalla consueta splendidezza di quella repubblica. Fece dipoi il suo ingresso in Mantova, accolta con somma solennità e varietà di divertimenti dal duca Ferdinando Carlo. Condotta finalmente pel Panaro da gran copia di superbissimi bucentori sino a Bomporto, nel dì 7 di febbraio entrò in Modena con quella grandiosità di seguito, di apparati [127] e di solazzi ch'io brevemente accennai nelle suddette Antichità Estensi. Un rigoroso editto fu pubblicato in quest'anno dal santo pontefice Innocenzo XII, con cui si proibiva a tutti i sudditi il giocare e far giocare ai lotti di Genova, Milano e Napoli, giacchè si toccavano con mano i gravi danni provenienti da queste invenzioni dell'umana malizia per succiare il sangue de' malaccorti mortali.


   
Anno di Cristo MDCXCVII. Indiz. V.
Innocenzo XII papa 7.
Leopoldo imperadore 40.

Godevasi oramai la serenità della pace in Italia, per esserne partite le milizie alemanne, ed avere il duca di Savoia e il governator di Milano disarmato, con ritener solamente le truppe necessarie per le guarnigioni delle piazze. Avea anche la Francia puntualmente data esecuzione a quanto s'era stabilito col duca di Savoia, la cui primogenita condotta in Francia, e sposata col duca di Borgogna, seco per due ore stette in letto alla presenza di molti testimoni, ma con riserbare a tempo più proprio la consumazione del matrimonio. Era intanto il pontefice Innocenzo XII intento a fabbriche ed imprese che tornassero a servigio di Dio e in benefizio de' sudditi suoi. A questo fine nel mese d'aprile niuno il potè trattenere che con lieve accompagnamento non passasse a Nettuno, bramoso pure di provvedere Roma e lo Stato ecclesiastico di un buon porto nel Mediterraneo, e di far divenire questo anche porto franco. Nettuno, o per dir meglio Anzio vicino a Nettuno, gli era stato rappresentato per più comodo a Roma, e di miglior aria che Cività Vecchia. Dappertutto ricevette superbi regali da' baroni romani, e più degli altri ne profittarono i poveri. Diede egli ordine che non già a Nettuno, ma al vicino Anzio si fabbricasse il porto, ed assegnò ad opera tale delle rilevanti somme, e massimamente per fabbricarvi un forte capace di ripulsare le insolenze [128] de' corsari di Barberia. Ma mentre il santo padre era tutto occupato a promuovere i vantaggi de' suoi Stati, venne a gravemente turbarlo un passo ardito ed offensivo fatto dalla corte di Vienna e dal suo ministro. Cioè fu dal conte di Martinitz ambasciatore cesareo, nel dì 9 di giugno, pubblicato ed affisso al suo palazzo in Roma un editto, dato nel dì 29 d'aprile in Vienna dall'imperador Leopoldo, in cui supponendosi molti feudi imperiali in Italia usurpati, ed altri, dei quali da lungo tempo i possessori non aveano presa l'investitura, s'intimava a tutti l'esibire i documenti per legittimare i lor possessi, e di prenderne o rinnovarne l'infeudazione nel termine di tre mesi. Altamente ferito restò l'animo del buon pontefice e di tutta la sacra corte per questa novità, non solo perchè lesiva della sovranità pontificia, ma perchè assai si scorgeano le segrete intenzioni di Cesare di eccitar nuove turbolenze in Italia, ed anche nello Stato pontificio. Però il santo padre, oltre all'aver con altro editto, dato fuori dal cardinale Altieri camerlengo nel dì 17 dello stesso giugno, dichiarato nullo l'editto cesareo ed intimate pene a chi vi si sottoponesse, nello stesso tempo fece passar le sue doglianze all'Augusto Leopoldo per sì grave attentato. Le ragioni addotte dal nunzio Santa croce, la disapprovazione di quella novità mostrata dal re Cattolico e dal duca di Savoia, in tempo massimamente che si trattava la pace universale, cagion furono che Cesare desistesse per allora dal mosso impegno, e facesse delle rispettose scuse al sommo pontefice. Nondimeno anche nell'anno seguente durarono le scintille di questo incendio.

Un gran moto si diede in fatti il re di Francia Luigi XIV nell'anno presente per condurre alla pace le potenze alleate contra di lui; e benchè sì potente monarca, e fin qui gran conquistatore, da accorto come era, fu egli stesso che corse dietro ai nemici con ingorde esibizioni di lasciar [129] buona parte delle prede fatte. Troppo gli stava a cuore l'affare della già cadente monarchia di Spagna, ch'egli forte amoreggiava. Guadagnò segretamente prima degli altri Guglielmo principe di Oranges, con offerirsi pronto a riconoscerlo per re della Gran-Bretagna, e ad abbandonar la protezione del detronizzato re Giacomo Stuardo. Però si aprì il congresso in Olanda presso al castello di Riswich, e quivi i plenipotenziarii dei sovrani colla mediazione di Carlo XI, e poi di Carlo XII, regi di Svezia, diedero principio al duello delle lor pretensioni; e intanto il re di Francia continuava le sue conquiste in Catalogna e in America. Finalmente la concordia seguì, essendosi sottoscritta, nel dì 20 di settembre, la pace, prima coll'Olanda, poi con Guglielmo III re della Gran-Bretagna, e con Carlo II re delle Spagne. Restarono tuttavia renitenti i plenipotenziarii imperiali; ma dacchè videro restar solo in ballo l'augusto loro padrone, giudicarono meglio d'abbracciar anch'essi la desiderata quiete, e nel dì 30 di ottobre sottoscrissero i capitoli della pace. Ampia fu la restituzion di città, fortezze e paesi, che fece in tale occasione il re Cristianissimo alla Spagna, all'imperadore, al duca Leopoldo di Lorena, al palatino del Reno e ad altri principi. Venne ivi eziandio ratificato in favore del duca di Savoia il trattato di Vigevano dell'anno precedente. Nominò poscia il re Luigi per compresi in questa pace i principi d'Italia, e spezialmente il romano pontefice, il cui ministro per l'opposizione dei protestanti non avea potuto intervenire a quella pace.

Pacificati in questa maniera fra loro i principi cristiani, restava tuttavia nel suo fervore la guerra dell'imperadore e de' Veneziani contra del Turco; e questa nel presente anno fu assistita dalla mano di Dio. Giacchè l'elettor di Sassonia si trovava tutto applicato a conseguir la vacante corona di Polonia, al qual fine, abiurato il luteranismo, avea fatta professione della religion cattolica romana; [130] e il principe di Baden, a cagione della poca sanità, si era ritirato ai suoi stati, e il maresciallo Caprara Bolognese per l'avanzata suo età si scusava di non poter sostenere il comando delle armi in Ungheria; l'Augusto Leopoldo, come si può presumere, ispirato da Dio, scelse per supremo comandante di quella sua armata il principe Eugenio Francesco di Savoia, nato nell'anno 1665 a dì 18 di ottobre da Eugenio Maurizio di Savoia, conte di Soissons. Più di un saggio di sua prudenza e valore avea dato questo principe nell'ultima guerra d'Italia, comandando le armi cesaree; ma il suo nome non era forse conosciuto finora alla Porta Ottomana, ancorchè avesse già militato dianzi nella stessa Ungheria. Colà si portò egli, affrettato dal grandioso preparamento d'armi, di munizioni e di flotta nel Danubio, fatti dal sultano Mustafà II, che, gonfio di speranze per le favorevoli campagne dei due precedenti anni, volle anche nel presente condurre in persona il poderoso esercito suo, promettendosi nuovi allori, e ridendosi degli avvisi che si trattava la pace della Francia coi potentati della cristianità. Nel dì 27 di luglio arrivò al campo cesareo il principe Eugenio, e colle truppe venute dalla Transilvania trovò dipendente da' suoi cenni un esercito di circa quarantacinquemila Alemanni, gente veterana, che conosceva ben le ferite, ma non la paura. Inoltratosi poi il Gran signore col suo, si appigliò al consiglio del Tekely d'imprendere l'assedio di Peter-Waradino, e dopo avere occupato Titul, s'inviò a quella volta. Gli conveniva prima impadronirsi di Seghedino: e a questo fine formato un ponte sul Tibisco, lo passò. Avvertito dalle spie il principe Eugenio, marciò coi principi di Commercy e di Vaudemont, e col conte Guido di Staremberg, e con tutte le sue forze, per impedir gli ulteriori progressi al nemico; e nel dì 11 di settembre pervenne a Zenta, terra sul Tibisco, trovandola incendiata dai Turchi. Si era trincierato alla testa del suo ponte l'esercito musulmano, quando [131] il Gran signore, avvertito essere l'oste cristiana più forte di quel che gli era stato supposto, determinò di ripassare il Tibisco; e infatti nel dì e notte precedente lo ripassò egli con alcune migliaia di fanti e cavalli, lasciando di qua il rimanente dell'armata che dovea seguitarli.

Non restavano più che tre ore e mezza di giorno quando l'avveduto principe di Savoia, scoperta la situazion dei nemici, coraggiosamente spinse i suoi all'assalto de' trincieramenti; e superato il primo, poscia il secondo, entrò la sua gente con furia nel campo nemico. Allora immensa fu la strage degl'impauriti infedeli, che tentarono colla fuga pel ponte di sottrarsi alle sciable tedesche; ma imbarazzato il ponte dalla folla e da quei che cadevano, loro chiuse in breve il varco. Però incalzati da' vincitori, altro scampo non restò ad essi che di gittarsi nel fiume, nelle cui acque trovarono ciò che temeano d'incontrare in terra. Più relazioni portarono che dei Turchi tra uccisi ed annegati più di venti mila perderono ivi la vita. Altri scrissero fino a trenta mila, e fra questi il primo Visire, l'Agà dei giannizzeri, e dicisette bassà. Furono presi settantadue pezzi di cannone, sei mila carrette di munizioni da bocca e da guerra, ottantasei tra bandiere e cornette; e gran bottino fecero i soldati, dappoichè tornarono indietro dall'inseguire i fuggitivi nemici, giacchè solamente allora fu data dal saggio capitano ad essi licenza di raccogliere le spoglie. Il sultano colla testa bassa, e con alcune poche compagnie di cavalli, spronando forte se ne tornò a Belgrado assai disingannato della bravura e fortuna de' suoi. Una vittoria sì segnalata non s'era riportata fin qui sopra i Turchi, e il più mirabil fu, che non costò ai cristiani che mille morti ed altrettanti feriti. Voltò poscia il principe Eugenio le armi vittoriose addosso alla Bossina, e prese Dobay, Maglay ed altre castella. La mercantile città del Serraio, abbandonata da' Turchi, fu messa a sacco ed [132] incendiata; ma non si potè prendere il castello. Anche il generale conte Rabutin sottomise a forza d'armi Vilpanca e Ponzova, e un gran tratto di paese saccheggiato rallegrò di nuovo le cristiane milizie. Quanto salisse in alto per sì gloriosa campagna il nome del principe Eugenio ognun sel può immaginare.

L'armi venete in Levante, assistite anche in quest'anno dalle galee del papa e di Malta, altro non fecero che tentar di combattere senza mai potere ridurre le turchesche ad accettar daddovero la disfida. In tre siti e in tre diversi tempi venne la veneta flotta contro l'ottomana, e furono anche principiate le offese, ma senza considerabil vantaggio delle parti; e si vide l'astuto capitan bassà Mezzomorto sempre cedere il campo a' cristiani e ritirarsi. Giubilò in questo anno il vecchio papa Innocenzo XII, sì per la pace universale conchiusa in Riswich, come ancora per l'insigne vittoria riportata in Ungheria contra de' Turchi. Per terzo motivo di allegrezza si aggiunse l'avere Federigo Augusto elettor di Sassonia professata pubblicamente la religion cattolica; il che servì a lui di scala per salire sul trono della Polonia. Solenne ringraziamento a Dio fu fatto in Roma per la vittoria suddetta, e diede questa motivo al pontefice di ammettere alla sua udienza il conte di Martinitz, che per le sue disobbliganti maniere e per le violenze passate n'era da gran tempo escluso. Attento il santo padre a tutto ciò che riguardava l'aumento della fede cattolica, assegnò nell'anno presente un fondo considerabile per le missioni della Etiopia, giacente nel cuor dell'Africa, giacchè gli erano state date speranze di rimettere di nuovo la concordia di quei cristiani scismatici colla Chiesa romana. Intenzione sommamente lodevole, per essere quei paesi di smisurata estensione, ben popolati e forniti da Dio di molti beni, e poco nella credenza lontani dal cattolicismo; ma intenzione fin qui priva di effetto, parte per l'odio conceputo da [133] quei popoli contro gli Europei, e parte perchè le conquiste fatte da' Turchi rendono troppo difficile oggidì e pericoloso l'accesso a quelle contrade. Liberò anche il papa i suoi popoli da alcune imposte, spezialmente sopra il grano; acquistò con danaro la città d'Albano per la camera apostolica; e da' cardinali zelanti si lasciò indurre a comperare il teatro di Tordinona, per impedir le recite delle commedie. Pensando il gran duca Cosimo III de Medici di provvedere al matrimonio finora sterile del gran principe Ferdinando suo figlio, conchiuse in quest'anno il maritaggio di Anna Maria Francesca figlia di Giulio Francesco ultimo duca di Sassen-Lavemburg, che portava gran dote, col principe Gian-Gastone suo secondogenito. Seguì tale sposalizio nel dì 2 di luglio, e questo principe passò ad abitare dipoi con poca felicità in Germania. Nè si dee tacere, che circa questi tempi Pietro Alessiovitz czaro di Moscovia, ossia della Russia, principe di mirabil comprensione, e di straordinarie massime, prese a viaggiare incognito, ma cognito quando voleva, per imparar le arti europee, e spezialmente quelle della marinaresca. Comparve come uno dei suoi ambasciatori in Prussia, in Olanda, in Inghilterra e a Vienna. Sua mente era eziandio di visitare l'inclita città di Venezia; ma mentre vi si disponeva, gli convenne tornarsene in fretta alle sue contrade, chiamato dalle sedizioni contra di lui macchinate da que' popoli barbari, instabili, e non per anche ridotti alla civiltà ch'ora si mira in quelle parti.


   
Anno di Cristo MDCXCVIII. Indizione VI.
Innocenzo XII papa 8.
Leopoldo imperadore 41.

Dopo la memorabil vittoria riportata dall'armi imperiali a Zenta colla fuga dello stesso Gran signore Mustafà II, ognun si aspettava maggiori progressi di Cesare in Ungheria; tanta era la costernazione de' Turchi e la lor debolezza. [134] Tempo ancora più favorevole di questo non potea darsi, dacchè l'Augusto Leopoldo, sbrigato dalle guerre colla Francia, si trovava in istato di operar con braccio forte contro il comune nemico, e a ciò l'animavano i Veneziani, e lo zelantissimo pontefice prometteva gagliardi soccorsi in danaro. Ma in Vienna si macinavano altre idee, stante la vacillante sanità di Carlo II re di Spagna, colla cui morte, appresa sempre per vicina, verrebbe a vacare quella gran monarchia per difetto di prole. A tal successione aspirava l'imperadore per l'arciduca Carlo suo secondogenito, sì perchè retaggio dell'augusta casa d'Austria, e sì perchè la linea austriaca di Germania era chiamata a quei regni da' testamenti dei precedenti re dell'altra linea di Spagna. L'Inghilterra e l'Olanda, siccome interessate anche esse nella preveduta mutazion di cose, non cessavano d'ispirare a Cesare la necessità di prepararsi a questo grande avvenimento, acciocchè l'oramai troppo possente corona di Francia non ne profittasse. Quindi nacque nell'Augusto monarca il desiderio di pacificarsi colla Porta; e però la corte di Inghilterra, che s'era esibita di trattarne, spedì ordini premurosi al milord Paget suo ambasciatore a Costantinopoli, di farne l'apertura col primo visire Cussein, da cui fu ben ricevuta sì fatta proposizione. Il piano di questa pace o tregua si riduceva ad un punto solo, cioè che tanto l'imperadore, Veneziani, Moscoviti e Polacchi, quanto i Turchi, restassero possessori di tutto quanto aveano conquistato negli anni addietro. Se ne mostrò pago il divano, e per conseguente furono eletti i plenipotenziarii di tutte le potenze, e scelto per luogo del congresso Carlowitz posto fra Salankement e Peter-Waradino, dove si cominciarono colla mediazione degl'Inglesi e Olandesi a spianare le difficoltà occorrenti che consistevano in determinare i confini, e in pretendere la demolizione d'alcuni forti e piazze. Si andò per tutto quest'anno [135] combattendo fra i plenipotenziarii, nè si potè smaltire tutto sino al gennaio dell'anno seguente, che pose fine alle lor contese, e sigillò, siccome diremo, la tregua fra loro. Intanto sì i Veneziani che Cesare continuarono, più in apparenza che in sostanza, la guerra anche nell'anno presente. Per quanto potè si studiò il capitan generale Delfino di tirare a battaglia il Mezzomorto bassà comandante della flotta turchesca, ma costui cauto andò sempre schivando il cimento, se non che nel dì 21 di settembre si attaccarono l'armate nemiche. E pure il Musulmano seppe a tempo battere la ritirata e sottrarsi al periglio. Altro dipoi non operarono i Veneziani, che bruciare il paese nemico per terra, ed esigere contribuzioni colle scorrerie di mare in varie contrade de' Turchi.

Intanto nei gabinetti segretamente si lavorava per prevenire un nuovo sconvolgimento di cose, qualora mancasse di vita Carlo II re di Spagna. Massimamente ne trattò con gli Inglesi ed Olandesi il ministro di Francia; e all'Haia, nel dì 11 d'ottobre fu sottoscritto un trattato di partaggio della monarchia di Spagna, rapportato dal Lunig, dal Du-Mont e da altri; per cui, venendo il caso suddetto, al principe elettorale figlio di Massimiliano elettor di Baviera e dell'arciduchessa Antonia, cioè di una figlia dell'imperator Leopoldo, e di Margherita Teresa sorella del regnante suddetto re Carlo, fu assegnata la successione dei regni di Spagna, siccome più prossimo dei discendenti dal re Filippo IV, eccettuati alcuni pezzi di essa monarchia. A Luigi Delfino primogenito del re Cristianissimo per le ragioni della regina sua madre e dell'avola, amendue spagnuole, furono riservati i regni di Napoli e Sicilia, colle fortezze poste nella maremma di Siena, il marchesato del Finale, e la provincia di Guipuscoa colle piazze di San Sebastiano e Fonterabia. Similmente all'arciduca Carlo secondogenito dell'imperadore, in compenso delle pretensioni delle auguste due linee, [136] avea da toccare il ducato di Milano. In caso poi che mancasse prima del tempo il principe elettoral di Baviera, fu dichiarato a parte, che l'elettore suo padre succederebbe nella suddetta monarchia, colle riserve sopra espresse. Il gran concetto in cui è il gabinetto di Francia di superar tutti gli altri in accortezza, fece credere alla gente sensata, che il re Luigi XIV contuttociò tendesse ad assorbire l'intera monarchia di Spagna per uno dei suoi nipoti, e che non ad altro fine acconsentisse a quello spartimento, che per tirar dalla sua con questo spauracchio i ministri della corte di Spagna, conosciuti troppo abborrenti da ogni divisione dei lor dominii. E certamente ben seppero i Franzesi far giocare questa carta in Ispagna, dove in questo mentre il lor ambasciatore non lasciava indietro diligenza e dolcezza alcuna, per guadagnarsi il cuore di chiunque era più potente presso al re Carlo e alla regina sua moglie. All'incontro il conte di Harrach, ambasciatore cesareo alla corte di Madrid, non sapea trovar la carta del navigare, e commise vari passi falsi ed errori, de' quali è da vedere il primo tomo della storia di Europa del marchese Francesco Ottieri: libro saggiamente composto, e pure sì indegnamente trattato, per aver solamente detto quell'autore, che nell'elezione di Augusto re di Polonia, l'abate di Polignac, poscia cardinale, non aprì ben gli occhi in tal occasione. Era stato richiamato in Ispagna il marchese di Leganes, e destinato al governo di Milano Carlo principe di Vandemont della casa di Lorena, il cui figlio militava nelle truppe dell'imperadore. Giunse questo principe a Milano colla principessa sua moglie nel dì 24 di maggio, e cominciò un trattamento superiore a quello de' suoi predecessori. Fra le altre sue pompe uscendo egli per la città, era tirato il suo cocchio da otto maestosi cavalli. Si applicò egli tosto a liberar lo stato dagli assassini, che in gran copia infestavano le strade e gli abitanti.

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Nel giugno dell'anno presente fu presa da gran costernazione la città di Napoli per l'orribile strepito che faceva il monte Vesuvio. Vomitò esso da lì a poco sì sterminata quantità di cenere, che scurò l'aria, e coprì i tetti e le piazze di quella città all'altezza di un piede. Quindi sfogò la sua collera con una gran pioggia di sassi, e con cinque fiumane di fuoco, composte dì materie bituminose a guisa di ferro fuso. Da questi torrenti, che scesero alla Torre del Greco in mare, non solo restò ridotto come un deserto quel luogo, ma i contorni ancora colle deliziose vigne e palazzi andarono tutti in rovina. Più di seimila persone, avendo prima presa la fuga, si rifugiarono in Napoli, e furono ben accolte e alimentate dalla singolar pietà del cardinal Cantelmo arcivescovo. Un altro non men grave flagello toccò nel dì 20 di giugno alla cittadella di Torino. Svegliatosi per aria un gran temporale sul far del giorno, da un fulmine figlio della terra o delle nuvole, venne attaccato il fuoco al magazzino della polve, coperto in maniera da potere resistere alle bombe: disavventura, a cui sono soggetti i ricettacoli di molta polve da fuoco. Sì orribile fu lo scoppio, che rovesciò tutte le fabbriche di essa cittadella colla morte di dodici ufiziali e di quattrocento soldati, oltre ai feriti. Si scossero tutte le case della città; ogni finestra e gran copia di mobili andò in pezzi, s'aprirono le porte delle chiese, e si credettero gli abitanti di essere al fine dei lor giorni. Il danno recato dalla violenza di questo accidente si fece ascendere a tre milioni di lire; e maggiore incomparabilmente sarebbe stato, se il fuoco del magazzino non avesse volto verso la campagna lo scagliamento delle pietre. Per segnali dell'ira di Dio e per preludi di maggiori sciagure furono presi questi sì funesti avvenimenti. E certamente era ben seguita la pace, ma già si scorgea non doversene sperare se non breve la durata, stando ognuno in apprensione di maggiori sconvolgimenti in Europa, [138] a cagion della monarchia di Spagna vicina a restar vedova. E già la Francia e il duca di Savoia Vittorio Amedeo faceano grandi armamenti, per essere pronti alle rivoluzioni, che non poteano mancare, mancando di vita il re Carlo II. Nel dì 2 di luglio di questo anno a Rinaldo d'Este duca di Modena nacque il suo primogenito Francesco Maria, oggidì duca, con somma consolazione dei popoli suoi. Era vacato in Roma per la morte del cardinal Paluzzo Altieri il riguardevol posto di camerlengo della santa romana Chiesa, posto in addietro venale e di gran lucro. Con sua bolla pubblicata nel dì 24 d'agosto il pontefice Innocenzo XII soppresse e vietò per l'avvenire la venalità di questa carica, con applicar buona parte de' frutti d'essa all'ospizio dei poveri, o alla stessa camera apostolica.


   
Anno di Cristo MDCXCIX. Indiz. VII.
Innocenzo XII papa 9.
Leopoldo imperadore 42.

Nel dì 26 di gennaio dell'anno presente fu finalmente stabilita in Carlowitz una tregua di venticinque anni fra l'Imperadore Leopoldo e il sultano de' Turchi Mustafà II, siccome ancora la pace fra i Polacchi e lo stesso Gran-signore. Perchè insorsero controversie fra i ministri della Porta, e Carlo Ruzini plenipotenziario della repubblica di Venezia, mentre questi differiva l'acconsentire ad alcuni punti, i plenipotenziarii cesareo e polacco, e i mediatori inglese ed olandese, stipularono essi la concordia fra essa repubblica e il sultano nella forma che si potè ottenere, con gloria nondimeno e vantaggio del nome veneto. Il maneggio di questa concordia, per quel che riguarda i Veneziani, vien descritto nella Storia Veneta del senatore Pietro Garzoni, e in quella del pubblico lettore di Padova Giovanni Graziani, e presso il Du-Mont se ne legge la dichiarazione o strumento, senza che fosse specificato a quanto tempo si dovesse stendere la tregua con essi: il che [139] solamente dopo alquanti mesi restò conchiuso, dopo essere stato il senato in un gran batticuore a cagion di tanta dilazione. Per questo accordo restarono i Veneziani in possesso e dominio del regno della Morea, colle isole d'Egina e di Santa Maura, di Castelnuovo e Risano, e delle fortezze di Knin, Sing, Citelut, e Gabella nella Dalmazia, con altre particolarità ch'io tralascio. Fu poi ratificata questa tregua dal senato di Venezia nel dì 7 di febbraio, siccome ancora furono destinati da tutte le potenze i commessarii per regolare e determinare i confini coll'imperio ottomano: cosa che portò seco gran tempo, somme applicazioni e dispute, prima che se ne vedesse il fine. Di grandi allegrezze si fecero in Venezia per sì glorioso fine di sì lunga guerra, e del pari in Vienna, essendo restato Cesare padrone dell'Ungheria e Transilvania a riserva di Temiswar; siccome ancora in Polonia, per essere tornato quel regno in possesso dell'importante fortezza di Gaminietz. Avea preventivamente anche il czaro Pietro Alessiovitz conchiusa coi Turchi una tregua di due anni, che poi con altro atto, nel 1702, fu prorogata a trent'anni.

Non solamente era riuscito a Massimiliano elettor di Baviera e governator della Fiandra, di far concorrere il re Cristianissimo Luigi XIV e le potenze marittime nell'esaltazione del figlio suo Ferdinando alla corona di Spagna; ma eziandio con gravissime spese e regali avea in guisa guadagnati i ministri della corte di Madrid, che lo stesso re Carlo II giunse a dichiararlo erede dei suoi regni nel suo testamento: la qual nuova portata a Vienna avea servito a conchiudere con precipizio la suddetta pace o tregua di Carlowitz. Dovea anche esso principe elettorale fra pochi mesi passare a Madrid, per essere allevato in quella corte all'uso spagnuolo in espettazione di tanta fortuna. Ma chi non sa a quali vicende e peripezie sieno sottoposti i gran disegni e le imprese dei mortali? Dacchè si seppe la destinazion [140] di questo principe fanciullo al trono di Spagna, non passarono tre mesi, che eccoti venir la morte a rapirlo nel dì 5 di febbraio dall'anno presente: colpo che trafisse d'inestimabil dolore il cuore dell'elettor suo padre; e tanto più, perchè non mancò gente maligna, che seminò sospetti di veleno, cioè quella calunnia che si è da noi trovata sì facile, allorchè i principi soggiacciono ad una morte immatura. Restarono perciò sconcertate tutte le misure prese dal re Cattolico dall'una parte, e dalla Francia, Inghilterra ed Olanda dall'altra, di modo che si videro necessitate queste tre potenze a ricorrere ad altro ripiego, e si cominciò di nuovo nelle corti a trattar della maniera di conservare la tranquillità nell'inevitabil deliquio della monarchia spagnuola. Ma intorno a ciò quei potentati non arrivarono ad accordarsi insieme, se non nell'anno susseguente, siccome vedremo. Da gran tempo pensava l'augusto Leopoldo di provvedere di una degna consorte Giuseppe re dei Romani suo primogenito. Fu in qualche predicamento Leonora Luigia Gonzaga principessa di Guastalla; ma le determinazioni della corte cesarea terminarono nella principessa Amalia Guglielmina di Brunsvich, figlia del fu duca di Hannover Gian-Federigo, e sorella di Carlotta Felicita duchessa di Modena. Abitava questa principessa nei tempi presenti in essa corte di Modena colla duchessa sua madre Benedetta Enrichetta di Baviera, nata palatina del Reno. Qui appunto, nel dì 15 di gennaio di quest'anno seguì lo sposalizio di questa principessa con indicibil pompa e solennità. Videsi allora piena di nobiltà straniera, di ambasciatori e d'inviati la città e corte di Modena, e fra gli altri vi comparve in persona con insigne corteggio il cardinale Francesco Maria de Medici, e poscia il cardinale Jacopo Boncompagno, arcivescovo di Bologna, con titolo di legato apostolico, e con suntuosissima corte, a complimentare la novella regina. Le splendide feste in tal occasione [141] fatte dal duca Rinaldo, e il viaggio della stessa regina alla volta della Germania, coi grandiosi trattamenti che ella ricevette da Ferdinando Carlo Gonzaga duca di Mantova, e dalla splendidissima repubblica di Venezia, perchè io gli ho abbastanza accennati nelle Antichità Estensi, mi dispenso ora dal rammemorarli.

Non fu minor la consolazione e gioia della corte di Torino in questi tempi per la nascita del primogenito principe di Piemonte, succeduta sul principio di maggio, che con grandi allegrezze venne dipoi solennizzata. Gli fu posto il nome del padre, cioè di Vittorio Amedeo. Era nell'età sua giovanile principe di grande aspettazione; ma nel dì 22 di marzo del 1715, fu poi rapito dalla morte con immenso cordoglio del padre e di tutti i sudditi suoi. Di grandi faccende avea avuto la sacra corte di Roma negli anni addietro per le forti premure del re Luigi XIV, acciocchè fosse esaminato il libro delle Massime dei Santi, già pubblicato dal celebre monsignor di Fenelon arcivescovo di Cambrai. Molte congregazioni di cardinali e teologi furono tenute per questo affare in Roma, e un esatto esame ne fu fatto. Finalmente nel dì 12 di marzo pubblicò il santo padre una bolla, in cui furono condennate ventitrè proposizioni di esso libro, riguardanti la vita interiore. Gran lode riportò quel dottissimo prelato, per avere con tutta umiltà e sommessione accettato il giudizio della santa Sede, e ritrattate sul pulpito le stesse sue sentenze. Dopo questo dibattimento poco stette a venire in campo un'altra controversia di maggiore e più strepitosa conseguenza, cioè quella dei riti cinesi praticati dai neofiti cristiani nel vasto imperio della Cina, e pretesi idolatrici da una parte di quei missionarii. Acri e lunghe dispute furono per questo, ma non giunse papa Innocenzo XII a deciderlo, e ne restò la cura al suo successore, siccome diremo. Avea risoluto la vedova regina di Polonia Maria Casimira de la Grange, già moglie del re Giovanni Sobieschi, e figlia del cardinale di [142] Arquien, ad imitazione di Cristina già regina di Svezia, di venire a terminare il resto de' suoi giorni nell'alma città di Roma. Arrivò essa colà nel dì 24 di marzo, e prese il suo alloggio nel palazzo del principe don Livio Odescalchi duca di Sirmio Bracciano. Distinti onori furono a lei compartiti dal pontefice e da tutta quella sacra corte. In questi tempi esso santo padre, sempre ansioso di nuove belle imprese in profitto de' popoli suoi, concepì il grandioso disegno di seccar le Paludi Pontine; e fece anche i preparamenti per eseguirlo. Ma a lui tanto di vita non rimase da poter compiere sì gloriosa risoluzione. Si applicò eziandio alla correzione di quegli ecclesiastici che in Roma non viveano colla dovuta regolarità di costumi, e ne fece far esatte ricerche, e volle lista di chiunque era creduto bisognoso d'emenda. Questo solo bastò, perchè la maggior parte di queste persone prendesse miglior sesto, senza aspettar da più efficaci persuasioni la riforma del vivere. Finalmente rinnovò ed ampliò una rigorosa bolla contro il ricevere pagamenti e regali per le giustizie e grazie della sedia apostolica, sotto pena delle più gravi censure e di altri gastighi. Continuavano intanto le amarezze di sua santità contra del conte di Martinitz, perchè questi, oltre alla pretension de' feudi, teneva imprigionato nel suo palazzo un uomo, sospettato reo di aver voluto assassinare la balia di una sua figlia: esempio di prepotenza da non tollerarsi da chi era padrone in Roma. S'era interposto, per troncar queste pendenze, Rinaldo duca di Modena con sì buona maniera, che il Martinitz avea inviato il prigione a Modena. Ma questo ripiego non soddisfece al papa, perchè non veniva soddisfatto al suo diritto sopra la giustizia; e però si negava l'udienza a quel ministro. Fu egli poi richiamato a Vienna, e nel gennaio seguente giunse a Roma il conte di Mansfeld nuovo ambasciatore cesareo, e il suo antecessore se ne andò senza aver potuto ottenere udienza. Similmente [143] in questi tempi il pontefice raccoglieva gente armata, inviandola ai confini del Ferrarese. Altrettanto faceva il duca di Medina Celi vicerè nel regno di Napoli, conoscendo d'essere l'Europa alla vigilia di qualche strepitoso sconcerto per chi dovea succedere nella monarchia di Spagna.


   
Anno di Cristo MDCC. Indizione VIII.
Clemente XI papa 1.
Leopoldo imperadore 43.

Voleva Rinaldo d'Este duca di Modena con solennità magnifica celebrare il battesimo del principe Francesco Maria suo primogenito, nato nel precedente anno, ed ottenne che l'imperador Leopoldo il tenesse al sacro fonte, e che fosse destinato a sostener le veci di sua maestà cesarea Francesco Farnese duca di Parma, il quale a questo fine si portò a Modena colla duchessa Dorotea sua consorte nel dì 16 di febbraio. Con più di cento carrozze a sei cavalli, e fra alcune migliaia di soldati schierati per le strade, e al rimbombo di tutte l'artiglierie della città e cittadella, furono accolti questi principi, e trovarono nella città la notte cangiata in giorno; sì grande era l'illuminazione dappertutto. Seguì nel dì 18 la funzion del battesimo con somma magnificenza, e nei giorni seguenti si variarono le feste e le allegrie, che rimasero poi coronate nel dì 22 da un suntuosissimo carosello, che riempiè di maraviglia e diletto tutti gli spettatori e la gran nobiltà forestiera concorsavi. Al qual fine s'era formato nel piazzale del palazzo ducale un vasto ed altissimo anfiteatro di legno, capace di molte migliaia di persone. Di simili grandiosi spettacoli niuno ne ha più veduto l'Italia. Di più non ne dico, per averne detto quel che occorre nelle Antichità Estensi. Diede fine nel dì 5 di luglio al suo vivere Silvestro Valiero doge di Venezia, a cui in quella dignità fu sostituito il senatore Luigi Mocenigo. Era già pervenuto all'età di ottantacinque [144] o pure ottantasei anni papa Innocenzo XII, e spezialmente nell'anno antecedente per varii incomodi di sanità avea fatto dubitar di sua vita. Tuttavia si riebbe alquanto dalla debolezza sofferta, ma non potè contener le lagrime per non aver potuto avere il contento d'aprir egli in persona nella vigilia del santo Natale il giubbileo di quest'anno, che fu poi celebrato con gran concorso e divozione dai pellegrini e popoli accorsi dalle varie parti della cristianità a conseguir le indulgenze di Roma. Tuttochè poca bonaccia godesse il santo padre da lì innanzi, pure continuò indefesso le applicazioni al governo, e tenne varii concistori, e provò anche consolazione in vedere Cosimo III de Medici, gran duca di Toscana che con esemplar divozione incognito sotto nome di conte di Pitigliano si portò nel mese di maggio a visitar le basiliche romane. Ricevette il papa questo piissimo principe con paterna tenerezza, il creò canonico di San Pietro, gli compartì ogni possibil onore, e fra gli altri regali gli concedette l'antica sedia di santo Stefano I papa e martire, che passò ad arricchire la cattedrale di Pisa. Non s'ingannarono i politici che s'immaginarono unito alla divozione del gran duca qualche interesse riguardante il sistema d'Italia, minacciato da disastri per la sempre titubante vita del re cattolico Carlo II. Infatti fu progettata una lega fra il papa, i Veneziani, il duca di Savoia, il gran duca di Mantova e il duca di Parma, per conservar la quiete dell'Italia. Al duca di Modena non ne venne fatta parola sulla considerazione d'esser egli cognato del re de' Romani. Ma non andò innanzi un tale trattato, o per le consuete difficoltà di accordar questi leuti, o perchè si volea prima scorgere in che disposizione fossero le corone, o fosse perchè venne intanto a mancare di vita il sommo pontefice.

Con più calore intanto si maneggiavano questi affari dai ministri di Francia, Inghilterra ed Olanda, per trovare un [145] valevole antidoto ai mali che soprastavano all'Europa. Tante furono le arti e tanti i mezzi adoperati dal gabinetto di Francia, che gli riuscì di guadagnare Guglielmo re d'Inghilterra, con introdurre lui e le Provincie Unite ad un altro partaggio della monarchia spagnuola. Fu questo sottoscritto in Londra nel dì 15, e all'Haia nel dì 25 di marzo, e stabilito che a Luigi Delfino di Francia si darebbono i regni di Napoli e Sicilia coi porti spettanti alla Spagna nel littorale della Toscana, il marchesato del Finale, la provincia di Guipuscoa coi luoghi di qua dai Pirenei, e in oltre i ducati di Lorena e Bar; in compenso dei quali si darebbe al duca di Lorena il ducato di Milano. In tutti poi gli altri regni di Spagna colle Indie e colla Fiandra avea da succedere l'arciduca Carlo secondogenito dell'imperador Leopoldo. Si provvedeva ancora a varii casi possibili ch'io lascio andare. Fece il tempo conoscere quanto fina fosse la politica del re cristianissimo Luigi XIV; perciocchè se a tal divisione acconsentivano Cesare e il re Cattolico, già si facea un accrescimento notabile alla potenza franzese; e quand'anche dissentissero da questo accordo Cesare e il re Cattolico, la forza de' contraenti ne assicurava l'acquisto al Delfino. Ma il bello fu che in questo mentre la corte di Francia era dietro a procacciarsi l'intera monarchia di Spagna, e si studiava di non cederne un palmo ad altri, poco scrupolo mettendosi se con ciò restava beffato chi si credeva assicurato dalla convenzione suddetta. Conosceva essa, per le relazioni del marchese di Harcourt ambasciatore a Madrid, non potersi dare al ministero e ai popoli di Spagna un colpo più sensitivo della division della monarchia; e volendo gli Spagnuoli evitarla, altro ripiego non restava loro che di gittarsi in braccio ai Franzesi, con prendere dalla real casa di Francia un re successore. Risaputosi infatti a Madrid il pattuito spartimento, fecero i ministri di Spagna le più alte doglianze di un sì violento procedere [146] a tutte le corti, e massimamente con tali invettive in Inghilterra, che il re Guglielmo venne ad aperta rottura. Acremente ancora se ne dolsero a Parigi, ma quella corte con piacevoli maniere mostrò fatti quei passi per le gagliarde ragioni che competevano al Delfino sopra tutto il dominio spagnuolo.

Intanto l'Harcourt in Madrid colla dolcezza, colla liberalità e con altre arti più secrete si studiava di tirar nel suo partito i più potenti o confidenti presso il re Cattolico. Chiamata colà anche la moglie, seppe questa insinuarsi nella grazia della regina Marianna, a cui si facea vedere un palazzo incantato in lontananza, cioè il suo maritaggio col vedovo Delfino, allorchè ella restasse vedova. Ma perciocchè il re Carlo II tenea saldo il suo buon cuore verso l'augusta casa di Austria di Germania, e le sue mire andavano sempre a finire nell'arciduca Carlo, per quante mine e trame si adoperassero, niuna pareva oramai bastante a fargli mutar consiglio. Venne il colpo maestro, per quanto fu creduto, da Roma. Imperciocchè gl'industriosi Franzesi, rivoltisi a quella parte, rappresentarono al pontefice Innocenzo XII in maniere patetiche cosa si potesse aspettare dalla casa di Austria germanica, se questa entrava in possesso di Napoli e Sicilia, e dello Stato di Milano con ricordare le avanie praticate nell'ultima guerra dagli imperiali coi popoli d'Italia, e le violenze usate in Roma dal conte di Martinitz. Tornar più il conto agl'Italiani che questi Stati coll'intera monarchia passassero in uno dei nipoti del re Cristianissimo, che niun diritto porterebbe seco per inquietare i principi italiani. Tanto in somma dissero, che il pontefice piegò nei lor sentimenti, e tanto più, perchè considerò questo essere il meglio dei medesimi Spagnuoli, i quali potrebbero conservare uniti i lor dominii, e liberarsi in avvenire dalle vessazioni della Francia, che gli avea ridotti in addietro a dei brutti passi. È dunque stato preteso che dalla corte di [147] Roma fosse dipoi insinuato al cardinale Lodovico Emmanuele Portocarrero, arcivescovo di Toledo, d'impiegare i suoi migliori uffizii in favore della real corte di Francia; ed essendo avvenute mutazioni nella corte di Madrid, ed anche sollevazioni in quel popolo, e poscia una malattia al re Cattolico, che fu creduta l'ultima, e poi non fu; il porporato ebbe apertura per parlare confidentemente al re, e di proporgli, non già sfacciatamente, un nipote del re Cristianissimo, ma destramente le ragioni della casa di Francia, perchè non mancavano dotti teologi che sostenevano invalide le rinunzie fatte dalle infante spagnuole passate a marito a Parigi, e che si poteva schivare la troppo odiata unione delle due corone in una sola persona. Attonito rimase il re Carlo II a queste proposizioni; e di una in altra parola passando, si lasciò persuadere che sarebbe stato ben fatto l'udire intorno a ciò il venerabil parere della Sede apostolica. Saggi cardinali e dottissimi legisti per ordine del papa esaminarono il punto; e ponderate le ragioni, e massimamente le circostanze del caso, giudicarono assai fondata la pretensione dei Franzesi. Di più non vi volle perchè il Portocarrero sapesse a tempo e luogo quetar la coscienza del re Cattolico, il quale fin qui si era creduto obbligato a preferire la linea austriaca di Germania; e tanto più al cardinal suddetto riuscì facile, quanto che i ministri e grandi di Spagna per la maggior parte o erano guadagnati, o aveano sacrificata l'antica antipatia della lor nazione contro la franzese all'utilità o necessità presente della monarchia, sperando essi di mantenere in tal guisa l'unione dei regni, e di avere in avvenire non più nemica, ma amica e collegata la Francia.

Pertanto nel dì 2 d'ottobre spiegò il re Cattolico l'ultima sua volontà, e la sottoscrisse, in cui dichiarò erede Filippo duca d'Angiò, secondogenito del Delfino di Francia; a lui sostituendo in caso di mancanza il duca di Berry terzogenito, e [148] a questo l'arciduca Carlo d'Austria e dopo queste linee il duca di Savoia. Stavano intanto addormentate le potenze marittime dall'accordo del partaggio stabilito col re Cristianissimo; e per conto dell'imperadore, egli si teneva in pugno la succession della Spagna pel figlio arciduca, affidato da quanto andava scrivendo il re Cattolico, non solo al duca Moles suo ministro in Vienna, ma allo stesso Augusto, della costante sua predilezione verso gli Austriaci di Germania. Mancò poscia di vita il re Carlo II nel dì primo di novembre dell'anno presente: principe di ottima volontà e di rara pietà, ma sfortunato nel maneggio dell'armi e ne' matrimonii, e che per la debolezza della sua complessione lasciò per lo più in luogo suo regnare i ministri. Volarono tosto i corrieri, e si conobbe allora chi con maggiore accortezza avesse saputo vincere il pallio e deludere amici e nemici in sì grave pendenza. Nel consiglio del re di Francia non mancarono dispute, se si avesse da accettare il testamento suddetto, pretendendo alcuni, anche dei più saggi, che più vantaggiosa riuscirebbe alla corona di Francia la division concordata colle potenze marittime, perchè fruttava un accrescimento notabile di Stati alla Francia: laddove, col dare alla Spagna un re, nulla si acquistava, nè si toglieva l'apprensione di avere un dì lo stesso re padron della monarchia spagnuola, o pure i suoi discendenti per emuli e nemici, come prima della franzese. Pure prevalse il sentimento e volere del re Luigi XIV, preponderando in suo cuore la gloria di vedere il sangue suo sul trono della Spagna, e con ciò depressa di molto la potenza dell'augusta casa d'Austria. Perciò nel dì 16 di novembre, Filippo duca d'Angiò, riconosciuto per re di Spagna in Parigi, e susseguentemente anche in Madrid nel dì 24 d'esso mese, s'inviò nel dì 4 di dicembre con suntuoso accompagnamento alla volta di Spagna, e giunse pacificamente a mettersi in possesso non solamente di quei [149] regni, ma eziandio della Fiandra, del regno di Napoli e Sicilia, e del ducato di Milano, non essendosi trovata persona che osasse di ripugnare agli ordini del re novello. Era già stato guadagnato il principe di Vaudemont, governatore di Milano; e quali amarezze covasse contra dell'imperadore l'elettor di Baviera Massimiliano, s'è abbastanza accennato di sopra. Storditi all'incontro rimasero l'Augusto Leopoldo, il re d'Inghilterra Guglielmo e la repubblica d'Olanda, per un avvenimento sì contrario alle loro idee e desiderii, e massimamente si esaltò la bile degl'Inglesi ed Olandesi, per vedersi così sonoramente burlati dalle arti de' Franzesi; e quantunque il re Cristianissimo adducesse varie ragioni per giustificar la sua condotta, niuno potè distornarli dal pensare ad una guerra che con tanto studio aveano fin qui studiato di schivare. Nulla di più aggiugnerò intorno a questo strepitoso affare, di cui diffusamente han trattato fra i nostri Italiani il senatore Garzoni, il marchese Ottieri e il padre Giacomo Sanvitali della compagnia di Gesù nelle loro Storie.

Si vide in quest'anno una cometa, e i visionarii, in testa de' quali hanno gran forza le volgari opinioni, si figurarono tosto che questa micidiale cifra del cielo predicesse la morte di qualche gran principe, e finivano in credere minacciata la vita o del re di Spagna Carlo II, o del sommo pontefice Innocenzo XII: predizion poco difficile d'un di loro o di amendue, giacchè il re era quasi sempre infermiccio, e il papa decrepito. Infermossi più gravemente del solito nel settembre di quest'anno il santo padre, e gli convenne soccombere al peso degli anni e del male. Merita ben questo glorioso pastore della Chiesa di Dio che il suo nome e governo sia in benedizione presso tutti i secoli avvenire: sì nobili, sì lodevoli furono tutte le azioni sue. Miravasi in lui un animo da imperadore romano, non già per pensare ai vantaggi proprii o de' suoi, perchè s'è veduto [150] aver egli tolto con eroica munificenza la venalità delle cariche, e quanto egli abborrisse il nepotismo, e quai freni vi mettesse; ma solamente per procacciar sollievo e profitto agli amati suoi popoli. Specialmente avea egli in cuore i poverelli, i quali usava chiamare i suoi nipoti. Ad essi destinò il palazzo Lateranense colla giunta d'una vigna da lui comperata per loro servigio. Concepì in oltre la magnifica idea di ridurre in un ospizio, e di far lavorare tutti i fanciulli ed invalidi questuanti: al qual fine fabbricò anche un vasto edifizio a San Michele di Ripa, che venne poi ampliato dal suo successore, e dotollo di molte rendite. Questo sì animoso istituto di ristrignere i poveri oziosi e di sovvenir loro di limosine, senza che le abbiano essi a cercare con tanta molestia del pubblico, si dilatò per alcune altre città d'Italia, benchè col tempo simili provvisioni, a guisa degli argini posti ad impetuosi torrenti, non si possano sostenere. Per utile parimente dello Stato ecclesiastico avea formato il disegno, e già fatte di gravi spese, a fin di stabilire un porto franco a Cività Vecchia, dove, a riserva de' Turchi, potessero approdar tutte le nazioni. Ma nol compiè per le tante ruote segrete che seppe muovere Cosimo III gran duca di Toscana, al cui porto di Livorno dall'altro sarebbe venuto un troppo grave discapito. Rialzò e fortificò il porto d'Anzio presso Nettuno, e in Roma il palazzo di monte Citorio, magnifico edifizio a cagion degli aggiunti uffizii pei giudici e notai che prima stavano dispersi in varie abitazioni della città. Fabbricò eziandio la dogana di terra, e quella di Ripa Grande. Insomma questo immortal pontefice, forte nel sostener la dignità della santa Sede, pieno di mansuetudine e d'umiltà, e ricco di meriti, fu chiamato da Dio a ricevere il premio delle sue incomparabili virtù nel dì 27 di settembre, compianto e desiderato da tutti, e onorato col glorioso titolo di padre de' poveri.

Entrati i cardinali nel conclave, diedero [151] principio ai lor congressi, e alle consuete fazioni, per provvedere la Chiesa di un novello pontefice, desiderosi nello stesso tempo di accordare col maggior bene del cristianesimo anche i proprii interessi. Non mancavano porporati degnissimi del sommo sacerdozio; e pure continuava la discordia fra loro, quando giunse il corriere colla nuova del defunto re Cattolico. Si scosse vivamente a questo suono l'animo di chiunque componeva quella sacra assemblea; e di tale occasione appunto si servì il cardinale Radulovic da Chieti per rappresentare la necessità di eleggere senza maggior dimora un piloto atto a ben reggere la navicella di Pietro, giacchè si preparava una fiera tempesta a tutta l'Europa, e massimamente all'Italia; e dovea la santa Sede studiarsi a tutta possa di divertire, se fosse possibile, il temporal minaccioso; e non potendo, almeno vegliare, perchè non ne patisse detrimento la fede cattolica. Commossi da questo dire i padri, non tardarono a convenire coi loro voti in chi punto non desiderava, e molto meno aspettava il sommo pontificato. Questo fu il cardinale Gian-Francesco Albani da Urbino, alla cui elezione quantunque si opponesse l'età di soli cinquantun anni, sempre mal veduta dai cardinali vecchi, e in oltre la moltiplicità dei parenti; pure niun di questi riflessi potè frastornare il disegno di quei porporati, perchè troppo bel complesso di doti e virtù concorreva in questo soggetto, sì per l'integrità de' suoi costumi e per l'elevatezza della sua mente, come per la letteratura, per la pratica degli affari, e per l'affabilità e cortesia con cui avea sempre saputo comperarsi la stima e l'amore d'ognuno. Spiegata a lui l'intenzione de' sacri elettori, proruppe egli in iscuse della sua inabilità, in lagrime; e in una non affettata ripugnanza a questo peso, come presago dei travagli che poi gli accaddero; e insistendo perciò che in tempi sì pericolosi e scabrosi si dovea provveder la Chiesa di Dio di più sperto e forte rettore. Che parlasse [152] di cuore, i fatti lo dimostrarono, avendo egli combattuto per tre giorni a prestar l'assenso: il che non fa chi aspira al triregno per timore che nella dilazione si cangi pensiero. Nè arrivò ad accettare, se prima non fu convinto dai teologi, i quali sostennero, lui tenuto ad accomodarsi alla voce di Dio, espressa nel consenso degli elettori, e se prima non fu certificato non essere contraria alla esaltazione sua la corte di Francia. A questo fine convenne aspettar le risposte del principe di Monaco ambasciatore del re Cristianissimo, che s'era ritirato da Roma su quel di Siena, perchè i cardinali capi d'ordine non aveano voluto lasciar impunita una prepotenza usata dal principe Guido Vaini, pretendente franchigia nel suo palazzo, per essere stato onorato dell'insigne ordine dello Spirito Santo. Restò dunque concordemente eletto in sommo pontefice il cardinale Albani nel dì 23 di novembre, festa di san Clemente papa e martire, da cui prese egli motivo di assumere il nome di Clemente XI. Straordinario fu il giubilo in Roma per sì fatta elezione, perchè allevato l'Albani in quella città, ed amato da ognuno, prometteva un glorioso pontificato; e ognuno si figurava di avere a partecipar delle rugiade della sua beneficenza.


   
Anno di Cristo MDCCI. Indizione IX.
Clemente XI papa 2.
Leopoldo imperadore 44.

Non sì tosto fu assiso sulla cattedra di San Pietro Clemente XI, che diede a conoscere quanto saggiamente avessero operato i sacri elettori in confidare a lui il governo della Chiesa di Dio e dello Stato ecclesiastico. Mirava già egli in aria il fiero temporale che minacciava l'Europa, e siccome padre comune mise immediatamente in moto tutto il suo zelo e la singolar sua eloquenza per esortar i potentati cristiani ad ascoltar trattati di pace prima di venire alle armi. A questo oggetto spedì brevi caldissimi, fece parlare i [153] suoi ministri alle corti, esibì la mediazione sua, e quella eziandio della repubblica veneta. Predicò egli a' sordi; e tuttochè l'imperadore inclinasse a dar orecchio a proposizioni d'accordo, non si trovò già la medesima disposizione in chi possedeva tutto, e nè pure un briciolo ne volea rilasciare ad altri. Grande istanza fecero i ministri del nuovo re di Spagna Filippo V, secondati da quei del re Cristianissimo Luigi XIV, per ottenere l'investitura dei regni di Napoli e Sicilia, siccome feudi della santa romana Chiesa. Fu messo in consulta co' più saggi dei cardinali questo scabroso punto; e perciocchè una pari richiesta veniva fatta dall'imperadore Leopoldo, a tenore delle sue pretensioni e ragioni: il santo padre, per non pregiudicare al diritto di alcuna delle parti, sospese il giudizio suo; e per quante doglianze e minaccie impiegassero Franzesi e Spagnuoli, non si lasciò punto smuovere dal proponimento suo. Diedero intanto principio gl'imperiali alla battaglia con dei manifesti, ne' quali esposero le ragioni dell'augusta famiglia sopra i regni di Spagna, allegando i testamenti di que' monarchi in favore degli Austriaci di Germania, e le solenni rinunzie fatte dalle due infante Anna e Maria Teresa, regine di Francia. Fu a questi dall'altra parte risposto, aver da prevalere agli altri testamenti l'ultima volontà del regnante re Carlo II, nè doversi attendere le rinunzie suddette; non potendo le madri privar del loro gius i figliuoli: pretensione che strana sembrò a molti, non potendosi più fidare in avvenire d'atti somiglianti, e restando con ciò illusorii i patti e i giuramenti. Ma non s'è forse mai veduto che le carte decidano le liti de' principi, se non allorchè loro mancano forze ed armi per sostenere le pretensioni loro, giuste od ingiuste che sieno. Però ad altro non si pensò che a far guerra, come già ognun prevedeva; e la prima scena di questa terribil tragedia toccò alla povera Lombardia.

Per gli uffizii della corte cesarea era già stato appoggiato il governo della Fiandra [154] a Massimiliano elettor di Baviera, sulla speranza di trovare in lui un buon appoggio nelle imminenti contingenze. Fece il tempo vedere ch'egli più pensava a sostener le ragioni del figlio suo che le altrui; e rapitogli poi dalla morte questo suo germe, crebbero sempre più le amarezze sue contro la corte di Vienna, la quale non ebbe maniera di torgli quel governo, perchè più numerose erano le di lui milizie in Fiandra che le spagnuole. Misero tosto i Francesi un amichevole assedio a questo principe, e con obbligarsi di pagargli annualmente gran somma di danaro, e con promesse di dilatare i suoi dominii in Germania, il trassero nel loro partito; e si convenne che, movendosi le armi, egli sarebbe dei primi in Baviera a far delle conquiste. Ciò fatto, ebbero maniera le truppe franzesi d'entrar quetamente nelle piazze di Fiandra, ove gli Olandesi tenevano guernigione, con licenziarne le loro truppe. Rivolse nello stesso tempo il gabinetto di Francia le sue batterie a Vittorio Amedeo duca di Savoia, per guadagnarlo. Ben conosceva questo avveduto principe che, caduto lo Stato di Milano in mano della real casa di Borbone, restavano gli Stati suoi in ceppi, ed esposti a troppi pericoli per l'unione o fratellanza delle due monarchie. Ma sicuro dall'una parte che non gli sarebbe accordata la neutralità, e dall'altra, che ricalcitrando verrebbe egli ad essere la prima vittima del furore franzese, giacchè il re Cristianissimo s'era potentemente armato, e l'Augusto Leopoldo avea trovato all'incontro assai smilze le sue truppe, e troppo tardi sarebbero giunti in Italia i suoi soccorsi: però con volto tutto contento contrasse alleanza colle corone di Francia e Spagna; e si convenne che il re Cattolico Filippo V prenderebbe in moglie la principessa Maria Lodovica Gabriella sua secondogenita; ch'egli sarebbe generalissimo dell'armi gallispane in Italia; somministrerebbe otto mila fanti e due mila e cinquecento cavalli; e ne riceverebbe pel mantenimento mensualmente [155] cinquanta mila scudi, oltre ad uno straordinario aiuto di costa per mettersi decorosamente in arnese. Qui non si fermarono gl'industriosi Franzesi. Spedito a Venezia il cardinale d'Etrè, gli diedero commissione di trarre in lega ancor quella repubblica; ma più di lui ne sapea quel saggio senato, risoluto di mantenere in questi imbrogli la neutralità: partito pericoloso per chi è debile, ma non già per chi ha la forza da poterla sostenere, quali appunto erano i Veneziani. Fornirono essi le lor città di copiose soldatesche, lasciando poi che gli altri si rompessero il capo. Non così avvenne a Ferdinando Carlo Gonzaga duca di Mantova, che si trovava a' suoi divertimenti in Venezia. Oltre all'avere il cardinal suddetto guadagnati i di lui ministri con quei mezzi che hanno grande efficacia nei cuori venali, tanto seppe dire al duca, facendo valere ora le minaccie, ora gli allettamenti di promesse ingorde, che non seppe resistere; e massimamente perchè in suo cuore conservava un segreto rancore contra di Cesare per cagion di Guastalla, a lui tolta con Luzzara e Reggiuolo, e perchè sempre abbisognava di danaro, secondo lo stile degli altri scialacquatori pari suoi. Per dar colore a questa sua risoluzione inviò a Roma il marchese Beretti suo potente consigliere, acciocchè pregasse il pontefice di voler mettere presidio papalino in Mantova, affine di non cederla ad alcuno. E a ciò essendo condisceso il santo padre, poco si stette poi a scoprire essere seguito accordo fra lui e i Franzesi ed essere una mascherata quella del suo inviato a Roma; il perchè fu questi licenziato con poco suo piacere da quella sacra corte. Comunemente venne detestata questa viltà del duca, essendo Mantova città che anche fornita di soli miliziotti si potea difendere, oltre al potersi credere che i Franzesi non sarebbono giunti ad insultarlo, se avesse resistito. Ne fece ben egli dipoi un'aspra penitenza. In vigore del suddetto concordato, sul principio di aprile, circa quindici mila Franzesi, [156] ch'erano già calati in Italia, si presentarono sotto il comando del conte di Tessè alle porte di Mantova, minacciando, secondo il concerto, di voler entrare colla forza in quella forte città; e però il duca, mostrando timore di qualche gran male, cortesemente ricevette quegli ospiti novelli, e gridò poi dappertutto (senza però che alcuno glielo credesse) che gli era stata usata violenza.

Verso il principio della primavera cominciarono a calare in Italia le truppe franzesi a fin di difendere lo Stato di Milano; giunse anche a Torino nel dì 4 di aprile il maresciallo di Catinat, con dimostrazioni di gran giubilo accolto da quel real sovrano che il trattò da padre, e più volte gli disse di voler imparare sotto di lui il mestier della guerra, e a guadagnar battaglie. Nacque appunto nel dì 27 del mese suddetto al duca il suo secondogenito, a cui fu posto il nome di Carlo Emmanuele, oggidì re di Sardegna e duca di Savoia. Accresciuta poi l'armata franzese da altre milizie che sopravvennero, e decantata secondo il solito dalla politica guerriera più numerosa di quel ch'era, il Catinat sul principio di maggio passò con essa sul veronese, e andò a postarsi all'Adige, armando tutte quelle rive per impedire il passo ai Tedeschi, i quali si credeva che tenterebbono il passo stretto della Chiusa. Erano in questo mentre calati dalla Germania quanti cavalli e fanti potè in fretta raunare la corte cesarea, e se ne facea la massa a Trento. Al comando di questa armata fu spedito il principe Eugenio di Savoia, non senza maraviglia della gente, che non sapeva intendere come un principe di quella real casa imbrandisse la spada contro lo stesso duca di Savoia generalissimo de' Gallispagni. Seco venivano il principe di Commercy e il principe Carlo Tommaso di Vaudemont (tuttochè il di lui padre al servigio della Spagna governasse lo Stato di Milano) e il conte Guido di Staremberg. Allorchè fu all'ordine un competente corpo d'armata, il principe [157] Eugenio, prima che maggiormente s'ingrossasse l'esercito nemico (già più poderoso del suo) con truppe nuove procedenti dalla Francia, e con quelle del duca di Savoia, si mise in marcia per isboccar nelle pianure d'Italia. Trovò impossibile il cammino della Chiusa, e presi tutti i passi superiori dell'Adige. Se i Tedeschi non hanno ali, dicevano allora i Franzesi, certo per terra non passeranno. Ma il principe a forza di copiosi guastatori si aprì una strada per le montagne del Veronese e Vicentino, e all'improvviso comparve al piano con qualche pezzo d'artiglieria. Per un argine insuperabile era tenuto il grossissimo fiume dell'Adige; e pure il generale Palfi, nel dì 16 di giugno, ebbe la maniera di passarlo di sotto a Legnago. Il che fatto, i Franzesi a poco a poco si andarono ritirando, e gli altri avanzando. Nel dì 9 di luglio seguì sul veronese a Carpi un fatto caldo, e di là sloggiati con molta perdita i Gallispani, furono in fine costretti a ridursi di là dal Mincio, dove si accinsero a ben custodir quelle rive. Perchè in rinforzo loro colle sue genti arrivò Vittorio Amedeo duca di Savoia, ed erano ben forniti di gente e cannoni gl'argini di esso fiume, allora sì che parve piantato il non plus ultra ai passi dell'armata alemanna. Ma il principe Eugenio, nulla spaventato nè dalla superiorità delle forze nemiche, nè dalle gravi difficoltà dei siti, nel dì 28 di luglio animosamente formato un ponte sul Mincio, lo valicò colla sua armata, non avendo il Catinat voluto aderire al sentimento del duca di Savoia, di opporsi, perchè credea più sicuro il giuoco, allorchè fosse arrivato un gran corpo di gente a lui spedito di Francia. Prese questo maresciallo il partito di postarsi di là dal fiume Oglio, lasciando campo al principe Eugenio d'impadronirsi di Castiglion delle Stiviere, di Solferino e di Castel Giuffrè nel dì 5 d'agosto: con che le sue truppe cominciarono a godere delle fertili campagne del Bresciano, e a mettere in contribuzione lo Stato di Mantova con [158] alte grida di quel duca, che cominciò a provar gli amari frutti delle sue sconsigliate rivoluzioni. Trovaronsi in questi tempi molto aggravati dalle nemiche armate i territorii della repubblica veneta. Ma essa nè per minaccie, nè per lusinghe si volle mai dipartire dalla neutralità saggiamente presa, tenendo guernite di grosse guernigioni le sue città, che per ciò furono sempre rispettate.

Era, non può negarsi, il maresciallo di Catinat, maestro veterano di guerra, non men provveduto di valore che di prudenza; ma dacchè si cominciò a scorgere che più anche di lui sapea questo mestiere il principe Eugenio, tuttochè non pervenuto ancora all'età di quarant'anni, giudicò il re Cristianissimo col suo consiglio che agli affari d'Italia, i quali prendeano brutta piega, occorreva un medico di maggior polso e fortuna. Fu perciò risoluto di spedir in Lombardia il maresciallo duca di Villeroy, con dargli il supremo comando dell'armata, senza pregiudizio degli onori dovuti al duca di Savoia generalissimo. Nuove truppe ancora, oltre le già inviate, si misero in cammino, affinchè la maggior copia dei combattenti, aggiunta alla consueta bravura franzese, con più felicità potesse promettersi le vittorie. Nel dì 22 d'agosto giunse il Villeroy al campo gallispano, menando seco il marchese di Villars, il conte Albergotti Italiano, tenenti generali, ed altri uffiziali, accolto colla maggiore stima dal duca di Savoia e da tutta l'ufficialità. Le prime sue parole furono di chiedere, dov'era quella canaglia di Tedeschi, perchè bisognava cacciarli di Italia: parole che fecero strignere nelle spalle chiunque l'udì. Per li sopraggiunti rinforzi si tenne l'esercito suo superiore quasi del doppio a quel de' Tedeschi: laonde il principe Eugenio ebbe bisogno di tutto il suo ingegno per trovar maniera di resistere a sì grosso torrente; e siccome egli era mirabile in divisare e prendere i buoni postamenti, così andò ad impossessarsi della terra di [159] Chiari nel Bresciano, non senza proteste e doglianze del comandante veneto; e quivi si trincierò, facendosi specialmente forte dietro alcune cassine e mulini. Ardeva di voglia il Villeroy di venire alle mani col nemico, perchè si teneva in pugno il trionfo; e però valicato l'Oglio a Rudiano, a bandiere spiegate andò in traccia dell'armata tedesca, con risoluzion di assalirla. Era il dì primo di settembre, in cui arrivato a Chiari ordinò la presa di quel luogo, sulla credenza che ivi fosse una semplice guernigione, e non già tutta l'oste nemica. Ma vi trovò più di quel che pensava, cioè cannoni e gente che non si sentiva voglia di cedere. Lasciarono i Tedeschi ben accostare gli assalitori, e poi cominciarono un orrido fuoco; e per quanti sforzi facessero i Franzesi, sacrificarono ben sul campo di battaglia le lor vite, ma o non poterono forzar quei ripari, o appena ne forzarono alcuno, che indi a poco fu ripigliato dai coraggiosi cesarei. Tanta resistenza fece in fine prendere al Villeroy il partito di battere la ritirata col miglior ordine possibile, riportando seco un buon documento di un più moderato concetto di sè medesimo, e il dispiacere di aver data occasion di dire ch'egli era venuto per la posta in Italia, per aver la gloria da farsi battere. Tre mila persone si credette che costasse a' Franzesi quella azione tra morti e feriti, e pochissimi dalla parte degl'imperiali.

Vittorio Amedeo duca di Savoia in quel combattimento si segnalò nello sprezzo di tutti i pericoli; e o fosse una cannonata, come a me raccontò persona bene informata, o pur colpo di fucile, corse rischio della vita sua. E fu in questa occasione ch'egli si affezionò agli strologhi perchè un d'essi avea dagli Svizzeri due mesi prima scritto ad un confidente di esso principe che nel dì primo di settembre sua altezza reale correrebbe un gran pericolo. Per quanto false da lì innanzi egli trovasse le sue predizioni, non perdè mai più la stima di quell'arte vana [160] ed ingannatrice. Accostandosi il verno, richiamò esso sovrano le sue milizie in Piemonte; e il Villeroy veggendo ostinati a tener la campagna i Tedeschi, giudicò meglio di ritirarsi egli il primo, e di ripartire a' quartieri massimamente sul Cremonese la maggior parte delle soldatesche sue; con che ebbero agio i Cesarei d'impadronirsi di Borgoforte, di Guastalla, d'Ostiglia e di Ponte-Molino e d'altri luoghi. Aveano già saputo col mezzo delle minaccie i Gallispani mettere il piede sui principii di quest'anno entro la fortezza della Mirandola. Seppe così ben concertare anche il principe Eugenio colla principessa Brigida Pico le maniere di cacciarli, che quella città vi ricevette presidio cesareo. A cavallo del Po spezialmente se ne stavano le milizie imperiali, invigorite ultimamente da nuovi soccorsi calati dalla Germania; s'impossessarono ancora di Canneto e di Marcaria; e giacchè, a riserva del castello di Goito e di Viadana non restavano più Franzesi sul Mantovano, diede principio esso principe Eugenio ad un blocco lontano intorno alla stessa città di Mantova, fornita d'un vigoroso presidio di Franzesi. Essendo oramai i cesarei in possesso di tutto il Mantovano, non s'ha da chiedere se facessero buon trattamento a que' poveri popoli; e tanto più perchè il loro duca era stato dichiarato ribello del romano imperio.

E fin qui la sola Lombardia avea sostenuto il peso della guerra, quando nel dì 25 di settembre scoppiò un turbine anche nella città di Napoli. Non mancavano in quella gran metropoli dei divoti del nome austriaco sì nella nobiltà che nel popolo. Negli eserciti dell'imperadore Leopoldo e del re Carlo II molti di quei nobili, militando in addietro, aveano pel loro valore conseguito dei gradi ed onori distinti. Questa fazione, valutando non poco l'essersi finora negata dal sommo pontefice l'investitura di quel regno al prelodato re Filippo, teneva per lecito l'aderire all'augusta casa d'Austria, e [161] macchinava sollevazioni, senza nulla atterrirsi per le frequenti prigionie che faceva il vicerè duca di Medina Celi dei chiamati inconfidenti. Dimorava in questi tempi il cardinal Grimani veneto in Roma, accurato ministro della corte cesarea, e andava scandagliando i cuori di quei Napoletani, nei quali prevaleva l'amore verso del sangue austriaco, e che già aveano attaccati cartelli per le piazze di Napoli colle parole usate giù dal giudaismo, e riferite nel Vangelo: Non habemus regem, nisi Caesarem. Quando a lui parve assai disposta la mina, per la sicurezza che avea di molti congiurati, e sperandone molti più allorchè le si appiccasse il fuoco, spedì travestito a Napoli di barone di Sassinet segretario dell'ambasciata cesarea. Costui nel giorno suddetto, presa in mano una bandiera imperiale, uscì in pubblico, ed unitasi a lui gran copia di quei lazzari, cominciò a gridare: Viva l'imperadore. Crebbero a migliaia i sollevati, e s'impadronirono della chiesa di San Lorenzo, della torre di Santa Chiara e di altri posti. Lor condottiere fu don Carlo di Sangro nobile napoletano e uffiziale nelle truppe cesaree. Era stato fatto credere al buon imperadore Leopoldo, tale essere l'amore degl'Italiani, e massimamente nel regno di Napoli e Stato di Milano, che bastava alzare un dito, perchè tutti i popoli si sollevassero in favor suo. Ma questi non erano più i tempi dei Ghibellini, quando agguerriti i popoli d'Italia, e agitati dall'interno fermento delle fazioni, troppo facilmente tumultuavano e spendevano la vita per soddisfare alle loro passioni. Si trovavano ora i popoli inviliti; talun d'essi oppresso dai principi allevati nella quiete, e alieni da azzardare quanto aveano in tentativi pericolosi.

Alzatosi dunque il romore, la maggior parte della nobiltà napoletana corse ad esibirsi in difesa del vicerè, e non tardò lo stesso eletto del popolo con ischiere numerose di quei popolari ad assicurarlo della sua e lor fedeltà. Il perchè uscite le guernigioni spagnuole in armi, ed unite [162] con quattrocento di quei nobili e più migliaia del popolo, non durarono gran fatica a dissipare i sollevati, a riacquistare i luoghi occupati, e a far prigione il barone di Sassinet e don Carlo di Sangro con altri nobili che non ebbero la fortuna di salvarsi colla fuga. Ad alcuni segretamente nelle carceri tolta fu la vita; pubblicamente mozzo il capo al Sangro; rasato il palazzo di Telesa di casa Grimaldi; e il Sassinet venne poi da lì a qualche tempo condotto in Francia. Calmossi tosto quella mal ordita sollevazione; e per maggior sicurezza di quella città, vi furono per terra e per mare spediti dal re Cristianissimo abbondanti rinforzi di milizie e di munizioni; e il duca d'Ascalona passò dal governo della Sicilia a quello di Napoli. Intanto non cessava la corte cesarea di perorar la sua causa in quelle delle amiche potenze, mettendo davanti agli occhi d'ognuna qual rovina si potea aspettare dall'oramai sterminata possanza della real casa di Borbone, per essersi ella piantata sul trono della Spagna. Di queste lezioni non aveano gran bisogno gl'Inglesi ed Olandesi per conoscere il gran pericolo a cui anch'essi rimanevano esposti; ed aggiuntovi il dispetto di essere stati beffati dal re Cristianissimo colle precedenti capitolazioni, non fu in fine difficile il trarli ad una lega difensiva ed offensiva contro la Francia. Fu questa sottoscritta all'Haia nel dì 7 di settembre dai ministri di Cesare, di Guglielmo re della Gran Bretagna, e dall'Olanda; laonde ognuno si diede a preparar gli arnesi per uscir con vigore in campagna nell'anno appresso. Ma nè pur dormiva il re Cristianissimo, e di mirabili preparamenti fece anche egli per ricevere i già preveduti nemici. Nel settembre di quest'anno seguì in Torino lo sposalizio della principessa Maria Luigia, secondogenita del duca di Savoia, col re di Spagna Filippo V; ed ella appresso si mise in viaggio per andare ad imbarcarsi a Nizza e passare di là in Ispagna.

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Anno di Cristo MDCCII. Indizione X.
Clemente XI papa 3.
Leopoldo imperadore 45.

Mentre lo zelante pontefice Clemente XI non rallentava le sue premure per introdurre pensieri di pace fra i principi guerreggianti, e prevenire con ciò l'incendio che andava a farsi maggiore in Europa, non godeva egli quiete in casa propria, perchè combattuto da' ministri d'esse potenze, pretendendolo cadaun di essi troppo parziale dell'altra parte. Spezialmente si scaldava su questo punto la corte cesarea. Non s'era già ella doluta perchè il santo padre avesse spedito il cardinale Archinto arcivescovo di Milano con titolo di legato a latere a complimentare la novella regina di Spagna; ma fece ben di gravi doglianze, perchè in Roma venisse pubblicata sentenza contro il marchese del Vasto, principe aderente alla corona imperiale, per aver egli preteso che il cardinale di Gianson avesse voluto farlo assassinate. Unironsi a questi in appresso altri più gravi lamenti per le dimostrazioni fatte dal papa al re Filippo V. Prevalse in Madrid e Parigi, benchè non senza contraddizione di molti, il sentimento di chi consigliava quel giovane monarca di venire alla testa dell'esercito gallispano in Italia, non tanto per dar calore alle azioni della campagna ventura e conciliarsi il credito del valore, quanto ancora per confermare in fede i popoli titubanti colla sua amabil presenza, e coll'aspetto della sua singolar pietà, saviezza e genio inclinato alla generosità e clemenza. Finchè fosse in ordine la possente sua armata in Lombardia, verso la quale erano in moto molte migliaia di combattenti spedite da Francia e Spagna, fu creduto bene ch'egli passasse a Napoli a farsi conoscere per quel principe che era, degno dell'ossequio ed amore di ognuno. Arrivò questo grazioso monarca per mare a quella metropoli nel dì 16 di aprile, cioè nel giorno solenne di Pasqua, [164] accolto con sontuosissimi apparati e segni di gioia da quella copiosa nobiltà e popolo. Se egli si mostrò ben contento ed ammirato della bella situazione, grandezza e magnificenza di quella real città e de' suoi abitatori, non fu men contenta di lui quella cittadinanza, o, per meglio dire, il regno tutto, per le tante grazie che gli compartì il benefico suo cuore, di modo che in lontananza mal veduto da molti, si partì poi di colà amato ed adorato quasi da tutti. Gli spedì in tal congiuntura il papa Clemente il cardinale Cario Barberini, ornato del carattere di legato a latere, ad attestargli il suo paterno affetto, e a presentargli dei superbi regali, preziosi per la materia e più per la divozione. Questa spedizione, tuttochè approvata come indispensabile dai saggi, e che non perciò portava seco l'investitura dei regni di Napoli e Sicilia, pure cotanto spiacque al conte di Lamberg ambasciatore di Cesare, che col marchese del Vasto si allontanò da Roma. Bolliva intanto nella sacra corte la gran controversia dei riti cinesi; e perchè sulle troppo contrarie relazioni venute di colà non si poteano ben chiarire i fatti, determinò il prudente pontefice d'inviar fino alla Cina un personaggio non parziale, e per la sua dottrina cospicuo, che sul fatto osservasse ciò che esigesse correzione, con facoltà di rimediare a tutto. A questo importante affare di religione fu prescelto monsignor Tommaso di Tournon Piemontese, che con titolo di vicario apostolico, portando seco molti regali da presentare all'imperador cinese, imprese quello sterminato viaggio per mare, ed egregiamente poi soddisfece all'assunto suo. Fu ancora in quest'anno a dì 17 di febbraio terminata dal santo padre con una sentenza la lite lungamente stata fra la duchessa di Orleans e l'elettore palatino, già da gran tempo compromessa nella santità sua.

Non fu bastante il rigore del verno nell'anno presente a frenar le operazioni militari del principe Eugenio. Fin qui Rinaldo d'Este duca di Modena avea goduta [165] la quiete nei suoi Stati, risoluto di non prendere impegno in mezzo alle terribili dissensioni altrui. Ma troppo facilmente vengono falliti i conti ai principi deboli, che in mezzo alla rivalità di potenti eserciti si lusingano di potere salvarsi colla neutralità. Aveva egli ben munito Brescello, fortezza di somma importanza, perchè situata sul Po, guernita di settanta pezzi di cannone di bronzo, di copiose munizioni da bocca e da guerra, e di un competente presidio. A nulla aveano servito fin qui le istanze del cardinale d'Etrè, nè dei generali cesarei per levargliela dalle mani; ma avvenne che il tenente general franzese conte Albergotti lasciossi vedere in quei contorni, ed abboccatosi ancora col comandante della piazza, tentò, ma inutilmente, la di lui fede con grandiose esibizioni. Risaputosi ciò dai Tedeschi acquartierati nella vicina Guastalla, e nata in loro diffidenza, si servirono di questo pretesto per obbligare il duca a consegnar loro quella fortezza. In quelle vicinanze adunque fece il principe Eugenio unire un corpo di circa dodici mila soldati, e nello stesso tempo spedì a Modena il conte Sormanni a chiedere in deposito la piazza suddetta. Nel dì 4 di gennaio seguì l'intimazione, fiancheggiata da minaccie, in caso di ripugnanza; laonde il duca non senza pubbliche proteste contro sì fatta violenza s'indusse a cederla. Crederono dipoi i Franzesi ciò seguito di concerto, o al men si prevalsero di questa apparente ragione per procedere ostilmente contro il medesimo duca. Ottenuto Brescello, si stesero sul Parmigiano l'armi cesaree, e nella stessa maniera pretesero di obbligare Francesco Farnese duca di Parma ad ammettere guernigione imperiale nelle sue città. Ma quel principe con allegare che i suoi Stati erano feudi della Chiesa, e di non poterne disporre senza l'assenso del papa, di cui aveva inalberato lo stendardo, seppe e potè difendersi sotto quell'ombra; anzi, per assicurarsi meglio dalle violenze in avvenire, trasse poi le truppe pontifizie [166] a guernir di presidio le suddette sue città. Ma questo non impedì che le soldatesche imperiali non occupassero da lì innanzi Borgo S. Donnino, Busseto, Corte Maggiore, Rocca Bianca ed altri luoghi di quel ducato.

Grande strepito fece in questi tempi un impensato gran tentativo ideato dall'indefesso principe Eugenio per sorprendere la città di Cremona, tuttochè allora provveduta di parecchi reggimenti franzesi, e colla presenza del maresciallo duca di Villeroy, che aveva quivi stabilito il suo quartiere. Teneva esso principe intelligenza secreta in quella città col proposto di Santa Maria Nuova, spasimato fautore dell'augusta casa d'Austria, la cui chiesa ed abitazione confinava colle mura della città. Sotto la di lui casa passando un condotto che sboccava nella fossa, gli fece lo sconsigliato prete conoscere che si poteva di notte introdurre gente, ed avventurare un bel colpo. Non cadde in terra la proposizione, e il principe prese tutte le sue misure per accostarsi quetamente alla città nella notte antecedente al dì primo di febbraio con alquante migliaia de' suoi combattenti. Per la chiavica suddetta s'introdussero in Cremona alcune centinaia di granatieri e di bravi uffiziali con guastatori, che trovati i Franzesi immersi nel sonno, ebbero tempo di forzare ed aprire due porte, per le quali entrò il grosso degli altri Alemanni. Svegliata la guarnigion franzese, diede di piglio all'armi, e si attaccò una confusa crudel battaglia. Uscito di casa il maresciallo di Villeroy per conoscere che romor fosse quello, andò a cader nelle mani de' Tedeschi, e fu poi mandato prigione fuori della città con altri uffiziali. Non posso io entrare nella descrizione di quel fiero attentato, e basterammi di dire che seguì un gran macello di gente dall'una e dall'altra parte perchè si menavano le mani con baionette e sciable. In fine soppraffatti i Tedeschi dai Franzesi, e massimamente dalla bravura degl'Irlandesi, furono obbligati a ritirarsi il meglio che [167] poterono. Con loro salvatosi il prete, passò poi in Germania, dove trovò buon ricovero. A questa disavventura degli Austriaci sopra tutto influì il non aver potuto il giovine principe Tommaso di Vaudemont, come era il concerto, giugnere a tempo pel Parmigiano al Po, e valicarlo; e questo a cagion delle strade rotte e dei fossi che vi ebbero a passare, oltre all'aver anche trovato rotto il ponte dai Franzesi, pel quale pensava di transitare il fiume. Fu creduto che la parte cesarea vi perdesse più di settecento uccisi, e più di quattrocento rimasti prigioni, fra i quali il baron di Mercy; e che più di mille fra morti e feriti furono i Franzesi, oltre a rimasti cinquecento prigionieri, fra i quali il luogotenente generale marchese di Crenant con altri non pochi uffiziali, e lo stesso maresciallo di Villeroy. Gloriosa si riputò l'impresa per gli assalitori, ma più gloriosa certamente riuscì per li difensori.

Andossi poi sempre più di giorno in giorno ingrossando l'esercito gallispano, sicchè si fece poi ascendere sino a circa cinquanta mila armati, laddove l'oste nemica appena arrivava alla metà, non essendo mai calate di Germania le desiderate reclute, perchè si attendeva alla guerra mossa in altre parti. Al comando dell'armi gallispane fu spedito da Parigi il duca di Vandomo Luigi Giuseppe, principe dei più esperti nel magistero militare, in cui gran nome s'era già procacciato. Arrivò egli in Italia dopo la metà di febbraio, e da che vide l'esercito suo rinforzato dalle tante milizie venete di Francia, uscì in campagna nel mese di maggio, con intenzione spezialmente di liberare la città di Mantova, oramai ridotta a molti bisogni e strettezze pel lungo blocco de' Tedeschi. Ritirò il principe Eugenio da varii siti le genti sue, e poi con alto e lungo trincieramento si fortificò dalla banda del serraglio in faccia a quella città. Entrò il Vandomo in Mantova con quanta gente volle, e ricuperò colla forza Castiglion delle Stiviere; e già [168] s'aspettava ognuno ch'egli con tanta superiorità di forze non volesse sofferire in sì gran vicinanza a Mantova i nemici. Ma passò il giugno senza azione alcuna di riflesso, perchè a superare il postamento degli Alemanni si potea rischiar molto. Il vero motivo nondimeno di quella inazione fu l'avere il re Cattolico scritto da Napoli al Vandomo, che portasse bensì a Mantova il soccorso, ma che non tentasse altra maggiore impresa sino all'arrivo suo. Cioè riserbava questo monarca a sè tutte le palme e gli allori che si aveano da raccogliere dalla presente campagna. Nel dì 2 di giugno imbarcatosi il re Filippo V, fece la sua partenza da Napoli, e nel passar da Livorno fu visitato e superbamente regalato dal gran duca Cosimo III de Medici, dal gran principe Ferdinando e dalla gran principessa Violante di Baviera sua zia. Andò a sbarcare al Finale, e venuto ad Acqui nel Monferrato, ebbe la visita di Vittorio Amedeo suocero suo, e nel dì 18 con gran pompa fece la sua entrata in Milano. In questo mentre il principe Eugenio attese a fortificar Borgoforte, e a formare di qua e di là dal Po un ben munito accampamento. E da che intese che il re Cattolico marciava pel territorio di Parma alla volta del Reggiano col maggior nerbo della sua armata, inviò il generale marchese Annibale Visconti con tre reggimenti di corazze a postarsi a Santa Vittoria, sito vantaggioso, perchè circondato da canali e dal fiume Crostolo. Se ne stavano questi Alemanni con gran pace in quel luogo, con poca guardia, senza spie, coi cavalli dissellati al pascolo, credendo che i Franzesi tuttavia si deliziassero nel Parmigiano: quand'ecco nel dopo pranzo del dì 26 di luglio si videro comparire addosso il conte Francesco Albergotti tenente generale dei Franzesi, o pure lo stesso duca di Vandomo con quattro mila cavalli e due mila fanti. La confusione loro fu eccessiva; fecero essi quella difesa che poterono in tale improvvisa e cattiva disposizione; ma in fine convenne [169] loro voltar le spalle, e lasciare alla balìa dei vincitori il bagaglio, quattordici stendardi, due paia di timbali e cento cavalli. Trecento furono i morti, altrettanti i prigioni, e il re Filippo sopraggiunto ebbe il piacere di mirare il fine di quella mischia.

Non avendo più alcun ritegno i Franzesi, dieci mila d'essi nel dì 29 di luglio si presentarono sotto la città di Reggio, e non trovarono gran difficoltà ad impadronirsene; avvenimento che fece intendere a Rinaldo d'Este duca di Modena qual animo covassero contra di lui i re di Francia e di Spagna. Però nel giorno seguente con tutta la sua corte s'inviò alla volta di Bologna, lasciando il popolo di Modena in somma costernazione. Giunse nel primo dì d'agosto sotto questa città il conte Albergotti con un grosso corpo di cavalleria e fanteria, che dimandò la cittadella a nome del re Cattolico. La consulta lasciata dal duca, con facoltà di operare ciò che credesse più a proposito in sì scabrose congiunture, con assai onorevole capitolazione si sottomise alla forza dell'armi. Lo stesso avvenne a Carpi, Correggio e al rimanente degli Stati del duca, eccettuata la Garfagnana di là dall'Apennino che ricusò di ubbidire. L'aspetto di questi progressi dell'esercito franzese quel fu che in fine obbligò il principe Eugenio a ritirar le sue truppe dal Serraglio di Mantova, e a lasciar libera quella città, per accudire al di qua dal Po, dove alla testa sul Correggiesco s'era accampato il re Cattolico colla sua grande armata, che venne in questi tempi accresciuta da buona parte delle truppe, colle quali il vecchio principe di Vaudemont dianzi campeggiava in difesa di Mantova. Essendosi presa la risoluzione dai Gallispani di marciare alla volta di Borgoforte, per qui venire a giornata campale, si mosse la loro armata nella notte precedente al dì 15 di agosto alla sordina, e s'inviò alla volta di Luzzara, dove si trovò un comandante tedesco che, all'intimazion della resa, non [170] rispose se non col fuoco de' fucili. Camminavano i Franzesi spensieratamente coll'immaginazione in capo di trovare il principe Eugenio sepolto ne' trincieramenti di Borgoforte; quando all'improvviso si accorsero che il coraggioso principe, marciando per gli argini del Po, veniva a trovarli, e diede infatti principio ad un fiero combattimento, sulle cui prime mosse perdè la vita il generale cesareo principe di Commercy. Era già suonata la ventun'ora, quando si diede fiato alle trombe, e si accese il terribil conflitto. Durò questo fino alla notte con gran bravura, con molta mortalità dell'una e dell'altra parte, e restò indecisa la vittoria, benchè ognun dal suo canto facesse dipoi intonare solenni Te Deum, ed amplificasse la perdita de' nemici, e sminuisse la propria: il che fa ritener me dal riferire il numero dei morti e feriti. Quel ch'è certo, a niun d'essi restò per allora il campo della battaglia, e non lieve preda fecero i cesarei. Per altro in quella notte stettero quiete in vicinanza le due armate, e credevasi che, fatto il giorno, si azzufferebbono di nuovo, e che, o gli uni o gli altri volessero veder la decisione delle loro contese. Attese il duca di Vandomo, essendo alquanto rinculato, ad assicurare il suo campo dall'invasion del nemico con buoni argini e trincieramenti, e con formare un ponte sul Po per mantener la comunicazione col Cremonese. Gli era restata alle spalle Guastalla, e ne fece l'assedio; e forzato, dopo nove giorni di trincea aperta, il general Solari a renderla nel dì 9 di settembre, mise in possesso di quella città Ferdinando Carlo Gonzaga duca di Mantova. Cinse ancora di stretto blocco la fortezza di Brescello del duca di Modena. In questi tempi furono veduti novecento cavalli usseri e tedeschi, condotti dall'Eberzeni, Paolo Diak e marchese Davia bolognese, passare pel Reggiano fin sul Pavese, esigendo contribuzioni dappertutto. Entrarono poi fin dentro Milano, e vi gridarono: Viva l'imperadore; e [171] salvi poi pel Mantovano si ridussero al loro campo.

Stettero dipoi nei divisati postamenti l'una in faccia all'altra l'armate nemiche, facendosi solamente guerra colle cannonate e con qualche scaramuccia, finchè venne il verno, con grande onore del principe Eugenio, il quale con tanta inferiorità di forze seppe sì lungamente tenere a bada nemici cotanto poderosi. L'ultimo trofeo che riportò in questa campagna il giovine re Filippo V, fu, siccome dicemmo, la presa di Guastalla. Dopo di che pensò a ritornarsene in Ispagna, chiamato colà dai bisogni ed istanze de' suoi regni. Fermossi in Milano alcune settimane, da dove, nel dì 6 di novembre, si mosse alla volta di Genova, ricevuto ivi con incredibile splendidezza da quella nobiltà e popolo; e di là fece poi vela verso la Catalogna. Accostandosi il verno, ricuperò l'armata delle due corone Borgoforte, e prese i quartieri in Mantova, e la maggior parte in Modena, Reggio, Carpi, Bomporto ed altri luoghi dello Stato di Modena. Il principe Eugenio, dopo avere distribuiti i suoi nelle terre e ville del basso Modenese contigue alla Mirandola, e nel Mantovano di qua dal Po, con ritenere un ponte sul Po ad Ostiglia, s'inviò alla corte di Vienna, per rappresentar lo stato delle cose e il bisogno di gagliardi soccorsi. Dopo lo spaventoso tremuoto dell'anno 1688 si erano riparate le rovine della città di Benevento; ma nell'aprile ancora di quest'anno si rinnovò nella stessa un quasi pari disastro. Sollevatosi quivi un temporale sì fiero, che sembrava voler diroccare la terra da' fondamenti, cagion fu che gli abitanti scappassero fuori dell'abitato. Succedette poscia un terribile scotimento, che rovesciò buona parte della città bassa, e il palazzo dell'arcivescovo e la cattedrale. Ducento cinquanta persone rimasero sfracellate sotto le rovine. Anche le città d'Ariano, Grotta, Mirabella, Apice ed altre di que' contorni ebbero di che piagnere, perchè quasi interamente [172] distrutte. Altre non men funeste scene di guerra si videro nell'anno presente in Germania, Fiandra ed altri paesi bagnati dal Reno, giacchè l'imperadore e le potenze marittime aprirono anch'esse il teatro della guerra in quelle parti contro la Francia. Di grandi preparamenti avea fatto l'Inghilterra per questo, quando venne a mancar di vita nel dì 19 di marzo il loro re Guglielmo principe di Oranges, e fu dipoi alzata al trono la principessa Anna, figlia del già defunto cattolico re della Gran Bretagna Giacomo II, e moglie di Giorgio principe di Danimarca, la quale con più ardore ancora del suddetto re Guglielmo incitò quella nazione ai danni della real casa di Borbone, ed inviò per generale dell'armi britanniche nei Paesi Bassi milord Giovanni Curchil conte di Marlboroug, col cui valore si mosse poi sempre collegata la fortuna.

All'incontro la Francia trasse nel suo partito gli elettori di Baviera e Colonia fratelli. Varii assedii furono fatti al basso Reno; risonò spezialmente la fama per quello di Landau nell'Alsazia, eseguito con gran sangue dall'armata cesarea comandata dallo stesso re de' Romani Giuseppe. In esso tempo il Bavaro collegatosi co' Franzesi mosse anch'egli le armi sue, con sorprendere la città d'Ulma, Meninga ed altre di quei contorni, e con accendere un gran fuoco nelle viscere della Germania, dove i circoli di Franconia, Svevia e Reno accrebbero il numero dei collegati contro della Francia. Ma ciò che diede più da discorrere ai novellisti in quest'anno, fu il terrore e danno immenso recato alle Coste della Spagna dalla formidabile armata navale degl'Inglesi ed Olandesi, guidata dall'ammiraglio Rooc inglese, dall'Alemond olandese e da Giacomo duca d'Ormond generale di terra. Verso il fine d'agosto approdò questa a Cadice (antica Gades dei Romani), emporio celebre e doviziosissimo della monarchia spagnuola sull'Oceano. Superati alcuni di quei forti, v'entrarono gli Anglolandi, [173] e diedero un fiero sacco alla terra, asportandone qualche milione di preda, ma con aspre doglianze di tutti i mercatanti stranieri, e con accrescere negli Spagnuoli l'odio immenso verso le loro nazioni. Capitarono in questo dall'America i galeoni di Spagna carichi d'oro, d'argento e di varie merci, e scortati da quindici vascelli e da alcune fregate franzesi. All'udire le disavventure di Cadice, si rifugiarono questi ricchi legni nel porto di Vigo in Galizia. Colà accorsa anche la flotta anglolanda, ruppe la catena del porto. Alquanti di que' vascelli e galeoni rimasero incendiati; lo sterminato valsente parte fu rifugiato in terra, parte venne in poter de' nemici; sette vascelli e quattro galeoni salvati dalle fiamme mutarono padroni. Gran flagello, gran perdita fu quella.


   
Anno di Cristo MDCCIII. Indizione XI.
Clemente XI papa 4.
Leopoldo imperadore 46.

Ebbe principio quest'anno con una inondazione del Tevere in Roma stessa, a cui tenne dietro un fiero tremuoto, che alla metà di gennaio con varie scosse per tre giorni si fece sentire in quell'augusta città, riempendola di tal terrore, che tutto il popolo corse ad accomodar le sue partite con Dio; molti si ridussero ad abitar sotto le tende; e il pontefice Clemente XI prescrisse varie divozioni per implorar la divina misericordia. Per questo scotimento della terra la picciola città di Norcia colle terre contigue si convertì in un mucchio di pietre; e quella di Spoleti con varie terre del suo ducato patì gravissimi danni. Grandi rovine si provarono in Rieti, in Chieti, Monte Leone, ed altre terre e borghi dell'Abbruzzo. La città dell'Aquila vide a terra gran parte delle sue fabbriche colla morte di molti. Cività Ducale restò subissata con gli abitanti. Fu creduto che nei suddetti luoghi perissero circa trenta mila persone; nè si può esprimere lo scompiglio e spavento che fu in Roma e [174] per tante altre città in tal congiuntura, perchè sino all'aprile, maggio e giugno altre scosse di terra si fecero sentire; ed ognun sempre stava in allarmi, temendo di peggio. Non mancavano intanto altre fastidiose cure al santo padre in mezzo alle pretensioni delle potenze guerreggianti; nè si esigeva meno che la sua singolar destrezza per navigare in mezzo agli scogli, e sostenere la determinata sua neutralità. Contuttociò il partito austriaco lo spacciava per aderente al Gallispano, e spezialmente fece di gran querele, perchè avendo l'Augusto Leopoldo padre e Giuseppe re de' Romani figliuolo, nel dì 12 di settembre dell'anno presente, ceduto all'arciduca Carlo ogni lor diritto sopra la monarchia della Spagna, con che egli assunse insieme col titolo di re di Spagna il nome di Carlo III, dal pontefice fu proibito che il ritratto di questo nuovo re pubblicamente si esponesse nella chiesa nazional de' Tedeschi in Roma.

Erano restate in una gran decadenza le armi cesaree in Lombardia, perchè alle diserzioni e malattie, pensioni ordinarie dell'armate, non si suppliva dalla corte di Vienna con reclute e nuovi soccorsi, trovandosi Cesare troppo angustiato per li continui progressi di Massimiliano elettor di Baviera, le cui forze alimentate finora dall'oro franzese, e poscia accresciute da un esercito d'essa nazione, condotto dal maresciallo di Villars, faceano già tremar l'Austria e Vienna stessa. Contuttociò il conte Guido di Staremberg, generale di molto senno nel mestier della guerra, lasciato a questo comando dal principe Eugenio, tanto seppe fortificarsi alle rive del Po e della Secchia, che potè sempre rendere vani i tentativi della superiorità dell'esercito franzese. Intanto la fortezza di Brescello sul Po, che per undici mesi avea sostenuto il blocco formato dalle truppe spagnuole, si vide forzata a capitolar la resa. Cercò quel comandante imperiale che questa piazza fosse restituita al duca di [175] Modena, ma non fu esaudito. Vi trovarono i Franzesi un gran treno di artiglieria, di bombe, granate, polve da fuoco, e di altri militari attrezzi; la guernigione restò prigioniera di guerra. Tanto poi si adoperò Francesco Farnese duca di Parma, benchè nipote del duca di Modena Rinaldo d'Este, che nell'anno seguente impetrò dalla Francia e Spagna che si demolissero tutte le fortificazioni di quella piazza, con dolore inestimabile di esso duca di Modena, il quale dimorante in Bologna si trovava perseguitato dalle disgrazie, e conculcato fin dai proprii parenti. Seppe il valoroso conte di Staremberg difendere Ostiglia dagli attentati de' Franzesi; e nel dì 12 di giugno essendo giunto il general franzese Albergotti a Quarantola sul Mirandolese, ebbe una mala rotta da' Tedeschi, e gli convenne abbandonare il finale di Modena. Ciò non ostante, crebbero vieppiù da lì innanzi le angustie dell'esercito alemanno in Italia, perchè l'elettor bavaro cresciuto cotanto di forze entrò nel Tirolo, e giunse ad impossessarsi della capitale d'Inspruch. L'avrebbe bene accomodato il possesso e dominio di quella provincia confinante ai suoi Stati; ma si aggiugnevano due altre mire, l'una di togliere ai Tedeschi quella strada per cui solevano spignere in Italia i soccorsi di milizie, e l'altra di aprirsi un libero commercio coll'esercito franzese, esistente in Italia, affin di riceverne più facilmente gli occorrenti sussidii.

Mossesi infatti il duca di Vandomo nel mese d'agosto dalla Lombardia con parte del suo esercito alla volta del Trentino, sperando di toccar la mano ai Bavaresi, che avevano da venirgli incontro. Marciarono i Franzesi per Monte Baldo e per le rive del lago di Garda, e cominciarono ad aggrapparsi per quelle montagne, con impadronirsi delle castella di Torbole, Nago, Bretonico e d'altre, che non fecero difesa, a riserva del castello d'Arco, il quale per cinque giorni sostenne l'empito de' cannoni nemici, con [176] fatiche incredibili fin colà strascinati. Giunse poi sul fine d'agosto dopo mille stenti l'esercito franzese alla vista di Trento, ma coll'Adige frapposto, e con gli abitanti nell'opposta riva preparati a contrastare gli ulteriori avanzamenti dei nemici. Nè le minaccie del Vandomo, nè molte bombe avventate contro la città atterrirono punto i Trentini, e massimamente dacchè in aiuto loro accorse con alcuni reggimenti cesarei il generale conte Solari. All'aspetto di questi movimenti, comune credenza era in Italia che in breve si avessero a vedere in precipizio gli affari dell'imperadore, fatta che fosse l'unione del Bavaro col duca di Vandomo. Stettero poco a disingannarsi al comparire all'improvviso mutata tutta la scena. I Tirolesi d'antico odio pregni contra de' Bavaresi, e massimamente i bravi lor cacciatori, sì fattamente cominciarono a ristrignere e tempestar coi loro fucili le truppe nemiche, prendendo spezialmente di mira gli uffiziali, che altro scampo non ebbe l'elettore, se non quello di ritirarsi alle sue contrade. Medesimamente non senza maraviglia dei politici fu osservato ritornarsene il duca di Vandomo in Italia, dopo aver sacrificato inutilmente di gran gente e munizioni in quella infelice spedizione. Ora ecco il motivo di sua ritirata.

Non avea mai potuto Vittorio Amedeo duca di Savoia, siccome principe di mirabile accortezza, e attentissimo non meno al presente che ai futuri tempi, mirar senza ribrezzo la tanto accresciuta grandezza della real casa di Francia, e parevagli fabbricato il mortorio alla sua sovranità, dacchè il ducato di Milano era caduto in mano d'un monarca sì congiunto di sangue colla potenza franzese. Portò la congiuntura dei tempi ch'egli si avesse a collegar colle due corone, tuttochè scorgesse così fatta lega troppo contraria ai proprii interessi; ma stava egli sempre sospirando il tempo di poter rompere questa catena; e parve ora venuto, dacchè era vicino a spirare il tempo del contratto impegno della sua lega coi [177] re di Francia e di Spagna. Non lasciava la corte cesarea di far buona cera a questo principe, benchè in apparenza nemico, nè sul principio della rottura scacciò da Vienna il di lui ministro, come avea praticato con quello del duca di Mantova. Spedì eziandio nel luglio dell'anno presente a Torino (per quanto pretesero i Franzesi) il conte di Aversbergh travestito per intavolare con lui qualche trattato, ma senza sapersi se ne seguisse conclusione alcuna finora. Quel che è certo, non avea voluto il duca permettere che le sue truppe passassero verso il Trentino. Ora i forti sospetti conceputi nella creduta vacillante fede del duca Vittorio Amedeo diedero impulso al re Cristianissimo di richiamare in Lombardia il duca di Vandomo. Tornato questo generale colle sue genti a San Benedetto di Mantova di qua dal Po, già da lui scelto per suo quartier generale, nel dì 28 oppure 29 di settembre, messo in armi tutto l'esercito suo, fece disarmar le truppe di Savoia che si trovavano in quel campo ed altri luoghi, ritenendo prigioni tutti gli uffiziali e soldati. Non erano più di tre mila; altri nondimeno li fecero ascendere a quattro o a cinquemila. Per questa impensata novità e violenza alterato al maggior segno il duca, principe di grande animo, ne fece alte doglianze per tutte le corti; mise le guardie in Torino agli ambasciatori di Francia e Spagna; occupò gran copia d'armi spedite dalla Francia in Italia, ed imprigionò quanti Franzesi potè cogliere nei suoi Stati. Quindi si diede precipitosamente a premunirsi e a mettere in armi tutti i suoi sudditi, per resistere al temporale che andava a scaricarsi sopra i suoi Stati; giacchè non tardò il duca di Vandomo a mettere in viaggio buona parte dell'esercito suo contro il Piemonte. Saltò fuori in tal guisa un nuovo nemico delle due corone, e un nuovo teatro di guerra in Italia.

Nel dì 5 di dicembre pubblicamente dichiarò il re di Francia Luigi XIV la guerra contra di esso duca di Savoia, i [178] il quale nel dì 25 di ottobre, come scrisse taluno, o piuttosto nel dì 8 di novembre, come ha lo strumento rapportato dal Lunig, avea già stretta lega coll'imperadore Leopoldo. In esso strumento si vede promesso al duca Vittorio Amedeo tutto il Monferrato, spettante al duca di Mantova con Casale, e inoltre Alessandria, Valenza, la Valsesia e la Lomellina, con obbligo di demolir le fortificazioni di Mortara. Promettevano inoltre le potenze marittime un sussidio mensile di ottanta mila ducati di banco ad esso principe, durante la guerra. Fu poi aggiunto un altro alquanto imbrogliato articolo della cessione ancora del Vigevanasco, per cui col tempo seguirono molte dispute colla corte di Vienna. Per essersi trovato il duca colto all'improvviso dallo sdegno franzese, e specialmente sprovveduto di cavalleria, gli convenne ricorrere al generale conte di Staremberg, il quale, desideroso di assistere il nuovo alleato, mise improvvisamente in viaggio, nel dì 20 di ottobre, mille cinquecento cavalli sotto il comando del generale marchese Annibale Visconti. Benchè sollecita fosse la lor marcia, più solleciti furono gli avvisi al duca di Vandomo del lor disegno; laonde ben guernito di milizia il passo della Stradella, Serravalle ed altri siti, allorchè colà giunsero gli affaticati Alemanni, trovarono un terribil fuoco, e andarono presto in rotta. Molti furono gli uccisi, molti i prigioni, ed a quei che colla fuga si sottrassero al cimento, convenne dipoi passare fino a San Pier di Arena presso Genova, e valicare aspre montagne per giugnere in Piemonte. Questo picciolo rinforzo, e l'essere stati i Franzesi, a cagion del suddetto passaggio, impegnati in varii movimenti, servì di non lieve respiro al duca di Savoia; ma non già a preservarlo dagl'insulti a lui minacciati dal potente nemico. Il perchè determinò in fine il saggio conte Guido di Staremberg un'arditissima impresa, che, per essere felicemente riuscita, riportò poscia il plauso d'ognuno. Quando [179] si pensava la gente che l'esercito suo, postato sul Modenese e Mantovano di qua da Po, si fosse ben adagiato nei quartieri d'inverno e pensasse al riposo, all'improvvisa con circa dieci mila fanti e quattro mila cavalli, seco menando sedici cannoni, nel giorno santo del Natale passò esso Staremberg la Secchia, e pel Carpigiano s'indirizzò alla strada maestra chiamata Claudia, prendendo pel Reggiano e Parmigiano con marcie sforzate il cammino alla volta del Piemonte, senza far caso dei rigori della stagione, delle strade rotte e di tanti fiumi gravidi di acqua che conveniva passare. Era già tornato il duca di Vandomo al campo di San Benedetto di Mantova. Al primo avviso di questo impensato movimento dei nemici, raunate le sue truppe, si diede ad inseguirli con forze, chi disse minori, e chi maggiori, ma senza poter mai raggiugnerli, oppure senza mai volerli raggiugnere, per poca voglia di azzardare una battaglia. Si contarono bensì alcune scaramucce ed incontri, nei quali lasciarono la vita i due valorosi generali Lictenstein Tedesco e Solari Italiano; ma questi non poterono impedire al prode comandante di felicemente superar tutti i disagi, e di pervenire ad unirsi col duca di Savoia nel dì 13 del seguente gennaio, con infinita consolazione di lui e de' sudditi suoi.

Presero in questi tempi, cioè nel dì 8 di dicembre, i Franzesi dimoranti in Modena il pretesto di confiscare al duca Rinaldo d'Este tutte le sue rendite e mobili, perchè il suo ministro in Vienna, trovandosi nell'anticamera della regina de' Romani, in passando l'arciduca Carlo, dichiarato re di Spagna, l'inchinò. A chi vuol far del male, ogni cosa gli fa giuoco. Entrato nel novembre il maresciallo di Tessè nella Savoia, s'impadronì di Sciambery sua capitale, e poscia strinse con un blocco la fortezza di Monmegliano. Riuscì in quest'anno alle potenze marittime e all'imperatore Leopoldo di ritirar seco in lega un'altra potenza, cioè Pietro II re di Portogallo. Gli articoli di questa alleanza [180] furono sottoscritti nel dì 16 di maggio, e fatte di grandi promesse a quel monarca, fondate nondimeno sugli incerti avvenimenti delle guerre. Di qui sorsero speranze ne' collegati di potere un dì detronizzare il re di Spagna Filippo V, al qual fine creduto fu non solamente utile, ma necessario, che lo stesso arciduca Carlo, proclamato re di Spagna col nome di Carlo III, passasse in persona colà per dar polso ai Portoghesi, e per animare l'occulto partito austriaco che si conservava tuttavia nei regni di Spagna. Pertanto questo savio, affabile e piissimo principe, preso congedo dagli augusti lagrimanti suoi genitori e dal fratello Giuseppe re de' Romani, si mise nel settembre in viaggio alla volta dell'Olanda, con ricevere immensi onori per dovunque passò. Pertanto ecco oramai gran parte dell'Europa in guerra per disputare della monarchia di Spagna; nel qual tempo anche il Settentrione ardeva tutto di guerra per la lega del Sassone re di Polonia collo czar della Russia contro il re di Svezia, che diede lor delle aspre lezioni. Presero in quest'anno i Franzesi Brisac, ricuperarono Landau, diedero una rotta ai Tedeschi sotto esso Landau; e all'incontro gli Anglolandi s'impadronirono di Bona, Huz e Limburgo.


   
Anno di Cristo MDCCIV. Indizione XII.
Clemente XI papa 5.
Leopoldo imperadore 47.

Veggendosi Rinaldo d'Este duca di Modena sì maltrattato ed oppresso dai Franzesi, altro ripiego non trovò che di ricorrere a papa Clemente XI per implorare i suoi paterni uffizii appresso le due corone, o, per dir meglio, alla corte di Francia, che sola dirigeva la gran macchina, e sotto nome del re Cattolico sola signoreggiava negli Stati d'esso duca. Si portò a questo fine incognito a Roma, e vi si fermò per più mesi. Giacchè non volle indursi a gittarsi in braccio a' Franzesi, non altro in fine potè ottenere che [181] una pensione di dieci mila doble; e questa ancora gli convenne comperare con cedere ad essi Franzesi il possesso della provincia della Garfagnana, situata di là dall'Apennino colla fortezza di Montalfonso; unico resto de' suoi dominii, finora sostenuto nel suo naufragio: dopo di che si restituì a Bologna ad aspettare senza avvilirsi lo scioglimento dell'universal tragedia. Ma alle sue disavventure si aggiunse in quest'anno la demolizione della sua fortezza di Brescello, fatta dai Parmigiani: tanto pontò il duca di Parma, per levarsi quello stecco dagli occhi. Furono asportate parte a Mantova, parte nello Stato di Milano tutte quelle artiglierie e attrezzi militari. Cominciarono in quest'anno a declinar forte in Italia gli affari dell'imperadore e del collegato duca di Savoia. L'incendio commosso in Ungheria dai sollevati, e in Germania da Massimiliano elettor di Baviera, siccome quello che più scottava la corte di Vienna, a lei non permetteva di alimentar la sua armata in Italia coi necessari rinforzi di truppe e danaro. Nulla all'incontro mancava al general franzese duca di Vandomo. Da che fu egli maggiormente rinvigorito dalle nuove leve spedite dalla Provenza per mare, divise l'esercito suo in due, ritenendo per sè le forze maggiori a fine di far guerra al duca di Savoia; e dell'altra parte diede il comando al gran priore duca di Vandomo suo fratello, acciocchè tentasse di cacciar d'Italia il corpo di Tedeschi che assai smilzo restava nel Mantovano di qua da Po, e teneva forte tuttavia la terra di Ostiglia di là da esso fiume. Allorchè i Franzesi s'avviarono, sul fine dell'anno precedente, dietro al conte Staremberg, aveano gli Alemanni occupato Bomporto e la Bastia sul Modenese, con far prigioniere il presidio di questa ultima. Tornato che fu a Modena il generale signor di San Fremond, non perdè tempo a ricuperare, sul principio di febbraio, quei luoghi: sicchè si ritirarono i Tedeschi alla Mirandola, e attesero a fortificarsi [182] in Revere, Ostiglia ed altri siti lungo il Po di qua e di là, con istendersi ancora sul Ferrarese a Figheruolo.

Venuto il mese d'aprile, si mosse il gran priore di Vandomo col grosso delle sue milizie per isloggiare i Tedeschi da Revere. Non l'aspettarono essi, e si ridussero di là da Po ad Ostiglia: con che venne a restar separata la Mirandola dal campo loro. Allora fu che il giovane Francesco Pico duca di essa Mirandola, accompagnato dal principe Giovanni suo zio, e da don Tommaso d'Aquino Napoletano, suo padrigno, e principe di Castiglione, comparve a Modena, con dichiararsi del partito delle due corone, e con pubblicare un manifesto contra dei cesarei. Fu bloccata da lì innanzi quella città da' Franzesi; fu anche, sul fine di luglio, regalata da una buona pioggia di bombe, ma senza suo gran danno, e senza che se ne sgomentasse punto il conte di Koningsegg comandante in essa. Pensavano intanto i troppo indeboliti Tedeschi, ridotti di là dal Po, a mantenere almeno la comunicazione colla Germania; al qual fine fortificarono Serravalle, Ponte Molino, e varii posti sotto Legnago negli Stati della repubblica veneta. Di qua dal Po stavano i Franzesi, cannonando incessantemente Ostiglia nell'opposta riva. Il gran priore passò dipoi ad assediar Serravalle. Ma perciocchè non men le sue truppe di qua dal fiume suddetto e i Tedeschi dall'altra parte si stendevano sul Ferrarese, diede ciò motivo al sommo pontefice di farne gravi querele per mezzo del cardinale Astalli legato di Ferrara, intimando agli uni e agli altri di sloggiare, e nello stesso tempo minacciando di unir le sue truppe colla parte ubbidiente per iscacciarne la disubbidiente. Sì questi che quelli si mostrarono pronti ad evacuare il Ferrarese, e in fatti si ritirarono i Franzesi dalla Stellata, e gli Alemanni consegnarono Figheruolo agli uffiziali del papa, con promesse di ritirarsi sul Veneziano. Mentre si allestivano a partire, nella notte [183] precedente la natività di san Giovanni Batista, avendo i Franzesi raunata gran copia di barche, o trovate in Po, o fatte venir dal Panaro, alcune migliaia di essi, imbarcati alle Quadrelle, quetamente passarono di là dal fiume, ed ottenuto il passo dalle guardie pontificie, diedero addosso agli Alemanni, i quali, in vigore dell'accordo fatto se ne stavano assai spensierati e quieti. Alquanti ne furono uccisi, gli altri colla fuga scamparono; restò il loro bagaglio in man de' Franzesi. Fu cagion questo colpo ch'eglino poscia abbandonassero Ostiglia, Serravalle e Ponte Molino, e che il picciolo loro esercito, valicato l'Adige, andasse a mettersi in salvo sul Trentino. Proruppe la corte di Vienna in escandescenze per questo fatto, con pretendere di aver pruove chiare che fosse seguito di concerto coi ministri del papa, perchè nello stesso tempo era andato il conte Paolucci generale pontificio ad abboccarsi col gran priore, e per altre ragioni che non importa riferire. Commosso dalle amare doglianze di Cesare, il pontefice spedì a Ferrara monsignor Lorenzo Corsini, che fu poi cardinale e papa, acciocchè ne formasse un processo. Nulla risultò da questo che i pontifizii avessero consentito o contribuito alla cacciata de' Tedeschi; ma non perciò si potè levar di capo alla corte cesarea che il papa, assicurato oramai della fortuna favorevole ai Gallispani, avesse data mano ad essi per cacciare lungi da' suoi Stati quel molesto pugno di gente. Da che si trovarono rinforzati gli Alemanni da alquante milizie calate dal Tirolo, dopo la metà di settembre calarono di nuovo nel Bresciano, fortificandosi a Gavardo e Salò sul lago di Garda, e in altri luoghi. Poche son le nazioni e i principi che nelle prosperità sappiano conservar la moderazione. Cadde allora in pensiero ai Franzesi di parlar alto, e di obbligar la repubblica veneta ad impedire la calata e la dimora delle soldatesche alemanne ne' suoi stati. E perciocchè la saviezza veneta, risoluta [184] di conservare la già presa neutralità, rispose con non minore coraggio, e vieppiù rinforzò i presidii delle sue piazze, allora il gran priore per forza entrò in Montechiaro, Calcinato, Carpanedolo, Desenzano, Sermione ed altri luoghi, e non si guardò di far altre insolenze e danni a quelle venete contrade, finchè arrivò il verno che mise freno alle operazioni militari.

Quanto al Piemonte, avea bene il duca Vittorio Amedeo, con varie leve fatte nei suoi Stati e negli Svizzeri, accresciuto di molto l'esercito suo, ma per la gran copia di Franzesi, venuta per mare al duca di Vandomo, si trovò sempre di troppo inferiore alle forze nemiche. Sul principio di maggio contò esso Vandomo circa trentasei mila combattenti nell'oste sua, e però, con isprezzo degli alleati postati a Trino, passò in faccia di essi il Po, e gli obbligò a ritirarsi con qualche loro perdita. Poi imprese l'assedio di Vercelli, città che, quantunque presidiata da sei mila persone, non fece che una misera difesa; ed ostinatosi il Vandomo a voler prigioniera di guerra quella guernigione a fine di sempre più tagliar le penne al duca di Savoia, trovò comandanti ed uffiziali che condiscesero a cedergli la piazza con sì dura condizione. Ordine emanò ben tosto di spogliar quella città di ogni fortificazione nel dì 21 di luglio. Calato intanto anche il duca della Fogliada dal Delfinato con dieci mila combattenti, dopo essersi impossessato della città di Susa, mise l'assedio a quel castello; espugnò la Brunetta e il forte di Catinat; e nel dì 12 di luglio costrinse il presidio del suddetto castello di Susa a rendersi con patti molto onorevoli. Obbligò dipoi colla forza i Barbetti abitanti nelle quattro valli ad accettare la neutralità. Andò quindi ad unirsi sotto la città d'Ivrea col Vandomo, il quale sedici giorni impiegò a sottomettere quella città. Ritiratosi il comandante nella cittadella, poscia, nel dì 29 di settembre, dovette cedere, con restar prigioniere egli e tutti i suoi. Vi restava in quelle [185] parti la città d'Aosta renitente alla fortuna; ma nè pur essa potè esimersi dall'ubbidire ai Franzesi insieme col forte di Bard: con che restò precluso al duca di Savoia il passo per ricevere soccorsi dalla parte della Germania e degli Svizzeri. E pure qui non finirono le imprese dell'infaticabil duca di Vandomo. Si avvisò egli, al dispetto della contraria stagione che si appressava, d'imprendere l'assedio di Verrua, fortezza non solo pel sito, perchè posta sul Po sopra un dirupato sasso ma eziandio per le fortificazioni aggiunte, creduta quasi inespugnabile; e tanto più perchè il duca di Savoia unito al maresciallo di Staremberg colla sua armata stava postato di là dal Po a Crescentino nella riva opposta del fiume, e mercè di tre ponti manteneva la comunicazione con Verrua. Oltre a ciò, davanti a Verrua si trovava il posto di Guerbignano ben trincerato e difeso da cinque mila fra Tedeschi e Piemontesi. Non si atterrì per tutte queste difficoltà il Vandomo, e alla metà di ottobre andò a piantare il campo contro di Guerbignano. Intanto perchè sì fattamente calarono le acque del Po, che si poteano guadare, finse, o pure determinò egli di voler passare col meglio delle sue genti, ed assalire il campo di Crescentino. Ne fu avvisato a tempo il duca di Savoia, che perciò richiamò la maggior parte della gente posta alla difesa di Guerbignano. Tra la partenza di queste truppe e il fuoco di molte mine che fecero saltare i trincieramenti di quel posto, il Vandomo se ne impadronì, e dipoi si diede agli approcci e alle batterie contro Verrua, continuando pertinacemente l'assedio pel resto dell'anno; assedio memorabile non men per le incredibili offese degli uni, che per l'insigne difesa e bravura degli altri.

Era mancata di vita nell'anno precedente Anna Isabella duchessa di Mantova, moglie di Ferdinando Carlo Gonzaga duca regnante: principessa che per la somma sua pietà, carità e pazienza meritò vivendo e morta gli encomii d'ognuno. [186] Volle in quest'anno esso duca portarsi alla corte di Parigi, dove non gli mancarono onori e carezze quante ne volle. Ottenne anche il titolo di generalissimo delle armate in Italia di sua maestà Cristianissima. O il suo desiderio di lasciar dopo di sè qualche posterità legittima, giacchè di questa era privo, o le premure dei suoi domestici, e fors'anche della corte stessa di Francia, lo invaghirono di passare alle seconde nozze. Si fermarono i suoi voti sopra Susanna Enrichetta di Lorena, figlia di Carlo duca di Elboeuf, principessa dotata al pari di beltà che di saviezza. Tornato poi in Italia, arrivò nel dì 28 d'ottobre al campo del duca di Vandomo, ricevuto ivi con sommo onore qual generalissimo, e applaudito dal rimbombo di tutte le artiglierie. Condotta la novella sua sposa per mare da quattro galee di Francia, corse gran rischio, perchè malamente salutata da più cannonate di due armatori inglesi presso Genova. Si celebrò poscia il suo maritaggio in Toscana nel dì 8 di novembre coll'assistenza del principe e principessa di Vaudemont suoi parenti. Ma il duca, che avea logorata la sua sanità nei passati disordini, nè pur trasse prole da questa degna principessa. Ora mentre l'Italia mirava in ben cattiva situazione l'armi cesaree e savoiarde, con prevalere cotanto le franzesi, cominciò la fortuna a mutar volto in Germania. Avea l'elettor di Baviera slargate molto l'ali, con essersi impadronito anche di Ratisbona, Augusta, Passavia ed altri luoghi, e minacciava conquiste maggiori: quando con segreta risoluzione fu spedito da Anna regina d'Inghilterra il suo generale milord Marlboroug con isforzate marcie ad unir le sue forze colle cesaree, comandate dal principe Eugenio in Germania. Non mancò il re Cristianissimo d'inviare anch'egli in aiuto del Bavaro il maresciallo di Tallard con ventidue mila combattenti. Occuparono i due prodi generali anglocesarei la città di Donavert con un combattimento, in cui grande fu il macello dei [187] vinti, e forse non minore quello dei vincitori.

Erano le due armate nemiche forti ciascuna di quasi sessanta mila persone, e nel dì 13 d'agosto in vicinanza di Hogstedt vennero alle mani. Da gran tempo non era seguita una sì terribil battaglia; dall'una parte e dall'altra si combattè con estremo valore e furore; ma in fine si dichiarò la vittoria in favore degl'imperiali ed Inglesi. Secondo le relazioni tedesche d'allora, dieci mila Gallo-Bavari vi perderono la vita, sei mila se ne andarono feriti, e dodici o quattordici mila rimasero prigioni, la maggior parte colti separati dall'armata e stretti dal Danubio, che furono forzati a posar le armi. Fra essi prigionieri si contò il maresciallo di Tallard. Il duca di Baviera e il maresciallo di Marsin, colla gente che poterono salvare, frettolosamente marciarono alla volta della Selva Nera e della Francia. Anche l'esercito vittorioso lasciò sul campo circa cinque mila estinti, e a più di sette mila ascese il numero de' feriti. Le conseguenze di sì gran vittoria furono la liberazion d'Augusta, Ulma ed altre città della Germania, e l'acquisto di nuovo di quella di Landau in Alsazia. La Baviera, che dianzi facea tremar Vienna stessa, venne in potere di Cesare con patti onorevoli per la elettrice, che si ritirò poi a Venezia, essendo passato l'elettore consorte al suo governo di Fiandra. Al primo avviso di quella sanguinosa battaglia portato in Italia, si adirarono forte i Franzesi, con chi riferiva essersi rendute prigioniere tante migliaia de' lor nazionali senza fare difesa. Si accertarono poi della verità con loro grande rammarico. Ed ecco la prima amara lezione che riportò delle sue vaste idee il re Cristianissimo Luigi XIV. Fu ancora gran guerra in Portogallo, dove era giunto il re Carlo III con rinforzi di milizie inglesi ed olandesi. Andò in campagna lo stesso re Filippo V; riportò di molti vantaggi sopra de' Portoghesi, e se ne tornò glorioso a Madrid; se non che [188] le sue allegrezze restarono amareggiate dall'avere gl'Inglesi occupata la città di Gibilterra, posto di somma importanza nello stretto, ma posto mal custodito dagli Spagnuoli in sì pericolosa congiuntura. Tentarono essi di ricuperarlo con un vigoroso assedio, che durò sino all'anno seguente, ma senza poterne snidare di colà i nemici, che anche oggidì ne conservano il dominio. Seguì parimente una fiera battaglia circa il fine d'agosto verso Malega fra le flotte franzese ed anglolanda. Sì gli uni che gli altri solennizzarono dipoi col Te Deum la vittoria, che ognun si attribuì, e niuno veramente riportò. Nel dì 23 di febbraio di quest'anno mancò di vita in Roma il cardinale Enrico Noris Veronese, ben degno che di lui si faccia menzione in queste memorie. Militò egli nell'ordine dei frati agostiniani, fu pubblico lettore in Pisa, e custode della biblioteca Vaticana; poi promosso alla sacra porpora nel 1695; personaggio che pel sodo ingegno, raro giudizio e profonda erudizione non ebbe pari in Italia ai tempi suoi, come ne fanno e faran sempre fede le opere da lui date alla luce.


   
Anno di Cristo MDCCV. Indizione XIII.
Clemente XI papa 6.
Giuseppe imperadore 1.

Fu questo l'ultimo anno della vita di Leopoldo Austriaco imperadore, morto nel dì 5 di maggio: monarca, ne' cui elogii si stancarono giustamente le penne di molti storici. La pietà, retaggio singolare dell'augusta casa d'Austria, in lui principalmente si vide risplendere, e del pari la clemenza, la affabilità e la liberalità massimamente verso dei poveri. Mai non si vide in lui alterigia nelle prospere cose, non mai abbattimento di spirito nelle avverse. Parea che nelle disavventure non gli mancasse mai qualche miracolo in saccoccia per risorgere. Lasciò un gran desiderio di sè, e insieme due figli, l'uno Giuseppe, re da molti anni [189] de' Romani, e Carlo III appellato re di Spagna, il primo di temperamento focoso, e l'altro di una mirabil saviezza. A lui succedette il primo con assumere, secondo il rito, il titolo d'imperador de' Romani, ed accudire al pari, anzi più del padre defunto, al proseguimento della guerra contro la real casa di Francia. Pubblicò nel luglio di quest'anno il pontefice Clemente XI una nuova bolla contra de' giansenisti. Ma sotto il novello imperadore Giuseppe crebbero le amarezze della corte pontificia, di maniera che il conte di Lemberg ambasciatore cesareo in Roma se ne partì, passando in Toscana, e fu licenziato da Vienna monsignore Davia Bolognese nunzio di sua santità. Gran tempo era che il magnanimo pontefice pensava ad accrescere un nuovo ornamento alla città di Roma coll'erezione della colonna Antoniana; perciò diede l'ordine che fosse disotterrata. Nel dì 25 di settembre fu questo bel monumento solamente cavato dal terreno per opera del cavalier Fontana; e gran somma d'oro costò sì nobile impresa.

In Piemonte continuò ancora gran tempo la forte piazza di Verrua a sostenersi contro le incessanti offese del campo franzese. Nel dì 26 di dicembre dell'anno precedente un gran guasto fu dato alle trincee degli assedianti da quel presidio, rinforzato segretamente dal duca di Savoia da due mila persone, giacchè egli manteneva tuttavia la comunicazion colla fortezza mediante il ponte di Crescentino: ma senza comparazione più furono i periti nel campo d'essi Franzesi a cagion dei gravi patimenti di un assedio ostinatamente sostenuto in mezzo ai rigori del verno, ancorchè non ommettesse il duca di Vandomo diligenza alcuna per animarli con profusion di danaro e di alimenti. Intanto innumerabili furono gli sforzi delle artiglierie, bombe e fuochi artifiziali contro l'ostinata piazza per li mesi di gennaio e febbraio. Frequenti erano ancora le mine e i fornelli sì dell'una che dall'altra parte. [190] Ma perciocchè si conobbe troppo difficile il vincere questa pugna, finchè il duca Vittorio Amedeo potesse dall'opposta riva del Po andare rinfrescando quella fortezza di nuovi combattenti, viveri e munizioni; nel primo dì di marzo il Vandomo improvvisamente spinse un grosso distaccamento ad occupar l'isola e forte del Po, a cui si atteneva il ponte nemico; e così tagliò ogni comunicazione con Verrua. Ritirossi allora il duca di Savoia col maresciallo di Staremberg a Civasso, lasciando Crescentino in poter de' Franzesi. Si trovò in breve il valoroso comandante di Verrua obbligato a cedere; ma prima di farlo, co' fornelli preparati mandò in aria i recinti e bastioni, e poi si rendè nel dì 10 di marzo a discrezione, rimproverato poscia e insieme lodato dal Vandorno per sì lunga e gloriosa difesa. Presero dopo tale acquisto le affaticate milizie franzesi riposo fino al principio di giugno, ed allora, uscendo in campagna, si mossero con disegno di assediare Civasso; e di aprirsi con ciò il campo fino a Torino, già meditando offese contra di quella capitale. Stava accampato in quelle vicinanze il duca di Savoia con lo Staremberg, e di là diede molte percosse alle truppe franzesi, ma senza poter impedire l'assedio di Civasso. Si sostenne questa picciola piazza sino al 29 di luglio, in cui esso duca alla sordina fece di notte evacuarla, per quanto potè, di artiglierie e munizioni, e la lasciò in potere del duca della Fogliada, comandante allora di quell'armata franzese, giacchè il duca di Vandomo avea dovuto accorrere al basso Po contro l'armata cesarea, siccome diremo.

Di grandi ed incredibili preparamenti fece dipoi esso Fogliada, passato sino alla Veneria, per mettere l'assedio a Torino; ma perchè sopraggiunsero ordini dal re Cristianissimo di differire sì grande impresa all'anno seguente, portò egli la guerra altrove. Avea questo general franzese molto prima, cioè nel dì 10 di marzo, obbligata a rendersi la picciola città di [191] Villafranca sulle rive del Mediterraneo. Lasciato poscia un blocco intorno a quella cittadella, che poi si arrendè nel dì primo di aprile, andò ad aprir la trincea sotto la città di Nizza. Se ne impadronirono i Franzesi, ma non vedendo maniera di forzare quel castello, l'abbandonarono di poi con rovinare le fortificazioni. Da che queste furono alquanto ristorate dal marchese di Caraglio governatore, sul principio di novembre comparve colà di nuovo con forze maggiori il duca di Berwich, ed entratovi nel dì 14 di esso mese, si accinse poi a far giocare le batterie contra di quel castello, il quale non meno pel sito che per le fortificazioni atto era a far buona resistenza. Aveano, per non so qual ordine male inteso, i Franzesi ritirata la lor guarnigione da Asti verso la metà d'ottobre. Vi accorse tosto il maresciallo di Staremberg, e piantò quivi il suo quartiere. Tanto ardire non piacendo al duca della Fogliada, andò ad accamparsi in quei contorni; con poca fortuna nondimeno, perchè usciti gli Alemanni con tal bravura li percossero, che vi restò ucciso il general franzese conte d'Imercourt con alquante centinaia de' suoi; laonde fu giudicato miglior consiglio il ritirarsi. Verso la metà di dicembre la fortezza di Monmegliano in Savoia, vinta non dalla forza ma da un ostinato blocco d'un anno e mezzo, si trovò in fine obbligata a capitolare con condizioni onorevoli. Per ordine poi del re Cristianissimo ne furono smantellate tutte le fortificazioni. Così andavano moltiplicando le perdite e sciagure addosso al duca di Savoia, il quale non avea cessato di tempestare la corte di Vienna e le potenze marittime per ottenere gagliardi soccorsi.

Con occhio certamente di compatimento miravano gli alleati l'infelice positura di questo sì fedele sovrano; e però fu presa la risoluzione di rispedire in Italia con forze nuove il principe Eugenio, in cui concorrendo un raro valore e saper militare, e di più la stretta attinenza [192] di sangue colla real casa di Savoia, si potea perciò da lui promettere ogni maggiore studio per la causa comune. Ma non gli furono consegnate forze tali, che potessero per conto alcuno competere colle franzesi. Ne presentì la venuta il duca di Vandomo; e per assicurarsi che egli non pensasse alla da tanto tempo bloccata Mirandola, ordinò che il signor di Lapurà tenente generale degli ingegneri alla metà d'aprile passasse ad aprir la trincea sotto quella fortezza. Benchè si trovasse fornito di tenue presidio il conte di Koningsegg ivi comandante cesareo, pur fece una bella difesa sino al dì 10 di maggio, in cui si arrendè co' suoi prigioniere di guerra. Arrivò in questo mentre in Italia il prode principe Eugenio; e da che ebbe raunato un sufficiente corpo d'armata, costeggiando il lago di Garda, giunse a Salò. Quivi fu egli indarno trattenuto dalla opposta nemica armata, perchè seppe aprirsi il passo al piano della Lombardia, e far poi molti prigioni dei nemici. A Cassano sul fiume Adda si trovarono poscia a fronte le due nemiche armate nel dì 16 di agosto, e vennero a giornata campale. Erano maestri di guerra i due generali, piene di valoroso ardire le truppe di amendue, e però ciascuna delle parti menò ben le mani, ma con lasciare indecisa la vittoria, avendo la notte posto fine agli sdegni. Si studiò poi ciascuna delle parti, secondo il privilegio dei guerrieri, di fare ascendere a più migliaia la mortalità de' nemici, e tanto meno la propria, di modo che si intesero da lì a poco intonati due contrarii Te Deum. Forse maggiore fu la perdita dei Franzesi, ma certo compensata dell'avere i Tedeschi compianta la morte di più loro generali, oltre a quella del principe Giuseppe di Lorena. Perchè l'uno e l'altro esercito restò infievolito da sì copioso salasso, pensò di poi più al riposo che ad ulteriori militari fatiche, ed altra impresa non succedette pel resto dell'anno in quelle parti.

Anche nell'alto Reno, alla Mosella e [193] al Brabante non mancarono azioni militari e sanguinose, e fra queste specialmente rimbombò l'avere il milord Marlboroug forzate, nel dì 19 di luglio, le linee franzesi del Brabante, con far prigioni circa mille e cinquecento Gallispani, fra i quali due generali, e con prendere alquanti cannoni, bandiere, stendardi e qualche parte del bagaglio. Lo strepito nondimeno maggiore della guerra fu in Ispagna. Qualche picciolo acquisto fecero i Portoghesi, assistiti dagli Anglolandi. Assediarono anche Badaios; ma entrato colà un buon soccorso di Spagna, meglio si stimò di lasciare in pace quella città. All'incontro la potentissima flotta combinata degl'Inglesi ed Olandesi con gente da sbarco, e collo stesso re Carlo III in persona si presentò davanti Barcellona. Al nome austriaco in gran copia concorsero colà i Catalani armati: dal che rinvigoriti gli Anglolandi formarono, l'assedio di quella città, e ne furono direttori il principe di Darmstadt e il milord Peterboroug. Dopo essersi gli assedianti impadroniti de' forti del Mongiovì, nella quale impresa quel valoroso principe lasciò la vita, strinsero maggiormente la città, e finalmente indussero, sul principio d'ottobre, il vicerè Velasco a capitolare, con accordargli tutti gli onori militari. Ma andò per terra la capitolazione, perchè prima di effettuarla si mosse a sedizione il popolo di Barcellona, e v'entrarono gli Austriaci, accolti con festosi ed incessanti viva. L'acquisto della capitale fu in breve seguitato da Lerida, Tarragona, Tortosa, Girona ed altri luoghi della Catalogna. Tumultuarono parimente i popoli del regno di Valenza, e questa città con Denia, Gandia ed altre terre alzò le bandiere del re Carlo III. Per quanti sforzi facessero nell'anno presente gli Spagnuoli per ricuperare Gibilterra con un pertinace assedio, non furono assistiti dalla fortuna, perchè padroni del mare gli Anglolandi, colà introdussero di mano in mano quante forze occorrevano per la difesa. Nel novembre [194] dell'anno presente avvenne una memorabil rotta del Po sul Mantovano di qua, che rotti gli argini della Secchia e del Panaro, e seco unite quelle acque, recò incredibili danni a tutta quella parte del Mantovano, al Mirandolese, a parte del Modenese, e ad un gran tratto del Ferrarese sino al mare Adriatico. Arrivarono le acque sino alle mura di Ferrara, atterrarono un'infinità di case e fenili rurali, colla morte di gran copia di bestie e di non poche persone.


   
Anno di Cristo MDCCVI. Indizione XIV.
Clemente XI papa 7.
Giuseppe imperadore 2.

Se mai fu anno alcuno in Italia, anzi in Europa, fecondo di avvenimenti militari e di strane metamorfosi, certamente è da dire il presente. Fra i gran pensieri che agitavano la corte di Francia per sostenere la monarchia spagnuola lacerata o minacciata in tante parti dalle armi collegate, uno dei principali si scoprì essere quello di ultimar la distruzione di Vittorio Amedeo duca di Savoia, principe che colle sue ardite risoluzioni avea fin qui obbligato il re Cristianissimo Luigi XIV a mantenere in Italia una guerra che gli costava non pochi milioni ogni anno. Oppresso questo coraggioso principe, si credea facile il mettere le sbarre ad ulteriori tentativi della Germania contra lo Stato di Milano. Già avea per cinquantacinque giorni il marchese di Caraglio sostenuto il castello di Nizza, benchè flagellato continuamente da cannoni e mortari del duca di Berwich, quando si vide ridotto all'estremo, e ridotto a capitolarne la resa con tutti gli onori militari nel dì 4 di gennaio. Fu poscia condannato quel castello a vedere uguagliate al suolo tutte le sue fortificazioni. Tanti preparamenti andava in questo mentre facendo il duca della Fogliada, che poco ci voleva a comprendere tendenti le sue mire all'assedio di Torino. Perciò il saggio duca attese a ben premunire [195] quella capitale e cittadella di quanto potea occorrere in sì fiero emergente; e da che vide cominciare le offese, con passaporti del nemico general franzese spedì a Genova la real sua famiglia, ed anch'egli si mise poi alla larga per maggior sicurezza, riducendosi a Cuneo e ad altri luoghi fin qui preservati dalle nemiche violenze. Ora non sì tosto ebbe il suddetto Fogliada ricevuta nuova gente da Francia con promessa ancora di maggiori rinforzi, che passata la metà di maggio accostatosi a Torino, diede principio alla circonvallazione intorno a quella cittadella, dove il prode conte Daun, lasciato dal duca per governator di Torino insieme col marchese di Caraglio, avea messo un forte presidio de' suoi Tedeschi. Venuto poscia il giugno, aprì la trincea sotto quella fortezza, contando dopo l'acquisto di essa presa anche la città, benchè nè pure ommettesse le offese contro la città medesima. Orrendo spettacolo era il gran fuoco dì circa ducento tra cannoni e mortari continuamente impiegati dai Franzesi a gittar palle, bombe e sassi contro di essa città, e più contro della cittadella; e un pari trattamento lor faceano i tanti bronzi e fuochi degli assediati. Nello stesso tempo non lasciò il Fogliada di marciare con alcune migliaia di fanti e cavalli per voglia di cogliere, se gli veniva fatto, lo stesso duca di Savoia. Ma egli vigilante, ora scorrendo in un luogo ed ora in un altro, seppe sempre schermirsi dai nemici, e dar loro anche qualche percossa, finchè si ritirò nella valle di Lucerna, dove trovò assai fedeli e arditi alla sua difesa que' Barbetti. L'essersi perduti in questa diversione i Franzesi, cagion fu che non progredisse l'assedio di Torino con quel vigore che richiedeva la positura dei loro affari.

Tornato nella primavera il principe Eugenio sul Trentino, quivi attese a far massa dei rinforzi a lui promessi, che, secondo il solito dei Tedeschi, con poca fretta andavano calando dalla Germania. Più sollecito il duca di Vandomo, dappoichè [196] fu ritornato anch'egli da Parigi, passata la metà di aprile, uscì in campagna con venticinque mila combattenti (altri han detto molto meno) a motivo di cacciar dal piano della Lombardia quelle brigate alemanne che vi erano restate, e di ristringere le loro speranze fra le montagne delle Alpi. Ben lo previde il principe Eugenio, e per non perdere l'adito in Italia, ordinò al generale Reventlau di postarsi fra Calcinato e Lonato con dodici mila tra fanti e cavalli alla Fossa Seriola, che gli avrebbe servito di antemurale. Furono malamente eseguiti gli ordini suoi, avendo quel generale trascurato di ben fortificarsi dalla parte di Lonato. Ora ecco, nel dì 19 d'aprile, sopraggiugnere il Vandomo dalla parte di Montechiaro, e poi di Calcinato il quale si spinse contro l'accampamento nemico. Aspro fu il conflitto, ma in fine i meno cedettero ai più, e gli Alemanni in rotta si ritirarono il meglio che poterono a Gavardo. Esaltarono i Franzesi questa vittoria, pretendendo che restassero prigionieri circa tre mila imperiali, ed altrettanti freddi sul campo; laddove gli altri contavano solamente ottocento gli estinti, e circa mille e cinquecento i prigioni e feriti. Certo è che i Franzesi acquistarono alquanti pezzi di cannone, molte baudiere e stendardi, e fecero bottino del bagaglio e delle provvisioni. Dopo questa percossa il principe Eugenio, vedendo chiusi i passi del Bresciano, andò a poco a poco ritirando dalle rive del lago di Garda le sue truppe, e a suo tempo improvvisamente sboccò di nuovo sul Veronese. Gravissimi danni avea patito nel precedente anno la repubblica veneta sul Bresciano, calpestato dalle due nemiche armate; maggiori li provò nel presente, perchè il Vandomo venne colle maggiori sue forze ad accamparsi in vicinanza di Verona, e stese le sue genti lungo l'Adige, per impedirne il passaggio agli imperiali. Con pretesto che dai Veneziani si prestasse o potesse prestare aiuto alle truppe cesaree, alzò dei fortini contro la città [197] di Verona, non solamente minacciando essa, ma fino il senato stesso, se non usciva di neutralità. Spinti da sì fatte violenze quei saggi signori, accrebbero il loro armamento, e risposero di buon tuono ai Franzesi, senza mai dipartirsi dalla presa risoluzione di non voler aderire a partito alcuno. Aveano stretta a questo fine, nel dì 12 di gennaio, una lega colle città svizzere di Berna e Zurigo. Intanto con finte marcie andava il principe Eugenio imbrogliando l'avvedutezza franzese, finchè, nel dì 6 di luglio, riuscì a un corpo di sua gente di valicar l'Adige alla Pettorazza, e di afforzarsi nell'opposta riva: il che aprì l'adito al passaggio di tutta la sua armata, che, per quanto si figurò la gente, ascendeva a trenta mila persone, benchè la fama la facesse giugnere sino a quaranta mila. Curiosa cosa fu il vedere come i dianzi sì baldanzosi Franzesi battessero una frettolosa ritirata senza mai voler mirare il volto dell'esercito nemico, finchè si ricoverarono di qua e di là dal Po sul Mantovano.

Fu in questi tempi che il re Cristianissimo, per bisogno di un eccellente generale in Fiandra, richiamò il duca di Vandomo, e in luogo suo a comandar l'armi in Italia spedì Luigi duca d'Orleans suo nipote, principe che se non potea competere coll'altro nella sperienza militare, certo l'uguagliava nei valore, e il superava nella penetrazione e vivacità della mente. Venuto questo generoso principe col maresciallo di Marsin a Mantova, dove il Vandomo gli rassegnò il bastone del comando, passò dipoi a riconoscere i varii siti e tutte le forze franzesi. Trovò egli con suo rammarico ben diversa la faccia delle cose da quello che gli era stato supposto, talmente che si vide forzato a richiamar dal Piemonte alquante brigate per premura di opporsi all'avanzamento dell'oste nemica, e intanto si andò a postare a San Benedetto sul Mantovano di qua dal Po. Ma il principe Eugenio, al cui cuore non permetteva posa alcuna il pericolo dell'assediato Torino, e l'urgente [198] bisogno del parente duca di Savoia, animosamente proseguiva il suo viaggio. Nel dì 17 di luglio passò il Po alla Polesella, e quasi che le sue truppe avessero l'ali, si videro nel dì 19 comparire sino al Finale di Modena alcuni suoi ussari e cavalli leggieri. Sul fine del mese valicò l'armata cesarea il Panaro e la Secchia a San Martino, e giunta sotto Carpi, costrinse cinquecento Franzesi a rendersi prigionieri, ed ivi prese riposo, finchè colà giungesse tutta la sua artiglieria. Nel dì 13 d'agosto entrò il principe Eugenio nella città di Reggio, con farvi prigione quel presidio franzese, e lasciar ivi tutti i suoi malati con sufficiente guernigione di sani. Altra gente lasciò egli all'Adige, Po, Panaro ed altri luoghi, per mantener la comunicazione con lo Stato veneto. Progrediva in questo mentre il memorabile assedio di Torino, e maraviglie di valore facevano tutto dì non meno gli aggressori che i difensori. Le artiglierie, le bombe, le mine giocavano continuamente da ambe le parti, e gran sangue costavano le sortite che di tanto in tanto si facevano ora dalla città ed ora dalla cittadella. Pure sollecitando il duca della Fogliada i lavori e le offese, si vide in fine spalancata un'ampia breccia nelle mura d'essa cittadella, ed aperto il varco agli ultimi tentativi dell'armi franzesi. Furono ben fatti nel di dentro non pochi argini e ripari; ma in fine conveniva confessare ridotta all'agonia quella forte piazza, perchè di troppo sminuito per le malattie e ferite il presidio, e consumate oramai quasi tutte le munizioni da guerra. Erano dunque riposte tutte le speranze nell'avvicinamento del soccorso cesareo, condotto dal principe Eugenio, e nel potersi sostenere tanto ch'egli giugnesse.

Ora mentre esso principe marciava coll'esercito suo di qua dal Po alla volta del Parmigiano e Piacentino, il duca di Orleans, dopo aver lasciato un corpo di truppe al tenente generale Medavì, affinchè si opponesse sul Bresciano ai disegni delle truppe assiane che calavano in Italia, valicò [199] a Guastalla il Po coll'esercito suo, e cominciò dall'altra parte di quel fiume a costeggiare i nemici, perchè non si sentiva voglia di affrontarsi con loro, se non avea sicuro il giuoco. Continuò l'armata cesarea i suoi passi senza mettersi apprensione delle angustie della Stradella, e di aver da passare per paese guernito di piazze nemiche. Era già sul fine di agosto, quando il duca di Savoia tutto pien di giubilo, e scortato da alcune centinaia di cavalli, giunse a consolar gli occhi suoi colla vista del tanto sospirato soccorso, e della presenza del principe Eugenio, con cui cominciò a divisare quanto occorreva nell'imminente bisogno. Ciò che recava loro non lieve affanno, era la mancanza dei viveri in paese sbrollo per sì lunga guerra e qualche scarsezza di munizione da guerra. Ma di questo si prese cura la fortuna, perchè nel dì 5 di settembre venne loro avviso che dalla valle di Susa calava un grosso convoglio di ottocento e forse più muli e bestie da soma, che conducevano al campo franzese polve da fuoco, farine, armi ed altre munizioni, sotto la scorta di cinquecento cavalli. Non è da chiedere se di buona voglia accorsero colà i Tedeschi. A riserva di ducento bestie che si salvarono colla fuga, il resto fu preso in un punto, e poco dopo anche il castello di Pianezza, in cui furono fatti prigioni da ducento Franzesi, fra' quali molti uffiziali, con trovarsi ivi anche altra copia di vettovaglie. Avendo poscia il duca di Savoia unite all'esercito cesareo quelle poche truppe regolate che gli restavano, e comandata l'occorrente copia di milizie forensi e di guastatori, fu determinato nel consiglio di avventurar la battaglia nel dì 17 di settembre. Intanto era giunto il duca di Orleans ad unirsi col duca della Fogliada sotto Torino. Tenuto fu un gran consiglio dai generali, per fissar la maniera di accogliere la visita dell'esercito imperiale. Il sentimento del duca generalissimo, sostenuto da più ragioni, e da non pochi uffiziali applaudito, era di abbandonar le trincee, e, uscendo in aperta campagna, [200] di far giornata campale co' nemici. Di diverso parere fu il maresciallo di Marsin, dato come per aio al duca d'Orleans insistendo egli che non si avesse in un momento a perdere il frutto di tante fatiche per ridurre agli estremi la cittadella di Torino; essere tanta la superiorità delle proprie forze, sì ben muniti e forti i trinceramenti, che il tentare i Tedeschi di superarli era un cercare l'inevitabil loro rovina. Ma persistendo il duca d'Orleans nel suo proponimento, diede fine il Marsin alla disputa con isfoderare un ordine della corte di non abbandonare le trincee: il che ebbe a far disperare il duca, che ad alta voce predisse l'esito infelice della sconsigliata risoluzione; ma convenne ubbidire.

Appena spuntò in cielo l'alba del dì 7 di settembre, che tutto il cesareo esercito con gran festa, impaziente di combattere, corse all'armi, e, secondo le disposizioni fatte, s'inviò in ordinanza, ma senza toccar tamburi o trombe verso i trinceramenti nemici formati fra la Dora e la Stura. Alti erano gli argini, profonde le fosse, guernite le linee tutte d'artiglieria e moschetteria, che con terribil fuoco e furor di palle cominciarono a salutare gli arditi aggressori. Ma a sì scortese ricevimento s'era preparato il coraggio tedesco. Per due ore continuò il sanguinoso combattimento, studiandosi gli uni di entrar nelle trincee, e gli altri di ripulsarli. Fu creduto che circa due mila imperiali vi perdessero la vita prima di poter superare que' forti ostacoli. Ma in fine li superarono, e data ne fu la gloria ai Prussiani condotti dal principe di Anhalt, che de' primi sboccarono nella circonvallazione nemica. Per la troppo lunga estension delle linee era distribuita, anzi dispersa la milizia de' Gallispani. Però non sì tosto vi penetrò il grosso corpo dei Prussiani, che si sparse il terrore e la costernazione per gli altri vicini postamenti. Fecero bensì vigorosa resistenza alcuni corpi di riserva, o pure riuniti, sì fanti che cavalli, ma in fine rimasero rovesciati dall'empito de' nemici; [201] e da che furono da' guastatori spianate molte di quelle barriere, il resto dell'esercito cesareo entrato potè menar le mani. Allora non pensarono più i Gallispani che a salvarsi; e chi potè fuggire, fuggì. Al duca d'Orleans toccarono alcune ferite, dalle quali fu obbligato a ritirarsi per farsi curare. Il maresciallo di Marsin gravemente ferito fu preso, ma nel dì seguente morì, risparmiando a sè stesso il dispiacere di comparire a Parigi colla testa bassa per iscusare l'infelicità dei suoi consigli. A udire le relazioni de' vincitori, più di quattro mila e cinquecento furono i Gallispani rimasti uccisi nel campo; più di sette mila i fatti prigioni, parte nel campo stesso, e parte alla Montagna e a Chieri, colla guernigion di Civasso, fra i quali almeno ducento uffiziali. A sì fatta lista si può ben far qualche detrazione. Certo è che vennero in mano del vittorioso duca Vittorio Amedeo più di cento cinquanta pezzi di cannone e circa sessanta mortai. Il doppio si legge nelle relazioni suddette. Oltre a ciò, un'immensa quantità di bombe, granate, palle, polveri da fuoco ed altri militari attrezzi, con forse due o più mila tra cavalli, muli e buoi. Gran bagaglio, molta argenteria e tutte le tende rimasero in preda dei soldati, e fu detto che fin la cassa di guerra entrasse nel ricco bottino. Non finì la giornata che il duca di Savoia col principe Eugenio fece la sua entrata in Torino fra i viva del suo festeggiante popolo, e a dirittura si portò alla cattedrale a tributare i suoi ringraziamenti all'Altissimo, dalla cui clemenza e protezione riconosceva sì memorabil vittoria. Il poco di polve che oramai restava al conte Daun per difesa di Torino servì a solennizzare quel Te Deum col rimbombo di tutte le artiglierie. E tale fu quella famosa giornata e vittoria, che tanto più riempiè di stupore l'Europa tutta, non che l'Italia, perchè non potea l'oste cesarea ascendere a più di trenta mila persone, e forse nè pur vi arrivava per li tanti malati lasciati indietro, e per [202] li tanti staccamenti rimasti nel Ferrarese, al Finale di Modena, a Carpi, Reggio ed altri luoghi, affine di assicurarsi la ritirata in caso di bisogno. Laddove nell'esercito Gallispano, secondo la comune credenza, si contavano circa cinquanta mila combattenti, se non che i Franzesi dopo sì gran percossa ne sminuirono di molto il numero; e veramente tenevano anche essi qua e là de' presidii, e già dicemmo che un corpo d'essi stato era spedito in rinforzo al conte di Medavì, di cui ora convien fare menzione.

Era calato in Italia Federico principe d'Hassia Cassel con cinque mila e secento soldati tra fanti e cavalli di sua nazione, e andò ad accoppiarsi con altri quattro mila fanti e secento cavalli cesarei comandali del generale Vetzel. Dopo aver egli espugnato Goito sul Mantovano, passò ad assediare Castiglion delle Stiviere, e, presa la terra, bersagliava il castello. Ma nel dì 19 di settembre colà giunse il tenente general franzese conte di Medavì con egual nerbo, e forse maggiore, di gente, e gli diede battaglia. Se ne andò sconfitto l'hassiano con perdita di più di due mila persone (i Franzesi dissero molto più), di alquante bandiere e stendardi, dell'artiglieria grossa e minuta, delle munizioni e bagaglio. Di questa vittoria avrebbe saputo prevalersi il Medavì, se non avesse atteso a liberar la terra di Castiglione, e non gli fosse giunto il funesto avviso della liberazion di Torino, due giorni prima accaduta. Corso egli colla sua gente a Milano; il principe di Hassia andò poscia ad unire il resto delle sue truppe col principe Eugenio, e il generale Vetzel colle sue venne a formare una specie di blocco alla città di Modena. Non bastò alla fortuna di mostrar sì favorevole il volto ai collegati in Italia colla vittoria di Torino; avvenne anche un'altra mirabil contingenza, che servì a coronare quella gran giornata. Se i Franzesi nella fuga avessero volte le gambe verso il Monferrato e Stato di Milano, tanti ne restavano tuttavia di [203] loro, tante piazze da loro dipendenti (giacchè comandavano agli Stati di Mantova e Modena, a tutto il Milanese e Monferrato, e quasi a tutto il Piemonte), che potevano lungamente contrastare ai cesarei il dominio di quegli stati, e forse anche ristringere il duca di Savoia e il principe Eugenio, sprovveduto di tutto, ne' contorni di Torino. Ma i fuggitivi Gallispani presero le strade che guidano in Francia; e sembrando loro di aver sempre alle reni le sciable tedesche, affrettarono i passi per valicar l'Alpi. Raccolti ch'ebbe il duca d'Orleans quanti potè de' suoi, tenuto fu consiglio se si avesse a marciare verso la Francia o verso Milano. Il passaggio alla volta del Milanese non parve sicuro, giacchè, oltre alla gran diserzione, si trovavano le truppe col timore in corpo per la patita disgrazia; più facile dunque il ricoverarsi nel Delfinato, dove già tanti di essi s'erano incamminati. Così fecero; laonde restò più libero il campo all'armi collegate per cogliere il frutto dell'insigne loro vittoria.

Non perdè tempo il duca Vittorio Amedeo col principe Eugenio dopo la presa di Civasso a ripigliare Ivrea, Trino Verrua, Crescentino, Asti, Vercelli ed altri luoghi del Piemonte. Entrate le lor truppe nello Stato di Milano, Novara nel dì 20 di settembre aprì loro le porte. Erasi ritirato da Milano a Pizzighittone, con poscia passare a Mantova il principe di Vaudemont governatore; e però i magistrati veggendo avvicinarsi alla suddetta metropoli di Milano il principe Eugenio, nel dì 24 di esso mese spedirono i loro deputati ad offerirgli le chiavi. Vi entrarono poscia gli imperiali; fu cantato solenne Te Deum, e posto il blocco a quel castello, fortissimo bensì di mura e bastioni, ma mal provveduto di viveri. Lodi, Vigevano, Cassano, Arona, Trezzo, Lecco, Soncino, Como ed altri luoghi vennero anch'essi all'ubbidienza di Carlo III re di Spagna. Sollevatosi il popolo dell'importante città di Pavia, al vedere aperta [204] la trincea dai Tedeschi sotto la lor città, obbligò quella guernigion gallispana a capitolar la resa nel principio d'ottobre. Fu dipoi posto l'assedio a Pizzighittone, a cui intervenne anche il duca di Savoia. Ma a lui premendo sopra ogni altra cosa l'acquisto d'Alessandria, perchè, secondo i patti, dovea questa passare in suo dominio col Monferrato, Mantovano, Valenza e Lomellina, colà inviò il principe Eugenio, e fece aprir la trincea sotto quella città. Non vi fu però bisogno di breccia; questa fu fatta ben larga da un magazzino di polve che era sulle mura della città, a cui o per accidente o per manifattura di uomini, fu attaccato il fuoco. Per sì orrendo scoppio andarono a terra moltissime case, e sopra tutto un convento vicino, o pur due, di religiose, e sotto le rovine rimasero seppellite circa mille persone. Perciò il general conte Colmenero si trovò forzato a rendere la città nel dì 21 d'ottobre. Perchè egli poi conseguì l'importante governo del castello di Milano sua vita natural durante, ebbe origine la fama ch'egli avesse comperato quel posto col sacrifizio della suddetta città d'Alessandria, cioè col detestabile incendio di quel magazzino. Poco prima erano entrati i cesarei nella città di Tortona; e ritiratosi quel presidio di ducento uomini nella cittadella, perchè si ostinò nella difesa, un giorno entrativi gli assedianti con un feroce assalto, li misero tutti a fil di spada. Nel dì 29 di ottobre la guernigion franzese di Pizzighittone capitolò la resa, e se ne andò a Cremona. Passarono dipoi il duca Vittorio Amedeo e il principe Eugenio, già dichiarato governator di Milano, sotto Casale di Monferrato. Venne la città, nel dì 16 di novembre, all'ubbidienza di esso duca, che ne prese per sè il possesso, e fu riconosciuto per signore del Monferrato da quella cittadinanza. Nella notte precedente al dì 20 di novembre i cesarei, che teneano bloccata la città di Modena, assistiti da alcune migliaia di contadini armati, entrarono in essa, acclamando [205] i nomi dell'imperadore e del duca Rinaldo d'Este; e tosto formarono il blocco di quella cittadella, siccome ancora di Mont'Alfonso e Sestola, due altre fortezze d'esso duca di Modena. Fu anche messo da' collegati l'assedio a Valenza. Qualche altro migliaio di Franzesi, nel perdere le suddette piazze, restò prigioniere degli Alemanni o del duca di Savoia. Circa mille e ottocento nel solo Casale vennero in loro potere. Oggetto di gran meraviglia fu presso gl'Italiani il mirar tanti effetti di una sola vittoria, e il rapido acquisto fatto in sì poco tempo da' collegati.

Non furono in quest'anno meno strepitose le scene della guerra in altri paesi. Uscirono di buon'ora in campagna l'elettor di Baviera e il maresciallo di Villeroy, già rimesso in libertà, coll'esercito franzese in Fiandra. Non dormiva il duca di Marboroug generale della lega in quelle parti; e poste anch'egli in ordine le sue forze, marciò contro i nemici, e si trovarono a fronte le due armate presso di Rameglì nel dì 25 di maggio, cioè nella domenica di Pentecoste. Mentre i collegati erano dietro a forzar quella terra, si attaccò una fiera battaglia che durò più di due ore. Finalmente, trovandosi i Franzesi inferiori nel numero della cavalleria, bisognò che cedessero all'empito della contraria, e andarono in rotta, inseguiti poi per due altre ore da' vincitori. Fu creduto che in quel terribile conflitto perdessero la vita quattro mila Franzesi, ed altrettanti fossero feriti colla perdita di molte artiglierie, bandiere e stendardi. Più di tre mila con ducento uffiziali rimasero prigionieri; ma forse il maggior loro danno provenne dalla smoderata diserzione, di modo che quell'armata restò per qualche tempo in una somma fiacchezza, e convenne rinforzarla con truppe tirate dall'Alsazia, ma senza che ella potesse da lì innanzi arrestare il torrente de' nemici. Anche questa vittoria si tirò dietro delle straordinarie conseguenze. Lovanio e Brusselles tardarono poco [206] a riconoscere per loro signore Carlo III re di Spagna. Altrettanto fecero Bruges, Dam e Odenard. Pareva che la ricca e nobil città d'Anversa non volesse il giogo, perchè presidiata da dodici battaglioni gallispani; ma quella cittadinanza e il comandante della cittadella, ben affetti al nome austriaco, tanto operarono, che nel dì 6 di giugno, avendo quel presidio ottenuto onorevoli patti, ne fece la consegna all'armi de' collegati. Fu posto l'assedio ad Ostenda, e in meno di otto giorni, cioè nel dì 6 di luglio, entrarono in possesso pel re Carlo III gli Anglolandi, siccome ancora fecero nel dì seguente in Neoporto, e poscia in Coutrai. La forza fu quella che fece piegare il collo a Menin, piazza, in cui si trovò gran resistenza. Dendermonda ed Ath vennero anch'esse alla loro ubbidienza, di modo che anche in quella parte ebbero un terribile scacco l'armi delle due corone. Nè fu pur loro più propizia la fortuna in Ispagna. Stava sul cuore del re Filippo V la perdita della riguardevol città di Barcellona, al cui esempio s'era ribellata quasi tutta la Catalogna e il regno di Valenza. Per ricuperarla non perdonò a spesa e diligenza alcuna; raunò un buon esercito di Spagnuoli; ebbe dal re Cristianissimo avolo suo un poderoso rinforzo di truppe, condotto dal duca di Noaglies. Ciò fatto, siccome principe generoso, volle in persona intervenire a quell'impresa, per maggiormente accalorarla. Si mosse da Madrid verso il fine di febbraio, e giunse sotto Barcellona, al cui assedio fu dato principio. Dentro vi era lo stesso re Carlo III, che, veggendo la città sfornita di soldatesche, ed aperte tutte le breccie dell'anno precedente, fu in forse se dovea ritirarsi. Tale nondimeno a lui parve l'asserzione e il coraggio di quel popolo, che determinò di non abbandonarlo. Mirabili cose fecero que' cittadini, sì uomini che donne, ed anche i religiosi claustrali, per preparar ripari, per difendersi sino all'ultimo fiato, ben consapevoli che colla perdita della città andavano a perdere [207] i tanti lor privilegii, e correano pericolo le loro stesse vite. Tutti i loro sforzi non poteano impedire la grandine delle bombe e i frequenti, anzi continui, tiri delle batterie nemiche: offese che rovesciarono gran copia di case, e già formavano considerabili breccie nelle mura. Di peggio vi fu, perchè riuscì agli assedianti d'insignorirsi dei due forti del Mongiovì, dove perirono quasi tutti quei pochi Inglesi ed Olandesi ch'erano ivi alla difesa. Si trovò allora agli estremi la città; e contuttochè i fedeli Catalani mai nè per le morti nè per le incredibili fatiche si avvilissero, pure fu dai più consigliato il re Carlo a sottrarsi alla rovina imminente con tentare la fuga per mare, benchè la flotta franzese tenesse bloccato quel porto. Ma più potè in lui l'amore conceputo verso i poveri cittadini che il proprio pericolo. S'egli si ritirava, la città tosto era perduta. Arrivò in fine, nel dì 8 di maggio, il sospirato soccorso della flotta anglolanda, che fece ritirar la franzese a Tolone, e sbarcò in Barcellona più di cinque mila combattenti, con inesplicabil gioia di quella cittadinanza. Sì poderoso aiuto, e il restare aperto il mare ad altri soccorsi, fecero risolvere il re Filippo V a sciogliere quell'assedio, e a ritirarsi non già per l'Aragona, ma pel Rossiglione in Francia. Accadde la levata del campo nella mattina del dì 12 di maggio, in cui seguì uno dei maggiori ecclissi del sole tre ore prima del mezzo giorno: avvenimento che notabilmente accrebbe il terrore nell'armata che si ritirava in gran fretta. Lasciarono gli Spagnuoli nel campo più di cento cannoni con ventisette mortari, cinque mila barili di polve, due mila bombe, con gran quantità di altri militari attrezzi, e di munizioni da bocca e da guerra. Furono poi nella marcia inseguiti, flagellati e svaligiati da una continua persecuzione de' Micheletti alla coda e ai fianchi. Passò il re Filippo per Perpignano e per la Navarra, e si restituì sollecitamente a Madrid.

Ma mentre sotto Barcellona si trovava [208] impegnato esso monarca, il milord Gallovay, che comandava le truppe inglesi nel Portogallo, benchè poco si accordasse il suo parere con quello dei generali portoghesi, pure tanto fece, che unitamente passarono sotto Alcantara, e la presero. Apertasi con ciò la strada fino a Madrid, colà dipoi s'incamminò il loro esercito, e pervenne al celebratissimo monistero dell'Escuriale. Non si credè sicuro allora in Madrid il re Filippo, e però, scortato con quattro mila cavalli e cinque mila fanti dal duca di Bervic, si ritirò altrove con tutta la corte. Nel dì 2 di luglio fu solennemente proclamato nella città di Madrid Carlo III per re di Spagna. S'egli sollecitava il suo viaggio a quella capitale, e se l'armata dei collegati avesse senza dimora inseguito il re Filippo, forse restavano in precipizio gli affari della real casa di Borbone in quelle parti. Ma il re Carlo, udita la sollevazione d'Aragona in suo favore, volle passar prima a Saragozza, per ricevere ivi gli omaggi di quei popoli. Intanto rinforzato il re Filippo dai soccorsi spediti dal re Cristianissimo, dopo aver fatto ritirar gli alleati inferiori di forze, rientrò nella scompigliata città di Madrid. Corse dei gravi pericoli il re Carlo, perchè abbandonato dai Portoghesi; pure ebbe la fortuna di scampare a Valenza, dove con gran plauso fu ricevuto da quel popolo. L'odio inveterato che passa fra i Castigliani e Portoghesi, e il maggiore che professavano i primi contro gli Anglolandi per la diversità della religione, sommamente giovarono al re Filippo, e nocquero all'emulo suo. Intanto anche Cartagena ed Alicante, per timor della flotta possente dei collegati, alzò la bandiera del re Carlo. In questa confusione restarono nel presente anno le cose della Spagna. In esso ancora ad una fiera calamità fu sottoposto l'Abbruzzo per un orribil tremuoto, che nel dì 3 di novembre interamente desolò una gran quantità di terre colla morte di assaissimi di quegli abitanti, e con recare gravissimi danni [209] eziandio a molte altre. Di tal disavventura partecipò anche la Calabria. Parea che in questi tempi un tal flagello fosse divenuto cosa familiare. Di gravi contribuzioni esigerono i Tedeschi nel verno dai principi d'Italia; e non esentarono da esse, e nè pur dai quartieri gli Stati di Parma e Piacenza, ancorchè protetti dalle bandiere di San Pietro. L'accordo fatto dal duca Francesco Farnese, nel dì 14 di dicembre, di pagare novanta mila doble agl'imperiali, fu dipoi riprovato dal sommo pontefice, che passò anche a fulminar censure contra di quei bravi esattori: il che maggiormente alterò la corte di Vienna contro la romana.


   
Anno di Cristo MDCCVII. Indizione XV.
Clemente XI papa 8.
Giuseppe imperadore 3.

Per tutto il gennaio di quest'anno era durato il blocco della cittadella di Modena, quando giunsero artiglierie, colle quali fu risoluto di farle un più aspro trattamento. Erette le batterie, cominciarono, nel dì 31 di esso mese, a flagellare le mura, ed era già formata la breccia. Arrivò improvvisamente in questo tempo da Bologna lo stesso duca di Modena Rinaldo d'Este, che agevolò ai Franzesi con vantaggiose condizioni la resa della piazza. Nel dì 7 di febbraio se ne andò quella guernigione con tutti gli onori; e giacchè anche Mont'Alfonso capitolò nel dì 25 di esso mese, e Sestola nel dì 4 di marzo, rientrò il duca in possesso di tutti i suoi Stati. Continuò ancora per questo verno il blocco del castello di Milano, il cui comandante, perchè le tavole degli uffiziali scarseggiavano di viveri, obbligò quella città colle minaccie dei cannoni a somministrarne. Non si può dire quanto restasse dipoi sorpresa la pubblica curiosità, allorchè si propalò un accordo stipulato in Milano nel dì 13 di marzo fra i ministri dell'imperador Giuseppe e del re Carlo III suo fratello, e quei del re Cristianissimo Luigi XIV, [210] per cui fu convenuto che i Franzesi evacuerebbono tutta la Lombardia. Ritenevano essi tuttavia il castello di Milano, Cremona, Mantova, la Mirandola, Sabbioneta, Valenza e il Finale di Spagna; di tutto fecero cessione agli Austriaci fratelli: risoluzione che parve strana alle picciole teste d'alcuni, ma che molto ben convenne alla saviezza del gabinetto di Francia. È incredibile la spesa che facea il re Cristianissimo per mantenere la guerra in Italia; senza paragone più gli sarebbe costato questo impegno, da che le vittoriose armi cesaree e savoiarde gli aveano o serrati o troppo difficultati i passi in Italia. Troppe città e piazze si erano perdute. Contuttochè il conte di Medavì conservasse ancora nel Mantovano circa dodicimila soldati, pure un nulla era questo al bisogno. Alla Francia sopra tutto premeva di ricuperar le truppe esistenti in Lombardia, e le migliaia ancora di quelle che erano restate prigioniere: punto che le fu accordato con tutti i comodi ed onori militari, affinchè potessero tali milizie passar sicure in Francia. Sicchè la real casa di Borbone, poco anzi padrona dei ducati di Milano, di Modena, di Mantova, Guastalla, del Monferrato, del Finale, di varii luoghi nella Lunigiana, e della maggior parte del Piemonte, eccola di repente spogliata di tutto, prendere la legge dalla fortuna, e da chi poc'anzi non avea nè pure un palmo di terreno in Italia. Per sostenere la sola guerra d'Italia, che poi nulla fruttò, impiegò il re Cristianissimo più di settanta milioni di luigi d'oro. Parrà cosa incredibile, ma io la tengo da chi dicea di saperla da buon luogo. Restarono dunque in man dei Franzesi solamente la Savoia, Nizza e Villafranca, e la lor gran potenza fu astretta a consegnar la città di Mantova col suo ducato, e insieme la Mirandola all'armi di Cesare, lasciando i duchi di quelle città pentiti, ma tardi, d'aver voluto senza necessità sposare il loro partito. All'incontro il generoso e insieme fortunato Vittorio Amedeo duca di Savoia, dopo essersi [211] trovato in sì pericoloso giuoco alla vigilia di perdere in una giornata anche la sua capitale, quasi unica tavola del suo naufragio; all'improvviso ricuperò tutti i suoi stati di Lombardia, e inoltre dall'Augusto Giuseppe ricevette l'investitura di Casale col Monferrato Mantovano, e di Alessandria, Valenza, Lomellina, Valsesia e varii feudi delle Langhe, con glorioso accrescimento alla real sua casa. Abbandonarono i Franzesi l'Italia, ma ci lasciarono una funesta eredità dei loro insegnamenti ed esempli, perchè s'introdusse una gran libertà di commercio fra l'uno e l'altro sesso; e l'amore del giuoco anche nel sesso femmineo si aumentò, e si diè bando ai riguardi e rigori dell'età passata.

Essendosi gagliardamente invigorito di truppe il duca di Savoia, si pensò quale impresa si avesse da eleggere per far guerra alla Francia in casa sua, giacchè la Francia più non pensava a farla a casa altrui nelle parti d'Italia. Volevano il duca Vittorio Amedeo e il principe Eugenio che si portassero l'armi contro il Delfinato e Lionese, siccome più pratici dei paesi; ma d'uopo fu che si accomodassero alla risoluta volontà degl'Inglesi, ai quali sembrava più utile ed anche facile l'acquisto di Tolone, porto di tanta importanza nella Provenza, perchè sarebbe l'assedio di esso secondato dalla flotta anglolanda. Sapevano i principi di Savoia quanto male in altre occasioni precedenti fossero riusciti i conti e i tentativi dell'armi cesaree e savoiarde in quelle parti; pure loro malgrado consentirono a sì fatta spedizione. Incredibili fatiche, stenti e spese costò il condurre l'esercito per l'aspre montagne di Tenda, e per le vicinanze di Nizza e Villafranca occupate da' Franzesi. Si scarseggiava dappertutto di viveri e di foraggi; pure, ad onta dei tanti disagi, per li quali mancò nel cammino molta gente, pervenne l'oste collegata per Cagnes, Frejus, Arce e Sauliers in vicinanza di Tolone nel dì 26 di luglio. Ma due giorni prima il vigilante maresciallo di Tessè con [212] marcie sforzate correndo, avea introdotto in quella città piuttosto un esercito che una guernigione, e s'era affaccendato in formare ripari e fortificazioni a tutti i siti. Sicchè fu ben dato principio alle offese contra Tolone, ma con poca o niuna speranza di buon esito; tanta era la copia dei difensori. S'impadronirono bensì gli alleati di due forti, spinsero bombe nella piazza; ma chiariti che si gittava la polve e il tempo; che ogni dì più s'ingrossava l'esercito del Tessè; che veniva gente fino di Spagna; che i duchi di Borgogna e Berrì erano in moto per venire alla testa delle lor milizie; e che la flotta anglolanda più avea da combattere coi venti che colla terra; finalmente fu preso il partito di sloggiare e di tornarsene in Italia. Con buon ordine fu eseguita la ritirata nella notte precedente al dì 22 di agosto; e passato felicemente il Varo, si restituì l'armata alleata in Italia, minore di quel ch'era prima, perchè di trentasei mila combattenti appena la metà si salvò. Ora qui si aprì il campo alle dicerie dei politici, che sognarono misteri segreti nel duca di Savoia, senza far mente alle vere cagioni dell'infelice riuscita di quella impresa. Giunti in Piemonte i collegati, poco stettero in ozio. Restava tuttavia in man de' Franzesi la città di Susa, corteggiata da alcuni forti, alzati da essi sulle alture dei monti che attorniano quella valle. S'impadronirono essi collegati, nel dì 22 di settembre, della città, e nel dì 4 di ottobre anche della cittadella, con farne prigioniere il presidio. Presero anche di assalto il forte di Catinat, restando parte di quella guernigione tagliata a pezzi. Con queste imprese terminò la campagna in Piemonte.

Comune opinione fu che l'infelice spedizione dell'armi collegate in Provenza producesse almen questo vantaggio; che la Francia impegnata alla propria difesa non inviasse soccorso al regno di Napoli, minacciato dall'imperador Giuseppe. A tale acquisto ardentemente pensava la corte di Vienna, animata spezialmente da [213] segrete relazioni che i popoli di quel regno, oltre al concetto di essere amanti di nuovo governo, a braccia aperte aspettavano chi venisse a ristabilir ivi il dominio austriaco, con iscacciarne la real casa di Borbone. Non l'intendevano così gli Anglolandi per altri loro riflessi; ma Cesare stette forte nel suo proponimento, considerando, fra le altre cose, che parte della sua cavalleria resterebbe oziosa in Piemonte, siccome avvenne, per non potere esporsi a troppi patimenti nell'aspro passaggio verso la Provenza. Fu dunque scelto per condottiere d'una picciola armata, consistente in cinque mila fanti e tre o forse più mila cavalli (benchè la fama ne accrescesse molto più la dose) il valoroso conte Daun per marciare alla volta di Napoli; giacchè si giudicavano bastanti così poche forze a conquistare un regno dove mancavano difensori, le fortezze erano sprovvedute, e l'amore dei popoli serviva di sicurezza per un esito favorevole. Nel dì 12 di maggio si mise in marcia questo distaccamento, passando per Romagna e per la Marca; ad Ancona ricevette un treno di artiglieria, e verso la metà di giugno per Tivoli e Palestrina nel dì 24 pervenne ai contini del regno. Avea per tempo il duca di Ascalona vicerè fatti quei preparamenti che a lui furono possibili per opporsi a questo temporale. Poche truppe regolate si trovavano al suo comando; ne arruolò molte di nuove; diede l'armi al popolo di Napoli, mostrando confidenza in esso; ma in fine modo non appariva di uscire in campagna, e d'impedire l'ingresso ai nemici nel regno. Contuttociò don Tommaso d'Aquino principe di Castiglione, don Niccola Pignatelli duca di Bisaccia, ed altri uffiziali con alcune migliaia di armati si postarono al Garigliano; ma, al comparire degli Alemanni, considerando meglio essi che nulla si poteano promettere da gente collettizia, si ritirarono a Napoli. Perciò senza colpo di spada vennero in poter dei Tedeschi Capoa ed Aversa; e l'esercito, senza trovare ostacolo [214] alcuno, si presentò, nel dì 7 di luglio alla città di Napoli, essendosi ritirato il duca di Ascalona a Gaeta.

Portate dai deputati le chiavi di essa metropoli al conte di Martinitz dichiarato vicerè, entrò egli colla fanteria nella città fra le incessanti acclamazioni del popolo la cui sfrenata allegrezza passò fino a mettere in pezzi la bella statua equestre di bronzo eretta al re Filippo V, e a gittarla in mare. Da li a pochi giorni i tre castelli di Napoli si arrenderono; la guernigion di Castelnuovo prese partito fra gli Austriaci. Con gran solennità fu poi preso possesso di quella gran città a nome del re Carlo III. Ritiratosi il principe di Castiglione verso la Puglia con circa mille cavalli, trovò in quel di Avellino barricate le strade. Rivoltosi a Salerno, ed inseguito dalla cavalleria cesarea, quivi fu preso, e la sua squadra parte si sbandò, parte restò prigioniera. L'esempio di Napoli si tirò dietro il resto delle città e provincie di quel regno, a riserva dell'Abbruzzo, che fece qualche resistenza, a cagione del duca d'Atri; ma speditovi il generale Vetzel con truppe, ubbidì ancora quella contrada, se non che il presidio di Pescara si tenne saldo fino ai primi dì di settembre. La sola città di Gaeta, dove con circa tre mila soldati si era rifugiato ed afforzato il duca d'Ascalona, sembrava disposta a fare una più lunga e vigorosa difesa, giacchè era anch'essa assistita per mare dalle galee del duca di Tursi. Sotto d'essa andò ad accamparsi il conte Daun, e disposte le batterie, queste arrivarono in fine a formare una ben larga breccia nelle mura, di modo che nel dì 30 di settembre fu risoluto di salire per essa. Ossia che l'Ascalona poco si intendesse del mestier della guerra, o che troppo confidasse nella più che mediocre bravura de' suoi guerrieri, e in un argine di ritirata alzato dietro la breccia, si lasciò sconsigliatamente venire addosso il torrente. Montarono i cesarei intrepidamente la breccia, e quando si credeano di aver fatto assai con prender ivi posto, [215] avvedutisi del disordine dei difensori, seguitarono innanzi, e furiosi entrarono nell'infelice città. Andò essa tutta a sacco con tutte le conseguenze di somiglianti spettacoli, essendo solamente restate esenti dal furor militare le chiese e i conventi. Fu creduto ascendere il bottino a più di un milione di ducati. Gran macello fu fatto di presidiari. Il mal accorto duca d'Ascalona, cagione di tanta sciagura, covava sempre la speranza del suo scampo nelle suddette galee; ma per disavventura erano esse quel dì ite a caricar vettovaglie, e però gli convenne ritirarsi colla gente, che potè sottrar alle sciable tedesche, nel castello. Fu poi obbligato di rendersi a discrezione insieme col duca di Bisaccia e col principe di Cellamare, che pubblicamente furono condotti prigionieri fra gli improperii del popolo, minacciante all'Ascalona come cosa degna di lui, la forca, pel sangue dei Napoletani da lui sparso in occasion della congiura, già maneggiata e malamente eseguita contra del re Filippo V. Fu poi richiamato in Germania il conte di Martinitz, e il governo di Napoli restò al conte Daun.

Di questo felice passo proseguivano in Italia gli affari del re Carlo III, mentre in Ispagna andavano a precipizio. L'arrivo di poderosi rinforzi mandati dai Franzesi, e de' ricchi galeoni venuti dall'America, prestarono al re Filippo il comodo di unire una buona armata, e di spedirla contro l'emulo Carlo III. Era dall'altra parte uscito in campagna milord Gallovai colle truppe anglolande e catalane; e quantunque caldamente fosse stato consigliato dal conte di Peterboroug e da altri ufficiali di tenersi unicamente sulla difesa, pure, sedotto dai contrarii impetuosi consigli del generale Stenop, ardentemente bramava di venir ad un fatto d'armi, lusingandosi che nulla potesse resistere al valore de' suoi. Si trovarono in vicinanza le due nemiche armate nel dì 22 d'aprile, non lungi dalla città d'Almanza nel regno di Valenza. Voleva il duca di Bervich, generale del re [216] Filippo, differir le operazioni, finchè il duca d'Orleans, spedito da Parigi a Madrid con titolo di generalissimo, arrivasse al campo, per lasciare a lui l'onore della sperata vittoria; ma non gli diede il Gallovai tanto di tempo, perchè nel dì 25 d'esso aprile andò ad attaccare la zuffa. Non erano forse disuguali nel numero le schiere de' contendenti; pure l'armata de' collegati si trovava inferiore di cavalleria, e le truppe portoghesi non sapeano che brutto giuoco fossero le battaglie. Si combattè con gran vigore da ambe le parti, e gl'Inglesi fecero maraviglie, sostenendo per grande spazio di tempo il peso del conflitto; ma in fine sbaragliati cederono il campo ai vincitori Gallispani. Si calcolò che degli alleati restassero ben cinque mila estinti, oltre ad una copiosa quantità di feriti, e che i rimasti prigionieri ascendessero al numero di quattro mila. Gran sangue ancora costò ai Gallispani questa felice giornata, perchè v'ebbero da quattro mila tra morti e feriti. Ma in mano loro venne tutta l'artiglieria nemica e il minuto bagaglio con assai bandiere e stendardi. Lamentaronsi forte gl'Inglesi della vana spedizione fatta da' cesarei e Piemontesi in Provenza; perchè se le truppe inutilmente consumate in quella impresa fossero state spedite in Ispagna, come essi ne facevano istanza, si lusingavano di stabilir ivi senza dubbio il trono del re Carlo.

Gran tracollo diede questa sconfitta alla fortuna d'esso re Carlo. Imperocchè, giunto al campo il duca d'Orleans, non perdè tempo a ricuperare Valenza ed altri luoghi di quel regno, che provarono il gastigo della loro affezione al nome austriaco. Lasciato poi il corpo maggior dell'armata al duca di Bervich e al general Asfeld, affinchè seguitassero le conquiste nel Valenziano e Murcia, egli con otto o dieci mila combattenti marciò alla volta dell'Aragona, e trovati que' popoli atterriti per la rotta d'Almanza, facilmente li ridusse all'ubbidienza del re [217] Filippo V, da cui furono poi privati di tutti i privilegii, spogliati d'armi, e severamente puniti in altre guise. A tante contentezze della corte di Madrid si aggiunse, nel dì 25 d'agosto, l'aver la regina Maria Gabriella di Savoia dato alla luce un figlio maschio, a cui fu posto il nome di Luigi, e dato il titolo di principe d'Asturias. Fu poi nell'autunno costretta dal duca d'Orleans l'importante città di Lerida con un vigoroso assedio a rendersi. Fermossi in quest'anno il re Carlo III in Barcellona, per animare i suoi Catalani nelle disgrazie, mangiando intanto il pane del dolore; perciocchè, oltre al non venirgli alcun nuovo soccorso nè dalle potenze marittime, nè dall'Italia, da ogni parte fioccavano famiglie nobili di Valenza ed Aragona sue parziali, che a lui si rifugiavano, cercando di che vivere. In Fiandra e al Reno continuò anche nell'anno presente la guerra, ma senza che succedessero fatti od imprese, delle quali importi al lettore che io l'informi.


   
Anno di Cristo MDCCVIII. Indizione I.
Clemente XI papa 9.
Giuseppe imperadore 4.

Attese in quest'anno il conte Daun vicerè di Napoli a rimettere sotto il dominio del re Carlo III le piazze spettanti alla Spagna nelle maremme di Siena. Spedito colà un corpo di truppe, il generale Vetzel non ebbe a spendere gran tempo e fatica per ridurre alla resa Santo Stefano ed Orbitello, fortezza pel sito assai riguardevole. Da lì a non molto venne ai suoi voleri anche la città di Piombino col suo castello. Ma in Porto Ercole e Portolongone si trovarono difensori risoluti di custodire in quei porti la signoria di Filippo V. Convenne dunque trasportar colà da Napoli artiglierie e munizioni per adoperare la forza. Ma verso il principio di novembre il comandante di Porto Longone, sbarcata gente ad Orbitello, col nembo di molte [218] bombe fece provare il suo sdegno a quella piazza. Era già stata destinata in moglie al re Carlo III la principessa Elisabetta Cristina di Brunsvich della linea di Wolfembutel, che a questo fine abbracciò la religione cattolica. Si mosse di Germania nella primavera del presente anno questa graziosissima principessa, dichiarata regina di Spagna, e calò in Italia. Suo condottiere era il principe di Lorena vescovo di Osnabruch. Magnifico ricevimento le fece per li suoi Stati la veneta repubblica. Nel dì 26 di maggio furono ad inchinarla in Desenzano Rinaldo d'Este duca di Modena, e il principe don Giovanni Gastone, spedito dal gran duca Cosimo de Medici suo padre, e poscia in Brescia Francesco Farnese duca di Parma. Passata essa regina a Milano, ed ivi accolta con gran pompa e solennità, fu poi a visitar le deliziose isole Borromee, e nel dì 7 di luglio s'inviò a San Pier d'Arena, dove imbarcata nella flotta inglese nel dì 15 sciolse le vele verso Barcellona. Dappoichè la memorabil vittoria degl'imperiali sotto Torino sconvolse tutte le misure de' Franzesi per conto dell'Italia, destramente sul principio del precedente anno aveano essi consigliato Ferdinando Carlo Gonzaga duca di Mantova di passare per sua maggior sicurezza a Venezia. Elesse più tosto la duchessa sua moglie di ritirarsi in Francia, che di seguitarlo, e portatasi a Parigi, quivi, nel dì 19 di dicembre del 1710, mancata di vita, liberò quella corte dall'obbligo di pagarle un'annua convenevol pensione. Portò seco il duca a Venezia un'incredibile afflizione, che crebbe poi a dismisura all'udire caduta in mano dell'imperadore la sua capitale, e al trovarsi spogliato di tutti i suoi Stati. Nè a mitigar questa piaga serviva punto la promessa del re Cristianissimo di pagargli ogni anno quattro cento mila franchi, e di rimetterlo in casa alla pace. Il laceravano continuamente i rimorsi delle sue sconsigliate risoluzioni, e la notizia di non esser compatito da alcuno; laonde cominciò a patire oppressioni [219] di cuore, con pericolo di soffocarsi, allorchè si metteva a giacere. Ora in Venezia ed ora a Padova cercando rimedii ai mali non men del corpo che dell'animo, si ridusse in fine agli estremi. Stava la corte di Vienna con l'occhio aperto al di lui vacillante stato, e prima ch'egli prendesse congedo dal mondo fulminò contra di lui una fiera sentenza, dichiarando lui reo di fellonia, e decaduti i suoi Stati al fisco cesareo. L'ultimo dì della vita di questo infelice principe fu il dì 5 di luglio dell'anno presente in Padova; e corse tosto fama che il veleno gli avesse abbreviati i giorni, quasichè in tanti disordini della sua vita licenziosa in addietro e i succeduti crepacuori non avessero assai possanza per condurlo al sepolcro in età di cinquantasette anni. Non lasciò dopo di sè prole legittima; e quantunque Vincenzo Gonzaga duca di Guastalla facesse più e più istanze e ricorsi per succedere nel ducato di Mantova, siccome chiamato nelle investiture, ed anche per patti confermati dal fu Augusto Leopoldo, nè allora nè di poi potè conseguire il suo intento. Solamente gli venne fatto di riportare il possesso e dominio del principato di Bozzolo, di Sabbioneta, Ostiano e Pomponesco. Avrebbe dovuto il popolo di Mantova compiagnere tanta mutazione di cose, e la perdita de' proprii principi, che seco portava la dolorosa pensione di divenir provincia, con altre assai gravi conseguenze, che non importa riferire. E tanto più perchè l'estinto duca trattava amorevolmente e con discreti tributi i sudditi suoi, e teneva in feste quella allor ben popolata città. Contuttociò la sfrenata libidine sua, per cui non era in sicuro l'onor delle donne, e massimamente delle nobili; e i tanti sgherri ch'egli manteneva per far delle vendette, spezialmente se gli saltavano in capo ghiribizzi di gelosie, tale impressione lasciarono, non dirò in tutti, ma nella miglior parte del popolo, che o non deplorarono, o giudicarono anche fortuna ciò che gli altri Stati han considerato, [220] e tuttavia considerano, per una delle loro maggiori sventure. E quivi si provò che un solo principe cattivo fece perdere, per così dire, la memoria e il desiderio di tanti illustri e saggi suoi predecessori, che aveano in alto grado nobilitata, arricchita e renduta celebre dappertutto la città di Mantova. Cento si richieggono ad edificare, un solo basta a distruggere tutto.

Non poche differenze ancora insorsero fra la corte imperiale e Vittorio Amedeo duca di Savoia a cagione del Vigevanasco, già promesso a questo principe nei precedenti patti, ma senza che il consiglio aulico di Vienna sapesse mai condiscendere a questa cessione. Indarno si mossero Inglesi e Olandesi a sostenere le di lui ragioni, vieppiù perchè il duca si mostrava renitente ad uscire in campagna, se non era soddisfatto. Tante belle parole nondimeno e promesse furono spese in tale occasione, che il duca nel mese di luglio si mosse coll'armi sue e collegate. Il conte di Daun fu richiamato da Napoli al comando delle truppe cesaree in Piemonte, e in suo luogo con titolo di vicerè passò il cardinal Vincenzo Grimani Veneto a quel governo, e ne prese il possesso nel dì 4 di luglio. Parevano risoluti gli alleati di penetrare colle lor forze nel Delfinato, dove il maresciallo di Villars, benchè inferiore di gente, avea prese le possibili precauzioni per la difesa. Ma le mire del duca di Savoia erano di torre ai Franzesi quelle fortezze che aprivano loro il passaggio verso l'Italia. Perciò, dopo essersi avanzata l'armata collegata per quelle aspre montagne, cioè per la Morienna, per la Tarantasia, per la valle d'Aosta e pel Monsenisio, minacciando la Savoia, all'improvviso sul principio di agosto, voltato cammino e faccia, tagliò ai Franzesi l'ulterior comunicazione coi forti della Perosa, di Exiles e delle Fenestrelle. Fu nel medesimo tempo impreso l'assedio dei due primi, ed ambedue nei dì 11 e 12 d'agosto esposero bandiera bianca, restando prigioniere quelle guernigioni. Di là si passò [221] a strignere le Fenestrelle, fortezza di maggior nerbo, ma che bersagliata fieramente dalle nemiche batterie, nel dì 21 del mese suddetto capitolò la resa, con restare ivi ancora prigioniere di guerra il presidio. Ciò fatto, si ritirò quell'armata a Pinerolo, e con tali imprese ebbe fine in esse parti la campagna, non essendosi fatto altro tentativo, sì perchè, cadendo di buona ora le nevi in quei monti, impediscono i passi alle operazioni militari, e sì perchè l'armi cesaree erano richiamate in Italia per un'altra scena, a cui s'era dato principio.

Ancorchè nelle presenti scabrose contingenze con somma prudenza e da padre comune si fosse governato il pontefice Clemente XI, senza prendere impegno alcuno fra le potenze guerreggianti; pure provò quanto sia difficile il soddisfare a tutti, e il conservare il credito e vantaggio della neutralità in mezzo a due contrarii fuochi. Dichiarossi infatti malsoddisfatta di lui la corte di Vienna, sì per l'affare di Figheruolo, come dicemmo all'anno 1704, e sì per le scomuniche fulminate dal santo padre nel dì primo di agosto del precedente anno contro i ministri cesarei a cagion delle contribuzioni esatte dal ducato di Parma e Piacenza, come ancora varii altri atti di questo pontefice, geloso mantenitore dell'immunità ecclesiastica. Ora da che l'imperadore Giuseppe si vide forte in Italia per l'espulsione dell'armi delle due corone, non tardò a far provare i suoi risentimenti alla corte di Roma, ordinando che non passassero a Roma le rendite dei beni ecclesiastici del regno di Napoli, e risvegliando le pretensioni già mosse dall'Augusto suo padre, per li feudi e Stati imperiali dell'Italia. Uno di questi pretendeva il consiglio aulico che fosse la città di Comacchio, posta sull'Adriatico fra Ravenna e Ferrara, colle sue ricche valli pescareccie, siccome quella che la casa d'Este fin dall'anno 1354 riconosceva dal sacro romano imperio per investiture continuate fino al regnante duca di Modena Rinaldo [222] d'Este; e che quantunque non compresa nel ducato di Ferrara, pure fu occupata dal papa Clemente VIII nel 1598, ed era tuttavia detenuta dalla camera apostolica, non ostante i reclami fatti più volte dai principi estensi. Similmente eccitò le pretensioni cesaree sopra Parma e Piacenza, ancorchè per due secoli la Sede apostolica ne fosse in possesso, e ne desse pubblicamente le investiture alla casa Farnese. Adunque verso la metà di maggio si fece massa di milizie imperiali sul Ferrarese, e senza far novità contro la città stessa di Ferrara, passò nel dì 24 di esso mese un corpo di Tedeschi ad impossessarsi della città di Comacchio. Venne anche ordine da Vienna e da Barcellona al senato di Milano d'intimare al duca di Parma di prendere fra quindici giorni la investitura di Parma e Piacenza come feudi imperiali e dipendenze dello Stato di Milano.

Da tali novità commosso il sommo pontefice, giudicò debito suo di mettersi in istato di ripulsar colla forza gli attentati degli Alemanni, e a sì fatta risoluzione lo animarono spezialmente i ministri di Francia e Spagna, impiegando larghe promesse di soccorsi, che poi non si videro mai comparire. Però avuto ricorso al tesoro di castello Sant'Angelo, e trovate altre maniere di accumular pecunia, si fece in Roma e per gli Stati della Chiesa un armamento di circa venti mila soldati, dei quali fu dato il comando a Ferdinando Marsili Bolognese, generale dell'imperadore, e famoso ancora per la sua singolar letteratura. Passarono queste truppe a guernir i posti del Ferrarese, Bolognese e Romagna, e seguirono anche ostilità nelle ville confinanti a Comacchio. Il duca di Modena Rinaldo per sua precauzione fece anch'egli di molta gente. Ora intenzione della corte cesarea non era già di far guerra al papa, ma solamente di tirarlo a qualche convenevole aggiustamento; pure, vedendo sì grande apparato d'armi, ordinò al conte Wirico di Daun, suo primario generale in Italia, [223] di cercare colle brusche ciò che i suoi ministri in Roma non poteano ottener col maneggio. Calati dunque varii reggimenti verso il Ferrarese, il suddetto generale Daun, nel dì 27 d'ottobre, marciò contro Bondeno, e vi fece prigionieri più di mille soldati pontifizii, liberò dal blocco Comacchio, e s'impadronì di Cento. Appresso andò quasi tutto il resto dell'armata imperiale a prendere quartieri di verno sul Ferrarese e Bolognese, e formò una specie di blocco alla stessa città di Ferrara e a Forte Urbano. Inoltrossi ancora ad Imola e Faenza, da dove sloggiarono presto le milizie pontificie, che aveano dianzi determinato di far quivi piazza d'armi. Intanto anche le penne cominciarono la guerra, avendo la corte romana pubblicate le ragioni del suo dominio in Comacchio, alle quali contrappose tosto altre scritture il duca di Modena, che istruirono il pubblico del diritto imperiale ed estense sopra quella città. Oltre a questi sì strepitosi sconcerti, provò papa Clemente XI nel presente anno molti affanni e cure a cagion de' riti cinesi, da che intese che monsignore di Tournon da lui inviato per visitatore alla stessa Cina, ed ultimamente creato cardinale, avea incontrato delle gravissime traversie nell'esecuzione dell'apostolico suo ministero.

Nel maggio di quest'anno fece il re Cristianissimo Luigi XIV la spedizione del giovine cattolico re della Gran Bretagna Giacomo III verso la Scozia con poderosa flotta, per suscitare in quelle parti qualche incendio. Ma sì opportune e gagliarde furono le precauzioni prese dalla corte di Londra e dagli Olandesi, che lo sventurato principe fu astretto a ritornarsene a Dunquerque, contento di avere scampato il grave pericolo, a cui fu esposta insieme colla flotta la sua real persona. Con grandi forze entrarono dipoi i Franzesi in campagna nell'anno presente, giacchè i lor desiderii e trattati di pace coi ministri delle potenze collegate s'erano sciolti in fumo, ed improvvisamente [224] si fecero padroni di Gante e di Bruges. Al comando di quell'armata passò lo stesso duca di Borgogna colla direzione del valoroso duca di Vandomo; ed erasi già accampata l'oste loro presso Odenard, dove si trovò il comandante ben risoluto alla difesa. Allora fu che gli insigni due generali dell'esercito alleato, cioè il principe Eugenio di Savoia, e milord duca di Marlboroug, s'affrettarono di venire alle mani co' Franzesi. Nel dì 11 di luglio attaccarono essi la battaglia con tal maestria e vigore, che ne riportarono vittoria. La notte sopraggiunta favorì non poco la fuga o ritirata dei Franzesi. Contuttociò, se si ha da credere alla relazion de' vincitori, d'essi Franzesi restarono sul campo quattro mila estinti, laddove, secondo il conto dei vinti, nè pur giunsero a due mila. S'accordarono bensì le notizie in dire che rimasero prigionieri sette mila di essi, fra' quali cinquecento uffiziali. Si portò dipoi il principe Eugenio all'assedio dell'importante città di Lilla, fortificata al maggior segno dal famoso ingegnere Vauban. Costò gran sangue l'espugnazion di sì gran fortezza, difesa con sommo valore dal maresciallo di Bouflers; e secondo lo scandaglio degl'intendenti vi perirono degli offensori circa diciotto mila persone, senza parlar dei feriti. Nel dì 22 d'ottobre la città si rendè; nel dì 9 di dicembre la cittadella. In questo mentre, per fare una diversione, Massimiliano duca di Baviera mise l'assedio a Brusselles; ma accorsi i due generali de' collegati, il fecero precipitosamente ritirar di là; dopo di che ricuperarono Gante e Bruges, coronando con sì gloriose imprese la presente campagna.

Nella Spagna non furono men considerabili gli avvenimenti di guerra. Arrivò a Barcellona spedito dall'Italia il saggio maresciallo conte Guido di Staremberg al comando dell'armata del re Carlo III in Catalogna; ma colà ben tardi andarono capitando i rinforzi di gente italiana e palatina inviati per mare. Di questa lentezza non lasciò di profittare il vigilante [225] duca d'Orleans generalissimo dell'armi delle due corone. Verso il dì 21 di giugno mise l'assedio a Tortosa, e la costrinse alla resa. Anche nel Valenziano i porti di Denia e d'Alicante ritornarono per forza all'ubbidienza del re Filippo V. Ma queste perdite furono compensate da altri acquisti. Imperciocchè, avendo la flotta inglese sbarcato nell'isola di Sardegna verso la metà d'agosto un grosso corpo di milizie austriache, trovò quei popoli portati dall'antica affezione verso la casa d'Austria, che non solo niuna resistenza fecero, ma con festa inalberarono tosto le bandiere del re Carlo III. Il vicerè spagnuolo non tardò a capitolar la resa di Cagliari, con ottener tutto quanto desiderò di onori militari. Amoreggiavano da gran tempo anche gl'Inglesi l'isola di Minorica, per brama di mettere il piede in Maone, porto dei più riguardevoli e sicuri del Mediterraneo, e di quivi fondare una buona scala al loro commercio. Nel dì 14 di settembre il generale inglese Stenop sbarcò in quell'isola più di due mila combattenti, e gli abitanti corsero a soggettarsi. Nel dì 26 marciò contro il castello e porto di Maone, e fra due giorni se ne impossessò: perdita che sommamente increbbe al re Filippo per l'importanza di quel porto, caduto in mano di chi sel terrebbe caro. Come il Garzoni storico sì accurato metta nel libro XIII la presa di Minorica nell'anno 1707, se non anche nel precedente, non l'ho saputo intendere. Intanto nel dì primo d'agosto fece il suo solenne ingresso in Barcellona la novella sposa del re Carlo III con gran tripudio e festa dei Catalani.


   
Anno di Cristo MDCCIX. Indizione II.
Clemente XI papa 10.
Giuseppe imperadore 5.

Il verno di quest'anno fu dei più rigorosi che si sieno mai provati in Italia, perchè gelò il Po con altri fiumi, e colle carra si passava francamente per l'alveo [226] suo fortemente agghiacciato. Fin la lacuna di Venezia si congelò tutta, con grave incomodo di quella gran città, a cui su pel ghiaccio si dovea portar tutto ciò che con tanta facilità si portava in altri tempi per barca. Si seccarono perciò le viti, gli ulivi, le noci ed altri alberi, e nel Genovesato gli agrumi. Se ne stava, ciò non ostante, tutta l'armata cesarea dolcemente accampata sul Ferrarese, Bolognese e Romagna, godendo un buono, cioè un indiscreto quartiere d'inverno alle spese di quei poveri popoli, benedicendo essi Tedeschi il papa, che non era fin qui condisceso ad alcuno accomodamento coll'imperadore, e dava campo ad essi di deliziarsi in quelle ubertose campagne. Erasi portato a Roma il marchese di Priè plenipotenziario cesareo a fine d'indurre il pontefice ad eleggere non la pericolosa via delle armi, ma la pacifica del gabinetto, per venire ad un accordo. Nè pure il re Cristianissimo trascurò allora di spedir colà il maresciallo di Tessè per fomentare gli spiriti guerrieri nell'animo di sua santità, e frastornare ogni concordia con Cesare, spendendo largamente promesse e sicurezze di poderosi aiuti. Ma questi aiuti erano lontani, erano anche dubbiosi; e intanto il santo padre avea sulle spalle troppo pesante fardello dell'armamento proprio, che a lui, forse più di quel che avesse fatto ad altri, costava una gravissima spesa. Aveva egli anche fatto grosse rimesse agli Svizzeri e ad Avignone, per tirar da quelle parti un buon nerbo di gente. Il peggio era che le truppe cesaree, con ridersi delle truppe papaline, ogni dì più si stendevano per la Romagna, e minacciavano di voler passare, e non già per divozione, sino a Roma stessa. Dalla parte ancora del regno di Napoli si accostavano milizie ai confini dello Stato ecclesiastico. Trovavasi perciò in gravi angustie il buon pontefice; dall'una parte l'agitava la paura di maggiori violenze, e l'amore paterno dei minacciati e già aggravati suoi sudditi; e dall'altra il timore di mancare all'uffizio [227] suo in cedere alcun dei diritti della santa Sede per gli affari di Parma e Piacenza e di Comacchio, giacchè anche per le due prime città era uscito manifesto di Cesare, che le pretendeva quai membri dello Stato di Milano. S'aggiugneva l'insistere il ministro cesareo che la santità sua riconoscesse per re di Spagna Carlo III; punto di gran dilicatezza, al cui suono strepitavano forte i ministri delle due corone Cristianissima e Cattolica. Ma finalmente la paura è una dura maestra, e il saggio si accomoda ai tempi. E però, dopo avere il santo padre con pubbliche preghiere implorato lume dai cielo, nel dì 15 di gennaio del presente anno stabilì l'accordo con Cesare, promettendo egli di disarmare, e il cesareo ministro di ritirar dagli Stati della Chiesa le truppe cesaree, e di obbligare il duca di Modena a non inferire molestia alcuna alle terre della Chiesa. Fu convenuto che in amichevoli congressi, da tenersi in Roma fra i ministri pontificii e cesarei, si esaminerebbono le pendenze insorte per gli Stati di Parma, Piacenza e Comacchio, e similmente le ragioni del duca di Modena sopra Ferrara, per conchiudere ciò che esigesse la giustizia. Durante il dibattimento di queste cause fu accordato che l'imperadore restasse in possesso di Comacchio. Segretamente ancora fu convenuto che sua santità riconoscerebbe per re Carlo III. Fece quanta resistenza mai potè il pontefice; pure in fine s'indusse ad un sì abborrito passo.

A questo accomodamento non mancò la lode ed approvazione della gente più savia, considerato il pericolo di mali incomparabilmente maggiori, se la santità sua non si arrendeva. Ma non l'intesero così le corti di Francia e Spagna, pretendenti che il pontefice dovesse sacrificar tutto, e soffrire l'eccidio dei suoi Stati, più tosto che condiscendere al regio titolo di Carlo III. Però, quantunque Roma facesse conoscere che in alcuni tempi erano stati riconosciuti per re due contendenti, e lo stesso re Cristianissimo [228] avea nello stesso tempo riconosciuto per re della Gran Bretagna Giacomo II e Guglielmo III; pure a nulla giovò. Vennero ordini che il maresciallo di Tessè, l'ambasciatore cattolico duca d'Uceda e il marchese di Monteleone plenipotenziario del re Filippo V si partissero da Roma, con premettere una protesta di nullità dell'atto suddetto. Fu ancora licenziato da Madrid il nunzio Zondedari, vietato agli ecclesiastici il commercio con Roma, e fermato il corso di tutte le rendite provenienti dalla Spagna alla dateria apostolica: violento consiglio, di cui durò poscia l'esecuzione per molti anni appresso. Dirò qui in un fiato che si diede poi principio nell'anno seguente in Roma ai congressi promessi per le controversie di sopra accennate di Parma, Piacenza, Comacchio e Ferrara, intervenendovi il marchese di Priè con gli avvocati di Cesare e del duca di Modena; ma dopo una ben lunga discussione delle vicendevoli ragioni, non si venne a decisione alcuna, e restarono le pretensioni nel primiero vigore, senza che alcuna delle parti cedesse. Si conchiuse bensì, che chi non ha altre armi che ragioni e carte per torre di mano ai potenti qualche Stato occupato, altro non è per guadagnare che fumo. Era venuto sul fine del precedente anno a Venezia Federigo IV re di Danimarca, principe provveduto di spiriti guerrieri, per godere di quel delizioso carnevale, e, benchè incognito, ricevette distinti onori e suntuosi divertimenti da quella sempre magnifica repubblica. Passò dipoi a Firenze, dove dal gran duca Cosimo de' Medici fu accolto con cortesissime dimostrazioni di stima, che a taluno parvero eccessi. Si fermò in quella corte non poco tempo con aggravio d'esso sovrano, o, per dir meglio, dei sudditi suoi, che furono poi obbligati ad una contribuzione per le tante spese fatte in quella congiuntura. Credevasi ch'esso re passerebbe a Roma per godere delle rarità di quella impareggiabil dominante. Forse non si accordò il ceremoniale; e venuta anche [229] nuova che si trattava alla gagliarda di pace fra le potenze guerreggianti, verso il fine d'aprile si mosse di Toscana per ritornare ne' suoi Stati, e giunto nel dì 25 d'esso mese a Modena, trovò qui un accoglimento, qual si conveniva alla sua dignità e merito. Nel dì 6 del seguente maggio cessò di vivere Luigi Mocenigo doge di Venezia, e fu poi esaltato a quel trono Giovanni Cornaro. Già era perduta la speranza che Ferdinando de' Medici, principe ereditario di Toscana dopo tanti anni di sterile matrimonio arricchisse di prole la sua casa; il perchè il gran duca suo padre maneggiò e conchiuse l'accasamento del cardinale Francesco Maria suo proprio fratello con Leonora Gonzaga figlia di Vincenzo duca di Guastalla. Pertanto, avendo questo principe rinunziata la sacra porpora, nel principio di luglio sposò la suddetta principessa, che nel dì 14 d'esso mese arrivò a Firenze: rimedio procurato ben tardi alla cadente insigne casa de' Medici, essendo già questo principe pervenuto all'età di cinquant'anni, e debilitato da qualche incomodo della sua sanità.

Avea nel precedente anno il re Cristianissimo Luigi XIV per mezzo de' suoi emissarii sparsa cotanto per l'Olanda la sua sincera disposizione alla pace, che si cominciò a dar orecchio a sì lusinghevol proposta, e se ne trattò seriamente fra i ministri delle potenze collegate. Maggiormente si scaldò questa pratica nel verno e nella primavera dell'anno presente, nè v'era persona che non credesse risoluta la Francia di volere ad ogni costo la pace. Non si può dire in quanta miseria si fosse ridotto quel florido regno per sì lunga guerra, per sì numerosi eserciti mantenuti in tante parti. Restavano incolte molte campagne per le tante leve di gente; insoffribili gli aggravii; le milizie per gl'infelici avvenimenti degli anni addietro scorate; superiori di forze i nemici, e già vicini ad aprirsi il varco nella Francia stessa. A questi mali si aggiunse una terribil carestia, per cui fu obbligato il re [230] con immense spese a procurar grani forestieri, e a sminuir le gravezze: con che sempre più rimase esausto l'erario suo. Perciò pubblicamente il re Cristianissimo fece istanza per la pace; se ne trattò all'Haia; e quanto più miravano i plenipotenziarii de' collegati che i ministri franzesi cedevano alle restituzioni richieste, tanto più si aumentavano le lor dimande e pretensioni. Ciò che fece tenere per immancabile la pace, fu l'avere il re spedito all'Haia lo stesso suo segretario di Stato marchese di Torsy, il quale benchè si contorcesse, pure veniva accordando ogni punto proposto da' collegati. Si giunse al dì 28 di maggio, in cui furono stesi i preliminari, co' quali essi intendevano di dar la pace alla Francia. Doveva il re Filippo cedere al re Carlo III la monarchia, di Spagna; e ricusando, avea da impegnarsi il re Luigi XIV avolo suo di unirsi con gli alleati per iscacciarlo di Spagna. Una gran restituzione di piazze in Fiandra e al Reno e di tutta l'Alsazia era prescritta, con altre condizioni di gran vantaggio per chiunque avea pretensioni contro la Francia. Sicchè quei gran politici, a riserva del principe Eugenio, si tenevano oramai in mano la pace, e pace tanto vantaggiosa; ma poco tardarono ad accorgersi che questo era stato un tiro di mirabil finezza della corte di Francia. Se riusciva il tentativo della pace, di cui veramente abbisognava la corte e nazion franzese, gran bene era questo; se no, serviva l'aver trattato per guadagnar tempo e premunirsi, e molto più per muovere i popoli a sostenere il peso della guerra e delle contribuzioni, e a somministrare aiuti, da che si facea conoscere nello stesso tempo la gran premura del re per la pace, e la soverchia ingordigia de' suoi nemici.

Infatti dal re furono rigettati e poi pubblicati quegli stessi preliminari che commossero a vergogna e sdegno la nazione tutta, amantissima del re e del proprio decoro; e cagion furono che i grandi e mercatanti a gara portassero argenti e danari [231] all'erario reale: con che si provvide all'urgente bisogno. Rimasti all'incontro gli alleati colle mani piene di mosche, maggiormente s'irritarono contro la Francia; e giacchè questa unicamente pensava alla difesa, e il maresciallo di Villars s'era postato in sì buona forma, che non si potea forzare a battaglia, i due prodi generali principe Eugenio e duca di Marlboroug spinsero l'esercito all'assedio di Tournai. Dopo ventun giorni di trincea aperta, nel dì 29 di luglio quella guernigione cedette la città, ritirandosi nella cittadella, che dopo una terribil difesa si rendè in fine anch'essa nel dì 3 di settembre. Trovaronsi poscia a fronte le due nemiche armate. Quantunque il Villars si fosse ben trincierato, ardevano di voglia i generali de' collegati di far battaglia campale; ma prima di venire al gran cimento, scrivono alcuni che il principe Eugenio si abboccò sul campo col maresciallo di Bouflers, per veder pure se i Franzesi inclinavano ad accettare i già proposti preliminari. Trovò che questi maggiormente restrignevano le condizioni, detestando spezialmente quella di dovere il re Cristianissimo unirsi coi nemici contra del nipote Filippo V. Però nel dì 11 di settembre, da che ebbero i collegati disposte le cose per l'assedio di Mons, diedero all'armi contro l'esercito Franzese nel luogo di Malpacquet, contuttochè il Villars avesse le sue forze ben assicurate da due boschi e da molte trincee. Fu questa una delle più ostinate e sanguinose battaglie che occorressero nella presente guerra, e durò più di sei ore. Restò veramente il campo con alquanti cannoni in potere de' collegati, essendosi ritirati per quanto poterono ordinatamente i Franzesi, ma non lasciò di essere dubbiosa la lor vittoria. Se i vincitori guadagnarono bandiere e stendardi, altrettanto fecero anche i Franzesi. Per la mortalità pretesero i Franzesi che la loro ascendesse a soli otto mila tra morti e feriti; laddove, secondo la relazion contraria, si vollero estinti de' Franzesi sette [232] mila con cinquecento uffiziali e dieci mila feriti, fra' quali lo stesso maresciallo di Villars gravemente colpito da palla di fucile nel ginocchio. All'incontro fu confessato che almeno sei mila fossero gli uccisi dell'esercito alleato, e quattordici mila i feriti. Di gente rimasta prigioniera altro non fu detto se non che la sterminata copia de' Franzesi lasciati feriti sul campo fu permesso che fosse ritirata al campo loro, e contata per prigioniera di guerra. Intervenne a quel terribil conflitto Giacomo III Stuardo re Cattolico d'Inghilterra, che diede gran pruove di intrepidezza, e ne riportò anche alcune lievi ferite. Ciò che servì a maggiormente contestare per vincitori i collegati, fu l'aver eglino immediatamente stretta di assedio la fortissima città di Mons, con obbligare quel presidio nel dì 20 di ottobre ad uscirne con tutti gli onori militari.

Poche imprese si fecero nel presente anno in Italia. Era disgustato Vittorio Amedeo duca di Savoia della corte di Vienna, perchè gli contrastava il Vigevanasco e alcuni feudi confinanti col Genovesato, benchè a lui accordati ne' patti. Fecero gagliarde istanze gl'Inglesi ed Olandesi presso l'imperador Giuseppe in suo favore, e le fecero indarno. Perciò non volle il duca uscire in campagna. Vi uscì il maresciallo di Daun co' suoi tedeschi, e passato il Mon-Cenis, penetrò fino in Savoia, e s'impossessò di Annicy. Ma avendo il duca di Bervich ben muniti i passaggi, ed accostandosi le nevi, il conte di Daun giudicò meglio di tornarsene a cercar buoni quartieri in Italia. Lentamente ancora procederono al Reno gli affari della guerra. In Ispagna riuscì al maresciallo conte di Staremberg di sottomettere la città di Belaguer, ma senza far altro progresso. Perchè regnava la discordia fra i comandanti franzesi e spagnuoli, il re Filippo V si portò in persona all'armata; e dopo aver composte le differenze, tentò di venire a battaglia col nemico esercito; ma lo Staremberg, [233] uno de' più cauti generali del suo tempo, non sentendosi voglia di azzardare tutto in una giornata, non volle dar questo piacere alla maestà sua. Nei confini del Portogallo ebbero maggior fortuna gli Spagnuoli, perchè il marchese di Bay diede una rotta ai Portoghesi, con prendere varii loro cannoni ed insegne, ed impadronirsi di alcune castella.


   
Anno di Cristo MDCCX. Indizione III.
Clemente XI papa 11.
Giuseppe imperadore 6.

Ebbe in quest'anno il pontefice Clemente XI varii insulti alla sua sanità, che fecero dubitar non poco di qualche pericolo di sua vita; ma appena egli si rimise in migliore stato, che, siccome principe di grande attività, tornò ad ingolfarsi nell'uno e nell'altro governo, ben per lui scabroso ne' correnti tempi, sì per cagion de' riti cinesi, e della persecuzione mossa contro il cardinale di Tournon, detenuto come prigione in Macao, come ancora per la nimicizia dichiarata dal re Cattolico Filippo V alla corte di Roma a cagion della ricognizione del re Carlo III. Contuttociò qualche calma si godeva non meno in Roma che nel resto d'Italia, a riserva delle contribuzioni intimate da' Tedeschi, e di chi sofferì i loro quartieri. Fu anche travagliato da varii malori di sanità con tutta la sua famiglia Vittorio Amedeo duca di Savoia, che gl'impedirono l'uscire in campagna, oltre all'averne egli poca voglia per le già dette controversie colla corte di Vienna, ostinata in non voler dare esecuzione al pattuito. Pertanto più tosto apparenza di guerra, che guerra guerreggiata fu nel Piemonte. S'incamminò bensì il maresciallo conte di Daun a mezzo luglio verso la valle di Barcellonetta col forte dell'armata collegata, mostrando di aver delle mire contra di Ambrun e Guilestre; ma avendo trovato ai confini il duca di Bervich assistito da un potente esercito, e apprendendo l'avvicinamento delle [234] nevi a quelle montagne, si ritirò presto alle pianure del Piemonte: il che diede un gran comodo ai Franzesi di spignere buona parte delle lor soldatesche ai danni del re Carlo III in Catalogna, e di riportar due vittorie, siccome diremo. Era già stato con sentenza del consiglio aulico in Vienna dichiarato ribello e decaduto da' suoi Stati Francesco Pico duca della Mirandola; ed avendo l'imperador Giuseppe somma necessità di danaro per l'urgente bisogno delle sue armate, mise in vendita il ducato della Mirandola e marchesato della Concordia, dappoichè non potè esso duca pagar la tassa a lui prescritta per ricuperar quello Stato. Molti furono i concorrenti a questo incanto o mercato. Rinaldo d'Este duca di Modena, per timore che gli venisse ai fianchi con quell'acquisto qualche troppo potente persona, si affacciò anch'egli, e fu preferito agli altri. Più di ducento mila doble costò a lui quel paese, di cui poscia, col consenso degli elettori, fu investito nell'anno seguente da sua maestà cesarea. Ma nel dì 28 di settembre grande afflizione provò esso duca di Modena per la morte della duchessa Carlotta Felicita di Brunsvich sua consorte, e sorella della regnante imperadrice Amalia.

Avea nel precedente anno il re Cristianissimo Luigi XIV, per far credere alle potenze collegate di voler egli abbandonare gl'interessi del re Filippo V suo nipote, richiamate di Spagna le sue milizie. Non atterrito per questo quel generoso monarca, tali misure d'economia e tali ripieghi prese, che formò un poderoso esercito di nazionali e Valloni, alla testa di cui sul principio di maggio uscì egli stesso in campagna, ardendo di voglia di far giornata coll'oste dell'emulo re Carlo III. S'era postato nelle vicinanze di Belaguer l'avveduto maresciallo di Staremberg, finchè gli arrivassero i soccorsi aspettati dall'Italia. Arrivati questi, anche il re Carlo passò all'armata, e marciò contra gli Spagnuoli. Presso ad Almenaro, nel dì 27 di luglio, seguì un caldo [235] fatto d'armi, in cui fu astretto il re Filippo a battere la ritirata con perdita di varii stendardi e bandiere e di molto bagaglio. Peggio gli sarebbe avvenuto, se la notte sopraggiunta non metteva freno ai vincitori. Dopo l'acquisto di Bolbastro, Huesca ed altri luoghi dell'Aragona, s'inviò il re Carlo col suo esercito alla volta di Saragozza capitale di quel regno. Nel dì 20 di agosto si trovarono di nuovo a fronte le nemiche armate in vicinanza di quella città, e si venne alla seconda battaglia, in cui rimasero totalmente disfatti gli Spagnuoli con perdere quasi tutta l'artiglieria, quindici stendardi e più di cinquanta bandiere. La fama portò che due mila fra gli estinti e feriti fossero quei della parte austriaca vincitrice, e cinque mila i morti e tre mila i rimasti prigioni dall'altra parte. Se non furono tanti, certo è almeno che si trovò sommamente estenuata l'armata del re Filippo, e che dopo sì felice avvenimento il re Carlo trionfante entrò in Saragozza fra gl'incessanti plausi di quel popolo. Se egli avesse dipoi seguitato il saggio parere dello Staremberg, il quale insisteva che si avesse ad inseguire il fuggitivo re Filippo ritirato a Vagliadolid, forse gran piega prendevano le sue speranze alla corona di Spagna. Ma prevalse il sentimento dell'umore gagliardo dell'Inglese Stenop, che si avesse a marciare a Madrid. Occupata la reggia, più facilmente cadrebbe il resto.

In quella real città si lasciò vedere il re Carlo, ma ricevuto senza gran segnale di amore in quel popolo, e non venne dal cuore quel poco giubilo che se ne mostrò. Diede egli con ciò assai tempo al re Filippo di rinforzarsi di gente, e di provveder la sua armata di un generale di primo grido, cioè del duca di Vandomo, che comparve dopo la metà di settembre a Vagliadolid col duca di Noaglies. Intanto nello sterile territorio di Madrid mancarono le provvisioni per l'armata del re Carlo, e nella città alzarono forte la testa i partigiani del re Filippo. Vennero [236] spediti potenti rinforzi di gente al nipote dal re Cristianissimo, e all'incontro mai non vennero i Portoghesi ad unirsi col re Carlo, il quale perciò, all'accostarsi del verno, determinò di ritirarsi verso la Catalogna. Con sì mal ordine seguì la ritirata, che il re Filippo, già rientrato in Madrid, si mosse per assalire gl'Inglesi, che marciavano molto separati dagli Alemanni, e li raggiunse al grosso borgo di Briguela o sia Brihuega. Dato l'assalto a quelle miserabili mura, e mancate le munizioni agl'Inglesi, furono essi costretti a rendersi prigionieri in numero di più di tre mila collo stesso orgoglioso Stenop. Al romore del pericolo degl'Inglesi con isforzate marcie era accorso il maresciallo di Staremberg, e benchè non consapevole della lor disavventura, pure coraggiosamente arrivato a Villa Viziosa nel dì 20 di dicembre volle attaccar battaglia coll'esercito gallispano. Il valore dell'una e dell'altra parte fu incredibile, e la notte sola diede fine al macello, con restare gli Austriaci padroni del campo e di molte insegne, ma colla perdita di circa tre mila morti nel conflitto. Maggior fu creduto il numero degli uccisi dall'altra parte. Nulladimeno diversamente contarono i Gallispani questa sanguinosa battaglia, con attribuirsene la vittoria, e fu cantato perciò il Te Deum a Parigi. Ed è la verità che anche gli Spagnuoli presero molte bandiere, e fecero bottino di molto bagaglio; e che lo Staremberg, trovando sì infievolito il suo picciol corpo di gente, e mancante affatto di vettovaglia, fu obbligato a ritirarsi frettolosamente verso l'Aragona, e a lasciar indietro tutto il cannone: il che servì non poco a giustificare la relazione contraria. E perciocchè un'armata di venti mila Franzesi venuta dal Rossiglione avea impreso l'assedio di Girona in Catalogna, lo Staremberg abbandonò Saragozza e quanto aveva acquistato nell'Aragonese, e si ritirò a Barcellona a scrivere compassionevoli lettere a tutti i collegati per ottenere soccorsi. Ed ecco quante varie scene [237] e vicende vide in quest'anno la Spagna fra le sanguinose dispute dei due competitori monarchi.

Aspirava pure il re Cristianissimo alla pace, e non lasciò di stuzzicar di nuovo gli Olandesi per mezzo del Pettecun, residente del duca di Holstein all'Haia, adoperato anche nell'anno precedente per mezzano in così scabroso affare, affinchè dessero orecchio alle proposizioni, per mettere una volta fine al sangue di tanta gente, e alla desolazione de' regni. Tuttochè sentissero tuttavia gli alleati il bruciore di essere stati burlati nell'anno addietro dal gabinetto di Francia, pure s'indussero ad entrar di nuovo in un congresso, con destinare a tal fine la città di Gertrudemberga. Gran contrasto fu ivi; saldo il re Cristianissimo in non voler prendere le armi contro il re nipote; discordi gli alleati nelle lor pretensioni, perchè gli Anglolandi consentivano a rilasciare al re Filippo V una porzione della monarchia spagnuola; laddove il conte di Zizendorf plenipotenziario cesareo negava qualsivoglia smembramento della medesima. Per più mesi durò la battaglia di quelle teste politiche, e in fine tutto andò in fascio, senza potersi in guisa alcuna ottenere nè dagli uni nè dagli altri il loro intento. Giovò nondimeno alla Francia quest'altro tentativo per seminar gelosie e discordie fra le potenze nemiche: del che seppe ben ella profittare nel tempo avvenire. Imputò intanto ciascuna delle parti all'altra la colpa di lasciar continuare la guerra; e questa in fatti anche nel presente anno fu ben calda in Fiandra, dove alla primavera fu posto l'assedio dal duca di Marlboroug alla città di Douai. La difesa di quella piazza fatta dal tenente generale conte Albergotti fiorentino, accrebbe al sommo la gloria del suo nome. Indarno tentò il maresciallo di Villars di soccorrerla, e però colla più onorevol capitolazione nel dì 26 di giugno quella città col forte della Scarpa fu ceduta all'armi dei collegati. Passarono poi questi col campo sotto Bettunes, piazza assai provveduta [238] di fortificazioni regolari, con trovarvisi alla difesa il celebre luogotenente generale Vauban, che la sostenne sino al dì 29 di agosto, in cui ne seguì la resa. Quindi si presentò l'oste nemica sotto San Venanzio ed Aire. La prima di queste piazze fece resistenza solamente dodici giorni; ma l'altra per cinquantotto dì faticò gli assedianti con grave lor perdita, e in fine il dì 9 di novembre si lasciò vincere. Nè si dee tacere che in quest'anno succederono notabili mutazioni di ministri nella corte d'Inghilterra, e gran bollore di animi si trovò in Londra fra i due contrarii partiti dei Toris e de' Vigt. In favore de' primi pubblicamente predicò un dottore Sacheverel, che maggiormente accese il fuoco, gran partigiano dell'appellata Chiesa anglicana. Queste novità molto poscia influirono a condurre la regina Anna nei voleri della Francia, siccome vedremo. Essendo mancato di vita sul fine di settembre il cardinale Vincenzo Grimani Veneto, vicerè di Napoli, si trovò nelle cedole dell'Interim nominato a quella illustre carica il conte Carlo Borromeo Milanese, che verso la metà del seguente mese comparve in quella metropoli, e fu appresso confermato dal re Carlo III nel possesso di sì nobile impiego.


   
Anno di Cristo MDCCXI. Indizione IV.
Clemente XI papa 12.
Carlo VI imperadore 1.

Fece la morte in quest'anno moltiplicar le gramaglie nell'Europa, perchè nel dì 3 di febbraio rapì dal mondo Francesco Maria de Medici, fratello del gran duca Cosimo, e principe da noi veduto cardinale nei precedenti anni, che non lasciò alcun frutto del suo matrimonio colla principessa Leonora Gonzaga di Guastalla. Poscia nel dì 14 d'aprile mancò di vita pel vaiuolo Luigi Delfino di Francia, unico figlio del re Luigi XIV, principe degno di più lunga vita: con che il duca di Borgogna suo primogenito assunse il titolo di Delfino. Ma ciò che più mise in [239] agitazione i pensieri di tutti i politici interessati e non interessati nel teatro delle correnti guerre, fu l'immatura morte di Giuseppe imperadore, accaduta nel dì 17 del mese suddetto d'aprile. Questo monarca, che in vivacità di spirito, in affabilità e in altre belle doti superò moltissimi dei suoi gloriosi antenati, non avea ben saputo reggere il suo fuoco, portato ai piaceri; e contuttochè l'impareggiabile augusta sua consorte Amalia Guglielmina di Brunsvich si studiasse, per quanto potè, di tenerlo in freno, non reggeva questo freno all'empito delle sue voglie. Mancò veramente anch'egli di vaiuolo, ma fu creduto che gli strapazzi della sua sanità aiutassero di molto quel male a levarlo di vita. Niun discendente maschio lasciò egli dopo di sè, ma solamente due arciduchesse, cioè Maria Gioseffa e Maria Amalia, che poi passarono a fecondar le elettorali case di Baviera e Sassonia. Questo inaspettato colpo delle umane vicende non si può dire quanto sconcertasse le misure delle potenze collegate contro la real casa di Borbone; perchè si pensò ben tosto, e si fecero tutti gli opportuni negoziati per far cadere la corona imperiale in testa del re Carlo III suo fratello; ma tosto ancora si conobbe che questo passo verrebbe ad assodar quella di Spagna sul capo del re Filippo V. Nè pure agli stessi collegati, non che alla Francia, compliva il vedere uniti in una sola persona l'imperio e i regni di Spagna e della casa di Austria. Però si cominciarono nuove tele, persistendo nondimeno tutti nella determinazione di continuar più vigorosamente che mai le ostilità contra dei Franzesi.

Prese dopo la morte dell'augusto figlio l'imperadrice Leonora Maddalena le redini del governo, e con replicate lettere si diede a tempestare il re Carlo III, acciocchè, lasciata la troppo pericolosa, anzi disperata, impresa della Spagna, venisse alla difesa e al godimento de' suoi Stati. Trovossi allora il buon principe in un ben affannoso labirinto; perchè dall'una parte il bisogno dei proprii Stati e la premura [240] di salire sul trono imperiale non gli permettevano di fermarsi in Ispagna, e dall'altra non sapeva indursi ad abbandonare i miseri Barcellonesi e Catalani alla discrezione dell'irato Filippo V. Avea anche sulle spalle un'esorbitante copia di nobiltà spagnuola e di famiglie rifugiate sotto l'ombra sua per isfuggire i castighi della pretesa ribellione; e tutti dimandavano pane. Fu preso il ripiego di lasciar la regina sua sposa in Barcellona per pegno del suo amore, e per sicurezza degli sforzi ch'era per fare nella lor difesa. Scelta pertanto una parte dei rifugiati Spagnuoli che seco venissero, nel settembre s'imbarcò, e felicemente sbarcò alle spiagge di Genova, e senza perdere tempo s'inviò alla volta di Milano. Alla Cava nel dì 13 d'ottobre fu complimentato da Vittorio Amedeo duca di Savoia, e un miglio lungi da Pavia da Rinaldo duca di Modena. Arrivata che fu la maestà sua a Milano, poco stette a ricevere la lieta nuova che nel dì 12 del predetto mese, di comune consenso degli elettori, era stato proclamato imperador de' Romani. Le universali allegrezze dei popoli d'Italia solennizzarono sì applaudita elezione; il pontefice destinò il cardinale Imperiale con titolo di legato a latere a riconoscere in lui non meno la dignità imperiale che il titolo di re Cattolico. Comparvero ancora a questo fine a Milano pompose ambasciate delle repubbliche di Venezia, Genova e Lucca. Saputosi poi in Madrid come si fossero contenuti in tal occasione i principi d'Italia, il re Filippo ordinò che i loro pubblici rappresentanti sloggiassero da' suoi regni. Fermossi in Milano l'augusto sovrano sino al dì 30 di novembre, in cui si mosse alla volta dell'Alemagna. Nel dì 12 fu di nuovo ad inchinarlo il duca di Modena in San Marino di Bozzolo. Mantova qualche giorno godè della graziosa presenza di questo monarca; e ai confini dello Stato veneto gli fecero un soprammodo magnifico accoglimento gli ambasciatori di quell'inclita repubblica; [241] dopo di che inviatosi egli a dirittura per la via di Trento e del Tirolo, nel dì 20 giunse ad Inspruch, dove prese riposo. Fattosi intanto in Francoforte il suntuoso preparamento per la sua coronazione, questa dipoi si effettuò nel dì 22 di dicembre con solennissima festa. Portò egli al trono imperiale un complesso di sode e rare virtù, quale non sì facilmente si trova in altri regnanti, e cominciò da lì innanzi ad essere chiamato Carlo VI Augusto.

Nulla di notabile operarono in questo anno gli alleati in Piemonte, e da alcuni ne fu attribuita la cagione al trovarsi tuttavia mal soddisfatto Vittorio Amedeo duca di Savoia della corte di Vienna, che con varie scuse gli negava il possesso tante volte promesso del Vigevanasco. Contuttociò quel sovrano col maresciallo Daun sul principio di luglio con potente esercito si mosse e valicò i monti, e passate le valli di Morienna e Tarantasia, calò nella Savoia, impadronendosi della città di Annicy, Chiambery, ed altre di quella contrada. S'aspettava il duca di Bervich che questo torrente s'incamminasse verso il Lionese; e però, dopo aver muniti i passi, fermò il suo campo sotto il forte di Barreaux. Intenzione del conte di Daun era di assalire i Franzesi in quel sito; ma insorta dissensione di pareri, finì tutta la campagna in sole minaccie contra dei Franzesi. E perchè l'armata non avrebbe potuto sussistere pel verno nella Savoia, divisa allora dall'Italia per cagion delle nevi, abbandonati di nuovo que' paesi, se ne tornarono tutti a cercare stanza migliore in Lombardia. Qualora i Tedeschi avessero tenuto più contento il sovrano di Savoia, forse in altra guisa sarebbero camminate le faccende in quelle parti. Erano di molto prosperate in Ispagna l'armi del re Filippo V col riacquisto della Castiglia e dell'Aragona, e coll'avere ristretti gli alleati nell'angusto paese della Catalogna. Ebbe egli ancora il contento nel gennaio di quest'anno di veder superata Girona dal duca di Noaglies, [242] che con venti mila Franzesi ne avea formato l'assedio. Ma niun'altra impresa degna di osservazione si fece in quelle parti, se non che il duca di Vandomo nel mese di dicembre spedì il conte di Muret con grosso corpo di gente sotto Cardona. S'impossessò questo generale del Borgo, e ritiratasi la guernigion nel castello, cominciarono le artiglierie a tormentarlo. Vi fu spedito dallo Staremberg un buon soccorso di gente, che rovesciò le trincee dei nemici, ed entrati colà cinquecento uomini, fecero prendere al Muret la risoluzione di ritirarsi. Nè pure in Fiandra alcuno strepitoso fatto avvenne, altro non essendo riuscito ai collegati che di sottomettere la forte città di Bauchain, giacchè il maresciallo di Villars non lasciava ai nemici adito per azzuffarsi seco: cotanto sapea egli l'arte dei buoni accampamenti, per non venire a battaglia se non quando vi trovava i suoi conti.

Parea dunque che si cominciasse a raffreddare il bollore di questa guerra, nè se ne intendeva allora il perchè; ma a poco a poco si venne poi svelando il mistero. Convien confessarlo: sanno egregiamente i Franzesi combattere con armi di ferro, ma egualmente ancora valersi di armi d'oro per espugnare chi alla lor potenza resiste. Già dicemmo accaduta in Londra non lieve mutazione nel ministero, ed essere toccata la superiorità al partito dei Toris. La regina Anna, che fin qui tanto ardore avea mostrato contro la real casa di Borbone, cominciò, per quanto fu creduto, a sentire rialzarsi in suo cuore la non mai estinta affezione al proprio sangue stuardo, siccome figlia del fu cattolico re Giacomo II. Mossa da compassione verso l'abbattuto vivente suo fratello Giacomo III, re solamente di nome della Gran Bretagna, concepì dei segreti desiderii ch'egli divenisse tale di fatto, e fosse anteposto all'elettoral casa di Brunswich, a cui già per gli atti pubblici del parlamento era stato assicurata la successione del regno, qualora mancasse la regina medesima. All'avveduta corte del re Cristianissimo [243] trasparì qualche barlume del presente sistema di quella di Londra; e il maresciallo di Tallard, detenuto prigioniere nella città di Notingam, fu creduto che suggerisse buoni lumi per giugnere a guadagnare il cuore d'essa regina. Segretamente dunque il re Luigi XIV ebbe maniera di far introdurre per mezzo del milord Halei, che poi divenne conte d'Oxford, e di qualche altra persona favorita dalla regina, parole di pace fiancheggiate da rilevanti vantaggi in favore della nazione inglese. Se riusciva al gabinetto franzese di staccare quella potenza dalla grande alleanza, ben si conosceva terminata la memorabil tragedia della guerra presente. Gustò la regina il dolce di quelle proposizioni, e cominciarono ad andare innanzi e indietro segrete lettere e risposte per ismaltire le difficoltà, e stabilire i principali articoli dell'accomodamento. Di queste mene si avvidero bensì gli Olandesi e la corte di Vienna, e si studiarono di fermarle; ma senza profitto alcuno. Troppa impressione aveano fatto nella regina Anna le offerte della Francia, cioè la cessione di Gibilterra e di Porto Maone all'Inghilterra (punto di gran rilievo pel commercio di quella nazione), l'Assiento, cioè la vendita de' Mori per servigio dell'America Spagnuola, che si accorderebbe per molti anni agl'Inglesi; la demolizione di Dunquerque: una buona barriera di piazze per sicurezza degli Olandesi; all'imperador Carlo VI la Fiandra, lo Stato di Milano, Napoli e Sardegna. Già divenuto come impossibile il cavar dalle mani del re Filippo V la Spagna, restava questa monarchia divisa dalla franzese: a che dunque consumar più tanto oro e sangue, se nulla di più si potea ottener colla guerra di quel che ora si veniva a conseguir colla pace? Passò per questo in Inghilterra nel gennaio seguente il principe Eugenio, nè altro gli venne fatto che d'indurre la regina a procedere senza fretta e con gran cautela in sì importante affare. Intanto gli Olandesi si videro astretti a consentire [244] ad un luogo per dar principio ai congressi, e fu scelta per questo la città d'Utrecht, dove nel gennaio seguente avessero da concorrere i plenipotenziarii delle parti interessate. E tali furono i primi gagliardi passi per restituire la tranquillità all'afflitta Europa.


   
Anno di Cristo MDCCXII. Indizione V.
Clemente XI papa 13.
Carlo VI imperadore 2.

Fin dall'anno precedente era penetrata dall'Ungheria in Italia la mortalità de' buoi, flagello di cui non v'ha persona che non intenda le funestissime conseguenze in danno del genere umano. Ma nel presente così ampiamente si dilatò pel Veronese, Bresciano, Mantovano e Stato di Milano, che fece un orrido scempio di sì utile, anzi necessario, genere di animali. Anche il regno di Napoli e lo Stato della Chiesa soffrì immensi danni per questa micidiale epidemia. Correndo il mese di settembre, fu detto che in esso regno fossero periti settanta mila capi di buoi e vacche, e nel solo Cremonese più di quattordici mila; e il male progrediva a gran passi nelle vicinanze. Nel presente anno venne a visitar l'Italia Federigo Augusto, principe reale di Polonia ed elettorale di Sassonia, e ricevette in Modena ogni maggior dimostrazione di stima dal duca Rinaldo. Di là passò a Bologna, dove, abiurato il luteranismo, abbracciò la religione cattolica, che servì poscia a lui di gradino per salire, dopo la morte del padre, sul trono della Polonia, in cui ora gloriosamente siede. Restava nelle Maremme della Toscana Porto Ercole tuttavia ubbidiente al re Filippo V. Passò nella primavera un grosso corpo di cesarei a mettere colà il campo; e dappoichè fu giunta l'occorrente artiglieria da Napoli, si cominciò a bersagliare i forti della Stella e di San Filippo. Ridotti quei presidii a rendersi a descrizione, anche il porto cadde in loro mano. Nel Piemonte gran freddo si trovò nel duca di [245] Savoia per le azioni militari, essendo più che mai malcontento quel sovrano della corte cesarea, che, non ostante l'interposizion premurosa delle potenze marittime, sempre andò fuggendo l'adempimento delle promesse fatte di cedergli il Vigevanasco, o di dargli il compenso in altre terre. Oltre a ciò, nacquero in lui politici riguardi, da che vide sul tappeto trattati di pace; e non gli era ignoto che in tutte le maniere la corte d'Inghilterra la voleva. Anzi si crede che in questi tempi il conte di Oxford, tutto intento a sbrancare alcuno de' principi dalla grande alleanza, coll'inviare a Torino il conte di Peterboroug, s'industriasse di tirar esso duca ad una pace particolare colla vistosa esibizione (per quanto fu creduto) del regno di Sicilia e restituzione di tutti i suoi Stati. Non dispiacque a quel sovrano un sì bel regalo, che seco anche portava il titolo di re; ma conoscendone egli la poca sussistenza, quando non vi concorresse il consenso di Cesare, il quale non solo da questo si sarebbe mostrato, ma ancora dalla pace si mostrava troppo alieno, ravvisò tosto la necessità di star forte nella lega, finchè si maturassero meglio le cose. Però non volle punto staccarsi da' collegati, e solamente ricusò di uscire in campagna colle sue truppe. Vi uscì co' suoi Tedeschi il maresciallo di Daun, perchè il duca di Bervich era calato da Monginevra nella valle di Oulx; ma altro non fece che difendere i posti in quella contrada.

Intanto sul fine di gennaio nella città olandese di Utrecht s'era aperto il congresso, a cui intervennero i plenipotenzarii di Francia, Inghilterra, Olanda e Savoia. Vi comparvero ancora, ma come forzati, quei dell'imperadore, siccome consapevoli che la corte di Londra venduta a Versaglies, dopo avere assicurati i proprii vantaggi, più avrebbe promossi quei della real casa di Borbone che dell'austriaca. Sulle prime se smisurate apparvero le dimande e pretensioni della Francia, più alte ancora e vaste si scoprirono [246] quelle degli alleati. Gli stessi parlamenti d'Inghilterra andavano poco d'accordo colle segrete voglie della regina, perchè non miravano assicurata la pubblica tranquillità con tutte le belle esibizioni fatte in loro pro dal re Cristianissimo. Allora il conte d'Oxford mise in campo due ripieghi; l'uno che dal re Luigi XIV fosse fatto uscire di Francia il pretendente, cioè il re Giacomo III Stuardo; e l'altro, che si provvedesse in maniera tale, che non mai in avvenire si potessero unir insieme le due monarchie di Francia e Spagna. A questo oggetto fu proposto che il re Filippo V rinunziasse ogni sua ragione sopra la Francia in favore de' principi chiamati dopo di lui, e che, mancando la di lui linea, succedesse ne' regni di Spagna la casa di Savoia, siccome chiamata ne' testamenti de' precedenti monarchi. Difficile troppo si trovò quest'ultimo punto, perchè chiaramente dichiarò il gabinetto di Francia che simili rinunzie non potevano mai togliere il diritto naturale di successione ai principi e figli chiamati, e che sarebbono nulle ed invalide: del che si hanno ben da ricordare i lettori, per quello che poi avvenne, e potrebbe molto più un giorno avvenire. Contuttociò, per soddisfare al tempo presente, si vollero sì fatte rinunzie dal re Filippo V e da' principi di Francia per le loro pretensioni sopra la Spagna, e con inorpellamenti si studiarono le unite corti di Francia e d'Inghilterra di quetare i rumori de' parlamenti, e le loro forti istanze perchè in un solo capo non si avessero mai ad unire le due corone. In ricompensa di questo grande, ma apparente, sacrifizio, al re Cristianissimo riuscì d'indurre la regina Anna ad un armistizio delle sue milizie ne' Paesi Bassi, che per un pezzo si tenne segreto. Troppo abbisognava di questo presentaneo rimedio agl'interni mali del suo regno quel per altro potentissimo e sempre intrepido monarca.

Per confessione degli stessi storici franzesi, non ne potea più la Francia: sì [247] lunga, sì pesante e dispendiosa era stata fin qui una sì universal guerra, sostenuta quasi tutta colle proprie forze. Esausto si trovava l'erario, divenuti impotenti i popoli a pagare gl'insoffribili aggravii. Tanta gente era perita in assedii, battaglie e malattie delle passate campagne, che restavano senza coltivatori le terre, e mancava la maniera di reclutar le armate. All'incontro in Fiandra non s'era fin qui veduto un sì fiorito e poderoso esercito delle nemiche potenze; piazze più non restavano che impedissero l'ingresso delle lor armi nel cuor della Francia: di maniera che quel nobilissimo regno si mirava alla vigilia d'incredibili calamità. A questa infelice situazione dei pubblici affari si aggiunsero altre lagrimevoli disavventure della real prosapia, che avrebbero potuto abbattere qualsisia animo, ma non già quello di Luigi XIV, principe sempre invitto. Nei primi mesi del presente anno infermatasi di vaiuolo o di rosolia Maria Adelaide principessa di Savoia Delfina di Francia, passò a miglior vita nel dì 12 di febbraio. Per l'assistenza prestata alla dilettissima sua consorte anche il Delfino Luigi, principe di mirabil espettazione, contrasse la stessa infermità, e nel dì 18 dello stesso mese si sbrigò da questa vita. Due principi avea prodotto il loro matrimonio; il primo di essi, già duca di Bretagna, e poco fa dichiarato Delfino aggravato dal medesimo vaiuolo, si vide soccombere alla malignità del male nel dì 8 di maggio. L'altro principe, cioè Luigi duca di Angiò, soggiacque anch'egli alla medesima influenza, accompagnata da violenta febbre; pure Dio il donò ai desiderii e alle orazioni de' suoi popoli, ed oggidì pieno di gloria siede coronato sul trono de' suoi maggiori. Trovavasi Carlo duca di Berry, terzo nipote del re Luigi, sul fiore de' suoi anni; fu anch'egli rapito dalla morte nel suddetto maggio, senza lasciar discendenza, benchè accasato con una delle figlie del duca d'Orleans. Tanta folla di sventure domestiche, le quali [248] fecero straparlare i maligni, quasichè la mano degli uomini avesse cooperato a sì grave eccidio, si rovesciò sopra quel gran re, che non avea conosciuto per tanti anni addietro se non la felicità, e gustato il piacere di conquistar provincie e di far tremare chiunque si opponeva ai suoi voleri. Sotto la mano di Dio convien poi che si accorgano di stare anche i più potenti monarchi della terra. Ma quello stesso Dio che avea ridotta in sì compassionevole stato la Francia, non ne volle permettere il già vicino suo precipizio. Per essersi vinto il cuore della regina inglese, da ciò venne la salute di tanti popoli, e si disposero le cose a dovere per la pace universale.

Venne il mese di giugno. Essendo stato già richiamato in Inghilterra il celebre capitano duca di Marlboroug (tanto poterono le batterie del conte d'Oxford), fu sostituito al comando dell'armi inglesi in Fiandra il duca d'Ormond, ma con ordini segreti di nulla operar contro i Franzesi, anzi d'intendersela con loro. Ben se ne avvedevano i collegati: ciò non ostante, il principe Eugenio nel mese suddetto animosamente mise l'assedio a Quesnoi, piazza forte, e nel dì 4 di luglio obbligò alla resa quella guernigione, consistente fra sani e malati quasi in tremila persone. Ottenne intanto la regina Anna di ricevere dai Franzesi in ostaggio Dunquerque, e di mettervi suo presidio, per demolirne poi le fortificazioni. Avuto questo pegno in mano, allora ordinò al duca d'Ormond di pubblicar l'armistizio delle truppe inglesi colla Francia: il che fu eseguito con rabbia inestimabile e querele senza fine de' collegati; e tanto più perchè l'Ormond andò a mettersi in possesso di Gante e di Bruges. Restava tuttavia al principe Eugenio un possente esercito, capace di far qualche bella impresa, e già la meditava egli, nulla atterrito dall'abbandonamento degl'Inglesi. Mise pertanto l'assedio a Landrecy; ma il valente maresciallo di Villars, le cui forze erano cresciute collo scemar delle [249] altre, improvvisamente, nel dì 25 di luglio, si spinse addosso al conte d'Arbemale, che staccato dal principe Eugenio con un picciolo esercito custodiva le linee di Dexain. Alla piena di tante armi non potè resistere quel generale, andò in rotta tutta la sua gente; più furono gli estinti nel fiume Schelda, per essersi rotto il ponte, che i trucidati dal ferro. Dopo questa vittoria parve un fulmine il Villars; ricuperò Saint Amand, Mortagna, Marchiones ed altri luoghi, dove trovò ricchissimi magazzini d'artiglieria, munizioni da guerra e viveri. Ritiratosi dall'assedio di Landrecy il principe Eugenio, col cui valore solamente in quest'anno la fortuna non andò d'accordo, il Villars passò all'assedio della vigorosa città di Douai e del forte della Scarpa. Nel termine di venticinque giorni s'impadronì dell'una e dell'altro; e contuttochè, per le pioggie dirotte che sopravvennero, finite si credessero le sue imprese; pure al dispetto della stagione egli continuò le conquiste col ridurre all'ubbidienza del re Cristianissimo Quesnoi e Bouchain. Dopo di che carico di palme se ne tornò a Parigi. Per tali fatti quanto si rialzò il credito dell'armi franzesi, altrettanto si infievolì quello de' collegati.

Stesesi anche nella Spagna l'armistizio degl'Inglesi, e però il maresciallo di Staremberg rimasto snervato di forze, non potè tentare impresa alcuna di considerazione; e tantomeno dappoichè un grosso corpo di gente, finita la campagna in Piemonte, s'inviò a quella volta pel Rossiglione, dal maresciallo di Bervich, che non fu pigro a soccorrere Girona, assediata già dai cesarei, introducendovi soccorsi di gente e di munizioni. Si trovò lo Staremberg con sì poche forze, perchè abbandonato dagl'Inglesi e Portoghesi, che non potè impedire gli avanzamenti de' Franzesi sino ai contorni di Barcellona: il che l'obbligò sempre a ritirarsi ne' luoghi forti, per aspettare miglior costellazione alle cose sue. Intanto gravissimi erano i dibattimenti nelle conferenze d'Utrecht per le tante pretensioni dei principi interessati [250] in questa gran guerra. Tutti chiedevano o restituzioni o aumento di Stati. Per brighe succedute fra i lacchè dei plenipotenzarii di Francia e di Olanda insorsero gravi puntigli che accrebbero le dissensioni e gli sdegni, ed interruppero i congressi. Pure col vento in poppa continuava la navigazion dei Franzesi, perchè tutto per loro era il conte d'Oxford con gli altri ministri da lui dipendenti. Ma ricalcitravano gli Olandesi, e più senza paragone la corte di Vienna a quanto veniva proposto per giugnere alla pace. Tuttavia i primi, allo scorgere l'Inghilterra assai disposta a stabilire una pace particolare colla Francia, cominciarono a parlar più dolce, con ridursi in fine, siccome vedremo, ad entrar nelle misure prese dalla corte di Londra.


   
Anno di Cristo MDCCXIII. Indizione VI.
Clemente XI papa 14.
Carlo VI imperadore 3.

Anno felice fu il presente per la pace che cominciò a spiegare le ali per molte parti dell'Europa; e se tutta non la pacificò di presente, dispose almen le cose a veder, dopo qualche tempo, restituita dappertutto la pubblica tranquillità. Dopo il dibattimento di tante contrarie pretensioni ed opposizioni, finalmente venne fatto alla corte di Francia di stabilir la pace coll'Inghilterra, Olanda, re di Prussia e duca di Savoia. Nel dì 14 di marzo aveano già i plenipotenziarii inglesi indotte le potenze collegate a convenire nell'armistizio d'Italia, e nell'evacuazione della Catalogna dell'armi alleate. Fu anche, nel dì 26 d'esso mese, accordato dal re Filippo V agl'Inglesi il desiderato privilegio dell'Assiento, e fatta solenne rinunzia dei diritti spettanti ad esso monarca sulla Francia, colla ratificazione di tutti gli Stati de' suoi regni. Dopo questi preliminari nel dì 11 di aprile in Utrecht furono sottoscritti i capitoli della pace fra le corone di Francia e d'Inghilterra; fu riconosciuta la regina Anna per dominante [251] della Gran Bretagna; convalidata la succession della linea protestante in quel regno; accordata la demolizion delle fortificazioni di Dunquerque, ceduta agl'Inglesi l'isola di Terra Nuova nella novella Francia, con altri luoghi dell'Acadia nell'America Settentrionale. Altre capitolazioni furono fatte col re di Portogallo, col re di Prussia, e colle Provincie Unite dell'Olanda; ed altre in fine con Vittorio Amedeo duca di Savoia. Contenevasi in questa, che la Francia restituiva ad esso sovrano tutta la Savoia, le valli di Pragelas, e i forti di Exiles e delle Fenestrelle con altre valli, e castello Delfino, e il contado di Nizza, con altri regolamenti per li confini alle sommità delle Alpi. E perciocchè alla corte d'Inghilterra premeva forte che qualche maggiore ricompensa si desse a questo principe, che avea messo a repentaglio tutti i suoi Stati per sostenere la causa comune; tanto si adoperò, che il re Cattolico Filippo s'indusse a cedergli il regno di Sicilia, e di tal cessione si fece garante anche il re Cristianissimo. Fu anche stipulato, che venendo a mancare la linea del re Filippo, la real casa di Savoia succederebbe nei regni di Spagna; e furono approvati gli acquisti fatti da esso duca nel Monferrato e Stato di Milano. Nel dì poscia 10 di giugno solennemente approvò esso re Cattolico in Madrid la cessione del suddetto regno di Sicilia in favore delle linea della casa di Savoia, conservando solamente il diritto della riversione di quel regno alla corona di Spagna, in caso che mancassero tutte le linee suddette. Finalmente, nel dì 13 di agosto, in Utrecht fu sottoscritta la pace fra sua maestà Cattolica e il prefato duca di Savoia, con ratificar la cessione della Sicilia, e la successione della casa di Savoia nei regni di Spagna, caso mai che mancasse la discendenza del re Filippo V.

In vigore dunque di tali atti il duca Vittorio Amedeo nel dì 22 di settembre venne solennemente riconosciuto in Torino per re di Sicilia con varie feste ed [252] allegrie di quella corte e città; e il principe di Piemonte Carlo Emmanuele prese il titolo di duca di Savoia. Fu allora messo in disputa dai politici, se di gran vantaggio riuscirebbe alla real casa di Savoia un sì nobile acquisto. E non v'ha dubbio che di sommo onore a quel sovrano fu l'avere aggiunto ai suoi titoli il glorioso di re, non immaginario, come quello di Cipri, ma sostanziale col dominio d'una isola felicissima per varii conti, e la maggiore del Mediterraneo, per cui si apriva il campo ad un rilevante commercio marittimo. Contuttociò ad altri parve che se ne veniva un grande onore, non corrispondesse la potenza e l'autorità, per essere troppo staccato quel regno dagli Stati del Piemonte, per l'obbligo di tenervi continuamente gran guernigione sul timore dei vicini Tedeschi padroni del regno di Napoli; giacchè non era un mistero che l'Augusto Carlo VI s'ebbe sommamente a male che fosse a lui tolta la Sicilia per darla ad altri. Io qui tralascio altre loro riflessioni, per dire che i principi ben provveduti di saviezza cesserebbero di essere tali, se, per apprensione delle possibili eventualità, rimanessero di accettar quei dominii che presenta loro la fortuna. Possono anche dopo un acquisto succedere più favorevoli emergenti; e quando anche avvenissero in contrario, ciò che fu fatto sulle prime con prudente riflesso, non può mai divenire taccia d'imprudenza. Ora il nuovo re di Sicilia pensò tosto a portarsi in persona a prendere il possesso di quel regno. Fatti suntuosi preparamenti, passò egli, sul fine di settembre, colla regina moglie, con tutta la sua corte e con molte truppe a Nizza, e quivi sulla squadra dell'ammiraglio inglese Jennings imbarcatosi, nel dì 3 di ottobre indirizzò le vele alla volta di Palermo. Giunto a quel porto, nel dì 10 ricevette dal marchese de los Balbases la consegna delle fortezze, e nel dì seguente fra i giulivi suoni delle campane e gli strepiti delle artiglierie, e fra gli archi trionfali si portò alla cattedrale, dove fu [253] cantato solenne Te Deum. Grandi spese fece per tal viaggio il re Vittorio Amedeo, e tuttochè ricevesse un riguardevol dono gratuito dai Siciliani, pure l'utile non uguagliò il danno; e la sua camera e il Piemonte si risentirono per qualche tempo della felicità del loro sovrano. Seguì poi in Palermo nel dì 21 di dicembre la solenne inaugurazione del re e della regina. Tre giorni dopo si fece la lor coronazione dall'arcivescovo di Palermo, assistito da alcuni vescovi.

Alle paci fin qui accennate desiderava ognuno che si accomodasse anche l'imperador Carlo VI; ma s'era troppo inasprita la corte di Vienna al vedere come abbandonata sè stessa a' collegati, e camminar con vento sì prospero i negoziati della Francia e Spagna; tolta ad esso Augusto la Sicilia; e trovarsi egli forzato ad abbandonare la Catalogna, senza poter ottenere remissione alcuna per quegl'infelici popoli, che rimasero poi sacrificati all'ira del re Cattolico Filippo V. Perciò l'Augusto Carlo, senza considerare ad accordo alcuno colle due nemiche corone, restò solo in ballo, e si diede a studiar i mezzi per non lasciarsi soperchiare dalla potenza e fortuna dei Franzesi, sperando pure di ricavar qualche vantaggio per li Catalani suddetti. Giacchè s'era convenuto ch'egli ritirasse l'armi sue dalla Catalogna, la prima sua cura fu di mettere in salvo l'imperadrice sua consorte, lasciata in Barcellona per ostaggio della sua fede ai Catalani. L'ammiraglio inglese Jennings colla sua squadra di navi andò per condurla in Italia. Giornata di troppo gravi cordogli e di aspri lamenti fu quella in cui l'augusta principessa prese congedo da quel povero popolo. Di grandi speranze, di belle promesse spese ella in tale occasione per calmare l'affanno e lo sdegno dei cittadini facendo specialmente valere il restar ivi il maresciallo di Staremberg colle sue truppe, ch'erano ben poche, e doveano anche fra poco imbarcarsi per venire in Italia. Nel dì 20 di marzo sciolse [254] le vele da Barcellona la flotta inglese, e nel dì 2 d'aprile sbarcò l'imperadrice a Genova, dove con superbi regali e sommo onore fu accolta da quella repubblica. Entrò poscia in Milano nel dì 10 d'esso mese, e quivi, dopo aver preso riposo fino al dì 8 del seguente maggio, ripigliò il viaggio alla volta di Mantova, dove si fermò per tre giorni, e comparve a complimentarla Rinaldo d'Este duca di Modena. Inviossi dipoi verso Lamagna, ricevuta dai Veneziani, e dappertutto dove passò, con insigne magnificenza. Nel dì 22 di giugno il maresciallo di Staremberg stabilì una capitolazione coi commissarii del re Cattolico, per evacuar la Catalogna; e poi ritirate le sue truppe da Barcellona cominciò ad imbarcarle sopra le navi inglesi. Gran copia di barche napoletane furono a quest'effetto spedite colà, e si videro poi giugnere esse milizie a Vado nella Riviera di Genova nel dì 8 e 16 del mese di luglio, da dove passarono a ristorarsi nello Stato di Milano. In essi legni venne ancora gran numero di Spagnuoli, anche delle più illustri case, che tutto abbandonarono, per non rimanere esposti a mali peggiori, cioè alla vendetta del fortunato re Filippo V. Non si può esprimere in che trasporti di rabbia e di querele prorompessero i Catalani, al trovarsi in tal maniera lasciati alla discrezione dello sdegnato monarca. Andò sì innanzi la lor collera, che presero la disperata risoluzion di difendersi a tutti i patti, benchè abbandonati da ognuno, contro la potenza del re Cattolico, e fecero per questo dei mirabili preparamenti. Molto più ne fece la corte di Madrid, la cui armata passò in quest'anno a bloccare la stessa città di Barcellona. A me non occorre dirne di più.

Fra le altre memorabili virtù dell'imperator Carlo VI sempre si distinse quella della gratitudine. Avea egli pertanto portato seco dalla Spagna un generoso affetto verso chiunque s'era in quelle parti dichiarato del suo partito, e dimostrollo poi, finchè visse, verso chiunque [255] si rifugiò sotto le sue ali in Italia o in Germania, con sostenere migliaia di Spagnuoli esuli, non ostante il gravissimo dispendio dell'imperiale e regia camera sua. Pieno di compassione verso gli abbandonati Catalani, bramava pure di sovvenir loro nella presente congiuntura, ed abbisognava eziandio di pecunia per sostenere sè stesso contro le superiori forze del re Cristianissimo, a cui altro nimico non era restato che il solo imperadore. O progettassero i suoi ministri, o ne movesse la repubblica di Genova le dimande, venne egli alla risoluzione di vendere ad essi Genovesi il marchesato del Finale, già feudo dei marchesi del Carretto, e poi passato in potere dei re di Spagna. Fu stabilito questo contratto nel dì 20 di agosto del presente anno, con pagare in varie rate essa repubblica a sua maestà cesarea un milione e ducento mila pezze, ciascuna di valore di cinque lire, o sia di cento soldi moneta di Genova; e con dichiarazione che continuasse quella terra colle sue dipendenze ad essere feudo imperiale. Non si tardò a darne il possesso ai medesimi Genovesi con fama che fossero accolti mal volentieri que' nuovi padroni dai Finalini, e che la real corte di Torino si mostrasse malcontenta di tal novità. Avrebbe essa ben esibito molto di più per ottenere uno Stato tale, non grande al certo, ma di rivelante comodo ai suoi interessi, massimamente dopo l'acquisto della Sicilia. Fu preteso che l'imperadore si fosse riservato il diritto di ricuperare quel marchesato, restituendo la somma del danaro ricevuto; ma di questo non v'ha parola nell'investitura conceduta ad essa repubblica. Gioioso in questi tempi il re Cristianissimo Luigi XIV per essersi sbrigato da tanti suoi potenti nemici, rivolse tutti i suoi pensieri ad obbligar colla forza l'imperadore Carlo VI ad abbracciar la pace, giacchè egli solo vi avea ripugnato fin qui. Unite dunque le sue forze, spinse il valoroso maresciallo di Villars addosso alla rinomata fortezza di Landau nell'Alsazia. Dopo una vigorosa [256] difesa fu costretta quella piazza, nel dì 22 d'agosto, a rendersi, con restar prigioniera di guerra la guernigione. Verso la metà di settembre passò il medesimo maresciallo il Reno, ed imprese l'assedio di Friburgo. Il comandante di quella piazza nel dì primo di novembre si ritirò ne' castelli, lasciandola aperta ai Franzesi, che intimarono tosto ai cittadini la contribuzione d'un milione per esentarsi dal sacco. Nel dì 16 d'ottobre anche le fortezze si renderono ai Franzesi con tutte le condizioni più onorevoli. Dopo tali acquisti si posarono l'armi e cominciarono ad andare innanzi e indietro proposizioni di pace, a cui Cesare non negò l'orecchio, perchè oramai persuaso di non poter solo sostenere sì grande impegno.

Benchè gli affari correnti cospirassero a restituire la pubblica tranquillità all'Europa, e non solamente fossero cessate in Italia le turbolenze della guerra, ma si assodasse maggiormente la quiete per l'incamminamento di varii cesarei reggimenti verso la Germania; pure non mancavano affanni a queste contrade. Dall'Ungheria e Polonia era passata a Vienna la peste, con istrage non lieve delle persone, e cominciò sì fatto orrendo malore a stendere le ali per l'Austria, Baviera ed altre parti della Germania. Attentissima sempre la veneta repubblica alla sanità dell'Italia, e a tener lungi questo morbo desolatore, interruppe tosto ogni commercio col Settentrione, e seco s'unì per li suoi Stati il sommo pontefice. Ma non potè fare altrettanto lo stato di Milano ed altri principi: il che cagionò un grave disordine nel commercio per l'Italia. Volle Dio che prima di quel che si sperava cessasse dipoi questo flagello; laonde cessarono ancora le prese precauzioni. Ebbe in quest'anno materia di lutto la corte di Toscana per la morte del gran principe Ferdinando de Medici, figlio del gran duca Cosimo III, accaduta nel dì 30 del suddetto mese d'ottobre, senza lasciar frutti del suo matrimonio colla [257] principessa Violante Beatrice figlia di Ferdinando elettor di Baviera. Di maravigliose prerogative d'ingegno era ornato questo principe. Non fosse egli mai andato molti anni addietro a gustare i divertimenti del carnevale a Venezia. Fu creduto ch'egli ivi si procacciasse un tarlo alla sua sanità, da cui finalmente fu condotto alla morte. Trovavasi sovente infestato il pontefice Clemente XI dagl'insulti dell'asma, e da altri incomodi di sanità; pure, siccome principe di rara attività, continuamente accudiva ai negozii, e questi non erano pochi. Passavano calde liti fra quella sacra corte e il già duca di Savoia ora re di Sicilia, siccome ancora coi Genovesi e col regno di Napoli, e massimamente coi reggenti dell'appellata monarchia di Sicilia. Il santo padre, siccome zelantissimo della immunità ecclesiastica e dei diritti della santa sede, fulminava monitorii, interdetti e scomuniche: con che effetto, lo dirà a suo tempo la storia della Chiesa.

Ma le occupazioni dell'indefesso pontefice furono interrotte in questi tempi per un imbroglio succeduto in Francia. Forse non piacendo al cardinale di Noaglies arcivescovo di Parigi che il re Luigi XIV avesse preso per suo nuovo confessore un certo religioso, avvertì sua maestà che questi avea spacciato in un suo libro alcune proposizioni poco sane in difesa dei riti cinesi. Ne parlò il re al confessore, il quale rispose, maravigliarsi che il porporato accusasse altrui, quando egli aveva approvato il libro del padre Quesnel, intitolato Il Nuovo Testamento, ec., in cui si trovava gran copia di sentenze giansenistiche. Rapportò il re questa risposta al cardinale, ed egli disse che l'opera del Quesnel era stata corretta, confessando nondimeno che vi restavano tuttavia dieci o dodici proposizioni meritevoli di correzione, e che egli col celebre vescovo di Meaux Bossuet era dietro a prestarvi rimedio. Ciò inteso dal confessore, disse al re: Come, dieci o dodici proposizioni di cattivo metallo? [258] ve n'ha più di cento. E preso l'impegno di mostrarlo, ricavò da quel libro cento ed una proposizioni. Furono poi queste spedite a Roma dal re; e dappoichè sua santità n'ebbe fatto fare un rigoroso esame, le condannò tutte nel dì 10 di settembre del presente anno colla famosa bolla Unigenitus, che poi riuscì seminario d'incredibili dissensioni, appellazioni ed altri sconcerti nel regno di Francia, intorno ai quali io rimetto il lettore ai tanti libri pubblicati su questo emergente. Continuò ancora in quest'anno il male pestilenziale delle bestie bovine, ed assalì varii altri paesi d'Italia. Penetrò nello Stato ecclesiastico e nella Calabria, ed entrò anche nel basso Modenese. Non arrivò questo flagello a cessare, se non nell'anno seguente. Dopo essere dimorato gran tempo in Italia il principe reale ed elettorale di Sassonia, finalmente verso la metà d'ottobre si partì da Venezia, dove avea ricevuti tutti gli onori e divertimenti possibili, inviandosi verso i suoi Stati.


   
Anno di Cristo MDCCXIV. Indizione VII.
Clemente XI papa 15.
Carlo VI imperadore 4.

Con tutti i progressi delle sue armi nell'anno precedente non rallentò il re Cristianissimo Luigi XIV le sue premure, per dar totalmente la pace alla Europa, col condurre in essa anche l'Augusto Carlo VI. Abbisognava eziandio l'imperatore di troncar questo litigio, perchè troppo pericoloso scorgeva il voler solo mantener la guerra con chi s'era potuto sostenere contro tante potenze unite, ed avea ormai ottenuto l'intento di stabilire il nipote in Ispagna. Comunicò il re Luigi le sue premure agli elettori di Magonza e Palatino; e questi mossero la corte di Vienna ad ascoltar le proposizioni della desiderata scambievole concordia. Fu eletto per luogo del trattato il palazzo di Rastat, spettante al principe di Baden, e nel dì 26 di novembre [259] del precedente anno colà comparvero il principe Eugenio per sua maestà cesarea, e il maresciallo di Villars per sua maestà Cristianissima. Per due mesi frequenti furono le conferenze; e non trovandosi maniera di accordar le pretensioni, già parea che si avesse a sciogliere in nulla l'abboccamento, con essersi anche ritirato il principe Eugenio per preparar le armi; quando finalmente si raggruppò l'affare, e nel dì 6 di marzo si giunse a segnar gli articoli della pace, o sia i preliminari della concordia; perciocchè non si poterono smaltire tutte le differenze, e volle l'imperadore che anche l'imperio concorresse alla stabilità d'un atto di tanta importanza. Discese la corte di Francia dall'alto di molte sue pretensioni, perchè ben conosceva vacillanti gli affari in Londra, essendosi mostrati quei parlamenti mal soddisfatti della regina Anna e de' suoi ministri, nè gl'Inglesi ed Olandesi avrebbero in fine sofferto che Cesare restasse vittima della potenza francese. I principali capitoli d'essa pace di Rastat consisterono nella restituzione di Friburg, del forte di Kel e di altri luoghi fatta dalla Francia, che ritenne Argentina, Landau ed altre piazze, indarno pretese da Cesare. Gli elettori di Baviera e di Colonia furono restituiti nel possesso dei loro Stati. I regni di Napoli colle piazze della Toscana e Sardegna, la Fiandra e lo Stato di Milano, a riserva del ceduto al duca di Savoia, restarono in poter dell'imperadore. Fu poi scelta la piccola città di Bada, o sia di Baden, posta negli Svizzeri in vicinanza di Zurigo, per quivi terminar le altre differenze. A poco si ridusse il risultato di quell'assemblea; ed avendo l'imperadore ricevuta la plenipotenza dalla dieta di Ratisbona, non lasciò di conchiudere ivi la pace nel dì 5 di settembre a nome dell'imperio, colla conferma di quanto era stato stabilito in Rastat.

Videsi in tale occasione ciò che tante volte si è provato e si proverà, che chi dei principi minori entra in aderenze [260] coi maggiori nel bollor delle guerre, lusingato di accrescere la propria fortuna, si ha da consolare in fine, e contare per gran regalo, se ottiene la conservazione del proprio; perchè va a rischio anche della perdita di tutto, attendendo i monarchi al proprio vantaggio, e poca cura mettendosi degli aderenti. Perdè il duca di Mantova tutti i suoi Stati. Al duca di Guastalla dovea pervenire il ducato di Mantova: si trovarono più forti le ragioni di chi n'era entrato in possesso. Giuste pretensioni promosse ancora il duca di Lorena sul Monferrato. Con un pezzo di carta, che prometteva l'equivalente, fu pagata la di lui parte. Il duca della Mirandola vide venduto il suo Stato al duca di Modena, e sè stesso costretto a rifugiarsi in Ispagna a mendicar il pane da quella real corte. Fu intimato a Giacomo III Stuardo re cattolico d'Inghilterra di uscire del regno di Francia; e ricoveratosi egli nella Lorena, nè pur ivi trovò sicuro asilo, con ridursi in fine a cercare il riposo fra le braccia del sommo pontefice nella sede primaria del cattolicismo. Si erano mostrati liberali i Gallispani verso di Massimiliano duca ed elettore di Baviera, ora investendolo dei Paesi Bassi da loro perduti, ora di Lucemburgo e di altri paesi, ed ora proponendo di farlo re di Sardegna. In ultimo dovette ringraziar Dio di aver potuto ricuperare gli aviti suoi Stati, ma desolati, e che per un pezzo ritennero la memoria degli sfortunati tentativi del loro sovrano.

A queste metamorfosi finalmente restò soggetta anche la Catalogna, da cui fu forzato l'Augusto Carlo VI di ritirar le sue armi con suo ribrezzo e rammarico indicibile per la compassione a que' popoli, che con tanto vigore e fedeltà aveano sostenuto il partito suo. Già nell'anno addietro avea spedito il re Filippo V l'esercito suo, comandato dal duca di Popoli, a bloccare la città di Barcellona, dove trovò que' cittadini molto afforzati di milizia, e risoluti di spendere piuttosto la vita colle armi in mano, che di tornare sotto [261] l'offeso monarca, da cui temeano ogni più acerbo trattamento. Furono memorabili le imprese da lor fatte in propria difesa, e passò il verno senza veruna speranza che una sì feroce e disperata nazione si avesse da rimettere all'ubbidienza. Fama fu ch'essi Catalani progettassero fino di darsi più tosto alle potenze africane, che di tornare sotto il giogo castigliano. D'uopo anche fu che il re Cattolico Filippo V implorasse l'assistenza dell'avolo re Cristianissimo. Il maresciallo di Bervich, inviato da Parigi a Madrid per condolersi della morte di Maria Lodovica di Savoia regina, accaduta nel febbraio di questo anno, ebbe ordine di offerirsi al servigio di sua maestà Cattolica, che volentieri l'accettò per comandante; e più volentieri ricevette l'esibizione d'un grosso rinforzo, anzi, per dir meglio, di un esercito di milizia franzese. Cominciò nel maggio il formale assedio di Barcellona, e proseguì con calore fino al luglio, in cui, arrivati i Franzesi, maggiormente crebbe il teatro di quella guerra. Alle terribili offese con incredibil coraggio corrisponsero i difensori. Gran sangue costò ogni menomo acquisto di quelle fortificazioni, nè mai quella cittadinanza trattò di rendersi, se non quando vide sboccati nella stessa città gli aggressori. Convenne dunque esporre bandiera bianca; e da che fu promessa l'esenzione dal sacco e la sicurezza della vita, fu consegnata la città ai voleri del re Cattolico. Qual fosse il trattamento fatto a quei cittadini e popoli, non occorre che io lo rammenti. L'isola di Maiorica non per questo volle sottomettersi, e necessaria fu la forza a soggiogarla. Restarono solamente in dominio degl'Inglesi Gibilterra e l'isola di Minorica, dove è Porto Maone, con averne il re Cattolico nel solenne trattato di pace fra la maestà sua e la regina Anna d'Inghilterra, stipulato nel dì 13 di luglio dell'anno precedente, sottoscritta la cessione ad essi Inglesi.

Nel dì 28 d'aprile di quest'anno passò all'altra vita don Vincenzo Gonzaga duca [262] di Guastalla in età di ottant'anni, ed ebbe per successore il principe Antonio Ferdinando suo primogenito. A gravi turbolenze rimase esposta Anna Stuarda regina della Gran Bretagna dopo la conclusione della pace, dichiarandosi mal soddisfatti di lei e del suo ministero i parlamenti per li passati maneggi, e massimamente perchè si credette, o si seppe, ch'ella desiderava per suo successore nel trono il re Giacomo III suo fratello. Cadde perciò in odio e disprezzo di quella nazione, e seguirono in Londra varii tumulti e mutazioni; ma venne la morte a liberarla dai guai presenti nel dì 12 d'agosto; e però pacificamente fu riconosciuto per re di quel potente regno Giorgio Lodovico duca di Brunsvich ed elettore, della cui nobilissima origine e comune stipite colla casa d'Este ho io assai parlato nelle Antichità Estensi. Essendo rimasto vedovo Filippo V re di Spagna, pensò egli di passare alle seconde nozze, e pose gli occhi sopra la principessa Elisabetta Farnese, nata nel dì 25 di ottobre del 1690 da Odoardo principe ereditario di Parma. Oltre a molte rare prerogative d'animo e d'ingegno, e specialmente di pietà, portava questa principessa in dote delle forti pretensioni sopra il ducato di Parma e di Piacenza, ed anche sopra la Toscana, siccome discendente da Margherita de Medici figlia di Cosimo II gran duca. Stabilitosi dunque il reale accasamento, per opera spezialmente dell'abbate Alberoni, residente allora in Madrid pel duca zio di lei, seguì nel dì 16 di settembre in Parma il suntuoso sposalizio d'essa principessa, avendovi assistito il cardinale Ulisse Gozzadini Bolognese, spedito a questo effetto dal papa Clemente XI con titolo di legato a latere, e con accompagnamento magnifico di più centinaia di persone. Francesco Farnese duca di Parma suo zio la sposò a nome di sua maestà Cattolica. Fu poi condotta la novella regina a Sestri di Levante; e quivi preso l'imbarco, senza poter sostenere gl'incomodi del mare sdegnato, fece dipoi la maggior parte del [263] viaggio per terra, e passò in Ispagna a felicitare quella real prosapia. Giunse a Madrid solamente sul fine dell'anno, e nel viaggio diede gran motivo di parlare alla gente, per aver ella animosamente licenziata ed inviata in Francia la duchessa Orsini, che il re le avea mandato incontro con titolo di sua dama d'onore. Quali conseguenze portasse poi questo matrimonio, andando innanzi lo vedremo. Dopo avere Vittorio Amedeo re di Sicilia lasciati in quell'isola molti bellissimi regolamenti pel governo del nuovo regno, ed accresciute le forze tanto di terra quanto di mare in esse contrade, e dopo avere restituita la quiete a quelle terre, dianzi infestate da gran copia di licenziosi banditi, tornossene colla real consorte in Piemonte nell'ottobre di quest'anno, e con gran solennità nel dì primo di novembre fece la sua entrata in Torino. Duravano intanto, anzi ogni giorno maggiormente si accendevano le controversie fra la santa Sede e quel real sovrano, sostenitore risoluto dell'appellata monarchia di Sicilia. Nel novembre di questo anno fece il santo padre pubblicar due formidabili bolle contro i pretesi diritti di quel tribunale. Cagion fu questa lite che non pochi Siciliani si ritirassero a Roma con aggravio non lieve della camera apostolica. Gravissime occupazioni ancora ebbe in questi tempi il sommo pontefice per li torbidi suscitati in Francia dalla bolla Unigenitus, dei quali a me non appartien di parlare.


   
Anno di Cristo MDCCXV. Indiz. VIII.
Clemente XI papa 16.
Carlo VI imperadore 5.

Appena aveva incominciato l'Italia a respirare da tanti disastri, dopo l'universal pace de' monarchi cristiani, sperando giorni ormai felici, quando la repubblica veneta mirò da lungi cominciato fin l'anno addietro un fiero temporale che la minacciava in Levante. Questo era un gran preparamento di [264] gente e di navi che facea la Porta Ottomana, con ispargere varii pretesti di disgusto contra di essi Veneziani; giacchè di questa mercatanzia ne truova sempre nei suoi magazzini chi ha possanza e voglia di far guerra ad altrui. E tanta più ne trovò il sultano de' Turchi, perchè principe non v'ha che, dopo avere suo malgrado perduto qualche Stato, non si senta agitato da interne convulsioni, cioè da un continuo desio di ricuperarlo, se può. Aveano nelle precedenti guerre i Musulmani perduto il regno della Morea, e fattane cessione alla veneta repubblica. Perchè i giannizzeri tuttodì moveano sedizioni, fu creduto da quel divano che alle loro insolenze si metterebbe fine coll'impegnarli in qualche guerra; e che coloro prendessero di mira la suddetta Morea, si vociferava dappertutto. Questa voce nondimeno tal forza non ebbe da addormentare il cauto gran maestro di Malta. Diedesi egli perciò a ben premunire quella città ed isola fortissima, col chiamare colà tutti i cavalieri d'Italia e di altre nazioni, e con fare ogni necessaria provvisione di munizioni da bocca e da guerra, affinchè il Turco, che altre volte avea finta un'impresa, e ne avea poi fatta un'altra, sapesse che si vegliava in quella parte contro i suoi tentativi. Ora in quell'angustia di tempo non lasciarono i Veneziani di far tutto l'armamento possibile per accrescere le lor genti d'armi e le lor forze di mare, e per tutta la Germania si studiarono di ottener leve di gente, non perdonando a spesa e diligenza veruna. Anche il pontefice Clemente XI, commosso dal grave pericolo della cristianità, ricorse all'aiuto del cielo; prescrisse preghiere e orazioni per tutta l'Italia; somministrò sussidii di danaro ai Veneziani e Maltesi, ed approntò le sue galee, per accorrere dove fosse maggiore il bisogno. E perchè parimente veniva minacciata la Polonia, in soccorso di quella inviò dieci mila scudi d'oro. Una anche delle sue prime cure fu di ricorrere a tutti i monarchi cattolici, esortandoli [265] colle più efficaci lettere di concorrere alla difesa de' fedeli contra del tiranno d'Oriente. Intanto si tirò il sipario, e scoprironsi rivolti i disegni del sultano Acmet contra dei Veneziani, con aver egli ingiustamente rotta la tregua stabilita a Carlovitz nel 1699, e per mare e per terra piombò una formidabile armata di Turchi sul Peloponneso, ossia sopra la Morea. Videsi allora una ben dolorosa scena, cioè che nello spazio di un mese la potenza ottomana s'impadronì di tutto quanto la veneta in più anni con tanto dispendio e fatiche avea in quelle contrade acquistato. Corinto, Napoli di Romania, Napoli di Malvasia, Corone, Modone e l'altre piazze di quel regno, tutte caddero in mano degl'infedeli. Fecero alcune buona difesa; ma sì fieri furono gli assalti turcheschi, che sopra gli ammontati cadaveri de' suoi giunsero que' Barbari a superar le fortezze. Altre poi fecero poca o niuna difesa, e i Greci stessi congiurati si gittarono in braccio de' Turchi. Provò allora la repubblica veneta quello ch'è accaduto a tanti altri, cioè che le braccia tradiscono talvolta gli ordini saggi del capo. Si avvide ella, ma tardi, che alcuni dei suoi ministri nella Morea non aveano impiegato il pubblico danaro, come doveano, nel tener completi i presidii e provvedute le piazze del bisognevole. Quel bel paese, quel felice e caldo clima, non si può dire quanto inclini ai piaceri e alla corruttela de' costumi. Senza freno viveano quivi molti degl'Italiani, e di loro si mostravano poco contenti alcuni di que' popoli. Tutto concorse a far perdere sì presto quel delizioso regno; la principal cagione però fu l'esorbitante forza de' Musulmani, a cui non s'era potuto provvedere di alcun valevole ostacolo fin qui. Non finì quest'anno, che, profittando i Turchi dell'amica fortuna, s'impadronirono di altri luoghi ed isole nell'Arcipelago. Parimente i corsari africani, prevalendosi dello scompiglio in cui si trovava l'Italia colle isole adiacenti, [266] ne infestarono più che mai i lidi, e condussero in ischiavitù assaissimi cristiani.

In questi medesimi turbati tempi una altra guerra apertamente si faceva in Sicilia a cagion del tribunale della monarchia. Avendo il sommo pontefice fulminate le censure contro molti di quegli uffiziali e contro altri del regno siciliano, e messo l'interdetto a varii luoghi, il re Vittorio Amedeo, risoluto di sostenere gli antichi usi od abusi che s'erano per più secoli mantenuti dai re suoi antecessori, ordinò che non si rispettassero gli ordini di Roma. Chi negò di farlo trovò pronto il gastigo delle prigioni o dell'esilio. Più di quattrocento ecclesiastici, oltre ad altre persone, o volontariamente o per forza uscirono di quell'isola, rifugiandosi a Roma. Il pontefice in sussidio loro impiegò più di sessanta mila scudi; e tuttochè anche amendue i monarchi di Francia e Spagna con forti uffizii sostenessero le pretensioni del re Vittorio, pure l'intrepido papa nel gennaio e febbraio del presente anno pubblicò due altre costituzioni, colle quali abolì il tribunale suddetto della monarchia di Sicilia: passo che maggiormente accrebbe gli sconvolgimenti di quel regno, e cagionò non lieve affanno al novello re di quell'isola, che abbisognava di quiete per ben assodarsi in quel dominio. Intanto per male di vaiuolo in età di diecisette anni venne a morte in Torino Vittorio Amedeo duca di Savoia suo primogenito nel dì 22 di marzo del presente anno, della qual perdita fu per lungo tempo inconsolabile il re suo padre. Perchè gli strologhi gli aveano predetta la guarigion del figlio, che non si effettuò, ne cadde la colpa sopra i medici, che perciò perderono la grazia del sovrano. Ma Dio gli preservò il secondogenito, cioè Carlo Emmanuele, oggidì re di Sardegna, che gareggia nelle virtù coi più rinomati principi della reale sua casa. Non era meno affaccendata in questi tempi la sacra corte di Roma per le opposizioni insorte in Francia contro la costituzione Unigenitus, e per le controversie [267] de' riti cinesi, proibiti a quei nuovi cristiani. Intorno a questi punti pubblicò l'indefesso pontefice altre costituzioni, dettate dal suo zelo per la purità della dottrina cattolica.

Si godeva intanto il re Cristianissimo Luigi XIV il contento di avere assicurata sul capo del nipote Filippo V la corona di Spagna, e di avere restituita al suo regno la desiderata pace, quando venne Dio a chiamarlo all'altra vita. Era egli giunto all'età di settantasette anni; ne avea regnato settantatrè oltre il costume dei suoi antecessori. Il dì primo di settembre fu l'ultimo del suo vivere, ed egli con intrepidezza mirabile, con sentimenti di viva cristiana pietà e pentimento dei suoi falli lasciò ai suoi discendenti quelle massime più giuste di governo ch'egli talvolta in sua vita dimenticò. Nel bollore spezialmente dei suoi anni gli aveano presa la mano l'incontinenza, lo spirito conquistatorio, senza misurarlo talvolta colla giustizia, e l'ansietà di far tremare ciascuno coi fulmini della sua potenza. Ciò non ostante, pregi sì rilevanti si raunarono in questo monarca per la sua gran mente, per aver nel suo regno procurata la gloria delle lettere, l'accrescimento delle arti e l'utilità del traffico, per la magnificenza delle fabbriche, per aver dilatati ampiamente i confini del suo regno, e sopra tutto protetta la religione de' suoi maggiori, con espurgare dalla gramigna ugonottica i suoi Stati, senza far caso della perdita di tanti sudditi, di tante arti e di tanto oro, in tale occasione asportati, che, secondo l'estimazione comune, giustamente si meritò il titolo di Grande. A questo rinomatissimo monarca succedette il pronipote Luigi XV, oggidì glorioso re di Francia, ma in età troppo tenera, e però incapace di governo, e bisognoso di tutori. Ebbe maniera Filippo duca d'Orleans, nipote ex fratre del re defunto, e primo principe del real sangue, di far annullare dal parlamento di Parigi il regio testamento, e di assumere egli la tutela del picciolo re. Trovò questo principe [268] esausto il regio erario, incolte molte campagne, impoveriti i popoli per le tante guerre passate, ingrassati non pochi colla mala amministrazione delle regie finanze; e siccome pochi si potevano uguagliare a lui nell'elevatezza della mente, si applicò tosto a curare e saldare le piaghe del regno. Ma intorno a ciò a me non conviene di dirne di più. Fece nell'ottobre di quest'anno Giacomo III Stuardo re cattolico della Gran Bretagna un tentativo per rimettersi sul trono della Scozia, con avere il pontefice somministrati quegli aiuti che potè per quell'impresa. Convien chinare gli occhi davanti agli occulti disegni di Dio. Cominciò egli con prosperità, ma terminò con infelicità un sì importante affare. Dopo essersi dichiarata in favor degl'inglesi la fortuna in una giornata campale se ne tornò lo sventurato principe in Francia a deplorar le sciagure di chi s'era dichiarato del suo partito.


   
Anno di Cristo MDCCXVI. Indizione IX.
Clemente XI papa 17.
Carlo VI imperadore 6.

In gravissimi timori ed affanni si trovò immersa l'Italia nel presente anno, che la divina provvidenza fece poi risolvere nel progresso in feste ed allegrezze. Divenuta più che mai orgogliosa la Porta Ottomana per le conquiste con tanta facilità fatte nell'anno precedente, meditava già voli più elevati; e si seppe col tempo che avea formati disegni fin sopra la stessa Roma, essendosi esibito il perfido marchese di Langallerie, ribello del re di Francia, di dar mano all'iniqua impresa. Per farsi scala ai danni dell'Italia, determinò il gran signore Acmet che l'armi sue passassero nell'isola di Corfù, posta in faccia alle estremità del regno di Napoli, e sito comodo per effettuar altre maggiori determinazioni. Quaranta mila tra fanti e cavalli turcheschi fecero sbarco in quella fortunata, ed allora troppo infelice isola, ed impresero tosto l'assedio [269] della capitale, secondati da una sterminata flotta per mare. Aveano anche i Veneziani allestita una poderosa armata navale, ma scarseggiavano di gente, perchè le leve per loro fatte in varii luoghi d'Italia ed oltramonti tardavano a comparire. In questo mentre il pontefice Clemente XI, che aveva già commossi colle più calde preghiere i re di Spagna e Portogallo al soccorso dei Veneti, ebbe sicuri avvisi che il primo invierebbe sei vascelli e cinque galee alle sue spese contra del comune nemico; e il Portoghese fece sciogliere le vele a sei grossi vascelli, e ad altrettanti minori per unirsi alle vele pontificie. Accrebbe il pontefice la sua squadra navale di due galee e di quattro vascelli, coi quali congiunsero ancora i cavalieri di Malta le loro forze, e il gran duca Cosimo III unì con esse quattro galee, due la repubblica di Genova. Impose il pontefice una contribuzione al clero d'Italia; e quanto danaro potè somministrar la camera pontificia e i più facoltosi cardinali, tutto andò in aiuto de' Veneziani e in soccorso dell'imperador Carlo VI. La speranza appunto maggiore del santo padre, dopo la protezione e l'aiuto di Dio, era risposta nelle forze del piissimo Augusto. Certo è che la maestà sua con compassione mirava il terribile spoglio fatto e vicino a farsi dai Turchi delle provincie venete; mirava anche minacciato il suo regno di Napoli dai loro ulteriori progressi; ma non sapea perciò risolversi a sfoderar la spada contra di loro, per sospetto che la corte di Spagna, prevalendosi della congiuntura, in veder impegnate l'armi imperiali in Ungheria, facesse qualche solenne beffa ai suoi Stati d'Italia. Per rimuovere questo ostacolo si affaccendò non poco il sommo pontefice, ed essendogli finalmente riuscito di ricavare del re Cattolico un'autentica promessa di non molestare alcun degli Stati posseduti dall'imperadore durante la guerra col Turco, sua santità si fece garante mallevadore alla corte di Vienna della sicurezza dei cesarei dominii in Italia.

[270]

Con questa fidanza l'Augusto Carlo VI, nel dì 25 di maggio stretta coi Veneziani una lega difensiva ed offensiva non tardò più a dichiarar la guerra al sultano. Un fiorito esercito di gente veterana teneva Cesare tuttavia in piedi, e questo a poco a poco andò sfilando in Ungheria sino ai confini del dominio turchesco. Il comando dell'armata fu dato al celebre principe Eugenio di Savoia, la cui mente, credito e perizia militare si contava per un altro esercito. Trovarono i cristiani un'oste più poderosa di Turchi preparata ai confini, sotto il comando del primo visire, e non solo ben animata alla resistenza, ma che s'inoltrò sino a Petervaradino, e baldanzosamente intimò quel presidio la resa. Furono in quei contorni a vista le due nemiche armate nel dì 5 d'agosto, festa della Beata Vergine ad Nives; e nel tempo stesso che in Roma si facea una solenne processione per implorare il braccio di Dio in favore delle armi cristiane, si venne ad una gran battaglia. Fama fu che l'esercito turchesco contasse centocinquanta mila combattenti, fra i quali quaranta mila giannizzeri e trenta mila spahì. Si azzuffarono dunque nel dì suddetto le due armate nemiche, e si videro i Turchi con ordinanza non più osservata in addietro e con immenso vigore essere i primi all'assalto. Sì fiero fu l'urto loro, che piegarono i reggimenti cesarei, e non mancò apparenza che l'esercito cristiano fosse vicino ad andare in rotta. Ma sostenuto quel primo feroce empito, il prode principe Eugenio fece con tal ordine avanzar le altre schiere, che i nemici, dopo aver fatta una lunga e sanguinosa resistenza, non potendo più reggere alla bravura degli Alemanni, diedero a gambe. Insigne e compiuta fu quella vittoria. Restarono i cristiani padroni del campo, di tutte le tende, di centottanta cannoni di bronzo, di circa altrettante insegne, della cassa militare e della segreteria del primo visire. Del ricco bottino non vi fu soldato alcuno che non partecipasse. Ascese [271] a molte migliaia il numero dei musulmani estinti, poco fu quello dei prigioni. Dal padiglione d'esso visire, che per le ferite andò a morire il dì seguente a Carlowitz, il vittorioso principe Eugenio scrisse tosto e spedì la lietissima nuova all'augusto monarca, il quale poscia mandò a Roma in dono al sommo pontefice quattro delle più ricche bandiere prese ai nemici. Non istette gran tempo a gustarsi del frutto di questa vittoria.

S'erano già inoltrati di molto gli approcci de' Turchi sotto la città di Corfù, ed aveano essi senza risparmio di sangue superate le più delle fortificazioni esteriori. Entro stava alla difesa il conte di Schulemburg, primo generale dell'armi venete, che mirabili pruove diede del suo saper militare, a cui corrispondeva con egual valore la guarnigione cristiana con disputare a palmo a palmo ogni progresso dei nemici. Contuttociò assai si prevedeva che a lungo andare non si potea sostenere una piazza assalita con incredibile sprezzo della morte dagl'infedeli, e priva di speranza di soccorso. Perciocchè s'era ben volta a quelle parti l'armata navale combinata de' Veneziani e degli ausiliarii; ma, per la conoscenza delle forze superiori de' nemici, non sapevano i più dei generali indursi a battaglia, ed ognuno facea conto delle sue belle navi. La mano di Dio vi rimediò. Appena giunse agli assediatori di Corfù l'infausto avviso della grande sconfitta de' suoi in Ungheria, che entrato in essi un terror panico, come se avessero alle reni il sì lontano vittorioso esercito, subito presero la fuga. Lasciarono indietro artiglierie, cavalli, bagagli e munizioni; solo si pensò a salvare le vite. Gran dire fu, perchè la flotta cristiana in quel grave scompiglio degli atterriti musulmani non volasse ad assalirli, giacchè sicura ne parea la vittoria. La verità nondimeno si è, che si allestirono bensì i collegati per inseguire i fuggitivi, ma in tempo che, sorta una fiera burrasca, convenne pensar più a difendere sè stessi dall'ira del mare che ad [272] offendere altrui. Per lo felice scioglimento di questo assedio non si può dire quanta allegrezza si diffondesse nel cuore di tutti gl'Italiani ben conoscenti che terribili conseguenze avrebbe portato seco la perdita di un'isola forte, sì contigua alle contrade d'Italia. Ricuperarono dipoi i Veneti Butintrò e Santa Maura.

Qui nulladimeno non terminò il comune giubilo dei fedeli. Erano passati cento sessanta anni che la città di Temiswar sofferiva il giogo turchesco, città attorniata da paludi, munita di buone fortificazioni, custodita da un numeroso presidio. A cagion di quelle appellate Palanche difficilissimo compariva l'accesso alla piazza. Pure nulla potè ritenere l'invitto principe Eugenio dall'imprenderne l'assedio, a cui fu dato principio nel primo dì di settembre. Nel dì 23 si presentò un esercito turchesco per dar soccorso alla piazza; ma ritrovati ben trincierati gli assedianti, se ne tornò indietro, sminuito molto di numero. Bisognò impiegare il resto del mese per disporre tutto a superar la Palanca, cioè il sito paludoso, fortificato da grossissimi pali, per cui convien passare alla città. Se ne impadronirono i cristiani nel dì primo di ottobre non senza spargimento di molto sangue, e si diedero poi a bersagliare la città e il castello, cinto da doppia fossa piena di acqua. Nel dì 13 di esso mese, perduta ogni speranza di soccorso, non volle quel presidio differire la resa, ed ottenne libera l'uscita per sè e per tutti gli abitanti col loro avere: capitolazione che fu religiosamente osservata, con essersi provveduto a quel popolo un migliaio di carra per asportar le loro sostanze. Ne uscirono dodici mila armati, e trovaronsi in quella piazza cento trentasei pezzi di cannone e dieci mortari, con abbondante raccolta di munizioni da guerra. Per sì gloriosa campagna Roma e tutta l'Italia si videro tripudianti di gioia, e dappertutto si tessevano elogii all'invincibile principe di Savoia, al quale il pontefice nel dì 8 di novembre fece presentare in Giavarino [273] la spada benedetta in riconoscenza ed onore del suo incomparabil valore. Coll'acquisto di Temiswar, a cui tenne dietro quello di Panscova, Vipalanca e Meadia, tutto quel riguardevol bannato venne in potere di Cesare. Fu in questo, anno che calò in Italia incognito Carlo Alberto principe elettorale di Baviera, cioè il medesimo che da qui ad alcuni anni noi vederem poi conseguire la corona imperiale. Dopo avere nel mese di marzo ricevuto questo principe in Modena dal duca Rinaldo di Este ogni dimostrazione di onore, passò a Bologna per visitare la gran duchessa Violante sua zia, che s'era apposta portata colà. Andò egli poscia a Roma dove il santo padre colle maggiori finezze lo accolse.


   
Anno di Cristo MDCCXVII. Indizione X.
Clemente XI papa 18.
Carlo VI imperadore 7.

Se nell'anno precedente s'era mostrata sì avversa la fortuna all'armi turchesche, sperò ben nell'anno presente il sultano Acmet di riparare i danni sofferti; al qual fine impiegò tutto il verno e la primavera per adunare un potentissimo esercito, a cui da gran tempo non s'era veduto l'uguale. Dal suo canto anche l'Augusto Carlo VI notabilmente rinforzò le sue armate in Ungheria, inferiori senza paragone nel numero, ma superiori in disciplina militare e in coraggio ai nemici. Minore non fu la vigilanza della repubblica veneta, per aumentar le sue forze di mare. Loro somministrò papa Clemente XI la squadra delle sue galee con quelle di Malta e del gran duca, ed ottenne di nuovo da Giovanni re di Portogallo undici grossi e ben corredati vascelli. Anche il re Cattolico Filippo V fece credere d'inviare in soccorso dei Veneziani sedici suoi vascelli, che poi si scoprirono destinati ad altra impresa. Tardi giunsero ad unirsi gli ausiliarii colla flotta veneta, la quale perciò sola fu obbligata a sostener tutto il peso della guerra, [274] e ciò nonostante s'impadronì della Prevesa, di Vanizza e d'altri luoghi, già occupati dai Turchi. Nel maggio e poscia nel luglio vennero essi Veneti alle mani coi nemici, e si combattè con gran sangue e valore da ambe le parti, senza che la vittoria si dichiarasse per alcuna di esse. Tanto almeno si guadagnò, che l'orgoglio turchesco calò, e restò precluso ogni adito agl'infedeli, per far nuove conquiste contra dei Veneti. Non così avvenne alle felicissime armi cesaree in Ungheria, guidate dall'impareggiabil generale di questi tempi, cioè dal principe Eugenio di Savoia. Meditava già il magnanimo eroe l'assedio di Belgrado, capitale della Servia; però nel dì 15 giugno sollecitata l'unione e marcia del prode cristiano esercito, per prevenire quello dei Turchi, felicemente passò il Danubio, e nel dì 19 arrivò ad accamparsi intorno a quella città, fortissima per la situazione e per le fortificazioni sue, e che sembrava inespugnabile per l'aggiunta di un presidio che più ragionevolmente si potea chiamare un esercito. Si formarono ponti sul Danubio e sul Savo; si fecero le linee di circonvallazione, e si cominciò a disputar coi nemici tanto nel gran fiume, dove essi abbondavano di galere e saiche, quanto per terra, facendo quei di dentro impetuose sortite. Solamente nel dì 23 luglio cominciarono le artiglierie e i mortari le terribili offese contro la città; e perciocchè le sue contrade sono strette, e le case mal fabbricate, il fuoco delle bombe cagionava frequenti gl'incendii.

Ma eccoti giungere lo sterminato esercito de' Musulmani, creduto ascendere a ducento mila combattenti, sul principio di agosto, e piantare il suo campo per gran tratto di paese, arrivando dal Danubio quasi fino al Savo, con occupare, in faccia dell'armata cristiana, tutto il piano e le colline. Era un bel vedere in lontananza disposte le innumerabili loro tende rosse e verdi con quantità immensa di gente, cavalli e carriaggi. In vece che di recar terrore ai cristiani, [275] quello spettacolo accresceva loro la gioia per la speranza di divenir padroni di tutto. S'era ben trincierato l'esercito cesareo, e, a riserva delle scaramuccie giornaliere, niun movimento faceva quello de' Turchi. Indarno si sperò che per mancanza di foraggi si ritirasse quella gran moltitudine di cavalli; e intanto le dissenterie cominciarono a far guerra alle milizie cristiane, talmente che ogni dì le centinaia si portavano al sepolcro. Di ottanta mila guerrieri alemanni, che dianzi era l'armata, si vide essa ridotta a sessanta. Fu in questo tempo che non solo i saccenti in lontananza, ma non poca parte degli uffiziali dell'oste cesarea, non sapendo intendere i segreti pensieri del principe Eugenio, o ne condannarono in lor cuore la condotta, o ne predissero sinistre conseguenze. Miravano essi l'imperiale esercito in quella inazione, posto fra due fuochi, cioè fra un'armata nemica in campagna tanto superiore di forze dall'un lato, e dall'altro una piazza che teneva impegnato un gran corpo di truppe cristiane nell'assedio. Maniera di vincere Belgrado non appariva; intanto ogni di più veniva scemando l'esercito cesareo; grande il numero de' malati; troppo pericoloso il tentare una battaglia contro di oste sì poderosa e ben trincierata, e con avere alle spalle l'esorbitante guernigion di Belgrado, che potea mettere in forse ogni tentativo dall'altra parte. Non erano occulti al generoso principe questi divisamenti, e le doglianze sotto voce di chi invidiava la sua gloria, o odiava la sua autorità. Lasciava egli dire, e come gran capitano sapeva le ragioni di così operare. Spacciavano i Turchi per debolezza il sì lungo ozio dell'armata cesarea, e si seppe che già meditavano essi di venirla ad assalire nel suo accampamento, quando all'improvviso si trovò ella assalita e sorpresa fra i suoi forti trincieramenti.

Il dì 16 di agosto fu destinato dal principe Eugenio, e secondato da' favori del cielo, per fiaccare le corna all'orgoglio [276] ottomano. Nel cristiano esercito militavano il principe elettoral di Baviera Carlo Alberto, già ritornato dall'Italia, il principe Ferdinando suo fratello, il principe Emmanuello di Portogallo, il conte di Charolois, il principe di Dombes Franzesi, ed altri principi di Sassonia, di Anhalt, di Holstein e di Wirtemberg. La mattina per tempo furono in ordinanza tutte le schiere, e si mossero alla volta del campo infedele. L'essere insorta una folta nebbia, per cui non veduti pervennero i cristiani fin presso alle nemiche trincee, fu non ingiustamente attribuito alla protezion del cielo. Attaccossi il terribil conflitto; per cagion dell'oscurità nè gli uni nè gli altri intendevano bene ciò che fosse vantaggioso o dannoso; quando tornò il sereno, e s'avvidero i cesarei che i Turchi usciti da' trincieramenti aveano tagliata la comunicazione fra le due ale della loro armata; allora con grande empito si scagliarono i valorosi cristiani contro di loro; rovesciarono fanti e cavalli; s'impadronirono delle loro batterie. Ve ne restava una di diciotto pezzi sostenuta da venti mila giannizzeri e da dieci mila spahì. Tutto cedette alla bravura de' cesarei; i Turchi non pensarono da lì innanzi che a menar le gambe. Usciti del campo si tornarono a raggruppare; ma, vedendo disperato il caso, ripigliarono la fuga. Aveva ordinato il saggio cesareo generale sotto rigorose pene che niuno attendesse a bottinare, promettendo la conservazion di tutto ai soldati, da che fosse terminata con sicurezza l'impresa. Mantenne la parola; e per schivare il disordine, ordinò che si facesse partitamente il sacco. Vi si trovò il ben di Dio. Spese incredibili avea fatto il sultano per provveder quella grande armata. A Cesare restarono cento e trenta cannoni, trenta mortari, tre mila bombe, con altra gran copia di attrezzi, di munizioni, di stendardi. Non si seppe, o non curò alcuno di sapere, quanta fosse la perdita de' nemici. Probabilmente fu molta. Chi scrisse uccisi più di venticinque [277] mila Turchi e fatta gran copia di prigioni, prestò troppa fede alla fama, solita ad ingrandire le cose. Solamente sappiamo essere restati sul campo circa due mila cesarei, e che ascese a più di tre mila il numero de' feriti. Con questa insigne vittoria spirò entro la città di Belgrado ogni speranza di soccorso; e però nel dì seguente 17 di agosto la guernigion turchesca e gli abitanti dimandarono capitolazione. Niuna difficoltà si trovò ad accordar loro quanto richiesero di onore e di comodo; e conseguentemente nel dì 22 ne uscirono venticinque e più mila armati, o capaci di portar le armi, colle lor famiglie e sostanze. Trovaronsi nella città e castello cento settantacinque cannoni di bronzo, venticinque di ferro, cinquanta mortari; sopra le fregate e saiche cento e due cannoni di bronzo, e ottantaquattro di ferro, oltre ad altri restati nell'isola, senza parlare di altre munizioni da guerra. Non tardarono i Turchi ad abbandonare Semendria, Ram, Sabatz ed Orsova, lasciando ancora in que' luoghi non poca artiglieria. Non mancarono censori, perchè non mancavano invidiosi ed emuli, al glorioso principe Eugenio, a cagion della battaglia suddetta, quasichè egli avesse esposto ad evidente pericolo di perdersi tutto il nerbo delle forze cesaree. Avrebbero detto lo stesso di Alessandro Magno, che con meno di gente fece tante prodezze. Nè pure il principe di Savoia avea bisogno d'imparar da costoro il mestier della guerra.

Tanta felicità dell'armi cesaree in Ungheria incredibil consolazione recò a chiunque ha interesse nella depressione del comune nemico. Ma questa venne stranamente turbata da un emergente, per cui gran romore fu per tutta l'Europa. All'abbate Giulio Alberoni piacentino era tenuta la regina Cattolica Elisabetta Farnese per la sua assunzione a quel talamo e trono: sì destramente e fortunatamente seppe maneggiarsi alla corte di Madrid. Compensava questo personaggio [278] la bassezza de' suoi natali coll'elevazion della mente, piena di grandi idee, intraprendente, costante nell'esecuzion de' suoi disegni. L'energia del suo spirito, e più la parzialità della regina lo aveano perciò portato alla confidenza e al principal maneggio del real gabinetto. A colmarlo d'onore gli mancava la sola porpora cardinalizia, e per ottenerla indusse il re Cattolico a rimettere in pristino tutti i diritti della pontificia dateria, e il commercio fra la santa Sede e la Spagna, interrotto da molti anni. Fece inoltre sperare al pontefice Clemente XI un magnifico stuolo di navi spagnuole in soccorso de' Veneti contra del Turco. In ricompensa di queste belle azioni il santo padre promosse alla sacra porpora l'Alberoni, benchè nel sacro concistoro declamasse forte contra di lui il cardinale Francesco del Giudice, troppo disgustato, perchè cacciato per opera di lui dalle Spagne. Sul principio di quest'anno vennero avvisi che il re Cattolico Filippo V facea grande armamento, con accrescere le sue forze di terra e di mare. A qual fine non si sapea. Si fece credere a Roma essere le mire di quel monarca contra de' Mori, per ricuperare Orano, e far altri progressi in Africa: con che quella corte ottenne le decime del clero per tutti i suoi regni. Insospettito nulladimeno il papa di questa novità, ne fece doglianze; ma assicurato da Francesco Farnese duca di Parma, e da' cardinali Acquaviva ed Alberoni, che niuna novità si farebbe contra di Cesare, si quetò. Ma che? quando pure s'aspettava di giorno in giorno dal pontefice, che comparisse la flotta spagnuola nei mari d'Italia per passare in Levante, essa nell'agosto voltò le prore alla Sardegna, e si appigliò all'assedio di Cagliari, capitale di quella isola. Trovaronsi quivi deboli i presidii cesarei, perchè, affidati i ministri alla parola del papa, niun timore concepivano per quella parte; però, fattasi poca difesa da quella città, tutto il resto dell'isola si vide inalberar le insegne del re Filippo.

[279]

Qui fu che si scatenarono le lingue di tutti gli zelanti del bene della cristianità, gridando essere questo un enorme attentato della corte cattolica contro le promesse fatte al romano pontefice, che s'era renduto mallevadore di ogni sicurezza per gli Stati austriaci. E perciocchè esso re Cattolico prese motivo di rompere la guerra dall'essere stato nei precedenti mesi in Milano fatto prigione monsignor Giuseppe Molines, dichiarato supremo inquisitor di Spagna, che alla buona, e senza aver cercato alcun passaporto da Roma, era passato colà, creduto da' ministri cesarei per cervello imbrogliatore; gridavano i politici essere questo un mendicato pretesto, perchè tanto prima avea con sì grande armamento la corte di Madrid fatto conoscere il suo disegno di prevalersi contro l'augusto monarca della opportunità, mentre l'armi di lui si trovarono impegnate contra del Turco, nè potere il privato interesse del Molines giustificare la pubblica rottura, e che si avea a fare ricorso al papa, per rimediare a quella privata controversia. I più finalmente prorompevano in indignazioni contra di un re Cattolico, quasichè egli, dimentico della sua innata pietà, sembrasse essere divenuto collegato col Turco e fosse dietro a frastornare la prosperità dell'armi cristiane contra del comune nemico. Andavano poi a finir tutte le esclamazioni addosso al cardinale Alberoni, primo ministro, siccome creduto autore di questo tradimento fatto alla cristianità e al sommo pontefice. Ma intanto la Sardegna andò, e la corte di Spagna più che mai s'invogliò di maggiori progressi. Nel marzo dell'anno presente arrivò a Modena, sotto nome di cavalier di San Giorgio, il cattolico re inglese Giacomo III Stuardo, essendogli convenuto ritirarsi fuori del regno di Francia. Dopo avere ricevuto le maggiori dimostrazioni di stima e di affetto dal duca Rinaldo d'Este suo zio materno, passò a ricoverarsi negli Stati della santa Sede, e per albergo [280] suo gli fu assegnata dal sommo pontefice la città d'Urbino.


   
Anno di Cristo MDCCXVIII. Indizione XI.
Clemente XI papa 19.
Carlo VI imperadore 8.

Per le inaspettate novità fatte dal re Cattolico coll'acquisto del regno di Sardegna, s'era vivamente alterata la corte di Vienna contra del sommo pontefice, dalla cui parola confortato avea l'Augusto Carlo VI impugnate l'armi a difesa della cristianità. Anzi traspirava nei ministri cesarei qualche sospetto, che lo stesso pontefice camminasse d'accordo con gli Spagnuoli, sì per le decime loro concedute, come anche per essere nell'anno 1716 venuto improvvisamente da Madrid a Roma monsignore Aldrovandi Bolognese, nunzio apostolico, quasichè fosse stato spedito per concertare quanto dipoi era avvenuto in pregiudizio dell'imperadore. Aggiugnevano, non essere probabile che esso nunzio ignorasse i disegni di quella corte: e perchè non avvisarne il gabinetto pontifizio? All'onoratezza del santo padre fu ben sensibile ed insieme ingiurioso un sì fatto sospetto. Ora non tardarono a comparire i segni dello sdegno di Cesare contro la sacra corte di Roma. Al nunzio apostolico di Vienna fu vietato l'accesso alla corte, e il trattar di negozii con quei ministri. A monsignor Vicentini, altro nunzio in Napoli, dal vicerè fu intimato l'uscire di quella metropoli e del regno nel termine di ventiquattro ore; si precluse affatto ogni esercizio di quella nunziatura; e quel che maggiormente allarmò e riempiè di lamenti Roma, fu, che vennero sequestrate le rendite di tutti i benefizii che varii cardinali e molti prelati non nazionali, ed abitanti in Roma, godevano nel regno di Napoli. Nè in questa sola tempesta si trovava il buon pontefice Clemente XI. Anche in Francia nei tempi presenti una brutta piega aveano preso gli affari della costituzione Unigenitus. Fioccavano da ogni parte le appellazioni [281] ai futuro concilio, e tutto era permesso a chi non voleva sottomettersi ai decreti della santa Sede. Oltre a ciò, perchè nel precedente anno milord Peterborough coll'andare girando per gli Stati della Chiesa, avea fatto sorgere sospetti di macchinar qualche violenza contra del cattolico re britannico Giacomo III Stuardo, soggiornante in Urbino, e fu perciò dal cardinale Origo legato di Bologna mandato prigione in forte Urbano, benchè fosse fra poco liberato, pure la nazione inglese suscitò per tale affronto di gravi querele contra del santo padre. Minacciavano essi, se non si dava loro un'adeguata soddisfazione, e di bombardare Cività Vecchia, e d'inferire altri danni al litorale ecclesiastico e alla stessa Roma. Anche dalla parte della Spagna si mosse un'altra burrasca. Avea l'adirato Augusto fatta istanza al pontefice che si richiamasse di Spagna il cardinale Alberoni a render conto dei pretesi perniciosi consigli dati al re Cattolico Filippo V, e dell'inganno fatto alla santa Sede nell'anno addietro. Tali forze non aveva il pontefice per tirar di colà l'Alberoni; e se le avea, non gli parve spediente di adoperarle nelle presenti congiunture. Fece nondimeno comparire il suo sdegno contra di lui. Conosceva esso porporato di avere il vento in poppa, e volea prevalersene. Già avea conseguito il vescovato di Malega. Poco era questo al suo merito; si fece nominare dal re Cattolico al ricco arcivescovato di Siviglia; ma il santo padre stette saldo in negargliene le bolle. Se ne offese quel monarca; vietò anch'egli ogni commercio colla sua corte al nunzio apostolico Aldrovandi, il quale senza licenza del papa si ritirò in Italia alla patria sua. Richiamò per mezzo del cardinale Acquaviva tutti gli Spagnuoli dimoranti in Roma; proibì ai suoi sudditi il cercare alcun benefizio o pensione dalla Sede apostolica con esorbitante danno della dateria. Non ci volea meno di Clemente XI, cioè di un piloto di grande animo, e di non minor saviezza, per navigare in mezzo a tanti [282] scogli e a sì contrarii venti. Ma egli confidato in Dio non punto si atterriva, e seguitava con vigore continuo ad applicarsi agli affari con isperar giorni migliori.

Fin l'anno addietro tal costernazione era entrata nel turchesco divano per la perdita di Belgrado, e per l'apprensione delle vittoriose armi cesaree, che cominciò il sultano Acmet a muovere parola di pace con sua maestà cesarea. Il ministro del re britannico Giorgio alla Porta fu incaricato di trattarne. Vi prestò orecchio l'imperador Carlo; ma suo malgrado, perchè gli stava sul cuore la rottura della guerra dalla parte degli Spagnuoli, nè si potea credere che alla loro avidità e fortuna fosse sufficiente preda la Sardegna. Si osservò nondimeno sul fine dell'anno presente scemato di molto l'ardore dei Turchi per la progettata pace, o vogliam dire tregua; e non per altro se non per gli avvisi colà giunti di avere il re Cattolico dato all'armi contro dell'augusto monarca. Contuttociò da che seppe il sultano il magnifico preparamento di forze guerriere fatto in quest'anno ancora non meno da Cesare che dalla Veneta repubblica, per continuare più che mai la guerra, ripigliarono con calore i negoziati della pace colla mediazione dei ministri d'Inghilterra e d'Olanda. Per luogo del congresso fu scelto Passarovitz nella Servia, dove si raunarono i plenipotenziarii dell'imperadore, della suddetta repubblica e della Porta. Al compimento di questo negoziato non si potè giungere se non nel dì 27 di giugno, nel qual giorno furono sottoscritti gli articoli della concordia di Cesare e dei Veneziani colla Porta Ottomana, consistenti in una tregua di ventiquattro anni. Restò l'imperadore in possesso di tutte le conquiste fin qui da lui fatte, cioè della Servia con Belgrado, di Temisvar, di una particella della Valacchia, con altri vantaggi, che a me non occorre di rammentare. Ai Veneziani restarono Butintrò, la Prevesa, Vonizza, Imoschi, le isole di Cerigo, con altri vantaggi, ma non compensanti [283] in menoma parte la perdita del bel regno della Morea. Fino ai nostri giorni dura l'indignazione dei cristiani zelanti contra di chi obbligò l'Augusto Carlo VI e la repubblica veneta alla pace o tregua suddetta. Da gran tempo non s'era veduta più bella apparenza di dare una forte scossa all'imperio ottomano. Avea Cesare in piedi una fioritissima armata con un generale incomparabile, colle milizie tutte incoraggite per le precedenti vittorie; laddove i Turchi erano spaventati, avviliti e sull'orlo di maggior precipizio.

Fama corse che il principe Eugenio avesse meditato, non già d'inviarsi alla volta di Costantinopoli, ma d'inoltrarsi per quella strada, e poi rivolgersi verso Tessalonica, o sia Salonichi, per darsi mano coi Veneziani, e tagliar fuori un buon pezzo del paese turchesco. Se ciò è vero, e se questo fosse riuscito, si può disputarne; ma bensì è fuor di dubbio che dalla mossa dell'armi spagnuole provenne la necessità di pacificarsi colla Porta, mentre era minacciato d'invasione tutto il dominio austriaco in Italia. Perchè fu differita per molte settimane la pubblicazion della pace suddetta, il generale de' Veneziani Schulemburg si portò all'assedio di Dolcigno, nido infame di corsari. Nel dì 24 di luglio convenne desistere dalle ostilità, perchè giunse l'avviso della pace. Ma nel volersi ritirare, i Veneti furono inseguiti dai Dulcignotti, e bisognò menar ben le mani. Crebbe in questi tempi la mormorazione contra del cardinal Alberoni, perchè furono pubblicate alcune lettere, che si dissero intercette, scritte al principe Ragozzi, ribello e nemico di Cesare, affinchè fosse mezzano a stabilire una lega fra il re Cattolico e il sultano Acmet, di modo che dalla parte ancora de' Turchi si facesse guerra all'imperador de' Romani. Chiunque riputava esso porporato di forte stomaco, e portato ad ogni maggior risoluzione che potesse influire all'ingrandimento della corona di Spagna, non ebbe difficoltà [284] a tener per certo quel progetto di alleanza. Ma ad altri parve esso troppo inverisimile, perchè contrario al pregio della pietà che risplendeva nel cattolico monarca Filippo V, e all'uso lodevole dei gloriosi suoi antecessori, i quali mai non hanno voluto tregua, non che lega, con un nemico del nome cristiano.

Intanto proseguiva la corte di Spagna il suo grandioso armamento, e in Sardegna si facea massa delle genti, artiglierie, munizioni e navi. Verso qual parte avesse a piombare la preparata tempesta, niun lo poteva prevedere di certo. Chi credea per li porti della Toscana posseduti da Cesare, chi per Napoli, e chi per lo Stato di Milano. Spezialmente si dubitò dell'ultimo, perchè il re Vittorio Amedeo avea fatto venir di Sicilia un grosso convoglio di munizioni e truppe; campeggiava anche con molta gente ai confini del Milanese; e non era occulto che passava fra lui e il re Cattolico non lieve intrinsichezza; s'era anche combinato fra loro un trattato di lega. Ma niun si trovò più deluso dello stesso re di Sicilia, perchè all'improvviso s'intese che l'armata navale spagnuola, alzate le ancore, dalla Sardegna era passata alla Sicilia stessa per insignorirsene. Risvegliossi allora un gran bisbiglio, gridando i poco parziali della Spagna, vedersi oramai quanto possa in cuore di alcuni potenti del secolo la smoderata voglia del conquistare. Non essere gran tempo che con solenne pace e solenni giuramenti avea la corte di Spagna ceduta la Sicilia al re Vittorio; nulla avere mancato questo real sovrano ai patti; e pure senza scrupolo alcuno, e dopo le maggiori dimostrazioni di amicizia, essere procedute l'armi spagnuole a spogliarlo di quel regno. Se così si opera (andavano essi dicendo), dove è più la pubblica fede, e chi ha più da credere ai regnanti? Fece anche questa novità sempre più sparlare del porporato primo ministro di Spagna, a cui si attribuivano tutti gl'impegni di quella corte. Tuttavia non mancò essa corte di pubblicare [285] un manifesto, con cui studiò di dare qualche colore alla presa risoluzione sua, ma intorno a cui non appartiene a me di proferir giudizio. Ora nel dì ultimo di giugno pervenuta l'armata spagnuola in faccia di Palermo, giacchè non v'era luogo alla difesa di quella fedelissima città, i magistrati ne portarono le chiavi al generale spagnuolo, e con incessanti acclamazioni di gioia fu quivi proclamato il re Filippo V. Erasi quivi ritirato il conte Annibale Maffei Mirandolese, vicerè di quel regno, con lasciar presidio nel castello, che fra pochi dì venne in poter degli Spagnuoli. Rinforzò esso conte colle milizie ricavate da Palermo, Cattania ed Agosta i presidii di Siracusa, Messina, Trapani e Melazzo, e fece ricoverare in Malta le galee del suo padrone. Essendo ritornata in Sardegna la flotta spagnuola per imbarcare il resto delle milizie, con esse sbarcò dipoi in Sicilia il marchese di Leede Fiammingo, generale di terra del re Cattolico, che poi fece maraviglie di condotta e valore in quell'impresa. Intanto Cattania col castello fu presa, e bloccata la città di Messina, dove, dopo essere entrate l'armi spagnuole, cominciarono le ostilità contra di quei castelli. Fu anche messo il blocco a Melazzo e a Trapani. In somma pareano disposte tutte le cose, per vedere in breve tornata tutta la Sicilia sotto la signoria del re Cattolico; e sarebbe succeduto, se non fossero entrati in iscena altri potenti a rompere le misure della Spagna.

Non dormiva l'imperador Carlo VI, e molto meno i suoi ministri di Napoli e Milano, i quali dacchè cominciò a scoprirsi il mal animo degli Spagnuoli, non aveano cessato di far gente e di preparar munizioni per ben accogliere chi si fosse presentato nemico. S'erano anche mosse le potenze marittime come garanti della cessione della Sicilia, ed obbligate a sostener anche l'imperadore negli acquisti suoi. A nome del re britannico Giorgio I fece lo Stenop suo ministro a Madrid varie doglianze e proteste, con rappresentare [286] sopra tutto l'obbligo e la determinazione dell'Inghilterra di difendere i suoi collegati; al qual fine si preparava una poderosa squadra di vascelli. Più alto, all'incontro, parlò il cardinale Alberoni, e diede assai a conoscere che poca impressione in lui faceano somiglianti bravate. Servirono poscia le altrui minaccie a far maggiormente affrettare la spedizione contro la Sicilia, colla speranza di vederla conquistata tutta prima che comparissero in quelle parti le vele inglesi. Intanto il re Vittorio Amedeo si rivolse tutto all'imperadore e alle suddette potenze marittime. Trattossi in Londra della maniera di mettere fine a queste turbolenze; e perciocchè si conobbe non aver forza esso re Vittorio per la difesa della Sicilia, nè l'imperadore si sentiva voglia, per far piacere a lui, di sposar questo impegno; e massimamente perchè egli s'era avuto a male che quell'isola, tanto necessaria alla conservazion del regno di Napoli, fosse a lui tolta, e data a chi non vi avea sopra ragione alcuna, nel dì 2 d'agosto fu formato in Londra il piano d'una pace da proporsi al re Cattolico, la quale se non fosse accettata, tutte quelle potenze s'impegnavano di adoperare l'esorcismo della forza per farla accettare. In questa risoluzione concorse ancora il Cristianissimo re Luigi XV, o, per dir meglio, Filippo duca d'Orleans reggente di Francia; giacchè la corte di Madrid avea già cominciato a sfoderar pretensioni contro la tutela del piccolo re, e a dichiarare inefficaci e nulle le rinunzie fatte dal re Filippo ai proprii diritti sulla corona di Francia: cose tutte che alterarono forte esso duca reggente, e gli altri principi del sangue reale. Portavano le risoluzioni della proposta concordia, fra l'altre cose, che la Sicilia si avesse da cedere a sua maestà cesarea, e che, in ricompensa di tal cessione, si dovesse cedere il regno di Sardegna al re Vittorio Amedeo: cambio sommamente svantaggioso, a cui quel real sovrano per un pezzo non seppe accomodarsi, ma [287] che in fine, consigliato dalla prudenza, la quale si ha da conformare alle condizioni dei tempi, per non potere di meno, egli approvò. Trattossi quivi parimente della eventual successione dei ducati di Parma e Piacenza, in mancanza di eredi legittimi, per un figlio della regina di Spagna Elisabetta Farnese.

Intanto sul principio d'agosto cominciò a comparire nei mari di Napoli la forte squadra inglese, condotta dall'ammiraglio Bing, che, servendo di scorta a molti legni da trasporto carichi di milizie alemanne, fece poi vela alla volta di Messina. Cercò bene l'ammiraglio Castagnedo Spagnuolo d'entrar colle sue navi nel porto d'essa Messina; ma il gran fuoco fatto dal forte di San Salvatore e della cittadella non glielo permise, e furono obbligati i suoi legni a ritirarsi con grave danno. Giunta dipoi la flotta inglese nel molo di Messina, felicemente sbarcò le truppe, ed allora quelle fortezze, battute dal marchese di Leede, inalberarono lo stendardo imperiale. Circa altri dieci mila soldati cesarei marciarono da Napoli verso Reggio di Calabria, per passare in Sicilia. Andò poscia il Bing in traccia della nemica armata navale, consistente in ventisei navi da guerra, sette galee e molti legni da carico, per significare all'ammiraglio le commissioni della sua corte. La trovò schierata in ordine di battaglia, nè tardò molto a udire il fischio delle palle dei lor cannoni, essendo stati gli Spagnuoli i primi a sparare. Si venne dunque nel dì 15 d'agosto a battaglia, ma battaglia di poco contrasto, perchè gli Spagnuoli batterono tosto la ritirata. Diedero loro la caccia gl'Inglesi, s'impadronirono di varii loro vascelli, altri ne bruciarono, e fecero di molti prigioni: laonde la flotta spagnuola rimase poco men che disfatta. L'ammiraglio Castagnedo si ritirò a Cattania a farsi curare le ferite ricevute. Ma queste disgrazie in mare nulla intiepidirono le azioni del generale spagnuolo marchese di Leede. Ancorchè si fosse accresciuto di molto il presidio della cittadella [288] di Messina, pure gli convenne rendersi al valore degli assedianti nel dì 29 di settembre, insieme col forte di San Salvatore: con che restò tutta Messina in potere degli Spagnuoli, che passarono dipoi all'assedio di Melazzo. Essendo poi sbarcato un grosso corpo di Tedeschi in vicinanza di questa piazza, i generali Caraffa e Veterani nel dì 15 d'ottobre tentarono di farne sloggiare gli Spagnuoli. Sulle prime favorevole fu loro la fortuna, ma non finì la faccenda che rimasero sbaragliati. I fuggitivi si ritirarono in Melazzo, che alzò allora la bandiera imperiale. Il nerbo maggiore degli Alemanni passati in Sicilia si afforzò verso la Scaletta in vicinanza di Messina. In tale stato restarono gli affari di quell'isola sino all'anno vegnente.

Era già passato a miglior vita fin dall'anno 1701, nel dì 16 di settembre, Giacomo II Stuardo re della Gran Bretagna, che già vedemmo spogliato del suo regno. Nell'anno presente a dì 7 di maggio giunse ancora al fine de' suoi giorni la regina sua consorte Maria Beatrice Eleonora d'Este in San Germano nell'Aia, presso a Parigi, principessa a cui aveano formata una più illustre corona le sue insigni virtù. Al di lei figlio Giacomo III, dimorante in Italia sotto nome del cavalier di San Giorgio, avea il pontefice Clemente XI procurata in moglie Clementina Sobieschi, figlia del principe Giacomo, nato da Giovanni III re di Polonia. Veniva questa principessa in Italia, ma restò trattenuta in Inspruch per ordine dell'imperadore, a fine di far conoscere a Giorgio I re d'Inghilterra ch'egli non approvava quel matrimonio. Si trovò col tempo il ripiego di lasciarla fuggire travestita, con aver l'Augusto Carlo VI serrati gli occhi; laonde in Monte Frascone nell'anno seguente fu accoppiata col suddetto re Giacomo dopo il suo ritorno dalla Spagna, di cui parleremo fra poco. Superbi regali fece il santo padre ad amendue, e fatto lor preparare in Roma un palazzo con ricchi [289] arredi, ed assegnata loro un'annua pensione di dodici mila scudi, colla lor presenza accrebber poscia il lustro di Roma.


   
Anno di Cristo MDCCXIX. Indizione XII.
Clemente XI papa 20.
Carlo VI imperadore 9.

Videsi in quest'anno uno spettacolo forse non mai veduto, cioè le principali potenze dell'Europa unite in guerra contro la Spagna; e la Spagna sola senza sgomentarsi far fronte a tutti. Avea già il re Vittorio Amedeo nel dì 18 ottobre dell'anno precedente abbracciata la lega di Cesare, Francia ed Inghilterra, consentendo al cambio della oramai perduta Sicilia colla Sardegna, che pure stava in mano del re Cattolico. Però questi potentati cominciarono maggiormente a disporsi per condurre colla forza la corte di Madrid a quella pace, che colle amichevoli esortazioni non si potea da essa ottenere. Aveano essi fatto proporre al re Filippo V le determinazioni prese dalla quadruplice alleanza per restituire la quiete all'Europa, ma con poca fortuna a cagion di certe condizioni contrarie ai desiderii e alle speranze del gabinetto spagnuolo. Ora quasi nel medesimo tempo tanto il re britannico Giorgio I, quanto il Cristianissimo Luigi XV, o sia sotto nome di lui il reggente duca d'Orleans, dichiararono la guerra alla Spagna. Nel dì 9 di gennaio del presente anno fu pubblicata in Parigi questa dichiarazione, e in Londra nel 28 del precedente dicembre, il qual giorno all'inglese vien quasi a cadere in quello della Francia. Sì gli uni che gli altri sovrani imputavano tutti questi sconcerti al solo cardinale Alberoni primo ministro della corte di Madrid; e spezialmente di lui si dolse il ministero della corte di Francia in un manifesto che fu nella stessa occasion divulgato. Ma se queste potenze vollero per cagione di questo porporato far guerra alla Spagna, anche il porporato la facea loro nel medesimo tempo, e nel cuore dei loro regni. [290] Manipolò sollevazioni in Iscozia che presero fuoco. Oltre al duca d'Ormond esiliato dall'Inghilterra, che si era ricoverato in Ispagna, chiamò colà anche il cavalier di San Giorgio, o sia il re Giacomo III, il quale nel febbraio del presente anno colla maggior possibile segretezza si partì da Roma, ed ebbe poi la fortuna di arrivar sano e salvo a Madrid. Seguirono varie commozioni degli Scozzesi; e se una crudel tempesta non dissipava una flotta mossa di Spagna con genti ed armi, forse l'incendio in quelle parti si sarebbe maggiormente aumentato. Fu cagione questa sciagura che pochi Spagnuoli pervenissero a sostenere la rivoluzion della Scozia, e che in fine perduta la speranza di questo colpo, ed affinchè esso cavalier di San Giorgio non fosse di ostacolo alla pace, si congedò questo principe dal re Cattolico, e tornossene ben regalato nell'autunno in Italia, dove, siccome abbiamo detto di sopra, dopo avere sposata la principessa Clementina Sobieschi, passò poi con essa ad abitare in Roma.

L'altra guerra che fece l'intrepido cardinale Alberoni alla Francia, fu quella di suscitar le pretensioni del re Filippo V intorno alla reggenza di quel regno, durante la minorità del re Luigi XV, sostenendola dovuta a sè come al più prossimo alla successione nel regno di Francia. Le rinunzie dalla maestà sua fatte si dicevano invalide e nulle; e non si taceva, che se fosse mancato il piccolo re, intendeva il re Cattolico di far valere i suoi diritti sopra la monarchia franzese. Andavano tali stoccate a ferire il cuore di Filippo d'Orleans duca reggente, e degli altri principi della real casa, giacchè, secondo la pace di Utrecht, e in vigore de' patti e delle rinunzie precedenti, la casa d'Orleans aveva acquistato ogni diritto al regno con esclusione della linea di Spagna. E perciocchè si venne a scoprire che il principe di Cellamare, ambasciatore del re Cattolico in Parigi, fabbricava delle mine segrete per muovere [291] sedizioni e guerra civile in Francia, fu obbligato a sloggiare. Pubblicossi ancora un biglietto dell'Alberoni, comprovante queste occulte trame, facendo il duca reggente valer tutto per giustificare l'intimazion della guerra contro la Spagna, e per far delle amare querele contra di esso cardinale, trattato da nemico della quiete dell'Europa, ed oppressore della monarchia di Spagna. Ora nell'aprile del presente anno cominciò l'esercito franzese verso la Navarra le ostilità contra degli Spagnuoli; e, dopo aver preso alcuni forti, mise l'assedio a Fonterabbia, e vi concorsero a sostenerlo per mare alquanti vascelli inglesi. Fu ben difesa quella piazza fino al dì 16 di maggio, in cui quel presidio con capitolazione onorevole la consegnò ai Franzesi. Passò di poi il maresciallo duca di Bervich nel dì 29 del mese di giugno ad assediare San Sebastiano. Per la gagliarda resistenza degli Spagnuoli, solamente nel dì 2 di agosto entrarono l'armi franzesi in quella città, essendosi ritirata la guarnigione nella cittadella, che poi nel dì 17 con buoni patti si ritirò anche di là. Fu creduto consiglio del cardinale Alberoni l'aver fatto venire sino a Pamplona il re Cattolico, per dar calore alle sue armi in quelle parti; ma egli poscia ne' suoi manifesti più tosto derise questa andata di sua maestà Cattolica; e in fatti, ad altro essa non servì che per far udire più presto a quel monarca la nuova delle perdute sue piazze. Quel che è certo, perchè si temeva che i Franzesi passassero fino alla stessa Pamplona, quella real corte giudicò miglior partito il ritornarsene, ed anche in fretta, a Madrid. Fecero poi essi Franzesi dalla parte del Rossiglione un'invasione nella Catalogna colla presa di alquanti luoghi. Così passava la guerra di Francia contro gli Spagnuoli; nel qual tempo ancora si rappresentò in Parigi la strepitosa commedia del Mississipì, di cui, e degl'imbrogli di Giovanni Laws Scozzese autore di quelle scene, il qual poi nel 1729 terminò [292] in Venezia i suoi giorni, a me non conviene di dirne altro. Quivi non finirono le percosse date in quest'anno alla Spagna. Anche l'armata degl'Inglesi nel dì 10 di ottobre arrivata al porto della città di Vigo, s'impadronì fra poco della medesima, e poi della cittadella nel dì 24 di esso mese.

Più aspra guerra intanto si faceva in Sicilia. Proseguivan quivi gli Spagnuoli il blocco di Melazzo, ed erano pure in quelle vicinanze i Tedeschi, con patire grave incomodo sì l'una che l'altra parte. Scarseggiava forte di vettovaglia quella piazza; ma verso il fine di gennaio varie navi inglesi felicemente approdate a quel porto vi recarono tanta copia di vettovaglie, che il presidio si rise da lì innanzi de' nemici. Non cessavano il conte Daun, vicerè di Napoli, e il generoso cavaliere conte Coloredo, ultimamente inviato al governo di Milano per la morte accaduta del principe di Levenstein, di ammassar gente e provvisioni per iscacciar dalla Sicilia gli Spagnuoli. Circa cinquecento vele nel dì 23 di maggio si mossero da Baia, cariche di dieci mila combattenti, di cannoni, mortari ed altri militari attrezzi, e scortate da alcuni vascelli inglesi. Nel dì 28 del seguente mese questo gran convoglio felicemente sbarcò in Sicilia presso Patti. A tale avviso il generale spagnuolo marchese di Leede frettolosamente levò il campo da Melazzo, con lasciare in preda ai nemici alcuni migliaia di sacchi di farina, ed altre provvisioni, e secento soldati infermi, e si ritirò verso Francavilla. Impadronironsi frattanto i cesarei dell'isola di Lipari. Era il marchese di Leede maestro di guerra, e gareggiava in lui la prudenza col valore; sapea risparmiare il sangue, far con giudizio i postamenti, e alle occorrenze ben assalire e meglio difendersi. Se non fossero a lui mancate le forze, difficilmente gli avrebbono tolta di mano la Sicilia. All'incontro era arrivato ai comando dell'armi cesaree in quell'isola il generale conte di Mercy, personaggio pien di fuoco guerriero, allievo [293] dell'invitto principe Eugenio, ma non imitatore della sua prudenza. Uso suo fu di mandare al macello per qualsivoglia sua idea le truppe, e di comperar tutto a forza di sangue: il che col tempo gli tirò addosso l'odio di tutto l'esercito. Nel dì 20 di giugno andò questo focoso generale ad assalire l'oste nemica, guardata alla fronte dal fiume Roselino, e riparata da un forte trincieramento. Furioso fu l'assalto, ma con sì gran vigore lo sostennero i valorosi Spagnuoli, che il Mercy, dopo avere sacrificato almen quattromila de' suoi, fu forzato a retrocedere, con aver solamente tolto alcuni posti ai nemici. Restò egli stesso ferito in quella calda azione. Cercarono le relazioni di dar qualche buon colore a questo suo infelice sforzo, ma fu creduto che in Ispagna ed altrove con ragione si cantasse il Te Deum, come per vera vittoria riportata dal prode lor generale, benchè ancora dal canto suo non poca gente vi perisse. Se anche gl'imperiali l'attribuivano a sè stessi, niuno potè loro impedire un sì fatto gusto. Provossi in questa ed altre occasioni che non pochi Siciliani bravamente sostenevano il partito spagnuolo.

Ma quanto andavan calando le forze del re Cattolico in Sicilia, altrettanto crescevano quelle degl'imperiali per li possenti rinforzi o passati da Reggio o condotti da Napoli per mare colà. Con questa superiorità di gente non fu difficile ai cesarei di passare sotto Messina, avendo prevenuto con una marcia gli Spagnuoli, incamminati anch'essi a quella volta. Da che ebbero preso castello Gonzaga, e fu dagli Spagnuoli abbandonato il forte del Faro, la città stessa nel dì 9 di agosto venne alla loro ubbidienza, essendosi ritirata la guarnigione nella cittadella. Insoffribil contribuzione fu imposta a quei cittadini, perchè molti di loro avevano impugnata la spada in favor degli Spagnuoli. Non tardarono a rendersi i due castelli di Matagriffone e del Castellaccio; con che restò renitente la sola cittadella, contra di cui si diede principio alle ostilità. [294] Cagion fu la presa di Messina che i Siciliani, stati fin qui molto parziali alla corona di Spagna, presero altro consiglio, e vennero a soggettarsi all'imperadore; ed intanto il marchese di Leede, giacchè conobbe di non poter dar soccorso all'assediata cittadella, si ritirò infin verso Agosta. Così gagliarda difesa fece don Luca Spinola col presidio spagnuolo nella cittadella di Messina, che solamente nel dì 18 di ottobre giunse ad esporre bandiera bianca, e restò nel dì seguente convenuto che gli Spagnuoli con tutti gli onori militari ne uscissero liberi, e nello stesso tempo consegnassero anche il forte di San Salvatore. Fu allora che il duca di Monteleone Pignatelli, entrato in Messina, prese per sua maestà cesarea il possesso della carica di vicerè di Sicilia. Si renderono poscia agl'imperiali le città di Marsala e di Mazzara con altri luoghi; e già comparivano segnali che il marchese di Leede pensava ad evacuar la Sicilia, stante l'aver egli spediti fuori di essa i suoi equipaggi. Aveva appena il conte di Gallas fatto il suo ingresso in Napoli, come vicerè di quel regno, che la morte venne a trovarlo, ed ebbe fra poco per successore il cardinale di Scrotembach. Fu in quest'anno che Vittorio Amedeo re di Sardegna chiamò tutti i suoi vassalli a presentare i titoli dei loro feudi, e seguirono poi gravi doglianze di molti che ne restarono spogliati. Perchè tuttavia bollivano in Roma le controversie dei riti cinesi, nè bastavano a chiarir cose cotanto lontane le scritture discordi dei contendenti, venne il saggio pontefice Clemente XI in determinazione di spedire colà un nuovo vicario apostolico e visitatore, per prendere le più accertate informazioni in sì importante materia. Fu scelto per sì faticoso impegno monsignor Carlo Ambrosio Mezzabarba, nobile pavese, che colla compagnia di molti missionarii e con superbi regali destinati all'imperador cinese si mise in viaggio verso quelle tanto remote contrade. Fece anche il santo padre, nel dì 29 di novembre [295] una promozione di dieci egregi personaggi alla sacra porpora.

Finì il presente anno con una scena, che gran romore fece non solamente in Ispagna, ma anche per tutta l'Europa. Primo ministro del re Cattolico Filippo V era da qualche anno divenuto il cardinale Giulio Alberoni, e per mano sua passavano tutti gli affari. Convien fare questa giustizia all'abilità e singolare attività sua, che il regno di Spagna s'era rimesso in un bel sistema mercè de' suoi regolamenti, ed era giunto a ricuperar quelle forze e quello splendore che sotto gli ultimi precedenti re parea ecclissato: tanto avea egli accudito al buon maneggio delle regie finanze, a rimettere le forze di terra e di mare, ad istituire la posta per le Indie Occidentali, a fondare una scuola di gentiluomini per istruirli nella navigazione, e in ogni affare della marina, e a levare i molti abusi che da gran tempo tenevano snervata quella potente monarchia. Cose anche più grandi meditava egli per accrescere la popolazion della Spagna, per introdurre il traffico, le manifatture e la cultura delle terre in quelle contrade, e per fare che i tesori delle Indie Occidentali e le lane preziose di Spagna servissero ad arricchire in vece degli stranieri i nazionali spagnuoli. Buon principio avea anche dato a tali idee con profitto del regno. Tutte le mire sue in una parola tendevano all'esaltazion di quella gran monarchia, e tutto si potea promettere dalla sua costanza in ciò ch'egli intraprendeva. Ma questo personaggio in più maniere si era tirata addosso la disavventura di essere mirato di mal occhio dalle principali potenze dell'Europa sì pel già operato contra dell'imperatore, della Francia, dell'Inghilterra e del re di Sardegna, e sì pel sospetto che uomo gravido di sì alte idee non pregiudicasse maggiormente ai loro interessi in avvenire. Si univano perciò le premure di tutti questi collegati a detronizzare questo poderoso e intraprendente ministro, nè altra via trovando, [296] si rivolsero a Francesco Farnese duca di Parma, zio della regina Elisabetta. Gli esibirono il governo di Milano ed altri vantaggi, se gli dava l'animo di atterrare l'odiato cardinale. Trovossi che il duca era anch'egli disgustato di lui, perchè non rispediva mai i suoi corrieri, ed esigeva che gli affari suoi non arrivassero al re, se prima non si presentavano a lui, e non ne riceveano la sua approvazione. Non era similmente ignoto al duca, essere poco soddisfatta del porporato la regina, per certe imperiose risposte a lei date da esso ministro. Però animosamente incaricò il marchese Annibale Scotti suo ministro in Madrid di rappresentare a dirittura al re Cattolico i gravissimi danni ch'erano vicini a risultare ai suoi regni per cagione di questo ministro, con dipingerlo per uomo impetuoso, violento e imprudente, che avea imbarcata la maestà sua in troppo pericolosi impegni, e potea col tempo far di peggio colla rovina del regno. Essere nelle congiunture presenti necessaria la pace, e questa non si avrebbe mai, se non si allontanava un ministro di consigli e pensieri sì turbolenti, e capace di dar fuoco a tutte le parti del mondo (del che egli stesso si vantava), senza riflettere alle cattive conseguenze delle troppo ardite risoluzioni. Di queste e di altre ragioni imbevuto il conte Scotti, animato ancora da' ministri di Francia e d'Inghilterra, rivelò alla regina la sua incumbenza; ed essa, siccome principessa di gran senno, gli ordinò di parlarne al re in ora tale, in cui anch'ella mostrerebbe di sopraggiugnere, come persona nuova, al colloquio. Così fu fatto; il ministro diede fuoco alla mina; sopravvenne la regina, che, potendo molto nel cuore del re, accrebbe il fuoco in maniera, che il re si diede per vinto, oramai persuaso avere gli smisurati disegni del cardinal ministro, coll'inimicar tante potenze, esposti a troppo gravi danni e pericoli non meno i suoi regni che il proprio onore.

Adunque nel dì 5 di dicembre di questo [297] anno dal segretario di Stato don Michele Duran fu presentato all'Alberoni un ordine scritto di pugno dello stesso re, con cui gli proibiva d'ingerirsi più negli affari del governo; e gli veniva ordinato di non presentarsi al palazzo, o in alcun altro luogo dinanzi alle loro maestà, o ad alcun principe della casa reale; e di uscire di Madrid fra otto giorni, e dagli Stati del dominio di sua maestà nel termine di tre settimane. Si espresse anche il re di essere venuto a tal determinazione spezialmente per levare un ostacolo ai trattati della pace da cui dipendeva il pubblico bene. Pertanto nel dì 11 del mese suddetto, ottenuti prima i passaporti dal re e dagli ambasciadori di Francia e d'Inghilterra, si partì l'Alberoni da Madrid alla volta dell'Italia, con disegno di passare a Genova. Di rilevanti scritture e memorie portava egli seco; vi fece riflessione alquanto tardi il gabinetto di Madrid; fu nondimeno a tempo per ispedir gente, che della maggior parte il privò. Fu anche occupato in Madrid molto oro, da lui lasciato a un suo confidente; ma non caddero già in loro mano quelle grosse somme di danaro, ch'egli da uomo prudente avea tanto prima inviate ne' banchi d'Italia, per valersene contro le vicende e i balzi preveduti della fortuna in caso di disgrazia: somme tali che servirono poscia a lui per vivere con tutto decoro il resto di sua vita in queste contrade. Salvò ancora qualche carta che servì alla sua giustificazione. Quanto si rallegrassero per la caduta di sì abborrito ministro le potenze componenti la quadruplice alleanza, ed anche molti grandi di Spagna, che prima relegati, furono tosto rimessi in libertà, non si può abbastanza esprimere. Furono anche fatti per questo fuochi di gioia in alcuni luoghi di Spagna. Ed allora fu che i ministri di esse potenze e gli Olandesi mediatori rinforzarono le lor batterie per indurre il re Cattolico alla pace. Di questa appunto si trattò per tutto il seguente inverno.

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Anno di Cristo MDCCXX. Indizione XIII.
Clemente XI papa 21.
Carlo VI imperadore 10.

Contuttochè mirasse il Cattolico Filippo V come quasi svanite le sue speranze sul regno di Sicilia, e minacciata la stessa Spagna da mali più gravi, pure l'animo suo generoso non sapeva accomodarsi al dispotico volere della quadruplice alleanza, che, senza ascoltar le ragioni sue, intendeva di dargli la legge, con avere stese nel dì 2 d'agosto dell'anno 1718 le condizioni di una pace universale. Fece pertanto nel gennaio dell'anno presente proporre dal suo ambasciatore marchese Beretti Landi agli stati generali altri articoli, secondo i quali avrebbe accettata la pace proposta. Sì contrarii parvero questi alle risoluzioni già prese, che in Parigi nel dì 14 d'esso mese i ministri di Cesare e dei re di Francia, Inghilterra e Sardegna reclamarono forte, e conchiusero di continuare più ardentemente che mai le ostilità contro la Spagna, se il re non si arrendeva al trattato suddetto di Londra. Aveano esse potenze già prescritto tre mesi di tempo alla cattolica maestà per risolvere; laonde il piissimo re, desideroso anch'egli di restituir la pace all'Europa, nel dì 16 del suddetto gennaio abbracciò interamente il predetto trattato di Londra con tutte le sue condizioni; e questa sua real volontà, esposta nel dì 17 di febbraio all'Haia, riempiè di consolazione tutti gli amatori della pubblica quiete. Vero è che il re cattolico Filippo V cedette all'Augusto Carlo VI ogni sua pretensione e diritto sopra la Sicilia, coll'annullare ancora il partito della reversione, in caso della mancanza di maschi, nell'austriaca famiglia. Parimente vero è, che cedette al re Vittorio Amedeo il regno della Sardegna; ma questi regni non li possedeva esso re Cattolico prima della presente guerra. All'incontro, in favore d'esso monarca fu stabilito, che venendo a vacare per mancanza [299] di discendenti maschi il gran ducato di Toscana, e i ducati di Parma e Piacenza, in essi succederebbero i figli maschi legittimi e naturali della regina Elisabetta Farnese, moglie di sua maestà Cattolica, escludendone solamente chi di essi e loro discendenti arrivasse ad essere re di Spagna; con patto nondimeno che tali ducati fossero riconosciuti per feudi imperiali; e che intanto per maggior sicurezza vi si mandassero presidii di Svizzeri. Parve a molti cosa strana che i potentati dell'Europa disponessero con tanto dispotismo degli Stati altrui, e viventi anche i lor principi naturali, coll'imporre in oltre ad essi il giogo de' suddetti presidii. Se ne lagnarono, spezialmente il sommo pontefice Clemente XI, che allegava tante ragioni della camera apostolica sopra Parma e Piacenza; e a questo fine il santo padre, nel febbraio di quest'anno, spedì alla corte di Vienna monsignore Alessandro Albani suo nipote, con commissione di difendere i diritti della santa Sede. Pretendeva altresì il gran duca di Toscana Cosimo III, che il dominio fiorentino non fosse soggetto a leggi feudali dell'imperio, e che a lui stesse ad eleggere il successore. Gran dibattimento era stato per questo in Firenze, dove quei ministri pensavano di poter risuscitare il nome e la libertà dell'antica repubblica. Dichiarò pertanto il gran duca, che, mancando di vita don Giovanni Gastone gran principe, unico suo figlio maschio, a lui succederebbe la vedova elettrice palatina Anna Maria Luigia parimente figlia sua. Spedì anche un ministro a tutte le corti per reclamare e rappresentar le sue ragioni. Ma dappertutto si trovarono orecchie sorde, e al gran duca convenne prendere la legge dagli altri potentati, i quali, con disporre di quegli Stati, si crederono di esentar l'Italia da altre guerre e disavventure.

In vigore dunque della pace suddetta il cesareo generale conte di Mercy avea fatto intendere al marchese di Leede generale spagnuolo, che conveniva disporsi [300] ad evacuar la Sicilia; ma perchè il Leede si mostrava tuttavia allo scuro del conchiuso trattato, nel dì 28 di aprile il Mercy si mosse contro il campo spagnuolo in vicinanza di Palermo. Furono presi alcuni piccioli forti, che coprivano le trincee nemiche; ma essendo in procinto i cesarei nel dì 2 di maggio, di maggiormente svegliare gli addormentati Spagnuoli, marciando in ordinanza contra di essi: tanto dal campo loro che dalle mura della città si cominciò a gridar Pace, pace. Pertanto, nel dì 6 di esso mese fra i due generali, coll'intervento dell'ammiraglio inglese Bing, fu stabilito e sottoscritto l'accordo, cioè pubblicata una sospension d'armi, e regolato il trasporto delle truppe spagnuole fuori della Sicilia e Sardegna sulle coste della Catalogna. Dopo di che nei giorni concertati presero le truppe imperiali il possesso della real città di Palermo, del Molo e di Castello a Mare fra le incessanti acclamazioni di quel popolo. Anche le città di Agosta e di Siracusa a suo tempo furono consegnate agli uffiziali cesarei. Poscia nel dì 22 di giugno cominciarono le milizie spagnuole imbarcate nei legni di loro nazioni a spiegar le vele verso Barcellona. Circa cinquecento Siciliani presero anche essi l'imbarco per non soggiacere ad aspri trattamenti o a funesti processi; e i lor beni furono perciò confiscati, a cagione del loro operato contro dell'imperadore. Tornò dunque a rifiorire la quiete in quel regno. Essendo stato spedito in Sardegna il principe d'Ottaiano di casa Medici, sul principio di agosto prese il possesso di quell'isola a nome dell'Augusto monarca, con rilasciarla poscia ai ministri del re Vittorio Amedeo, le cui truppe, da che ne furono ritirate le spagnuole, entrarono in quelle piazze. Venne intanto a scoppiare in Provenza una calamità che diffuse il terrore per tutta l'Italia. La poca avvertenza del governo di Marsilia lasciò approdare al suo porto la peste, secondo il solito portata colà dai paesi turcheschi. Tanto si andò temporeggiando [301] a confessarla tale, che essa prese piede, e poi fieramente divampò fra quell'infelice popolo. A sì disgustoso avviso commossi i principi d'Italia, e massimamente i litorali del Mediterraneo, vietarono tosto ogni commercio colla Provenza; e il re di Sardegna più degli altri prese le più rigorose precauzioni ai confini dei suoi Stati, affinchè il micidial malore non valicasse i confini dell'Alpi. A lui principalmente si attribuì l'esserne poi rimasta preservata l'Italia.

Fin l'anno precedente avea Rinaldo d'Este duca di Modena ottenuta in isposa del principe Francesco suo primogenito madamigella di Valois Carlotta Aglae figlia di Filippo duca d'Orleans, reggente di Francia. Sul principio di dicembre fu pubblicato nella real corte di Versaglies questo matrimonio, dopo di che se ne procurò la dispensa dal sommo pontefice. Scelto fu il dì 12 di febbraio del presente anno, giorno penultimo di carnevale, per effettuarla. Solennissima riuscì la funzione nella real cappella, essendovi intervenuto il re Luigi XV con tutti i principi e principesse del sangue e colla più fiorita nobiltà. A nome del principe ereditario di Modena fu essa principessa sposata da Luigi duca di Chiartres suo fratello, oggidì duca di Orleans, colla benedizione del cardinale di Roano. Siccome a questa principessa furono accordate le prerogative di figlia di Francia, e nella di lei persona concorreva il pregio di essere nata da chi in questi tempi era l'arbitro del regno; così onori insigni ricevette ella in tutto il viaggio fino a Marsilia, dove non trovò peranche sentore alcuno di peste. Fu condotta da una squadra di galee franzesi, comandate dal gran priore suo fratello, sino a San Pier d'Arena. Non lasciò indietro la magnifica repubblica di Genova dimostrazione alcuna di stima per onorar lei, e in lei il reggente di Francia. Ricevette dipoi, nel suo passaggio per lo Stato di Milano, ogni maggior finezza dal conte Colloredo governatore, cavaliere, dotato di singolar gentilezza [302] e probità, e per quelli di Piacenza e Parma dalla corte Farnese. Fece finalmente essa principessa nel dì 20 di giugno la sua solenne entrata in Modena con grandiosa solennità, e per più giorni si continuarono i solazzi e le feste tanto qui che in Reggio. Nel gennaio dell'anno presente passò il cardinale Alberoni per la Linguadoca e Provenza alla volta del Genovesato; e fu detto che egli, irritato dall'aspro trattamento a lui fatto nel suo viaggio, inviasse una lettera al duca di Orleans reggente, in cui si offeriva di somministrargli i mezzi per perdere interamente e in poco tempo la Spagna; e che il reggente inviasse questo foglio al re Cattolico. Verisimilmente inventata fu una tal voce da chi gli voleva bene: che di questa mercatanzia abbonda il mondo, massimamente in tempo di discordie e di guerra. Andò egli a prendere riposo in Sestri di Levante; mentre che ognuno si credea aver da essere Roma il termine de' suoi passi, a lui fu presentata una lettera dal cardinale Paolucci segretario di Stato, in cui gli veniva vietato di farsi consecrare vescovo di Malega, benchè ne avesse ricevuto le bolle, e susseguentemente giunse altro ordine, che non osasse metter il piè nello Stato ecclesiastico.

Era esacerbato forte l'animo di papa Clemente XI contra di questo porporato, pretendendo sua santità di essere stata tradita da lui col consigliare ed incitar la corte di Spagna a muovere l'armi contro l'imperadore, dappoichè gli era stata data sì espressa parola e promessa di non toccarlo durante la guerra col Turco. Tanto più si accendeva al risentimento il pontefice, per annientare i sospetti corsi contro la sincerità e l'onor suo, quasichè egli fosse con doppiezza proceduto d'accordo col gabinetto di Spagna per burlare sua maestà cesarea. Scrisse pertanto premuroso breve al doge di Genova, incaricandolo di assicurarsi della persona del cardinale Alberoni, ad effetto di farlo poi trasportare e custodire in castello Santo [303] Angelo. Si mandarono in fatti le guardie a fermarlo in Sestri; ma sì gran copia di parziali si era procacciato nell'auge della sua fortuna in Genova, che da lì a pochi giorni prevalse in quel consiglio la risoluzione di lasciarlo fuggire; siccome avvenne, avendo poi finto que' magistrati di farlo cercare dovunque egli non era. Creduto fu che il cardinale si fosse ritirato presso uno dei liberi vassalli nelle Langhe, suo gran confidente; e forse fu così, dacchè egli sul principio scampò da Sestri: ma la verità è, ch'egli si ricoverò negli Svizzeri. Sdegnossi non poco per questo avvenimento il sommo pontefice contra dei Genovesi, i quali perciò spedirono uno de' lor nobili a Roma per placarlo, e per giustificare la lor condotta. Fu dato principio intanto ad una congregazione di cardinali, a fin di formare un rigoroso processo contra dell'Alberoni, con pretenderlo reo di sregolati costumi, di prepotenze usate verso gli ecclesiastici, e di essere stato autore dell'ultima guerra, con animo di levargli il cappello, qualora si potessero provare somiglianti reati. Ma non si perdè di animo il porporato. Scrisse varie sensate lettere (date poi alla luce, e meritevoli di essere lette) a più di uno di que' cardinali, mostrando che egli non solamente non avea approvato il disegno della guerra suddetta, ma di esservisi fortemente opposto. E giacchè egli non ebbe difficoltà di lasciar correre colle stampe una risposta datagli dal padre Daubanton confessore del re, nè pure sarà a me disdetto il ripeterla qui. Cioè esponeva esso cardinale il dolore che proverebbe il santo padre per vedersi deluso in affare di tanta importanza: al che il religioso rispose, che egli dovea consolarsi per non avervi colpa, aggiugnendo di più queste parole: Non v'inquietate, monsignore, forse il papa non ne sarà sì disgustato, come voi credete. Ma il papa appunto per tali dicerie vieppiù gagliardamente fece proseguire l'incominciato processo. Avrebbono potuto il re Cattolico ed esso padre confessore, mettere in chiaro [304] la verità o falsità di quanto asseriva il porporato in sua discolpa intorno a questi fatti; ma non si sa che la saviezza di quella real corte volesse entrare in questo imbroglio, e decidere. Solamente è noto che esso monarca passò a gravi risentimenti contro la repubblica di Genova, per aver lasciato uscir di gabbia questo personaggio, il quale intanto attese colla penna sua e de' suoi avvocati a difendersi, e ad aspettare in segreto asilo la mutazion dei venti. Le sue avventure in questi dì recavano un gran pascolo alle pubbliche gazzette e alla curiosità degli sfaccendati politici.


   
Anno di Cristo MDCCXXI. Indiz. XIV.
Innocenzo XIII papa 1.
Carlo VI imperadore 11.

Fin qui avea retto con sommo vigore e plauso la Chiesa di Dio il pontefice Clemente XI, quando piacque a Dio di chiamarlo ad un regno migliore. Avea egli in tutto il tempo del suo pontificato combattuto sempre coll'asma e con altri malori di petto e delle gambe, e più volte avea fatto temere imminente il suo passaggio all'altra vita; ma Iddio l'avea pur anche preservato al timone della sua nave in tempi tanto burrascosi per la cristianità. Appena si riaveva egli d'una infermità, che più ardente che mai tornava agli affari e alle funzioni del suo ministero non men sacro che politico. Arrivò in fine il perentorio decreto della sua partenza. Infermatosi, fra due giorni con somma esemplarità di devozione, in età di settantaun anni e quasi otto mesi, placidamente terminò il suo vivere nel dì 19 di marzo del presente anno, correndo la festa di san Giuseppe. Il pontificato suo era durato venti anni e quasi quattro mesi. Avea egli ne' giorni addietro ricevuta la consolazione di vedere riaperta in Ispagna la nunziatura, e ristabilita una buona armonia con quella real corte. Tali e tanti pregi personali e virtù cospicue s'erano unite in lui, sì riguardevoli e numerose furono le sue belle [305] azioni, che si accordano i saggi a riporlo tra i più insigni e rinomati pontefici della Chiesa di Dio. Quanto più scabrosi erano stati gli affari del governo ecclesiastico e secolare ne' giorni suoi, tanto più servirono questi a far risplender l'ingegno, la costanza, la destrezza e la vigilanza sua. Incorrotti e dati alla pietà erano stati fin dalla puerizia i costumi suoi; maggiormente illibati si conservarono sotto il triregno. Niuno andò innanzi a lui nell'affabilità ed amorevolezza. Con istrette misure amò il fratello e i nipoti, obbligandoli a meritarsi colle fatiche gli onori; e videsi in fine che più di lui si mostrarono benefici i susseguenti pontefici verso la casa Albani. Loro ancora insegnò la moderazione, col congedar da Roma la moglie del fratello, la quale si ricordava troppo di aver per cognato un pontefice romano. Grande fu la sua profusione verso dei poveri; più di ducento mila scudi impiegò in lor sollievo. Rinovò il lodevol uso di san Leone il Grande col comporre e recitare nella basilica Vaticana, in occasion delle principali solennità, varie omelie, che saran vivi testimonii anche presso i posteri della sua sacra eloquenza. Amatore dei letterati, promotore delle lettere e delle belle arti, accrebbe il lustro alla pittura, alla statuaria e all'architettura; introdusse in Roma l'arte dei musaici, superiore in eccellenza agli antichi, e la fabbrica degli arazzi, che gareggia coi più fini della Fiandra. Arricchì di manuscritti greci e d'altre lingue orientali la Vaticana; istituì premii per la gioventù studiosa; ornò d'insigni fabbriche Roma ed altri luoghi dello Stato ecclesiastico. Che più? fece egli conoscere quanto potea unita una gran mente con una ottima volontà in un romano pontefice. Il di più delle sue gloriose azioni si può raccogliere dalla Vita di lui con elegante stile latino composta e pubblicata dall'abbate Pietro Polidori; giacchè all'assunto mio non è permesso di dirne di più.

Entrarono in conclave i cardinali elettori, e colà comparve ancora il cardinale [306] Alberoni. Non s'era mai veduta sì piena di gente la piazza del Vaticano, come quel dì, in cui egli fece la sua entrata nel conclave. Concorsero poscia nel dì 8 di maggio i voti dei porporati nella persona del cardinale Michel Angelo dei Conti di nobilissima ed antichissima famiglia romana, che avea dato alla Chiesa di Dio altri romani pontefici ne' secoli addietro, il di cui fratello era duca di Poli, e il nipote duca di Guadagnola. Prese egli il nome d'Innocenzo XIII. Indicibile fu il giubilo di Roma tutta al vedere sul trono pontifizio collocato un suo concittadino, e non minore fu il plauso di tutta la cristianità per l'elezione d'un personaggio assai rinomato per la sua saviezza e pietà, per la pratica degli affari ecclesiastici e secolari, e per l'inclinazione sua alla beneficenza e clemenza. Nel dì 18 del suddetto mese con gran solennità nella basilica Vaticana ricevette la sacra corona, e quindi si applicò con attenzione al governo, e pubblicò un giubileo. Da che mancò di vita il buon Clemente XI, siccome dicemmo, uscì da' suoi nascondigli il cardinale Giulio Alberoni, secondo le costituzioni anch'egli invitato all'elezione del futuro pontefice, e non meno a lui che al cardinale di Noaglies fu inviato salvocondotto, affinchè liberamente potessero intervenire al conclave. Vi andò l'Alberoni; e, terminata la funzione, si fermò come incognito a Roma, e ricusò d'uscirne, benchè ammonito. Non tardò il novello pontefice per conto di questo porporato a far conoscere la sua prudenza congiunta insieme coll'amore della giustizia, con dire ai cardinali deputati della congregazione per processarlo: che se aveano pruove tali da poterlo condannare, tirassero innanzi, perchè darebbe mano al gastigo. Ma che se tali pruove mancassero, ordinava che si mettesse a riposare quel processo. Così in fatti da lì a qualche tempo avvenne: laonde l'Alberoni e la sua fortuna in faccia del mondo in fine nel 1723 risorse.

Diede molto da discorrere in questi [307] tempi un altro personaggio, cioè l'abbate Du-Bois, arcivescovo di Cambrai, primo ministro e favorito del duca d'Orleans reggente in Francia, che nel dì 16 di luglio venne promosso al cardinalato. Come per forza fu condotto il santo padre a conferire la sacra porpora ad uomo tale, perchè i di lui costumi tutt'altro meritavano che questo sacro distintivo del merito. Tanta nondimeno fu la pressura del duca reggente per questo suo idolo, che il buon pontefice, affinchè nei tempi correnti colla ripulsa non peggiorassero gli affari della religione in Francia, e colla speranza di ricavarne vantaggi per essa, s'indusse a sacrificare ogni riguardo all'intercessione ed impegno di sì rispettabil promotore. Chi ebbe a presentare la berretta cardinalizia a questo nuovo porporato, esegui l'ordine del santo padre di leggergli il catalogo delle azioni della sua vita passata, siccome ben note alla santità sua, con poscia dirgli che il pontefice sperava da lì innanzi un uomo nuovo nella sua persona, e che il viver suo corrisponderebbe alla dignità e al santo impiego di vescovo e cardinale. La risposta del Du-Bois fu, che il santo padre nè pur sapeva tutti i trascorsi di lui, ma che in avvenire tali sarebbero le operazioni sue, che il mondo s'accorgerebbe d'aver egli con gli abiti esterni cangiati ancora gl'interni. Come egli mantenesse la parola, nol so dir io; convien chiederlo agli storici franzesi. Certo è ch'egli divenne allora primo ministro della corte di Francia, e che il piissimo pontefice ritenne sempre come una spina nel cuore la memoria di questa sua forzata risoluzione. Poco per altro godè delle sue fortune il Du-Bois, perchè la morte venne a terminarle nell'agosto del 1725. Fece all'incontro il pontefice Innocenzo XIII risplendere la sua gratitudine verso il defunto papa Clemente XI, di cui era creatura, col conferire la sacra porpora a don Alessandro Albani, fratello del cardinale Annibale camerlengo.

Intanto continuarono i timori dell'Italia [308] per la peste di Marsilia, che dopo aver fatto strage grande in quella città, secondo il solito, quivi andò cessando. Ma s'era già estesa per tutta la Provenza, con penetrar anche nella Linguadoca, e far gran paura a Lione. Le città di Arles, Tolone, Avignone, Oranges ed altre ne rimasero fieramente afflitte. Fortuna fu che questo flagello accadesse in tempo esente dalle guerre, cioè dal passaporto, per cui esso troppo facilmente si diffonde sopra i vicini; e però tanto la corte di Francia che quella di Torino e la repubblica di Genova, con gli altri potenti, sì saggi regolamenti di forza e di precauzione adoperarono, che di questo morbo desolatore non parteciparono le altre provincie entro e fuori d'Italia. Nel dì 17 di settembre in Parigi terminò i suoi giorni in età di settantasette anni Margherita Luigia figlia di Gastone duca d'Orleans, cioè di un fratello di Luigi XIII re di Francia, e gran duchessa di Toscana. Noi vedemmo questa principessa maritata nel 1661 col gran duca Cosimo III de Medici, poscia per dispareri fra loro insorti ritirata in Francia, senza voler più rivedere la Toscana. Cessò per la sua morte un'annua pensione di quaranta mila piastre, che le pagava il gran duca, principe che in questi tempi combatteva colla vecchiaia, e fece più d'una volta temer di sua vita. Gran solennità fu in Roma nel dì 15 di novembre nel possesso preso dal sommo pontefice della chiesa Lateranese. Di questa suntuosa funzione goderono anche il principe ereditario di Modena Francesco d'Este, e la principessa Carlotta Aglae di Orleans sua consorte, i quali in quest'anno andarono girando per le città più cospicue d'Italia. Fu ancora in questi tempi pubblicato il matrimonio di madamigella di Monpensier, sorella di essa principessa di Modena, con Luigi principe di Asturias, primogenito di Filippo V re di Spagna; siccome ancora gli sponsali dell'infanta primogenita di Spagna col Cristianissimo re Luigi XV. Non avea questa ultima principessa che circa quattro anni di età, [309] laonde fu conchiuso di mandarla in Francia, per essere quivi educata, finchè fosse atta al compimento di questo matrimonio. Nel dì 13 di giugno seguì un trattato di pace e concordia fra il re Cattolico e Giorgio I re d'Inghilterra, senza che espressamente fosse ceduto alla corona d'Inghilterra il dominio dell'isola di Minorica e di Gibilterra. Ma agl'Inglesi bastò che tal cessione costasse dalla pace di Utrecht, confermata in questo trattato. Nello stesso giorno ancora si stabilì una lega difensiva fra le suddette due potenze e quella di Francia.


   
Anno di Cristo MDCCXXII. Indiz. XV.
Innocenzo XIII papa 2.
Carlo VI imperatore 12.

Godevansi in questo tempo i frutti della pace in Italia, e spezialmente le città maggiori sfoggiavano in divertimenti e solazzi, se non che durava tuttavia l'apprensione della pestilenza, che andava serpeggiando per la Provenza e Linguadoca, scemandosi nondimeno di giorno in giorno il suo corso o per mancanza di essa, o per le buone guardie fatte dai circonvicini paesi. In Roma e in altre città dai ministri di Francia e Spagna grandi allegrezze si fecero per li matrimonii del re Cristianissimo coll'infanta di Spagna, e del principe di Asturias colla figlia del duca reggente. Fu fatto nel dì 9 di gennaio il cambio di queste principesse ai confini dei regni nell'isola dei Fagiani; e l'infanta, tuttochè non per anche moglie, cominciò a godere il titolo di regina di Francia. Fece poi essa il suo ingresso a Parigi nel dì primo di marzo con quella ammirabil magnificenza che massimamente nelle funzioni straordinarie suol praticare quella gran corte. Pensò in questi tempi il re di Sardegna Vittorio Amedeo di accasare anch'egli l'unico suo figlio Carlo Emmanuele duca di Savoia, e scelse per consorte di lui Anna Cristina principessa palatina della linea de' principi di Sultzbac, figlia di Teodoro conte [310] palatino del Reno, la quale portò seco in dote, oltre alla bellezza, ogni più amabile qualità. Seguì in Germania questo illustre sposalizio, e nel mese di marzo comparve essa principessa in Italia, con ricevere per gli Stati della repubblica di Venezia e di Milano ogni più magnifico trattamento. Giunta a Vercelli, ivi trovò il re e la regina di Sardegna, che l'accolsero con tenerezza. Suntuose allegrezze dipoi decorarono il suo arrivo a Torino. Vennero nel marzo suddetto a Firenze i principi di Baviera, cioè Carlo Alberto principe elettorale, il duca Ferdinando e il principe Teodoro a visitar la gran principessa Violante loro zia, governatrice di Siena; e di là passarono i due primi a Roma, a Napoli, a Venezia e ad altre città, con ricevere dappertutto singolari onori, ancorchè secondo l'etichetta viaggiassero incogniti. Diede fine al suo vivere nel dì 12 di agosto dell'anno presente Giovanni Cornaro doge di Venezia, a cui nella stessa dignità succedette nel dì 28 di esso mese Sebastiano Mocenigo. Suntuoso armamento per terra e per mare fece in questi tempi la Porta Ottomana; e perchè insorsero non lievi sospetti nell'isola di Malta che quel turbine avesse da scaricarsi colà, il gran maestro non ommise diligenza alcuna per aver ben fortificata e provveduta di tutto il bisognevole quella città e fortezze. Chiamò colà ancora i cavalieri, ed implorò dal sommo pontefice un convenevol soccorso. Si videro poi rondare per il mare di Sicilia alquanti vascelli turcheschi, e questi anche tentarono di sbarcar gente nell'isola del Gozzo; ma ritrovata quivi buona guarnigione, il bassà comandante si ridusse a chiedere con minaccie al gran maestro la restituzione di tutti gli schiavi turchi. Ne ricevette per risposta, che questa si farebbe, qualora i corsari africani rendessero gli schiavi cristiani, ch'erano in tanto maggior numero. Se ne andarono que' Barbari, e cessò tutta l'apprensione. In fatti non pensava allora il gran signore a Malta, [311] ma bensì alle terribili rivoluzioni della monarchia persiana, che in questi tempi maggiormente bolliva per la ribellione del Mireveis. Di esse voleva profittare la Porta, ed altrettanto meditava di fare il celebre imperadore della Russia Pietro Alessiowitz.

Niun principe cattolico v'era stato che non si fosse compiaciuto dell'esaltazione del cardinale Conti al trono pontifizio. Più degli altri se ne rallegrò il re di Portogallo, giacchè in addietro non solamente era egli stato nunzio apostolico a Lisbona, ma anche nel cardinalato protettore della sua corona in Roma. Poco nondimeno stette a nascere non piccolo dissapore fra la santa Sede e quel monarca. Avea il pontefice, in vigore dei suoi saggi riflessi, richiamato dalla corte di Portogallo monsignor Bichi nunzio apostolico; ma intestossi quel regnante di non voler permettere che il Bichi se ne andasse, se prima non veniva decorato della sacra porpora, per non essere da meno dei tre maggiori potentati della cristianità, dalle corti de' quali ordinariamente non partono i nunzii senza essere alzati al grado cardinalizio. Parve al sommo pontefice sì fatta pretensione poco giusta, nè andò esente da sospetto di qualche reità lo stesso peraltro innocente nunzio Bichi, quasichè egli contro le costituzioni apostoliche volesse prevalersi della protezione di quel monarca per carpire a viva forza un premio che dovea aspettarsi dall'arbitrio e dalla prudenza del pontefice suo sovrano. Perciò s'imbrogliarono sempre più le faccende, e il papa, risoluto di conservare la sua dignità, stette saldo in richiamare il Bichi, avendo già inviato colà monsignor Firrao, il quale presentò il breve della sua nunziatura, senza prima avvertire se il predecessore lasciava a lui libero il campo. Costume fu del re di Portogallo, giacchè non poteva coll'angusta estensione del suo regno uguagliar le principali potenze della cristianità, di superarle colla magnificenza de' suoi ministri. Godeva specialmente [312] Roma della profusione de' suoi tesori, sì perchè l'ambasciator portoghese sfoggiava nelle spese, e sì ancora perchè il re, invogliatosi di avere nel suo patriarca dell'Indie un ritratto del sommo pontefice, si procacciava con man liberale ogni dì nuovi privilegii dalla santa Sede. Ora si avvisò l'ambasciatore portoghese di far paura al papa, e ito all'udienza, da che vide di non far breccia nel cuore di sua santità colle pretese ragioni, diede fuoco all'ultima bomba con dire: Che se gli era negato quella grazia o giustizia, avea ordine dal re di partirsi da Roma. A questa sparata il saggio pontefice, senza alcun segno di commozione, altra risposta non diede, se non: Andate dunque, e ubbidite al vostro padrone. Non era fin qui intervenuta una pace ben chiara che sopisse tutte le controversie vertenti fra l'imperadore e l'Inghilterra dall'un canto, e il re Cattolico dall'altro. Cioè non avea peranche l'Augusto Carlo VI autenticamente rinunziato alle sue pretensioni sopra il regno di Spagna, e nè pure il re Filippo V alle sue sopra i regni di Napoli, Sicilia, Fiandra e Stato di Milano. Per concordare questi punti si era convenuto di tenere nel presente anno un congresso in Cambrai; ma non vi si sapea ridurre il re Cattolico, patendo talvolta i monarchi troppo ribrezzo a cedere fin le speranze, non che il possesso di ogni anche menomo Stato: sì forte è l'incanto del Dominamini nel loro cuore. Faceva in questo mentre gran premura Cesare per ottener dalla santa Sede l'investitura di Sicilia e di Napoli: al che non si era saputo indurre papa Clemente XI, nè fin qui il regnante Innocenzo XIII, per l'opposizione che vi facea la corte di Spagna. Prevalsero infine i pareri della sacra corte in favore d'esso Augusto, giacchè ai diritti di lui s'aggiungeva il rilevante requisito del possesso. Pertanto nel dì 9 di giugno dell'anno presente, secondo la norma delle antiche bolle, fu data all'imperadore l'investitura dei regni suddetti: risoluzione, che quanto piacque [313] alla corte cesarea, altrettanto probabilmente dispiacque a quella di Spagna.


   
Anno di Cristo MDCCXXIII. Indizione I.
Innocenzo XIII papa 3.
Carlo VI imperatore 13.

Era già pervenuto all'età di ottantun anni e due mesi Cosimo III de Medici gran duca di Toscana, mercè della sua temperanza, perchè nella virilità divenuto troppo corpolento, abbracciata poi una vita frugale, potè condurre sì innanzi la carriera del suo vivere. Ma finalmente convien pagare il tributo, a cui son tenuti i mortali tutti. Nel dì 31 di ottobre dell'anno presente passò egli a miglior vita, con lasciare un gran desiderio di sè nei popoli suoi: principe magnifico, principe glorioso per l'insigne sua pietà, pel savio suo governo, con cui sempre fece goder la pace ai sudditi in tante pubbliche turbolenze, e procurò loro ogni vantaggio; siccome ancora per la protezion della giustizia e delle lettere, e per le altre più riguardevoli doti che si ricercano a costituire i saggi regnanti. Mirò egli cadente l'illustre sua casa per gli sterili matrimonii del fu suo fratello principe Francesco Maria, e del già defunto gran principe Ferdinando suo primogenito, e del vivente don Giovanni Gastone suo secondogenito. Vide ancora in sua vita esposti i suoi Stati all'arbitrio dei potentati cristiani, che ne disposero a lor talento, senza alcun riguardo alle alte ragioni di lui e della repubblica fiorentina, che inclinavano a chiamare a quella successione il principe di Ottaiano, discendente da un vecchio ramo della casa de Medici. Al duca Cosimo intanto succedette il suddetto don Giovanni Gastone, unico germoglio maschile della casa de Medici regnante, la cui sterile moglie Anna Maria Francesca, figlia di Giulio Francesco duca di Sassen Lawemburg, viveva in Germania separata dal marito. Mancò parimente di vita in questo anno a dì 12 di marzo Anna Cristina [314] di Baviera principessa di Sultzbach, moglie di Carlo Emmanuele duca di Savoia, dopo aver dato alla luce un principino, che venne poi rapito dalla morte nel dì 11 d'agosto del 1725. Gran duolo che fu per questo nella real corte di Torino, e sopra i medici si andò a scaricare il turbine, quasi che per aver fatto cavar sangue al piede della principessa, l'avessero incamminata all'altro mondo. Arrivò nell'aprile di quest'anno a Roma monsignor Mezzabarba, già spedito negli anni addietro alla Cina con titolo di vicario apostolico, per esaminare sul fatto i tanto contrastati riti che dai missionarii si permettevano a quei novelli cristiani. Portò seco alcuni ricchi regali, inviati da quell'imperadore al santo padre, ed insieme in una cassa il cadavero del cardinal di Tournon, già morto in Macao. Perchè restò accidentalmente bruciata una nave, su cui venivano assaissimi arredi e curiosità della Cina, Roma perdè il contento di vedere tante altre peregrine cose di quel rinomato imperio.

Godevansi per questi tempi in Italia le dolcezze della pace universale, segretamente nondimeno turbate dal tuttavia ondeggiante conflitto degl'interessi e delle pretensioni dei potentati. Ad altro non pensava la corte di Spagna che a spedire in Italia l'infante don Carlo, primogenito del secondo letto del re Filippo V, affinchè si trovasse pronto, in occasion di vacanza, a raccogliere la succession della Toscana e di Parma e Piacenza, che nei trattati precedenti gli era stata accordata. Ma perchè non compariva disposto il re Cattolico alle rinunzie che si esigevano dall'imperador Carlo VI, nè al progettato congresso di Cambrai, per ultimar le differenze, davano mai principio i plenipotenziarii di Spagna; pericolo vi fu che il suddetto Augusto spingesse in Italia un'armata per disturbare i disegni del gabinetto spagnuolo. Medesimamente in gran moto si trovava la corte di Toscana, siccome quella che non sapea digerire la destinazion di un erede di quegli Stati fatta dal [315] volere ed interesse altrui, e molto meno il progetto di metter ivi presidii stranieri durante la vita dei legittimi sovrani. Non era inferiore l'alterazione della corte pontificia per l'affare dei ducati di Parma e Piacenza, che, in difetto dei maschi della casa Farnese, aveano da ricadere alla camera apostolica; e pure ne aveano disposto i potentati cristiani in favore dei figli della Cattolica regina di Spagna Elisabetta Farnese, con anche dichiararli feudi imperiali. Non mancò il pontefice Innocenzo XIII di scrivere più brevi e doglianze alle corti interessate in questa faccenda. Fece anche fare al congresso di Cambrai per mezzo dell'abbate Rota, auditore di monsignor Massei nunzio apostolico nella corte di Parigi, una solenne protesta contro la disegnata investitura di quegli Stati. Ma è un gran pezzo che la forza regola il mondo; ed è da temere che lo regolerà anche nell'avvenire. Attendeva in questi tempi il magnifico pontefice ad arricchir di nuove fabbriche il Quirinale per comodo della corte, mentre la fabbrica del corpo, infestata da varii incomodi di salute, andava ogni di più minacciando rovina. Dopo avere il gran mastro dei cavalieri di Malta fatto di grandi spese per ben guernire l'isola contro i tentativi dei Turchi, e ottenuta promessa di soccorsi dal papa e dai re di Spagna e Portogallo, finalmente si avvide che a tutto altro mirava il gran signore col suo potente armamento. La Persia lacerata da una terribil ribellione era l'oggetto non men della Porta Ottomana che di Pietro insigne imperador della Russia, essendosi sì l'una che l'altro preparati per volgere in lor pro la strepitosa rivoluzion di quel regno, che in questi tempi era il più familiar trattenimento dei novellisti d'Italia. Nel dì 2 di dicembre dell'anno presente da morte improvvisa fu rapito Filippo duca d'Orleans reggente, e poi ministro del regno di Francia: principe che in perspicacia di mente e prontezza d'ingegno non ebbe pari. Coll'aver conservato la vita del re Luigi XV, e fattolo coronare, smontò [316] ogni calunnia inventata contro la sua fedeltà ed onore. Colse il duca di Borbone il buon momento, e portata al re la nuova della morte d'esso duca di Orleans, ottenne di essere preso per primo ministro.


   
Anno di Cristo MDCCXXIV. Indizione II.
Benedetto XIII papa 1.
Carlo VI imperadore 14.

Grande strepito per Italia fece nell'anno presente l'atto eroico del Cattolico re Filippo V. Questo monarca fin da' suoi primi anni imbevuto delle massime della più soda pietà, che egli poi sempre accompagnò colle opere, stanco e sazio delle caduche corone del mondo, prese la risoluzione di attendere unicamente al conseguimento di quella corona che non verrà mai meno nel regno beatissimo di Dio. Perciò, dopo avere scritta a don Luigi principe di Asturias suo primogenito una sensata ed affettuosissima lettera, in cui espresse i principali doveri d'un saggio re cristiano, nel dì 16 di gennaio solennemente gli rinunziò il governo dei regni, dichiarandolo re. Riserbossi il solo palazzo e castello di Sant'Idelfonso col bosco di Bulsain, e una pensione annua di cento mila doble per sè e per la regina sua moglie Elisabetta Farnese. Di convenevoli appannaggi provvide gl'infanti figli, cioè don Ferdinando, don Carlo e don Filippo. Grande animo si esige per far somiglianti sacrifizii, maggiore per non se ne pentire. Con somma saviezza e plauso continuava il suo pontificato Innocenzo XIII, ed era ben degno di più lunga vita, quando venne Dio a chiamarlo ad una vita migliore. Infermatosi egli sul principio di marzo, terminò poi nella sera del dì 7 d'esso mese i suoi giorni con dispiacere universale, e massimamente del popolo romano. Benchè egli fosse modestissimo ed umilissimo, pure amava la magnificenza, e niun più di lui seppe conservare la dignità pontificia. Maestoso nel portamento, senza mai adirarsi o scomporsi, con poche parole, ma gravi, [317] e sempre con prudenza, rispondeva e sbrigava gli affari. In lui si mirava un vero principe romano, ma di quei della stampa vecchia. Resta perciò tuttavia una vantaggiosa memoria del saggio suo governo; governo bensì breve, ma pieno di moderazione, e che potè in parte servir di esempio a' suoi successori.

Aprissi dipoi il sacro conclave, e non pochi furono i dibattimenti e gl'impegni per provvedere d'un nuovo pastore la greggia di Cristo. Videsi anche allora come i consigli umani cedono all'occulta provvidenza che governa il mondo e la Chiesa sua santa; perciocchè caddero tutti i pretendenti a quella suprema dignità, e andò a terminare inaspettatamente la concorde elezione in chi non pensava al triregno, nè punto lo desiderava, anzi fece quanta resistenza potè per non accettarlo, e sarebbe anche fuggito, se avesse potuto. Fu questi il cardinale Vincenzo Maria Orsino, di una delle più illustri famiglie romane, che quattro sommi pontefici avea dato nei secoli addietro alla Chiesa di Dio. Suo nipote era il duca di Gravina. Nato egli nel febbraio del 1649, conservava tuttavia gran vigore di mente e di corpo. Nell'ordine dei predicatori aveva egli fatto professione, ed anche attese a predicare la parola di Dio. In età di ventitrè anni era stato promosso alla sacra porpora da Clemente X. Fu prima vescovo di Siponto, poi di Cesena, e in questi tempi si trovava arcivescovo di Benevento. Ciò che mosse i sacri elettori ad esaltare quasi in un momento questo personaggio, fu il credito della sua sempre incolpata vita, della sua incomparabil pietà e zelo ecclesiastico, e del suo sapere: doti singolari, delle quali avea dato di grandi pruove in addietro nel suo pastoral governo. Convenne chiamare il generale dei domenicani, riconosciuto sempre da lui per superiore, acciocchè gli ordinasse in virtù di santa ubbidienza di accettare il papato. Prese egli il nome di Benedetto XIII in venerazione di Benedetto XI, pontefice di santa vita e dello stesso ordine [318] di San Domenico. La sua gratitudine verso tutti i cardinali concorsi all'elezione sua maggiormente attestò le qualità dell'ottimo suo cuore; spezialmente stese la beneficenza sua verso i due cardinali Albani.

Correano già molti anni che il fisco imperiale si manteneva in possesso della città di Comacchio e suo distretto. Agitata in Roma la controversia di chi ne fosse legittimo padrone, o la camera apostolica o il duca di Modena (la cui nobilissima casa estense da più secoli riconosceva quella città dalle investiture cesaree, e non già dalle pontificie), tuttavia restava pendente. Fece il saggio pontefice Innocenzo XIII ogni sforzo per ricuperarne il possesso, ben consapevole di che conseguenza sia, in materia massimamente di Stati, questo vantaggio, ed avea già disposta la corte imperiale a sì fatta cessione. Ma non potè esso papa godere il frutto dei suoi maneggi, perchè rapito troppo presto dalla morte. Diede compimento a questo affare il suo successore Benedetto XIII nel dì 25 di novembre dell'anno presente, con accordare a sua maestà cesarea le decime ecclesiastiche per tutti i suoi regni, con rilasciare tutte le rendite percette, e poscia premiare con un cappello cardinalizio il figlio del conte di Sinzendorf, primo ministro cesareo, che avea cooperato non poco all'accordo. Fu dunque conchiusa in Roma fra i cardinali Paolucci e Cinfuegos plenipotenziarii delle parti la restituzione del possesso di Comacchio alla santa Sede, con espressa dichiarazione nondimeno: Possessionem Comacli a sacra Caesarea majestate eo dumtaxat pacto dimitti, ut in eamdem Sedes apostolica restituatur, ut prius, ita scilicet, ut neque eidem Sedi apostolicae per hanc restitutionem aliquid novi juris tributum, neque Imperio, vel domui Atestianae quidquam juris sublatum esse censeatur; sed sacrae Caesareae majestatis, et Imperii, domusque Atestinae jura omnia tam respectu possessorii, quam petitorii, salva remaneant, neminique ex hoc actu praejudicium [319] ullum irrogatum intelligatur, usquedum cognitum fuerit, ad quem Comaclum pertineat. Fu poi data esecuzione a questo trattato nel dì 20 di febbraio dell'anno seguente. Se ne rallegrò tutta Roma; non così la casa d'Este. Correndo il dì 25 di marzo di quest'anno arrivò al fine di sua vita in Torino madama reale Maria Giovanna Batista figlia di Carlo Amedeo duca di Nemours e d'Aumale, e madre del re di Sardegna Vittorio Amedeo, in età d'anni ottanta. Non volle ulteriormente differire quel real sovrano il nuovo accasamento del duca di Savoia Carlo Emmanuele suo figlio, e gli scelse per moglie Polissena Cristina figlia di Ernesto Leopoldo langravio di Assia-Rheinfelds Rotemburgo; e venuto il luglio del presente anno, si mise essa in viaggio alla volta d'Italia. Portatosi il re Vittorio col figlio e con tutta la corte in Savoia, accolse, dopo la metà di agosto, la nuora in Tonon, e colla maggior solennità la introdusse a suo tempo in Torino.

Videsi intanto un'impensata vicenda delle cose del mondo nella corte di Spagna. Sorpreso dai vaiuoli il re Luigi, dopo aver goduto per poco più di sette mesi il regno, terminò in età di diecisette anni il corso della vita, e fu dalle lagrime d'ognuno onorato il suo funerale. Avrebbe, secondo le costituzioni, dovuto a lui succedere il principe don Ferdinando suo fratello; ma trovandosi egli in età non peranche capace di governo, il real consiglio supplicò il re Filippo V di ripigliar le redini, richiedendo ciò la pubblica necessità. Volle sua maestà ascoltare anche il parer dei teologi, e trovatolo non conforme al sentimento del consiglio, restò in grande perplessità. Contuttociò prevalsero le ragioni che il richiamarono al regno, e però nel dì 6 di settembre pubblicò un decreto, ossia una protesta di riassumere lo scettro, come re naturale e proprietario, finchè il principe di Asturias don Ferdinando fosse atto al governo, riserbandosi nulladimeno la facoltà di continuare nel regno, se così portasse il pubblico [320] bene; siccome dipoi avvenne, avendo egli governato, finchè visse, con somma saviezza ed attenzione i suoi regni. Giacchè il seguente anno era destinato al solenne giubileo di Roma, già intimato alla cristianità, il santo pontefice Benedetto XIII ne fece con tutta divozion l'apertura verso il fine di dicembre, cioè nella vigilia del santo Natale. Pubblicò ancora la risoluzione sua di celebrare nella domenica in Albis del seguente anno un concilio provinciale nella basilica Lateranense, con invitarvi i vescovi compresi nella provincia romana, e tutti i suggetti a dirittura alla santa Sede.


   
Anno di Cristo MDCCXXV. Indizione III.
Benedetto XIII papa 2.
Carlo VI imperadore 15.

Con gran concorso di pellegrini divoti fu celebrato nel presente anno in Roma il solenne giubileo, e fra gli altri cospicui personaggi concorse a partecipar di queste indulgenze la vedova gran principessa di Toscana Violante di Baviera, la quale se ricevette le maggiori finezze dal sommo pontefice e da tutta quella nobiltà, lasciò anch'ella ivi un'illustre memoria della sua insigne pietà e liberalità. Grande occasione fu questo giubileo al santo padre Benedetto XIII di esercitar pienamente le tante sue virtù, delle quali parleremo andando innanzi. E siccome egli era indefesso in tutto ciò spezialmente che riguarda la religione, così nel dì 15 di aprile diede principio nella basilica Lateranense al concilio provinciale, a cui intervenne gran copia di cardinali, vescovi ed altri prelati. Vi si fecero bellissimi regolamenti intorno alla disciplina ecclesiastica, essendo state prima ben ventilate le materie in varie congregazioni dei più assennati teologi. Volle il sommo pontefice che i vescovi non sentissero il peso della lor dimora in Roma, con far somministrar loro le spese dalla camera apostolica. Nel dì 5 di giugno fu posto fine a quella sacra assemblea, ammirata e benedetta [321] da tutto il popolo romano, che da tanti anni indietro non ne avea mai goduta la maestà. In questi medesimi giorni il Campidoglio romano rinovò un'illustre cerimonia non più veduta dopo il tempo di Francesco Petrarca. Cioè dal senatore e dai conservatori del popolo fu con gran solennità conferita la corona d'alloro al cavalier Bernardino Perfetti Senese, poeta rinomato pel possesso delle scienze migliori, e massimamente per la sua impareggiabile facilità ad improvvisare in versi italiani, e versi pieni di sugo e non di sole frasche. Onorarono quella funzione parecchi porporati e la suddetta gran principessa di Toscana. Non trascurò intanto il buon pontefice alcun mezzo per frastornare i disegni dei potentati sopra Parma e Piacenza; ma con poca fortuna, essendo improvvisamente scoppiata una pace stabilita in Vienna fra l'imperadore e il re Cattolico, senza che vi s'interponessero coronati mediatori, e senza aver cura degl'interessi dei principi alleati. Come questa nascesse, gioverà saperlo.

S'era fin qui nel congresso di Cambrai fatto un gran cambio di parole e ragioni fra i ministri delle corone per giugnere ad una vera pace universale. Ma una remora troppo possente era sempre l'affare di Minorica e Gibilterra; pretendendone gli Spagnuoli la restituzione, benchè ne avessero fatta in Utrecht la cessione, e negandola gl'Inglesi; di modo che apparenza non v'era di sciogliere questo nodo, per cui tutti gli altri restavano sospesi. Avvenne che il baron di Ripperda Giovanni Guglielmo, uomo ardito olandese, che, come i razzi, fece dipoi una luminosa ma assai breve comparsa nel teatro del mondo, segretamente mosse parola in Vienna di una pace privata fra l'imperador Carlo VI e il re Cattolico Filippo V; e questa non cadde in terra. Premeva a sua maestà cesarea di mettere fine ad ogni pretension della Spagna sopra gli Stati di Napoli, Sicilia, Milano e Fiandra. Più era vogliosa la corte di Spagna di risparmiare una chiara rinunzia a [322] Gibilterra e Minorica, e di assicurare all'infante don Carlo la succession della Toscana e di Parma e Piacenza: al che spezialmente porgeva continui impulsi la regina Elisabetta Farnese, intenta al bene degli infanti suoi figli; e tanto più per udirsi infestata da molti incomodi la sanità del gran duca Giovanni Gastone de Medici. Posta tale vicendevole disposizione d'animi, non riuscì difficile lo strignere l'accordo. Fu esso stipulato in Vienna nel dì 30 di aprile, e l'impensata sua pubblicazione sorprese ognuno: tanta era stata la segretezza del trattato. La sostanza principale di quegli articoli consisteva nella rinunzia fatta da Cesare a tutti i suoi diritti sulla corona di Spagna, con ritenerne il solo titolo, sua vita durante; e a stabilire che essa corona non si avesse mai ad unire con quella di Francia. All'incontro anche il re Cattolico Filippo V rinunziava in favore dell'augusta casa d'Austria tutte le sue ragioni sopra Napoli, Sicilia, Stato di Milano e Fiandra, siccome anche annullava il patto della reversione pel regno di Sicilia. Un altro importantissimo punto ancora si vide assodato. Nel dì 6 di dicembre dell'anno precedente avea l'imperadore Carlo VI formata e pubblicata una prammatica sanzione, per cui, in difetto di maschi, era chiamata all'intera successione di tutti i suoi regni e Stati l'arciduchessa Maria Teresa sua primogenita con vincolo di fideicommisso e maggiorasco: decreto che venne poi accettato e confermato da tutti i tribunali dei suoi dominii. Ora anche il re Cattolico accettò la stessa prammatica sanzione, obbligandosi di esserne garante e difensore. Finalmente fra le parti fu accordato, che venendo a mancare la linea mascolina del gran duca di Toscana, e del duca di Parma e di Piacenza, si devolverebbono i loro Stati colla qualità di feudi imperiali all'infante don Carlo primogenito della regina di Spagna Elisabetta Farnese, restando il porto di Livorno libero sempre, come si trovava in questi tempi. Seguì parimente una lega [323] e un trattato di commercio fra i suddetti sovrani. Nel dì 7 di giugno di quest'anno con altri atti fu confermata la suddetta concordia, accolta precedentemente con isdegno da chi ne era rimasto escluso; e massimamente perchè Cesare si obbligò di non opporsi, in caso che la Spagna tentasse di ricuperar colla forza Minorica e Gibilterra. Quei nobili Spagnuoli che aveano seguitato l'Augusto Carlo in Germania, e in vigore di questa pace se ne tornarono in Ispagna a godere i lor beni liberati dalle unghie del fisco, trovarono pregiudiziale la mutazion del clima; perchè infermatisi, in men di un anno cessarono di vivere.

Nella primavera dell'anno presente diede la corte di Francia non poco da discorrere ai politici. Un'infermità sopraggiunta al giovane re Luigi XV in grande apprensione ed affanno avea tenuto tutti i sudditi suoi, amantissimi sopra gli altri popoli de' loro monarchi. Perfettamente si riebbe la maestà sua; ma questo pericolo fece conoscere al suo ministero la necessità di non differir maggiormente di procurare al re una consorte che conservasse e propagasse la sua discendenza. Dimorava in Parigi l'infanta di Spagna, a lui destinata in moglie, che già per tale speranza godeva il titolo di regina; ma questa principessa avea solamente nel dì 31 di marzo compiuto l'anno settimo dell'età sua, e troppo perciò conveniva aspettare, acciocchè fosse atta alle funzioni del matrimonio. Fu dunque presa la risoluzione di rimandarla con tutto decoro in Ispagna; nè si tardò ad eseguirla. Per atto sì inaspettato restarono talmente amareggiati il re e la regina di Spagna, che richiamarono tosto da Parigi i lor ministri, e rimandarono anch'essi in Francia madama di Beaujolais, figlia del fu duca d'Orleans reggente, la quale avea da accoppiarsi in matrimonio coll'infante don Carlo; e questa poi s'unì nel viaggio colla sorella, vedova del defunto re di Spagna Luigi, la qual parimente se ne tornava a Parigi. Contribuì [324] non poco questa rottura ad accelerar la pace suddetta fra l'imperadore e il re Cattolico. Fu allora che la gente curiosa prese ad indovinare qual principessa avrebbe la fortuna di salire sul trono di Francia; ma niuno vi colpì. Con istupore d'ognuno s'intese dipoi che il re, o, per dir meglio, il duca di Borbone primo ministro avea prescelta la principessa Maria figlia di Stanislao re di Polonia, ma di solo nome. Videsi questa principessa, nel mese di settembre, condotta con gran pompa da Argentina al talamo reale. Attendendo in questi tempi il pontefice Benedetto XIII non meno al pastoral governo che all'economia de' suoi Stati, pubblicò nel dì 15 d'ottobre una utilissima bolla intorno all'annona di Roma e all'agricoltura di que' paesi. Non così fu applaudita nel giugno di questo anno la promozione alla sacra porpora da lui fatta di monsignor Niccolò Coscia, prevedendo già i più saggi che questo personaggio, favorito non poco dall'ottimo pontefice, si sarebbe col tempo abusato della confidenza e bontà del santo padre, il quale non mai dicendo basta alla gratitudine sua, volle premiare l'antica servitù di questo soggetto, e col tempo gli procacciò anche il ricco arcivescovato di Benevento. S'egli fosse meritevole di tanti favori, ce ne avvedremo andando innanzi.


   
Anno di Cristo MDCCXXVI. Indizione IV.
Benedetto XIII papa 3.
Carlo VI imperadore 16.

Da che fu alzato alla dignità pontifizia il cardinale Orsino, uno spettacolo insolito, che tirava a sè gli occhi d'ognuno, era la sua maniera di vivere. Non solamente il pontefice nulla avea sminuito dell'umiltà, virtù la più favorita di Benedetto XIII, ma parea che l'avesse accresciuta. Non sapeva egli accomodarsi a quella pompa e magnificenza che vien creduta un ingrediente necessario per maggiormente imprimere ne' popoli il [325] rispetto dovuto a chi è insieme sommo pontefice e principe grande. Sui principii bramò egli d'uscir di palazzo senza guardie, e come povero religioso in una chiusa carrozza, per andare alle frequenti sue visite delle chiese e degli spedali, oppure al passeggio. Gli convenne accomodarsi al ripiego de' più saggi, cioè di portarsi alle sue divozioni accompagnato da un semplice cappellano con poche guardie, recitando egli nel viaggio la corona ed altre orazioni. Cassò nondimeno, come creduta da lui superflua, la compagnia delle lancie spezzate. Chi entrava nella camera sua penava a trovarvi un romano pontefice, perchè non v'erano addobbi o tappezzerie, ma solamente sedie di paglia ed immagini di carta con un Crocefisso. Andava talvolta a pranzo nel refettorio de' padri domenicani della Minerva, come un di essi, altra distinzion non ammettendo di cibo o di sedia, se non che stava solo ad una delle tavole. Al generale d'essi religiosi, ch'egli riguardava sempre come suo superiore, non isdegnava di baciar la mano. Non volle più che gli ecclesiastici, venendo alla sua udienza, gli s'inginocchiassero davanti. Intervenne talvolta al coro coi canonici in San Pietro, o pure nel coro dei religiosi; senz'altra distinzione che di sedere nel primo luogo sotto piccolo baldacchino.

Lungo sarebbe il registrare i tanti atti dell'umiltà sì radicata in lui, che sembravano forse eccessi agli occhi di chi era avvezzo a mirar la maestà e splendidezza de' suoi antecessori, ma non già agli occhi di Dio. Eminente ancora si facea conoscere in questo pontefice il suo staccamento dai legami del sangue e dell'interesse. Amava molto il duca di Gravina suo nipote, e qualche poco anche il di lui fratello Mondillo; ma troppo abborriva il nepotismo. Niun d'essi volle egli al palazzo, molto meno gli mise a parte alcuna del governo; tuttochè, per giudizio de' saggi, meglio fosse stato per la santità sua il valersi del primo, cioè [326] d'un degno e virtuoso signore, che di altre persone alzate agli onori, le quali, unicamente curando i proprii vantaggi, trascurarono affatto l'onore e la gloria del loro benefattore. Solamente promosse all'arcivescovato di Capoa il nipote minore; e questo non per suo genio, ma per le tante batterie di chi favoriva la casa Orsina, e stette più forte contro tante altre usate per impetrargli il cardinalato. Amantissimo della povertà il santo padre, non per altro cercava il danaro che per diffonderlo sopra i poveri, o per esercitar la sua liberalità e gratitudine. Al cattolico re d'Inghilterra Giacomo III Stuardo accrebbe l'appannaggio, e donò tutti i magnifici mobili del pontefice suo predecessore, ascendente al valore di trenta mila scudi. Per far limosine avrebbe venduto, se avesse potuto, fino i palagi; e intanto egli dedito alle penitenze e ai digiuni, non volendo che una povera mensa, convertiva in sovvenimento degl'infermi e bisognosi i regali e le rendite particolari che a lui provenivano. Faceva egli nel medesimo tempo l'uffizio di vescovo e parroco, conferendo la cresima e gli ordini al clero, benedicendo chiese ed altari, assistendo ai divini uffizii e al confessionale, visitando non solamente i cardinali infermi, ma talvolta ancora povera gente, e comunicando di sua mano la famiglia del palazzo. Queste erano le delizie dell'indefesso e piissimo successore di san Pietro, non lasciando egli perciò di accudire al buon governo politico de' suoi Stati, e alla difesa ed aumento della religione.

Abitava da gran tempo in Roma il suddetto re Giacomo, favorito dai pontefici ed onorato da ognuno per l'alta qualità del suo grado. L'aveva Iddio arricchito di due figliuoli, principi di grande espettazione. Ma erano sopravvenute in addietro dissensioni fra lui e la regina sua consorte Clementina Sobieschi, a cagione delle quali questa piissima principessa s'era ritirata nel monistero di Santa Cecilia, pretendendo che il marito avesse da licenziar [327] dalla sua corte alcune persone per giusti sospetti da essa non approvate. Si erano interposti i più attivi e manierosi porporati, e principi e principesse, per la riunione d'essi, ma con sempre inutili sforzi. Lo stesso pontefice Benedetto XIII non avea mancato d'impiegare i suoi più caldi uffizii a questo fine; negava anche l'udienza al re, persuaso che la ragione fosse dal canto della regina. Ora quando la gente credea rinata fra loro la pace, giacchè era seguito un abboccamento di questi reali consorti, all'improvviso si vide partir da Roma nel mese di ottobre il re coi figli, e passar ad abitare in Bologna, dove prese un palazzo a pigione. Però la compassion di ognuno si rivolse verso l'afflitta regina sua moglie, e il papa cominciò a negare al re la rata della pensione a lui accordata. Motivi all'incontro di somma allegrezza ebbe in questi tempi la real corte di Torino, per aver la duchessa moglie di Carlo Emmanuele duca di Savoia, e nuora del re Vittorio Amedeo, dato alla luce nel dì 26 di giugno un principe, che oggidì col nome di Vittorio Amedeo Maria, primogenito del re suo padre, gareggia mercè delle sue nobili qualità coi più illustri suoi antenati. All'incontro fu in quest'anno la nobilissima città di Palermo, capitale della Sicilia, un teatro di calamità. Nel principio della notte nel dì primo di settembre si udì quivi nell'aria un mormorio terribile e continuo, che durato per un quarto d'ora, cagionò uno spavento universale, atteso che il cielo era sereno, senza vento e senza apparenza alcuna di tempo cattivo. Furono anche vedute in aria due travi di fuoco, che andarono poi a sommergersi in mare. Erano le quattro ore della notte, quando un orribil tremuoto per lo spazio di due Pater noster a salti fece traballare tutta la città. Fu scritto, che la quarta parte d'essa fu rovesciata a terra. File intere di case e botteghe si videro ridotte ad un mucchio di sassi; assaissime altre rimasero sommamente danneggiate e minaccianti rovina. Spezialmente ne patì il palazzo reale, [328] di cui molte parti caddero, talmente che restò per un tempo inabitabile. La cattedrale ed alcun'altra chiesa gran danno ne soffrirono; e dalle rovine di quella città furono tratte ben tre mila persone o morte o ferite. Corse per l'Italia la relazione di sì funesto spettacolo che metteva orrore in chiunque la leggeva; ma persone saggie di Palermo a me confessarono, aver la fama accresciuto di troppo le terribili conseguenze di quel tremuoto, ed essere stato minore di quel che si diceva, l'eccidio. Intento sempre lo augusto monarca Carlo VI al bene e vantaggio dei suoi sudditi d'Italia, procurò in quest'anno, coll'interposizione della Porta Ottomana la pace e libertà del commercio fra i suoi Stati, e il bey o dey di Tunisi, e la reggenza di quella città. Gli articoli ne furono conchiusi nel dì 23 di settembre. Altrettanto ancora ottenne egli dalla reggenza di Tripoli, in modo che le navi di sua bandiera doveano in avvenire andar sicure dagl'insulti di quei corsari. Con qual fedeltà poi essi Barbari, troppo avvezzi al mestiere infame della pirateria, eseguissero somiglianti trattati, lo sanno i poveri cristiani. Sempre sarà (non si può tacere) vergogna dei potentati della cristianità sì cattolici che protestanti, il vedere che in vece di unir le lor forze per ischiantar, come potrebbono, quei nidi di scellerati corsari, vanno di tanto in tanto a mendicar da essi con preghiere e regali, per non dire con tributi, la loro amistà, che poscia alle pruove si trova sovente inclinare alla perfidia. Tante vite di uomini, tanti milioni s'impiegano dai cristiani per far guerra fra loro: perchè non volgere quell'armi contro i nemici del nome cristiano, turbatori continui della quiete e del commercio del Mediterraneo? Di più non ne dico, perchè so che parlo al vento.

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Anno di Cristo MDCCXXVII. Indizione V.
Benedetto XIII papa 4.
Carlo VI imperadore 17.

Giunse al fine di sua vita il dì 26 di febbraio dell'anno presente Francesco Farnese duca di Parma e Piacenza, nato nel dì 19 di maggio del 1678; principe che avea acquistato il credito di rara virtù e di molta prudenza nel governo dei suoi popoli. Ancorchè, per esser difettoso di lingua, ammettesse pochi all'udienza sua, pure, non meno per sè che per via d'onorati ministri, accudì sempre all'amministrazion della giustizia, e mantenne la quiete nei suoi Stati, avendogli servito non poco a conservarlo immune dai guai fra i pubblici torbidi la parzialità e riguardo che aveano per lui le corti d'Europa, a cagione della generosa regina di Spagna Elisabetta sua nipote ex fratre, e figlia della duchessa Dorotea sua propria moglie. A lui succedette nel ducato il principe Antonio suo fratello, nato nel dì 29 di novembre del 1679. A questo principe (giacchè il fratello duca avea perduta la speranza di ricavar successione dal matrimonio suo) più volte s'era progettato di dar moglie, affinchè egli tentasse di tenere in piedi la vacillante sua nobil casa; ma sempre in fumo si sciolse ogni suo trattato, per non accordarsi i fratelli nell'appannaggio che egli pretendeva necessario al suo decoro nella mutazion dello stato. Così i poco avveduti principi d'Italia, per volere ristretta nella sola linea regnante la propagazion del loro sangue, e col non procurare che una linea cadetta possa ammogliandosi supplire i difetti eventuali della propria, han lasciato venir meno la nobilissima lor prosapia con danno gravissimo anche de' popoli loro sudditi. Erano assai cresciuti gli anni addosso al duca Antonio, aveva egli anche ereditata la grassezza del padre; pure tutti i suoi ministri, e del pari la corte di Roma, l'affrettarono tosto a scegliersi una consorte abile a rendere frutti. Fu [330] dunque da lui prescelta la principessa Enrichetta d'Este figlia terzogenita di Rinaldo duca di Modena, avendo anche questo principe sacrificato ogni riguardo verso le figlie maggiori per la premura di veder conservata la riguardevol casa Farnese. Dugento mila scudi romani furono accordati in dote a questa principessa, e sul fine di luglio si pubblicò esso matrimonio, con ottenere la necessaria dispensa da Roma per la troppa stretta parentela. Ognun si credeva che grande interesse avesse il duca Antonio di unirsi senza perdere tempo colla disegnata sposa; pure con ammirazione e dolor di tutti si vide differita questa funzione sino al febbraio del seguente anno.

Al marchese di Ormea, ministro di rara abilità di Vittorio Amedeo re di Sardegna, riuscì in quest'anno di superar tutte le difficoltà che fin qui aveano impedito l'accordo delle differenze vertenti fra la sua corte e quella di Roma. Il buon pontefice Benedetto XIII, nel cui cuore non allignavano se non pensieri e desideri di pace, non solamente condiscese a riconoscere per re di Sardegna esso sovrano, ma eziandio gli accordò non poche grazie e diritti, contrastati in addietro dai suoi due predecessori. Era poi gran tempo che questo papa ardeva di voglia di portarsi a Benevento, parte per consacrar ivi una chiesa fabbricata in onore di San Filippo Neri, alla cui intercessione si protestava egli debitor della vita, allorchè restò seppellito sotto le rovine del tremuoto di quella città; e parte per consolare colla sua presenza il popolo beneventano, per cui egli conservò sempre un amore che andava anche agli eccessi; e tanto più perchè riteneva tuttavia quell'arcivescovato. Per quanto si affaticassero i porporati per attraversare questo suo dispendioso disegno, non vi fu ragione che potesse distornarlo dalla presa risoluzione. Dopo aver dunque fatto un decreto, che, in caso di sua morte, il sacro collegio tenesse il conclave in Roma, nel marzo di quest'anno si mise [331] in viaggio a quella volta con picciolo accompagnamento di gente, ma con gran copia di sacri ornamenti e regali per le chiese di Benevento, e gran somma di danaro per riversarlo in seno dei poveri. Due corsari, informati del suo viaggio, sbarcarono a Santa Felicita; ma il colpo andò fallito, e si sfogò poscia il lor furore sopra que' poveri abitanti. Giunse a Benevento il santo padre nel dì primo di aprile. Gran concorso di popolo fu a vederlo ed ossequiarlo; e siccome egli di nulla più si compiaceva, che delle funzioni episcopali, così impiegò ivi il suo tempo in consecrar chiese ed altari, in predicare, in amministrare sacramenti, in servire i poveri alla mensa, e in altri piissimi impieghi del genio suo religioso. Nel dì 12 di maggio fece poi partenza di colà, e pervenuto a San Germano nel dì 18, quivi con gran solennità consecrò la chiesa maggiore. Fu in Monte Casino, dove, come se fosse stato semplice religioso, gareggiò coll'esemplarità e pietà di que' monaci, assistendo anch'egli al coro della mezza notte. Gran consolazione si provò in Roma all'arrivo della santità sua in quella capitale, succeduto nel dì 28 del mese suddetto.

Miravansi intanto gli affari dei potentati cristiani in un segreto ondeggiamento. Disgustata era la corte di Spagna con quella di Francia per la principessa rimandata a Madrid. Più grave ancora si conosceva la discordia sua con quella d'Inghilterra a cagione di Minorica e Gibilterra. Un altro affare sturbò la buona armonia fra Cesare e gli Anglolandi; imperciocchè l'interesse, cioè il primo mobile del gabinetto dei regnanti, avea servito ai consiglieri cesarei per indurre l'Augusto Carlo VI ad istituire, o pure ad approvare una grandiosa compagnia di commercio in Ostenda: il qual progetto se fosse andato innanzi, minacciava un colpo mortale al commercio dell'Inghilterra ed Olanda. Pretendeano quelle potenze un sì fatto istituto contrario ai patti delle precedenti leghe, tacciando [332] anche d'ingratitudine sua maestà cesarea, che aiutata da tanti sforzi di gente e danaro da esse marittime potenze per ricuperar la Fiandra, si volesse poi valere della medesima conquista in sommo loro danno e svantaggio. Ma i ministri di Vienna, siccome partecipi delle rugiade provenienti da Ostenda, teneano saldo il buon imperadore nel sostegno di quella compagnia. Se n'ebbe ben egli col tempo a pentire. Per opporsi dunque al proseguimento di quella compagnia, si formò in Annover nel 1725 una lega fra la Francia, Inghilterra e Prussia, a cui poscia si accostarono anche gli Olandesi. S'era all'incontro l'Augusto Carlo maggiormente stretto col re di Spagna. Aveano in questi tempi gl'inglesi con una squadra dei lor vascelli sequestrata in Porto Bello la flotta che dovea portare i tesori in Ispagna. Da tale ostilità commossi gli Spagnuoli, oltre all'essersi impadroniti del ricchissimo vascello inglese chiamato principe Federigo, andarono a mettere, nel febbraio di quest'anno, l'assedio a Gibilterra. Gran vigore mostrarono gli offensori, ma molto più i difensori; laonde perchè non v'era apparenza di sottomettere quella piazza, e perchè intanto furono sottoscritti in Parigi alcuni preliminari di aggiustamento fra i potentati cristiani, al che spezialmente si erano affaticati i ministri del papa, e più degli altri monsignor Grimaldi nunzio pontifizio in Vienna, quell'assedio, dopo alcuni mesi inutilmente spesi, terminò in nulla. Venne intanto nel dì 22 di giugno a mancar di vita, colpito da improvviso accidente verso Osnabruk nel passare ad Hannover, Giorgio I re della Gran Bretagna, e a lui succedette in quel regno, concordemente ricevuto da quei parlamenti, Giorgio II principe di Galles, suo primogenito.

Stava attento ad ogni spirar d'aura in quelle parti il Cattolico re Giacomo III Stuardo; e verisimilmente isperanzito che avesse in Inghilterra per la morte di quel regnante da succedere qualche cangiamento [333] in suo favore, all'improvviso si partì da Bologna, e passò in Lorena, con ridursi poscia ad Avignone. Scandagliati ch'egli ebbe gli affari dell'Inghilterra, trovò preclusa ogni speranza ai proprii, e però quivi fermò i suoi passi. Aveva egli lasciati in Bologna i due principi suoi figli; e giacchè in fine s'era ridotto ad allontanare dal suo servigio il Lord Eys, e sua moglie, la regina Clementina Sobieschi, consigliata dal papa e dai più saggi porporati, alla metà del mese di luglio sen venne a quella città, dove abbracciò i figli con tal tenerezza, che trasse le lagrime dagli occhi di tutti gli astanti. Fermossi ella di poi in essa città, attendendo continuamente alle sue divozioni, giacchè per le visite e per li divertimenti non era fatto il suo cuore. Passava questa santa principessa le giornate intere in orazioni davanti il santissimo Sacramento. Nel novembre di questo anno venne in Italia il principe Clemente elettor di Colonia, fratello dell'elettor di Baviera e della gran principessa di Toscana Violante, con animo di farsi consecrare arcivescovo dal pontefice Benedetto XIII. Per cagion dell'etichetta romana non trovava la di lui dignità i suoi conti nel portarsi fino a Roma. Lo umilissimo santo padre, tuttochè dissuaso dai sostenitori del decoro pontifizio, pure non ebbe difficoltà di passar egli a Viterbo per ivi consecrare quel principe. Riuscì maestosa la funzione, e corsero suntuosi regali dall'una e dall'altra parte; ma senza paragone superiori furono quei dell'elettore, perchè consistenti in sei candellieri d'oro arricchiti di pietre preziose; in una croce d'oro; in una corona di grosse perle orientali, i cui pater noster erano di smeraldi incastrati in oro; in una croce di diamanti di gran valore, e in una cambiale di ventiquattro mila scudi per le spese del viaggio del santo padre. Altri presenti toccarono alla famiglia pontifizia. Passò dipoi esso elettore colla principessa Violante a Napoli, per vedere le rarità di quella metropoli, e [334] di là venne dipoi ad ammirar le impareggiabili di Roma. Due padri carmelitani scalzi avea lo stesso pontefice, oppure il suo predecessore, inviati negli anni addietro alla Cina con ricchi donativi e lettere all'imperadore di quel vasto imperio. Riportarono essi nel presente anno due risposte di quel regnante al papa, accompagnate da una bella lista di donativi, consistenti nelle cose più rare e stimate di quei paesi.

Con sommo dispiacere intanto udiva il buon pontefice le risoluzioni prese dall'imperadore di concedere Parma e Piacenza all'imperador don Carlo, come feudi imperiali, in grave pregiudizio de' diritti della santa Sede, che per più di due secoli avea goduto pubblicamente il sovrano dominio e possesso di quegli Stati. Intimò pertanto al nuovo duca Antonio Farnese di prenderne, secondo il solito, l'investitura dalla Chiesa romana. Ma ritrovossi questo principe in un duro imbroglio, perchè nello stesso tempo anche da Vienna gli veniva ordinato di prestare omaggio per esso ducato a Cesare, da cui si pretendea di dargli l'investitura. Fu poi cagione questo vicendevole strettoio che il duca non la prese da alcuno. Fece perciò varie proteste la corte di Roma; e all'incontro più forte che mai seguitò l'imperadore a sostener quegli Stati, come membri del ducato di Milano. E perciocchè nell'anno 1720 avea papa Clemente XI fatto esporre al pubblico due libri contenenti le ragioni della Chiesa romana sopra Parma e Piacenza, in quest'anno parimente comparve alla luce un grosso volume, che comprendea le opposte ragioni dell'imperio sopra quelle città, dove, oltre al vedersi rivangati i principii del dominio pontifizio nelle medesime, si venne anche a scoprire che i duchi Ottavio ed Alessandro Farnesi aveano riconosciuto sopra Piacenza i diritti dell'imperio e del re di Spagna, padrone allora di Milano. Non bastò al saggio imperadore Carlo VI di aver procacciala a' suoi sudditi di Napoli, [335] Sicilia e Trieste una spezie di amicizia o tregua coi corsari di Tripoli e Tunisi. Rinforzò egli i suoi maneggi per istabilire un simile accordo col dey e reggenza di Algeri, cioè coi più poderosi e dannosi corsari del Mediterraneo, valendosi dell'interposizione della porta ottomana amica. Si fecero coloro tirar ben bene gli orecchi prima di cedere, perchè pretendeano che l'imperadore facesse anche egli desistere dall'andare in corso i Maltesi. Se ne scusò Cesare, con dire di non aver padronanza sopra quell'isola, e molto meno sopra de' cavalieri gerosolimitani. Finalmente nel dì 8 di marzo dell'anno presente si stipulò in Costantinopoli l'accordo suddetto, per cui spezialmente gran feste ne fece la città di Napoli, benchè prevedessero i saggi che poco capitale potea farsi di una pace con gente perfida e troppo ghiotta di quello infame mestiere. Cominciarono in fatto a verificarsi nell'anno seguente queste predizioni.

Ma nel dì 7 di novembre si cangiò in pianto tutta l'allegrezza de' Napoletani. Perciocchè, dopo avere il Vesuvio gittato per due giorni delle continue fiumane di bitume infocato, verso la sera del dì suddetto con orribili tenebre si oscurò il cielo, e dopo un terribile strepito di tuoni e fulmini, cadde per lo spazio di quattro ore una sì straordinaria pioggia, che recò gravissimi danni e sconcerti a quella città e al suo territorio. Quasi non vi fu casa che non restasse inondata da sì esorbitante copia d'acqua, con lasciar tutte le cantine e luoghi sotterranei ripieni d'acqua e di fango; e non se ne andò esente chiesa alcuna. Dalla montagna scendevano furiosi i torrenti, che atterrarono gran numero di case e botteghe, seco menando gli alberi divelti dal suolo, e i mobili della povera gente. Gli acquedotti e canali tutti rimasero rimpiuti di terra. Immenso ancora fu il danno che ne patì la città d'Aversa colle terre di Giuliano, Piamura, Paretta ed altre. Se abbondano di delizie quelle [336] contrade, a dure pensioni ancora son elleno soggette. Gloriosa memoria lasciò in quest'anno lo zelantissimo pontefice Benedetto XIII con una sua bolla del dì 12 d'agosto, in cui severamente proibì per tutti i suoi Stati il già introdotto ed affittato lotto di Genova, Napoli e Milano, gran voragine delle sostanze de' mortali poco saggi e troppo corrivi; e ciò per avere la Santità sua conosciuti gli enormi disordini che ne provenivano per le tante superstizioni, frodi, rubamenti, vendite dell'onestà, e impoverimento delle famiglie. E perchè, ciò non ostante, alcuni, poco curanti delle pene spirituali e temporali, osarono poscia di continuar questo giuoco, contra di essi procedè la giustizia, condannandoli al remo; nè poterono ottenere remissione dal papa, risoluto di voler liberare i suoi popoli da sanguisuga cotanto maligna. La borsa pontificia ne patì, ma crebbe la gloria di questo santo pontefice.


   
Anno di Cristo MDCCXXVIII. Indiz. VI.
Benedetto XIII papa 5.
Carlo VI imperadore 18.

Finalmente nel dì 5 di febbraio dell'anno presente con molta solennità in Modena seguì lo sposalizio della principessa Enrichetta d'Este con Antonio Farnese duca di Parma, di cui fu mandatario il principe ereditario di Modena Francesco fratello d'essa. Dopo molti nobili divertimenti s'inviò la novella duchessa nel dì 7 alla volta di Parma, dove trovò preparate suntuose feste pel suo ricevimento. Chiarito ormai il re Cattolico Giacomo III della tranquillità che si godeva in Inghilterra, e non esservi apparenza che alcun vento propizio si svegliasse in suo favore, sul principio del gennaio di quest'anno si restituì a Bologna. Videsi allora la sospirata riunione di lui colla regina Clementina sua consorte, la cui incomparabil pietà e divozione non meno stupore, che tenerezza cagionava in tutto quel popolo. E ben [337] ebbe la città di Bologna motivi di grande allegrezza in questi tempi, per avere il sommo pontefice Benedetto XIII nel dì 30 di aprile pubblicato per uno dei cardinali riserbati in petto monsignor Prospero Lambertini arcivescovo di Teodosia, vescovo d'Ancona, segretario della congregazion del concilio, e promotor della fede, di nobile ed antica famiglia bolognese, prelato d'insigne sapere, spezialmente ne' sacri canoni e nell'erudizione ecclesiastica. Nel qual tempo ancora fu promosso alla sacra porpora il padre Vincenzo Lodovico Gotti parimente Bolognese, eletto già patriarca di Gerusalemme, e teologo rinomato per varii suoi libri dati alla luce. Noi vedremo, andando innanzi, portato il primo di essi dal raro suo merito alla cattedra di san Pietro.

Durava tuttavia la spinosa pendenza, fra la corte pontifizia e quella di Lisbona, per la pretensione mossa da quel re di voler promosso alla dignità cardinalizia, il nunzio apostolico Bichi, prima che egli si partisse da Lisbona, e nei presenti tempi maggiormente si vide incalzato il santo padre dai ministri portoghesi su questo punto. A tante pressure di quel re, stranamente forte in ogni suo impegno, avrebbe facilmente condisceso il buon pontefice, siccome quegli che cercava la pace con tutti. Ma costituita sopra questo affare una congregazion di cardinali, alla testa de' quali era il cardinal Coradini, uomo di gran petto, fu risoluto di non compiacere quel monarca, perchè niuno metteva in disputa che il principe possa, quando e come vuole, richiamare i suoi ministri dalle corti altrui; nè si dovea permettere un esempio di tanta prepotenza in pregiudizio dell'avvenire. A tal determinazione il mansueto pontefice si accomodò, ed attese più che mai a dar nuovi santi alla Chiesa di Dio, e ad esercitarsi nelle consuete sue azioni pastorali. Ma se n'ebbe forte a dolere il popolo romano, perchè tanto il cardinal Pereira che l'ambasciatore di quel re, e i prelati portoghesi, [338] anzi qualsivoglia persona di quella nazione, ebbero ordine di levarsi da Roma, e da tutto lo Stato ecclesiastico, e di tornarsene in Portogallo. Il che fu eseguito, seccandosi con ciò una ricca fontana di oro che scorrea per tutta Roma. Parve poco questo allo sdegnato re. Comandò che uscisse dai suoi Stati monsignor Firrao, da lui non mai riconosciuto per nunzio, nè volle lasciar partire monsignor Bichi, tuttochè chiamato coll'intimazion delle censure in caso di disubbidienza, e desideroso di obbedire. Oltre a ciò, nel mese di luglio vietò a chicchessia dei suoi sudditi il mettere piede nello Stato ecclesiastico, il cercar dignità o benefizii dalla santa Sede, il mandare o portar danaro a Roma: con che restò affatto chiusa la nunziatura e dateria per li suoi Stati. Finalmente cacciò dal suo regno ogni Italiano suddito del papa, con proibizione che alcun di essi non entrasse nei suoi territorii. Altro ripiego non ebbe la corte romana, per tentare un rimedio a questa turbolenza, che di raccomandarsi all'interposizione del piissimo re Cattolico Filippo V, stante la buona armonia di quella corte colla portoghese, a cagion del doppio matrimonio stabilito fra loro.

In mezzo nondimeno a sì fatti imbrogli Dio fece godere un'indicibil consolazione per altra parte al santo pontefice. Siccome uomo di pace, non avea ommesso uffizio o diligenza alcuna in addietro per vincere l'animo del cardinale di Noaglies arcivescovo di Parigi, fin qui pertinace in non volere accettare la bolla Unigenitus. Finalmente cotanto poterono in cuore di quel porporato le amorose esortazioni del buon pontefice, e il concetto della di lui sanità, e l'aver questo dichiarato che la dottrina di essa bolla non contrariava a quella di santo Agostino, che il cardinale s'indusse ad abbracciarla. Per l'allegrezza di questa nuova, e di una lettera tutta sommessa di quel porporato, non potè il santo padre contenere le lagrime, e non finì l'anno ch'egli annunziò nel sacro consistoro [339] questo trionfo della Chiesa, per cui il Noaglies fu ristabilito in tutti i suoi diritti e preminenze. Due nobili bolle e molte provvisioni pubblicò nell'anno presente l'indefesso pontefice pel buon regolamento della giustizia, affin di troncare il troppo pernicioso allungamento delle liti, e levare molti altri abusi del foro, degli avvocati, procuratori, notai ed archivii: regolamenti, i quali sarebbe da desiderare che si estendessero ad ogni altro paese, e, quel che importa, che si osservassero; perciocchè ordinariamente non mancano buone leggi, ma ne manca l'osservanza, e chi abbia zelo per questo. Da molti anni si trovavano in grande scompiglio i tribunali ecclesiastici della Sicilia a cagion di quella appellata monarchia, abolita da papa Clemente XI. Facea continue istanze l'imperador Carlo VI che si mettesse fine a questo litigio; e il santo padre, amantissimo della concordia con ognuno, vi condiscese con pubblicare nel dì 30 d'agosto una bolla e concordia, che risecò gli abusi introdotti in quel regno, e prescrisse la maniera di trattar quivi e definir le cause ecclesiastiche in avvenire.

Comparvero in questi tempi i potentati Cristiani dell'Europa tutti vogliosi di stabilire una pace universale. La sola Spagna quella era che teneva questo gran bene pendente per le sue pretensioni contro gl'Inglesi, e per alcune difficoltà nell'effettuare quanto era stato accordato all'infante don Carlo, spettante alla successione in Italia della Toscana e di Parma e Piacenza. Non la sapeva intendere il gran duca Giovanni Gastone, che vivente lui si avesse a mettere presidio straniero nei suoi dominii, e ricalcitrava forte. Ma da che furono accordati i preliminari della pace, l'Augusto Carlo VI nel dì 13 d'aprile rilasciò ordini vigorosi, comandando a' popoli della Toscana di ricevere e riconoscere il suddetto don Carlo per principe ereditario, e di prestargli quella sommessione ed ubbidienza che occorreva, senza pregiudizio del vivente [340] gran duca, affinchè, estinguendosi la linea mascolina dei gran duchi, fosse sicuro il real principe di prenderne il pieno desiderato possesso, cessando intanto la disposizione fatta di quegli Stati dal gran duca Cosimo III in favore della vedova elettrice palatina sua figlia. In vigore dunque di tali premure si aprì dipoi un congresso dei plenipotenziarii di tutte le potenze in Soissons, per ismaltire ogni altro punto concernente la progettata pace, avendo il cardinale di Fleury, primo ministro del re di Francia, desiderato quel luogo vicino a Parigi per teatro di sì importante affare, a fine di potervi intervenire anch'egli in persona, e recare più possente influsso alla concordia. Il bello fu che quei ministri più si lasciavano vedere alle conferenze in Parigi che in Soissons, per minore incomodo del cardinale, direttor di ogni risoluzione. Fu in questi tempi dall'imperadore dichiarata Messina porto franco con sommo giubilo di quegli abitanti. E nel dì 26 d'agosto diede fine al suo vivere Anna Maria regina di Sardegna, figlia di Filippo duca d'Orleans, cioè del fratello di Lodovico XIV re di Francia, e moglie del re Vittorio Amedeo, in età di cinquantanove anni. Aveva ella vedute due sue figlie regine di Francia e di Spagna.


   
Anno di Cristo MDCCXXIX. Indiz. VII.
Benedetto XIII papa 6.
Carlo VI imperadore 19.

L'attenzione di tutta l'Italia, anzi di tutta l'Europa, fu in quest'anno rivolta al congresso di Soissons, che dovea decidere della pubblica tranquillità, e stabilir la successione dell'infante don Carlo nella Toscana e in Parma e Piacenza. Ma si venne scoprendo che Soissons era una fantasma di congresso, e che il vero laboratorio, dove si lambiccavano le risoluzioni politiche per la pace, stava nel gabinetto di Francia, e molto più in quello del re Cattolico. Videsi quest'ultimo monarca con tutta la sua corte incamminato [341] a Badajos, dove ai confini del Portogallo si fece cambio delle principesse di Asturias e del Brasile: nella quale occasione indicibil fu la pompa e la suntuosità delle feste. Ciò fatto, la corte cattolica, tirandosi dietro gli ambasciatori ed inviati dei principi, passò a Siviglia, a Cadice e ad altri luoghi, trattenendosi in quelle parti per tutto l'anno presente con gravi doglianze della città di Madrid. E intanto, mentre ognun si aspettava il lieto avviso della pace, altro non si mirava che preparativi di guerra: sì grandioso era l'armamento di vascelli spagnuoli e l'accrescimento delle truppe in quel regno, talmente che da un dì all'altro sembrava imminente un nuovo assedio di Gibilterra. Non faceva di meno dal canto suo Giorgio II re della Gran Bretagna, coll'adunare una potente e dispendiosa flotta, non senza richiami di quella fazione del parlamento che non intendeva le segrete ruote del ministero, nè qual forza abbia per ottener buona pace l'essere in istato di far gagliarda guerra. Quasi per tutto il presente anno s'andarono masticando nei gabinetti le vicendevoli pretensioni, nè anno mai fu, in cui tante faccende avessero i corrieri, come nel presente. Andò poscia a terminar questo conflitto di teste politiche principalmente in gloria e vantaggio della corona di Spagna, che per lungo tempo diede non solo la corda alle altre potenze, ma anche in fine la legge alle medesime con ritardare più e più mesi la distribuzion della flotta delle Indie, felicemente giunta in Ispagna, in cui tanto interesse aveano i mercatanti d'Italia e di altre nazioni. Finalmente nel dì 9 di novembre venne sottoscritto in Siviglia un trattato di pace e lega difensiva fra i re di Francia, Spagna ed Inghilterra, in cui susseguentemente, nel dì 21 d'esso mese, concorsero anche le Provincie Unite. Allorchè saltò fuori questa concordia, inarcarono le ciglia gli sfaccendati politici al vedere che non si parlava dell'imperadore; e che la Spagna, dianzi collegata con [342] esso, s'era gettata nel partito delle lega di Hannover. Tanto rumore s'era fatto dagl'Inglesi affinchè il re Cattolico chiaramente cedesse le sue ragioni e diritti sopra Minorica e Gibilterra; pure nulla si potè ottenere di questo: il che nondimeno non ritenne il re d'Inghilterra dall'abbracciar quell'accordo, giacchè, in vigor della pace d'Utrecht, tali acquisti erano autorizzati in favor degl'Inglesi, e il re Cattolico accettava in esso accordo le precedenti paci. Tralasciando io gli altri punti, solamente dirò, essersi ivi stabilito, che per assicurare la successione dell'infante don Carlo in Toscana, Parma e Piacenza, si avessero da introdurre non più Svizzeri, ma sei mila soldati spagnuoli in Livorno, Porto Ferraio, Parma e Piacenza, con patto che tali truppe giurassero fedeltà ai regnanti gran duca, e duca di Parma e Piacenza, e con obbligarsi la Francia e l'Inghilterra di dar tutta la mano per l'effettuazione di questo articolo, tacitamente facendo conoscere di voler ciò eseguire anche contro la volontà di Cesare. Ed ecco il motivo per cui la corte cesarea ricusò d'entrare nel trattato suddetto di Siviglia, giacchè nelle precedenti capitolazioni era stabilito che le guarnigioni suddette fossero di Svizzeri, e non di altra nazione parziale. Probabilmente ancora provò il conte di Koningsegg, plenipotenziario cesareo in Ispagna, della ripugnanza a concorrere in quell'accordo, perchè non vide riconosciuti quegli Stati per feudi imperiali, come portavano i patti. Certamente non si legge in esso trattato parola che indichi soggezione all'imperial dominio. Nè si dee tacere che appunto per questo la corte di Roma tentò di prevalersi di tal congiuntura per far valere le sue ragioni sopra Parma e Piacenza, senza nondimeno essersi finora osservato ch'ella abbia guadagnato terreno. Ora il ministero di Vienna restò non poco amareggiato, perchè il re Cattolico avesse dimenticato così presto l'obbligata sua fede nel trattato di Vienna del 1725, con alterare [343] in condizioni così importanti il tenore di essa, e declamava contra questa sì facile infrazione dei pubblici trattati e giuramenti. Per conseguente ricusò quella corte di aderire al trattato di Siviglia; ma non lasciarono per questo i collegati contrarii di Hannover di far tutte le disposizioni per condurre in Italia don Carlo, ad onta ancora dell'imperadore; maneggiandosi intanto perchè il gran duca Gian Gastone ed Antonio Farnese duca di Parma, accettassero di buona voglia le guarnigioni spagnuole.

Non poterono nè pure in quest'anno i cardinali ritenere il sommo pontefice Benedetto XIII ch'egli nella primavera non ritornasse a Benevento, per far ivi le funzioni della settimana santa e di Pasqua. L'amore d'esso santo padre verso quella città, anzi verso tutti i Beneventani, passava all'esorbitanza; e tanta copia di quella gente s'era introdotta in Roma, sempre intenta alla caccia di posti, di grazie e di benefizii, che lieve non era la mormorazione per questo. Restituissi dipoi nel dì 10 di giugno la santità sua a Roma ed attese per tutto il resto dell'anno alle solite funzioni ecclesiastiche e alle consuete opere di pietà, e a canonizzar santi. Da Bologna parimente ritornarono a Roma i cattolici re e regina d'Inghilterra in buon accordo, ed ivi fissarono di nuovo il loro soggiorno. In essa Roma, in Genova ed altre città, dove si trovavano ministri pubblici della corte di Francia, suntuose feste si videro solennizzate per la tanto desiderata e già compiuta nascita di un Delfino, accaduta nel dì 4 di settembre dell'anno presente: principe che oggidì fiorisce, e grande espettazione dà ai suoi popoli per la felicità del suo talento. Si fecero in tal congiuntura quasi dissi pazzie di tripudii ed allegrezze per tutto quel regno, e fino i più poveri paesi sfoggiarono in dimostrazioni di giubilo: tanto è l'amore inveterato di que' popoli verso i loro monarchi. Soprattutto in Roma il cardinale di Polignac si tirò dietro l'ammirazione [344] d'ognuno per la magnificenza delle feste e delle invenzioni, colle quali celebrò la nascita di questo principino. Troppo era portato alla beneficenza e alle grazie il generoso e disinteressato animo del pontefice Benedetto XIII. Di questa sua nobile, ma talvolta non assai regolata inclinazione sapeva anche profittare qualche suo ministro, non senza lamenti degli zelanti che miravano esausto l'erario pontifizio, e accresciuti gli aggravii alla camera apostolica, in guisa tale che si rendevano oramai superiori le spese alle rendite annue della medesima. Non era questo un insolito malore. Anche sotto altri precedenti papi, o per necessità occorrenti, o per capricci e fabbriche dei regnanti, o per l'avidità dei non mai contenti nipoti, sovente sbilanciavano i conti in pregiudizio della medesima camera. Al disordine dei debiti fatti si rimediava col facile ripiego di crear nuovi luoghi di monti e vacabili: con che vennero crescendo i tanti milioni di debiti, dei quali anche oggidì si trova essa camera gravata. Ne' tempi del nepotismo niuno ardiva di aprir bocca; ma sotto sì umile pontefice animosamente i ministri camerali vollero nel mese di aprile rappresentar lo stato delle cose, affinchè dal di lui buon cuore non si aggiugnessero nuove piaghe alle precedenti. Gli fecero dunque conoscere che prima del suo pontificato l'entrata annua della camera, per appalti, dogane, dateria, cancelleria, brevi, spogli ed altre rendite, ascendeva a due milioni settecento sedici mila e secento cinquanta scudi, dico scudi 2.716,650. Le spese annue, computando i frutti de' monti, vacabili, presidii, galere, guardie, mantenimento del sacro palazzo, de' nunzii, provisionati, ec., solevano ascendere a due milioni, quattrocento trentanove mila e trecentotto scudi, dico scudi 2.439,308, laonde la camera restava annualmente in avanzo di scudi 277,342. Ma avendo esso pontefice abolito un aggravio sulla carne e il lotto di Genova, creati due mila luoghi di monti, accordate non poche [345] esenzioni e diminuzioni negli appalti (fatti senza le solite solennità), assegnati o accresciuti salarii ai prefetti delle congregazioni, legati, tribunali, prelati, ed altre persone, con altre spese che io tralascio, veniva la camera a spendere più de' tempi addietro scudi trecento ottantatrè mila e secento ottantasei, dico scudi 383,686; e però restava in uno sbilancio di circa scudi centoventi mila per anno. Però si scorgeva la necessità di moderar le spese, e di ordinare un più fedele maneggio degli effetti camerali, tacitamente insinuando le trufferie di chi si abusava della facilità del papa; poichè, altrimenti facendo, conveniva imporre nuove gabelle; dal che era sì alieno il pietoso cuore del pontefice; o pur si vedrebbe incagliato il pagamento de' frutti dei monti: il che sarebbe una sorgente d'innumerabili lamenti e mormorazioni, screditerebbe di troppo la camera, e sommamente intorbiderebbe il politico commercio. Qual buon effetto producesse questa rimostranza, converrà chiederlo agl'intendenti romani: io non ne so dire di più.

Occorse in quest'anno, nel dì 12 di agosto, un terribil fenomeno nel Ferrarese di là da Po. Dopo le venti ore cominciò ad apparire sopra la terra di Trecenta ed altre ville contigue il cielo tutto ricoperto di folte nubi nere e verdi, con alquante striscie come di fuoco in mezzo ad esse. Dopo la caduta di una gragnuola, due contrarii venti impetuosissimi si levarono, che spinsero le nuvole a terra, e fecero come notte, uscendone fuoco che si attaccò a qualche casa e fenile, e cagionando un fumo denso e rossigno che riempiè di tenebre e di orrore tutto quel tratto di paese per dodici miglia sino a Castel Guglielmo. Il principal danno provenne dalla furia impetuosa del vento, che atterrò in Trecenta circa cento ventotto case colla morte di molte persone; portò via il tetto e le finestre della parrocchiale; troncò il campanile di un oratorio, e fece altri lagrimevoli danni. Per la campagna [346] si videro portati via per aria i tetti di molti fenili, e fino uomini, carra e buoi, trovati per istrada o al pascolo, alzati da terra, e furiosamente trasportati ben lungi. Immensa fu la quantità degli alberi di ogni sorta che rimasero svelti dalle radici, o troncati all'altezza di un uomo, e spinti fuora del loro sito. Di questa funestissima e non mai più provata sciagura parteciparono le ville di Ceneselli, di Massa di sopra e di altri luoghi di que' contorni, i cui miseri abitanti si crederono giunti alla fine del mondo. Trovossi in questi tempi il gran duca di Toscana in gravi imbrogli a cagion del trattato di Siviglia; perchè pulsato dall'una parte dalla Spagna e dagli alleati di Hannover per ammettere le guarnigioni di don Carlo nelle sue piazze, e dall'altra battuto da contrarie massime e pretensioni della corte imperiale. Nel dì 19 di aprile dell'anno presente per impensato accidente mancò di vita Antonio Ferdinando Gonzaga, duca di Guastalla e principe di Bozzolo, senza prole, e a lui succedette Giuseppe Maria suo fratello, benchè poco atto al governo.


   
Anno di Cristo MDCCXXX. Indiz. VIII.
Clemente XII papa 1.
Carlo VI imperadore 20.

Per tutto quest'anno stette l'Italia in un molesto combattimento fra timori di guerra e speranze di pace. Non sapea digerire l'Augusto Carlo VI che, dopo avere la Spagna e tutti gli altri alleati di Hannover nei solenni precedenti trattati riconosciuto per feudi imperiali la Toscana, Parma e Piacenza, e stabilita la qualità dei presidii, avessero poi nel trattato di Siviglia disposto altrimenti di quegli Stati senza il consenso della cesarea maestà sua. Non già che gli negasse o intendesse impedire la successione dello infante don Carlo in quei ducati, ma perchè pretendeva di ammettervelo nella maniera prescritta concordemente dalla quadruplice alleanza. E perciocchè crescevano [347] le disposizioni del re Cattolico Filippo V e delle potenze marittime, per introdurre esso infante in Toscana, si cominciò a vedere un contrario apparato dalla parte dell'imperadore, per opporsi a tal disegno. In fatti ecco a poco a poco calare in Italia circa trenta mila Alemanni, che si stesero per tutto lo Stato di Milano e di Mantova con aggravio considerabile di que' paesi. Ne fu destinato generale il conte di Mercy. Alcune migliaia d'essi passarono ad accamparsi nel ducato di Massa e nella Lunigiana, per essere alla portata di saltare in Toscana, qualora si tentasse lo sbarco delle truppe spagnuole. Non lasciò indietro diligenza alcuna il gran duca Gian Gastone per esimere i suoi Stati dall'ingresso dell'armi straniere; e perchè lo imperadore, con pretendere di non essere più tenuto ad osservare gl'infranti primieri trattati, fece vigorose istanze, affinchè esso gran duca prendesse da lui la investitura di Siena, bisognò accomodarsi, benchè con ripugnanza, a tal pretensione. A sommossa eziandio della corte di Vienna esso gran duca dichiarò al ministro di Spagna di non poter acconsentire all'ingresso delle truppe spagnuole ne' suoi Stati. Non sapevano intendere i politici come il solo imperadore prendesse a far fronte a tante corone collegale, massimamente trovandosi egli senza flotte per sostener Napoli e Sicilia. Ma ossia che la corte di Vienna si facesse forte sul genio del cardinale di Fleury, primo ministro di Francia, inclinato non poco alla pace; o pure che sperasse col maneggio dei ministri nelle corti, e colla forza dei suoi guerrieri apparati, di ridurre gli alleati a condizioni più convenevoli all'imperial sua dignità: certo è ch'esso Augusto animosamente procedè nel suo impegno; spinse non poche truppe nei regni ancora di Napoli e Sicilia; e fece quivi e nello Stato di Milano ogni possibil preparamento di fortificazioni e munizioni per difesa ed offesa, come se fosse la vigilia di una indispensabil guerra. [348] Passò nondimeno tutto il presente anno senza che si sguainassero le spade, ma con batticuore d'ognuno per questa fluttuazione di cose.

Giunse intanto alla meta de' suoi giorni il buon pontefice Benedetto XIII. Il dì 21 di febbraio quello fu che il fece passare ad una vita migliore nell'anno ottantuno di sua età, dopo un pontificato di cinque anni, otto mesi e ventitrè giorni. Tali virtù erano concorse nella persona di questo capo visibile della Chiesa di Dio, che era riguardato qual santo, e tale si può piamente credere che egli comparisse agli occhi di Dio. Pari non ebbe la somma sua umiltà, più stimando egli di esser povero religioso, che tutta la gloria e maestà del romano pontificato. Nulla cercò egli per li suoi parenti, staccatissimo troppo dalla carne e dal sangue. Insieme col mirabil disinteresse suo accoppiava egli non lieve gradimento di donativi, ma unicamente per esercitare l'ineffabil sua carità verso de' poverelli. Per questi aveva una singolar tenerezza, e fu veduto anche abbracciarli considerando in essi quel Dio, di cui egli serbava in terra le veci. Le sue penitenze, i suoi digiuni, la sua anche eccessiva applicazione alle funzioni ecclesiastiche, il suo zelo per la religione, e tant'altre belle doti e virtù, gli fabbricarono una corona che non verrà mai meno. E perciocchè singolare fu sempre la sua pietà, la sua probità, la sua rettitudine, si videro anche relazioni di grazie concedute da Dio per intercession di questo santo pontefice tanto in vita che dopo la sua morte. Solamente in lui si desiderò quell'accortezza, che è necessaria al buon governo politico ed economico degli Stati, sì per sapere scegliere saggi ed incorrotti ministri, e sì per guardarsi dalle frodi ed insidie de' cattivi. Questo solo mancò alla compiuta gloria del suo pontificato, essendosi trovati i ministri della sua maggior confidenza che stranamente si abusarono dell'autorità loro compartita, e con ingannevoli insinuazioni corruppero non di rado le sante intenzioni di lui, attendendo [349] non già all'onore dell'innocente santo padre, ma solamente alla propria utilità, e per vie anche sordidissime. Nè già è credibile che i buoni disapprovassero la beneficenza di questo pontefice verso le chiese del regno di Napoli, ch'egli, a norma del santo pontefice Innocenzo XII, esentò dagli spogli; e molto meno l'aver egli proibito il lotto di Genova, cioè una gran propina della borsa pontificia; nè l'aver vietato l'imporre pensioni alle chiese aventi cure d'anime, tuttochè poi cessassero con lui così lodevoli costituzioni; e nè pure altre simili sue beneficenze. Quello che non si potè sofferire, fu l'avere gli avvoltoi beneventani intaccata in varie biasimevoli maniere la camera apostolica, vendute le grazie e favori, contro il chiaro divieto delle sacre ordinanze, e defraudata in troppe occasioni la retta mente del buon pontefice; il quale, benchè talvolta avvertito dei loro eccessi, tentò bene di provvedervi, ma indarno, non essendo mancati mai artifizii a que' cattivi strumenti per far comparire calunnie le vere accuse.

Ora appena si seppe avere il buon pontefice spirata l'anima, che si sollevò poca plebe contra degli odiati Beneventani, incitata, come fu creduto, da mano più alta, allorchè vide due familiari del cardinal Coscia condotti alle pubbliche carceri. Saputosi che lo stesso porporato, cioè chi maggiormente avea fatta vendemmia sotto il passato governo con assassinio della giustizia e delle leggi più sacrosante, s'era ritirato in un palagio, corse colà, e minacciollo d'incendio. Ebbe maniera il Coscia di salvarsi, e andò a ritirarsi in Caserta presso di quel principe. Furono trasportate in castello Sant'Angelo le di lui argenterie, suppellettili e scritture. Accordatogli poscia un salvocondotto, tornò egli a Roma; e, per timore del popolo, nascosamente entrò in conclave, dove non gli mancarono attestati dello sprezzo universale di lui. Non pochi furono i Beneventani che colla fuga si sottrassero all'ira del popolo e alle ricerche [350] della giustizia. Si accinse dipoi il sacro collegio a provveder la Chiesa di Dio di un nuovo pastore. Per più di quattro mesi durò la dissensione e il combattimento fra que' porporati, e videsi con ammirazione di tutti che, oltre alla fazione imperiale e a quella dei Franzesi e Spagnuoli, saltò su ancora la non mai più intesa fazione de' Savoiardi, capo di cui era il cardinale Alessandro Albani. Sarebbe da desiderare che quivi non altro tenessero davanti agli occhi i sacri elettori, se non il maggior servigio di Dio e della Chiesa, e che restasse bandito dal conclave ogni riguardo od interesse particolare. Per cagion di questo nel maggior auge abbattuti si trovarono i cardinali Imperiale, Ruffo, Corradini e Davia, che pur erano dignissimi del triregno. Si trovò sulle prime scavalcato per l'opposizione dei cesarei anche il cardinale Lorenzo Corsini, di ricca e riguardevol casa fiorentina; ma raggruppatosi in fine il negoziato per lui, fu nel dì 12 di luglio concordemente promosso al sommo pontificato. Pervenuto all'età di settantanove anni, non lasciava egli di esser robusto di mente e di corpo; porporato veterano nei pubblici affari, di vita esemplare, e ben fornito di massime principesche. Prese egli il nome di Clemente XII, in venerazion del gran Clemente XI suo promotore. Nè tardò egli a far conoscere l'indignazione sua contra del cardinale Coscia, privandolo di voce attiva e passiva, e vietandogli l'intervenire alle congregazioni. Altri prelati e ministri del precedente pontificato furono o carcerati o chiamati ai conti, come prevaricatori e rei di avere tradito un pontefice di tanta integrità, e recato non lieve danno alla camera apostolica. Deputò egli per questo una congregazione dei più saggi e zelanti cardinali, con ampia autorità di procedere contra di sì fatti trasgressori, ad esempio ancora dei posteri. Vietò al suddetto cardinale di uscire dello Stato ecclesiastico, e gl'interdisse l'esercizio di tutte le funzioni arcivescovili in Benevento, [351] con insinuargli eziandio di rinunziar quell'insigne mitra, di cui s'era egli mostrato sì poco degno. Per questa severità, e per tanto amore alla giustizia, gran credito sulle prime si acquistò il novello pontefice, se non che ebbe maniera il Coscia di ottenere la protezion della corte di Vienna, che col tempo impedì che egli non fosse punito a misura dei suoi demeriti.

Fra i più illustri principi che si abbia mai avuto la real casa di Savoia, veniva in questi tempi conceduto il primo luogo a Vittorio Amedeo re di Sardegna, siccome quegli che, portando unita insieme una mente maravigliosa con un raro valore e una corrispondente fortuna, avea cotanto dilatati i confini de' suoi Stati, e portata una corona e un regno nella sua nobilissima famiglia. S'era questo generoso principe, pieno sempre di grandi idee, ma regolate da una singolar prudenza, tutto dato alla pace, a far fiorire il commercio ed ogni arte nel suo dominio, a fortificar le sue piazze, ad accrescere le forze militari e gl'ingegneri, e massimamente a fabbricare con grandi spese la quasi inespugnabil fortezza della Brunetta, e ad abbellire ed accrescere di abitazioni Torino. Con un corpo di leggi avea prescritto un saggio regolamento alla buona amministrazione della giustizia ne' suoi tribunali e a molti punti riguardanti il bene de' sudditi suoi. Aveva anche ultimamente atteso a far fiorire le lettere col fondare una insigne università, a cui chiamò de' rinomati professori di tutte le scienze: nella qual congiuntura con istupore d'ognuno levò le scuole ai padri della compagnia di Gesù, e agli altri regolari ancora in tutti i suoi Stati di qua dal mare, per istabilire una connessione e corrispondenza di studii fra l'università di Torino e le scuole inferiori con un migliore insegnamento per tutti i suoi Stati d'Italia. Mentre egli era intento ad altre gloriose azioni, eccolo nel presente anno determinarne una che ben può dirsi la più eroica e mirabile che [352] possa fare un regnante. Era questo sempre memorabil sovrano giunto all'età di sessantaquattro anni, e provava già più d'un incomodo alla sua sanità per le tante passate applicazioni della mente. Sul principio di settembre fatto chiamare Carlo Emmanuele principe di Piemonte, unico suo figlio, a lui spiegò la risoluzione di rinunziargli la corona e il supremo governo de' suoi Stati; perchè intenzion sua era di riposare oramai, e di liberarsi da tutti gl'imbarazzi, per prepararsi posatamente alla grande opera dell'eternità. Restò sorpreso il giovane figlio a questa proposizione; e per quanto seppe, con gittarsi anche in ginocchioni, il pregò, quando pure volesse sgravarsi d'un peso, di cui era più la maestà sua che esso figlio capace, di dichiararlo solamente luogotenente generale, con ritenere la sovranità e il diritto di ripigliar le redini, quando trovasse ciò più utile al bisogno de' sudditi: No (replicò il re), verisimilmente io potrei talvolta disapprovare quel che faceste: però o tutto, o nulla. Io non vo' pensarvi in avvenire.

Convenne cedere alla paterna determinazione e volontà. E però nel dì 3 del suddetto mese, convocati al palazzo di Rivoli i ministri e molta nobiltà, dopo aver detto ch'egli si sentiva indebolito dall'età e dalle cure difficili di tanti anni del suo governo, rinunziava il trono al principe suo figlio amantissimo, colla soddisfazione di rimettere la sua autorità in mano di chi era egualmente degno di essa, che atto ad esercitarla. Aver egli scelto Sciambery per luogo del suo riposo; e perciò ordinare a tutti, che da lì innanzi ubbidissero al figlio, come a lor legittimo sovrano. Di questa rinunzia seguirono gli atti autentici, e nel giorno appresso Vittorio Amedeo non più re, benchè ognuno continuasse anche da lì innanzi a dargli il titolo di re, andò a fissare il suo soggiorno nel castello di Sciambery, con quella stessa ilarità di animo con cui altri saliscono sul trono. Un gran dire fu per questa novità. Chi immaginò [353] presa tal risoluzione da lui perchè avesse dianzi contratto degl'impegni con gli alleati di Hannover, e che, vedendo cresciute cotanto con pericolo suo l'armi di Cesare nello Stato di Milano, trovasse questa maniera di disimpegnar la sua fede. Sognarono altri ciò proceduto dall'aver egli sposata nel dì 12 del precedente agosto la vedova contessa di San Sebastiano della nobil casa di Cumiana, dama di cinquant'anni, per avere chi affettuosamente assistesse al governo della sua sanità, e non per altro motivo; ed affinchè un tal matrimonio non potesse per le precedenze alterar la buona armonia colla real principessa sua nuora, aver egli deposta la corona. Tutte immaginazioni arbitrarie ed insussistenti di gente sfaccendata: quasichè alle supposte difficoltà non avesse saputo un sovrano di tanta comprensione facilmente trovare ripiego, e ritenere tuttavia lo scettro in mano. La verità fu, che motivi più alti mossero quel magnanimo principe a spogliarsi della temporale caduca corona, per attendere con più agio all'acquisto di un'eterna, e tanto più perchè certi interni sintomi già facevano apprendere non molto lungo il resto del suo vivere. Passò dipoi a Torino colla corte il nuovo re Carlo Emmanuele, e ricevette il giuramento di fedeltà da chi dovea prestarlo. Convien confessarlo: incredibil fu il giubilo o palese o segreto di que' popoli per tal mutazione di cose, perchè il re Vittorio Amedeo pareva poco amato da molti, ed era temuto da tutti; laddove il figlio, principe di somma moderazione e di maniere affatto amabili, facea sperare un più dolce e non men giusto governo in avvenire.

A questa scena dell'Italia un'altra ancora se ne aggiunse che grande strepito fece sui principii, e maggiore andando innanzi. Più secoli erano che la repubblica di Genova signoreggiava la riguardevol isola e regno della Corsica. Si contavano varie sollevazioni o ribellioni di quei feroci e vendicativi popoli nei [354] tempi addietro, quetate nondimeno o dalla prudenza o dalla forza de' medesimi Genovesi. Ma nella primavera dell'anno presente da piccoli principii nacque una sedizione in quelle contrade, pretendendo essi popoli d'essere maltrattati dai governatori della repubblica. Uniti i malcontenti coi capi dei banditi, andarono ad assediar la Bastia; ma sì buone parole o promesse furono adoperate, che si ritirarono, con restar nondimeno in armi circa venti mila persone, le quali maggiormente si accesero alla ribellione, perchè si avvidero di non corrispondere i fatti alle promesse. Non mancavano a quegli ammutinati motivi di giuste doglianze, che cadevano nondimeno la maggior parte contra de' governatori, intenti a far fruttare il loro ministero alle spese della giustizia e dei sudditi. Pretendevano lesi i lor privilegii, divenuto tirannico il governo genovese, e sfoderavano una lista di tanti aggravii finora sofferti, che intendevano di non più sofferire da indi avanti. Nel consiglio di Genova fu udito il parere di Girolamo Veneroso, il quale sostenne che a guarir quella piaga si avessero da adoperar lenitivi, e non ferro e fuoco; e però i saggi, sapendo quanto quel gentiluomo nel suo savio governo si fosse cattivato gli animi dei Corsi, giudicarono bene di appoggiare a lui questa cura. Ma frutto non se ne ricavò, perchè senza saputa sua attrappolato un capo dei sediziosi, fu privato di vita: il che maggiormente incitò in quei popoli le fiamme dell'ira. E tanto più perchè prevalse poi in Genova il partito de' giovani, ai quali parve che l'uso delle armi e del gastigo con più sicurezza ridurrebbe al dovere i sediziosi. Se n'ebbero ben a pentire. Circa cinque mila soldati furono dipoi spediti dai Genovesi in Corsica, creduti bastante rinforzo agli altri presidii per ismorzare quell'incendio. Nella primavera di quest'anno la piccola città di Norcia, patria di san Benedetto, situata nell'Umbria, per un terribil tremuoto restò quasi interamente smantellata [355] e distrutta. A riserva di due conventi e del palazzo della città, le altre fabbriche andarono per terra, con restar seppellite sotto le rovine più centinaia di que' miseri abitanti. Si ridussero i rimasti in vita a vivere nella campagna, e gravissimo danno ne risentirono anche le terre e i villaggi circonvicini.


   
Anno di Cristo MDCCXXXI. Indizione IX.
Clemente XII papa 2.
Carlo VI imperadore 21.

Non mancarono faccende in questo anno al sommo pontefice Clemente XII. Nulla valsero le forti insinuazioni fatte fare dalla santità sua al cardinal Coscia di rinunziare l'arcivescovato di Benevento. Egli con tutta la mala grazia negò questa soddisfazione al santo padre; e però continuarono i processi contro di lui nella congregazion de' cardinali appellata de Nonnullis. Fu carcerato monsignor vescovo di Targa di lui fratello, con altri Beneventani, gente mischiata negli abusi accaduti sotto il precedente governo. Il cardinal Fini venne privato di voce attiva e passiva in ogni congregazione. Fu dipoi intimata al Coscia la restituzione di ducento mila scudi alla camera apostolica e alla tesoreria: somma indebitamente da lui percetta. Questa fu la più sensibile stoccata all'interessato cuore di quel porporato, e la sordida avidità sua, che l'avea consigliato a fare in tante illecite maniere quell'ingiusto bottino, gli suggerì ancora il ripiego per conservarlo. Portato il buon pontefice dalla sua natural clemenza, non avea voluto mai condiscendere ad assegnare una stanza in castello Sant'Angelo a questo porporato. Però, trovandosi egli in libertà, seppe con falsi supposti ottenere dal cardinale Cinfuegor ministro dell'imperadore un passaporto, e poscia se ne fuggì nel dì 31 di marzo, e travestito ora da cavaliere, ora da abbate ed ora da frate, arrivò felicemente fin presso a Napoli, con implorare la protezione del vicerè [356] conte d'Harrach. Da Vienna, ove fu spedito un corriere, venne poi la permissione ch'egli potesse dimorare ovunque gli piacesse nel regno. Svegliossi in cuore del santo padre un vivo risentimento per questa fuga, presa con dispregio degli ordini e divieti precedenti; e però nel dì 12 di maggio fu pubblicato un monitorio, con cui al Coscia s'intimava, che non tornando a Roma entro lo spazio di quel mese, resterebbe privo di tutti i suoi benefizii: e se continuasse in quella disubbidienza sino al primo d'agosto, verrebbe degradato dalla dignità di cardinale. Furono poi nel dì 28 di maggio fulminate le scomuniche, gl'interdetti ed altre pene contro di lui, che intanto facea volar da per tutto dei manifesti in sua difesa; pretendendosi indebitamente aggravato dalla congregazione suddetta. Chiamò poi in suo aiuto una forte gota, spalleggiata dall'attestato veridico dei medici, acciocchè gli servisse di scusa, se entro i termini prescritti non compariva in Roma. Fu in questa occasione che il pontefice spedì ai principi cattolici copia del processo formato contro del Coscia, dov'erano ben caratterizzate le sue ribalderie; ma processo che fu poi processato da molti, perchè dopo l'essersi rilevati tanti capi di reato, e dopo tanti tuoni, si vide tuttavia la porpora ornare un personaggio che le avea recato sì gran disonore. Vedrem nondimeno che non mancarono gastighi alle colpe sue.

Dietro ad altro affare si scaldò medesimamente lo zelo di questo pontefice. Cioè nel dì 8 di gennaio in una allocuzione fatta ai cardinali nel concistoro segreto scoprì il santo padre l'intenzion sua di disapprovare l'accordo già conchiuso fra il suo predecessore e Vittorio Amedeo re di Sardegna. A molti capi si stendeva quella concordia, riguardanti l'immunità ecclesiastica, la nomina a varie chiese e benefizii, e l'esercizio della giurisdizione dei vescovi. Si aggiungeva la controversia per diversi feudi posti nel Piemonte e Monferrato, e spezialmente [357] Cortanze, Cortanzone, Cisterna e Montasia, sopra i quali intendeva il re di esercitare sovranità, laddove il pontefice pretendeva appartenere ai diritti della santa Sede, come feudi ecclesiastici. Citati i nobili vassalli di que' luoghi a prestare il giuramento di fedeltà al re, aveano ubbidito. Roma all'incontro tali atti dichiarò nulli, e intimò le censure ed altre pene a chi per essi feudi riconoscesse la regia camera di Torino. In una parola s'imbrogliò forte l'armonia fra le due corti, e scritture di qua e di là uscirono, e le controversie durarono sino al principio dell'anno 1742, siccome vedremo. A me non occorre dirne di più; siccome nè pure di altre rilevanti liti che in questi stessi giorni ebbe la santa Sede con gli avvocati e col parlamento di Parigi. Ma ciò che maggiormente tenne in esercizio la vigilanza di esso sommo pontefice in questi tempi, fu Parma e Piacenza. Quando si sperava che Antonio Farnese duca di quella città avesse dal matrimonio suo da ricavar frutti, per li quali si mantenesse la principesca sua casa, e restassero frastornati e delusi i conti già fatti su quei ducati dai primi potentati dell'Europa: eccoti l'inesorabil morte nel dì 20 di gennaio del presente anno troncar lo stame di sua vita, ed estinguer insieme tutta la linea mascolina della casa Farnese, che tanto splendore avea recato in addietro all'Italia. La perdita sua fu compianta da tutti i suoi sudditi, perchè già provato principe amorevole, splendido e di rara bontà; anzi di tale bontà, che se più in lungo avesse condotto il suo vivere, fu creduto che il suo patrimonio sarebbe ito sossopra, sì inclinato era egli alle spese e alla beneficenza. Maggiore fu il duolo, perchè già si prevedeva la gran disavventura di que' paesi, che, perduto il proprio principe, correano pericolo di diventare provincia. Nel testamento fatto da esso duca negli ultimi periodi di sua vita, lasciò erede il ventre pregnante della duchessa Enrichetta d'Este sua moglie, [358] e, in difetto di figli, l'infante don Carlo.

Avea già il conte Daun governator di Milano, all'udire l'infermità del duca, ammanito un corpo di truppe per introdurlo in Parma e Piacenza; e però, accaduta che fu la morte di lui, il generale conte Carlo Stampa, come plenipotenziario cesareo in Italia, nel dì 25 del suddetto gennaio venne a prendere il possesso di quegli Stati sotto gli auspicii dell'imperadore a nome del suddetto infante di Spagna, senza mettersi fastidio degli stendardi pontifizii, che si videro inalberati per la città. In tal congiuntura non mancò il pontefice ai suoi doveri per sostenere i diritti della Chiesa sopra Parma e Piacenza. Scrisse lettere forti a Vienna, Parigi e Madrid. Perchè la corte di Vienna sosteneva il cominciato impegno, richiamò da Vienna il cardinale Grimaldi. Fu spedito a Parma il canonico Ringhiera, che ne prese il possesso colle giuridiche formalità a nome del papa, e insieme monsignor Oddi commissario apostolico, a cui non restarono vietati molti atti di padronanza in quella città. Parimente in Roma si fecero le dovute proteste contro qualsivoglia attentato fatto o da farsi dall'imperadore e dalla Spagna per conto di que' ducati. Restavano intanto incagliati gli affari per la pretesa gravidanza della duchessa Enrichetta. Se ne mostrava sì persuaso chi la desiderava, che avrebbe per essa scommesso quanto avea di sostanze. Dopo alquanti mesi visitata quella principessa da medici e mammane, si videro attestati corroborati dal giuramento che quel monte avea da partorire. Ridevano all'incontro altri di opposto partito, ancorchè mirassero preparato il suntuoso letto, dove con tutte le formalità dovea seguire il parto, con essere anche destinati i ministri che aveano in tal congiuntura da imparare il mestier delle donne. Ma venuto il settembre, e disingannata la duchessa, onoratamente essa in fine protestò di non essere gravida. Stante nondimeno l'incertezza [359] di quell'avvenimento, in Vienna s'erano fatti non pochi negoziati fra i ministri dell'imperadore, quei del re Cattolico e quei del re della Gran Bretagna, per istabilire una buona concordia. Questa in fatti restò conchiusa nel dì 22 di luglio fra le suddette potenze, con avere l'Augusto Carlo VI non solamente confermata la successione dell'infante don Carlo nei ducati di Toscana Parma e Piacenza, ma eziandio condisceso che si potessero introdurre sei mila Spagnuoli, parte in Livorno e Porto Ferraio, e parte nelle suddette due città: conformandosi nel resto al trattato della quadruplice alleanza del dì 2 d'agosto del 1718 e alla pace di Vienna del dì 7 di giugno del 1725. A questa nuova respirò l'Italia, stata finora in apprensione di nuove guerre. Fu poi preso dal generale conte Stampa un'altra volta il possesso formale dei ducati di Parma e Piacenza a nome del real infante, e nel dì 29 di dicembre esatto da quei popoli il giuramento di fedeltà e di omaggio. Ma nel giorno seguente monsignor commissario Oddi per parte del sommo Pontefice fece una contraria solenne protesta in Parma; e così andavano balleggiando questi ministri, nel mentre che l'infante don Carlo si preparava per venire in Italia, anzi s'era già messo in viaggio, e parte delle milizie spagnuole, pervenuta a Livorno, avea preso quartiere in quella città. Quanto al gran duca Gian Gastone de Medici, e alla vedova palatina Anna Maria Luigia, nel dì 21 di settembre dichiararono di accettare il trattato di Vienna del dì 22 di luglio dell'anno presente. Prima ancora di questo tempo, cioè nel dì 25 di luglio, aveano stabilita una convenzione colla corte di Madrid, in cui fu convenuto che il reale infante don Carlo non solamente succederebbe negli Stati di Toscana, ma anche in tutti gli allodiali, mobili, giuspatronati, ed altri diritti della casa de' Medici. Per tutori d'esso principe, a cagion della sua minorità furono da Cesare deputati il suddetto gran duca per la Toscana, [360] e la duchessa vedova Dorotea Sofia, avola materna di lui, per Parma e Piacenza.

Si cominciarono a scorgere di buona ora dei rincrescimenti per l'eletto soggiorno di Sciambery nel fu re di Sardegna Vittorio Amedeo. Non vedeva egli più chi andasse a corteggiarlo, o a chiedere grazie; e il piacere di comandare, provato in addietro sopra tanti popoli, si ristringeva nella sola sua domestica famiglia. Questo abbandonamento, questa solitudine facevano guerra continua e cagionavano malinconia ad un principe avvezzo sempre a grandi affari; e a lui parea gran disgrazia il vedere confinati i suoi vasti pensieri nell'augusto recinto, cioè in un angolo della Savoia. Aggiungasi che sul principio di quest'anno egli fu preso da un accidente capitale, per cui gli rimase sempre qualche sensibile impedimento alla lingua, e gli sopraggiunse poi anche una qualche confusione d'idee. Andò allora il re Carlo Emmanuele a vederlo per testimoniargli il suo filiale affetto, e vi tornò anche nella state colla regina sua moglie. Verso poi la fine di agosto, attribuendo il re Vittorio il suo poco buono stato all'aria troppo sottile di Sciambery, volle ritornare in Piemonte, e andò a piantar la sua corte a Moncalieri in vicinanza di tre miglia da Torino. Nulla sospettava sulle prime di lui il re Carlo Emmanuele; ma da che si avvide ch'egli contro il concertato ambiva l'autorità nel governo, ordinò che si tenessero gli occhi aperti addosso a lui. E tanto più dovette quella corte allarmarsi, quando fosse vero quanto allora si disse, cioè avere esso Vittorio Amedeo minacciato che farebbe anche tagliare il capo ad uno dei primi e più confidenti ministri del re figlio; e che crebbero poscia i sospetti di qualche meditata mutazione, da che egli, parlando col conte Del Borgo, gli fece istanza dell'atto della sua rinunzia, fatto nel precedente anno, che con tutta sommessione gli fu negato. Aggiugnevano, che da lì [361] a poco tempo egli scrivesse un biglietto al governatore della cittadella di Torino con avvisarlo dell'ora in cui egli intendeva di andare a spasso entro di essa cittadella: o pure, ch'egli effettivamente si portasse in persona alla porta segreta, per entrarvi, ma con trovar il governatore che se ne scusò, con dire di non aver ordine dal real sovrano di riceverlo. Tutti questi fatti contemporaneamente si divulgarono, ma senza fondamento. La verità si è, che avendo il re Vittorio dopo il suo ritorno in Piemonte dato segni non equivoci di volere aver parte all'autorità del governo, il re Carlo Emmanuele fu in caso di far vegliare sui di lui discorsi; e tanto più da che seppe che il re padre parlava con diverse persone dell'atto dell'abdicazione, come di un atto che fosse in sua balìa di rivocare.

In questo tempo essendo assai cresciute le indisposizioni del re Vittorio, e la di lui mente, anche per l'accidente patito, molto indebolita, con qualche risalto alle volte di riscaldamento e di agitazione di spirito, onde venivano poi empiti di collera, si ebbe luogo a temere qualche novità sconvenevole e pericolosa. Vedeva il re figlio con ciò esposta ad un grave cimento non solamente la real sua dignità, ma anche il suo onore medesimo e il bene dello Stato; e però sperimentati prima in vano più mezzi e spedienti per calmare lo spirito del padre, e ricondurlo a pensieri più proprii e più convenienti, chiamò a sè i più saggi ministri di toga e di spada, ed esposto il presente sistema, con protestarsi nondimeno pronto a sacrificare ogni sua particolar convenienza, qualora avesse potuto farlo, salva la sua estimazione, il bene dei sudditi e la quiete degli Stati, richiese il loro consiglio. Ben pesato ogni riguardo, concorse il parere di ognuno in credere necessario un rimedio, a fin di evitare tutte le delicate e disastrose conseguenze che prudentemente si temevano come imminenti; e però fu concordemente determinato di assicurarsi [362] dalla persona d'esso re Vittorio. Nella notte adunque del dì 28 di settembre, venendo il dì 29, da vari corpi di truppe che l'uno non sapea dell'altro, si vide attorniato il castello di Moncalieri, e fu improvvisamente intimato al re Vittorio Amedeo di entrare in una preparata carrozza. Gli convenne cedere; e fu condotto nel vasto e delizioso palazzo di Rivoli, situato in un colle di molto salutevol aria, ma sotto le guardie, con raccomandare alle medesime di rispondere solamente con un profondo inchino a quante interrogazioni facesse loro il principe commesso alla loro custodia. La di lui moglie contessa di San Sebastiano, già divenuta marchesa di Spigno, nello stesso tempo fu condotta al castello di Ceva; ma perchè fece istanza il principe di riaverla, non gli negò il re questa consolazione. Del resto, al signorile trattamento d'esso principe fu pienamente provveduto; tolta a lui fu la sola libertà. Chiunque poi conosceva di che buone viscere fosse il re Carlo Emmanuele, e quanta virtù regnasse nell'animo suo, facilmente comprese che forti e giusti motivi il doveano avere indotto ad un passo tale con tutta la ripugnanza del suo sempre costante filiale affetto. Quelle stesse guardie che sul principio il teneano d'occhio, con saggio consiglio e per suo bene gli furono poste, affinchè osservassero che la gagliarda passione nol conducesse ad infierire contro sè stesso. Cessato il bollore, cessò anche la vicinanza d'esse guardie, ed era data licenza alle persone saggie e discrete di visitarlo e parlargli. E perciocchè fece istanza di essere rimesso in Moncalieri, perchè l'aria di Rivoli era troppo sottile, fu ricondotto colà.

Duravano in questi tempi le controversie della sacra corte di Roma col re di Portogallo cotanto alterato perchè il nunzio apostolico monsignor Bichi era stato richiamato, senza prima decorarlo colla porpora cardinalizia. Sostenne il sommo pontefice il decoro della sua dignità [363] con esigere che il prelato uscisse di Portogallo; e in fatti egli passò a Madrid, e gran tempo vi si fermò. Venne poscia in quest'anno a Firenze, e non passò oltre. Finalmente nel dì 24 di settembre fatta dal santo padre una promozione di cardinali, fu in essa compreso il Bichi; nè solo il Bichi, ma anche monsignor Firrao succeduto a lui in quella nunziatura: laonde si trattò dipoi con più facilità di rimettere la buona armonia fra la santa Sede e il re suddetto. Sempre più andava in questo mentre crescendo la ribellione dei corsi, e volavano per tutte le corti le loro doglianze per gli aggravi che pretendeano fatti ad essi dalla repubblica di Genova. A fine di smorzar questo incendio, ricorsero i Genovesi alla protezione dell'imperadore Carlo VI, e ne ottennero un rinforzo d'otto mila soldati alemanni, comandati dal generale Wachtendonck. Passò la metà di questa gente in Corsica, e fece tosto sloggiare i sediziosi dal blocco della Bastia. Ma da che verso la metà d'agosto s'inoltrò per cacciare da altri siti i Corsi, trovò in due battaglie gente che non conosceva paura. Perirono in quei combattimenti moltissimi dei Tedeschi, di maniera che fu necessario il far trasportare colà il resto dei loro compagni. Seguirono susseguentemente altre zuffe ora favorevoli ora contrarie ai malcontenti; ma spezialmente un'imboscata da loro tesa agli Alemanni nel fine di ottobre, nel passare che facevano a San Pellegrino, costò ben caro ad essi Tedeschi, perchè furono obbligati a ritirarsi dal campo di battaglia, con perdita di più di mille persone tra morti e feriti. Nel dì 30 di maggio terminò la carriera de' suoi giorni Violante Beatrice di Baviera, gran principessa di Toscana, vedova del fu gran principe Ferdinando de Medici. Era essa il ritratto della gentilezza, venerata da ognuno, e però dalle comuni lagrime si vide onorato il suo funerale. Gran compassione prima d'allora si svegliò in cuore di tutti per gli orrendi effetti d'un fierissimo tremuoto, che [364] avendo cominciato nel febbraio a farsi sentire nel regno di Napoli, infierì poi con varie altre più violenti scosse, e tenne gran tempo in una costernazione continua le provincie di Puglia, Terra di Lavoro, Basilicata e Calabria Citeriore, e in alcuni luoghi lasciò una dolorosa catastrofe di rovine. Più d'ogni altro ne provò immensi danni la città di Foggia, perchè tutta fu convertita in un monte di pietre, e più di tre mila persone rimasero seppellite sotto le diroccate case. Non restò pur uno de' sacri templi e chiostri in piedi; e frati, monache ed altri abitanti, che ebbero la fortuna di scampare, andarono raminghi per quelle desolate campagne, cercando e difficilmente trovando un tozzo di pane per mantenersi in vita. Si videro in tal congiuntura le acque alzarsi nei pozzi, ed uscirne con allagar le vigne. Barletta, Bari ed altre città furono a parte di questo spaventevol flagello; e perchè in Napoli i borghi di Chiaia e Loreto risentirono non lieve danno, buona parte di popolo, e massimamente la nobiltà col vicerè si ritirò alla campagna. Ma il piissimo cardinale Pignatelli arcivescovo non volle muoversi dal suo palazzo, e attese ad animar la plebe, e ad eccitar la misericordia di Dio con pubbliche processioni e preghiere.


   
Anno di Cristo MDCCXXXII. Indizione X.
Clemente XII papa 3.
Carlo VI imperadore 22.

Quasi morirono di sete in quest'anno i novellisti bramosi di grandi avvenimenti. Fioriva la pace, che stendendo la serenità sopra tutta l'Europa, non di altro era feconda che di privati divertimenti ed allegrezze. Di queste spezialmente abbondò la Toscana; perciocchè finalmente sciolti tutti i nodi, l'infante di Spagna don Carlo si mise in viaggio per venire a far la sua comparsa nel teatro d'Italia. Imbarcossi egli ad Antibo nel dì 23 del precedente dicembre sulle galee di Spagna, unite con quelle del gran duca; ma appena ebbe [365] salpato, che si alzò una violenta burrasca che disperse tutta la flotta, e danneggiò forte non pochi di que' legni. Ad onta nondimeno dell'infuriato, elemento la capitana di Spagna nel dì 27 approdò a Livorno, e vi sbarcò l'infante. Magnifico sopra modo fu l'accoglimento fatto a questo real principe da quella città, che poi solennizzò nei seguenti giorni il suo arrivo con suntuose macchine di fuochi, conviti, musiche, illuminazioni ed altre feste. Gareggiò con gli altri l'università degli Ebrei per attestare anch'essa a questo novello sole il suo giubilo ed ossequio; e fioccavano dappertutto le relazioni di sì grandiose solennità. Dopo il riposo di più di due mesi in Livorno passò finalmente questo principe a Firenze, ove fece il suo splendido ingresso nel dì 9 di marzo, ricevuto colle maggiori dimostrazioni di stima e di affetto dal gran duca Gian Gastone e dall'elettrice vedova di lui sorella. In quella capitale ancora nulla si risparmiò di magnificenza, negli archi trionfali, ne' fuochi di artifizio, e in altre feste ed allegrie, contento ognuno di vedere con tanta felicità rifiorire nell'infante la già cadente schiatta dei principi medicei. Fu egli riconosciuto non solo come duca di Parma e Piacenza, ma ancora come gran principe e principe ereditario della Toscana. Avea già nel dì 29 dello scorso dicembre la duchessa vedova di Parma Dorotea, come contutrice, preso il possesso dei ducati di Parma e Piacenza a nome del medesimo infante dalle mani del generale conte Stampa plenipotenziario dell'imperadore. Solenne era stata quella funzione, e i magistrati e deputati delle comunità in tal congiuntura prestarono ad esso principe il giuramento di fedeltà, come a vassallo dell'imperadore e del romano imperio. Dopo di che esso generale consegnò alla duchessa le chiavi della città, e ordinò tosto alle truppe cesaree di ritirarsi, e di lasciare liberi affatto quegli Stati al nuovo signore, facendo conoscere a tutti la lealtà dell'augusto sovrano in eseguire i già stabiliti trattati [366] ed impegni. Non tralasciò il commissario apostolico monsignor Jacopo Oddi nel seguente dì 30 di dicembre di pubblicare una grave protesta contro tutti quegli atti, per preservare nella miglior possibile maniera le ragioni della santa Sede.

Fermatosi il reale infante a goder le delizie di Firenze sino al principio di settembre, finalmente determinò di consolare colla sua sospirata presenza anche i popoli di Parma e Piacenza. Nel dì 6 di esso mese si mosse egli da Firenze, e nel dì 8 entrò nello Stato di Modena, e passando fuori di questa città, fu salutato con una salva reale dalle artiglierie della medesima e della cittadella. Avea il duca Rinaldo d'Este avuta l'attenzione di fargli innaffiare le strade per tutto il suo dominio, affin di riguardarlo dagli incomodi della straordinaria polve di quell'asciutta stagione. Fu egli dipoi a complimentarlo colla sua corte un miglio lungi da Modena, dove seguirono abbracciamenti ed ogni maggior finezza di complimenti e di affetto. Nel dì 9 tutta fu in gala la città di Parma pel festoso ingresso del giovinetto duca; grande il concorso e lo sfoggio della nobiltà e dei popoli; e nelle nobili feste che si fecero dipoi, si conobbe quanto tutti applaudissero all'acquisto di un principe sì inclinato alla pietà e alla clemenza; e grazioso in tutte le sue maniere, ma con aver portato seco l'altura del cerimoniale spagnuolo. A tante allegrezze per la venuta in Italia di questo generoso rampollo della real casa di Spagna, se ne aggiunse un'altra, riguardante la felicità dell'armi del Cattolico re Filippo V suo padre. Fra i pensieri di quel monarca il primo ed incessante era quello di ricuperare, per quanto avesse potuto, tutti gli antichi dominii spettanti alla monarchia dei suoi predecessori. Una riguardevole unione ed armamento di vascelli di linea e di legni da trasporto avea egli fatto nella primavera di quest'anno, e preparati all'imbarco si trovavano sui lidi parecchi reggimenti di truppe veterane. Perchè era ignoto qual mira avesse [367] l'allestimento di flotta sì numerosa nel Mediterraneo, con gelosia ed occhi aperti stavano i vicerè di Napoli e di Sicilia; e tuttochè l'imperadore venisse assicurato della costante amicizia d'esso re Cattolico, pure non cessavano le ombre, e furono perciò ben munite le principali piazze dei regni suddetti.

Levò finalmente l'ancore quella poderosa flotta, comandata dal capitano generale conte di Montemar, e guidata da prosperi venti, improvvisamente nel dì 28 di giugno andò ad ammainar le vele davanti ad Orano nelle coste dell'Africa, piazza lontana cento cinquanta miglia da Algeri, trecento da Ceuta. Fin dall'anno 1509 dal celebre cardinale Ximenes tolta fu essa ai Mori, e sottoposta da lì innanzi alla corona di Spagna, finchè nell'anno 1708, trovandosi involto in tante guerre il re Cattolico, dopo un assedio di sei mesi gli Algerini ne ritornarono padroni. Ora, sbarcali che furono felicemente gli Spagnuoli, nel dì 30, mentre attendevano ad alzare un fortino sulla marina, eccoti piombare addosso al loro campo più di venti mila Mori, Arabi e Turchi, ed attaccare una fiera zuffa. Si distinse allora il consueto valore delle milizie spagnuole; furono con molta strage rispinti quegli infedeli, e tagliata loro la comunicazione colla fortezza. Nel dì seguente, mentre in ordine di battaglia si mette in marcia l'esercito cristiano per disporre l'assedio di quella piazza, con ammirazion di ognuno la truovano abbandonata; nè essa sola, ma ancora il creduto inespugnabile castello di Santa Croce, con quattro altri forti all'intorno. Poco fu il bottino per li soldati, perchè il meglio di quegli abitanti avea fatto l'ale. In poter nondimeno dei cristiani vennero cento trentotto cannoni, ottantatrè dei quali erano di bronzo, oltre a molte munizioni da bocca e da guerra. Per questa gloriosa e felice impresa dell'armi spagnuole tanto in Roma che in altre parti d'Italia si fecero molte allegrezze e rendimenti di grazie a Dio. Ma che? non tardarono molto gli [368] Algerini a tentare il riacquisto di quella piazza, e con grossissimo esercito vennero ad assediare nello stesso tempo Orano e il forte di Santa Croce. Governatore di Orano era stato lasciato il marchese di Santa Croce Marzenado, cavaliere di raro valore, maestro nell'arte della guerra, come anche apparisce dai suoi libri dati alla luce. Sostenne egli vigorosamente i posti contro gli sforzi de' nemici, e con suo grave pericolo e somma bravura dei suoi portò soccorso di viveri e di munizioni al forte suddetto, che si trovava in rischio di rendersi per la penuria. Ma continuando i Musulmani il lor giuoco, appena fu sbarcato nel dì 26 di novembre un riguardevole convoglio di venticinque navi da trasporto con buona scorta partito da Barcellona, che nel dì seguente il marchese con otto mila combattenti andò ad assalire i nemici, benchè forti di circa quaranta mila persone. Durò il sanguinoso combattimento per sei ore; resistenza straordinaria fecero i Barbari; ma in fine, cedendo alla bravura degli Spagnuoli, si diedero alla fuga, lasciando il campo e le artiglierie in man dei cristiani. Insigne e completa fu la vittoria, se non che restò funestata dalla morte del valoroso marchese di Santa Croce, compianta poscia da ognuno. Per quanto corse la voce, non si trovò il suo corpo, e un pezzo durò la speranza ch'ei fosse vivo e prigione; ma in fine certissima comparve la perdita di lui.

Questo fu l'unico avvenimento dell'anno presente che fece strepito in Italia. Poichè per conto di Roma, quivi si continuò a formare il processo del cardinale Coscia, ma con gran segreto, quando nei tempi addietro s'erano sparpagliati dappertutto i suoi reati. Temendo il Coscia, che passati i termini delle citazioni in contumacia si scaricasse sopra di lui il terribil decreto della perdita della porpora, giudicò meglio di tornarsene a Roma per far le sue difese: al qual fine si condusse da Napoli due avvocati, provveduti di ogni requisito per istare a fronte [369] de' più forbiti Romani. Prese l'alloggio nel convento di Santa Prassede, e gli fu intimato sotto rigorose pene di non uscirne, se non per rispondere alle interrogazioni della congregazione, le quali durarono per tutto quest'anno senza mai devenire a decisione alcuna. Mancò nell'anno presente chi nella vigilia di San Pietro pagasse alla camera apostolica il censo per li ducati di Parma e Piacenza; perlochè il fiscale della santa Sede fece pubblica protesta in difesa de' diritti pontifizii. Avea il buon pontefice Benedetto XIII, siccome dicemmo, vietato il lotto di Genova, perchè sorgente d'infiniti disordini, coll'aver fino imposta la scomunica ai ricevitori e giocatori. Col gastigo pubblicamente dato a chi avea trasgredito il bando, niun più osava di gittare con tanta facilità e sciocchezza il suo danaro, e di esporsi anche al pericolo di pagar le pene. Non senza maraviglia delle persone si vide in questi tempi risorto in Roma esso lotto, e cassata la salutevole di lui costituzione; e tanto più se ne stupì la gente, perchè, tolta la scomunica contra chi giocasse al lotto di Roma, questa si lasciò sussistere contro chi dello Stato ecclesiastico giocasse fuori d'esso Stato al medesimo giuoco. Dovettero aver delle buone ragioni di far questa mutazione, benchè tanto pregiudiziale al pubblico. Di tal provento si sa che il pontefice si servì per far limosine e belle fabbriche in ornamento di Roma. Pubblicò egli in quest'anno una lodevol costituzione, che toglieva varii abusi del conclave, ne moderava le spese eccessive, e conteneva altri utili regolamenti. Dopo penosa malattia di molti giorni passò all'altra vita, nel dì 21 di maggio di questo anno, Sebastiano (appellato da alcuni Alvise) Mocenigo doge di Venezia, a cui, nel dì primo di giugno, fu sostituito in quella dignità Carlo Ruzzini, personaggio che nei magistrati e nelle molte ambascerie avea trattato in addietro i più importanti affari della repubblica.

Andarono intanto crescendo varii [370] insulti del già re di Sardegna Vittorio Amedeo, che gli annunziavano imminente il fine de' suoi giorni. Mostrò questo principe qualche desiderio di vedere il re suo figlio, il quale non avea men premura pel medesimo oggetto. Ma nel tempo che si stava ponderando se questo abboccamento convenisse, giunse avviso essere il re Vittorio peggiorato cotanto che già si trovava agli estremi. Per questo riflesso, e per altri motivi addotti dalla regina, che in tale stato il suo incontro, lungi dal produrre alcun buon effetto, avrebbe potuto affrettar la morte all'infermo padre, e nuocere anche alla sanità del figlio, di già alterata per così disgustose circostanze, altro non si fece. Il dì 31 di ottobre fu poi quello che sbrigò da questo mondo esso principe Vittorio Amedeo, pervenuto già all'età di sessantasei anni e mezzo; ed egli ne prese il congedo con sentimenti di vera pietà ed eroica costanza. Celebre sempre durerà nelle storie e nella memoria dei posteri il nome di questo insigne sovrano, per la somma acutezza e vivacità della mente, pel suo valore, fortezza e saggia condotta in mezzo alle turbolenze dell'Europa, e ai pericolosi impegni ai quali egli s'espose, per l'accrescimento di una corona, e di non pochi altri Stati alla sua real famiglia e per tante altre gloriose azioni, tali certo, che andò innanzi ai suoi più rinomati antecessori, ed incredibile fu la stima che di lui ebbero tutti i potentati di Europa. Nel fervore della sua gioventù l'incontinenza gli avea tolta la mano; ma da che si fuggì da lui chi l'avea fatto prevaricare, colla pubblica emendazione purgò gli scandali passati, e si vedea mischiato col popolo accostarsi alla sacra mensa. Non mancò mai di custodire la principesca gravità; e pure niun più di lui si dispensò dalle formalità, con aver egli saputo essere re e insieme popolare: tanta era la sua disinvoltura. Parvero, è vero, disastrosi gli ultimi periodi di suo vivere; ma egli se ne servì per meglio prepararsi a comparire davanti a Dio, e a saldare quaggiù i [371] conti colla divina giustizia, con portar seco la contentezza di aver lasciato un figlio capace di ben regnare al pari di lui, un re pieno di moderazione, di saviezza, di coraggio, e di tante altre belle doti ornato, che il rendono amabile a tutti i sudditi suoi. Solenni esequie furono poi fatte al defunto principe, la cui moglie si ritirò in un convento di religiose a Carignano.

Poco felicemente passavano in questi tempi gli affari de' Genovesi per l'ostinata ribellione de' Corsi, nulla avendo finora giovato a mettere in dovere quella feroce gente le migliaia di Tedeschi sotto il comando del generale Wachtendonck. Per le morti e diserzioni si erano queste sminuite di molto; e però la repubblica, senza atterrirsi per le esorbitanti spese, nuove preghiere e nuovi tesori impiegò per ottenere dall'imperador Carlo VI altre forze valevoli a finir quella pugna. Un altro dunque più poderoso corpo di truppe alemanne, alla cui testa era il principe Luigi di Wirtemberg, trasportato fu in Corsica, ma con ordini nondimeno segreti del saggio Augusto di vincere non già col ferro, ma bensì colla dolcezza e colla clemenza quella brava nazione, giacchè alla corte cesarea doveano sembrare degni di compassione e non affatto ingiusti i risentimenti e le querele che aveano poste le armi in mano ad essi popoli. Propose infatti quel principe un'amnistia e perdono generale ai Corsi, ed insieme un accomodamento, con impegnare per mallevadore garante della concordia lo stesso Cesare. Allora fu che i due principali capi dei ribelli, cioè Luigi Giafferi e Andrea Ciaccaldi, ed altri lor generali entrarono in negoziato col principe e coi ministri della repubblica, e conseguentemente restò conchiusa la pace, coll'avere i Corsi conseguito onorevoli condizioni e vantaggi. Se ne tornarono poscia a poco a poco in Lombardia l'armi cesaree, ed ognun contava per terminate quelle tragiche scene; quando iti i capi di essi Corsi per umiliarsi al governo di Genova, furono all'improvviso cacciati nelle carceri, [372] per disegno formato in Genova (non già dai vecchi e saggi senatori) di dare in essi un esemplar castigo a terrore dei posteri. Per questa mancanza di fede non si può dire quanto restassero amareggiati i Corsi, e quante doglianze ne facesse in Genova e alla corte cesarea il principe di Wirtemberg. Vennero perciò pressanti ordini di sua maestà cesarea ai Genovesi di rimettere in libertà quegli uomini; e tuttochè i ministri della repubblica adducessero ragioni e pruove, che essi, per aver contravvenuto ai recenti patti, non meritavano la protezione di sua maestà cesarea, pure stette saldo l'imperadore in lor favore, di maniera che in fine, dopo molti mesi di prigionia, ricuperarono la libertà. Cagion fu questo inaspettato colpo che continuarono come prima, anzi più di prima, i Corsi a non si fidare dei Genovesi; e ben ebbe a pentirsene la repubblica, perchè vedremo risorgere la ribellione, che costò dipoi tanti altri tesori a quella ricca città, e fece spargere tanto sangue di nuovo ad ambe le parti. Erasi dilatata la pestilenza de' buoi nell'Alemagna e negli Svizzeri. Passò nell'anno precedente anche negli Stati della repubblica di Venezia, e si andava arrampicando eziandio nel Ferrarese e nella Romagna. La divina clemenza le tagliò il corso, e cessò sì deplorabil flagello. Fiera pensione è quella a cui si trova soggetto il delizioso regno di Napoli per cagione dei frequenti tremuoti. Anche nel dì 29 di novembre dell'anno presente, spaventoso fu quello che si provò nella stessa capitale, dove rimasero fracellate sotto le rovine delle case alcune centinaia di persone. Poche fabbriche si contarono che non ricevessero danno, e si fece questo ascendere a qualche milione di ducati. Peggio avvenne alle provincie di Terra di Lavoro, e dell'una e dell'altra Calabria. Ariano, Avellino, Apici, Mirabello e più di trenta villaggi furono per la maggior parte rovesciati a terra. Videsi una lunga lista di altri luoghi sommamente partecipi di sì grande sciagura, e de' periti in tale occasione. [373] Da perniciosi raffreddori fu parimente infestata l'Italia, che portarono al sepolcro gran copia di persone, anche di alta sfera. Si stese questo malore contagioso per la Francia, Alemagna ed Inghilterra.


   
Anno di Cristo MDCCXXXIII. Indiz. XI.
Clemente XII papa 4.
Carlo VI imperadore 23.

Trovossi nell'anno presente agitata da parecchi imbrogli la sacra corte di Roma. Parve più volte come ridotta a fine la concordia col re di Portogallo, ma saltavano sempre in campo nuove pretensioni di quel monarca; e trovandosi egli inflessibile ne' suoi voleri, bisognava continuar la battaglia, e il negoziato con lui e col re Cattolico mediatore. Nè pure fin qui s'era trovato ripiego alle dissensioni colla corte di Torino; e però sopra quelle pendenze si vide in questi tempi una guerra di scritture, prodotte dall'una parte e dall'altra. Ma ciò che più afflisse l'animo del pontefice Clemente XII era la prepotenza de' Franzesi, i quali nell'anno addietro cominciarono, e continuarono anche per qualche mese del presente, a bloccare con molti corpi di milizie il contado d'Avignone: novità che cagionava grave penuria ed altri danni a quegli abitanti. Il pretesto o motivo di tal violenza era, perchè in quel contado si rifugiavano alcuni contrabbandieri, e vi si era vietata l'introduzione di non so quali manifatture franzesi, ed ivi si fabbricavano tele dipinte e drapperie vietate in Francia: il che non si volea sofferire; se con giustizia, altri lo deciderà. La forza e il bisogno indusse monsignor Buondelmonti vicedelegato ad un aggiustamento; e perchè questo non fu approvato da Roma, continuarono le calamità in quelle contrade. Altro spinoso affare spuntò in questi tempi, cioè la pretensione dell'infante don Carlo duca di Parma sopra il ducato di Castro e Ronciglione, tolti, siccome già vedemmo, da [374] papa Innocenzo X alla casa Farnese. Per avere esso infante fatto pubblicare non solo in Parma, ma anche in Castro un decreto che proibiva agli abitanti d'esso Castro e Ronciglione di riconoscere altro padrone che lui, non fu lieve l'agitazione della corte pontificia, siccome quella che non poteva ricorrere in questo bisogno alla Spagna e Francia troppo interessate in favor dell'infante. Duravano inoltre tuttavia in Parigi le novità fatte da quegli avvocati e dal parlamento in pregiudizio dell'autorità del romano pontefice. Finalmente dopo tanti dibattimenti si venne in quest'anno, a dì 9 di maggio, alla decision della causa del cardinale Niccolò Coscia. A cagion delle sue ruberie, frodi, estorsioni, falsità di rescritti ed altri abusi del suo ministero, e della fiducia in lui posta dall'ottimo papa Benedetto XIII, restò egli condannato nella relegazione pel corso di dieci anni in castello Sant'Angelo, privato di tutti i benefizii e pensioni; incorso nella scomunica maggiore, da cui non potesse essere assoluto se non dal papa, eccetto che in articulo mortis. Fu obbligato in oltre al pagamento di cento mila ducati di regno, e alla restituzione di altre somme da lui indebitamente percette, e tolta al medesimo la voce attiva e passiva nell'elezione d'un nuovo pontefice. Si vide egli dunque rinchiuso nel suddetto castello; e, dopo aver promesso di pagare in certo tempo trenta mila scudi, fece venir lettere di suo fratello, al quale egli avea acquistato varie terre, e il titolo di duca in regno di Napoli, asserenti la gran povertà ed impotenza della sua casa a pagare un soldo. Altro che questo non ci volea per dar meglio a conoscere che eccellenti personaggi fossero i fratelli Coscia, ai quali nondimeno la corte cesarea giunse ad accordar la sua protezione con gravi doglianze della pontificia. Trattossi in Roma nell'anno presente degli omicidi volontarii, se in avvenire avessero a godere l'asilo nelle chiese.

Stava pure a cuore all'imperadore [375] Carlo VI, sì per l'onore de' suoi ministri, che per la quiete d'Italia, che la pace data dal principe Luigi di Wirtemberg alla Corsica prendesse buone radici; e perciò nel dì 16 di marzo con solenne decreto confermò la capitolazione accordata a que' popoli dalla repubblica di Genova. Ma non passò il settembre che si trovarono in quell'isola non pochi disapprovatori delle condizioni della concordia; e sparsesi voce da altri che non era mai da fidarsi de' Genovesi, da che dopo l'amnistia e i giuramenti aveano messo in carcere i lor capi, a rimettere i quali in libertà non v'era voluto meno dell'onnipotenza e costanza dello imperadore; oltre all'aver dovuto altri de' principali uscir dell'isola, come esiliati dalla lor patria. Perciò in alcune parti della Corsica, dove più che in altre durava questo cattivo fermento, risorsero nuovi malcontenti, e si diede all'armi, con crescere di poi maggiormente la sollevazione, siccome andremo vedendo. E tanto più si animò quella gente a tumultuare, senza rispettare l'interposta autorità di Cesare per lo recente aggiustamento, perchè improvvisamente si trovò involto nell'anno presente lo stesso augusto monarca in una deplorabil guerra, che niuno si aspettava in mezzo alla pace poco fa stabilita. Misera è ben la condizion de' mortali, sottoposta all'ambizione, ai capricci, e a tante altre passioni dei regnanti, i quali niun ribrezzo pruovano a rendere infelici i proprii ed altrui paesi, col muovere sì facilmente guerra, cioè un flagello, di cui chi per sua disavventura è partecipe, sa quanto ne sia enorme il peso, quanto lagrimevoli gli effetti. Mancò di vita nel primo dì di febbraio di questo anno Federigo Augusto re di Polonia ed elettor di Sassonia, con lasciare fra le altre sue gloriose azioni spezialmente memorabile il suo nome per aver abbracciata la religione cattolica, e trasmessala nel suo generoso figlio Federigo Augusto che succedette a lui nell'elettorato. Essendosi trattato dell'elezione di [376] un nuovo re di Polonia, al Cristianissimo Luigi XV parve questo tempo propizio per rimettere su quel trono il suocero suo, cioè il principe Stanislao Leszczinskci, negli anni addietro di fatti, ed ora di solo nome re di Polonia. Passò incognito con una squadra di legni franzesi esso principe in quelle contrade, e la sua presenza assaissimo giovò per disporre que' magnati all'elezione di lui. Fu dunque di nuovo, nel dì 12 di settembre, proclamato re col voto concorde di quasi tutti quei palatini, restando nulladimeno in piedi una fazione contraria, che altri disegni covava in petto.

All'Augusto Carlo VI non potea piacere che la corona di quel regno passasse in capo ad un principe attaccato per tanti legami alla Francia. Altre mire avea parimente Anna imperatrice della Gran Russia; e però si accordarono di promuovere a quel regno il giovine Federigo Augusto elettore di Sassonia, figlio del re defunto. Altro non fece l'imperador de' Romani, che d'inviare ai confini della Polonia, senza nondimeno entrarvi, nè commettere violenza alcuna, un'armata sotto colore di proteggere la libertà de' Polacchi nell'elezione del loro capo. S'era ciò praticato altre volte in simile congiuntura. Ma i Russiani di fatto con forze gagliarde s'introdussero in quel regno: il che animò spezialmente i palatini di Lituania a dichiarare re di Polonia nel dì 5 di ottobre il suddetto elettor di Sassonia, le cui armi da lì a non molto accorsero anch'esse per sostener quello scettro in mano del loro sovrano. Ed ecco darsi principio in quei vasti paesi ad una terribil guerra civile, che si tirò dietro nell'anno seguente il memorabile assedio di Danzica, dove si era rifugiato il re Stanislao, con essersi egli in fine sottratto felicemente dalle mani de' suoi avversarii, e con aver lasciato libero il campo e il trono all'emulo suo, appellato da lì innanzi Augusto III re di Polonia, anche oggidì gloriosamente regnante. A me non occorre di dire di [377] più intorno a quelle strepitose scene, perchè a sè mi chiama l'Italia. Non si sarebbono mai figurato gl'Italiani che del sì lontano fuoco della Polonia avessero anch'essi a divenir partecipi; e pure non fu così. Appena vide la corte di Francia contrariati i disegni suoi in favore del re Stanislao dalle potenze cesarea e russiana, che ne meditò risentimenti e vendette. Troppo lontana dai tiri dei suoi cannoni si trovava la Russia; più vicini e confinanti erano gli Stati dell'Augusto Carlo VI, e però fu presa la risoluzione di muover guerra a lui, tutto che giusto non sembrasse a molti saggi il titolo di questa rottura, perchè niun atto di violenza aveano esercitato l'armi di Cesare nelle dissensioni de' Polacchi. A maggiormente incoraggire i Franzesi, per muover guerra nella congiuntura presente, servì non poco il sapere che troppo difficilmente sarebbono entrati in ballo gl'Inglesi ed Olandesi a favore dell'imperadore, siccome popoli tuttavia segretamente irritati pel tentativo fatto dalla corte di Vienna negli anni addietro di formare e fomentare la compagnia di Ostenda in grave lor pregiudizio. Ora, non sì tosto fu subodorato lo sdegno dalla Francia contro della maestà cesarea che corsero a soffiar nell'incendio, o pure furono chiamati ad accrescerlo, il re Cattolico Filippo V e il re di Sardegna Carlo Emmanuele. Per quante rinunzie avesse fatto il primo in favore dell'augusta casa d'Austria dei regni e Stati di Italia, non si dovea quella corte credere obbligata a mantenerle. Saltarono anche fuori titoli e pretesti di disgusto contra Cesare per certe soddisfazioni negate all'infante don Carlo duca di Parma. Quanto poscia al re di Sardegna, chiamavasi egli indebitamente gravato dalla corte cesarea, per non aver mai potuto ottenere Vigevano, città che pure, secondo i patti, gli dovea esser ceduta.

Varii dunque segreti maneggi si andarono facendo, e seguì un trattato fra la Francia e la Spagna, i cui articoli non si [378] sono mai ben saputi; e un altro ne conchiuse il re di Sardegna col re Cristianissimo, anch'esso finora occulto. Il bello fu che la corte di Vienna placidamente intanto dormiva, nè s'immaginava che il religioso ed amico cardinale di Fleury, primo ministro di Francia, potesse trovare in suo cuore giusti motivi per rompere i legami della pace. S'ingrossavano non solamente al Reno, ma anche in Provenza e Delfinato le milizie franzesi: nulla importava; si credeano tutti movimenti da burla, per tenere unicamente in esercizio le truppe. Molto meno diffidava la corte cesarea del re di Sardegna, stante l'amichevol corrispondenza che passava fra loro, e l'avere anche poco fa esso re chiesta ed ottenuta dall'imperadore l'investitura dei suoi Stati in Italia. Vero è che si osservava il re sardo accrescere le sue truppe, e far altri preparamenti di guerra; ma tutto veniva supposto tendere alla difesa propria e dello Stato di Milano, caso mai che i Franzesi pensassero a qualche tentativo contro l'Italia. Tanto maggiormente si confermarono in questa credenza i ministri cesarei, perchè il re di Sardegna, trovandosi sprovveduto di grano per li presenti bisogni suoi e degli aspettati Franzesi, ne ottenne alquante migliaia di sacchi, e varii arnesi da guerra dal conte Daun governatore di Milano, persuaso che fosse in servigio dell'imperadore ciò che poco dopo venne a scoprirsi contra di lui. In questo letargo non era già il conte generale Filippi, ambasciatore dell'augusto monarca a Torino, che osservava i misteriosi movimenti de' ministri di Francia e Spagna in quella corte, e la vicinanza all'Italia delle truppe franzesi, e andava scrivendo a Vienna che questo temporale avea da scoppiare in danno dello Stato di Milano. Anche il conte Orazio Guicciardi, inviato cesareo in Genova, con lettere sopra lettere informava la sua corte del poderoso armamento che per mare e per terra faceva nello stesso tempo il re Cattolico, [379] tenendo per fermo destinate quell'armi a' danni dell'Italia. Tali avvisi in Vienna passavano per ridicoli spauracchi di chi non sapea ben pesare le circostanze dei correnti affari. Restò in fine deluso anche il suddetto generale Filippi; perciocchè un dì ito a trovare il marchese d'Ormea, insigne ed accortissimo ministro del re di Sardegna, a nome della sua corte gli dimandò conto della lega fatta dal suo real sovrano coi re di Francia e di Spagna, perchè di questa si aveano buoni avvisi in Vienna. Rispose il marchese, se avea difficoltà di mettere in carta sì fatta dimanda. No, rispose l'altro; e la scrisse. Sotto quelle parole aggiunse l'Ormea di proprio pugno: Questa lega non è vera; e si sottoscrisse. Interrogato da lì a qualche tempo come avesse osato di scrivere così, rispose: Perchè niuna lega avea contratto il suo re colla Spagna, e tale era la verità. Spedito a Vienna questo biglietto, maggiormente impressionò quei ministri, che nulla v'era da temere in Italia; e però nè quella corte nè il governator di Milano presero le precauzioni opportune.

Ora mentre se ne stavano i disattenti Tedeschi in così bella estasi, verso la metà di ottobre, ecco per cinque diversi cammini calare in Italia una forte armata di Franzesi sotto il comando del vecchio maresciallo di Villars. Poco si fermò questa in Torino ed altri luoghi del Piemonte, ed unita colle schiere del re di Sardegna, dichiarato generalissimo, a gran passi e a dirittura marciò verso lo Stato di Milano, dove entrò nel dì 26 del mese suddetto. Si credeva l'imperadore di aver un buon corpo di truppe in quel paese; i ruoli e le paghe ne facevano ampia fede, ma per disgrazia non corrispondevano i fatti. Al perchè sorpreso da questo inaspettato nembo il conte Daun governatore di Milano, frettolosamente provvide di vettovaglia e di altre cose bisognevoli per una gagliarda difesa il castello di essa metropoli, ma con mancargli quello che più importava. Solamente poco più di mille [380] e quattrocento armati vi furono introdotti: presidio quasi nè pur bastante a guernire in un giorno tutti i siti e le fortificazioni di quella vasta piazza. Dopo aver egli spedito ottocento fanti di rinforzo a Novara, immaginandosi che i nemici farebbono alto prima sotto quella città, si ritirò poscia a Mantova col suo meglio, ed appresso prese le poste per Vienna, non so se per discolpare sè stesso, ma certamente per rappresentare all'augusto padrone lo stato delle cose della Lombardia, stato troppo titubante per le forze tanto superiori dell'esercito gallo-sardo. Divisosi questo in più corpi, per far più imprese nello stesso tempo, nel dì 27 d'ottobre vide venirsi incontro le chiavi della città di Vigevano, e nel dì 31 Pavia aprì anche essa le porte ai Franzesi, con essersi prima ritirato lo smilzo presidio dei Tedeschi. Inviossi di poi il re di Sardegna col marchese d'Ormea e col corpo maggiore delle truppe collegate alla volta di Milano, i cui deputati, appena ebbe egli passato sopra un ponte il Ticino, comparvero a presentargli le chiavi, con pregare la maestà sua di confermare i lor privilegii, e di preservare gli abitanti da ogni violenza. Furono ricevuti con tutto amore, rimandati con sicurezze di buon trattamento. Nella notte del dì 3 di novembre precedente alla festa solenne di san Carlo, con quiete e buona disciplina entrarono i Gallo-Sardi in Milano, e giuntovi nella mattina seguente anche il generalissimo re di Sardegna Carlo Emmanuele, seco avendo tutta l'uffizialità ed altro grosso numero di truppe, fu accolto colle maggiori dimostrazioni di onore da quella nobiltà e popolo. Fermatosi alquanto nel palazzo ducale, passò dipoi alla metropolitana, dove fu cantato solenne Te Deum. Celebrossi la festa del santo colla medesima tranquillità che nei tempi di pace. Non tardò il re a far provare la sua beneficenza a que' cittadini, con levare in tutta o in parte la diaria, cioè il pagamento di tre mila lire di quella moneta per giorno, e una gabella sopra il sale. [381] Deputato intanto all'assedio del castello di Milano il tenente generale di Coigny, diede tosto principio ad alzar terra, siccome all'incontro si dispose a far buona difesa il castellano, cioè il marchese maresciallo Annibale Visconti.

Nel mentre che varie brigate marciarono per bloccare Novara e Tortona, la città di Lodi, nel dì 7 di novembre, fu occupata dai Franzesi, e colà portossi anche il re colle forze maggiori dell'armata. Dopo aver gittato un ponte sull'Adda passò di là, e parte marciò di qua alla volta di Pizzighettone; nel qual giorno arrivò anche il maresciallo di Villars con quindici altri mila combattenti e un grosso treno di artiglieria. Incredibili spese avea fatto in addietro l'imperadore Carlo VI per formare di esso Pizzighettone una piazza fortissima, e davano ad intendere gl'ingegneri ch'essa era inespugnabile. Dalla parte di qua dell'Adda, cioè al mezzo giorno aveano piantato essi ingegneri un forte guernito di molte militari fortificazioni; ma senza ben avvertire che, preso questo, serviva esso mirabilmente per offendere la piazza posta nell'altra riva. Fu dunque risoluto dal Villars di fare il maggiore sforzo contra del medesimo forte, sotto cui in fatti nella notte nel dì 17 di novembre, venendo il dì 18, fu aperta la trincea, e lo stesso si fece nel medesimo tempo dall'altra parte sotto la piazza per tener divertiti gli assediati. In queste angustie e disavventure il principal pensiero dei comandanti cesarei era quello di provvedere e sostenere Mantova, come chiave dell'Italia. Salva questa, speravano alla primavera forze tali da reprimere il corso de' vittoriosi Gallo-Sardi. Però non sentirono ribrezzo alcuno a ritirar da Cremona il presidio, lasciandola esposta ai nemici, che poi se ne impadronirono nel dì 16 del mese suddetto. Solamente centocinquanta uomini restarono alla guardia del castello, senza obbligo al sicuro di difenderlo per lungo tempo, siccome avvenne. Con tal vigore proseguirono i Franzesi le offese contro il forte [382] di qua dall'Adda, animati sempre dal re di Sardegna, il quale tre volte ogni dì visitava gli attacchi e le batterie, che, dopo aver essi a costo di molto sangue preso il cammin coperto, e formata la breccia, videro gli assediati nel dì 28 di novembre esporre bandiera bianca. Si stentò ad accordar le capitolazioni, e due volte fu spedito al principe di Darmstat governatore di Mantova per questo; e perchè premeva forte agli Alemanni di salvare il presidio di Pizzighettone, giacchè, ostinandosi nella difesa, sarebbe rimasto prigioniere di guerra, consentirono alla resa non solamente del forte, ma anche della piazza, con aver ottenuto le più onorevoli condizioni per la truppa. Sicchè nel dì 8 di dicembre venne con gran facilità in poter de' Franzesi Pizzighettone, fortezza, che se fosse stata fornita di maggior nerbo di difensori, avrebbe potuto durar gran tempo contro gli sforzi nemici. Cento cannoni di bronzo si trovarono in quelle due fortezze. Attesero dipoi i Franzesi ad occupar i forti di Trezzo e Lecco, che non fecero difesa. La fece bensì il forte di Fuentes; ma non v'essendo più che sessanta soldati di guernigione, e giocando forte le artiglierie nemiche, furono anche essi costretti a rendersi prigionieri.

Sbrigati da quelle parti il re di Sardegna e il maresciallo di Villars, accudirono all'assedio del fortissimo castello di Milano. Alla metà di dicembre cento cannoni e quaranta mortari cominciarono un'infernale sinfonia, e senza risparmio di sangue si avanzarono le linee verso le mura. Maravigliosa fu la difesa che ne fece il maresciallo Visconti, considerata la picciolezza del presidio. Fu detto che quattordici mila cannonate e tre mila bombe s'impiegassero dai Franzesi in quella impresa, e che più di mille e secento de' lor soldati vi perissero, oltre ai feriti. Ma in fine convenne cedere, per motivo spezialmente di salvare ciò che restò illeso di quella guernigione; e nel dì 30 di dicembre vennero sottoscritte le [383] capitolazioni, in vigor delle quali nel dì 2 di gennaio dell'anno seguente con tutti gli onori della milizia gli Alemanni lasciarono libero quel castello agli assedianti, e se ne andarono a rinforzar Mantova. Convien confessarla; parve collegato il cielo coll'armi gallo-sarde, perchè da gran tempo non s'era provato un verno sì dolce ed asciutto: il che troppo favorevole riuscì alle imprese loro. Se altrimenti fosse succeduto, avrebbono i fanghi e le rotte strade probabilmente o troppo difficultato o forse anche sturbato affatto l'assedio di Pizzighettone e del castello di Milano. Ebbe anche a dire il Villars, che qualora avesse potuto indovinare una stagion sì piacevole, avrebbe cominciato le ostilità dall'assedio di Mantova. Non passò l'anno presente che anche il castello di Cremona venne all'ubbidienza de' collegati. Mentre questa danza si faceva in Lombardia, ecco discendere un altro temporale dalle parti di Spagna. Erasi collegato il re Cattolico Filippo V colla Francia, e le condizioni de' lor negoziati si raccolsero solamente dagli effetti che poi si videro. Potente flotta per mare avea preparato quel monarca, in cui s'imbarcò gran copia di reggimenti, e nel dì 30 di novembre avendo spiegate le vele, benchè patisse burrasca nel golfo di Lione, pure arrivò a quello della Spezia sul Genovesato, e quivi sbarcata la gente, s'inviò la maggior parte di essa alla volta della Toscana. Più di quattro mila cavalli, spediti per la Linguadoca, da Antibo furono trasportati anche essi per mare alla riviera di Levante dei Genovesi.

Scorgeva ognuno minacciato da questo turbine il regno di Napoli. Inviato il duca di Castro Pignano con un corpo di truppe al forte dell'Aulla, presidiato dai Tedeschi, nella Lunigiana, per aprirsi la comunicazione fra la Toscana e il Parmigiano, se ne impadronì egli nel dì 24 di dicembre, con far prigionieri cento e trenta uomini di quel presidio. Vennero in questi giorni a visitare il real infante [384] don Carlo il maresciallo di Villars, il conte di Montemar, capitan generale dell'armata spagnuola, e il duca di Liria, per concertare le imprese dell'anno seguente. Calarono anche in Lombardia alcuni reggimenti spagnuoli, che presero riposo sul Parmigiano. Fu in questi tempi che esso infante duca di Parma venne dichiarato generalissimo dell'armata spagnuola in Italia; e perciocchè egli era già pervenuto all'età di diciotto anni senza poter ottenere dalla corte di Vienna di essere dispensato dai tutori (questo fu ancora uno de' capi delle doglianze del re Cattolico), di sua autorità, e seguitando l'esempio di altri duchi di Parma suoi antecessori, dichiarò sè stesso maggiore, e prese il governo degli Stati, con ringraziare il gran duca di Toscana Gian Gastone, la duchessa Darotea avola sua, della cura che come contutori aveano finora preso di lui. Nè in Italia solamente si provò il peso della guerra nel presente anno. Massa grande di combattenti avea fatto la Francia in Alsazia, e spedito colà per generale il principe di Contì. Verso la metà di settembre egli passò il Reno, e mise l'assedio al forte di Kehl, che sul fine di esso mese fu obbligato alla resa. Siccome a questi improvvisi assalti non era punto preparata la corte di Vienna, così la fortuna accompagnò dappertutto l'armi franzesi. Godeva intanto Roma una deliziosa pace; e il pontefice Clemente XII, che, al pari de' suoi antecessori, ambiva lasciar qualche insigne memoria di sè stesso nella mirabil città di Roma, prese in quest'anno la risoluzione grandiosa di fabbricar la facciata della basilica Lateranense. Però sul principio di dicembre con molta solennità fu posta la prima pietra de' fondamenti di sì magnifico edifizio. Trovossi sottoposta in quest'anno ad un lagrimevol accidente la città d'Ancona. Svegliatosi un tempestoso vento nella notte del lunedì 15 di settembre venendo il martedì, fece inorridir tutti quegli abitanti, che si figuravano tremuoto in terra e mare. Più [385] legni, che erano in porto, si ruppero colla morte di molte persone; furono portate via le tegole delle case e i camini da fuoco, rovinate varie case, e conventi; sommamente restò danneggiata la gran fabbrica del nuovo lazzaretto, rovesciata dalla parte del molo, e nella campagna sradicati alberi, e portati via i fenili. Tutto era pianti ed urli allora in quella povera città, e scorse questo impetuoso turbine sino a Macerata e Loreto.


   
Anno di Cristo MDCCXXXIV. Indiz. XII.
Clemente XII papa 5.
Carlo VI imperadore 24.

Fu quest'anno un di quelli che in grande abbondanza provvide le pubbliche gazzette e storie di novità e fatti strepitosi riguardanti massimamente l'Italia. Da me non ne aspetti il lettore che un compendioso racconto. Erano in armi contro dell'Augusto Carlo VI Franzesi, Spagnuoli e il re di Sardegna. Fece la Spagna conoscere al mondo quanta fosse la sua potenza, da che la Francia le avea dato un re, e re che vegliava ai proprii interessi. Imperciocchè insigne fu l'armamento per mare, continui i trasporti di gente, di attrezzi militari e di danaro per terra e per mare, a fine d'imprendere la conquista dei regni di Napoli e di Sicilia. Maggiori si videro gli sforzi della Francia per continuare la guerra del Reno e in Lombardia: e il bello fu che non solamente nelle corti, ma anche nei pubblici manifesti, facea quel gabinetto rimbombar dappertutto la scrupolosa intenzione sua in questi sì gagliardi movimenti d'armi, che era non già (guardi Dio) di acquistare un palmo di terreno, ma bensì di farsi render ragione da Cesare, per aver egli spalleggiato l'elettor di Sassonia al conseguimento della corona di Polonia e cooperato alla depressione del re Stanislao. Se mai per sorte con sì belle sparate si figurasse il gabinetto franzese di gittar polvere negli occhi agl'Inglesi ed Olandesi, affinchè non istendessero il [386] braccio alla difesa dell'augusta casa di Austria, non erano sì poco accorte quelle potenze, che non sapessero il vero significato di sì magnifiche e disinteressate proteste. Pure non entrarono esse potenze in verun impegno per sostener Cesare contro tanti nemici, benchè pregate e sollecitate dalla corte di Vienna: ed unica cagione ne fu lo sdegno, non peranche cessato, per avere l'augusto monarca, dopo tanti benefizii a lui compartiti, voluto piantare in detrimento loro la compagnia d'Ostenda, tuttochè questa fosse poi abolita. Si avvide allora il buon imperadore quanto l'avessero in addietro tradito i suoi troppo ingordi consiglieri e ministri; e convenne a lui di far penitenza de' mali consigli altrui, con portar quasi solo tutto il peso di questa nuova guerra. Perchè, è ben vero che gli riuscì d'indurre i circoli dell'imperio a dichiarare la guerra; ma non è ignoto qual capitale si possa fare di que' soccorsi troppo stentati e non mai concordi. Oltre di che gli elettori di Baviera, Colonia e palatino non consentirono a tal dichiarazione, e se ne stettero neutrali; anzi il primo fece un considerabile armamento con voce di mirare alla propria difesa, ma armamento tale, che tenne sempre in diffidenza e suggezione la corte cesarea, e la obbligò a guardare con assai gente i suoi confini, perchè persuasa che il solo oro della Francia manteneva in piedi la armata bavarese, ascendente a venticinque e forse più mila persone. Ora in questo verno attese vigorosamente Cesare a batter la cassa per resistere ai suoi nemici non meno in Lombardia che al Reno, dove smisurate forze si andavano raunando da' Franzesi.

In questo mentre le due restanti piazze dello Stato di Milano, cioè Novara e Tortona, venivano o bloccate o bersagliate dall'armi dei collegati. Ma nel dì 9 di gennaio fu portata a Milano la nuova che Novara, comprendendo seco la fortezza d'Arona, avea capitolala la resa con andarsene liberi que' presidii alla [387] volta di Mantova. Allora fu che si determinò di convertire in assedio il blocco di Tortona e del suo castello, che era in credito di fortezza capace di stancare un esercito. Nel dì 12 del suddetto gennaio al dispetto della fredda stagione fu aperta la trinciera sotto quella città, da cui essendosi nel dì 26 ritirato il governatore conte Palfi, lasciò campo ai Franzesi di impossessarsene nel dì 28. Non corrispose all'aspettazion della gente il presidio di quel castello, ancorchè fosse composto di due mila Alemanni; perciocchè appena cominciarono il terribile lor giuoco sessantadue pezzi di cannone e quattordici mortari da bombe, che quel comandante dimandò di capitolare, e ne uscì nel dì 9 di febbraio con tutti gli onori militari. Ad altro, siccome dissi, non pensavano in questi tempi gli uffiziali cesarei nel brutto frangente di sì impensata guerra, che di salvar la gente, per poter salvare Mantova. Tutto intanto andò lo Stato di Milano: dopo di che presero riposo le affaticate e molto sminuite truppe degli alleati. Arrivò il febbraio, e nè pure si era veduto calare in Italia corpo alcuno di Tedeschi; solamente s'intendeva che nel Tirolo, e a Trento e Roveredo, andava ogni dì crescendo il numero dei combattenti austriaci, e che per capitan generale della loro armata veniva il maresciallo conte di Mercy. Con sei mila persone arrivò finalmente questo generale sul fine di quel mese a Mantova per conoscere sul fatto lo stato delle cose, e poi se ne tornò a Roveredo per affrettare il passaggio dell'altre incamminate milizie. Ma con esso veterano e valoroso comandante parve, che si accompagnasse anche la mala fortuna, e seco passasse in Italia. Fu egli sorpreso da una grave flussione agli occhi, ed altri dissero da un colpo di apoplessia, per cui di tanto in tanto restava come cieco. Progettossi in Vienna di richiamarlo; ma perchè sempre se ne sperò miglioramento, continuò egli nel comando.

Trovandosi troppo vicino a questo [388] incendio Rinaldo d'Este duca di Modena, cominciò anch'egli a provarne le perniciose conseguenze. Sul principio dell'anno presente ecco stendersi le truppe spagnuole per li suoi Stati, e prendere quartiere nelle città di Carpi e Correggio, nelle terre di San Felice e Finale, e in altri luoghi. Perchè s'erano precedentemente ritirati dalla Mirandola gli Alemanni, esso duca di Modena avea tosto bensì guernita quella sua città col proprio presidio; ma non tardò il duca di Liria generale spagnolo nel dì 15 di gennaio a comparire colà colle sue milizie, con chiedere di entrarvi; al che non fu fatta resistenza, giacchè promise di lasciar intatta la sovranità e il governo del duca di Modena, principe risoluto di mantenere la neutralità in mezzo a queste gare. Si andava intanto ogni dì più ingrossando sul Mantovano l'armata cesarea, talmente, che secondo le spampanate dei gazzettieri, si decantava ascendesse a sessanta e più mila persone, bella gente tutta e vogliosa di menar le mani. Per impedir loro l'inoltrarsi verso lo Stato di Milano, il generalissimo re di Sardegna Carlo Emmanuele spedì il nerbo delle sue truppe a postarsi alle rive del fiume Oglio, e la maggior parte de' Franzesi venne a custodire le rive del Po nel Mantovano di qua, stendendosi da Guastalla fino a San Benedetto, a Revere, ed anche ad una parte del Ferrarese; all'incontro nelle rive di là del Po si fortificarono i Tedeschi a Governolo, Ostiglia, e nei restanti luoghi dell'Oglio. Si stettero guatando con occhio bieco per alquante settimane le due nemiche armate, studiando tutto il dì il generale conte di Mercy la maniera di passare il Po; e dopo molte finte gli venne fatto di passarlo, dove e quando men se l'aspettavano i Franzesi. Nella notte seguente al primo dì di maggio, seco menando barche sopra della carra, spinse egli sopra alcune d'esse il general di battaglia conte di Ligneville Lorenese pel Po con una man d'armati alla riva opposta in faccia [389] alla chiesa di San Giacomo, un miglio in circa distante da San Benedetto. Arrampicaronsi sugli argini quegli armati, e vi presero posto; nel qual mentre le sentinelle franzesi sparando sparsero l'avviso di questa sorpresa. Ma il Mercy, con incredibile diligenza fatto formare il ponte, non perdè tempo a spingere nuove truppe di qua, in maniera che quando sopraggiunsero le brigate franzesi, vedendo esse già passata tutta l'oste cesarea, ad altro non pensarono che a mettersi in salvo.

Grande infatti fu lo scompiglio dei Franzesi, troppo sparpagliati dietro alla grande stesa degli argini del Po; laonde, corsa la voce del passaggio suddetto, ciascun corpo d'essi colla maggior fretta possibile prese la strada del Parmigiano, lasciando indietro non pochi viveri, munizioni e parte ancora del bagaglio. Passò questo terrore al Finale, a San Felice e alla Mirandola, dove erano entrati essi Franzesi, dappoichè l'aveano abbandonata gli Spagnuoli; e tutte quelle schiere, unitesi poi con quelle di Guastalla, marciarono alla Sacca, luogo del Parmigiano sul Po. Formato quivi un ponte per mantener la comunicazione coll'Oltrepò, con alte fosse e trincee si afforzarono; e da Parma sino a quel luogo dietro al fiume appellato Parma tirarono una linea, guernendola di gran gente e cannoni, ed aspettando di vedere che risoluzion prendessero gli Austriaci. Con buona disciplina, dopo avere ripigliato il possesso della Mirandola, sen vennero questi sul territorio di Reggio; impadronironsi anche di Guastalla e Novellara, e andarono ad alzar le tende nelle ville del Parmigiano. Era ito frattanto il general Mercy a Padova, per isperanza di riportare da quegli esculapii la guarigion della sua vista; e senza di lui nulla si potea intraprendere di grande. Parve agli altri comandanti cesarei viltà il lasciare tanto in ozio il fiorito loro esercito, e però si avvisarono di cacciare i Franzesi dalla terra di Colorno. Sul principio di giugno con un grosso distaccamento si portarono [390] colà; disperata difesa fece quel presidio; sicchè tutti coloro o perderono la vita o restarono prigionieri. Ma senza paragone vi spesero gl'imperiali più sangue, essendovi rimasto ucciso il suddetto troppo ardito generale di Ligneville con altri uffiziali e molta lor gente. Videsi poi saccheggiata quella povera terra, senza perdonare nè ai luoghi sacri, nè alle delizie del palazzo e giardino de' duchi di Parma, le quali furono ivi per la maggior parte disperse od atterrate. Non riportò lode il principe Luigi di Wirtemberg, comandante allora pro interim dell'armata cesarea, perchè non s'inoltrasse con tutte le forze affine di stringere i Franzesi a Sacca. A lui bastò di mettere in Colorno due reggimenti. Ma nel dì 5 di giugno essendosi mosso il valoroso re di Sardegna con assai brigate sue e dei franzesi a quella volta, seguì una calda zuffa con vicendevole mortalità di gente; pure si trovarono obbligati i Tedeschi di abbandonare quel sito, oramai, ma troppo tardi, pentiti di avere comperato sì caro un acquisto che niun frutto e solamente molto danno loro produsse.

Da che fu ritornato da Padova il maresciallo di Mercy, non v'era chi non credesse imminente qualche gran fatto d'armi; ma con istupore d'ognuno egli si ritirò a San Martino del marchese estense a digerire la bile; e ciò perchè odiato dalla maggior parte degli uffiziali, come macellaio delle truppe, non avea trovato in essi l'ubbidienza dovuta. Se andassero bene con questi contrattempi gli affari dell'imperadore, sel può immaginare ciascuno. Placato in fine dopo molti giorni esso maresciallo, se ne tornò al campo, ed allora determinò di venire a giornata coi nemici. Sarebbe stato da desiderare ch'egli in sì pericoloso cimento fosse stato meglio servito dai suoi occhi, e che le misure da lui prese fossero state quali convengono ai più accorti generali di armate. Parve a non pochi mal conceputo disegno l'aver egli (giacchè troppo difficile era l'assalire il [391] campo contrario nelle linee ben fortificate del fiume Parma) preso un giro al mezzogiorno della città di Parma, con intenzione di azzuffarsi all'occidente, dove di fortificazioni erano privi i Franzesi; ma senza far caso di lasciare esposto un fianco del suo esercito alle artiglierie della città, e del potere la guernigione di essa città tagliargli la ritirata, in caso di disgrazie. Ma egli era portato da una ferma credenza di sconfiggere i nemici; e il vero è che pensava di trovare i Franzesi nell'accampamento loro dietro alla Parma, e non già nel sito dove succedette dipoi il terribil conflitto. All'armata gallo-sarda non si trovava più il maresciallo di Villars, perchè la sua soverchia età gli avea siffattamente infiacchita la memoria, che ora dato un ordine, da lì a poco dimentico del primo, ne spediva un altro in contrario. Laonde, richiamato alla corte, s'inviò nel dì 27 di maggio alla volta di Torino, dove, sorpreso da malattia, diede fine ai suoi giorni, ma non già alla gloria di essere stato uno dei più sperti e rinomati condottieri d'armata dei giorni suoi. Anche il generalissimo Carlo Emmanuele re di Sardegna avea dato una scorsa a Torino, per visitar la regina caduta inferma. Ora, essendo restato al comando dell'esercito gallo-sardo i due marescialli di Coigny e di Broglio, o sia che le spie portassero avviso dei movimenti degl'imperiali, o pure fosse accidente, mossero eglino il campo, per venire anch'essi al mezzo giorno, verisimilmente per coprire la città di Parma da ogni attentato.

All'improvviso dunque nella mattina del dì 29 di giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, si scontrarono le due nemiche armate sulla strada maestra, o vogliam dire via Claudia, stendendosi i Franzesi dalla città fino per un miglio al luogo detto la Crocetta, ben difesi dagli alti fossi della medesima strada. Ancorchè si trovasse il Mercy inferiore di gente, per aver lasciato molti staccamenti indietro alla custodia dei passi, e tutta la [392] fanteria non fosse peranche giunta, pure attaccò furiosamente la battaglia con istrage non lieve de' nemici. Costò anche gran sangue l'espugnazione d'una cassina; ma il peggio fu ch'egli stesso, col troppo esporsi alle palle degli avversarii, ne restò sì malamente colto, che sul campo spirò l'ultimo fiato. Non si sa se il funerale fosse poi accompagnato dalle lagrime di alcuno. Arrivata la fanteria tutta, crebbe maggiormente il fuoco, le morti e le ferite da ambe le parti, senza nondimeno che l'una passasse nei confini dell'altra. A cagione di tanti fossi ed alberi poco o nulla potè operare la copiosa cavalleria tedesca; e i soli fucili e i piccioli cannoni da campagna, ma non mai le sciabole e baionette, fecero l'orribil giuoco. Da molti fu creduto che il principe Luigi di Wirtemberg, rimasto comandante in capo dopo la morte del Mercy, non sapesse qual regolamento avesse preso il defunto generale, e però pensasse più alla difesa che all'offesa. Ed altri immaginarono che se fosse sopravvissuto il Mercy, egli avrebbe riportata vittoria, o sacrificata la maggior parte delle sue truppe. La conclusione fu, che questo sanguinoso combattimento durò fino alla notte, la quale pose fine al vicendevol macello; ed amendue l'armate rimasero nei loro campi a considerare e compiangere le loro perdite per tanti uffiziali e soldati o uccisi o feriti, senza sapere qual destino fosse toccato alla parte contraria. Non aspetti alcuno da me d'intendere a quante migliaia ascendesse il danno dell'una o dell'altra armata, insegnando la sperienza che ognuno si studia d'ingrandire il numero dei nemici e di sminuire il numero dei proprii. Calcolarono alcuni che almen dieci mila persone tra gli uni e gli altri restassero freddi sul campo. Quel ch'è certo, ciascuna delle parti nella notte, al trovare tanta copia di morti e feriti, si credette vinta; e si sa che i comandanti franzesi, tenuto consiglio, meditavano già di ritirarsi ai confini della Sacca e a decampare [393] dai contorni di Parma; quando verso la mezza notte giunse la grata nuova che i Tedeschi, levato il campo, erano in viaggio per tornarsene verso il Reggiano. Snervati cotanto di gente si trovarono essi cesarei, e privi di vettovaglie e foraggi, e in vicinanza d'essa città nemica, che loro fu necessario di retrocedere. Era ferito anche lo stesso principe di Wirtemberg.

Videsi in questi tempi Parma tutta piena di Gallo-Sardi feriti, e una processione continua per due giorni sulla via Claudia di feriti tedeschi, non curati da alcuno, de' quali parte ancora nel viaggio andava mancando di vita: spettacolo compassionevole ed orrido a chi contemplava in essi l'umana miseria e i frutti amari dell'ambizion de' regnanti. Sul fine della battaglia per le poste, e con grave pericolo di cadere in mano dei cesarei, il re di Sardegna pervenne al campo. Fu creduto migliore consiglio il non inseguire i fuggitivi nemici, e nel dì seguente s'inviò buona parte dell'esercito gallo-sardo verso Guastalla per isloggiarne i Tedeschi. V'era dentro un presidio di mille e duecento persone, e per disattenzione dei comandanti cesarei niuno avviso fu loro inviato della succeduta catastrofe; laonde, trovandosi quella gente sprovveduta d'artiglierie, di munizioni e di viveri, fu obbligata di rendersi prigioniera. Giunse intanto l'esercito tedesco a passare il fiume Secchia, dopo aver lasciate funeste memorie di ruberie per dovunque passò; e a fin di mantenere la comunicazione colla Mirandola e col Mantovano, si diede tosto ad afforzarsi sugli argini dello stesso fiume; siccome parimente fecero i Franzesi nella parte di là, con aver posto il re di Sardegna il quartier generale a San Benedetto. Avea nella precedente primavera il maresciallo di Villars pensato a stendere la sua giurisdizione anche negli Stati di Modena, sì per assicurarsi di questa città e della sua cittadella, come anche per istendere le contribuzioni in questo paese: [394] mestiere favorito dai monarchi della terra, e praticato tanto più indiscretamente da essi, quanto più son potenti e ricchi, senza distinguere paesi neutrali ed innocenti dai nemici. Nel dì 15 d'aprile comparve a Modena il marchese di Pezè, uffiziale franzese di gran credito ed eloquenza, che fece la dimanda d'essa cittadella in deposito a nome del re Cattolico. Per quante esibizioni facesse il duca Rinaldo di sicurezze ch'egli guarderebbe quella fortezza senza darla ai nemici degli alleati, saldo stette il Pezè in esigere, e non men di lui il duca in negare sì fatta cessione. Andossene perciò senza aver nulla guadagnato quell'uffiziale, e il duca, a cagion di questo, guernì di qualche migliaio di sue milizie la cittadella predetta. Ma da che dopo la battaglia di Parma si trovarono sì infievoliti i cesarei, spedì il duca al campo gallo-sardo l'abbate Domenico Giacobazzi, oggidì consigliere di Stato e segretario ducale, ben persuaso di non poter più resistere alla tempesta, e desideroso di salvare quel più che potea nell'imminente naufragio. Disposte poscia il meglio che fu possibile le cose, nel dì 14 di luglio si ritirò il duca con tutta la sua famiglia a Bologna. Il principe ereditario Francesco suo figlio e la principessa consorte s'erano molto prima portati a Genova, e di là poi col tempo passarono amendue a Parigi.

Entrarono nel dì 13 i Franzesi in Reggio, e nel dì 20 del mese suddetto comparve alle porte di Modena il marchese di Maillebois, tenente generale di sua maestà Cristianissima, con buon distaccamento d'armati che accordò alla città e sue dipendenze un'onesta capitolazione, restando intatta la giurisdizione, dominio e rendite del duca, con altri patti in favore del popolo: patti di carta, che non durarono poi se non pochi giorni. Che intollerabili aggravii, che esorbitanti contribuzioni imponessero poscia i Franzesi agli Stati suddetti, non occorre ch'io lo ricordi, dopo averne assai parlato nelle Antichità Estensi. Divennero in oltre essi [395] Stati il teatro della guerra, tenendo i Cesarei la Mirandola e tutto il basso Modenese, e i Franzesi Modena, Reggio, Correggio e Carpi. Il fiume Secchia era quello che dividea le armate, le quali andarono godendo un dolce ozio sino alla metà di settembre, ma senza lasciarne godere un briciolo ai poveri abitanti. Al comando dell'armi imperiali era intanto stato inviato da Vienna il maresciallo conte Giuseppe di Koningsegg, signore di gran senno, che tosto determinò di svegliare gli addormentati nemici. Trovavasi in questo tempo attendato a Quistello il maresciallo franzese conte di Broglio con parte dell'esercito, guardando i passi della Secchia. Con isforzate marcie e con gran silenzio sull'alba del dì 15 di esso settembre ecco comparire il nerbo maggiori degli Alemanni, valicar la poca acqua del fiume, sorprendere i picchetti avanzati, e poi dare improvvisamente addosso al campo franzese. Non ebbero tempo colti nel sonno i soldati di prendere l'armi, non che di ordinar le schiere. Solamente si pensò alle gambe. Fuggì in camicia il maresciallo di Broglio; e il signore di Caraman suo nipote, colonnello e brigadiere d'essa armata, essendosi opposto per facilitare al zio la ritirata, restò con altri uffiziali prigioniero. Andò a sacco tutto il campo, tende, bagagli, armi, munizioni, e le argenterie de' maggiori uffiziali. Era molto splendida e copiosa quella del conte di Broglio, la cui segreteria restò anch'essa in mano dei vincitori. Per questa disavventura fu da lì innanzi esso maresciallo, benchè personaggio di gran merito e mente, guardato di mal occhio alla corte di Francia, e col tempo si vide cadere. Rimasero per tale irruzione tagliati fuori molti corpi di Franzesi, che si renderono prigioni, altri ne furono presi a letto nel campo, tal che fu creduto, che tra morti e prigioni, vi perdessero i Franzesi da tre e forse più mila persone. Maggiore senza paragone sarebbe stata la perdita loro, se non si fossero sbandati i Tedeschi dietro al ricco spoglio del campo, e non [396] avessero trovato, allorchè presero ad inseguire i nemici, varie fosse e canali, custoditi da qualche truppa franzese, che ritardarono di troppo i lor passi. Ebbe tempo il re di Sardegna di ritirarsi colla sua gente da San Benedetto, conducendo seco cannoni e bagaglio, pizzicato nondimeno per viaggio. Solamente due battaglioni restati in quel monistero con altri Franzesi capitati colà, dopo avere ottenuti patti onesti, si renderono agl'imperiali.

Ridotto in fine con gran fretta tutto l'esercito gallo-sardo a Guastalla fuori di quella città, e fra i due argini del Po e del Crostolo vecchio, si diede con gran fretta a formare alti e forti trincieramenti; nel qual tempo furono anche abbandonati Carpi e Correggio dai presidii franzesi, che si ritirarono al grosso della lor armata. A quella volta del pari trasse tutto il cesareo esercito, e poco si stette a vedere un altro spaventevole fatto d'armi. Molto fu poi disputato se a questo nuovo conflitto si venisse per accidente o pure per risoluta volontà del maresciallo di Koningsegg. Giudicarono alcuni che, per una scaramuccia insorta fra grosse partite, a poco a poco andasse crescendo l'impegno, tanto che in fine tutte le due armate entrarono in ballo. Pretesero altri che il Koningsegg, troppa fede prestando al principe di Virtemberg, asserente, come cosa certa, che la cavalleria gallo-sarda era passata oltre Po a cercar foraggi, determinasse di tentar la fortuna. Persona di credito mi assicurò, non altra intenzione avere avuto il generale cesareo, che di riconoscere il campo nemico; ma che, inoltratisi due o tre suoi reggimenti, vennero alle mani con un corpo di Franzesi: laonde la battaglia divenne a poco a poco universale. Usciti perciò dei loro trincieramenti i Franzesi in ordinanza di battaglia, nella mattina del dì 19 di settembre si azzuffarono i due possenti eserciti; e sulle prime due bei reggimenti di corazze cesaree, caduti in un'imboscata, rimasero quasi disfatti. Al primo avviso il re sardo, che si trovava [397] di là dal Po, corse a rinforzar l'armata colla sua cavalleria, e sempre colla spada alla mano in compagnia dei due marescialli di Coigny e di Broglio, attese a dar gli ordini opportuni, trovandosi coraggiosamente in mezzo ai maggiori pericoli. Giocarono in questo conflitto terribilmente le artiglierie d'ambe le parti, facendo squarci grandi nelle schiere opposte; le sciabole e baionette non istettero punto in ozio; e però sanguinosa oltremodo riuscì la pugna. Parve che il principe Luigi di Wirtemberg andasse cercando la morte: tanto arditamente si spinse egli addosso ai nemici; e infatti restò ucciso sul campo. Ora piegarono i Franzesi ed ora i Tedeschi; ma in fine, chiarito il Koningsegg che non si potea rompere l'oste contraria, prese il partito di far sonare a raccolta, e di ritirarsi colla migliore ordinanza che fu possibile. Si disse che i Franzesi l'inseguissero per un tratto di strada, ma non è certo. A quanto montasse la perdita dell'una e dell'altra parte, resta tuttavia da sapersi. Indubitata cosa è che vi perì gran gente con molti insigni uffiziali di prima riga e subalterni, e maggior fu la copia de' feriti, la quale ascese a migliaia. Si attribuirono i Gallo-Sardi la vittoria, e non senza ragione, perchè restarono padroni del campo, di quattro stendardi e di qualche pezzo di cannone e i Savoiardi riportarono in trionfo un paio di timballi. Ebbe l'avvertenza il maresciallo cesareo, nello stesso bollore del poco prospero conflitto, di spedir ordine perchè si formasse o si armasse gagliardamente il ponte di comunicazione col Mantovano sul Po, e fu ben servito. Nè si dee tacere che il marchese di Maillebois, durante la battaglia suddetta, con tre mila cavalli di là dal Po corse per sorprendere Borgoforte, ed impedire la comunicazione del ponte; ma non fu a tempo, anzi ben ricevuto, non pensò che a tornarsene indietro.

Venne nei seguenti giorni a notizia dei Franzesi altro non trovarsi nella Mirandola che lo scarso presidio di trecento [398] Alemanni con poca artiglieria. Parve questo il tempo d'impadronirsene. Scelto per tale impresa il suddetto tenente generale Maillebois, uomo di grande ardire ed attività, comparve sotto quella piazza con sei mila combattenti, con otto grossi pezzi d'artiglieria cavati da Modena, e con altri cannoni; e senza riguardi e cerimonie alzò tosto una batteria sul cammino coperto. Essendo poi corsa voce che dieci mila Tedeschi venivano a fargli una visita, con tutti i suoi arnesi fu presto a ritirarsi. Ma, scopertasi falsa questa voce, egli, più che mai voglioso e isperanzito di quell'acquisto, tornò sotto alla piazza, e con tutto vigore rinovò le offese. Fatta la breccia, si preparava già a scendere nella fossa, quando venne a sapere che il Koningsegg segretamente avea fatto sfilare alquante migliaia de' suoi a quella volta, e formato un ponte sul Po a questo effetto; però da saggio comandante nel dì 12 di ottobre sloggiò, e tal fu la fretta, che lasciò indietro tutta l'artiglieria. Niun'altra considerabile impresa fu fatta nel resto dell'anno, se non che ostinatosi il conte di Koningsegg di stare colla sua gente in campagna tra il Po e l'Oglio, gran tormento diede all'oste gallo-sarda obbligata a gravi patimenti, alloggiando e dormendo i poveri soldati non più sulla terra, ma sui fanghi e nell'acqua. Non soffrì il re di Sardegna che più durasse tanto affanno delle milizie, e decampato che ebbe, le ridusse ai quartieri di verno, ma sì mal concie, che, entrata fra loro un'epidemia, nei seguenti mesi sbrigò dai guai del mondo una parte di essi, e non solo essi, ma chiunque dei medici, chirurghi e cappellani che assisterono ad essi: come pur troppo si provò nella città di Modena. La ritirata loro aprì il campo ai Cesarei per passar l'Oglio, ed impadronirsi di Bozzolo, Viadana, Casal Maggiore ed altri luoghi. E al principe di Sassonia Hildburgausen riuscì con finti cannoni di legno di far paura al comandante di Sabbioneta, che non ebbe difficoltà di renderla a patti onorevoli. Con tali imprese [399] terminò nell'anno presente la campagna in Lombardia.

Ci chiama ora un'altra memorabile scena, parimente spettante a quest'anno e all'Italia. Siccome accennammo, era già stata presa nel gabinetto di Spagna la risoluzion di valersi del tempo propizio in cui si trovavano impegnate l'armi di Cesare al Reno e in Lombardia, per la conquista dei regni di Napoli e Sicilia. Ognun vedea che le mire degli Spagnuoli con tanti legni in mare, con tanta cavalleria e fanteria già pervenuta in Toscana, e che andava ogni dì più crescendo, tendevano a passar colà. Maggiormente ancora se ne avvide il conte don Giulio Visconti, vicerè allora di Napoli, il quale bensì per tempo si accinse a far la possibile difesa, con fortificare spezialmente Gaeta e Capoa, e provvederle di gente e di tutto il bisognevole; ma, per trovarsi con forze troppo smilze a sì pericoloso cimento, con replicate lettere facea istanza di soccorsi alla corte di Vienna. Ne ricevè molte speranze; a riserva nondimeno di alquante reclute e di altre poche milizie che dal litorale austriaco e dalla Sicilia per mare andarono capitando colà, si sciolsero tutte in fumo le altre promesse. Il quartier generale dell'esercito spagnuolo, sotto la direzione del conte di Montemar, nel gennaio di quest'anno era in Siena. A quella volta si mosse da Parma anche il real infante don Carlo; ed essendo nel dì 5 di febbraio passato in vicinanza di Modena, salutato con salva reale dalla cittadella, arrivò poi nel dì 10 felicemente a Firenze. Portò egli seco gli arredi più preziosi dei palazzi Farnesi di Parma e Piacenza, ben prevedendo che gli si preparava un più magnifico alloggio in altre parti. Anche il duca di Liria, raccolte le truppe spagnuole ch'erano sparse negli Stati del duca di Modena, e abbandonata la Mirandola, andò ad unirsi all'esercito sul sanese. Da che sul fine di febbraio si fu messo alla testa di sì bella e poderosa armata esso reale infante, tutti si mossero alla volta di Roma, e nel dì 15 passarono [400] sopra un preparato ponte il Tevere. Nello stesso tempo per mare capitò a Cività vecchia la numerosa flotta di Spagna, ed otto navi di essa, veleggiando oltre, nel dì 20 s'impossessarono delle isole di Procida ed Ischia. Furono sparsi per Napoli e pel regno manifesti che promettevano per parte dell'infante diminuzion di aggravii, e privilegii e perdono a chi in addietro avea tenuto il partito imperiale contro la corona di Spagna.

Stavano intanto speculando i satrapi della politica se gli Spagnuoli troverebbero opposizioni ai confini. Niuna ne trovarono, e però avendo essi declinata Capoa, e passato il Volturno, giunsero a sant'Angelo di Rocca Canina. Era stata su questo disputa fra i due generali, Caraffa Italiano e Traun Tedesco. Pretendeva l'uno d'essi, cioè il primo, che tornasse più il conto a sguernire le piazze di presidii, e raccolta tutta la gente di armi alemanna, doversi formare un'armata che andasse a fronte della nemica, per tentare una battaglia. Succedendo questa felicemente, pareva in salvo il regno. All'incontro, col difendere i soli luoghi forti, Napoli era perduta; e chi ha la capitale, in breve ha il resto. Sosteneva per lo contrario il conte Traun il tener divise le soldatesche nelle fortezze; perchè, venendo i promessi soccorsi di venti mila armati dalla Germania, Napoli si sarebbe felicemente ricuperata. Prevalse quest'ultimo sentimento, e fu la rovina de' cesarei, che niun rinforzo riceverono, e perderono tutto. Dopo la disgrazia fu chiamato in Vienna il generale Caraffa, fedele ed onoratissimo signore, imputato di non aver ben servito l'augusto padrone. Andò egli ma non gli fu permesso di entrare in Vienna, nè di parlare a sua maestà cesarea. Per altro, portò egli seco le chiare sue giustificazioni. Fu detto che l'imperadore con sua lettera gli avesse ordinato di raunar la gente, e di venire ad un fatto d'armi, e che altra lettera del consiglio di guerra sopraggiunse con [401] ordine tutto contrario. Avea il conte don Giulio Visconti vicerè preventivamente inviata a Roma la moglie col meglio dei suoi mobili, e a Gaeta le scritture più importanti; ed egli stesso dipoi prese la strada di Avellino e Barletta, per non essere spettatore della inevitabil rivoluzione di Napoli, che tutta era in iscompiglio, e che scrisse a Vienna le scuse e discolpe della sua fedeltà, se sprovveduta di chi la sostenesse, era forzata a cedere ad un principe che si accostava con esercito sì potente per terra e per mare. Giunto pertanto nel dì 9 d'aprile il reale infante coll'oste sua a Maddalori, lungi quattordici miglia da Napoli, vennero i deputati ed eletti di quella real città ad inchinarlo, e a presentargli le chiavi, coprendosi come grandi di Spagna, secondo il privilegio di quella metropoli. Nel seguente dì 10 fu spedito un distaccamento di tre mila Spagnuoli, che pacificamente entrarono in Napoli, e l'infante passò alla città d'Aversa, fissando ivi il suo quartiere, finattantochè si fossero ridotte all'ubbidienza le fortezze della capitale. Contra di queste, preparati che furono tutti gli arnesi, si diede principio alle ostilità. Nel dì 25 si arrendè il castello Sant'Ermo, con restare prigioniera la guernigione tedesca di secento venti persone. Due giorni prima anche l'altra di Baia, dopo aver sentite alquante cannonate, si rendè a discrezione. Consisteva in secento sessanta soldati. Il castello dell'Uovo durò sino al dì 5 di maggio, in cui quel presidio, esposta bandiera bianca, restò al pari degli altri prigioniero. Altrettanto fece nel dì 6 d'esso mese Castel Nuovo.

Dappoichè fu libera dagli Austriaci la città di Napoli, vi fece il suo solenne ingresso nel dì 10 di maggio l'infante reale don Carlo fra le incessanti allegrie ed acclamazioni di quel gran popolo. Nobili fuochi di gioia nelle sere seguenti attestarono la contentezza d'ognuno, ben prevedendo che questo amabil principe, così ornato di pietà e tanto inclinato alla [402] clemenza, avea da portar quella corona in capo. In fatti nel dì 15 d'esso maggio giunse corriere di Spagna col decreto, in cui il Cattolico monarca Filippo V dichiarava questo suo figlio re dell'una e dell'altra Sicilia: avviso, che fece raddoppiar le feste ed allegrezze di un popolo non avvezzo da più di ducento anni ad avere re proprio. Tutti i saggi riconobbero quale indicibil vantaggio sia l'aver corte e re o principe proprio. Trovavansi in Bari già adunati circa sette mila soldati cesarei. Poichè voce si sparse che sei mila Croati aveano da venire ad unirsi a questa piccola armata, il capitan generale spagnuolo, cioè il conte di Montemar, a fin di prevenire il loro arrivo, col meglio dell'esercito suo, facendolo marciare a grandi giornate, corse anch'egli a quelle parti. Nel dì 27 di maggio trovò egli quella gente in vicinanza di Bitonto in ordine di battaglia, e tosto attaccò la zuffa con essi. Ma quella non fu zuffa, perchè subito si disordinarono e diedero alle gambe gl'Italiani, che erano i più, e furono seguitati dagli Alemanni. La maggior parte restò presa, e gli altri si salvarono in Bari. Non si potè poi cavar di testa alla gente che il principe di Belmonte marchese di San Vincenzo, comandante di quel corpo di truppe, non avesse prima acconciati i suoi affari con gli Spagnuoli, giacchè da lì a non molto fu osservato ben visto e favorito da loro. Anche gli abitanti di Lecce, mossa sollevazione, presero quanti Tedeschi si trovarono in quella contrada. In riconoscenza dei rilevanti servigi prestati al nuovo re di Napoli, fu il conte di Montemar dichiarato duca di Bitonto, e comandante de' castelli di Napoli con pensione annua di cinquanta mila ducati. Impadronironsi poscia gli Spagnuoli di Brindisi e di Pescara, con restar prigioni di guerra quei presidii. Ma ciò che più stava loro a cuore, era la città di Gaeta, piazza di gran polso, e ben provveduta di gente, viveri e munizioni per la difesa. Nel dì 31 di luglio si portò per mare colà il giovine re [403] don Carlo, ed allora l'esercito aprì la trinciera. A tale assedio comparve anche Carlo Odoardo principe di Galles, primogenito del cattolico re Giacomo III Stuardo, che fu accolto dal re di Napoli con dimostrazioni di distinta stima ed amore. Ma quella forte piazza, con istupore di ognuno, non resistè che pochi giorni alle batterie nemiche, e nel dì 7 d'agosto la guernigione tedesca cedette il posto alla spagnuola. Perchè quegli abitanti ricusarono di venire ad un accordo col generale dell'artiglieria, videro trasportate a Napoli tutte le lor campane, essendone restate solamente alcune picciole in due o tre conventi. Bella legge, che è questa, di punir le innocenti chiese con sì barbaro spoglio! Ciò fatto, si fecero tutte le disposizioni necessarie per passare alla conquista della Sicilia.

Nel dì 25 d'esso mese d'agosto essendosi imbarcato il capitan generale conte di Montemar, mise alla vela il gran convoglio, numeroso di circa trecento tartane, cinque galee, cinque navi da guerra, due palandre, e molti altri legni minori. In vicinanza di Palermo approdò felicemente sul fine del mese quella flotta, laonde il senato di quella metropoli, siccome privo di difensori, non tardò a far colà la sua comparsa, per attestare l'ossequio di quel popolo alla real famiglia di Spagna. Addobbi insigni, strepitose acclamazioni solennizzarono nel dì 2 di settembre l'ingresso in Palermo del suddetto Montemar di già dichiarato vicerè di Sicilia. Passò egli dipoi col forte dell'armata a Messina, i cui cittadini aveano già ottenuta licenza di rendersi, giacchè il principe di Lobcovitz comandante avea ritirati i presidii dai castelli di Matagriffone, Castellazzo e Taormina, per difendere il solo castello di Gonzaga e la cittadella. Ma poco stette a rendersi esso castello di Gonzaga con quattrocento uomini, che rimasero prigionieri; però tutto lo sforzo degli Spagnuoli si rivolse contro la sola cittadella, difesa con indicibil valore do quella guernigione. Trapani e [404] Siracusa furono nello stesso tempo assediate. Altro più non restava nel regno di Napoli che la città di Capoa, ricusante di sottomettersi all'armi di Spagna. Entro v'era il general conte Traun, che si sostenne sempre con gran vigore, e sovente si lasciava vedere ai nemici con delle sortite. Una d'esse fece ben dello strepito, perchè essendosi per le pioggie ingrossato il fiume Volturno, e rimasti tagliati fuori circa mille Spagnuoli, perchè senza comunicazione col loro campo; il Traun uscito con quasi tutta la guernigione, e con dei piccioli cannoni coperti sopra delle carra, parte ne stese morti sul suolo, altri ne fece prigionieri. Ma in fine niuna speranza rimanendo di soccorso, e volendo esso generale salvare il presidio, capitolò la resa di quella città e castello nel dì 22 d'ottobre, se in termine di sei giorni non gli veniva aiuto, o non fosse seguito qualche armistizio, con altre condizioni. Però, venuto il termine, furono scortati questi Alemanni sino a Manfredonia e Bari, per essere trasportati a Trieste. Ed ecco tutto il regno di Napoli all'ubbidienza del re Carlo, a cui nel presente anno si videro di tanto in tanto arrivar nuovi rinforzi di gente, munizioni e danaro. Fra tanti soldati fatti prigionieri nei regni di Napoli e Sicilia, la maggior parte degli Italiani, ed anche molti Tedeschi si arrolarono nell'esercito spagnuolo. Ma perciocchè essi Alemanni, tosto che se la vedevano bella, disertavano, fu preso il partito d'inviarne una parte degli arrolati e il resto dei prigioni in Ispagna. Di là poi furono trasportati in Africa nella piazza d'Orano, dove trovarono un gran fosso da passare, se più veniva lor voglia di disertare.

Maggiormente si riaccese in questo anno la ribellion de' Corsi, dove quella brava gente, già impadronitasi di Corte, sul fine di febbraio diede una rotta al presidio genovese uscito della Bastia, e nel dì 29 di marzo sconfisse un altro corpo d'essi Genovesi. Continuarono poi nel resto dell'anno le sollevazioni e le [405] azioni militari con varia fortuna in quell'isola. Roma vide in questi tempi per la protezion di Vienna, e per lo sborso di trenta mila scudi, alquanto migliorata la condizione del cardinal Coscia, che restò liberato dalle censure già promulgate contra di lui, ma non già dalla prigionia di castello Sant'Angelo. Un insigne regalo fece il pontefice Clemente XII al Campidoglio, con ordinare il trasporto colà della bella raccolta di statue antiche fatta dal cardinale Alessandro Albani, ed acquistata dalla santità sua col prezzo di sessantasei mila scudi. Ma nel dì 6 maggio si trovò tutta in conquasso essa città di Roma, per essersi verso il mezzo dì attaccato il fuoco ad un castello di legnami sulle sponde del Tevere, dirimpetto al quartiere di Ripetta e alla piazza dell'Oca. Spirava un gagliardo vento, che di mano in mano andò portando le fiamme agli altri castelli circonvicini, e ad alcuni pochi magazzini di legna, e alle case di quasi tutta quell'isola; di maniera che circa quattro mila persone rimasero senza abitazione, e vi perderono i loro mobili. Per troncare il corso a sì spaventoso incendio, fu di mestieri trasportar colà alcuni cannoni da castello Sant'Angelo, che, atterrando varie case, non permisero al fuoco di maggiormente inoltrare i suoi passi. Guai se penetrava agli altri magazzini di fieno e di legna. Incredibile fu il danno, non minore lo spavento. Fece il benefico papa distribuir tosto due mila scudi a quella povera gente. Nell'anno presente, siccome vedemmo, provò l'augusta casa d'Austria in Italia tante percosse, e nè pure in Germania potè esentarsi da altre disavventure per la troppa superiorità dell'armi franzesi. In questo bisogno di Cesare l'ormai vecchio principe Eugenio di Savoia ripigliò l'usbergo, e passò con quelle forze che potè raunare a sostener le linee di Erlingen. Quand'ecco due possenti eserciti franzesi, l'uno condotto dai marescialli e duchi di Bervich e Noaglies, e l'altro dal marchese d'Asfeld, che quasi [406] il presero in mezzo. Gran lode riportò il principe per la stessa sua ritirata, fatta da maestro di guerra, perchè seppe mettere in salvo le artiglierie e bagagli, e mostrando di voler cimentarsi, saggiamente si ridusse in salvo senza alcun cimento con tutti i suoi. Fu poi assediata l'importante fortezza di Filisburgo dai Franzesi, e con sì fatti trincieramenti circonvallata, che, ritornato il principe con oste poderosa per darle soccorso, altro non potè fare che essere come spettatore della resa d'essa nei dì 21 di luglio. Gran gente costò ai Franzesi lo acquisto di quella piazza, e fra gli altri molti uffiziali vi lasciò la vita il suddetto duca di Bervich della real casa Stuarda, uno dei più grandi e rinomati condottieri d'armate de' giorni suoi. Una palla di cannone privò la Francia di sì accreditato generale. Niun'altra considerabile impresa seguì poscia nell'anno presente in quelle parti, nulla avendo voluto azzardare il principe Eugenio, a cagion degli infausti successi dell'armi cesaree in Italia. E tal fine con tante vicende ebbe l'anno presente, in cui con occhio tranquillo stettero Inglesi ed Olandesi mirando i deliquii dell'augusta casa d'Austria, quasichè nulla importasse loro il sempre maggiore ingrandimento della real casa di Borbone. Col tempo se n'ebbero a pentire.


   
Anno di Cristo MDCCXXXV. Indiz. XIII.
Clemente XII papa 6.
Carlo VI imperadore 25.

Gran cordoglio provò in quest'anno Carlo Emmanuele re di Sardegna, per avergli la morte rapita, nel dì 15 di gennaio, la real sua consorte, cioè Polissena Cristina d'Hassia Rhinfels Rotemburgo, principessa amabilissima e dotata di rare virtù, giunta all'anno ventesimo nono della sua età, con lasciar dopo di sè due principini e due principesse. Ebbe bisogno il re di tutta la sua virtù per consolarsi nella perdita di una consorte di [407] merito tanto singolare. Parimente fu colpito dalla morte in Venezia il dì 5 di gennaio Carlo Ruzzini in età d'anni ottantuno in circa; e a lui fu sostituito nella ducal dignità Luigi Pisani. A simile funesto colpo soggiacque nel dì 18 del suddetto gennaio in Roma anche la principessa Maria Clementina figlia di Giacomo Sobieschi, principe reale di Polonia, e moglie di Giacomo III Stuardo re cattolico della Gran Bretagna, da lui sposata nel settembre nel 1719 in Montefiascone. Tali furono le eroiche virtù, e massimamente l'inarrivabil pietà di questa principessa, che vivente fu da ognuno riguardata qual santa, e meritò poi che le sue insigni azioni fossero tramandate ai posteri come un esemplare delle principesse eroine. Arricchì di due figli il real consorte, cioè di Carlo Odoardo principe di Galles, nato nel dì 31 di dicembre del 1720, e di Arrigo Benedetto duca di Yorch, nato nel dì 6 di marzo del 1725. Suntuosissimo funerale, qual si conveniva ad una regina, le fu fatto per ordine del sommo pontefice Clemente XII nella chiesa de' Santi Apostoli. Portato il cadavero suo nella basilica Vaticana, disegnò esso santo padre di ergerle un mausoleo non inferiore a quello della regina di Svezia Cristina. Attendeva in questi tempi il magnanimo pontefice ad accrescere gli ornamenti di Roma colla gran facciata della basilica lateranense, e con abbellire in forma sommamente maestosa la fontana di Trevi. Nello stesso tempo erano occupate le rendite sue in provvedere di un insigne lazzaretto la città d'Ancona. Eresse parimente un magnifico seminario nella diocesi di Bisignano, affinchè servisse all'educazione de' giovani greci. Buone somme ancora di danaro spedì al cardinale Alberoni legato di Ravenna, affinchè divertisse i due fiumi Ronco e Montone, che minacciavano, per l'altezza dei loro letti, l'eccidio a quell'antichissima città.

Meraviglie di valore e di prudenza avea fatte fin qui il principe di Lobcovitz in sostenere l'assediata cittadella di Messina, [408] e più ne avrebbe fatto, se non gli fossero venuti meno i viveri e le munizioni. Costretto dunque non dalla forza delle armi, ma dalla propria penuria, finalmente nel dì 22 di febbraio espose bandiera bianca, ottenne onorevoli condizioni, e lasciò poi solamente nel fine di marzo in potere degli Spagnuoli quell'importante fortezza. Maggior fu la resistenza che fece pel suo vantaggioso sito, e per la valorosa condotta del generale marchese Roma, la città di Siracusa; ma bersagliata per mare e per terra da bombe ed artiglierie, nel dì 16 di giugno anch'essa, con patti simili a quei di Messina, si diede per vinta. Vi restava l'unica fortezza di Trapani, tuttavia difesa dagli Alemanni. Non passò il dì 21 dello stesso giugno che anch'essa piegò il collo alle armi vincitrici di Spagna; di maniera che tutta l'isola e regno della Sicilia restò pacificamente soggetta al giovane re don Carlo. S'era già fin dal mese di febbraio messo in viaggio per terra questo grazioso regnante alla volta dello Stretto, per passare colà, e prendere in Palermo, secondo l'antico rituale, la corona delle Due Sicilie. Arrivato a Messina, vi fece il suo pubblico ingresso nel dì 9 di marzo, accolto con somma allegrezza da quel popolo. Dopo molti giorni di riposo, imbarcato pervenne felicemente, nel dì 18 di maggio, a Palermo. Destinato il dì 3 di luglio, giorno di domenica, per l'incoronazione di sua maestà, con indicibil magnificenza fu eseguita quella funzione. Dopo di che, scortato da numerosa flotta, egli se ne tornò per mare alla sua residenza di Napoli, dove felicemente arrivò nel dì 12 del suddetto luglio. Per tre giorni furono fatte insigni feste in quella gran città con bellissime macchine e ricchissime illuminazioni, facendo a gara ognun per comprovare il suo giubilo al reale sovrano. Avea molto prima d'ora conosciuto il capitan generale duca di Montemar, che non occorrevano più tante truppe nel regno di Napoli, e perciò nel febbraio di quest'anno si mosse con alquante migliaia [409] d'esse, e valicato il Tevere, passò in Toscana. Sua intenzione era di levare ai tedeschi le fortezze poste nel litorale di essa Toscana. Nuovi rinforzi gli arrivarono di Spagna; laonde nell'aprile diede principio alle ostilità contra di Orbitello, e nel dì 16 a tempestare coll'artiglierie il forte di San Filippo. Perchè cadde una bomba nel magazzino della polve di questo forte, il presidio ne capitolò la resa e restò prigioniere, dopo aver sostenuto per ventinove giorni le offese dei nemici. Altrettanto fece dipoi Porto Ercole. Perchè premure maggiori chiamavano esso duca di Montemar in Lombardia, sollecitamente per la via di Fiorenzuola istradò egli le sue milizie alla volta di Bologna, avendo lasciato solamente un corpo di gente al blocco di Orbitello, piazza, che si arrendè poscia sul principio del mese di luglio.

Correva il fine di maggio, quando passò pel Modenese quest'armata spagnuola, che si faceva ascendere a venti mila persone di varie nazioni, e s'inviò verso il Mantovano di qua da Po, per cominciar la campagna unitamente co' Franzesi e Savoiardi. Era già pervenuto a Milano nel dì 22 di marzo Adriano Maurizio di Naoglies, maresciallo di Francia, in cui gareggiava la felicità della mente colla bontà del cuore, la generosità colla splendidezza, per comandare all'esercito franzese. Si tennero varii consigli di guerra fra i generali alleati, e venuto che fu a Cremona nel dì 10 di maggio Carlo Emmanuele re di Sardegna, generalissimo dell'esercito, furono regolate le operazioni che doveano fare nell'anno presente. Passato dipoi il re a Guastalla, si diede ognuno a fare gli occorrenti preparamenti d'artiglierie, barche, viveri e munizioni. Ritornato parimente era da Vienna il maresciallo conte di Koningsegg al comando dell'oste cesarea, e già arrivati a Mantova alcuni nuovi reggimenti tedeschi e molte reclute. Contuttociò non si contavano nell'esercito suo se non ventiquattro mila soldati: laddove quel de' collegati era [410] ascendente a quasi due terzi di più. Diviso questo in tre corpi che poteano chiamarsi tre poderosi eserciti, marciò sul fine di maggio verso il Mantovano. Dappoichè il Noaglies prese Gonzaga, facendo prigione quel presidio, tutte le forze degli alleati marciarono per passare il Po e il fiume Oglio. Furono i lor movimenti prevenuti dal Koningsegg, che ritirò da San Benedetto, da Revere e dagli altri luoghi i presidii, e lasciò agio agli Spagnuoli di passare nel dì 15 giugno oltre Po ad Ostiglia, che nello stesso tempo con Governolo restò abbandonata dai Tedeschi. Avendo i Franzesi valicato il Po a Sacchetta, e il re di Sardegna l'Oglio a Canneto, il Koningsegg, che non voleva essere tolto in mezzo da queste tre armate, con lodatissima provvidenza andò rinculando, e dopo aver lasciati in Mantova sei mila bravi combattenti, e mandati innanzi i bagagli, i malati, e molti cannoni ed attrezzi, s'inviò verso il Veronese. A misura che i nemici s'inoltravano, anch'egli proseguiva le sue marcie, finchè, gittato un ponte sull'Adige a Bussolengo, benchè alquanto infestato dagli Spagnuoli nella retroguardia, condusse a salvamento tutta la sua gente sul Trentino, e parte ne fece sfilare verso il Tirolo.

Altro dunque più non restava in Lombardia ai Tedeschi, se non Mantova e la Mirandola; e mentre tutti si aspettavano di veder l'assedio dell'uno e dell'altra, Mantova restò solamente bloccata in gran lontananza, e il duca di Montemar verso la metà di luglio si accinse all'espugnazione della Mirandola. Dentro vi era un valoroso comandante, cioè il barone Stenz, che quantunque si trovasse con soli novecento soldati in una città e fortezza che ne esigeva tre mila, pure si preparò ad una gagliarda difesa. Non prima del dì 27 di luglio fu aperta la trinciera sotto questa piazza; e proseguirono poi le offese col passo delle tartarughe, a cagion di alcuni fortini alzati all'intorno, che impedivano gli approcci de' nemici. Bombe ed artiglierie fecero per tutto [411] il seguente agosto grande strepito e danno, senza però che si sgomentassero punto i difensori; e tuttochè fosse formata la breccia, e col mezzo di una mina e di un assalto preso anche uno di quei fortini, pure sarebbe costato molto più tempo e sangue agli Spagnuoli quell'assedio, se il valoroso comandante della città non avesse provata la fatalità delle piazze tedesche, ordinariamente mal provvedute del bisognevole per sostenersi lungo tempo contro ai nemici. Si era egli ridotto con sole trentasei palle da cannone, e con tre o quattro barili di polveraccia; già erano consumate le vettovaglie. Però, dopo aver per più d'un mese fatta una gloriosa resistenza, nel dì 31 d'agosto, con esporre bandiera bianca, si mostrò disposto a rendersi. Restò prigioniera di guerra la guarnigione di secento uomini. Sbrigato da questa faccenda il duca di Montemar, tutto si diede a sollecitar l'assedio di Mantova, il cui blocco veramente venne più ristretto. Si stesero i Franzesi dietro la riva del lago di Garda per impedire che da quella parte non isboccassero i Tedeschi; giacchè l'armata loro si andava ogni dì più ingrossando nel Trentino e Tirolo. Ma ancorchè il Montemar facesse venir dalla Toscana gran copia di artiglierie, di barche sulle carra, e di assaissime munizioni ed attrezzi, per imprendere una volta l'assedio suddetto di Mantova (perciocchè, secondo la comune opinione, si credea che quella città conquistata dovesse restare assegnata agli Spagnuoli), pure non si vedeva risoluzione alcuna in questo affare dalla parte dei Franzesi, che aveano in piedi certi segreti negoziati; nè da quella del re di Sardegna, a cui non potea piacere che gli Spagnuoli dilatassero tanto l'ali in Lombardia. Tenuto fu un congresso fra il generalissimo di Savoia, duca di Noaglies, ed esso Montemar nel dì 22 di settembre, in cui fece il generale spagnuolo delle doglianze per tanto ritardo, e si seppe ch'egli in quella congiuntura si lagnò col Noaglies, per aver egli lasciato fuggire da Goito il maresciallo [412] di Koningsegg senza inseguirlo, come potea; al che rispose il maresciallo franzese: Signor conte, signor conte: Goito non è Bitonto; e il Koningsegg non è il principe di Belmonte. In somma tutto dì si parlava di assediar Mantova, e Mantova non si vide mai assediata, benchè molto ristretta dagli Spagnuoli, facendo solamente de' gran movimenti i collegati verso il lago di Garda e verso l'Adige per impedire il passo all'armata cesarea, che cresciuta di forze minacciava di calare di bel nuovo in Italia.

Sembrava intanto agl'intendenti che tanta indulgenza de' Franzesi verso Mantova, città di cui le morti e malattie aveano ridotto quasi a nulla il presidio tedesco, indicasse qualche occulto mistero. E questo in fatti si venne a svelare nel dì 16 di novembre, perchè il maresciallo duca di Noaglies spedì al generale Kevenhuller, a cui era appoggiato il comando dell'esercito imperiale, l'avviso d'una sospension d'armi tra la Francia e l'imperadore. Tale inaspettata nuova non si può esprimere quanto riempisse non men di stupore che di consolazione e di allegrezza tutti i popoli che soggiacevano al peso della presente guerra: cioè di milizie desolatrici de' paesi dove passano o s'annidano. Onde avesse origine questa vigilia della sospirata pace, fra qualche tempo si venne poi a sapere. Motivo di sogghignare sul principio di questa guerra avea dato agl'intendenti la corte di Francia con quella pubblica sparata di non pretendere l'acquisto di un palmo di terreno nel muovere l'armi contra l'Augusto Carlo VI, poichè altro non intendeva essa che di riportare una soddisfazione alle sue giuste querele contro chi avea fatto cader di capo al re Stanislao la corona della Polonia. Troppo eroica in vero sarebbe stata così insolita moderazione della corte di Francia in mezzo alla felicità delle sue armi. La soddisfazione dunque da lei richiesta fu la seguente. Era stata la Francia costretta nelle precedenti paci alla restituzion dei [413] ducati di Lorena e Bar; ma non cessò ella da lì innanzi di amoreggiare quei begli Stati, sì comodi al non mai abbastanza ingrandito regno franzese. Ora il cardinale di Fleury, primo ministro del re Cristianissimo Luigi XV, che per tutta la presente guerra tenne sempre filo di lettere con un ministro cesareo in Vienna, o pure con un suo emissario segreto che trattava col ministro imperiale, sempre spargendo semi di pace, allorchè vide l'augusto monarca stanco e in qualche disordine gli affari di lui, propose per ultimar questa guerra la cession dei ducati della Lorena e di Bar alla Francia, mediante un equivalente da darsi all'altezza reale di Francesco Stefano duca allora e possessore di quegli Stati. L'equivalente era il gran ducato di Toscana. Irragionevole non parve all'augusto monarca la proposizione, e venuto segretamente a Vienna con plenipotenza il signor della Baume, nel dì 3 d'ottobre furono sottoscritti i preliminari della pace, e portati a Versaglies per la ratificazione.

Restò in essi accordato che il re Stanislao godrebbe sua vita natural durante il ducato di Bar, e poi quello ancora di Lorena dopo la morte del vivente gran duca di Toscana, e che il dominio d'essi ducati s'incorporerebbe poscia colla corona di Francia. Che il duca di Lorena succederebbe nella Toscana dopo la morte d'esso gran duca Gian Gastone de Medici, e intanto si metterebbero presidii stranieri in quelle piazze. Fu riserbato ad esso duca Francesco il titolo colle rendite della Lorena, sinchè divenisse assoluto padrone della Toscana. Che la Francia garantirebbe la prammatica sanzione dell'imperadore, il quale riconoscerebbe re delle Due Sicilie l'infante reale don Carlo. Che a Carlo Emmanuele re di Sardegna Cesare cederebbe due città a sua elezione nello Stato di Milano, cioè o Novara, o Tortona, o Vigevano, e all'incontro si restituirebbe all'imperadore il rimanente dello Stato di Milano. [414] Inoltre, in compenso delle due città da cedersi al re di Sardegna, si darebbono a sua maestà cesarea quelle di Piacenza e Parma con gli annessi Stati della casa Farnese. Tralascio gli altri articoli di quei preliminari, per solamente dire che il suddetto segreto negoziato cagion fu che in questa campagna nè al Reno, nè in Lombardia si fecero azioni militari degne di memoria; e che gran tempo e fatica vi volle per indurre il duca di Lorena alla cessione de' suoi antichi ducati, e all'abbandono di que' suoi amatissimi popoli. Acconsentì egli in fine a questo sacrifizio, perchè Cesare già gli destinava un ingrandimento di gran lunga maggiore, siccome vedremo fra poco. Per questa impensata concordia, tirato che fu il sipario, secondo i particolari riguardi, chi si rallegrò e chi si rattristò. Non ne esultò già il re di Sardegna, perchè comune voce fu che la Francia nella lega gli avesse promessa la metà dello Stato di Milano, e questo già prima era stato acquistato. Tuttavia mostrò quel savio regnante con buona maniera di accomodarsi ai voleri di chi dava la legge, ed elesse poi in sua parte Novara e Tortona. Ma allorchè giunse a Madrid questa inaspettata nuova, chi sa dire le gravissime doglianze, nelle quali proruppe quella real corte contra de' Franzesi? Li trattarono da aperti mancatori di parola, mentre non solamente niun accrescimento lasciavano alla Spagna in Lombardia, ma le toglievano anche l'acquistato, cioè Parma e Piacenza; ed inoltre aveano comperata la Lorena non con altro prezzo che colla roba altrui, cioè colla Toscana, già ceduta coi precedenti trattati alla corona di Spagna. Pretendeva all'incontro il cardinale di Fleury di aver fatte giuste le parti, perchè restavano all'infante don Carlo i regni di Napoli e Sicilia, i quali incomparabilmente valevano più dei ducati della Toscana e di Parma e Piacenza. Imperciocchè, quantunque colle sole lor forze si fossero gli Spagnuoli impadroniti di quei due regni: pure [415] principalmente se ne dovea ascrivere l'acquisto agli eserciti di Francia, e a tante spese fatte dal re Cristianissimo, per tenere impegnate l'armi di Cesare al Reno e in Lombardia, senza che queste potessero accorrere alla difesa di Napoli e Sicilia. E se l'imperadore sacrificava le sue ragioni sopra quei due regni, a lui già ceduti dalla Spagna, e indebitamente poi ritolti, ragion voleva che in qualche maniera fosse compensato del suo sacrifizio.

Intorno a ciò lasciamoli noi disputare. Quel ch'è certo restò di sasso il generale spagnuolo duca di Montemar, allorchè intese questa novità, e tanto più perchè il duca di Noaglies gli fece sapere che pensasse alla propria sicurezza, giacchè egli avea ordine di non prestargli assistenza alcuna. Poco in fatti si stette ad udire che i Tedeschi calavano a furia dalla parte di Padova e Trentino, e quasi volavano alla volta di Mantova. In sì brutto frangente il Montemar ad altro non pensò che a salvarsi. Mosse in fretta le sue genti dall'Adige, lasciando indietro molti viveri e foraggi, e si ridusse di qua da Po. Ma eccoti giugnere a quello stesso fiume i cesarei; ed egli allora, dopo aver messi circa settecento uomini nella Mirandola, e spedito un distaccamento a Parma, tanto più affrettò i passi per arrivare a Bologna, credendo di trovare ivi un sicuro asilo, per essere Stato pontifizio. La disgrazia portò che qualche centinaio d'usseri nel dì 27 di novembre cominciò a comparire in vicinanza di quella città. Non volle cimentarsi con quella canaglia il generale spagnuolo, ed animati i suoi a marciare con sollecitudine, prese la strada di Pianoro e di Scaricalasino, per ridursi in Toscana. Avea egli in quel dì invitata ad un solenne convito molta nobiltà bolognese dell'uno e dell'altro sesso: e già si mettevano tutti a tavola, quando gli arrivò l'avviso che si appressava il nemico. Alzossi egli allora bruscamente, e immaginando che tutto l'esercito cesareo avesse fatto le [416] ali, preso congedo da quella nobil brigata, esortandoli a continuare il pranzo. Ma dal di lui esempio atterriti tutti, con grande scompiglio si ritirarono dalla città, lasciando che gli Spagnuoli facessero altrettanto verso la montagna. Furono questi inseguiti alla coda dagli usseri, che per buon pezzo di cammino andarono predando bagagli e imprigionando chi poco speditamente dei pedoni menava le gambe. Essendo rimasto fuori di Bologna lo spedale d'essi Spagnuoli, dove si trovavano circa mille e cinquecento malati, fu sequestrato. Non si potè poi impedire ai medesimi usseri l'entrare nella città, e il far ivi prigionieri quanti Spagnuoli poterono scoprire, che non erano stati a tempo di seguitare l'improvvisa e frettolosa marcia dell'esercito. Di questa violenza acremente si dolse il legato pontifizio; ma non per questo essa cessò. Grande strepito in somma fece questa curiosa metamorfosi di cose, e il mirare senza colpo di spada i vincitori in pochi dì comparir come vinti. Pervenuto dunque il duca di Montemar in Toscana, quivi si diede a fortificare alcuni passi, con inviare nulladimeno parte della sua gente verso il Sanese, a fine di potersi occorrendo ritirare alla volta del regno di Napoli.

In tale stato erano le cose d'Italia non restando nemicizia se non fra Spagnuoli e Tedeschi, quando il duca di Noaglies si mosse per abboccarsi con esso duca di Montemar, e per concertar seco le maniere più dolci di dar fine, se era possibile, a questa pugna. In passando da Bologna fece una visita a Rinaldo di Este duca di Modena, che intrepidamente fin qui avea sofferto l'esilio da' suoi Stati e gli diede cortesi speranze che goderebbe anch'egli in breve i frutti dell'intavolata pace. Ancorchè il Montemar non avesse istruzione alcuna dalla sua corte, pure alla persuasione del saggio Noaglies, sottoscrisse una sospension d'armi per due mesi fra gli Spagnuoli e i Tedeschi: risoluzione che fu poi accettata anche [417] dalla corte di Madrid. Aveano ben preveduto i ministri dell'imperadore e del re di Francia che gran fatica avrebbe durato il re Cattolico Filippo V ad inghiottire l'amara pillola di una pace manipolata senza di lui e in danno di lui; ed insieme aveano divisato un potente mezzo per condurre quel monarca ad approvare i preliminari suddetti, o almeno a non contrastarne l'esecuzione. Si videro perciò senza complimento o licenza alcuna improvvisamente inoltrarsi e stendersi circa trenta mila Alemanni sotto il comando del maresciallo conte di Kevenhuller per gli Stati della Chiesa Romana, cioè pel Ferrarese, Bolognese e Romagna, con giungere alcuni d'essi fin nella Marca e nell'Umbria, circondando in tal guisa gran parte della Toscana, per far intendere agli Spagnuoli, che se negassero di consentir per amore all'accordo, l'esorcismo della forza ve li potrebbe indurre. Toccò all'innocente Stato ecclesiastico di pagar tutte le spese di questo bel ripiego, perchè obbligato a somministrar foraggi, viveri, ed anche rilevanti contribuzioni di danaro. Intanto rigorosissimi ordini fioccarono da Roma, che nulla si desse a questi incivili ospiti, e il cardinale Mosca legato di Ferrara, che si ostinò gran tempo ad eseguirli ad literam, cagion fu di un incredibil danno agl'infelici Ferraresi, perchè i Tedeschi vivevano a discrezione nelle lor ville. I savii Bolognesi, all'incontro, e il cardinale Alberoni legato di Ravenna, che intendeano a dovere le cifre di quelle lettere, non tardarono ad accordarsi con gli Alemanni, mercè d'un regolamento che minorò non poco l'aggravio ai loro paesi. Voce corse in questi tempi che il duca di Montemar, consapevole del poco piacere provato dal re di Sardegna per la concordia suddetta, facesse penetrare a quel sovrano delle vantaggiose proposizioni per trarlo ad una lega col re Cattolico, e che esso re gli rispondesse di avere abbastanza imparato a non entrare in alleanza con principi che fossero più potenti di [418] lui. Si può tenere per fermo che i fabbricatori di novelle inventarono ancor questa, giacchè niun d'essi gode il privilegio di entrar nei gabinetti dei regnanti; e la corte di Torino nè prima nè poi mostrò di essere persuasa della massima suddetta. Continuò ancora nell'anno presente la ribellione de' Corsi; e perchè i ministri della repubblica di Genova esistenti in Corsica fecero un armistizio con quella gente, fu disapprovata dal senato la loro risoluzione. Giugnevano di tanto in tanto rinforzi di munizioni ed armi ai sollevati, che facevano dubitare che sotto mano qualche gran potenza soffiasse in quel fuoco. Intesesi parimente che quei popoli pareano determinati di reggersi a repubblica, ed anche aveano stese le leggi di questo nuovo governo, ma senza averne dimandata licenza ai Genovesi. Dopo aver papa Clemente XII difficultato, per quanto potè, al reale infante di Spagna don Luigi, a cagion della sua fanciullesca età, l'arcivescovato di Toledo, fu in fine obbligato ad accordargliene le rendite, e nel dì 19 di dicembre di questo anno il creò anche cardinale, tornandosi a vedere l'uso od abuso de' secoli da noi chiamati barbarici. Non potea essere più bella in quest'anno l'apparenza dei raccolti del grano, quando all'improvviso sopraggiunse un vento bruciatore, che seccò le non peranche mature spiche, e insieme le speranze dei mietitori. Perciò al flagello della guerra si aggiunse quello d'una sì terribil carestia, che non v'era memoria d'una somigliante a questa. Il peggio fu, che la maggior parte delle provincie più fertili dell'Italia soggiacquero anch'esse a questo disastro. Guai se non vi erano grani vecchi in riserbo, che convenne far venire da lontani paesi con gravi spese: sarebbe venuta meno per le strade innumerabile povera gente.

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Anno di Cristo MDCCXXXVI. Indiz. XIV.
Clemente XII papa 7.
Carlo VI imperadore 26.

Il primo frutto che si provò della pace conchiusa fra l'imperadore e il re Cristianissimo, spuntò nell'imperiale città di Vienna. Giacchè Dio avea dato all'Augusto Carlo VI un figlio maschio, e poi sel ritolse, pensò esso monarca di provvedere al mantenimento della nobilissima sua casa coll'unico ripiego che restava, cioè di provvedere di un degno marito l'arciduchessa Maria Teresa sua figlia primogenita, già destinata alla successione della monarchia austriaca in difetto di maschi. Grande era l'affetto d'esso imperadore verso di Francesco Stefano duca di Lorena, sì per le vantaggiose sue qualità di mente e di cuore, come ancora pel sangue austriaco che gli circolava nelle vene. Questo principe fu scelto per marito d'essa arciduchessa. Era egli in età di ventisette anni, perchè nato nel dì 8 di dicembre del 1708, e l'arciduchessa era già entrata nell'anno diciottesimo, siccome nata nel dì 15 di maggio del 1717. Con tutta magnificenza ed inesplicabile allegria nel dì 12 di febbraio seguì il maritaggio di questi principi reali colla benedizione di monsignore Domenico Passionei nunzio apostolico; e continuarono dipoi per molti giorni le feste e i divertimenti, gareggiando ognuno in applaudire ad un matrimonio che prometteva ogni maggior felicità a quei popoli, e dovea far rivivere nei lor discendenti l'augusta casa d'Austria degna dell'immortalità. Ma la imperial corte ebbe da lì a non molto tempo motivo di molta tristezza per la perdita che fece del principe Francesco Eugenio di Savoia, eroe sempre memorabile dei nostri tempi. Nel dì 21 d'aprile terminò egli i suoi giorni in età di settantadue anni: principe che per le militari azioni si meritò il titolo di invincibile, e di essere tenuto pel più prode capitano che si abbia in questo secolo [420] avuto l'Europa; principe, dissi, riguardato qual padre da tutte le cesaree milizie, sicure che l'andare sotto di lui ad una battaglia lo stesso era che vincere, o almeno non essere vinto; principe di somma saviezza, di rara splendidezza, per cui fece insigni fabbriche, ed impiegò sempre gran copia di artefici di varie professioni; ed accoppiando colla gravità la cortesia, nello stesso tempo si conciliava la stima e l'amore di tutti. L'intero catalogo di tutte le altre sue belle doti e virtù si dee raccogliere dalla funebre orazione in onor suo composta dal suddetto nunzio, ora cardinale Passionei, e da più d'una storia di chi prese ad illustrare ex professo la vita e le gloriose gesta di lui. Quale si conveniva ad un principe di sì chiaro nome, e cotanto benemerito della casa d'Austria, fu il funerale che per ordine dell'augusto Carlo VI gli venne fatto in Vienna.

Era già stabilita la concordia fra i due primi monarchi della cristianità; contuttociò si penò forte in Italia a provarne gli effetti. Non sapeva digerire il re Cattolico Filippo V preliminari che privavano il re di Napoli e Sicilia suo figlio del ducato della Toscana, e spezialmente di Piacenza e Parma, città predilette della regina Elisabetta Farnese sua consorte. Conveniva nondimeno cedere, perchè così desiderava la corte di Francia, e così comandava la forza dell'armi cesaree, dalle quali si mirava come attorniata la Toscana; ma di far la cessione ed approvarla non se ne sentiva esso re di Spagna la voglia. Perciò andarono innanzi e indietro corrieri, e sempre venivano nuove difficoltà da Madrid; e guerra non era in Italia, ma continuavano in essa i mali tutti della guerra. Imperciocchè negli Stati della Chiesa s'erano innicchiati con tante soldatesche i generali cesarei; nè per quanto si raccomandasse con calde lettere il pontefice Clemente XII alle corti di Vienna e Parigi, appariva disposizione alcuna di liberar que' paesi dall'insoffribile lor peso. [421] Nella Toscana stava saldo l'esercito spagnuolo, siccome ancora negli Stati di Milano e di Modena si riposavano le armate di Francia e di Sardegna alle spese degl'infelici popoli, spolpati ormai da tante contribuzioni ed aggravii. Dal maresciallo duca di Noaglies fu spedito in Toscana il tenente generale signor di Lautrec, personaggio di gran saviezza e disinvoltura, per concertare col duca di Montemar il ritiro dell'armi spagnuole da quelle piazze, e da Parma e Piacenza; ma siccome il Montemar non riceveva dalla sua corte se non ordini imbrogliati e nulla concludenti, così neppur egli sapeva rispondere alle premure de' Franzesi, se non con obbliganti parole, scompagnate nondimeno dai fatti. Venne l'aprile, in cui i Franzesi lasciarono affatto libero agl'imperiali il ducato di Mantova; e perchè dovettero intervenir delle minaccie, agli 11 d'esso mese gli Spagnuoli si ritirarono dalla Mirandola, dopo averne estratte le tante munizioni da lor preparate pel sospirato assedio di Mantova, lasciandovi entrare quattrocento Tedeschi colà condotti dal generale conte di Wactendonk, il quale restituì ivi nell'esercizio del dominio il duca di Modena. Conoscendo del pari essi Spagnuoli che neppur poteano sostenere Parma e Piacenza, si diedero per tempo ad evacuar quelle due città, asportandone non dirò tutti i preziosi mobili, arredi, pitture, libreria, e gallerie della casa Farnese, ma fino i chiodi dei palazzi, non senza lagrime di que' popoli, che restavano non solamente privi dei propri principi, ma anche spogliati di tanti ornamenti della lor patria. Oltre a ciò, inviarono alla volta di Genova tutti i cannoni di loro ragione, e vi unirono ancora gli altri, ch'erano anticamente delle stesse città, oppure de' Farnesi. Risaputosi ciò dai Tedeschi, sul fine d'aprile il generale conte di Kevenhuller spinse in fretta colà il suo reggimento con trecento usseri, che arrivarono a tempo per fermar quelle artiglierie e sequestrarle, pretendendole [422] doti delle fortezze di Parma e Piacenza: intorno a che fu dipoi lunga lite, ma col perderla gli Spagnuoli.

Ora, affinchè non apparisse che il re Cattolico cedesse in guisa alcuna gli Stati suddetti all'imperadore, o ne approvasse la cessione, i suoi ministri, assolute che ebbero dal giuramento prestato al reale infante quelle comunità, prima che arrivassero i Tedeschi, abbandonarono Parma e Piacenza e gli altri luoghi, dei quali nel dì 3 di maggio, fu preso il possesso dal principe di Lobcovitz generale cesareo. Avea fin qui Rinaldo d'Este duca di Modena coraggiosamente sostenuto il suo volontario esilio in Bologna, nel mentre che gl'innocenti suoi popoli si trovavano esorbitantemente aggravati dai Franzesi, senza alcun titolo insignoriti di questi Stati. Non volle più ritardare il magnanimo re Cristianissimo a questo principe il ritorno nel suo ducato; e però per ordine del duca di Noaglies, nel dì 23 di maggio, lasciarono i Franzesi libera la città e cittadella di Modena, e nei giorni seguenti anche Reggio e gli altri luoghi d'esso sovrano. Pertanto nel dì 24 di esso mese se ne tornò il duca di Modena alla sua capitale, dove fu accolto con sì strepitose acclamazioni del popolo, testimoniante dopo tanti guai il giubilo suo in rivedere il principe proprio, che egli stesso, andato a dirittura al duomo, per pagare all'Altissimo il tributo dei ringraziamenti, non potè ritenere le lagrime al riconoscere l'inveterato amore dei sudditi suoi. Intanto si ridusse addosso all'infelice Stato di Milano tutto il peso delle milizie franzesi; nè via appariva, che gli Spagnuoli si volessero snidare dalla Toscana, nè i Tedeschi dagli Stati della Chiesa, essendo essi pervenuti sino a Macerata e a Foligno. Solamente si osservò che il duca di Montemar cominciò ad alleggerirsi delle tante sue milizie, inviandone parte per terra verso il regno di Napoli, e parte per mare in Catalogna. Similmente, nel mese di luglio, s'incamminarono alla volta della Germania alcuni [423] de' reggimenti cesarei che opprimevano il Ferrarese, Bolognese e la Romagna. Ma non per questo mai si vedeva data l'ultima mano alla pace, per le differenti pretensioni de' principi. Il re di Sardegna, oltre al Novarese e Tortonese, esigeva cinquantasette feudi nelle Langhe. Nel mese d'agosto venne la commissione di soddisfarlo; il che fece sciogliere l'incanto; perciocchè nel dì 26 d'esso mese i Gallo-Sardi rilasciarono agl'imperiali il possesso di Cremona, e nel dì 28 quello di Pizzighettone. Nel dì 7 di settembre, entrati che furono due reggimenti cesarei nella città di Milano, finalmente da quel castello si ritirò la guernigion franzese e piemontese, lasciandolo in potere d'essi imperiali. Già erano stati consegnati i forti di Lecco, Trezzo e Fuentes e Lodi. Poscia nel dì 9 entrarono gli Alemanni nelle fortezze d'Arona e Domodoscela, e finalmente nel dì 11 in Pavia: con che restò evacuato tutto lo Stato di Milano dalle truppe gallo-sarde. Videsi anche libero lo Stato della Chiesa dalle milizie alemanne.

Ma per conto della Toscana, benchè gran parte degli Spagnuoli fosse marciata a levante e ponente, pure niuna apparenza v'era che il conte di Montemar volesse dimettere Pisa e Livorno. Sulla speranza di entrare in quella città, o per far paura agli Spagnuoli, inviò il generale Kevenhuller un corpo di truppe cesaree in Lunigiana e sul Lucchese. Ad altro questo non servì che ad aggravar quelle contrade, ed accostandosi il verno fu egli anche obbligato a richiamarle in Lombardia senza aver messo il piede in Toscana. Duravano tuttavia le discrepanze della corte di Vienna col re delle Due Sicilie, ed anche col re Cattolico; perciocchè avea ben l'imperadore inviata la sua libera cessione de' regni di Napoli e Sicilia, ma il reale infante, nella cession sua della Toscana, Parma e Piacenza voleva riserbarsi tutti gli allodiali della casa Medicea e Farnese. Similmente pretendeva il re Cattolico che, venendo a [424] mancare in Toscana la linea mascolina del duca di Lorena, dovessero quegli Stati pervenire alla Spagna, laddove esso duca intendeva di ottenerli liberi, e senza vincolo alcuno, come erano gli Stati di Lorena da lui ceduti alla Francia. Per cagione di questi nodi arrivò il fine di dicembre senza che fossero ammesse nelle piazze della Toscana l'armi cesaree. Riuscì anche fastidioso al pontefice Clemente XII l'anno presente. La santa Sede, tanto venerata in addietro, e rispettata da tutti i principi cattolici, provò un diverso trattamento nei tempi correnti, perchè pareano congiurate le potenze a far da padrone negli Stati della Chiesa, senza il dovuto riguardo alla sublime dignità e sovranità pontificia. Già si è veduto quanti malanni sofferissero senza alcun loro demerito per tanti mesi dalle truppe cesaree le legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna, le cui comunità benchè dal benefico papa fossero in sì dura oppressione sovvenute con gran copia di danaro, pure rimasero estenuate e cariche di debiti, per l'esorbitante peso di tante contribuzioni.

Da disavventure d'altra sorte non andò esente neppure la stessa Roma. Quivi si erano postati non pochi ingaggiatori spagnuoli, che senza saputa, non che senza consenso del vecchio papa, per diritto o per rovescio arrolavano gente. Chi sa quel mestiere, facilmente concepirà che non pochi disordini ed avanie occorsero; perchè molti ingannati, e senza sapere qual impegno prendessero, o per propria balordaggine, o per altrui malizia, si ritrovarono venduti. Ora i padri deploravano i figli perduti, ora le mogli i mariti; e scoperto in fine onde venisse il male, i Trasteverini nel dì 15 di marzo improvvisamente attruppati in numero di cinque o sei mila persone, corsero alle case di quegl'ingaggiatori, e, dopo aver liberati a furia gl'ingaggiati, s'avviarono al palazzo Farnese, dove ruppero tutte le finestre, e gittarono a terra l'armi dell'infante don Carlo. Al primo [425] avviso di questo disordine comandò tosto il governator di Roma che gli Svizzeri, le corazze e i birri accorressero al riparo. Furono questi dalla furia di quella gente rispinti, nè si potè impedire che non passasse la sbrigliata plebe al palazzo del re Cattolico in piazza di Spagna, dove uccise un uffiziale, e seguirono altre morti e feriti. Ma nella domenica delle Palme si riaccese la sedizione, perchè i Trasteverini coi borghigiani andarono per isforzar le guardie messe ai ponti. Il più ardito d'essi fu steso morto a terra, perlochè infuriati i seguaci superarono il passo, e misero in fuga i soldati. Anche i montigiani da un'altra parte si mossero, e seguirono ferite di chi per accidente si trovò passar per le strade. Volle Dio che non poterono giugnere di nuovo al palazzo di Spagna, dove erano preparati centocinquanta fucilieri e quattro cannoni carichi a cartoccio: gran male ne seguiva. Per rimediare a questo sconcerto, furono la sera inviati il principe di Santa Croce fedele Austriaco, e il marchese Crescenzi uno de' conservatori, a parlamentare coi sollevati, i quali richiesero la libertà degl'ingaggiati del loro rione, e la liberazion di alcuni già carcerati per cagion della sollevazione, e il perdono generale a tutti. Ottennero quanto desideravano; e dappoichè videro loro mantenuta la parola, andarono poi tutti lieti gridando: Viva il papa. Si pubblicò poscia un rigoroso editto contro gl'ingaggiatori; e perchè costoro non cessavano di fare il solito giuoco, seguirono alcune altre contese, delle quali a me non occorre di far menzione.

Un disordine ne tirò dietro un altro. Per la nuova del tentativo fatto in Roma contra degli Spagnuoli, si fermarono su quel di Velletri circa tre mila soldati di quella nazione, che erano in viaggio alla volta di Napoli; e mancando loro i foraggi, si diedero a tagliare i grani in erba. Per questa cagione nel dì 21 d'aprile si mise in armi tutto quel popolo, risoluto non solo di vietare il passaggio per la loro [426] città a quelle milizie, ma di forzarle a partirsi, e si venne alle brutte. Accorse colà il cardinal Francesco Barberino, ma non potè calmare il tumulto. Per questo in Roma si accrebbe la guernigion dei soldati. Volarono intanto corrieri a Napoli e a Madrid, e si trattò in Roma col cardinale Acquaviva delle soddisfazioni richieste per l'insulto dei Trasteverini. Perchè non furono quali si esigevano, esso porporato coll'altro di Belluga si ritirò da Roma; fece levar l'armi di Spagna e di Napoli dai palazzi, e ordinò a tutti i Napoletani e Spagnuoli di uscire della città nel termine di dieci giorni. Da Napoli fu fatto uscire il nunzio del papa. Anche in Madrid grave risentimento fu fatto con obbligar quella corte il nunzio apostolico a marciare fuori del regno, con chiudere la nunziatura, e proibire ogni ricorso alla dateria, gastigando in tal maniera l'innocente pontefice per eccessi non suoi, e ai quali non avevano mancato i suoi ministri di apprestar quel rimedio che fu possibile. Peggio ancora avvenne. Nel dì 7 di maggio entrate le milizie spagnuole in Velletri, piantarono in più luoghi le forche, carcerarono gran copia di persone, e commisero poi mille insolenze e violenze contra di quel popolo, il quale fu forzato a pagare otto mila scudi per esimersi dal sacco. Una truppa eziandio di granatieri spagnuoli, passata ad Ostia, incendiò le capanne di que' salinari, saccheggiò le officine; ed altri intimarono alla città di Palestrina il pagamento di quindici mila scudi pel gran reato di aver chiuse le porte ad alcuni pochi Spagnuoli che volevano entrarvi. Altri affanni ancora provò il papa dalla parte de' Tedeschi, per essere stato carcerato un uffiziale cesareo; ed altri dalla corte di Francia, il cui ambasciatore si ritirò da Roma per cagion della nomina di un vescovo fatta dal re Stanislao, e non accettata dal papa. Bollivano parimente le note controversie colla corte di Savoia. In somma sembrava che ognun dei potentati con abuso della sua potenza [427] si facesse lecito d'insultare il sommo pontefice con tutto il suo retto operare: alle quali offese egli nondimeno altre armi non oppose che quelle della mansuetudine e della pazienza. In mezzo nulladimeno a tali burrasche si osservò, essere stato dichiarato vicerè di Sicilia il principe don Bortolomeo Corsini nipote di sua santità, personaggio dotato di singolar saviezza: il che fece maravigliare più d'uno.

Anche la Corsica in questi tempi apprestò alla pubblica curiosità una commedia, che diede molto da discorrere. Duravano più che mai le turbolenze in quell'isola con grave dispendio della repubblica di Genova; quando nell'aprile, condotto da una nave inglese procedente da Tunisi, colà sbarcò un personaggio incognito, seco conducendo dieci cannoni e molte provvisioni da guerra, ed anche danaro. Fu accolto dai sollevati con gran gioia ed onore, e preso per loro capo, anzi nel dì 15 di esso mese fu onorato col titolo di re di Corsica: cosa che non si può negare, benchè altri dicessero solamente di vicerè, perchè si pretendea che fosse stato inviato colà da qualche potenza che aspirasse al dominio di quell'isola. Sul principio non era conosciuto chi fosse questo sì ardito e fortunato campione, ma si venne poi scoprendo, e i Genovesi con un lor manifesto il dipinsero coi più neri colori di uomo senza religione, di un truffatore, di un alchimista, e come il più infame dei viventi, e pubblicarono ancora contra di lui una grossa taglia. La verità si è che costui era Teodoro Antonio barone di Newoff, nato suddito del re di Prussia, e di casa nobile, che da venturiere, dopo aver fatto di molti viaggi per le corti di Europa, ora in lieta, ora in triste fortuna, avea in fine saputo cogliere nella rete vari mercatanti affinchè l'assistessero in questa impresa, con promettere loro mari e monti, assiso che fosse sul maestoso trono della Corsica. Prese, egli con vigore quel governo, creò conti e marchesi con gran liberalità; [428] istituì un ordine militare di cavalieri appellati della Liberazione, e ne aspettava ognuno delle meraviglie. Ma non finì l'anno che parve finita anche la fortuna di questo comico regnante; e divulgossi, che dopo aver egli cominciato ad esercitare un'autorità troppo dispotica, arrivando a punire chi non eseguiva a puntino gli ordini suoi, la nazion dei Corsi non tardò a convertire l'amore in odio, e poscia in dispregio, perchè mai non comparivano quei tanti soccorsi che sulle prime aveva egli promesso. Pertanto, temendo egli della vita, segretamente imbarcatosi nel dì 12 di novembre, comparve a Livorno, travestito da frate, ed appena sbarcato prese le poste, senza sapersi per qual parte. La verità nondimeno fu, non essere stata fuga la sua, perchè egli, prima di partirsi, nel dì quarto di novembre, pubblicò un editto, con cui costituì i ministri del governo durante la sua lontananza. Andò egli per procurar nuovi rinforzi a quella nazione.

Era, siccome dicemmo, restato vedovo Carlo Emmanuele re di Sardegna, e volendo passare alle terze nozze, intavolò il nuovo suo matrimonio colla principessa Elisabetta Teresa, sorella di Francesco Stefano duca di Lorena, in cui concorrevano, oltre all'insigne nobiltà, le più rare doti di animo e di corpo. Era nata nel dì 15 di ottobre del 1711 dal duca Leopoldo Giuseppe e dalla duchessa Elisabetta Carlotta d'Orleans, sorella del già Filippo, duca di Orleans reggente di Francia. Fu pubblicato in Vienna questo maritaggio, e si andarono disponendo le parti per effettuarlo colla convenevol magnificenza. Nell'anno presente la mortalità dei buoi cominciò a serpeggiare pel Piemonte, Novarese, Lodigiano e Cremonese: il che di sommo danno riuscì a quelle contrade, e di grande spavento agli altri paesi, che tutti si misero in guardia per esentarsi da sì terribile eccidio. Provossi in varie parti del regno di Napoli e dello Stato ecclesiastico stesso flagello. Risonavano intanto per [429] Italia le prodezze dell'armi russiane contra de' Turchi, perchè dall'un canto s'impadronirono dell'importante fortezza d'Azof, e dall'altro penetrarono anche nella Crimea dove lasciarono una funesta memoria a que' Tartari, assassini in addietro della Russia e Polonia. Gran gloria per questo venne all'imperadrice russiana, se non che i progressi suoi cagion furono che la Porta Ottomana, pacificata con lo scach Nadir, o sia Tamas Kulican, re della Persia, facesse uno straordinario armamento, e dichiarasse la guerra contra di lei. Era collegato di essa imperadrice Anna l'Augusto Carlo VI, e cominciossi per tempo a scorgere ch'egli era per impugnare la spada in difesa di lei: al qual fine tutte le milizie alemanne cavate d'Italia, ed altre della Germania sfilarono verso la bassa Ungheria ai confini dei Turchi. Non meno il ministro di Francia che quei delle potenze marittime molto si adoperarono per distorre sua maestà cesarea da questo impegno; ma non ne ricavarono se non dubbiose risposte, perchè l'imperadore avea fatto esporre a Costantinopoli varie doglianze e minaccie ed aspettava se facessero frutto. Era negli anni addietro nata in Inghilterra una setta appellata dei Liberi Muratori, consistente nell'union di varie persone, e queste ordinariamente nobili, ricche o di qualche merito particolare, inclinate a solazzarsi in maniera diversa dal volgo. Con solennità venivano ammessi i nuovi fratelli a questo istituto, e loro si dava giuramento di non rivelare i segreti della società. Raunavansi costoro di tanto io tanto in una casa eletta per loro congresso, chiamata la Loggia, dove passavano il tempo in lieti ragionamenti e in deliziosi conviti, conditi per lo più da sinfonie musicali. Verisimilmente aveano essi preso il modello di sì fatte conversazioni dagli antichi epicurei, i quali, per attestato di Cicerone e Numenio, con somma giovialità e concordia passavano le ore in somiglianti ridotti. D'Inghilterra fece passaggio in Francia e in Germania [430] questo rito, e in Parigi fu creduto che si contassero sedici Logge, alle quali erano scritti personaggi della primaria nobiltà. Allorchè si trattò di creare il gran mastro, più brogli si fecero ivi che in Polonia per l'elezione d'un nuovo re. Si tenne per certo che anche in alcuna città d'Italia penetrasse e prendesse piede la medesima novità. Contuttochè protestassero costoro, essere prescritto dalle loro leggi, di non parlare di religione, nè del pubblico governo in quelle combriccole, e fosse fuor di dubbio che non vi si ammetteva il sesso femineo, nè ragionamento di cose oscene, nè vi era sentore di altra sorta di libidine: nondimeno i sovrani, e molto più i sacri pastori, stavano in continuo batticuore che sotto il segreto di tali adunanze, renduto impenetrabile pel preso giuramento, si covasse qualche magagna, pericolosa e forse pregiudiziale alla pubblica quiete e ai buoni costumi. Però il pontefice Clemente XII nell'anno presente stimò suo debito di proibire e di sottoporre alle censure la setta dei Liberi Muratori. Anche in Francia l'autorità regia s'interpose per dissipar queste nuvole, che in fatti da lì a non molto tempo si ridussero in nulla, almeno in quelle parti e in Italia. Fu poi cagione un tal divieto o rovina che più non credendosi tenuti al segreto i membri di essa repubblica, dopo il piacere di aver dato lungo tempo la corda alla pubblica curiosità, rompessero gli argini, e divulgassero anche con pubblici libri tutto il sistema e rituale di quella novità. Trovossi, terminare essa in una invenzione di darsi bel tempo con riti ridicolosi, ma sostenuti con gran gravità; nè altra maggior deformità vi comparve, se non quella del giuramento del segreto preso sul Vangelo per occultar così fatte inezie. Ridicola cosa anche fu che in una città della Germania dall'ignoranza e semplicità venne spacciato e fatto credere al popolo, autore della medesima setta chi scrive le presenti memorie.

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Anno di Cristo MDCCXXXVII. Indiz. XV.
Clemente XII papa 8.
Carlo VI imperadore 27.

Alla per fine spuntò nell'anno presente la tanto sospirata iride di pace in Italia con allegrezza inesplicabile di tutti i popoli; e quantunque tal serenità non fosse esente da qualche nebbia per le non mai quiete pretensioni dei potentati, pure, cessando affatto lo strepito dell'armi in queste parti, giusto motivo ebbe ciascuno di rallegrarsene. Fin qui ostinatamente erano persistite in Livorno e Pisa le guernigioni spagnuole, senza voler cedere alle truppe tedesche, disposte secondo i preliminari a prenderne possesso a nome del duca di Lorena. Fu detto che seguisse in Pontremoli il cambio delle cessioni fatte da sua maestà cesarea ai regni di Napoli e Sicilia, e dal re delle Due Sicilie ai ducati di Toscana, Parma e Piacenza. Può dubitarsene, da che si seppe che il re Cattolico Filippo V non volle in quest'anno sottoscrivere essi preliminari, ed è certo che Carlo re di Napoli e Sicilia si riservò certe pretensioni che avrebbero potuto intorbidar la concordia. Comunque fosse, il generale spagnuolo duca di Montemar sul principio di quest'anno, giunta che fu a Livorno una buona quantità di legni, in quelli imbarcò il presidio d'essa città, ed altre fanterie spagnuole inviò verso le fortezze della maremma di Siena; dopo di che, senza far cessione alcuna di Livorno, nel dì 9 di gennaio abbandonò quella città, dove restò la sola guernigione del gran duca Gian Gastone. Lasciarono gli Spagnuoli nella Toscana la memoria di molti aggravii inferiti a quegli Stati. Pertanto da lì ad alquanti giorni entrato in Toscana il generale tedesco Wactendonck con alcuni reggimenti cesarei, prese, a nome del duca di Lorena, possesso di Livorno, con prestare giuramento di fedeltà al gran duca, le cui milizie insieme colle tedesche cominciarono a montare la guardia. Distribuì eziandio [432] alcune di quelle soldatesche in Siena, Pisa e Porto Ferraio, le quali osservarono miglior disciplina che le precedenti. Pochi mesi passarono che il presidio spagnuolo di Orbitello, abbisognando di legna per uso proprio e per le fortificazioni, ne fece richiesta al gran duca. Perchè risposta non veniva, un grosso distaccamento d'essi Spagnuoli passò a tagliare sul Sanese circa mille e secento alberi. Ne furono fatte doglianze, ed avrebbe questa violenza potuto cagionar delle nuove rotture, se la corte di Vienna, ossia il duca di Lorena, non si fosse ora trovato nei gravi impegni, dei quali fra poco parleremo. Colla pazienza si sopì quel disordine.

Intanto, angustiato dal male d'orina e da altri incomodi di corpo il gran duca Gian Gastone de' Medici si ridusse agli estremi di sua vita, e nel dì 9 di luglio con segni di molta pietà restò liberato dai pensieri ed affanni del mondo. Era principe di gran mente, di somma affabilità e di una volontà tutta inclinata al pubblico bene; e quantunque la sua poca sanità il tenesse per lo più ristretto in camera o in letto, pure, valendosi di saggi ed onorati ministri, mantenne sempre un'esatta giustizia, e in vece di accrescere i pesi ai suoi sudditi, più tosto cercò di sminuirli. Liberale verso la gente di merito, protettore delle lettere, e sommamente caritativo verso i poveri, tal memoria lasciò di sè, che chiunque avea sparlato di lui vivente, ebbe poi a compiangerlo morto. In lui finì la linea maschile della insigne regnante casa de' Medici, con disavventura inesplicabile dell'Italia, che seguitava a perdere i suoi principi naturali; ma senza paragone riuscì più sensibile ai popoli della Toscana, i quali indarno s'erano lusingati di poter tornare a repubblica, nè solamente restarono senza i principi Medicei, che tanta gloria e rispetto aveano fin qui procacciato a Firenze e alla Toscana, ma venivano a restar sottoposti ad un sovrano certamente benignissimo e [433] generoso, pure obbligato da' suoi interessi a fare la residenza sua fuori d'Italia. Gran fortuna è l'avere i principi proprii. L'averli anche difettosi, meglio è regolarmente che il non averne alcuno, giacchè lo stesso è che averli lontani; mentre fuori degli Stati ridotti in provincia volano le rendite, e dee il popolo soggiacere ai governatori, i quali non sempre seco portano l'amore a' paesi dove non han da fare le radici. Dopo la morte di questo principe con tutta quiete il principe di Craon e gli altri ministri lorenesi presero il possesso della Toscana a nome di sua altezza reale Francesco Stefano duca di Lorena, genero dell'imperadore, che fu proclamato gran duca. Profittò ben la Francia di questo avvenimento, perchè le cessò l'obbligo di pagare ad esso duca di Lorena quattro milioni e mezzo di Francia, finchè egli fosse entrato in possesso della Toscana. La vedova elettrice palatina Anna Maria Luigia de' Medici, sorella del defunto gran duca Gian Gastone, prese anch'ella il possesso dei mobili e allodiali della casa paterna, ascendenti ad un valsente incredibile, nè solamente degli esistenti nella Toscana, ma anche in Roma, nello Stato ecclesiastico e in altri paesi. Tuttavia non tardò a saltar fuori una scintilla, che i saggi ben previdero potere un dì produrre qualche incendio. Cioè Carlo re di Napoli e di Sicilia prese lo scorruccio per la morte di esso gran duca, ed insieme il titolo di ereditario degli allodiali della casa de Medici, siccome principe già adottato dalla medesima per figlio; ed altrettanto fece anche il Cattolico re Filippo V suo padre. A tal pretensione non s'era trovato finora ripiego. Furono fatte per questo proteste giuridiche tanto in Firenze che in Roma. Alla vedova elettrice fu esibito molto di autorità nel governo, premendo al novello gran duca di tenersi amica questa principessa, donna tanto ricca, e di mirabil talento e saviezza. Ma se ne scusò ella per cagion della sua avanzata età.

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Ebbe compimento in quest'anno il maritaggio di Carlo Emmanuele re di Sardegna colla principessa Elisabetta sorella del suddetto duca di Lorena. La funzione fu fatta in Luneville, dove il principe di Carignano sostenne le veci del re; dopo di che si mise in viaggio essa novella regina alla volta della Savoia. Nell'ultimo giorno di marzo pervenne essa a Ponte Beauvoisin sui confini; ed essendosi giù portato colà il re con tutta la corte, e con accompagnamento magnifico di guardie e milizie, fu ad incontrarla, conducendola poi a Sciambery, dove presero per una settimana riposo. Nella sera del dì 22 di aprile fecero i reali sposi il magnifico loro ingresso in Torino fra la gran folla dei sudditi e forestieri accorsi a quelle feste, e fra l'ale della fanteria e cavalleria, mentre intanto le artiglierie facevano un incessante plauso alle loro maestà. Non quella sola sera si videro illuminate le strade di Torino, ma anche nelle seguenti; nè mancarono fuochi artifiziali, ed altri suntuosi divertimenti, in sì lieta congiuntura. Passava in questi tempi non lieve disputa fra esso re di Sardegna e la corte di Vienna, giacchè egli pretendeva la terra di Serravalle per distretto di Tortona; laddove i cesarei la teneano per dominio staccato da quella città. Continuavano intanto i maneggi della sacra corte di Roma con quelle di Madrid, Portogallo, Napoli e Savoia per le controversie vertenti con esse. Rallegrossi dipoi quella gran città al vedere nel marzo di quest'anno ritornati colà i cardinali Acquaviva e Belluga con indizio di sperata riconciliazione. Per trattarne venne a Roma come mediatore il cardinale Spinelli arcivescovo di Napoli, personaggio di gran credito e di obbliganti maniere; e vi comparve ancora monsignor Galliani gran limosiniere del re delle Due Sicilie, per esporre le pretensioni di quel monarca. Finalmente nel dì 27 di settembre si vide qualche apparenza di aggiustamento fra la santa Sede e i re di Spagna e di Napoli: il che recò incredibil consolazione [435] a Roma; quantunque in questi ultimi tempi non succedesse mai discordia e concordia alcuna, in cui non iscapitasse sempre la corte pontificia. Non finirono per questo le pretensioni, nè si riaprirono per anche le nunziature di Madrid e di Napoli. Contuttociò la Dateria cominciò a far le sue spedizioni. Per le differenze di Portogallo e di Savoia ripiego alcuno finora non si trovò.

Aveano i tanti saccheggi fatti dai Tartari della Russia, col condurne schiavi migliaia di uomini, commossa in fine a risentimento Anna imperadrice d'essa Russia, non solo contra di quei masnadieri, ma contra gli stessi Turchi, i quali con tutte le querele e proteste dei Russiani mai non vollero apportarvi rimedio. Due suoi valenti generali con due possenti armate nel precedente anno aveano data una buona lezione a quegl'infedeli; il Lascì col prendere la fortezza d'Azof, e il Munich con una terribil invasione nella Crimea. Fece per questo il sultano dei Turchi, già pacifico co' Persiani, un gagliardo armamento contro i Russiani; e quantunque s'interponesse l'Augusto Carlo VI per trattar di pace, non ne riportò che belle parole, insistendo sempre i Turchi nella restituzione d'Azof. Lega difensiva era fra esso imperadore e la Russia; e però non volendo Cesare lasciar soperchiare dai musulmani l'imperadrice suddetta, avea spedito ai confini dell'Ungheria la maggior parte delle sue forze, e dichiarato generalissimo d'esso Francesco Stefano duca di Lorena, divenuto in questo anno gran duca di Toscana. La direzion dell'armi cesaree fu data al generale Seckendorf, protestante di professione, con doglianza del sommo pontefice, il quale non mancò di promettere sussidii di danaro a Cesare per questa guerra. Un bel principio si diede ad essa colla presa della città di Nissa, per cui furono cantati più Te Deum. Ma non passò molto che si videro andare a precipizio tutti gli affari dell'imperadore in quelle parti. Comandava il Seckendorf ad una fioritissima [436] armata, capace di grandi imprese, avendola alcuni fatta ascendere sino ad ottanta mila valorosi combattenti. Quel generale, invece di tener unite tante forze e di assediar daddovero la forte piazza di Widin, o pure di tentar l'acquisto della Bossina, spartì in varii corpi e distaccamenti l'esercito suo, e niun di essi riportò se non percosse e disonore, tuttochè i musulmani sulle prime si trovassero più d'un poco smilzi di forze in quelle parti. Il principe d'Hildburgausen, inviato con poche migliaia d'armati sotto Banialuca capitale della Bossina, tutti perdè i suoi attrezzi e gran gente, e ringraziò la fortuna di essersi potuto salvar colla fuga. Nella Croazia verso Vaccup, e sotto Widin furono battuti gl'imperiali, e Nissa venne ricuperata dai Turchi. Si perdè il Seckendorf intorno ad Usitza, cioè ad una bicocca, e la prese: questa fu l'unica sua prodezza. I Turchi la ricuperarono poi nell'anno seguente. Andarono lamenti a Vienna; laonde, richiamato egli alla corte, lasciò il comando al generale Filippi; ed essendo stato posto in carcere, fu contra di lui dato principio ad un processo. Non istimarono veramente i saggi che questo personaggio avesse punto mancato alla fede e all'onore. Il suo delitto, secondo il sentimento d'altri, fu quello di non saper fare il condottier di armate: mestiere forse il più difficile di tutti; benchè non mancasse chi l'esentava da questo difetto.

Certamente poi non avea più la corte cesarea un Carlo duca di Lorena, un principe Eugenio, nè un maresciallo di Staremberg, nè i Caprara, nè i Veterani, nè altri simili personaggi di gran mente e savia condotta, che sapessero dirigere un esercito ai danni del nemico, e difender alle occorrenze. Per altro facendo conoscere la sperienza che talvolta le belle armate cesaree combattono col bisogno, il Seckendorf addusse ancor questo per sua discolpa, certo essendo che a cagion della mancanza dei viveri per più giorni quell'esercito si mantenne come potè in [437] vita colle pannocchie del frumentone, ossia grano turco, maturo in quel paese, o pur con sole prugne trovate per avventura in que' boschi. Non mancò gente che si figurò essere mancata la benedizione di Dio all'armi dell'imperadore in questa guerra, perchè, secondo il trattato di Passarowitz, la tregua di sua maestà cesarea colla Porta Ottomana durava ancora, nè terminava se non nell'anno 1742; pretendendo perciò i Turchi che Cesare non fosse in libertà dopo esso trattato di collegarsi colla Russia a danno loro, nè gli fosse lecito di romperla contra d'essi. A me non tocca di entrare in sì fatto esame, e molto meno di stendere le ottuse mie pupille nei gabinetti della divinità, bastandomi di riferire gli sfortunati avvenimenti di questa campagna contra degl'infedeli nella Servia, Bossina, Moldavia, Valacchia ed altri luoghi; e che per le tante malattie si trovò al finire dell'anno quasi della metà scemata la dianzi sì possente armata imperiale. Nè si dee tacere che allora più che mai si sciolsero le lingue e maledizioni de' cristiani contra del conte di Bonneval Franzese, già uno de' generali dell'imperadore; il quale, privo per altro di religione, avea abbracciata quella de' Turchi. Entrato costui al servigio della Porta col nome di bassà Osmanno, tutto s'era dato ad istruire i Turchi della disciplina militare dei cristiani: e fu creduto che i documenti suoi influissero non poco ai fortunati successi delle armi turchesche sì dell'anno presente che dei due susseguenti. Dicevasi che questo infame rinegato fosse il braccio dritto del primo visire. Se la fortuna non si fosse dichiarata in favore dei Turchi (giacchè in questo medesimo tempo in Nimirow nella Polonia trattavano di pace i plenipotenziarii cesarei, russiani e turchi), si potea sperare qualche pronta concordia con vantaggio dell'armi cristiane. Intanto d'altro passo procederono le due armate dell'imperadrice della Russia contra de' musulmani. Per ciocchè il generale conte di Munich nel [438] dì 13 di luglio s'impadronì della riguardevol città di Oczakow situata al mare, con grande mortalità e prigionia di Turchi, con acquisto di molta artiglieria e di un ricco bottino. Seppe anche difenderla da essi Turchi, accorsi ad assediarla. Parimente il generale Lascì tornò di nuovo a fare un'irruzione nella Crimea, dove incendiò gran copia di que' villaggi, prese un'infinità di buoi, e lasciò dappertutto memorie del furor militare in vendetta degl'immensi danni e mali recati per tanti anni addietro da que' Tartari alla Russia.

Fu il presente anno l'ultimo della vita di Rinaldo d'Este duca di Modena, che nato nel dì 25 di aprile dell'anno 1655, e creato duca nel 1694, avea con somma saviezza fin qui governato i suoi popoli. Nel dì 26 di ottobre spirò egli l'anima. Perchè nelle Antichità Estensi io esposi tutto quel di lodevole, che si osservò in questo principe (e fu ben molto), io mi dispenso ora dal ripeterlo, bastandomi dire che per l'elevatezza della mente, per la pietà e pel saper tenere le redini d'un governo, si meritò il concetto di uno dei più saggi principi di questi tempi. Lasciò dopo di sè un figlio unico, cioè Francesco principe ereditario, nato nel dì 2 di luglio del 1698, e tre principesse, cioè Benedetta Ernesta, Amalia Gioseffa ed Enrichetta duchessa vedova di Parma. Sul principio delle ultime turbolenze, nelle quali si trovarono involti anche gli Stati della casa d'Este, s'era portato il suddetto principe Francesco a Genova colla principessa sua consorte Carlotta Aglae, del real sangue di Francia, figlia di Filippo duca di Orleans, già reggente di quel regno. Nell'anno 1755 passarono amendue a Parigi per impetrar sollievo agl'innocenti popoli dei loro ducati dal re Cristianissimo Luigi XV e per vegliare agli interessi proprii e del duca Rinaldo padre e suocero. Venuto l'autunno, si portò esso principe a visitar le città della Fiandra ed Olanda, ricevendo dappertutto distinti onori, e di là passò in Inghilterra, [439] dove gli furono compartite le maggiori finezze dal re Giorgio II, che in questo principe considerò trasfuso il sangue di quei gloriosi antenati, dai quali era discesa anche la real casa di Brunsvich. Finalmente nella primavera dell'anno presente se ne andò a Vienna per inchinare il glorioso Augusto Carlo VI, da cui e dall'imperadrice vedova Amalia sua zia materna, e da tutta quella corte, fu graziosamente accolto. Essendosi accesa in questo tempo la guerra in Ungheria, s'invogliò anche egli di quell'onorato mestiere; e tenendo compagnia a Francesco duca di Lorena e gran duca di Toscana, e al principe Carlo di lui fratello, intervenne alle azioni della sopraddetta sventurata campagna. Nel tornarsene egli a Vienna, intese la morte del duca Rinaldo suo padre, e, però congedatosi dalle auguste maestà, s'inviò verso l'Italia, e nel dì 4 di dicembre felicemente giunse a Modena, ricevuto con giubilo dai suoi sudditi, che, attesa la di lui molta intelligenza, e spezialmente l'amorevol suo cuore, concepirono per tempo viva speranza d'ottimo governo, secondo l'uso de' suoi maggiori, tutti buoni e benefici principi. Aveva egli già procreati due principi viventi, cioè Ercole Rinaldo suo primogenito, nato nel dì 22 di novembre nell'anno 1727, ed un altro venuto alla luce nel dì 29 di settembre del 1736 in Parigi, a cui poscia nel solenne battesimo fu posto il nome di Benedetto Filippo Armando, e viene oggidì chiamato il principe d'Este; e quattro principesse, cioè Maria Teresa Felicita, Matilde, Fortunata Maria ed Elisabetta.

Più che mai continuò in questi tempi la ribellion della Corsica, con trovarsi bloccate da que' popoli le cinque o sei fortezze che sole restavano in potere della repubblica di Genova. Correvano tutto dì voci incerte di quegli affari, negando alcuni e pretendendo altri che durasse in quell'isola l'autorità del baron Teodoro, e che da lui si riconoscessero i soccorsi che andavano giugnendo a quei sollevati, con voce ancora ch'egli ritornerebbe [440] in breve al comando. La verità fu, che esso era passato in Olanda, dove, prevalendo le istanze dei suoi creditori, per qualche tempo si riposò nelle carceri, e restò poscia liberato. Tale era la sua attività ed eloquenza, che impegnò altri mercatanti a concorrere nei suoi disegni, e si dispose a rivedere la Corsica. Ora i Genovesi, per desiderio di mettere fine a quella cancrena, s'avvisarono in questi tempi di ricorrere al patrocinio del re Cristianissimo, affinchè il suo nome e la potenza dell'armi sue mettesse in dovere quella sì alterata nazione. Penetrato il lor disegno, non tralasciarono i Corsi di rappresentare a Versaglies quanti aggravii aveano finora sofferto dal governo de' Genovesi. Ciò che ne avvenisse, lo vedremo all'anno seguente. Nel presente sul Piacentino e Lodigiano seguitò l'epidemia de' buoi con terrore di tutti i vicini. Anche il monte Vesuvio nel dì 19 di maggio si diede a vomitar fiamme, pietre e bitume, che raffreddato era simile alla schiuma di ferro. Per dodici miglia fino al mare correndo la fiumana d'esso bitume, cagionò la rovina di molti villaggi, conventi, chiese e case. Le città di Adriano, Avellino, Nola, Ottaviano, Palma e Sarno, e la torre del Greco sommamente patirono, e ne fuggirono tutti gli abitanti. Alcun luogo vi restò coperto dalla cenere alta (se pure è credibile) quasi venti palmi. Orazioni pubbliche si fecero per questo in Napoli, città che si trovò ben piena di spavento, ma altro incomodo non soffrì che quello della caduta cenere. Merita anche memoria per istruzione de' posteri una delle pazzie di questi tempi, cioè il già introdotto lotto di Genova, che si dilatò in Milano, Venezia, Napoli, Firenze, Roma ed altri paesi. Dissi pazzia, non già dei principi, che con questa invenzione mostravano la loro industria in saper cavare dalle genti senza lancetta il sangue, ma dei popoli che, per l'avidità di conseguire un gran premio, s'impoverivano, dando una volontaria contribuzione [441] agli accorti regnanti, con iscorgersi in fine che di pochi era il vantaggio, la perdita d'infiniti. Nella sola Roma danarosa, in cui sul principio ebbe gran voga esso lotto, e si faceano più estrazioni in un anno, si calcolò che in ciascuno de' primi anni si giocasse un milione di scudi romani. Per lo più nè pur la metà ritornava in borsa de' giocatori. Il gran guadagno restava parte ai conduttori del gioco e parte al sommo pontefice, che di questo danaro si serviva per continuar le magnifiche fabbriche da lui intraprese.


   
Anno di Cristo MDCCXXXVIII. Indiz. I.
Clemente XII papa 9.
Carlo VI imperadore 28.

Cominciavano a pesar gli anni addosso al pontefice Clemente XII. Era anche caduto infermo di maniera, che più d'una volta si dubitò di sua vita, ed alcuni porporati aveano già dato principio ai segreti lor maneggi: il che risaputo dal papa, cagion fu di qualche risentimento. Questi avvisi della mortalità, e il desiderio del santo padre di lasciare la sedia apostolica in pace con tutte le potenze cattoliche, il rendè più sollecito ad accordarsi colle corti di Spagna e di Portogallo. Nel dì 20 del precedente dicembre aveva egli promosso alla porpora monsignor Tommaso Almeida patriarca di Lisbona; servì questo passo a placare in buona parte, se non in tutto, l'animo di Giovanni V re portoghese, principe inflessibile in ogni sua pretensione e dimanda; il che fece aprir la Dateria per quel regno, e in Lisbona fu splendidamente accolto il nunzio pontifizio. Altrettanto avvenne in Ispagna. Per le differenze colla corte di Napoli, tuttochè reclamassero i ministri cesarei, pure sua santità nel maggio condiscese ad accordare le investiture delle Due Sicilie all'infante reale don Carlo di Borbone. Insorse in questi tempi un imbroglio fra esso pontefice e la reggenza del ducato di Toscana, a cagion di [442] Carpegna, Scavolino e Montefeltro, Stati pretesi per ragioni antiche dalla repubblica fiorentina, essendo in fatti passate le milizie lorenesi a prenderne il possesso. Messosi l'affare in disputa, perchè la corte di Vienna abbisognava in questi tempi dei soccorsi del papa per la guerra turchesca, si venne poi smorzando la lite, e restò libera quella contrada dall'armi del gran duca. Era già gran tempo che si trattava dell'accasamento del suddetto re delle due Sicilie; e perciocchè ragioni politiche non permisero che a lui fosse accordata in moglie la seconda arciduchessa figlia del regnante Augusto, restò poi conchiuso il suo maritaggio colla real principessa Maria Amalia figlia di Federigo Augusto re di Polonia ed elettor di Sassonia, appena giunta all'età di quattordici anni. Nel dì 19 di maggio a nome d'esso re fu sposata essa principessa dal fratello Federigo Cristiano, principe reale ed elettorale, e nel dì 24 d'esso mese, accompagnata dal medesimo, imprese il suo viaggio alla volta d'Italia. Con corte numerosa venne sino a Palma Nuova, confine dello Stato veneto, don Gaetano Boncompagno duca di Sora, scelto dal re per maggiordomo maggiore della novella regina, e direttore del suo viaggio per Italia: principe per le sue virtù meritevole d'ogni maggiore impiego. Nel dì 29 del mese suddetto arrivata ai confini della repubblica essa principessa, ivi trovò il veneto ambasciatore colle guardie destinate alla maestà sua, e le si presentò parimente il duca di Sora con tutta la corte a lei destinata.

Fu allora che propriamente s'avvide questa graziosa principessa di essere regina: sì magnifico e splendido fu l'accoglimento fattole per dovunque passò dalla veneta generosità. Invogliatasi all'improvviso di dare un'occhiata alla mirabil città di Venezia, dopo avere per altra via incamminato il suo gran seguito ed equipaggio a Padova, essa nel dì 2 di giugno imbarcatasi col real fratello, col duca di Sora, e con pochi altri cavalieri e dame, [443] fu condotta pel canale della Giudecca in faccia alla piazza di San Marco, e fatto un giro pel canal grande fra il rimbombo delle artiglierie andò vedendo e ammirando i superbi palazzi e le altre grandiose fabbriche di quella dominante. Finalmente alle due ore della notte seguente fece l'ingresso nella città di Padova, dove spezialmente trovò un trattamento reale. Colà s'era portato Francesco III d'Este duca di Modena colle principesse Benedetta ed Amalia sorelle sue, per inchinare la regina loro cugina, da cui poscia riceverono ogni maggior finezza d'amore e di stima. Ai confini del Ferrarese si presentò alla maestà sua il cardinale Mosca spedito dal sommo pontefice con titolo di legato a latere a complimentarla e servirla sino a Ferrara, dove con solenne apparato di quella città entrò, partendone poi nel dì 6 di giugno. Per tutto lo Stato ecclesiastico trovò gara fra le città in farle onore, siccome anch'ella dappertutto lasciò belle memorie della sua rara gentilezza e liberalità. Passò dipoi per Loreto, e nel dì 19 del suddetto mese arrivò a Portello, cioè ai confini del regno. Quivi trovò il re consorte, che la introdusse in un vasto real padiglione, coi vicendevoli complimenti ed abbracciamenti. Nel dì 22 d'esso giugno fecero le loro maestà l'entrata in Napoli fra le giulive acclamazioni di quell'immenso popolo, fra gli archi trionfali e fra le stupende macchine ed illuminazioni, che furono poi coronate da altre suntuosissime feste, continuate nei seguenti giorni. Poco fu questo in paragone del dì 2 di luglio in cui seguì il solenne ingresso dei regi sposi in essa città di Napoli, la quale da tanti anni disavvezza dal vedere i suoi regnanti, in questa occasione diede uno spettacolo d'indicibile magnificenza ed allegrezza, dalla cui maggior descrizione io mi dispenso. Allora fu che il re don Carlo istituì l'ordine dei cavalieri di San Gennaro, e di esso decorò i principali baroni di Napoli e Sicilia, e alcuni grandi spagnuoli.

[444]

Con tutti i maneggi finora fatti fra l'imperador Carlo VI e il Cristianissimo re Luigi XV non s'era peranche giunto a stabilire un trattato definitivo di pace. A questo si diede l'ultima mano in Vienna nel dì 18 di novembre fra i suddetti due monarchi, e fu sottoscritto dai plenipotenziarii non solo d'essi, ma anche da quei del re Cattolico Filippo V, di don Carlo re delle Due Sicilie, e del re di Sardegna Carlo Emmanuele. Rimasero con poca mutazione confermati i precedenti trattati di pace, e la Francia nominatamente accettò e promise di garantire la prammatica sanzione formata dall'Augusto regnante. Vi fu regolato tutto quello che apparteneva in Italia alla cessione dei regni di Napoli e Sicilia, e delle piazze marittime della Toscana pel suddetto real infante; e di Parma e Piacenza per l'imperadore; e di Tortona e Novara e delle Langhe pel re di Sardegna. Qual fosse il giubilo di tutta l'Italia all'avviso di questa concordia, non si può abbastanza esprimere, lusingandosi ognuno di godere per gran tempo i frutti e le delizie della tanto desiderata pace, che ora mai sembrava con uno stabile chiodo fissata. Non si godeva già in questi tempi un egual sereno nell'imperial corte di Vienna, perchè anche nell'anno presente niuna felicità, anzi parecchi disastri provarono in Ungheria l'armi cesaree. Quantunque ancora in quest'anno passasse al comando di quell'esercito il duca di Lorena, con aver seco per principal direttore di azioni militari il saggio e valoroso conte di Koningsegg; pure ebbero essi a fronte il gran visire con forze di lunga mano superiori alle cristiane. Le frequenti scorrerie turchesche per la Servia e un possente armamento di saiche nel Danubio portarono il terrore sino alla città di Belgrado, da dove si ritirarono in gran copia i benestanti. Per l'Ungheria superiore di là dal real fiume marciò il Koningsegg, e nel dì 3 di luglio a Cornia venne alle mani con un corpo di venti e più mila musulmani, e lo sconfisse. Questa [445] vittoria agevolò la presa del forte di Meadia nel dì 9 d'esso mese, dove fu accordata buona capitolazione al presidio turchesco.

Già s'incamminava l'oste cesarea al soccorso d'Orsova assediata dai nemici, quando giunse la lieta nuova ch'essi a precipizio s'erano dati alla fuga, lasciando nel campo tende, bagagli, munizioni ed artiglierie. Tanto più allora inanimati i cristiani pensavano già di continuare il viaggio a quella volta; ma eccoti avviso che il visire avea trasmesso un rinforzo di venti mila uomini ai ritiratisi da Orsova. Non si osservò allora la consueta intrepidezza de' coraggiosi Alemanni; nè più si pensò ad Orsova. Accortisi gl'infedeli delle lor disposizioni, s'inoltrarono sino a Meadia, dove seguì un sanguinoso conflitto. I due reggimenti Vasquez e Marulli, composti d'Italiani, fecero delle maraviglie di coraggio con vergogna de' Tedeschi, i quali pure sono in credito di tanta fortezza. Ritiraronsi i cristiani con permettere a' Turchi di ricuperare i forti d'essa Meadia. Posto di nuovo l'assedio da essi infedeli ad Orsova, fu quella piazza costretta alla resa con grave pregiudizio della vicina città di Belgrado, sotto alla quale andò ad accamparsi il maresciallo di Koningsegg. Si contò per regalo della fortuna che i Turchi non facessero maggiori progressi; e sebben anche Semendria e Vilapanca furono sottomesse, pure poco appresso si videro abbandonate da essi. Non avea il Koningsegg più di quaranta mila guerrieri, laddove il gran visire ne conduceva cento venti mila. Ma in altri tempi trenta a quaranta mila Alemanni bastavano a far delle grandi prodezze contro le grosse armate degli Ottomani. O fosse dunque che l'iniquo bassà Bonneval avesse ben addottrinate le milizie turchesche, o altra cagione: certo è che questa campagna riuscì non men deplorabile della precedente per li cristiani, e convenne alzare il guardo al trono del Dio degli eserciti, i cui giusti giudizii [446] son coperti di troppe tenebre. Nè i Russi ebbero miglior mercato. Furono costretti di far saltare tutte le fortificazioni di Oczokow, e a ritirarsene. Presero bensì nella Crimea la fortezza di Precope, ma poi, dopo averne demolite le fortificazioni e spianate le linee, e recati gravissimi danni a quelle contrade, se ne tornarono indietro. Fu da essi tentato il passaggio del Niester, ma senza poter ottener l'intento. Comparve in questi tempi alla corte di Costantinopoli, e vi fu ricevuto con distinto onore, Giuseppe figlio del fu principe di Ragotzki, il quale, dimentico delle grazie a lui compartite in addietro dal clementissimo Augusto, se ne fuggì alla Porta, per ravvivar le sue pretensioni sopra la Transilvania; e fece credere al gran signore di avere in quella provincia e in Ungheria un'infinità di seguaci.

Nè pure in quest'anno si seppe cosa credere degli affari della Corsica, perchè tuttodì a buon mercato si spacciavano bugie. Esaltavano alcuni la gran copia di soccorsi dati ai Corsi non meno di gente, che di munizioni, artiglierie ed armi: soccorsi, dico, i quali si diceano inviati colà dal baron Teodoro, e che altri attribuiva ad una potenza, la quale segretamente tenesse mano a quella ribellione, additando con ciò la corte di Spagna o pure di Napoli. Negavano altri queste nuove, e sosteneano ecclissata affatto la fortuna dell'efimero re Teodoro. Sul principio dell'anno fu sparsa voce che questo venturiere da Orano fosse di nuovo sbarcato in Corsica; e si vedevano progetti lodevolissimi pubblicati sotto suo nome, per far fiorire il commercio di quell'isola coll'erezion di varie saline, con attendere alle miniere, con fabbricar cannoni e mulini da polve da fuoco, e con incoraggiar l'agricoltura e la pesca. Ma non si verificò il di lui arrivo. Fu bensì vero che nel dì 5 di febbraio sbarcarono alla Bastia, capitale di quel regno, tre mila uomini di truppe franzesi, sotto il comando del conte di Boissieux. Aveano i Genovesi implorato il patrocinio della [447] Francia in questo loro troppo lungo e dispendioso disastro; se pure non fu la corte di Francia, che attenta ad ogni foglia che si muova in Europa, per sospetto che gli Spagnuoli un dì non si prevalessero di quella sollevazione per impadronirsi della Corsica, esibì alla repubblica le sue forze per terminar quella pugna. Certo è, che colà furono trasportate le suddette milizie, non già con animo d'infierire contro quella valorosa nazione, a cui non mancavano delle buone ragioni, ma per istudiar la via di pacificarla coll'esibizione di oneste condizioni. Infatti se ne trattò; si rimisero i Corsi riverentemente alla giustizia e saviezza del re Cristianissimo; diedero anche degli ostaggi; e per questo si fece pausa alle ostilità, ma senza che seguisse accordo alcuno.

Venuto il settembre, si tornò a spacciare come avvenimento indubitato che il baron Teodoro con tre vascelli di bandiera straniera era nel dì 13 di esso mese giunto in Corsica a Porto Vecchio, con fare intendere ai sollevati la provvision delle artiglierie, armi e munizioni da lui condotte su quei navigli; e che perciò di nuovo si fosse fatta un'unione universale de' Corsi, per mantenergli l'ubbidienza. Si vide anche la lista di tutto il suo carico, e fu assicurato che nel dì 16 del suddetto settembre scese a terra fra i viva di un gran concorso di popolo; ma che poscia nel dì 15 d'ottobre s'era ritirato a Porto Longone, o pure in Sardegna; e ciò perchè furono intimoriti i Corsi da una lettera circolare del general franzese, che minacciava loro l'indignazione del re Cristianissimo, se più ubbidivano al barone suddetto. Aggiunsero, ch'egli era dipoi approdato a Napoli, dove, d'ordine della corte, fu catturato, e in appresso fatto uscire del regno. Non so io dire se vere o finte fossero tutte queste particolarità. Se un giorno qualche fedele e ben informato scrittore ci darà la storia di tante scene di quella tragedia, può sperarsi che rimarrà allora dilucidato il vero [448] dalle molte ciarle sparse per l'Europa di quello emergente; tale certamente, che facea dello strepito dappertutto. Fermossi per alcuni mesi il principe real di Polonia e Sassonia Federigo Cristiano in Napoli, godendo le delizie di quella gran città, corte e territorio, ma infastidito alquanto per la rigorosa etichetta spagnuola, che non gli permetteva nè pur di trovarsi a tavola colla regina sorella. Dopo aver questo principe lasciato in quella corte e città illustri memorie della sua magnificenza e gentilezza, arrivò a Roma nel dì 18 di novembre, e prese alloggio nel palazzo del cardinale Annibale Albani camerlengo. Potè allora quella gran città conoscere in lui una rara pietà, costumi angelici, pregio di tutta la real numerosa figliolanza del re di Polonia (e perciò grande onore del cattolicismo), siccome ancora l'avvenenza del suo volto, e molto più le altre belle doti dell'animo suo. Altro alla perfezione di questo principe non mancava, se non robustezza maggiore nelle gambe. Nulla aveano servito a lui per questo i bagni d'Ischia. I divertimenti di questo generoso principe erano il commercio dei letterati, e la visita di tutte le chiese, antichità, gallerie e cose più rare di Roma.


   
Anno di Cristo MDCCXXXIX. Indiz. II.
Clemente XII papa 10.
Carlo VI imperadore 29.

Sul principio di quest'anno furono rivolti gli occhi dei curiosi alla comparsa in Italia di Francesco duca di Lorena e gran duca di Toscana, il quale, coll'arciduchessa Maria Teresa sua consorte, e col principe Carlo di Lorena suo fratello, e con corte ed equipaggio splendido nel dì 28 del precedente dicembre era giunto ai confini del veneto dominio, dove gli fu fatto un solenne e magnifico accoglimento, per parte della repubblica. Desideravano questi principi di consolare colla graziosa lor presenza i nuovi sudditi della Toscana, e insieme di riconoscere in che consistesse [449] il cambio da essi fatto della Lorena. Ma perciocchè in questi tempi s'era forte dilatata la peste per l'Ungheria, Croazia ed altre provincie, che tutte aveano libero commercio coll'Austria ed altri paesi sottoposti in Germania a sua maestà imperiale; la veneta repubblica avea severamente bandite tutte quelle contrade, nè permetteva commercio di chi procedeva dalla Germania per venire in Italia, impiegando quel rigore che in altri tempi è stato l'antemurale della salute sua e delle provincie italiane. Grande stima ed ossequio professava il saggio senato veneto a quegl'illustri principi, ma più eziandio gli stava a cuore la pubblica sicurezza in tempi tanto pericolosi. Però non altrimenti accordò loro il passaggio per li suoi Stati, che colla condizione di fare una discreta contumacia. Loro perciò fu assegnato sul Veronese il palazzo del conte Michele Burri, dove per qualche giorno si riposarono. Ma perchè s'infastidirono in breve di quella nobil prigione, fece il gran duca istanza a Venezia, affinchè gli si abbreviassero i giorni della contumacia; e non venendo risposte concludenti, impazientatasi quella nobilissima brigata, nel dì 11 di gennaio prese da sè stessa la licenza di andarsene, e passò a Mantova. Nel dì 14 arrivarono questi generosi principi a Modena, accolti colle maggiori dimostrazioni di stima e di onore dal duca Francesco III, e dalle principesse sue sorelle, e qui si fermarono godendo dei divertimenti loro preparati sino al dì 17, in cui si mossero alla volta di Bologna, e di là continuarono il viaggio sino a Firenze. Il dì 20 di gennaio fu quello in cui fecero il solenne loro ingresso in essa città fra la gran calca del popolo e della copiosa foresteria, fra le incessanti acclamazioni di que' sudditi, che con archi trionfali, insigni illuminazioni ed apparati maestosi, e col giuoco ancora del calcio, espressero il loro giubilo verso dominanti pieni di tanta clemenza e gentilezza. Poscia nel dì primo di marzo si portarono a Pisa, e di là a Livorno, nelle quali due città [450] ebbero motivo di ammirare i nobilissimi spettacoli e divertimenti, spezialmente nell'ultima preparati a gara ed eseguiti in loro onore dai Toscani, Inglesi, Franzesi, Olandesi, Giudei ed altre nazioni. Videro anche Siena, portando poscia con loro un alto concetto di sì belle, deliziose e grandiose città, simili alle quali certamente non le potea mostrare il per altro riguardevole ducato della Lorena.

Dopo aver dato buon sesto agli affari economici e militari della Toscana, la gran duchessa Maria Teresa sul fine di aprile, desiderosa di veder Milano, si mise in viaggio, e nel dì 10 arrivò a Reggio, dove, in occasion della fiera, si trovava la corte estense; ed ivi non solo godè, ma anche ammirò una delle più splendide e singolari opere in musica che si facessero allora in Italia: tanta era l'abilità dei cantanti e le vaghezza delle scene. Avea preso il gran duca Francesco suo consorte la risoluzione di passar per mare a Genova, e di là trasferirsi a Torino, a fin di visitare la regina di Sardegna sua sorella. Ma ito per imbarcarsi a Livorno, trovò cotanto in collera il mare, che, mutato pensiero, e prese le poste per terra, all'improvviso raggiunse in Reggio la real sua consorte. Se ne andarono poscia nel primo dì di maggio alla volta di Milano; ma il gran duca col principe Carlo da Piacenza s'inviò verso Torino, dove giunto nel dì 3 ricevette ogni maggior finezza da quella magnifica corte. Comparvero poi anche questi due principi nel dì 6 a Milano, e dopo qualche giorno se ne tornarono tutti in Lamagna, avendo lasciato dappertutto viva memoria della somma lor benignità ed amabili costumi. Andava in questi tempi sempre più il pontefice Clemente XII sentendo il peso degli anni, di modo che si trovava bene spesso per la debolezza confinato in letto, e sopra tutto perdè l'uso della vista. Contuttociò, continuando il vigor della sua mente, non tralasciava punto di accudire non meno al secolare che all'ecclesiastico governo. Anche in letto teneva concistoro, [451] ed ascoltava le varie congregazioni. Dopo parecchi mesi di soggiorno in Roma, finalmente se ne partì il real principe di Sassonia Federigo, portando seco la gloria d'una singolar pietà, e di avere esercitata sì gran liberalità e cortesia verso grandi e piccioli, che di lui durerà in quelle parti una ben lunga memoria. Venuto per la Toscana, giunse nel dì 21 di novembre a Modena, dove si fermò per tre giorni a godere delle cose più rare di questa corte, e dipoi passò a Milano, con animo di quindi portarsi a Venezia per li divertimenti del seguente carnovale.

Sul fine del precedente anno e nei primi mesi del presente corsero di nuovo false voci che il baron Teodoro fosse sbarcato in Corsica, e vi si trattenesse incognito; e la curiosità d'ognuno era attenta ad osservare qual frutto producessero i maneggi del conte di Boissieux, comandante delle truppe franzesi in quell'isola, per pacificare i sollevati. Pareano disposti i Corsi ad abbracciar l'accordo esibito loro con alcune vantaggiose condizioni; ma una sola non ne sapeano digerire, cioè quella di dover consegnare tutte le loro armi; perchè, non fidandosi dei Genovesi, troppo duro e pericoloso sembrava ad essi il privarsi di que' mezzi che soli poteano far eseguire la proposta capitolazione, caso mai che a questa si mancasse. Ricalcitrando dunque essi a sì fatta concordia, si mise in testa il Boissieux di parlare d'altro tenore, ed inviò un distaccamento di truppe al borgo di Biguglia, per costringere colla forza quegli abitanti a ricevere la legge. Era il dì 13 di dicembre del 1738: si venne alle mani, e vi restarono uccisi e prigioni non pochi Franzesi, che talun fece ascendere a centinaia, il che fu creduto una falsa esagerazione. Questo fatto dall'un canto riaccese il fuoco de' Corsi, e dall'altro eccitò lo sdegno della corte di Francia contra d'essi, perchè il re, udito l'affare, giudicò essere questo non più impegno de' Genovesi, ma della sua corona. Perciò [452] diede ordine che passasse colà con buon rinforzo di truppe il marchese di Maillebois tenente generale atto a farsi ubbidire; poichè in quanto al conte di Boissieux, egli per infermità lasciò in questi tempi la vita nella Bastia. Intanto le gazzette spacciavano a più non posso nuove, cioè che il baron Teodoro si trovava in Corsica; che a don Filippo infante di Spagna era destinato il dominio di quell'isola, e tanto più perchè s'intese stabilito il matrimonio di questo principe con madama Luigia Elisabetta di Francia, primogenita del re Cristianissimo Luigi XV, matrimonio, dissi, che fu poi compiuto e solennizzato in Versaglies nel dì 26 d'agosto dell'anno presente. Teodoro dovea essere vicerè d'esso infante, sua vita natural durante. Sogni tutti della sfaccendata gente erano questi, nè in quelle regie corti apparve mai pensiero di voler pregiudicare ai diritti della repubblica di Genova.

La verità si è, che il marchese di Maillebois sbarcò in Corsica con delle nuove truppe; e siccome personaggio di grande attività, pubblicò tosto un proclama, ordinando a tutti i Corsi di deporre l'armi, e di rimettersi alla clemenza di sua maestà Cristianissima, in pena di essere trattati da ribelli. Perchè i sollevati risposero con un manifesto, modesto sì, ma che finiva in dire: Melius est mori in bello, quam videre mala gentis nostrae; quel comandante spedì in Provenza ad imbarcare altre milizie. Ora da che si vide in buon arnese, venuto il mese di giugno, uscì in campagna con tutte le sue forze. Il terrore marciava avanti di lui; e però non tardarono gli abitanti delle pievi d'Aregno, Pino, Sant'Andrea, Lavatoggio, ed altre ch'io tralascio, a rendersi ai di lui voleri. Anzi i principali capi dei sollevati andarono a trattare con esso Maillebois, protestandosi pronti di sottomettersi agli ordini venerati del re Cristianissimo, con isperanza che sua maestà si degnerebbe di proteggerli, e di rendere loro buona giustizia. Pertanto [453] non finì l'anno presente, che tutti quei popoli, a riserva di pochi ostinati, depositate in mano de' Franzesi le loro armi, accettarono il perdono, e si mostrarono ubbidienti, invasati intanto da una dolce lusinga di non dover più tornare sotto i Genovesi, ma che tutto quel mercato fosse per dar loro un principe della real casa di Borbone. Tale era anche la comune immaginazione degli speculatori dei gabinetti principeschi. Nè faceano caso essi dall'osservare che, per consiglio del Maillebois, i primarii capi della ribellione uscivano di Corsica, e si ricoveravano in Toscana, Napoli e Stato ecclesiastico. Intanto i Franzesi si ridussero a' quartieri d'inverno, e la maggior parte d'essi provò fiere malattie, e allo incontro il Maillebois senza misericordia facea impiccar tutti coloro che fossero colti con armi da fuoco, o continuassero nella sedizione.

Sente ribrezzo la penna mia, ora che io sono per accennare la lagrimevol campagna fatta dall'armi cristiane nella Servia ed Ungheria nell'anno presente. Nulla avea ommesso l'imperador Carlo VI per formare un'armata capace di ricuperar la gloria perduta nei due precedenti anni, e di reprimere gli sforzi degli orgogliosi Ottomani, i quali per li passati prosperosi avvenimenti aveano alzata forte la testa, e si rideano di chi loro parlava di pace. Non mancò il pontefice Clemente XII di spedirgli un dono di cento mila scudi, e il duca di Modena Francesco III, gl'inviò due battaglioni di ottocento uomini l'uno. Un gran corpo di valorose milizie bavaresi e sassone, ed altre di altri principi della Germania, erano marciate per tempo alla volta di Belgrado. I più discreti calcolavano quell'esercito almeno di sessanta mila combattenti; e si sa qual bravura alligni in petto alla nazion tedesca. Trattossi di scegliere il supremo comandante di sì fiorita armata, e fu proposto il maresciallo conte Oliviero Wallis, come creduto il migliore degli altri, anche per testimonianza del fu maresciallo di Staremberg. [454] Fama corse che a tal elezione ripugnasse l'ottimo e giudizioso augusto monarca, per le relazioni più volte a lui date, che questo generale fosse uomo impetuoso e bestiale, e che avesse il segreto di farsi poco amare dagli altri, del che aveva egli lasciato anche in Italia e in Sicilia più d'una memoria. Ma il buon imperadore, siccome quegli che ordinariamente giudicava meglio degli altri, ma poi si arrendeva al parere dei più, credendo che a tante teste avesse da cedere il sentimento di un solo, si lasciò indurre a concedere al Wallis il supremo comando dell'armi in questa campagna. Andò esso generale a mettersi alla testa di quell'esercito, e trovò che il gran visire veniva con un'armata ascendente a sessanta mila Turchi, ma che andava ogni dì più crescendo per altri rinforzi di gente che sopravvenivano.

Trovavasi il Wallis col grosso dell'esercito suo a Zwerbrusck, quattro leghe distante da Belgrado, quando intese che un corpo di Turchi era ito a postarsi nel vantaggioso posto di Crotska, tre leghe lungi dal suo campo; e tosto lo sconsigliato generale, dopo aver tirato nel suo parere il consiglio di guerra, prese la risoluzione di andarli ad assalire nel dì 22 di luglio, festa di santa Maria Maddalena, voglioso di scacciarli da quel posto, prima che vi si trincierassero. Dissi sconsigliato, perchè prestata troppa fede alla sola relazione di una spia doppia, non cercò prima di chiarirsi, se si trovasse in Crotska non già un distaccamento, ma bensì tutta l'armata dei musulmani col gran visire, e già in parte trincierata; e perchè avea bensì ordinato al generale Neuperg di passare il Danubio, e di venire ad unirsi seco col suo corpo consistente in circa quindici mila soldati; ma poi senza volerlo aspettare a cagion dell'emulazione che era fra loro, attaccò la mischia. Quel che è più, perchè volle assalire i nemici ben postati fra i boschi, e con istrade sì strette ed intralciate, che non si potè formare se non una lieve linea, e questa esposta [455] alla moschetteria de' nemici, i quali la battevano per fianco, allorchè volle inoltrarsi o retrocedere. Oltre a ciò, marciò innanzi il Wallis con soli quattordici reggimenti di cavalleria e diciotto compagnie di granatieri, senza esser secondato dalla fanteria, che tardi poscia arrivò. Che ne avvenne dunque? restò quasi interamente disfatto dai Turchi quel corpo. Sopraggiunta la fanteria per sostenere la ritirata di chi era restato in vita, si trovò anch'essa impegnata nel sanguinoso combattimento. Male passò anche per questi; ed ostinatosi il maresciallo nella speranza di rompere i nemici, allorchè giunse il Neuperg colle sue milizie, continuò la battaglia sino alla notte, che pose fine al macello. Quanta gente perdessero i Turchi, non si potè sapere: fu creduto che molta. Ma seppesi bene, che l'armata cesarea vi ricevette una terribil percossa, perdè il campo della battaglia, e restò sì estenuata e confusa, che nel dì seguente si ritirò di là dal Danubio, lasciando Belgrado esposto all'assedio, a cui tosto si accinsero i Turchi. Voce comune fu che almeno sei mila fossero i Tedeschi uccisi, e forse altrettanti i feriti. Che maggiore nondimeno fosse la perdita, si potè arguire da quanto poscia avvenne. Videsi allora che differenza passi, fra un saggio ed accorto generale ed un altro di tempra diversa, che non sa temporeggiare occorrendo, nè conosce qual sia il tempo, e quale il sito per assalire i nemici. Il principe Eugenio, benchè posto fra Belgrado, città allora de' Turchi, e fra la poderosa oste d'essi Musulmani, quando conobbe il tempo, riportò un'insigne vittoria. Il Wallis, tuttochè avesse alle spalle Belgrado ubbidiente a lui, e potesse fermarsi nelle linee d'esso principe Eugenio, e schivare il pericoloso cimento; pure, senza essere forzato, volò a cercare la rovina, non men dell'esercito cesareo, che della propria riputazione; e si sa che, in vedere sì gran flagello, esclamò: Non ci sarà una palla anche per me? Che in questa battaglia stesse a' fianchi del gran [456] visire l'infame conte di Bonneval, fu comunemente creduto; è a lui attribuito l'uso delle baionette nella fanteria turchesca, e alle sue lezioni l'avere con tant'ordine e bravura combattuto quei Barbari.

Pure qui non finì la catena delle disavventure. Strinsero tosto i Turchi la città di Belgrado, e cominciarono col cannone e colle bombe a tempestarla. Ossia che il marchese di Villanuova ambasciatore del re di Francia, spedito da Costantinopoli al gran visire col giornaliero assegno di cento cinquanta piastre fattogli dal gran signore, movesse tosto parola di pace, o che in altra maniera procedesse l'affare; fuor di dubbio è ch'egli ne fu mediatore. Andò il conte di Neuperg nel campo turchesco a trattarne; non ebbe la libertà di uscir quando volle; ma giacchè avea plenipotenza dal Wallis, strinse in pochi giorni la concordia, cedendo agli Ottomani la Servia tutta con Belgrado, le cui fortificazioni si avessero a demolire; ed in oltre ad essi rilasciando Orsova e la Valacchia imperiale. Appresso si vide l'inaspettata scena, che senza aspettare risposta e ratificazione alcuna dalla corte cesarea, fu ben tosto consegnata agl'infedeli una porta di Belgrado. Persone trovatesi in quella brutta danza sostenevano, non essere rimasto sì sfasciato l'esercito cesareo, che non avesse potuto impedire un sì gran precipizio di cose; e che quella pace fu un imbroglio straordinario, di cui non s'intesero giammai i misteri, ma si provarono ben le triste conseguenze. A rendere maggiormente deplorabile la presente catastrofe di cose, si aggiugne, che il felice esercito dell'imperatrice russiana di circa ottanta mila persone, comandato dal generale conte di Munich, passato per Polonia, valicò il Niester; diede nel dì 28 di agosto una memorabil rotta ai Turchi e Tartari, si impadronì della rinomata fortezza di Coczim; entrò vittorioso nel dì 14 di settembre in Jassi capitale della Moldavia, di modo che sì quella provincia, come la [457] Valacchia, restavano sottratte al giogo de' Turchi. Un poco di tempo che avesse aspettato il Vallis, si trovava astretto il gran visire ad accorrere contro i vincitori Russiani; ed unendosi allora l'armi cesaree colle russiane, poteano sperare maggiori progressi contro il comune nemico. Cagion fu la tregua stipulata fra Cesare e la Porta che l'ambasciator franzese marchese di Villanuova, nel dì 18 di settembre, inducesse anche il plenipotenziario della Russia alla pace, con restar Azof smantellato affatto, e restituito tutto l'occupato ai Turchi in Europa. Portato che fu a Vienna l'avviso di sì gran nembo di sciagure, non si può dire quanto se ne affliggesse l'augusto Carlo VI, sì per la scemata riputazion delle sue armi, come per la perdita di sì importante piazza, e per la maniera di questo avvenimento. Diede anche nelle smanie tutto il popolo di Vienna contra del Wallis e del Neuperg, talmente che la vita loro non sarebbe stata in salvo, se fossero capitati allora colà. Proruppero eziandio in voci ingiuriose contro il marchese di Villanuova, ambasciatore di Francia, come di ministro venduto alla Porta, quasichè egli in tale occasione avesse assassinati gli affari dell'imperadore; per le quali dicerie si risentì non poco l'altro ambasciator franzese di Vienna. Delle azioni ancora dei suddetti due generali sì altamente rimase disgustato l'imperial ministero, che spedì subito ordine in Ungheria pel loro arresto, e che fosse formato il processo de' lor mancamenti. Anzi pubblicò essa corte un manifesto, dove espose tutte le disubbidienze e la mala condotta d'amendue, la quale avea necessitato l'augusto monarca ad accettare una sì vergognosa tregua, giacchè la troppo affrettata consegna di Belgrado troncava il passo ad ogni altra risoluzione. Non si può già senza sdegno rammentar così dolorosa tragedia; se non che debito nostro è di chinare il capo davanti agli occulti giudizii di Dio.

Picciolo Stato in Italia è San Marino, [458] situato dieci miglia lungi da Rimini fra gli Stati della Chiesa e della Toscana. Consiste esso in un borgo con forte rocca, situato sopra la sommità d'un monte, con cinque o sei castella o comunità da esso dipendenti; ma ornato d'una invidiabil prerogativa, perchè quel popolo, indipendente da ogni principe, si governa a repubblica sotto la protezion del romano pontefice, il quale nondimeno vi conserva qualche diritto di sovranità. Diede nell'anno presente questa repubblica un buon pascolo ai novellisti per un'impensata mutazione ivi succeduta. Era tuttavia legato di Ravenna il cardinale Giulio Alberoni. Rappresentò egli a Roma, trovarsi malcontenti que' popoli della propria libertà, perchè il governo era caduto in oligarchia, cioè che venivano essi tiranneggiati da alcuni pochi prepotenti, e però sospirar essi di suggettarsi al soave e ben regolato governo della Chiesa romana, ed averne molti di loro fatte replicate istanze al medesimo cardinale. Le saggie risposte della sacra corte furono, che esso porporato sussistendo l'oppressione e il desiderio suddetto dei Sanmarinesi, si portasse ai confini del loro paese, e quivi aspettasse coloro che volontariamente venissero ad implorar la sua protezione; e qualora la maggiore e più sana parte del popolo di San Marino si trovasse volonterosa di passare sotto l'immediato dominio della santa Sede, ne stendesse un atto autentico, e andasse a prenderne il possesso, con facoltà di regolar ivi il governo, e di confermar lutti i lor privilegii a quella gente. Bastò questo al cardinale, perchè senza tante cerimonie, e senza fermarsi alle formalità dei confini, si portasse improvvisamente a San Marino, dove chiamò ancora ducento soldati riminesi e tutta la sbirraglia della Romagna, e si fece dare il possesso della rocca, che si trovò sprovveduta di tutto. Poscia nel dì 25 di ottobre ad una messa solenne chiamò i pubblici rappresentanti del borgo, ossia della città e delle altre comunità a prestare il giuramento [459] di fedeltà alla santa Sede. I più giurarono, ma molti ancora pubblicamente ricusarono di farlo, ed altri se n'erano fuggiti, per non acconsentire a questo sacrifizio. Ciò non ostante, prese il cardinale giuridicamente il possesso, vi pose un governatore, e diede buone regole pel governo in avvenire. Ma poco stettero a giugnere al santo padre i richiami e le querele dei Sanmarinesi, con rappresentare alla santità sua essere proceduta quella dedizione non dalla libera elezione del popolo, ma parte dalle lusinghe e parte delle minaccie, in una parola dalla prepotenza e violenza del cardinale, che gli avea sorpresi con genti armate, ed avea fatto carcerar varie persone, e saccheggiar quattro o cinque dei renitenti alla dedizione, con pretendere ancora nata la persecuzione del legato da alcune sue private passioni ed impegni.

Nell'animo giusto del pontefice e dei più saggi ed accreditati cardinali fece grande impressione questo discorso e doglianza; e tanto più perchè il legato Alberoni non aveva eseguiti gli ordini a lui prescritti nelle lettere del cardinale Firrao segretario di Stato, nè si conformavano colla verità molte cose da lui rappresentate al papa, come con sua lettera esso segretario di Stato significò al medesimo Alberoni nel dì 14 di novembre. Perciò il santo padre, alieno da ogni prepotenza e da ogni anche menoma ombra di usurpazione, non approvò l'operato fin qui. Tuttavia perchè non pochi dei Sanmarinesi veramente di cuore bramavano di sottoporsi alla santa Sede, deputò commissario apostolico monsignor Enrico Enriquez, governatore di Macerata, personaggio cospicuo pel sapere, per la prudenza e per la sua nota integrità (che oggidì nunzio pontifizio nella real corte di Spagna, va accrescendo il capitale del suo merito), con ordine di portarsi a San Marino, di prendere i voti liberi di quella gente, e di annullar gli atti precedenti, qualora si trovassero contrarii alla retta intenzione della santità [460] sua, e di prescrivere poscia per bene di esso popolo un saggio regolamento, a fine di esentarlo spezialmente dalla soperchieria di chi in ogni governo, senza essere principe, tende a dar legge a tutti gli altri. Intanto i Sammarinesi, da che fu partito il cardinale Alberoni, pubblicarono un manifesto, dove si vide esposto come ingiusto e violento tutto il procedere di questo porporato, la cui penna non istette in ozio, e procurò di ribattere le ragioni e i lamenti di quel popolo. Grande strepito faceano parimente in questi tempi per l'Italia, anzi per l'universo, le mirabili azioni dello scach Nadir, ossia di Tamas Kulickan sofì della Persia, che, non contento di avere ricuperata la provincia di Candahar, e prese le altre di Cabul e Lahor, portò l'armi vittoriose sino al cuore del vastissimo imperio del gran Mogol, o sia dell'Indostan, con dare una terribile sconfitta agl'Indiani nel dì 22 di febbraio, con occupare la stessa capitale di Delhi, ed impadronirsi, oltre ad altre ricchezze, del famoso gioiellato trono di quel monarca, cioè d'un principe avvilito qual Sardanapalo nella voragine dei piaceri. Ma se è vero che sulla buona fede portatosi a lui lo stesso Mogol, fosse ritenuto prigione, e che esso Kulichan facesse in Delhi un macello di ducento mila persone, questo rinomato eroe, questo novello Tamerlano, denigrò di troppo con tal tradimento e con tanta crudeltà la propria gloria.


   
Anno di Cristo MDCCXL. Indizione III.
Benedetto XIV papa 1.
Carlo VI imperadore 30.

Esercitò in quest'anno la morte la sua potenza sopra alcune delle più riguardevoli principesche teste della cristianità. Il primo a farne la pruova fu il sommo pontefice Clemente XII, già pervenuto all'età d'anni ottantotto. Pel peso di tanti anni s'era da molto tempo infievolita la sua sanità, gli occhi più non gli servivano, e costretto a vivere [461] per lo più io letto, quivi impiegava il residuo delle forze della mente e del suo buon volere nella continuazion del governo, aiutato in ciò dal cardinale Corsini suo nipote, e dal gottoso cardinale Firrao segretario di Stato. Ebbe egli il tempo di ricevere le informazioni spedite da monsignor Enriquez commissario apostolico intorno agli affari di San Marino; dalle quali risultava, che avendo esso prelato esplorata la libera intenzione del consiglio di quella città e del clero, e dei capi della comunità, la maggior parte si era trovata costante nel desiderio dell'antica sua libertà. Il perchè egli, secondo la facoltà a lui data, avea rimesso quei popoli in possesso di tutti i lor privilegii, cassando gli atti del cardinale Alberoni. Coronò il buon pontefice il fine del suo governo col confermare quella determinazione, ricevuta in appresso con gran plauso dentro e fuori d'Italia da ognuno; ma non già da esso cardinale Alberoni, il quale formò tosto, ma pubblicò poi dopo qualche anno, un manifesto in difesa propria, di cui sommamente si dolse la corte di Roma, per aver agli intaccato il ministero, e messe in luce senza licenza lettere a lui scritte dal segretario di Stato. Ora il decrepito pontefice nel dì 6 di febbraio passò a miglior vita, dopo avere governata la Chiesa di Dio nove anni e mezzo con lode di molta prudenza, zelo e giustizia, glorioso per aver ornata Roma di magnifici edifizii; eretto uno spedale per li fanciulli esposti, fabbricato l'insigne palazzo della Consulta, arricchito il campidoglio di una impareggiabile copia di rare statue e d'altre antichità, e la biblioteca Vaticana di preziosi manuscritti orientali, portati in Italia da monsignor Assemani primo custode della medesima, e per aver procurato a Ravenna e ad Ancona molti comodi ed ornamenti. Non si sa che la già ricchissima casa sua profittasse con arti improprie, nè con esorbitanza della di lui fortuna, avendo il pontefice anche in ciò fatto comparire la [462] moderazione sua, e schivato ogni eccesso del nepotismo.

Nel dì 18 di febbraio si richiusero nel conclave i sacri elettori, e cominciarono i lor maneggi colle consuete discrepanze delle fazioni. Abbondavano certamente in quell'insigne adunanza personaggi degnissimi del triregno; pure con istupore d'ognuno non si venne per mesi e mesi ad accordo alcuno, talmente che durò la lor prigionia per sei mesi continui: dilazione di cui da gran tempo non si era veduta la simile. Sa Iddio, quando vuole, sconcertar le misure e gl'imbrogli degli uomini, e chiaramente in questa congiuntura gli sconcertò, perchè alzò al pontificato chi n'era sommamente meritevole, ma non era stato proposto in addietro, nè punto aspirava a sì gran dignità. Andavano a vele gonfie la fazione corsina e i cardinali franzesi e spagnuoli in favore del cardinal Pompeo Aldrovandi Bolognese, persona che in acutezza e prontezza di mente, e nella scienza degli arcani della politica avea niuno o pochi pari. Tuttavia al cardinal Annibale Albani Camerlengo, capo della fazione dagli zelanti, parve che a questo degno soggetto mancasse alcuna delle doti che si esigono in chi ha da essere insieme principe grande, e, quel che più importa, ottimo pontefice. Però seppe egli così ben intralciar le cose, che non si giunse mai ai voti sufficienti per l'elezione dell'Aldrovandi, il quale, da che vide preclusa a sè stesso la strada per salire più alto, generosamente si adoperò perchè l'elezione cadesse in uno degli altri due ben degni porporati della patria sua, cioè nei cardinali Vicenzo Lodovico Gotti e Prospero Lambertini. Improvvisamente adunque, come eccitati dalla voce di Dio, nel dì 16 d'agosto inclinarono gli animi concordi del sacro collegio nella persona d'esso cardinale Lambertini, che era ben lontano dai desiderii di questo peso ed onore, e nel dì susseguente ne fecero la solenne elezione, poi canonizzata dal plauso universale di chiunque [463] conosceva il singolar merito personale di lui.

Prese egli il nome di Benedetto XIV, per venerazione al santo pontefice da cui era stato decorato della sacra porpora. Era egli nato in Bologna di casa antichissima e senatoria nel dì 31 di marzo del 1675 e però giunto all'età di sessantacinque anni. Dopo aver fatti i principali suoi studi in Roma, ed esercitate con gran lode varie cariche nella prelatura, fu nel 1728 dichiarato cardinale da papa Benedetto XIII, poscia promosso al vescovato d'Ancona, e finalmente creato arcivescovo di Bologna. Dovendo il romano pontefice essere maestro nella Chiesa di Dio, non si potea scegliere a sì alto ministero persona più propria di lui per la sua gran perizia de' canoni e dell'erudizione ecclesiastica, di cui già avea dato illustri pruove con quattro tomi De servorum Dei beatificatione, e De Sanctorum canonizatione, e colle Istruzioni sue pastorali intorno alle feste della Chiesa e al sacrifizio della Messa, e con un'altra utilissima Raccolta di decisioni ed editti spettanti alla disciplina ecclesiastica, dai quali si raccoglie quanto ampia sia la sua letteratura e ardente il suo zelo, talmente che da più secoli non era stata provveduta la Chiesa di Dio di un pontefice sì dotto e pratico del pastorale governo. A questi pregi si aggiugneva quello dei suoi costumi, fin dalla sua prima età incorrotti, la delicatezza della coscienza, ed una costante professione e pratica della vera pietà. Miravasi anche in lui una rara vivacità di spirito; e quantunque egli fosse impastato di un nitro che facilmente prendeva fuoco, pure questo fuoco non durava che momenti, perchè tosto smorzato dalla sua imperante virtù. Ora il novello pontefice nella sera dello stesso dì 16 di agosto pubblicamente passò alla visita della basilica Vaticana, per quivi venerare il santissimo Sacramento, e fare orazione alla sacra tomba dei principi degli Apostoli. Fu quivi che l'immenso popolo, accorso a vedere [464] il sospirato pastore, attestò con vive acclamazioni il suo giubilo. Seguì poi nel dì 25 d'esso mese la funzion solenne della sua coronazione; dopo di che si applicò egli vigorosamente al governo, avendo scelto per segretario di stato il cardinale Valenti Gonzaga, prodatario il cardinale Aldrovandi, prefetto dell'indice il cardinale Querini vescovo di Brescia, segretario dei memoriali monsignor Giuseppe Livizzani, e confermato segretario dei brevi il cardinale Passionei.

Mancò eziandio di vita nel dì 31 di maggio Federigo Guglielmo re di Prussia, a cui succedette il primogenito, cioè Federigo III, principe di spiriti sommamente guerrieri, del che poco staremo a vederne gli effetti. Similmente terminò i suoi giorni nella notte del dì 28 di ottobre Anna Ivvanovva imperadrice della gran Russia gloriosa per le sue imprese contra dei Tartari e de' Turchi, dichiarando suo successore il fanciullo principe Giovanni, nato dalla principessa Anna sua nipote, e dal principe Antonio Ulrico di Brunsvich e Luneburgo. Ma fra le morti che sommamente interessarono l'Italia anzi l'Europa tutta, quella fu dell'Imperadore Carlo VI. Era egli pervenuto alla età di cinquantacinque anni e pochi giorni, età florida, accompagnata da una competente sanità. Desiderava ognuno e sperava, che Dio lungamente lasciasse in vita quest'ottimo Augusto, perchè mancante in lui la discendenza maschile della gloriosissima casa d'Austria, che per più di quattro secoli con tanta lode avea governato l'imperio romano, ben si prevedeva, che la non mai quieta nè sazia ambizione dei potentati avrebbe aperta la porta a un seminario di liti e di guai. Prognosticavasi ancora, che poco sarebbe rispettata la prammatica sanzione, da lui saggiamente stabilita, e creduta antidoto valevole a risparmiare i temuti mali. Ma altrimenti dispose la divina Provvidenza, i cui occulti giudizi tanto più son da adorare, quanto meno ne intendiamo le cifre. Sorpreso questo [465] monarca nel dì 15 di ottobre da dolori nelle viscere, da gagliardo vomito e da febbre, andò in pochi dì peggiorando, e però, dopo aver data con tenerezza alle figlie arciduchesse la paterna benedizione, e presi con somma divozione i Sacramenti della Chiesa, coraggiosamente incontrò la separazione dalla vita presente, accaduta nella notte precedente al dì 20 del mese suddetto. Era desiderabile che un'egual costanza d'animo per altro conto si fosse trovata in questo insigne Augusto; giacchè non si dee tacere quello che il padre Agostino da Lugano cappuccino, rinomato fra i sacri oratori, ed ora vescovo di Como, confessò nella funebre orazione del monarca medesimo. Cioè, che portatoci monsignor Paolucci nunzio apostolico, oggidì cardinale, a complimentare la maestà sua cesarea nel di lui giorno natalizio, e ad augurarle lunga serie d'anni, il buon imperadore gli rispose, questo essere l'ultimo della sua vita. Interrogato del perchè, replicò di non poter sopravvivere alla gran perdita fatta di Belgrado, antemurale della cristianità. Passò dunque ad un miglior paese Carlo VI imperador de' Romani, a tessere il cui grandioso elogio non ebbero nè han bisogno alcuno le penne di chieder aiuto dall'adulazione: tanta era la sua pietà, capitale ereditario dell'augusta sua casa, tanta la saviezza, per cui non trascorse mai in quelle debolezze alle quali è sottoposto chi più siede in alto, tanta la clemenza e bontà dell'animo suo, che solamente si rallegrava in far grazie, e in beneficar le persone degne, e in sovvenire ai poveri, e solamente ripugnanza provava ai gastighi. Non m'inoltrerò io maggiormente nelle sue vere lodi, e chiuderò in una parola il suo ritratto, con dire ch'egli fu esemplare de' principi savii e buoni; e se cosa alcuna in lui non si approvò, fu qualche eccesso della stessa sua bontà, costume quasi trasfuso in lui per eredità dai suoi benignissimi antenati.

Lasciò egli erede universale di tutti [466] i suoi regni e Stati l'arciduchessa Maria Teresa primogenita sua, moglie di Francesco Stefano duca di Lorena e gran duca di Toscana: principessa, che siccome per la beltà potea competere colle più belle del suo sesso, così per l'elevatezza della mente, per la saviezza dei suoi consigli, ed anche per forza generosa di petto, gareggiava coi primi dell'altro sesso. Tosto fu ella riconosciuta dai sudditi per regina d'Ungheria e Boemia, ed erede di tutti gli Stati e dominii dell'inclita casa d'Austria. Diede ella principio in graziose maniere al suo governo col rimettere in libertà i generali Seckendorf, Wallis e Neuperg, e coll'isminuire d'alquanti aggravii i suoi popoli. Dichiarò ancora correggente dell'austriaca monarchia il granduca suo consorte, colle quali azioni, e con altre tutte lodevoli, confermò nei sudditi suoi la speranza di provare come rinato nella figlia l'impareggiabile Augusto Carlo VI. Ma che? poco durò questo bel sereno. Nel dì 3 di novembre fu pubblicata in Monaco da Carlo Alberto elettore di Baviera una protesta preservatrice delle sue ragioni sopra gli Stati della casa di Austria; nè egli volle riconoscere per regina ed erede di essi Stati la gran duchessa suddetta. Si fondavano le pretensioni d'esso elettore sopra il testamento di Ferdinando I imperadore, in cui, secondo la copia esistente in Monaco, si leggeva che la primogenita dello stesso Augusto succederebbe nei due regni d'Ungheria e Boemia, caso che non vi fossero eredi maschi dei tre fratelli della medesima. Da essa primogenita, cioè da Anna d'Austria, discendeva l'elettore stesso. Perchè egli sempre ricusò di approvare la prammatica sanzione, si studiò l'imperador Carlo VI vivente, per mezzo della corte di Francia, di calmare sì fatta pretensione, con far conoscere difettosa quella copia di testamento, tuttochè autenticata da un recente notaio, perchè nell'originale di esso testamento non si leggeva quella parola maschi, ma solamente in caso che più non vi fossero legittimi eredi dei tre [467] suoi fratelli, o simili parole tedesche, le quali atterravano tutto l'edifizio formato dalla corte di Baviera. Essendo poi passato all'altra vita esso Augusto, la regina, a fin di chiarire l'elettore e il pubblico tutto di questa verità, pregò i ministri di tutti i sovrani che si trovavano in Vienna, e massimamente quel di Baviera, di raunarsi un dì in casa del vicecancelliere conte di Sintzendorf, per esaminare il protocollo ed originale del sopraenunziato testamento. Tutti l'ebbero sotto gli occhi, ed, attentamente osservandolo, trovarono tale essere l'espressione del testatore Ferdinando augusto, quale si sosteneva in Vienna. E perciocchè il ministro bavarese, non contento di aver come gli altri ben considerata la verità di quelle parole, portò anch'esso protocollo ad una finestra, per osservar meglio contro la luce, se alcuna raschiatura o frode avesse alterato il primario carattere, nè vi trovò alterazione alcuna: non potè ritenersi il vicecancelliere dalla collera e dal prorompere contra di lui in risentimenti per tanta diffidenza. Ma che questo ripiego nulla servisse a distorre l'elettore dal proposito suo, non andrà molto che ce ne accorgeremo; giacchè fondava egli la pretension sua anche sopra il contratto di matrimonio della suddetta Anna d'Austria col duca Alberto di Baviera, e sopra altre parole del testamento stesso di Ferdinando I Augusto. Un'altra pretensione parimente moveva la corte di Baviera, e questa assai fondata e plausibile: cioè un credito di alcuni milioni a lei dovuti, fin quando l'armi bavaresi concorsero a liberar la Boemia dall'usurpatore palatino del Reno; per li quali era stata promessa un'adeguata ricompensa. Restava tuttavia attesa questa partita, nè gli Austriaci erano mai giunti a darne la piena soddisfazione.

Videsi intanto la Francia, siccome garante della prammatica sanzione, abbondare delle più dolci espressioni di amicizia verso la nuova regina d'Ungheria, benchè stentasse molto a riconoscerla [468] per tale. Ma nello stesso tempo facea preparamento di milizie e d'armi, ed altrettanto facevano dal canto loro gli Spagnuoli e il re delle Due Sicilie. Ciò che poi sorprese ognuno, fu il vedere Federico III re novello di Prussia, nel mentre che professava un gagliardo attaccamento agl'interessi della regina Maria Teresa, entrare improvvisamente, prima che terminasse l'anno, colle sue armi nella Slesia, cominciando egli prima il ballo, e dando principio a quelle rivoluzioni che già si conoscevano inevitabili, perchè desiderava e sperava più d'uno di profittare del deliquio patito dall'augusta casa d'Austria. Di questo mi riserbo io di parlare all'anno seguente. Gli affari della Corsica in quest'anno somministrarono motivi di molte speculazioni ai curiosi. All'udire i Franzesi, tutta l'isola era già sottomessa agli ordini loro; ma non appariva pure un barlume che ne fosse rilasciato il possesso e dominio intero alla repubblica di Genova, nè che i Franzesi pensassero a ritirarsene; anzi aspettavano essi un rinforzo di nuove truppe, perchè le malattie aveano di troppo estenuate le lor forze. All'incontro si trovavano dei corpi di malcontenti tuttavia sollevati; e chiaramente si scorgeva che la sola forza riteneva gli altri sottomessi in dovere, prevedendosi che dalla partenza dei Franzesi altro non si poteva aspettare che il risorgimento dei segreti mali umori in quella nazion feroce. Fra i ministri dell'imperadore e del re cristianissimo in Parigi tenute furono varie conferenze per rimettere la tranquillità nella Corsica, ma non se ne videro mai gli effetti. Intanto da quell'isola prese commiato il barone di Prost, nipote del fu re Teodoro, che fin qui s'era, con gran pericolo di cadere in man de' Franzesi, trattenuto fra i sollevati nelle montagne. La sua partenza rinvigorì non poco le speranze de' Genovesi.

Dopo essersi più mesi fermato in Venezia il real principe di Polonia Federigo, e dopo aver goduto degl'insigni divertimenti [469] a lui dati da quella magnifica repubblica in più funzioni, finalmente nel fine di maggio prese la via della Germania per ritornarsene in Sassonia, con lasciare anche a quella dominante gloriose memorie della sua gentilezza e munificenza. Fu in questi tempi che la real corte di Napoli, tutta intesa a rimettere e far fiorire il commercio in quel regno, si avvisò di permettere agli ebrei, già cacciati ai tempi di Carlo V Augusto, il ritorno colà, e di poter fissar ivi l'abitazione. A questo fine furono loro conceduti amplissimi privilegii ed esenzioni, tali nondimeno che cagionarono stupore, anzi ribrezzo ne' cristiani, perchè fu loro accordato di non portar segno alcuno, di abitar dovunque volessero, di usar bastone e spada, e di poter acquistare stabili e insino feudi, con gravissime pene a chi li molestasse. Però da varie parti dell'Europa cominciarono a comparir colà uomini d'essa nazione, vantandosi di volere e poter essi supplire ciò che i Napoletani potrebbono fare, ma pare che non sappiano fare da sè stessi. Se quella corte vide ed accettò volentieri questi baldanzosi forestieri, di altro umore fu bene il popolo, e massimamente gli ecclesiastici di quella sì popolata città, che non si poteano astenere dal declamare contro di essi anche pubblicamente. Il padre Pepe gesuita, uomo di molta santità, e in gran concetto presso la corte stessa, non rifiutò mai di detestare dal pulpito l'introduzione di questa gente. Giunse anche un cappuccino a tanta arditezza di dire al re, che la maestà sua non avrebbe mai successione maschile finchè non licenziasse gl'introdotti ebrei. Ma col tempo si vide cessare, e per altro mezzo, questo ondeggiamento. Cioè tali segreti insulti andò facendo quello scapestrato popolo all'odiata nazione giudaica, che niun di costoro osava di aprir pubbliche botteghe. Giunse la plebe fino a minacciar loro un totale esterminio, se per avventura non succedeva la consueta liquefazione del sangue di san Gennaro, [470] perchè questo creduto gran male si sarebbe attribuito al demerito di ospiti tali, segreti odiatori del cristianesimo. In somma tanto crebbe col tempo il timore nei medesimi giudei, che a poco a poco andarono sfumando da Napoli; e se alcuna ve ne resta, è perchè poco ha da perdere, e sa sottrarsi alla conoscenza del popolo. Riuscì per lo contrario di molta soddisfazione ai regnicoli un trattato di pace e navigazione stabilito in Costantinopoli dal re don Carlo colla Porta Ottomana nel dì 7 di aprile per mezzo del cavalier Finocchietti suo plenipotenziario, per cui si aprì la libertà del commercio fra i Turchi e i regni di Napoli e Sicilia, e cessò ogni ostilità fra essi, con isperanza ancora che il gran signore impegnerebbe in un trattato simile le reggenze di Algeri, Tunisi e Tripoli. Di sè, e non del sovrano, attento al bene dei suoi popoli, si ebbe a dolere chi non profittò di così bella apertura ai guadagni. Fu poi dichiarato ambasciatore il principe di Francavilla, per passare alla Porta, con superbi regali da presentarsi al gran signore.


   
Anno di Cristo MDCCXLI. Indizione IV.
Benedetto XIV papa 2.
Vacante l'imperio.

Alle speranze concepute dalla corte e dal popolo romano intorno al novello pontefice Benedetto XIV si videro ben presto corrispondere i fatti. Trovossi che seco su quell'augusto trono era passata la consueta sua giovialità, affabilità e cortesia, e il costante abborrimento alla sostenutezza ed al fasto. Molto più si scoprì aver egli accettata quella pubblica dignità, non già per vantaggio proprio o della sua nobil casa, ma unicamente per procurare il ben della Chiesa, per giovare alla camera apostolica, e, per quanto fosse possibile, al pubblico tutto. Pochi poterono uguagliarsi a questo buon pontefice nel disinteresse e nella liberalità. Ciò che a lui perveniva o di rendite proprie, o di regali, gli usciva tosto dalle [471] mani. I poveri spezialmente participavano di queste rugiade, e saccheggiavano il suo privato erario. Un solo nipote ex fratre aveva egli, cioè don Egano Lambertini senator bolognese. Gli ordinò di non venire a Roma, se non quando l'avesse chiamato, e poi sempre si dimenticò di chiamarlo. Anzi, all'osservare tanta sua munificenza verso degli altri, solamente ristretta verso d'esso suo nipote, parve a non pochi che l'animo suo, per troppo abborrire gli eccessi degli antichi nepotismi, cadesse poi nel contrario eccesso, ossia difetto. Per varii bisogni o inconvenienti de' tempi passati trovò egli la camera apostolica aggravata da una gran somma di milioni di scudi, e dei frutti corrispondenti, e di molte spese superflue. Impossibile conobbe la cura di sì gran male: pure si applicò per quanto potè a procacciarne il sollievo, cominciando da sè stesso, col riformare la propria tavola, e il proprio vestire e trattamento, e non ammettendo se non il puramente necessario. Giacchè era mancato di vita, durante il conclave, il cardinale Ottoboni, conferì esso pontefice la carica di vicecancelliere al cardinale Rufo, che generosamente rilasciò in benefizio della camera la maggior parte del soldo annesso alla medesima. Sì pingue era in addietro la paga delle milizie pontifizie, che ogni semplice soldato potea dirsi pagato da uffiziale, e così a proporzion gli uffiziali stessi. Dal santo padre fu riformato il salario non men degli uni che degli altri; e de' soldati ne risparmiò cinquecento, non già cassandoli senza misericordia, ma ordinando che, mancando essi di vita, non si reclutassero. Trovò anche maniera di liberar la camera apostolica da varie pensioni addossate alla medesima dai pontefici troppo liberali della roba altrui. In una parola, tanto si adoperò, ch'essa camera ripigliò gran vigore, e dove in addietro sbilanciava nelle spese, cominciò a sperar degli avanzi.

Maggior premura ancora ebbe il vigilantissimo pontefice per la riforma della [472] prelatura e del clero, facendo sapere ad ognuno che non promoverebbe agli uffizii ed impieghi, se non chi sel meritasse coll'attestato della vita ben costumata e conveniente a persone ecclesiastiche, e coll'applicazione agli studii. A questo fine furono poscia dalla santità sua istituite quattro diverse accademie, nelle quali spezialmente si esercitassero i prelati esistenti in Roma in compagnia dei più cospicui letterati di quella gran metropoli, dovendosi trattare de' canoni e concilii, della storia ecclesiastica, della storia ed erudizione romana, e dei riti sacri della Chiesa. Propose inoltre il santo padre di riformare il lusso massimamente della nobiltà romana, sì per esentare le illustri case da dispendii, talvolta superiori alle rendite loro, con far debiti, al pagamento dei quali si trovava poi o molta difficoltà, o pure impotenza; come ancora per ritener nello Stato il tanto danaro che n'esce, per soddisfar le pazze voglie della moda. Si tennero su questo varie conferenze, e si videro saggi progetti proposti dai conservatori della città. Ma chi lo crederebbe? tanti ostacoli, tante riflessioni in contrario scapparono fuori, sopra tutto per opera di chi profitta della balordaggine degl'Italiani, che sì bel disegno rimase arenato. Istituì ancora una congregazione di cinque porporati, per esaminar la vita e i costumi dei destinati alla dignità episcopale. Di questo passo procedeva lo zelantissimo pontefice Benedetto XIV, con accrescere il suo merito presso Dio e presso gli uomini. Inviò egli in tanto col carattere di nunzio straordinario alla dieta dell'elezione del nuovo imperadore monsignor Doria, figlio del principe Doria, dichiarato arcivescovo di Calcedonia, che con suntuoso equipaggio s'incamminò alla volta della Germania.

Siccome pur troppo aveano preveduto i saggi, cominciarono a provarsi le perniciose conseguenze della morte del buon imperador Carlo VI. Sul fine dell'anno precedente il giovine Federigo III [473] re di Prussia, senza far precedere dimanda o sfida alcuna, con venticinque mila soldati e buon treno d'artiglieria era corso ad impadronirsi d'alcuni luoghi della Slesia austriaca, non già, dicea egli, per alcuna mala intenzione sua contro la corte di Vienna, nè per inquietare l'imperio, ma solamente per sostenere i suoi diritti sopra alcuni ducati e territorii di quella provincia, la più ricca e fruttuosa che si avesse in Germania l'augusta casa di Austria. Susseguentemente dipoi pubblicò un manifesto, in cui dedusse i fondamenti di quelle sue pretensioni, dichiarando nullo un trattato di concordia, conchiuso nel 1686 fra la corte di Vienna e quelle di Brandenburgo. Intanto perchè non si aspettava nella Slesia una sì fatta tempesta, nè vi si trovava preparamento alcuno per resistere, nel dì 3 di gennaio dell'anno presente non fu difficile al Prussiano di entrare in Breslavia, capitale di quella provincia, e di occupare altri luoghi nè pur pretesi nel suo manifesto; dopo di che ridusse le sue milizie al riposo. Ancorchè per questo inaspettato colpo si trovasse più di un poco confusa la corte di Vienna, pure adunato che ebbe un corpo di circa venti mila veterani soldati, lo spinse in Islesia sotto il comando del maresciallo conte di Neuperg, con ordine di tentare una battaglia. S'inoltrò questo generale sino a Millovitz in poca distanza da Brieg, ed ivi incontratosi col grosso dell'armata prussiana, nel dì 10 d'aprile dell'anno presente venne con essa alle mani. Sei ore continue durò l'atroce combattimento, in cui riuscì alla cavalleria austriaca di rovesciar la prussiana, e si vide anche più d'una volta piegar l'ala sinistra d'essi Prussiani; ma in fine trovandosi di lunga mano superiori le forze nemiche, e in maggior copia le loro artiglierie, che fecero di brutti squarci nelle schiere austriache, fu obbligato il Neuperg a ritirarsi, e a lasciare il campo di battaglia ai Prussiani, che riportarono bensì vittoria, ma a costo di moltissimo loro sangue. V'era in persona lo stesso re di [474] Prussia, che diede gran segni d'intrepidezza e di bel regolamento nei movimenti delle sue armi. Dopo di che nel dì 4 di maggio egli s'impadronì di Brieg, una delle più belle città della Slesia. Succederono poscia varii negoziati per l'amichevole via di qualche aggiustamento; e se fossero stati ben accolti per tempo i consigli dell'Inghilterra ed Olanda, avrebbe probabilmente la regina, col sacrifizio di una parte della Slesia, potuto conservar l'altra, ed acquetar le pretensioni del re prussiano. Ma siccome principessa di gran coraggio, e troppo renitente ad acconsentire che restasse vulnerata la prammatica sanzione, più tosto volle esporsi a perdere tutta quella bella provincia, che spontaneamente cederne una porzione. Inesplicabil allegrezza intanto avea provato la corte di Vienna per un arciduchino, partorito dalla suddetta regina nel dì 15 di marzo, cui furono posti i nomi di Giuseppe Benedetto. Per questo dono del cielo solenni feste furono fatte.

Intanto ecco alzarsi dalla parte di ponente un più nero e minaccioso temporale. Già Carlo Alberto elettor di Baviera avea in pronto un esercito di circa trenta mila combattenti, e sul fine d'agosto improvvisamente andò ad impossessarsi dell'importante città di Passavia, con promettere di non intorbidar quivi il dominio civile del cardinale di Lamberg vescovo esemplarissimo, e principe benignissimo di quella città. Ma un nulla fu questo. Fin qui, non ostante il grande apparato di guerra che si faceva in Francia, non altro s'udiva che intenzioni di quella corte di sostenere la prammatica sanzione, di cui essa non dimenticava di essere garante. Ma verso la metà d'agosto ecco con tre corpi, o, per dir meglio, con tre eserciti i Franzesi, valicato il Reno, entrar nelle terre dell'imperio, con far correre voce, per mezzo de' suoi ministri nelle corti, che questo sì gagliardo movimento d'armi non era per distorsi dagl'impegni della garanzia suddetta, ma bensì a solo oggetto di assicurar la quiete della Germania, [475] e la libera elezione di un imperadore. Queste ed altre simili proteste del gabinetto di Francia non si sapeano digerire dagl'intendenti in Germania, i quali gridavano essere vergognosa cosa lo spaccio di esse, quando chiaramente ognuno scorgea, che le armate franzesi unicamente tendevano a dar la legge al corpo germanico, e a forzare chiunque s'opponesse alla promozione dell'elettor di Baviera alla corona imperiale, e ad unirsi con esso principe contro la regina d'Ungheria. Imperciocchè, diceano essi, non è più un mistero il dirsi nella corte di Francia, essere venuto il tempo di abbassare una volta la casa d'Austria, quella casa che fin qui avea fatto il possibile argine al maggiore accrescimento della non mai sazia potenza franzese. E però doversi trasportare lo scettro cesareo in altro principe che per la debolezza delle sue forze non osasse nè potesse contrastare ai voleri della Francia; e che per isnervare l'austriaca regina, d'uopo era spogliarla del regno della Boemia, dappoichè il re di Prussia avea fatto lo stesso della Slesia. A questo fine si vide non solamente posto in dubbio, ma anche negato alla regina il voto della Boemia nell'elezione del futuro imperadore, senza che valessero le ragioni e proteste della medesima. Favorevoli ancora ai disegni della Francia si trovarono gli elettori palatino e di Colonia; nè molto stette lo stesso Federigo Augusto re di Polonia, ed elettor di Sassonia, a prendere l'armi e ad unirsi coi Bavaresi e Franzesi contro la regina. Dal re Cristianissimo fu dichiarato general comandante delle sue milizie l'elettor di Baviera, con protestare che queste non altro erano che ausiliare d'esso elettore, per sostenere i legittimi diritti della di lui casa; giacchè non negava la corte di Francia di aver ben accettata e garantita la prammatica sanzione austriaca, ma aggiugneva che questo s'avea da intendere senza pregiudizio delle ragioni altrui. Dicevano alcuni, non saper, nè pur la gente dozzinale, capire queste raffinate precisioni del [476] gabinetto franzese; perchè le parea che l'aver giurato di mantener l'unione degli Stati della casa d'Austria lo stesso fosse che promettere di non impegnar l'armi per discioglierla, nè passar differenza fra chi si obbliga di non uccidere uno, e poi presta il pugnale o porge in altra maniera aiuto ad un altro per levargli la vita. Gridavano perciò, bandita la buona fede da quel gabinetto, e a nulla più servire le pubbliche paci, quando con tanta facilità si faceano nascere apparenti ragioni e scuse di romperle. Per quello ch'io ho inteso da buona parte, ripugnò forte il cardinale di Fleury primo ministro allo imbarco della Francia in questa guerra, perchè assai conosceva le leggi dell'onore e del giusto; ma da un tale fanatismo fu preso allora tutto il consiglio del re cristianissimo, che gridando ognuno all'armi per così favorevol occasione di deprimere l'emula casa d'Austria, e insieme il romano imperio, forzato fu esso cardinale di cedere alla piena, e di cominciar questa nuova tragedia.

Ora da che si trovò l'elettor di Baviera rinforzato da venti, altri dissero trenta mila Franzesi, più non indugiò ad entrare sul fine di settembre nell'Austria con impadronirsi di Lintz, Eens, Steir ed altri luoghi, dove si fece prestare omaggio da que' popoli. Avea proposto il duca di Bellisle nel consiglio di Versaglies che si mandasse in Baviera una potente armata, con cui s'andasse a dirittura a Vienna; ma il cardinale di Fleury non l'intese così, e mandò poco. Tale nondimeno per questo fu la costernazione nella città di Vienna, che ognuno a momenti s'aspettava d'essere ivi stretto da un assedio, e ne uscì gran copia di benestanti col meglio dei loro effetti. Da molto tempo si tratteneva la regina col gran duca consorte in Presburgo, dove avea ricevuta la corona del regno d'Ungheria. Cagion fu il movimento dei Gallo-Bavari ch'essa immantenente facesse portar colà da Vienna il tenero arciduchino, co' più preziosi mobili della corte, archivii e biblioteca [477] imperiale. Con un sì patetico discorso rappresentò poscia ai magnati ungheri il bisogno de' loro soccorsi, e la fidanza sua nel lor appoggio e fedeltà, che trasse le lagrime dagli occhi di ognuno, e tutti giurarono la di lei difesa; e detto fatto, raunarono un esercito di trenta mila armati, con promessa di più rilevanti aiuti. Costò nondimeno ben caro ad essa regnante l'acquisto della corona ungarica, e dell'affetto di que' popoli, perchè le convenne comperarlo coll'accordar loro varii privilegii e la libertà di coscienza, non senza grave discapito della religione cattolica in quelle parti. Mirabili fortificazioni intanto si fecero in Vienna; copiose provvisioni e munizioni vi s'introdussero; ed oltre ad un forte presidio di truppe regolate, prese l'armi tutta quella cittadinanza, risoluta di spendere le vite in difesa della patria e dell'amatissima loro regnante. Ma o sia che l'elettor bavaro riflettesse alle troppe difficoltà di superare una sì forte e ben guernita città, al che gran tempo e fatica si esigerebbe, o più tosto ch'egli pensasse non all'Austria, ma al regno della Boemia, dove spezialmente terminavano i desiderii e le speranze sue: certo è ch'egli dopo la metà d'ottobre s'inviò a quella volta colla maggior parte delle sue truppe e delle franzesi, che andavano sempre più crescendo. Trovavasi allora la Boemia sprovveduta affatto di forze per resistere a questo torrente. Contuttociò non mancò il principe di Lobkowitz di raccogliere quelle poche truppe che potè, ed avendole unite con un distaccamento inviatogli dal conte di Neuperg, si applicò alla difesa della sola città di Praga, dove formò dei magazzini superiori anche al bisogno suo.

Di cento e due altre città (che così quivi si chiamano anche i borghi e le terre grosse di quel regno) poche altre vi erano capaci di far buona resistenza. Verso la metà di novembre comparve la possente armata gallo-bavara sotto Praga, e fatta inutilmente la chiamata al comandante maresciallo di campo Oglivi, si dispose [478] alle ostilità. Non mancavano ragioni e pretensioni al re di Polonia ed elettor di Sassonia Federigo Augusto III nell'eredità della casa d'Austria; e giacchè vide Prussiani e Bavaresi tutti rivolti a prenderne chi una parte e chi un'altra, non volle più stare a segno; ed accordatosi coll'elettor di Baviera, entrò anche egli nella danza, e spedì molti reggimenti suoi e un grosso treno d'artiglieria all'assedio di Praga. Di vastissimo giro, come ognun sa, è quella città, perchè composta di tre città. A ben difenderla si richiedeva un'armata intera, e questa mancava; perchè era ben giunto il gran duca Francesco col principe Carlo di Lorena suo fratello a Tabor, menando seco un buon esercito, ma non tale da potersi cimentare col troppo superiore de' nemici. Servì piuttosto l'avvicinamento di essi Austriaci per affrettar le operazioni degli alleati. Infatti nella notte del dì 25 venendo il dì 26 di novembre, ordinò l'elettor bavero un assalto generale a Praga; i Sassoni spezialmente si segnalarono in quella sanguinosa azione. Presa fu la città, ma così buon ordine avea dato l'elettore, ch'essa restò esente dal sacco. Ben tre mila furono i prigionieri. Dopo l'acquisto della capitale si fece l'elettor bavaro proclamare re di Boemia nel dì 9 di dicembre, e citò gli Stati di quel regno a prestargli l'omaggio. Convien confessarlo: tra perchè non pochi erano quivi mal soddisfatti del passato governo, e, secondo la vana speranza dei popoli, si lusingavano molti altri di mutare in meglio il loro stato col cangiamento del principe, e tanto più perchè non dimenticò l'elettore di spendere largamente le carezze e le speranze a quella gente; apertamente, ma i più in lor cuore, accettarono con gioia questo novello sovrano. Per la caduta di Praga si ritirò ben in fretta il gran duca coll'esercito cesareo alla volta della Moravia; ma anche colà passarono i Prussiani, e riuscì loro d'impadronirsi d'Olmutz, capitale d'essa provincia.

Mentre era la regina d'Ungheria attorniata [479] e lacerata da tanti nemici in Germania, un altro minaccioso nembo si preparava contro di lei in Italia. Avea bensì il Cattolico re Filippo V accettata la prammatica sanzione austriaca; pure, appena tolto fu di vita l'imperador Carlo VI che si diede fuoco nella corte di Spagna a forti pretensioni non sopra qualche parte della monarchia austriaca, ma sopra di tutta. Era, come ognun sa, l'Augusto Carlo V padrone anche di tutti gli Stati austriaci della Germania e dei Paesi Bassi. Ne fece egli una cessione a Ferdinando I suo fratello, ma si pretendeva, che mancando la discendenza maschile d'esso Ferdinando, tutti gli Stati dovessero tornare alla linea austriaca di Spagna. Su questi fondamenti, che a me non tocca di esaminare, il re Cattolico, siccome discendente per via di femmine dal suddetto Carlo V, aspirava al dominio dello Stato di Milano, e di Parma e Piacenza, giacchè non era da pensare agli Stati della Germania, troppo lontani e in parte afferrati da altri pretensori. Vero è che parve a quel monarca posta in obblio la solenne rinunzia da lui fatta nel trattato di Londra dell'anno 1718 a tutti gli Stati d'Italia e Fiandra posseduti dall'imperadore; ma per mala sorte, torto o ragione che s'abbiano i principi, ordinariamente le loro liti non ammettono o non truovano alcun tribunale che le decida, fuorchè quello dell'armi. Diedesi dunque la Spagna a formare un possente armamento, e ordinò all'infante don Carlo re delle Due Sicilie di fare altrettanto. Ecco pertanto cominciar a giugnere verso la metà di novembre ad Orbitello, e agli altri porti di Toscana spettanti ad esso re don Carlo, varii imbarchi di truppe, munizioni ed artiglierie provenienti da Barcellona e da Napoli. Parimenti ad esso Orbitello arrivò, nel dì 9 di dicembre, il duca di Montemar, destinato generale dell'armi di Spagna in Italia; e da che nel regno di Napoli fu fatta una massa di circa dodici mila soldati, fu chiesto alla corte di Roma il passaggio per gli Stati [480] della Chiesa. Gran gelosia ed apprensione diedero alla Toscana sì fatti movimenti; e come se si aspettasse a momenti un'invasione da quella parte, si presero le possibili precauzioni per la difesa di Livorno ed altri luoghi. Ma perciocchè premeva alla Francia che non fosse inquietata la Toscana, siccome paese permutato nella Lorena, e guarentito dal re Cristianissimo, ben prevedendo essa, che l'acquisto d'essa Lorena rimarrebbe esposto a pretensioni, qualora fosse occupato da altri il ducato di Toscana; perciò fu sotto mano fatto intendere al gran duca, duca di Lorena, che non temesse sconcerti a quegli Stati; e questa promessa si vide religiosamente mantenuta dipoi dalla corte di Francia. Per conseguente le speranze de' Napolispani si rivolsero tutte agli Stati della Lombardia.

Non istava intanto in ozio la corte di Vienna, cercando chi la salvasse dal naufragio di sì gran tempesta. Fu spedito in Olanda e a Londra il principe Wenceslao di Lictenstein, per promuovere quelle potenze in aiuto suo, con far valere i tanti motivi di non lasciar crescere di soverchio la già sì aumentata possanza della real casa di Borbone, e di non permettere l'abbassamento dell'augusta casa d'Austria dalla cui conservazione e forza principalmente dipendeva la libertà e la salute della Germania, e delle stesse potenze marittime. Trovossi nel re Giorgio II e nei parlamenti d'Inghilterra tutta la più desiderabil disposizione di sostenere, secondo gli obblighi precedenti, la prammatica sanzione, e d'imprendere la guerra contra de' Franzesi, distruttori della medesima. Non furono così favorevoli le risposte degli Olandesi; perchè troppo rincresceva a quella nazione di rinunziare ai rilevanti profitti del commercio, finora mantenuto con Franzesi e Spagnuoli. Fu anche creduto che non mancassero in quelle provincie dei pensionarii della Francia; ed altro perciò non si potè ottenere, se non che [481] le provincie unite puntualmente soddisfarebbono agli obblighi e patti della loro lega, col somministrare venti mila combattenti in soccorso della regina, venendo il caso della guerra. Quanto all'Italia, cominciò per tempo la corte di Vienna i suoi negoziati con Carlo Emmanuele re di Sardegna, siccome sovrano potente, e più degli altri interessato nei tentativi che il re di Spagna e delle Due Sicilie meditavano di fare in essa Italia. Perciocchè per conto della repubblica di Venezia ben presto si scoprì che, secondo le saggie sue massime, faceva ella bensì un considerabil aumento di truppe nelle sue città di terra ferma, ma coll'unico disegno di tenersi neutrale; giacchè forze non le mancavano per far rispettare la sua indifferenza e neutralità. Avea sulle prime il re di Sardegna fatto indagare i sentimenti della corte di Madrid in riguardo alla persona e forze sue nella presente rottura. La ritrovò così persuasa della propria potenza, che non si credea nè bisognosa dell'aiuto altrui per conquistare lo Stato di Milano, nè assai apprensiva dell'opposizione che potesse farle il re sardo, forse perchè s'immaginava col mezzo degli amici franzesi di ritenerlo dall'imprendere un contrario impegno. Solamente dunque gli esibì un tenue briciolo dello Stato di Milano, con promessa di ricompensarlo a misura del suo soccorso, e della felicità de' meditati progressi. Queste ed altre ambigue risposte congiunte alla conoscenza del pericolo, a cui si resterebbe esposta la real casa di Savoia quando cadesse in mano degli Spagnuoli lo Stato di Milano, cagion furono ch'esso re di Sardegna prendesse altro cammino. Rifletteva egli che il re Cattolico avea bensì nel trattato del dì 13 d'agosto del 1715 approvata la cessione fatta dall'imperadore al duca Vittorio Amedeo suo padre del Monferrato, Alessandrino ed altre porzioni del Milanese, ed in oltre ceduto nelle forme più obbliganti il regno di Sicilia al medesimo duca; e pure da lì a non molto tentò di [482] spogliarlo d'esso regno; potersi perciò temere un pari trattamento per gli Stati della Lombardia passati in dominio della casa di Savoia. Applicossi dunque il re Carlo Emmanuele a maneggiare gli affari suoi colla regina d'Ungheria e col re britannico, e a fortificar le piazze, e ad accrescere le sue genti d'armi, e per avere in pronto una possente armata al bisogno, barcheggiando intanto, finchè venisse il tempo di stringere qualche partito.

Durante l'anno presente il pontefice Benedetto XIV, il cui cuore non ad altro inclinava che alla pace con tutti i potentati cattolici, siccome padre amantissimo d'ognuno, determinò di mettere fine alle differenze insorte sotto i suoi predecessori, e durate per lo spazio di trenta anni fra la santa Sede e le corone di Spagna, Portogallo, Due Sicilie e Sardegna. S'erano già smaltite sotto il precedente pontefice molte delle principali difficoltà, nè altro mancava che la conchiusion degli accordi. Al di lui buon volere e saviezza non fu difficile il dar l'ultima mano a questi trattati sì nel presente che nel susseguente anno; così che tornò la buona armonia con tutti, e le nunziature si riaprirono, e la dateria riassunse le sue spedizioni. Intenta eziandio la santità sua al sollievo della povera gente, nel marzo di quest'anno introdusse l'uso della carta bollata per li contratti e scritture che si avessero a produrre in giudizio, siccome aggravio ridondante sopra i soli benestanti, con isgravare nel medesimo tempo il popolo da varii altri imposti sopra l'olio, sete crude, buoi ed altri animali. Ma perciocchè non mancarono persone, le quali, contro la retta intenzione di lui ampliando questo aggravio della carta bollata, ne convertivano buona parte in lor pro con gravi lamenti del pubblico, il santo padre, provveduto di buona mente per non lasciarsi ingannare dai ministri, coraggiosamente abolì esso aggravio, e ne riportò somma lode da tutti. Nel dì 17 di giugno [483] dell'anno presente diede fine al suo vivere il doge di Venezia Luigi Pisani, stimatissimo per le sublimi e rare sue doti. Fu poi sostituito in essa dignità nel dì 30 del suddetto mese, il cavaliere e procuratore Pietro Grimani, personaggio di gran saviezza, chiarissimo per le sue cospicue ambasciarie, e veterano nei maneggi e nelle cariche di quella saggia repubblica. Infierì parimente la morte contra una giovine principessa degna di lunghissima vita. Questa fu Elisabetta Teresa sorella di Francesco duca di Lorena, e regnante gran duca di Toscana, e moglie di Carlo Emmanuele re di Sardegna. Era essa giunta all'età di ventinove anni, mesi otto e giorni diciotto. Avea nel dì 21 del sopraddetto giugno dato alla luce un principino, appellato poi duca di Chablais con somma consolazione di quella corte. Ma si convertirono fra poco le allegrezze in pianti, perchè sorpresa essa regina dalla febbre migliarina, pericolosa per le partorienti, nel dì 3 di luglio rendè l'anima al suo creatore. Non si può assai esprimere quanta grazia avesse questa principessa per farsi amare non solo dal real consorte, ma da tutti, nè quanta fosse la sua pietà e carità verso de' poveri. La maggior parte del suo appannaggio s'impiegava in limosine, e, mancandole talvolta il danaro, ella impiegava alcuna delle sue gioie: del che informato il re, le riscuoteva, e graziosamente gliele facea riportare. In somma universale fu il cordoglio per questa perdita, e dolce memoria restò di tante sue virtù; siccome ancora restarono due principi e una principessa, frutti viventi del suo matrimonio.

Da gran tempo era stabilito l'accasamento del principe ereditario di Modena Ercole Rinaldo d'Este, figlio del regnante duca Francesco III, colla principessa Maria Teresa Cibò, che per la morte di don Alderano duca di Massa e di Carrara suo padre era divenuta signora di quel ducato. Per la non ancor abile età del principe si era differita fin qui l'esecuzione [484] di questo maritaggio; ma finalmente se gli diede compimento nel settembre dell'anno presente; sicchè sul fine d'esso mese fu condotta essa principessa con suntuoso accompagnamento da don Carlo Filiberto d'Este, marchese di San Martino, e principe del sacro romano imperio, alla volta di Sassuolo, dove si trovava il duca e la duchessa Carlotta Aglae d'Orleans, i quali andarono ad incontrarla a Gorzano, e solennizzarono dipoi con molte feste la sua venuta. Stavano intanto i curiosi aspettando di vedere, dopo tante dicerie e lunari, qual esito o destino fossero per avere gli affari della Corsica, tuttavia fluttuante, e non mai pacificata. Perchè le truppe Franzesi aveano quivi preso sì lungo riposo, sognarono i novellisti che la repubblica di Genova fosse in trattato di vendere quell'isola alla Francia, o di permutarla con qualche altro Stato, o di darla all'infante di Spagna don Filippo genero del re Cristianissimo. La vanità di sì fatte immaginazioni in fine si scopri. Non terminò l'anno presente che la corte di Francia, entrata in impegni di maggior conseguenza, richiamò il marchese di Maillebois colle sue truppe in Provenza; laonde la Corsica, accorrendo ogni dì nuovi banditi, e sciolta dal rispetto e timore de' Franzesi, tornò a poco a poco al solito giuoco della ribellione, con isdegno e pentimento de' Genovesi, che tanto aveano speso in procurar de' medici a quella cancrena. Con tali successi arrivò il fine dell'anno presente; anno, che con tanti preparamenti di guerra prometteva calamità di lunga mano maggiori al seguente; ed anno, in cui, oltre alle rivoluzioni dell'Austria, Boemia e Slesia, altre se ne videro nella Gran Russia, alla quale ancora fu dichiarata la guerra dagli Svezzesi collegati colla Porta Ottomana; ma con tornare essa guerra solamente in isvantaggio della Svezia medesima, non assistita poi dai Turchi, nè capace di far fronte alle superiori forze della Russia.

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Anno di Cristo MDCCXLII. Indizione V.
Benedetto XIV papa 3.
Carlo VII imperadore 1.

Più d'un anno correva che restava vacante il seggio imperiale, non tanto per li diversi interessi ed inclinazioni degli elettori, quanto per la disputa insorta intorno al voto della Boemia, il quale veniva contrastato o negato da chi o per amore o per forza seguitava le istruzioni della Francia, per essere caduto quel regno in donna, cioè nella regina d'Ungheria Maria Teresa d'Austria. Ma da che Carlo Alberto duca ed elettor di Baviera si fu impadronito di Praga capitale d'essa Boemia, e nel dì 19 del precedente dicembre si fece prestare omaggio dai deputati ecclesiastici e secolari delle città boeme, forzate fin qui alla sua ubbidienza: si procedè finalmente nella città di Francoforte all'elezione di un nuovo imperadore nel dì 24 di gennaio dell'anno presente. Concorsero i voti degli elettori nella persona del suddetto elettore di Baviera, che da lì innanzi fu intitolato Carlo VII Augusto. Contro di tale elezione la regina d'Ungheria non lasciò di far le occorrenti proteste. Comparve poscia in quella città il novello imperadore nel dì 31 del mese suddetto, accolto con incredibil magnificenza, e nel dì 12 di febbraio seguì la suntuosa funzione dell'incoronamento suo. Susseguentemente nel dì 8 di marzo con gran solennità fu coronata imperadrice de' Romani l'Augusta Maria Amalia d'Austria consorte del nuovo imperadore. Non si potea vedere in più bell'auge l'elettoral casa di Baviera, giunta dopo più secoli a riavere il diadema imperiale, divenuta padrona del regno di Boemia e di parte dell'Austria, ed assistita dalla potentissima corte di Francia. O prima d'ora, o in queste circostanze, si trovò in tal costernazione la corte austriaca per sentirsi sola e abbandonata in questa gran tempesta, e dopo aver perduto tanto, in pericolo ancora di [486] perdere molto più, se non anche tutto, che nel suo consiglio persona vi fu che stimò bene di persuader la pace anche col sacrifizio della Boemia. Fu questa una stoccata al cuore della regina. Altro consigliere poi si fabbricò un buon luogo nella grazia della maestà sua per l'avvenire coll'animare il di lei coraggio, e conchiudere che si avea a fare ogni possibil resistenza, confidando nella protezione di Dio per la buona causa, e col mostrare a quali vicende sia sottoposta la fortuna anche de' più potenti. In fatti si allestì un buon armamento, si uscì in campagna, e molto non tardò a venir calando cotanta felicità del Bavaro Augusto. Imperocchè avendo la regina ammanite molte forze coi vecchi suoi reggimenti, e colla giunta di gran gente accorsa dall'Ungheria: sul principio del presente anno il gran duca Francesco suo consorte col general comandante conte di Kevenuller, governatore di Vienna, dopo avere ricuperato le città di Stair ed Eens, andò a mettere l'assedio alla città di Lintz. Nello stesso tempo s'impadronirono gli Austriaci di Scarding, e nel dì 16 o pure 17 di gennaio diedero una rotta ad un grosso corpo di Bavaresi condotto sotto quella piazza dal maresciallo bavarese conte Terringh. La città di Lintz, benchè fornita d'un presidio consistente in più di sette mila Gallo-Bavari, pure nel dì 23 dello stesso mese si arrendè con patti onorevoli, essendo restata libera la guarnigione, ma con patto di non prendere per un anno l'armi contro la regina d'Ungheria: patto che fu poi per alcune ragioni mal osservato. Ciò fatto, furiosamente entrarono gli Austriaci nella Baviera. Braunau e Passavia furono costrette ad arrendersi: il terrore si stese fino a Monaco capitale d'essa Baviera, la quale, mancando di fortificazioni e di gente che la potesse sostenere, nel dì 13 di febbraio con condizioni molto oneste venne in potere degli Austriaci. Ed ecco quasi, a riserva d'Ingolstad e di Straubinga, la Baviera sottomessa alla regina d'Ungheria, [487] ed esposta alla desolazione portata dall'armi vincitrici, cioè i poveri popoli condannati a far penitenza degli alti disegni del loro sovrano. Mancò intanto di vita in Vienna l'augusta imperadrice Amalia Guglielmina di Brunsvich, vedova dell'imperador Giuseppe. Il dì 10 di aprile fu quello che la condusse a godere in cielo il premio dell'insigne sua saviezza e pietà, di cui anche resta in essa città un perenne monumento nel religiosissimo monistero delle salesiane da essa fondato e dotato, e la di lei Vita data alla luce per decoro della cattolica religione.

Cominciarono in questi tempi ad udirsi in armi Ungheri, Panduri, Tolpasci, Anacchi, Ulani, Valacchi, Licani, Croati, Varasdini ed altri nomi strani, gente di terribile aspetto, con abiti barbarici ed armi diverse, parte di loro mal disciplinata, atte nondimeno tutte a menar le mani, e spezialmente professanti una gran divozione al bottino. Parve in tal occasione che nei tempi passati non avesse conosciuto l'augusta casa d'Austria di posseder tante miniere d'armati, essendosi ella per lo più servita delle sole valorose milizie tedesche, e di qualche reggimento di Usseri e Croati. Seppe ben la saggia regina d'Ungheria prevalersi di tutte le forze de' suoi vasti Stati; e con che vantaggio, lo vedremo andando innanzi. Continuò di poi la guerra non meno in Boemia che in Baviera fra i Gallo-Bavari e gli Austriaci, nel qual tempo ancora proseguirono le ostilità fra questi ultimi e il re di Prussia nella Slesia. Dacchè l'esercito della regina d'Ungheria si trovò sommamente ingrossato sotto il comando del principe Carlo di Lorena, assistito dal maresciallo conte di Koningsegg e dal principe di Lictenstein, i Prussiani giudicarono meglio di ritirarsi da Olmutz con tal fretta, che lasciarono indietro gran quantità di viveri e molti cannoni: con che ritornò tutta la Moravia all'ubbidienza della legittima sua sovrana. Trovaronsi poi a fronte nel dì 17 di maggio le due nemiche armate austriaca e prussiana; [488] e i