The Project Gutenberg eBook of La mirabile visione: Abbozzo d'una storia della Divina Comedia

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Title: La mirabile visione: Abbozzo d'una storia della Divina Comedia

Author: Giovanni Pascoli

Release date: June 23, 2014 [eBook #46082]

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA MIRABILE VISIONE: ABBOZZO D'UNA STORIA DELLA DIVINA COMEDIA ***

Copertina

GIOVANNI PASCOLI

LA
MIRABILE VISIONE

ABBOZZO D'UNA STORIA

DELLA DIVINA COMEDIA

Seconda Edizione

BOLOGNA
NICOLA ZANICHELLI
EDITORE


L'Editore adempiuti i doveri eserciterà i diritti sanciti dalle leggi

Bologna — Tip. Cacciari — VIII — '913


INDICE

  Dedica a Ravenna Pag. v
  Proemio xxv
I. La prima visione 3
II. L'angiola 11
III. La speranza dei beati 18
IV. Mentis excessus 25
V. I simulacri d'amore 34
VI. Le nove rime 49
VII. Lo stil nuovo 60
VIII. Guido e il suo disdegno 72
IX. Beatrice beata 87
X. La donna gentile 95
XI. La vita nova 103
XII. Per via non vera 119
XIII. L'angiola e la donna 142
XIV. La pietra 164
XV. Rectitudo 178
XVI. Legno senza vela 196
XVII. Il re pacifico 206
XVIII. Il veltro 226
XIX. Decem vascula 240
XX. Romagna tua 258
XXI. In Ravenna 274
XXII. L'alpigiana 289
XXIII. La selva e la foresta 309
XXIV. L'umana colpa 321
XXV. Il passo 339
XXVI. Il minor luminare 353
XXVII. Il pie' fermo 362
XXVIII. Le tre fiere 373
XXIX. Virgilio 395
XXX. Lo tuo volume 406
XXXI. Enea e Catone 426
XXXII. Mostri diavoli angeli 450
XXXIII. Lia e Rachele 462
XXXIV. Miseno 474
XXXV. Giacobbe 490
XXXVI. I sette spiriti 521
XXXVII. La Trinità 535
XXXVIII. Lo vas d'elezione 541
XXXIX. L'ultima visione 555
XXXX. La divina Comedia 574

A RAVENNA

PATRIA

DELLA DIVINA COMEDIA

[VII]

o Ravenna!

o mia città paterna, tu non sai forse nemmeno chi io mi sia; chi sia questo tuo figlio che t'offre il suo umile libro. È un uomo esso, per dirtene alcunchè, nè tristo ora nè lieto, nè noto nè ignoto, che soffrì, nella prima e solo bella parte della vita, molta sventura, la quale ogni tanto gli si fa sentire tuttavia, come appunto questo vento, avanzato a una grande tempesta notturna, che, mentre egli scrive, passa a quando a quando con alcuna sua raffica, e rugge. Chè egli adesso abita qui, di fronte al lido che primo si chiamò Italia; tra l'Aspromonte e il Peloro, tra l'Ionio e il Tirreno: ma ti nacque non così lontano, in un castello di quei Malatesta ai quali tu fornisti una donna da amare e uccidere. Nacque dunque in quel castello, e soffrì, e s'accomodò a vivere alla meglio; e ha bell'e finito. Del resto l'uomo è tranquillo nel suo cuore: non desidera ormai aver dalla fortuna più sorrisi di quelli che ha avuti, pochi e sforzati; perchè invero non della ventura egli è ormai amico, sì d'un'altra, dell'altra, di quella che bea ma vuol esser sola.

A te, città silenziosa, questo libro: al quale che cosa posso e debbo augurar di meglio, che il sacro [VIII] silenzio, migliore, non solo delle contumelie, ma anche, e specialmente, delle acclamazioni? Il libro parla di Dante fiorentino e della Comedia sua ravennate; di quello spirito e di quel poema i quali io sento che avrebbero a essere più vivi nella nostra vita moderna, di quel che consentano coloro che pur li studiano e cercano col solo grande amore che si ha per le grandi, o anche piccole, rovine. Io, per esempio, ho imparato dal nostro Poeta, qual sia la libertà che bisogna impetrare a sè e predicare agli altri, se si vuol essere veramente liberali: è la libertà del volere, che è inceppato, per qual ragione si può discordare, ma che e il poema antico e tanti libri nuovi affermano potersi riavere o avere con lungo e forte esercizio sopra sè e dentro sè. Sia un'antica colpa, come Dante credeva, sia la naturale origine, come si crede ai nostri tempi, è, però, in questo e quel modo, un retaggio selvatico e bestiale, che noi portiamo in noi. Ora io credo con Dante che dalla selva si possa uscire e che la bestia si possa vincere.

Credo io dunque nella mistica luna, bianca nera, che splende e non si vede, che ci faccia trovare il passo; e nel mistico veltro, che pasce sapienza e amore e virtù, che ricacci nell'inferno la lupa? Sì: ci credo. La luna è la Grazia, il veltro è un Augusto;[1] e dunque io credo alla Grazia e all'Augusto? Questa [IX] domanda è vana. Dante credeva a una Grazia misteriosa, pari a una luna che fosse piena nella nostra notte, e pur non fosse veduta, la quale faceva uscir l'uomo dal suo fatale aggrovigliamento vegetativo, risvegliandone, nel suo torpor di pianta, la volontà. Ora la scienza non ci dichiara, come l'uomo sia diventato uomo, se non con una parola “evoluzione„, che ripete la domanda e non le risponde; con una parola misteriosa quanto la Grazia, e con un'imagine strana quanto la luna, che è tonda e non si vede, e quanto Lucia, che ci porta in alto mentre dormiamo. Dante spiegava la nostra ascensione come la spieghiamo noi: ossia non la spiegava, ossia la dichiarava non spiegabile. Quanto poi all'Augusto o al veltro o al cinquecento dieci cinque, consideriamo: questo Messo doveva operare sulle coscienze degli uomini; doveva far sì che gli uomini vincessero le tendenze ad abusar di sè e degli altri, ossia doveva domare l'incontinenza e cacciare la cupidità. Noi non riusciamo a comprendere come un Augusto potesse avere cotesta efficacia, se non ripensiamo con qual mezzo egli doveva averla. Questo mezzo è la libertà. Ebbene se io non credo all'Augusto, credo però alla libertà; e credo che Dante abbia pronunziata la parola che, o negli anni, o nei secoli, o nei secoli de' secoli, sarà l'ultima parola della scienza e della sapienza. Egli ha detto: “Gli uomini lasciati a sè stessi, liberi dalla tirannide dei loro simili e pari, limiteranno da sè, in piena libertà, la libertà di abusare di sè e degli altri, e così fiorirà la giustizia e regnerà la pace„. Che questo giogo soave della libertà cui la cervice non sente, potesse o no imporlo un Augusto, non monta ragionare: Dante poneva [X] parallelo a questo concetto politico o sociale, quest'altro concetto morale e psicologico: “L'uomo non sarà felice se non quando, volendo volere, frenerà le passioni dannose a sè e ad altrui, e se ne purificherà, e così sarà nel tempo stesso libero e buono„.

Ebbene se si fondono i due concetti, si avrà l'ultima parola dell'umanità, parola così semplice che gli uomini la prendono a sdegno e cercano affannosamente sistemi nuovi che non sono se non vecchi inganni, creano fazioni nuove che non sono se non vecchi guai, sognano illuminazioni nuove che non sono se non vecchi incendi, non mai spenti e pronti sempre a divampare. Ma la parola, quanto si voglia semplice e umile e senza raggi e senza scoppi, sarà l'ultima perchè è l'unica. “L'umanità non sarà felice, nella giustizia e nella pace, se non quando sarà libera; e l'umanità non sarà libera, se non quando l'uomo si sentirà libero non facendo se non il bene„. Insomma Dante afferma che non c'è questione politica o sociale al mondo, ma soltanto morale. E così credo io. E credo con Dante che solvere la questione, quando che sia, per questo verso, sia possibile; e non sia possibile se non per questo verso: credo invero che l'uomo possa uscire dalla selva, tanto è vero che in parte n'è uscito e ne esce; che possa vincer la bestia, tanto è vero che l'ha qualche volta vinta e la vince; che possa ascendere, tanto è vero che, poco o molto, è asceso e ascende. Ascende, in virtù del suo discendere contemplando. Si fa sempre migliore l'uomo, considerando con sempre più lucida e perciò più ritrosa e rattristata e spaventata coscienza, l'abisso oscuro di crudeltà e cecità e infelicità dal quale sempre più s'allontana ascendendo. Discende con la scienza, ascende con la [XI] volontà. Questa progrediente volontà, nell'uomo, d'umanarsi, è il fatto più certo che a noi sia visibile; ed è perciò la base più sicura d'un sistema scientifico diretto a confortare e consigliare il genere umano nella sua vita.

Chè certo di conforto e consiglio l'umanità ha bisogno sempre. Gli uomini sembrano anche oggi nella condizione in cui Dante li vedeva ai suoi tempi: stanno sulla soglia del carcere e respingono chiunque ne abbia pietà e voglia liberarli dalla loro prigionia e dalle catene che ne legano i piedi e le mani.[2] E le menti e i cuori! O stolti, perchè inceppate la vostra anima in un partito, nel partito di imporre, col numero dei più o con la violenza dei meno, agli uomini un avvenire forzato, a cui obbligate voi e loro, mentre per la comune felicità, ossia per la giustizia e per la pace, non vi si chiede se non la vostra libertà? Ma a voi si chiede una cosa piccola, e voi ne volete dare una grande; vi si chiede di riformar voi soli, e voi volete riformar gli altri, tutti, tutto. Perchè l'umanità sia un'umanità, gli uomini hanno a essere uomini, cioè liberi; non piante legate dalle radiche, non bestie assoggettate dal destino. Ecco la selva originaria, coi suoi alberi quasi uniformi, che tendono tutti presso a poco a un modo i rami, come a una approvazione o riprovazione uguale e immobile; ed ecco alla parola soffiata dal vento tutto il fogliame commuoversi e ondeggiare e plaudire, o tutta la ramaglia fremere e ripugnare e fischiare. Ecco la bestia primitiva, nella piaggia diserta dell'avvenire, che aspetta al varco la preda, e vorrà impedire il [XII] cammino all'umanità che vuol salire, e la spegnerà nel sangue o la ripingerà nella selva oscura. Ma ecco disegnarsi nel crepuscolo il veltro, che è l'Augusto che ognun di noi ha dentro noi; l'impero di sè che è quanto dire la sua libertà. Ecco la selva della vita trasformarsi nella foresta divina, dove è un giudice longa cum veste, il quale non ha nulla a fare, perchè esso è la libertà nella virtù, la virtù nella libertà; e dove è una bella donna, che, questa sì ha da fare, perchè è l'operazione; ma giocondamente opera scaldandosi ai raggi d'amore, perchè è l'Arte pura innocente utile e bella, perchè unisce l'intelletto all'azione, perchè in sè concilia la carne e lo spirito, il lavoro e la gioia, la ghirlanda delle sue mani col canto delle sue labbra. Ella è l'umanità futura, felice libera e buona: umana! Oh! come è invecchiato questo poeta che presenta alle nostre menti nuove l'imagine visibile degl'ideali novissimi! come è vieto questo filosofo che ci dà la formula degli avveniri!

Matelda!... Sai tu, o Ravenna, ch'ella fu dal Poeta creata con molta somiglianza tua? Tu fosti l'ultima sede dell'impero d'occidente, e poi, quando questo cessò, dopo settant'anni, tornasti all'impero orientale di Giustiniano. Dante ti sapeva dunque città imperiale per eccellenza, e l'aquila di Polenta gli ricordava certo l'altra aquila che contra il corso del cielo dall'espero era stata volta all'aurora. Dante ti sapeva città imperiale, eppure ti vedeva piena di chiese e ricca di santi e augusta di tradizioni religiose. L'impero e la chiesa, l'azione e la contemplazione si conciliavano in te così come nella sua Matelda, che è l'arte, abito operativo e virtù intellettuale, nel senso allegorico, e l'impero e la chiesa conciliati insieme, nel [XIII] senso anagogico. Onde, forse, il nome interpretato, per il primo aspetto, da math- scienza o arte, e ispirato per il secondo aspetto, dalla memoria della contessa Matelda. La quale, per usare le parole dell'Anonimo comentatore di Dante, “fu per madre nipote dello imperadore di Costantinopoli„, e nel tempo stesso “due fiate in soccorso della chiesa potentemente venne„.[3] Sì. E fu maritata e vergine, e fu Marta e Maria, e fu attiva e contemplativa, e guerriera e religiosa, e fu insomma la grande arte imperiale[4] per cui si deve congiungere “la filosofica autorità colla imperiale, a bene e perfettamente reggere„.[5] E fu figlia di Donna Beatrice; e nella divina foresta invero è a Beatrice come ancella rispetto a signora, e come (è così nel Butense, II p. 823) “filliuola„ rispetto a madre. Oh! non credo io che per Dante la giovine e bella coglitrice di fiori e cantatrice di salmi[6] fosse la vecchia contessa, più di quello che [XIV] la sua Beatrice fosse colei che quamvis peccatrix est domna vocata Beatrix, più di quello ch'essa medesima, la Musa ossia la propria arte e scienza di Dante, alla quale giunse con lo studio, sia il Musaeus, del quale pur ella tiene il posto. Ella è una creatura ispirata da questi ricordi etimologici, poetici, storici, che Dante ha fusi insieme in un sincretismo così spontaneo che sembra miracoloso. Pensò egli prima alla radice math- (e forse a eld- o a Eden), o alla persona storica di Matelda? Il fatto è che il Poeta volle, per il Musaeus di Virgilio, una Musa, cioè l'arte, cioè la propria scienza di ognuno che, guidato dallo studio, arrivasse alla cima; la poesia specialmente, per lui, perchè vi arrivava esso, poeta; e l'arte di governare i popoli, specialmente per lui, perchè esso arrivava là, e sarebbe salito anche più su, e sarebbe tornato, e avrebbe aperto la bocca, in pro' del mondo che mal vive. Ora vide egli al suo nome di Matelda, arte gioconda, rispondere con tanta consonanza il ricordo storico di Matelda, figlia appunto (e qui pare il miracolo!) d'una domna Beatrix, e attiva insieme e contemplativa, e nipote d'imperatore e protettrice della chiesa; o il nome storico della figlia di Beatrice interpretò egli etimologicamente, in modo da farne il convenevole appellativo della Musa? Il dubbio è lecito, sebbene più probabile sia questa seconda vicenda.

E così è tanto probabile che tu, o Ravenna, imperiale e chiesastica, entri in qualche modo nella concezione della più geniale creatura di Dante. “Qui sarai poco tempo silvano„ dice Beatrice a Dante: qui, cioè nella vita, che è una selva, oscura e paurosa per i più, divina e viva per Dante o per chi [XV] come lui s'è purificato e ha acquistato l'abito dell'arte gioconda. Nella vita; ma la vita di Dante trascorreva allora, e davvero per poco tempo, a Ravenna; e la pineta in sul lido di Chiassi fu il modello di quella divina e viva foresta. Dante fu silvano di Ravenna prima d'essere cive di Roma.[7] Nella Roma celeste era per essere con Beatrice: nella terrena Ravenna era con Matelda, con la Poesia, col suo poema, con l'Arte o la Musa, la quale egli a Ravenna udì finalmente cantare ed iscegliere fior da fiore.

Chè la Comedia nacque nella tua selva, o Ravenna. La foresta dell'Eden somiglia, esso dice, alla pineta di Classe. Ebbene la selva con cui comincia il poema, è quella stessa foresta. L'una e l'altra sono antiche come il mondo; sono la vita. Dire, come dice Dante, che l'uomo, breve ora dopo la sua creazione, dalla foresta viva fu cacciato nella selva morta, equivale a dire che l'uomo, da vivo alla grazia, morì per il peccato. La sua vita era felice e facile; diventò oscura e paurosa: l'Eden si trasformò in un bosco selvaggio. Per non saper come spiegare codesta trasformazione, Dante ricorre all'idea del movimento: dalla foresta l'uomo venne alla selva; agli antipodi; e l'uomo dalla selva deve tornare alla foresta: ma si intende che resta sempre, guaggiù, finchè è silvano, nella medesima selva che è la vita. Ora se Dante s'ispirò alla tua pineta per descrivere la foresta, si ispirò anche alla tua pineta per ideare la selva. Chi sa? Forse ci si trovò in quei primi giorni dell'esilio divenuto allora definitivo, in un momento di tempesta. [XVI] Forse vi si indugiò, forse anche vi si smarrì, di notte. Egli rabbrividì della sua nullità tra quelli enormi pini che squassavano le nere teste e le mille braccia di giganti sopra il suo capo. La vide poi, di giorno, un giorno d'autunno, quando le eriche a' piedi dei pini erano gemmate dei loro bocciolini rosei, e fiorivano i colchici e i dianti e le radicchielle, i vermigli e i gialli fioretti. E lo scirocco blando e dolce piegava le fronde dei pini a ponente, ed esprimeva dalle loro ombrelle un sibilo armonioso di pioggia, e non turbava gli uccelletti che usavano la loro arte sui rami. E un canale gli toglieva di andar più oltre, in quella limpida mattinata, ed egli, l'esule, sostava a guardare le erbe che si stendevano sull'acqua corrente e pareva volessero andare con lei.[8] E in quell'ombra, tra quel canto, tra quel murmure d'acqua e di vento, Dante si ritrovò: trovò la sua Matelda, la sua arte, il suo poema: il suo poema che va da una selva a una foresta, e dalla foresta all'empireo; il suo poema di cui è centro quella foresta dove è quella Matelda, che in sè unisce la vita attiva e contemplativa, mentre il poema comincia dal concetto della vita attiva impossibile, e si conclude con la visione del mistero ineffabile per cui la carne si unisce al Verbo, lo spirito alla materia, il mondo a Dio.

Ma codesti sarebbero sogni, per quanto non di infermi, se non soccorressero i dati storici della realtà. E questi dati li fornì per gran parte un tuo figlio, o Ravenna, degno di te: Corrado Ricci. Ma egli, come tuo tenero figlio, non osando (mi par di leggere [XVII] nel suo cuore) credere a tanta gloria, a tanta fortuna tua, sua, nostra; sembrando a sè di presumere troppo, se avesse rivendicata a te e alla forte Romagna, che ha la tomba del Poeta, anche la culla del poema; moltiplicava ed esagerava al suo limpido ragionamento le obbiezioni, e ricusava di trarre le conclusioni dalle sue sicure premesse. Il Boccaccio afferma che Dante dopo la morte di Arrigo si recò senz'altro a Ravenna. Ebbene, perchè non credergli? Il Ricci stesso conforta la credibilità del Boccaccio in ben più difficile racconto; in quello degli ultimi tredici canti che non si trovarono, alla morte di Dante. Ma no: egli si pone avanti gli occhi, per non vedere, il debole ostacolo della giunta che fa il Boccaccio alla sua notizia: che Guido Novello era allora, nel 1313, signore di Ravenna, mentre ne fu podestà solo nel '15. Eppure il Ricci stesso aveva osservato che l'autorità di Guido Novello era già preponderante nel 1314![9] Il Ricci stesso ci fornisce gli argomenti per dimostrare che, se per aver la Romagna parte così grande nella Comedia, Dante nella Romagna deve aver vissuto e usato a lungo, dunque Dante nella Romagna si trovava anche quando scriveva l'episodio di Guido Montefeltrano e di Francesca da Rimini.[10] Il Ricci stesso ci fornisce la prova che quest'ultimo episodio, che è il più soave e ardente della divina Comedia, non poteva essere scritto se non per compiacerne l'ospite.[11] Il Ricci stesso, insistendo sulla vecchia e sempre indubitabile interpretazione dell'ovis gratissima, [XVIII] richiamava il nostro pensiero a considerare che, se nel 1319 mancavano ancora i dieci primi canti del paradiso, non era meraviglia che la Comedia fosse cominciata nel 1313 o anche a principio dell'anno seguente. In vero, a tacer del resto che si legge in questo volume, l'ovis gratissima che ha molto latte, e che è molto e facilmente munta dal suo divino pastore, il quale, così, decem vascula promette di quel latte al mandriano bolognese; non può essere la poesia latina o bucolica, il cui primo latte sarebbe l'ecloga che ne parla; e i decem vascula non possono essere dieci ecloghe di tale che appunto allora fa la prima, e dovrebbe invece averla fatta precedere da tanti altri vascula, da tante altre ecloghe! E dunque i decem vascula che voleva mandare (e non mandò subito, chè l'altro rispose fraintendendo l'offerta), sono i primi dieci canti del paradiso in cui, a capo del primo, suona, per non dir altro,[12] appunto il peana che il Poeta nell'ecloga annunzia, e freme l'indignatio contro le umane voglie, la quale nell'ecloga lo fa prorompere in quell'annunzio glorioso.

E non voglio tacere pur qui che il Boccaccio è, dall'Alighieri stesso, confermato verace in un'altra delle sue pretese novelle. La prima radice dell'amore di Paolo e Francesca è quale il Boccaccio racconta. Sì: fu un inganno, fu una sostituzione di persona, che innamorò e poi perdè Francesca, come accese e trasse a morte Dido, nella cui schiera è la seconda e simile Elissa. Come Dido fu, inconsapevole, infiammata da Amore che aveva prese le sembianze d'un altro, da Amore che prima di venire a lei si era appeso al [XIX] collo di Enea, da Amore che condusse lei e poi anche lui (per le imprecazioni di lei, però) alla morte; così l'Elissa novella proclama irresistibile l'Amore che prima s'apprese a lui, l'Amore che poi prese lei, l'Amore che infine perdè tutti e due: irresistibile a quello stesso modo: per qual ragione se non quella stessa, d'uno scambio di persona? Chè tutto, nei due fatti, corrisponde: le due coppie furono vinte da un punto in consimili circostanze: soli, in una spelonca, i due primi; soli, gli altri due, in luogo appartato. Ille dies!... quel giorno!... Oh!... non fu in una caccia la prima causa della morte e del mal perverso per Francesca: la caccia Dante la serbò per il dramma dell'odio che rassomiglia pur tanto a questo dell'amore![13]

O Ravenna, è un sublime vanto il tuo! La tua natura, la tua storia, la tua tradizione, le tue chiese e la tua selva, tra, giova credere, la delicata ospitalità del tuo signore e, come è certo, la affettuosa familiarità di tuoi abitanti, indigeni e forestieri, aiutarono (e sarebbe stato assai non impedire) la grandissima opera. Persino la tua postura “sulla marina dove il Po discende„ fu precipua nell'ispirazione del poema. Dante in esso è un pius vates (sesto del canone del limbo che diverrà nel gran dì un Elisio), elevato dallo studio all'etere puro, dove è Matelda, ossia la Musa invece di Musaeus; è di quei pii vates et Phoebo digna locuti (esso afferma d'esser di questo novero, nel proemio del paradiso), i quali abitano in boschi ombrosi, presso a ruscelli che rinfrescano [XX] l'erba della loro ripa, in una grande boscaglia che aulisce (inter odoratum lauri nemus), cantando il peana là dove, per la selva, ricco di acqua si svolge l'Eridano. E alla foce dell'Eridano, l'esule cantava il suo peana, sperando che poi egli l'avrebbe cantato alla fonte (non dello Eridano, ma del battesimo: oh! i mistici congiungono insieme idee ben più disparate), alla fonte, come quei grandi, cinto nivea... tempora vitta:[14] “In sul fonte del mio battesmo prenderò il cappello„.

La selva odorata in tanto lo circondava. La divina Comedia è là, nella pineta di Chiassi. È là, ammirabile e venerabile come la tua basilica di Santo Apollinare in Classe... Ah! che io mi avvedo di aver fatto un paragone che molta gente noterà con un sogghigno! E dirà: Sappiamo, sì, che tu riduci la divina Comedia a una basilica bizantina! Ebbene, rispondo io, voi, dunque, in codeste basiliche non entrate? voi a Ravenna non ci venite? Poveretti! Voi portate nell'anima un marchio di quelli che soli restano a molti italiani, della scuola, la quale, languida e stinta in altri insegnamenti, usa per due o tre parole il fuoco, e quelle, sì, le imprime: Secentismo! Arcadia! Bizantinismo! Poveretti! E poichè io trovo e noto in Dante il lume che non è lume ma è tenebra, e la Speranza che non è in cielo ma in terra, e la morte che è vita, e la vita che è morte, e simili, voi dite: Codesto è bizantinismo; e siete lesti. All'interprete lanciate la ingiuria (che tale è nel vostro pensiero) o al Poeta? Badate; chè il sasso può passare sul mio capo e andare a ferire colui che aspetta a Trento!

[XXI] Ma che discorsi sono codesti? Sì: Dante è un poeta mistico e teologico; sì: Dante è il Poeta del Cristianesimo, e sebbene faccia, anzi perchè fa capo a S. Paolo, non del Cristianesimo primitivo, sì di quello che chiamò a sua difesa Aristotile e Plato, e S. Agostino e S. Bernardo e S. Tomaso. Se voi per questo volete levar di seggio il signifero dell'italianità, provatevi: non ci riuscirete. Perchè Dante in ciò appunto è grande e grandissimo, in quanto è l'Omero d'un mondo che fu; sebbene anch'esso possa insegnare al mondo non più suo, come insegnava Omero alla Grecia di Platone, alla Roma di Orazio, e ai tempi anche di Darwin, tante cose, oltre quid sit pulcrum, quid turpe, quid utile, quid non! Ma lasciamo quel che Dante possa ancora insegnar di buono: Dante, io vi dico, in ciò è bello in cui voi lo chiamate (rivolgendovi a me) bizantino. E voi continuerete per poco, io spero, a passare avanti S. Vitale e S. Apollinare, senza gittar loro un'occhiata, perchè voi vi siete figurate quelle basiliche come due Partenoni, e non vi volete sciupare le linee doriche con le quali ve le siete costrutte; cesserete voi di dire che tutto al più v'è dentro il tal monogramma che ha una importanza storica, perchè può stabilire la parte che ebbe nella costruzione Ecclesius episcopus; la finirete di ripetere che non c'è di bello che il musaico di Francesca e d'Ugolino, e i capitelli a foglie di loto della Squilla serale e della Foresta divina. Il bello di queste basiliche è l'insieme, è il tutto, è il complesso di oro vecchio e di legno putre, è il sentor d'umido e di sepolcro, è l'aria di mistero e di sogno: e di queste basiliche quale è più alta, quale è più profonda, quale è più misteriosa, quale è più, ricca d'oro mezzo scomparso, [XXII] di musaici mezzo rotti, di strani geroglifici, di marmi, di alabastri, di madreperle d'ogni parte venute, che il Poema Sacro? E sì, tutte quelle figure, o contorte o estatiche, che un'arte ormai tramontata vi colorì con pietre varie, urlano e pregano e cantano: il tempio è invaso da un murmure inestinguibile. È là, nella Pineta di Chiassi, la Basilica del pensiero scolastico e mistico, presso l'antica selva, che nella notte è la miseria indiscrivibile e nel mattino è la beatitudine ineffabile della vita umana. C'è: se anche non si vede ancora sorgere, come io sogno che sorga, di vera pietra, con le pareti istoriate di tutte le antiche figurazioni della divina Comedia, con incisi nel pavimento, con dipinti nelle volte tutti i simboli, tutte le sigle, tutti i rabeschi dell'evo medio.

Oh! erigilo, Ravenna, il monumento alle ossa di Dante e al suo poema e al pensiero dei misteriosi secoli di mezzo, là in quella Pineta. Le genti ti aiuteranno, perchè esse vogliono per certo consacrare, in qualche unica guisa, la gloria del Poeta universale che in sè riassume l'evo che per qualche millennio sarà considerato come centrale nella storia del genere umano; perchè questo non mai tanto cercò d'elevarsi quanto allora, che più basso era caduto. La barbarie, che aveva dietro sè il paganesimo elegante e feroce, parve allora disdegnare quella civiltà, volle, per così dire, oltrepassare d'un salto, anzi d'un volo, quella umanità, ed essere puro spirito. L'anima degli uomini mise l'ali in quella età. E perciò gli uomini a quella età guarderanno sempre con l'amore con cui si guardano i primordi. Così, quando tu avrai edificato il monumento della divina Comedia, nella selva dov'ella nacque, non ci sarà uomo pensante che non creda dover [XXIII] suo peregrinare, una volta in sua vita, al tempio di Dante, ed essere sensibilmente nell'oltremondo del suo pensiero. I grandi pini col sussurro incessante ripeteranno al nuovo pellegrino il poema dell'esule; e quand'anche tutto ciò che Dante vide e pensò e cantò, fosse già scomparso, l'ultima campana che ancora rimanesse su una torre, da Sant'Apollinare, l'unica ultima squilla, sonerebbe sulla sera, e inviterebbe quel solitario uomo dell'avvenire a piangere su tutto ciò che muore, che poi è sempre così bello così buono, così pieno d'incanto così pieno di rimpianto.

Giovanni Pascoli.

Messina
nel novembre del MCMI

PROEMIO

Il lettore deve tener presente la dichiarazione mistica delle nozze di Giacobbe, quale è in Aurelio Agostino, contra Faustum, XXII 52-58.[15] Eccola in breve. Giacobbe serve Laban, che s'interpreta Dealbatio. Così Dante è fedele, cioè servo, di Lucia, chiamata appunto Lucia, perchè “bianchezza è un colore pieno di luce...„. (Co. 4,22) Dealbatio s'interpreta poi Grazia della remission dei peccati. Lucia invero è chiesta dalla Donna gentile, quando Dante è in pericolo, e Lucia prega Beatrice per la salvezza di lui, e Lucia agevola [XXVIII] Dante per la sua via e lo trasporta nel sonno alla porta del purgatorio. Giacobbe ama Rachele, che s'interpreta, oltre che in modi analoghi, sapienza, e speranza dell'eterna contemplazione. Dante ama Beatrice, che siede con Rachele. Dante, come attestano gli angeli nell'Eden, (Pur. 30, 83) fu salvo per la speranza, a dirla a un modo, per l'aiuto di Beatrice che mandò a lui Virgilio, per dirla a un altro.[16] Dunque Beatrice è la speranza, e perciò la sapienza. Giacobbe non può impetrar subito le nozze di Rachele; deve servire sette anni, dopo i quali ha Lia, non Rachele. Lia si interpreta laborans, e ha gli occhi deboli, e significa la tolleranza della fatica, la giustizia laboriosa, e simili. Per aver Rachele, Giacobbe deve servire altri sette anni. Questi ultimi sette anni s'interpretano per i sette precetti inclusi nelle sette beatitudini. Ora Dante giunge alla sua Rachele, dopo esser salito per le sette cornici del purgatorio e aver udita in ognuna di esse una delle sette beatitudini. Le sette beatitudini sono come opposte ai sette peccati. Ma codeste figurano i secondi sette anni del servaggio di Giacobbe a Laban o di Dante a Lucia, la quale porta il suo fedele alla porta delle sette cornici. I primi sette? Quelli di Giacobbe s'interpretano come i sette comandamenti di giustizia: Onora tuo padre etc. Quelli di Dante? Dante nell'inferno ha veduti sette peccati, ai quali Virgilio riduce tutto l'inferno: lussuria, gola, avarizia, peccato di [XXIX] color cui vinse l'ira e che portarono accidioso fummo, malizia con forza o violenza o bestialità, malizia con frode, malizia che trade. Questi tre ultimi appellativi appartengono a una divisione filosofica delle reità infernali, in incontinenza e malizia. Ora come l'incontinenza comprende lussuria, gola, avarizia e quel quarto peccato detto più sopra, così la malizia comprende, io ho dimostrato, i tre ultimi dei peccati capitali: ira, invidia e superbia. E quel di mezzo è l'accidia. Così Dante ha sostituito ai sette precetti di giustizia (che sono, salvo il primo, divieti di peccare, Non... Non...), i sette peccati capitali che sono contro i dieci comandamenti o precetti, i sette peccati che ha opposti nel purgatorio alle sette beatitudini.

Queste coincidenze che non possono essere casuali, tra la dichiarazione Agostiniana e lo schema Dantesco, ci licenziano a ricavare, con le debite cautele critiche, dal passo di Agostino altri lumi per l'interpretazione del poema sacro. E così noi, trovando mirabile concordanza con altre opere del Poeta, Virgilio lo dobbiamo interpretare come studium, cioè studio o amore che con un lungo esercizio morale (per l'inferno e per il purgatorio, per due settennati), movendo dalla fede (egli è mandato da tre donne del cielo), conduce Dante avanti Beatrice, cioè alla sapienza. Così “Dante va con Virgilio a Beatrice„, significa “Dante diviene e poi è filosofo„. Ma prima è addotto a Matelda. Questa significa arte, e andar con Virgilio a Matelda o all'arte, che per Dante è la poesia, significa, diventare e poi essere poeta.

Ne esce ancora limpidamente il concetto generale della divina Comedia, che è l'abbandono della [XXX] vita attiva, provata invano nella piaggia diserta, e l'adozione della vita contemplativa, le quale consiste prima in un esercizio di vita attiva che disponga all'altra. Così Dante, dopo il suo doppio esercizio settennale, è puro, e perciò disposto alla contemplazione.

E sale con Beatrice.

Il lettore non mi creda mai di leggeri, ma nemmeno mi condanni e mi respinga senza pensarci su, senza rileggere i passi a cui lo rimando, di Dante o di Virgilio, senza dar sulla voce, se è un Dantista, all'irrequieto amor proprio che vuol sempre ragion lui. Pensi alla concordia dei singoli dati con l'intiera costruzione. Sopra tutto rinunzi ai pregiudizi (che spero di mostrare al tutto mal fondati) estetici, e non dica: Ma così Dante non sarebbe bello! ma così Dante sarebbe mero teologo! ma queste sono vere sciarade! questi sono propri indovinelli! Non dica codeste e simili cose. Può darsi, ripeto, che, quando che sia, trovi (e per un uomo d'intelletto non so qual rammarico possa esser maggiore) d'aver fatto un gratuito oltraggio non a me, pover uomo davvero, ma proprio proprio proprio a Dante Alighieri!

[1]

LA MIRABILE VISIONE

[3]

I.
LA PRIMA VISIONE

La vita poetica di Dante comincia con un sogno.

Nel mezzo quasi della sua adolescenza, Dante incontrò per una via la giovinetta che gli era piaciuta bambina, e poi aveva veduta sovente. Egli stava molto pauroso; ed ella si volse a lui e gli mandò una parola di saluto. Dante ne fu inebriato e sentì il bisogno di essere solo e di pensare a lei. E rientrò in casa e si appartò nella sua camera, e s'addormì e sognò di lei. La sognò involta in un drappo, che dormiva, e non aveva altra veste che quel drappo (VN. 1-3).[17] Era (come si dovrebbe credere seguendo il Boccaccio) il primo dì di maggio? e il sogno dell'adolescente era avvenuto tra quella dolcezza del cielo e tra quella varietà dei fiori, nella sera d'una festa? Dante, dal suo deboletto sonno, [4] si svegliò innamorato; ma gli parve, come avviene, che l'amore fosse cominciato da un pezzo, sin da quando egli conosceva la gentile persona di che aveva sognato; e che il sogno gli desse soltanto, di quell'amore che cominciava in quel punto, la consapevolezza dopo tanto tempo che durava (VN. 4)[18]. Questo io leggo in quel libello che ognuno ha con sè, e può trovarvi scritte le parole che io vi trovo; e si chiama il libro dell'anima, e si legge con la memoria. Ricordiamo, dunque. Che cosa più spesso fu che trasformò d'un subito, nella nostra anima ancor pura, la fanciulla che ieri ci indugiavamo a guardare, nell'angiola che oggi non possiamo guardar più senza tremito e rossore? E quasi fuggiamo per non vederla più quel giorno, quasi vederla fosse fatica e dolore, e invece è gioia troppo viva, che va goduta a poco a poco; se no, fa male al cuore. Che cosa fu, se non qualche meteora che passò senza rumore sulla nostra anima sveglia, mentre il corpo dormiva? Bisogna, io penso talvolta, che la coscienza del nostro essere sia assopita, perchè noi concepiamo quella cosa soave e terribile che è l'amore.

Dante sognò e così amò la fanciulla che sino ad allora gli era piaciuta. Questa prima visione di Dante fu da lui veramente veduta, fu proprio un sogno vero, sebbene qualcosa aggiungesse o accomodasse o interpretasse nel racconto ch'e' ne fece ai fedeli d'amore. Nel fatto è verosimile che la fanciulla gli apparisse involta in quel drappo solo; e ch'e' ne [5] sognasse la notte avendola veduta nel giorno. Il sonno era deboletto, e fu pensamento che si trasmutò in sogno, (Pur. 18, 145) passando per quella zona intermedia in cui errano, a fior del sonno, le imagini conduttrici. Dante era in letto per dormire; e la fanciulla gli pareva che fosse in letto e dormisse. Ed è verosimile che mentre nel giorno gli s'era mostrata vestita di bianco, nella notte avesse il drappo di colore sanguigno leggeramente simile all'umile e onesto sanguigno della veste che aveva nel giorno ormai lontano della prima apparizione; e che ella fosse nelle braccia d'alcuno; e che ella dormisse, e pur mangiasse. Sì: che pur mangiasse; se ricordiamo il racconto del Boccaccio; “avvenne che quivi mescolata tra gli altri della sua etade (de' quali così maschi come femine erano molti nella casa del festeggiante), servite le prime mense, di ciò che la sua piccola età poteva operare puerilmente, si diede con gli altri a trastullare„. Come il drappo è del color d'allora, così ritorna, nel sogno di Dante, anche l'atteggiamento d'allora, della gentil bocca che si pasce. Ma la gentil bocca si pasce ora di ben altro cibo; del cuore ardente del suo amatore. E anche questo è verosimile, date le novelle allora diffuse de' cuori mangiati,[19] e dato il fatto che, con la fanciulla così involta nel solo drappo e tra le braccia d'alcuno, il cuore del sognatore batteva forte e diceva d'esserci, e così chiedeva di entrare nell'inconsapevole costruirsi della visione. Nei sogni (leggiamo quel nostro libello!), nei sogni ciò che sente la nostra psiche [6] incosciente si proietta su questa o quell'imagine; ma tutto torna a lei. È il nostro io che si sdoppia e fa tra sè e sè di grandi drammi con molte persone. Così chiunque avesse nelle braccia la fanciulla assopita, e chiunque le desse quel cibo da lei ricevuto con ispavento, chiunque paresse essere quello che prima era allegro e poi piangeva, era l'anima di Dante che provava la delizia di quel peso e di quella stretta, e prima allegria e poi dolore.

E Dante propose di far sentir il suo sogno a tutti i servi d'amore, e fece un sonetto nel quale raccontava la sua visione. “Salute, o cuori innamorati, e ditemi il vostro parvente. Erano passate tre ore della notte stellata, e a me apparve Amore. Rabbrividisco nel ripensare come era! Era allegro, e teneva il mio cuore in mano, e nelle braccia aveva la donna che amo, involta in un drappo. E la donna dormiva, e Amore la destava, e le dava a mangiare questo cuore che ardeva. E poi se ne andava piangendo„. Il giovinetto poeta introducendo quest'Amore... Ecco, lasciamo parlar lui. “Potrebbe qui dubitare persona degna da dichiararle ogni dubitazione, e dubitare potrebbe di ciò ch'io dico d'Amore, come se fosse una cosa per sè, e non solamente sustanzia intelligente, ma sì come fosse sustanzia corporale. La qual cosa, secondo la verità, è falsa; chè Amore non è per sè sì come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia. E che io dica di lui come se fosse corpo, e ancora sì come fosse uomo, appare per tre cose che dico di lui. Dico che lo vidi venire... Dico anche di lui che ridea, ed anche che parlava... e però appare ch'io ponga lui essere uomo. A cotal cosa dichiarare...„ il poeta (a proposito del s. XIV, non di [7] questo) dice che ai rimatori è conceduto di parlare alle “cose inanimate sì come avessero senso o ragione„ e farle “parlare insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere„ (VN. 25). Ora che Dante vedesse in sogno[20] “uno accidente in sustanzia„ così come fosse un uomo allegro e poi piangente, non lo crederei così facilmente. Egli cominciò, col chiamare Amore sè o altra persona, a interpretare il suo sogno; ma che non ci mettesse, di sè cosciente, se non questo principio d'interpretazione, riesce chiaro dal fatto che il sogno non è costruito in modo da prestarsi a una interpretazione compiuta. Nel fatto che significava per Dante il sogno? che la fanciulla s'era innamorata di lui, avendo mangiato il suo cuore? così, dunque, come interpretò Cino, o qual fosse l'autore del sonetto Naturalmente chere? Questi dice:

Allegro si mostrava Amor venendo
a te per darti ciò che 'l cor chiedea,
insieme due coraggi comprendendo;
e l'amorosa pena conoscendo
che nella donna conceputo avea,
per pietà di lei pianse partendo.

[8] Amore si mostrava allegro, perchè concedeva così mercede all'amorosa pena di Dante, e poi piangeva, perchè la donna avrebbe avuta lei quest'amorosa pena? Dante dunque si sarebbe poi dinegato a lei? Sarebbe stata la favola delle due fontane, alle quali si beve, a vicenda, l'amore e il disamore? Dante avrebbe detto: “Io sarò libero della mia pena, e quella che sino ad ora è stata — dormente, involta in drappo, d'ogni pena fuore — la soffrirà lei„? Non è possibile. Il libello non contiene, nè è impostato per contenere, gli affanni della donna, sì quelli di Dante. O vogliam dire che a lui fosse manifesto “lo verace giudicio del detto sogno„ qual fu manifestissimo dopo, che, cioè, esso preannunziasse la morte della gentilissima? Checchè si voglia dire dei presentimenti di Dante, è però impossibile ch'egli fabbricasse un sogno o una visione, e la esponesse in un sonetto, per dire che la sua donna sarebbe morta; e, di più, che ciò significasse col pianto d'Amore dopo quel fiero cibo, quasi che l'amor di Dante la uccidesse. Guido Cavalcanti interpretò meglio il sonetto (se bene interpretiamo lui), e riuscì non ad altro che a mostrare che il sogno non dà senso ragionevole, e perciò è vero sogno nel suo fondo.

Di voi lo core ne portò, veggiendo
che vostra donna la morte chedea:
nodrì la d'esto cor di ciò temendo.
Quando t'apparve che sen già dogliendo,
fu dolce sonno ch'allor si compiea,
che 'l su' contraro la venia vincendo.

[9] Il che vuol dire:[21] “Amore prese il tuo cuore, di cui la tua donna voleva la morte. Le lo diede a mangiare, perchè non lo facesse morire; ossia ti concedesse mercede, rimeritasse d'amore il tuo cuore, ossia te. Il dolor d'Amore poi venne dal fatto che la donna si svegliò, appunto per il ministrare di quel cibo, dal suo dolce sonno, vinta dal contrario del sonno; e così non avrebbe continuato a pascersi del tuo cuore„. Ebbene quest'interpretazione non sta, perchè Amore non pasceva qui la donna addormentata pian piano che non si svegliasse, bensì la svegliava per pascerla. Guido per dare un giudicio ragionevole faceva forza alla lettera del sonetto. Interpretava in vero che Amore involontariamente svegliasse la donna, nel pascerla.

[10] Il sonetto, dunque, contiene un vero sogno di Dante, sogno che appunto perchè è vero, non si presta a interpretazioni; ma ha inoltre una circostanza inventata, la quale, ripeto, è un principio di interpretazione che non poteva essere compiuta. Sembra che Dante volesse esprimere il comune concetto dell'amore che comincia con canti e suoni e finisce con lagrime, dell'amore che è gioia e dolore, che è dolce amaro. Il qual concetto è spesso in lui, come:

di fuor mostro allegranza,
e dentro da lo core struggo e ploro;
(VN. s. 2)

e anche:

altro sperando m'apporta dolzore,
altro pianger mi fa spesse fiate;
(VN. s. 6)

e va dicendo. E c'è, esposto in prosa e in versetti latini, subito nel primo capitolo dove “lo spirito de la vita„ trema avanti il dio più forte di lui, e “lo spirito animale„ maraviglia avanti l'apparizion della beatitudine, e “lo spirito naturale„ comincia a piangere e dice piangendo: Misero me! Ora perchè tal concetto nel sogno potesse riferirsi a Dante che aveva sognato, bisognava che il cuore non lo avesse mangiato la donna, sì esso; o meglio, che la donna non volesse mangiarlo, sì che Dante restasse innamorato solo, senza speranza di mercede. Ma sì; lo mangiava, sebbene con qualche ribrezzo, paventosa; e Amore si studiava di vincerne la ritrosia pascendola con atti più propri di servo, che di signore qual egli è: umilmente. Che così mi par d'intendere. Or dunque Dante giovinetto del suo sogno vero volle fare, con suoi versi alquanto impacciati, una visione che avesse [11] senso, e non ci riuscì. Ma se il sogno è vero, vera è anche la donna che involta in un drappo pasce il cuor di Dante sul bel principio della vita poetica, quasi in sul mezzo della adolescenza di lui.[22]

II.
L'ANGIOLA

Quella vera donna si chiamava Bice:

Guido, vorrei, che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi ad un vascel, ch'ad ogni vento
per mare andasse a voler vostro e mio;
sicchè fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse il disio.
E monna Vanna e monna Bice poi[23]
con quella ch'è sul numero del trenta,
con noi ponesse il buono incantatore;
e quivi ragionar sempre d'amore:
e ciascuna di lor fosse contenta,
siccome io credo che sariamo noi.
(Ca. s. 2)

[12] Con quello cui egli chiamava primo de' suoi amici e che fu risponditore al primo sonetto, Dante parla di monna Bice; e del caro segreto è partecipe un terzo gentile rimatore: non altri. L'anima del giovinetto “era tutta data nel pensare di quella gentilissima„. (VN. 4) Egli intristiva e “a molti amici pesava de la sua vista, e molti pieni d'invidia già si procacciavano di sapere di lui quello ch'e' volea del tutto celare ad altrui„. Del qual tempo è forse il sonetto di Guido a lui:[24]

I' vegno 'l giorno a te 'nfinite volte.

Leggiamolo in vero interpretando: “Io ti vengo a trovare (senza che tu mi vegga: v. 11) in ispirito, io penso a te a ogni momento del giorno, e ti trovo pensar troppo vilmente„. O che è questa viltà? Può ben essere, mi pare, tale, quale Guido altrove[25] dice di sè:

L'anima mia vilment'è sbigottita
dalla battaglia ch'ell'ave dal core,
············
Sta come quella che non à valore
ch'è per temenza dallo cor partita:
e chi vedesse com'ell'è fuggita
dirìa per certo: questi non à vita.
[13]
Per li occhi venne la battaglia in pria
che ruppe ogni valore...

Può ben, mi pare, riferirsi a quella “sì fraile e debole condizione„ di che era divenuto Dante in picciol tempo. Continua Guido: “Allora mi duole della gentil tua mente„ (nel sonetto decimo è: sì che del colpo fu structa la mente), “e d'assai tue vertù, che ti son tolte„; le quali vertù non son cose troppo differenti dal “valore„ che fu rotto in Guido, come “distrutto„ appariva Dante dall'amore e dalla sua donna. Nè pensiamo certo a male quando altrove (VN. 15) Dante stesso dice: “S'io non perdessi le mie vertudi, e fossi libero tanto ch'io le potessi rispondere, io le direi...„ Ancora: “Già prima schivavi la moltitudine e l'annoiosa gente; ma di me parlavi con tanto affetto, perchè io aveva inteso parola per parola il tuo sonetto primo.[26] Ora non ardisco più mostrare[27] che le tue rime mi piacciano, e ti vengo a trovare solo in ispirito, con questi rimproveri, con questo sonetto che tu devi leggere e rileggere per guarire„.

[14] Checchè sia di ciò, a Guido dunque e a Lapo, se non ad altri, rispose qualcosa di più di ciò che rispondeva a molti amici, quando “si procacciavano di sapere di lui quello ch'e' volea del tutto celare ad altrui„. A questi rispondeva “che Amore era quelli che così l'avea governato„; a Guido aveva detto che era monna Bice. Ma per gli altri questo nome andava confuso in mezzo ai nomi “di sessanta le più belle donne de la cittade„, nel serventese che Dante compose “specialmente„[28] in onore della gentile donna dello schermo. Al qual serventese Dante allude nel sonetto, Guido, vorrei. Ora in esso il nome di Bice era in sul nove. Addivenne ciò per deliberato pensiero del poeta o meravigliosamente, come esso dice? Certo, o fosse caso o proposito, questo ritrovarsi di Bice in sul nove fu causa o effetto di quelle considerazioni che Dante aveva fatte o doveva fare sull'età di lei quando prima gli apparve, e sull'intervallo d'anni tra quell'apparizione e il saluto, e sull'ora della notte in cui sognò di lei. Più probabile fosse causa, poichè, quanto alla età, sarebbe stato per il senso che dal nove traeva Dante, miglior avviamento, che nove anni avesse Bice, non Dante, e, quanto all'ora, ch'ella fosse l'ora nona delle dodici notturne, già piccole, se era di Maggio (Co. 3, 6; 4, 23); sì che le ultime due o tre di poco avrebbero preceduto il tempo

[15]

che comincia i tristi lai
la rondinella presso alla mattina,

tempo, “nell'alba che precede il giorno„, proprio al sognar verace. Chi non sente invero l'impaccio e lo sforzo in quel pensamento sull'ora quarta della notte? “Trovai che l'ora... era stata la quarta della notte: sì che appare manifestamente ch'ella fu la prima ora delle nove ultime ore della notte„. Ma sì il tempo della prima apparizione, sì l'ora della prima visione, sono veri, e Dante ci si dovè ingegnare attorno per riconoscervi un qualche segno divino.[29] Invece il collocamento di Bice in sul nove del serventese, o fosse caso o fosse proposito, fermò l'attenzione del giovinetto, che o determinò prima o ravvisò poi in quel nove qualcosa di significativo. E forse tal fantasia fu suggerita dai nove anni nei quali S. Agostino dice d'aver sedotto ed essere stato sedotto.[30] A ogni modo, questo nove si sa che è. “Più sottilmente pensando, e secondo la infallibile verità, questo numero fu ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo così. Lo numero del tre è la radice del nove, però che senza numero altro alcuno, per sè medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via tre fa nove. Dunque se 'l tre è fattore per sè medesimo del nove, e così il [16] fattore de' miracoli è tre, ciò è Padre e Figliolo e Spirito santo, li quali sono tre ed uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere, ch'ella era un nove, ciò è uno miracolo, la cui radice, ciò è del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade„.[31]

Bice era dunque un miracolo di Dio, nè per ciò s'ha a credere ch'ella fosse per Dante altro da quel ch'ell'era: (VN. 26 s. 7)

una cosa venuta
di cielo in terra a miracol mostrare;

una “pargoletta bella e nuova„ che dice di sè: (Ca. b. 8)

son venuta per mostrarmi a vui
delle bellezze e loco, dond'io fui.
Io fui del cielo e tornerovvi ancora
per dar della mia luce altrui diletto;
e chi mi vede, e non se n'innamora,
d'Amor non averà mai intelletto.
············
Le mie bellezze sono al mondo nuove,
perocchè di lassù mi son venute
············
Queste parole si leggon nel viso
d'un'Angioletta che ci è apparita;

[17] sì; un'angiola giovanissima, quando non aveva ancor nove anni, e si conservò angiola, anche quando non fu più bambina, e “diceano molti, poi che passata era: — Questa non è femina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo — „ (VN. 1 e 26); e fu più angiola che mai, quando nel cielo tornò, sì che Dante “ricordandosi di lei disegnava uno angelo sopra certe tavolette„ (VN. 34). Ma quest'angelo e questa maraviglia celeste aveva un genitore terreno e aveva alcuno, quando il padre morì, a lei “tanto distretto di sanguinitade... che nullo più presso l'era„ e si aggirava visibilmente per le vie di Fiorenza con sue amiche visibili, e si trovava talora non molto discosto da quella monna Vanna, chiamata Primavera, (VN. 22, 32, 24) con la quale Dante già avrebbe voluto che fosse nel vascello incantato. E angiola pareva a Dante, non solo per ciò che a ognuno la donna amata par angiola, ma anche perchè era devota della Madonna, “di quella reina benedetta Maria, lo cui nome fu in grandissima reverenzia ne le parole„ di lei; “di quella reina della gloria„ di cui ella ascoltava le laudi in chiesa, (VN. 28 e 5); e l'amatore frattanto in estasi, la sguardava, pauroso d'esser veduto sguardarla. Ella era una giovanetta pia, che suscitava buoni pensieri nel cuore di Dante. Egli diveniva nobil cosa nel vederla, e nasceva in lui ogni dolcezza nel sentirla parlare (VN. 26 e 21), e seguendo gli occhi giovinetti di lei era “in dritta parte volto„ (Pur. 30, 121).

[18]

III.
LA SPERANZA DE' BEATI

E un giorno (VN. 19) “passando egli per un cammino„ lungo un rivo chiaro molto, venne in volontà di dire, e la sua lingua parlò quasi come per sè stessa mossa e disse:

Donne ch'avete intelletto d'amore!

Quel giorno fu un gran giorno per Dante, perchè la canzone che egli dopo “alquanti dì„ cominciò “con quel cominciamento„, è tale che per essa egli può essere, a suo avviso, designato così: (Pur. 24, 49).

colui che fuore
trasse le nuove rime cominciando,
Donne ch'avete intelletto d'amore.

E fu solenne cominciamento davvero, se quella canzone è posta da lui ad esempio dopo la nobile definizione del genere poetico a cui appartiene, così (VE. 2, 8, 7): “Dicimus ergo quod cantio, in quantum per superexcellentiam dicitur, ut et nos quaerimus, est aequalium stantiarum sine responsorio ad unam sententiam tragica coniugatio, ut nos ostendimus cum dicimus, Donne, che avete intellecto d'amore„. E in questa medesima opera la reca per esempio anche altrove (2, 12, 3). Di più: nel libello della Vita Nova, dopo averla divisa per aprirne l'intendimento, aggiunge: “io temo d'avere a troppi comunicato lo suo intendimento, pur per queste divisioni [19] che fatte sono, s'ella avvenisse che molti lo potessero udire„. Ora di questa canzone, che nacque da uno spirar subito e che fu cominciata — dopo giorni di studio, e che è dichiarata dall'autore stesso piena d'un misterioso senso, ch'egli vuole e non vuole sia aperto; di questa canzone che è, in cotal guisa, la canzone tipica, la tipica aequalium stantiarum... tragica coniugatio, e che è il cominciamento delle nuove rime che Dante trasse fuori, scotendo i vecchi rimatori; di questa canzone che è la prima ad aver per materia la loda della gentilissima (nova materia dilettevole a udire), e che, come dopo il subito cominciamento volle alquanti giorni di meditazione, così prima d'esso fu causa di molti dubbi e di poco ardire e d'una dimora pur “d'alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare„ (VN. 17 e 18); di questa canzone bisogna indagare il senso con tanto studio con quanto l'autore la fece, e con tanta aspettazione quanta egli ci fa nascere con le sue parole. Perchè in vero il suo intendimento, ch'egli temeva si fosse comunicato a troppi, pare non si sia comunicato a nessuno.

Che vuol dire, in verità, la stanza seconda?[32]

[20]

Angelo chiama in divino intelletto,
e dice: “Sire, nel mondo si vede
meraviglia ne l'atto, che procede
da un'anima, che fin quassù risplende.„
Lo cielo, che non ha altro difetto
che d'aver lei, al suo Signor la chiede,
e ciascun santo ne grida merzede.
Sola pietà nostra parte difende;
chè parla Dio, che di madonna intende:
“Diletti miei, or sofferite in pace,
che vostra speme sia quanto mi piace
là, dov'è alcun che perder lei s'attende,
e che dirà ne lo inferno a' malnati:
Io vidi la speranza dei beati.

Il nostro pensiero per un minuto non stia pago al solito garrulo buon senso dei Dantisti, ma si degni di trasportarsi a' tempi di Dante. Ecco: il nostro pensiero è subito sorpreso da un accoppiamento tra acuto e stolto di parole, di quelli che fanno maravigliar prima e appagar dopo: oxymoron, che quel solito buon senso non può da sè avvertire. L'accoppiamento strano è “la speranza de' beati„. Invero “la speranza non è nei beati„ come “non è nei dannati„.[33] È trita sentenza questa; onde la frase [21] di Dante, se non a noi, certo ai lettori un po' addottrinati del suo tempo, faceva l'effetto che dissi, di motto prima strano e poi ingegnoso. Il qual effetto è accresciuto da quel vidi, poichè quel verbo è nella frase di San Paolo che il Dottore riporta, e che è il fondamento di tutta quella dottrina della speranza.

La quale dottrina indubbiamente è riflessa in quella stanza. Per vero sono in essa nominati i due ordini di esseri, ne' quali non può aver luogo la speranza: i beati del cielo e i malnati dello inferno. È in essa un chiedere, un gridar merzede, un chiamare che specchia questo concetto: i beati sperano per gli altri la beatitudine. E vi è una pietà che difende la parte di qualcuno, la nostra, quella degli uomini; e questa pietà non è dissimile dall'amor di carità, che si dice dal Dottore essere la virtù, per la quale i beati sperano la beatitudine per gli altri. E Dio dice: La vostra speme stia laggiù; ossia non stia nel cielo. È lo stesso concetto che in Par. 33, 10:

Qui se' a noi meridiana face
di caritade e giuso, intra i mortali,
se' di speranza fontana vivace.

E il Dottore dice che nel cielo non è la speranza e dice che c'è l'amor di carità; che la carità è sì nel cielo, mentre la speme dimora là, dove... da noi, insomma, viatori della vita, non in cielo non tra i beati. E aggiungo, per sommergere ogni dubitare, che il passo di San Paolo, di cui una frase è citata dal Dottore, suona così nella sua interezza: “Spe enim salvi acti sumus. Spes autem quae videtur, non est spes: [22] nam quod videt quis, quid sperat?„ Nel qual passo si osservi per ora la locuzione, soltanto la locuzione: “la speranza che si vede, non è speranza„. E Dante dice, al contrario “io vidi la speranza!„.

Ma traduciamo in nostro umile linguaggio il mito teologico,[34] quale da questi raffronti sospettiamo subito che ci sia, come del resto, anche senza raffronti, ognuno pensava che ci fosse. È un dramma in cielo. Il Poeta dice: “Donne voglio dirvi in che modo lassù non ci sia la virtù della speranza. Questa virtù sapete chi è? È madonna. Gli angeli e i santi la vorrebbero con loro in cielo. Ma l'amor di carità che là fiammeggia, parla per bocca di Dio, e dice che la speranza ha da rimaner nel mondo, a ciò che il suo amatore, che è per perder l'una cioè anche l'altra (poichè la donna è anche la speranza), possa dire nell'inferno ai dannati: O voi che non avete speranza di bene, io non son come voi: io vidi la speranza la quale i beati (a cui ella non fa mestieri) lasciarono in terra...„; e, soggiungo io, PERCIÒ FUI SALVO. Lo aggiungo io, ma è nel pensier di Dante che aveva in mente il passo di S. Paolo: spe... salvi facti sumus.

Questo mito non ha soltanto un senso particolare rispetto a Dante, ma generale rispetto a tutti. Il poeta dice: “La virtù della speranza, che nei beati, in cielo, non può aver luogo, evacuatur; rimane, per voler di Dio pietoso, in terra tra noi, perchè noi possiamo salvarci„. Quanto a sè, Dante afferma ch'essa speranza è come incarnata nella sua [23] donna, la quale è duce e via alla sua salvazione. Il che, per Dante e per tutti, nel senso particolare e generale, è chiaramente espresso nei versi 41-2:

Ancor l'ha Dio per maggior grazia dato,
che non può mal finir chi l'ha parlato;

cioè spe salvi facti sumus: chi ha speranza, non finisce male, non è malnato; non incorre, cioè, nella finale disperazione; è salvo.[35]

Ma Dante, pur teologizzando, è poeta, e intrecciando miti e ragioni, riesce con apparente assurdità a quell'effetto della poesia che è la maraviglia. Qui egli ha nel pensiero due dati: uno, teologico: in cielo non è la virtù di speranza, ma solo ardor di carità per il quale (e non per la virtù di speranza) i beati sperano la beatitudine ai viatori di questo mondo; l'altro, poetico: Dante e la sua donna sono due viatori (come sovente il Poeta si raffigura in cammino!) di questo mondo, e Dante in quella donna che ama, vede (cosa assurda, e pur vera!) vede, sì, la speranza. Co' due dati, che cosa nasce? Gli angeli e i santi, nel loro ardor di carità, sperano la beatitudine della gentile viatrice; ma essa viatrice è la speranza della contemplazione di Dio per alcuno; e se è la speranza, deve rimanere col viatore; anzi coi viatori; che se è la speranza d'alcuno, è la speranza, dunque è la speranza di tutti; e deve rimanere in terra appunto per effetto di quell'ardor di carità o pietà, per il quale gli angeli e i santi sperano [24] che venga in cielo. Come donna, è aspettata in cielo, come speranza, deve rimanere in terra; e l'una cosa e l'altra sono parimenti ragionevoli. Onde la maraviglia del lettore, se intende. Ma intendere è difficile. Sicuro: non lo dice il Poeta?

E ora qual simbolo è nella Beatrice della Divina Comedia? Beatrice è[36] “la speranza della contemplazione di Dio, speranza che ha certa e dilettevole intelligenza di verità„.[37] Non ci par possibile dubitare che codesta “speranza de' beati„ che dimora in terra, e che è una donna amata da Dante, non sia qualcosa di simile a quell'altra speranza della contemplazione di Dio, che anch'essa è una [25] donna, Rachele, amata, desiderata, portata in cuore, bella, chiara, piena di diletto e gioia e luce.

Dante ha dunque in questa canzone trasfigurata l'angiola in una speranza di contemplazione, che non è poi altro che “sapienza„ bella e perfetta, desiderata e sperata. Bice è propriamente trasfigurata; e il concetto che una giovinetta pia conduce al bene col suo dolce amore l'amante, non ispirandogli se non buoni pensieri, si è mutato in un dramma mistico in cui entrano Dio e Santi e Angeli e dannati; e Dante, che dirà... E Bice non sarebbe più chiamata, se il Poeta la nominasse qui ne' suoi versi, se non col suo nome intero, Beatrice; e già più che alla giovinetta dormente nelle braccia d'Amore, rassomiglia alla Sapienza di cui un ispirato scrittore, sotto il nome di Salomone, diceva:[38] “Io l'ho amata e cercata sin dalla mia giovinezza e procacciato di prenderla per isposa, e son divenuto amatore della sua bellezza„.

IV.
MENTIS EXCESSUS

Ne lo inferno — Dante fa che Dio medesimo pronunzi di lui — dirà ai malnati quelle parole che suonano: “Spe salvus factus sum; per la speranza, che non occorrendo ai beati, Dio pietosamente lascia in terra, e che io vidi, sì, vidi incarnata„. Noi corriamo subito col pensiero alla Comedia. Ivi Dante [26] perde “la speranza„ dell'altezza, dopo che “a bene sperare„ era stato indotto dall'ora del tempo e dalla stagione; e va “per loco eterno„ ove al principio udrà “disperate strida„ e vedrà all'ultimo anime che cantano nel fuoco “perchè sperano„ (Inf. I, 115, 119). Nel qual loco eterno entra da una porta la quale ha al sommo: “Lasciate ogni speranza!„. Entrato ode un nocchiere eterno che grida all'anime: “Non isperate!„ Scende nel primo cerchio e ascolta i sospiri d'infinite turbe che vivono in desio, “senza speme„. Scende nel secondo, e vede anime in balìa del vento, e “nulla speranza„ mai le conforta. (Inf. 3, 9, 46, 85; 4, 42; 5, 44 etc.). Insomma partendosi da un punto in cui anch'esso aveva perduto la speranza, entra ed attraversa il luogo della disperazione; l'attraversa tutto, e sale per il monte in cui ultimi vede quelli che pur nel fuoco sperano; ed egli passa per quel fuoco, che aguzza gli occhi alla visione, e così vede, che cosa? La “speranza dell'eterna contemplazione„, quella che l'ha mandato a togliere avanti la fiera che fa perder la speranza, quella che vide in questo mondo e che rivede nell'altro; quella per cui opera è salvo.

Orbene: con quella stanza e con quella canzone Dante prometteva la Comedia? Chè tanto s'assomigliano e si riscontrano nel concetto fondamentale la canzone e la Comedia. Che promettesse la Comedia, non direi: dico che aveva già in mano le fila principali di quella mirabile testura, ma non in capo la intenzione di far proprio quella tela. Un'altra tela, anzi.

Valga il vero. Nella Comedia Dante si trova in una selva che è quasi morte. Ne esce, morendo, per un passo che in fatto “non lasciò giammai persona [27] viva„. Trova nel suo cammino tre fiere, da cui, o da quella che in certa guisa la compendia e nella quale le altre spariscono, è quasi ucciso. Imprende, per consiglio e con la guida d'un'Ombra, altro viaggio. In questo, dopo aver traversato un vestibolo di mezza vita e mezza morte, di quasi morte, di nè morte nè vita (come la selva, tanto amara che poco è più morte), passa un fiume, morendo; lo passa coi segni della morte di Gesù, e si trova morto nel regno dei morti.[39] L'Ombra conduce il morto, e lo conduce a quella che egli ama, a una donna morta.

Ebbene la canzone seconda della Vita Nova contiene una visione in cui queste idee di morte si rincorrono e s'intrecciano come in quella più alta visione della Comedia. (VN. 23, c. 2). Dante era infermo e “chiamava spesso morte„. Una donna pietosa si mise a piangere. Altre donne fecero partir via quella, e si diedero a consolar lui, che si riscuote dalla sua “fantasia„ col nome di Beatrice più nel core che sulle labbra. E riscosso, narrò alle donne ciò che aveva veduto e udito in sogno o in delirio. Egli pensava alla brevità della sua vita, quando Amore gli pianse nel cuore: “ben converrà che la mia donna mora„. Chiuse gli occhi “vilmente gravati„, e allora delirando vide

visi di donne... crucciati
chè gli dicean pur Morràti, morràti.[40]

[28] Poi vide nel vano imaginare “cose dubitose molte„. Gli parea d'essere non sapeva “in qual loco„. Nella prosa egli spiega in qual loco gli pareva d'essere, perchè dice: “M'apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, li quali mi diceano — Tu sei morto! — Così cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello, che non sapea ov'io mi fossi„. Io ricordo il viatore oltremondano che dopo aver patita la morte mistica, l'alto sonno, tra il terremoto della redenzione, e il vento e il lampo battesimale, si riscuote e guarda e riguarda dritto levato “per conoscer lo loco„ dov'era. Era nella gran tomba.[41] Non anche nella sua “nova fantasia„ d'infermo? E anche qui sente lagrimare e tragger guai in foco di tristizia, come là, non appena fu dentro alle segrete cose. E poi qui vide oscurarsi il sole ed apparire i segni del grande sconvolgimento, quali sono nell'Apocalissi e in parte alla morte di Gesù: la terra trema qui, come nel passaggio dell'Acheronte; qui s'oscura il sole, là buia è la campagna; qui piangono sole e stelle, là lagrimosa è la terra (nè sole nè stelle sono laggiù). Un “omo„ appare “scolorito e fioco„ tra quell'oscurarsi, piangere, cadere, tremare; e non si può non pensare a colui che “per lungo silenzio parea fioco„ e disse: — Non uomo, uomo già fui — . E quest'“omo„ annunzia la morte della donna “che era sì bella„, mentre l'altro che uomo non era ma era stato, ed era pur fioco anch'esso, viene da parte d'una donna [29] beata e bella, di quella donna medesima ch'era più bella che mai, poichè, sì, era morta. E qui Dante invero la vede tornar su con gli angeli nella sua patria celeste:

Levava gli occhi miei bagnati in pianti
e vedea, che parean pioggia di manna,
li angeli che tornavan suso in cielo,
ed una nuvoletta avean davanti,
dopo la qual gridavan tutti — Osanna.

Gli angeli avevano da Dio impetrato ciò che chiamavano. Dante si trovava (ma nel fantasticare vano d'un delirio) nella condizione prevista da Dio: egli ha perduto “lei„. Amore in fatti (e chi è quest'Amore se non quell'omo scolorito e fioco?, ma Dante, nella prosa, dice prima alcuno amico e poi il cuore ov'era tanto amore) parla a Dante ed esclama:

Vieni a veder nostra donna che giace.

E io ricordo che nella Comedia quel non uomo ma che fu uomo, ed è fioco al suo apparire, conduce Dante a veder la sua donna, che non giace no, ma trionfa nella sua seconda vita; e che egli lo chiama sì, Virgilio, ma intende “studio cioè amore„. Nella canzone, Dante va a vedere la donna morta cui le donne ricoprono d'un velo (non quel medesimo, candido, su cui era la ghirlanda d'oliva là nella divina foresta?), e sente desiderio della morte alla quale esso assomiglia nel colore. E solo rimasto, guarda verso il cielo, ed esclama:

Beato, anima bella, chi ti vede!

[30] Nella qual esclamazione è espressa più fortemente che prima, la bramosia di morire e di essere di quei beati che vedono quella donna, che è ormai pura anima, beata e bella.

Dunque Dante è infermo, e invoca la morte e sembra morto, e presentisce la morte della donna amata; ed ecco si sente dire: Morrai! morrai! e sì, è morto: è in non sa qual luogo dove ascolta lagrime e guai di tristizia, e tra segni di morte impara da un uomo scolorito e fioco che la sua donna è morta; e la vede invero salire al cielo, e poi con Amore va a vederla morta; e invoca la morte, vuol morire anch'esso per veder lei ed essere beato.

In questa canzone e c'è il delineamento, quanto si voglia incerto, del poema sacro, e c'è la continuazione del concetto mistico accennato nella precedente canzone. Basti invero osservare che in quella gli angeli vogliono in cielo la terrena maraviglia, e qui in cielo la riconducono, come una nuvoletta; e in quella si allude a un viaggio di Dante, che attraversi l'inferno proclamando d'esser salvo per la speranza, in faccia ai disperati per sempre; e in questa si parla d'un morir non vero e di cose dubitose molte e di lagrime e di guai e di tristizia e di segni forieri di sfacelo, cui segue una visione celeste. Sopra tutto, si scorge il nesso tra le due canzoni, quando si tenga a mente l'equivalenza della donna che è speme, alla spes aeternae contemplationis di S. Agostino, la quale è istessamente luminosa sapienza, di cui ogni piamente studioso è innamorato. Dice d'essa il santo padre che subito noi vorremmo giungere alle delizie della bella e perfetta sapienza; “ma ciò non è possibile in terra morientium„. Dante nella [31] canzone seconda, si raffigura moribondo e in atto di chiamare la sua donna. E dove o quando è possibile vederla? Quando s'è sciolti dal corpo e dove si sia puri spiriti. Perchè? Perchè (risponde il santo padre con le parole del libro della Sapienza), perchè “il corpo corruttibile aggrava l'anima e l'abitar in terra deprime il senso che a troppe cose ha da pensare„.[42] Morire, dunque, bisogna, se si vuol vedere la bella e perfetta sapienza. Ma se ella è incarnata in una donna di quaggiù, come si potrà vederla da morti, se non è morta anche essa? Questo semplice ragionamento può da sè aver indotto il poeta, s'e' voleva continuare la figurazione del suo concetto mistico, a sognare morta la sua donna nel tempo istesso che figura morto sè; ma può avervelo condotto anche altro. Se la sua donna era per Dante ciò che Rachele per Giacobbe egli può aver seguito un mistico, Riccardo di San Vittore, nello imaginarla morta.[43] Invero questi così discorre: “Per Beniamino propriamente s'intende l'atto della intelligenza pura, la intuizione delle cose che non cadono sotto i sensi, e che sono senza mistura d'imaginativa. Una mente che arde di questo desiderio, e spera, sappia che ha già concepito Beniamino; quanto più cresce il suo desiderio più si approssima al parto. Beniamino nasce e Rachele muore; imperocchè, come la mente è rapita sopra se stessa, si sorpassano i limiti d'ogni umana argomentazione, e non appena vede in estasi il lume divino, la umana ragione soccombe. [32] Questo è il morir di Rachele dando a vita Beniamino.

Non era forse nell'Apostolo morta Rachele e mancante ogni senso di umana ragione, quando diceva: Scio hominem, sive in corpore, sive extra corpus, nescio, Deus scit, raptum huiusmodi usque ad tertium caelum![44]

... Ma a questo terzo cielo che trascende ogni modo dell'umana ragione, non possono da sè stessi venire neanche coloro che sanno ascendere a' cieli e discendere insino agli abissi; ma solo possono dove, per la partita della mente (per mentis excessum), sono rapiti sopra se stessi„.

Dunque la morte di Rachele è dichiarata come mentis excessus. E mentre tale mentis excessus si può dichiarare come una morte di sè, in quanto l'anima esce dal corpo per virtù dell'estasi, si vede che fu ravvisato in figura nella morte di Rachele, della donna bella e amata. E anche dunque, con questo esempio, noi ci rendiamo ragione come Dante il quale già nella sua donna aveva veduta “la speranza della contemplazion di Dio„, ossia la sua Rachele, continuando la canzone Donne che avete con la canzone Donna pietosa, faccia di sognare e che esso muoia e che muoia Beatrice. Esso esce dalla sua mente, cioè muore; la sua mente esce e parte, cioè muore la sua donna.

Ma ecco che, tutto sommando, noi dobbiamo [33] concludere, non che scrivendo la prima canzone Dante pensasse alla Comedia futura, ma che scrivendo la prima, così augurale come esso dice che è, e continuandola con la seconda, egli veniva a trattare con quelle lo stesso argomento che trattò poi con la Comedia. E aggiungiamo, che se Dante, tratto dalla natura del suo soggetto, ricorreva al complicato mezzo di sognare, in un delirio d'infermo, morta la sua donna, la cui morte era necessaria alla sua figurazione; se ricorreva a questo mezzo, e sia pure che avesse veramente delirato e sognato, poichè certe coincidenze non sono impossibili anche quando paiono inverosimili; se Dante cantava della sua donna morta, prima che morisse, è segno indubitabile ch'ella era pur viva e vera, questa donna, nella quale pur figurava la speranza della contemplazione e la sapienza bella e perfetta. Se no, e come non avrebbe finto che ella era morta davvero? Nè si dica che non è gentilezza di cuore finger così la morte di persona che si ama. La fingeva pur di sè Dante; e quella della sua donna è, meglio che morte, glorificazione e ritorno al cielo; e quando egli insisteva sulla pietà e bontà dell'angiola giovanissima, non era lontano da questo pensiero; che poteva essere, perchè no? un presentimento; e anche, se monna Bice era intanto andata a nozze terrene, perchè no? un desiderio non consaputo e non confessato, ma un desiderio dell'anima. Chi amò invano lo sa.

[34]

V.
I SIMULACRI D'AMORE

Dante dunque preparava avanti la morte di Bice una, se non comedia, divina tragedia in canzoni? Delle quali, due sole fece; e in esse la donna amata è trasformata già, come nel poema sacro, a significare la sapienza che è speranza dell'eterna contemplazione, e che fa beato chi la vede. Ci è a noi lecito entrare talmente nel pensiero di Dante, da trarne qualche altra notizia di questa “tragedia„ che cominciò e non finì? Qualche altra notizia, sì forse, studiando quali erano i concetti e le imagini che passavano a quel tempo per la sua anima.

La canzone Donne che avete fu composta dopo che, come Dante in seguito scrisse, “quella gentilissima, la quale fu distruggitrice di tutti i vizii e reina de le virtudi, passando per alcuna parte gli negò lo suo dolcissimo salutare, nel quale stava tutta la beatitudine di lui„.[45] Or, poichè gli fu negata tale beatitudine, cadde in grande dolore e si partì dalle genti e solingo bagnava la terra di lagrime. E si chiuse nella sua camera e “chiamando misericordia a la donna de la cortesia e dicendo — Amore, aiuta [35] il tuo fedele — „ s'addormentò “come un pargoletto battuto lagrimando„. E nel mezzo al suo dormire, gli apparve seduto lungo lui un giovane vestito di bianchissime vestimenta. E io ricordo qui subito l'apparizione di quell'Ombra che nella Comedia è simbolo di studio o amore. Virgilio si mostra a Dante, quando questi ha perduto “la speranza dell'altezza„. Appena Dante lo vide nel gran deserto, gridò a lui, Miserere di me; come in questa visione giovanile, dice prima d'addormentarsi, dice in una camera solitaria, ad Amore: Aiuta il tuo fedele! Prima però di questa esclamazione, egli ne ha diretta un'altra “a la donna della cortesia„, chiamando misericordia. E nella Comedia si legge d'una donna gentile che si compiangeva di Dante smarrito, e chiamava Lucia, di cui Dante era fedele, la qual Lucia si volgeva a Beatrice, di cui Dante era amico. La donna della cortesia, cui prima d'addormentarsi il giovine innamorato chiamò misericordia, è forse Beatrice stessa? o non forse quella Donna Gentile, la cui (Par. 33, 16)

benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al domandar precorre?

quella in cui è misericordia? quella che è tra i mortali fontana vivace di speranza? Mi pare verosimile che Dante chiamasse misericordia, non all'assente sua donna, ma a quest'altra ognor presente, e che è sì cortese che anche non chiamata, risponde; e chiamasse misericordia a quella in cui è misericordia.

A ogni modo, anche se si deve intendere che Dante s'addormenti dopo l'invocazione angosciosa alla sua donna e ad Amore, e addormentato abbia [36] la visione d'Amore, ciò si riscontra con la Comedia, non meno di quello che si riscontrerebbe, se la donna della cortesia fosse la Donna Gentile. Poichè se, nella Comedia, la Donna Gentile chiede Lucia cioè la Grazia, e questa ricorre a Beatrice, e Beatrice invia Virgilio a colui che aveva perduta la speranza e piangeva e s'attristava in tutti i suoi pensieri; in tale dramma è implicito un grido mandato dall'anima di Dante. La Donna Gentile può aver precorso il domandar di Dante; sta bene, poichè è di lei consueto; ma come? Chiedendo Lucia, cioè la Grazia; e la Grazia opera appunto nel cuore di quegli cui è data, sebbene gratuitamente data, cioè data per suggerimento di una che precorre il domandare. E questa Grazia operò richiamando, nel cuor del suo fedele, Beatrice, cioè la già tanto amata Sapienza, la quale gli suggerì lo studio, o amore di lei, per qualche anno dismesso. La volontà di Dante entra dunque, a ogni modo, in questo affannarsi di donne celesti e in questo accorrer dell'Ombra a lui. Volle, egli, esser salvo, e d'esser salvo chiese; chiese per una grazia che gli fece la Madonna di cui era devoto. Per essere anche più chiari ed esatti, nel tempo che perdeva la speranza dell'altezza, lo soccorse “la speranza dell'eterna contemplazione„, la quale, per essere personificata in una Beatrice, non è però meno un fatto intimo dell'anima di Dante: Dante sperò, dunque. E ciò è tanto vero che subito dopo i primi rimproveri di Beatrice, gli angeli, quand'ella tace, cantano: In te, domine, speravi. (Pur. 30, 83). E dunque, si rivolgesse egli a Maria o a Beatrice, alla fonte della speranza o alla speranza stessa, Dante fece allora, con quella invocazione, un atto di [37] speranza tal quale fece poi nel perdere la speranza dell'altezza.

Se nella Comedia è fedele, oltre che di Beatrice, anche di Lucia, nella Vita Nova è fedele d'Amore. Fedele d'alcuno è sì qui e sì là, dunque; e se giovasse insistere, si potrebbe dimostrare che non c'è molto divario tra esser servo della Grazia di Dio e di Beatrice, ed essere servo del “Signore de la nobilitade„. Ma, in fine, io non voglio se non trovare le traccie della Comedia nella Vita Nova; le traccie prime, non il disegno perfetto. E quali sono in vero queste traccie! Virgilio è studio e amore, ed è “del magnanimo quell'ombra„, che caccia ogni viltà dal cuore del suo discepolo. E lo Amore della Vita Nova, non è il signore della nobilitade? cioè non viltà, cioè magnanimità? E Virgilio dice sovente, Figliuolo, a Dante, e Dante dice, Padre, a Virgilio; e nella Vita Nova Amore chiama sospirando il “pargoletto battuto,„ e gli dice: Fili mi. E Dante è nella Vita Nova figlio e anche servo o fedele d'Amore, come nella Comedia è di Virgilio, oltre figlio, anche servo, se Virgilio è suo signore. E poi questo giovane vestito di bianchissime vestimenta dice di Beatrice, Quella nostra, e professa di poter ragionare a lei: — “e di ciò chiama testimonio colui che lo sa, e come tu prieghi lui che gli le dica: ed io, che son quelli, volentieri le ne ragionerò„ onde il poeta dice alla sua Ballata; (VN. 12 b. 1)

Ballata, i' vo' che tu ritrovi Amore,
e con lui vadi a madonna davanti...

Ebbene anche Virgilio parla con Beatrice e a Beatrice riconduce Dante. Ma c'è di più. Dante “per [38] altro viaggio„ è giunto al cospetto di Beatrice. Ella è adirata con lui. Perchè? Perchè aveva volti (Pur. 30, 130)

i passi suoi per via non vera
imagini di ben seguendo false.

E poi ella si spiega più particolarmente, accennando a pargolette e altre vanità. (Pur. 31, 58) E Dante ascolta i rimproveri con sospiri e pianti d'angoscia, confuso, pauroso e con nuove lagrime e sospiri, e poi con un sospiro amaro, e sempre e tuttavia piangendo; e infine (Pur. 31, 64)

quali i fanciulli vergognando muti,
con gli occhi a terra, stannosi ascoltando,
e sè riconoscendo, e ripentuti.

E nella Vita Nova egli racconta (12): “poi che la mia beatitudine mi fu negata, mi giunse tanto dolore, che, partito me dalle genti, in solinga parte andai a bagnare la terra d'amarissime lagrime: e poi che alquanto mi fue sollenato questo lagrimare, misimi ne la mia camera là ov'io potea lamentarmi senza essere udito. E quivi chiamando misericordia a la donna de la cortesia, e dicendo: — Amore, aiuta il tuo fedele, — m'addormentai, come un pargoletto battuto lagrimando„. Le stesse lagrime e lo stesso pentimento, poichè il dolore di Dante era, come si vede dall'ultimo paragone, un pentimento. Il fanciullo ha, nella Comedia, solo rimproveri; nella Vita Nova il pargoletto tocca anche delle busse. Or quale era stata la colpa del pargoletto battuto? Assomiglia molto a quella del fanciullo ripentuto. Questi aveva seguito false imagini di bene; quegli doveva smettere, gli dice Amore, simulacra nostra, cioè “le finte„ [39] se non volete dir, false “imagini d'amore„. E Dante, sempre per consiglio d'Amore, invia a madonna una ballata “adorna di soave armonia, ne la quale„ Amore dice d'esser per essere “tutte le volte che sarà mestiere„, una ballata, nella quale dice che madonna è adirata ver lui, per aver esso guardata “altra„ donna che lei. E Beatrice al suo amatore, lassù nella divina foresta, quando, si direbbe, fu sollenato quel tanto lagrimare, dolcemente (31, 58) rimprovera (ripetiamolo),

Non ti dovean gravar le penne in giuso,
ad aspettar più colpi, o pargoletta,
o altra vanità con sì breve uso.

Ma (si dirà) nella Vita Nova Dante poteva dire che il suo cuore non mutò; il che non poteva ripetere nella Comedia. In verità tutti i rimproveri di Beatrice s'accentrano in quello d'incostanza, in quello di manco di prudenza per aver preferito donne sia pur gentili a lei gentilissima[46]. Ora qui, in questo antico episodio, non si tratta d'incostanza (s'insisterà), poichè le donne che Dante passava per aver amate preferendole alla gentilissima, non erano più che schermi e difese dell'amor suo. (VN. 5, 7, 9, 10). E tuttavia, che vuol dir egli Amore con quelle sue parole pronunziate piangendo (12): “Ego tamquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentiae partes; tu autem non sic„? che vuol dir egli, se non che l'amatore era incostante?[47]

[40] Ma qui noi chiediamo: In che modo Amore poteva far tale o tal altro rimprovero a Dante, s'era stato lui a suggerirgli il secondo schermo, approvando così implicitamente anche il primo? Il che riconosce da sè, quando appare nella camera, dicendo, simulacra nostra. Invero questo dolcissimo signore gli era per via apparso nell'imaginazione (VN. 9) “come peregrino leggeramente vestito, di vil drappi. Elli gli parea sbigottito, e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi gli parea che si volgessero ad un fiume bello e corrente e chiarissimo, lo quale sen gìa lungo questo cammino là ov'egli era„. O, per usare (che è più sicuro) i versi, più antichi e sinceri della prosa, egli trovò Amore

nel mezzo della via,
in abito legger di peregrino.
Nella sembianza gli parea meschino
come avesse perduto signoria;
e sospirando pensoso venia,
per non veder la gente, a capo chino.

E gli dice di venir dalla donna della difesa, che non tornerà così presto; “e però„ aggiunge “quello cuore, ch'io ti facea avere a lei io l'ho meco e portolo a donna, la qual sarà tua difensione, come questa era... Ma tuttavia di queste parole, ch'io t'ho ragionate, [41] se alcuna cosa ne dicessi, dillo nel modo che per loro non si discernesse il simulato amore...„. O come simulato, chiediamo noi, se va in volta il cuor di Dante? e se è Amore che lo porta qua e colà? Se Amore stesso gli dice:

io vegno di lontana parte
ov'era lo tuo cor per mio volere,
e recolo a servir nuovo piacere?

E spieghiamoci un po' queste parole della prosa: “disparve tutta questa mia imaginazione subitamente, per la grandissima parte che mi parve ch'Amore mi desse di sè„. E spieghiamoci le parole corrispondenti del sonetto:

Allora presi di lui sì gran parte,
ch'egli disparve, e non m'accorsi come.

Che voglion dire? Voglion dire che Dante si innamorò, cioè concepì amore, cioè l'amore gli entrò dentro, e perciò e' non poteva più esser fuori di lui in figura estrasoggettiva di peregrino[48]. Così parla coi simboli Dante!

Così Dante ubbidì al consiglio che l'Amore gli avea dato “nel cammino de' sospiri„, e trovò la donna indicatagli e in poco tempo “la fece sua difesa tanto, che troppa gente ne ragionava oltre li termini de la cortesia„. E così la gentilissima gli negò il saluto “per questa cagione, cioè di questa soverchievole voce, che parea che l'infamassi viziosamente„.

[42] La gentilissima (pensiamo noi) se invece d'esser viva e poter negare il saluto, fosse già morta e accogliesse Dante sulla vetta del purgatorio, gli farebbe ora un rimprovero non troppo dissimile di quel che gli fece poi, e che leggiamo nella Comedia. Ma ella era viva e gli negava il saluto, dunque, per questa infamia di vizio che adombrava il nome di Dante. E gli manda a fare, per mezzo d'Amore, anche una riprensione. Qual è essa? (12) “Questa nostra Beatrice udio da certe persone, di te ragionando, che la donna la quale io ti nominai„ è Amore che parla “nel cammino de li sospiri, ricevea da te alcuna noia; e però questa gentilissima, la quale è contraria di tutte le noie, non degnò salutare la tua persona, temendo non fosse noiosa„. O Beatrice temesse d'esser lei noiosa o molesta, o temesse che fosse noiosa o molesta o vile la persona di Dante, questa riprensione non è intonata a quel che precede, cioè alla soverchievole voce che infamava viziosamente il suo coperto amatore, e a quel che segue, cioè a quell'umil preghero della Ballata:

lo perdonare se le fosse a noia,
che mi comandi per messo ch'io moia;
e vedrassi ubidir ben servidore;

e a tutto il complesso di quel gentil componimento che è una protesta d'amore che fu, contro le apparenze, sempre costante.

Dunque? Dunque, anzitutto, dobbiamo interpretar meglio i consigli di Amore. Amore si presenta a Dante ora coperto di vil drappi, ora vestito di bianchissime vestimenta, come, insomma, “sustanzia corporale„; ma è in verità “uno accidente in sustanzia„. [43] Perciò aver dal “peregrino„ e “leggeramente vestito e di vil drappi„ e “nella sembianza meschino„ e che viene “per non veder la gente a capo chino„, come vergognando; avere da tale quel consiglio che doveva procacciare quella tal soverchievole voce, vuol dire incapriccirsi, innamorarsi, diremo così, leggeramente; poichè il fatto narrato “sotto vesta di figura o di colore retorico„, è pur un fatto psichico, di quell'accidente in sustanzia che è Amore[49]. E così noi spieghiamo simulacra nostra in relazione col simulato amore che il peregrino vestito di vil drappi consiglia a Dante. I simulacra nostra, cioè le finte o false imagini nostre, cioè dello amor tuo, o Dante, sono dette in senso proprio, e valgono quel che “le imagini di ben... false„ che Beatrice rimprovera a Dante di là del fiume sacro; e l'amor simulato è la traduzione di quella frase propria in [44] allegorica. Le imagini false di bene sono un consiglio che ci dà l'irrequieto desiderio, che abbiam dentro noi, di simulare l'amore, e questo irrequieto desiderio si può allora ben rappresentare con la figura d'un uomo errante, d'un mendico, d'un malvestito. Cioè: si può rappresentar così, quando all'ebbrezza passeggiera, nell'anima pensosa d'un più dolce e grave e non mai svanito sebben lontano amore, è succeduto il pentimento: allora sono vil drappi attorno al nostro capriccio, che sembra un tradimento; prima egli non aveva che un

abito legger di peregrino,

ma pareva tuttavia un servo o meschino, meglio che signore, come prima e poi; signore della nobiltà. E, insomma, era il cuore di Dante che si trovava prima in una parte, cioè presso una donna, e poi fu recato in un'altra, cioè presso altra donna, “a servir novo piacere„. Il cuore! Il cuore, o, come Dante stesso spiega altrove, l'appetito (VN. 38).

E possiamo ora spiegare l'enigma d'Amore? Ego tamquam centrum circuli. Come mai? Dante era incostante perchè amava, sia pur leggeramente, questa e quella; e l'Amore, il suo amore, il quale pure era come un peregrino, no? In verità è così: Dante era incostante, Amore no. Questa è la spiegazione; la spiegazione che Dante doveva chiedere poi a Virgilio (allo studio) nella quarta cornice del santo monte: (Pur. 18, 13).

Però ti prego, dolce Padre caro,
che mi dimostri amore, a cui riduci
ogni buono operare e il suo contraro.

[45] L'amore è sempre quello, sia egli diretto e misurato, sia errante

per malo obietto,
o per troppo o per poco di vigore.
(Pur. 17, 97)

E la sua matera è sempre buona, sebben la forma possa non esser buona; cioè l'amor in genere, che è la matera, è una cera sempre buona; ma noi possiamo imprimervi un segno, la forma, il nostro amor particolare, non buono. (Pur. 18, 37). Ora Dante, nella sua vita nuova, già aveva assai di studio, che gli dimostrasse amore; poichè esprimeva allora il medesimo concetto che si fece poi dimostrare da Virgilio nel suo viaggio. In questo glielo dimostrava Virgilio, che è pure studio e amore; in quella Amore, vestito di bianchissime vestimenta, gli parlava “molto oscuramente„, ma gli diceva la stessa cosa, e col paragone del circolo, di cui amore è il centro a cui le parti della circonferenza simili modo se habent, gli significava che l'amore è in sè una cera, che qualunque impronta riceva, è rispetto a quelle impronte come il centro del circolo ai punti della circonferenza; equidistante, siano essi, per così dire, buoni o cattivi, siano esse belle o brutte; equidistante, come a dire, indifferente, sempre esso[50]. Ma [46] l'amante non sic: egli è “forma sustanziale unita con matera„, ed ha una virtù che consiglia; non è una passione, come lo amore.

E dunque, tornando al primo detto, noi vediamo come l'Amore stesso possa rimproverare o compiangere l'amante, di ciò che proprio esso gli consigliò o gli approvò. Noi troviamo la cosa inverosimile e strana, pensando a queste due persone, il peregrino e il giovine, che sono la stessa persona, ora male ora ben vestita; ma questa persona, non è un di noi; è un simbolo; non è un uomo ma uno accidente in sustanzia, una passione, l'amore. E il suo consigliare o approvare, come il suo rimproverare o compiangere, sono rappresentati come parole, ora in volgare ora in latino, d'una persona, ora in vil drappi ora in bianche vesti, ora peregrino, cioè errante (che sbaglia, tradurrei io, non che va da questa a quella), ora seduto, cioè, forse, costante; ma sono fatti intimi dello stesso Dante, il quale dalla stessa impeccabile passione ha avuti ora cattivi ora buoni [47] suggerimenti. In verità Virgilio lo dice chiaramente: (Pur. 17, 103)

esser conviene
Amor sementa in voi d'ogni virtude,
e d'ogni operazion che merta pene.

E questi due fatti intimi, che Dante adolescente racconta di sè, sono dunque simili a quelli ch'egli racconta come avvenuti nel mezzo del cammino di sua vita. La Comedia s'impernia su tali due fatti: uno smarrimento e un ritrovamento; un peccare e un pentire. E il peccare, in essa, non è meno, che nella narrazione giovanile, un suggerimento d'amore. Beatrice parlando di lui come d'amico suo, e pure, al sommo del monte, rimproverandogli d'essersi dato altrui, riconosce quel che Dante esprime nella sua Ballata, che sebbene abbia “altra guardata„, tuttavia “e' non mutò 'l core„. Sì: pargolette e altre vanità della Comedia non sono disformi dagli schermi e difese della Vita Nova, simulacra, imagini di ben false, suggerite dall'amore: il quale in verità era sempre fisso nell'unica Beatrice, cioè, come spiega nella Comedia, nel bene del suo soggetto (Pur. 17, 106).

Appresso la visione, donde uscì la ballata “de lo perdonare„, e dopo “una battaglia de' diversi pensieri„, un'amica persona conduce Dante in parte “dove molte gentili donne erano raunate„. (VN. 13 e 14) Queste donne “ragionando si gabbavano di lui con la gentilissima„ perchè dell'amatore non essendo rimasti “in vita più che gli spiriti del viso„, egli era come trasfigurato. Ora in ciò che il poeta dice “che Amore uccide tutti li suoi spiriti, e li visivi rimangono in vita, salvo che fuori de li strumenti [48] loro„, sono, a confessione del poeta stesso, dubbiose parole. “E questo dubbio è impossibile a solvere a chi non fosse in simile grado fedele d'Amore; ed a coloro che vi sono è manifesto ciò che solverebbe le dubitose parole: e però non è bene a me di dichiarare tale dubitazione, acciò che 'l mio parlare dichiarando sarebbe indarno, o vero di soperchio„. Possiam noi solvere le dubitose parole? Sì; ricordando quello ch'egli dice di aver detto al suo amico, quando fu fuori della veduta di quelle donne: “Io tenni li piedi in quella parte de la vita, di là da la quale non si può ire più per intendimento di ritornare„. Egli fu, cioè, sul confine tra la vita e la morte. Ebbene Dante non può voler accennar altro se non quell'excessus mentis che dà la visione. Il restar in vita gli spiriti del viso o visivi, e l'essere morti tutti gli altri, vuol dire essere fuori della sua vita consueta, e contemplare. E in questi effetti s'indugia ancora in due altri sonetti, finchè al poeta “convenne ripigliare materia nova e più nobile che la passata„. E così s'avvia alla canzone che comincia le rime nuove o la tragedia giovanile, come io volli chiamarla; la quale tragedia è solo composta di due canzoni, ma doveva esser di più, e contenere, ragionevolmente, concetti, quali abbiamo già veduti e vedremo essersi aggirati nella mente di Dante allora, e quindi vediamo ricomparire nella Divina Comedia.

[49]

VI.
LE NOVE RIME

Prima del 1290[51] Dante propose di prendere “per materia del suo parlare sempre mai quello che fosse loda di quella gentilissima„; e questa era dunque “materia nuova e più nobile che la passata„, e come nuova “così troppo alta„. (VN. 17 e 18) Con le due canzoni, per ciò, tentò far già quello che prometteva di fare nell'ultimo capitolo del suo libello: “più degnamente trattare di lei„. Con le due canzoni, quindi, e con altre che dovevano seguire tentò fare quello che poi compiè con la divina Comedia, se questa è accennata e annunziata in quelle ultime parole. Ora egli pensò di parlare a donne in seconda persona. Nel che si deve riconoscere che gli sarebbe stato malagevole indirizzar la lauda di lei a lei. E pure sarebbe consistita, essa lauda, di rime d'amore, poichè, anche dopo, Dante parlava “contra coloro che rimano sopr'altra matera che amorosa„. Ma il rimatore avrebbe avuto “alcun ragionamento in di quello„ che avrebbe detto, e “domandato avrebbe saputo denudare le sue parole da cotale vesta (di figura o di colore retorico) in guisa che avessero verace intendimento„.[52] Certo [50] è che già la prima canzone di tal lauda ha un verace intendimento sotto altra vesta. Invero la donna che vi si loda, è sì la donna che Dante aveva amata e amava, ma è posta a significare la sapienza, cioè la speranza dell'eterna contemplazione, cioè la speranza per la quale siamo salvi. E anche nella Comedia Dante dice d'essere stato salvo per opera della speranza, poichè fa cantare agli angeli, in te Domine speravi, poichè chi lo soccorse, nel momento in cui aveva perduta la speranza dell'altezza, fu l'amor di quella stessa gentilissima, che significava pur la stessa sapienza e speranza. Nella canzone Dante dice che egli la avrebbe proclamata, tale sua salvezza per opera della speranza, nello inferno ai malnati. Dunque egli sarebbe stato nell'inferno, poichè tali parole là avrebbe detto, e non ci si sarebbe fermato, [51] poichè era salvo e appunto proclamava d'essere salvo. Dunque per l'inferno sarebbe passato. Come nella Comedia. Dove, in vero, egli non dice a nessun malnato d'aver veduto Beatrice nè ciò ch'ella significa, sapienza o speranza della contemplazione; il che mostra che Dante non pensava allora a questo poema sacro così almeno come lo fece; ma però passa, appunto perchè è salvo, salvo per la speranza, da quella porta che è aperta ma ha al sommo, “lasciate ogni speranza„; il che mostra che il concetto espresso nella canzone è simile a quello espresso nella Comedia. Per l'inferno sarebbe passato: dice chiaramente nella canzone prima. Come? Nella Comedia egli entra e passa morendo: e noi vediamo che nella seconda canzone di questa giovanile tragedia, sì, muore. E vede la gentilissima, morta anche lei; e la vede morta corporalmente e viva spiritualmente; vede un corpo sotto un velo, e vede una nebuletta avanti ad angeli. Dante dunque non solo pensava a qualche cosa di analogo a ciò che poi scrisse nel poema sacro, ma già lo compieva. Nella canzone vi è la morte di Dante, come nella Comedia; vi è Beatrice morta, come nella Comedia. Beatrice sale al cielo nella canzone; e nella Comedia sale al cielo. E qui vediamo perchè sin dalla prima canzone il poeta si rivolga alle donne e non a lei. Egli sapeva sin d'allora ch'egli avrebbe imaginata morta la sua donna: dunque non avrebbe potuto facilmente indirizzar la parola a lei. Eppure anche, in questa seconda come senza dubbio nella prima, noi possiamo figurarci che Dante avrebbe potuto, volendo, indirizzare alla donna sua, invece che alle altre donne. Per esempio: riscosso dal suo letargo, avrebbe detto alla [52] sua donna: “Oh! dolore, io vi sognai morta! e morto ero anch'io„. Ora mi par lecito supporre che nelle canzoni che dovevano seguire e non seguirono, ma che Dante aveva già concepite, questo parlare a Beatrice sarebbe stato via via sempre meno agevole. Nel fatto egli sarebbe passato per l'inferno; l'ha annunziato. Pure anche di questo passaggio avrebbe potuto parlare a lei, che certo l'aspettava dopo quello, per rimproverarlo. Quando, infatti, sarebbe stato impossibile a dirittura rivolgere la canzone a Beatrice in seconda persona? Io dico, quando nella canzone stessa Dante avesse narrato di aver parlato a lei. Il raccontare a Beatrice che ella gli aveva parlato, il dire, Voi mi diceste, oltre recare imbarazzo al dicitore e oscurità al lettore, avrebbe infirmata ogni credibilità della cosa narrata. Perchè, o non doveva sapere Beatrice ciò ch'ella stessa aveva detto? perchè ridirglielo? Perchè, si risponde, non era vero che Beatrice avesse detto... Non era vero! ed ecco ogni illusione svanita in chi legge, sopratutto pensando che in tali visioni è necessaria, oltre la verosimiglianza sulla quale conta ogni poeta, anche, e precipuamente, la verità delle dottrine che il filosofo vuole insegnare. Da ciò si può arguire che il poeta continuando le due canzoni, avrebbe narrato un suo viaggio negli inferi tra i malnati e un suo arrivo al cielo, dove si era alzata quella nuvoletta tra gli osanna degli angeli. Ma abbiamo un indizio che la gentilissima sarebbe apparsa dopo un'altra donna gentile. Leggiamo invero che dopo fatte le due canzoni di materia nuova Dante ebbe una imaginazione d'Amore (VN. 24) Amore gli parlava nel cuore, o il cuore gli diceva con la lingua d'Amore: “Pensa di benedicere [53] lo dì che io ti presi, però che tu lo dei fare„. Ed ecco venire verso lui una gentil donna, di famosa beltà, il cui nome era Giovanna, ed era sopranomata Primavera “e fu già molto donna di questo primo suo amico„, di Guido Cavalcanti. Appresso lei vide venire la mirabile Beatrice. E Amore parve dire: “Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d'oggi; chè io mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera, ciò è prima verrà, lo die che Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele„. Quale imaginazione? Quella vana imaginazione che è raccontata nella canzone seconda, nella canzone dell'excessus mentis. Continua Dante: “E se anco vuoli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire prima verrà, però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni, lo qual precedette la verace luce, dicendo: Ego vox clamans in deserto: parate viam domini„. E ciò è buon indizio che dopo la canzone dell'excessus o vana imaginazione, avrebbe fatto o altra o altre canzoni, nella quale o in una delle quali la gentilissima si sarebbe mostrata al suo fedele, si sarebbe mostrata dopo quella gentil donna. Dante, possiam credere, avrebbe veduta la Primavera, cioè quella che prima verrà, prima di vedere la Beatrice. Non avrebb'egli fatto una selva ombrosa e canora per questa Giovanna, in cambio del deserto per cui errava Giovanni? non avrebbe adornata d'ogni fiore e d'ogni frutto la stanza di questa Primavera? non l'avrebbe egli trovata là dov'è “primavera sempre„? non l'avrebbe veduta simile a quella Proserpina che “perdette... primavera„? non l'avrebbe contemplata scaldarsi “ai raggi d'amore„ e danzare e cantare, (cantare [54] la precorritrice, in una divina foresta; come clamare il precursore, in un deserto), cantare quella che quaggiù gli era annunziata da Amore allegro? non avrebbe indotto lei a dire “Perchè ciò che vien diretro... non guardi?„; lei che quaggiù aveva appresso qualcosa di più bello di lei? (Pur. 28) Chè ella doveva precedere “la verace luce„. E non forse avrebbe vedute, l'una e l'altra, monna Vanna e monna Bice, tra “una gentile schiera„ di donne; come racconta di loro, quaggiù, in un sonetto che non incluse nella Vita Nova? (Ca. s. 19) una gentile schiera di donne, come le tre donne che venivano danzando dalla destra ruota del carro, e le quattro che facevan festa dalla sinistra? Chè tali donne che raffigurano virtù, avrebbero avuto luogo in tale “tragedia„, poichè certo Dante avrebbe cantata monna Bice trasfigurata nella Beatrice sapienza, se è vero, come è vero, che nella prima canzone ravvisava in lei la speranza che si vede, e spiegava il come di quest'assurdo che è di vedere una speranza, e nella seconda narrava di essere come morto, e di excedere, e di veder perciò lei, che era perciò la sapienza. E monna Vanna precorritrice, sarebbe, di questa tragedia, stata quella che nella Comedia è Matelda, cioè quel che è scientia rispetto a sapientia, quel che è il fiore della vita attiva rispetto al fiore della vita contemplativa.[53]

[55] Ed ella lo avrebbe rimproverato così come nella divina foresta lo rimprovera, perchè Dante a lei allora si sarebbe presentato colpevole di ciò di cui era colpevole quando a lei fu condotto per loco eterno da Virgilio: sì: era stato ingannato dall'appetito, dall'animo, dal cuore; aveva seguito dei simulacra d'amore, ma in verità ella doveva sapere ch'egli era amico suo, non d'altri. (Inf. 2, 61) Questo gli poteva dire colui che lo guidava; un giovane in bianche vesti, che spesso nella sua vita nuova gli s'era fatto incontro nella via, e talvolta anche come peregrino in vil drappi: Amore. Non sarebbe stato, a guidarlo, Virgilio; no: ma Virgilio non significa nella Comedia studio cioè amore? anzi rispetto a Beatrice piuttosto amore che studio? E dunque l'avrebbe guidato il medesimo personaggio, sebbene con nome e vesti differenti; il medesimo in sostanza, se non in apparenza. E la gentilissima avrebbe concesso a Dante quel perdono, che nel libello giovanile che racconta la colpa, non troviamo. In vero che effetto fu delle parole adornate di soave armonia, nella quale era amore, e che Dante mandò a Bice, come il suo signore gli aveva proposto? (VN. 12) Nessuno; se pure tale effetto non fu il gabbo, quella volta che l'amatore “tenne li piedi in quella parte de la vita, di là da la quale non si può ire più per intendimento di ritornare„. (VN. 14).

[56] La donna non sapeva la condizione di Dante che se l'avesse saputa, non avrebbe, dice egli, gabbata la sua persona, anzi molta pietà le ne sarebbe venuta. Non la sapeva, e così gabbava “con l'altre donne„ sua vista. O non avrebb'egli trasformato questo gabbo della sua donna tra altre donne, nel rimprovero ch'egli soffrì, quand'ella gli si mostrò in su la divina basterna, tra le tre e quattro donne, e tra i fiori e la festa degli angeli? (Pur. 30, 16) Prima del gabbo, a lui parve sentire uno mirabile tremore... “nel suo petto da la sinistra parte, e distendersi di subito per tutte le parti del suo corpo„, e dovè poggiare la sua persona ad una pintura, e i suoi spiriti erano come morti ed egli era nel confine estremo della vita e della morte. E così prima del rimprovero, quando vide Beatrice, lo spirito suo (Pur. 30, 34)

che già cotanto
tempo era stato, ch'alla sua presenza
non era di stupor tremando affranto,

(Dante si ricorda del mirabile tremore di quella volta!)

sanza degli occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d'antico amor sentì la gran potenza.

E così vorrebbe dire a Virgilio, come, nel fatto del gabbo, parla all'amico:

men che dramma
di sangue m'è rimasa, che non tremi...

Qualche cosa di simile a quel rimprovero, le donne dall'intelletto d'amore avrebbero inteso da [57] Dante che la gentilissima gli aveva rivolto; e qualche cosa di simile anche all'encomio dolce amaro ch'ella fece di lui in quell'occasione: (Pur. 30, 115)

Questi fu tal nella sua vita nuova
virtualmente, ch'ogni abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova...

Sì, avrebbero inteso anche quest'encomio dolce amaro. Poichè la Vita Nova nella sua prima parte è così costruita, che il dramma abbia quello scioglimento di quel rimprovero e di quell'encomio; come si vede non ostante le sovrapposizioni di dopo. Dopo nove anni di vita innocente e incosciente, vede la gloriosa donna della sua mente; per altri nove anni cerca di vedere e va cercando quest'angiola giovanissima; al termine di questi ha il saluto di lei, e ne ha la prima visione. E dopo “picciol tempo„, ecco, il primo “schermo della veritade„, col quale si celò “alquanti anni e mesi„; passati i quali, essendo la donna dello schermo partita dalla città, egli trova, per consiglio di Amore errante e vilmente vestito, un'altra difesa; e così incorre in quella “soverchievole voce, che parea l'infamasse viziosamente„; e la gentilissima gli nega il saluto. E a lui giunge quel tanto dolore, e si propone di pretermettere i simulacra d'amore, e poco stante concepisce le rime nuove o la tragedia giovanile. Per quanto incerte siano le date (e pure non sembra improbabile che nel 1289 avesse il cattivo consiglio d'Amore, cioè dell'appetito, animo, cuore), noi possiamo scorgere una divisione, che fa Dante, degli anni vissuti fin allora, analoga a quella che poi fece nella Comedia.

Nella Comedia egli distingue un tempo di bontà [58] e virtù e dirittura: il tempo che Beatrice lo guidava con gli occhi giovinetti: l'adolescenza; e poi dieci anni, sino al mezzo del cammin della sua vita, d'oblio e d'oscurità e di smarrimento e di sete. Tosto che Beatrice era sulla soglia della seconda età, cioè adolescenza, e da pochissimo, da qualche mese, Dante aveva di tal soglia levato il piede. Dante si tolse a lei. Sono dunque, di trentacinque anni di vita, venticinque, cioè l'adolescenza, dati al bene, e dieci (subito dopo il ritorno al cielo di Beatrice, quando le era cresciuta bellezza e virtù) di, mettiamo, disamore. E nel libello sono diciotto anni (chè tosto, picciol tempo dopo la visione per la quale s'innamorò veramente della gentilissima, egli prese a schermo della verità la gentile donna di molto piacevole aspetto) diciott'anni e poco più d'amore, e sette anni, (su per giù non molto avanti la morte d'essa egli cominciò le rime nove) di simulacra, di schermi e difese. Ebbene la vita di Dante sì nella Comedia, sì in questa supposta tragedia, riesce presso a poco divisa nella stessa proporzione:[54] in un periodo, cioè, di bontà tra due e tre volte maggiore del secondo periodo, che non è di bontà, sebbene non sia di cattiveria. E il periodo primo contiene, nella Comedia, la adolescenza tutta con tutta la puerizia, e il secondo metà esatta della giovinezza; nella Vita Nova, il primo periodo è la puerizia con un po' più della metà dell'adolescenza. Ora si legga questa dottrina del Convivio: “Il primo e più nobile rampollo che germogli di questo seme per essere fruttifero, si è l'appetito dell'animo, il quale in greco è [59] chiamato hormen: e se questo non è bene culto e sostenuto diritto per buona consuetudine, poco vale la sementa, e meglio sarebbe non essere seminato. E però vuole Santo Agustino, e ancora Aristotile nel secondo dell'Etica, che l'uomo s'ausi a ben fare e a rifrenare le sue passioni, acciocchè questo tallo, che detto è, per buona consuetudine induri, e rifermisi nella sua rettitudine, sicchè possa fruttificare, e del suo frutto uscire la dolcezza della umana felicità„. (Co. 4, 21) Ebbene questo tallo s'ha a ben coltivare e sostener diritto e indurare e rifermare, quando? Nell'adolescenza, nell'età, vale a dire che è “porta e via, per la quale s'entra nella nostra buona vita„. (ib. 24) E il centro, si può dire, della divina Comedia è il torcersi, in Dante ossia nell'uomo, di questo tallo; il disviare, posto con l'esempio tipico di Dante, del mondo per l'inganno dell'“anima semplicetta„, che non aveva guida e freno; cioè il freno sì, della legge, ma non la guida che reggesse questo freno, cioè l'imperadore. Ebbene questo centro della Comedia, nella Comedia sta un po' a disagio; poichè il tallo si torce o si riferma nell'adolescenza, e Dante, quando in lui si torse non era più nell'adolescenza, sebben di poco ne fosse uscito, ed era già con la barba quando di tale torcersi gli fu fatto rimprovero.[55] Or come sarebbe mancato tale rimprovero di tale torcersi, nella tragedia giovanile? Quando si vede che tutto è dal Poeta impostato, per così dire, a questo fine, di far vedere che, nel bel mezzo dell'adolescenza, quel tallo si torce? come si torse, poco dopo i diciott'anni, in Dante, la cui anima semplicetta, [60] il cui cuore fu subito ingannato e non pervertito? E col rimprovero avrebbe avuto luogo l'encomio, perchè, infine, si trattava d'una stortura temporanea, dopo la quale Dante, riconoscendo sè, ripudiava i simulacri e gl'inganni e tornava alla sapienza; dando così prova, e meglio che nella Comedia, ch'egli aveva fatto ciò che l'adolescente deve fare, indurare e rifermare quel tallo, non ostante le intemperie solite di quell'età; e che perciò era virtualmente ben disposto se, pur dopo aver errato, ritornava sulla retta via. Non si può concepire un trattato di simil genere, se non si presenta al lettore il bene e il male; e quando si voglia parlar di sè stesso, se non si narra un traviamento e una conversione. E Dante aveva, come vedremo, un modello nelle Confessioni di Santo Agostino.

Questo era l'argomento delle rime nuove, le quali pur essendo necessariamente d'amore, avevano in sè “alcuno ragionamento„. E alle personificazioni che in esse sono e avrebbero dovuto essere, Dante e sì anche il suo primo amico, avrebbero potuto togliere la vesta. E in ciò consisteva la novità di tali rime, e questo era lo stil nuovo.

VII.
LO STIL NUOVO

Chiede Bonagiunta da Lucca:

Ma dì s'io veggo qui colui che fuore
trasse le nove rime, cominciando:
Donne, ch'avete intelletto d'amore.

[61] E Dante risponde:

Io mi son un che, quando
Amore spira, noto, ed a quel modo
ch'ei ditta dentro, vo significando.

E Bonagiunta replica:

O frate, issa vegg'io... il nodo
che il Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil nuovo ch'i' odo.
(Pur. 24, 49 segg.).

Dante fa vedere con la sua risposta d'avere sentita nella domanda “Sei tu quel Dante?„ un'altra domanda implicita: “come facesti a trarle fuori, quelle rime così nuove per me e per quelli che rimavano come me?„ Questa domanda Bonagiunta non l'aveva espressamente formulata, ma si leggeva in quell'aggiunto di nuove alle rime, si leggeva in quell'accento di ricordevole ammirazione (siamo nel Purgatorio, e l'invidia consueta dei pitocchi e dei poeti non ha più luogo), col quale ripeteva a memoria il grande cominciamento, Donne ch'avete. Perciò risponde Dante a quel modo che altrimenti sarebbe sembrato deviar dalla domanda, e invece sembra a Bonagiunta echeggiarle bene e breve, sì che esclama; Issa vegg'io! Dunque Dante rispose implicitamente alla prima domanda espressa; ed espressamente alla seconda sottintesa. “Sì: ma la novità, codesta gran novità (Dante non si pavoneggia mica avanti il suo modesto fratello! chi può crederlo?) sta in questo, che io noto quando Amore spira e vo significando a quel modo che detta„. E questa è tutta la novità, e così intende Bonagiunta: “ecco in che consisteva [62] il dolce stil novo, di cui non mi rendevo ragione quando vivevo, e m'impediva d'assemprarlo un nodo, che ora vedo!„ Ma questo nodo che Bonagiunta, sebben tardi, vide, lo vediam noi? Noi diciamo: il nodo era che il Notaro e Guittone e lor seguaci non notavano la spirazione d'amore: ed erano invece imitatori di provenzali; e non significavano nel modo schietto che Dante e altri sapevano fare, anzi erano goffi e impacciati. Per essere esatti bisognerebbe ripetere la spiegazione che dà Bonagiunta stesso:

Io veggio ben, come le vostre penne
diretro al dittator sen vanno strette;
che delle nostre certo non avvenne.

E questa spiegazione si riferisce appunto a ciò che Dante ha risposto:

ed a quel modo
che ditta dentro, vo significando.

Il nodo era dunque, secondo Bonagiunta, l'impaccio delle loro povere penne che non avevano quel dittatore, e (e qui sta il punto) dovevano far da sè. Ora quel dittatore è propriamente l'Amore come e quale intendiam noi? e il buon lucchese ha voluto dire, che il difetto del suo stile proveniva da un difetto d'amore? ch'esso, voglio dire, e gli altri scrivevano goffo e impacciato, perchè cantavano, poniamo il caso, amori non veri?

In primo luogo osserviamo che nelle parole di Bonagiunta è sottinteso che quel nodo essi avrebbero potuto scioglierlo, cioè correggersi di quel difetto. “Issa vegg'io!„ dice egli intendendo: “Troppo tardi! l'avessi saputo prima!„. E dunque egli dice [63] che, se fosse stato vivo, si sarebbe procurato un amor vero qualunque, che, si nota quando spira, e allora si significa bene? Non pare che egli dica così. E vediamo come intende il Giuliani. Egli commenta questo passo: “Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sè stessa mossa, e disse Donne che avete intelletto d'amore„; che è appunto il verso ricordato da Bonagiunta. E il Giuliani dice: “Dante qui nota l'ispirazione d'amore; poscia sovr'essa pensando, ecco che dopo alquanti dì Amore gli detta di nuovo in cuore ed egli, secondo che ode, scrive„. (VN 19). Ora in verità Dante non dice che il seguito glielo dettasse Amore; sì, che “pensando alquanti dì, cominciò una canzone con questo cominciamento„.[56] Bene: dunque Bonagiunta intende che, se avesse voluto, si sarebbe potuto fornire di tale spirazione, che fa che la lingua di per sè mossa parli? di tale spirazione, che non solo aveva quel frate suo ch'egli vede là nel purgatorio, ma anche altri cui appartenevano quelle penne andanti diretro al dittatore? Non pare. So bene che ci si può ragionar sopra e frullare attorno con le parole; ma è come nel più delle particolari questioni dantesche: ci vuole qualche dato nuovo! Senz'esso, si può ottenere il consenso di questo o quello a qualche suo ritrovato; ma la verità non risplende: si ottiene per qualche tempo un po' di silenzio; ma poi si ricomincia a chiacchierare.

[64] E qui c'è il dato nuovo. Amore nella Comedia è personificato in Virgilio, che è studio cioè amore, che è studio e amore; studio, più in particolare, in quanto conduce all'arte, cioè a Matelda, amore, più specialmente in quanto conduce alla sapienza, cioè a Beatrice. Ora qui, dove il poeta dice “quando Amore spira„, si ha a intendere appunto di quell'amore che è anche studio, e che è raffigurato nell'Ombra che ode i ragionamenti de' due rimatori. E allora quale è il concetto di Dante? Questo. Bonagiunta: “Sei tu quello che uscisti fuori con quella tal novità di rime, cominciando da quella tal canzone?„ Dante: “Sì: l'amore della sapienza e lo studio dell'arte mi posero in grado di compiere tali novità; novità nella sostanza, che è filosofica, novità nella forma, che è adeguata alla sostanza„. Bonagiunta: “Ora vedo l'impaccio che legava le nostre penne: ci mancava appunto quell'amor di sapienza e quello studio d'arte!„. Dante avrebbe potuto dire: “Ho uno, io, che mi detta: colui che attende là„; e Bonagiunta avrebbe potuto dire: “Ora vedo: bisognava ci procurassimo anche noi, un tal dittatore!„; e l'uno e l'altro avrebbero espresso il medesimo concetto che con quelle parole che invece usarono.

Il qual concetto Dante esprime anche altrove. A proposito appunto della personificazione d'Amore che non è corpo, eppure egli pone che rida e parli, dice: “Conciosiacosachè a' poeti sia conceduta maggiore licenza di parlare che alli prosaici dicitori, e questi dicitori per rima non sieno altro che poeti volgari, è degno e ragionevole, che a loro sia maggior licenza largita di parlare, che agli altri parlatori volgari: onde se alcuna figura o colore rettorico è [65] conceduto alli poeti, conceduto è a' rimatori... E acciocchè non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico che nè li poeti parlavano così senza ragione, nè que' che rimano deono parlare così, non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; perocchè grande vergogna sarebbe a colui, che rimasse cosa sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia domandato non sapesse dinudare le sue parole da cotal vesta, in guisa ch'avessero verace intendimento. E questo mio primo amico ed io sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente„. (VN. 25) Ho già osservato che non si tratta di poveri rimatori che dicendo “la terra ride„ cioè facendo una metafora; o “la mia donna è un'angiola„ cioè facendo un'iperbole; o “Amore m'ha detto„, cioè facendo una personificazione; non sapessero poi spiegare che la terra non ride, ma fiorisce, e che la donna non è un'angiola, ma una femina bella e pura, e che non c'è una persona di nome Amore, che abbia parlato, sì un sentimento chiamato amore, che ha commosso.[57] Si tratta di rimatori stolti, che adoperano tal veste di figura o di colore rettorico, per coprire un bel nulla; chè i dicitori per rima sono pur poeti, sebben volgari, e devono avere, come quelli hanno, un verace intendimento sotto la loro veste poetica. Or dunque che cosa non hanno questi che così rimano stoltamente, che Dante e il suo primo amico hanno? L'intendimento che è altro dalla vesta, la quale sebbene assomigli, in alcuna figura e colore retorico, a quella dei letterati poeti, deve tuttavia essere di una sola foggia sempre, poichè non è lecito [66] rimare sopra altra materia che amorosa: un intendimento, insomma, filosofico. L'intendimento che il Poeta teme d'avere a troppi comunicato, della prima canzone, chi crederà sia non altro che il senso letterale? (VN. 19). È possibile che un autore invidii questo al suo lettore? Il dubbio che il Poeta non stima a sè bene di dichiarare nel settimo sonetto, chi crederà sia intorno a interpretare Amore che uccide come amore che fa morire? (14) L'intendimento è là nel far della donna la spes quae videtur, e qua il dubbio è intorno all'excessus che dà la visione. Quanto poi ciò consuoni col fatto di Guido, suo primo amico, che fece la canzone Donna mi prega, ognun vede. E dunque questo biasimo ai rimatori stolti, è il medesimo nodo che ritenne il Notaro e Guittone e Bonagiunta; nodo che veniva da non avere per dettatore, essi pur poeti d'amore, l'Amore della sapienza, cioè la filosofia.

E altrove Dante parla dei rimatori volgari in confronto ai poeti antichi. (VE. 2, 4) Il pensiero di Dante s'è sviluppato, e noi lo vediam meglio ma non lo troviamo dissimile. I rimatori volgari egli chiama poeti, e dice “ben a ragione, se rettamente consideriamo la poesia, la quale null'altro è che una finzione retorica musicamente composta„. E aggiunge: “Differiscono tuttavia dai poeti grandi cioè regolari, in quanto che i grandi poetarono con stile (sermone) e arte regolare; e questi qui invece a caso, come dicemmo„. Aveva detto invero, a proposito del modo delle canzoni, il quale molti a caso piuttosto che con arte sembrano usare, che egli vuol aprire il magistero dell'arte di quel modo che fino allora era stato assunto casualmente; nel che si vede che quando [67] scriveva il trattato dell'eloquenza volgare negava il cosciente modo dell'arte al primo suo amico della Vita Nova. Nel fatto dovendo recare esempi di rimatori che avessero trattato in volgare dei soli tre grandi argomenti propri del volgare illustre, Salus Venus Virtus, trova di illustri uomini che avessero cantato l'amore e la rettitudine, cioè la direzione della volontà, non Guido dei primi, ma Cino, non Guido dei secondi, ma sè; per l'armi, nessuno. Guido dunque è taciuto come poeta sì d'amore e sì di filosofia morale: chè non più come nella Vita Nova Dante afferma che il rimatore volgare non deve cantare se non d'amore; anzi a lui propone tre soggetti, sebbene il suo esempio di canzone materiata di rettitudine non contradica del tutto la teorica giovanile, trattando ella di directio voluntatis quanto si voglia, ma essendo diretta a donne innamorate. Diremo ch'ella di quella teorica serba alcuna traccia.

Continuando il discorso sui poeti grandi e poeti volgari, Dante proclama: “Pertanto accade che quanto quei (grandi) più da vicino imitiamo, tanto più rettamente poetiamo. Di che noi, dando opera all'opera della dottrina, dobbiamo emulare le loro dottrine poetiche. Sicchè avanti tutto diciamo che ognuno deve ai propri omeri agguagliare il peso della materia, non per avventura la virtù degli omeri essendo troppo aggravata, sia di mestieri sdrucciolar nel fango„. Dunque, come poi spiega, quando s'hanno a cantare Salute, Amore e Virtù, bisogna adoperare il volgare illustre e lo stilo tragico. Ciò, a imitazione dei poetae magni, e con lo studio delle loro dottrine poetiche. Or egli in questo libro reca ad esempio tipico della canzone, che è appunto una tragica coniugatio di stanze uguali, la [68] stessa canzone che Bonagiunta ricorda: Donne che avete intelletto d'amore. (VE. 2, 8) Dunque implicitamente ammette che in essa canzone giovanile era appunto quella conoscenza e coscienza dell'arte, quella imitazione dei poeti grandi o regolari, quell'emulazione delle loro dottrine poetiche, che ha detto richiedersi a quelli che rimano in volgare. O sarebbe ella nella Comedia invece l'esempio di poesia fatta, così, senza meditazione, con estemporale facilità? Oh! nella Vita Nova afferma ben egli che il cominciamento lo pronunziò la lingua di per sè mossa, ma aggiunge che esso durò “pensando alquanti dì„ prima di cominciarla con quel cominciamento. Ora se quel pensare alquanti dì prima di cominciarla, vuol dire significarla a dettatura d'Amore (se mai, codesta dettatura cominciò quand'egli cominciava a scrivere), ebbene dobbiamo credere che quest'Amore che detta sia appunto lo studio; quello studio che è amore, quell'amore che è studio.

Ma leggiamo ancora: “Badi adunque ognuno e discerna ciò che diciamo; e quando questi tre argomenti puramente intende cantare o quelli altri che a questi tre direttamente e puramente seguono, prima beva all'Elicona, tenda le corde, e prenda sicuramente il plettro e cominci a moverlo„. Che vuol dire “bere all'Elicona„? forse quell'ispirazione inconsapevole che mosse la lingua a pronunziare il cominciamento di quella canzone? Vediamo.

O sacrosante Vergini, se fami,
freddi o vigilie mai per voi soffersi,
ragion mi sprona ch'io mercè ne chiami.
Or convien ch'Elicona per me versi
ed Urania m'aiuti col suo coro,
forti cose a pensar, mettere in versi.
(Pur. 29, 37)

[69] Il poeta domanda alle Muse che gli concedano dell'acqua che da quel monte scaturisce, ossia la potenza di pensare e mettere in versi cose forti cioè difficili. E le Muse invita a concedergli tale potenza, per quelle fami e quei freddi e vigilie che sofferse per loro: per quel molto soffrire e fare e sudare e gelare e il resto, oraziani. Si tratta dunque di studio e di meditazione, d'arte e di scienza, chè quest'ultima parola “scienza„ è appunto dichiarata dal poeta uguale a Musa: (VN. 25) “Per Orazio parla l'uomo alla sua scienza medesima, siccome ad altra persona... Dic mihi, Musa, virum„. Dunque, in quella sua canzone augurale, Dante bevve all'Elicona, non quando la lingua da sè parlò, ma quando pensò alquanti dì prima di cominciarla. E leggiamo ancora: “Ma badare e discernere a quel modo che si deve, hoc opus et labor est, poichè non mai, senza valentia di ingegno e assiduità d'arte e abito delle scienze (le quali sono tutte membra di sapienza — Co. 3, 11), è ciò possibile. E tali sono quelli che il Poeta, nel sesto delle Eneidi, chiama diletti di Dio e dall'ardente virtù sublimati all'etere, e figli degli Dei, sebbene e' parli figuratamente. E perciò confessino la loro stoltezza (tornano in volta quelli che rimano stoltamente) coloro che immuni d'arte e scienza (la quale richiama le scienze di più su ed equivale perciò a sapienza), confidando nell'ingegno solo, prorompono a cantare di tali altissimi soggetti nell'altissimo stile (summe summa); e desistano da tanta prosunzione; e se sono oche per loro naturale ignavia, non vogliano imitare l'aquila che va alle stelle„.

Oh! l'aquila astripeta è l'ingegno sì, ma che [70] s'unisce all'arte e alle scienze! Pensiamo: Pindaro[58] figurava il poeta grande nell'aquila che non va come i corvi predando terra terra nei solchi un facile cibo; Dante lo figura, anch'esso nell'aquila che vola verso le stelle, e a lei oppone un altro animale che ama gli stagni se non i solchi. Ebbene quest'animale, che è l'oca, è a rappresentare coloro che non hanno arte e scienza, cioè confidano nel solo ingegno. Può parere che le due aquile abbiano molto differente natura; può parere che l'aquila di Dante si levi tant'alto in virtù del cibo che amavano i corvi di Pindaro, e che l'aquila Dircea diventi, nel pensier di Dante, un'oca italica. Può parere e non è: Dante s'è incontrato, senza saperlo, con Pindaro; perchè ciò che leva agli astri la sua aquila è l'ingegno che studia e ama, ossia l'ingegno che è ingegno. L'ingegno delle oche non è che un vano starnazzare, un pesante desiderio di levità, un alzare verso le stelle il solo collo, che è lungo sì, ma non arriva alle stelle.

E diciamo dunque che il dolce stil nuovo di che udiva Bonagiunta, consiste nel fatto che le penne andavano strette diretro a un dettatore che si chiama studio; studio dell'arte. E lo studio dell'arte per Dante consisteva nell'intento d'imitare il più da presso possibile i poeti grandi cioè regolari. E tale studio gli diede la potenza, riconosciutagli subito dal buon lucchese, di significare a quel modo che l'Amore dettava. Dante viene a dire che in lui “forma... s'accorda... all'intenzion dell'arte„, perchè non è sorda, “a risponder la materia„. (Par. 1, 127) E ciò ottenne per quel lungo studio e [71] grande amore, che è adombrato in Virgilio studio e amore. Questa sublime facoltà di scrivere, poetando, come sotto dettatura, è espressa per tutte le due prime cantiche della Comedia in altro modo: con andare insieme a Virgilio e udirne di presenza le parole e notarle. Ma con questa facoltà, diremo, stilistica, nelle parole a Bonagiunta egli indica, ripeto, un altro effetto della sua imitazione prossima de' poeti grandi. Nella sua invettiva giovanile contro i rimatori stolti, parla d'un verace intendimento che ha da essere sotto la bella vesta di figure o colore, e d'un ragionamento che ha a giustificare un tal uso; e nel suo trattato teorico non disgiunge mai dall'arte le scienze, cioè la filosofia. La frase “quando Amore spira noto„ vale a indicare, mi sembra, codesto scientiarum habitus, codest'abito filosofico, che è appunto un consueto spirare dell'amore di sapienza, cioè filosofia. Al che gioverà meditare questo passo: “Per amore io intendo lo studio il quale io metteva per acquistare l'amore di questa donna (la sapienzia o filosofia)... È uno studio il quale mena l'uomo all'abito dell'arte e della scienzia; e un altro studio, il quale nell'abito acquistato adopera, usando quello: e questo primo è quello, ch'io chiamo qui Amore, il quale nella mia mente informava continue nuove e altissime considerazioni di questa donna (quella primaia scienza che è vera filosofia in suo essere — 2)„. (Co, 3, 12) Sì, questo informare di continue, nuove e altissime considerazioni nella mente è quello che Dante chiama spirar d'amore. E insomma nel suo terzetto Dante dice a Bonagiunta: Lo studio che mi mena all'abito delle scienze, cioè della filosofia, e all'abito dell'arte, mi fornisce “continue, nuove e [72] altissime„ considerazioni, e mi dà la facoltà d'esprimerle. Questo, s'intenda, aiutato da un po' d'ingegno...

VIII.
GUIDO E IL SUO DISDEGNO

Ma no: l'ingegno non lo nomina neppure. Perchè quelle parole sono professione di, secondo il pensamento degli uomini, modestia. Dante dice: “È lo studio che mi fa quel che sono: io non duro altra fatica che in trascrivere ciò che mi si detta„. Certo l'ingegno è sottinteso: non è possibile poetare “sine strenuitate ingenii et artis assiduitate scientiarumque habitu„. (VE. 2, 4) È sottinteso: altra volta se lo riconosce e lo dice alto; (Inf. 2, 7) qui non ne parla. Ne parla anche a proposito de' suoi studi al loro principio o a dir meglio alla loro ripresa: nella sentenza d'un libro di Boezio e d'un altro di Tullio era entrato “tant'entro quanto l'arte di Gramatica ch'egli avea, e un poco di suo ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea; siccome nella Vita Nova si può vedere„. L'arte di gramatica e un poco d'ingegno, allora; ora l'abito delle scienze e l'assiduità dell'arte, con l'alto ingegno, sottinteso, però, nel conversare con Bonagiunta. Conversando con costui, Dante non ha già più sulla fronte il primo P, nè dà prova di quella vanagloria o superbia (che noi chiameremmo coscienza legittima di sè), della quale egli pur s'accusa in altra cornice (Pur. 13, 136), e della quale, chi ben consideri, [73] dà prova nel trattare di quel peccato istesso, facendo che altri, nella finzione poetica, indichi, mentre indica esso, nella realtà, uno che all'uno e all'altro Guido toglierà la gloria della lingua, cioè del dire. (Pur. 11, 98) Con Bonagiunta fa professione di modestia. Il vecchio rimatore domanda se ha in presenza l'autore di quella tale e tanta novità; e il rimatore nuovo risponde: “Oh! non c'è da menarne vampo! è per un po' di studio che faccio, innamorato come sono del sapere!„ E tale studio e amore è così, per così dire, fuor di noi, s'appartiene così poco all'io che dentro noi “in alto galla„, che appunto il grande Poeta nostro lo raffigura in altra persona che con lui vada; in Virgilio. Ma l'ingegno si sottintende. L'amore spira; chi nota, se non l'ingegno? Lo studio detta; chi accoglie le sue parole, se non l'ingegno? Il “seguace ingegno„, come Dante stesso dice (Pur. 18, 40): “Le tue parole,„ cioè di te, o studio, “e il mio seguace ingegno... m'hanno amor discoverto„ cioè, mi hanno data la conoscenza di codesta teorica sull'amore. Così come quella volta, è sempre. Con lo studio, ci vuol l'ingegno; e si capisce bene, tanto che si può anche tacere; e con l'ingegno, ci vuol lo studio; il che non si vuol capire da tutti; dai vecchi rimatori, per un esempio, come il Notaro e Guittone e Bonagiunta, cui questo nodo ritenne di qua del dolce stil nuovo di Dante: dagli stolti rimatori per un altro (proprio altro?) esempio, che “arte scientiaque immunes, de solo ingenio confidentes„ si buttano ai grandi soggetti e al grande stile. Dante, no. Subito a principio della prima cantica del poema sacro esclama: (Inf. 2, 7)

o Muse, o alto ingegno or m'aiutate!

[74] o Muse, cioè, “tu, o scienza medesima del poeta„. (VN. 25) Dunque scienza del poeta o arte poetica, e ingegno. E a capo della seconda cantica (Pur. 1, 1) fa alzar le vele alla navicella del suo ingegno e chiama ancora le Muse, cioè la scienza o arte:

O sante Muse, poichè vostro sono:

come a dire che dell'arte poetica è ormai padrone. E a capo, infine, della terza più sublime parte dell'opera sua, se non l'alto ingegno, ha l'intelletto che “si profonda„,[59] e oltre le Muse dell'un giogo di Parnaso, ha il buono Apollo che siede nell'altro. Anche qui, dunque, ingegno e scienza o arte. E con essi, nomina, nella prima e nell'ultima cantica, in principio e in fine della visione, anche la mente che scrisse ciò che vide (Inf. 2, 8); e la mente che fece tesoro, sì, di qualche cosa del regno santo, non però di tutto, che non sa nè può ridire: (Par. 1, 5) la memoria, insomma. E noi pensiamo alle parole di Beatrice: (Par. 5, 40).

Apri la mente a quel ch'io ti paleso,
e fermalvi entro, chè non fa scienza,
senza lo ritenere, aver inteso.

Or come le cose che Dante nella sua visione vide e [75] udì, appartengono tutte ora all'una ora all'altre di quelle scientiae che sono le membra della Sapienza (Co. 3, 11), così questo ritenere le cose che vide e udì, è tutt'uno con quello scientiarum habitus che con l'ingegno strenuo e con l'arte assidua egli dice necessario al poeta che non sia stolto. (VE. 2, 4) Poichè “abito„ propriamente detto è un perfetto acquisto (Co. 3, 13), e così può ben ragguagliarsi a un apprendere non solo ma ritenere.[60] E usare, aggiungo; chè all'abito consegue l'uso di ciò che s'è perfettamente acquistato (Co. ib.); sì che noi leggendo questo verso (Par. 10, 43)

perch'io lo ingegno e l'arte e l'uso chiami,

ci troviamo innanzi sempre quella triade: la strenuità dell'ingegno, l'assiduità dell'arte, l'abito delle scienze, che allora è perfetto, quando noi possiamo usarne.

Fermiamo dunque nella mente nostra che Dante proclama necessari alla sua visione l'ingegno, l'arte e l'abito e uso conseguente delle scienze, ch'egli, quasi allegorizzando, dice non essere se non la memoria delle cose ch'egli udì e vide; e non vide certo nè udì a quel modo che dice; ma studiò e apprese e ritenne e usò. L'ingegno l'aveva da sè; ed egli lo riconosceva dalle gloriose stelle dei Gemini (Par. 22, 112), qual che egli si fosse; e anche assai giovane se lo riconosceva, sebben dicesse: un poco (Co. 2, 13); e lo riconosceva, perchè sottintesa, in tutto il libello [76] della Vita Nova, circola[61] questa frase del libro della Sapienza: “Puer... eram ingeniosus et sortitus sum animam bonam„; frase che echeggia sotto le parole di Beatrice: (Pur. 30, 115).

Questi fu tal nella sua vita nuova
virtualmente, ch'ogni abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.

In tale sua virtualità era certo anche l'ingegno. Ingegno egli aveva: che gli mancava? Qual parola avrebbe usata Dante a indicare, nel proposito dell'ingegno, in una parola sola, quel che gli mancava? Nella Comedia fa dire a un angelo: L'altra vuol troppa d'ingegno e d'arte; fa dire a Virgilio: Tratto t'ho qui con ingegno e con arte (Pur. 9, 125; 27, 130); dice: La gente con ingegno ed arte acquista. (Par. 14, 117) Facilmente questa parola, arte, avrebbe egli detta, come quegli che dice in vero che ne aveva una dall'arti, l'arte di grammatica, che non poteva bastare. E ad acquistarla, l'arte, ci si mise di proposito come afferma sul fine del suo libello: “di venire a ciò (a poter trattare più degnamente della benedetta) io studio quanto posso„; e lo conferma altrove dicendo di essersi messo a leggere un libro di Boezio e uno di Tullio, e poi d'aver trovato “vocaboli d'autori e di scienze e di libri„, e d'essere andato “nelle scuole de' religiosi e alle disputazioni de' filosofanti„. (Co. 2, 13) Ma così finiva egli forse con acquistare soltanto l'abito dell'arte? Anche l'altro abito, diciamo noi, quello scientiarum. Ma l'uno adduceva l'altro, per naturale svolgimento, sì che a [77] dir l'uno si dice anche l'altro; e noi non crederemmo, per esempio, che Virgilio dicendo “Tratto t'ho qui con ingegno e con arte„, non comprendesse nella parola arte anche l'abito delle scienze, delle quali dà tante prove nel suo viaggio. E così leggendo nel libro dell'eloquenza volgare, che il volgare illustre cerca gli eccellenti ingenio et scientia, e che gli ottimi concetti non possono essere se non dove è scientia et ingenium, e che l'ottima loquela non conviene se non a quelli in cui è ingenium et scientia (VE. 2, 1), noi non esitiamo a credere che in quella parola scientia sia compreso tutto ciò che ci vuole, oltre l'ingegno; quindi, oltre l'assiduità dell'arte, anche l'abito delle scienze; o oltre questo, quella; sia che scientia crediamo stia qui per arte, come parrebbe dal raffronto con la locuzione casu magis quam arte (VE. 2, 4, 1), sia che valga per scientiae, come supporrebbesi col raffronto a arte scientiaque immunes (ib. 7). La frase excellentes ingenio et scientia, senz'alcun'ombra di dubbio, vale a indicare quelli stessi uomini, diletti di Dio e sublimati al cielo, che ebbero strenuità d'ingegno e assiduità d'arte e abito di scienze. E di questi era certo il Poeta che guida il rimatore nuovo per la sua lunga via! Ora egli si chiama studio e amore, interpretando; quello stesso studio e amore “il quale mena l'uomo all'abito dell'arte e della scienzia (cioè sapienza)„;[62] “quello [78] studio e quella affezione che suole precedere negli uomini la generazione dell'amistà, quando già dall'una parte è nato amore, e desiderasi e procurasi che sia dall'altra„. (Co. 3, 12).

Or bene. Da una delle arche dell'inferno, sorge alla vista del viatore un'Ombra che è il padre del primo amico suo degli anni giovanili. (Inf. X, 51) L'ultima parola che suona nel discorso di Dante, sembra abbia avuta virtù di farlo levar su in ginocchione. Guarda, come se volesse vedere s'altri era col fiorentino che aveva parlato, e non vedendo un'Ombra come lui, oltre Dante, piangendo dice: “Se per questo cieco carcere vai per altezza d'ingegno, mio figlio ov'è? e perchè non è teco?„ Poichè all'andare per quel cieco carcere si era resi idonei da qualcosa di cui almeno un elemento era l'ingegno (a giudizio del sepolto, era anzi l'unico); ebbene possiamo subito dire quali altri elementi costituivano quella facoltà, dato che ella non fosse costituita da quel solo elemento. Così se un bimbo dice: tu mi dai soltanto la buccia; noi intendiamo, che quel che ei vuole è costituito anche da polpa o gheriglio. E così se un altro dice: voglio solo il tuorlo; intendiamo che ciò che non vuole, è il bianco e magari il guscio. E dunque è certo già dalla domanda che, se Dante è per rispondere che l'alto ingegno (che [79] riconosce a sè e riconosce al primo amico suo) non basta, risponderà che a Guido mancava, o ciò che è indicato dalle Muse e dalla mente che scrive, (Inf. 2, 7) in quel passo dove è l'alto ingegno; o ciò che è significato dai due gioghi di Parnaso e dalla memoria, nell'altro passo dove è l'intelletto che si profonda (Par. 1, 5); o ciò che è accennato dalle sante Muse e da Calliopea nell'altro luogo dove è la navicella dell'ingegno; (Pur. 1, 2) o ciò (aggiungo) che è simboleggiato in quella diva Pegasea, senza la quale gli ingegni avrebbero un bello essere alti ma non sarebbero gloriosi e longevi (Par. 18, 82); risponderà che a Guido mancava ciò che è accoppiato da solo con ingegno nella Comedia, ossia l'arte; ciò che è accoppiato a ingegno da solo nella Volgare Eloquenza, ossia la scienza; ciò che nel poema e nel trattato è meglio esplicato per due elementi, ossia l'arte e l'uso, ossia l'assiduità dell'arte e l'abito delle scienze, ossia, come si dice, ricapitolando, in questo ultimo passo, l'arte e la scienza. E Dante parla e dice: Da me stesso non vegno. Dunque risponde negando ciò che il sepolto ha affermato: Tu vai per altezza di ingegno. E Dante aggiunge: Mi mena per il cieco carcere quell'Ombra che attende là. Dunque dice: per qui mi mena, non ciò che dite voi, o almeno non ciò solo, ma lo studio; lo studio o amore (ripetiamo con le parole del Convivio 3, 12) “il quale mena l'uomo all'abito dell'arte e della scienza„. Invero quell'Ombra è un savio gentil che tutto seppe, è uno “che onora ogni scienza ed arte„. E Dante conclude:

forse cui Guido vostro ebbe a disdegno.

[80] Ebbe: perchè lo studio che ora menava Dante per il cieco carcere, era cominciato da un buon po'; e da un buon po' avrebbe dovuto cominciare in Guido, se voleva fare il medesimo viaggio; da un buon po', come assevera Dante stesso, sul principio del poema, a Virgilio: (Inf. 1, 84) “Vagliami il lungo studio„ oltre il grande amore. Ebbe: perchè si tratta dello studio che conduce all'arte e alla scienza, e non di queste medesime; chè allora Dante avrebbe detto: “Aveva in disdegno, quand'io mi mossi; ha in disdegno, ora che vo„. Ebbe; e non si può dire se non, ebbe; quell'ebbe che non sta con alcun'altra interpretazione. L'ingegno Guido l'aveva, e alto, come per bocca del padre di lui proclama il primo di lui amico; ma che è l'ingegno? L'ingegno è come, sulle panche di scuola, il bimbo che scrive a dettatura dell'amore o studio; ossia è seguace delle parole di codestui, che attende là: se non c'è lui che parli e che detti, che cosa intende, che cosa scrive questo bimbo dell'ingegno? E così il nostro Poeta con Cavalcante fa la stessa professione di modestia, che farà con Bonagiunta. “Da me stesso„ non farei nulla; chi fa è un altro, sono altri; sono i grandi poeti e i grandi filosofi che mi parlano e mi dettano.[63]

Così Dante non dice di Guido filosofo e autore [81] d'una nobile canzone filosofica: Non fu o era filosofo. Non dice di Guido poeta e partecipe con lui dello sdegno per gli stolti rimatori, e tale che tolse all'altro Guido la gloria della lingua: Non fu poeta. Il che è ben assurdo che Dante dicesse, quando sappiamo che non lo pensava: nello sdegno, in vero, per quelli che rimano stoltamente, senza verace intendimento, sono implicite, a non parlar d'altro, le conoscenze filosofiche e artistiche: (VN. 25) e, se l'avesse pensato, assurdissimo sarebbe che lo dicesse al padre amoroso, e così seccamente. E poi avrebbe detto: Non era, quando m'avviai, non è, ora che sono in via, filosofo o poeta; e dice invece: Ebbe a disdegno. E altrettanto assurdo è pensare che, secondo il pensiero di Dante, avesse avuto a disdegno, in Virgilio, la latinità. Sì: da Guido fu Dante confermato nel suo consiglio di scrivere in volgare la Vita Nova: “lo intendimento mio non fu da principio di scrivere altro che per volgare... e simile intenzione so che ebbe questo mio amico a cui ciò scrivo, cioè che io gli scrivessi solamente in volgare„ (VN. 31). Fu confermato in tal consiglio, e così bene, che Dante poi difese l'uso del volgare nel Convivio e ne teorizzò nel trattato della Eloquenza e lo sublimò nella Comedia. E ora, con le parole di appunto questa sua Comedia in volgare, rimprovererebbe tal consiglio di lui e tal uso di tutti e due all'amico? E più che mai è assurdo pensare a un disdegno di Guido per la ragione sommessa alla fede; la qual ragione così sommessa fosse simboleggiata in colui che attende là. Il che non è; ma se fosse, a Dante si farebbe dire che Guido, d'alto ingegno, non disdegnava la sommessione alla fede, bensì la ragione; [82] come, per tacer d'altro, si rileverebbe dalle parole di Virgilio: (Pur. 18, 46)

Quanto ragion qui vede
dirti poss'io, da indi in là t'aspetta
pure a Beatrice ch'è opra di fede.

Nè si esce dall'assurdo, imaginando che la disdegnata o il disdegnato sia Beatrice o Dio. Lasciando al solito ogni altra considerazione, la risposta, in tal caso, di Dante non sarebbe cominciata col dire: Da me stesso non vegno; e non avrebbe continuato con l'indicare la guida; ma poniamo anche che il Poeta con quel giro di parole mostri... che altro se non una cotal vergogna di andare a Dio o Beatrice? Poniamo questo assurdo: ma il fatto è che Dante nella sua risposta non inchiuderebbe se non la notizia che era inclusa nella domanda del Cavalcante, il quale sapendo che Dante è vivo e va per il cieco carcere, sa appunto che fa un viaggio di contemplazione, con la sua altezza d'ingegno, e che la contemplazione è di Dio.

Ma che giova indugiarci? La mia dichiarazione non è di quelle che hanno bisogno dell'assurdo delle altre, per essere probabili.[64] È indubitabile, la mia dichiarazione. Dante risponde umilmente al padre di Guido: gli dice: Faccio questo viaggio perchè mi sono fatto seguace, servo, discepolo di colui, che è mio duca, signore, maestro. E con ciò non dice, al padre di Guido, che questi non istudiò; bensì che non istudiò tanto da bastare a tal via. Dice soltanto [83] che questi non si diede a tale umile e paziente studio a quale si era dato esso. E perciò l'arte, che da sè può esprimere ciò che occorre oltre l'ingegno, l'arte che è la parola al cui suono par destarsi dal suo letto il padre di Guido, l'arte di Guido non era quanta bisognava. Ma, pur nel fare un appunto al suo primo amico, Dante ponendo la causa invece dell'effetto, indicando lo studio piuttosto che l'arte, lo viene in certo modo a scusare. Lo studio i poeti sogliono (e solevano anche al tempo di Dante), quasi per proprio istituto, spregiarlo o sdegnarlo. Essi preferiscono dovere i loro canti a qualche cosa che non è loro merito se l'hanno, come non è nostra colpa se non l'abbiamo, cioè all'ingegno; di quello che a qualche altra cosa che è nel poter nostro averla o non averla, e quindi è vero merito se l'abbiamo e vero demerito se non l'abbiamo: allo studio. Tant'è: e il padre di Guido, che ha l'orgoglio di padre, mostra anch'esso, con quel fissarsi sull'altezza dell'ingegno, di non aver presente allo spirito quell'altro termine del binomio e di non curarne più che tanto. E Guido stesso, ciò che di lui morto dice l'amico, se l'avesse potuto udir da vivo, oh! quasi quasi l'avrebbe ascoltato con piacere. Chè l'amico gli riconosceva ciò che non è in noi acquistare quando manca, e gli negava solo ciò che si può avere quando si voglia e da chi si voglia. E poi, forse! poi, non del tutto! Virgilio personifica, sì, lo studio di Dante e l'amore; ma, ripeto, uno studio che fu lungo e un amore che fu grande. Andare col “savio gentil che tutto seppe„ significa saper tutto. Udire da Virgilio tante dichiarazioni storiche, mitologiche, filosofiche, teologiche e vai dicendo, vuol dire avere studiato [84] storia, mitologia, filosofia, teologia: tutto il trivio e tutto il quadrivio e altro. E avere appreso e ritenuto.[65]

Nel che è da osservare che se è vero che Dante raffigura in Virgilio che lo volve per gli empi giri, lo studio che mena all'abito dell'arte e della scienza, non è men vero che viene a rappresentare in lui l'abito stesso, e l'uso d'esso: perchè Dante finge sì d'essere addottrinato via via da Virgilio, ma s'intende che quelle dottrine e' le possiede già; possiede l'arte con cui egli scrive e possiede la scienza della quale egli tratta. S'intende. E s'intende, per contrario, che, quando, vedendo l'Ombra nel gran deserto, dice a lei: Miserere di me!, non da quel momento vede Virgilio e l'opera sua, e non da quel momento comincia lo studio, che in Virgilio o nel suo volume è simboleggiato. Lo grida egli stesso, che non comincia d'allora!

vagliami il lungo studio e il grande amore
che m'han fatto cercar lo tuo volume!

Che m'han fatto! Quando? nella selva oscura? mentre avanzava verso la lonza e arretrava avanti la lupa? E sì, il tempo del verbo farebbe pensare proprio a quel mattino! Ma nell'allegoria Dantesca il verace [85] intendimento è nascosto sotto una vesta di figura; non è a parte a parte e del tutto impersonato in tante figure. Scoprendo via via tal vesta o tal velame, voi vedete il verace intendimento che si svolge sovente con parole sue proprie.

Or qui, dunque, ci chiediamo: Quando cominciò lo studio lungo, che è simboleggiato in Virgilio? Poichè Dante dice che Guido l'ebbe a disdegno tale studio, questo non cominciò, credo io, quando i due amici procedevano unanimi e a pari a pari per la stessa via; non cominciò, vedo io, quando Dante trasse fuori le nove rime. Sino ad allora lo studio, e l'arte e scienza conseguenti, di Guido doveva parere a Dante non dissimile nè disuguale dal suo proprio, se fa dire a Bonagiunta “le vostre penne„, tra le quali è intuitivo sia compresa anche quella del vincitore dell'altro Guido, quella del primo suo amico d'allora, che la pensava come lui riguardo al volgare, a cui aveva “scritta„ la Vita Nova, con cui s'accordava nel disprezzo dei rimatori stolti. Ma nel Convivio non nomina Guido, nemmeno a proposito dell'uso del volgare; ma nel trattato dell'eloquenza, più e meglio che Guido, nomina Cino e sè. Nella Comedia, riferendosi al trecento, e afferma che questo Guido tolse all'altro la gloria della lingua e assevera che non imprese quel lungo studio che aveva impreso esso. Non si tratta dunque di quel tanto pensar che Dante fece prima e dopo quel cominciamento della canzone, prima delle rime nove e del dolce stil novo e della materia nova. Si viene invece, innegabilmente, all'altro momento della vita di Dante, quand'egli ci narra d'essersi messo in un nuovo proposito. Ce lo narra due volte. La prima: [86] “Apparve a me una mirabil visione nella quale vidi cose, che mi fecero proporre di non dir più di questa benedetta, infino a tanto che io non potessi più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso„. (VN. 43) La seconda: “Dopo alquanto tempo, la mia mente, che si argomentava di sanare, provvide (poichè nè il mio nè l'altrui consolare valea) ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi. E misimi a leggere quello, non conosciuto da molti, libro di Boezio... E udendo ancora, che Tullio scritto avea un altro libro... misimi a leggere quello... E... io, che cercava di consolare me, trovai non solamente alle mie lagrime rimedio, ma vocaboli d'autori e di scienze e di libri... E... cominciai ad andare... nelle scuole dei religiosi e alle disputazioni de' filosofanti; sicchè in picciol tempo, forse di trenta mesi„, cominciai a essere assai addottrinato in filosofia. (Co. 2, 13) Della qual filosofia tratta in quel libro. Ora e questa filosofia trattata nel Convivio e quell'argomento promesso nella Vita Nova, rampollano, per così dire, da un fatto che segnò nel libello giovanile una terza rubrica (la prima Incipit Vita Nova, la seconda, le rime nuove o la lauda della gentilissima), e introducono una materia nuova rispetto a quella nuova che la precede. Il cominciamento, questa volta, era di Geremia profeta. Quomodo sedet sola... Dante aveva concepita la terza canzone delle rime nuove, e ne aveva già composta la prima stanza, quando e interuppe la canzone e lasciò il suo disegno di “tragedia„ e persino, per un momento, il suo proposito di scrivere in volgare. Al qual momento va riferito, se mai, il consiglio di Guido; e [87] non al primo principio del libello. Quomodo sedet sola civitas... E aggiunge: “E questo dico, acciò che altri non si maravigli, perchè io lo abbia allegato di sopra, quasi come entrata de la nova materia che appresso viene„. Questa nova materia comincia alla morte della gentilissima.

IX.
BEATRICE BEATA

Bice era morta; e non molto prima le era morto il padre. Nella narrazione che Dante fece, qualche tempo dopo, di questa ultima sventura, leggiamo: “Colui ch'era stato genitore di tanta maraviglia... di questa vita uscendo a la gloria eternale sen gìo veracemente„. (VN. 22) Quando la morte si concepisce così, e si crede un trasmigrare veracemente alla gloria eterna, qual luogo può essere al dolore in chi rimane? specialmente, se chi rimane è di così grande bontà, che può aspettarsi d'avere a trovarsi, di lì a poco, insieme con chi partì? specialmente se chi dimora è un'angiola aspettata nell'alto cielo la quale non resta in terra se non a far visibile quella cosa invisibile che è la speranza della contemplazione di Dio? Eppure questa donna “fue amarissimamente piena di dolore„. Dante che era pieno, a' quei tempi, di quei concetti di morte mistica e di partita della mente, dalle vane imaginazioni tornando a un tratto alla realtà, dovè giustificare a sè stesso la contradizione tra quel concetto celeste della morte e questo dolore terreno, e la giustificò con un ragionamento, [88] che alcuni trovano così fuor di posto che ne concludono che Dante qui allegorizzi,[66] mentre pare evidente che qui dica il vero propriamente. Dice: “Onde con ciò sia cosa che cotale partire sia doloroso a coloro che rimangono, e sono stati amici di colui che se ne va; e nulla sia sì intima amistade, come da buono padre e buon figliuolo, e da buon figliuolo a buon padre; e questa donna fosse in altissimo grado di bontade, e 'l suo padre (sì come da molti si crede, e vero è) fossi buono in alto grado; manifesto è, che questa donna fue amarissimamente piena di dolore„. È un ragionamento che mostra come all'anima di Dante assorta ed esaltata, distratta, per così dire, in quelli abissi del profondo e dell'alto, la morte non si mostrava più, da qualche tempo, scortata dal dolore. Di vero egli disegnava quella sua “tragedia„, in cui ragguagliava l'excessus mentis alla morte, e in cui non parlava più con la sua donna e della sua donna se non là, nel limitare dell'oltremondo, “in quella parte della vita, di là da la quale non si può ire più per intendimento di ritornare„. (VN. 14) Chi ha in suo pensiero rimproverato a Dante quel suo finger morta la sua donna, quel, per così dire, scherzare con la morte; veda qui ora l'ammenda che di quel suo fingere e scherzare fa Dante, che torna, come trasognato, dal suo sogno mistico, e balbetta il suo raziocinio. “Vero è bene, che per i buoni la morte è una partenza per un luogo migliore; ma chi rimane? Le partenze [89] sono sempre dolorose; e chi rimane, più è buono, ossia più è certo di dover raggiungere chi partì, più si duole. È strano, ma è così„.

Il risveglio doveva essere intero di lì a poco, “quando lo signore de la giustizia chiamò questa gentilissima a gloriare sotto la 'nsegna di quella reina benedetta Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenzia ne le parole di questa Beatrice beata„. (VN. 28) Come accolse il vero transito della sua donna, colui che morta l'aveva sognata e descritta? Egli si rivolge alle donne gentili, con le quali aveva parlato volentieri di lei mentre era viva,

e dicerà di lei piangendo, pui
che sì n'è gita in ciel subitamente.
(VN. 31 c. 3)

Subitamente? Oh! sì, della morte di lei aveva, appunto con quelle donne, parlato, prima che la morte avvenisse; ma quella morte era ben diversa da questa! E la canzone, anzi le canzoni, ch'egli aveva pur riempite di tali imagini di trapasso, sì quella in cui gli angeli e i santi ad alte grida la maraviglia terrena vogliono in cielo, e sì quella in cui essa era coverta del velo funebre, quelle canzoni

erano usate di portar letizia

alle lettrici, mentre questa è disconsolata. Sono in quelle, almeno nella seconda, gli stessi concetti, persino le stesse parole, di dolore; eppur in quelle era letizia, questa è figliuola di trestizia. E c'è la medesima umana contradizione nell'una e nell'altra. In quella: (c. 2)

[90]

Levava gli occhi miei bagnati in pianti,
e vedea (che parean pioggia di manna),
li angeli che tornavan suso in cielo,
ed una nuvoletta avean davanti...
············
Lo imaginar fallace
mi condusse a veder madonna morta;
············
ed avea seco umilità verace,
che parea che dicesse: Io sono in pace.
Io divenia nel dolor sì umile...

In questa: (c. 3)

ed è sì gloriosa in loco degno.
Chi no la piange, quando ne ragiona
core ha di pietra...

Lo stesso dolore, irragionevole e ragionevole allo stesso modo, nelle due sorelle; eppur sol una è disconsolata. L'altra portava letizia. Perchè? Perchè doveva esser parte di quel poema, di quella tragedia, di quella loda nella quale si sarebbe veduta sì Beatrice in paradiso, ma senza ch'ella lasciasse la terra; e da tale visione e da tale colloquio, dell'amatore con l'amata, sarebbe venuta la purificazione dell'uno e la gloria dell'altra, ma senza uscir dal dolce mondo, se non per una partita della mente di lui e non dell'anima di lei. Dante ha rinunziato, ora, a quel disegno poetico. Ci ha rinunziato, quand'esso in vero avrebbe avuto il suo pernio vero in quella vera morte. Ma nelle rime nove la canzone cattivella non fa avanzar d'una linea quel disegno, e ripete, si può dire, la canzone seconda. E chiude quella materia nova della loda, che pure s'impernava sulla imaginata morte della donna in cui era incarnata la speranza [91] e la sapienza; e comincia una “nova materia„. (VN. 30)

La qual nova materia che “appresso viene„ con quella terza canzone, ha per “entrata„ “quello cominciamento di Geremia profeta che dice: Quomodo sedet sola„. Invero Dante era nel proponimento d'una canzone, che sarebbe stata la terza della loda, quando la interruppe, come s'è detto, sorpreso dalla morte della sua donna che era “gita in ciel subitamente„. La canzone interrotta doveva contenere “parole, ne le quali e' dicesse come gli parea essere disposto a la sua (cioè della donna sua) operazione e come operava in lui la sua vertude„. (VN. 27) Questa operazione e vertude era tale, come si vede dalla prima stanza, che gli spiriti pare che fuggano via, e l'anima sente tanta dolcezza “che 'l viso ne smore„. Escono gli spiriti e chiamano la sua donna. L'argomento è sempre un mentis excessus, come nella canzone seconda. Ma resta alla prima stanza. Dante o l'interruppe per scrivere invece la canzone, Morte poich'io non truovo (Ca. c. 5), nella infermità mortale della sua donna, o stette sospeso e muto ad attendere le novelle di questa infermità, finchè, saputa la morte, “ancora lagrimando in questa desolata cittade, scrisse, a li principi de la terra alquanto de la sua condizione„, con quel cominciamento di Geremia: Quomodo sedet sola civitas plena populo! Facta est quasi vidua domina gentium. Tale epistola latina, che Dante non riferisce tutta “però che lo 'ntendimento suo non fue dal principio di scrivere altro che per volgare„, fa vedere, a parer mio, insieme con la canzone terza Li occhi dolenti, che Dante aveva modificato e in certa guisa scisso in due il [92] suo proponimento delle rime nove. Egli avrebbe cantato, in volgare, il suo dolore per la partita dell'angiola, ed avrebbe, in latino, trattato di contemplazion di Dio e di sapienza.

In verità, quali son essi quei principi della terra, cioè, o del mondo o della città? E come Dante poco più che adolescente si mette a scrivere a principi, fossero essi della città o del mondo? E come egli avrebbe loro scritto della desolazione “della cittade„ per la morte d'una donna? E d'una donna che, probabilmente, era moglie d'altra persona che colui che scriveva?

Nello scrivere l'epistola Dante aveva il pensiero alla Bibbia, come si vede dal cominciamento di Geremia. Ebbene, ricordiamo che è molto probabile che ad un libro della Bibbia, al Liber Sapientiae, già s'ispirasse, o direttamente o attraverso le mistiche dichiarazioni che fece S. Agostino, di Lia e Rachele.[67] E leggiamo ora in quel libro. “Chiara è ed immarcescibile la sapienza e facilmente è veduta da quelli che l'amano ed è trovata da quelli che la cercano. Previene quelli che la bramano, sì ch'ella si mostra loro per prima. Chi dal far del giorno vigila per lei, non si affannerà: la troverà seduta alle sue porte... chè ella, i degni di lei, va attorno cercandoli essa, e per le vie si mostrerà a loro con lieto sembiante„.[68] È ben possibile che da questo luogo prendesse Dante qualche circostanza nel cantar già la sua donna che si veniva nel suo pensiero trasformando nella bella e perfetta sapienza. Egli racconta d'averne avuto il [93] saluto la prima volta mentre ella passava per una via (VN. 2), ed ella è prima a salutarlo “molto virtuosamente„. E “questa gentilissima salute salutava„ lui non raramente, e andava spesso “per via„ (19 c. 1, 32), e trovava alcuna volta “alcun che degno era di veder lei„ (ib. 37), e passava (21 s. 11, 3), e veniva “inver lo loco„ ov'era il suo amatore (24 s. 14, 10), e si mostrava (26 s. 15, 9); e “quando passava per via, le persone correano per veder lei„. (26) Ed era tale, che era “laudato chi prima la vide„ (21 s. 11, 11): il che non s'intende, se non credendo che si tratti piuttosto che d'una donna, di codesta Sapienza cui vedere significa essere o essere per essere sapienti.[69] E non s'intende che Dante dica che trattando della partita di una donna, “converrebbe esser lui laudatore di sè medesimo„ (28), se non si crede ch'ella era tale, che, se laudato era chi la vide, laudatissimo sarebbe stato chi avesse detto di sè, d'averla non solo veduta e mirata, ma tanto amata.

Chè amar la sapienza vuol dire essere filosofo. Or dunque, quando il Poeta dice che la città era rimasta quasi vedova e dispogliata da ogni dignitade, pensa alla partita, da essa città, di quella chiara sapienza, che andava per le vie, e si mostrava per prima o era prima veduta da quelli che la amavano, e preoccupava col suo saluto quelli che la bramavano, e andava attorno mostrandosi alla gente hilariter, cioè così piacente a chi la mirava. Di questa, cioè della sapienza, era rimasta vedova la città. Non [94] è possibile si tratti d'altro, perchè quali sarebbero i principi della terra ai quali Dante si rivolge, se non fossero quelli ai quali si rivolge in quel capitolo sesto l'autore del libro della sapienza, o, meglio, il re Salomone, in cui persona quel libro è scritto? “Udite dunque o re, e intendete; imparate, o giudici de' paesi della terra! Porgete le orecchie voi che tenete le moltitudini... A voi dunque, o re, si volgono queste mie parole, affinchè impariate sapienza... Bramate le mie parole, amatele e avrete intendimento. Chiara è ed immarcescibile la Sapienza e facilmente è veduta...„ Per l'innanzi, facilmente veduta; or no: l'autore di questo nuovo piccolo libro di sapienza, libro in latino, in versetti, di stile biblico, il nuovo ingenuo Sirach o Salomone di Fiorenza, dice ch'ella non si fa veder più, non saluta più, non sorride più. E questo pur dice a principi, anch'esso. E che altro? Non sappiamo. E tuttavia possiamo affermare che nell'uscir dall'adolescenza già Dante aveva in mente le parole con cui quel libro di Sirach comincia, e che dovevano fiammeggiare, lettera per lettera, nel cielo di Giove: (Par. 18, 91) Diligite iustitiam qui iudicatis terram.

Ma anche questo proponimento di fare, per una parte, trasformando una donna amata nella amata sapienza, un latino libro di Sapienza, nel quale, forse, s'insegnava rettitudine ai principi; e per l'altra, conservando alla donna morta le sue sembianze, ahimè, svanite per sempre, altre rime volgari d'amore; anche questo proponimento dileguò in breve. Apparisce a Dante (egli racconta) il viso d'“una gentile donna„.

[95]

X.
LA DONNA GENTILE

Dante era “in parte, ne la quale si ricordava del passato tempo„ e “molto stava pensoso, e con dolorosi pensamenti tanto che gli faceano parere di fare una vista di terribile sbigottimento„. (VN. 35) Ed ecco, da una finestra, lo riguardava una gentile donna giovane e bella molto. Egli s'accorse ch'ella pensava alla sua “vita oscura„ ed egli “temendo di non mostrare la sua vile vita„ o “di dimostrar con gli occhi sua viltate„, si tolse dinanzi a lei, chè sentiva che gli veniva da piangere nel veder lei compatire. Ritrattosi pensava: “E' non puote essere, che con quella pietosa donna non sia nobilissimo amore„, oppure:

ben è con quella donna quello Amore
lo qual mi fece andar così piangendo.
(s. 19)

L'amore di Beatrice morta era, dunque, nella donna gentile viva: Sì: l'amore stesso. L'amore è la cera, e l'una e l'altra donna, la morta e la viva, la gentilissima e la gentile, sono due impronte. L'amore è il centro del circolo alla cui circonferenza sono quei due punti, questo buono, quello men buono, l'uno qua, l'altro colà,[70] ma tutti e due alla stessa distanza [96] dal centro. Non è un amore; è l'amore; dunque il nuovo è come l'antico. Così pensa il Poeta, o a dir meglio, torna a pensare. Amore potrebbe apparir nuovamente a lui e dirgli: Ego tamquam centrum circuli... La differenza è, a quel che pare, solo in ciò che ora la gentilissima è morta e allora era viva; e ora quindi, il traviamento o smarrimento di Dante e il suo cacciare simulacra o imagini false, non è più necessario, anzi non è più concesso, figurarli come schermi o difese per salvare il segreto.

Oltre che in questa mossa, dirò così, psicologica, dell'amore centro di circolo, che era ed è; l'episodio della donna gentile si riscontra con quello della difesa già da principio nel cominciamento, dirò, esterno. In quello della difesa, Dante “era in luogo, dal quale vedea la sua beatitudine„; egli sguardava, mirava, era pieno della vista di lei. Il suo atteggiamento era di dolore, sì ch'egli si sentì dire appresso: “Vedi come la cotale donna distrugge la persona di costui„. (VN. 5) E quest'altra volta, Dante “molto stava pensoso, e con dolorosi pensamenti„, e “travagliare„ poteva chiamarsi il suo stato; e pensava e travagliava per la gentilissima. Sin qui, salvo che la gentilissima era allora visibile e ora no, è a un di presso la stessa cosa. E poi, nel primo fatto, “nel mezzo di lei e di lui, per la retta linea, sedea una gentile donna di molto piacevole aspetto, la quale lo mirava spesse volte„; nel secondo, “vide una gentile donna giovane e bella molto, la quale da una [97] finestra lo riguardava... pietosamente„. A un di presso, la stessa cosa, nel suo principio.

E la stessa cosa, nel suo seguito, se consideriamo come un fatto unico gli amori delle due donne dello schermo, dopo i quali avviene il diniego del saluto. In verità i due amori hanno un pernio unico in quell'apparizione di Amore peregrino che consiglia, cioè fa sostituire l'uno all'altro. Or bene tale sostituzione si opera col recare il cuore di Dante da una parte all'altra, da un vecchio a un novo piacere. (VN. 9, s.) E questo cuore è trasportato da Amore peregrino, meschino, a capo chino. Leggiamo ora il contrasto tra gli occhi e il cuore (s. 21) e l'altro tra l'anima e il cuore (s. 22); contrasti che sono tutti e due tra l'anima e il cuore, ossia tra la ragione e l'appetito, (38) con questo che il primo è piuttosto tra appetito ragionevole o ben diretto, e appetito irragionevole o mal diretto, e il secondo, più recisamente tra ragione cioè anima, e appetito cioè cuore. Il che è manifesto dalle parole di Dante: “In questo sonetto (s. 22) fo due parti di me... L'una parte chiamo cuore, ciò è l'appetito; l'altra chiamo anima, ciò è la ragione... Vero è che nel precedente sonetto io fo la parte del cuore (cioè propriamente della ragione) contro quella de li occhi, e ciò pare contrario di quel che io dico nel presente (in cui fa la parte della ragione o anima); e però dico, che ivi lo cuore anche intendo per lo appetito, però che maggiore desiderio era il mio ancora di ricordarmi de la gentilissima donna mia, che di vedere costei (e perciò l'appetito era guidato ancora dalla ragione), avvegna che alcuno appetito n'avessi già, (di vedere costei), ma leggero parea: onde appare che l'un [98] detto non è contrario a l'altro„. Così è: levando gli impacci scolastici, nei due sonetti Dante esprimeva il contrasto tra un amore nobilissimo e un altro non nobile, cioè vile. Si tratta anche qui d'amore malvestito che predomina su un altro vestito di bianco. E per inganno; chè sulle prime nobilissimo è detto il primo, e dal secondo è fatta “vile„ la vita. Anche quando si struggeva per l'amor di Bice, sì che pensò poi alla difesa, Dante, a giudizio di Guido, pensava vilmente![71]

Ma ecco, i drammi in simil modo impostati, si conchiudono in simil modo. Nel primo, Dante, per una “soverchievole voce che parea che l'infamasse viziosamente„ patisce il diniego del saluto della gentilissima, e gli giunge tanto dolore che si apparta dalla gente, e piange e chiede misericordia, s'addormenta e ha nella nona ora del dì la visione del giovane biancovestito. (VN. 10 e 12) Nel secondo, “contra questo avversario de la ragione si levò un die, quasi ne l'ora de la nona, una forte imaginazione in lui„. (39) Non gli appare, a dir vero. Amore biancovestito, sì la “gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne, co le quali apparve prima a li occhi suoi„. Ma perchè tale abbigliamento della prima fanciullezza, se non a dichiarare il concetto “ch'egli fu suo tostamente dalla sua puerizia„? (12) “Pareami giovane in simile etade ne la quale io primieramente sì la vidi„: dice il Poeta di lei, nella forte imaginazione. “Voglio che tu dichi certe parole per rima, nelle quali tu comprendi la forza ch'io tengo sopra te per lei, e come tu fosti suo tostamente dalla tua puerizia„: dice [99] Amore al Poeta, nella sua apparizione. E Dante dice allora quelle certe parole che si assommano nella protesta: e' non mutò 'l core! (b. 1, 24) E ora “cominciò a pensare di lei; e ricordandosi di lei secondo l'ordine del tempo passato, lo suo cuore si cominciò dolorosamente a pentère de lo desiderio, a cui vilmente s'avea lasciato possedere alquanti die contra la costanzia de la ragione: e discacciato questo cotale malvagio desiderio, sì si rivolsero tutti li suoi pensamenti a la loro gentilissima Beatrice„. E qui sospira e lagrima e incierchia gli occhi di corona di martìri. Il pentimento nel primo dramma vien prima dell'apparizione; nel secondo, vien dopo; ma è per la medesima cagione ed espresso quasi con le medesime parole: “in solinga parte andai a bagnare la terra d'amarissime lagrime, e poi che alquanto mi fue sollenato (al. sollevato) questo lagrimare, misimi nella mia camera„: (12) “per questo raccendimento de' sospiri si raccese lo sollenato (al. sollevato) lagrimare„. (39) E il pentimento è nell'un dramma e nell'altro, sebbene nel primo, per via di quell'allegorizzare di schermo e difesa, non sia espressamente dichiarato; ma il pargoletto battuto lagrima forse per ira? E, dov'è il pentimento dovendo essere anche la colpa, la colpa è nell'uno e nell'altro dramma, sebbene nel primo sia espressa, al solito, per allegoria. In esso è mostrata con i vil drappi, col sembiante di servo che ha l'amor peregrino che diede il mal consiglio; nel secondo, l'amore stesso, non personificato, ma lasciato quel ch'è, uno accidente in sustanzia, è detto “pensiero che in così vil modo vuole consolarlo„ (38), è detto “desiderio a cui sì vilmente il cuore s'avea lasciato possedere„, (39) e “per vile [100] assai„ Dante se ne teneva. (37) E se quella prima colpa era stata un consiglio d'Amore, anche questa seconda era “uno spiramento di amore„. (38) E ambedue erano “contro la costanzia della ragione„ (39), se nelle parole del giovane biancovestito, Ego tamquam centrum circuli, è incluso il concetto d'incostanza. E sì, sì. Quando il Poeta, nel primo fatto, protesta di non aver mutato il cuore, dice appunto d'essere stato costante; e dunque la colpa che gli si poteva addebitare era d'incostanza. E colpa era, perchè se allegorizzando egli poteva dire che il suo amore per le donne dello schermo era simulato amore, parlando proprio doveva dire che quelli erano simulacri d'amore, cioè false imagini di bene.

Dopo il primo pentimento, con l'intervallo di alcuni capitoli e rime, è espresso il proposito di prendere nova materia dilettevole a udire, (17) troppo alta materia quanto a lui: la “loda di quella gentilissima„, e non altro che questa. (18) Dopo il secondo pentimento, con l'intervallo pur di alcuni capitoli e rime, egli si propone “di non dire più di questa benedetta (era morta), infino a tanto che e' potesse più degnamente trattare di lei„. (42) Allora non ardia cominciare e dimorò alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare [101] o mistica per vederla; passaggio per l'inferno, con tale morte mistica, al fine di raggiungere lei, adirata, perchè l'amatore ha seguito vani simulacri d'amore, credendo seguir lei cioè il bene; visione della precorritrice, di Giovanna, della Primavera, nel luogo, forse, dell'eterna primavera; visione appresso lei della Beatrice; rimproveri d'incostanza; ascesa, forse, con lei al cielo, dove era dileguata come una nebuletta, sebben fosse ancor viva: dannati e beati, insomma, scienza e sapienza, o primavera e luce, Giovanna e Beatrice. Cominciò.

Ora, no, non comincia. Egli afferma: “di venire a ciò (di trattare più degnamente di lei, di dirne una nuova loda più degna) io studio quanto posso„. Per alquanti anni occorre che gli duri la vita. Or a questa promessa di più degno trattato o loda fa precedere un episodio che è, sostanzialmente, la ripetizione degli altri due, che ne formano un solo, dopo il quale viene il proposito della materia più alta, della loda, delle rime nove, delle canzoni con intendimento difficile e nascosto ai più e da non aprirsi a tutti, chiaro soltanto a chi ha ingegno, (19) e a chi è “in simil grado fedele d'Amore„, ossia, secondo la figurazione che farà poi di questo concetto, a chi è servo o fedele di quel signore che è lo studio e si chiama Virgilio. E se l'episodio che precede è la ripetizione di quell'antico, il proposito che segue sarà pure una ripetizione, sia quanto si voglia modificata, di quell'antico. Onde noi dobbiamo ammettere come provato ciò che si affermava prima da molti dubitando, che la MIRABIL VISIONE, nella quale Dante “vide cose, che gli fecero proporre di non dir più di quella benedetta, infino a tanto che e' non [102] potesse più degnamente trattare di lei„ è tutt'uno con la visione ch'egli fece manifesta nella grande Comedia.

E ne sèguita un corollario. La donna gentile è, molto facilmente, inventata. In vero come è probabile, se pure è possibile, che nella vita di Dante avessero luogo due fatti così simili ed uguali? Nel mezzo della sua adolescenza, ha il saluto e poi la visione d'una giovinetta, e l'ama; ma dopo qualche tempo prende per difesa un'altra donna e poi per ischermo un'altra ancora, ossia ama, d'amor non nobile, altre; e così perde il saluto di quella, e si pente, e rinunzia a tali simulacri d'amore, e si prepara a trattare la nova e più alta materia della loda. Al fine della sua adolescenza, muore la sua donna, ossia diventa più bella, anima bella, e più degna d'amore; ed egli s'innamora d'un'altra donna, e si dice perciò vile e incostante; che poi si pente e poi si prepara a più degnamente trattare della donna morta e amata. Da questo fine poetico e filosofico, è molto probabile sia stata determinata l'introduzione della donna gentile, poichè quel primo duplice episodio non poteva valer più; c'era di mezzo il primo pentimento e poi la morte vera della gentilissima. E così riprendendo, con altra forma, il medesimo concetto, e lasciando a mezzo le rime nove interrotte da quella morte, crea questo nuovo smarrimento o traviamento. E si veda con quanto identico sentimento e fine. Egli vuol trattare dell'inganno che subisce l'anima fanciulletta nella sua adolescenza, quando il tallo ha da essere “bene culto e sostenuto diritto per buona consuetudine„, se no, “poco vale la sementa„ (Co. 4, 21); dell'inganno; e così, nel primo caso è Amore stesso che consiglia e approva i simulacri o [103] false imagini, nel secondo, oh! è così pietosa la donna gentile, e si faceva d'un color pallido “quasi come d'amore„, (36) ed egli si ricordava della sua nobilissima donna “che di simile colore si mostrava tuttavia„, (VN. 36) e dicea tra sè medesimo: “E' non puote essere, che con quella pietosa donna non sia nobilissimo amore„, (35) e per quanto se ne crucciasse molte volte nel suo cuore e se ne avesse per vile assai (37), pure pensava di lei: “Questa è una donna gentile, bella, giovane e savia, e apparita forse per volontà d'Amore, acciò che la mia vita si riposi„! (36)

Un inganno anch'esso d'amore, o del cuore o dell'animo o dell'hormen o dell'appettito sensitivo. Ma la donna, che serve a Dante per preparare la favola di questo dramma filosofico, è così vana parvenza, che nel Convivio Dante la dichiara un simbolo; (Co. 2, 13) nella Comedia Beatrice non ne parla, come avrebbe dovuto, o se ne parla, non ne parla come avrebbe dovuto, in particolare; bensì, se mai, l'accomuna con le altre vanità che hanno sì breve uso. (Purg. 30, 31)

XI.
LA VITA NOVA

I due argomenti, anzi l'unico sdoppiato, sono compresi in quel libello che Dante chiamò Vita Nova. Che voglia dir vita nova, si dubita. Certo è ch'ella cominciò per Dante, e secondo lui comincia per tutti, nove anni dopo la nascita; perchè il libro della memoria [104] “dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere„, ha una rubrica appunto ai nove anni, la qual dice: Incipit vita nova. Nella Comedia egli usò altra volta queste parole, vita nova: (Pur. 30, 115)

questi fu tal nella sua vita nuova
virtualmente, ch'ogni abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.

La vita nuova sarà, dunque, quella in cui la virtualità dell'uomo può cominciare a svolgersi in abiti, destri o sinistri, buoni o cattivi.

E Dante pensa così: “Incontra che dell'umano seme e di queste virtù (la disposizione del cielo) più e men pura anima si produce; e secondo la sua purità discende in essa la vertù intellettuale possibile... E s'elli avviene che per la purità dell'anima ricevente, la intellettuale virtù sia bene astratta e assoluta da ogni ombra corporea, la divina bontà in lei multiplica, siccome in cosa sufficiente a ricevere quella: e quindi si multiplica nell'anima di questa intelligenzia, secondochè ricever può: e questo è quel seme di felicità...„ (Co. 4, 21) L'anima di Dante (dice quel terzetto) era pura e aveva ricevuta la intellettuale virtù bene astratta, e in lei la divina bontà multiplicava. Ma il medesimo concetto si esprime poi “pel modo teologico, cioè divino e spirituale„, mentre il modo sopra scritto è “naturale„. Dunque “per via teologica si può dire, che poichè la somma deità, cioè Iddio, vede apparecchiata la sua creatura a ricevere del suo beneficio, tanto largamente in quella ne mette, quanto apparecchiata è a riceverne„. (Co. ib.) Questo beneficio consiste nei doni dello Spirito Santo, che sono come una sementa, il cui [105] primo e più nobile rampollo “si è l'appetito dell'animo„; un tallo, come già riferii, che si ha a indurare e rifermare.[72] Or questo tallo s'indura e riferma in quella delle quattro età dell'uomo, la quale si può assomigliare alla primavera (ib. 23), in quell'età che è entrata nella buona vita, e ad essa entrata la buona natura dà certe cose, come “alla vite le foglie per difensione del frutto, e i vignuoli, colli quali difende e lega la sua imbecillità„ (ib. 24); in quell'età in cui “l'anima nostra intende al crescere e allo abbellire del corpo, onde molte e grandi trasmutazioni sono nella persona„ (ib.); in quell'età che si chiama adolescenza, nella quale, “dinanzi all'entrata di sua gioventute„ afferma d'aver parlato (Co. 1, 19); e che si può chiamar nova, come in latino novum si aggiunge a ver, e in volgare si dice di tutto ciò che risulta “da molte e grandi trasmutazioni„. Nova dunque questa vita, perchè è adolescenza, non, come volle alcuno, gioventù. Nella gioventù quel tallo è già adulto, e, dritto o storto, non c'è più che fare. Nella gioventù l'appetito caccia e fugge, bene o male secondo che fu bene culto nell'adolescenza, e secondo che in essa gioventù è bene o male spronato e frenato; ma un uomo, in gioventù, è quel ch'è, non virtualmente, sì effettivamente. Nella gioventù, la vita che si poteva chiamare nuova nell'adolescenza, non è più nuova, se non come son nuove certe vie e nuovi certi ponti e castelli antichi. Ma di lei non si dice. Nella gioventù è il “colmo della nostra vita„, e la “perfezione„ rispetto a noi medesimi se non rispetto agli altri. (Co. 4, 26) Insomma [106] nell'adolescenza l'uomo si va facendo, e nella gioventù è bell'e fatto. Dunque Dante dice, incipit vita nova, cioè l'età dei molti e grandi trasmutamenti; per tutti, non per lui solo. E vuole appunto nel libello trattare di ciò che avviene al tallo o del tallo, che dissi, nell'età in cui esso ha da indurarsi e rifermarsi. Il che si vede, come accennai, chiaro in quel mettere la sua visione prima quasi a metà dell'adolescenza, come poi dopo, nella Divina Comedia in cui lo argomento era ben più esteso, metteva la sua visione ultima

Nel mezzo del cammin di nostra vita.

E poi quasi a metà! chi ci dice che allora avesse le precise idee del Convivio intorno alle quattro età dell'uomo? “Diversamente„ dice nel Convivio (4, 24) “è preso il tempo da molti„, riguardo alla gioventù. E a ogni modo, sappiamo qual valore ha il quasi in certi computi di lui. “Si può comprendere per quello quasi (dice Luca che quando Gesù morì, era quasi ora sesta), che al trentacinquesimo anno di Cristo era il colmo della sua età„. (ib. 23) Aveva trentatrè anni, dunque era nel trentaquattresimo anno, dunque quasi nel trentacinquesimo, perciò nel trentacinquesimo. Questo ragionamento ci porterebbe benissimo a credere che Dante volesse intendere che a diciott'anni era proprio nel colmo dell'adolescenza. Ma non è anche probabile ch'egli allora dividesse l'età così: nove anni di puerizia, e due volte nove di adolescenza o vita nova? Non vediamo che appunto gli anni di cui si parla nella Vita Nova sono, oltre i nove della puerizia, quasi diciotto, divisi in due novene, perfetta la prima e la seconda imperfetta, [107] dal saluto e dalla visione? e che dunque forse pensava allora che l'adolescenza finisse a ventisette anni?

In vero quando fu scritto il libello?[73] Non nell'anno milletrecento, sebbene la mirabile visione che chiude il libro sia tutt'uno con la visione del Poema sacro e questa sia posta nel trecento. Non nel trecento, perchè nel Poema Dante parla a Virgilio del suo lungo studio, e siccome egli vuol intendere dello studio cominciato appunto per descrivere quella visione, non poteva essere lungo lo studio che cominciasse appunto allora. E invece egli dice che prima di cominciare la prima canzone del Convivio, aveva studiato trenta mesi. “Cominciò ad andare là ov'ella si dimostrava veracemente (la filosofia in figura di donna gentile), cioè nelle scuole de' religiosi e alle disputazioni de' filosofanti; sicchè in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciò tanto a sentire della sua dolcezza, che 'l suo amore cacciava e distruggeva ogni altro„. (Co. 2, 2) E cominciò a dire: Voi che, intendendo, il terzo ciel movete; la qual canzone essendo stata nota a Carlo Martello, (Par. 8, 36) che fu in Fiorenza nei primi del 1294, e morì l'anno dopo; fu fatta prima di quello o almeno di quest'anno, e lo studio, se cominciò due anni e mezzo prima, cominciò dunque nel 1292 o giù di lì. Ma abbiamo un altro dato di tempo. La gentil donna apparve agli occhi di Dante quando “la stella di Venere due fiate era rivolta in quello suo cerchio che la fa parere serotina e mattutina, secondo i due [108] diversi tempi, appresso lo trapassamento di quella Beatrice beata„. (Co. 2, 2) Dunque, secondo i calcoli astronomici antichi,[74] apparve poco meno che quindici mesi dopo la morte di Beatrice, cioè dopo il giugno del 1290, cioè a principio del settembre del 1291. Il cuore di Dante si lasciò possedere dal desiderio di quella donna “alquanti die„ (VN. 39); e dopo egli si pentì, e dopo ebbe la mirabile visione, e si propose di studiare. Dunque questo proposito fu alla fine del 1291 o a principio dell'anno seguente. Dante nato nel maggio del 1265, era allora nel suo anno vigesimo settimo, sebben non l'avesse compiuto, ed era vissuto quasi tre novene d'anni.

E ritorno al novennio in cui Sant'Agostino seduceva ed era sedotto.[75] Questo novennio fu tra l'anno decimonono e il vigesimo ottavo, o, come si può dire con lo stesso effetto, tra gli anni diciotto e ventisette della sua vita. E il Santo parla dell'età sua prima “che non si ricorda d'aver vissuto, e di cui credè ad altrui„. Dice: “mi rincresce d'annumerarla a questa mia vita che vivo in questo secolo... Ma ecco, io tralascio quel tempo. E che ho da far [109] io con ciò di cui non ritrovo alcuna traccia?„[76] È impossibile non ricordare “quella parte del libro de la mia memoria, dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere„; (VN. pr.) impossibile non ripensare a quest'altro passo: “però che soprastare a le passioni e atti di tanta gioventudine pare alcun parlare fabuloso, mi partirò da esse„. (VN. I) Prima di quel novennio di seduzione, il Santo giunge coi suoi studi, a un “certo libro d'un certo Cicerone„ (da chi aveva imparato Dante a parlare in questo modo “udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro etc.„? — Co. 2, 13): e legge l'Ortensio che contiene un'esortazione alla filosofia. Egli aggiunge: “Quel libro mutò il mio affetto, e mutò ver te stesso, o Signore, le mie preci, e fece diversi i miei voti e desiri. A un tratto mi si fece vile ogni vana speranza, e bramavo con fervore incredibile del cuore l'immortalità della sapienza„.[77] Ciò a diciott'anni. E a diciott'anni Dante (scrivendo quando già aveva compiuto il vigesimo sesto) pone d'essersi innamorato veramente della gentilissima che rappresentava la speranza vera, non vana, e la sapienza immortale. E come il Santo subito dopo questo suo fervore per la sapienza, è sedotto e seduce e dura a quel modo un novennio, così Dante scrive d'aver subito preso uno schermo o una difesa, cioè d'esser stato sedotto o traviato. E con tutte le vicende che nel libello sono descritte, pure abbiamo questo notevol riscontro: che dopo su per giù un novennio Dante è pentito e contrito, e ritorna all'amor di Beatrice.

[110] Nè è da tralasciare il sogno che a Monnica dà a presentire la conversione del figlio traviato: “ella vide... venir ver lei un giovane splendido, ilare e a lei sorridente, mentre ella era mesta e rifinita dal dolore„.[78] Dante s'è ispirato molto per certo alle Confessioni. Le quali, notiamo, parlano di quel Fausto, contro il quale sono i libri già ricordati.[79]

Dante scriveva la prosa della Vita Nova nel suo anno vigesimo settimo. Vedasi come questa data è congruente a ciò che si disse del disdegno di Guido. Nel trecento Dante figura di aver detto che Guido ebbe a disdegno lo studio. Non parlava egli certo di quel tanto studio, che aveva prodotto quella tanta e tale arte e scienza, quanta e quale avevano tutti e due, i dolci amici, allora, al tempo della Vita Nova e delle Rime Nove. Dante non mostra che in Guido vedesse allora alcun difetto; anzi scrive a lui il libello e segue il suo consiglio di scriverlo in volgare. (VN. 24 e 31) Quand'egli dice a Virgilio, Vagliami il lungo studio, e dice di Guido, che forse ebbe a disdegno questo Virgilio stesso, certo prescindeva da quel tempo, in cui ed esso Dante e Guido rimavano non stoltamente. Noi comprendiamo, insomma, che Dante non diceva che al suo primo amico mancasse ciò che a lui valse per scrivere la Vita Nova. Dunque ebbe a disdegno qualcosa che cominciò per l'uno e doveva cominciare per l'altro dopo la composizione di quel libello. Non però molto dopo, non però nel trecento. O come avrebbe Dante detto di sè che, in pochi giorni o in un istante diventò degno [111] di trattar di Beatrice? Dice pur esso che prevedeva gli sarebbero occorsi “alquanti anni„! Non nel trecento, perchè se nel trecento egli avesse scritto tal libello, che ha tal glorificazione del suo amico, non poteva Dante essere tanto distratto, quando scriveva la Comedia, da finger di dire in quel medesimo anno al padre di quel medesimo Guido, che l'un degli amici non poteva fare, per manco d'arte e scienza, non ostante l'altezza d'ingegno, quel che l'altro faceva.

Dante invece scriveva la Vita Nova a principio, su per giù, del 1292. Se le rime erano nate sparsamente nei quasi nove anni addietro, la prosa però è tutta d'un getto. Quando Dante si pose ad assemprare, il concetto espresso nell'ultimo paragrafo l'aveva pure in mente: non s'ha mica a credere a un “giornale„ che egli tenesse de' suoi casi d'amore! Ora la prosa fu scritta quando aveva cominciato a studiare per trattare più degnamente di Beatrice, quando leggeva Boezio e Tullio e frequentava già le scuole dei religiosi e le disputazioni dei filosofanti. Ebbene si può supporre che Guido appunto allora ebbe quel disdegno, che sette o otto anni dopo Dante racconta d'avere riferito a suo padre sepolto. Perchè si può supporre? Perchè nella prosa della Vita Nova ce n'è un chiaro cenno. Leggiamo. Dopo aver parlato del simbolo nascosto in Beatrice e Giovanna, soggiunge: “ripensando, propuosi di scrivere in rima al mio primo amico (tacendomi certe parole le quali pareano da tacere), credendo io che ancora lo suo cuore mirasse la bieltade di questa Primavera gentile„. (VN. 24) Il sonetto, in verità, tace tanto quelle certe parole, che difficilmente Guido s'avrebbe imaginato altro intendimento [112] di quel che v'appare. Ma la prosa, scritta ben più tardi del sonetto che fu scritto vivente Beatrice, la prosa dice che Guido non amava più Primavera gentile e dice che questa Primavera è detta così, perchè prima verrà, e che “lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni, lo qual precedette la verace luce„. Dichiariamo meglio questa verace luce. “La beatitudine precederà noi in Galilea, cioè nella speculazione. Galilea è tanto a dire, quanto bianchezza. Bianchezza è un colore pieno di luce corporale, più che nullo altro; e così la contemplazione è più piena di luce spirituale, che altra cosa che quaggiù sia„. (Co. 4, 22) Son parole di Dante. Chi può rimanere in dubbio che nella mente di lui, quando scriveva quel luogo della Vita Nova, Beatrice non fosse trasfigurata in questa luce spirituale della contemplazione? e che la sua precorritrice o Giovanna non significasse l'altra beatitudine che è nella vita attiva? Non forse dunque Dante afferma qui, nella prosa, che Guido non mirava più la beltà di quella che precorre la beatitudine della contemplazione, ossia quella che nella comedia è Matelda? ossia l'arte? E dice che credeva allora che ancora la mirasse; dunque dice che un tempo la mirò; e nel sonetto infatti non dà a divedere alcun dubbio, mentre nella prosa esprime che per vero Guido non la mirava più. E quelle parole sono forse un invito amichevole e discreto a riamarla e a rimirarla! In ciò dunque che della Vita Nova Dante scriveva nel 1292, egli affermava che Guido non mirava più la precorritrice della verace luce, cioè la Matelda della Comedia; e nella Comedia, riferendosi al 1300 affermava che Guido ebbe a disdegno colui che conduceva prima a Matelda [113] e poi Beatrice. Non tutto torna così?[80] Non sappiamo così il preciso momento a cui si riferisce Dante con quell'ebbe? “Ebbe a disdegno quasi nove anni fa, quand'io mi misi a studiare per trattare più degnamente di Beatrice, ossia per acquistare l'abito dell'arte; ed esso rinunziò allo studio, perchè all'arte più non mirava„. Non è in ciò la prova, sì che l'anno della composizione del libello non è il trecento, e sì che non s'ha a mettere troppo lontano dalla morte di Beatrice?

Ma c'è una difficoltà. “Dopo questa tribulazione (il pentimento del malvagio desiderio) avvenne in quel tempo che molta gente va per vedere quella imagine benedetta, la quale Gesù Cristo lasciò a noi per esempio de la sua bellissima figura...„ (VN. 40) Ebbene secondo la lezione di codici meno autorevoli, si legge: che molta gente andava; e s'induce che [114] quei peregrini andavano a Roma per il giubileo del trecento.[81] Per quanto il Villani nel narrare di tali pellegrinaggi faccia menzione della Veronica, pure dice ch'ella si mostrava “per consolazione de' cristiani pellegrini„; ma il fine precipuo loro era di accorrere a quella “somma e grande indulgenza„, quale a differenza degli altri centesimi d'anni, in cui era solo grande, fece in quell'anno Bonifazio ottavo. Se il passaggio de' peregrini era per questa somma indulgenza, non avrebbe Dante, nella prosa dichiarativa, parlato solo di ciò che si dava ai peregrini come consolazione. Egli ha parlato altrove di abituali pellegrinaggi per la Veronica (Par. 31, 103); quando gli è occorso parlare dell'affollarsi della gente nell'anno del Giubileo, l'ha detto, che era per il giubileo. (Inf. 18, 28) Ma poi, la lezione dei codici più autorevoli reca va e non andava. E pur tenendo andava, si potrebbe sempre intendere che quel tempo indichi la stagione, o che l'imperfetto sia per attrazione del verbo principale avvenne, e ciò anche se Dante scriveva in forma storica d'un fatto contemporaneo o recente. Come del resto sarebbe, se egli avesse scritto nel trecento di un fatto che nel trecento avveniva. Ma ciò che è assurdo del tutto è questo, che nell'anno del giubileo, dieci anni dopo la morte della gentilissima, il Poeta si rivolgesse a peregrini e si meravigliasse che non intendessero il dolore della città per la perdita, fatta tanto tempo prima, della “sua beatrice„. È invece possibile che il sonetto sia di data più antica, e fosse scritto [115] non dopo il pentère di Dante, ma dopo il morire di Beatrice. Vediamo che l'imagine del peregrino, la quale ebbe poi tanta efficacia sull'anima di lui esule, era presente al suo spirito sin da quando figurava Amore in abito di tali mesti viandanti. E lo studio di particolareggiare nella prosa il tempo e la meta di quei peregrini, è forse per acquistar fede a tale fantasia, ch'egli pur confessa essere fantasia in parte, in ciò che il Poeta parla ai peregrini e invece no, quelle parole le aveva dette fra sè medesimo, e aveva proposto di dire come se avesse parlato a loro, “acciò che più paresse pietoso„. La qual mezza confessione ci può portare a credere che Dante imaginasse e d'aver parlato, e d'aver veduto; e che per esprimere più pietosamente il suo dolore, fingesse di gridarlo sì ai principi della città, sì ai pellegrini che la città attraversavano, ricordandosi di quella consueta formula cives et peregrini, e ponendola a confronto con le esclamazioni del profeta. In verità la morte di Beatrice gli poneva sulle labbra le lugubri parole: Quomodo sedet sola civitas plena populo! facta est quasi vidua domina gentium! (VN. 28) E nel sonetto echeggiavano, quelle medesime:

che non piangete quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente,
come quelle persone che neente
par che 'ntendesser la sua gravitate.

Sì: ell'è quasi vidua o quasi orba:

Ell'ha perduta la sua Beatrice.

Orbene questi peregrini non sono essi coloro cui il Profeta si volgeva in quella medesima lamentazione? [116] O vos omnes qui transitis per viam, attendite.... Le quali parole Dante avea nel pensiero anche prima dell'altre. (VN. 7) E Dante leggeva nel medesimo profeta: Viae Sion lugent.... Leggeva: “Plaudirono su te tutti che passavano per la via; fischiarono e tentennarono il capo sulla figlia di Gerusalemme, dicendo: Questa è la città di perfetta bellezza, gioia di tutta la terra?„ Il pensiero di Dante può ben derivare di qui. I suoi peregrini non plaudono nè fischiano nè scrollano il capo sulle disgrazie della città di Beatrice; certo; però l'attraversano

come quelle persone che neente
par che 'ntendesser la sua gravitate...

Insomma il sonetto viene da quella medesima fonte, da cui sgorgarono le prime parole ch'egli diresse ai principi della città (quelli che erano divenuti come arieti che non trovano i pascoli)[82] in quel momento della morte; ed è ragionevole supporre, per ciò, che il sonetto sia più antico di quel che Dante ci dica; più ragionevole, a ogni modo, che credere che sia lontano di dieci anni da quell'ispirazione lugubre di dolore.

Nel principio dell'anno 1292, quand'egli aveva compiuto i ventisei anni della sua vita (il Boccaccio dice “quasi nel suo vigesimo sesto anno„ perchè nella VN. non trovava altra data che quella dell'annoale, 34, e poi alquanto tempo, 35, e alquanti die, 39, dopo la morte di Beatrice: l'annoale, un anno; l'alquanto [117] tempo e gli alquanti die, quasi), Dante uscito d'adolescenza componeva questo libello dell'adolescenza, col fine di farne un proemio a una loda della benedetta morta, loda più nuova e più degna di quella che ne aveva cominciata in vivente di lei. Quel suo primo disegno era stato troncato dalla morte della gentilissima. Egli inserì nel libello quella loda lasciata a mezzo, e con quel disegno stesso ma con maggiore ampiezza, propose di farne un'altra, di cui tutto questo libello costituisse l'antefatto. Perchè ciò fosse, Dante ripetè nella seconda parte del libello il fatto che nella prima già costituiva lo antefatto delle Rime Nove che cominciò e non finì: un inganno d'amore, che lo stornò dall'amor suo vero; un amore per donna gentile, un amore che pareva nobile ed era vile, che lo distolse dall'amore nobilissimo per la donna gentilissima. Allora questa era viva; ora non più. È morta, ma che fa, se anche in lei viva non vedeva ormai che la speranza della contemplazione e la sapienza, la quale gli occhi non possono vedere se non fuor degli strumenti loro, e la mente o l'anima non può raggiungere, se non uscendo dall'involucro pesante del corpo? Che fa, s'ella, uscita dalle sue membra, è ora di maggior bellezza e virtù che allora? Ora, dunque, il suo disegno d'allora è più semplice: non è necessario fingere la morte di tutti e due ora, come era necessario allora! Fingere, sì. E agli argomenti di tanti valentuomini,[83] che hanno voluto dimostrare che la beatrice sapienza era a principio una Bice bella e pia, e invano amata [118] in questa terra, io aggiungo questi miei. Se la gentilissima non era in origine altro che la Sapienza che va per le vie e lietamente si mostra a quelli che sono degni di lei, e si lascia vedere e trovare da quelli che l'amano e la cercano, ma non si trova e vede perfettamente se non da chi si libera del peso del corpo corruttibile; ebbene Dante non avrebbe finto o narrato veracemente un sogno o un delirio o una visione, in cui ella moriva od era morta: avrebbe finta, di donna imaginata, la morte a dirittura. Nè si dica che Dante può aver finto prima il presentimento e poi la morte. No: egli fingeva la morte della donna amata, col fine evidente di fare un poema di canzoni, nel quale egli, morendo anch'esso, lei vedeva, a lei parlava, con lei si univa nella spiritualità della morte (infelice! e chi può rimproverarti tale finzione?); ora se poi fingeva, non più solo il sogno di morte, ma la morte reale, non poteva fingerla, se non per quel fine stesso; e tuttavia quel fine come l'adempie più? dove rivede egli più, dove parla più alla morta?

La rivede e le riparla; ma non nella Vita Nova. Qui la sogna bensì, ma bambina; e poi “gli parve„ vederla; e poi nessuna parola ne ode. Qui un sospiro di lui esce dal cuore e va su, e vede, vede lei sì, una donna; e lo spirito peregrino tornando al core, parla sottile e Dante non lo intende, sebbene sappia che ricorda Beatrice; e così lo intende bene, sì. La rivedrà, le riparlerà, ne avrà i rimproveri e le lodi, ascenderà anch'esso con lei oltre quella spera che più larga gira; ma in quella mirabile visione, che per ora gli fa proporre di non dir più di lei infino a tanto che ne possa trattare più degnamente. Questa [119] ultima dichiarazione è il proprio fine del libello. Dante dice a tutti e specialmente al suo primo amico, che tutto quello ch'egli ha detto sino ad allora, è non degno, e tuttavia va ricordato per via di qualcosa di più degno che verrà. Il rimatore si farà rivedere dopo alquanti anni; per ora studia, quanto può, di venire a quel punto. “Guido„ sembra che dica “mio primo amico, ciò che dicemmo, sì, era buono, e non era stoltamente rimato, e bene a ragione era scritto in volgare; a te devo anzi, se smisi quel pensiero di trattare in latino della Sapienza che non si raggiunge se non da morti. Ma io non sono contento nemmeno di ciò che dissi in volgare. Lo stil nuovo della mia materia nuova, delle mie (e anche tue) rime nuove, non basta ancora. Io studio. E tu? Non miri più la beltà della tua Primavera gentile? non vuoi seguitare, con me, gli studi di arte e sapienza? non vuoi venir meco per la via migliore della contemplazione? Hai dunque a disdegno l'Amore?„ E poteva aggiungere: “È un tempo, questo, che l'altra via è per esserci impedita. I principi della terra non amano la giustizia!„

XII.
PER VIA NON VERA

Dante, affidato al libello, e il testimonio del suo ingegno e della sua arte di adolescente, e l'antefatto del grande suo lavoro, attendeva allo studio. A mano a mano comprendeva meglio gli autori latini; e passava [120] da un autore all'altro, da una scienza all'altra. Cercava argento e trovava oro. Passò a frequentare le scuole de' religiosi e le disputazioni de' filosofanti. In trenta mesi cominciò a sentir tanto della dolcezza del sapere, che quest'“amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero„. Lo studio insomma lo assorbiva tutto. (Co. 2, 13).

Nel frattempo, che faceva il suo primo amico? Guido era de' grandi; di quelli nobili, che per essere la spada del comune, s'erano molto insuperbiti per la vittoria di Campaldino, nel 1289, e furono molto contrariati dalla pace conchiusa poi il 12 luglio del 1293 tra le città toscane. Fu questo tempo[84] un bel tempo prima per i grandi, poi per il popolo. Dante che era stato, molto probabilmente, tra i feditori a Campaldino, che aveva certo veduto i fanti uscir patteggiati da Caprona (Inf. 21, 94); che aveva anche veduti corridori, gualdane, torneamenti, giostre nella terra Aretina: (Inf. 22, 1)

quando con trombe e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;

al suo ritorno in patria da quei pericoli che finivano in gioia, lo richiamò, se ne era straniato, ai consueti pensieri, anzi al consueto dolore, la morte della gentilissima. E se nel tempo che due fiate si volse Venere in quel suo cerchio, egli non s'era ancor messo di proposito [121] allo studio, cui alquanti dì dopo quelle due rivoluzioni si dedicò; non però dobbiamo credere che, assorto in lamentare la donna sparita, e in dipingere angeli e in piangere solingo, prendesse troppa parte e all'insuperbire degli altri grandi e all'ingiuriare e al malumore contro a' popolani e alle preoccupazioni per lo avvenire: avvenire malfido, chè già un dei loro, Giano della Bella, si faceva capo e guida del popolo contro i nobili. Quando poi nel 12 di febbraio del 1293 il popolo fu afforzato con gli ordinamenti di giustizia, Dante era da più d'un anno immerso ne' suoi autori e libri e scienze. E non si curò, vogliam credere, gran fatto di essere, con gli altri grandi, per opera di quelli ordini, escluso dalla signoria e gonfalonierato e loro collegi. Perchè la visione poetica che gli sorrideva, implicava la rinunzia alla vita attiva: era, io ripeto e ripeto, il dramma dell'anima la quale, dopo essersi appena provata per i diversi calli che le sono avanti, si mette per quello che solo mena alla sua pace. (Co. 4, 22) E questo calle non è in quella via che conduce all'imperfetta felicità della vita attiva, sì nell'altra che mena a quella quasi perfetta della contemplativa. (ib.) La “tragedia„ di canzoni che lasciò non compiuta, e che inserì nel prologo della nuova tragedia o comedia la quale egli prometteva, narrava già e doveva meglio narrare poi il viaggio per giungere alla sapienza che viventi possiamo quasi vedere per una quasi morte, quando di noi restino in vita soli gli spiriti visivi fuor degli strumenti loro; quando, cioè, noi vediamo con gli occhi chiusi. Egli raccontava già e doveva meglio raccontare le spirituali vicende d'una professione religiosa; poichè questa altro non [122] è se non l'abbandono della via del mondo per quella di Dio. E si può credere che i sentimenti che esprimeva ed era per esprimere, non fossero simulati, come d'un cantor d'amore che cantasse amore non vero. Si può credere e si deve. Notizie esatte sulla adolescenza di Dante non abbiamo; ma pur due tradizioni, quanto si vuole incerte, che riflettono quella, accennano a un proposito suo di incamminarsi verso la Galilea. (Co. 4, 22) Rammento ciò che annota FDa Buti al XVI Inferni: (106-123) “Questa corda ch'elli avea cinta significa ch'elli fu frate minore; ma non vi fece professione nel tempo della sua fanciullezza... Questa lonza, come fu posto nel primo canto, significa la lussuria, la quale l'autore si pensò di legare col voto della religione di San Francesco„. Con la qual notizia consuona ciò che racconta il Boccaccio delle riluttanze di lui a prender moglie, mentre i parenti “trovata donna giovane, quale alla sua condizione era dicevole, con quelle ragioni che più loro parvero induttive, la loro intenzione gli scoprirono. E... dopo lunga tenzone, senza mettere guari di tempo in mezzo, al ragionamento seguì l'effetto, e fu sposato„. Or queste due notizie non s'hanno a buttar via. Si consideri che il Butense è l'unico degli antichi interpreti a dichiarare a quel modo la corda: non traeva dunque la notizia dalla lettera di Dante, poichè anche gli altri ne l'avrebbero tratta; se non tutti, molti; se non molti, uno, un altro solo! E il Boccaccio ha certo interpretato a modo suo l'ostinazione di Dante a non volerne sapere, di quel conforto nuziale; ma quell'ostinazione egli non rilevava dal libello, che si vuole quasi unica sua fonte; in quel libello c'era il conforto della donna gentile, e c'era il ritorno alle [123] lagrime e ai sospiri. C'era in somma il contrario di ciò che messer Giovanni dice che Dante, bene o male, si consolò. A me pare che s'egli voleva inventare il perchè e il come del matrimonio di tale cui “era... l'amore il quale a Beatrice portava, per lo suo troppo focoso desiderio spesse volte noioso e grave a sofferire„; di tale, tuttavia, di cui “niuno sguardo, niuna parola, niuno cenno, niuno sembiante, altro che laudevole per alcuno si vide mai„[85] in quella ardentissima passione; di tale, inoltre, che raccontava nel libello una sua violenta infermità, con delirio e con rischio, e con quel nome nel cuore; mi pare che il Boccaccio avrebbe mosso, se inventava di suo, prima i parenti a stare “attenti alli suoi conforti„. Verso la Galilea, che tanto è a dire quanto bianchezza, bianchezza di luce, verso la contemplazione, mediante la quale egli avrebbe ora veduta, dopo Giovanna, la verace luce; andava l'anima di Dante, sin forse da quando era fanciullo e vedeva la fanciulla sua vicina: la vedeva senza mai udirne la voce, chi sa? perchè ell'era promessa sin da' quei primissimi anni, ed era tenuta in disparte, come già sposa, sebbene così piccola. E Dante, io imagino,[86] nè imagino per altro se non per indurne la verosimiglianza d'un amor vero per una vera fanciulla e donna; Dante, che pur la vedeva passare per la via [124] e l'aveva veduta una sola volta più da presso, in casa di lei, in una apparizione a una festa; non l'aveva sentita parlare nè allora nè mai. E s'era assuefatto a vedere in lei, piccola sposa, serbata per ciò in casa come in un monastero e quale una piccola monaca, un qualche cosa di sacro e d'intangibile e irraggiungibile se non di là della vita. E anch'esso convertiva sè in un piccolo monaco, e prendeva il suo bordone avviandosi per quella via, in cui non avrebbe mai trovata lei viva, ma lei morta, sì, avrebbe trovata quando che sia. Ed ella andò a nozze, e forse in quella festività, ella vide tra i convitati il vicino di casa Alighieri, e salutò lui non meno che gli altri; ed egli, in quel giorno se in altri mai, propose di non seguirla in quella via del mondo, per la quale ella andava a riposare in un letto nuziale; ma di aspettarla in quell'altra. E sognò di lei, ed ella era, involta in un drappo, nelle braccia d'alcuno. E che più cantò di lei, sino alla ballata del perdono? specialmente, se vogliamo escludere il nome di Bice, dal sonetto del vascello incantato?[87] Egli si provò [125] ad amare altre donne. Ma che! erano finzioni, inganni, simulacri d'amore. E tornò a lei; ma a lei già là, nella candida Galilea, trasfigurata nella luminosa sapienza e nella speranza della contemplazione di Dio. E per giungere a lei, bisognava morire al mondo, alla carne, al peccato; cercare anche quaggiù di diventare pura anima e mero spirito visivo. E quand'ella morì, sia vero o non vero che Dante dopo l'annoale della morte, si provò, come forse, ancor più tardi, con le nozze, ad amare un'altra; quand'ella fu morta, più che mai egli si propose d'andarla a vedere e a udire tenendo i piedi in quella parte della vita, di là dalla quale non si può ire più per intendimento di ritornare.

Dante, dunque, mentre s'istituiva il gonfaloniere di giustizia che inalberava la croce rossa nel campo bianco e che era cinto d'armati suoi, Dante studiava. E Guido? Gli ordini di giustizia lo cacciavano dalla vita pubblica. Esso, il filosofo amante della solitudine, poteva rassegnarsi. Eppur no, non si rassegnò: di lì a sette anni egli sarà confinato; e il confino era la conchiusione d'un periodo di lotte civili. Possiamo congetturare che appena deliberati quelli ordini, egli disegnasse quel pellegrinaggio che imprese e non compì, durante il quale Messer Corso cercò d'assassinarlo. Il fatto è che, andasse subito o poco dopo, tornò, a quel che pare, a Fiorenza senz'esser giunto a Compostella.[88] A Fiorenza lo traeva la passione [126] di parte. “Tornato a Firenze... inanimò molti giovani contro a lui (Corso), i quali li promisono esser in suo aiuto. E essendo un dì a cavallo con alcuni da casa i Cerchi, con uno dardo in mano, spronò il cavallo contro a messer Corso, credendosi esser seguito da' Cerchi, per farli trascorrere nella briga: e trascorrendo il cavallo, lanciò il dardo, il quale andò in vano„. E questo non può essere che un episodio della vita, quale noi e leggiamo e imaginiamo che condusse Guido in quelli anni, e prima che si facessero gli ordini, e poi che furono fatti, e prima che Giano si facesse capo e guida del popolo, e dopo che Giano fu bandito, coi “molti modi„ che “i potenti cittadini„ seppero trovare per abbatterlo. Guido è dipinto astratto e sdegnoso da cronisti e novellieri: è detto da Dino “uno giovane gentile... cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e intento [127] allo studio„; intento allo studio, sì; ma dallo studio frastornato certo, negli ultimi anni della sua vita, mediante le altre sue qualità di “gentile e cortese e ardito„ e partigiano appassionato. Se fosse rimasto intento allo studio, se avesse continuato a mirare “la bieltade di quella Primavera gentile„, Dante non avrebbe avuto occasione di consigliare nel trecento il suo bando, e non avrebbe, riferendosi al trecento, nel qual anno Guido moriva o si preparava a morire, detto di lui, che esso, già intento allo studio, ebbe a disdegno lo studio. Chi ben mira, nelle parole di Dante al padre legge il rimpianto che tanta altezza di ingegno avesse dato, colpa più de' tempi che di lui, così poco frutto.

Ma nel 1295, essendosi vinto che chi dei grandi volesse abilitarsi agli uffici e agli onori, potesse, togliendosi dal novero de' Grandi e iscrivendosi a una delle Arti; nel 1295 Dante si faceva popolano,[89] e nell'anno stesso, nel luglio e nel dicembre, era consulente ed elettore.

Come mai? Non abbandonava egli così la via di Dio per quella degli uomini?

Sì: lasciava la sua via. Ben di ciò lo rimprovera, in cima del monte della purgazione, Beatrice: (Pur. 30, 122)

Mostrando gli occhi giovinetti a lui,
meco il menava in dritta parte volto

Beatrice dimentica qui gli schermi e le difese; dimentica [128] che, pur da vivente, ebbe a negargli il saluto per quella “soperchievole voce, che parea che l'infamasse viziosamente„. Dimentica o, meglio, è Dante che scrivendo le dichiarazioni della Vita Nova a preparare la Comedia, ha cancellato il traviamento suo avanti la morte di Beatrice, e pur non così cancellato, che a noi non ne apparisca traccia. Insomma quel primo duplice traviamento è come non sia. Continua Beatrice:

Sì tosto come in sulla soglia fui
di mia seconda etade, e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.

“Quando fui sul mio anno vigesimo quinto e morii, questi si diede ad altri„, cioè, cominciò, almeno, col darsi alla donna gentile.

············
E volse i passi suoi per via non vera
imagini di ben seguendo false...

Qual è questa via non vera, in cui Dante entrò seguendo simulacra d'amore? Seguendo, per esempio, l'amore della donna gentile, si metteva per questa via non vera? E poichè questa via non vera era quella in che egli si mise, abbandonando, pien di sonno, la verace via (Inf. 1, 12) o la diritta via (ib. 3); domandiamo ancora: Fu per seguire, o seguendo, la donna gentile che venne a trovarsi nella selva oscura?

Sì: se avesse scritta la mirabile visione appena la vide o concepì, Dante avrebbe detto che s'era smarrito seguendo quella donna e assecondando [129] quell'amore, che gli pareva nobilissimo per un inganno dell'anima. Ma questo inganno, avrebbe detto ch'era durato poco: alquanti dì. (VN. 39) Dante non scrisse subito la visione; anzi appena l'ebbe concepita, disse che gli sarebbero occorsi alquanti anni. (VN. 42) Se Dante la Vita Nova avesse scritta nel trecento, quale preparazione prossima alla Comedia, come nella Vita Nova avrebbe scritto alquanti dì, mentre nella Comedia diceva alquanti anni? Invero egli dice che dieci anni durò la sete che egli ebbe di Beatrice; (Pur. 32, 2) e sente dire da lei, che egli si diè altrui non appena ella mutò vita; e mostra col fatto di non essere tornato a lei se non nel trecento, nove anni (poichè sino all'annoale e ancora un po' di tempo, era stato fedele), nove anni dopo essersi dato altrui. Nè, dunque, egli scrisse, anche per questa ragione, la fine della Vita Nova nel trecento; nè, nella Comedia, significa un traviamento o smarrimento durato solo alquanti dì. E non si opponga che egli può aver messo nel libello quel poco tempo così indeterminato per significarne uno tanto maggiore. Gli alquanti dì vengono dopo la designazione precisa dell'annoale: come alquanti dì dovrebbero voler significare alquanti anni, mentre un anno che ha trecensessantacinque dì significa un anno solo? E non sarebbe sfuggito al sottile indagatore del mistero del nove, che nove anni su per giù, quasi nove anni, cioè nove anni, sarebbero corsi da quell'annoale alla mirabile visione.

E poi: questa visione non era mica per essere uguale in tutto e per tutto a quella della Comedia! E appunto questa via non vera o verace o diritta della Comedia è un elemento che non ci è dato ravvisare [130] tra gli altri elementi che noi abbiamo scorti nella Vita Nova, e che abbiamo giudicato costituire sì il primo disegno di rime nuove, sì il secondo di mirabile visione. Nel fatto, quella via non vera della Comedia è anche detta il corto andare del bel colle. Cioè, non precisamente: il corto andare è la seconda parte della via non vera, di cui la prima parte è quell'errore nella selva oscura. Dante si smarrì in una valle. Vi errò una notte. Al mattino s'avviò per un colle. Mentre tornava verso la valle, l'Ombra gli apparve. Egli dice a Brunetto: (Inf. 15, 49)

Lassù di sopra in la vita serena
. . . . . mi smarri' in una valle
avanti che l'età mia fosse piena,

ossia in età che non si poteva ancora chiamare perfetta e giunta al suo colmo: non ancora in piena giovinezza; sì, quando era quasi tuttavia adolescente:

pur ier mattina le volsi le spalle:

ier mattina? Ma si ritrovò nella selva oscura

nel mezzo del cammin di nostra vita,

ossia a trentacinque anni! Sono una notte e un mattino che durarono dieci anni, dunque!

questi m'apparve, tornand'io in quella;
e riducemi a ca per questo calle.

Ora lo smarrirsi nella valle o errare nella selva, nella selva erronea, avanti che l'età sia piena, è bensì un vivere “secondo senso e non secondo ragione„, (Co. 1, 4) un mancare di discrezione (Co. 4, 8; 24), e di direzione (M. 1, 41; Pur. 16, 82), e di [131] libero volere e di lume di prudenza;[90] ma non è la medesima cosa che lasciarsi impedir dalla lonza e divenir drudo della lupa o della fuia.[91] Ebbene noi possiamo credere che nei due concepimenti che ebbe Dante adolescente, di dramma interno, smarrimento e conversione, egli avrebbe trattato, e cominciò invero a trattare, di ciò che è figurato nella selva, e non di ciò che è rappresentato nel corto andare verso il bel colle. Perchè, questo andare significa il mettersi per la via del mondo o attiva o civile, e il bel colle, simboleggia la beatitudine inferiore che si trova per quel cammino. Il bel colle rassomiglia il santo monte, come la felicità di questa vita rassomiglia alla felicità del paradiso terrestre — figuratus — . Ora qual cenno è nella Vita Nova di tal risoluzione di Dante? In essa egli dice di essere innamorato di tal donna, che è la speranza della contemplazione di Dio e la vera sapienza, la quale non si raggiunge perfettamente se non da morti, e si può veder sì, anche da vivi, pur che quasi si muoia, si esca di noi stessi, ci si liberi, per un momento, del peso della nostra mortalità. Amando lei, era in dritta parte volto, Dante. Stornandosi, e dandosi altrui, certo cessava di essere volto in dritta parte, ma tutte e due le volte, che ho detto, prima delle rime nuove e della mirabile visione, per un inganno d'amore, il quale amore, la prima volta, suggerì i simulacra, e, la seconda, esso amore per donna viva gli si mostrava simile e tutt'uno con quello che lo faceva andar piangendo per la morta. [132] Questo inganno, proprio dell'adolescenza, equivale allo smarrimento nella selva. Egli ne sarebbe uscito subito con la morte, come esce nella Comedia,[92] con la morte medesima che narra di sè anche nella Vita Nova, cioè nella seconda canzone delle Nove Rime; e avrebbe riveduta Beatrice subito. Prima di lei avrebbe veduta, forse, la precorritrice Giovanna, la Primavera che prima verrà, la Matelda, insomma, che coglie i fiori dell'eterna primavera; ma ad essa non sarebbe giunto dopo un “corto andare„, sì, come nella Comedia, dopo “altro viaggio„. Il corto andare per la piaggia diserta non poteva aver luogo in quei primi disegnati drammi dell'anima semplicetta, perchè quella piaggia non si percorre nell'adolescenza, in quell'età in cui l'uomo non può “certe cose fare senza curatore„, (Co. 4, 24) bensì in quella altra età in cui conviene frenare e spronare l'appetito, e che deve essere perciò temperata e forte. (Co. 4, 26) Nell'adolescenza tali virtù non hanno luogo, perchè non hanno luogo i vizi contrari ad esse virtù. L'adolescenza ha da avere obbedienza, sopra tutto, perchè l'adolescente, se da alcuno non gli è mostrato, non sa tenere il buon cammino. E qui rendiamoci finalmente ragione degli amori della Vita Nova; e fermiamo ben bene, che l'anima di Dante si volse bensì a quella o quell'altra donna gentile e anche ad una (la seconda dello schermo) che forse non era così gentile; ma non s'inoltrò tanto, da aver bisogno del freno della temperanza, per partirsi da qualche Didone. (Co. 4, 26) Andava l'anima dietro, bensì, a imagini false di bene, che somigliavano a [133] Beatrice; ma egli si disingannava, in un empito di pentimento, e tornava a lei.[93] Nella Comedia, invece, il Poeta racconta sì d'essersi smarrito adolescente, e pien di sonno, e sì, dopo essersi ritrovato, di aver impreso un corto andare. Il quale è parte della via non vera, che per consiglio di Virgilio, egli mutò in altro viaggio. E l'altro viaggio lo condusse a Matelda e a Beatrice; la via non vera o il corto andare, no, non l'avrebbe condotto nè all'una nè all'altra. L'avrebbe portato al bel monte, non al santo monte. E il bel monte, cui si giunge con corto andare, non è davvero il santo monte, cui si giunge con tanto aspra fatica di scendere e salire, e con tanto più tempo, e con tutt'altro viaggio. Ben lo dichiara Beatrice nell'apparirgli di là del fiume sacro, che ultimo deve passare il viatore che altri quattro ne ha passati, uno d'acqua morta, un altro di loto, un terzo di fuoco, un quarto di gelo; ben glie lo dichiara, che c'è monte e monte:

“Non sapei tu che qui è l'uom felice?

Qui, non là, dove volevi andare. E dovevi imaginare che io ero qui, nel luogo della beatitudine, perchè io sono la beatrice„. Non sapei va unito a Ben son Beatrice.

Il bel monte non è il santo monte. L'uno è la meta della vita attiva, l'altro è nel cammino della vita contemplativa. Stia certo il lettore. L'andare a quello è l'uso pratico dell'animo, mediante le [134] quattro virtù cardinali, e il giungervi è ottenere buona felicità, non però l'ottima e più eccellente e divina.[94] E il santo monte, se rassomiglia al bel monte, se non altro nell'essere monte, e perciò nel figurare una felicità, non rappresenta, no per certo, la felicità imperfetta. Vi è l'Eden, si ricordi; e nell'Eden Dio non pose l'uomo perchè avesse la felicità soltanto che viene dall'operare, sì anche quella che nasce dal contemplare. Si ricordi che Adamo ebbe “tutta l'animal perfezione„, (Par. 13, 83) non ebbe soltanto la prudenza regale, che ottenne Salomone

acciocchè re sufficiente fosse.
(ib. 96)

Adamo, cioè, nell'Eden era ugualmente atto alle due vite e felice delle due felicità, mentre Salomone, soltanto alla vita civile, soltanto della felicità buona e non ottima.[95] E nell'Eden apparisce Beatrice, e [135] nell'Eden, in cui è l'uom felice, parla di nuovo di quella via non vera, per la quale Dante si straniò da lei, per la quale Dante non sarebbe giunto a lei, al monte sacro, all'Eden, dove ella doveva apparirgli. In vero Dante mal può elevarsi alla parola di Beatrice; ed ella gli replica:

Perchè conoschi... quella scuola
c'hai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola;
e veggi vostra via dalla divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina.
(Pur. 33, 85)

E Dante soggiunge:

Non mi ricorda
ch'io straniassi me giammai da voi...

Ora quella scuola e dottrina e via, per la quale Dante si straniò da Beatrice, è la scuola, dottrina, via del mondo o civile o attiva. E questa è la via non vera, non verace, non diritta; la via che fu per una notte dentro una selva, e poi per un giorno, avanti e indietro, in una piaggia diserta infestata da fiere; eppure non si dichiara già per malvagia o peccaminosa in sè, ma solo, a questo punto, per imperfetta e inefficace, che non può seguitare la parola volante sopra l'umana veduta; e distante all'infinito da Dio, non divina,[96] non però opposta. Se vogliamo interpretare [136] subito l'episodio, diremo che Dante riconosce che la vita attiva alla quale si diede lasciando la contemplativa per cui già s'era messo, gli aveva lasciato qualche impaccio nell'intelligenza, qualche tardità, qualche offuscamento; sì che, riprendendo la sua vera via, non ci si ritrovava così facilmente. Invero Lia, che aveva veduta in sogno, non aveva più gli occhi malati, e si specchiava, ma non quanto Rachele che mai non si smaga dal suo miraglio. (Pur. 27, 103) E Matelda non assomiglia più a quella Lia, i cui occhi deboli e infermi s'interpretano come le cogitationes mortalium timidae;[97] ma tuttavia ella canta un salmo in cui sono le parole: nimis profundae factae sunt cogitationes tuae;[98] ed ella dice a Dante, segnando un divario tra sè e quella che verrà dopo:

venni presta
ad ogni tua question, tanto che basti.

Alla questione, in cui la parola di Beatrice tanto alto volava sopra la veduta di Dante, Matelda non sarebbe, per esempio, potuta bastare.

Insomma il santo monte è la beatitudine della vita attiva ma in quanto s'è disposta alla contemplativa; la beatitudine della vita attiva in sè e per sè, è l'altro monte, il bel monte, il colle al termine della valle. Se questo e quello fossero il medesimo monte, Beatrice non avrebbe detta “non vera„ la via che aveva addotto l'amatore a quel monte e a lei. Non vera ella chiamava la via per la quale [137] Dante non l'avrebbe riveduta in cima al colle, sul quale Dante, avrebbe, se mai, veduta in sogno Lia lippis oculis, Lia che non s'adornava e non si specchiava; e avrebbe trovata poi, nella realtà, una Matelda, se mai, affaticata e non lieta della sua operazione. C'è una vita attiva ch'è fine a sè stessa, e una vita attiva che conduce alla contemplazione, che purifica e dispone a veder le stelle. (Pur. 33, 145)[99]

Ma Dante insegna nel trattato de Monarchia (3, 15): Due fini ha l'uomo, secondo che è corruttibile e incorruttibile: “la beatitudine di questa vita, che consiste nell'operazione della propria virtù, ed è figurata mediante il paradiso terrestre; e la beatitudine di vita eterna, che consiste nella fruizione dell'aspetto divino; alla quale la virtù propria non può salire, se non aiutata dal lume divino; ed essa felicità si dà a intendere col paradiso celeste„. Errerebbe chi raccogliesse da queste parole che essendo il colle simbolo della beatitudine di questa vita, esso è una cosa col monte, poichè su esso è il paradiso terrestre, che figura quella medesima beatitudine. Errerebbe. Nella Comedia c'è il vero paradiso terrestre, a cui Dante giunge mediante la contemplazione: [138] vero. E in esso è la vera beatitudine di questa vita, che però in questa vita non possiamo aver più, dopo il peccato d'Adamo. Dante potrebbe in esso rimanere, pago di quella vera beatitudine? Virgilio invero lascia a lui l'elezione della seconda parte del viaggio, mentre dichiara di necessità la prima.[100] Noi rispondiamo: Virgilio esprime questo concetto: “O la vita attiva o la vita contemplativa (la qual ultima non si dà senza un esercizio di vita attiva che disponga) si può scegliere„. Ma sì: come sarebbe mancato in Dante la volontà di salire, dopo essersi fatto così leggero e nuovo? quando lì era l'anima più degna, per rapirlo seco e addottrinarlo nei misteri imperscrutabili? Dante dunque, una volta puro e disposto, non si sarebbe fermato nel paradiso terrestre. Ma s'intende che in questo discorso non si tratta d'una vera dimora; perchè Dante giunge sì al paradiso terrestre vero, ma, con la contemplazione, vi giunge! Se il monte ha il vero paradiso, cioè quella che era già e non può esser più la vera beatitudine della nostra vita in terra, il colle invece è il simbolo di essa beatitudine; è nella Comedia quel che è il paradiso terrestre nella Monarchia; simbolo esso come è simbolo quello. Ma come per contemplativi che fossero, i beati di Saturno quand'erano quaggiù, non erano in Saturno, sebben godessero una felicità che è figurabile col paradiso celeste, così gli spiriti attivi di Mercurio non trovavano, nella loro via del mondo, quaggiù il paradiso terrestre. [139] Ebbero anzi tutt'altro che quella pace, quella letizia, quell'agevolezza che è in Matelda: tutt'altro. E anzi gli spiriti attivi pur avendo in vita una beatitudine che è simboleggiata nel paradiso terrestre, il paradiso terrestre proprio non l'avrebbero in vita potuto veder mai; perchè sì il terrestre e sì il celeste non si possono vedere dai viventi se non in una estasi di contemplazione; ed essi erano attivi, non contemplativi.

Il colle non è il monte. Il colle è una figurazione simbolica, come la selva, la piaggia diserta, la notte e il mattino. Tutto in essi è accorciato e appena adombrato. Noi ci chiediamo: Se Dante fosse salito fino alla cima, che cosa sarebbe stato di lui? Possiamo rispondere solo: Avrebbe avuta la beatitudine di questa vita data all'azione; non avrebbe avuta la beatitudine di questa vita data alla contemplazione. O la beatitudine eterna l'avrebbe poi avuta? Perchè ci sono due vie, attiva e contemplativa, per giungere alla beatitudine in questa terra; beatitudine minore e maggiore, imperfetta e quasi perfetta; ma nè l'una nè l'altra sono la beatitudine perfetta, che è di là della vita, oltre la terra, nel cielo. Avrebbe Dante operato in modo da guadagnarsi la salute eterna? Chi sa? Farinata a ben fare pose l'ingegno; pure è nell'arca di fuoco. Altri che come lui furono attivi perchè loro succedesse onore e fama, sono pur beati, sebbene si mostrino in “picciola stella„. (Par. 6, 112) Ma non potè salire: dunque non era per lui quell'andare. Nella selva, nella quale arretrava, egli sarebbe stato privo di quell'“onore e fama„, che è il fine della vita attiva; sarebbe stato vile e oscuro. Perciò dice Dante [140] e ripete Beatrice che quell'andare era per via non vera.

Ma questo solo perchè Dante, come il fatto mostrò, non era per salire? perchè c'era, a' piedi del colle, la lupa che impedisce e fa arretrare nella selva? Ciò non basta perchè si dica non vera la via. Non vera, dunque, per nessuno? nemmeno per il Veltro? Diciamo che non era vera per Dante, perchè Dante era nato e fatto per un'altra vita, per l'altra. La sua traccia era stata fuor di strada, perchè il provveder divino aveva impresso la sua cera d'altro suggello, che quello; perchè la sua radice era fatta per portare altri effetti, che quelli; perchè, non attendendo al fondamento che natura pone, non era stato buono, s'era torto ad altro che a ciò a cui era volto. (Par. 8, 127) E questo gli rimprovera Beatrice, d'aver contrariato la sua natura e contrastato alla sua stella: (Pur. 30, 109)

Non pur per ovra delle rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine,
secondo che le stelle son compagne;
ma per larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor prova,
che nostre viste là non van vicine;
questi fu tal nella sua vita nuova
virtualmente, ch'ogni abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.

È accennato chiaramente che le rote magne drizzavano Dante a un fine ch'egli non perseguì. E se alcuno vuol credere che si tratti solo di bene o male, e non di “differenti uffizii„, vediamo che [141] cosa ne pensa Dante stesso. Il quale ci dice quali stelle eran “compagne„ a lui, quando e' nacque. Egli si volge ai Gemini ed esclama: (Par. 22, 112)

O gloriose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno...

E Brunetto nel vedere per qual “calle„ Dante cammina, sembra subito approvare, e dire che la sua “stella„, ora, lo guida per la sua via buona. (Inf. 15, 54) Per certo tale stella e tal lume di gran virtù, in quell'esempio duplice che Dante pone, d'uomini torti ad uffizio non loro, ossia d'un guerriero torto alla religione e d'un “da sermone„ fatto re, esempio generale e sintetico che val quanto dire “torcere alla vita contemplativa chi è nato per la attiva e viceversa„; (Par. 8, 145) tale compagnia favorevole all'ingegno, disponeva Dante più al sermone e alla religione, che ad esser re o guerriero, più alla vita di Dio che a quella del mondo. Ma c'è altro. Che vuol dire “ogni abito destro„? Ogni abito, forse, buono, virtuoso, gentile? Vuol dire: ogni abito della vita contemplativa. Destro è qui opposto, come sovente, a sinistro; agli ufici, grandi o men grandi, della sinistra cura (Par. 12, 128). Ossia della vita attiva o civile o, come altri dice, carnale, opponendola a spirituale. Così S. Bernardo afferma che nel lato sinistro della Chiesa sono significati gli uomini carnali, e nel destro, gli spirituali. Perciò (e mi limito a questa citazione) la destra è la vita spirituale o contemplativa; la sinistra è l'altra, inferiore. Così di terra cotta è il pie' destro del Veglio; e significa [142] l'autorità spirituale. (Inf. 14, 110)[101] Beatrice dunque afferma che Dante non seguì la strada che gli era tracciata, ossia la strada della contemplazione, e si mise nell'altra, in quella dell'azione, che perciò non fu vera, perchè non era per lui. Ella ha nel Poema e nel trecento qualcosa da rimproverare, che non avrebbe avuto nelle laudi che Dante cominciò a disegnar di lei nella Vita Nova. Allora ella l'avrebbe garrito per i simulacri d'amore e inganni dell'animo o cuore o appetito, e false imagini di bene. Ora può rinfacciargli anche d'aver seguitata una scuola che non era quella di lei; di non esser tornato a lei dopo quelli inganni, anzi d'essersi inoltrato per una via non vera, che non era, cioè, quella di lui. E dice:

E volse i passi suoi per via non vera
imagini di ben seguendo false;

con ciò fondendo nei primi inganni d'adolescente questa seconda più diserzione che traviamento, e facendoci intendere che questa era come effetto di quelli.

XIII.
L'ANGIOLA E LA DONNA

Intorno all'anno, in cui Dante inscrivendosi nelle arti mostrava di dedicarsi alla vita attiva o civile, [143] va posta la canzone Voi che intendendo. Che a farlo incamminare per la nuova via fosse stato di alcun momento la venuta, in Fiorenza, di Carlo Martello, mi par probabile. Questi gli dice nel Paradiso: (Par. 8, 55)

Assai m'amasti, ed avesti bene onde;
chè, s'io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde.

Le fronde sono della pianta, rispetto ai frutti, quel che la promessa è rispetto all'attendere. La natura, dice Dante, “dà alla vite le foglie per difensione del frutto„; (Co. 4, 24) sì che dell'amor di Carlo apparendo le fronde, si doveva argomentare che sarebbero venuti i frutti che elle hanno a difendere. Dante insomma ebbe ad aspettare qualche cosa, e fu di quei fiorentini cui il giovane principe d'Angiò mostrò il suo amore e di cui egli ebbe la grazia. Sembra verosimile che la venuta di quel gran re con la bella compagnia di dugento cavalieri, scotesse Dante che era stato de' feditori a Campaldino, e lo ispirasse a due cose: a far quella canzone per mandarla, forse, a lui, e a voler essere qualcosa nel governo del comune. Le quali due cose sono strettamente unite, perchè la canzone chiaramente mostra il mutamento del proposito che Dante aveva fatto di dedicarsi alla vita dei contemplanti.

Il qual proposito era figurato nell'amore per la donna ch'era a Dante “la speranza dell'eterna beatitudine„. Ebbene nella canzone egli dice che il suo desiderio di morire o excedere, cioè di andare ove era Beatrice, a' pie' di Dio, era contrastato da un amore, ch'è apparso, e fa fuggir quell'altro. Così è [144] ripreso e contradetto con medesime parole e imagini il sonetto ultimo della Vita Nova. In questo un sospiro ch'esce del cuore va su, oltre il primo mobile, cioè nel cielo empireo, che è “lo luogo di quella somma deità„. (Co. 2, 4) Il sospiro che nel sonetto è pur detto “peregrino spirito„, il Poeta spiega poi nella prosa come “penserò, nominandolo per lo nome d'alcuno suo effetto„. (VN. 41) E nella canzone è

un soave pensier, che se ne gia
molte fiate a' pie' del vostro Sire.

È proprio quel pensiero peregrino, che

giunto là dove disira,
vede una donna che riceve onore;
(S. 25)

chè anche quel della canzone

una donna glorïar vedìa;

e quello parlava, parlava sottile, di quella gentile, ricordando spesso Beatrice, e questo parlava sì dolcemente a Dante di quella donna, “d'un'Angiola che in cielo è coronata„. Ora il pensiero della Vita Nova, nella canzone

trova contraro tal, che lo distrugge.

E l'anima piange la fuga del pensiero consolatore.

Qual donna è quella il cui amore è così efficace a mutare il cuor di Dante? Non è certo una donna come le altre. Anche senza leggere il comento, noi messi nell'avviso dalle parole:

Canzone, io credo che saranno radi
color che tua ragione intendan bene,
tanto la parli faticosa e forte;

[145] arguiremmo che il verace intendimento della canzone non è quello che apparisce dalla sua forma amorosa, che è ancora d'obbligo per il Poeta. La donna va interpretata allegoricamente, cioè non è donna proprio. Ella invero, come Dante comenta; nè c'è ragione alcuna di credere ch'egli nel trattato forzi, per sue ragioni, la lettera; è la filosofia. Ora la filosofia Dante sa bene, e a lungo dichiara nel Convivio, essere amor di sapienza e di sapere. (Co. 3, 11 segg.) E in esso trattato e nelle canzoni che vi si comentano, è distinta sovente filosofia ne' suoi elementi, ma non sì da farne due persone. O meglio l'un d'essi, l'amore “ch'è parte di Filosofia„, (ib. 14) è personificato talvolta, ma in guisa, dirò, meglio metaforica che allegorica; anzi meglio filosofica che poetica. Leggasi, per esempio: “Filosofia per suggetto materiale qui ha la sapienza e per forma amore, e per composto dell'uno e dell'altro l'uso di speculazione„. (ib. 14) C'è, sì, nella prima delle canzoni conviviali “uno spiritel d'amor gentile„, e nella seconda “l'amor che... ragiona„, e “move cose„, e ha parlare che “dolcemente sona„; ma, pur menando esso all'abito dell'arte e della scienzia, non perde mai, se non per un po' di tropo quasi necessario anche a noi, la sua natura d'accidente in sustanzia e di forma di ciò di cui sapienza è materia. Questo fa vedere che Dante, pur filosofando, non ha più in mente di fare, per visione, un cammino in cui, condotto dall'amore o studio personificato, discendendo e ascendendo, riesca a veder la sapienza. Dante ha rinunziato alla mirabile visione.

E senza dubbio. Beatrice nella Vita Nova era trasformata a figurar la sapienza. Ora la sapienza [146] non è più figurata in lei, bensì, avendo in sè commisto anche l'altro elemento, cioè l'amore, in una donna che Dante omai deve chiamar “donna„. (Co. c. 1, 48) Nel tempo stesso Beatrice torna ad essere quello ch'era nella sua prima giovinezza: un'angiola. (ib. 29)

E questo nome d'intelligenza separata le è dato ora, quand'ella rappresenta qualcosa di materiale in rapporto alla spiritualità dell'altra donna; come allora, che per quanto sublimata a simbolo, era pur donna viva e vera. Questo nome d'angiola, qui e là, è una delle prove più convincenti ch'ella fu donna. Ora, ella è morta e vera; e tutto ciò che prima figurava come simbolo, è passato a questa altra. Tutte e due invero sono umili e spirano umiltà. Nella Vita Nova, Beatrice:

E sì l'umilia ch'ogni offesa oblia. (c. 1, 40)
Ogne dolcezza e ogne pensero umile
nasce nel core a chi parlar la sente. (s. 11, 9)
Ed avea seco umilità verace. (c. 2, 69)
Io divenìa nel dolor sì umile,
veggendo in lei tanta umiltà formata. (ib. 71)
d'umiltà vestuta. (s. 14, 6)
La vista sua fa ogni cosa umile. (s. 16, 9)
E sì è cosa umil, che nol si crede. (st. 14)
luce de la sua umilitate
passò li cieli. (c. 3, 21)
fu posta da l'altissimo signore
nel ciel de l'umiltate, ov'è Maria. (s. 18, 3)

Nel Convivio, della Donna gentile, che ha preso a Beatrice il posto di Sapienza, si dice:

[147]

Mira quant'ella è pietosa ed umile. (c. 1, 46)
Miri costei ch'è esemplo d'umiltate. (c. 2, 70)
quest'è colei ch'umilia ogni perverso. (c. 2, 71)

Ora questo concetto d'umiltà pertiene a ciò che le donne simboleggiano, alla sapienza, non veramente alla loro natura o parvenza umana. Umiltà e sapienza sono tra loro nella norma in cui sono tra loro superbia e ignoranza. Come Lucifero fu stolto nella superbia sua, perchè esultò in sè, così Maria fu sapiente nella sua umiltà, perchè lo spirito di lei esultò in Dio, donatore di salute;[102] e l'uno fu travolto nel luogo infimo e l'altra fu elevata su tutti i cori degli angeli. Ella è regina caeli, l'altro imperador del doloroso regno. La pacifica oriafiamma è opposta a vexilla regis inferni. (Par. 23, 128 e al. 31, 127; Inf. 34, 27 e 1) E superbia e insipienza fu anche di Eva, quando consentì al diavolo; e poi “di nuovo la sapienza empì il cuore e il corpo d'una donna, sì che noi, deformati nell'insipienza mediante una femmina, siamo riformati mediante pure una femmina alla sapienza„.[103] In verità il serpente che sedusse Eva, dicendo, Sarete come Iddii, fu conculcato da Maria che di Dio si professava ancella. Sì: Maria è l'ancilla dei (Pur. 10, 44); e “solo dell'umiltà, ella piena di tutte le virtù, credè di doversi gloriare, come quella che dice: Dio si volse a guardare l'umiltà dell'ancella sua„.[104] Eppure, anzi perciò, è la creatura [148] che invia più chiaro d'ogni altra l'occhio nel lume eterno. (Par. 33, 44)

Or come mai è tanta somiglianza sì dell'angiola e sì della donna (che ormai anche noi abbiamo a chiamar Donna) a Maria?[105]

Invero l'angiola nel sogno di Dante dorme nelle braccia d'Amore. (VN. 3) Maria è la sposa del primo Amore. Quella è gentilissima; questa è nobile più che creatura. Quella “fu distruggitrice di tutti i vizi e reina de le virtudi„. Questa è una stella che “fovet virtutes, excoquit vitia„;[106] ed è posta dal Poeta, dietro S. Bonaventura, come esempio, via via per le cornici del santo monte, delle virtù contrarie ai vizi tutti. Avanti l'angiola fuggono superbia ed ira: (VN. s. 11) Maria, come Gesù che disse, Imparate da me che sono mite e umile di cuore, ha con l'umiltà per virtù precipua la mitezza.[107] L'angiola è meraviglia che si vede nel mondo, è venuta di cielo in terra a miracol mostrare: (VN. c. 1, s. 15) Maria, per usare le parole di Dante, è “baldezza e onore dell'umana generazione„. (Co. 4, 5). Chi ha parlato all'angiola, non può finir male; e Dante nell'ultimo del suo delirio si trova il nome di Beatrice nel cuore: (VN. 23 e c. 2) “sì mi si cessò la forte fantasia entro in quello punto ch'io voleva dire, O Beatrice, benedetta sei tu...„: Maria salva i peccatori nell'ora della morte; nel nome di [149] Maria finisce la parola di chi a Dio si converte. (Pur. 5, 101) Di quelle parole a Beatrice, Dante delirando non riesce a dire che, O Beatrice; così come Buonconte, non dice che, Maria; se avesse potuto continuare, avrebbe anche questi soggiunto: ... benedetta sei tu tra le donne... Maria è mater salutis, è quella che propinò agli uomini e alle donne l'antidoto della salute, è il legno di vita che solo fu degno di portare il frutto di salute.[108] L'angiola era una gentilissima salute che salutava; nelle sue salute abitava la beatitudine dell'amatore; (VN. 11) vedeva ogni salute, chi la vedeva; (s. 16) il saluto di lei era il fine dei desideri di lui; (19) e bene a ragione perchè nel saluto era salute. Maria è madre di carità;[109] di carità nessuno ebbe più di lei;[110] di carità ell'è meridiana face. (Par. 33, 10) Quando l'angiola “apparia da alcuna parte, per la speranza de la mirabile salute neun nemico all'amatore rimanea, anzi gli giugnea una fiamma di caritade...„. Ma che? Maria è “giuso intra i mortali... di speranza fontana vivace„. E che è l'angiola se non la speranza, che i beati non hanno, come dice anche per bocca di Bernardo chiaramente Dante, e che Dio lascia in terra?[111] Dice invero Bernardo che nel cielo è ardente carità, non speranza, che è quaggiù tra quelli che hanno a morire. Maria, udite... “non sapeva ella che Gesù sarebbe morto? E senza alcun dubbio. E non sperava ella che sarebbe risorto subito? E con fede. E così ella si dolse che fosse crocifisso? E quanto! Ciò fu [150] effetto di carità, ch'ell'ebbe quanta nessun altro„.[112] Ricordate il ragionamento di Dante, sul dolore di Beatrice alla morte del genitore?[113] “Manifesto è, che questa donna fue amarissimamente piena di dolore„. E Maria, o Signore, mater tua, imo martyr tua... quam amare flebat, quam amare dolebat! Nec mirum...[114] Lo stesso problema si propongono il fedele di Beatrice e il fedele di Maria, a proposito della loro donna o domina! L'angiola è una filia, come Maria è una mater (e tuttavia ell'è figlia del suo figlio!) dolorosa. E la figlia dolorosa piange pietosamente (la parola pietà torna a ogni momento e val quanto charitas), e “sì che quale la mirasse dovrebbe morire di pietade„; e Dante piange pur non avendola veduta piangere, e le donne si maravigliano: (VN. 22 s. 12 e 13)

Lascia piangere a noi e triste andare
(e' fa peccato chi mai ne conforta),
che nel su' pianto l'udiamo parlare.
Ell'ha nel viso la pietà sì scorta...

Ricordate lo Stabat Mater? Nel passo di Dante echeggiano le parole di quella lamentazione:

Quis est homo qui non fleret?

E specialmente le parole “e' fa peccato chi mai ne conforta„, sono l'applicazione di tali altre:

[151]

Fac me tecum pie flere...
Et me tibi sociare
in planctu desidero...
Fac me tecum plangere.

È un dolore necessario e santo; consolarsene è far peccato. Or quando vediamo tanta somiglianza di dolore e di effetti di dolore, non crediamo più che sia mera formula quella con cui Dante inizia il capitolo: “sì come piacque al glorioso Sire, lo quale non negoe la morte a sè„. Nè crediamo che abbiano il solito senso umano la parola loda e lauda e laudare, così spesso adoperate a proposito di Beatrice; nè crediamo che la beatitudine di Dante la quale era “in quelle parole che lodano la donna sua„, fosse qualcosa di terreno. (VN. 18) La lauda di Beatrice somiglia alle laudi di Maria; e qual sorta di beatitudine sia nel recitare le laudi della Vergine, ognun sa.

Ma Beatrice, come nel dolore, così nella gloria assomiglia a Maria. Dante vedeva

li angeli che tornavan suso in cielo,
ed una nuvoletta avean davanti,
dopo la qual gridavan tutti: — Osanna —
e se altro avesser detto, a voi dirèlo.

Beatrice è così assunta in cielo, come Maria. E noi possiamo dichiarare quel verso, che può sembrare ad alcuno posto per la rima: “e se altro avesser detto, a voi dirèlo„. Dante vuol dire che non sonavano intorno all'assunta se non voci di gioia. Perchè potrebbe parer ragionevole, che qualche voce di pianto s'udisse dalla terra. Ma continuerò con le parole del fedele di Maria: “Meritamente risuona [152] negli eccelsi l'azion di grazie e la voce della lauda; ma noi pare che dobbiamo piuttosto plangere che plaudere... Ma cessi la nostra querela, perchè nemmen noi abbiamo qui la nostra stabile città... È degno che pur nell'esilio, anche sulle fiumane di Babilonia, noi ci ricordiamo di lei, comunichiamo delle sue gioie, partecipiamo della sua letizia... Ci ha preceduti la regina nostra, preceduti, e tanto gloriosamente fu accolta, perchè con fiducia i poveri servi seguano la Donna, gridando: Portaci dietro te!...„[115] Così Dante vuol andar con Beatrice, vuol morire, invoca la morte, e dice

guardando verso l'alto regno:
Beato, anima bella, chi ti vede.

E beato si reputò sempre, e dice a ogni tratto d'essere, per opera di quella beatrice. E Amore gli diceva lietamente nel cuore: “Pensa di benedicere lo dì che io ti presi, però che tu lo dei fare„. E a lui pareva d'avere il cuore sì lieto, che non gli pareva il suo cuore. (VN. 24). E a me vengono in mente le parole di Maria: “Magnificat anima mea Dominum. Et exsultavit spiritus meus... ex hoc beatam me dicent omnes generationes. Quia fedi mihi magna„. È Dante che benedice, ma con le parole di Maria, quel dominus che è Amore (VN. 3), per nozze che l'anima sua fece con Amore. (ib. 1)

Queste nozze per le quali l'anima “fu a lui sì tosto dispensata„, quest'amore di Dante per Beatrice, ha come l'ispirazione dalle nozze dello Spirito Santo con Maria.[116] Non c'è dubbio. Tra Maria e [153] Beatrice è amistà, oltre che somiglianza. La gentilissima sovente, si può credere, “sedea in parte ove s'udiano parole de la reina de la gloria„; (VN. 5) Maria “fue in grandissima reverenzia ne le parole di questa Beatrice beata„; (VN. 28) Beatrice era piena di “grazia„, come Maria; (VN. 26) Beatrice veduta “tra le donne„ è cagione d'ogni salute; (s. 16) Beatrice va a gloriare “sotto la 'nsegna di quella reina benedetta„; (VN. 28) sale “nel ciel de l'umiltate ov'è Maria„. (s. 18).

È simile a Maria; non è Maria. Ora se Beatrice figura anche la sapienza, che cosa sarà figurato in Maria? Una sapienza, certo, superiore a pur questa, che pure consiste nella contemplazione di Dio. In vero, nella Comedia c'è qualcuna che è migliore di Beatrice e che a lei sottentra all'ultimo, quando a Dante non resta che contemplare il più sublime dei misteri. Dante è nel cielo empireo, dove vede la candida rosa; e si volge per domandare la sua donna di cose di che la sua mente è sospesa. (Par. 31, 55). Come nella divina foresta, all'apparir di Beatrice, si volge per dire alcunchè a Virgilio, e Virgilio non c'è più; (Pur. 30, 43) così nell'empireo cielo non vede più presso a sè Beatrice. Presso a lui è il fedele di Maria, Bernardo; è il Virgilio di lassù, questo santo, che lo conduce ad aver la grazia da un'altra e maggior Beatrice, di drizzar gli occhi al primo Amore. (Par. 32, 142) Se Beatrice è la sapienza. Maria che cosa è?

Il Convivio ci ammaestra. “Filosofia è uno amoroso uso di sapienza; il quale massimamente è in Dio, perocchè in lui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto, che non può essere altrove, [154] se non in quanto da esso procede. È adunque la divina Filosofia della divina essenzia, perocchè in essa non può essere cosa alla sua essenzia aggiunta; ed è nobilissima, perocchè nobilissima essenzia è la divina, e in lui per modo perfetto e vero, quasi per eterno matrimonio: nell'altre Intelligenzie è per modo minore, quasi come druda, della quale nullo amadore prende compiuta gioia, ma nel suo aspetto contentane la sua vaghezza„. (Co. 3, 12)

Ebbene: par probabile che codesta gradazione di amoroso uso di sapienza sia nella Comedia simboleggiato in Maria e Beatrice. Invero Maria è l'unica sposa dello Spirito Santo; (Pur. 20, 97) Beatrice è l'amanza del primo amante: (Par. 4, 118) la quale espressione ricorda quella del Convivio e le equivale; poichè certo non significa ella che Dio non possiede perfettamente la sapienza simboleggiata in Beatrice, ma che essa è della sapienza divina parte minore, per noi, che quella che è simboleggiata nella sposa di Dio.

La filosofia nel Convivio è dunque forse anche Maria? Nel fatto Dante ci ammonisce che in esso trattato non sono soltanto i due sensi litterale e allegorico, ma anche il morale e l'anagogico, de' quali “talvolta... toccherà incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà„. (Co. 2, 1) Ora per questo senso spirituale per il quale una scrittura “significa delle superne cose dell'eternale gloria„, la Donna può ben significare Maria, senza contradire il trattatista che la dichiara allegoricamente per filosofia. E noi vediamo ch'ella assomiglia all'angiola della Vita Nova, in quanto questa assomiglia a Maria, e che assomiglia pure a Maria, quale è descritta [155] nella Comedia. S'è già detto ch'ella è umile come e Beatrice e Maria. Ma c'è ben altro. “Vede perfettamente ogne salute„ chi vede Beatrice “tra le donne„: (VN. s. 16) Ebbene è nel Convivio:

Chi veder vuol la salute
faccia che gli occhi d'esta donna miri.
(Co. c. 1).

Beatrice è maraviglia e miracolo: della donna del Convivio si potrà vedere

di sì alti miracoli adornezza
che tu dirai...

Sentiamo anzi ciò che l'anima dirà:

Amor, Signor verace,
ecco l'ancella tua; fa che ti piace.

È la risposta di Maria all'angelo: ecce ancilla domini: fiat mihi secundum verbum tuum. Dante pensava a Maria, nel cantare degli effetti della Donna. Così come il salutare di Beatrice nella Vita Nova è ricordo della salutazione angelica, che fece beata Maria: ex hoc beatam me dicent... Di che è sicura prova questo passo: “Quando questa gentilissima salute salutava, non che Amore fosse tal mezzo, che potesse obumbrare a me la intollerabile beatitudine, ma...„ La qual parola obumbrare è presa dal racconto di Luca evangelista: Spiritus sanctus superveniet in te et virtus Altissimi obumbrabit tibi.[117] E che si tratti del medesimo concetto, riuscirà chiaro leggendo in San [156] Bernardo: “L'ombra del Cristo ritengo sia la carne di lui, della quale fu obumbrato anche a Maria, affinchè per il suo riparo (eius obiectu) il fervore e splendore dello Spirito fosse a lei temperato„.[118] Dante traduce obiectus con “mezzo„, e rende con le parole “intollerabile beatitudine„ quel fervore e splendore soverchio che occorreva temperare. In questi ricordi non è sola associazione d'idee, ma vera riproduzione di quel dolce e misterioso dramma. L'anima è salutata dall'angelo o dall'angiola; e in ciò l'anima stessa è una specie di Maria; ma chi saluta l'anima è pure una specie di Maria, e l'Amore è lo spirito (uno spirito d'Amore, o spiritel d'amore) che sopravviene. Sapiente invero (per chiarire sì fatto intreccio mistico), sapiente, cioè come Maria, divien l'anima per il sopravvenire dell'amor della sapienza, la quale sapienza è una specie di Maria. Maria rende Maria, la sapienza rende sapiente. Così l'anima, nel Convivio, risponde, Ecce ancilla tua, a quell'Amore, a quello spirito d'Amore, che nella Vita Nova obumbra all'amatore l'intollerabile beatitudine.

E nella Vita Nova all'apparire dell'angiola, lo spirito de la vita “cominciò a tremar sì fortemente che apparia ne li menimi polsi orribilmente„; (VN. 1) e si può dire che egli non cessi mai di tremare; e Dante sarebbe già sin dal principio apparso “vile„ come sin dal primo saluto gli diceva Guido, se ciò che ho ragionato è vero;[119] e come certo apparve a sè stesso dopo la morte di Beatrice, quando temeva [157] “di non mostrare la sua vile vita„ (VN. 35); e nel Convivio la donna lo signoreggia in modo che “'l cor ne trema sì che fuori appare„; (c. 1, 22) e uno spiritel d'Amore gli dice:

Questa bella donna, che tu senti
ha trasmutata in tanto la tua vita,
che n'hai paura, sì se' fatta vile.
(c. 1, 43)

E molte sono le espressioni di lode che sono o simili o uguali tra l'angiola e la Donna. A me basti ricordare che anche della Donna il Poeta vuol dire “la loda„, (Co. c. 2, 15) e che da lei discende

un spirito gentile
ch'è creatore d'ogni pensier buono;
(ib. 64)

e che i suoi sguardi

rompon come tuono
gl'innati vizii che fanno altrui vile;
(ib. 66)

e ch'ella

è colei ch'umilia ogni perverso;
(ib. 71)

cioè, come il Poeta dichiara, “volge dolcemente chi fuori dal debito ordine è piegato„ (Co. 3, 15). Così Beatrice è reina delle virtù, distruggitrice d'ogni vizio, dolce ispiratrice di perdono.

E la Donna somiglia a Maria della Comedia. Già nel Poema Maria è chiamata Donna gentile. (Inf. 2, 94) Inoltre, sebbene non possa essere che Dante quando scriveva nella Vita Nova della “gentile donna giovane e bella molto„, (35) pensasse a [158] Maria, tuttavia si deve credere che la pietà e misericordia che nel libello le attribuisce, suggerisse poi al trattatista del Convivio il pensiero di dichiararla l'imagine della filosofia, che lo consola, come consolò Boezio che gli è autore. Or bene: queste qualità di misericordia e pietà sono certo anche in colei in cui è misericordia e pietà. (Par. 33, 19) E nella canzone prima del Convivio, dice della Filosofia:

Mira quant'ella è pietosa ed umile,
saggia e cortese nella sua grandezza,
e pensa di chiamarla donna omai.

O non ripensa queste parole il Poeta quando fa esclamare al fedele di Maria:

Donna, se' tanto grande...
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza...?
(Par. 33, 13)

Non la chiama qui Donna senz'altro? E poi “saggia„ la dice in quanto a lei chiede la suprema visione. E “umile„ l'ha detta poco prima, e “pietosa„ la afferma con due parole. E “cortese„ la proclama affermando che in lei è magnificenza.

La qual magnificenza è non la generale, ma “la spezial cortesia„. (Co. 2, 11) E giova ricordare che molto probabilmente la signora della cortesia,[120] a cui nella Vita Nova Dante chiama misericordia, è la Madonna; non Beatrice, chiamata altrove sì cortese e cortesissima, (VN. 2) ma per la sua somiglianza alla Madonna; la quale è, essa, “donna della cortesia„ come “sire della cortesia„ è Dio. [159] (VN 42) Nella grande preghiera suona: (Par. 33, 16)

La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al domandar precorre.

E noi sappiamo come ella usi nel precorrere la domanda: chiede la Grazia la quale opera nel cuore dello smarrito, infondendogli la speranza. La Donna Gentile si rivolge a Lucia che va a Beatrice. Or bene nel Convivio Dante narra: “Più da sua gentilezza, che da mia elezione, venne ch'io ad essere suo consentissi„. Ella adunque precorse. “Chè passionata di tanta misericordia si dimostrava sopra la mia vedova vita, che gli spiriti degli occhi miei a lei si fêro massimamente amici„. (Co. 2. 1) La espressione della Vita Nova è: “gli occhi miei si cominciaro a dilettare troppo di vederla„. (VN. 37) Nel Convivio riduce la vista a visione, gli occhi a spiriti degli occhi. E non ci è, naturalmente, il “troppo„. Il fatto è che la donna gentile del Convivio è mossa da misericordia, come la Donna Gentile della Comedia: si compianse. La quale a principio del Poema si compiange di lui, e alla fine gl'impetra la visione, dislegandogli ogni nube di sua mortalità. E sì, anche la donna gentile del Convivio, come ha fatta la prima cosa, fa la seconda:

Cose appariscon nello suo aspetto
che mostran de' piacer del Paradiso,
dico negli occhi e nel suo dolce riso.
(c. 2, 55)

Il che è dichiarato nel comento: “E qui si conviene sapere che gli occhi della sapienzia sono le sue dimostrazioni, colle quali si vede la verità certissimamente; [160] e 'l suo riso sono le sue persuasioni; nelle quali si dimostra la luce interiore della sapienza sotto alcuno velamento; e in queste due si sente quel piacere altissimo di beatitudine, il qual è massimo bene in Paradiso„. (Co. 3, 15) E leggiamo: (Par. 33, 40)

Gli occhi da Dio diletti e venerati
fissi nell'Orator, ne dimostraro
quanto i devoti preghi, le son grati
Indi all'eterno lume si drizzaro,
nel qual non si de' creder che s'invii
per creatura l'occhio tanto chiaro.
Ed io ch'al fine di tutti i disii
m'appropinquava, sì com'io dovea,
l'ardor del desiderio in me finii.
············
quasi tutta cessa
mia visione, ed ancor mi distilla
nel cor lo dolce che nacque da essa.

Provò Dante per certo “quel piacere altissimo di beatitudine, il qual è massimo bene in Paradiso„; e per qual mezzo? Per quelli “occhi„. Per certo Dante ciò che vide e godè in Paradiso, vide e godè sì per gli occhi di Beatrice prima, e sì per gli occhi di Maria dopo. E Beatrice che nella Vita Nova somiglia a Maria, nel Convivio è inclusa in Maria, per ciò che a Maria somigliava.

Maria è la sposa dello Spirito Santo. Maria è madre figlia del suo figlio. La Donna Gentile del Convivio, o filosofia o sapienza che dir si voglia, è in Dio “per modo perfetto e vero, quasi per eterno matrimonio„. Ella è “la bellissima e onestissima [161] figlia dello imperadore dell'universo„. (Co. 3, 12; 2, 16) Ella è “sposa dell'imperadore del cielo„. Ella è “non solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima„. Anche suora: e ciò s'intende meglio di Maria che della sapienza; poichè Maria essendo figlia di Dio e madre di Gesù, viene a essere sorella di Gesù che è figlio di Dio. E madre no? la donna gentile, cioè “nobilissima„ (Co. 4, 30) quale è colei che nobilitò l'umana natura? “la luce virtuosissima... i cui raggi fanno i fiori rinfronzire e fruttificare la verace degli uomini nobiltà?„. (Co. 4, 1) Anche madre. Ella (la sapienza) è “madre di tutto qualunque principio„ (al. di tutto madre; qualunque etc), e con lei Iddio cominciò il mondo. (Co. 3, 15) E Dante riporta i detti del libro di sapienza: “Quando Dio apparecchiava li Cieli, io era presente„. Il che, anagogicamente, si può intendere di Maria, (Par. 33, 3)

termine fisso d'eterno consiglio;

come a lei non si disdicono i versi della canzone: (2, 54, 72)

Però fu tal da eterno ordinata:
Costei pensò chi mosse l'universo.

Così nel poema ella è “lo maggior fuoco„ (Par. 23, 90); e nella canzone (2, 19):

Non vede il Sol, che tutto 'l mondo gira,
cosa tanto gentil, quanto in quell'ora
che luce nella parte ove dimora
la Donna.....

ed (ib. 33)

ella luce;

[162] e le cose che appariscono nel suo aspetto soverchiano la nostra mente (ib. 60)

come raggio di sole un fragil viso;

e (ib. 63)

sua beltà piove fiammelle di fuoco.

Nel poema Maria è (Par. 31, 134, e cfr. 32, 107, 23, 92 e al.)

una bellezza, che letizia
era negli occhi a tutti gli altri Santi;

una stella, un sole del cui splendore brillano le stelle. Così nella canzone, (2, 23) la donna gentile,

ogn'intelletto di lassù la mira.

Nel poema (Par. 23, 94)

per entro il cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona,
e cinsela, e girossi intorno ad ella.

È l'arcangelo. E nella canzone: (2, 41)

Quivi, dov'ella parla, si dechina
uno spirto dal ciel... (al. un angelo)

Per veder Dio, nel poema si dice che bisogna impetrarne grazia da quella che può aiutare. (Par. 32, 147) Nella canzone si dice e nel comento si spiega (c. 2, 51)

che il suo aspetto giova
a consentir ciò che par maraviglia.
Onde la nostra fede è aiutata.

Nessuna cosa par più maraviglia di ciò che Dante vede, per mezzo di Maria: il mistero della Trinità. [163] Infine, per non dilungarci in cento altri raffronti, Maria è Regina del cielo, e la Donna del Convivio, la filosofia cioè o la sapienza, è “eternale Imperadrice„ “che per noi drizzare, in nostra similitudine venne a noi„. (Co. 3, 15)

Così, la Donna gentile del Convivio è, anagogicamente, la Vergine madre di Gesù che è sapienza, e, allegoricamente, è la Sapientia o la filosofia; e comprende nell'un modo e nell'altro quella sapienza che nella Vita Nova è figurata in una specie di Madonna terrena, imitatrice della celeste. Dante, nel comento, dichiarò che questa sapienza era già personificata nella donna gentile e giovane e bella molto della Vita Nova; il che non è; ma a lui parve di poter essere creduto; perchè invero misericordiosa e pietosa egli aveva dipinta quella donna, come nel libro di Boezio vide poi misericordiosa la filosofia, e, nella sua religione, misericordiosa sapeva la Vergine madre. Ma, in vero, la pietà della donna gentile egli aveva finta, perchè il suo breve innamoramento fosse quel che egli voleva che fosse: un inganno fugace, dopo il quale tornò subito al suo bene. Nè può stare ciò che altri pensarono, che quell'episodio, svolto nel Convivio, figurasse un traviamento di Dante da Beatrice alla filosofia.[121] Beatrice già figurava la [164] sapienza e rassomigliava a Maria; e la donna gentile rappresenta la sapienza e filosofia, ed è anche, anagogicamente, Maria. Il mutamento è di forma, non di sostanza; anzi è nella cornice e non nel quadro. Che già con le due prime canzoni del Convivio Dante mostra d'aver mutato il proposito che aveva fatto, di narrare una visione nella quale rivedesse Beatrice che lo conducesse per la via della contemplazione. Degli studi fatti per tale visione, egli si giovava in modo diverso, celebrando sì le lodi della sapienza, ma rinunziando all'estasi o all'excessus.

Egli si era nel 1295 dedicato alla vita civile e prendeva bensì dai suoi studi, fatti per forse trenta mesi, argomenti a poetare; ma non poteva, certo, narrare un suo proposito di abbandonare la via nella quale appunto allora si era messo.

XIV.
LA PIETRA

Nel commiato della seconda canzone del Convivio, nella quale, come nella precedente, si parla di una Donna gentile che è allegoricamente la filosofia e anagogicamente la Vergine madre, si legge:

Canzone, e' par che tu parli contraro
al dir d'una sorella che tu hai;
chè questa donna, che tant'umil fai,
ella la chiama fera e disdegnosa.

[165] E il Poeta insegna alla Canzone, come scusarsi col dire che la donna non era orgogliosa, ma pareva. Nel comento così narra e ragiona: “Veramente l'ultimo Verso, che per Tornata è posto, per la litterale sposizione assai leggermente qua si può ridurre, salvo in tanto quanto dice che io lì chiamai questa donna fera e disdegnosa. Dov'è da sapere che dal principio essa Filosofia parea a me, quanto dalla parte del suo corpo (cioè sapienzia), fiera, che non mi ridea, in quanto le sue persuasioni ancora non intendea; e disdegnosa, che non mi volgea l'occhio, cioè, ch'io non potea vedere le sue dimostrazioni. E di tutto questo il difetto era dal mio lato: e per questo, e per quello che nella sentenzia litterale è dato, è manifesta l'allegoria della Tornata„. (Co. 3, 15)

Ora a noi parrà soverchio questo chiamar “fera e disdegnosa„ quella che, anagogicamente, è la Madonna. E più ci parrà, se leggiamo la ballata che, verosimilmente, è riconosciuta per la “sorella„ della canzone. Leggiamo in vero: (Ca. 6, 9)

Voi che sapete ragionar d'Amore,
udite la Ballata mia pietosa,
che parla d'una donna disdegnosa,
la qual mi ha tolto il cor per suo valore.
Tanto disdegna qualunque la mira,
che fa chinare gli occhi per paura;
che d'intorno da' suoi sempre si gira
d'ogni crudelitate una pintura.
············
Par ch'ella dica: io non sarò umile
verso d'alcun, che negli occhi mi guardi
············
[166]
Io non spero che mai per sua pietate
degnasse di guardare un poco altrui:
così è fera donna in sua beltate
questa, che sente Amor negli occhi sui.
············

Disdegnosa la Donna, la cui benignità precorre al domandare? crudele e spietata la Donna in cui è, se mai in persona, misericordia e pietà? Non umile verso d'alcuno, la Donna umile ed alta più che creatura? Qualcuno certo rigetterà subito i miei raffronti, e dirà: Non può essere; hai sognato! Eppure anche fermandoci all'allegoria, che dico? anche non andando più in là della lettera, dobbiamo trovare dello strano e del contradditorio in questo chiamar fera e disdegnosa la donna gentile che, come leggiamo nella Vita Nova, lo riguardava “sì pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta„; (VN. 35) che, come leggiamo nel Convivio, “passionata di tanta misericordia si dimostrava sopra la di lui vedova vita, che gli spiriti degli occhi suoi a lei si fero massimamente amici„. (Co. 2, 2) Ma ognun dirà che tali sono le contraddizioni dell'amore, e che nell'amore la donna oggi par buona, domani cattiva, ora dolce ora amara. E, quanto all'allegoria, ognun converrà nel ritener giusta la ragione che Dante assegna della fierezza e del disdegno, che gli mostrò alcuna volta la filosofia, sebbene a principio non fosse che una pia consolatrice. E dovrebbe anche ognuno convenire che tali composizioni polisense è malagevole condurre sì che tutti i sensi riescono al pari congruenti e condecenti. E sol che abbia data un'occhiata ai libri dei mistici, vorrà consentire... Ma [167] il consenso d'ognuno ha da venire dopo ben più difficili prove.

A questa medesima donna, o ad altra, in altre poesie fa la medesima accusa. Queste poesie sono tre canzoni: Così nel mio parlar, Amor tu vedi ben (una sestina doppia), Io son venuto; tre sestine: Al poco giorno, Amor mi mena, Gran nobiltà; un sonetto: E' non è legno. Che esse, tutte, debbano interpretarsi come allegoriche, non credo abbia opinato alcuno: in parte, sì.[122] A considerarle, in genere, come forti espressioni d'un amore ardente, sono i più condotti da un tal quale compiacimento, di vedere il mistico viatore dibattersi sotto l'impero d'una passione umanamente vera. E questi non considerano che se Dante ha pur destinata una passion di amore a figurare un concetto filosofico, egli ha nell'animo suo, o memore o consapevole, trovate le note quasi selvaggie per esprimere a quel modo quella passione. E dunque le ragioni del compiacimento rimarrebbero uguali. Ma insomma i più, dimenticando affatto Santa Teresa e San Francesco e tanti altri santi misticamente innamorati, non ammettono che queste poesie possano o debbano interpretarsi allegoricamente e anagogicamente; e perciò assegnarsi alla medesima ispirazione, che dettò le altre canzoni del Convivio.

Un'idea congiunge tra loro tutte queste poesie; un'idea di durezza e freddezza espressa con la parola “pietra„. Quest'idea le congiunge alla seconda canzone conviviale, o a dir meglio alla ballata o a quella [168] qualunque poesia, che è “sorella„ della canzone, e che chiama fera e disdegnosa la donna gentile. E tuttavia si potrebbe rimanere in dubbio, perchè rare sono le donne che a volte non sembrino fiere, e rari gli amori in cui elle non si mostrino, una volta o l'altra, disdegnose. Ma la parola “pietra„, con la quale è espressa l'idea di durezza e freddezza, e ferità e disdegno, vince quel dubbio. Ma, ciò che saprà molto agro a principio, nella parola “pietra„ queste poesie pietrose si convengono con la canzone Amor che nella mente, non tanto per ciò che la donna è là litteralmente e allegoricamente, quanto per ciò che anagogicamente significa. Sì: le poesie pietrose vanno interpretate filosoficamente, perchè “pietra„ è la Vergine Maria.

Per vero S. Bernardo, grande autore di Dante, spiega il detto di Isaia,[123] Emitte Agnum de petra deserti, così: “Taglia pietra da pietra: il santo e inviolabile sia prodotto dalla virginità santa e inviolata„. E continua: “Se pietra è Cristo, come dice l'Apostolo,[124] non è la Madre d'altro genere che il Figliuol suo, poichè anch'essa è intesa col nome di pietra„.[125] E questo nome trova l'Abate di Chiaravalle, che a Maria ben si confà. “O non rettamente è chiamata pietra colei che ver l'amore della interezza era ferma di suo proposito, salda di suo affetto, e anche per il senso stesso contro la lusinga del peccato era al tutto insensibile e pietrosa (lapidea)?„[126]

[169] Non altrimenti di tal sua donna dice Dante:

Così nel mio parlar voglio esser aspro
com'è negli atti questa bella pietra,
la quale ognora impetra
maggior durezza e più natura cruda;
e veste sua persona d'un diaspro
tal, che per lui, o perch'ella s'arretra,
non esce di faretra
saetta, che giammai la colga ignuda:
(Ca. c. 9)
nella dura pietra
che parla e sente come fosse donna.
(Ca. sest. 1)
com'una donna
che fosse fatta d'una bella pietra.
(Ca. c. 10)
la mente mia ch'è più dura che pietra
in tener forte immagine di pietra.
(Ca. c. 11)

Quest'ultima coppiola di versi (nonchè il primo passo riferito) ci mostra uno svolgimento della prima concezione. La donna è pietra (sente come una pietra) nel mostrarsi insensibile verso l'amatore, che a sua volta è pietra nell'amarla.

(Amor) m'ha serrato tra piccoli colli
più forte assai che la calcina pietra.
(Ca. sest. 1)
Ed io, che son costante più che pietra...
talchè mi giunse al core, ov'io son pietra...
sì ch'ella non mi meni col suo freddo
colà, dov'io sarò di morte freddo.
(Ca. c. 10)
(Di me) saranne quello, ch'è d'un uom di marmo,
se in pargoletta fia per cuore un marmo.
(Ca. c. 11)

[170] La qual parola, pargoletta, confrontata ai versi dolcissimi,

Io mi son pargoletta bella e nuova
············
Io fui del cielo, e tornerovvi ancora
············
Queste parole si leggon nel viso
d'un'Angioletta che c'è apparita;
(Ca. b. 8)

noi dobbiamo interpretare per vergine o verginetta. Derivato pur da questa concezione è il principio del sonetto E' non è legno:

E' non è legno di sì duri nocchi,
nè anco tanto dura alcuna pietra,
ch'esta crudel...
non vi mettesse amor co' suoi begli occhi.

Il qual pensiero già il Dionisi vedeva conforme a ciò che il Poeta dice nel Convivio (2, 1), che alberi son gli uomini che non hanno vita di scienza e d'arte, e pietre coloro “che non hanno vita ragionevole di scienza alcuna, chè sono quasi come pietre„.

Intorno a ciò, riassumo e in parte traduco qualche pagina di S. Bernardo,[127] Beato l'uomo che non solo trova, ma conserva la sapienza. Chi s'allontana dalla sapienza, una volta trovata, è segno che non ha radici da cui sia tenuto. E in che modo potrà metter radici, se non dimora? Qual pianta mai si radica, se non resta dove fu confitta? Quelli che perdon pazienza, non tarderanno a gittar la sapienza! “Or che cosa li offenda, l'ha detto avanti la scrittura, [171] quando dice: Quasi lapidis virtus probatio erit in illis. Urtarono nel sasso dell'offensione e nella pietra dello scandalo, mentre la provata virtù di quella rimproverava e ammaestrava gli insipienti, e provava le loro menti, ed essi la virtù della sapienza dicevano che era durezza di pietra, e se la prendevano con tutto, con la disciplina, col viso, col parlare, come fosser duri. Duro è, dicono, questo parlare.[128] Sia: il parlare è duro: che forse non è verace? La pietra è dura: che forse non è preziosa? E perchè la verità è a te dura, se non per la durezza del cuor tuo? Se il core ti s'ammollisse di pietà, più a te piacerebbe la saldezza della verità, che la vanità della menzogna o l'olio dell'adulazione!„

Sin qui noi vediamo come Dante, dopo aver chiamata pietra la donna che rappresenta la sapienza, dicesse di diventar pietra anch'esso, perchè nell'amarla egli era non tanto radicato come un albero quanto saldo e immobile come un sasso; e si preparasse, per un altro verso, a spiegare, comentando, come esso e il suo cuore erano veramente pietra e marmo,[129] non la sapienza pargoletta, o ancor acerba per lui.[130] Ma vediamo ora il senso anagogico, se persiste.

“Duro è, dicevano, codesto parlare, perchè per loro la prova della sapienza era come virtù di pietra; e perciò non tardarono a gettarla e a ritornarsene addietro. Nè per altra ragione riprovarono la [172] pietra preziosa ed eletta da Dio, che per ciò che la crederono dura, ed era per verità pietra il Cristo, ma per la virtù non per la durezza. Era pietra, ma tal che si poteva convertire, anzi si converse in istagni e fonti d'acque, quando trovò molli e umili i cuori dei fedeli, in cui sgorgare; chè anche cotestoro che così presto urtati da quella cotale specie di durezza, se ne andarono, avrebbero anch'essi forse bevuto, con quelli, da quella Pietra che li seguiva, avrebbero bevuto fiumi di acque vive...„ E così il mistico continua predicando felice Simon Barjona (che doveva esser chiamato Pietro), il quale volle rimaner col Cristo; e si volge ai confratelli chiamando felici anche loro, se persevereranno nella sapienza, essi “che si inscrissero nella disciplina della sapienza e nella scuola della filosofia cristiana„, per duro che sia il parlar di lei, per duro che sia ciò che ella ingiunge, per duri che siano i rimbrotti che ella fa. E conclude questo punto con parole che s'hanno a meditare, da quanti leggono le fiere imagini di spasimo e di crudeltà che Dante usa in quelle sue poesie pietrose: “Io sempre (o Signore), spererò in te, anche se tu mi ucciderai. Anzi allora spererò vie più, quando mi flagellerai, squatrerai, brucerai, ucciderai ciò che viveva in me„.

Si parla del Cristo, e non di Maria, qui; ma come il Cristo è pietra, così è pietra Maria: petra de petra. Ricordiamo. E ricordiamo che S. Bernardo è nel futuro paradiso, per Dante, quel che Virgilio nell'inferno: il Virgilio che lo adduce a quella maggior Beatrice, che è la Vergine madre. Ricordiamo che le sue opere sono per Dante come un'Eneide mistica.

[173] Scendere a dichiarare minutamente le canzoni pietrose, non giova. Ognun può farlo. E d'altra parte alcune d'esse meritano uno studio preventivo, per istabilirne l'autenticità. Per esempio, delle tre sestine, due mi paiono apocrife, per la ragione appunto che il buon Fraticelli assegna della loro autenticità. Egli dice, e riferisco la sue parole, singolarmente chiare: “Nell'una e nelle altre va il Poeta trattando l'argomento medesimo, ch'è quello non tanto di parlare d'una donna bella, giovine e gentile, la quale vestita a verde, ed aventesi in testa una ghirlanda d'erba, gira danzando per piani e per colli; quanto di far lamento della di lei durezza e insensibilità, protestando il Poeta, che il suo amore non sarà mai per venir meno (ricordiamo l'ultimo passo di S. Bernardo!), ed esprimendo la sua speranza di riuscire alla perfine ad aver gioia e piacere di lei. Se l'una pertanto è, com'è di fatto, opera dell'Alighieri, debbono esser pure le altre due...„ Appunto per questo, le altre due è difficile siano dell'Alighieri, che non si ripeteva e non si trastullava.

Ma consideriamo la prima d'esse, che è certamente dell'Alighieri. (VE. 2, 10; 13) In essa, come nelle altre, le parole finali sono: ombra, colli, erba, verde, pietra, donna. Di queste parole le prime cinque hanno, rispetto alla Donna per eccellenza, cioè a Maria, un alto senso mistico. Ombra vedemmo già[131] come possa riferirsi a Maria. L'ombra, di cui la virtù dell'altissimo circuì Maria, è, secondo S. Bernardo, la carne stessa del Cristo, la quale, col suo mezzo, temperò il fervore e lo splendore dello Spirito. [174] Ma leggiamo ancora nei libri del fedel di Maria: “L'ombra di lui (del Cristo) è la carne di lui; l'ombra di lui è la fede. A Maria fece ombra la carne del proprio figlio; a me, la fede del Signore. Sebbene, anche a me come non fa ombra quella carne, poichè in mistero io la mangio? E santa come è, la Vergine tuttavia provò anch'essa l'ombra della fede, poichè le fu detto: beata che credesti!„[132]

I colli hanno anch'essi un valore mistico rispetto alla Vergine Deipara. È notevole che S. Bernardo lo dichiari in uno di questi sermoni sui Cantici. I monti e i colli che lo Sposo salta per giungere alla terra, sono secondo l'abate di Chiaravalle, gli spiriti celesti, maggiori e minori, che Dio passò per esinanirsi (secondo l'espressione di S. Paolo) e ricever la forma di servo, e farsi simile agli uomini, ed essere trovato, nel portamento, come uomo.[133] Nella poesia di Dante, anche questa volta invece del Cristo sarebbe Maria, invece dello sposo la sposa: il che si spiega troppo bene, dovendo le canzoni letteralmente essere d'amore. L'erba e il verde traducono l'espressione virgae virorem che è pure in S. Bernardo, a proposito della nota profezia di Isaia: Uscirà un rampollo (virga) dalla radica di Iesse, e dalla sua radica un fiore salirà. Ora così si esprime S. Bernardo, e mi faccio da un po' lontano, perchè torna in volta l'ombra di prima, la quale così si trova anche nell'autor di Dante poco separata dal verde e dall'erba. “Buona e desiderabile è l'ombra [175] sotto l'ali di Gesù, dove è sicuro rifugio ai fuggenti, grato refrigerio agli stanchi. Pietà di me, Signore Gesù; pietà di me; poichè in te confida l'anima mia, e nell'ombra dell'ali tue spererò, finchè non trapassi l'iniquità. Nondimeno in cotesta testimonianza di Isaia intendi per fiore il figlio, per germoglio (o ramicello: virgam), la madre; poichè il germoglio fiorì senza seme (absque germine), e la Vergine concepì non da un uomo. Nè la emission del fiore offese la verdezza del germoglio (virgae virorem), nè la produzione del sacro parto offese il pudore della Vergine„.[134] Della pietra ho già parlato; qui giova aggiungere che, come nel passo riferito più su di S. Bernardo, anche in questa sestina abbiamo la pietra in due sensi, di pietra dura e fredda, e di pietra virtuosa e preziosa. Chè in vero oltre la pietra dura, insensibile e non mossa dal tepore primaverile e stretta tra la calcina, e vai dicendo, è anche la pietra che ha virtù nascosta:

Le sue bellezze han più virtù, che pietra.

Possiamo aggiungere che altre imagini della sestina, come “il bianchir de' colli„, che tornano poi “di bianco in verde„, e la “neve all'ombra„, trovano riscontro in caratteri mistici della Vergine. Invero: “quanto lucido avorio era quello che piacque agli occhi di Re sì grande e ricco, ne' cui iorni l'argento non è di alcun pregio! quanto freddo, che non si scaldò nè per il concepimento! quanto solido, cui nè il parto violò! quanto candido insieme e rubicondo, [176] cui il candore della luce eterna e il fuoco dello Spirito santo riempì di tutta la pienezza sua! Invero Maria anch'essa fu e più candida della neve e più rubiconda dell'avorio antico...„ Quasi quasi mi pare che il Poeta dando alle sue donne chiome così bionde, segua e corregga qui il suo autore. Nella sestina dice:

Quand'ella ha in testa una ghirlanda d'erba
trae dalla mente nostra ogni altra donna;
perchè si meschia il crespo giallo e 'l verde
sì bel, ch'Amor vi viene a stare all'ombra.

E nella canzone Così nel mio parlar, ha:

biondi capegli
ch'Amor per consumarmi increspa e dora.

Se Dante avesse comentate allegoricamente e anagogicamente queste poesie, certo in parole e imagini, che a noi sembrano insignificanti e comuni, avrebbe rivelato a noi intenzioni non sospettate. Ma come avrebbe dichiarate certe eruzioni di passione così carnale e accesa, quali troviamo qua e là in tutte? Anagogicamente, io dico, non le avrebbe dichiarate. In fatti nelle tre che comenta, dopo aver detto che il senso anagogico c'è, lo tace però quasi del tutto, appagandosi dell'allegorico, oltre il letterale. Non avrebbe aperto il senso anagogico; ma questo pur c'è, non ostante la crudezza di certe parole e di certi pensieri. Di che occorre agl'immemori lettori fornire alcuna prova.

Rileggiamo la stanza più terribile della canzone più aspra.

[177]

Così vedess'io lui fender per mezzo
lo core alla crudele che 'l mio squatra;
poi non mi sarebbe atra
la morte, ov'io per sua bellezza corro;
chè tanto dà nel sol, quanto nel rezzo
questa scherana micidiale e latra.
Oimè! perchè non latra
per me, com'io per lei nel caldo borro?
che tosto griderei: io vi soccorro;
e fare' volentier, siccome quegli,
che ne' biondi capegli,
ch'Amor per consumarmi increspa e dora,
metterei mano e sazieremi allora.
S'io avessi le bionde treccie prese...

A tutti sembrerà impossibile che queste parole siano dirette alla Vergine. Impossibile, sì: invero sono l'espressione d'un amor terreno che deve, allegoricamente, figurare l'amore per la sapienza o la filosofia che non si lascia amare dall'ardente amatore, la qual sapienza o filosofia è, anagogicamente, la Madonna. Non son dunque propriamente dirette a lei, tali parole. E tuttavia udite: “O donna, che rapisci (si può dir, rubi) i cuori degli uomini con la dolcezza, non rapisti (o rubasti) tu, donna, il cuor mio? Dove di grazia l'hai messo, che io possa trovarlo? O rapitrice (rubatrice, latra) di cuori (quella scherana di che è micidiale e di che è latra, se non del cuore di Dante?), o rapitrice di cuori, quando mi renderai il mio cuore? Perchè così rapisci?(rubi) i cuori dei semplici? Perchè fai violenza agli amici tuoi? che lo vuoi sempre tener con te?„ Basta colorire un poco le parole, e qui avremmo presso a poco la stanza di Dante. Ma leggiamo ancora: “Quando te lo chiedo (il mio cuore), tu mi sorridi, [178] e subito addormentato dalla tua dolcezza mi cheto. Quando tornato in me, lo chiedo ancora, mi abbracci, o dolcissima, e subito io m'inebrio dell'amor tuo: allora il cuor mio non discerno dal tuo, nè so chiedere altro che il tuo„. Qual è questa donna? chi a lei parla con tanto languor di dolcezza? La donna è Maria; e chi le parla, è il suo fedel Bernardo.[135]

Sia questo, ripeto, per esempio.

E ripeto che il senso anagogico è più là o più su dell'allegorico. Non maraviglia perciò che nell'ardente figurazione del litterale, si perdesse di udita quell'eco, che ne aveva a risonare tanto lungi, senza arrivar mai alle orecchie del volgo.

XV.
RECTITUDO

Nella via non vera, per lui, si mise il Poeta nel 1295. Durante l'equinozio di primavera del trecento, fingerà poi d'essersi smarrito e ritrovato in una selva. Poichè la notte era uguale, in quella stagione, al dì, ed egli uscì della selva al principio del mattino, e quella notte e quel dì figurano dieci anni della vita di Dante; noi possiamo credere ch'egli, pareggiando i tempi, intendesse d'assegnare cinque anni, dal 1290, tosto che Beatrice mutò vita, al 1295, [179] quand'egli si diede alla vita civile, cioè riprese via per la piaggia diserta, alla notte e alla oscurità; e cinque anni, “dal principio del mattino„ all'ora in cui “lo giorno se ne andava„, al corto andare. Conosceva egli il verso Virgiliano delle Georgiche nel quale si dividono l'ore tra il sonno e il giorno?[136] Non mi par difficile, essendochè il concetto, espresso in quel primo canto, che il mondo fu creato di primavera, poteva egli averlo imparato mediante citazione, se non altro, delle Georgiche, le quali lo contengono;[137] e con quella poteva essere questa altra citazione dell'equinozio che le è legata.

Sappiamo della vita pubblica di Dante in quei cinque anni, qualche cosa: per esempio: il 6 luglio del novantacinque fu consulente nella riforma degli Ordini di giustizia; il 14 dicembre dell'anno medesimo, partecipava all'elezione bimestrale de' Priori;[138] il 3 giugno dell'anno seguente era dei cento, e parlò; il 7 maggio del novantanove andò ambasciatore a S. Gimignano;[139] nel trecento dal 15 giugno al 15 agosto fu dei Priori. L'elezione non fu senza grande contrasto tra Cerchieschi e Donateschi. Egli scriveva poi, secondo la testimonianza di Lionardo Aretino, “tutti i mali e inconvenienti suoi dalli infausti comizi del suo priorato aver avuto cagione e principio„. Nel fatto, non molto più d'un anno dopo, [180] nel 27 gennaio del 1302, era accusato e condannato in contumacia da Cante de' Gabrielli; e il 10 marzo di quell'anno, era destinato al rogo. Per quanto il colmo, per dir così, della vita politica di Dante sia dopo l'equinozio vernale del trecento, pure nella Comedia egli assegna al marzo di quell'anno la fine di quella breve favola. La lupa, in quel mese e in quel torno, (Inf. 1, 60)

lo ripingeva là dove il sol tace.

Dalla notizia conservataci dall'Aretino, comprendiamo perchè, nel tempo stesso che altre ragioni per certo v'erano per Dante, di porre la sua visione nel trecento, questo fatto, che la fine della sua vita pubblica non avvenne in quell'anno, non contrastasse. Le altre ragioni quali possono essere? Era l'anno del giubileo, e una visione di spirituale purificazione ben era adatta a quell'anno di perdono. Eppur non è questa la ragione precipua, se pure è tra le ragioni: il giubileo, nella Comedia, si ricorda una volta per descriverci nell'inferno due schiere di peccatori più e meno ignobili e meno e più sfacciati; (Inf. 18, 28) un'altra volta, per poter introdurre un soavissimo episodio, d'un appena giunto nel mondo di là sul vasello snelleto e leggiero, e che là canta la canzone “Amor che nella mente mi ragiona„. La qual canzone è lode della filosofia e lauda di Maria, e bene risuona nel lido del mare, in quel mattino luminoso, alle radici del monte santo della purificazione, sacro alla madre purissima. Ma certo dell'anno santo sarebbe presente in ogni parte del Poema l'idea, se nel pensiero di Dante ell'era stata [181] precipua.[140] Anche l'altra ragione di sceglier l'anno centesimo, che fu quella di partire a mezzo la seconda età del Poeta, ossia la giovinezza, e tutta la sua vita, non appare poi, sebbene si scorga sin dal primo verso, così forte. Coi rimproveri di Beatrice ci sembra che si sarebbe adattata meglio un'età più giovanile, più prossima all'età delle false imagini di bene, un'età in cui la barba non fosse troppo dura e lunga. A mettere la visione in quell'anno, determinando ch'era l'equinozio di primavera, e riassumendo allegoricamente dieci anni di vita in una notte e in un dì, facendo cominciare la notte col sonno, cioè con la sera, quando l'aer bruno toglie i viventi dalle loro fatiche, e terminare con l'ora in cui la luce lambisce ancora a pena le cime dei monti, e curando con tanta diligenza che il dì sia ben marcato, dal principio del mattino all'andar del giorno; a ciò fu indotto principalmente il Poeta da questa simmetria che vedeva veramente nei dieci anni della vita trascorsa dopo la morte di Beatrice; che furono tagliati in due parti uguali, di cinque anni l'una, dal consiglio ch'ei prese di dedicarsi alla vita civile. La qual vita civile era, se non di fatto, almeno potenzialmente, finita con la sventura, con la persecuzione, con l'esilio, nei comizi infausti del trecento. A questa norma, i primi cinque anni dei quali un anno e più era stato di dolore, e trenta mesi, di studio, furono [182] dichiarati tutti, da tosto che Beatrice fu partita, di smarrimento e di sonno.

Se la lupa lo ripingeva verso la selva delle tenebre e della viltà nell'anno trecento (e ciò fu virtualmente, non realmente), la lonza lo impediva “dal principio del mattino„, “quasi al cominciar dell'erta„. Dante fu “per ritornar più volte volto„. (Inf. I 29) Questo impedimento dunque sarebbe venuto al principio di quel giorno di cinque anni, intorno al tempo in cui Dante era entrato nella vita civile. Poichè in quel volgersi più volte per ritornare, è da intendere che Dante non fu vittorioso della carne, se non dopo alcuna battaglia perduta, noi dobbiamo credere ch'egli dica che intorno al 1295 e poco più oltre egli ebbe a cedere alle tentazioni di ciò che la lonza simboleggia, dell'incontinenza carnale. E in vero con Forese egli condusse una vita che è grave memorare; (Pur. 23, 115) e della quale restano a testimoni i tre noti sonetti. Quando ciò? Prima del 1296 nel qual anno “Bicci novel„ moriva; dopo il 1295, nel qual anno Dante si dedicava alla vita civile, se da quella vita, Dante dice nel purgatorio a Forese, (23, 118)

mi volse costui
che mi va innanzi;

ossia Virgilio, che lo volse non già dalla vita viziosa, ma dalla via del mondo, per fargli fare altro viaggio per la via di Deo. Chè Dante non vuol veramente dire che Virgilio lo tolse a suoi disordini: della lonza era stato vincitore, e della lupa stava per diventar vittima; vittima sì, non già drudo! Ma pur qui non [183] dice che lo tolse alla via del mondo; bensì che lo sottrasse dal tornar nella selva oscura, dove sarebbe stato quel che era prima d'uscirne, senza virtù e senza vizio. Dunque non confessa alcun vizio di gola o d'altro, ma, come vedremo, uno stato di “miseria„. Soltanto, nel tempo in cui si metteva nella via del mondo, egli ebbe a patire degli stimoli della carne e a vivere con alcuna libertà; di che presto riuscì a bene, prendendo la lonza, non più forse, ora, con la corda con cui altra volta aveva creduto di poterla prendere, (Inf. 16, 106) ma, più che probabilmente, col matrimonio. E così continuò il suo cammino, essendo aiutato dalla sua temperanza e fortezza a fuggire sì la carnalità e sì l'accidia che ne nasce. Chè la lonza è l'una e perciò l'altra[141]. Ma sorvenne la violenza, la quale, anch'essa forse, non avrebbe avuto il potere di respingerlo, se non era la frode, nella quale si fuse la violenza. Invero egli fu vittima del paciaro che viene senz'arme e giostra con la lancia di Giuda. (Pur. 20, 73) Egli fu vittima d'un papa non solo simoniaco e usurpatore e in varii modi fraudolento (Inf. 19, 52; 27, 98; Par. 27, 22 etc.), ma anche violento, se faceva del cimiterio di S. Pietro una cloaca non solo di puzza, come è alcuna bolgia della frode, ma anche di sangue, come è la riviera dei predoni e tiranni. (Par. 27, 25).

Vincitore dell'incontinenza, sereno ed alacre, dice di sè il Poeta, che saliva e sarebbe salito. Le altre due virtù della vita attiva, cioè, oltre la temperanza e fortezza, la prudenza e la giustizia, dice di sè il Poeta, che le aveva, poichè uscì dalla selva e fu [184] minacciato e tratto a mal partito, non sedotto, dall'ingiustizia, cioè dal leone e dalla lupa. Tra i giusti che Ciacco vede in Fiorenza, fossero essi due soli oppur due o tre, come a dire pochi, Dante metteva al certo sè medesimo, e si dichiarava immune di quell'incendio maligno che è acceso dalle tre faville, superbia, invidia e avarizia; di quell'incendio che è l'ingiustizia.[142] E sebbene e' facesse una strada che non era la sua, e perciò non era vera o verace o dritta, come quella che era stata intrapresa dopo l'oblìo di Beatrice, cioè della sapienza che si trova soltanto per quell'altra via; nondimeno non si può dire che agli studi avesse rinunziato al tutto. Egli aveva, intorno al cominciare della vita attiva, significato l'abbandono della contemplativa, mettendosi come sotto la protezione della filosofia che è anche la Regina Coeli. Ciò con le due canzoni Voi che intendendo e Amor che nella mente; di cui la prima era nota a Carlo Martello morto nel 1295, e l'altra, a Casella che forse le diede la nota, e che morì nel tempo del giubileo. Altra canzone, che non c'è difficoltà di assegnare a tempo precedente l'anno centesimo, è quella che comincia: Le dolci rime; ossia la terza del Convivio. C'è anzi così qualche ragione in favore, come nessuna contra.

La canzone ha uno stretto legame con le due precedenti.

Le dolci rime d'Amor, ch'io solïa
cercar ne' miei pensieri,
convien ch'io lasci.

In secondo luogo, essa vuol riprovare un “giudicio [185] falso e vile„, che è presumibile fosse, in quei tempi avanti il trecento, pronunziato contro il Poeta medesimo. Invero, o nobile o popolano che fosse di schiatta, Dante iscrivendosi nelle arti poteva sentirsi rimproverare, anche da chi fu suo primo amico, di non essere nobile o non essere più. Ma prescindendo anche dalla sua persona, è ben certo che a quei tempi nessun discorso doveva essere più frequente e vivo di questo intorno alla nobiltà, in quella Fiorenza che nel 1293 faceva gli ordini di giustizia contro i Grandi, nel 1295 li riformava, e via via non quetò per il malumore e il discordare di essi grandi o nobili. In tale aria ambiente è verosimile che Dante esponesse il suo pensiero, che la nobiltà consiste non nella ricchezza redata, con bei costumi o senz'essi, ma nelle virtù convenienti a ogni età dell'uomo.

Questa canzone è “contra gli erranti„; ed è fatta per riprovare un giudicio falso; e ha quindi, non più per soggetto l'amore o Venus, sì la direzion della volontà o rectitudo o Salus (VE. 2, 2). Ma meglio considerando si troverà che pure trattando un de' magnalia, ed essendo diretta alla utilità, cioè alla salute, non ha per soggetto propriamente la direzion della volontà, se non in modo proemiale. Essa dice infatti: “Chi è nobile o non vile? Chi ha virtù. E che è virtù? Un abito eligente. Nell'elezione ha luogo la volontà. Virtù significa aver la volontà educata a scegliere, tra due contrari, il mezzo che è bene„. Dunque della direzion della volontà è per trattare trattando della o delle virtù. E questo, che la nobiltà stia nella virtù, non è che il proemio al trattato della rettitudine. E questa considerazione aiuta anch'ella a porre il componimento proemiale al tempo in cui [186] Dante tuttora dormiva in Firenze agnello nemico ai lupi.

E qui giova ricordare l'epistola che Dante scrisse ai principi della terra dopo la morte di Beatrice. Quest'epistola, la quale è più che verosimile contenesse precetti di rettitudine e significasse lo sparire dalla terra di quella sapienza, confondeva la sapienza che è speranza della contemplazione di Dio, con quella che è prudenza regale o senno.[143] Ora non le confonde più. Ora dice di deporre il soave stile che ha tenuto “nel trattar d'amore„; ora tratta di salute, che è termine generico in cui è compreso gentilezza e nobiltà (v. 106); ora proemia a un trattato di rettitudine nella via del mondo. Sì; perchè le virtù alle quali accenna qui, e delle quali vuol trattare poi, come si vede dal fatto, che ne trattò veramente, sono virtù di quelle che stanno nel mezzo a due contrari, cioè sono virtù morali, nelle quali consiste la vita attiva.

In verità Dante continuò questo trattato di rettitudine in canzoni, questo codice poetico di vita attiva, quest'illustrazione in istile tragico delle virtù morali. Notevole è che le canzoni dovevano essere quattordici. Con le tre già nominate, che sono tra tutte e tre un grande proemio, mostrando la prima l'abbandono del disegno primo di visione, la seconda avendo le lodi della donna che deve presiedere al trattato, la terza contenendo il fine a cui è destinato il libro. Le altre canzoni dovevano essere, dunque, undici. Ora undici appunto sono le virtù dell'Etica: Fortezza, Temperanza, Magnificenza, Magnanimità, [187] Amativa d'onore, Mansuetudine, Liberalità, Affabilità, Verità, Eutrapelia, Giustizia. (Co. 4, 17) Se determinò questo numero, quando scrisse il primo trattato; (Co. 1, 12; 8) certo, almeno quando lo scriveva, pensava a coteste undici virtù. Ammettiamo in vero che esso trattato sia stato scritto dopo i tre seguenti, e soli compiuti.[144] Egli aveva innanzi sè, da cominciare piuttosto che da compiere, la parte sostanziale del suo libro, e questa doveva consistere d'undici canzoni e trattati. Ciò non esclude ch'egli avrebbe potuto mutare; e che qualcosa già mutasse, è manifesto anche di qui. Invero delle canzoni che è verosimile fossero fatte per il Convivio, e che a noi sono pervenute, è una, Doglia mi reca, che riguarda la liberalità. Ella è contro uno dei vizi collaterali di essa; non però trascura l'altro, poichè dicendo (85 seg.)

come con dismisura si raguna
così con dismisura si distringe,

accenna che si deve pure ragunare e distringere con misura, e quindi riprova chi non raguna e non distringe affatto. Inveisce il Poeta specialmente, anzi, se si vuole, esclusivamente contro gli avari e l'avarizia, ma tien fermo il concetto che la virtù di liberalità, come le altre morali, è un abito eligente, e che il vizio o i vizi contrari sono dismisura. E il comento avrebbe certo contenuto molto di più di quel che la canzone. È dunque intonata alla canzone [188] della nobiltà, in cui definiscesi la virtù. E dunque si fa, per questa, probabile che veramente Dante volesse in undici canzoni trattare delle undici virtù. Sì; ma essa doveva essere l'ultima. Dice infatti il Poeta: “Per che sì caro costa quello che si prega, non intendo qui ragionare, perchè sufficientemente si ragionerà nell'ultimo trattato di questo libro„. (Co. 1, 8) L'ultima, invece, delle virtù nell'enumerazione che Dante trae dall'Etica, è la giustizia. Possiamo dunque dire che non avrebbe seguito quell'ordine; invero dice egli stesso che le virtù morali “diversamente da diversi Filosofi sono distinte e numerate„. (Co. 4, 18) Ed egli stesso le distingue nella Canzone Amor che nella mente, ed enumera nel comento, diversamente, sebbene dica: “dove aperse la bocca la divina sentenzia d'Aristotile, da lasciare mi pare ogni altrui sentenzia„. (ib. 17) e sebbene, col prestabilire a undici le canzoni, abbia mostrato di volere quella divina sentenzia seguire. Ma nella detta canzone e nel detto trattato pur così distingue e numera, se non le virtù, le “cose necessarie„ almeno, alle singole età: alla adolescenza, obbedienza, soavità, vergogna, adornezza corporale; (Co. 4, 24) alla gioventù, lealtà, cortesia, amore, fortezza e temperanza; (ib. 26) alla senetta, prudenza cioè saviezza (senno), giustizia, larghezza, affabilità. (ib. 27) Altra volta a fortezza fa uguale magnanimità: “questo sprone si chiama fortezza ovvero magnanimità, la qual vertute mostra lo loco ove è da fermarsi e da pungare„. (ib. 26) Da tutto ciò si vede, primo, che pur mantenendo alle virtù il numero aristotelico di undici, egli si sarebbe governato liberamente, col fonderne almeno una (la magnanimità) in un'altra, e con introdurre se [189] non virtù nuove, almeno nuovi nomi. Per es. la leggiadria.

Di essa tratta nella canzone, Poscia ch'amor del tutto m'ha lasciato, il cui principio consuona col cominciamento della canzone, Le dolci rime.

Si parla, in quella, di tali che gittano via i loro averi, che intendono a conviti e a lussuria e ad ornarsi; e che ridono sempre e parlano troppo per piacere, e fanno gli arguti e i popolari, e non trattano con donne gentili e savie. Si dice che per aver leggiadria, bisogna che sollazzo si unisca con amore. Si conchiude che leggiadro è l'uomo che, nel dare e ricevere, non si duole, anzi “in ciò diletto tragge„, a somiglianza del sole che illumina le stelle e ne è illuminato; l'uomo che non s'adira per parole che oda, che non dice parole che offendano altrui; che si cura dei savi e de' selvaggi no; non si inorgoglisce e pur non tien nascosto il suo pensiero. Se cerchiamo tra le undici virtù di Aristotile, qual sia quella che si convenga con questa, troviamo che può essere l'affabilità “la quale fa noi ben convivere cogli altri„, e può essere l'eutrapelia “la quale modera noi nelli sollazzi, facendoci quelli usare debitamente„. (Co. 4, 17) Ma, prima per il chiaro raffronto dell'espressione della Canzone, Sollazzo è che convene con esso Amore, e la frase citata, poi per una ragione che si vedrà, sembra piuttosto, la leggiadra canzone, tradurre in leggiadria nostrana l'eutrapelia aristotelica.

Della temperanza avrebbe discorso nel trattato settimo, ossia nella canzone terza dopo le tre proemiali, mentre nell'ordine aristotelico delle virtù ella è la seconda. Enea sarebbe stato il modello. “Quanto [190] raffrenare fu quello, quando (Enea) avendo ricevuto da Dido tanto di piacere, quanto di sotto nel settimo Trattato si dirà; e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partì; per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto dell'Eneida è scritto!„ (Co. 4, 26) La giustizia sarebbe stata l'argomento della penultima canzone. “Di questa virtù innanzi dirò più pienamente nel quattordecimo Trattato„. (Co. 1, 12) “Di Giustizia nel penultimo trattato di questo libro si tratterà„. (Co. 4, 27) Tale canzone sembra ci resti, e sarebbe quella che comincia Tre donne intorno al cor mi son venute, la quale per le difficoltà allegoriche ond'è avviluppata, è naturale che porgesse occasione a ragionare della forma allegorica. Poichè Dante dice anche: “Perchè questo nascondimento fosse trovato per li savii, nel penultimo Trattato si mostrerà„. In essa canzone, quella delle tre donne che è madre e ava delle altre due, si chiama Drittura; delle altre due non è detto il nome. E così, ritenendo che l'eutrapelia entri nella canzone Poscia ch'amor, non vi si legge però quel nome, nè si legge il nome di liberalità nella canzone, Doglia mi reca.

Ne deduciamo che tenendo il numero di undici, Dante nascondeva per altro, in suo modo faticoso e forte, la congruenza delle virtù sue con quelle dell'Etica. E così non ci meraviglieremo che anche in un'altra, la quale possiamo attribuire al Convivio, quella che comincia, Io sento sì d'amor la gran possanza, sia, per esempio, la virtù che è chiamata Amativa d'onore. Si tratta in essa d'un amore non dei soliti:

[191]

Ben è verace amor quel che m'ha preso
e ben mi stringe forte
quand'io farei quel ch'io dico per lui:
chè nullo amore è di cotanto peso,
quanto è quel che la morte
face piacer, per ben servir altrui.

Questo amore, per cui s'affronta la morte, nacque dal dì che vide prima quella donna gentile, e d'allora è servo e non si duole, e tutta la mercede che spera, è far bene, e non pensa a sè, amando, ma ad accrescere il bene e l'onore di lei. È un amore ben disinteressato!

Altri ch'Amor non mi potea far tale,
ch'io fossi degnamente
cosa di quella che non s'innamora,
ma stassi come donna, a cui non cale
dell'amorosa mente,
che senza lei non può passare un'ora.

Non ne vuol nulla, l'amatore; e quanto più la guarda, più la trova bella. E tra una verità che ha scoperta e un'altra che deve ancora scoprire, è uno stato di martiro e di dolcezza. Si parla della soave necessità della scienza, la quale di null'altro compensa l'amante, che d'onore. E in un verso Dante rivela il suo pensiero con due parole quasi messe a caso:

Amor di tanto onor m'ha fatto degno.

Viene in mente il passo centrale del Paradiso; il passo, cioè, del canto di mezzo, decimosettimo, che ha avanti sè e dopo sè un pari numero di canti: sedici. In quel passo Dante chiede alla cara pianta sua notizie e consigli intorno alla ventura o fortuna [192] che a lui è per toccare, e di cui aveva già intese parole gravi e a cui egli già si sentiva tetragono. Invero delle due eterne rivali, la sapienza e la fortuna, la sapienza egli amava; sì che ella, in sembiante di Beatrice, poteva dir di lui: “L'amico mio e non della ventura„.[145] E Cacciaguida gli rivela le contingenze future: l'esilio, lo stento, l'avversione pur dei compagni, la fiera solitudine, e anche il benevolo accoglimento degli Scaligeri e la misteriosa aspettazione di Cane, e l'infuturarsi della vita di Dante via più là che la pena che i nemici di lui avranno della lor frode. (Par. 17, 37) E Dante mostra un po' di dubbio su quel che gli può accadere di male, per suoi carmi, che, liberamente espressi, possono privarlo d'ogni asilo, e di altra parte, egli dice: (ib. 118)

s'io al vero son timido amico
temo di perder vita tra coloro
che questo tempo chiameranno antico.

Allora il tritavolo lo conforta a far manifesta la sua visione, checchè debba accadergli: sia il suo grido come il vento, che più percuote le cime più alte; (ib. 135)

e ciò non fia d'onor poco argomento.

Prima ch'egli si ponesse al poema sacro, lo studio e l'imitazione di Virgilio, la cui Eneide era il poema allegorico per eccellenza, l'aveva fornito di quel bello stile che gli aveva fatto onore. La Comedia ch'egli per due cantiche aveva composta in compagnia e [193] quasi a dettatura dell'autore della alta tragedia, doveva, a suo giudizio, fargli ben altro onore, come fa dire al suo progenitore martire! E onore cercava col Convivio, volendo egli fuggire ciò per cui “ciascuno profeta è meno onorato nella sua patria„, ossia le macchie che la presenza discopre. (Co. 1, 4) E nella canzone citata egli proclama che l'amor della sapienza gli fa piacer la morte; perchè? Perchè quella morte non è tale da far perder vita tra gli avveniri. E in altra canzone, che non si può dubitare fosse per appartenere all'amoroso Convivio, nella canzone Tre donne, ossia della giustizia, egli esclama, con parole degne del colloquio tra la fronda e la sua radice:

Ed io che ascolto nel parlar divino
consolarsi e dolersi
così alti dispersi,
l'esilio che m'è dato onor mi tegno;
e se giudizio, o forza di destino,
vuol pur che il mondo versi
i bianchi fiori in persi,
cader tra' buoni è pur di lode degno.

Questi argomenti meditava o già svolgeva Dante prima dell'anno infausto e in quell'anno medesimo e dopo. La canzone dell'Amativa d'onore porremmo volentieri in quel tempo, nel quale, come Dante fa dire a Cacciaguida, già si cercava l'esilio di lui. (Par. 17, 49)

Questo si vuole e questo già si cerca,

nella curia papale. La canzone della giustizia, è naturalmente, di Dante esule, che facendo tali opere di stile tragico non pensava certo d'esprimere duplicatamente i medesimi concetti nella Comedia.

[194] E gli argomenti appartenevano, come egli stesso era poi per dichiarare, alla vita attiva. Infatti era per domandare: “Poichè la felicità della vita contemplativa è più eccellente che quella dell'attiva, e l'una e l'altra possa essere e sia frutto e fine di nobiltà, perchè non anzi si procedette per la via delle vertù intellettuali, che delle morali?„ (Co. 4, 17) Qual che sia a questo punto la sua risposta, noi crederemmo meglio che la ragione fosse nel fatto che egli andava per questa nuova via pratica, e voleva, come altrove dice, “gridare alla gente che per mal cammino andavano, acciocchè per diritto calle si dirizzassono„, voleva “per tostana via... medicina ordinare, acciocchè tostana fosse la sanitade, la quale corrotta, a così laida morte si correa„. (Co. 4, 1) E ciò, come, e precipuamente, per il falso concetto di nobiltà, che era intorno al trecento in Fiorenza il vero veleno della vita pubblica, così per gli altri errori. E voleva rivolgersi a tutte le età, dichiarando via via le virtù loro convenienti. (Co. 4, 23 sgg.) E in ciò è da riconoscere la ragione per cui la liberalità o larghezza è così fuor del posto che le assegnò Aristotile, e si trova all'ultimo; perchè ella è virtù propria della senetta, la quale per il contrario è afflitta dall'uno dei vizi collaterali: dal mal tenere; mentre il mal dare difficilmente in lei si ritrova. E così poco o punto se ne ragiona nella canzone: il che conferma che la canzone era destinata ai vecchi. E così dei vecchi ha da essere la giustizia, che è la penultima canzone.

E così possiamo ora dire che leggiadria è traduzione piuttosto d'eutrapelia, che d'affabilità, perchè, essendo ella virtù giovanile, meglio si conviene con [195] le doti che Dante ascrive all'adolescenza (obbedienza, soavità, vergogna, adornezza corporale — Co. 4, 24) e alla giovinezza (temperanza, fortezza, amor dei maggiori e minori, cortesia, lealtà — ib. 26), nel mentre l'affabilità è detta virtù della senetta. E per conchiudere con un'ipotesi che può condurre altri a disegnare un assai razionale ordinamento del Convivio, io suppongo che sola Dante avesse fusa una virtù in un'altra: la magnanimità nella fortezza, dandone anzi alcunchè all'Amativa d'onore, poichè e questa e quella hanno molto di comune; essendo la magnanimità “moderatrice e acquistatrice de' grandi onori e fama„; essendo l'Amativa d'onore “moderatrice che ordina noi agli onori di questo mondo„. (Co. 4, 17) E ricordo, per l'altra parte: “questo sprone si chiama fortezza, ovvero magnanimità„. (ib. 26) Ridotte le virtù a dieci, numero perfetto, suppongo che Dante se avesse continuato l'amoroso Convivio, avrebbe trattato, prima che di queste dieci, della Prudenza, di cui parla così: “Bene si pone Prudenza, cioè Senno, per molti essere morale vertù; ma Aristotile dinumera quella intra le intellettuali, avvegnachè essa sia conducitrice delle morali vertù, e mostri la via per che elle si compongono...„ La canzone che avrebbe avuto a essere quarta di tutto il Convivio, prima di quelle di rettitudine, seguìta da dieci virtù morali che con essa lei avrebbero formato il classico numero di quelle dell'Etica, suppongo dunque che avrebbe trattato della Prudenza e addimostrato in che modo si compongono le virtù seguenti. E con la supposizione, metto avanti un mio sospetto: che interrompendo il Convivio, Dante all'ultimo trattato affidasse molte idee destinate da [196] prima ai Trattati che dovevano seguire. Esso è infatti quasi il doppio, per estensione, del precedente, e più del doppio dei due primi. Probabilmente i tre trattati sulle tre canzoni, che aveva già composti nel 1309, quando morì re Carlo secondo, il quale è accennato come vivo, (Co. 4, 6) e prima ch'egli avesse sentore dell'elezione d'Arrigo di Lucimburgo, (ib. 4, 3) giudicò sufficiente al suo fine di mostrare il suo valore; e scrisse intorno al 1310, quando la sua giovinezza andava trapassando, secondo le sue teoriche, ed era, secondo la verità, trapassata, il proemio col quale l'opera si presentava assai organica e compiuta.

Nè certo in tutto questo tempo, dal trecento al trecento dieci pensava più alla mirabile visione. Il pane ch'egli imbandiva agli uomini non era il pane degli angeli: era qualche briciola caduta dalla mensa alla quale si era voluto sedere e ora non sedeva più. E sè non dimenticava, e per i miseri erranti alcuna cosa riservava. (Co. 1, 1)

XVI.
LEGNO SENZA VELA

Di questo nuovo decennio della sua vita, l'anno centesimo e il seguente distolsero certo il Poeta da ogni utile studio. Poi dal gennaio del trecentodue egli cominciò a errare per l'Italia, sulle prime, come è verosimile, ansioso per troppo corte speranze, poi afflitto dalla dolorosa povertà che lo faceva, secondo il suo sentimento, vile apparire agli occhi di quelli [197] a cui nel suo peregrinare e quasi mendicare si presentava. Dopo qualche anno egli si diede a mettere insieme un libro, con l'intendimento professato di rialzar sè stesso in faccia a “quasi a tutti gl'Italici„, e accennato pietosamente di tornare, “con buona pace„ di Fiorenza, a “riposare l'animo stanco e terminare il tempo che gli era dato„ nel dolcissimo seno della sua patria. (Co. 1, 3) Egli parla di sè, come d'uomo che “per alcuna fama„ potesse essere da quelli a cui andava “per le parti quasi tutte, alle quali questa lingua si stende„, imaginato in altra forma, che quella d'un peregrino mendico. E questa alcuna fama era per certo procacciata, oltre che dagli uffizi esercitati nella sua patria, come priore e ambasciatore, e da ciò che, nei primi tempi dell'esilio, aveva operato con gli altri esuli e solo; anche e specialmente, come si scorge dall'accenno alla lingua, dalle sue rime. Di che abbiamo testimonianza nella divulgazione così rapida della sua canzone Donne che avete,[146] e del suo libello di Vita Nova, come scorgiamo dallo studio con cui ora egli ne parla. Egli scusa col fatto che “certi costumi sono idonei e laudabili a una etade, che sono sconci e biasimevoli ad altra„, il fervore e la passione di quell'operetta. (Co. 1, 1) Ed è notevole che non mette innanzi per la Vita Nova l'interpretazione allegorica, che le sarebbe stata ben più valevole scusa. Ma egli crede che infamia gli sarebbe venuta, se gl'italici avessero creduto a quella tanta passione che era nelle canzoni scritte dopo la Vita Nova, nè solo perchè composte [198] in altra età che quella in cui tanta passione è scusabile, ma perchè contradicevano al grande e poetico amore per l'angiola. È manifesto che la fama sua e il consenso degli animi egli vedeva causati da quelle rime così ardenti e pure; e che credeva, se non vedeva, che le altre rime d'amore che aveva composte o veniva componendo, non si lasciassero ammirare ed amare, perchè trovavano i cuori preoccupati dall'imagine e quasi dall'amore di quell'angiola giovanissima. Così succede: succede che e la prima e più fresca e ingenua opera d'un autore sia guardata con gelosa cura dall'animo del lettore; e la figura ideale, che da essa vien fuori, sia amata dal lettore come fu amata dall'autore; così che quello non consente così facilmente a questo di fare ingiuria all'amore che ormai è di tutti e due. E così Dante non intende alla Vita Nova “in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella„. Invero togliendo alla giovane salutatrice ogni veste simbolica, fa a grado dei lettori che in quelle soavi e ardenti espressioni sentivano un amor vero, e non fa torto a sè, perchè a quell'età era laudabile anche il fervore e la passione; e lasciando (se non forse, ad alcuna, anche mettendo) codesta loro veste alle canzoni venute dopo, toglie ogni infamia a sè, che, già perfetto e maturo, si perdesse in fantasie amorose, e riesce caro ai lettori, cui l'infedeltà a Beatrice non era cara. E perciò vuol cancellare anche l'episodio della donna pietosa, dichiarandola, contro ogni verità, un simbolo di sapienza e di filosofia anche nel libello.

La sua fama di poeta e di scrittore non su altro si fondava allora che sulle rime della Vita Nova e [199] su alcune altre che parevano contradire a quelle e forse contradicevano.

Non su altro; che egli non avrebbe lasciato di accennare a quant'altro avesse fatto o fosse per fare, come ricorda la Vita Nova e promette il libro di eloquenza. (Co. 1, 5) Specialmente se aveva già compiuta alcuna parte della Comedia, ne avrebbe parlato. Che dico? S'egli la avesse avuta solo ancora in mente, solo per allora come ombra, non avrebbe per certissimo trasposta nella Donna Gentile tutta l'essenza simbolica di Beatrice, se doveva poi nella Comedia rimettere, se già rimetteva anzi, la donna gentile tra le imagini false di bene, e faceva di Beatrice una Donna del cielo strettamente congiunta, mediante Lucia, a quell'altra più alta Donna del cielo. La quale doveva chiamare pur Donna Gentile, che riusciva così quella stessa del Convivio e tutt'altro che quella della Vita Nova. Nè si dica che il Poeta affermando, nel Trattato, che della “viva Beatrice beata„ non intende più parlare “in questo libro„ cioè nel Convivio, prometta in tal guisa un altro libro, nel quale sia per parlarne. A ogni modo, questo non sarebbe la Comedia, nella quale è, sì, Beatrice viva della sua vita immortale, ma tale che manda e si mostra a Dante vivo, sebben morto di morte mistica; mentre in quel capitolo del Convivio esso Poeta non si aspetta di riveder Beatrice, se non passando veramente ad altra vita migliore. (Co. 2, 9) Nello scrivere il Convivio, è mosso da timore d'infamia; d'infamia “di tanta passione avere seguita„. Come, scrivendo ciò, poteva avere in mente la Comedia in cui confessasse di aver seguita veramente quella tanta passione? Come poteva pensare alla [200] Comedia, in cui “quella tanta passione„ si riducesse a un inganno dell'animo? E a scrivere il Convivio, era anche mosso dal desiderio di dottrina dare. Come poteva egli aver cominciata o non avere già rifiutata quella Comedia, in cui era per mettere tanta dottrina? E pietosamente e rimessamente parla del suo bando: “Poichè fu piacere de' cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gettarmi fuori del suo dolcissimo seno (nel quale nato e nudrito fui fino al colmo della mia vita, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto il cuore di riposare l'animo stanco e terminare il tempo che m'è dato), per le parti quasi tutte, alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato...„. (Co. 1, 3) Tra le canzoni ch'egli è per imbandire col pane orzato del suo comento, è, come ho detto, forse quella che dice:

l'esilio che m'è dato onor mi tegno.

Comunque il pane avesse menomato l'agro sapore della vivanda, noi vediamo che Dante, che desidera ardentemente il ritorno, non l'avrebbe implorato con viltà. Avrebbe adoperato come nella Comedia, la quale, piena di aspre contumelie alla patria e ai cittadini, contiene pure, molto in là, quasi come conchiusione personale, la speranza che il poema sacro vinca la crudeltà dei suoi banditori. (Par. 25, 1) Il medesimo fine, diremo, pratico, perseguì Dante coi medesimi mezzi, in vita sua, e con la medesima libertà di sentire e parlare. Ora può essere che avesse a mano i due mezzi nel tempo stesso? che mentre preparava il Convivio, e che doveva essere di XV [201] trattati, un'enciclopedia, a dirittura, di vita attiva, avesse in mente anche la Comedia, altra enciclopedia e di vita attiva e di contemplativa, poema immenso, senza dubbio, ma che poteva esser dato fuori per particole? Non avrebbe messe tutte le fatiche in compiere una cantica, almeno, di questa? Non avrebbe dato il suo tempo tutto alla Visione, che per avere Beatrice a capo, sarebbe stata più a grado dei lettori di quella Vita Nova, a cui derogare non voleva? E come, avendo assunta una così fatta impresa, da non pigliarsi a gabbo, di descriver fondo a tutto l'universo, poteva pensare a tale altra enciclopedia, la cui prosa, così nuova, non doveva costare meno tempo e fatica che le sottili e aspre e artificiosissime rime? E tutto questo è avvalorato dal sospetto che al Convivio, il quale doveva constare di quindici trattati, il Poeta desse una certa fine, sia pur provvisoria, facendo così ampio e comprensivo l'ultimo trattato. Il che possiamo indurre facesse per il suo intento di tornare in patria. Ora questo medesimo intento poteva figurarsi d'avere a ottener meglio pubblicando la prima cantica del poema; se l'aveva già cominciato, se l'aveva ancora in mente, se non ne aveva ancora deposta l'idea.

Dante non pensava alla mirabile Visione da tanti anni veduta, non pensava alla divina Comedia, che di lì a poco doveva intraprendere, non ci pensava più, non ci pensava ancora, quando apparecchiava “il generale convito„ di ciò che sino ad allora aveva mostrato. (Co. 1, 1) E così non ci pensava, poi e ancora, quando, scrivendo il Convivio, disegnava e in parte faceva l'altro libro di volgare eloquenza. (Co. 1, 5) Invero non è possibile, che, avendo [202] in mente il poema sacro, ed è inconcepibile, che, avendolo già cominciato e condotto avanti, egli esponesse le teoriche sulla lingua e sugli stili e sui generi letterari, che espose nel libro dell'eloquenza. Nessuna industria di critico ci può convincere che il concetto, il quale Dante aveva dello stile comico, quando scriveva il libro di eloquenza, sia lo stesso che aveva, quando componeva la sua Comedia.

Dalla comedia, in quello, escludeva il volgare illustre, e diceva non esserle adatto se non ora il mediocre ora l'umile. Ma il poema sacro doveva avere un paradiso, oltre i due primi regni; e non sarebbero sembrati summa quelli argomenti e da cantare summe? E diciamo il paradiso, e potremmo dire il purgatorio, dove sono le disquisizioni sul libero arbitrio e sull'amore, per non parlar d'altro; e potremmo dire l'inferno, dove è la lezione di Virgilio sui peccati e le pene: argomenti che il cantor della rettitudine avrebbe detto di “salute„ e da “tragedia„.

Nel Poema era a Dante guida Virgilio sin dal primo canto della prima cantica; e l'ingegno dell'uno sin d'allora era seguace delle parole dell'altro: non si può significar meglio, per certo, quel proximius imitari. (VE. 2, 4) Or bene non sentiva già egli, se aveva già cominciato, che se c'erano nel poema delle cose da cantare comice ed elegiace, ce n'erano e ce ne sarebbero state da cantare tragice? E in volgare altissimo? Come non prevedeva egli che la sua Visione sarebbe stato un genere da racchiudere e i tre volgari e i tre stili? che avrebbe avuto luogo, in esso, e Salus e Amor e Virtus, soggetti degni, come diceva nel libro d'eloquenza, soltanto di canzone? Tanto [203] più che il poema doveva essere o era contesto, in tutto e per tutto, del superbissimum carmen, cioè dell'endecasillabo, che dà, col suo prevalere, gravità alla canzone; la quale quando comincia con un eptasillabo, fa sentire una cotal ombra d'elegia. (VE. 2, 12; 5) E avrebbe affermato che le canzoni son quelle che magis honoris afferunt? (VE. 2, 1) E avrebbe detto che sole le canzoni comprendono tutta l'arte? e non ciò che meditava o preparava o componeva, a cui doveva valere lungo studio e grande amore, e in cui descriveva fondo a tutto l'universo? E avrebbe relegata la trattazione di tal genere poetico al libro quarto, in cui oltre quel delle ballate e dei sonetti, avrebbe compreso, come un serventese qualunque, la comedia, tra alios illegiptimos et irregulares modos? Insomma, e scritta e scrivendo la Comedia, Dante sapeva quel che faceva e avea fatto. E il trattato d'eloquenza o fu composto prima d'intraprendere il poema, perchè il Poeta non sapeva allora quel ch'egli avrebbe fatto; o fu composto, dopo compiuto il poema; e allora egli avrebbe dichiarato di non aver fatto nulla di buono. Il che non sta.

Nel poema egli dice comedia il suo, e tragedia quello del suo duca. Certo in tali appellativi vi è alcun ricordo di ciò che assevera e insegna nel Trattato d'eloquenza; ma si intuisce che la ragion precipua non è quivi, come non è nella lettera a Can della Scala: perchè abbia lieto fine e perchè sia scritto in lingua che anche le femminette parlano: è nel confronto e nella proporzione tra il poema volgare e il poema latino, la ragion precipua. Come egli non chiama tragedie le sue canzoni (io sì, per brevità) sebbene scritte in istile tragico, così, solo per [204] essere in lingua e stile comico, mettendo che il tutto sia in tale stile e lingua, non avrebbe chiamata comedia la Comedia. Comedia dice Dante la sua Eneide (Eneide, per le due prime cantiche; nell'altra, ascende e trascende), per modestia; perchè simile e pur tanto, a suo dire, inferiore all'altra Eneide, che è tragedia: tragedia, per eccellenza. Or questo concetto non è nel libro d'eloquenza; perchè in esso della possibilità d'un poema volgare non è nemmeno il sospetto. Infine, il trattatista dell'eloquenza è pieno del suo disegno di filosofare per canzoni e di filosofare prosaicando, in volgare. Le due opere, dell'eloquenza e del Convivio, erano tirate avanti insieme, a rinforzo l'una dell'altra, col fine, anche, di far vedere che il prosatore volgare del Convivio poteva anche proseggiare in latino; tanto insieme condotte, che tutte e due si fermarono a un certo punto, arrestate dalla medesima cagione. Non c'era più bisogno del trattato d'eloquenza volgare, quando non si aveva più intenzione di scrivere in prosa volgare un comento filosofico a canzoni.

Il Trattato d'eloquenza è accennato nel Trattato di filosofia. (Co. 1, 5) Questo, per il cenno che ha della morte di Gherardo da Cammino, (4, 14) morto il 26 marzo del 1306, e per il cenno, come di vivente, di Carlo II (ib. 6) che morì il 5 maggio del 1309, si pone tra questi due anni, tra il 1306 e il 1309, il che s'accorda con la rimessione e stanchezza di Dante nel ricordare il suo esilio che doveva esser già lungo. E il trattato d'eloquenza dovè dunque essere cominciato dopo il trecento e nove; ma il ricordo che v'è di Giovanni da Monferrato come vivente, (1, 12) mentre morì nel gennaio del 1305, [205] induce a credere che ne fosse stata scritta, già da allora, alcuna parte.

Nel 1309, dunque, Dante che aveva rinunziato sin dal 1295 a profittare degli studi suoi per dire degnamente di quella gentilissima e descrivere quella mirabile visione, speculava bensì, nel suo triste esilio, ma per dare soltanto ammonimenti di vita attiva. In quell'anno, o meglio nel seguente, stabilì, forse, di dar fuori intanto il comento alle tre canzoni (il numero tre ha il suo valore) come saggio e promessa di tutta l'opera, col fine d'impetrare il ritorno; e così scrisse allora il proemio. Doveva ancora fare undici Trattati in prosa, in cui parlare delle undici virtù morali, diversamente composte e denominate e intese, ma in quel numero che Aristotile aveva fissato. Per esempio, è possibile che facendo una virtù sola della fortezza e magnanimità, includesse nel novero e facesse anzi prima del canone, la virtù intellettuale di prudenza. Doveva anche compire il suo libro d'eloquenza volgare, aggiungendo almeno due trattati e finendo il secondo. Beatrice, l'avrebbe riveduta nell'altra vita, quando a Dio fosse piaciuto chiamar di là anche lui. Che il transito avvenisse “nella bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza„ era suo desiderio e già speranza.

I due trattati, dei quali l'uno aiutava l'altro, forse avrebbero fatto sì che il legno senza vela e governo “portato a diversi porti e foci e lidi dal vento secco che vapora la dolorosa povertà„ finalmente giungesse al dolcissimo seno della patria.

Anche se sapeva dell'elezion d'Arrigo, poteva sperare in una sua discesa? Tale speranza non s'era avverata nel predecessore. E poi, anche sapendo che [206] sarebbe disceso, Dante il suo ritorno non l'avrebbe aspettato dall'armi dell'impero, bensì dal consenso di tutti tra un grande intenerimento di pace e amore.

XVII.
IL RE PACIFICO

Nell'anno 1308, il 27 di novembre, era eletto imperatore Arrigo conte di Lucimburgo.

Dante nel Convivio intanto trattava anche dell'imperiale maestà. Egli diceva che l'imperio era necessario alla vita felice; poichè la felicità non può essere che nella pace, e la pace, via via nella casa, nella vicinanza, nella città, tra le città, tra i regni, non può essere procacciata che da un principe dell'intero mondo; che tenga contenti i regni, quiete le città, amiche le vicinanze, sodisfatte le case, e così felice l'uomo. Nè altri può essere questo principe, che lo imperatore di Roma, la cui elezione procede da Dio; chè il popolo santo latino, nel quale era misto il sangue troiano, fu a ciò più disposto, come dice Virgilio: “A costoro (cioè alli Romani) nè termine di cose, nè di tempo pongo: a loro ho dato imperio senza fine„. (Co. 4, 4) E l'imperio ebbe da Dio spezial nascimento, e da Dio spezial processo. Invero il Figlio di Dio scese in terra, a ristabilire la concordia tra l'uomo e Dio quando la terra era in ottima disposizione a riceverlo, quando cioè era tutta a un Principe soggetta. Così David, onde doveva nascere Maria, era al tempo in cui Enea veniva da [207] Troia in Italia. Tutta poi la storia Romana ci attesta che le braccia di Dio erano presenti. (Co. 4, 4 e 5)

Questa teorica imperiale non è necessario supporre che fosse pensata e scritta all'annunzio dell'elezione d'Arrigo. Già sotto il ponteficato di Benedetto parve che le idee dei Ghibellini e dei Guelfi potessero accordarsi; e Dante potè sperare il suo rimpatrio dall'opera d'un paciaro che era cardinale di Santa Chiesa e pur ghibellino d'origine.[147] Il rimpatrio, che così ardentemente bramava e così sommessamente chiedeva, a capo del Trattato primo, come egli non avrebbe voluto a patto d'alcuna viltà, così doveva credere possibile anche con siffatte teoriche imperiali. Però, certe parole del Trattato quarto possono metterci in sospetto, che Dante già sapesse dell'elezion d'Arrigo o del suo proposito di scendere in Italia. Son queste: “Oh! istoltissime e vilissime bestiuole che a guisa d'uomini pascete, che presumete contro a nostra fede parlare; e volete sapere, filando e zappando, ciò che Iddio con tanta prudenzia ha ordinato! Maledetto siate voi e la vostra presunzione, e chi a voi crede!„ (Co. 4, 5) Ma no. Leggiamo quest'altre parole dello stesso Trattato: “..... quasi dire si può dello Imperadore, volendo il suo ufficio figurare con una immagine, che elli sia il cavalcatore della umana volontà, lo qual cavallo come vada sanza il cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente nella misera Italia che sanza mezzo alcuno alla sua governazione è rimasa„. (ib. 9) Quest'imagine e queste parole, confrontandole a quelle notissime con cui nel purgatorio [208] Dante rimprovera ad Alberto tedesco di non inforcare gli arcioni d'Italia, sembrano un residuo delle imaginazioni e dei parlari fatti al tempo in cui d'Alberto sperava e disperava; al tempo precedente il maggio del 1308, nel quale Alberto morì.

Del resto sì fatte teoriche imperiali non toccavano il punto in cui era dissidio tra chiesa e impero, tra guelfi e ghibellini; punto che il Poeta tratterà nel terzo di Monarchia; e anche in quella limitata esposizione, Dante sembra piuttosto un guelfo che risponda a chi l'abbia accusato di misconoscere l'autorità imperiale, che un ghibellino che si faccia vanto di riconoscerla. Anche l'invettiva contro le bestiole può sembrare rivolta più che a guelfi contumaci, a ghibellini scìoli che cercassero, in loro grossi discorsi, filando e zappando, altro fondamento al diritto d'imperio, che quel della fede. Quando scriveva questo Trattato, Dante s'era già fatto parte per sè stesso; la qual condizion d'animo se gli aveva suggerito di lasciar la compagnia malvagia e scempia de' Guelfi Bianchi, gli aveva permesso di cercar rifugio presso gli Scaligeri Ghibellini, e di lasciarli poi mal soddisfatto di loro nobiltà non verace; e di essere ospite d'un altro Ghibellino, Franceschino Malaspina, e d'essere amico, forse, anche a Guelfi congiunti di costui, e di esser portato da quel “vento secco„ a porti e foci e lidi che possono essere anche città guelfe come Lucca e Bologna. Chè certo essi porti e foci e lidi non si possono ridurre a due soli, cioè a Verona e a Mulazzo, sebbene questi due asili siano i soli accertati, perchè hanno ambedue, la esplicita testimonianza del Poeta nella Comedia; (Par. 17, 70; Pur. 8, 13) e il secondo [209] anche un documento storico inoppugnabile.[148] Dovendo errare per tanti luoghi, quanti egli accenna, in tempi, in cui erano partite non solo le città, ma le famiglie (in Lunigiana egli ne faceva esperienza) la necessità stessa, se anche non era la sublimità equanime del pensiero, gli ingiungeva di elevarsi sulle parti e di non presentarsi se non come un dotto e un poeta immeritamente esule dalla dolce patria.

Comunque ciò sia, noi dobbiamo credere che il Convivio egli lo interrompesse, soprapreso da una grande improvvisa speranza. Arrigo s'apparecchiava a venire in Italia, e nell'ottobre del 1310 passava le Alpi. Già prima della discesa, Dante, secondo la testimonianza di Leonardo Aretino, aveva scritto lettere “non solamente a' particulari cittadini del reggimento, ma ancora al popolo„, chiedendo il ritorno. Quest'ultima cominciava con le parole, Popule mee, quid feci tibi; ed era dunque del tono con cui a principio del Convivio mostra la pia brama del patrio dolcissimo seno. Quando la discesa era imminente, scrisse “a tutti e singoli i re d'Italia e senatori dell'alma città, a' duchi, marchesi e conti, ed a' popoli„.[149] L'umile italo Dantes Alagerii fiorentino ed esule innocente, pregava pace a costoro; e indicava i segni precursori di questa pace: un'alba con la brezza mattutina. “Noi vedremo la gioia aspettata, noi che pernottammo a lungo nel deserto; chè [210] è per sorgere il Titano pacifico, e la giustizia, che languiva come fior d'eliotropio senza sole, rinverdirà, appena quegli avrà lanciato il primo raggio„. L'imperadore verrà alle nozze con l'Italia che libererà dal carcere degli empi, e questi distruggerà, e affiderà la vigna ad altri vignaioli che rendano nella vendemmia frutto di giustizia. E sarà clemente, e concederà misericordia a chi la invocherà; nel punire sarà di qua del mezzo, nel premiare, di là. Non per questo e' non vorrà vincere: egli è Augusto e vorrà la sua fatale Tessaglia per distruggere del tutto i suoi nemici. O Lombardi, figli della Scandia, preparatevi ad accogliere “l'aquila sublime che vien giù come folgore„. “Non vi seduca la lusinghiera cupidità che a mo' delle Sirene, con non so qual dolcezza, mortifica la vigilia della ragione.„ E voi, oppressi, riprendete cuore: germinate il verde che frutta la vera pace, e perdonate; a ciò che l'Ettoreo pastore vi riconosca per pecorelle del suo ovile. Egli “quantunque da Dio abbia il potere di castigare temporalmente, tuttavia, perchè sappia odore della bontà di Lui, da cui come da un punto si biforca la podestà di Pietro e di Cesare, volentieri bensì corregge la sua famiglia, ma più volentieri ne ha pietà. Se dunque culpa vetus non pone ostacolo, la quale spesse volte come serpente si torce e si volge contro sè, gli uni e gli altri (Guelfi e Ghibellini) potete riconoscere che a ognuno è preparata la pace...„ la pace che solo l'imperio può dare, come si dimostra col fatto che Gesù non si mostrò, se non quando Augusto ebbe stabilita la pace. E Gesù poi stabilì la netta divisione dei poteri, Sibi et Caesari universa distribuens. E lo confermò anche legato, che affermò [211] provenir di lassù l'autorità cui Pilato vantava come vicario di Cesare. E il successore di Pietro, Clemente, ci ammonisce d'onorare il successore di Cesare. Dove non basta il raggio spirituale, ci deve illuminare lo splendore del minor luminare.

Questa lettera interpreta divinamente il pensiero e il consiglio di quel buon principe che veniva per conciliar le parti irreconciliabili e non voleva sentir parlare di Guelfi e Ghibellini.[150] E noi nel linguaggio latino, nell'indirizzo a re e principi, nelle reminiscenze bibliche, ci ritroviamo avanti l'adolescente di venti anni prima, che si volgeva ai principi della terra, lamentando la sparizione della sapienza, e ricordando, forse, di amar la giustizia.

Ma il sogno di concordia svanisce presto. I Fiorentini chiudono la città di mura e di steccati, e l'apparecchiano a resistere all'imperatore. E allora Dante scrive scelestissimis Florentinis intrinsecis. Egli minaccia loro la vendetta celeste, perchè, “allettati dalla funesta fame (ingluvies) della cupidità„, si diniegano a ciò che è la provvidenza, a ciò che è la pace e il diritto. Come c'è un sole unico, ossia una autorità spirituale, così c'è un'unica luna (e voi ne volete fare un'altra), l'autorità civile. “O acciecati da strana cupidità, che vi gioveranno lo steccato e i baluardi e le torri, quando volerà verso voi l'aquila d'oro terribile?„ Voi siete ciechi e non vedete “la cupidità tiranna che con velenoso sussurro vi lusinga, con vane minaccie vi astringe, vi fa schiavi nella legge del peccato, vi vieta di ubbidire alle sacre leggi che della naturale giustizia imitano l'imagine; la cui [212] osservanza, se è lieta se è libera, non solo si prova non essere servitù, ma, chi ben guardi, apparisce, qual essa è, il sommo della libertà. Che infatti altro è libertà se non il libero corso della volontà all'azione, corso che le leggi appianano ai loro seguaci? Sicchè soli essendo liberi quelli che volontariamente obbediscono alla legge, quali crederete esser voi, che mentre vi coprite con l'amor di libertà, cospirate, offendendo tutte le leggi, contro il principe di esse?„ E continua paragonando il “baiulo dell'imperio romano„ al Cristo “che patì le nostre infermità e portò i nostri dolori„.

Scriveva a' 31 di marzo, nei confini di Toscana, sotto il fonte dell'Arno (ch'egli chiama Sarno male interpretando Virgilio), l'anno primo del faustissimo passaggio di Arrigo Cesare in Italia. In verità ad Arrigo non era valso di parlare “in nomine Regis pacifici„, cioè di Gesù, che, come aveva scritto il buon papa Benedetto, “per la pace del mondo venne fra noi e pace lasciò a noi„;[151] non era valso di non voler udir ricordare parte guelfa o ghibellina; non era valso che la sua volontà fosse giustissima “perchè ciascuno amava, ciascuno onorava, come suoi uomini„.[152] Egli vedeva imperversare le vecchie discordie sotto i suoi occhi, si vedeva chiuder le porte della città, si doveva indugiare ad assediare Brescia e a districarsi dai sempre rinascenti viluppi di Lombardia. E Dante, dal fonte dell'Arno, aspettava con impazienza. E ad Arrigo, ponendo pochi giorni in mezzo, scrisse di là un'epistola in cui ricorda d'averlo [213] veduto (nei primi del 1311 a Milano) tutto benigno, e averlo udito tutto clemente, e d'aver toccati con le sue mani i suoi piedi, e d'aver con le labbra pagato il suo debito.[153] Nell'epistola egli dice, per sè e per altri, di temere che il sole, che era sorto annunziando miglior secolo all'Italia, si sia fermo o torni addietro. Maraviglia è in tutti per questo tardo indugio. L'Italia e l'impero non hanno così piccoli confini, come egli mostrò di credere fermandosi prima in Lombardia e poi in Liguria! Che fa egli a Milano? L'idra non si uccide per tagliar di capi. Bisogna svellere al pestilente animale il principio della vita, come fece il magnanimo Ercole. Che Cremona, che Brescia, Pavia, Vercelli, Bergamo! La volpe (vulpecula) della puzza non è sul Po nè sul Tevere; è sull'Arno, e si chiama Fiorenza. Questa è la vipera volta contro le viscere della madre; questa è la pecora inferma che infetta col suo contagio tutto il gregge del signor suo; questa è Mirra scellerata ed empia che brama l'amplesso di Cinira suo padre; questa è quella intollerante Amata che volle il genero non concesso dai fati, e attizzò la guerra, e infine s'appese a un laccio. Ella vuol lacerare sua madre, ella alza le corna contro Roma, ella esala fumi di putredine. Ella vuol farti nemico il Pontefice. Resiste all'ordine di Dio, riconosce un re non suo. Su, rompi gl'indugi, o prole d'Isai, abbatti Golia con la fionda della tua sapienza, con la pietra della tua fortezza. Fuggiranno i Filistei, e l'eredità nostra ci sarà restituita. Noi gemiamo nell'esilio...

L'epistola è del 18 aprile del 1311. In essa [214] colui che segnava in nomine regis pacifici, è anche meglio che nella precedente assomigliato al Cristo: “Allora esultò in te lo spirito mio, e tacito dissi tra me: Ecce agnus dei, ecce qui abstulit peccata mundi„.

E l'agnello di Dio veniva per mare a Pisa poco men d'un anno (quanto lungo aspettare per l'esule!) dopo quell'epistola. Ivi dimorava dal 6 marzo al 23 aprile del 1312, e ivi forse Dante lo rivedeva. Egli già, dal 24 settembre dell'anno prima, era stato ricondannato, per non vero guelfo, nella riforma di Baldo d'Aguglione; e non aveva più speranza di tornare in patria che con l'armi imperiali. Le quali invano assediarono la città dal 19 settembre del 1312 a tutt'ottobre. La notte d'Ognissanti l'imperatore levava il campo e si trasferiva a S. Casciano e a Poggibonsi e a Pisa. Il 24 agosto del 1313 l'imperatore moriva. L'“alto Arrigo„ come lo chiamò Dante, il “fierissimo tiranno Arrigo, conte che fu di Lucimburgo„, come lo chiamava la signoria di Firenze, finiva a Buonconvento la vita sua e portava con sè le speranze, se pur sino all'ultimo erano durate, dell'esule Poeta.

In questo tempo dell'aspettazione e poi della venuta dello sperato pacificatore, è da mettere, a parer mio, il trattato de Monarchia. Al che non si oppone direttamente se non il fatto che si trova citato il paradiso della Comedia, canto quinto. Questo è il passo: “Hoc viso, iterum manifestum esse potest, quod haec libertas, sive principium hoc totius nostrae libertatis, est maximum donum humanae naturae a Deo collatum„, alle quali parole, alcuni codici, secondo lo Scartazzini, tutti, secondo lo Scheffer [215] Boichorst,[154] fanno seguire quest'altre: Sicut in paradiso comediae iam dixi. Per ora notiamo che non si deve intendere che Dante pubblicasse, al tempo del cursus di Arrigo, bensì componesse, il Trattato. Quale è la notizia del Boccaccio: “Similmente questo egregio autore nella venuta di Arrigo VII imperadore fece un libro in latina prosa, il cui titolo è Monarchia, il quale, secondo tre quistioni le quali in esso determina, in tre libri divise„. Pubblicato non fu forse mai in suo vivente. Invero, quando gli argomenti, che in quel libro erano, furono usati in favore di Lodovico duca di Baviera, il Cardinal del Poggetto lo dannò, e proibì che non lo dovesse studiare alcuno. Se fosse stato pubblicato al tempo della venuta di Arrigo, qualche segno di riprovazione si sarebbe veduto da Fiorenza, e da altra autorità o città. Nè ci par probabile che Dante così tranquillamente potesse cercare ospitalità presso il Polentano guelfo, se avesse così fieramente messo il campo a rumore con tal libro ghibellinesco.

Non diede fuori allora, in quei due anni o poco più, il libro, nè anzi lo compì, tanto rapido fu l'avvenimento che gli diede occasione. Allora, scrisse probabilmente i primi due libri, nei quali svolge le due tesi del Convivio; poi nel 1317 e dopo riprese il Trattato, lo rimaneggiò, e aggiunse il libro terzo, nel quale combatte la dipendenza in dritto dell'impero dal papato. Perchè è probabile che esso libro terzo fosse risposta alla bolla con la quale nel 31 marzo [216] del 1317 Giovanni XXII, dichiarato vacante l'impero, ne rimetteva il governo nelle mani del Papa, che come successore di S. Pietro aveva l'autorità non solo spirituale ma temporale.[155] Certo è che la mente di Dante era nel 1311 già piena di quelli argomenti. Nel Convivio aveva alle mani il suo codice di vita operativa; e già nel proemio dei suoi undici trattati, cioè nel Trattato IV del Convivio quale rimase, indicava il “fondamento radicale della imperiale maestà„ essere nel fine del consorzio umano, che è la felicità, e per ciò la pace. E poneva in stretto nesso tra loro il fatto di Dio che volle “l'umana creatura a sè riconfermare„, e quello dello impero istituito a ciò che Dio, discendendo a fare questa concordia, trovasse la terra in ottima disposizione. (Co. 4, 4) E segnava ancora una relazione misteriosa tra la nascita di David, da cui doveva sorgere il “bel fiore„, e l'approdo di Enea in Italia, (ib. 5) Enea doveva poi nel Trattato della Temperanza aver gran parte, nè soltanto in quello, forse; chè come di temperanza, egli è modello di fortezza e magnanimità, e d'amore per i maggiori e i minori, e di cortesia, e di lealtà. (Co. 4, 26) Ed Enea è gran parte nelle argomentazioni della Monarchia. Quanto all'altro nesso, vediamo che nelle epistole si mostra a grado a grado più chiaro. In quella ai Re, egli dice che l'impero fu confermato verbo Verbi, (Ep. V 7) accenna che fu opera della provvidenza sino ai trionfi d'Ottaviano (ib. 8), e riferisce alla divisione delle [217] due vie e vite le parole di Gesù, di dare a Cesare ciò che è di Cesare. (ib. 9) E parla della cupidità seduttrice (ib. 4) e della vanità del senso in cui si procede al buio. (ib. 10) In quella ai Fiorentini, oltre i cenni alla divinità dell'istituzione imperiale, (Ep. VI 1) e alla funesta gola della cupidità, (ib. 2) e alla cecità che ne viene, (ib. 3) e alle sue blandizie, (ib. 5) ha il concetto che libertà è nell'impero. In quella ad Arrigo, egli quasi confonde l'imperadore col Cristo, quando si dice costretto a irrompere nella voce del Precursore: “Sei tu colui che deve venire o ne aspettiamo un altro?„; quando gli dice di aver gridato esultando in lui: Ecce agnus Dei! quando lo chiama prole d'Isai, e lo paragona a David che maneggia una fionda di sapienza e una pietra di fortezza. (Ep. VII 2, 8) Così è già delineato il concetto e l'imagine dell'imperatore che è un Cristo, in certo modo rinnovellantesi a conservar libera ciò che il Cristo già liberò: la volontà umana. La quale è di nuovo e sempre insidiata, tentata, sedotta dallo stesso antico serpente, dalla culpa vetus, cui già Maria o la Sapienza conculcò ma non uccise.

Ora il trattato de Monarchia, scritto in latino come le epistole, in latino come il libro di eloquenza che Dante aveva alle mani nel tempo stesso che il Convivio; scritto in latino anche con fine che fosse inteso da chi il volgare non intendeva a sai o punto; è molto probabile fosse cominciato a comporre appunto in tempi, in cui le quistioni ivi trattate fossero vive e tra uomini d'ogni nazione d'Italia e fuori, e in tempi seguenti quelli degli altri due trattati, insieme connessi, che lasciava incompiuti; e in tempi prossimi all'epistole che, come il Convivio, contenevano [218] accenni della materia di cui è materiata la Monarchia. In vero questo Trattato contiene ne' primi due libri ordinate e svolte tutte le considerazioni e argomentazioni sparse nel Convivio e nelle Epistole. Dante “pubblicis documentis imbutus„ vuole recare alcun benefizio alla “repubblica„. Non altra intenzione aveva nel concepire il Convivio la cui moralità trascendeva la vita privata. Enea, Catone non erano modelli di virtù casereccie. La rettitudine o directio voluntatis doveva servire per la gran via del mondo. Nel suo nuovo Trattato, più apertamente morale-politico, egli nei primi due libri tratta se la Monarchia temporale sia necessaria al bene del mondo, e se il popolo romano a buon dritto si sia arrogato l'uffizio della monarchia. Nel terzo doveva discorrere se l'autorità del Monarca dipende immediatamente da Dio o da altro ministro o vicario di Dio. Per il primo punto, assevera che al genere umano per il suo fine che è di attuare tutta la potenza dell'intelletto possibile, prima a speculare, poi a operare, è necessaria la pace universale. (M. I, 5) Che in quell'attuazione è la felicità. Ora sì l'uomo, sì la famiglia, sì la borgata, sì la città, sì il regno sono ordinati a uno, cioè richiedono che in loro una parte di loro regoli e regga. Dunque anche tutta la generazione umana richiede che sia uno che regoli e regga: l'imperatore. (1, 7) L'umanità è un tutto rispetto alle sue parti, e una parte rispetto all'universo: come l'universo ha un solo Dio, così l'umanità deve avere un solo monarca. (1, 9) L'umanità sta bene quanto più somiglia a Dio: Dio è uno; dunque l'umanità più starà bene, quanto più sarà una. (1, 10) L'umanità, figlia del cielo, è ottima in quanto imita il cielo: il [219] cielo è mosso da un unico motore. (1, 11) Dove può essere litigio, deve essere giudice, e non può essere giudice se non superiore a quelli che ha a giudicare: dunque l'umanità ha bisogno d'un principe dei principi, se vuol giudice, avendo litigio. (1, 12) La giustizia fa ottimo il mondo, e la giustizia è valida solo sotto il monarca. Invero la giustizia è tanto più valida, quanto meno le si mescola del suo contrario: allora è veramente la luna piena che vede al mattino sorgere il sole: ebbene il contrario della giustizia è o nel volere o nel potere, cioè nella cupidità o nella debolezza. Dove non c'è che desiderare, non ha luogo la cupidità; dove c'è carità, la giustizia è acuita e rischiarata, come dalla cupidità è annebbiata. Or la carità è principalmente nel Monarca, perchè a lui sono gli uomini più da presso che agli altri principi, e quindi ne sono più amati. Inoltre poichè il Monarca è la principal causa, per cui gli uomini siano felici, egli ama, più che ogni altro, ciò che è effetto di lui, ossia il bene degli uomini. Quanto poi al potere, s'egli è Monarca, non ha nemici; dunque può senza opposizione alcuna. (1, 13) Il genere umano più è libero e meglio vive. Ora il principio della libertà nostra è la libertà dell'arbitrio ossia libero giudizio di volontà. Il giudizio è medio tra l'apprensione e l'appetito. Se l'appetito precede il giudizio, questi non è libero; è libero se esso muove l'appetito. Il bruto non è libero, perchè l'appetito in esso previene il giudizio: l'uomo sì, è libero, per il benefizio più grande che abbia avuto l'uomo da Dio. Soltanto sotto il Monarca l'uomo può ottimamente usare questo principio. (1, 14) Il Monarca solo può disporre gli altri, essendo meglio disposto esso, e [220] perciò solo può reggere, perchè ha o nulla o poco di cupidità, e perciò più di giustizia. (1, 15) È meglio essere governati per uno che per molti. (1, 16) Una cosa è ottima quando è massime una, e l'essere uno è radice dell'esser buono, e l'uomo la famiglia la città il regno l'uman genere sono più buoni quanto più uni; e non ci è unità, nei voleri, se non c'è una volontà che sia donna e regolatrice delle altre in uno; chè le volontà de' mortali, per le lusinghevoli dilettazioni dell'adolescenza, hanno bisogno di chi a bene le drizzi. E questa volontà una è quella del principe uno. (1, 17) Ciò si conferma per una memorabile esperienza. Dal primo peccato che fu il “diverticulum totius nostrae deviationis„ (togliendo la libertà dell'arbitrio) il mondo, sol quando venne Dio, il re mansueto, in terra (a restituire tale libertà), ebbe pace universale e felicità. La qual felicità è come una veste inconsutile stracciata dalle unghie della cupidità.

Questa conclusione non è così generica, se ricordiamo l'invettiva del Convivio e le fiere parole dell'epistola ai Fiorentini e ad Arrigo. E più chiaramente dirette contro i principi e le città che contrastarono ad Arrigo l'esercizio dell'autorità imperiale, sono le parole del libro secondo, a principio. “Quare fremuerunt gentes„ comincia egli, col salmo. E continuando dice: “cum gentes noverim contra Romani populi praeminentiam fremuisse; cum videam populos vana meditantes, ut ipse solebam: cum insuper doleam reges et principes in hoc uno concordantes, ut adversentur Domino suo et unico suo Romano Principi„. E così ripete le parole del salmo in favore del popolo glorioso e di Cesare. (2, 1) Queste parole sono dovute [221] a quella stessa ispirazione del momento storico che dettava, per esempio, quest'altre delle epistole: Non igitur ambuletis, sicut et gentes ambulant, in vanitate sensus tenebris obscurati; (Ep. V 10) e queste altre: iugum libertatis horrentes in romani principis... gloriam fremuistis. (Ep. VI 2).

Nel secondo libro dimostra che il popolo romano a buon dritto si arroga l'uffizio della Monarchia o Impero. Tale assunto è in brevi parole pur nel Convivio, in cui il popolo Romano è detto santo; (Co. 4, 4) in cui si dimostra che l'impero ebbe spezial nascimento e spezial processo da Dio; in cui si conclude: “e certo sono di ferma opinione, che le pietre che nelle mura di Roma stanno, siano degne di reverenzia; e 'l suolo dov'ella siede sia degno oltre quello che per gli uomini è predicato e provato„. (Co. 4, 5) Qui, nella Monarchia, dichiara che Dio la sua invisibile volontà mostrando per le cose visibili, come il suggello dà notizia di sè per il segno che ha impresso nella cera, anche se il suggello stesso è occulto, ha dato quell'uffizio dell'impero al popolo romano. Invero egli è il nobilissimo de' popoli, ed ha le due nobiltà, quella dei maggiori, quale è definita da Aristotile, e quella propria, quale è definita nelle parole di Giovenale: La virtù sola è nobiltà. Nel che è da vedere in qual nesso sia questo trattato politico col trattato morale che lo precede; la Monarchia col Convivio. Chè nel Convivio egli la definizione di Aristotile giudica essere secondo la sensuale apparenza, (Co. 4, 8) e ammette per vera l'altra, sebbene non la esponga con le parole di Giovenale. Ora è manifesto sì che queste parole non le conosceva quando scriveva il Convivio, (sebbene di Giovenale altro [222] sapesse — Co. 4, 12, 29) e le conosceva quando scriveva la Monarchia, la quale è dunque posteriore a quello; e sì che non avrebbe nel Convivio rifiutata quella definizione, se l'avesse approvata nella Monarchia, la quale non è dunque anteriore a quello. Nel suo trattato politico Dante abbonda in concedere la verità vera pur della definizione Aristotelica; perchè è in grado di provare che anche secondo il filosofo il concetto della nobiltà si conviene al popolo romano. Il quale è dunque nobilissimo della nobiltà intesa a quei due modi. E lo prova con fatti non solo storici come nel Convivio, ma mitici. Di questi ultimi esempi Enea è il centro: l'eroe giusto e pio e forte su tutti. Nel Convivio, al punto dove si tratta il medesimo argomento, Enea è appena accennato: “tutto questo fu in uno temporale che David nacque e nacque Roma; cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu origine della nobilissima città romana„. (Co. 4, 5) Poi, dimostra Dante nella Monarchia, che il popolo romano assoggettando il mondo, ebbe di mira, “allontanata ogni cupidità„, la giustizia, la libertà e la pace. (M. 2, 5) Poi, dimostra che avendo esso un fine di giustizia, giustamente si assoggettò il mondo. (M. 2, 6) Anche: che giustamente il dominio del mondo esso ha a serbare, poichè l'ebbe da natura. (2,7) Infine: che avendo egli prevalso sui concorrenti atleti e pugili, fu vincitore in duello, ed ebbe dunque per sè la manifestazione del giudizio di Dio. (M. 2, 8, 9) Continua dimostrando la verità de' suoi asserti con principii della fede Cristiana. E qui di nuovo si rivolge contro quelli che “fremerono„ e che “meditarono vanità„. Egli ha di mira quelli che si professano zelatores fidei Christianae. E qui Dante dichiara d'attendere [223] il soccorso del “Salvator nostro„, perchè le ricchezze, date dall'imperatore ai pastori in aiuto dei poveri, tornino donde vennero, perchè siano spese bene. Il Cristo con la sua nascita mostrò il diritto dell'impero. (2, 10) Se l'impero non è di diritto, il peccato di Adamo non fu punito. Chè punizione non si dà che da giudice legittimo; se il giudice non era legittimo, non sarebbe stata “punizione„ del peccato di Adamo la passione dell'uomo Dio. E conclude “O felice popolo, o Italia gloriosa, se quegli che indebolì l'impero tuo mai non fosse nato, ovvero la sua pia intenzione non l'avesse ingannato!„ (2, 11) La quale esclamazione, dico di passaggio, avrebbe potuto, come altre molte asserzioni, corredate di un sicut... iam dixi nell'Inferno, questa (18, 115) se è vero che l'altra della libertà corredò esso della citazione del Paradiso. Ma qui, secondo il mio avviso, non essendo nominato Costantino, l'interpolatore saccente non fu così saputo da riscontrare i due concetti identici. È invero una non dubbia interpolazione. Dante non cita mai se stesso a questo modo ozioso; mai. Nel Convivio ricorda la Vita Nova, per rettificare; nella Volgare Eloquenza cita sue rime, per addottrinare; nella Comedia, fa ricordare e citare queste e altre rime, per narrare e documentare e illustrare la sua arte. Qui avrebbe citato per nulla, se non per una cotal goffa vanità, che avrebbe avuto luogo tante altre volte!

Ora è anche da dire che quel passo di Monarchia non può essere stato scritto al tempo del corso di Enrico. Il “Salvatore„, che non può essere che quella specie di Cristo che è l'imperatore, non sarebbe detto atteso, se era presente. Nè il libro può [224] credersi tuttavia anteriore; perchè nel Convivio tale speranza non è mostrata; anzi, con la sommissione dell'esordio, è mostrato il contrario. E potrà alcuno pensare a tempo molto anteriore; al tempo delle contese tra Bonifazio e Alberto.[156] Ma ciò mette a soqquadro, a dirittura, ogni ragionevol disegno della vita di Dante. Bisognerebbe invero ammettere che il disegno e la prosa del Convivio fossero anteriori a quel tempo, perchè il seme è prima della pianta, e l'innesto è dopo la pianta;[157] e che la Comedia fosse sin d'allora disegnata sino al paradiso, e fosse condotta innanzi insieme col Convivio che ne è, quanto a materia, il duplicato, e, quanto a forma, la contradizione. Che sin d'allora Dante cercasse e trovasse contro Bonifazio gli argomenti che gli avevano a valere contro Giovanni, e mettesse in Alberto le speranze che doveva poi mettere, e invano anche questa volta, in Enrico, è ragionevole supposizione.[158]

Nel libro terzo Dante entra nella vera battaglia. La giustizia lo assicura in faccia ai leoni. (M. 3, 1) Egli si arma, per difendere contro il papato i diritti dell'impero, delle parole di S. Paolo, e indossa la lorica della fede. Si arma delle parole di David, e si dichiara giusto e non timido amico del vero, nell'assumersi di essere giudice tra il Romano Pontefice [225] e il Romano principe. E così dichiara che l'argomento de' due luminari non è conveniente, perchè Dio fece il sole e la luna avanti l'uomo; e poi la luna per l'essere non dipende dal sole, nè la sua virtù trae tutta dal sole, avendo luce anche di per sè: la luna ha dal sole perfezione di virtù.[159] Così distruggendo altri argomenti tratti dall'interpretazione mistica delle scritture e da detti dei Vangeli, passa a mostrare che Costantino non poteva alienare l'impero, nè la chiesa acquistarlo. Non ammette egli che, perchè eccellente è l'unità, tuttavia si debbano i due, papa e imperadore, ridurre a uno. Torna a dimostrare che l'autorità imperiale dipende dalla sommità di tutto l'essere, che è Dio. Afferma che la chiesa non ha virtù di dar autorità al principe Romano, perchè tale autorità non ha nè da Dio, nè da sè, nè da altro imperatore, nè dal consentimento di tutti o dei più. Assevera che la virtù di dare autorità all'impero è contro alla natura della chiesa. Conchiude che l'imperatore immediatamente dipende dal principe dell'universo che è Dio. Chè Dio assegnò due fini all'uomo secondo che è corruttibile o no; e a guidarlo a questi due fini elesse l'imperatore e il pontefice. “Ma la verità di quest'ultima quistione non [226] si deve così strettamente intendere, che il Principe Romano non sia al Romano Pontefice in alcuna cosa soggetto; poichè questa mortale felicità alla felicità immortale sia ordinata. Cesare adunque quella reverenza usi a Pietro, la quale il primogenito figliuolo usare verso il Padre debbe, acciocchè egli illustrato dalla luce della paterna grazia, con più virtù il circolo della terra illumini„. (M. 3, 15)

Tutto ci dice che questo trattato è in parte svolgimento, in parte anche correzione di ciò che in proposito a Roma e impero aveva Dante scritto nel Convivio, e che si connette strettamente alle epistole. Fu cominciato dunque quando egli interruppe il Convivio e il libro di eloquenza volgare. Ma, per altri rispetti sembra preceduto dalla Comedia. Sì che si deve ritenere che negli ultimi anni della sua vita egli lo riprendesse e finisse, rispondendo alla bolla di papa Giovanni, e sotto il dominio d'una vaga speranza che s'affaccia nel Trattato come serpeggia nella Comedia. Che nel Trattato sembra attendere un Salvatore, come nella Comedia un Veltro e un Messo del cielo.

XVIII.
IL VELTRO

La Comedia ha per argomento l'abbandono della vita attiva, resa impossibile a Dante da due fiere che trova nel suo cammino, e che sono la violenza e la frode. Il cammino non è per essere libero se non quando verrà un veltro a uccidere e ricacciar [227] nell'inferno la fiera che in sè comprende anche l'altra. Quando il Poeta cominciò il poema, dato quest'argomento?

È certo che Dante non rinunziava alla vita civile o attiva nel tempo che assegna alla visione. In quel tempo egli non era ancora stato eletto Priore; elezione che fu la causa delle sue sventure. E in quel tempo, senza alcun dubbio, non cominciava il poema, che ha nel primo suo canto, il quale è la pietra fondamentale del grande edificio, il racconto di questa rinunzia. Ideò, sì, intorno al 1292, una visione in cui egli ritornava a Beatrice, cioè alla sapienza, cioè alla contemplazione; tornava, ma non già per aver trovato sul suo cammino alcune fiere contro cui valesse alcun veltro! Dunque, più tardi e di quest'anno in cui ideò la visione e dell'altro in cui dice d'averla veduta, cominciò. Quando? Quando, possiamo dire, Dante, ponendosi tuttavia nel trecento, disperò di riprendere la vita civile o attiva; quando alla sua vita assegnò ormai l'unico fine della contemplazione, la quale fosse bensì utile alla vita attiva degli uomini, ma differisse da essa vita attiva, come, p. es. un libro di morale da un codice di leggi. Non per sè, che col suo poema si consacrava del tutto alla contemplazione; ma per gli uomini sperava in un avvenire più o meno remoto l'avvento del Veltro che doveva sgombrare il cammino della vita del mondo da quella bestia che non lasciava passare per la sua via. Quella bestia, che è tutto ciò che è avverso a giustizia, non poteva essere rimessa nell'inferno che da ciò che è in tutto e per tutto avverso a cupidità: dall'imperatore. Rifacendosi dal trecento, Dante aveva sperato in Alberto tedesco, eletto nel [228] 1298, e nel 1303 confermato da Bonifazio. Dante sperò ch'egli scendesse a incoronarsi in Italia: lo attesta tutta la fiera disgressione, Ahi serva Italia. (Pur. 6, 97) Cominciò dunque il poema negli anni tra il 1303, in cui Alberto fu confermato, e il 1308, in cui Alberto fu ucciso? Se sperava che per opera di lui fosse per essergli libera la via del mondo, non avrebbe cominciato il poema, che è non la sola professione di lasciar quella via (intendiamoci) ma il proprio e definitivo abbandono d'essa. E poi vediamo.

Quando il Poeta figurava la sua lupa che impedisce e uccide, aveva presenti anche altre note di essa lupa. La lupa non uccide soltanto, ma anche seduce.

Molti son gli animali a cui s'ammoglia
e più saranno ancora...
(Inf. 1, 100)

Ella è la cupidità che massimamente contrasta alla giustizia e che, spregiata la società umana, cerca aliena, (M. 1, 13) ma è nel tempo stesso “l'invidia (livor) dall'antico implacabile nemico che sempre e di nascosto insidia la prosperità umana„; (Ep. 7, 1) è tale che “blandisce con velenoso sussurro„ mentre anche “con vane minaccie impedisce„ (Ep. 6, 5); è tale che “suole attirare„ (illexit) al male (ib. 2); è tale che seduce e inganna “a mo' delle Sirene, con non so qual dolcezza addormentando la vigile ragione„; (Ep. 5, 4) è, quando Dante la incarna nella sua Fiorenza, una “vulpecula„, una “vipera volta contro le viscere della madre„, e pure è una Mirra atrocemente sensuale. (Ep. 7, 3) La lupa che [229] viene innanzi a poco a poco è insidiatrice, la lupa che s'ammoglia a molti è seduttrice.[160] Così Dante sin dall'atrio del poema preparava l'altra figurazione della fuia con cui delinque il gigante, e che deve essere ancisa con lui da un DVX. (Purg. 33, 43) Questo duce messo di Dio che anciderà la fuia, e che è tutt'uno col Veltro che ricaccerà nell'inferno la bestia, può Dante averlo sognato mai nel confermato da Bonifazio, quando si pensa che nella lupa e fuia è adombrata tanta avarizia ecclesiastica, tanta cupidità guelfa? Non sembra verosimile.

E poi sappiamo ciò che Dante s'aspettava da Alberto tedesco. Le parole del poema riflettono certo i suoi pensieri degli anni che corsero dall'elezione o dalla conferma alla morte di Alberto. Questi doveva recar pace, mettendosi sulla sella della fiera indomita e selvaggia; doveva venire ad aiutare i suoi fedeli e a consolar Roma vedova e sola, da poi che non aveva più nè papa nè Cesare. (Pur. 6, 82) Ciò che allora faceva chiedere a Dante la discesa dell'imperatore, era il guerreggiar tra loro di tutti, e il pullular di tiranni per tutto — fuor che in Fiorenza (aggiunge ironicamente) che ha i suoi ordini di giustizia, e li muta e rimuta. Or bene la lupa è bestia, senza pace, e chi la rimetterà nell'inferno, darà pace al mondo; la lupa si ammoglia a molti animali, e chi torrà lei, torrà anche questi che certo somigliano ai faziosi e tiranni, contro cui doveva venire Alberto; sì; tuttavia io sento che se Dante avesse scritto quel primo canto mentre le condizioni d'Italia vedeva quali descrive nella digressione che [230] non tocca Fiorenza, non avrebbe figurato il cammino della vita attiva come una “piaggia diserta„, (Inf. 1, 29; 2, 62) quanto a dire un mondo “tutto deserto d'ogni virtude„, (Pur. 16, 58) poichè a quei tempi il giardin dell'imperio era sì “diserto„, ma c'erano ancora a dar buona speranza di sè, se fossero stati aiutati da chi doveva, tanti “gentili„. (Pur. 6, 110) Ma questi non son più che indizi contrarii. Pensiamo a queste altre ragioni. È verosimile che Dante cominciasse il suo poema e poi l'interrompesse par fare il Convivio? Il fine del Convivio è duplice: dare i precetti di vita attiva e unire tal somma di dottrina da ottenere per essa il ritorno nella dolce patria. E della Comedia è pur duplice il fine: il primo, per usare le parole della epistola o Can Grande,[161] non est gratia speculativi negotii, sed gratia operis; il che s'accorda con ciò che il Poeta fa dire a Cacciaguida, che la “visione„ lascerà “vital nutrimento„; (Par. 17, 131) il secondo è espresso con quelle sublimi parole: (Par. 25, 1)

Se mai continga che il poema sacro,
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m'ha fatto per più anni macro,
vinca la crudeltà, che fuor mi serra
del bello ovil...

Vogliamo, anzi possiamo noi, credere che in un momento della sua vita Dante dopo aver cominciato [231] questo poema sacro, e questa visione di vital nutrimento, ne levasse la mano sfiduciato, e perseguisse i medesimi fini col comento, spesso artifizioso, di sue canzoni, non sempre e in tutto belle? E così bisogna credere, se si afferma che il poema fu cominciato nell'aspettazione delle mosse (dubbie al certo sin da quando si volgeva, per cupidigia di costà, contro la Boemia — Par. 19, 115) di Alberto. E bisogna credere che l'interruzione sarebbe stata, nella mente del Poeta, un abbandono e non una dilazione; che, avendo fermato sin dal principio del poema la natura simbolica e ultraumana di Beatrice, (Inf. 2, 124) nel Convivio, la ritornava all'esser suo di donna amata quaggiù, e dava a un'altra il suo sacro uffizio di sapienza. E poi il Convivio e il libro d'eloquenza quando sarebbero stati avviati? da che sarebbero stati interrotti, se non furono interrotti dalla Comedia? Dalla morte, si risponde. A parte tante altre ragioni, gli amici e scolari che scrissero versi per il suo sepolcro, avrebbero accennato a queste opere che non potè finire, se uno di essi annunzia che la morte gl'interruppe un'opera bucolica,[162] che egli supponeva avesse intrapresa; se gli altri, l'uno ricorda solo la Monarchia e il poema, l'altro con le parole

conditor eloquii lumenque decusque latini

[232] sembra alludere al poema soltanto, come a me par di ritrarre dal verso che segue,

vulnere saevae necis stratus ad sidera tendens,

che vuol dire: abbattuto dalla morte mentre si alzava alle stelle, cioè mentre scriveva il Paradiso.[163] A ogni modo il poeta di quest'ultimo epitafio, che è Minghin da Mezzano, non accenna ad altra interruzione che, se mai, a quella della Comedia.[164] E del Convivio (limitandoci a questo) non è punto menzione in sì fatti epigrammi, nè nelle ecloghe, sì di Dante, sì di Giovanni del Virgilio. Il Convivio non lo finì, non perchè non potesse, ma perchè non volle.

Forse Dante cominciò la Comedia subito, dopo l'interruzione del Convivio, appena egli seppe della discesa d'Arrigo? No. Nella Comedia si canta la rinunzia alla vita civile, resa impossibile dalla mancanza o assenza dell'imperatore; e questa rinunzia e questa impossibilità è dichiarata nel primo canto angolare del poema. Non poteva dunque Dante dichiarare e l'una e l'altra, quando s'attendeva l'imperatore, che avrebbe sgombrata a lui e agli altri la via. A voler credere che il poema fosse iniziato nell'aspettazione o d'Alberto (che questo argomento vale anche per lui) o di Arrigo, bisognerebbe supporre che il poema dovesse avere altro svolgimento e altro esito. Ora il primo canto dice subito che il poema doveva avere lo svolgimento e l'esito che ebbe: questo: poichè la vita attiva o civile non è [233] possibile, si imprenda l'altro viaggio, ossia la vita contemplativa. Giova ripetere e insistere.

Dunque alla Comedia pose mano dopo la vana discesa d'Arrigo? Certamente: tutto lo afferma e conferma.

Arrigo era in Italia, e Dante si rivolge ai principi chiamandolo un sole pacifico, un Moisè liberatore, un Cesare che perdona, un Augusto che punisce, un'aquila sublime che scende come folgore, una pioggia celeste che feconda, un agricola dei Romani, un ettoreo pastore, il luminare minore. Se già l'avesse definito veltro, come non se ne sarebbe ricordato in tali epistole? E sì che ciò che contrasta o può contrastare a lui, è detto, oltre che cupidità che affascina come le Sirene, (Ep. 5, 4) oltre che cupidità che accieca che blandisce che inceppa (Ep. 6, 3; 5) e idra dal capo molteplice e ripullulante; anche vulpecula... venantium secura. (ib. 7) Dante aveva in niente il passo di Cicerone: fraus quasi vulpeculae.[165] Se già il Poeta aveva scritto il suo primo canto, certo avrebbe messa la lupa, dopo l'idra spaventosa; non la volpicella puzzolente: l'insidiatrice degli ovili, e non quella de' pollai. E come ha ricordato Alcide glorioso, a proposito dell'idra, avrebbe, a proposito della volpe o della lupa, venantium secura, ricordato il più veloce dei cani da caccia,[166] tanto più ch'egli [234] diceva all'imperatore, Rumpe moras! (ib. 8) E non sarebbe stato disdicevole nell'epistola, come non è nella Comedia, tale paragone canino, e per altre ragioni e per questa, che il cane era riputato medico e sapiente.[167] E così nell'epistola quell'idea di sapienza, che pur v'è (Goliam hunc in funda sapientiae tuae... prosterne), avrebbe potuto aver luogo, dopo un paragone col veltro, così come ha luogo nella Comedia:

questi non ciberà terra nè peltro,
ma sapienza... (Inf. 1, 103)

Da tutto ciò vediamo che si vien preparando nella mente di Dante la formula e l'imagine, che domina tutta la Comedia penetrandola piuttosto d'un grande rammarico che d'un'alta speranza; la formula e imagine del Veltro, la quale deve seguire e non può aver precedute tutte quest'altre formule e imagini.[168] La vulpecula se la ride dei cacciatori. Su, affrettati... scovala, inseguila! So io quel che ci vorrebbe! sembra pensare Dante. E già si delinea nel suo pensiero la figura del veltro, e allora, per amor del veltro, così gentil fiera, anche la fetida volpicella cresce a lupa, prendendo più diabolico sembiante, ben conveniente a chi fu scatenata nel mondo dall'invidia del diavolo il quale in forma di lupo insidia le chiese dei fedeli.[169] Quando questa trasformazione della volpe? quando [235] quest'imagine del veltro contro colei che è venantium secura? Quando il buon imperatore, che doveva rompere gl'indugi, dopo averli rotti ma troppo tardi, a giudizio di Dante, dopo questo e quell'assedio, questo e quel badalucco, e molto andare e venire, moriva finalmente senza compier l'impresa a Buonconvento nel 1313. Allora sì che Dante doveva disperare di poter mai riprendere la via del mondo. E allora doveva apparirgli enormemente grande questa cupidità o violenza e frode insieme, o insieme avarizia, invidia e superbia, ossia malizia, in una parola sola, o ingiustizia, in altra parola, che copriva il mondo! E allora doveva invocare contro essa qualcuno che fosse molto diverso dal buon Arrigo: tanto fiero da far morire con doglia la bestia malvagia, tanto corrente da cacciarla per ogni villa, tanto possente da rimetterla all'inferno!

Tanto è verosimile. E ci sono ragioni per aiutare la verosimiglianza, e non ce ne sono per diminuirla.

Invero, a figurare il salvatore in un cane, il Poeta può essere stato confortato (non dico ispirato) dall'essere Cane il nome dello Scaligero costituito nel 1312 vicario imperiale a Vicenza, e già dal 1311 signore unico di Verona; intorno a cui, fa molto sognare la reticenza di Cacciaguida: (Par. 17, 91)

“E porteraine scritto nella mente
di lui, ma nol dirai...„ E disse cose
incredibili a quei che fien presente.

Quali cose disse Cacciaguida all'orecchio di Dante? Ossia quali incredibili cose volle Dante significare (non forse a Cane stesso?) d'aver pensate [236] di quel signore? Il primo rifugio di Dante dopo il bando fu Verona, e la casa del gran Lombardo. Vide in essa Can giovinetto. Che del gran Lombardo e della sua casa avesse allora a lodarsi, non pare. Nel Convivio, avanti di scrivere il primo canto della Comedia, dice, o di quel gran Lombardo, o del fratello di lui come di Can Grande: “e Albuino della Scala sarebbe più nobile, che Guido da Castello di Reggio; che... è (cosa) falsissima„. Dopo, si ricredè, avendo riveduto, come parrebbe dalla epistola a Can Grande, s'ella è autentica, il giovinetto divenuto principe di gran virtù

in non curar d'argento, nè d'affanni,

(come appunto il veltro, che non ciba peltro, ma virtù, nel cacciare per ogni villa la lupa), o anche, non avendolo riveduto di persona, bensì sapendo ch'egli era la spada e lo scudo dei Ghibellini. E le cose che Cacciaguida disse e Dante non ridisse, incredibili cose, hanno da avere attinenza con questa sua qualità. E con quel suo nome forte, aggiungo io; con quel suo nome che non dinotava solo una bestia dall'agil corso, e che può nutrirsi di così ideal cibo, e fornire così alta impresa; ma si trovava a significare anche altro. Invero si legge in Giovanni Villani,[170] dei Tartari: “fecero per divina visione [237] loro imperatore e signore un povero fabbro di povero stato, che aveva nome Cangius, il quale in su uno povero feltro fu levato Imperatore; e come egli fu fatto signore, fu soprannominato Cane, cioè in loro linguaggio Imperatore. Questi fu molto valoroso e savio...„. Difficilmente si potrà negare che tra questa leggenda, assai diffusa, e la concezione del cane Dantesco, che è un imperatore, nato tra feltro e feltro, ci sia qualche relazione. Ma se ne avesse ancor più di quel che paia? Che Dante osasse concepire l'incredibile speranza che il vicario imperiale, che portava “sulla scala (per cui si ascende) il santo uccello„, potesse essere fatto imperatore? che quella, la quale alla morte di Arrigo, non era forse più che un'imagine ingegnosa, sembrasse a Dante medesimo, nel 1318, un vaticinio destinato ad avverarsi tra le contese del Bavaro e dell'Austriaco? Il nome l'aveva già: Cane. E sarebbe stato un imperatore nato, cioè eletto, come Cangius, fuor dell'aspettazione del trono; tra feltro e feltro, in certo modo; non tra le porpore tessute, bensì tra i peli battuti; come il Cane tartaro, che, secondo il racconto del Villani, fu levato in su uno povero feltro, ed ebbe, per dirlo in altro modo, un feltro per porpora! Ebbene se Dante preso da queste singolari coincidenze, d'un vicario imperiale, che aveva per arma la scala e l'aquila, e si chiamava Cane cioè imperatore, ed era attivo e destro, e magnificente, e unica ormai speranza per i Ghibellini, avesse il suo sperato imperatore [238] raffigurato come un cane nato tra feltro e feltro, ossia non nella porpora; è ben certo che quel primo canto non l'avrebbe potuto scrivere se non quando Arrigo non era più e Can Grande era già grande: dopo il 1313 o in quell'anno.[171] Ebbene è un sogno questo? Ma che disse Cacciaguida a Dante? Quella reticenza è di gran momento!

In tanto bisogna rispondere a un'obbiezione. L'inferno, dicono alcuni, era finito nel 1308. Quest'opinione è rincalzata dal Ricci, che assevera non poter Dante avere scritto il verso

che da Vercelli a Marcabò dichina,
(Inf. 28, 75)

se non prima del 1309, nel qual anno, a' 23 di settembre, quel castello era distrutto dai Polentani.[172] Ora a ciò si può opporre, come altro, così quello che il Ricci non vorrebbe si opponesse: “il solito argomento della data della visione dantesca„. Perchè no? E poi, se il nome come afferma il Ricci, non rimase al luogo, a quei tempi come avrebbe alcuno chiamato quel luogo, dove era sorto Marcabò?[173] Invece, è verosimile che prima d'andare a Ravenna e di conoscere i Polentani, Dante sapesse di quel castello?

Ma più grave obbiezione è quella che può fondarsi [239] sull'inverosimiglianza del fatto che in sì breve tempo, da più in là che mezzo il 1313 a più in là che mezzo il 1321, prendendo i termini più larghi, in otto anni insomma, potesse Dante compiere quel poema che lo fece macro per più anni.

Ebbene alcuni si figurano Dante nell'atto di lavorare così come se spesso si grattasse il capo e si rodesse al vivo le unghie: io lo vedo empir le carte della sua lettera magra e lunga e molto corretta con rapidità e sicurezza. Alcuni mostran di credere ch'egli facesse un passo avanti e due indietro: io vedo al baleno dell'idea seguir di schianto il tuono, rotto aspro cupo, della parola. Alcuni amano di pensare che, a modo del suo maestro Virgilio, Dante leccasse, quale orsa, i suoi versi nati goffi e grossi quali orsatti: io vedo che i versi nati male, nati rozzi, nati storpi, Dante li lascia tali quali. Alcuni, o i più, o tutti, esterrefatti avanti la copia delle imaginazioni e delle disquisizioni, delle persone e delle cose, non sanno come egli facesse a ritrovarcisi, senza una lunga, continua, notturna e diurna meditazione. Io credo che egli per la Comedia, come per le rime nuove, ci avesse pensato prima![174] Io imagino che non dovesse durar molto stento e molto tempo a rivocare alla visione tutti i suoi studi del Convivio e della Monarchia. Io vedo che a tutto ciò che a noi pare così complesso, così infinito, così inestricabile, sottostà un disegno semplice e nitido. È una gran tela il poema sacro, ma era stata ordita prima che la spola cominciasse il suo lavoro! Egli aveva fatto, per così dire, una forma cava con pazienza e sapienza; [240] e dopo vi gettava dentro, con émpito tranquillo, il metallo della sua anima fuso dalla sua gran passione. L'incendio crocchiava, sprizzava, fumava; e il Poeta s'affrettava lentamente.

XIX.
DECEM VASCULA

E poi lo sappiamo da lui medesimo, quanto tempo metteva nel comporre i canti del suo poema.

Egli aveva compito l'inferno e il purgatorio. Giovanni del Virgilio[175] conosceva le due cantiche, delle quali un episodio a principio dell'una e un altro alla fine dell'altro, tutti e due riguardanti poesia antica e poeti antichi,[176] ricordava in una sua epistola latina a Dante. In essa accenna al primo, dicendo

Praeterea nullus, quos inter es agmine sextus,

che è il ricordo del noto “fui sesto„; e mostra col verso seguente,

nec quem consequeris caelo,

[241] che è Stazio, sì di conoscere l'ultima parte del purgatorio, e sì, forse d'ignorare il paradiso, in cui non è più parola di Stazio, mentre a me pare che Giovanni si figurasse che dovesse aver qualche parte nell'ultima cantica. Come che ciò sia, il buon verseggiatore bolognese nomina bensì gli epiphoebia regna; chè certo sapeva che ai due regni terrestri doveva tener dietro il celeste, ma non dice di esso alcuna particolarità, quale dice dei due primi. In quell'epistola il verseggiatore incuora il Poeta (così diciamo noi: allora almen l'uno de' due pensava tutto al contrario) a lasciare il sermone laico e la lingua volgare; a non gettar perle ai porci, a non mettere una plebea guarnacca alle sorelle Castalie. Egli vuole che canti epiche imprese recenti, la salita al cielo d'Enrico imperatore, la sconfitta dei gigli fiorentini per opera del Faggiolano, le sevizie patite dai Padovani,

et Ligurum montes et classes Parthenopaeas.

Poi promette di presentarlo alle scuole bolognesi ornato di laurea: il che può essere, e anche non essere, una proposta di conventarsi a Bologna.

Dante risponde con un'ecloga pastorale: “Ebbi la tua lettera. S'era io e il mio Melibeo (un certo ser Dino Perini fiorentino),[177] e rassegnavamo, secondo il nostro solito,[178] le capre pasciute. Esso, [242] che voleva conoscere il carme che m'era giunto, mi dice: — O Titiro (Dante), che vuol Mopso (Giovanni del Virgilio)? Narra. — Io, o Mopso, rideva; ed esso insisteva vie più. Finalmente, per il ben che gli voglio, smisi di ridere, e gli dissi: — Pazzarello, che cerchi? Bada piuttosto alle capre che ti sono affidate, sebbene la piccola cena ti dia pensiero.[179] Tu non sai i pascoli, che il Menalo col capo inclinato, celando il sole, adombra:[180] i pascoli dall'erba screziata di fiori. Li circonda un ruscelletto, che s'è fatta la via dall'alto donde sorge.[181] Là Mopso, mentre i bovi ruzzano per le pieghevoli erbette, contempla lieto l'opere degli uomini e dei celesti. Poi, dando fiato alla zampogna, manifesta le gioie del suo cuore, sì che gli armenti seguono il suo [243] canto, placati dal monte scendono al piano i leoni, e le onde corrono addietro, e Menalo[182] accenna col fruscìo delle sue frondi. — E Melibeo ripiglia: — O Titiro, se Mopso canta tra verzura a me ignota, tuttavia potrei i suoi carmi, per quanto a me ignoti, se tu me li mostrassi, insegnarli alle capre errabonde.[183] Che aveva a far io, poichè questi insisteva anelando? — Sai? Mopso s'è dato alla poesia, mentre gli altri vanno là ad apparar leggi, ed è impallidito nell'ombre del sacro bosco. Pieno di poesia, egli m'invita alle frondi cresciute dalla fanciulla del Peneo conversa in albero.[184] Melibeo esclama: — E che farai? Pastore errerai sempre per i pascoli senza l'alloro alla fronte? E io: — O Melibeo, l'onore e la fama dei poeti svanì: Mopso appena, a forza di veglie, è diventato poeta! — Così avevo risposto, quando saltandomi l'umore esclamai: — Che belati per i colli e per le praterie, quando, col verde alla chioma, intonerò il peana! Ma ho paura di quelle forre e di quelle campagne che non [244] onorano gli dei.[185] Non sarà meglio ornare i capelli, trionfando, se mai mi avverrà di tornare, e coprirli ora che son bianchi, mentre erano biondi allora, con la fronda intrecciata in riva al patrio Arno? — Ed esso: — Chi può dubitarne? Però guarda il tempo come passa presto! Già son vecchie le capre, che noi lasciammo alle loro madri, perchè figliassero altri capri.[186] E io: — Quando i corpi fluidi intorno al mondo e gli abitatori delle stelle saranno noti come i regni inferi, allora gioverà coronar il capo d'edera e lauro.[187] Mopso lo concederà? — E Melibeo: Mopso?! perchè? — E io: O non vedi che egli riprende le parole comiche (volgari), sì perchè sonano come trite, nelle bocche delle femminette, sì perchè le sorelle Castalie hanno vergogna d'accettarle? — Così risposi, e rilessi, o Mopso, i tuoi versi. Allora Melibeo fece spallucce, e disse: O che faremo dunque, volendo convertire Mopso?[188] — E io: — Ho con me una pecora, che tu conosci,[189] la più [245] cara, che appena regge le poppe, tanto abbonda di latte (sotto una gran rupe ora rimastica[190] le erbe che già brucò) che non va col gregge, che non è avvezza ad alcun chiuso, che suol venire da sè, nè mai a forza si lascia mungere;[191] questa io mungerò e del suo latte empirò dieci vasi per mandarli a Mopso. E tu intanto bada ai capri che cozzano, e impara a mettere i denti nelle dure croste del pane. — Così cantavamo io e Melibeo sotto una quercia, mentre nella casetta ci si coceva il farro„.

Che si ricava dall'Ecloga? Questo, a parer mio. Dante interpreta che Giovanni del Virgilio lo abbia invitato a fare alcun canto epico in latino. Di ciò, a detta di Giovanni, è per venirgli la gloria che invano aspetta dal suo pur bel poema volgare. E Dante esclama, nella sua finzione bucolica: Quando canterò laureato il mio peana, sentirai che belati per i colli e i prati! Queste parole le mette fuori indignatio. Perchè questa indignazione? La poesia è senza onore, ha detto prima: io, dice ora con empito di ribellione, le lo renderò! Non ci lasciamo qui fuorviare dal travestimento bucolico delle idee, per il [246] quale, ad esempio, il sermone o la epistola del poeta bolognese diventa una serie di modulamina. Può stare che siano ecloghe pastorali quelle che devono far belare di gioia i colli e i prati; che queste ecloghe, delle quali una è la presente, debbano restituire l'onore ai poeti e alla poesia, non può stare. Che Dante lo dica al “poeta„ del Virgilio, non può stare. Che Dante dica d'intonare il peana, laureato per queste ecloghe latine, esso che stava per finire il poema sacro, esso a cui s'erano chiesti canti epici, non può stare. Non sta. Nel fatto soggiunge: A Bologna, per altro, c'è cagione di alcun timore; non è meglio attendere di essere laureati a Fiorenza? Sì, ma il tempo passa, replica ser Dino. E Dante insiste: Sì: io voglio aver finito il paradiso, con le sue stelle (circumflua corpora) e coi suoi santi e angeli (astricolae). Mopso lo vorrà allora concedere, Mopso che non apprezza se non la poesia latina? E, poichè ser Dino si meraviglia. Dante gli rilegge la lettera di Mopso, dove disdegna le rime e la lingua volgare. Dal che si ricava che il peana Dante ha detto d'essere per cantarlo, quando avrà finito il paradiso e la Comedia; e perciò di non poterlo cantare a Bologna, dove, oltre varie difficoltà, non ci sarebbe forse il consenso di Giovanni del Virgilio. E come far ricredere Mopso? — Gli manderò dieci vasi di latte della mia pecora più cara. — Si interpreta dall'antico glossatore che la pecora sia la poesia bucolica; si dichiara da un valente critico moderno che i dieci vasi di latte siano un libro d'ecloghe nel numero consacrato da Virgilio, di dieci.[192] E il senso correrebbe [247] così: “A Bologna non vorrei andare; non è meglio laurearsi a Fiorenza? Quando il paradiso sarà terminato, prenderò certo il cappello. Mopso lo permetterà? Egli non vuol saperne, di volgare; ma per convincerlo, gli manderò dieci ecloghe, quante ne fece Virgilio„. E il senso corre così bene, che così invero intese Mopso, che rispose a Titiro che la sua ecloga fu molto ammirata, e che Dante sarà o secondo dopo Virgilio, o un altro Virgilio a dirittura; e che gli augura di tornare in patria, ma intanto può cantare (latinamente) con esso lui e deliziarsi, a Bologna, dove non c'è nulla da temere. Iola (Guido Novello) non lo permetterà? Oh! il mio antro non è men sicuro della sua casa o capanna; e qui sarai amato e vedrai il Mussato. E io farò altrettante ecloghe, “quante tu ne prometti. Sebbene, mandar latte a un pastore...„. Così intende Mopso, e d'aver così inteso mostra anche con l'epitafio che scrisse di lì a non molto del grande Poeta:

Pascua Pieriis demum resonabat avenis:
Atropos heu! lectum livida rupit opus.

Ma intende bene? Qui sta il punto. Già a me pare che il grande e il piccolo poeta non s'intendessero per la laurea, se il grande parla d'una vera e propria laurea o d'un reale “convento„. Scrive Mopso, che se vuol altra fama, che quella che dispensa il volgo,

en ego iam primus, si dignum duxeris esse,
clericus Aonidum, vocalis verna Maronis,
promere gymnasiis te delectabor ovantum
inclita peneis redolentem tempora sertis...

[248] Mopso, cioè il buon verna Maronis, presenterà Dante ai lettori e agli scolari di Bologna: quel che segue, non è forse una circoscrizione poetica per dire “te poeta„? poeta nel senso distinto da rimatore? Il fatto è che nella replica di Mopso a Titiro, di laurea non mi pare si parli più; nell'epitafio, dove pur si tocca delle Bucoliche interrotte, di laurea non si tocca. Ma lasciamo questo punto: l'altro punto dei dieci vasi, l'intende, Giovanni del Virgilio, bene? Dante, scrivendo la sua seconda ecloga, dice che a Bologna, ai sassi etnei, non andrà, perchè teme di Polifemo, e si fa dire da Alfesibeo, che è un magister Fiducius de Milottis de Certaldo medicus, qui tunc morabatur Ravennae: Ah! ti prego: non sia mai che il Reno e quella Naiade abbia questo illustre capo, cui già il frondatore s'affretta a scegliere in vetta all'alloro le foglie dell'immortalità. Non sia mai che vada a Bologna questo capo, cui già si prepara l'alloro! Questo concetto non si accorda con l'interpretazione data prima, dei dieci vasi, e di ciò che precede e segue.

In verità: per conventarsi, se mai, non a Bologna, ma a Fiorenza, Dante avrebbe promesso le dieci ecloghe a Giovanni! Ora, questo medesimo intento, di prendere il cappello nella patria, Dante lo manifesta nel poema sacro con parole che tutti ricordano. Oh! sia pure che quel concedat, come dirò tra poco, significhi “approverà, sarà contento„: ma come possiamo credere che a vincer la crudeltà dei suoi cittadini Dante credesse necessario, oltre il poema sacro, anche dieci bucoliche dirette a Giovanni del Virgilio bolognese?

Ma più che di laurea si tratta di gloria: il trionfo [249] ha da essere senza cavalli bianchi. Dante è per compiere un vero poema. Quando scriveva il Trattato d'eloquenza, nemmeno sospettava che fosse possibile. Egli l'ha composto e compone con quel proximius imitari “i poeti grandi, cioè regolari„, (VE, 2, 4) che non può meglio esser significato che col farsi discepolo di Virgilio, col far la mente seguace delle parole sue. (Pur. 24, 101) Due cantiche n'ha compiute. In esse egli si mette per sesto nel grande canone; in esse si trova a pari pari con Stazio, sebbene anche da lui si faccia ammaestrare (Pur. 25, 31), seguendo la “scuola„ (ib. 21, 93) dell'altissimo poeta. Giovanni del Virgilio gli scrive in versi latini, ricordandogli appunto, di esse due cantiche, gli episodi in cui Dante fa tal professione di essere un poeta vero, grande e regolare, sebbene versifichi in volgare, e di non differire in nulla da quelli: (VE 2, 4) ha detto d'essere sesto in quella scuola del signor del canto; ha detto e mostrato d'essere a Virgilio come a Virgilio è Stazio.[193] Ma ora viene il buono; ora ha da mostrar veramente ch'egli può poetare magno sermone et arte regulari; (VE. ib.) ora gli è bisogno, nell'aringo rimaso, Apollo. L'alloro l'avrà con quest'“ultimo lavoro„. Apollo, non Aretusa, gli deve concedere “extremum hunc laborem„, che non è un'ecloga pastorale, ma il paradiso della Comedia. (Par. 1, 1) Nel qual ultimo lavoro non ha più seco il dolce pedagogo; cioè, ha tanto studiato, che dell'arte e della materia è padrone. Non è più un'Eneide volgare, la sua: è più e meglio: è, per dirla brevemente, una Pauleide; il che sembra significare il [250] Poeta con quella parola “vasodel valore, che richiama lo vas d'elezione. Ora dunque stende le mani alla fronda Peneia;[194] ora potrà chiamarsi trionfatore; ora potrà dirsi “poeta„, nel senso intero e puro, senza restrizioni di sorta. E in verità, quando “l'aringo„ sarà percorso per buona parte, “poeta„ si proclamerà. (Par. 25, 8) In tanto, al principio della cantica sublime, intuona il peana.

Sì: peana. Dante sa che il peana è canto di trionfo, e che è rivolto ad Apollo, come altre grida a Bacco. (Par. 13, 25) Ed egli che l'alta tragedia sapeva tutta quanta, aveva letto che cosa cantassero nell'Elisio, tra un odorato bosco di lauro, i vati pii... et Phoebo digna locuti.[195] Cantavano in coro il peana. La protasi del paradiso amplifica e spiritualizza codesta imagine virgiliana. Egli spera la fronda peneia; perchè la materia è tale che nessun altro poeta può essere più pio di chi tratta quella; e tutti quei versi riescono a dire che Febo deve ispirare esso, se il canto ha da essere degno (Par. 1, 27) di Febo. Ora vogliam credere, che qui Dante alluda a una vera e propria laurea solenne o modesto convento nella umile terra nostra? Il peana qui intonato si afferma poi nel centro dei tre canti delle tre virtù teologali, cioè nel proprio luogo della pietas,[196] nel canto della speranza, per cui fu salvo,[197] che è il [251] vigesimo quinto, preceduto e seguito dai canti della fede e della carità. Qui, dunque, proclama: (25, 7)

Con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, ed in sul fonte
del mio battesmo prenderò il cappello.

Egli è Stato tre volte cinto e benedetto per la fede: è supremamente pio. Tornerà dunque pio vate, dopo aver cantato cose degne d'Apollo, con altra voce, cioè con quella con cui si canta il lieto peana, con altro vello, che d'agnello, come quando si partì, ma con la lunga veste in cui è l'antico citaredo; poeta, come quelli antichi, grandi e regolari; e si troverà anche esso come loro presso un fonte, non dell'Eridano, ma del battesimo, circondato le tempie, anch'esso, sì, di nivea vitta. E anch'esso dimorerà in luoghi lieti, tra amena verzura, in una sede beata:[198] nella patria. Vogliam credere, ripeto, che in questo trionfale ritorno Dante veda anche l'accoglimento solenne nel suo bel San Giovanni? che la nivea vitta del poeta pio e degno d'Apollo, sia proprio una birettatio? Si può credere e non credere. Certo fa d'uopo credere che il peana, che Dante, nella ecloga, vuol cantare, facendo risonar di belati i colli e i pascoli, è questo medesimo peana della Comedia; ed è per il gran trionfo d'essere riuscito a fare in volgare un poema quali gli antichi; che ha anzi, una parte in più dell'Eneide: quella appunto, che Giovanni del Virgilio ignora e che quel povero Melibeo [252] sa. Chè l'ovis gratissima è indubbiamente la Comedia volgare, nella sua ultima cantica:[199] Ser Dino, cui l'alveolus tien lontano dal Menalo latino, che gli è perciò ignoto, conosce questa cantica; l'ha vista nascere, la vede crescere, la vede porgere le poppe al pastore. Indubbiamente! Ciò deduco dal raffronto dell'ecloga prima Dantesca alla decima Virgiliana che è a lei principal modello. Codesta decima è quella che sa più di ogni altra, d'epistola. È indirizzata a un amico poeta e ne fa molte lodi: contiene dialoghi, ma in forma narrativa. Era presente allo spirito di Dante, quando egli lavorava all'“ultimo lavoro„. Vi è nell'una e nell'altra Maenalus e Maenala, saltus e capellae; saturae là, qua pastae; là e qua sub rupe; Arethusa, concede, concedite, silvae, qua concedat Mopsus; , Galle quid insanis, inquit, tua cura, qua, stulte, quid insanis, inquam, tua cura; nostri labores, qua hominum superumque labores. E si chiudono col notare la contemporaneità d'una altra azione pastorale o casareccia: là si tesse l'ibisco, qua si cuoce il farro.[200] Si parla, nell'ecloga virgiliana, di Arcadi, soli cantare periti; nella Dantesca, di Mopso, che è un Arcade, perchè dimora nel Menalo, e che, oltre a essere dichiarato, col nome stesso, divino poeta, e buono a calamos inflare leves al par d'un altro che è buono a dicere versus[201] [253] (Dante ne ricorda appunto gl'inflatos calamos, con ciò sottintendendo i propri relativi versus); è detto parimente un de' pochi o il solo, in tanto vanir dell'onore e persin del nome de' vati. Ma sopra tutto c'è nell'una e nell'altra una gran promessa di canti sublimi: Ibo et Chalcidico... nell'una; Quantos balatus!... quum mundi circumflua corpora... nell'altra. E sopra anche questo, c'è nell'una e nell'altra il pensiero tristo e pio dell'esilio: procul a patria... nella prima; patrio, redeam si quando... Sarno, nella seconda.[202] Or bene l'idea madre dell'ecloga epistolare di Dante è in questi versi della Virgiliana:[203]

Stant et oves circum, nostri nec poenitet illas,
nec te poeniteat pecoris, divine poeta:
et formonsus oves ad flumina pavit Adonis.

Chè con tali versi sentiva Dante scusata l'inferiorità d'un genere poetico. Ed egli, così, designa con l'ovis gratissima un genere poetico inferiore a quello coltivato da tale a cui lenta boves per gramina ludunt, e cui possono seguire armenta.[204] Così invece di chiamarsi Menalca, che è il compagno “buono„ di Mopso, egli si dà il nome di Titiro, il nome più caro al suo maestro, perchè Mopso a Menalca dice, Tu maior, che detto dell'età, può intendersi d'altro; perchè Menalca, forse, pare a Dante della stessa patria con Mopso, abitator del Menalo, come Coridone con Tirsi, Arcades ambo; perchè, certo, Titiro sta, nel pensier di Dante come nel nostro, atteggiato a meditare silvestrem tenui musam... avena; e a pascere [254] le pecore, cioè cantare, al tempo stesso, umile canto.[205]

Dunque, l'ovis in comparazione dei boves e armenta di Mopso, è veramente la poesia volgare rispetto alle latina. E presente al pensier di Dante era, e al nostro deve essere, in tutta l'ecloga, quel verso su cui l'ecloga si fonda:

Nec te poeniteat pecoris, divine poeta!

Divino poeta è Mopso, per essere Mopso,[206] ed è detto e confermato per essere Gallo. Servio comentava il verso: Nec tu erubescas bucolica scribere: il che, mutato secondo l'andamento dell'ecloga nuova, riesce: Non ti dispiaccia ch'io cerchi la mia gloria nell'umile poesia volgare. Nè già nella bucolica! Giovanni aveva scritto un'epistola, proponeva argomenti epici, esigeva la lingua latina, contemplava hominum superumque labores: tutto ciò Dante, traducendo in istile bucolico, afferma essere un dar fiato a calami, nel Menalo circondato e difeso da un fiumicello, con intorno bovi e armenti. Dunque, interpretando (ma a nessuno verrà in mente!) a quel modo, si dovrebbe dire, che anche Giovanni fosse poeta bucolico, più propriamente bucolico, cioè bovino, e Dante s'assegnasse un genere bucolico inferiore, cioè ovino. E concludiamo.

Nella prima ecloga Dante volle dire: Quando io avrò fatto il paradiso, e sarò coronato poeta, [255] Mopso ci troverà a ridire? (concedat Mopsus?) Sarà contento, approverà? O meglio ancora: cederà? si ritratterà? si ricrederà? E concedere (neutro) avrebbe il senso, presso a poco, d'un revocari, facendo passivo il revocare del verso che segue dopo alcuni altri:

Quid faciemus, ait, Mopsum revocare volentes?

Titiro: “Sarà contento Mopso?„ oppure: “si ricrederà Mopso?„

Melibeo: “Mopso? come?„

Titiro: “O non vedi che di volgare non ne vuol sapere?„

Melibeo: “Che faremo per farlo ricredere?„

Titiro: “Tu conosci (tu a cui sono ignoti i carmi o i pascoli latini) la mia pecora prediletta: l'ultima cantica del mio poema. Bene: gliene manderò dieci canti. Così comprenderà che posso ottener la gloria di poeta grande e regolare, o, se si vuole (ma non ci credo), esser laureato, senza scrivere versi latini, come vuol lui.

In vero nella seconda ecloga egli fa dire ad Alfesibeo che sarà coronato, senza andare a Bologna; anzi non andrà a Bologna, perchè avrà già avuta la corona. Che necessità d'andarci? perchè affrontare Polifemo? esporre agli odii degli empi un capo sacro per la fronda peneia?

Ma questa fronda peneia per me è più probabilmente metaforica. Infatti, l'egregio critico di più sopra, assevera che Dante non avrebbe potuto ottenere il convento con il poema volgare.[207] Se lo [256] sappiamo noi, lo sapeva anche esso. Ora nel paradiso diceva che l'avrebbe preso per il suo poema, il cappello: si tratta dunque d'una simbolica vitta, come la fronda peneia è una simbolica laurea.

Se i dieci vasi di latte sono dieci canti del paradiso, questi sono i primi dieci. È chiaro infatti che Dante si ripromette di far chetare anche quelli che gli rinfacciano comica verba e lo rimproverano di volgersi al volgo. Egli mostrerà loro questa nuova, ineffabile, incredibile parte del suo poema, preceduta da un vero “peana„. Se quella sublime cantica era già, poco o molto, nota altrui, egli certo non poteva aspettarsi nessuna sorpresa e nessun ricredimento. Ne seguita inoltre che dieci canti, quando scriveva la prima ecloga, aveva quasi pronti o pronti del tutto. E poichè tra i fatti ricordati da Giovanni del Virgilio nella sua epistola, sono le vicende marittime dell'assedio di Genova,[208] e queste furono nella prima metà del 1319; così possiamo affermar di certo che nel 1319 erano conosciute le due prime cantiche del poema,[209] e, almeno alla metà di quell'anno, erano pronti o quasi pronti i primi dieci canti della terza. Dante morì tra il 13 e il 14 settembre del 1321; sicchè in due anni egli avrebbe [257] compiuta la terza cantica, componendo ventitrè canti. E che li finisse appena appena, e che negli ultimi tempi della sua vita fosse occupato nel finirli, è confermato dal racconto che lasciò il Boccaccio, del rinvenimento degli ultimi tredici canti, che si credeva non avesse fatti.[210] Nel qual racconto si ha anche la conferma dell'interpretazione per cui i dieci vasi di latte sono dichiarati dieci canti del paradiso; poichè il Boccaccio narra: “Egli era suo costume, qualora sei o otto o più o meno canti fatti n'avea, quelli, prima che alcuno altro gli vedesse, donde che egli fosse, mandare a messer Cane dalla Scala, il quale egli oltre a ogni altro uomo aveva in reverenzia; e poi che da lui eran veduti, ne facea copia a chi la ne voleva„. E l'interpretazione dei decem vascula dà e, a sua volta, riceve gran lume di certezza da questo numero tredici, dei canti ritrovati; chè si capisce come, per quest'ultima cantica almeno, i canti che Dante mandava a messer Cane e ad altri (nel nostro caso, a Giovanni del Virgilio) e che erano “sei o otto o più o meno„, furono appunto dieci e poi dieci; sicchè rimasero tredici non mandati, non trascritti, non conosciuti.

Ora se ventitrè canti, e del paradiso, della cantica cioè, per la quale al Poeta fu necessario entrar nell'aringo con ambedue i gioghi di Parnaso; se ventitrè canti di questa cantica potè, compiere in due anni; i cento dell'intero poema poterono ben essere compiuti in otto. E così noi risaliamo al 1313. In quell'anno avrebbe cominciato il suo poema; a metà di quell'anno; dopo l'annunzio della morte dell'alto Arrigo; dopo il 24 di agosto.

[258]

XX.
ROMAGNA TUA

Nel Convivio, della Romagna non è, si può dire, menzione. Di personaggi romagnoli non sono nominati che Guido da Montefeltro, uomo di nomea italica, (Co. 4, 28) e Galasso pur da Montefeltro (4, 11). E sì che vi si fa ricordo di Gherardo da Cammino da Treviso (Co. 4, 14), di Asdente, il calzolaio di Parma, (ib. 16) di Guido da Castello, da Reggio (ib.), i quali tutti e tre hanno luogo nella Comedia (Inf. 20, 118; Pur. 16, 124 e 125). Vi sono rammentati Manfredi da Vico, San Nazaro e Piscitelli o Piscicelli, di Viterbo, di Pavia, di Napoli. (ib. 29) Nel libro di eloquenza, si parla come degli altri volgari, anche del romagnolo; si fa una distinzione, a dir vero, esatta, tra il parlare de' Faentini e de' Ravennati; (1, 9) ma non si ragiona al certo di quel vernacolo con la conoscenza più particolare di chi ci vivesse in mezzo, e non ragionasse per sentita dire. Se si vuole, anzi Dante non ne ragiona giusto, trovandolo muliebre... propter vocabulorum et prolationis mollitiem. Per quanto anche oggi i Forlivesi parlino con tal quale mollezza, pure e il loro e quello degli altri romagnoli merita piuttosto gli aggettivi che Dante applica al vernacolo contrario: vócabulis accentibusque hirsutum et hispidum. (1, 14) E in questo medesimo capitolo è una frase che può far sospettare che di coteste cose Dante avesse notizia solo indiretta: horum aliquos a proprio poetando [259] divertisse audivimus, Thomam videlicet et Ugolinum Bucciolam Faventinos. Si può credere che chi gli parlò di questi due poeti Faentini, lo informò anche del divario tra il volgar di Ravenna e quel di Faenza.

“Nella Comedia„ usiamo le parole di Corrado Ricci “la Romagna occupa una parte essenziale, che dimostra quale e quanta conoscenza avesse il poeta di quella regione. Tutte le città e i castelli d'una certa importanza, come Ravenna, Ferrara, Forlì, Rimini, Faenza, Cesena, il Montefeltro, Bagnacavallo, Bertinoro, Castrocaro, Cervia, Cunio, S. Leo, Verrucchio, Marcabò, Medicina ecc. vi si trovano ricordati; così i fiumi principali come il Lamone, il Santerno, il Savio e il Montone; e le famiglie nobili e potenti degli Anastagi, dei Traversari, dei Manfredi, dei Polentani, dei Malatesta, degli Ordelaffi, dei Pagani, degli Onesti ecc., di alcune delle quali designa gli stemmi e le imprese. Vi si trova inoltre il ricordo di Guido del Duca, di Pier Traversaro, di Pier Damiano, di Pier degli Onesti e di Pier da Medicina, di Guido da Prata, di Guido Bonatti e di Guido da Montefeltro; dell'arcivescovo Bonifazio, di Rinier da Calboli, di Giovanna da Montefeltro, di Federigo Tignoso, di Lizio da Valbona, d'Arrigo Mainardi, di Tebaldello, d'Alberico dalle frutta del mal orto; d'Obizzo da Este, di Montagna, d'Ugolino dei Fantoli, di Pagano Mainardi e di tanti altri, in ispecie appartenuti alle famiglie ora nominate.

La Romagna per tal modo offerse, dopo la Toscana, il maggior contributo di nomi e di fatti al divino poeta...„[211]

[260] Da questo fatto, se noi non sapessimo d'altre fonti (da lui non lo sappiamo) che egli visse in Romagna, potremmo arguirlo infallantemente. Ma non basta: da questo fatto messo a confronto con l'altro, la nessuna o scarsissima menzione e conoscenza della Romagna nelle opere anteriori, dobbiamo infallantemente inferire che la Comedia la scrisse, per gran parte, quando viveva in Romagna.

Per gran parte! Quanta? Nel paradiso si trova notata una distinzione e corretto un errore, che difficilmente avrebbe notato e corretto chi non fosse dimorato in Ravenna. Si confondevano due santi, due Pietri, tutti e due di Ravenna: Pier Damiano e Pier degli Onesti, che si dissero ambedue “peccatori„, sebben quest'ultimo più solitamente. Dante al primo di questi fa dire: (Par. XXI 121)

In quel loco fu' io Pier Damiano;
e Pietro peccator fu nella casa
di nostra Donna in sul lito adriano.[212]

Il Boccaccio, che fu a Ravenna ma non vi dimorò, non riuscì poi a strigarsi tra questi e altri Pietri santi di Ravenna;[213] ma Dante ci riuscì, “vivendo a Ravenna — mentre vi fioriva S. Rainaldo dottissimo nella storia della Chiesa ch'ei resse per quattro lustri — a Ravenna dov'erano ancora i discendenti degli Onesti, custodi gelosi delle glorie di lor casa, e dove poteva vedere e vide certamente lo stesso sepolcro di Pietro Peccatore posto come oggi in luogo [261] eminente proprio nella chiesa di Nostra Donna in sul lido Adriano„.[214]

Se questa diligenza ed esattezza non ci par possibile se non a patto di una grande dimestichezza con cose e luoghi di Ravenna; che diremo della tanta e così intima conoscenza di uomini e famiglie romagnoli, anche a' suoi tempi estinte, che sfoggia per bocca d'un romagnolo?

Però sappi ch'io son Guido del Duca.
Fu 'l sangue mio d'invidia sì riarso...
············
Quest'è Rinier: quest'è il pregio e l'onore
della casa da Calboli, ove nullo
fatto s'è reda poi del suo valore.
E non pur lo suo sangue è fatto brullo
tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno
del ben richiesto al vero ed al trastullo:
chè dentro a questi termini è ripieno
di venenosi sterpi, sì che tardi
per coltivare omai verrebber meno.
Ov'è il buon Lizio e Arrigo Manardi,
Pier Traversaro e Guido da Carpigna?
O Romagnoli tornati in bastardi!
Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?
quando in Faenza un Bernardin di Tosco,
verga gentil di picciola gramigna?
Non ti maravigliar s'io piango, o Tosco,
quando rimembro con Guido da Prata
Ugolin d'Azzo, che vivette nosco.
[262]
Federigo Tignoso e sua brigata,
la casa Traversara e gli Anastagi,
e l'una e l'altra gente è diredata;
le donne e i cavalier, gli affanni e gli agi,
che ne invogliava amore e cortesia,
là dove i cuor son fatti sì malvagi.
O Brettinoro, chè non fuggi via,
poichè gita se n'è la tua famiglia,
e molta gente, per non esser ria?
Ben fa Bagnacaval che non rifiglia;
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
che di figliar tai conti più s'impiglia.
Ben faranno i Pagan, da che 'l Demonio
lor sen girà; ma non però, che puro
giammai rimanga d'essi testimonio.
O Ugolin de' Fantoli, sicuro
è il nome tuo, da che più non s'aspetta
chi far lo possa, tralignando, oscuro.

Difficile è dare a intendere a sè medesimo che tali notizie Dante acquistasse altrove che appunto nel paese che è

tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno.

Ebbene codesti versi sono del XIV del Purgatorio (v. 81). E farà pensare la risposta che Dante, come latino, dà a Guido da Montefeltro, che ha domandato “se i Romagnoli han pace o guerra„.

Romagna tua non è e non fu mai
sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni;
ma palese nessuna or ven lasciai.
[263]
Ravenna sta come è stata molti anni:
l'aquila da Polenta la si cova,
si che Cervia ricuopre co' suoi vanni.
La terra che fe già la lunga prova,
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là, dove soglion, fan de' denti succhio.
La città del Lamone e del Santerno
conduce il leoncel dal nido bianco,
che muta parte dalla state al verno:
e quella a cui il Savio bagna 'l fianco,
così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.

Non si nega che tali notizie potesse aver Dante prima di andare in Romagna; ma quel cominciar da Ravenna! quel nominare, la prima e ultima volta nella Comedia, la famiglia da Polenta! quel nominarla per il suo nobile stemma! quell'accennare al suo incremento di potenza! Ebbene quei versi sono del XXVII dell'Inferno (v. 37). Chi dalle copiose e minute menzioni di cose e persone romagnole, inferisce la lunga dimora di Dante in Romagna,[215] come spiega che le più di queste menzioni sono del tempo in cui, secondo lui e altri e tutti, Dante in Romagna non dimorava ancora? Era forse presciente il Poeta? [264] prevedeva egli forse che si sarebbe ricoverato sotto le ali dell'aquila che covava Ravenna?

Ma qui sorge una grave obbiezione. Dante inveisce contro i Romagnoli in genere, chiamandoli rimbastarditi, contro i suoi signori, chiamandoli tiranni, contro i Polentani, mettendoli tra quei tiranni, contro i congiunti dei Polentani stessi, dicendo

ben fa Bagnacaval che non rifiglia,

e detestando così la progenitura della famiglia Malabocca, di cui era Caterina, moglie di Guido Novello suo ospite. Ella appunto sopravisse alla sua gente; e “le parole del poeta non potevan certo garbarle troppo„.[216] L'obbiezione è grave solo per chi dimentica la natura del poema dantesco e i costumi de' suoi tempi. Il poema dantesco è un poema sacro, molto più affine a una predicazione appassionata, che a un livido libello. La parola è brusca, ma deve lasciare vital nutrimento. (Par. 17, 131) Strana sarebbe la nostra maraviglia, ricordando l'imperversar d'invettive in bocca di alcun predicatore anche di pace, sì in quei tempi e sì nei nostri. A molte, insieme, di tali invettive può essere assomigliato il poema di Dante, il qual Dante, come un fiero domenicano, come un ardente francescano, rimbrottando, in genere e a nome, i lor peccati ai suoi uditori, professa pur d'essere anche lui peccatore, l'ultimo anzi dei peccatori, come quegli che scende nell'inferno, e non ascende al paradiso, se non dopo essersi [265] mondato delle macchie di tutti e sette i peccati capitali. E così egli “apre la bocca„ come piuttosto un paciaro che un giustiziere, dicendo il fatto suo a tutti, a ricchi e poveri, signori e sudditi, chierici e laici, più scagliandosi, come di sì fatti predicatori era costume, contro i ricchi i signori e i chierici, che contro gli altri.

Ma facciamo pure la sua parte anche alla passione d'amore e d'odio. Ebbene nel fatto della Romagna, dei Romaguoli, dei Polentani e dei loro congiunti, ravvisiamo più l'amore che l'odio. Non si chiamano imbastarditi, se non quelli che furono nobili; non si abomina la guerra che è nei cuori anche quando non è palese, se non per affetto alla regione che ne è straziata o minacciata. E tiranni diceva Dante signori che d'essere chiamati tiranni non isdegnavano, essi che prediligevano e assumevano e ritenevano tali nomi come Malatesta, Malabocca, Malvicino, Demonio, e simili. Oh! volevano esser tenuti piuttosto forti che buoni! Quanto ai Polentani, sono sì accomunati agli altri tiranni; ma la loro aquila è posta in altro atteggiamento che le altre bestie, araldiche o no, che sono i mastini e il leoncello, gli uni dai denti così aguzzi e l'altro dalla parte così mutabile. L'aquila cova, e sebbene ella sia predatrice e abbia fatta una preda di Cervia, pur non si dice se non ch'ella ricovra sotto la sua ombra quella terra. Così non è accennato se non il dominio, e magari la protezione, nelle parole con cui si designano gli Ordelaffi, forse ospiti di Dante:

La terra che fe già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio
sotto le branche verdi si ritrova.

[266] Or non è significativo che esprima con ben diverse parole la tirannide dei Malatesta, quando si consideri ch'essi erano nemici dei Polentani? E poi noi non sappiamo tutto. La guerra era sempre in quei cuori, non ostante la consanguineità e l'affinità. Erano famiglie d'Atrei e Tiesti, quelle; e anche quando il Poeta fa la singolar lode dei Malabocca, che non rifigliano, noi non possiamo giurare che ciò tornasse piuttosto sgradito che gradito a Madonna Caterina e a Guido Novello. Il Ricci ricorda “un documento scritto nel gennaio del 1320, mentre fiorivano Dante, Guido Novello e Caterina in Ravenna, per certa questione tra questa città e Bagnacavallo. In esso — non si sa se per malcontento o per malevolenza — Bagnacavallo è chiamato Bagnaasino, ed uno dei testi presenti è ricordato con le parole: — Cicho... familiari domini comitis Bernardini de Bagnaasino — mentre lo stesso notaro si sottoscrive: — Et ego Magister Maximus Dotavolus de Bagnaasino„.[217] Tal mutamento, inscritto da conte e notaro di Bagnacavallo, somiglia a riconoscimento e rinfacciamento d'ingiuria ricevuta e solita anzi a riceversi. E non è prova di molto buon sangue tra Ravenna e Bagnaasino, e tra Guido Novello e i suoi affini.

E chi può, venendo a un punto più importante, affermare che l'episodio di Francesca tornasse, nel rispetto degli amori e odii di famiglia, piuttosto discaro al consanguineo dell'uccisa, che caro al nemico dei consanguinei dell'uccisore? Certo è che la parte più brutta (e a noi non deve parere meritata) è del Malatesta, atteso in Caina. Ed è superfluo notare che la [267] poesia di cui il Poeta circonda le due anime affannate, doveva esser sentita allora come s'è sentita e si sentirà in tutti i tempi; e che certo ella non discese a caso su loro dalla bocca incosciente di Dante. Or quanto maggior tenerezza, nell'udire quella voce soave alzarsi tra l'improvviso silenzio del vento infernale, doveva essere in chi era alla donna congiunto di sangue!

Il dramma è ad arte abbellito. Si trattava dell'amore di due cognati, che avevano l'una marito e l'altro moglie; quella da forse dieci anni, questi da almen quattordici. E Paolo aveva due figli; e una figlia aveva Francesca.[218] Or bene, come tra i peccator carnali, rei d'incontinenza, Dante pone Dido, che per essersi uccisa dovrebbe stare nella selva con Pier della Vigna, così mette questa coppia d'adulteri, per di più incestuosi, la cui propria reità sarebbe malizia o ingiustizia. Il Poeta fa espressamente dichiarare da Francesca, d'essere vittima d'amore; d'amore che s'apprende a cuor gentile, come affermava il rimatore bolognese, maestro suo e di tutti i poeti d'amore; d'amore che a nullo amato amar perdona, come dichiarava il filosofo greco, maestro di color che sanno: “amore ha per fine il vicendevole amore„.[219] Escono i due cognati della schiera ov'è [268] Dido, che per amore s'uccise come per amore essi furono uccisi, e ruppe fede a un cenere, come essi a un vivo; e così la selva mirtea di Virgilio adombra e in certo modo refrigera il tetro inferno nuovo. Gli “affanni„ dei due amanti durano anche tra la bufera, così come curae non ipsa in morte relinquunt gli antichi morti d'amore. Piange Francesca, piange Paolo: lugentes campi sono quelli di Virgilio; e, come pianse Dante tristo e pio, così Enea demisit lacrimas; e l'uno lancia un affettuoso grido, e l'altro dulci affatus amore est; e l'uno dice “o anime affannate„, e l'altro “Infelix Dido!„. E là Francesca, in cotal guisa, mostra la ferita, per la quale tinse il mondo di sanguigno, per la quale gli fu tolta la bella persona, per la quale fu condotta da amore a una morte con l'amator suo; e qua oltre Dido recens a vulnere, è in atto di dolore (moestam) Erifile che mostra le ferite d'un figlio, così crudele come fu crudele quel marito: crudeli; sebbene l'uno e l'altro avessero cagione di questa vendetta contro la madre avara e contro la moglie infida. E, come Didone ha nella selva il suo Sicheo che risponde a' suoi affanni e al suo amore, così Francesca, nel luogo d'ogni luce muto, ha con sè il suo Paolo, che mai da lei non sarà diviso. E sono anime offense queste, come offensa è Didone; ed Enea narra piangendo, che fu per un fato imperioso, e Francesca narra piangendo, che fu per un ineluttabile amore.[220]

Chi potrebbe, o avrebbe potuto, recarsi a vergogna d'avere in tali nuovi lugentes campi una donna della sua schiatta? una sorella di suo padre, morta [269] da già molti anni (vedremo quanti)? d'averla distinta, come è evidente, da altre peccatrici o peccatori volanti in globo confuso come stornelli al venir dell'inverno; e messa invece in una riga ordinata e canora di gru? e in compagnia, contando insieme le due specie di dannati, soltanto di regine, d'eroine, d'eroi antichi e nuovi, Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paris, Tristano? e nominata, esso, lei sola (Paolo è taciuto e tace) tra più di mille, che Virgilio nomina a Dante?

Chè Dante, dopo ch'ella ha detto brevemente la la patria, il suo amore, la sua fine, Dante sa qual nome darle: Francesca, i tuoi martiri... E questa circostanza non è da passarsi senza esame. Dante impara a conoscere gli altri peccatori perchè Virgilio glieli nomina.

Vidi Paris, Tristano. E più di mille
ombre mostrommi, e nominolle, a dito,
ch'Amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch'io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e i cavalieri,
pietà mi vinse...
Poi cominciai: Poeta, volentieri
parlerei a quei duo...

Questo cominciamento di Dante è poscia che Virgilio ebbe nomate quelle altre ombre: in vero Virgilio non noma queste due. L'insistere del Poeta su quel nominare e nomar di Virgilio, prepara, dopo il chinar del viso, dopo il lungo pensare, dopo la esclamazione quasi tra sè e sè di compianto, prepara quel nome sussurrato: Francesca! E l'esclamazione emessa quasi a parte è da interpretarsi rettamente.

[270]

Oh! lasso!
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!

Queste parole, congiunte col nome che poi pronunzia, attestano non che egli abbia raccolto dalla bocca dell'anima offensa materia a tanta meditazione e a tanto compianto, ma che le brevi designazioni di quella donna l'hanno fatto ripensare a un caso pietoso già saputo, e di cui sa, anzi, molti particolari, salvo che il primo e più importante: la prima radice. E intanto le parole di Francesca gli hanno già letto di lei il nome, come nell'episodio di Cavalcante.

Che se ne induce? che Dante conosceva l'amore e la sventura di Francesca da domestici conversari con Guido Novello; e che li rinarrò nel suo poema per piacergli e compiacergli.

In verità, qual cronista, dei commentatori e biografi di Dante in fuori, ricorda quella sventura e quell'amore? Da chi potè Dante apprendere tale storia così intima e delicata? Poco verosimile è certo che ne avesse notizia lungi da Ravenna. La quale città egli descrive, per la postura, in un modo che noi mal volontieri crediamo potesse fare, prima d'esservi andato e avervi dimorato.

Siede la terra dove nata fui,
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.

Questi versi non vogliono già dire: La mia patria è sul lido adriano. Ce ne sono tante altre su quel lido! Vogliono dire: La mia patria è alle foci del Po. Qual altra città è alle foci del Po, oltre che Ravenna? [271] Ma che alle foci del Po sia Ravenna, par difficile che lo sapesse (e anche che lo sappia) chi non aveva o ha veduto che poco lungi da Ravenna è il Po di Primaro; chi non aveva veduto (questo non si vede più) che “passava presso Ravenna il Padoreno e fra le mura della stessa città s'inoltrava il Padenna, due fiumi derivanti, come rivela il loro nome, dal Po„.[221] Sì che bene a ragione Giovanni del Virgilio, nella sua epistola latina a Dante, poteva dirgli: Padi mediane: vivente in mezzo al Po.

E come, altronde, è poco probabile sapesse tale istoria, così è improbabilissimo che Dante scegliesse da sè, senza suggerimento altrui, senza intenzione di compiacere altrui, questa adultera Polentana ad essere l'Elissa, non più taciturna ma altrettanto dolorosa, de' suoi inferi. Chè tra Elissa e Francesca le somiglianze sono ancor più che quelle che noi vediamo subito. Francesca non è solo vittima d'amore, come Elissa del fato d'Enea; ma, come Elissa, è tradita dall'Amore stesso che si trasforma in altra persona per accenderla d'un ardore irresistibile. È questo cambiamento ingannevole che innamora e uccide Didone;[222] e non anco Francesca? Ecco apparire una volta di più, la veracità del tanto calunniato novellatore Boccaccio, il quale apprese la storia là dove l'apprese Dante. Sì: anche Francesca cade in un inganno, come Didone. “.... Al tempo dato venne in Ravenna Polo, fratello di Gianni, con pieno mandato ad isposare madonna Francesca. Era Polo bello [272] e piacevole uomo e costumato molto; et andando con altri gentili uomini per la corte dell'abitazione di messer Guido, fu da una damigella di là entro, che il conoscea, dimostrato da un pertugio d'una finestra a madonna Francesca, dicendole: — Madonna, quegli è colui, che deve esser vostro marito — E così si credea la buona femmina; di che madonna Francesca incontanente in lui pose l'animo e l'amor suo„. Sì fatta circostanza comune alle storie delle due donne è affermata e anche espressa da Dante, col mettere tanta somiglianza tra il suo episodio e quello di Virgilio. Persino il tacere e il pensar di Dante a capo basso è il ricordo dall'atteggiamento di Didone nella pianura del pianto:

Illa solo fixos oculos aversa tenebat...

che è, a sua volta, l'atteggiamento medesimo che tenne, in un gran momento, Enea vivo, il quale ora lo ritrova in Elissa morta:

Ille Jovis monitis immota tenebat
lumina, et obnixus curam sub corde premebat.[223]

Ma il centro, per così dire, della somiglianza, anzi dell'equazione, è in quelle parole di Francesca:

Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria; e ciò sa il tuo dottore.

Questo dottore è quel medesimo che dottore ha Dante chiamato più su:

[273]

Poscia ch'io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e i cavalieri...

Il dottore di Dante sa di questo massimo dolore, perchè l'ha descritto in una di quelle donne antiche, in quella nella cui schiera è la nuova vittima d'un inganno fatale. L'ha descritto, quando fa che per l'ombra oscura, tra le ombre dei morti, per i luoghi pieni di squallore, per la notte profonda, Enea parli a Didone morta, per placarla e farla piangere;[224] ed ella sta immobile con gli occhi fitti a terra. “A che pensa?„ domandava, forse, Dante leggendo l'alta tragedia. Tutto è vano: ora ella pensa al certo. L'ha descritto, quel dolore, il poeta di Didone, quando fa che tutti riposino il corpo nella notte, e sola la Fenissa vegli con l'anima irrequieta;[225] e quando, specialmente, narra che ella, poco prima di uccidersi, contempla le vesti iliache e il noto letto, e vi si indugia con lagrime di rimembranza (lacrimis et mente), e vi stende su, e dice le novissime parole: Dulces exuviae...![226] “Lo sa, lo sa il tuo dottore, che ha raccontata la storia di Dido, di quella Dido, nella cui schiera io sono; quella storia che tanto assomiglia alla mia!„

[274]

XXI.
IN RAVENNA

Questa glorificazione... Perchè è glorificazione. Chi dirà: “ma Francesa è posta nell'inferno„? Nessun lettore poteva allora, come non può ora credere al poeta in questo, che egli l'abbia veduta laggiù; ma gli credeva e crede e crederà nel resto: ch'ella era bella e amante e sventurata; che era simile a una di quelle donne antiche, a quella, anzi, di cui più pietosa e illustre è la storia. Questa glorificazione non può essere stata imaginata dal Poeta prima di conoscere Guido Novello e di essere a Ravenna. E glorificazione dovè parere (senza escludere che sembrasse anche infamia per il “traditore„ che sparse sangue fraterno, e per la sua gente) a Guido Novello. È non solo verosimile, ma vero.

Verosimile. I Polentini erano guelfi.[227] Durante la corsa di Arrigo VII, sì Lamberto e sì Benardino avevano guerreggiato contro lui. Lamberto aveva tentato invano di impedire all'imperatore l'entrata in Roma. Bernardino aveva portato aiuto a Fiorenza minacciata, ed era stato gran parte in quelle operazioni di guerra che costrinsero Arrigo a levare l'assedio dalla città guelfa; sì che questa nominò Bernardino suo podestà per il primo semestre del 1313. Se Dante fu invitato o accolto in Ravenna, mentre [275] durava ancor la vita di questi due signori (de' quali Bernardino morì ai 22 d'aprile del 1313, Lamberto al 22 di giugno del 1316), non vi fu certo accolto e invitato per le sue epistole ai principi italiani, ai fiorentini, ad Arrigo! Non per quelle lettere, se mai, e per i suoi maneggi ghibellini; ma non ostanti questi e quelle. Per che cosa, dunque, se non per la sua chiara fama di poeta? E che di questa fama ei godesse, attesta egli medesimo a principio del poema, quando riconosce da Virgilio, cioè dallo studio,

lo bello stile che gli ha fatto onore.

E qui, se anche mancassero altre testimonianze, potremmo subito arguire presso quale dei Polentani gli facesse onore “lo bello stile„ che iniziò con la canzone, Donne che avete, nota così presto in Bologna.[228] Presso, non i duri guerrieri guelfi, ma Guido Novello, che fu buon rimatore. Questi, figlio di Ostasio da Polenta, era abiatico di Guido Minore o il Vecchio, e nepote quindi de' figli di costui, Lamberto e Bernardino e Francesca.

“Nel 1301 era de' savi o consiglieri, e testimoniava: doveva dunque avere circa venticinque anni ed esser nato intorno al 1275„.[229] Sin dai primi uffizi che tenne, mostrò “animo tranquillo gentile„. Accanto ai suoi cugini, egli, nel consiglio dei Savi, prendeva parte ai pubblici negozi. Non è inverosimile, che, nelle assenze guerresche di Bernardino e [276] Lamberto, egli avesse gran parte nel governo della città. Nel 1314 era podestà di Cesena, e respinse il Vicario di Re Roberto. Respintolo, non potè rientrare in Cesena che in tanto si era ammutinata, e piegò verso Cervia e rientrò in Ravenna. Quivi divenne podestà, alla morte di Lamberto suo zio, mentre Ostasio figlio di Bernardino teneva Cervia. E fu costui che dopo sei anni, mentre Guido era capitano del popolo in Bologna, s'impadronì di Ravenna, e lo escluse per sempre dalla città.

Di Guido restano diciassette ballate e un sonetto.[230] In esse è più d'una traccia d'imitazione dantesca. Ma dobbiamo noi dire che Guido apprendesse a rimare da Dante? Dopo il 1313 andò Dante a Ravenna; e Guido aveva nel 1313 trentott'anni su per giù. Poniamo pure che dall'esule fiorentino imparasse di persona a meglio fare; ma a fare aveva certo imparato prima di veder Dante. Probabile che anche prima di conoscerlo, lo prediligesse, l'autore del dolce stil nuovo, e lo imitasse. È verosimile che, quando in qualche modo seppe che il dolce rimatore non era lungi da Ravenna, lo chiamasse a sè. Ma quando? Quando, io direi, l'uffizio di Guido Novello non era così alto e sovrano, da richiamar troppo l'attenzione su colui che egli invitava, sì che nel dotto maestro fiorentino si scorgesse piuttosto l'esule ghibellino, che il rimatore. Mancava forse a Guido autorità, anche quando non era ancor signore o podestà, di poter proporre o invitare un maestro forestiere a insegnare ai giovani ravignani? [277] Non mancava certo a chi nel testamento di Lamberto era dichiarato erede col suo fratello Rainaldo in parti uguali col cugino Ostasio figlio di Bernardino; a chi, morto Lamberto, era fatto subito Podestà, a preferenza di quell'Ostasio. Egli era dunque assai autorevole, per invitare il lettore; non era in vista e in grado tale, da dover rifiutare il partigiano. Coltivava la poesia d'amore. Si sa che proprio esso lo chiamò e accolse in Ravenna. Dunque è verosimile che il dramma ultramondano d'amore, per il quale una Francesca del suo sangue diventava una Elissa novella, fosse preso da lui, per quel ch'era: una glorificazione.

E poi è non solo verosimile, ma vero. In una delle sue ballate è riportato un verso, lievemente mutato, di quell'episodio:

E quando sono in più lontana parte,
più mi sovvien de 'l tuo piacente riso,
sì dolcemente ne 'l mio cor venisti,
per un soave sguardo che facisti
da' tuoi begli occhi, che mi mirar fiso,
sì che già mai da te non fia diviso...

Dove l'eco dell'episodio di Francesca non è solo in quest'ultimo verso; ma nel riso, e, sopra tutto nel concetto del soave sguardo: Per più fiate gli occhi ci sospinse. Le parole di Francesca erano nel pensiero del suo nepote a cui parevano le formule necessarie dell'amore che non s'estingue nemmen nella morte.

Ma forse ad alcuno si presenta un'ipotesi contraria: Guido avrebbe conosciuto l'inferno e questo canto, e per questo avrebbe amato e poi accolto il [278] poeta. Ma tale ipotesi è da respingersi subito. Dante, in vero, sarebbe stato profeta? avrebbe preveduto l'invito e l'ospitalità dei Polentani, sì che esaltava e abbelliva, tanti anni prima, una lor donna adultera? Perchè la intenzione d'abbellire ed esaltare è manifesta. E poi si tenga sempre fermo che il primo canto dell'inferno, ossia la pietra angolare del poema non poteva esser deposta nelle fondamenta, se non quando al Poeta si fosse mostrata impossibile la vita attiva. Riteniamo dunque che Dante compiacque al Polentano con questa trista e pia narrazione. Ma essa è nel V canto dell'inferno, al bel principio della Comedia; è anzi il primo dei piccoli e insieme grandi drammi di cui è intessuto il poema sacro. Dunque l'inferno e il poema furono cominciati presso a poco, a Ravenna, intorno al tempo in cui Dante conobbe Guido Novello? Così, io credo, avrebbero creduto e crederebbero tutti, se non fosse quel preconcetto, per il quale noi imaginiamo che al poema infinito sia occorso, sto per dire, un tempo infinito. Di questo preconcetto ho fatto ragione, mostrando con la testimonianza dell'autore stesso, che nelle proporzioni del tempo che gli occorse per gli ultimi ventitrè canti del Paradiso, la Comedia e' l'avrebbe potuta compiere in otto anni e meno, in quanti passano dal settembre 1313 al settembre del 1321. E c'è chi attesta che nel 1313 appunto Dante si recò a Ravenna: il Boccaccio, i cui asserti si mostrano via via esatti. Egli narra che morto Arrigo, Dante “sanza andare di suo ritorno più avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se n'andò in Romagna, là dove l'ultimo suo dì, e che alle sue fatiche dovea por fine, l'aspettava„. Morto Arrigo, comincia il poema: proclama [279] la logica. Morto Arrigo, va in Romagna: narra chi per i suoi conversari in Romagna, in Ravenna, coi discepoli e amici di Dante, lo poteva ben sapere. E questi continua dicendo che Guido “seco per più anni il tenne„; e nel sonetto in cui lo ritrae, mette insieme Fiorenza e Ravenna, le due città che l'ebbero prima e dopo dell'esilio:

Fiorenza gloriosa ebbi per madre
anzi noverca...
Ravenna fummi albergo nel mio esigilo...

Il tempo in cui errò come legno senza vela, senza compier cosa che cominciasse, è come non fosse. Nella vita di Dante non c'è, per il Boccaccio, che Fiorenza e Ravenna, che la Vita Nova e la Comedia, legate insieme dalla mirabile visione, che là vide e qua descrive. Che cosa induce i più dei critici, o tutti, a non prestar fede al Boccaccio? Il Ricci, pur disposto ad albergar Dante il più possibile nella sua Ravenna, il Ricci oppone: Guido Novello nel 1313 o 1314, non era Signor di Ravenna. Perchè il Boccaccio afferma appunto questo: “Era in que' tempi signore di Ravenna, famosa e antica città di Romagna, un nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novello da Polenta; il quale ne' liberali studi ammaestrato, sommamente i valorosi uomini onorava, e massimamente quelli che per iscienza gli altri avanzavano. Alle cui orecchie venuto, Dante fuori d'ogni speranza essere in Romagna (avendo egli lungo tempo avanti per fama conosciuto il suo valore) in tanta disperazione, si dispose di riceverlo e d'onorarlo„. Bene: io ricordo queste parole appunto del Ricci: “Col 1314 la persona di Guido Novello comincia a primeggiare [280] nella storia dei Polentani e di Romagna.„[231] E anche prima, quando Lamberto e Bernardino guerreggiavano contro Arrigo, e Bernardino poi era fatto podestà in Fiorenza, non è ragionevole credere che Guido Novello li rappresentasse in Ravenna? A ogni modo, Guido non fu signore di Ravenna nemmen dopo la morte di Lamberto: fu podestà, non signore. Se il Boccaccio avesse scritto “Era in quei tempi podestà di Ravenna etc.„, si avrebbe ragione d'imputargli un errore di data; ma questo termine di “signore„ non indica se non un'effettuale autorità la quale è ben certo che Guido Novello poteva esercitare anche prima d'essere podestà. A ogni modo, l'errore perchè emendarlo dicendo: “Dante venne a Ravenna solo nel 1316, quando Guido Novello era veramente podestà o signore„, invece che dicendo: “Dante venne a Ravenna nel 1313 o '14, ma Guido non era ancora signore o podestà„? Tanto più che il resto della narrazione del Boccaccio difficilmente può sostenersi, se si protragga la data della sua venuta a Ravenna. Invero Dante fuori d'ogni speranza del ritorno, si sarebbe aggirato in tanta disperazione per la Romagna... quanto tempo? Tre anni e mezzo! Pochi più sarebbero in questo caso gli anni che Dante dimorò in Ravenna; sarebbero quattro, sì e no. E tanti bastano perchè il Boccaccio dica “per più anni„, e divida, in certo modo, la vita di Dante in due periodi, il fiorentino e il ravennate?

O in questo periodo di tre anni e mezzo Dante sarebbe stato altrove: a Pisa, per esempio, a Lucca, a Verona? Osserviamo prima di tutto, che dalla retta [281] interpretazione del poema, ossia dalla bocca del Poeta stesso, si ha che egli spera in un futuro imperatore che distrugga la cupidità dalla quale tutti i mali provengono e la quale impedisce l'esercizio della vita attiva; ma che esso, in tanto, rinunzia alla vita attiva, impossibile per lui. E l'avrebbe dunque dopo la morte d'Arrigo perseguita ancora, mettendosi con Uguccione Faggiolano, per esempio, e con Cane Scaligero? Sì? E allora non avrebbe certo cominciata la Comedia, e forza è allora restringere anche più i termini dentro i quali fu composto il poema

al quale han posto mano e cielo e terra.

Può, sì, darsi che il nome e la parte e la dignità di Cane gli suggerissero un'imagine e forse anche una speranza meravigliosa; ma che andasse allora in Verona, deve negarsi. Dante fu a Verona poco dopo l'esilio: fu quello il suo primo rifugio. (Par. 17, 70) Se il verso

A lui t'aspetta ed a' suoi benefici,

combinato con le parole della sospetta epistola “Le vostre magnificenze io vidi; vidi pure i benefici e n'ebbi parte„, provano che Dante fece ritorno a Verona e rivide Cane in grande stato; ebbene lo rivide più tardi. Poichè la Quaestio de aqua et terra, dopo, le osservazioni di Edoardo Moore, non è più sospetta,[232] ed essa fu dall'Alighieri sostenuta il 20 gennaio 1320, il ritorno a Verona si fece attender [282] molto. E vedete coincidenza mirabile. Il canto decimosettimo del Paradiso, appartiene a quella seconda decina che, secondo il computo nostro, Dante avrebbe composta intorno a questo tempo; sì che le parole “A lui t'aspetta ed a' suoi benefici„ son quelle, in certo modo, che il povero lettore di retorica, l'annoveratore delle capellae ravignane, rivolgeva al suo animo, nel partire per Verona.

Non s'esclude che durante la discesa di Arrigo, se si vuole, e alcun tempo dopo, Dante si trovasse a Pisa e a Lucca; ma il Casentino è il luogo dove è attestato che dimorasse. Egli scrisse le lettere ai Fiorentini e ad Arrigo in finibus Thusciae sub fontem Sarni e in Thuscia sub fontem Sarni, il 31 di marzo e il 18 d'aprile del 1311, Divi Enrici faustissimi cursus ad Italiam anno primo. Nel Casentino dimorò a lungo: tanti sono i personaggi, i luoghi, i fenomeni che ne descrisse nella Comedia.[233] Rivide il luogo dove aveva provato, da giovine feditore, paura e letizia. Era bello il grano e l'erba a Certomondo, in quella primavera dell'anno da cui sperava Dante cominciasse un'era nuova? Come quando vi si trovarono a passeggio quelle due donne del Sacchetti. “Fu, non è gran tempo, in casa conti Guidi maritate due donne; l'una fu figliuola del conte Ugolino della Gherardesca, il quale i Pisani feciono morire di fame co' figliuoli; l'altra fu figliuola di Bonconte da Montefeltro, uomo e quasi capo di parte Ghibellina, e che era, o egli o' suoi, stato sconfitto con gli Aretini da' Fiorentini a Certomondo. Advenne adunque per caso, che del mese di Marzo, queste due [283] donne, andando a sollazzo verso il castello di Poppi, e giugnendo in quel luogo a Certomondo, dove i Fiorentini aveano data la detta sconfitta, la figliuola del conte Ugolino si volse alla compagna e disse: O madonna tale, guardate quanto è bello questo grano, e questo biado, dove furono sconfitti i Ghibellini da' Fiorentini; son certa che il terreno sente ancora di quella grassezza. Quella di Bonconte subito rispose: ben è bello; ma noi potremo morire prima di fame che fosse da mangiare„. Appunto questa donna, che cominciò a trafiggere e poi fu morsa, Dante la conobbe. Era Gherardesca di Donoratico moglie di Guido di Simone da Battifolle. Per lei scrisse Dante (è probabile) tre lettere a Margherita di Brabante, moglie di Arrigo, soscrivendone una “missum de Castro Poppii XV Kalendas Iunias, faustissimi cursus Henrici Caesaris ad Italiam anno primo„. Vicino alla figlia del Conte Ugolino, udendo muggire l'Archian rubesto che travolse Bonconte, vedendo scorrere freddi e limpidi i ruscelletti che inasprivano la sete di Maestro Adamo, visse Dante, nell'aspettazione del ritorno in patria, al fonte di quel fiume alla cui foce doveva augurare una siepe d'isole... E la divina Comedia non ora ancor nata, e Dante, forse distrattamente, udiva qua e là porre i problemi insolubili ch'egli doveva solvere varcando il confine che è tra la vita e la morte: Come morì il padre di costei? dove morì il padre di colei?

Ma la divina Comedia non era ancora nata. Per concepire il primo di quelli che ho chiamati grandi e piccoli drammi ultramondani, egli doveva scendere di là dell'Apennino, e recarsi alla foce dell'altro più gran fiume d'Italia, alla foce di quell'Eridano [284] al cui fonte cantano il peana i pii vati. E il dramma di Francesca, che è il primo dello inferno, accompagna, no, suggerisce e prepara l'ultimo dell'inferno, che è il dramma di Ugolino. Invero non scriveva l'uno senza aver pensato anche l'altro, che gli è simmetrico e analogo. Già Francesca nomina il luogo dove l'altro episodio consimile si svolge: la Caina che è parte della ghiaccia, la Caina, nella quale, del resto, Ugolino avrebbe a essere.[234] Tra il vento della bufera infernale ella intravede la palude solidificata dal ventilare delle grandi ali di vispistrello. Ella è in eterno unita al suo amante; l'altro unito eternamente al suo nemico. Ma questi vanno insieme, quelli l'un mangia l'altro. L'amore e l'odio, l'un a capo, l'altro in fondo. Sì Francesca e sì Ugolino cessano dall'andare e dal rodere, per parlare a Dante. Dante allo stesso modo è attratto dalla vista delle due coppie. Francesca e Ugolino (la Romagna e la Toscana) dicono a lui, perchè sian “tal vicini„. Dall'una vuol Dante sapere il principio della loro sventura; dall'altro non è mestieri che oda questo: quel che non può avere inteso, è la fine. E questo principio e questa fine, dicono ambedue, piangendo. Farò come colui che piange e dice: esclama l'una; e l'altro: Parlare e lagrimar vedrai insieme. E ambedue hanno una sentenza a capo della loro narrazione, una sentenza virgiliana: così:

Poi cominciò: Tu vuoi ch'io rinnovelli
disperato dolor che il cor mi preme
già pur pensando pria ch'i' ne favelli;

[285] e così:

ed ella a me: Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.

L'uno aborrisce da rinnovare un dolore infandum, cioè indicibile, perchè preme il cuore prima che si dica; l'altra rifugge dal richiamare un piacere. Ma perchè il ricordo del bene è così doloroso come il ricordo del male? Perchè manca nell'uno e nell'altro caso, la speranza; la speranza di annullare quel male e di richiamare quel bene: disperato dolore. Se la sentenza di Ugolino è un noto verso di Virgilio, quella di Francesca, che il dottore di Dante sa, è il sunto di tutta una storia di lui. E un'imprecazione hanno infine ambedue; l'una: Caina attende chi vita ci spense... l'altro, non dice nulla, ma come cane addenta il cranio del nemico. Tacciono i compagni o vicini, tutti e due; mentre la donna fa il racconto d'uno spasso cavalleresco, qual'è la lettura d'un romanzo d'amore; e l'uomo narra un sogno, orribile e sanguinoso, ma d'uno spasso pur cavalleresco: una caccia. E non è da tralasciare che in principio dell'un dramma si parla delle foci del Po, e in fine dell'altro, delle foci dall'Arno; opposte foci, come è opposto l'amore e l'odio, il principio dell'inferno e la fine, il bacio che trema lassù e il morso che scricchiola laggiù.

Or vediamo quanta persuasiva congruenza è nei tratti della vita di Dante, che ci paiono certi, con la genesi, che ci studiamo di rilevare, del suo poema. L'esule fiorentino all'avvento di Enrico ritrova nel cuore rinfrescate tutte le speranze del ritorno e tutte le memorie della patria. Stando alla fonte dell'Arno, [286] egli rivive il tempo che di poco precede l'esilio. Si vede, senza sforzo, nel mezzo del cammino della sua vita, così grama da più d'un decennio. Tutto e tutti, che erano nella sua patria, quando dovè lasciarla o non potè rientrarvi, gli appariscono vivi della vita d'allora, col sembiante di quei tempi. Aspetta, errando forse di castello in castello, nel Casentino. Quei luoghi, quei discorsi, quei personaggi gli s'imprimono nella mente. Egli conosce (almeno ne sente parlare) la figlia del conte Ugolino: apprende o ricorda quel lugubre dramma, tanto più ch'egli è forse andato a Pisa, a veder l'imperatore e Uguccione. Sente là parlar bene di Can della Scala, ch'egli aveva conosciuto fanciullo. Quando Arrigo inopinatamente muore, ogni speranza crolla. Egli ripercorre le vicende di quella corsa punto faustissima: Ci voleva più rapidità e risoluzione: il Cane doveva essere più veloce: doveva esser veltro, contro questa che non è una volpicella, ma una lupa. Il Casentino non è più rifugio sicuro per lui: quei conti sono troppo abituati a cambiar parte.[235] E passa le “alpi di Appennino„. Si fermò egli a Forlì, da Scarpetta degli Ordelaffi? È possibile.[236] Ma ecco che un cavaliere, di potente famiglia e di liberali studi, sa di lui; e lo invita a venire a Ravenna. Potrà vivere colà quieto, benchè la città sia guelfa; lo assicura il cavaliere gentile, che è spregiudicato ed equanime. D'altra parte, egli si guadagnerà il suo pane insegnando in quello studio.[237] Oh! sì: [287] rinunziamo a tutto; alle parti e magari alla patria! E ripensa alla sua Beatrice, che aveva trasformata in sapienza, la quale non si trova se non nella via della contemplazione, uscendo, in cotal guisa, dal grave involucro terreno. E riprende la Mirabile Visione.

La città è antica. È piena di chiese e di santi. Sono in quelle chiese teorie di santi estatici, che hanno riflessi di cielo. Una grande foresta è ai confini [288] dell'orizzonte.[238] Per certo in quella errò meditabondo. E da una selva comincia il poema. Il viatore cammina da una selva selvaggia a una divina foresta: poi da viatore si fa comprensore, e ascende. Là dove ascende, udrà parlare Giustiniano e gli apostoli, vedrà trionfare il Redentore, le cui imagini ammira già ne' musaici orientali di San Vitale. Subito a principio della Comedia egli narra la storia di Francesca che non aveva potuto saper prima, o non avrebbe voluto prima abbellire e sublimare. La storia di Francesca si abbina ad altra più lugubre, pure appresa o ricordata in quelli ultimi tempi. Fiorenza, cui tanto bramò pochi mesi prima, il Casentino da pochi mesi lasciato, la Romagna in cui è e dimora gli forniscono a dovizia materia per il grande edifizio. Si aggiungono tutti gli studi che già iniziò nel 1291, tutta l'esperienza acquistata quando errava come legno senza vela, tutte le cognizioni tesoreggiate per il Convivio e per la Volgare Eloquenza, tutti i raziocinii già esposti nelle epistole e nel cominciato [289] libro di Monarchia; tutte le speranze deluse, tutte le memorie risognate, tutte le sue ire, tutti i suoi amori; e nella silenziosa città della marina Padana, già rifugio dell'impero di Roma, tutta odorata di profumo ascetico, piena d'arche, piena di monumenti, piena di visioni, egli pon mano al Poema Sacro.

XXII.
L'ALPIGIANA

Dicono che nell'Inferno non sono allusioni che vadano oltre il 1308, e che quindi nel 1308 la prima cantica era compiuta. Dove sono, io chiedo, nelle altre cantiche allusioni che vadano così lontano? Non si va, in esse, oltre il 1313, anno della morte di Arrigo. Dunque la Comedia era finita in quell'anno? Il fatto è che gli avvenimenti dopo il trecento non potendo essere accennati che a mo' di profezia, il Poeta non poteva abbondare in accennarli e profetarli. E tuttavia la prima cantica contiene un'allusione che va più in là della morte di Arrigo: quella della morte di Clemente, il Guasco che l'ingannò. Nicolò, il figliuol dell'orsa dice che sarà più il tempo da che egli sta sottosopra a cocersi i piedi, che non sarà quello che ci starà Bonifazio. Nicolò morto nel 1280 starà dunque sottosopra sino al 1303 nel qual anno morrà Bonifazio: dunque ventitrè anni. E Bonifazio dovendo star così sino alla morte di Clemente, che è per essere nel 1314, ci [290] starà soli undici anni. Si allude qui, dunque, all'anno 1314. Ed è il canto XIX. (v. 76) C'è poi nel XXVIII il (v. 76) fatto di Guido e Angiolello mazzerati da Malatestino; il qual fatto è posto nel 1312. E a ogni modo è di quelli che Dante difficilmente poteva sapere fuor di Romagna e di Ravenna. Al qual proposito ricordo di nuovo Marcabò che è nominato a proposito di Piero, il cattano seminator di scandoli, prima de' duo miglior di Fano: (v. 73)

Rimembriti di Pier da Medicina
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.

Invece di credere col Ricci, che queste parole non poterono essere scritte “che prima del 1309, mentre cioè Marcabò esisteva„,[239] io credo che non poterono essere scritte che dopo il 1313 o il '14, dopo, cioè, il tempo, che Dante ebbe conosciuti i Polentani e le loro gesta. Questa designazione che fa Dante della valle del Po, da Vercelli a un castello qualunque, deve essere spiegata come qualunque altra operazione mentale di qualunque omicciuolo. Perchè il pensiero di Dante si fissò in Vercelli e Marcabò? Vercelli altra volta ricorse alla penna dell'Alighieri: nella lettera ad Arrigo: “la qual (rabbia), poichè si sarà chetata sotto il flagello, rigonfierà a Vercelli, a Bergamo, altrove...„ Il nome di Vercelli è qui a mo' d'esempio, come un altro qualunque. Ma perchè si presentò al pensiero di Dante? Forse per il suo studio o forse per il suo assedio passato. [291] E Marcabò, in quest'altro passo, in cui è accoppiato a Vercelli, perchè? Appunto, per la sua distruzione, fatta dai Polentani, coi quali ebbe che fare il cattano che cavalcando per la Romagna sommoveva tra loro, con sue lettere, Messer Malatesta da Rimino e Messer Guido da Ravenna. Sicchè è molto più ragionevole affermare che il verso fu scritto dopo il 1309, che dire che non potè essere scritto che prima.

Ma c'è, oltre le molte dichiarate più sopra, una nuova ragione positiva per affermare che la Comedia non fu cominciata che intorno alla morte di Arrigo: Dante stesso narra questo cominciamento!

Nel 1306 Dante era in Lunigiana, presso i Malaspina, come risulta da un atto del 6 ottobre di quell'anno, col quale egli è nominato procuratore dai marchesi Franceschino, Moroello e Corradino Malaspina per concludere la pace col Vescovo di Luni; pace che concluse. All'ospitalità, certo condegna, come di tali che adoperavano l'esule in così importanti negoziati, allude il Poeta nella Comedia. (Pur. 8, 115) Or v'è di lui una epistola latina Domino Maroello Marchioni Malaspinae, la quale ha da esser posta insieme con quelle ai Principi, ai Fiorentini e ad Arrigo, e con quelle scritte per Gherardesca da Battifolle.[240] Non ha ella per vero la soscrizione [292] solita; perchè termina in tronco, presentando qualcos'altro, che secondo ogni probabilità, è un componimento poetico, la canzone Amor, dacchè convien, in fondo alla quale, se mai, tal soscrizione è da cercare. Ed ella invero ha nel commiato:

O montanina mia Canzon, tu vai:
forse vedrai Fiorenza la mia terra,

e a principio dell'ultima stanza ha

Così m'hai concio, Amore, in mezzo l'alpi
nella valle del fiume;

i quali accenni equivalgono bene a in finibus Thusciae sub fonte Sarni. E corrispondono a questa frase dell'epistola: cum primum pedes iuxta Sarni fluenta securus et incautus defigerem.

La canzone, Amor, dacchè convien, è per certo ciò che Dante annunzia in fine all'epistola con le parole: Regnat itaque Amor in me, nulla refragante virtute; qualiterque me regat, inferius, extra sinum praesentium requiratis. Invero la canzone comincia

Amor, dacchè convien pur ch'io mi doglia
perchè la gente m'oda,
e mostri me d'ogni virtude spento.

E nella seconda stanza c'è:

Quale argomento di ragion raffrena
ove tanta tempesta in me si gira?

E nella terza:

La nemica figura che rimane
vittoriosa e fera,
e signoreggia la virtù che vuole.

[293] E altrove sono altre imagini a dichiarare il concetto che è nelle parole: regnat... Amor in me nulla refragante virtute. Il poeta dice di sè, che è “in potere altrui„, che è feruto, senza vita, tutto tremante di paura, serrato da una catena, senza più libertà. E nella epistola, oltre che nella fine, sono di tai concetti anche più su. Vi si parla di vincula, di negligentem carceratum, di terrore, di Amor terribilis et imperiosus, di dominus che occidit... expulit... ligavit... relegavit... liberum arbitrium ligavit; sì che al Poeta convien andare ove vuol lui, non dove vuol esso. Inoltre l'amore è raffigurato nell'epistola così: “una donna, come folgore che cada, m'apparve... Oh! quanto rimasi attonito nel mirarla! Ma lo stupore cessò col terrore del tuono che seguì il baleno. Chè come alle corruscazioni divine succedono subito i tuoni, così, veduta la fiamma della bellezza di lei, ecco l'Amore terribile e imperioso mi tenne„. E nella canzone, stanza quarta, dice che egli rimane senza vita, dopo che è feruto dagli occhi della “nemica figura„. Poi, l'anima torna al cuore, ma tutta smemorata. Esso si riprende a stento e trema tutto e impallidisce per il tuono che gli giunse addosso:

che se con dolce riso è stato mosso,
lunga fiata poi rimane oscura (la faccia)
perchè lo spirto non si rassicura.

C'è qui dunque un lampeggiar di dolce riso, seguito da un rimbombo, che fa tremare, impallidire, stupire e dimenticare.

Che l'epistola e la canzone fossero composte nel Casentino, e al tempo della discesa di Arrigo, [294] si conferma per questa notizia del Boccaccio: “troviamo lui sovente avere sospirato e massimamente dopo il suo esilio... vicino allo estremo della sua vita, nell'Alpi di Casentino per una Alpigiana, la quale, se mentito non m'è, quantunque bel viso avesse, era gozzuta. E per qualunque fu l'una di queste, compose più e più lodevoli cose in rima„. Di che si ricava che la canzone Amor, dacchè convien, dove è tale intensa espressione d'amore improvviso e fiero, era interpretata, e da altri che dal Boccaccio, come veramente amorosa; e, ciò che più monta, si sapeva che era stata scritta nell'Alpi di Casentino, da lui vicino all'estremo della sua vita: nel tempo, dunque, come facilmente s'argomenta, che corre dal 1311 al 1313, quand'egli aveva da 46 a 48 anni.

Nell'epistola è un espressione sospetta al primo editore di quella: ad conspectum Magnificentiae vestrae presentis oraculi seriem placuit destinare. Il Witte suppone oratiunculae. Male. Sì destinare e sì seriem mostrano che sta bene oraculi. Il destino o fatum definisce Cicerone ordinem seriemque causarum.[241] Servio ha la definizione del fato secondo Iulio: fatum est connexio rerum per aeternitatem, commentando l'oracolo di Eleno,[242] al verso volvitque vices, hic vertitur ordo. E Dante sapeva come

al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenzia di Sibilla.
(Par. 33, 65)

Sapeva, egli che sapeva tutta quanta l'Eneida, che [295] la Sibilla dopo aver scritte su foglie l'oracol suo, digerit in numerum, e finchè rimangon ferme neque ab ordine cedunt, si posson leggere.[243] Quest'idea di serie, ordine, connessione è accoppiata sì a fato sì a oracolo, che è interpretazione del fato. E ce ne persuade anche più il verbo destinare. Ricordiamo il racconto di Sinone, cui Calcante, dopo aver taciuto un pezzo, destinat arae. Ciò interpretando un “oracolo„, l'oracolo portato da Euripilo a cui Dante pensò altra volta. (Inf. 20, 112) Destinat, potè pensare Dante, è la parola che ci voleva per indicare un'assegnazione manifestata mediante l'oracolo; ed è perciò solenne e sacra dove d'oracoli si parli. E sta bene, dunque, oraculi seriem destinare. Ma che vuol dire? Vuol dire appunto “proporre a risolvere questo oracolo sibillino„. E quindi è giusto, più giusto che per altre canzoni, le quali è pur così giusto interpretare allegoricamente, prepararsi a vedere nella donna che scende come folgore, altra donna di quel che paia. Ma leggiamo la lettera.

“Perchè al Signore non restino ascosi i legami del servo suo (servo il cui padrone era l'affetto vostro, la grazia vostra gratuita)[244], perchè le dicerie, una cosa riportata per un'altra, il che è semenzaio di false opinioni, non divulghino che il servo s'è [296] fatto mettere, per non badarsi, in prigione; mi piacque al cospetto della Magnificenza vostra proporre questa specie d'oracolo di Sibilla.

Quando io m'allontanai dal limitare della vostra corte, che dopo ebbi a sospirare (in essa voi vedeste quasi meravigliando che io ero libero, sebben vostro servo),[245] mentre senza più pensieri e precauzioni piantavo i piedi lungo le correnti d'Arno, a un tratto, ahimè! una donna, calando come folgore, apparse, non so come, conforme ai miei auspicii d'ogni parte per costumi e bellezza. Oh! quanto rimasi attonito all'apparir di lei! Ma lo stupore cessò al terrore del tuono che seguì. Chè, come ai lampi, nel giorno, subito succedono i tuoni, così veduta la fiamma della bellezza di costei, Amore terribile e imperioso mi tenne. E questo feroce, come signore cacciato dalla patria, dopo lungo esilio tornando alla sua terra, tutto ciò che dentro me trovò di contrario a lui, o uccise o sbandeggiò o imprigionò. E dunque uccise quel mio lodevole proposito, per il quale mi astenevo dalle donne e dai canti d'amore, e relegò empiamente, come sospette, quelle assidue meditazioni con le quali contemplavo le cose sì celestiali e sì terrene; e alfine, perchè l'anima mia più non gli si ribellasse, incatenò il mio libero arbitrio, sì che a me conviene volgermi, non dove voglio io, ma dove vuol lui. Dunque regna su me Amore; e in che modo mi governa, cercatelo più sotto, fuor di questa epistola„.

Noi sappiamo quando e come egli si mise in “quelle assidue meditazioni„. Anche allora avvenne una battaglia. “Perocchè non subitamente nasce [297] amore e fassi grande o viene perfetto, ma vuole alcuno tempo e nutrimento di pensieri, massimamente là dove sono pensieri contrarii che lo impediscono, convenne, prima che questo nuovo amore fosse perfetto, molta battaglia intra 'l pensiero del suo nutrimento e quello che gli era contrario...„. (Co. 2, 2) Il nuovo amore quella volta era per “la bellissima e onestissima figlia dello Imperadore dell'Universo, alla quale Pittagora pose nome Filosofia„. (Co. 2, 16) L'amore per lei “trovando la vita di Dante disposta al suo ardore, a guisa di fuoco di picciola in gran fiamma s'accese„. (Co. 3, 1) Sappiamo quali di codesta donna erano gli occhi e il riso: “gli occhi della sapienza sono le sue dimostrazioni, colle quali si vede la verità certissimamente; e 'l suo riso sono le sue persuasioni, nelle quali si dimostra la luce interiore della sapienza sotto alcuno velamento: e in queste due si sente quel piacere altissimo di beatitudine, il qual è massimo bene in Paradiso„. (Co. 3, 15) E sappiamo che effetto aveva nell'anima di Dante quell'amore: “nella sua mente informava continue, nuove e altissime considerazioni di questa donna„, cioè della filosofia. (Co. 3, 12) Le assidue meditazioni, con le quali contemplava le cose sì celesti e sì terrene, sono ben codeste! Dunque Dante racconta a Moroello, in forma quasi d'oracolo, il contrario di ciò che avvenne allora, quando l'amore per una donna terrena, sebben morta, fu sopraffatto dall'amor d'un'altra donna, la quale ispirava “continue, nuove e altissime considerazioni„. Ora questo amore qui, ossia le assidue meditazioni con quel che segue, sono relegate come sospette da un altro amore. Poichè appunto il Convivio (dove erano e più avevano [298] a essere quelle continue considerazioni o assidue meditazioni) fu interrotto, è innegabile che nell'epistola a Moroello Dante dica appunto che ha interrotto il Convivio.

Ma qual fu l'amor nuovo che l'interruppe? Dante lo dice chiaramente: è un reduce; è un signore del cuor suo, che n'era stato sbandeggiato, e ritorna terribile e imperioso “dopo lungo esilio„. E qui prorompe il grido che a noi esprimono le verità quando appariscono: è quello, è l'amor di Beatrice, è la mirabile Visione, è la divina Comedia!

Non si obbietti, per carità, che nella Comedia, anzi, sono quelle continue considerazioni e assidue meditazioni. Per carità! Anche Beatrice prima del Convivio era simbolo di sapienza, anche i suoi occhi facevano vedere il paradiso: era lei quel che poi fu la donna gentile. Ma Dante de' suoi simboli fa quel che vuole. Nel Convivio mostra di non ricordarsi più che Beatrice era la sapienza; nella lettera a Moroello, finge di non saper più che le assidue meditazioni erano figurate negli occhi e riso e amor d'una donna.

L'amor nuovo uccise quel lodevole proposito per il quale Dante s'asteneva da cantar donne. Il Convivio è comento a canzoni d'amore (non tutte anzi d'amore, anzi le più non d'amore ma di rettitudine o salute); ma l'amore è dichiarato per istudio e la donna amata per sapienza e filosofia. Ora se quest'amor nuovo è quello che darà il poema sacro, come può dirsi che Dante abbia mutato proposito? È un canto d'amore il poema sacro? Sì: canto d'amore, canto anzi di nozze, di pieno e intero soddisfacimento. È vero bensì che l'amore è studium e [299] Beatrice è sapientia, ma è altrettanto vero che Dante non dichiara esso i suoi simboli, e che conduce l'opera sua, come s'egli rivedesse la sua donna morta, e non la sempreviva sapienza. E gli occhi e il riso di Beatrice, nel terzo regno, sono tal quali gli occhi e il riso della Donna gentile del Convivio;[246] ma che ci abbiamo a veder noi? È la stessa donna, ma Dante vuol che sia un'altra; lo stesso amore, tre volte, per buona metà, almeno, della Vita Nova, per il Convivio, per la Comedia; eppure Dante dice che furono tre, e che il secondo nacque in opposizion del primo, e il terzo in contrasto col secondo. Ed è vero tutte e due le volte: il Convivio tenne in sospeso e quasi che non abolì la Comedia; la Comedia interruppe il Convivio.

Così il pensiero della Comedia sarebbe nato, cioè risorto, nelle alpi d'Appennino, lungo l'Arno, anzi alla fonte dell'Arno, d'un tratto, come folgore che scoscenda. Come in un baleno, Dante vide che quella era l'opera sua, e che esso era nato per lei, conforme in tutto a' suoi auspicii, cioè a' suoi desiderii, a' suoi fini, a' suoi studi. Moribus et forma: perchè materiata di filosofia morale; perchè formata di arte poetica. Dopo il lampo, nel quale egli vide quanto ella era bella, grande, sublime, seguì il tuono che atterrisce. Oh! quanto cammino da percorrere! quanti ostacoli da vincere! quanti drammi da raccontare! quante questioni da risolvere! quanti cuori da scrutare! quanti veri da approfondire! quante ire! quante lagrime! quante glorie! cielo e terra! [300] tutto l'universo! Ed egli non pensa più ad altro: egli è prigioniero della sua idea; non ha più libero arbitrio.

E leggiamo la canzone.[247] Nella prima stanza Dante invoca da Amore di poter esprimere lo stato dell'anima sua. Così nel Convivio dice: “siccome lo multiplicato incendio pur vuole di fuori mostrarsi, che stare ascoso è impossibile; volontà mi giunse di parlare d'Amore, il quale del tutto tenere non potea„. Il fatto è che questo, di parlare e confidarsi, è un vero bisogno di chi ama; e Dante, con questo, simboleggia l'altro pur imperioso bisogno di chi sa, che vuole scrivere e aprire agli altri quel che sa, quel che ha trovato e veduto. Onde anche nella Vita Nuova la beatitudine dell'amante consiste nelle parole che lodano l'amata; ossia la felicità del filosofo è ne' suoi studi e scritti filosofici, quando egli ha trovato e può manifestare alcuna verità agli uomini. Nella nostra canzone, ciò ch'egli ha a dire, è molto, è grande, è difficile: gli occorre, per dirlo, savere pari alla voglia. Il duolo, cioè la passione d'amore che egli nutre, cioè il suo disegno di opera, solo con tanto savere sarà espresso dalle parole come egli lo sente. — Eh! non era impresa da pigliare a gabbo! —

Tu vuoi ch'io muoia, ed io ne son contento.

Si tratta d'un amore che non può finire con la morte, cioè il più grande che sia possibile; e si tratta, sì, [301] d'un amore che affretterà la fine della vita mortale all'amatore; ma che importa?

Tu vuoi ch'io muoia, ed io ne son contento
Ma chi mi scuserà, s'io non so dire
ciò che mi fai sentire?

La morte comune non è nulla; ma s'io non potrò o saprò colorire l'altissimo disegno, oh! quello sì che sarà un “perder vita„! Chi mi scuserà?

Ma se mi dai parlar quanto tormento,

cioè parole adeguate al mio concetto,

fa, signor mio, che innanzi al mio morire
questa rea per me nol possa udire;
chè, se intendesse ciò ch'io dentro ascolto,
pietà faria men bello il suo bel volto.

Il senso letterale è un concetto d'amore, che si può trovar piccolo e grande: “L'amata non sappia la pena che mi conduce a morire, se non quando sarò morto: e così la pietà che di me risentirebbe, non la turberà e non la farà men bella„. Ma per trovarlo ragionevole, questo concetto, dobbiamo scusarlo dicendo che è irragionevole, come il più de' pensieri d'amore. Ragionevole, invece, d'ogni parte, e profondo e grande, è il senso allegorico: “La Comedia (personificata in una donna) non sappia il tormento che mi costa: ella s'impietosirebbe e non vorrebbe che io morissi per lei; e invece io voglio morire, se morire significa compiere il poema sacro!„

La seconda stanza:

[302]

Io non posso fuggir, ch'ella non vegna
nell'immagine mia,
se non come il pensier che la vi mena.

Anche qui il senso letterale non è gran che: “Io non posso non pensarci, perchè... ci penso.„ Ma allegoricamente, è altra cosa: “È una donna, questa mia, cui amare è quanto pensare. Ella è dunque sempre con me, come sempre con me è il mio pensiere„.

L'anima folle, che al suo mal s'ingegna
com'ella è bella e ria
così dipinge, e forma la sua pena:
poi la riguarda, e quando ella è ben piena
del gran desio, che dagli occhi le tira,
incontro a sè s'adira,
ch'ha fatto il foco, ov'ella trista incende.

L'anima si figura questo poema, così come ha da essere bello e difficile: e fa il proprio danno, perchè lo riguarda, e così lo desidera, e così soffre. E continua dicendo che la ragione non ci può nulla, e che l'angoscia si manifesta con lamenti e lagrime. E nella terza stanza continua a narrare come questa “nemica figura„, che ha vinto il suo libero arbitrio (la virtù che vuole), lo conduca a suo talento, dove vuol ella e non esso. Egli è la neve che va al sole... Oh! di ciò si ricorderà nella Comedia, dicendo, che il poema l'ha fatto macro! È prigione, va a morire. Ma gli par di sentire parole di speranza... Chi le pronunzia? Oh! noi lo sappiamo, chi. È Virgilio, son le Muse, è il buon Apollo, è la coscienza del lungo studio e del grande amore e dell'alto ingegno! E nella quarta esprime il concetto del lampo e del [303] tuono, della luce seguìta dalle tenebre; che è la visione del poema, intera e perfetta, seguìta dallo scoramento di chi deve ricostruirla a parte a parte.

L'ultimo:

Così m'hai concio, Amore, in mezzo l'alpi,
nella valle del fiume
lungo il qual sempre sopra me sei forte.

Perchè lungo l'Arno, l'Amore è più forte di Dante? Perchè lungo l'Arno egli già pensò la Comedia, ossia vide la mirabile Visione; e qui ora la ripensa, e qui la rivede.

Qui vivo o morto, come vuoi, mi palpi
mercè del fiero lume
che folgorando fa via alla morte.

Il fiero lume che uccide folgorando, è quel lampo dell'epistola e quel dolce riso della stanza precedente, seguiti ambedue dal tuono e dallo sbalordimento.

Lasso! non donne qui, non genti accorte
vegg'io, a cui incresca del mio male:
se a costei non ne cale,
non spero mai da altrui aver soccorso.

S'intende: solo l'adempimento del suo mirabile proposito, sola la Comedia, può consolarlo: nessun'altra felicità umana. E si noti che, intendendo a lettera, d'una donna vera, il concetto sarebbe ben puerile!

E questa, sbandeggiata di tua corte,
Signor, non cura colpo di tuo strale,
fatto ha d'orgoglio al petto schermo tale,
ch'ogni saetta li spunta suo corso,
per che l'armato cuor da nulla è morso.

[304] Oh! questo si può dire, e si diceva su per giù, di qualunque donna che si dinegasse all'amatore; eppure le parole hanno un vigore speciale, quando sia tratto dal senso allegorico. La frase “sbandeggiata di tua corte„ significa, sì, nell'apparenza letterale, “insensibile all'amore„, ma non lo significa bene. Bene invece mostra l'altro significato: “non è una femmina come le altre: è un'idea„. E l'ultima espressione, più che una femmina orgogliosa e fredda, ci fa apparir dinanzi la volontà del Poeta, armata da tutto l'odio e da tutto l'amore, e dal desìo dell'arte e della gloria e della patria e della vendetta.

Ed ora si oda il commiato:

O montanina mia canzon, tu vai:
forse vedrai Fiorenza la mia terra,
che fuor di sè mi serra,
vota d'amore, e nuda di pietate:
se dentro v'entri, va dicendo: Omai
non vi può fare il mio signor più guerra:
là ond'io vegno una catena il serra
tal, che se piega vostra crudeltate,
non ha di ritornar più libertate.

Dalla fonte dell'Arno manda la canzone per la fiumana a trovar Fiorenza. Ella già dal 1311 ha rinnovata contro il Poeta la sentenza di morte, che doveva poi, nel 1315, estendere anche ai figli. Con la sua testa, per la quale già presentiva l'alloro immarcescibile, sarebbe dovuta cadere anche quella dei figli, cui in ogni caso faceva innocenti l'età novella. Ma esso, con le sue terribili lettere, non era, verso la patria, innocente: egli aveva fatto guerra alla guelfa città. Ed egli ora fa annunziare la tregua. [305] Risponde, con questi versi, alla riforma di Baldo d'Aguglione. Dice: sta bene! La immensa idea del poema sacro lo incatena. Anche se i Fiorentini vorranno impietosirsi e richiamarlo, egli non verrà, se non compiuto il poema che non è ancora cominciato. Quando per più anni questo avrà fatto macro il suo signore, e il triplice regno dell'oltremondo sarà descritto, allora sì: certo essi lo vorranno tra loro il Poeta, cinto di gloria, e il Poeta tornerà, non come un bandito cui si perdona, ma come un trionfatore che s'incorona.

L'Alpigiana che Dante amò nel suo anno quadragesimo ottavo, era dunque l'idea del suo poema, apparsagli come lampo tanto luminoso quanto rapido, seguito dal rimbombo confuso e lungo d'una meditazione piena di sgomento. Per una di quelle enormi ironie che la storia registra, nè altre ne conta più enorme di questa, la tradizione a questa Alpigiana eterea come il baleno, dalla voce di tuono che si franga tra l'alpi, prestò il gozzo, forse comune in alcuna di quelle vallate o borgate. La critica ha saputo distruggere la stolida credenza d'un amor volgare di Dante quasi vecchio, il quale ne scriva goffamente a Moroello; fosse egli il “vapor di vai di Magra„, uomo perciò grave e forte, o il giovanetto amico di Villafranca, unito al savio e dotto esule, come è verosimile, per la reverenza e l'ammirazione. A Moroello, invece, era ben naturale che Dante desse il nunzio della Comedia, come per oracolo, che forse egli solo al mondo poteva sciogliere. E qui alla probabilità sottentra l'evidenza.

Moroello Malaspina, al quale indirizzò l'epistola e l'augurale canzone, è (senza entrare in questioni) [306] per certo, dunque, un di quelli che l'aveva ospitato nel suo castello, che il poeta magnificando chiama curia, di Lunigiana, alcuni anni prima. Mentre il Poeta là dimorava, avvenne ciò che narra il Boccaccio, così. Dante, egli narra, aveva cominciata, poi tralasciata la Comedia. “Ma non avvenne il poterne così tosto vedere il fine, come esso per avventura immaginò; perciò che mentre egli era più attento al glorioso lavoro, avendo già di quello sette canti composti, dei cento che deliberato avea di farne, sopravvenne il gravoso accidente della sua cacciata, ovvero fuga, per la quale egli, quella et ogni altra cosa abbandonata, incerto di sè medesimo, più anni con diversi amici e signori andò vagando. Ma non potè la nemica fortuna al piacer di Dio contrastare. Avvenne adunque che alcun parente di lui, cercando per alcuna scrittura in forzieri, che in luoghi sacri erano stati fuggiti nel tempo che tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, più vaga di preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò un quadernuccio, nel quale scritti erano li predetti sette canti: li quali con ammirazione leggendo, nè sappiendo che fossero, del luogo dove erano sottrattigli, gli portò a un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di Messer Lambertuccio, in que' tempi famosissimo dicitore in rima, e gliel mostrò. Li quali avendo veduto Dino, e maravigliatosi sì per lo bello e pulito stile, sì per la profondità del senso, il quale sotto la ornata corteccia delle parole gli pareva sentire, senza fallo quegli essere opera di Dante immaginò; e dolendosi quella essere rimasa imperfetta, e dopo alcuna investigazione avendo trovato Dante in quel tempo essere appresso il marchese Moruello Malaspina, [307] non a lui, ma al marchese e l'accidente et il desiderio suo scrisse, e mandogli i sette canti. Li quali poichè il marchese, uomo assai intendente, ebbe veduti, e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante, domandando se esso sapea cui opera stati fossero. Li quali Dante riconosciuti, subito rispose che sua. Allora il pregò il marchese che gli piacesse di non lasciare senza debito fine sì alto principio. Certo, disse Dante, io mi vedea nella ruina delle mie cose questi con molti altri miei libri avere perduti, e perciò sì per questa credenza, e sì per la moltitudine delle fatiche sopravvenute per lo mio esilio, del tutto avea la fantasia, sopra questa opera presa, abbandonata. Ma poichè inopinatamente innanzi mi sono ripinti, e a voi aggrada, io cercherò di rivocare nella mia memoria la imaginazione di ciò prima avuta, e secondo che grazia prestata mi fia, così avanti procederò. Creder si dee lui non senza fatica aver la intralasciata fantasia ritrovata; la quale seguitando, così cominciò: Io dico seguitando ch'assai prima etc.; dove assai manifestamente, chi ben riguarda, può la ricongiunzione dell'opera intermessa riconoscere„.[248]

Togliete da questa narrazione ciò che è frasca e fantasia o logica del narratore; togliete specialmente ciò che cotesta fantasia ha aggiunto in contradizione coi fatti; per esempio che fossero i sette canti de' quali nel sesto Ciacco predice cose avvenute nell'anno del bando; la qual aggiunta si deve a quel principio del canto ottavo, che appunto il narratore cita; togliete quel che volete: la narrazione [308] in fondo vi apparirà esatta.[249] Dante aveva intermessa la mirabile visione, sebbene, non per essere stato cacciato in esilio, sì per essersi incamminato nella via della vita civile. Però dal 1292 al '95, su per giù, aveva studiato con la mente a quella. È naturale quindi che avesse scritto alcunchè, delle sue grandi fantasie mistiche, in prosa e magari in versi. Questi appunti o questa bozza venuta sotto gli occhi di Dino di messer Lambertuccio, è naturale che lo facesse maravigliare “sì per lo bello e pulito stile, sì (aggiungiamo noi, specialmente) per la profondità del senso, il quale sotto la ornata corteccia delle parole, gli pareva sentire„. Ed è naturale che questi appunti o questa bozza non fosse d'opera che nel 1301 o '2 avesse alle mani (chè altrimenti l'avrebbe recata seco, dovunque egli fosse allora) sì di cosa da tempo intralasciata. Ma la verità lampeggia nella circostanza, che tale, comunque fosse cominciamento creduto della Comedia, si fosse mandato a Moroello, al quale è indirizzata la epistola sibillina e la canzone augurale. Queste fanno veder di essere rivolte a un iniziato, a uno che di tali cose avesse ragionato in altri tempi, e ora potesse comprendere. Dante con esse dice a Moroello: “Sì, [309] quel poema di cui voi allora m'esortaste a riprender l'idea, sì, lo farò. Appena toccato l'Arno, l'antico amore m'ha ripreso. Ma qual terribil cosa! Ho lasciato il Convivio, e sotto la guida d'Amore comincio il gran viaggio. A voi è giusto che lo faccia sapere„.

XXIII.
LA SELVA E LA FORESTA

In Ravenna, nella città dove aveva già fatto l'ultimo nido l'aquila, prima che sotto lei Carlo Magno vincesse, Dante cominciò è finì il poema sacro che aveva ripensato nel Casentino, consolando con la visione giovanile il suo profondo dolore per la morte dell'alto Arrigo e per lo svanire d'ogni sua speranza. Lo cominciò disegnando, sin dal primo canto proemiale, e lo svolgimento del poema e, specialmente, la prima parte del viaggio, per cui lo condurrà Virgilio: da una selva a una foresta. Chè in vero a Virgilio che gli ha proposto questo viaggio e poi ha aggiunto che se vorrà, potrà salire anche al cielo, Dante, che per una ragione dottrinale non può volere ora ciò che vorrà allora, risponde:

Poeta, i' ti richieggio,
············
che tu mi meni là dov'or dicesti,
sì ch'io vegga la porta di San Pietro
e color che tu fai cotanto mesti:

il purgatorio, cioè, e l'inferno, come Virgilio gli ha proposto l'inferno e il purgatorio. La selva, con la [310] quale il poema s'inizia, presuppone la foresta, con cui si chiude la seconda cantica.

Il Poeta disegnando la selva oscura, dove il sole taceva, aveva già in mente la foresta che solo temperava agli occhi la luce; figurando quella come amara quasi quanto la morte, pensava quell'altra che è divina e viva; quella selvaggia, aspra e forte; quell'altra piena di odori, di brezze, di canti d'uccelli; quella che ci s'entra senza saper d'entrare e che si riguarda con orrore e si ripensa con paura; quell'altra che si è vaghi di cercar dentro e dintorno. Dante sin da quando sè rappresentava come naufrago in una valle, in un deserto, in un basso loco, sentiva frusciare la pineta “in sul lito di Chiassi„. Ciò a conferma, non a prova. Cominciò, dunque. Narrò di essersi ritrovato in una selva oscura

nel mezzo del cammin di nostra vita,

cioè a trentacinque anni, cioè nell'anno mille e trecento.[250] Il sole era in Ariete: era dunque l'equinozio. La notte che aveva passata con tanta pietà, fu uguale al dì che dal principio del mattino all'andarsene del giorno Dante passò nella piaggia diserta procedendo verso il colle e arretrando da quello sino alla selva.[251] Dante chiamerà poi decenne la sete che ebbe di Beatrice; (Pur. 32,2) Beatrice dirà, che [311] egli volse i passi per via non vera, tosto ch'ella morì. (Pur. 30, 124) Orbene: i dieci anni, dal 1290 al 1300, di traviamento, non sono da considerarsi tutti passati nella selva e nella notte, ma anche nella piaggia diserta e nel giorno, sino alla sera, nella quale, dopo un nuovo colloquio con Virgilio, entra nell'oltremondo. Il tempo passato nell'oltremondo va computato a parte: quei giorni, quanti che siano, sono di ventiquattr'ore, mentre la notte e il dì che lì precede sono un decennio intero. E poichè era l'equinozio, possiamo affermare che Dante affermi d'aver passato cinque anni nella selva e cinque nella piaggia diserta. Il che sembra veramente coincidere con l'entrata di Dante nella vita civile, la qual entrata fu nel 1295. E a puntino; perchè entrò o pensò d'entrare nella vita civile nella primavera, come nella primavera riprese via per la piaggia diserta.[252]

In tal caso il verso “mi ritrovai per una selva oscura„ è più comprensivo che non paia. Selva, la cui imagine mal si può disgiungere da bestie selvaggie, indica nel primo verso, ciò che “valle„ nel colloquio con Brunetto: (Inf. 15, 30) sì la selva “fonda„ (Inf. 20, 129) e sì la piaggia diserta son tutte una selva: fonda, quella nella notte, e la luna, sebben piena, a stento mostrò la via; rada, questa, come si capisce dall'antitesi, sia che fonda indichi il mezzo, sia che indichi il folto.[253]

[312] Ma con ciò (intendiamoci!) non cessa la distinzione tra selva e piaggia. Solo si deve avvertire che bisogna aggiungere un aggettivo a selva traendolo, anche più che dalla sua asprezza e fortezza, dal tempo che Dante vi passò. Nella selva egli fu di notte, nella piaggia si trovò di giorno. Selva oscura, dunque: oscura, non ostante che ci fosse la luna, non ostante che la luna fosse piena;[254] perciò oscura, perchè molto spessa. E tuttavia il concetto d'oscurità proveniente dalla notte, predomina, così come spesso l'essenza mistica mal si accomoda sotto la pervenza letterale.

Per dirla più esattamente, la selva della Comedia è quel medesimo che la selva del Convivio. Della quale il poeta così parla: “L'adolescente ch'entra nella selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere il buon cammino...„. (Co. 4, 24) La selva erronea è la vita; la vita cosciente, nella quale si erra se non si è guidati. E così è la selva della Comedia: la vita, nella quale è l'oscuro e il chiaro, la via diritta e la via torta, anzi due grandi strade e molti tragetti. “Noi potemo avere in questa vita due felicità, secondo due diversi cammini buoni e ottimi, che a ciò ne menano: l'una è la vita attiva, e l'altra la contemplativa„. (Co. 4, 17) Sono, le operazioni proprie di queste due vite, “vie spedite e direttissime a menare alla somma beatitudine, [313] la quale qui non si puote avere„. (Co. 4, 22). Ora, queste due vie che menano tutte e due a Dio, Dante altrove chiama, e ben a ragione, “cammino (al singolare) di nostra vita„, che è volto al termine del suo sommo bene. (Co. 4, 12) Sicchè intende di tutte e due le vie, quando soggiunge: “Questo cammino si perde per errore, come la strada della terra: chè siccome da una città a un'altra di necessità è un'ottima e dirittissima via, e un'altra che sempre se ne dilunga, cioè quella che va nell'altra parte, e molte altre, qual meno allungandosi e qual meno appressandosi; così nella vita umana sono diversi cammini, delli quali uno è veracissimo e un altro fallacissimo, e certi men fallaci e certi men veraci. E siccome vedemo che quello che dirittissimo va alla città compie il desiderio e dà posa dopo la fatica, e quello che va in contrario mai nol compie e mai posa dare non può; così nella nostra vita avviene: lo buono camminatore giunge a termine e a posa; lo erroneo mai non la giugne, ma con molta fatica del suo animo sempre cogli occhi golosi si mira innanzi„. (Co. 4, 12) Intendiamo qui dunque che Dante parla di ognun dei due cammini, i quali hanno, come s'è visto, la meta comune; e per questa comunanza Dante li considera uno solo. E ognun di questi due cammini, della vita attiva e della contemplativa, è il veracissimo tra diversi cammini, e c'è con esso il fallacissimo, e certi men fallaci e certi men veraci. Il che torna a dire: Due vie ha la nostra vita. Tutte e due conducono a una meta nell'esistenza nostra oltremondana: a Dio. Ma in questa esistenza mondana conducono a due beatitudini diverse, una imperfetta, l'altra quasi perfetta. E ogni uomo, in ambedue le [314] vie, può andar verso la meta e può andare al punto opposto, o può prendere sentieri diversi, più o meno deviando e tardando.

E Dante nella Comedia dice che nella selva della vita smarrì la strada, (a 35 anni?) e si ritrovò nella oscurità di essa selva, cioè in luogo dov'ella era selvaggia e aspra e forte e paurosa: poi, al mattino, fu all'orlo di essa selva, dove ella era men folta, e vide un colle illuminato dal sole, che è una delle due mete in questa esistenza. Ma questa meta non era quella che doveva e poteva raggiungere, e perciò la via che imprese nella piaggia diserta verso il colle, non era la via diritta. La via diritta, l'abbandonò pien di sonno. E questa via era quella cui seguendo, egli era “in dritta parte volto„; era l'altra via, la via della vita contemplativa. Dunque, riassumendo, Dante nella selva o valle della vita, prima era per quello dei due cammini, che mena alla felicità quasi perfetta od ottima in questa vita. Si smarrì. Entrò nel folto di essa selva, nel basso di essa valle. Ci si ritrovò, dopo una notte d'angoscia e di paura. Era, quando rinvenne dal suo errare, sull'orlo o sulla radura della selva, e per l'altro cammino, che conduce alla felicità buona, rispetto all'ottima, imperfetta, rispetto alla quasi perfetta. Quel cammino e' non potè tenere, sì che arretrando e ruinando veniva già a esser di nuovo nell'oscurità della selva e nella bassura della valle.[255]

Che è la selva oscura nella quale Dante si smarrì deviando da quella diritta via, in cui quando camminava, [315] egli era in dritta parte volto? la selva oscura dove il sol tace e che è in basso loco, nella quale tornava ruinando dopo essersi provato a salire il colle?

Ella è, prima di tutto, oscura. È quasi morte. È piena di paura. È bassa. (Inf. 1, 14, 61)[256] Chi ci si aggira, è vile perchè ha paura, vilissimo perchè ne ha tanta (chi non segue il cammino mostratogli è vile); è cieco (naturalmente, perchè la selva è oscura), onde il Poeta fa l'altro viaggio “per non esser più cieco„; (Pur. 26, 58) è morto, poichè ella non lascia mai “persona viva„, ed ella è in vero tanto amara “che poco è più morte„; è servo, poichè Dante medesimo esclama ver Beatrice, che gli ha mandato Virgilio, quando il suo amico era volto per paura, e lì lì per morir di nuovo (Inf. 2, 64), cioè quando ruinava in basso loco; esclama:

Tu m'hai di servo tratto a libertate!
(Par. 31, 85)

E invero Virgilio dice a Catone, che il suo discepolo andava cercando libertà (Pur. 1, 71); e libero invero lo proclama al termine del viaggio in cui esso gli è duce. (Pur. 27, 140) Sicchè la libertà Dante l'acquista (dovremmo dire, riacquista), già nell'orlo della divina foresta, non nell'empireo. Il che egli dice chiaramente a Beatrice stessa, affermando ch'ella lo trasse a libertà, mediatamente,

per tutte quelle vie, per tutt'i modi
che di ciò fare avean la potestate.
(Par. 31, 86)

[316] E lo dichiara Beatrice, quando appunto in Virgilio rimette queste vie e questi modi:

Or muovi, e con la tua parola ornata
e con ciò ch'ha mestieri al suo campare,
l'aiuta sì ch'io ne sia consolata.
(Inf. 2, 67)

Dante dunque divien libero (dovrei dire, ridiventa) sul grado superno della scala, col sole avanti che lo illumina in fronte. (Pur. 27, 125)

Lo tuo piacere omai prendi per duce:

gli dice Virgilio; ed esso profitta di quest'annunzio di libertà, mostrandosi subito

vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva
(Pur. 28, 1)

Ripensando che nella selva oscura entrò pien di sonno, ossia in istato d'incoscienza e di mancanza di libertà d'arbitrio;[257] vediamo delinearsi la perfetta antitesi tra la selva oscura e la divina foresta; le quali sono tutte e due un'antica selva, (Pur. 28, 23) se l'una è l'Eden e l'altra è la selva erronea della vita. E da tale antitesi possiamo subito rilevare il senso allegorico della selva. La foresta dunque è l'Eden, è il luogo dove fu “innocente l'umana radice„, (Pur. 28, 142) è, cioè, la sede dell'originale innocenza: la selva oscura è, dunque, la sede del peccato originale. Così chi è in essa, vale a dire, chi [317] è nel peccato originale, è servo, cioè privo di libero arbitrio; è cieco, cioè privo del lume (diciamolo con Dante) che c'è dato a bene e a malizia. (Pur. 16, 75) Alla qual servitù e cecità equivalgono le altre due qualità di morto e di vile o impacciato dalla paura. Perchè la viltà impedisce ogni azione, cioè è contraria alla libertà; e la morte è lo stato di chi appunto è privo di quel lume, che è, con altre parole di Dante, “la virtù che consiglia„; (Pur. 18, 62) senza la quale l'uomo non potrebbe meritare, cioè vivere; senza la quale l'uomo non userebbe la ragione, cioè non vivrebbe; chè “vivere nell'uomo è ragione usare„. (Co. 4, 7) Possiamo dunque tenere sole le due espressioni; libero volere e lume a bene e a malizia, quali sono in questi terzetti: (Par. 16, 75)

Lume v'è dato a bene ed a malizia,
e libero voler che, se fatica
nelle prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si notrica.

Dunque libero volere e lume, significati nelle grandi parole di Virgilio così: (Pur. 27, 131)

Lo tuo piacere omai prendi per duce!...
Vedi là il sol che in fronte ti riluce!

Prima di procedere oltre, bisogna convincere quelli, i quali, osservando che ciechi, per esempio, sono chiamati da Dante peccatori d'altro che di peccato originale, rifiutino a priori questa semplice evidente irrecusabile dichiarazione della selva oscura, quale si ricava subito dall'antitesi con la soleggiata [318] foresta. Sì: ciechi sono detti i compagni di pena di Ciacco, che (Inf. 6, 91)

gli diritti occhi torse allora in biechi:
guardommi un poco; e poi chinò la testa:
cadde con essa a par degli altri ciechi.

Si potrebbe rispondere che ciechi sono chiamati i golosi, non i dannati in genere, almen qui; ciechi per la medesima ragione per cui la femmina balba ha “gli occhi guerci„, (Pur. 19, 7) a dinotare l'offuscamento e perdita della vista portati dalla crapula; e che tal cecità deriva dalla medesima intenzione che mise a giacere in così sozza mistura quei peccatori, e li dipinse cogli occhi stravolti e col capo barellante e col corpo caduco; dalla medesima particolare intenzione che diede così mala luce agli eresiarche e forò le palpebre agl'invidi del purgatorio. Ma non appaghiamoci di queste ragioni. Cieco carcere (Inf. 10, 58; Pur. 23, 103) cieco mondo (Inf. 4, 13; 6, 93; 27, 25) è detto l'inferno: cieco fiume (Pur. 1, 40) il suo fiume. Se notte è nella selva, notte è nel regno dei morti; se tenebre sono nel limbo, tenebre son nell'inferno. (Inf. 5, 28 etc.) Dunque? Dunque bisogna ricordare che il peccato originale contiene virtualmente tutti i peccati attuali, perchè è il peccato.[258] È naturale, dunque, che sia la tenebra ne' peccati e peccatori attuali, se c'è nell'originale. Come è naturale che ci sia la servitù. [319] Servi sono, ossia, privi di libertà, tutti i peccatori dell'inferno. Sono in fatti, per non dilungarci, in un carcere. Carcere cieco, è la formula esatta e comprensiva dell'inferno, luogo dove non è più volere e non più lume. Ma con ciò non si deve confondere il peccato, che è un difetto e non un reo, è un non fare, non un fare, di Virgilio e dei parvoli innocenti, che pur sono “nel primo cinghio del carcere cieco„, con gli altri prigionieri, tormentati e sepolti, del cieco carcere. Come non si deve credere che nella selva oscura ci sia altro che quel difetto di volere e di lume, che dicemmo. In verità, dicano quelli che vedono nella selva oscura ogni vizio, dicano, perchè non sono in essa le tre fiere, dicano perchè le fiere siano nella radura e non nel folto e si mostrino di giorno e non di notte. Ci sono nella selva oscura tutti i vizi e peccati fuor che quelli figurati nelle tre fiere? Questo, s'intende, chiedo a quelli che non credano ancora (suppongo che sian pochi) che le tre fiere siano tutto il peccato attuale.[259] Siano, [320] invece, tre peccati speciali, invidia o lussuria, superbia, lussuria o avarizia, o quel che vogliano gl'interpreti; ma questi medesimi interpreti si propongano ora anche altri problemi; se tutti i peccati o vizi eran nella selva oscura, come mai questi tre son fuori, nella piaggia diserta? Oppure: quali son dentro, posto che dentro siano quelli che non son fuori? perchè gli uni sono figurati in una selva (vedremo che d'un solo peccato o d'una sola condizion d'animo, la selva può essere figurazione) e gli altri in bestie? perchè le bestie, delle quali una, anzi due, se non tutte e tre, amano predar di notte, Dante non le ha sentite ruggir nella notte e nel folto della selva selvaggia?[260] E s'ingegnino, e lascino, come è naturale, il tempo che trovano. Ovvero (anticipo una lor trovata) ovvero, la selva sarà il cumulo e il viluppo tenebroso de' peccati di Dante, e le tre fiere diverranno tre peccati altrui che impediscano il gran peccatore, uscito fuor del pelago? Ma non insisto. Chiarire l'errore e le assurdità altrui non mi è mai sembrato che equivalga a dimostrare la verità e l'esattezza propria.

Basti ripetere che la selva oscura e la notte passata con tanta pièta devono pur significare qualche [321] cosa, e che questo qualche cosa non è la vita viziosa o altro di simile, se vizi o peccati sono le tre fiere che di giorno gli appariscono, sia pur nella selva, ma fuor del passo e non più nel fitto e nel buio. Ma dal confronto della selva con la foresta, risulta già che, come la foresta è la innocenza originale, così la selva è il peccato originale, che porta appunto servitù e oscurità; la qual servitù ed oscurità, o morte e paura, sono sì effetti portati anche dai peccati attuali, ma solo perchè i peccati attuali sono virtualmente compresi nel peccato originale. E diciamo intanto che con intenzione analoga a quella per la quale convertì in piante i suicidi e ne fece una dolorosa selva, Dante figurò in una selva oscura l'umana colpa, che fu un suicidio e che ebbe per effetto una condizion d'animo per cui si ricusa la vita, o non si è mai vivi.

XXIV.
L'UMANA COLPA

Ma si domanda: O che Dante non era stato battezzato? Nomina pure il fonte del suo battesmo! E se era stato battezzato, non aveva egli il lume al bene ed a malizia e il libero volere? E come dunque errava nella selva del peccato originale.

Dai teologi (che putono a certi Dantisti i quali, suppongo, studierebbero la storia prescindendo dalle iscrizioni e dai diplomi), dai teologi prendiamo questa definizione: Il peccato originale è languor naturae.[261] [322] Si consideri come lo stato di Dante nella selva oscura, stato che cominciò col sonno e finì con tanta lassitudine di corpo e tanto affanno di lena, risponda a tal definizione. Ora il battesimo toglie tal languore? tal malattia, come il dottore anche si esprime? Rispondiamo col buon senso, che è più accetto che i teologi: no. Se il battesimo sanasse questa malattia e questo languore, col peccato originale sarebbe abolito anche ogni specie di peccato attuale. Poichè il peccato originale portò nel mondo la possibilità degli altri peccati, se quello non era, questa non sarebbe. Ora il battesimo toglie il primo e non toglie la seconda; toglie dunque la labe, non toglie il languore. Ma lasciamo anche il buon senso, che è molto infido, poichè il buon senso nostro può non essere quello di Dante; e spieghiamo Dante con Dante.

La condizione dell'uomo macchiato dalla colpa originale è descritta dal Poeta, in poche parole, così. Egli fa dire a Virgilio: (Pur. 7, 25)

Non per far, ma per non fare, ho perduto
di veder l'alto sol che tu desiri,
e che fu tardi da me conosciuto.
Luogo è laggiù non tristo da martiri,
ma di tenebre solo, ove i lamenti
non suonan come guai ma son sospiri.
Quivi sto io co' parvoli innocenti
da' denti morsi della morte, avante
che fosser dell'umana colpa esenti.

Dunque, Virgilio non fece. E Dante al medesimo fa dire altrove: (Pur. 3, 38)

Se potuto aveste veder tutto
mestier non era partorir Maria;
[323]
e disiar vedeste senza frutto
tal che sarebbe lor disio quetato,
ch'eternamente è dato lor per lutto.

Questo disio ch'ebbero i non battezzati in vita, e hanno in morte per castigo (vivono con disio senza speme), è quel medesimo che è detto nell'altro passo riferito: di veder l'alto Sole. Dunque in vita desiderarono invano e invano sospirano in morte il sole, il lume: quel lume che vien dal sereno, e che se dal sereno non viene non è lume ma è tenebra; (Par. 19, 64) quel lume, nel fatto, che è nel limbo (Inf. 4, 68, 103, 116) e che pur non impedisce che sia luogo di tenebre. (Pur. 7, 29)[262] Insomma il macchiato della colpa originale, è nel limbo per non aver fatto e per non aver veduto il lume. Questo non fare e non vedere sono appunto ciò che S. Agostino chiama difficultas e ignorantia,[263] le quali sono poenalia del peccato cui la nostra natura “peccò tota nel seme suo„, cioè in Adamo. (Pur. 7, 85) E così almeno per l'ignoranza, vediamo che Dante acconsente al santo padre, nel concetto di tal penalità, dando per lutto a quelli che desiderarono invano [324] la luce questo medesimo desiderio di luce, il quale a sua volta era pena anche in lor vivente; pena e non destino o necessità.

Ora questa difficultas e questa ignorantia sopravivono al battesimo? Rileggiamo: (Pur. 16, 75)

Lume v'è dato a bene ed a malizia,
e libero voler che, se fatica
nelle prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si notrica.

Il volere, per quanto libero e per quanto illuminato, dura fatica, cioè prova difficoltà. Ma chi lo libera, il volere, chi lo illumina? Il battesimo che ha “virtù illuminativa e fecondativa alle buone opere„.[264] Dunque, secondo Dante e secondo tutti i padri e i dottori, anche dopo il battesimo la volontà umana, in conseguenza dell'umana colpa, deve faticare per conservare, diciamo, quel lume e quella libertà, provando sempre difficoltà e ignoranza.

E Dante dice, quando: nelle prime battaglie. Dice, che bisogna notricarlo, il volere; e notricare è parola di fanciullezza. E in verità Marco Lombardo continua la sua spiegazione (Pur. 16, 85) così:

Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l'anima semplicetta che sa nulla,
salvo che mossa da lieto fattore
volentier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s'inganna, e dietro ad esso corre...

[325] La metafora è cambiata: non si parla più di battaglie e di nutrimento; ma si tratta della stessa cosa. Il cielo ha iniziati i movimenti di quest'anima semplicetta. Ella, per quest'impulso, corre a un bene. S'inganna, cioè non si fa illuminare da quel lume che c'è dato a bene ed a malizia. Corre dietro ad esso falso bene, falso perchè picciolo, mentre è creduto grande. Corre, cioè non fatica a trattenersi e non vince quella prima battaglia. Ha avuto la luce e la libertà, cioè il battesimo; ma non ne usa. Quando? Quando è più necessario che mai, ch'ella non sia corriva; nell'età che decide sovente di tutta la vita; nella primavera o nell'adolescenza in cui si forma l'avvenir della pianta o dell'uomo. Quand'ell'è fanciulla e semplicetta, quando bisogna ch'ella fatichi e si notrichi. E anche questa fatica e questo nutrimento sono per lo più vani,

se guida o fren non torce il suo amore.
Onde convenne legge per fren porre,
convenne rege aver, che discernesse
della vera cittade almen la torre.

Ci vuole una guida, che discerna per lei; è necessario un lume altrui, poichè il suo non vale. Ci vuole una legge per freno; è necessario un voler altrui, che aiuti il suo a durar quella fatica e a vincer quelle prime battaglie. Ora nessuno, spero, dirà che sono sottile e oscuro se affermo che questa guida di re che discerne, è ciò che i filosofi chiamano prudenza regnativa, e quel freno di legge che dirige l'amore dell'anima, è ciò che i filosofi dicono giustizia [326] legale.[265] E ognuno consentirà nel vedere l'identità del discorso di Marco Lombardo con l'argomentazione del libro de Monarchia:[266] “Ogni concordia dipende dall'unità che è nei voleri. Il genere umano, quando meglio vive, è una cotal concordia; chè come un individuo, quando meglio vive, sì rispetto all'anima sì rispetto al corpo, è una cotal concordia (la qual concordia, aggiungo, è procacciata dal reggere della prudenza individuale), e similmente una casa, una città, un regno (prudenza economica e politica); così tutto il genere umano. Dunque il genere umano, quando meglio vive, dipende dall'unità che è nei voleri. Ma questo non può essere, se non c'è un volere unico, signore e regolatore di tutti gli altri in uno; poichè le volontà dei mortali per le blande dilettazioni dell'adolescenza hanno bisogno di direzione, come il Filosofo insegna nell'ultimo libro a Nicomaco. Nè può esistere questo unico volere, se non c'è un unico principe, il cui volere sia signore e regolatore di tutti gli altri„; (M. 1, 17) se non c'è insomma una cotale incarnazione della prudenza rettrice e regolatrice.

Marco Lombardo doveva rispondere al dubbio di Dante, qual fosse la cagione per che il mondo era “così tutto diserto d'ogni vertude„; e risponde perciò, dimostrando perchè “il mondo presente [327] disvia„, e non perchè disvia il singolo uomo, unus homo; ma è tutto un perchè, per sì unus homo e sì domus e civitas e regnum e genus humanum. E il perchè è il manco di lume che discerna e di volere che vinca; e ciò per l'ignoranza e difficoltà, penali della prima colpa, le quali persistono oltre il battesimo.

Ora la selva oscura è questa ignoranza, la selva aspra e forte è questa difficoltà. È il peccato originale nelle sue conseguenze. È dunque un uomo, non il mondo presente, che disvia; ma, considerando che quest'uomo che si ritrova “nel mezzo del cammin di nostra vita„, sembra un uomo tipico, l'umanità in genere; possiamo dire, sì che è il mondo d'allora che disviava. L'uomo disvia: la diritta via era smarrita. L'uomo entrò nella selva pien di sonno: s'ingannò e corse dietro al primo picciol bene di cui sentì sapore. E più l'esatta somiglianza vedremo tra il mondo presente descritto da Marco, e Dante che si smarrisce nella selva, se ricorderemo le parole on cui Beatrice rimprovera a Dante il suo disviare. (Pur. 30, 121)

Alcun tempo il sostenni col mio volto;
mostrando gli occhi giovinetti a lui
meco il menava in dritta parte volto.

Dante aveva, prima di disviare, una guida o freno che torceva il suo amore, sì che esso non correva dove sentiva sapore di picciol bene.

Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.

[328] Ciò, dunque, dieci anni prima, quando Dante aveva venticinque anni, quando era appena entrato anche lui nella giovinezza, quando insomma avevano ancor luogo quelle blande dilettazioni dell'adolescenza, che fan necessaria la direzione d'alcuno.

Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m'era,
fu' io a lui men cara e men gradita.

S'ingannava, dunque, Dante, poichè trovava men bellezza e men virtù, dove la bellezza e la virtù erano cresciute.

E volse i passi suoi per via non vera
imagini di ben seguendo false,
che nulla promission rendono intera:

S'ingannava, dunque, s'ingannava: correva dietro al picciol bene, cioè a imagini false di bene, che si trovano poi vane. S'ingannava: l'afferma Beatrice parlando a lui per punta: (Pur. 31, 22)

Per dentro i miei disiri
che ti menavano ad amar lo bene
di là dal qual non è a che s'aspiri,

quai fosse attraversate o quai catene trovasti? Non c'erano, e tu ne trovasti! Eri abbagliato!

E quali agevolezze, o quali avanzi
nella fronte degli altri si mostraro
perchè dovessi lor passeggiare anzi?

Erano speciose imagini di bene; non erano il bene. Eri illuso! E Dante se ne confessa:

[329]

Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi
tosto che 'l vostro viso si nascose:

il viso che lo menava seco in dritta parte volto; la luce equivalente a quella guida, che discerne per gli altri. E Beatrice continua confermando sempre che il disviare di Dante era dovuto a tale inganno d'anima fanciulla e semplicetta, paragonando l'amatore a un augelletto, che, già pennuto, non doveva ricader più negli inganni dell'uccellatore. E Dante sta nella sua vergogna, muto, con gli occhi a terra, come un fanciullo; quando Beatrice gli ricorda ch'egli è un fanciullo con la barba![267]

Questa teorica di Marco si ricongiunge col discorso di Virgilio intorno all'amore. Questi dice che l'amore d'animo (Pur. 17, 95)

puote errar per malo obbietto
o per troppo o per poco di vigore,

e così dare origine ai sette peccati attuali, di cui si purga la macchia nelle sette cornici del purgatorio. Ma dà loro origine mediatamente. Invero l'amore è un moversi ver cosa che piaccia, un piegar verso lei. Poi l'animo entra in desire, sin che non posa nella quiete del possesso. (Pur. 18, 19) Quella prima voglia

merto di lode o dì biasmo non cape.

Il principio di meritare è nell'assentire o negare che fa “la virtù che consiglia„, agli atti della volontà [330] che seguitano quella prima voglia illaudabile e incolpabile. Questa virtù consigliatrice ha la libertà di accogliere e vigliare (ossia escluder, gettar via) i buoni e i rei amori. E questa virtù della virtù consigliatrice, d'esser libera, si chiama “la nobile virtù„. E nobile sappiamo che Dante intendeva “non vile„. (Co. 4, 16) Marco ha detto che abbiamo, nelle nostre battaglie col cielo ossia con le disposizioni naturali, lume per discernere il ben dal male, e volere libero per ripugnare e acconsentire. Il lume, cioè, la virtù che consiglia; il libero arbitrio o libero volere, ossia la libertà di accogliere o rifiutare quel consiglio, ossia la nobile virtù.

La virtù consigliatrice deve “tener la soglia„ dell'assentimento. Seguiamo la metafora dantesca che non è suggerita dalla rima. Avanti il limitare della porta, dove sta la virtù che consiglia, nel vestibolo insomma, è la prima voglia, che non può meritare biasimo o lode.[268] Ella è la virtù del conoscere e la virtù dell'amare; del conoscere certe prime notizie, dell'amare certi primi appetibili; un intelletto e un affetto; un lume e un moto. Se essa vuol entrare, cioè procedere ad ulteriori operazioni, trova sulla soglia la nobile virtù che dice sì alle buone, no alle cattive, ma le lascia passare entrambe. E le prime hanno lode e le seconde biasimo; ed è giustizia che le prime portino letizia e le seconde lutto. Se quella prima voglia resta di là, avanti la porta, non cape merito di lode e di biasimo, e non è giustizia [331] che abbia letizia o lutto, premio o pena. Quella voglia non ha osato sottoporsi al giudizio della virtù nobile, cioè non vile. Diremo ch'ella è vile. La virtù che consiglia, non ha avuta occasione d'illuminarla, quella prima voglia. Diremmo ch'ella è nell'oscurità. Eppure è lì, avanti lei, la porta donde passare.

Così Dante o l'uomo in genere erra talvolta in una selva oscura, che ha un passo. (Inf. 1, 26) Uscendo di quello, si vede lume; uscendo di quello, cessa la paura, almeno un poco. Finchè l'uomo rimase nella selva, assonnato e pauroso, quasi morto e ottenebrato, non aveva che quella prima voglia. Ma egli non s'accorgeva d'averla, poichè tale intelletto di prime notizie, tale affetto di primi appetibili, non sono sentiti senza operare, non si dimostrano che per effetto, come in una pianta la vita apparisce soltanto per mettere le foglie. Quell'intelletto e quell'affetto foglie non misero, sicchè non mostravano la lor vita, pur essendo vivi: erano, insomma, quasi morti, perchè morti parevano.

In che differiva allora Dante, o l'uomo, da un parvolo? Egli parla altrove delle prime voglie dei parvoli. Così: “.... Vedemo li parvoli desiderare massimamente un pomo; e più oltre procedendo desiderare uno uccellino; e poi più oltre desiderare bello vestimento, e poi il cavallo, e poi una donna, e poi ricchezza non grande, e poi più grande, e poi più. E questo incontra perchè in nulla di queste cose trova quello che va cercando, e credelo trovar più oltre„. Il “parvolo„ via via qui è cresciuto ad uomo, o, meglio, s'è fatto adolescente; e tuttavia cavallo e donna e ricchezza non grande e più grande e vie più, sono, non meno che il pomo e l'uccellino [332] e il bello vestimento, tali appetibili cui appetire è senza lode e senza biasimo. Che sono naturali; tanto è vero, che sono introdotti a significare l'ampliarsi, dalla punta ver la base, della piramide dei desiderabili; e la punta o il vertice è quel pomo, e la base è Dio. (Co. 4, 12) È un paragone, quello, a dimostrare come l'anima semplicetta, che sa nulla, cerchi il suo lieto fattore in tali piccioli beni, di cui i più piccioli sono il pomo e l'uccellino. In un altro paragone, ella è un peregrino. “Siccome peregrino che va per una via per la quale mai non fu, che ogni casa che da lungi vede, crede che sia l'albergo, e non trovando ciò essere, dirizza la credenza all'altra, e così di casa in casa tanto, che all'albergo viene; così l'anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza gli occhi al termine del suo sommo bene (torna a ciò che la trastulla); e però qualunque cosa vede, che paia avere in sè alcun bene, crede che sia esso. E perchè la sua conoscenza prima è imperfetta, per non essere sperta nè dottrinata, piccioli beni le paiono grandi; e però da quelli comincia prima a desiderare„. (ib.) Così l'anima, la cui conoscenza è imperfetta, per non essere sperta nè dottrinata, l'anima che è a guisa di fanciulla e pargoleggia, è assomigliata al parvolo. E in cotali suoi movimenti da picciol bene a picciol bene, da casa a casa, non merita nè lode nè biasimo. Ora vi sono alcuni uomini che restano parvoli molto tempo più che non si soglia o si debba, e anche per tutto il tempo della lor vita; che dimorano sempre, per dirla con Dante, “nel basso stato della puerizia„, non toccando mai il sommo o il colmo dell'età. (Co. 4, 23) Ma che [333] dico alcuni uomini? “La maggior parte degli uomini vivono secondo senso, e non secondo ragione, a guisa di pargoli; e questi cotali non conoscono le cose se non semplicemente di fuori, e la loro bontade... non veggiono (hanno la conoscenza imperfetta), perocc'hanno chiusi gli occhi della ragione„. E questa è “puerizia, non dico d'etade, ma d'animo„. (Co. 1, 4) Questi sifatti, che hanno chiusi gli occhi della ragione e vivono secondo senso sono quelle genti che “ambulant, in vanitate sensus tenebris obscurati„; (Ep. V, 10) e Dante, errando nella selva oscura, con gli occhi come chiusi, viveva secondo senso, e non secondo ragione, in vanitate sensus, a guisa di pargolo.[269] Senza meritare, perciò, nè biasimo nè lode. E come la maggior parte degli uomini.

Siffatti pargoli, d'animo, che formano la maggior parte del genere umano, in che differiscono dai pargoli d'età? In questi la prima voglia non mise le verdi fronde; in quelli certo le mise, poichè a lungo vissero. Ma d'una pianta, d'un tallo, d'un ramo[270] la vera vita non si estrinseca già soltanto con le foglie: essi vivono per dare il frutto. Ora tale ramo o tallo o pianta nei pargoli d'animo, crescendo essi nella vita, fiorì per dare il frutto, e non lo diede, in ciò simile a quello dei parvoli d'età, che però non misero nemmen le foglie, se morirono subito; non misero le foglie che sono fatte, del resto, per difensione del frutto futuro. (Co. 4, 24). Il frutto nei parvoli d'età, morsi dal dente della [334] morte anzi ora, non venne; non venne nei parvoli d'animo. Il volere o la voglia in questi germinò le foglie e fece il fiore; sì: (Par. 27, 124)

ben fiorisce negli uomini il volere,
ma la pioggia continua converte
in bozzacchioni le susine vere.

In primavera, cioè nell'adolescenza, le intemperie impedirono al fiore di legare bene e di dare il frutto. Il frutto appena formato imbozzacchì e cadde. Nell'una e nell'altra specie di parvoli restò senz'altro segno di vita quel volere o quella voglia che “merto di lode o di biasimo non cape„.

Ciò però, nei parvoli d'età, se morirono avanti che fossero esenti dall'umana colpa. Che se ebbero battesimo, merito acquistarono e hanno, non che lode, gloria. Essi siedono nel paradiso “per nullo proprio merito„ (Par. 32, 42)

ma per l'altrui con certe condizioni:
chè tutti questi sono spirti assolti
prima ch'avesser vere elezioni.

È il battesimo, con la sua virtù illuminativa e fecondativa,[271] che fa fiorire il volere. Con la prima di esse si vince l'ignoranza, con la seconda la difficoltà; fede si ha con la prima, innocenza con la seconda. E così Beatrice spiega come fiorisca il volere negli uomini. Invero, aggiunge ella, (Par. 27, 127)

fede ed innocenzia son reperte
solo nei parvoletti,

[335] battezzati, s'intende; che, mentre ancora balbettano, quanto a fede, digiunano, e, quanto a buone opere, se non altro, amano e ascoltano la madre loro. Ma che giova? Tale virtù illuminante e fecondante presto si perde; fede e innocenza spariscono; e la redenzione è come non fosse avvenuta. Dante ne sa qualcosa; perchè fa dire a Beatrice, non senza un perchè, “le susine vere„. Quest'espressione comica traduce quell'altre e solenni: (Pur. 30, 109)

Non pur per opra delle rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine,
secondo che le stelle son compagne,
ma per larghezza di grazie divine
che sì alti vapori hanno a lor piova
che nostre viste là non van vicine,
questi fu tal nella sua vita nuova
virtualmente, ch'ogni abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.
Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa il terren col mal seme e non colto,
quant'egli ha più del buon vigor terrestro.

Nella mente di Dante appariscono imagini analoghe a quella delle susine vere. Persino qui è una piova, che per essere direttamente contraria a quell'altra pioggia continua, non però la ricorda meno. Il fatto è che le susine vere sono opposte alle prugne selvatiche, che sono un “mal seme e non cólto„. Sicchè si può sospettare nella parole di Beatrice in paradiso una lieve ironia e un accenno discreto al suo amatore che nella sua primavera dava così bene a sperare, mostrava già un dolcissimo frutto di sè, [336] e rischiò d'inselvatichire e di diventare un bozzacchione...

Come? Rimanendo nella selva, o tornandovi dopo esserne uscito. Essere nella selva significa essere selvatico, appuntino. La selva è appunto questo o non fiorire o fiorire senza frutto, del volere. È l'ignoranza e la difficoltà che nascono dall'umana colpa; a cui consegue in questo mondo, facile è intuirlo, tolto ogni sapere o vedere o operare, una nullità assoluta in vita e in morte. Che l'uomo che v'è dentro, è un cieco, un servo, un parvolo d'animo, un bozzacchione, uno di cui, quando muore, si può dire che non fu mai vivo. Essere nella selva significa essere nella condizione di “arbori...„ cioè di tali “che non hanno vita di scienza e d'arte„.[272] Dante dice di sè, d'esserci stato in tal selva, d'esserne uscito e poi d'aver rischiato di tornarci. Ma non ci tornò! Ed egli appunto scrisse il volume eterno per mostrare come da servo si vada a libertà, come “da stato di miseria„ si possa giungere “a stato di felicità„. (Ep. XI, 15) Le quali ultime parole sono così esatte, da far pensare molto. Che è invero lo stato di miseria? La miseria del genere umano è “il giogo„ di cui lo gravò il peccato originale.[273] [337] Dal peccato originale, ossia dalla selva oscura, muove il Poeta in persona del genere umano, per giungere all'innocenza prima e poi alla visione di Dio, alla divina foresta e all'Empireo.[274] In tale viaggio dell'uomo e del genere umano, sarebbe stata una smemorataggine e una insipienza che neanche quelli che oggidì parlano di Dante come d'un pover'uomo, saprebbero creder possibile, non cominciare da ciò che è la mossa e la causa;[275] dalla colpa umana, [338] e dalle sue conseguenze persistenti in noi, che sono la cecità e la ignavia, la servitù e la morte; in una parola, la miseria.[276]

Oh! ella è ben grande! Comincia dal primo vagito di chi nasce e va sino all'ultimo alito di chi muore.[277] La vita non è che un morbo; non è anzi che una morte. La morte entrò nel mondo col peccato di Adamo. Di tale miseria, dice Dante che è duro dir qual era! Chi potè descriverla mai? Ecco un certo autor di Dante, in opera certo a lui nota: “Chi... basta, pur con un gran fiume d'eloquenza, a spiegare le miserie di questa vita? La quale Cicerone compianse... come potè; ma quanto è quel che potè?„[278] E altrove: “Chi può spiegare così in [339] fretta tutti i pesi che fanno grave il giogo sopra i figli d'Adamo?„[279] Come sarebbe strano, senza questi raffronti, quel preparare una descrizione senza poi farla!

XXV.
IL PASSO

Il core nella notte era stato compunto di paura; nel lago del core gli era durata la paura; l'animo, quando Dante fu uscito dalla selva e dalla notte, ancor fuggiva. Animo e cuore sono qui per appetito,[280] l'appetito che “seguita e fugge„, (Co. 4, 22) che “mai altro non fa che cacciare e fuggire, e qualunque ora esso caccia quello che è da cacciare, e quanto si conviene, e fugge quello che è da fuggire, e quanto si conviene, l'uomo è nelli termini della sua perfezione„. (ib. 26) Invero l'animo opera prima indistintamente, “poi viene distinguendo quelle cose che a lui sono più amabili e meno, e più odibili, e seguita e fugge, e più e meno, secondochè la [340] conoscenza distingue„. (ib. 22) Ciò che aveva provato nell'oscurità della selva, era ineffabile e irricordabile: ne restava come un senso di paura. Dante non poteva dire di quella notte, se non che la passò con tanta pièta. Pièta è a pietà ciò che miseria a misericordia. Dante non può dire se non che usciva da uno stato di miseria. La conoscenza altro non distingueva. Ora distingue. L'animo fugge dalla selva, e seguita o caccia verso il colle illuminato. Questa conoscenza che distingue tra la selva e il colle, tra il male e il bene, e che è la discrezione, cioè “lo più bello ramo che dalla radice razionale consurga„, (Co. 4, 8) si chiama concordemente “prudentia„, cioè quella virtù “per cui discerniamo (dignoscimus) tra il bene e il male„,[281] cioè “la cognizione (scientia) di ciò che è da appetire e ciò che è da schivare„;[282] e che in Dante è chiamata “la virtù che consiglia„, come quella in vero il cui atto precipuo è consiliari, come quella che dirige per consigliare l'elezione.[283] In fatti Dante afferma che dalla prudenza vengono i buoni consigli. (Co. 4, 27) Senz'essa non può essere alcun'altra virtù:[284] sicchè la selva oscura è lo stato di chi è senza alcuna virtù; il che non vuol dire, ripeto, ch'ella sia la selva dei vizi o la vita viziosa. Ella è la vita nulla. In lei non è se non quella prima voglia che non si dimostra che per effetto; e poichè effetto non ne era, così ella era indistinta, era come non fosse, e non meritava biasmo [341] o lode. Giunto sul primo mattino a pie' d'un colle, per tale virtù Dante discerne; il suo animo ha guardato in alto e veduto il colle illuminato dal sole, e fuggendo tuttavia dalla selva,

si volse indietro a rimirar lo passo
che non lasciò giammai persona viva.

Non, giammai, persona! La negazione non potrebbe essere più enfatica. Non ne uscì giammai nessuno vivo, da quel passo; ne sarebbe uscito vivo l'unico Dante? No: morì anche lui nel passo. O qual è questo passo?

Dante era, nella selva oscura, un parvolo di animo. Fosse stato parvolo d'età, come avrebbe, la sua prima voglia indistinta, potuto meritare? prima ch'ell'avesse la prudenza che queste elezioni dirige? che discerne tra il bene e il male? che consiglia? Fosse stato parvolo d'età, Dante avrebbe meritato con la condizione del battesimo. Sarebbe stato, anche parvolo d'età, anzi specialmente se così, in una selva oscura, sonnolento, come morto, cieco, servo, nullo, sotto il giogo del peccato originale. Il suo intelletto e affetto, delle prime notizie e dei primi appetibili, non avrebbe varcato quella soglia su cui è la virtù che consiglia. Eppure il battesimo l'avrebbe a lui fatta varcare; e, morto subito, il parvolo sarebbe stato salvo, non per merito suo, ma per altrui, con l'intelletto come illuminato, con l'affetto come fecondato alle buone opere, secondo la duplice virtù del battesimo.[285] Parvolo d'età, col battesimo sarebbe uscito dal passo della selva. In vero il battesimo è [342] raffigurato nel passo del mar rosso, nel camminar di Gesù sulle acque, nel galleggiar dell'arca sul diluvio.[286] E Dante, che ha raffigurato in una selva oscura l'ignoranza e la difficoltà prodotta dal peccato originale, volendo poi figurare il battesimo, che cancella il peccato originale, chiama, come si vede, passo quest'uscita della selva, quasi ella fosse un fiume, chè di fiumi o paludi egli dice altrove passo. Alto passo chiama l'ingresso nel regno della morta gente, che si fa passando lo Acheronte. (Inf. 2, 12; 3, 92, 124, 127) Altro passo è quello dello Stige (8, 21) per cui si entra in parte ben distinta di quel regno. E lo Stige, c'è poi uno “che al passo„ lo passa con le piante asciutte, (ib. 9, 80) Ora la selva oscura ha un passo come fosse acqua: Ma che! Ad acqua assomiglia. (Inf. 1, 22)

E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago alla riva,
si volge all'acqua perigliosa, e guata;
così l'animo mio che ancor fuggiva,
si volse indietro a rimirar lo passo...

Ma che! Fiume è; non soltanto sembra. Lo dice Lucia a Beatrice. Dante è all'orlo della selva; e Lucia esclama: (ib. 2, 107)

non vedi tu la morte che il combatte
su la fiumana ove il mar non ha vanto?

A pelago Dante ha assomigliata la selva; peggio che mare o pelago, la proclama Lucia. È fiumana dunque; [343] e più come fiumana che come selva, la selva ha un passo, che è riguardato affannosamente dal naufrago giunto alla riva. Un naufrago, sì, è il parvolo, è l'uomo, è il genere umano, cui salva la fede. È Pietro che cammina sull'acque, e comincia a sommergersi e grida: Signore, muoio; e il Signore gli porge la mano, lo regge, lo incuora, e gli dice: Modicae fidei, perchè hai dubitato?[287] Così Dante, che si trovava in una selva, guata questa come un'acqua “perigliosa„, nella quale fu per sommergere, coepit mergi.

Questa definizione, che fa una donna del cielo, della selva, chiamandola fiumana, e questo paragone che fa il Poeta stesso della selva con l'acqua perigliosa d'un pelago, anche a non cercare altro, suggeriscono da sè l'ideale del battesimo, che è ex aqua et Spiritu, che, oltre che sanguinis, è fluminis.[288] Ma c'è ben altro: la parola passo, ossia “transito„, può significare morte, come nell'espressione “doloroso passo„ (Inf. 5, 144), e nell'altra “passo forte„ (Par. 22, 123), tralasciando per ora “l'alto passo„. (Inf. 2, 12) E che qui significhi appunto tal passaggio dalla vita alla morte, da questa ad altra vita, è chiaro dall'aggiunta, così chiara che, per non vederla, bisogna chiuder gli occhi; dall'aggiunta

che non lasciò giammai persona viva.

Ora “morte„ è appunto il battesimo. Il battesimo e nella morte del Cristo; ed essere battezzati nella morte del Cristo altro non è se non “morire„ al [344] peccato.[289] Il battesimo, sì nei parvoli sì nei grandi, è a similitudine della “morte e della risurrezione„ del Cristo.[290] Quelli che sono battezzati nella morte del Cristo, “muoiono„ al peccato, per vivere a Dio.[291] Il battesimo è dato perchè “e moriamo e riviviamo„.[292] Nel battesimo è “morte mistica„.[293] Così. Dice S. Ambrogio: “Beata dunque morte quella che ci toglie al peccato per riformarci a Dio. Poichè chi morì, fu giustificato dal peccato. O che colla fine della natura, alcuno è giustificato dal peccato? No, davvero; chè chi muor peccatore, rimane nel peccato„. Dunque è giustificato dal peccato quegli a cui, mediante il battesimo, sono rimessi tutti i peccati, ossia, come dice S. Paolo di cui qui Ambrogio illustra le parole, “colui che morì„.[294] Siffatta morte S. Ambrogio chiama “mors mystica„.[295] E questa dunque succede in chi si battezza.

Ma Dante nella selva era parvolo d'animo, non d'età; e il battesimo l'aveva avuto nel suo bel San Giovanni. Or come può egli dire d'aver incontrata questa battesimale morte mistica nel passo della selva, quand'egli aveva trent'anni, come a me par [345] verosimile, o trentacinque, come par vero ad altri? Non certo, con tali allegorie. Dante vuol significare d'essere anabattista. O che dunque?

Prima di tutto: ho già considerato altrove la parte che le Confessioni di S. Agostino ebbero verosimilmente nei primi disegni di Dante, i quali erano come abbozzi di questa mirabile visione.[296] Il libro delle Confessioni fu invero presente allo spirito del Poeta e allora e dopo. Nel Convivio, a principio del proemio, scusa il parlar di sè con l'esempio del Santo: “e questa ragione mosse Agostino nelle Confessioni a parlar di sè; che per lo processo della sua vita, la quale fu di buono in buono[297] e di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne diede esemplo e dottrina, la quale per più vero testimonio ricevere non si poteva„. (Co. 1, 2) Emendiamo, probabilmente, quel “di buono in buono„, così, secondo il racconto di S. Agostino: “di buono (in malo, di malo) in buono, di buono in migliore etc.„; e noi vediamo come Dante costruisse, a questo modello, il suo libello giovanile e la sua mirabile Visione. Chè e nella Vita Nova e nella Comedia, egli si dipinge prima buono; anzi, riassume l'un libro e l'altro, facendo dire a Beatrice: (Pur. 30, 115)

Questi fu tal nella sua vita nuova
virtualmente, ch'ogni abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.

Da buono, si fa men buono, o cattivo; nella Vita Nova travia per inganno d'Amore, vivendo Beatrice; [346] travia, per inganno d'Amore, una seconda volta, morta Beatrice. E questo secondo traviamento è quello narrato nella Comedia, in cui seguendo false imagini di bene entra e dimora nella selva oscura. E poi si pente o ne esce, e così di malo torna buono. La Comedia poi racconta come profittasse, e di buono si facesse migliore nel purgatorio, e di migliore ottimo nel paradiso terrestre e celeste.

Ora e nelle Confessioni racconta il Padre aver ricevuto il battesimo nell'anno trigesimo terzo dell'età sua,[298] e nelle altre opere parla sovente del battesimo come di sacramento che si conferisca a uomini adulti e conscienti. Potè Dante da ciò essere indotto a porre questa figurazione del battesimo (che non è, poi, una cosa col battesimo!) nell'età sua adulta e consciente.[299] Ma in S. Agostino egli trovava a questa figurazione anche la ragione morale e teologica. Dice infatti il Padre: “Il parvolo è già fatto fedele (cioè credente, cristiano, incorporato al Cristo etc.) dal sacramento della fede, sebbene non ancora della fede che è nella volontà dei credenti. Chè, come si risponde che crede, così anche si chiama fedele, non per lo annuirvi con la mente, ma per ricevere il sacramento. Quando poi l'uomo comincerà ad aver intero l'uso di ragione (sapere), non ripeterà quel sacramento ma lo intenderà, e si farà adatto (coaptabitur) alla verità di esso, col concorso anche [347] del volere (consona etiam voluntate)„.[300] La ripetizione del battesimo che è nella Comedia, non può essere se non un così fatto riassumerlo nell'intelletto e aderirvi con la volontà. Ora un parvolo d'animo, quale è Dante o l'uomo nella selva oscura, ha, per la difficoltà e ignoranza originali, assopito, per così dire, e questo lume e questo volere. Uscirne vuol dire svegliar l'uno e veder l'altro; cioè “volere„ gli effetti del battesimo. In questo senso il parvolo d'animo ripete il battesimo che ebbe quand'era parvolo d'età. E gli effetti si scorgono subito. Dante è giunto appiè d'un colle; guarda in alto, e vede i raggi del sole “che mena dritto altrui per ogni calle„, sulle pendici. Allora si rinfranca, nel tempo stesso che vede lume: e si volge indietro e guarda il passo. Dal passo era uscito, prima che vedesse la luce dell'alba e sentisse quetare la paura. Egli “rimira„ il passo. Che è ciò se non il solo modo di repetere che di questo sacramento sia concesso, repetere con lo sguardo della mente, fisso e iterato; considerarlo e intenderlo, insomma, come è chiaro dalle parole che seguono e che mostrano come lo spaurito viatore abbia capito di che passo si trattava? Lo passo

che non lasciò giammai persona viva!

Come il viatore trovò il passo? come potè uscirne? La luce dell'alba egli la vide poi, guardando in alto; non fu essa che lo scortò. Qual fu dunque? Chi lo guidò e chi gli fu lucerna? Qualche cosa che è appunto della dottrina sua tacere. Nella visita alla [348] quarta delle male bolgie, nella quale è punita la falsa prudenza o previdenza, di quelli appunto che per aver voluto vedere innanzi hanno il volto tornato dalle reni; Virgilio dice a Dante: (Inf. 20, 127)

E già iernotte fu la luna tonda:
ben ten dee ricordar, chè non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda.

“Non ti nocque„ vuol dire, per attenuamento, “ti giovò e molto giovò„; “alcuna volta„ vale “tante volte„.[301] Dante se ne deve ricordare; nel fatto, non si ricordò di parlarcene.[302] Ebbene egli non doveva ricordarsi d'averla veduta, la luna tonda; doveva, anzi, non averla veduta, sebbene ella gli giovasse continuamente nella sua notte di miseria. Perchè? Per un perchè somigliante a quello del lume che è nel nobile castello e che non impedisce che vi siano le tenebre:[303] un perchè dottrinale. Col battesimo si conferisce la grazia.[304] Ora la grazia è, di natura sua, occulta. Invero dice S. Agostino, che è il Cristo che battezza, non però con visibile ministerio, sì occulta gratia.[305] La grazia opera dentro noi; Dio non agisce da fuori, ma di dentro: non si mostra, diciamo.[306] La grazia è segreta [349] e rimota dai nostri sensi.[307] “Non per suon che venga da fuori, di legge e dottrina, bensì con interna e occulta, mirabile e ineffabile virtù (potestate), Dio ne' cuori degli uomini opera non solo veraci rivelazioni, ma ancora buone volontà„.[308] Nella figurazione mistica del suo battesimo Dante vuole esprimere questo concetto: “Gli uomini possono, perchè vogliono così; ma vogliono così, perchè così Dio opera per grazia sua, che vogliano„.[309] Dante potè uscir dalla selva, perchè volle; infatti la sua uscita significa il riacquisto del volere; ma volle, e perciò potè, per la grazia di Dio, la quale è occulta e ineffabile. La sa Dante e la dice, questa profondità misteriosa. Si fa dire da Guido del Duca: (Pur. 14, 18)

tu ne fai
tanto meravigliar della tua grazia,
quanto vuol cosa, che non fu più mai;

e soggiungere:

ma dacchè Dio in te vuol che traluca
tanta sua grazia...

Non ci si maraviglia, che di cosa di cui non ci si rende ragione; non traluce, se non cosa che sia coperta. L'Aquila parla, e dice con quella sua tanta esattezza: (Par. 20, 67)

Chi crederebbe giù nel mondo errante,
che Rifeo Troiano in questo tondo
fosse la quinta delle luci sante?
Ora conosce assai di quel che il mondo
veder non può della divina grazia,
benchè sua vista non discerna il fondo.

[350] Così Dante non dice, perchè non può dirlo, come fosse che egli potè, cioè che volle. Glielo dice poi Virgilio, come fosse, aggiungendo quel “ben ten dee ricordare„ che fa vedere che, nella finzione del Poeta, Virgilio non sa che Dante non sa e non ricorda. Altra volta, se Virgilio non parlasse. Dante non saprebbe. Dante dorme e sogna. Si sveglia e non sa più dove sia. Dormendo era giunto al purgatorio. Come? Virgilio glielo racconta, vincendo il dubbio e la paura di lui. (Pur. 9, 52)

Dianzi nell'alba che precede il giorno
quando l'anima tua dentro dormia
sopra li fiori, onde laggiù è adorno,
venne una donna e disse: I' son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme,
si l'agevolerò per la sua via.

Sì: Lucia l'aveva portato sino alla entrata del purgatorio. Ed egli per quanto nel sogno avesse avuta una visione di analogo significato, egli non sapeva nulla ed era in un dubbio pauroso. Ora Lucia è la Grazia; e il sonno di Dante è narrato, oltre che a dichiarare che la Grazia precede i meriti ed è data gratis, anche a significare che ella è occulta e rimota dai nostri sensi, e opera di dentro, senza a noi visibili strumenti. E dunque Dante non dice nulla della luna tonda che alfine gli fece trovare il passo, perchè secondo il senso dottrinale, egli non deve averla veduta, perchè era la Grazia, e la Grazia è invisibile. La luna era piena, e pure egli deve dire che la selva era oscura, e non far cenno di quel lume di grazia che raggiava per lui; chè la luna, secondo Dante medesimo, dal sole riceve quella [351] “luce di grazia„, che secondo i teologi scende da Dio “giustificante„.[310] Così la luna tonda simboleggia la grazia e buona voglia conseguente, (Par. 28, 113) di cui Dante non s'accorse. Egli sa ciò solo che deve sapere; che potè.

Non sapeva della luna tonda quando parlava a Brunetto. A lui dice: Mi smarrii in una valle, ier mattina ne uscii: ma vi tornavo quando Virgilio m'apparve. (Inf. 15, 50) Quando poi vede Forese (l'uno era il vecchio savio, venerato come maestro, l'altro il compagno di sollazzi giovanili), Dante può parlare della luna, avendone udito parlare Virgilio. A Forese dice: (Pur. 23, 118)

Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, l'altr'ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui
(e il sol mostrai)...

Il Poeta non senza perchè accenna alla relazione della luna col sole,[311] e non senza perchè ricorda la luna a proposito del suo mutar vita, e non senza perchè fa quel cenno e quel ricordo in questa cornice, dove l'ombre hanno difetto di carne, (v. 51) e dov'esso dichiara come mai faccia il gran viaggio con la sua “vera carne„ che “seconda„ però un essere spirituale quale è Virgilio. Come di luna parlò Virgilio a Dante nella bolgia infernale della falsa prudenza, così ne parla qui Dante a Forese, per indurre l'idea della “prudentia carnis„. La [352] quale consiste nel tenere i beni delle carne come fine della vita, nell'amare la carne d'amore soverchio. Chè “lecitamente si ama la carne, affinchè ella sia ordinata al bene dell'anima, come ad ultimo fine, ma se si costituisce nel ben della carne l'ultimo fine, sarà inordinato e illecito amore„.[312] E questo concetto si riscontra nel Convivio, dove si descrive il nobile appetito che “conoscendo in sè diverse parti, quelle che in lui sono più nobili, più ama; e conciosiacosachè più nobile parte dell'uomo sia l'anima che 'l corpo, quella più ama„. Se questo non fa, l'animo non è nobile, bensì vile, e sè non usa, cioè non usa la volontà e l'intelletto, (Co. 4, 22) cioè erra nella selva oscura, nella vanità del senso, nella notte, con non altro che la prudenza della carne, ben contraria all'altra prudenza che “assomiglia al carbonchio che allumina la notte„,[313] e alla luna che splende da sera a mane, come il suo fratello sole raggia da mane a sera.[314] Uscito, Dante posò alquanto il corpo lasso. Lasso era il corpo, perchè il battesimo, se cancella la colpa originale, lascia però l'infermità. “Si rimette la colpa, non il languore meritato della colpa„.[315] Ma il corpo si riposa. E questo è per la virtù della grazia battesimale che ristora e rifà (reficit); chè il battesimo è una seconda natività, è una morte, sì, ma [353] che rigenera. Dante, esce dal passo: muore. E si riposa, cioè comincia a rivivere.

XXVI.
IL MINOR LUMINARE

Il senso morale si converte limpidamente in politico, sol che invece di Dante o d'uomo, poniamo uomini o genere umano. Allora la discrezione o lumetto di ragione diventa prudenza regale, o quel senno che occorre a essere re sufficiente. (Par. 13, 95). L'Aquila, segno contesto “di laude della divina grazia„ (Par. 19, 37), parla del lume, che Lucifero non aspettò da Dio; e che è lume di grazia, e che, se non vien dal sereno, (ib. 19, 64)

è tenebra,
od ombra della carne o suo veleno.

È tenebra, è notte di pièta o miseria, e selva oscura. Il lume di grazia è pur quello che la luna riceve dal sole, per operare più virtuosamente; la luna che raffigura l'autorità imperiale, ed ha, secondo il trattatista di Monarchia, aliquam lucem ex se, sì che il Poeta della Comedia la chiama un altro sole; e dalla benedizione del pontefice, dunque, lucem gratiae. (M. 7, 4) Nè mai tanta ne riceve, quanta nel tempo in cui ella “riguarda il suo fratello per diametro dal purpureo della mattutina serenità„. Allora Dante la chiama Phoeba, come a dire un altro Phoebus, un altro sole. (M. 1, 13) Allora Dante a lei assomiglia la [354] giustizia, quando nulla de' suoi contrari le si mescola, quando non ha contrarietà nè nel volere nè nel potere; quando è esercitata dal Monarca, la cui volontà è sincera d'ogni cupidità, e la cui possanza non ha limiti od ostacoli. Tenebre sono, è notte di pièta o miseria, oscura è la selva della vita umana senza quel lume. Nè altro che quello (s'intenda bene!) può esserci, poichè la vita umana comincia con la vanità del senso, cioè con la notte, cioè con la tenebra. O a dir meglio, comincerebbe: chè venne il Redentore e nella sua morte fummo battezzati, e nel battesimo ottenemmo la virtù illuminatrice e fecondatrice. Ma è inutile ripetere come per la maggior parte degli uomini Gesù si sia incarnato invano e invano sia morto sulla croce. In verità c'è bisogno della autorità imperiale a confermare, per così dire, la redenzione.

L'età, che è accrescimento di vita, è soggetta a smarrirsi. Si smarrì pur Dante, sebbene così favorito dal cielo, così guidato da Beatrice viva, così consigliato e revocato da Beatrice morta; e si smarrì, avanti che l'età sua “fosse piena„. (Inf. 15, 51) Ora tutto il genere umano, “per via delle blande dilettazioni dell'adolescenza„ ha bisogno di essere diretto. (M. 1, 17) Questo smarrimento, in quella prima età, è cagione del pervertimento di tutto. Dante a Marco Lombardo chiede perchè il mondo sia così pieno di “malizia„. Risponde Marco che ciò proviene dalla mancanza di guida e freno, di prudenza regale e di giustizia legale, nei primi tempi in cui l'anima semplicetta s'inganna. Dei due Soli, uno ha da valere nella notte. Ci ha da essere, per la via del mondo, l'imperatore, che è scevro d'ogni cupidità; [355] mentre il pastore, no, non può esserne scevro, e correndo dietro ai beni ingannevoli si trae dietro tutta la greggia. (Par. 16, 58) E Beatrice nel paradiso reitera l'argomento. La cupidità che affonda il genere umano, proviene dallo sviarsi degli uomini, prima “che le guancie sien coperte„; nè meraviglia: “in terra non è chi governi„. (Par. 27, 121)

Questo sviarsi nell'adolescenza è causato, si è già detto, dal peccato originale, i cui effetti persistono dopo il battesimo, sebbene questo abbia la virtù di menomarli e li menomi, così che i parvoletti sono appunto migliori degli adolescenti, e dimostrano d'aver lume nella ragione e bontà nel volere. (ib. 127) Ma il lume presto si oscura, ma il volere si rende servo di nuovo. Marco afferma che appunto quel lume fa difetto: non c'è chi discerna, per gli adolescenti, il bene e il male; (Pur. 16, 75 e 95) non c'è chi sostenti e nutra il libero volere, nella fatica ch'ha da durare “nelle prime battaglie„. Ed esplicitamente, nella sua opera politica, Dante assevera: “Il genere umano, quando è più libero, meglio si trova... Principio primo della nostra libertà è la libertà dell'arbitrio... Questa libertà, o questo principio di tutta la nostra libertà, è il più gran dono fatto alla natura umana da Dio, chè per esso siamo felicitati qui come uomini, altrove come iddii. Che se così è, chi sarà che non dica che il genere umano si trovi meglio, quando più possa usare di questo principio? Ma standosi sotto il Monarca è libero come non mai...„ (M. 1, 14) Il Monarca o l'imperatore custodisce dunque questo libero arbitrio, e lo restituisce quando è tolto. Sicchè nell'epistola ai Fiorentini Dante usa l'ardita espressione “giogo della libertà„ per significare [356] questo imperio che affranca. (Ep. VI, 2) E insiste dicendo che quelli che s'oppongono al dominio imperiale sono in ceppi e catene, e respingono chi vuole slegarli e liberarli. “Non vedete, ciechi che siete, la tiranna cupidità... che vi tien prigionieri nella legge del peccato e vi proibisce di ubbidire alle sacrosante leggi, che danno sembiante della giustizia naturale: la cui osservanza, se lieta, se libera, non solamente si prova non essere servitù, anzi, a chi ben guarda, appare essere la suprema delle libertà? Che altro infatti è libertà, se non il libero corso del volere all'azione...?„ (ib. 5) E così una specie di Cristo è Enrico, a cui sembrano dirette, come al Cristo, le parole di Isaia: Vere languores nostros ipse portavit. E agnello di Dio lo chiama nell'epistola a lui: Ecco chi tolse i peccati del mondo! (Ep. VII, 2) E ciò, dunque, perchè egli rende la libertà, perchè cancella gli effetti del peccato originale, ossia, con tutti i peccati cioè con tutta la malizia o cupidità che v'è implicita, quella prima miseria, quel primo languor della nostra natura, quell'originale servitù e ignoranza. Egli, l'imperatore, ribattezza dunque il genere umano.

Restituisce il lume e la libertà, ossia fa uscire il genere umano — la maggior parte degli uomini — dalla selva oscura. Anche nel Convivio è detto “cavalcatore dell'umana volontà„. Cioè, nella selva monta in sella, e fa uscire la volontà dal passo. Dopo, spronerà o frenerà la fiera. Nella selva è luce di grazia, è Delia, è Phoeba, è altro sole; dopo... si vedrà che è per essere. Nelle tenebre della selva è il minor luminare, che splende da sera a mane, facendo l'uffizio di sole notturno, altrettanto, se non più, necessario del sole diurno; perchè, ripeto, nella [357] notte del senso si decide il destino dell'uomo. Egli è la luna; ed è mirabile a osservare che sempre, quando il Poeta parla di libertà di volere, torni in volta la luna. Nel discorso di Marco ella è detta un de' due soli. (Pur. 16, 107). E qui si noti come di libero arbitrio e di lume a bene e a malizia, Dante parli nella parte centrale del suo poema; parte costituita dai tre canti dal sedicesimo al diciottesimo del purgatorio: poichè, tralasciando, come deve essere tralasciato, il canto proemiale di tutto il poema, abbiamo, avanti il decimosesto del Purgatorio, quarantotto canti, e altrettanti dopo il decimottavo.[316] Ebbene in questa triade in cui è esposta la dottrina centrale del libero volere, dopo il ragionamento di Marco il sole era nel corcare. (17, 9) Sorgeva la luna. Quando Virgilio ha conchiuso il trattato della nobile virtù, rimandando a Beatrice, ecco (18, 76)

la luna, quasi a mezza notte tarda,
facea le stelle a noi parer più rade,
fatta com'un secchione che tutt'arda;
e correa contra 'l ciel, per quelle strade
che il sole infiamma allor che quel da Roma
tra' Sardi e' Corsi il vede quando cade.

Virgilio rimanda a Beatrice; e Beatrice continua infatti il trattato, e definisce la nobile virtù: (Par. 5, 19)

lo maggior don, che Dio per sua larghezza
fesse creando, e alla sua bontate
più conformato, e quel ch'ei più apprezza,
fu della volontà la libertate...

[358] Dove ciò? Nel cielo della luna. Riparla poi della libertà: (Par. 27, 124)

Ben fiorisce negli uomini il volere,
ma la pioggia continua converte
in bozzacchioni le susine vere.

Ebbene, di lì a poco (non senza notare l'accorgimento di menzionare la luna nel verso 132) ecco esprime l'oscurarsi del lume di grazia, avuto col battesimo; così:

così si fa la pelle bianca nera
nel primo aspetto della bella figlia
di quel che apporta mane e lascia sera.

La qual bella figlia è la luna, senza dubbio, che fa l'uffizio contrario del suo padre, da cui ha luce di grazia, pur avendone anche per sè: illumina da sera a mane.[317] È la luna, e l'annerarsi della sua pelle bianca, che materialmente può spiegarsi come un'eclissi, rinforza con molta misteriosa evidenza la spiegazione del fatto che Dante non parli nel primo canto della luna che era tuttavia piena e giovò a Dante nell'uscir dall'oscuro e folto della selva. La selva era oscura, perchè nera s'era fatta per l'errante la pelle bianca della luna; ma la pelle era bianca, ed egli non la vedeva, perchè la grazia è occulta e misteriosamente opera. La luna splendeva, ma (di codesto riparleremo) incerta, come nel viaggio inferno d'un de' due predecessori di Dante. Al principio, il viaggio di Dante fu come quello d'Enea: “quale per la luna incerta, sotto povera luce, è il [359] cammino nelle selve, quando Giove nascose nell'ombra il cielo e la notte nera tolse alle cose il lor colore„.[318] C'è, c'è la luna, o uomini, per la vostra notte e vanità e servitù e miseria; c'è la prudenza infusa, c'è la prudenza regale; ma in potenza, non in atto. C'è l'autorità imperiale; ma chi pon mano ad essa? Manca l'imperatore. C'è la luna, ma voi prima vi sviate e poi vi perdete, come se ella non fosse. E per questo Dante, nel parlare del volere che si fa servo, della prudenza che resta in potenza e non si fa atto, menziona la luna e menziona la cupidità nella quale s'addentra e s'affonda l'umanità smarrita. Di cupidità parla Beatrice, di malizia parla Marco; e l'una e l'altro come di effetto del primo sviarsi. E tutti e due dicono: Eppur la luna splende! È un altro sole, anzi; è la bella figlia del sole![319] L'imperatore o lo impero o l'autorità imperiale è raffigurata in questo lume che guida, come in un cavalcatore che regga. Questo è il liberatore, il redentore, il battezzatore. È rappresentato nella luna, che riceve lucem gratiae, e serve a rendere agli uomini la grazia battesimale. Tra la luna, che scorge Dante al passo della selva senza farsi a lui vedere, sebbene sia tonda, e Lucia, che lo porta all'entrata del purgatorio, senza farsi sentire a lui assopito, è grande somiglianza. Orbene, mentre Dante è assopito, che Lucia lo porta in collo, egli ha una visione che annunzia e raffigura in altro [360] modo, dentro l'anima, il fatto che avviene di fuori. Egli narra: (Pur. 9, 19)

In sogno mi parea veder sospesa
un'aquila nel ciel con penne d'oro,
con l'ale aperte ed a calare intesa:
ed esser mi parea là dove foro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro.
Fra me pensava: forse questo fiede
pur qui per uso, o forse d'altro loco
disdegna di portarne suso in piede.
Poi mi parea che, più rotata un poco,
terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco.
Ivi pareva ch'ella ed io ardesse,
e sì l'incendio imaginato cosse,
che convenne che il sonno si rompesse.

La visione significa che la grazia lo porta, senza sua fatica, al purgatorio, espresso qui, come nel primo canto dell'inferno, mediante il fuoco che in esso è ultimo e monda il cuore e acuisce gli occhi alla visione. Ma perchè sul monte Ida? perchè in forma d'aquila? perchè con penne d'oro, e perchè simile a folgore; imagini che sono nell'epistola ai Fiorentini a significare lo imperatore?[320] Perchè appunto impero e grazia, impero e giustizia, impero e libertà, impero e remission di peccati sono come sinonimi in Dante. Non è l'imperatore l'agnus dei che toglie i peccati del mondo? che è carità e giustizia? E tra luna e Lucia vi è grande relazione. Lucia è così [361] detta perchè la grazia è dealbatio, cioè bianchezza di luce;[321] ma chi non dirà che Dante abbia detto lucem gratiae invece che il comune lumen gratiae, perchè fisso nella somiglianza che è tra la luna, che quella luce riceve, e Lucia che è la grazia?

Tutto il genere umano sarebbe dall'aquila imperiale portato in sino al fuoco della purificazione, come Dante. Donde alcuno, come Dante, avrebbe potuto, volendo, assorgere anche alla visione, alla quale è condizion necessaria quel fuoco di mondizia. Così Dante ha detto. E trasformando la colomba evangelica in aquila romana, ha significato il concetto, non so dir quanto ardito, ma che pure ha espresso nelle epistole, nel Convivio e nel trattato della Monarchia, che l'imperatore è un nuovo Cristo che libera il genere umano dalla miseria del peccato originale, da quello che fu e resta il diverticulum totius nostrae deviationis,[322] e perciò da tutti i peccati che sono conseguenze di quella e di quello.

Egli è intanto, o potrebbe essere, come deve essere, colui che fa uscire dal passo della selva la quale è l'ignoranza e difficoltà o servitù originali, il genere umano. Per limitarci al primo membro del trinomio dell'Aquila del paradiso, tenebra, ombra e veleno della carne; ebbene l'aquila delle penne d'oro, che ebbe il suo primo nido là donde fu ratto Ganimede, [362] l'aquila imperiale che scende come folgore, rischiara al genere umano la “tenebra„.

Ma certo vale e contro l'incontinenza e contro la malizia. Contro questa l'aquila si trasforma in veltro.

XXVII.
IL PIE' FERMO

Il colle era in faccia a Dante. Dante

riprese via per la piaggia diserta
sì che il pie' fermo sempre era il più basso.

Il colle significa beatitudine. Invero è opposto alla valle paurosa, (Inf. 1, 14) che è un basso loco, dove tace il sole, (ib. 60 sg.) e tutt'uno con la selva oscura, (ib. 15, 50) mentre il colle è alto, luminoso, bello. Di questa il significato simbolico, per dirlo con una parola sola e con la parola che verosimilmente avrebbe usata il Poeta, è “miseria„ o pièta. Dunque il colle si ha a chiamare il contrario di miseria, cioè beatitudine. Così Virgilio lo chiama (ib. 77) il dilettoso monte ch'è principio e cagion di tutta gioia.

Qual beatitudine? Chè in questa vita, di beatitudini ve n'ha due. “Veramente è da sapere che noi potemo avere in questa vita due felicità, secondo due diversi cammini buoni e ottimi, che a ciò ne menano: l'una è la vita attiva, e l'altra la contemplativa, la quale (avvegnachè per l'attiva si pervegna, come detto è, a buona felicità) ne mena [363] a ottima felicità e beatitudine„. (Co. 4, 17) Marta e Maria sono in quel luogo del Convivio i simboli di queste due vite; e Dante ricorda le parole di Cristo: “Marta, Marta, sollecita se', e turbiti intorno a molte cose....„ Nella Comedia a queste persone sono sostituite Lia, cui appaga l'operare, e Rachele, cui appaga il vedere. (Pur. 27, 108) Lia va, movendo le belle mani; Rachele siede. (ib. 93) Poichè Dante figura qui di andare, e non si appaga di guardare e non resta seduto, ed è sollecito e si turba, possiamo dir subito, che il cammino che fa, è quello della vita attiva, e che il colle rappresenta la felicità buona e non ottima. C'è di più. Nel capitolo citato del Convivio Dante riesce a dire che questo cammino buono si fa con l'esercizio delle virtù morali; in altro dichiara che la felicità e beatitudine nostra consiste nell'uso del nostro animo, e che quest'uso “è doppiò, cioè pratico e speculativo (pratico è tanto, quanto operativo), l'uno e l'altro dilettosissimo; avvegnachè quello del contemplare sia più, siccome di sopra è narrato. Quello del pratico si è operare per noi virtuosamente, cioè onestamente, con prudenzia, con temperanza, con fortezza e con giustizia; quello dello speculativo si è, non operare per noi, ma considerare l'opera di Dio e della natura„. (Co. 4, 22) Avanti il colle, noi vediamo che comincia l'uso dell'animo che fugge ancora e poi fa che Dante riprenda via. Dunque Dante cerca una delle due felicità con l'uso dell'animo, e questo uso è il pratico, poichè opera, cioè cammina, e non si limita a considerare. Senza che, abbiamo veduto che ha esercitato la prudenza, uscendo dal passo, e che l'animo, fuggendo e cacciando, ha cominciato ad esercitare le virtù di [364] temperanza e fortezza, chè l'appetito o animo, “come buono cavaliere lo freno usa, quando elli caccia, e chiamasi quello freno temperanza, la quale mostra lo termine infino al quale è da cacciare: lo sprone usa, quando fugge per lo tornare al loco onde fuggir vuole„. (Co. 4, 26) Ho detto che comincia: in vero qui l'animo non mostra che la natura sua, di “cacciare e fuggire„, e la sua perfezione che è “quantunque ora esso caccia quello che è da cacciare... e fugge quello che è da fuggire„. (ib.) Che tali due virtù eserciti poi, e con esse la giustizia, vedremo fra poco:[323] basti per ora ripetere che uscendo per la prudenza e cominciando, uscito, a usar l'animo, è molto probabile che il Poeta intenda di simboleggiare l'uso pratico dell'animo che comincia appunto dall'esercizio della prudenza.

Dante va, cioè opera; ma, più generalmente, vive. Non è uscito egli dalla selva della quasi morte? Non ne è uscito con la figurazione del battesimo che è una morte che rigenera o rifà vivi? Vive, dunque. La vita è una via: vecchio concetto. E S. Agostino lo illustra così: “Via fu detta codesta vita: finisti la vita, finisti la via. Camminammo, e il vivere non è che accedere„.[324] Vien subito in mente l'espressione di Beatrice: (Pur. 30).

Come degnasti d'accedere al monte?

Quel latinismo non pare casuale. E io ne induco che accedere al monte significhi “andare verso il fine naturale della felicità„, significato che ben traluce [365] anche dal contesto.[325] E il terzetto s'interpreterebbe così: “Sì, sì: sono Beatrice. Non lo sapevi che qui e la felicità? E dunque dovevi sapere che io ero qui, non altrove. Come riuscisti, con tanto traviamento, a trovare il luogo della felicità?„

La piaggia, per cui Dante va, è diserta. Diserta conferma che era, Beatrice, parlando a Virgilio. (Inf. 2, 62) E Dante la chiama “il gran diserto„ implorando l'Ombra. (Inf. 1, 64) La piaggia raffigura il mondo, che nel purgatorio (16, 58) è detto

tutto diserto
d'ogni virtute...
e di malizia gravido e coverto.

E questo mondo è quello di cui sapeva Marco, e vale “la strada del mondo„ (ib. 107) come poi Marco medesimo spiega, come chiaramente s'induce all'espressione di lui “buon mondo„, (ib. 106) che vale “il buon governo„. La strada del mondo, o il mondo senz'altro, significa il cammino della vita attiva, così illustrato nel Convivio. “Conciossiacosachè... l'umana natura, non pure una beatitudine abbia, ma due; siccome quella della vita civile, e quella della contemplativa; irrazionale sarebbe se noi vedessimo quelle (le intelligenze celesti) avere beatitudine della vita attiva, cioè civile, del governo del mondo, e non avessero quella della contemplativa, la quale è più eccellente e più divina. E conciossiacosachè quella che ha la beatitudine del governare non possa e l'altra avere, perchè lo 'ntelletto loro è uno e perpetuo, conviene essere altre di fuori di questo ministerio, che solamente vivano speculando etc.„. (Co. 2, 5)

[366] Il pie' fermo sempre era il più basso,[326] in questa via del mondo. Cerchiamo di spiegare questo modo di camminare più in relazione con la natura morale di questa via, che con quella materiale. S'intende invero che l'aggiunta del pie' fermo riguarda più il fatto, che quella è la via del mondo o del governare o attiva o civile, che l'altro fatto, che la via era, non si sa bene se piana o declive o ripida. Il canto proemiale, se mai altro della Comedia, è allegorico nella sua moltiloquente brevità e rapidità. Ora, intorno alla distinzione dei due cammini, nella Comedia è usato il simbolo di Lia e Rachele; e Dante pone sè in ispecie di un nuovo Giacobbe. Giacobbe una mattina (si noti, una mattina) si trovò stanco e affranto per aver fatto alle braccia nelle ore antelucane con un uomo.[327] Aveva passato un guado, o, diciamo dantescamente, un passo. Era solo. E venne quest'uomo e lottò con lui usque mane. “L'uomo non potendo vincerlo, toccò il nervo del suo femore, e subito marcì. E l'uomo disse a lui: Lasciami, che già sorge l'aurora. Rispose: No, se non mi benedirai. E l'altro disse: Che nome hai? Giacobbe, rispose. Ed esso: No, non ti chiami Giacobbe, bensì Israele: chè se fosti forte contro il tuo Dio, quanto più non prevarrai contro gli uomini! E Giacobbe [367] l'interrogò: Dimmi, che nome hai? Rispose: Perchè cerchi il mio nome? E lo benedisse in quel luogo. E Giacobbe chiamò quel luogo Phanuel, dicendo: Vidi Iddio a faccia a faccia, e l'anima mia è salva. E sorse a lui subito il sole, appena oltrepassò Phanuel; ed esso zoppicava da un piede....„. Le somiglianze sono grandi. Nella Genesi è un passo di fiume, e un passo, come di fiume, è nella Comedia. Il tempo è il medesimo: temp'era dal principio del mattino. Dante fa menzione del sole che sorge, nel momento che dice d'avere sperato bene: sperata la vittoria su una fiera. E nel racconto biblico il sole sorge dopo la vittoria. Dopo che il patriarca aveva passato Phanuel, anzi; e si direbbe che il Poeta fonda così i due passaggi, del guado di Iaboc e del luogo detto Phanuel, in un solo passo. La narrazione di Dante ha il significato che ho esposto. L'uomo per la grazia di Dio (che è una benedizione di dolcezza)[328] esce dall'oscurità e difficoltà o infermità del peccato originale. Il battesimo, rinnovato con la volontà, gli ridà forza: è forte, dunque, quando riprende la sua via. Di più, è salvo; può dire: l'anima mia è salva. Può dirlo, che già è per dire d'avere bene sperato; e spe salvi facti sumus; e quest'atto di speranza è, per così dire, attestato dagli angeli che cantano nell'Eden: In te, domine, speravi. (Pur. 30, 83, 2)[329] E l'efficacia della virtù della speranza nell'animo di Dante è supremamente protestata poi da Beatrice, che lo previene, a differenza delle altre due risposte a S. Pietro e a S. Giovanni, nella risposta a S. Giacomo, dicendo: [368] “La Chiesa militante alcun figliuolo non ha con più speranza!„ (Par. 25, 52) E con tutto il resto combina la circostanza più notevole. “E sorse a lui subito il sole, appena oltrepassò Phanuel; ed esso zoppicava da un piede„. Il sole già indorava la vetta del colle; e Dante, dopo aver rimirato il passo ed essersi riposato, moveva per la piaggia diserta,

si che il pie' fermo sempre era il più basso.

Non si deve dir dell'uno quel che dell'altro Iacob et claudus et benedictus?[330]

In verità la zoppaggine di Giacobbe è variamente interpretata dai mistici; ma delle interpretazioni prevale questa, che riferisco con le parole d'un discepolo di Bernardo: “Giacobbe zoppicando, perchè da una parte pensa quae mundi sunt, l'altro piede porta sollevato da terra„. Questo piede sollevato da terra significa la parziale mortificazione che è intera in Paolo. “Paolo, pensando soltanto quae Dei sunt, non sa se in corpo o fuor del corpo, lo sa Dio, tuttavia intero in ispirito vola libero al cielo„.[331] Già mi pare si possa indurre che il piede che è basso, significhi, nell'andar di Dante, il pensiero delle cose, quae mundi sunt. Il che non deve sembrare strano; chè i piedi nei mistici significano le affectiones. “I piedi... sono le affezioni dell'anime, mentre camminiamo in questa polvere„.[332] Il che sapeva Pietro di Dante, il quale comenta: “... anima habet duos pedes, per [369] quos bene vel male incedit, idest duos affectus... Pes auctoris, idest affectio, in quo magis adhuc firmabatur, erat infirmior, quod adhuc ad infima terrena relicta alquantulum magis inclinabatur, quamquam superior pes ad superiora ascenderet, et sic claudus ibat„. La dichiarazione sembra venir dalla bocca stessa di Dante, tanto è precisamente detta, sebbene non sia precisamente intesa. Il piè fermo (in quo magis adhuc firmabatur) era infirmior perchè era più basso; era invero il pensiero delle cose quae mundi sunt. Dante era Giacobbe, che usava il suo piede, dirò così, mondano, ossia della vita civile o attiva. Era, per usare un'altra faccia del mito mistico, Giacobbe maritato a Lia. Secondo il concetto di Guerrico, il piede infermo, marcito, percosso, mortificato, sarebbe quello della affezione spirituale, della sapienza, della vita contemplativa, che lo zoppo porta sospeso da terra. Quello su cui insiste, è il piede sano. Le quali imagini vanno poi interpretate alla rovescia, come la morte del battesimo. La infermità del piede sospeso da terra, è sanità; la sanità del piede che poggia sulla terra, è infermità: sanità corporale, infermità spirituale; mortificazione corporale, vivificazione spirituale. Ora il piede su cui Dante insisteva, era fermo, ma basso o inferiore o terreno; fermo e tuttavia meno fermo, infermo, infirmior; l'altro non fermo cioè infermo, era più alto, superiore, spirituale. Credo che a ognuno sia venuto in mente, a questo punto, il pie' destro del veglio di Creta, che è “terra cotta„, e il veglio sta su quel più che sull'altro eretto. Il pie' fermo del veglio, ossia quello su cui insiste, è, dunque, infermo, cioè di terra cotta. Fermiamoci qui, chè non è lecito fare un paragone esatto in tutto e per tutto, [370] perchè nella statua si distinguono i piedi in destro e sinistro, e nel viandante, no. Limitiamoci dunque a riconoscere che Dante vuol dire, ch'esso insisteva sul piede peggiore, la qual idea di “peggio„ è espresso nella statua con l'imagine della terra cotta, e nel viandante con la figurazione di più basso: concetti non troppo diversi, perchè l'idea di “terra„ è anche nel “basso„, come quello che anche significa terreno o mondano; e Dante avrebbe potuto dire: il pie' fermo era quel della terra, o in simili modi. Ma occorre, ripeto, limitarci; perchè nella statua la nozione di destro porta l'idea di spirituale, la quale nel viandante è figurata nel piede, non destro o sinistro, ma più alto, sollevato, sospeso. Quel che però è comune a statua e viandante, è che l'idea di vita attiva è figurata nel pie' fermo, nel pie' su cui si poggia camminando o stando. Solamente, nella statua, poichè la distinzione delle due vite è già nell'essere destro o sinistro de' due piedi, si ha questo nitido concetto: La vita attiva, cioè il governo del mondo, è nell'autorità spirituale; il che non deve essere. E l'autorità spirituale è detta terra cotta, non per ispregio, ma per ricordare forse la povertà evangelica e per insinuare il concetto di mortificazione e di astrazione dal corpo, oltre che per esprimere la fragilità di quella base. Qui, nel cammino per la piaggia diserta, Dante ha voluto dire che il battesimo rinnovato nella volontà, aveva di lui mortificata (cioè vivificata) sol una parte; e che egli insisteva sulla parte rimasta sana (cioè inferma, bassa, terrena, mondana). Il che non solo conferma che Dante procedeva per la via del mondo, ma afferma che questa è cammino buono e non ottimo, come quello che si [371] percorre con una soltanto mezza mortificazione, cioè con una vita soltanto a metà vera.

Or possiamo noi vedere l'atteggiamento materiale, come vediamo il concetto morale? È certo difficile. Difficile è anche rendere visibile quell'interpretazione della zoppaggine di Giacobbe. Alterum pedem a terra suspensum portat: cioè da una parte cogitat quae Dei sunt: sta bene; ma non lo posa mai il piede mortificato? cammina su una gamba sola? Si può giurare che Giacobbe non era claudus a questa foggia; ma il mistico si figura avanti gli occhi lo zoppo nell'atto di fare un passo: vede una gamba rattrappita in alto, più in alto che non salga l'altra sana. Così a me pare rappresenti sè stesso Dante. Sicchè la frase equivarrebbe, come in una formula matematica, a quest'altra: il piè infermo (ossia quello su cui il corpo non poggiava) sempre era il più alto, o men basso. E forse, così figurando, il piè fermo sarebbe predicato; o, a meglio dire, nel senso plastico sarebbe soggetto, e predicato nel senso mistico. Nel senso mistico la frase varrebbe: il piede inferiore, ossia l'affermazione della vita attiva o del mondo, era quello su cui insistevo. Ma nel senso plastico, a me pare difficile trovare un atteggiamento che stia; se non forse quello di uno zoppo che salga per la pendice, dolce o men dolce, allo stesso modo che il bambino vien su per le scale; che mette sul gradino un piede, sempre quello, e poi porta su, sino al primo, l'altro. Il piede su cui poggia, per salire, è sempre il più alto; il più basso non fa mai forza. Or Dante, se ha voluto dir così, ha chiamato fermo il piede che non fa forza e che nello zoppo, è il piede infermo; e si muove sì, nè quindi si può [372] chiamar fermo in modo assoluto, ma non ha un movimento utile al cammino e alla salita. È fermo, cioè inerte. Un arzigogolo? Non l'ho fatto io. Ma il lettore pensi pur da sè, tenendo in mente che piede fermo è contrario di piede infermo, e che il piede che carnalmente è infermo o mortificato o marcito, è spiritualmente fermo o vivificato o sano.

In conclusione, quel ch'è certo, è questo. Dante riprende via per il cammino del mondo (diserto d'ogni virtute), poggiando sul piede della vita attiva o inferiore più che sull'altro, mortificato; perciò, zoppicando; non volando, come avrebbe fatto chi nel passo avesse mortificato il corpo tutto; non volando, come Paolo, in ispirito. Non volava Dante per questa via della carne o del mondo, come avrebbe fatto per la via dello spirito o di Dio. Il battesimo non era stato rinnovato che a metà, e solo a metà il volere era libero. Qualcosa lo tratteneva a terra tuttavia: affligit humo, poteva dir con Orazio. E qui giova considerare che il genere umano è detto zoppicare per via del peccato originale. “Il diavolo non creò nulla„ dice S. Agostino “della natura umana; ma guastò, con persuadere il peccato, ciò che Dio aveva creato bene; sì che per quella ferita che fu fatta mediante il libero arbitrio dei due uomini primi, tutto il genere umano va zoppo„.[333] Altrimenti si dice che il peccato porta la morte. Or come dalla morte del peccato originale si rinasce mediante la morte mistica che è una rigenerazione, così da questo claudicare, ossia da questa parziale mortificazione, si esce come abbiam veduto più su, con una mortificazione parziale, cioè claudicando.

[373]

XXVIII.
LE TRE FIERE

Ed ecco quasi al cominciar dell'erta
una lonza leggiera e presta molto
che di pel maculato era coverta.
(Inf. 1, 31)

Dante l'aveva sempre dinanzi al volto e ne era impedito nel suo cammino, sì che si volse più volte per ritornare. Ma era mattina, era primavera: l'ora e la stagione gli erano motivo a bene sperare; quando apparve un leone, con la test'alta, con fame rabbiosa da spaventar l'aria, e una lupa, magra, piena di tutte brame, che fece misere molte genti. Queste due, specialmente l'ultima, lo impaurirono: alla vista dell'ultima perdè la speranza di salire. Egli piange e s'attrista in tutti i suoi pensieri; nessuno gliene rimane a confortarlo. La bestia senza pace gli veniva incontro a poco a poco respingendolo nell'oscurità e facendolo ruinare nella bassura di prima. Quando gli si mostrò un'Ombra. Era respinto nell'oscurità; e l'Ombra era d'un poeta onore e lume di tutti i poeti. Era ricacciato nella selva dove non è “vita di scienza e d'arte„;[334] e l'ombra era d'uno che onorava ogni scienza ed arte. (Inf. 4, 73) Ruinava in basso loco; dove sono i parvoli d'animo; e del magnanimo era l'Ombra.

[374] Le tre fiere che sono?[335] Perchè la selva che impediva Dante, e gli mise tanta paura, rappresenta il peccato, è ragionevole figurino il peccato anche le fiere che impediscono e impauriscono. Ma la selva è il peccato originale; le fiere saranno il peccato attuale. Il peccato attuale presso Dante (e presso tutti) è tenuto separato dal peccato originale. In vero Virgilio, dichiarandolo e dividendolo filosoficamente, non fa parola del limbo e del vestibolo, e parla solo di incontinenza, violenza (o bestialità), frode. Così: prima parla solo di malizia divisa in vim e fraudem, secondo Cicerone, e la frode suddivide poi in tale che uccide solo il vincolo d'amore e in tale che fa obliare anche l'amore aggiunto per fede speciale; in tale, secondo una distinzione pur Ciceroniana, che offende l'umanità e in tale che offende la pietà (pietas). Quando, chiedendone Dante, Virgilio mentova l'incontinenza che offende meno Dio e acquista meno biasimo, ed è punita perciò fuor di Dite, allora enumera le tre disposizioni aristoteliche, incontinenza, malizia e la matta bestialità. Che la bestialità sia tutt'uno, per Dante, con la violenza [375] è certo, e parole non ci appulcro.[336] Le disposizioni sono tre, come le fiere; le fiere raffigurano il peccato; saranno dunque queste tre specie di peccato. Di più: l'incontinenza è trattata da Virgilio separatamente, e da Dio punita fuor di Dite in modo assai distinto dalle altre due disposizioni più gravi; la lonza si presenta prima, si presenta quasi al cominciar dell'erta, ed è tale da poter esser vinta: non toglie la speranza, per la quale uno si salva.[337] Di più: la bestialità è in qualche modo incontinenza:[338] il leone si mostra idealmente o, direi, sintatticamente, unito alla lonza:

che a bene sperar m'era cagione
di quella fiera alla gaietta pelle
l'ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista, che m'apparve, d'un leone.

Di più: la bestialità, col suo nome ciceroniano di vis, è unita strettamente a fraus: e Dante ci mostra quasi a un tempo il leone e la lupa:

Questi parea che contra me venesse...
ed una lupa, che etc.

Leone e lupa hanno il predicato in comune; oltre avere in comune la fame e la paura. Gli incontinenti sommettono la ragione al talento, seguono come bestie l'appetito (o cuore o animo o hormen o ira, [376] cioè irascibile); i bestiali sono quel che dice la parola, poco differenti da bestie, pur meno e più bestie dei primi, chè sono uomini bestiali, sono semiferini, sono di quelli cui l'ira sopra il mal voler s'aggueffa (Inf. 23, 16); e sono dipinti come bestemmiatori col cuore (o animo o appetito o ira etc.), come trascinati dall'animo a essere ingiusti, e vai dicendo. Nel tempo stesso i bestiali o violenti sono rei d'ingiustizia come i fraudolenti, sebbene di tanto meno rei, in quanto, delle due parti della ragione,[339] corruppero solo la volontà, senza cui non è ingiuria, e non l'intelletto ancora, che è invece nella frode. Ebbene il leone è messo insieme mediante il “ma non sì„ con la lonza, e mediante la comunanza di predicato e quel venire insieme, con la lupa. Si rileggano quei versi, e vi si vedrà fedelmente rispecchiata la dottrina di Virgilio: “L'incontinenza è più leggiera, ma badiamo: c'è una specie d'incontinenza che sebbene sembri operare soltanto col cuore, non è incontinenza, bensì ingiustizia: ingiuria ha per fine, e somiglia molto alla frode, sebben questa, uguale per il fine, sia peggiore per il mezzo„. E l'incontinente danneggia solo sè stesso; la bestialità o violenza e sè stesso e gli altri; la frode soli gli altri. La lonza è solo un impedimento all'uomo, o meglio all'animo (che fuggiva e cacciava); il leone e la lupa hanno fame e spaventano. Ma la lupa che ha tutte brame, viene innanzi a poco a poco e finirebbe con lo uccidere il viatore. Il leone ha fame sì, ma rabbiosa. L'aer ne teme. Come si estrinseca la fame, quando [377] è rabbiosa? Ne troviamo esempi in Dante: (Inf. 8, 62)

Lo fiorentino spirito bizzarro
in se medesmo si volgea coi denti.

Un altro: un mostro semiferino, chiamato bestia da Virgilio, (Inf. 12, 14)

quando vide noi sè stesso morse,
sì come quei cui l'ira dentro fiacca.

Un altro: un dannato, che già mostrò “bestial segno„ rodendo il teschio del nemico, racconta: (Inf. 33, 58)

ambo le mani per furor mi morsi,

e così che pareva avesse fame o voglia di manicare. E ci sono esempi che dottrinalmente equivalgono: quel di Pier della Vigna, che dice: (Inf. 13, 79)

L'animo mio per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contro me giusto;

e quello di Capaneo, che ha per castigo la sua superbia che lo brucia dentro. (Inf. 14, 63) Il leone, rabbiosamente, addenterebbe sè stesso: intanto fa paura all'aria.[340]

La lonza è l'incontinenza. Questa disposizione comprende (Inf. 11, 70)

quei della palude pingue,
che porta il vento, che batte la pioggia
e che s'incontran con si aspre lingue.

[378] Quelli della palude dicono: Fummo tristi “nell'aer dolce che dal sol s'allegra„: ora ci attristiamo qui, dove abbiamo fango per la gola invece d'aria, e oscurità invece di sole. Contrappasso! Questi sono gli ultimi, i più di sutto, degl'incontinenti; i primi e più di sopra sono quelli “che paion sì al vento esser leggieri„. La lonza è

una fiera leggiera e presta molto:

contro la lonza vale “l'ora del tempo„, quando il sole monta, e la dolce stagione, quando dolce è l'aere. È dunque, la lonza, l'incontinenza di quei che porta il vento, e sì di quei della palude pingue: è l'incontinenza, indicata col suo principio e con la sua fine. Così Dante nel purgatorio dipinge il peccato delle tre cornici superiori, come una strega che le appare nella quarta cornice che è dell'accidia. E questa femmina è l'accidia, così come si mostra, balba, guercia, zoppa, monca, scialba. Sotto lo sguardo del sognante (la concupiscenza comincia dagli occhi!) diventa dolce sirena, che canta e sta dritta ed è colorita d'amore. È l'accidia che diventa concupiscenza. Comparisce una donna santa e presta e fende alla sirena i drappi e ne mostra il ventre, che puzza. Ecco la sirena sotto la pioggia che fa putir la terra; (Inf. 6, 12) ecco la sirena nella belletta negra. (Inf. 7, 124) La sirena è dunque manifestamente lussuria, gola e tristizia o accidia. E anche avarizia, che, oltre la chiara lettera, anche le imagini del Poeta lo provano; che gli avari e prodighi sono stati “guerci„ (Inf. 7, 40) e risorgeranno col pugno chiuso e coi crin mozzi; il che s'accorda con le mani monche e [379] con la fiacchezza generale della sirena, prima che la sguardo altrui la vivifichi. I capei mozzi significano (non dico esclusivamente) il partirsi della fortezza, come nel fatto di Sansone,[341] e così il pugno chiuso, oltre la tenacia di chi mal tiene, significa ciò che la man monca: l'inettitudine a qualunque operazione. Ora dice un avaro del purgatorio, e dice dell'avarizia intendendo certo anche del suo contrario; (Pur. 19, 121)

Come avarizia spense a ciascun bene
lo nostro amore, onde operar perdesi,
così giustizia qui stretti ne tiene.

E gli avari sono, come quelli del vestibolo e come quelli della palude pingue, inconoscibili, e perciò innominabili. Perchè? Perchè non operarono. La femmina balba è dunque l'accidia che diventa lussuria, gola e avarizia; è la concupiscenza che si risolve in accidia. In vero contro lei ha forza una donna santa e presta, e contro lei vale il battere a terra le calcagne, cioè camminare, cioè operare, e contemplare le bellezze del creato. Così contro la lonza vale l'ora del tempo e la dolce stagione, e l'alacrità che ne viene all'animo. Dunque la lonza è l'incontinenza, e comprende dai portati dal vento tutti quei peccatori sino ai tristi nella belletta.[342]

Il leone è la violenza o bestialità, come la lupa è la frode e il tradimento. Di vero, hanno fame tutte e due le fiere: l'uno fame rabbiosa, l'altra fame di tutto. La lonza no, non ha fame, e impedisce, ma [380] non uccide. Invero ella raffigura il non contenere la “concupiscenza„. La concupiscenza è qualcosa tra sè e sè. Gli avari, golosi e lussuriosi ebbero soverchio l'amor del bene, bene che non fa felici in questa vita, come si vede che son gioie quelle, che finiscono in tristizia, e piaceri quelli, che terminano in puzza; nè nell'altra, come è inutile spiegare: ma amarono il bene; e questo amor soverchio è concupiscenza. Ma oltre l'amor soverchio del bene, e oltre l'amor lento di questo bene medesimo, fonti tutti e due di peccati, c'è un'altra fonte e un altro amore: l'amore del male, (Pur. 17, 91 segg.), ossia, virtualmente almeno, il mal volere. Dal terzetto

Benigna volontade in cui si liqua
sempre l'amor che drittamente spira,
come cupidità fa nell'iniqua,
(Par. 15, 1)

esce nitidamente la proporzione: amor diritto sta a volontà buona, come cupidità sta a volontà iniqua: dunque cupidità è amor del male. E il male che s'ama, non può essere di Dio e di sè, ma solo del prossimo. Orbene quest'amor del male o cupidità è ciò che nelle fiere è la fame; fame che è rabbiosa nel leone, e molteplice e insaziabile nella lupa. Peraltro la cupidità che è nella violenza o bestialità, se guardiamo a Pier della Vigna, è amor del male di sè, se guardiamo a Capaneo è amor del male di Dio; se guardiamo, intendo, a questi due per un esempio: ebbene non è ciò in contraddizione con la teorica del purgatorio? No: perchè tal cupidità o cupidigia è cieca, come tale ira è folle, come tal bestialità è matta.

[381] Eppure no, non basta dire che quella cupidigia è cieca, per sanare la contraddizione che sarebbe tra la teorica dell'amore nel purgatorio, e questo amor del male che nell'inferno è anche di sè e di Dio.[343] Perchè nel purgatorio Dante non ha avvertito che, per alcuna cecità, l'uomo può odiar sè e Dio? E invece ha detto: non può. Come mai, se nell'inferno aveva veduto, cioè pensato, altrimenti? Ecco: l'amore del male non può veramente aver per obbietto sè e Dio. Può questo obbietto, il mal di Dio e di sè essere d'altra potenza dell'anima. Di quale? Della volontà.

Ben l'amore è distinto del volere. Leggete il verso (Pur. 18, 96)

cui buon volere e giusto amor cavalca,

e ricordate il terzetto della cupidità, che è detta liquarsi nell'iniquo volere, e non essere una cosa con quello. Il superbo (dice Virgilio) e l'invido e l'iroso amano il mal del prossimo, ma con esso amano anche il bene proprio; il primo, eccellenza, il secondo podere, grazia, onore e fama, il terzo, vendetta. Poniamo che il superbo sopprima il vicino, che l'invido impedisca ad altri di sormontarlo, che l'iroso si vendichi. Essi allora non si appagano d'amare il male del prossimo; bensì lo vogliono; ed è, la loro, iniqua volontà.

E Pier della Vigna? Egli volle, sì, il male di sè; chè a sè fece ingiuria, a sè giusto; e ingiuria è fine di malizia, e fine non è se non della volontà. Volle dunque il male di sè. O per questo s'ha a dire, che il male di sè, l'amava? No: tutt'altro: di [382] sè amava il bene, cioè la vendetta ch'egli prendeva come bene. In questo amare il bene e fare il male, o amare il mal del prossimo e fare il suo, è quella stolidezza che ognuno nota sempre nel peccato; e più è da notare in questi in cui entra l'ira o il disdegnoso gusto. Ma in tutti si vede. Il più ignorante dei peccatori (una specie di mulino a vento o di maciulla) è quegli che era il più sapiente degli angeli: Lucifero.... Or bene se a Dante si chiedesse: o non amò egli il mal di Dio? risponderebbe che no: egli amava l'eccellenza che è un bene, e la sperò: se la sperava, la riteneva possibile, non credeva che Dio fosse Dio, anzi credeva che fosse un suo vicino da sopprimere; onde se amò il mal di Dio, l'amò ma come di prossimo, non come di Dio, ch'egli non volle riconoscere. Così risponderebbe, o altrimenti; che certo non presumo di rispondere io per lui, specialmente nel fatto di Lucifero, che sto per dire, è l'unico che presenti difficoltà. A ogni modo, Dante ha detto che, quando l'amore è o torto o soverchio o lento,

contra il fattore adovra sua fattura.

Non si può dire che chi opera contro uno, l'ami. Eppure Dante dice che in nessun caso l'amore volge il viso dall'esser primo. Ma nell'opera della fattura contro il Fattore c'è altro che amore, il quale è dell'operazione la sementa! L'amor del male si è liquato in volontà iniqua. E l'amor del male non è mai verso Dio e la volontà iniqua è sempre contro Dio. L'amore, per conchiudere, ha sede nell'animo (Pur. 17, 93); e l'animo invero cerca sempre il bene suo, cioè Dio. Ma oltre l'animo, noi abbiamo la ragione, cioè la volontà e l'intelletto.

[383] La cupidità è, per Dante, amor del male, e l'amor del male si trova sempre con un amor del bene: speranza d'eccellenza, timor di perdere podere grazia onore e fama, brama di vendetta. Nelle due ultime fiere è questa cupidità, perchè non solo c'è la fame che sarebbe l'amor del cibo che è un bene, ma la brama di offendere altrui, che è l'amor del male; il leone e la lupa vengono contro Dante, con l'atteggiamento di volerlo divorare. Hanno tutti e due cupidità; ma il leone non mostra che una fame rabbiosa e la brama, diciamo, di mangiarsi il viatore; la lupa sembrava carca “di tutte brame„. L'amor del male, o cupidità, nasce in tre modi: la speranza d'eccellenza, e questa può essere in tante cose, in quante è il timore di perdere perchè altri abbia; il timore di perdere podere, grazia, onore e fama, il qual timore presuppone l'amore di queste quattro cose, che ne comprendono tante altre; la bramosia di vendetta, che è una cosa sola. La cupidità del leone, semplice, è questa brama; la cupidità della lupa, molteplice, comprende tutta quella speranza e tutto quel timore. Che ci sia timore nella lupa, è certo. Perchè viene incontro a poco a poco? perchè incontro e non contra come il leone? E pure è tanto magra, tanto bramosa, tanto famelica! E non uccide subito; ma tanto impedisce il viatore, che lo uccide. E non empie mai la sua voglia, e dopo il pasto ha più fame di prima, e la sua fame è senza fine cupa. Ciò non è nel leone, sebbene non lo dica espressamente il Poeta; ma s'intende che la fame dell'uno non è che rabbiosa, e che la fame dell'altra è insaziabile a differenza di quella. La cupidità di vendetta si sazia con la vendetta; la cupidità di tutte le altre [384] cose non si sazia mai; specialmente quella d'eccellenza. L'eccellenza l'uomo non la può raggiunger mai![344]

Così le due bestie potrebbero chiamarsi, metonimicamente, ponendo la causa per l'effetto, cupidigia o cupidità o amor del male. Ora questa cupidità è ciò che contrasta principalmente alla giustizia. Tolta la cupidità, nulla resta di avverso alla giustizia. (M. 1, 13) Ed è dunque, secondo il pensier di Dante, il contrario della malizia di cui “ingiuria è il fine„ e che si chiama perciò da Cicerone iniustitia. E se leone e lupa sono cupidità per metonimia, con parola propria saranno da chiamare vis e fraus in cui si divide la iniustitia; violenza e frode, in cui si distingue la malizia che ha per fine la ingiuria.

E questa cupidigia, fonte d'ingiustizia, è sovente figurata come la lupa (nella lupa sparisce il leone). Che la lupa s'ammoglia ad animali che molti son già e più saranno; sicchè non è soltanto famelica, ma seduttrice. Il che osservato a dovere avrebbe vietato a più d'uno di supporre che Dante si confessi reo di ciò che la lupa raffigura. No: la lupa quali uccide, a quali s'ammoglia; e Dante rischiò d'esserne ucciso, non d'esserle drudo. E ciò si conferma dall'altra rappresentazione della medesima lupa, trasformata in fuia. Ella ha le ciglia intorno pronte e bacia spesso un gigante e volge intorno l'occhio cupido e vago, e ognun sa come Dante la chiami. (Pur. 32, 150) E un Messo di Dio l'anciderà, come dal cielo deve venire colui per cui la lupa discederà, (Pur. 20, 10) e quello, [385] nutrito di sapienza, virtù e amore, che la ricaccerà nell'inferno, donde l'invidia la mosse. (Inf. 1, 101) Nel canto proemiale Dante non si dilunga intorno a questo aspetto della lupa; anzi, per quanto un cenno ne faccia, non ha scelta l'imagine in modo, ch'egli potesse farne più che un cenno. Ma insomma la lupa è anche una fuia, sciolta, e cupida anche d'altro che di terra e peltro. E così assomiglia a quella “illudens cupiditas, more Sirenum, nescio qua dulcedine vigiliam rationis mortificans„ (Ep. V 4); ricorda quella “dominantem cupidinem„, che non solo vuol impedire (cohibentem) con minaccie (vane, quella volta, perchè c'era in Italia quello che Dante potè credere il Veltro, e non fu!), ma blandisce con velenoso sussurro; (Ep. VI 5) e accieca. (ib. e 3) E anch'essa è bramosa e in questa frase sono le due qualità della lupa, la fame insaziabile e la seduzione: dira cupiditatis ingluvies illexit. (ib. 2) E Dante preparava nel pensiero la figura di questa lupa, quando parlava della culpa vetus (che fu causata dall'invidia del serpente).... quae plerumque serpentis modo torquetur et vertitur in se ipsam. Infatti la lupa fu scatenata nel mondo dall'invidia del diavolo, ossia fu prodotta dalla prima colpa, nè per altra ragione ella è chiamata “antica„, (Pur. 20, 10) come “antica„ è la selva dell'Eden, (ib. 28, 23) E Dante s'apparecchiava alla sua terribile sintesi del male, quando parlava d'una vulpecula fetida, che è anche una vipera, una pecora marcia, una Mirra, un'Amata, una parricida, una ribelle, pur piena di carezze e finzioni per allettare i vicini. Ora ognun vede che questa cupidità allettatrice, blanda, di molti uomini, che accieca e avvelena, e che è serpente, è proprio la frode. Si [386] sa dove Dante pone le fuie e le Taidi e le Mirre.

L'avarizia in Dante sta in questo rapporto con la cupidità: nella seconda è sempre la prima, nella prima non è mai la seconda.[345] Nessun avaro del cerchio d'inferno e della cornice del purgatorio è anche cupido. Ciò per una chiarissima ragione. La cupidità è amor del male; nell'avarizia, almeno del purgatorio (ma anche dell'inferno, via!), non è amor del male; bensì amor soverchio del bene. Perchè allora parlar di lupa, proprio in quel canto dell'avarizia, nel purgatorio? Perchè l'avarizia può divenire cupidità, che “quaerit aliena„ (M. 1, 13), e allora da mal tenere diviene mal prendere. Ma il mal prendere, in Dante, non è già peccato d'avarizia! La lupa predatrice non è già avarizia, ossia mal tenere, ossia perdita di “operare„, ossia ignavia inconoscibile, come di quelli del vestibolo e del brago! No: dobbiamo dire: la lupa è frode, la frode germina dalla cupidità, che può scambiar il nome con essa; e dunque la lupa si può anche chiamar cupidità. Ora la cupidità è amor del male che nasce dal soverchio amore del bene o dei beni. E così possiamo dire che il seme è avarizia, il germoglio è cupidità, la pianta è frode.

Ma le metafore non colgono mai giusto. Non si può dire che avarizia sia un seme; poichè in verità ella è una pianta venuta da un seme che si chiama amor soverchio del bene; anzi da un germoglio che sbullettò da un seme che si chiama amore. La cupidità proviene da questo seme istesso, ma sul germoglio s'insetò un altro germoglio; e così divenne [387] cupidità. La qual cupidità crescendo a pianta, non è più cupidità, bensì ingiustizia. Or che ha ella in comune con l'avarizia? Il seme; ma il seme è unico per tutte le piante:

amor sementa in voi d'ogni virtute
e d'ogni operazion che merta pene;

e poi quel germoglio, che là restò come era e qui fu insetato con l'amor del male.

La pianta dell'avarizia non dà frutti: è sterile di bene e di male. Quest'altra, è carica di frutti velenosi. Però, se non era quel primo germoglio, non nasceva questa pianta venefica. Ma però, se quel primo germoglio non s'innestava con la cupidità, la pianta rimaneva sterile. Così avviene che quando si vede quella prima pianta sterile e uggiosa, si può maledire a lei pensando all'altra che è così dannosa, tanto più che anch'essa, se non è dannosa, non è però utile; e nel tempo stesso sarebbe errore dire che la prima è la seconda. C'è voluto un innesto per la seconda: l'amor del male innestato sul primo germoglio che era amor del bene, sebbene amor soverchio; quell'innesto che si chiama cupidità.

La quale si liqua in volontà ingiusta, ossia ramifica in ingiustizia; e in questo senso cupidità non è soltanto frode, ma anche violenza. Però la violenza, non essendo proprio male dell'uomo, ha un elemento in meno della frode: l'intelletto. Cupidità, dunque, è nella violenza, e mal volere: il contrario di ciò che hanno gli accidiosi pentiti nel purgatorio, cioè, buon volere e giusto amore. (Pur. 18, 96) E noi ci domandiamo: la cupidità dei violenti è amor del male, o ingiusto amore; ma questo ingiusto amore s'innesta [388] su un amore del proprio bene: è esso quel medesimo su cui s'innesta l'amor malvagio dei fraudolenti, che è amore di ricchezze? Dante nel cominciare a trattare della violenza, esclama: (Inf. 12),

O cieca cupidigia, o ira folle!

Altrove dice: (Inf. 23, 16)

Se l'ira sopra il mal voler s'aggueffa.

Dal confronto dei due versi, ricaviamo che uno degli elementi della violenza, è l'ira, la quale sarà quell'amor del bene proprio che nei fraudolenti è amore di ricchezze e potere e il resto. E l'ira, nel luogo del purgatorio, si compone d'un adontamento per ingiuria e d'un amor della vendetta considerata come bene. Quell'adontamento è tristizia.[346] Ora nell'enumerazione di specie di violenza, è il verso (Inf. 11, 45)

e piange là dov'esser dee giocondo;

e quei della palude pingue sono tutti tristi, non solo quelli che gorgogliano, or ci attristiam nella belletta; ma anche gli altri che rissano, e dicono per bocca di un di loro. Vedi che son un che piango! E sono tali cui “vinse l'ira„. (Inf. 7, 116) Tale tristezza si ritrova nel leone, che rappresenta la violenza? Poichè nella violenza è quella tristezza. Sì: invero il leone viene “con rabbiosa fame„. Or questa rabbia è consumamento e martirio come si vede, p. e. da questi due versi: (7, 9; 14, 65).

Consuma dentro te con la tua rabbia.
Nullo martirio, fuor che la tua rabbia.

[389] Riassumiamo. La lonza non ha fame, dunque non ha cupidità, cioè non ha quell'amor del male che si liqua in volontà ingiusta, dunque non ha volontà. Ha però amor soverchio del bene, essendo ella una sirena che dismaga. Oltre a questo amor soverchio del bene, ha la tristizia uguale a quella dei gorgoglianti nel brago, perchè ella, se è la sirena, è anche la femmina balba, guercia, storta, monca, pallida, contro cui giova il camminare e il contemplare, la stagione bella e l'ora mattutina, l'aer dolce e il sole. Il leone ha fame, cioè ha cupidità, cioè amor del male, che si liqua in volontà ingiusta; egli ha sola questa fame, che non può essere che di vendetta; la fame è con rabbia, cioè con tristizia. La lupa ha fame, cioè ha cupidità, cioè amor del male, cioè iniqua volontà. Con esso amor del male, è anche amor del bene che non fa felice, perchè ella è fuia: di più ha tutte brame, cioè l'amor di tutti quei beni che s'accorda con l'amor del male, ossia eccellenza, podere, grazia, onore e fama; e poichè le ha tutte, non si può escludere nemmeno quell'unica del leone; di più, poichè Dante ne parla nel cerchio dell'avarizia, e dice lupo a Pluto, ha in modo segnalato l'amor delle ricchezze, il quale amore è concupiscenza e pur dà principio alla cupidità; di più ha anch'essa la tristizia, se ha la brama unica del leone, e la concupiscenza della lonza, e quell'attristarsi che è in chi teme di perdere podere, grazia, onore e fama. Con tutto ciò ha qualcos'altro a differenza del leone, oltre aver tutte brame invece d'una brama sola. Viene innanzi a poco a poco; sa allettare come sa uccidere; è, più che simile, una stessa cosa col serpente infernale, in cui per invidia al genere umano [390] si trasformò il diavolo, poichè dall'inferno “invidia prima dipartilla„; ha insomma, a differenza del leone, l'intelletto. E se l'intelletto non ne traluce meglio, bisogna considerare ch'ella è bestia, non solo (anche il veltro è bestia, eppur si nutre di sapienza), ma anche che l'intelletto, nel peccato e peccatore, è inordinato, e la sua sapienza è insipienza, ignoranza, cecità!

Si può così vedere che la lupa ha tutto ciò che ha il leone e che ha la lonza; e perciò in lei spariscono e lonza e leone, e riman sola, ed è la bestia.[347] Il che si può veder meglio raccogliendo, in termini scolastici, tutte le proprietà di questo triplice simbolo del peccato attuale. Diciamo dunque che la concupiscenza e la tristizia hanno lor sede nell'appetito: nell'appetito concupiscibile la prima, nell'irascibile la seconda; e che le altre facoltà dell'anima che possano esser inordinate dal peccato, sono la volontà e l'intelletto. E allora la lonza avendo concupiscenza e tristizia, ha inordinato l'appetito concupiscibile e irascibile; il leone, avendo rabbia e fame, cioè tristizia e cupidità (la cupidità liquandosi in volontà iniqua) ha inordinati l'appetito irascibile e la volontà; la lupa, ha come fuia, inordinato l'appetito concupiscibile e irascibile; come cupida, ha inordinata la volontà; come astuta, ha inordinato l'intelletto.[348] Dunque nella lonza, leggiera e presta, è [391] guasto sol l'appetito; nel leone l'appetito (sebbene in una parte sola) e la volontà, nella lupa l'appetito, la volontà e l'intelletto. Ossia, la lupa è tutto il peccato. Or dunque, cominciando dall'imo, raffigura e compendia tutto l'inferno; come lo compendia Lucifero, che ha tre teste che mostrano la deformazione dell'appetito, della volontà, dell'intelletto. E perciò è la frode, e perciò assomiglia non solo a Lucifero, che è la frode chiamata tradimento; ma a Gerione, che ha tre nature ed è la frode semplice; ma ai giganti che hanno l'argomento della mente oltre il mal volere e la possa; ma, in genere, al diavolo che per fare il male congiunge il mal volere e l'intelletto e la virtù della sua natura (che sol metaphorice [392] è appetito sensitivo). Chè la lupa è il diavolo, veramente; come il diavolo è il serpente infernale; tutti e due dipartiti dall'invidia: il diavolo, e io posso fare a meno di spogliare bestiari, chè a me e a tutti deve bastare questo passo: “figura di lupo porta il diavolo, che sempre invidia il genere umano„.[349]

Per quanto dottrinalmente la lupa comprenda anche il leone, oltre che la lonza, e perciò le fiere si riducono alla bestia, non credo che Dante considerando a parte la lupa, vi vedesse sempre quel compendio di tutto il male. Certo la dispregia più. Se, come è probabile, egli sentiva in tutti tre i nomi, leonza, leone, leopede,[350] l'idea di leone, il dispregio [393] è anche nel nome di lupa, che varrebbe: leone di piedi. Quindi io credo che, quando la vedeva a parte, egli non discernesse in lei la natura del leone, che conserva anche nel suo senso simbolico qualcosa della sua nobiltà naturale, per quanto nella violenza sia compresa sodoma e l'usura; che peraltro sono pecche di letterati grandi e di nobiluomini. E non vi discerneva allora la concupiscenza e tristizia della lonza; chè, in fin dei conti, la lupa non è fuia e non si ammoglia se non metaforicamente: altro è libidine d'oro, o di terra e peltro, o di dominio, e vai dicendo; altro, di carne. E allora, togliendo alla lupa il leone e la lonza che in lei sono spariti, e fondandoci soltanto sulla equivalenza di cupidità ed amor del male con relativo desiderio o speranza del proprio bene, dobbiamo dire che le sue “tutte brame„ sono, esclusa l'unica del leone e l'amor soverchio e lento della lonza, quali? Queste: desiderio di soppressione del vicino e speranza d'eccellenza; timore di perder podere grazia onore e fama, e amore o desiderio che altri non sormonti. Avrà dunque i peccati, quali sono nel purgatorio (ma via! anche nell'inferno!) di superbia e d'invidia. Ma la lupa è maledetta nel cerchio dell'avarizia nell'inferno, Maledetto lupo! e nella cornice dell'avarizia nel purgatorio, Maledetta sii tu, antica lupa! E dunque Dante stesso ci dice che tra quei beni desiderati dall'invido e dal superbo, sono anche quelli che l'avaro ama tenere; ci dice che nella lupa è anche avarizia; anzi che ell'è inizialmente avarizia.[351] Superbia, invidia ed avarizia, dunque, sono in lei: le [394] tre faville che accesero i cuori in Fiorenza, quando vi venne il giostratore con la lancia di Giuda. (Inf. 6, 74) In Fiorenza si scatenò allora la lupa, e dalla lupa fu offeso e cacciato Dante, che già di sè dice che era “nemico ai lupi„ che insidiavano l'ovile ov'egli dormiva agnello. (Par. 25, 6) E lupi erano, come dice Brunetto, quelli che non vollero che il dolce fico fruttasse tra i lazzi sorbi: lupi, cioè “gente avara, invidiosa, superba„ (Inf. 15, 68). Si scatenò la lupa per Fiorenza; e come l'invidia prima fu quella che la dipartì dall'inferno, quando consigliò la culpa vetus, così anche qui, anche ora, come potè la lupa venire nella terra? Ciacco dice che la città era piena “di invidia„. (Inf. 6, 50) Dante ha sempre il pensiero al primo peccato umano! Solo, per chi legge a fior di vista, Dante qui fa dire a Ciacco prima, che c'era invidia, poi, come correggendosi in cotal modo goffo: ho sbagliato: superbia, invidia e avarizia! No: si tratta dell'invidia diabolica, come quella prima gran volta, la quale sprigiona nel mondo il peccato che è la superbia, come quello dei progenitori, l'invidia come quella di Caino; più l'avarizia, che è di tutti e due, essendo un po' concupiscenza e un po' cupidità.[352]

[395]

XXIX.
VIRGILIO

La lupa respingeva Dante a poco a poco nella selva oscura. Ella è la malizia di cui il mondo, ossia il cammino della vita attiva o civile, era gravido e coperto. Ella è, più in particolare, la superbia invidia ed avarizia che accesero i cuori in Fiorenza intorno al trecento. E nel trecento pone Dante la visione, dal qual anno, e da quelli infausti comizi, Dante ripeteva il suo esilio e la vita errabonda e nulla per la quale vile apparì agli occhi degli italici. Non dunque nel trecento proprio la lupa respingeva Dante nella selva dell'ignobilità. Nè quando scriveva il Convivio; nel quale è la rassegnata intenzione di rimpatriare; il che vuol dire che non credeva allora che in Fiorenza si accovacciasse la lupa, così nemica a lui agnello, o credeva almeno ch'ella fosse fatta mansa. Più tardi; più tardi, quando egli credè che tutta la cupidità, che osteggiava l'agnello di Dio, si riassumesse nella vulpecula foetoris... venantium secura, che beveva alle correnti dell'Arno e si chiamava Florentia. Dante aveva preso a Cicerone questa imagine di frode; di frode, poichè la frode egli vede precipua nella vulpecula, nè solo in quanto è volpe, ma in quanto e' la trasforma in vipera conversa contro le viscere della madre, in Mirra che occupa notturna il talamo del padre. Di frode anzi e di violenza, fraus e vis, poichè ne fa anche un'Amata che s'ancide, e la vede alzar le corna ed esalar fumo. Più tardi, la lupa respingeva [396] Dante; quando la vulpecula ebbe ragione dei cacciatori, ed egli cambiò, occorrendogli una forma unica, oltre che più grandiosa, la volpicella, che era vipera e Mirra e Amata e pecora infetta e cornigera e fumigante, in lupa, che è predatrice e meretrice, astuta e sanguinaria. Ed è tale di per sè, e anche per il venir dopo le altre due fiere, e comprendere, essa, la bestia, sì la concupiscenza della lonza e sì la violenza del leone. Tutto dunque porta a credere che egli concepì la lupa, quando la volpicella ebbe vinti i cacciatori; e che narrò d'esserne ripinto quando, confermato il bando, con la morte di Arrigo e il trionfo di Fiorenza e dei Guelfi, egli aveva perduta ogni speranza di giungere alla felicità della vita civile, e temeva di ritornare a quella condizione di viltà, da cui il Convivio era stato destinato già a toglierlo.

Nel trecento tredici, dunque, ruinava in basso loco, sebbene egli riferisse quel ruinare nell'oscurità e ignobilità al trecento, quando quel ruinare cominciò virtualmente. Egli era ricacciato dalla via del mondo, cui dominava l'ingiustizia ossia la malizia di cui ingiuria è il fine, che torna al medesimo. Prima di essere contrastato dal leone e dalla lupa, che sono tutti e due cupidità, ossia malizia, ossia ingiustizia, egli aveva avuta innanzi al volto la lonza, cioè l'incontinenza di concupiscibile nel suo principio e d'irascibile nel suo effetto. L'aveva vinta o quasi vinta. E come? Usando contro lei lo sprone e il freno, la fortezza e la temperanza; quella contro l'effetto, questa contro il principio.[353] Usò dunque, per grazia [397] di Dio, la prudenza nell'uscir del passo; la temperanza e fortezza, al cominciar dell'erta; e usò la virtù di giustizia contro le due fiere fameliche o contro la bestia: usò la virtù di giustizia contro quel complesso di superbia, invidia ed avarizia, il quale prima che da Ciacco sia enunziato, fa dire a Ciacco; Giusti son due. E Brunetto mostra chiaramente di creder Dante, il dolce fico, ben diverso da quella gente avara, invidiosa e superba. Usò contro l'ingiustizia, la virtù di giustizia, o a dire anche meglio coll'affermare d'essere stato minacciato e ripinto e quasi ucciso dell'ingiustizia, la quale è pure una sirena che seduce, afferma e conferma di essere stato giusto, ben differente dagli animali a cui la lupa s'ammoglia, nemico a questi, cioè ai lupi, odioso al gigante che delinque con lei fatta fuia. L'esercizio delle quattro virtù cardinali è l'uso pratico dell'animo. Dunque il cammino, nel quale egli esercitò quelle virtù e usò praticamente l'animo (chè dal passo in poi, fuggendo e cacciando, sebbene necessariamente claudus, mostrò d'essersi svegliato dal torpore) era la via del mondo o la vita attiva. Tornava alla selva, quando gli comparve l'Ombra. Virgilio è studium, cioè studio e amore.[354] Pareva fioco per lungo silenzio, ossia da [398] lungo tempo non faceva udir la sua voce. Poco dopo Dante esclama verso Virgilio: (Inf. 1, 82)

O degli altri poeti onore e lume
vagliami il lungo studio e il grande amore
che m'han fatto cercar lo tuo volume!

Possiamo, dal confronto, arguire che lo studio cioè amore, d'arte poetica e di sapienza, strettamente unite nel pensier di Dante, tacesse da lungo tempo, ma non per Dante medesimo. Invero da lui, da lui solo aveva tolto lo bello stile che gli aveva fatto onore. Con che egli fa sul limitare del poema sacro la professione, che deve allo studio, e perciò all'arte e alle scienze o filosofia, e non al solo alto ingegno, il suo canto.[355] Dappoichè si riferisce al trecento, lo bello stile è quello di cui Bonagiunta significa il cominciamento e il tipo con la canzone Donne che avete; è quello delle nove rime, alle quali devono aggiungersi le prime, almeno, canzoni conviviali, ricordate nel poema una a piè del monte, Amor che nella mente, (Pur. 2, 112) una nel ciel di Venere, Voi che intendendo (Par. 8, 37); è quello delle dolci rime d'amore; (Co. c. 3) è il dolce stil nuovo.

E tale professione modesta di ossequio allo studio egli poi ripete in tutte le protasi e invocazioni del poema, invocando con l'alto ingegno le Muse e la memoria (cioè l'abito delle scienze) (Inf. 2, 7); chiamando in aiuto della navicella dell'ingegno, le sante Muse; (Pur. 1, 1) rivolgendosi al buono Apollo, per soccorrere l'intelletto. (Par. 1, 7)

Ma sul limitare del poema vi è anche, nel silenzio [399] di Virgilio, la riprensione, che a quella professione va spesso unita, degli stolti rimatori, degli immuni d'arte e scienza, dei prosuntuosi per il solo ingegno, degli annodati e impacciati. Il che si vede anche nel vestibolo dell'ultima cantica, quando il Poeta afferma che rade volte si coglie l'alloro del trionfo poetico o imperiale. Ma basti, aggiunge, aspirarvi. Poi che la rarità di quei trionfi proviene dal fatto che gli uomini disdegnano la vera gloria, la ghirlanda d'alloro che cinge la fronte del nume, dovrebbe tremar di gioia, solo a vederne il desiderio in alcuno. E Dante è di questi, o è questo che desidera e sogna; e l'opera sua sarà forse non più che favilla, che può destare però un grande incendio, invitando col suo esempio altri. E tale esempio è da tutti imitabile, perchè è di studio. Modesto è il Poeta, dopo aver compiute le prime due cantiche e nell'iniziar la più sublime; modesto è anche sulla soglia del poema, dichiarandosi e facendosi discepolo, che scriverà a dettatura.

E questa intonazione di modestia fa probabile che con la tacita riprensione di quelli che non istudiano, egli tocchi pur di sè, dicendo d'avere non disconosciuto ma intermesso lo studio. Invero è vergognosa la sua fronte, quando sa il nome dell'Ombra. Perchè? Dante dice che il lungo studio e il grande amore gli han fatto cercare il volume di Virgilio, e soggiunge che da Virgilio tolse lo bello stile. Tra l'aver tolto lo stile e l'aver cercato il volume egli afferma, pare, che passò tempo in mezzo. Onde la vergogna. Tolse invero lo stile, sin da quando trasse fuori le nove rime; cercò il volume di Virgilio, quando? Ho cercato: viene a dire, riferendosi al trecento. [400] Or bene ricordiamo che Virgilio è studio e amore, oltre che d'arte, anche di sapienza; perciò di Beatrice: amor di Beatrice. Beatrice ha a dolersi, e si dorrà, d'un traviamento di Dante, che durò dieci anni. Dunque in questi dieci anni Virgilio era stato muto nel cuor di Dante. Vero è che nella Vita Nova dice che tal traviamento fu di alquanti die; dopo i quali ebbe le visioni che lo ricondussero a Beatrice, inducendolo a studiare. Vero è che questo studiare durò trenta mesi, come si dice nel Convivio; in cui, restando fermo che lo studio era per confortarsi nella morte di Beatrice, riesce però ad altro disegno d'arte, che la mirabile visione. Ma il Poeta cancella, come il ritorno dell'amor suo per Beatrice morta, così quei mesi e anni di studio, e mette l'uno e l'altro, che sono in fine una cosa sola, nel trecento. Nel trecento dunque gli apparve quel Virgilio, che gli aveva suggerito qualche tempo prima della morte di Beatrice il cominciamento delle rime nuove. Nel trecento egli afferma di aver ripreso in mano il volume, che già studiò adolescente. O meglio: adolescente dall'imitazione dei poeti regolari, che sono anche filosofi e nascondono sotto belle finzioni un verace intendimento, tolse il bello stile; lo tolse, sì, da Virgilio, ma Virgilio è, in quella frase, figura dello studio e dell'amore d'arte e sapienza, e sia pure ch'egli lo figuri come non solo il più grande ma il più studiato dei poeti: ora, nel trecento, o meglio, nell'accingersi a descrivere la mirabile visione, Dante dichiara d'aver innanzi specialmente il suo volume, l'Eneida, l'alta tragedia. E tutto significa: “Quando vidi dalla malizia o ingiustizia impedita a me la vita civile (il che fu virtualmente nel trecento, [401] perchè fu in visione profetica, ma realmente nel trecentotredici, alla morte d'Arrigo), io mi rivolsi allo studio, che già m'aveva in altri tempi, prima del trecento, dato gloria, e stabilii di fare un poema, il poema che faccio, che deve essere un'altra Eneida, un'Eneida volgare, un'Eneida inferiore, almeno per le due prime parti; che sarà, rispetto all'alta tragedia di Virgilio mio modello, una comedia„.

La scelta di Virgilio a impersonare lo studio dell'arte e della sapienza, si deve, oltre che al fatto che Virgilio è il pedagogo del medioevo, anche, e specialmente, al volume, che Dante subito mentova a lui, pronunziando le due parole che dicono di lui l'essenza mistica: studio e amore. In quel terzetto traluce il senso reale di tra il velame allegorico. E ne vien fuori che se l'Ombra che personifica lo studio si presenta nel gran deserto nell'anno centesimo, lo studio per altro che mise Dante nel volume di quell'Ombra non cominciò allora, sì molto tempo prima, poichè allora era già lungo, sebbene fosse un po' tralasciato, nel fervore della breve vita politica. Del resto Dante considerava Virgilio come l'altissimo dei poeti, e nel nobile castello lo fa maestro dei poeti, come Aristotile v'è maestro di color che sanno. Chè il primato d'Aristotile non è impedito da ciò ch'egli è discepolo di Platone, come Platone è scolaro di Socrate; il che Dante, che pure mise presso ad Aristotile, più d'ogni altro, ma sempre nella “scuola„ di lui, Socrate e Platone, sapeva. “Altri furono, e cominciamento ebbero da Socrate, e poi dal suo successore Platone... Accademici chiamati... Aristotile, che da Stagira ebbe soprannome, e Senocrate Calcidonio... per lo modo Socratico quasi ed [402] Accademico limaro... la filosofia„. E così, pur sapendo che Omero è predecessore e maestro di Virgilio, Dante poeta fa che a Virgilio e non a Omero, per quanto questi abbia la spada in mano e venga innanzi “a' tre siccome sire„ e sia poeta sovrano, appartenga la “scuola„ poetica del suo nobile castello. In verità (Inf. 4, 95)

quel signor dell'altissimo canto
che sopra gli altri com'aquila vola.

e che però è il vero “poeta sovrano„, è, per me, il medesimo che “la voce sola„ proclama “altissimo poeta„. Lo deduco da questo, che Dante fa altrove volar come aquila sino alle stelle quelli che hanno, oltre valor d'ingegno, anche assiduità d'arte e abito di scienze, frutti di studio. (VE. 2, 4) Or qui è ben giusto che maestro, come egli lo chiama poco prima (v. 85), sia detto colui che personifica lo “studio„; colui che, come poco prima esso gli dice (v. 73), onora “ogni scienza ed arte„. Che se Omero ha la spada, sarà per le guerre che cantò:[356] e se è detto poeta sovrano e sire, tale lo dice Virgilio, perchè Dante vuole che i suoi poeti siano l'uno all'altro cortesi, e perchè in verità egli non voleva fare grande differenza tra loro. Voleva, insomma, mettere Omero più presso a Virgilio di quel che metta presso ad Aristotile Socrate e Platone.[357] Del resto come i tre fanno onore a Omero, lasciandolo [403] andare dinanzi come Sire, così e i medesimi tre e Omero fanno onore a Virgilio andandolo a incontrare e gridandolo altissimo, in quest'ordine, Omero, Orazio, Ovidio terzo, Lucano l'ultimo. In tal numerato canone, sì che dando luogo a Dante, lo fanno sesto, vanno incontro a chi sarà primo fra essi, e non, come dovrebbe essere se non si vuol guastare la serie, quinto. E a me pare assurdo che Virgilio avesse tra loro il posto di secondo in tutto il canone, tra Omero e Orazio satiro, e che, se mai, non lo dicesse. Invece la compagnia resta sempre in quell'ordine, e quando si scemerà, ne porterà, come ora sopravvengono il primo e l'ultimo, Virgilio e Dante.

A lui, al primo de' poeti, al poeta per eccellenza, all'autore dell'Eneida grida Miserere, l'uomo respinto dal cammino della vita attiva, impedito a lui come a ogni giusto, e già sull'orlo della selva oscura, in cui gli uomini son come morti o come non nati. A lui domanda aiuto contro la bestia. Potrebbe Virgilio essergli scorta anche nel cammino verso il bel colle, al qual cammino sembra confortar sulle prime lo smarrito viatore? Perchè non sali...? gli dice. Sì, potrebbe: in vero e nel Convivio e nella Monarchia Dante ha spesso l'autorità dell'autore dell'Eneida, per le sue teoriche civili e politiche. Ma Virgilio, quando vide lacrimar Dante, conobbe che per campare egli doveva tenere “altro viaggio„, ossia interpretando l'allegoria poetica, “l'altro„. Per giungere al colle? Sì, se il colle si spogliasse, nel pensier di Dante, lì per lì (come non è inverosimile), dell'aggiunto che ha al suo significato di “beatitudine„; dell'aggiunto d'inferiore o di buona rispetto a ottima. Ma questo è certo, a ogni modo, che il fine indicato [404] da Virgilio all'altro viaggio, non è l'andare al colle, ma il campare dal “loco selvaggio„, che è tutt'uno col “basso loco„ dove il sol tace, e con la selva oscura. Insomma gli dice: “Se vuoi non essere ignobile, e parvolo per sempre d'animo, devi seguire l'altro cammino, quello della vita contemplativa: la vita attiva o di governo è impedita a te, e a ogni giusto, dalla bestia, contro la quale non può aver potere che il Veltro„.

Il qual Veltro verrà, e avrà per suo cibo sapienza amore e virtù, ossia sarà come il Dio uno e trino, Potestà Sapienza e Amore, che viene o scende: sarà dunque come un Cristo redentore e battezzatore. Sarà salute dell'Italia, che Virgilio chiamò umile quando apparve al fatale Enea, e per cui Enea fece guerra; sarà dunque come un Enea, il quale raffigura pure nelle altre opere di Dante il forte e il temperante (Co. 4, 26), il nobile per eccellenza, cioè che ha tutte le virtù convenienti alle diverse età (M. 2, 3) e che qui è detto il giusto figliuol d'Anchise. Sarà dunque quell'autorità imperiale, che altra volta Dante impersona in Enea, e che a Dante tante volte suggerisce l'idea del Cristo, che toglie i peccati del mondo. Sarà la autorità imperiale che battezza, quando la volontà può e deve, concorrere e adattarsi al sacramento ricevuto negli anni puerili; che battezza imponendo il dolce giogo della libertà; che fa uscir dalla selva oscura il genere umano, ridonandogli o affermandogli la libertà dell'arbitrio; che dirige le anime degli adolescenti, le quali, per i blandi diletti, possono traviare; che cavalca l'umana volontà usando lo sprone della fortezza e il freno della temperanza; che toglie di mezzo l'ingiustizia (la cui origine [405] è le cupidità) e fa regnare, nella sua purezza, la giustizia, e per essa e con essa, ricacciata nell'inferno la bestia senza pace, la pace, supremo fine degli uomini e singoli e uniti. È un nuovo Cristo, che l'Unto di Dio unge, per così dire, periodicamente a restaurare l'opera sua: illuminando le anime, liberandone il volere e facendolo uscire all'opera, cioè distruggendo il peccato originale, cioè irraggiando, in modo misterioso e invisibile, la selva oscura nella notte dei sensi, e mostrando il passo della fiumana allo stanco viatore; e distruggendo il peccato attuale che con l'originale è nella relazione, in cui le fiere son con la selva. Non ci sarebbero i peccati nel mondo, se non fosse quella prima ignoranza e difficoltà nel vedere e nell'operare; non si incontrerebbero le fiere, nè la snelletta nè le micidiali, se non ci fosse la selva; ma non ci sarebbe la selva, o come Dante fa vedere nell'unico modo che gli sia concesso, non si ritornerebbe nella selva, se non ci fosse quella culpa vetus, che fu suggerita dall'invidia del serpente, e si attuò in tutte le inordinazioni dell'anima umana, nella corruzione dell'appetito della volontà e dello intelletto; se non ci fosse la lupa scatenata nel mondo dall'invidia prima, e che è tutto il peccato attuale; e si fonde e confonde nella selva stessa, ripingendo in quella l'uomo o l'umanità fintantochè e la selva e la lupa, avanti e dietro il viatore, non significano che una sola paura, una sola morte, un solo peccato: il peccato.

L'imperatore, secondo il Poeta, è un Cristo che si rinnova, e toglie la culpa vetus, o l'antica lupa, cioè in uno il peccato originale e l'attuale. E questo è a Dante affermato dallo Studio, su cui anche in [406] altra opera si fondava, a proposito di questa medesima materia; quando inveiva contro le “istoltissime e vilissime bestiuole (senza scienza e arte) che a guisa d'uomini„ pascono, e notava la loro prosunzione di voler sapere “filando e zappando„, invece che, come è chiaro, studiando.

XXX.
LO TUO VOLUME

Lo studio del volume è nell'altro viaggio guida precipua di Dante: la Tragedia scorta continuamente la Comedia. Così Virgilio enunzia il viaggio in cui sarà duce a Dante: (Inf. 1, 114)

trarrotti di qui per loco eterno
ov'udirai le disperate strida,
vedrai gli antichi spiriti dolenti
che la seconda morte ciascun grida;
e vederai color, che son contenti
nel fuoco, perchè speran di venire,
quando che sia, alle beati genti.

Ebbene la mossa e la meta della lunga via sono del poema Virgiliano. L'inferno Virgiliano ha (Aen. VI, 273)

vestibulum ante ipsum primisque in faucibus Orci
Luctus...;

e in fine, nel discorso d'Anchise, (ib. 741)

aliis sub gurgite vasto
infectum eluitur scelus aut exuritur igni.

[407] Ambedue i termini sono indubitabili. Invero dopo il vestibolo è l'Acheronte, nell'Eneide come nella Comedia; lungo l'Acheronte, in tutti e due i poemi, è una turba di nè vivi nè morti; là perchè inhumata, che non è perciò nel sepolcro e non è nemmeno nella vita, qua perchè nè buoni già nè cattivi. Là è detta inops, la turba; qua anime triste, cattivo coro, setta dei cattivi, sciaurati. (Aen. VI, 325, Inf. 3, 22) Gli antichi spiriti sono gli angeli nè ribelli nè fedeli, nè caldi nè freddi;[358] eppur qualcosa o molto risentono di quelli che in Virgilio (ib. 329)

centum errant annos volitantque haec litora circum.

Quel gran numero di cent'anni ha suggerito lo aggiunto di antichi, sebben molto più antichi siano gli angeli di Dante! E volitant anche gli sciaurati, come foglie che cadute fanno mulinello nel vestibolo aperto, o come arena quando tira vento. Dante poi nega ciò che Virgilio afferma, nel che la derivazione dell'un dall'altro è pur sempre chiara: i suoi invocano la seconda morte, gl'insepolti dopo i cent'anni sono admissi.[359] E gl'insepolti sono fatti uguali agl'ignavi per un'espressione, che Dante, con equivoco forse volontario e solito, interpretò a modo suo: maestos et mortis honore carentes. (ib. 333) Piangono disperatamente gli sciaurati, di cui il mondo non lascia essere fama e sono spregiati dal cielo e dall'inferno: la loro morte è senz'onore, e ogni altra sorte è preferibile alla loro. Quanto poi alla meta, è evidente [408] che Dante ha avuto lo sguardo alla dissertazione d'Anchise (che diventa come un purgatorio anche locale), perchè esso a tutto il suo purgatorio fa seguire una visione di persone e vicende future, così come trovava in Virgilio. E le persone e vicende sono di Roma ancor non nata in Virgilio: e in Dante, sono della Chiesa e dell'Impero: di Roma, tutti e due, Chiesa e Impero.

Tra la mossa e la meta l'Averno Virgiliano è seguito nell'Inferno Dantesco, con tanti accorgimenti e con tante, direi così, rettifiche dottrinali. Due sono i viatori dell'Eneide, Enea e la Sibilla; due quelli della Comedia, Dante e Virgilio. All'ultimo s'unisce, nell'uno e nell'altro poema, un terzo: Anchise e Stazio, che ambedue dichiarano l'infusione dell'anima nel corpo umano. Nel bosco di Trivia Enea trova la Sibilla (ib. 13); in una selva Dante trova Virgilio. Ed Enea alla Sibilla (ib. 117) e Dante a Virgilio (Inf. 1, 65) gridano: Miserere. Prima d'entrare, la Sibilla dice a Enea che è d'uopo animis e pectore firmo. (ib. 261) E Virgilio rimprovera Dante di non avere ardire e franchezza, e, proprio sulla soglia, lo esorta e conforta. (Inf. 2, 121; 3, 13) L'uno e l'altro seguono, rinfrancati, haud timidis... passibus, la guida. L'invocazione di Virgilio (ib. 264) ha il suo riscontro nella scritta morta, di colore oscuro. (ib. 3, 1) Da una selva muove Dante per cammino silvestre si avvia verso il suo Averno: (ib. 2, 142) così Enea va, come si può tra selve. (ib. 271) La luna incerta getta una luce maligna su queste selve. Sulla selva di Dante splendeva la luna piena, ma così incerta che Dante non ne vedeva la luce, quanto si vuol benigna. Il viaggio di Dante comincia [409] con l'aer bruno: e Dante è solo: (ib. 2, 1) lo stesso effetto d'oscurità e solitudine è al principio del viaggio d'Enea, sola sub nocte per umbram. (ib. 268) Luctus è nel vestibolo Virgiliano; sospiri e pianti nel vestibolo Dantesco. I mosconi e le vespe degli ignavi possono corrispondere alle ultrices curae (ib. 274) di Virgilio, interpretate male o liberamente; così il metus e il labos e il sopor possono trovarsi negli ignavi, o viventi o morti. Il grand'albero dei sogni piove le sue foglie nell'atrio. (ib. 282, Inf. 3, 112) Non ci sono nell'atrio cristiano i mostri, i Centauri e le Scille biformi, e Briareo e l'Idra, la Chimera, le Gorgoni, le Arpie e il fantasma tricorpore, ossia Gerione. Non ci sono: vale a dire, non ci sono più. La Comedia non rinnega la Tragedia, ma la conferma. Quando Enea discese agli inferi, i mostri che Dante trovò qua e là come simboli di peccato, non erano dove Dante poi li trovò; chè allora non c'era distinzione di peccati, c'era il peccato. I piovuti del cielo erano alla porta dell'inferno; Dite dominava anche oltre l'Acheronte.[360]

Enea e Dante trovano l'Acheronte, che, per l'uno e per l'altro, finisce in Cocito. Vedono Charon l'uno e l'altro, ed è quel medesimo. Vedono i morti desiderosi di passare, e alcuni vedono passare, altri desiderare invano. Lo stesso effetto di foglie caduche è nell'un luogo e nell'altro. Enea e Dante chiedono spiegazione alla guida, e l'hanno. Riconoscono ivi tutti e due qualcuno.[361] S'avvicinano al fiume. [410] (ib. 384, Inf. 3, 81) Caron si diniega all'uno e all'altro. Rispondono i duci: absiste moveri (ib. 399); non ti crucciare. (ib. 94) La pietas merita a Enea tal passaggio; (ib. 403, 5) la pietas, interpretata religiosamente, lo darà a Dante (ib. 95). E qui la Sibilla mostra il ramo o la fatale verga (che indica, cioè, se fata vocant), la quale Enea nascondeva nella veste. Nell'inferno Dantesco c'è pure una verghetta che mostra che nelle fata è vano dar di cozzo; ma non si usa qui. Ed è ben naturale: l'Acheronte, dopo che Gesù lo valicò (non certo sulla barca del nocchiero Caron), non è più il confine del regno di Dite e della sua moglie, che è regina dell'eterno pianto; alla quale la verghetta è destinata. La verga fa sì, nell'Eneide, che Enea sia accolto nella barca di Caron; Dante sulla barca di Caron non passa, ma su più lieve legno: ciò, perchè di mezzo c'è stata la redenzione, e il disserrarsi della porta e il crollo delle tre rovine,[362] e la fuga dei diavoli e di Dite da di qua l'Acheronte a di là lo Stige, oltre la porta men segreta. Una verghetta delle fata è usata nella Comedia a questa porta più segreta: non è la stessa? La stessissima.

Enea e Dante passano l'Acheronte, l'uno al modo precristiano, l'altro al modo cristiano. Di là Caron sbarca vatemque virumque. Si sa quel che vuol dire vates qui; pure queste due parole indicano [411] forse la scintilla prima dell'ispirazione di Dante a prendersi per guida un vate; tanto più che questo vate è appunto tale ne' due sensi, di poeta e profeta; ed è poeta della Sibilla, e profeta del Cristo, per mezzo della Sibilla, nell'ecloga quarta. Dunque è molto utile considerare che di là di Acheronte si trovano, nell'un poema e nell'altro, un vate e un uomo, un uomo certo. E subito, appena accenna a Virgilio, Dante dice: il Poeta. (Inf. 4, 14) Enea sente subito il latrato di Cerbero; Dante, no; eppur non contradice a Virgilio; chè il Cerbero Virgiliano assorda col latrato di tre gole haec regna; e Dante distingue il regno dell'incontinenza da quello della malizia. Ma che dico, che Dante non sente? Dante sente un tuono d'infiniti guai, cioè guaiti. Non poteva esser tra quelli il latrato di Cerbero? Il fatto è che, al suo luogo, introna le anime, come a dire, si fa sentir più, più da presso. E poi questo luogo è quel di mezzo della concupiscenza; il cane tricipite è un po' l'imperadore di questo regno, a cui sta nel mezzo; sì che, se i peccatori che introna sono, più che gli altri, simili a lui, cioè cani, (Inf 6, 19) pur si sente dolor che punge a guaio (ib. 5, 3) e si sente voce che abbaia (ib. 7, 43) anche nei due cerchi contermini. E i guai del primo cerchio, no, non sono di anime del primo cerchio dove i lamenti sono sospiri e non suonan come guai. (Pur. 7, 30) Il che è confermato quivi stesso. (Inf 4, 26) Or quel tuono di guai proviene dai peccatori canini, per dir così, e, idealmente o realmente, da Cerbero. Vedremo meglio, perchè.

Ecco vagiti nella Tragedia (ib. 426) e nella Comedia. (ib. 4, 25) Non sono in quella le femmine e [412] i viri di questa. Naturalmente: la redenzione mise un po' d'ordine negl'inferi, e riservò questo lembo o limbo di essi, oltre che agl'infanti, anche a viri e femmine. E Virgilio con una premura quasi insolita, poichè qui parla esso per primo e dice, Tu non dimandi?, spiega la cosa, che lo riguarda molto, perchè esso medesmo è di quelli. (ib. 31) Eppure dopo gl'infanti, Enea vede i condannati innocenti. (ib. 430) O non sono condannato innocente anch'io? sembra dire Virgilio a Dante: non per altro rio! (ib. 40) Minos è in Virgilio principalmente per raddrizzare (secondo un'ispirazione dell'Apologia Platonica) le sentenze ingiuste; ma assegna anche le sedi, può parere, a tutti. Pare, anche se non è. (ib. 431) Il fatto è che Dante lo trova come a lui pare che lo trovasse Enea, nell'atto di cotanto uffizio. (ib. 5, 4) Vicini a lui sono i suicidi insontes, nell'Eneide; (ib. 434) nec procul hinc i morti per amore, suicidi o uccisi. Insontes non possono essere i peccatori di Dante; eppure i peccatori carnali, che Dante trova come li trovò Enea, prossimi a Minos o agli infanti che dir si voglia, hanno molto l'aria di insontes; chè, o rotti a vizio o vinti da amore e da un punto, sono trascinati da un vento irresistibile. E Francesca non viene a dire di non averci colpa nella sua sventura? Non pare anche a Dante ch'ella sia offensa? E come Erifile mostra le ferite crudelis nati, non mostra anche Francesca in certo modo, come ho già detto, il sangue di che tinse il mondo? E sono colpevoli tutte due, sì; ma crudele il figlio, e degno di Caina il marito dell'una e fratello dell'altro, perchè non dovevano uccidere! E trovano, sì Enea e sì Dante, Dido; e Dante nella schiera di lei, vede in Francesca [413] una vittima d'amore, recens, in certo modo a vulnere anch'essa, e che fa a lui l'effetto che Elissa a Enea.[363]

Dopo loro, Dante si trova in faccia a Cerbero, e il suo duca fa ciò che il duca d'Enea. Ma Virgilio gli getta terra e la Sibilla un'offa. Anche in ciò è uno di quei divari coi quali Dante sembra ammonire che l'inferno è sempre quello, salvo l'effetto della redenzione e del cristianesimo. Mi limito a una delle ragioni del cambiamento. Servio dà l'etimo di Cerbero: divoratore di carne, consuntore di corpi. Non senza ricordo di quest'etimo Virgilio, anche questa volta da sè, senza essere dimandato (si tratta di cose sue), spiega il destino ulteriore della carne e dei corpi; (Inf. 6, 97) tanto più, che l'antico comento dice ancora: “le anime ricuperano (recipiunt) il luogo loro, quando il corpo sia consunto„. Ora il medesimo annota che nell'offa è miele, perchè di miele si coprivano i corpi de' morti. Bene: sembra dir Dante: al tempo che si seppelliva a quel modo, ci voleva l'offa col miele; ora che, cristianamente, i corpi si sotterrano, ci vuol la terra.

Dante trova i golosi dopo gli uccisi o suicidi d'amore (che amor di questa vita dipartille), coi quali sono i rotti a vizio di lussuria, pur distinti. Enea trova i nemici in guerra e i compagni d'arme, tra cui Deifobo mozzicato. (ib. 477, 494) Non così fatti Dante; eppur vedendo un cittadino suo, pur poco nobile di vita, tanto che laggiù non riesce a riconoscerlo da sè, sembra avere il pensiero ad altro che al vizio della gola. Domanda a Ciacco il futuro [414] delle grandi lotte civili di cui si vedeva allora il principio. Si tratta d'una discordia (ib. 63) anche qui, accesa da tre faville; d'una discordia come quella che inimicò Asia e Europa, d'un incendio, come quello che è narrato da Deifobo. E due giusti (risponde Ciacco a Dante) sono in Fiorenza; e così due giusti erano in Ilio, quando la fatale Erinni di cui si parla nell'Eneide, la converse in cenere: Enea, di cui nessuno fu più giusto, e Rifeo, iustissimus, che Dante trovò nel paradiso. (Par. 20, 67) Ma lasciando questo, ecco Dante per ultimo domandare a Ciacco, all'ignobile Ciacco, notizie di uomini degni: di Farinata, del Tegghiaio, del Rusticucci, di Arrigo, del Mosca. Egli desidera sapere dove sono, se nel cielo o nell'inferno. Sono morti, sono concittadini e avversari, in uno. Non si direbbe che Dante s'aspettasse di trovarli, dove trova Ciacco? Cioè, egli vuol mostrare, che se li aspettava dopo i morti d'amore, come avrebbero dovuto essere, secondo la Tragedia; ma la Tragedia non fa testo se non salva la redenzione, che fu dopo. Or dunque altrove è il suo duce di Agamemnonie falangi, che è Farinata; altrove leva i moncherini il suo Deifobo mutilato, che è il Mosca. E pur qui ne ragiona. Del resto anche Ciacco ha qualcosa di Deifobo. Enea vix... agnovit il suo concittadino; e Ciacco dice a Dante: Riconoscimi se sai. Egli è invero messo a pena spiacente, diremmo vituperosa, come inhonesta (ib. 497) sono le ferite di Deifobo. E l'incontro, che risuona notis vocibus, (ib. 499) è con molta pietà. Chi volle trarre di te così crudele vendetta? dice Enea. Chi sei, che sei messo a sì fatta pena? dice Dante. E si piange. Ciacco, il tuo affanno m'invita [415] a lagrimare: dice Dante. Noi consumiamo il tempo a piangere: ammonisce la Sibilla. E qui la Sibilla a Enea mostra il bivio dei malvagi e dei pii, del Tartaro e dell'Elisio; e qui Dante a Ciacco chiede di quei degni, “se il ciel gli addolcia o l'inferno gli attosca„.

Le mura dell'empio Tartaro (ib. 541, '3) a Enea appariscono qui a sinistra; l'Elisio è a destra. Il vate e l'uomo si mettono per la destra. Dante nell'inferno va sempre[364] a sinistra, nel Purgatorio che è il suo Elisio, sempre a destra. Ma Dante non vede la città ch'ha nome Dite, qui subito. Egli deve ancora scendere a un'altro cerchio, quello degli avari, e poi passare la palude Stige: allora soltanto vede le meschite di ferro infocato. Gli avari hanno voci di cani; cani sono quelli che stanno nel brago. (Inf. 8, 42) È sempre il dominio del cane dalle tre gole che è veramente il Lucifero tricipite del regno dell'incontinenza, e che ringhia in persona di Minos, ed è lupo maledetto in persona di Pluto. Chè Servio viene a dichiarare la natura simbolica di Cerbero così: omnes cupiditates et vitia terrena: l'incontinenza, interpreta Dante. Nel cerchio dell'avarizia c'è gente che volta pesi; e questi sono quelli che dentro il Tartaro, di là delle mura di Dite, in Virgilio, saxum ingens [416] volvunt, (ib. 616) come racconta la Sibilla. È contradizione in ciò tra i due poemi e i due inferni? No. Anche qui Dante giustifica la mutazione dell'inferno, al modo solito, con la mutazione dei tempi. Invero gli avari, come risponde Virgilio a una domanda molto meravigliata del suo discepolo, furono “cherci... e papi e cardinali„. (Inf. 7, 46) Potevano esserci, al tempo d'Enea?

Appariscono anche a Dante le mura rosse del Tartaro, ch'egli chiama Dite, giovandosi d'un ravvicinamento di Virgilio, cioè, della Sibilla; ch'egli non sembra aver bene interpretato. Le moenia a destra (ib. 541) non sono le stesse moenia lata che si vedono sub rupe sinistra. (ib. 550) Ma d'altra parte, la Sibilla dopo aver parlato delle pene del Tartaro, mostra le moenia (ib. 630) di ferro, battuto dai Ciclopi. E Dante ha creduto che fossero le medesime, le moenia del Tartaro e le moenia di Dite. Ciò è confermato dal fatto che Dante riesce al Purgatorio o Elisio suo, attraverso il suo inferno dei mali; ma nell'Eneide leggeva, hac iter Elysium (ib. 542) ossia per Ditis moenia: dunque il suo Tartaro, dove sono puniti i felli, è identico al Dite Virgiliano, per il quale si va all'Elisio. Quanto alla destra e sinistra, vedete! Il Dite Virgiliano è a destra, il Tartaro a sinistra. Ebbene, Dante, entrato in Dite, piega a destra. (Inf. 9, 132) Il che prova l'intenzione del nostro Poeta di far credere il suo inferno simile all'antico, sia che lo credesse egli, o no. Il che non esclude che in quell'essere di Dite a sinistra e a destra, non sia altra intenzione dottrinale.[365]

[417] Nel Tartaro Virgiliano non entra Enea: è la Sibilla che narra ciò che c'è dentro. (Aen. VI 56, 2) Dante c'entra e vede; pur la sua Sibilla, il suo vates sibillino, Virgilio, sugli spaldi, prima di scendere nel vero Tartaro, gliene descrive l'ordinamento e gliene enumera i peccatori. (Inf. 11, 16) Nel Tartaro Virgiliano, è fuori Tisifone con agmina saeva sororum (ib. 572), che Dante avrà prese per le due sorelle in mezzo a cui pone la sua Tisifone. Dentro, nell'Eneide, è un mostro peggiore, un'Idra delle cinquanta bocche: Dante, che ha veduto, narra che c'è dentro un'Idra o serpente che è Gerione, e un mostro di più bocche, che è Lucifero. Son tre le bocche di Lucifero; ma Dante leggeva in Servio che c'era chi all'Idra attribuiva tre bocche.[366] Sono nominati dalla Sibilla, de' rei, primi quelli che son costretti a confessare a Radamanti la colpa che crederono nascondere sino alla morte. Si usa la frase: furto inani. (ib. 568) Dante, abbia o no interpretato rettamente furto, dà di questi peccatori un esempio evidente (e non il solo) in Vanni Fucci, costretto a confessare il suo furto, del quale è punito dopo morte, mentre prima era apposto altrui: (Inf. 24, 136) Io non posso negare!

C'è anche nella Comedia questo secondo giudice infernale: è la coscienza che empie di vergogna i peccatori che usarono l'intelletto a fin di male. C'è, ma spiritualizzato; sebbene anche la persona non manchi. Chi è Flegias, il barcaiolo dello Stige? È colui che nel Tartaro, miserrimus ammonisce e testifica, [418] che si deve osservar iustitiam, e riverir gli dei, il che è pietas: dunque: osservate la giustizia e la pietà o religione. Ma di ciò egli ammonisce i morti; e i morti di Dante, in Dite, hanno infatti, più e meno, vergogna della lor colpa, secondo che furono colpevoli contro la giustizia o contro la religione.[367] È la coscienza della loro reità, ossia l'aver commesso coscientemente il lor fallo, in cui ebbe parte o la volontà, o la volontà e intelletto insieme, con, più o meno, l'irresistibile predominio dell'appetito, che tragitta i felli dall'inferno superiore all'abisso inferiore. E tal coscienza l'hanno, per pena, anche laggiù. Dante ce ne mostra un esempio in Capaneo che, non maturato dalla pioggia di fuoco, è però straziato dalla mala volontà impotente; e un altro in Vanni Fucci, anch'esso acerbo, che è martoriato dalla vergogna. Ma oltre la vergogna, corre a maturarlo il Centauro pien di rabbia, che è dunque simbolo visibile di quell'intellettual coscienza. Così sono gli altri punitori: centauri, arpie, cagne, Malebranche. Tutti hanno, o strali o rostri o denti o sferze o raffi o maciulle, equivalenti a ciò con cui Radamanti subigit fateri i suoi rei, il che Dante può aver creduto essere il flagello della Furia. (ib. 570)

I rei della Sibilla sono, oltre i Giganti o Titani, alcuni puniti in modo singolare, altri in modo promiscuo o indeterminato. Dei primi Salmoneo (ib. 585) ha riscontro in Capaneo, che ha la crudel pena del riconoscere la sua impotenza e il trionfo di Giove che lo fulminò. Dante ha anche un suo Tityo in Caifas proteso nella bolgia sesta. Giuda infine e i [419] due uccisori di Cesare sono, con pena singolare, maciullati dalle tre bocche di Lucifero: pendono se non radiis rotarum (ib. 616) o scopulo (VIII 669) a' ceffi (Inf. 4, 65) del primo superbo, districti anche loro e tementi la bocca di Dite, se non delle Furie (VIII 669); non hanno il tormento della fame loro inflitto dalla “massima delle Furie„ (VI 605), ma sono essi medesimi mangiati, come per fame, dal massimo dei mostri. C'è derivazione per analogia e contrasto e amplificazione. Delle pene generali di Dante alcune trovano riscontro in quelle di Virgilio. Ma in Malebolge e nella Ghiaccia Dante narra le pene, le quali, due volte, la Sibilla dice di non volere e poter narrare; (VI 614, 625); e sono accennate nell'ottavo libro nè dichiarate, se non per Catilina, che in certo modo è il modello della pena dei due uccisori di Cesare, pendendo dallo scoglio e temendo la bocca (ora, che però va interpretato diversamente) delle Furie. Dunque Dante con questo suo viaggio allarga e compie le notizie della Sibilla: sa ciò che Enea non potè sapere, pur avendolo chiesto. (ib. 560) Tuttavia, la prima delle bolgie (Inf. 18, 35) ha quel suon di sferze, che è precipuo nel Tartaro Virgiliano (ib. 558); la sesta, che è la bolgia capitale, ha quel Tityo che dissi; sono qua, nella settima, i serpenti, che non mancano là; (ib. 571) e la fame che vide la Sibilla, (ib. 604) ha qualche cosa della sete che vide Dante: là le mense, qua i ruscelli avanti gli occhi. (Inf. 30, 64) E infine tutti i dannati di Dante patiscono spiritualmente lo strazio dell'avvoltoio che cima il fegato immortale; (ib. 597) e ve n'ha chi patisce pur materialmente e visibilmente la lacerazione delle viscere fecunda poenis, (Inf. 28, 41) fecunda perchè [420] le ferite si richiudono. Manca in Virgilio il gelo di Cocito; ma Cocito (Dante pensò) Enea non lo vide, nè sentì narrarne alla Sibilla, come del Flegetonte; chè si dice, sì, che l'Acheronte finisce in Cocito; (ib. 297) si afferma altrove, “tu vedi i profondi stagni di Cocito e la palude Stigia„; (ib. 323) ma quest'ultima affermazione contradirebbe il primo detto, e va quindi interpretato con discrezione. Senza far troppo forza alla lettera dell'Eneide, Dante poteva credere o far credere che lo stagno fosse nell'imo Tartaro, più giù del Flegetonte. Ed ecco balena a noi il pensiero di Dante. Egli fa narrare a Virgilio d'essere stato laggiù, dopo morto (Inf. 9, 22), e d'aver perciò veduto anche ciò che la Sibilla, l'altro vates, di cui egli aveva cantato, non aveva narrato: il più basso loco e il più oscuro: e perciò di sapere perfettamente il cammino anche delle parti d'Averno da lui non descritte. Quella volta vide da sè e meglio conobbe le scelerum facies e le pene, che Enea domandò alla Sibilla e seppe da lei imperfettamente. Ma era morto da poco, e alcunchè non vide: non vide Caifas confitto in terra, là nel Tartaro. (Inf. 23, 124) Per il resto tanto vide e seppe, da poterne ragionare a Dante, prima di scendere nel Tartaro. (Inf. 11)

Le scelerum species, vedute ivi dalla Sibilla, che si ritrovano nel ragionamento di Virgilio, sono l'empietà (che è inclusa nell'epiteto impia) (ib. 543), doli (ib. 567) specificati in chi credè invano di nascondere il furto. Si può trovare subito la divisione generale di violenza (contro Dio, che è tipica e più grave) e di frode. Vide poi Titani e Giganti, (ib. 580) i quali sono violenti e fraudolenti e traditori, per Dante, e con la loro alta statura, hanno come i piedi nella [421] Ghiaccia, così il capo nel secondo cerchietto. Omettendo ora quelli di cui si è già parlato, troviamo i fratricidi e parricidi e rei di frode verso i clienti, a cui li univa un vincolo di fede speciale; (ib. 608) poi gli avari, rei di mal tenere (ib. 610), gli uccisi in adulterio (612), i seguaci d'armi empie (ib.) che Servio dice essere i combattenti contro Cesare; i traditori de' lor padroni, (613) che sono per Servio e Dante i medesimi di prima; i traditori e asservitori della patria per cupidigia d'oro, (621) di cui Servio cita Curio; i barattieri d'allora (622), gl'incestuosi. Dante non confondeva certo gli uccisi per adulterio con gli uccisi o suicidi per amore: erano pur distinti anche in Virgilio! Nè credeva i Lapiti (601) rei soltanto di gola! Sono dunque nel Tartaro, a detta della Sibilla, oltre a fraudolenti e a traditori, una specie, ma sol una di incontinenti: gli avari. Anche delle pene, una, sol una, quella di rotolar sassi, nell'inferno Dantesco è fuor di Dite. Tale contradizione tra la sua Comedia e l'alta Tragedia Dante si studiò di sanare in ogni modo; e tutti questi modi confermano lo studio di far l'una uguale all'altra. Cerca di sanar la contradizione, dicendo lupo il demone dell'avarizia, lupa l'avarizia stessa, mentre lupo e lupe sono, per lui medesimo, d'accordo anche qui con Virgilio che chiama raptores i lupi (II 356), ben altro che mali tenitori delle loro ricchezze; sono cercatori e rapitori delle altrui. Virgilio vide le reità e le pene, intorno alla morte di Gesù, poichè l'imo dell'abisso era già di Giuda; non molto dopo, perchè nel viaggio non vide Caifas. Si deve credere, dunque, che questo mutamento intorno al posto dell'avarizia avvenisse per effetto della redenzione. Furono, cioè, dopo la [422] morte di Gesù, puniti della pena degli avari felli, pur fuori del Tartaro, certi ignavi di genere nuovo: gente che non operò, per questo amor soverchio delle ricchezze, nè ben nè male. Invece che nel vestibolo a correre punti da mosconi e vespe furono messi dentro l'inferno a rotolar massi, con pena più grave nè meno infame, pur sempre analoga, perchè anch'essi vanno continuamente. Perchè sceverarli dagli altri ignavi? Perchè la giustizia di Dio deve più gravare su loro, meno dovendo fissarsi alla terra essi, cherci e papi e cardinali.

Ma a meglio conoscere il pensiero di Dante ci conduce il considerare la palude Stigia. In essa è uno che stende ambe le mani alla barca di Flegias. Lo Stige, Dante sapeva da Servio, che prendeva l'arena e il fango di Acheronte per condurlo a Cocito: per Stygem, dice Servio. (ib. 257) Sull'Acheronte Enea vide gente che pregava di passare, tendebantque manus. (ib. 314) Enea vede alcuni de' suoi, Leucaspi e Oronte, maestos (333), un altro, Palinuro, maestum. (340) Sono tutti e tre mortis honore carentes. (333) Notiamo perchè si tenga conto dell'associazione dell'idee e delle imagini, precipua nel creare del poeta, che tutti e tre sono morti annegati: ce li figuriamo grondanti d'acqua. (361) Dante non traversa l'Acheronte in barca; sì in barca lo Stige che dall'Acheronte deriva. Non vede egli sulla riva di là dello Stige gente invidiosa d'altra sorte; sono nello Stige stesso i peccatori che a quella gente assomigliano. Or nello Stige a Dante si presenta un mesto, un che piange; che stende poi le mani; che è un fiorentino come lui, un da lui ben conosciuto, per quanto pien di fango. Non è un insepolto, come [423] non sono insepolti, quelli, nella Comedia, che invidiano ogni altra sorte sulla riva d'Acheronte. Quelli sono però mortis honore carentes; e costui, che tende le mani ed è mesto, anch'esso, se mai altro, manca di quest'onor della morte; perchè la sua memoria non è fregiata di alcuna bontà. Filippo Argenti, innominabile anch'esso (il suo nome è pronunziato dagli altri peccatori), come i suoi compagni di pena, e come gli avari e come gli ignavi, vuol salire sulla barca, a cui stende mani; onde il Poeta lo ributta, gridandogli: Via costà! Ed è, perciò, una specie di Palinuro della Comedia, e sta a Palinuro, come la mancanza d'onor di morte in Dante sta alla medesima mancanza in Virgilio. Quest'onor della morte manca sì negl'ignavi, sì negli avari, e sì nei fangosi incontinenti d'ira, o dismisurati nell'irascibile, o rei de' vizi collaterali e fortezza e (come vedremo) magnanimità, o audaci e timidi, o orgogliosi e tristi, o accidiosi. Tutti questi ebbero battesimo; gli avari furono anzi tutti cherci, con una sola eccezione. Una sola, come fa chiaramente comprendere questo terribile Dante. Nella cornice del purgatorio, dove si impreca alla lupa, gli avari, tra cui è un papa, (conoscibile, ora, nella purgazione), piangono tutti, volti in giù, sospirando questo solo versetto: Adhaesit pavimento anima mea. (Pur. 19, 71) Fa eccezione un'anima che tra le altre che piangono e si lagnano, dice esempi di virtù opposta al vizio. Fa eccezione: Dante gli dice: perchè sola rinnovi queste laudi? Sola, dunque; e non è d'un chierco. Ma di chi? Del capostipite della casa di Francia, che aduggia la cristianità. (Pur. 20, 16) Di che si vede come nella lupa sia adombrata politicamente l'avarizia e della [424] curia papale e della casa di Francia: l'avarizia che degenera, per innesto dell'amor del male, in cupidità; come, tra l'altro, si ricava da ciò che Ugo seguita a dire: (ib. 64) che i reali di Francia divennero rapaci, micidiali, traditori. E casa di Francia poi si volge contro curia di Roma, per una vendetta di Dio, che fa che la lupa veramente consumi “dentro sè con la sua rabbia„, come il maledetto lupo (Inf. 7, 9), e sbrani sè stessa.

Anche gl'inconoscibili del brago sono battezzati, che non rinverdirono in vita la grazia avuta, come dicono gli accidiosi pentiti. (Pur. 18, 105) L'accidia, che è un rattristarsi de spirituali bono, che è una tepidezza in ben fare (ben fare uno non battezzato non può, meritando) (ib. 108); l'accidia non è peccato da pagani. Quindi nell'Eneide non possono ritrovarsi anime rissose o gorgoglianti nello Stige. Vide invece sì gl'ignavi del vestibolo, sì gl'ignavi del quarto cerchio, sì gl'ignavi dello Stige, nel suo proprio viaggio, quando fu congiurato da Eritone, Virgilio, che di queste tre specie dà conto a Dante con parole quasi uguali. Li vide mortis honore carentes, come gl'insepolti che vide Enea ed esso cantò; ma con alcuna differenza tra loro. I primi erano nè morti nè vivi; come non ebbero vita, non hanno morte, come non ebbero morte, non hanno vita. Gli ultimi erano più veramente i suoi insepolti, checchè paia a bel principio. Invero i primi son fuori, gli ultimi son dentro la “gran tomba„ che è l'Inferno. I primi non hanno speranza di morte; gli ultimi la seconda morte l'ebbero, traversando l'Acheronte: dunque morirono e furono poi sepolti.[368] Come sono sempre [425] ancor vivi, d'una vita cieca e bassa, quei primi, perchè furono, vivendo, come morti; così questi che sono sepolti, furono, vivendo, quasi insepolti. Se essere insepolti vuol dire misticamente “non dissolvere la compagine dei vincoli carnali„,[369] questi ultimi ignavi del brago non attutirono le passioni, parlando in genere; le passioni dell'irascibile, ira e timore, parlando in ispecie.

Sono essi più veramente gl'insepolti della Eneide; e invero hanno, come loro, del naufrago. Il mare li tranghiottì: un mare vischioso e putrido. Il mare, cioè una palude, li tiene in sè. Quel mare che si attraversa col legno della croce, il qual legno è simboleggiato nell'arca; quel mare, che si attraversa col battesimo che è simboleggiato nel camminar di Gesù sull'acque e nel passaggio degli Ebrei per il mar rosso; quel mare si è fatto brago per loro. Lo attraversavano, e cadder giù, e in eterno ora vi rimangono, o fitti o invano mobili. Passarono l'Acheronte, e rimasero nello Stige, sepolti nella belletta; nello Stige che deriva dall'Acheronte e che è l'Acheronte stesso nel suo corso ulteriore. E quest'ultimo fatto ci mostra nella sua perfetta lucidezza il pensier di Dante, che volle il suo inferno uguale a quello di Virgilio. Misticamente gli avari sono dove erano; sono nel Tartaro; perchè l'Acheronte Gesù lo passò invano per loro e ruppe invano la porta. Dunque la porta è come chiusa per loro, ed è perciò come quella di Dite; e l'Acheronte, invano passato, è perciò come uno Stige. Il che Dante conferma facendo che lo Stige appaia e gorgogli nel cerchio degli avari. (Inf. 7, 101) E ciò significa ancora che l'avarizia è [426] il peccato che non è più di sola concupiscenza e non è ancora di cupidità: gli avari appetiscono il bene, ma un ben più vano, un ben più terreno che gli altri incontinenti; e sono facili a cercare aliena, a forza di mal tenere o anche di mal dare il proprio. Gli avari sono incontinenti, che cominciano a volgersi al male, come quelli più sotto loro, dove la fonte buia che da lor nasce si fa palude; come quelli, di cui si parla nel medesimo canto che parla di loro; come quelli che sono innominabili al par di loro, e formano con essi gl'ignavi della malizia o ingiustizia.

Il che si vede dagli esempi d'avarizia e di accidia nel purgatorio. Avari sono Acam, Eliodoro, Safira e suo marito, i quali son anche o ladri o rubatori e perciò frodatori; Pigmalion e Polinestor che son anche o perciò traditori; oltre Crasso. Accidiosi sono gli ebrei, i quali pur avendo passato il mar rosso, si rubellarono ai loro divini condottieri, e i Troiani, che pur essendo della setta d'Enea, bruciarono furibondi le navi per non andare in Italia. Il mar rosso che si fece brago per quelli Ebrei, è simbolo del battesimo o del libero volere, e lo Stige che invischia tante rane, è passato con le piante asciutte da Enea!

XXXI.
ENEA E CATONE

Io non Enea, io non Paolo sono;

dice Dante a Virgilio, nel disvolere ciò che volle. (Inf. 2, 32) Essi andarono a immortale secolo, ossia [427] excesserunt, morirono rimanendo vivi, l'uno per dare inizio all'impero, l'altro per recar conforto alla fede. E l'impero essendo stabilito per la venuta del Cristo, come dice il Poeta anche qui (ib. 16), i due viaggi mistici, di Enea e di Paolo, sono come un sol viaggio: l'uno prepara, l'altro integra la fede. E Dante, per gli ammonimenti del suo vate sibillino, tornando a volere ciò che aveva disvoluto, diventa Enea e Paolo in uno, l'eroe dell'impero e l'apostolo delle genti, il precursore del Veltro e il predicatore del Cristo.

Enea, nel vangelo che scrisse Virgilio, trova aperta la porta di Dite:

noctes atque dies patet atri ianua Ditis.
(Aen. VI, 127)

Dante si vede che ha posta attenzione a questo verso. Egli fa che avanti la venuta del Cristo, Dite regnasse sino alla porta dell'inferno, mentre dopo, la sua particolare sovranità fu limitata a quella che nella Comedia è veramente la porta della città “ch'ha nome Dite„. Dice invero Dante che i patriarchi salvati dal Cristo erano preda di Dite; (Inf. 12, 38) e dice che i piovuti del cielo erano, quella volta, a difesa della porta men segreta, su cui è la scritta morta. (ib. 8, 125) Non c'era, prima del Redentore, alto e basso inferno; c'era l'inferno; non c'era questo e quel peccato: c'era il peccato.[370] Ora, come mai questa contradizione tra l'Eneide e i libri santi? come mai quella, per bocca della Sibilla, veridica profetessa del Cristo, afferma che la porta era aperta notte e giorno; questi asseverano ch'ella era chiusa, tanto che il Cristo dovè infrangerla?

[428] Dante interpreta misticamente il suo autore. La Sibilla dice che discendere nell'inferno è facile; uscirne, hoc opus, hic labor est. (ib. 128) Avanti il Cristo, pensa Dante, tutti erano preda del peccato, e morendo morivano della seconda morte, cioè scendevano nell'inferno. In questo senso, la porta era aperta. Salvarsi, era impossibile: in questo senso la porta era chiusa. Nel suo essere aperta consisteva il suo essere chiusa. Chi potè, prima della redenzione, sensibilmente passar quella porta che era chiusa appunto perchè era aperta? Pochi, risponde la Sibilla, dis geniti: (ib. 131) per esempio, come poi Enea ode da Caron, Alcide e Teseo e Piritoo, (ib. 394)

dis quamquam geniti atque invicti viribus essent.

Solo Alcide è ricordato, di questi, nell'Eneide nuova, perchè non solo entrò, ma uscì. Nell'Eneide antica si dice ch'egli arraffò e dai piedi del trono del re, ossia di Dite, trasse il custode del Tartaro, Cerbero. Nella nuova il Messo del cielo grida ai diavoli di dentro Dite:

Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e il gozzo.

Vostro? se ben vi ricorda? Già: Cerbero non l'hanno più sott'occhio quei diavoli: i quali perciò devono ricorrere alla loro memoria: esso è fuori della città loro, esso che un tempo era con loro. E questo è dunque un altro particolare sottolineato dal Poeta, della condizione ch'era dell'inferno prima del Cristo: la città di Dite si estendeva sino oltre Acheronte.[371] [429] Se l'inferno era allora tutta una città di Dite, Enea trovò dunque chiusa la porta, perchè di Dite la porta è sempre chiusa, sia prima del Cristo il quale, in vero, l'infranse; sia dopo, come attesta Dante e provò Virgilio. Ma, secondo la Sibilla, questa medesima ianua Ditis era aperta allora. E, secondo il racconto di Virgilio nella alta sua tragedia, racconto male interpretato, o a bella posta o inconsapevolmente, da Dante nella sua Comedia, aperta era allora ai dis geniti anche l'altra porta del Tartaro, che è a sinistra, adversa ingens; (ib. 548) la quale per Dante è uguale a quella Ditis magni. (ib. 541) Ai dis geniti era aperta: infatti come entrò Alcide? Da quella entrò se potè arraffare e legare il custode del Tartaro, a' piedi del re Dite. E come entrò Enea? Virgilio non ne parla, si può dire. Narra che occupat aditum, che si purifica delle sozzure, e figge adverso in limine (della porta adversa, della medesima porta che è chiusa dagli avversari), che cosa? ramum, la verga fatale, la verga che è segno del chiamar delle fata, la verga che è il simbolo delle virtù;[372] e mirabilmente entrò. Riassumendo: avanti il Cristo, la porta dell'inferno tutto era chiusa, perchè esso l'infranse; la porta di Dite era aperta, come dice la Sibilla: dopo il Cristo, la porta dell'inferno tutto era aperta, come vide Dante, la porta di Dite, come vide Dante, [430] era chiusa. Ma perchè, avanti il Redentore, Dite equivaleva a tutto l'inferno, la porta era chiusa, come d'inferno, aperta, come di Dite; chiusa e aperta nel tempo stesso, chiusa per il fatto che era aperta.

Pochi dis geniti poterono, non dico entrare, perchè tutti potevano entrare, essendo aperta la porta; ma superum evadere ad auras. Il che Dante vedeva che non avveniva per ritornar su' suoi passi. Enea non esce per là donde entrò. (ib. 898) Sulla porta del regno de' morti c'è scritto, Lasciate ogni speranza! Dante sapeva, dalla lettura dell'Eneide, che, se è difficile, e solo concesso a' dis geniti, tornare a riveder le stelle, impossibile è revocare gradum per quella porta che è pure spalancata noctes atque dies. (ib. 127) Enea infatti entra, come Dante volle travedere o travide, per la porta di Dite o del Tartaro, che sono per Dante tutt'una, col mezzo di quel ramo o verga; e dopo avere attraversato il Tartaro, arriva (ib. 638)

locos laetos et amoena virecta
fortunatorum nemorum sedesque beatas,

dove è aria buona e fine, e luce purpurea, e sole e stelle. A questo luogo non si giunge però (come Dante interpretava, male, secondo me, ma come quasi tutti) subito. Prima le anime devono passare per la purgazione. Sono punite, pagano il fio de' vecchi lor mali. (ib. 739) Sono sospese al vento, tuffate nell'acqua, bruciate nel fuoco. Dopo, tornano ad abitare in corpi terreni; solo poche subito arrivano senza bisogno di purgazione ai lieti campi dell'Elisio. (ib. 743) Così dice Virgilio; ma Dante intendeva (si può supporre) che le anime, almeno alcune, poche [431] anzi, dopo avere mondato l'infectum scelus, andavano all'Elisio[373] e lì si fermavano; “tenevano„ i lieti campi; sentendo il velle di rivedere supera convexa.

Dante, entrato per opera d'un messo del cielo che l'apre misteriosamente con una verghetta, dalla porta di Dite, attraversa il Tartaro, esce dal Tartaro per un cammino ascoso, trova un'altra porta, entra anche da quella, si purifica di sue macchie prima con l'aria, anzi col vento, poi col fuoco, all'ultimo con l'acqua. C'è la trasposizione del fuoco e dell'acqua, in Dante, ma Dante, quel precedere in Virgilio dell'acqua, lo interpreta o finge d'interpretarlo come meramente stilistico. In verità la purificazione nell'acqua, egli pensa, vien dopo quella del fuoco, perchè essa è il bere al Lete, come quasi quasi corregge Virgilio istesso: (ib. 745)

donec longa dies . . .
concretam exemit labem purumque relinquit
aetherium sensum atque aurai simplicis ignem.
has omnis . . .
Lethaeum ad fluvium deus evocat.

Ma qui Virgilio, pensa Dante (oh! sublime gioia, pensare il pensier di Dante), ma qui, a dir meglio, Anchise parla d'una purificazione che si compie sub gurgite vasto, come è detto prima. (ib. 741) O non si contradice Anchise che prima ha mostrato al figlio le anime che all'onde del fiume Leteo (ib. 714)

securos latices et longa oblivia potant?

Ecco, pensa Dante, i fiumi hanno a essere due; uno, [432] dove le anime son tuffate e dimenticano; l'altro dove elle bevono e incipiunt velle rivedere supera convexa. Questo fiume del velle deriva dalla fonte stessa onde sgorga il fiume dell'oblio; sicchè si potranno chiamare tutti e due Lethaei (ib. 714, 745), sebbene più propriamente l'uno, quel dell'oblio, sia Letè, l'altro, quel del volere, con parola greca anch'esso, abbia a chiamarsi Eunoè. Così l'alta Tragedia non è contradetta in nulla dalla Comedia.

In nulla; poichè la purificazione avviene dunque per pene e supplizi, e col vento e col fuoco. Ognun sa le pene e i supplizi; ognun può ricordare il vento. Sei dei P di sulla fronte di Dante sono rasi o spenti da un batter dell'ale (Pur. 12, 98), da un ventare, (17, 67) da un ventilare, (19, 49) da un vento, (24, 148) che vien dall'ale di un angelo. Servio, dichiarando questa specie di purificazione, usa appunto le parole: aere ventilantur.[374] Per la settima piaga, non si parla di ventilare. L'angelo intima a Dante, anzi a lui come alle due ombre di poeti, di entrar nel fuoco (27, 6) che morde e affina. E una voce di là li guida. A Virgilio sembra di veder gli occhi di Beatrice. Vento dunque, nel purgatorio di Dante, e fuoco, e Letè in cui le anime si tuffano e obliano, ed Eunoè, in cui elleno bevono e vogliono. Dopo questa purgazione in vento fuoco e acqua, l'uomo è puro e disposto a veder supera convexa.

Ma Enea, secondo Dante, avrebbe dunque subìto anch'esso questa purificazione? Certo, rispondo, ed Enea e Virgilio e quanti sono nel Limbo, pauci, sebbene moltissimi siano i loro innocenti compagni, sono [433] nella condizione dei purificati dal vento e dal fuoco. Sì. Essi non vogliono propriamente andare a quelle eccelse convessità: essi desiano. Il desiderio non è ancora volere. Il primo piegar dell'anima è amore, il secondo moto è desiderio: donde poi il velle, in cui quel primo amore si liqua. Tutte le anime del purgatorio desiderano; solo quando il desio si fa volere, esse ascendono dalla cornice o dalle cornici, giungono al paradiso terrestre, si tuffano nel Letè e bevono all'Eunoè, e sono puri e disposti a salire alle stelle. Quelli del limbo desiderano, nè possono volere, perchè non isperano. Ma se differiscono dalle anime del purgatorio per questo, che in loro non si può formare il velle non essendoci la speranza, somigliano però alle medesime anime, quando siano purificate, in quest'altro punto che i sette P non li hanno nella fronte, essendo “innocenti„. Sono dunque di là del fuoco dell'ultima purgazione, il qual fuoco a Virgilio, esperto, non duole, in faccia al Letè che non possono varcare. Oh! sì: di là del fuoco: essi hanno la mondizia per cui l'occhio vede. Un lume misterioso raggia per loro. Essi hanno nome Virgilio, Aristotile, Plato. E quando a Virgilio si presenta Beatrice, questi era al suo luogo “tra color che son sospesi„, nel luogo che non ha altro supplizio e lutto, che il desio senza speranza; eppure Beatrice esclama: Fiamma d'esto incendio non m'assale.[375] E l'incendio è proprio di quel luogo, come la miseria che non la tange: la miseria originale.[376] Or qual è quest'incendio, [434] se non il “grande ardore„ che ricuce la piaga dassezzo? (Pur. 25, 139) Il quale chi passa, è innocente e vede; di là del quale si vedono già gli occhi di Beatrice; di là canta una voce che guida e canta: Venite, benedicti patris mei; la voce di Beatrice, dell'angiola, se non di un angelo, della Sapienza che è la figlia di Dio, se ella nella Trinità è il figlio. È quel medesimo: e il fuoco che Dante vede nel cerchio superno, che vincia emisperio di tenebre, come un muro, è quel medesimo fuoco che affina nel grado superno, ed è un muro tra lui e Beatrice.

Di là del fuoco, che è l'ultima purgazione dell'Eneide, quale dichiara Anchise, è l'Elisio, dove Enea si trova con suo padre. Ivi è etere più largo o abbondevole che veste i campi di luce purpurea e vi è un sole e stelle proprie, “congruenti al luogo„, spiega Servio. Di là del fuoco, che è l'ultima purgazione della Comedia, si fa vedere un poco il sole e tramonta, e le stelle appariscono dalla fenditura della grotta, “di lor solere e più chiare e maggiori„. Allo stesso modo di qua del fuoco “ch'emisperio di tenebre vincia„, è la lumiera, (Inf. 4, 103) è “un loco aperto luminoso ed alto„. L'Elisio è di amoena virecta fortunatorum nemorum. Nel limbo è un prato di fresca verzura, è il verde smalto: virecta; nel [435] paradiso terrestre è una divina foresta: nemora. Dante ha fatto a mezzo della frase Virgiliana, tra il limbo e il paradiso terrestre. Così quando Musaeus dice: “Abitiamo in sacri boschi opachi e stiamo sulle piote dei greppi e per prati sempre rinnovati dall'acqua dei ruscelli„; (ib. 673) non sappiamo, cercando in Dante i pii di Virgilio, se li dobbiamo trovare nella divina selva spessa, in cui serpeggia il rivo, o nel prato di verzura, cui fresca rende il fiumicello.

Così, altro. Anchise è in una valletta verde. Vede venir verso lui Enea e tende le mani e una voce gli cade dalle labbra: “Sei pur venuto: eri aspettato...„. (ib. 679) Par d'ascoltare la “voce„ che fu udita per Dante nel Limbo: “L'ombra sua torna...„. Enea vede una selva, piena come d'un rombo d'api, che fanno le anime che devono tornare ai corpi. (ib. 703) Par d'essere con Dante, che nel Limbo vede come una selva, una selva di spiriti spessi, che coi loro sospiri facevano tremar l'aria. (Inf. 4, 65) Le anime di Virgilio bevono al fiume Lete l'oblio; gli spiriti di Dante, come formano una selva, così possono insieme chiamarsi “il sonno„. (ib. 4, 68) Poi Anchise trae il figlio e la Sibilla su un colle, perchè veda di faccia le anime illustri. (ib. 752) Dante narra: (ib. 115)

Traemmoci così dell'un de' canti
in loco aperto luminoso ed alto
sì che veder poteansi tutti quanti.
Colà diritto sopra il verde smalto,
mi fur mostrati gli spiriti magni.

Anchise ha detto a Enea che vuol mostrargli quella prole (sono, in certa guisa, infanti nel tempo stesso [436] che magni) “quo magis... laetere„ (ib. 717) Dante, di vedere quegli spiriti magni, che sono tra i parvoli, in sè stesso s'esalta. (ib. 120) Nè si deve tralasciare che di risurrezione parla qui Virgilio a Dante, (ib. 53) e Anchise a Virgilio. (ib. 750) Sono dunque gli spiriti magni e parvoli di Dante nell'Elisio di Virgilio? Certo, se ricorriamo all'altra figurazione degli inferi Virgiliani, dobbiamo dire che sono secreti anch'essi, questi pii di Dante. (Aen. VIII 670) E non occorrerebbe quella, e basterebbe questa; che tutto qui parla di appartato e separato.

Ma le anime di Virgilio, destinate a prendere altri corpi, le anime che bevono al Lete con grande ronzìo di sciami, quell'anime dice Anchise “superum... ad lumen ituras„. (VI 680) Ed Enea chiede se s'ha a credere che “aliquas„ vadano di lì al cielo “sublimis animas„. (ib. 719) Sublimis noi sappiamo che è complemento avverbiale di ire; ma lo sapeva Dante? Servio lo traeva in inganno, facendogli notare quell'aliquas e dicendo: non omnes, sed sublimium.[377] Da ciò gli “spiriti magni„. Ma dunque gli spiriti magni, e con loro tutto quello sciame ronzante, sono destinati ad ire al cielo, a vedere il lume del sole alto? a vedere altro lume, che quello che godono nel luogo dove sono, dove è pure un proprio sole? In vero Dante li dice “sospesi„. (Inf. 2, 52) E sospese sono le anime dell'Eneide, sia per questa loro condizione di destinate ad altra vita, ad altro [437] luogo, ad altra luce; sia perchè proprio suspensas le afferma Anchise. (ib. 741) Chè egli dice che elleno panduntur inanes suspensae ad ventos. Inanes sono i venti, e suspensae va con panduntur; ma intende così Dante? Dante che “non sospende„, ne' suoi imaginati supplizi, mai le anime purganti? Dante che chiama “vane„ le ombre, (Pur. 2, 79) e “vanità„ quella dell'anima senza corpo? (Inf. 6, 36; Pur. 21, 135) Nè è da tralasciare un altro passo, che Dante può non aver inteso o voluto intendere. Dice Anchise di tutti i viventi (e Dante può avere inteso solo delle grandi anime), (ib. 730)

Igneus est ollis vigor et caelestis origo
seminibus, quantum non noxia corpora tardant
terrenique hebetant artus moribundaque membra.
Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, neque auras
dispiciunt clausae tenebris et carcere caeco,
quin et supremo cum lumine vita reliquit,
non tamen omne malum miseris nec funditus omnes
corporeae excedunt pestes.

Ma con ollis non alludeva Virgilio specialmente od esclusivamente a quelle anime, cui era caelestis origo? Tutte, Dante pensava, hanno questa caelestis origo, in un certo senso; ma in un cert'altro, sole quelle dei dis geniti. E questi sono, secondo Aristotile e lui (è bell'e ora di dirlo), uomini “nobilissimi o divini„. Chè un detto d'Aristotile era ben fermo nella mente di Dante, sin dalla sua gioventù; un detto in cui si riportava un de' pochi versi d'Omero che Dante conoscesse. Si legge nella Vita Nova: “... nella mia puerizia molte fiate l'andai cercando (quest'Angiola giovanissima), e vedeala di sì nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire [438] quella parola del poeta Omero: — Ella non pare figliuola d'uomo mortale, ma di Dio — „. (VN. 2) E nel Convivio, comentando il suo proprio emistichio Ch'elli son quasi Dei, dice: “E ciò prova Aristotile nel settimo dell'Etica per lo testo d'Omero poeta...„ (Co. 4, 20) Il qual testo è “Nè pareva d'uomo mortale figlio essere, ma di Dio„.[378] Si legga ora nel citato capitolo e nei seguenti la teorica dell'Alighieri; e si mediti questo passo: “Puote adunque l'anima stare non bene nella persona per manco di complessione, e forse per manco di temporale: e in questa cotale questo raggio divino mai non risplende„. (Co. ib.) Il manco di complessione traduce, a parer mio, la frase Virgiliana terreni hebetant artus; il manco di temporale o tempo, l'altra frase moribunda membra; che muoiono, cioè, troppo presto. Questo, fraintendendo, si capisce. E così mi pare d'intravedere l'interpretazione di Dante: “Vi sono semi d'origine celeste, in quanto che non li ritardano da produrre quel primo e più nobile rampollo che, per via teologica, consiste nei sette doni dello spirito santo: (Co. 4, 21) i corpi o le persone (puote adunque l'anima stare non bene nella persona) o, diremmo noi, le personalità o individualità o i soggetti, noxia, cioè dati al male, e quelli mancanti “di complessione„ o “di tempo,„ per svilupparsi; cioè destinati a morir troppo presto o a non vivere veramente mai: dei parvoli d'età e d'animo. Le anime di quelli che possono dirsi dis geniti, patiscono passioni contrarie tra loro: non sperano (metuunt) e desiderano; sono nè tristi nè liete (dolent gaudentque, nel tempo stesso, [439] cioè non dolent propriamente e non propriamente gaudent). Non vedono l'aria pura, chiuse in luogo tristo di tenebre, nel primo cinghio del carcere cieco. (Pur. 22, 103) Eppure la vita li lasciò con un supremo lume. Il quale sarebbe il raggio divino, il lume, (Co. 4, 20) “la intellettuale virtù... bene astratta e assoluta da ogni ombra corporea„; (ib. 21) il quale sarebbe quel lume o lumiera che con le tenebre ha nel limbo lo stesso ineffabile contrasto che la gioia col dolore e la presenza del desiderio con l'assenza della speme. E tuttavia, esse sono misere, con questo lume che è tenebra, sebbene non abbiano alcun martirio; perchè questo appunto è il loro martirio, d'avere un lume che è tenebra e un desiderio che non s'accompagna con la speranza. Ma esse sono “sospese„, queste anime sublimi, cioè come Dante intendeva, illustri; (ib. 758) di cui Dante vede Cesare e Bruto nel suo limbo. E “andranno al lume supero„. Esse sono anime di pii, che secondo l'Eneide, la quale rettamente interpretata, non falla mai,[379] sono sotto la balìa di Catone.[380] Dov'è Catone, secondo l'Eneide novella?

Dante in questa sua Eneida, è ammaestrato all'ultimo da una donna soletta. Questa gli dichiara prima in che modo sull'altezza disciolta tutta nell'aer vivo, si senta stormir la selva e si veda uscir di fontana salda e certa il doppio fiume del buono oblio e del buon volere. (Purg. 28, 88) Conclude dicendo che quel luogo è la realtà di quel sogno che [440] i poeti antichi posero in Creta.[381] Ella è tanto la dichiaratrice della foresta, che quando Dante, privato della memoria da maggior cura, chiede a Beatrice che acqua sia quella de' due fiumi, Beatrice non risponde essa, ma gli dice: Prega Matelda che il ti dica. (Pur. 33, 118) Ed è l'unica volta che suoni il nome di Matelda. Chi è nell'antica Tragedia quello che è Matelda nella nuova Comedia? Non Anchise, sebben discorra dei due (a parer di Dante) fiumi Letei. Invero nella Comedia e nella Tragedia due sono le persone che parlano all'Enea antico e al nuovo, nelle “sedi beate„. La prima d'esse si rivolge tanto al vate quanto all'Enea. Dice: vos; (Aen. VI 675) dice: voi. (Pur. 28, 76) La seconda parla solo all'Enea e dice: Venisti tandem? (ib. 687); dice: O tu... (Pur. 31, 1) Questa seconda è quella che mostra all'Enea la visione del futuro; che gli dice: Huc geminas nunc flecte acies (ib. 788) o al carro tieni or gli occhi; (Pur. 32, 104) e gli rivela un gran lutto e un gran disastro (ib. 868, Pur. 32, 109), e gli memora le guerre da sostenere (ib. 890) “in pro del mondo che mal vive„. (Pur. 32, 103) Questa seconda è quella che parla dei grandi misteri;[382] la prima insegna all'Enea, anzi all'Enea e al Vate, come e' possa veder la seconda; (ib. 676) e loro è guida nei campi floridi e belli, (ib. sq. Pur. 29, 7) salendo. (ib. 676, Pur. ib.) La prima, Enea e il Vate trovano [441] così casualmente, senz'averne prima saputo: ma la seconda è quella per cui hanno intrapreso il grande viaggio: è Anchise, che Enea va a rivedere per averne consiglio e conforto: è Anchise che aspettava il figlio; (ib. 687) che era tanto pensoso di lui (ib. 670); che lo revocò tante volte in sogno. (ib. 695) È Beatrice, che aspettava il suo amico, che di lui era tanto dolente, che in sogno o altrimenti tante volte lo revocò. (Pur. 30, 134) La prima invece è Matelda, è Musaeus. È Matelda, cioè l'arte in genere e l'arte del poeta in ispecie; quell'arte che si chiama ancora scienza, e arte e scienza, e che col nome mitologico è Musa, cioè la propria scienza del poetare.[383] Così il vecchio Museo, che sopravanza tutti dell'omero e che regna in mezzo alle anime felici e che dà contezza ad Enea e alla Sibilla del bosco ombroso e dei prati fatti sempre freschi dai rivi, e che li guida, salendo un giogo, sin dove trovano Anchise, si trasforma nella giovane Musa, la quale dice a Dante e a Virgilio che foresta e che fiumi son quelli che vedono, e che li guida risalendo il fiume, sin dove Dante vedrà Beatrice e Virgilio sparirà. Ma è soletta; non è intorno a lei plurima turba. (ib. 667)

La plurima turba, che coi parvoli fanno gli spiriti magni, che furono (ib. 662)

pii vates et Phoebo digna loculi,
inventas aut qui vitam excoluere per artis;

è ancora nel cerchio che somiglia tanto all'altra selva, dove sono gli uomini simili ad arbori, “che non hanno vita di scienza e d'arte„, simili a pietre, [442] “che non hanno vita ragionevole di scienza alcuna„. (Co. 2, 1) Ma sono sospesi, e il loro luogo somiglia a quest'altra foresta “spessa„, dove è la Musa della poesia e di ogni altra arte.[384] Ella è soletta ora, lassù, come solo laggiù, alle falde del monte santo, è un veglio, degno di quella riverenza in cui la plurima turba sembra tenere quel Museo dell'Eneide. È solo anch'esso, a mezza via tra la selva del limbo o del peccato originale, e la foresta del paradiso terrestre o dell'originale innocenza. Dove sono i pii che lo circondano? È solo. Eppure ha in balìa spiriti: dunque è vero l'uffizio che gli assegna l'Eneide. Ma come esercita i suoi iura o la sua balìa? Non si vede. Non l'esercita. È solo, ripeto, sebbene i sette regni siano suoi. Ma ecco, Virgilio, che fa lume altrui e a sè no, c'illumina d'un tratto: (Pur. 1, 75)

la veste ch'al gran dì sarà sì chiara.

Per quanto la veste sia la carne, di che nel gran dì sarà rivestita l'anima, (Pur. 14, 43) pure, in virtù dello stile pregnante del nostro Poeta, ella ricorda la lunga veste del sacerdote Tracio, che non è Museo, ma figlio di una Musa, di Calliopea, e sembra aver la stessa autorità di Museo, se non forse (per Dante, come per antichi comentatori), essere una persona con esso. Tracio in vero era anche Museo. La ricorda. [443] Dante leggeva in Servio questo dubbio: “o parla dell'abito di citaredo, o della lunga barba„. “Lunga la barba„ è del suo Catone.[385] Ma sia comunque; in che modo sarà chiara la veste di Catone nel gran dì? Quale accrescimento di gloria o di gioia avrà ella? Nel gran dì, i suoi sette regni, ove noi vediamo

inclusas animas superumque ad lumen ituras,

saranno vuoti. Sarà egli re senza sudditi? In ciò sarà la chiarità della sua veste? No: allora noi dobbiamo prevedere la fusione di quei due luoghi che abbiamo veduti così simili, della selva del limbo e della foresta del paradiso terreno, tutti e due esemplati dall'Elisio Virgiliano;

secretosque pios, his dantem iura Catonem.

Ciò è evidente. Ai comentatori riuscì ostico sempre quel verso, la veste che al gran dì. Come mai quello scongiuro per il rivestimento della carne a tale che dovrebbe, nel gran dì, appunto andare per le sue spoglie, ma non però che se ne rivestisse? (Inf. 13, 103) C'è un'antitesi pensata, tra questo e gli altri suicidi, pensata e che deve far pensare. Dante usa, fuor di rima, la parola veste per farla notare, codesta antitesi violentissima. Il fatto è che il chiaro rivestimento deve aver che fare con la qualità di custode del purgatorio, cioè di balivo dell'anime che, sospese, sono purificate col vento col fuoco e con l'acqua. Ora queste anime sono per [444] andare al lume supero e per rivedere le supere convessità. Ma con questo, un altro effetto è nella purificazione. Le anime tornano ai corpi. (Aen. VI 713, 720, 751) Al balivo dell'anime che si purificano, si ricorda il suo futuro ritorno alla carne, perchè il ritorno alla carne è nell'Eneide menzionato sempre vicino all'altro effetto della purificazione. Ora poichè, secondo il dogma cristiano, tutti risorgeranno con i loro corpi, non i soli sudditi di Catone, e sono eccettuati, secondo Dante, appunto i suicidi come Catone stesso, noi dobbiamo pensare qui a una risurrezione speciale, notevole, impreveduta. S'è detto della somiglianza dei sospesi nel limbo coi penitenti del purgatorio. Ebbene leggiamo nell'Eneide dell'inconsapevole profeta mantovano; leggiamo: (ib. 719)

o pater, anne aliquas ad caelum hinc ire putandum est
sublimis animas, iterumque ad tarda roverti
corpora? quae lucis miseris tam dira cupido?

Si parla qui, secondo Servio, di alcune, non tutte, anime di sublimi: gli spiriti magni. Il che è reso visibile, come da un lampo, da quell'ultimo emistichio. Quali sono in Dante quelli che hanno “desio inadempibile„ di luce? Chè Dante, è assai facile così traducesse la dira cupido. Invero nell'episodio di Palinuro, esemplato in quello di Filippo Argenti, (ib. 373) torna questa dira cupido, che è tradotta col Rimani di Dante e col Via costà di Virgilio; (Inf. 8, 38) e nel dramma del Messo del cielo è ritradotta con “oltracotanza„ che significa “pensare o desiderare oltre le proprie forze„. Quali sono dunque quelli che desiderano ciò che non è dato sperare? Quelli del Limbo. E desiderano la luce, l'alto sole, [445] come quelli che sono nelle tenebre, e le tenebre sono il lor solo martirio insieme con questo desiderio che è dato loro per lutto “eternalmente„. Sì che patiscono, sopra ogni altro, gli effetti della “miseria„ originale, e “miseri„ sopra tutti hanno a chiamarsi, essi spiriti magni, essi parvoli innocenti. Or bene solo di questi miseri si dice nel tempo stesso che andranno al cielo e torneranno ai loro corpi, ossia, pensò Dante, quando torneranno ai loro corpi, andranno al cielo. Al cielo? Altrove Virgilio dice superum ad lumen (ib. 680) dell'anime chiuse in una verde valle, altrove dice supera convexa (ib. 750) di quest'anime immemores (come Virgilio, pensava Dante, che porta il lume dietro sè), e che tornano ai corpi. Il cielo, il lume, la convessità sarà quel largior aether, quel lumen purpureum, (ib. 640) che scende da proprio sole e da proprie stelle; da quel sole che riluce in fronte a Dante, (Pur. 27, 133) da quelle stelle e più chiare e maggiori, che Dante mira nel paradiso terrestre. (Pur. 27, 90) Sarà questo lume e questa convessità superna, quella “del grado superno„; (Pur. 27, 125) sarà l'altezza tutta disciolta nell'aer vivo. (ib. 28, 106) Ecco dunque, che quando ritorneranno ai loro corpi, i pii saranno in disparte avendo Catone a loro giudice. Saranno nell'Elisio veramente. Dalle tenebre saranno saliti alla luce; dalla selva oscura alla divina foresta. Essi che onorarono ogni scienza ed arte, non avranno più comune la sede con quelli che non ebbero vita di scienza e d'arte, ma saranno nelle sedi beate, nel lieto luogo dei boschi fortunati, dove ora canta soletta la bella Donna che è appunto arte o scienza, scienza e arte, l'arte nepote di Dio, figlia della natura, utile e facile [446] e lieta. Il Veglio solo, che è il più sospeso dei sospesi, perchè è a mezza strada tra il limbo cieco e paradiso luminoso, sarà tra gli eroi, i filosofi e i vati. Tarda ha detto i loro corpi l'immemore Vate. Oh! si sa, come si possa o si debba interpretare quella tardità del corpo rispetto alla velocità dell'anima; ma Dante può anche averla ritratta in quelli occhi tardi e gravi, in quei sembianti pieni di grande autorità, in quel parlar rado, con voci soavi, che già hanno nel carcere cieco le ombre di coloro che verranno nel luogo veramente “luminoso e alto„. Intanto di ciò hanno la promessa, nè se ne accorgono; come non s'accorgono del lume che là li illustra e che a loro sembra tenebre. Essi desiderano l'alto sole: lo vedranno. E presso loro, per la foresta, lungo il fiume, s'udrà il murmure dei parvoli innocenti, che sembreranno api sui fiori dell'eterna verzura.

A quel luogo, ancor viventi, giunsero sensibilmente due di quelle genti: uno della schiera degli eroi, l'altro del sinedrio dei poeti: Enea e Dante. Erano tutti e due pii: pietate insignis l'uno, dei pii vates l'altro, i quali, come esso afferma di sè (Par. 1, 27), “parlarono cose degne di Febo„; erano tutti e due dis geniti, e li portò su, a quell'etere più largo, l'ardente virtù. Chè tali, afferma Dante, sono anche quelli che poetarono con vigor d'ingegno, con assiduità d'arte, con abito di scienze. (VE. 2, 4)

Tutti e due dis geniti, tutti e due accompagnati da un vate; dalla Sibilla il primo, dal poeta della Sibilla, dal poeta sibillino e profetico il secondo. E quest'ultimo è il narratore della discesa del primo, e seppe prima i colloqui della Sibilla con Enea, e [447] poi, morto, da sè fece la via medesima. Quando il secondo Enea, ode da Virgilio la proposta del grande viaggio, dice: Io non sono Enea; poi acconsente al viaggio, pensando, dunque: Io sono Enea: alter ab illo. Basterebbe, io credo, questa affinità e congiunzione tra il secondo e il primo viaggio, e tra il secondo e il primo viatore, e tra il secondo duce e i primi duce ed eroe, a convincere che a un certo punto, quando il viatore poeta si trova avanti una porta chiusa, che il viatore eroe trovò aperta, la ianua Ditis, fosse il viatore eroe a disserrarla al viatore poeta. L'Enea Virgiliano dice alla sua vate: doceas iter et sacra ostia pandas: (ib. 109) ricordiamo! Al secondo Enea il suo vate si offre per queste due operazioni distinte del viaggio e della porta. Ed è intuitivo che le operazioni e' le compia tutte e due, col suo volume, con le sue inspirazioni poetiche o mistiche. Dunque la porta l'apre esso, che ha detto, Vincerò; l'apre esso col mezzo d'una sua imaginata verghetta in mano a un suo creato eroe.

Che il poeta fosse allora aiutato dall'eroe sarebbe, io credo, di per sè probabile molto; se non fosse assolutamente certo, perchè il Messo del cielo viene da di qua della porta dell'inferno,[386] dunque dal limbo, perchè soli quelli del limbo non son legati da Minos; ed è perciò Enea, perchè a Virgilio l'innominato Messo si era offerto, e non gli si poteva offrire se non uno del Limbo, non essendo Virgilio [448] uscito dal Limbo,[387] o, a ogni modo, non essendo detto che altrove si recasse; e non doveva Virgilio, cercando ciò che, oltre la parola ornata, era mestieri al campar di Dante, rivolgersi ad altri che a guerrieri o eroi, e tra questi, non ad altri che al guerriero ed eroe suo; è Enea, perchè, senza scorta (esso che l'ebbe altra volta) scende i cerchi dell'incontinenza di concupiscibile, e Dante l'ha nel Convivio (4, 26) recato a modello e tipo di stringitore di freno; e perchè passa come terra dura la palude dell'incontinenza d'irascibile o di manco di fortezza e magnanimità, ed esso è nel Convivio recato a modello e tipo di movitor di sprone; perchè è insomma temperante e forte, tipicamente; è Enea, perchè non altri che uno dotato di virtù eroica, in grado supremo, poteva aprir la porta che conduce alla bestialità, che è, secondo Aristotile, il perfetto opposto di detta virtù; perchè non altri che un sommamente giusto, poteva schiudere il varco che la malizia o ingiustizia aveva chiuso; è Enea perchè è Messo del cielo, e Dante se ne avvede e vuol parlarne a Virgilio cantore o, vorrei dire, evangelista di lui; ed Enea appunto fu eletto da Dio per padre di Roma e dell'Impero; è Enea, perchè mostra qui quegli animi e quel fermo petto, che ad ammonimento della Sibilla, usò nella sua prima discesa; è Enea, perchè parla ai diavoli di fata e di Cerbero, e usa altre frasi, udite nella prima discesa; è Enea perchè lo spettacolo delle mura rosse e delle Furie è quel medesimo che vide nella sua prima discesa; è Enea perchè si ritrova avanti alla reggia di Proserpina o moglie [449] di Dite o regina dell'eterno pianto, personaggio che in nessun altro luogo dell'inferno è ricordato, e che è ricordato qui per suggerir il nome di lui che “occupò l'adito„ di quella reggia nella sua prima discesa; è Enea, perchè appunto ha una verghetta in mano, come nella sua prima discesa, e l'usa, con qualche divario ma l'usa ora alla soglia di Dite o della sua moglie, come allora, e con l'effetto di passare[388] sino all'Elisio o purgatorio, come nella prima discesa; è Enea, perchè d'Enea la Tragedia che non falla, racconta come l'infallibile Sibilla dicesse che due volte sarebbe galleggiato sullo Stige e due volte avrebbe veduto il Tartaro, il che, secondo l'interpretazione Dantesca, a dar retta all'Eneide, non era successo che una volta, quella volta.[389] Catone, nel Convivio è introdotto a simboleggiare, con la sua Marzia, che or di là del mal fiume dimora, il passaggio della nobile anima per tutte le virtù di tutte le età, sinchè l'anima nel senio torna a Dio. (4, 28) Nella Comedia l'anima che torna a Dio, trova Catone alle radici del monte, per il quale si torna a Dio. Enea nel Convivio esprime le virtù, principalmente, giovanili, la temperanza e la fortezza, per le quali si lasciano i piaceri e si entra magari nell'inferno. (4, 26) Nella Comedia, come ha luogo Catone, ha luogo Enea che lascia il suo limbo riposato, e apre l'entrata [450] al vero inferno, a Dite. E nella Comedia mostra, questo Messo del cielo, anche l'amore che si dice nel Convivio, e la cortesia, e la lealtà: perchè ama con quel fatto dello scendere, un maggiore, a cui si offre, e un minore, da cui è inchinato; e si degna, cortesemente, non di prender “la scure ad aiutare tagliare le legna per lo fuoco„, ma di riprendere la verga delle fata ad aiutare aprir la porta di Dite; e, quanto a lealtà, “ciò che promise„ a Virgilio, “lealmente poi diede„, sebbene questi un poco ne avesse dubitate. (4, 26) Ed è, sopra tutto, “il giusto figliuol d'Anchise„, come quest'altro Enea è l'amico di Beatrice, è colui che scampò a stento dall'ingiustizia, è il cantor della rettitudine, è un dei due giusti di Fiorenza; al modo che Enea è uno de' due di Pergamo.

Fu l'eroe giusto che aiutò il poeta giusto.[390]

XXXII.
MOSTRI DIAVOLI ANGELI

I regni dell'espiazione e della purgazione sono quali li descrive nel suo volume Virgilio, e quali li vide Enea. Sono dunque necessariamente pagani. E ciò per l'inferno è giustificato dal fatto che esso è popolato da tali per cui Gesù o non scese (e pure questi potevano credere nel Cristo venturo) o scese invano. Perciò la porta è disserrata invano, chè nessuno [451] può uscire, e le tre rovine porgono invano il loro pendìo a risalire: porta e rovine son lì a maggior tormento dei dannati.[391] I viventi possono, per salvarsi, contemplando entrar da quella porta, scendere o risalire per quelle rovine (per la prima agevolmente scendere, per la seconda scendere difficilmente, per la terza non iscendere ma risalire con grande sforzo); ma elle servono a entrare e a far cammino ai viventi; ai morti non servono a uscir dall'inferno o a muoversi dal luogo loro assegnato.

L'inferno è pagano, perchè Gesù redense invano, o venturo o venuto, quelli che vi sono. Ma il purgatorio, come mai? Come mai e perchè mai, se non in questo modo e per questa ragione, che dopo il gran dì esso avrà nella sua cima gli spiriti magni e i parvoli innocenti, e solo, in parte, il Saladino? Ma insomma, inferno e purgatorio sono pagani. Pagani, perchè l'uno è l'Averno e il Tartaro, l'altro l'Elisio e la purgazione per vento, fuoco e acqua. Pagani, perchè pagani sono i fiumi che vi scorrono, lo Acheronte, che si fa Stige e Flegetonte e Cocito, e l'unica fontana che si fa i due fiumi Letei, di cui nell'uno l'uom si tuffa e nell'altro beve. Pagani sono i personaggi dell'inferno e anche quelli del purgatorio, fin dove possono; ci sono nel purgatorio gli angeli, e questi non sono fantasmi pagani; eppure paganamente ventilano le anime; eppure anche la Fortuna, [452] dea pagana, è un angelo. Del resto Catone è pagano, e in certa guisa pagana è Matelda, essendo ella la Musa; in luogo di Musaeus. Lucia e Lia appariscono solo (si noti!) solo nel sonno di Dante. Virgilio e Stazio sono pagani; l'uno, sebbene inconsapevolmente cristiano, l'altro, perchè cristiano copertamente.

I simboli e fantasmi sono pagani, quando anche l'origine ne è biblica. Lucifero si chiama Dite, il serpente dell'invidia infernale si chiama Gerione[392]. Anche la forma che ne dà il Poeta è piuttosto pagana che biblica. Il serpente è tricorpore, come la forma umbrae che è nel vestibolo; (Aen. VI 289) Lucifero è l'Hydra saevior (ib. 576) che è dentro il Tartaro. Servio annota che non si deve tradurre “un'idra più feroce, ma un'altra più feroce dell'idra che è in aditu inferorum„. (ib. 576) E quest'idra più feroce, aggiunge che alcuni fanno tricipite. E pagani sono gli altri mostri o simboli: Giganti, Caco, Centauri, Arpie, cagne o Scille biformi, Minotauro, Flegias, Furie e Gorgon, Cerbero, Pluto, Minos, Caron. Anche i diavoli, che Dante chiama “dal ciel piovuti„, somigliano a Giganti e Titani fulminati; e Lucifero scende folgoreggiando in modo simile a Briareo. (Pur. 12, 25) Anche la selva; poichè in una selva abita la Sibilla che è guida a Enea, come in una selva s'incontra e in una selva dimora, (Inf. 4, 65 sg.) il vate guida a Dante; sì che essi da una selva vanno all'Averno (ib. 13, 118 al.) o all'inferno. E poi, tenent media omnia silvae. (ib. 131) Selva sulla terra, selva nell'Averno, come nel poema di Dante; dove c'è, come [453] la selva oscura, fuori, così la selva di spiriti spessi, dentro[393].

È naturale che le dichiarazioni che fa dell'inferno e del purgatorio Virgilio, siano pagane; e pagane sono: l'una tratta da Aristotile, l'altra da Plato. E queste due distinzioni teoriche sono fedelmente ritratte nei simboli.

Virgilio non parla nè degli ignavi del vestibolo, nè dei sospesi nel limbo, nè dei sepolti nell'arche. Dei primi, quando i due viatori li vedono, dice: non ti curar di loro. Essi vissero senza infamia e senza lode; non meritano, perciò, menzione alcuna. Non furono mai vivi; ed ora non sono nè vivi, poichè invocando la seconda morte, (Inf. 7, 117) mostrano di esser morti della morte prima; nè morti, poichè essi hanno una vita, sebben cieca e bassa; tanto che desiderano ma non possono sperare, di morire. (Inf. 3, 46) Di essi è simbolo la selva oscura.

Si legga infatti questo passo di Dante: “Siccome dice Aristotile, nel secondo dell'Anima, vivere è l'essere delli viventi; e perciocchè vivere è per molti modi, siccome nelle piante vegetare, e negli animali vegetare sentire e muovere, negli uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare, ovvero intendere; e le cose si deono denominare dalla più nobile parte; manifesto è, che vivere nelli animali è sentire, animali dico bruti, vivere nell'uomo è ragione usare. Dunque se vivere è l'essere dell'uomo, e così da quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto„. (Co. 4, 7) Morto dunque è l'uomo, sebben vivo, che non usi ragionare; dunque tanto [454] morto si può dire chi, senza ragionare ovvero intendere, vegeti e senta e muova, quanto chi vegeti soltanto. Così, come Dante continua: “Siccome dice il Filosofo nel secondo dell'Anima, le potenzie dell'anima stanno sopra sè, come la figura dello quadrangolo sta sopra lo triangolo; e lo pentagono sta sopra lo quadrangolo; così la sensitiva sta sopra la vegetativa, e la intellettiva sta sopra la vegetativa. Dunque, come levando l'ultimo canto del pentagono, rimane quadrangolo; così levando l'ultima potenzia dell'anima, cioè la ragione, non rimane più uomo, ma cosa con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto„. (Co. ib.) Del che consegue, che se si leva anche l'anima sensitiva, non rimane più animale bruto, ma pianta. Or ci sono siffatti uomini, che hanno, a giudizio di Dante, sola l'anima vegetativa, o, a dir meglio, operano, o piuttosto non operano, come se avessero solo il triangolo primitivo? Ci sono. Egli dice che “arbori„ possono chiamarsi “coloro che non hanno vita di scienza e d'arte„. (Co. 2, 1) Sopra tutto, dobbiamo ricordare la teorica centrale del poema sacro.[394] Ogni anima ha una virtù che le è speciale, d'intendere prime notizie e di amare primi appetibili. (Pur. 18, 49) Questa virtù è detta prima voglia, (ib. 59) o amor naturale: (ib. 17, 93) amore senz'errore, voglia senza merito di biasimo o di lode. È essa o esso come il seme del volere: la voglia o l'amore mette le frondi verdi, e così mostra la vita; e così è allo stato di “pianta„, (ib. 18, 54) ma è “volere„, propriamente detto, sol quando fiorisce e tiene i fiori o allega, e perciò fruttifica. [455] (Par. 27, 124, 148) Per quanto la necessità della metafora, conduca il Poeta a conservare l'imagine della pianta, sì che ella si conserva pianta pur fiorendo e fruttificando, s'intende che con quel primo stato di pianta verdeggiante o di seme appena nato o non nato, egli indica l'uomo che ha sola la potenza vegetativa dell'anima, come un parvolo, che, quindi, non può meritare nè lode nè biasimo. Il fiorire di questa potenza corrisponde al varcar la soglia, ove siede la virtù consigliatrice o prudenza. Il che s'ottiene col battesimo, il quale fa sì che anche un bambino appena nato meriti. E il fruttificare è l'operare; e come la pianta non fruttifica se non ha prima fiorito, così l'uomo non può operare meritoriamente, se non ebbe il battesimo. Ci sono poi le piante che non tengono i fiori, cioè che furono battezzati invano; e queste sono gli uomini che non operarono nè ben nè male; come ci sono quelle che dànno frutti avvelenati, e queste son gli uomini che operarono male e furono anche questi invano battezzati, se ebbero battesimo. Ma s'intende, ripeto, che vere piante sono gli uomini, che non dànno frutto, o che, magari, non isbullettarono da terra, o misero fuori appena un germoglio. È vero che il vivere delle piante è fiorire e fruttare; ma altro è paragonare l'uomo a una pianta, in quanto nasce, cresce, dà buone promesse o non le dà, le attiene o non le attiene; e altro è paragonare l'uomo in quanto vegeta, sente, si muove e ragiona alla medesima pianta; nel qual caso, il suo fiorire e fruttare non lo inalzerebbe punto dalla sua condizion di pianta a quella d'animale bruto e d'essere ragionevole. Nel modo primo, la pianta sterile che ha appena le foglie o appena appena il germoglio, o [456] non fiorisce o fiorisce cambiando poi le susine in bozzacchioni, significherà ciò che, nel secondo modo, la pianta che tuttavia cresca e fiorisca e dia a suo tempo le sue ghiande o le sue zucche. Con tutto ciò, può venire un po' di confusione; e Dante mostra di sentire il pericolo di questa, quando nell'interpretare la favola d'Orfeo, non sa fare grande distinzione tra gli arbori e le pietre: i primi sono gli uomini che “non hanno vita di scienza e d'arte„; le seconde, quelli che “non hanno vita ragionevole di scienza alcuna„. Il fatto è, sembra pensare, che, paragonandosi, come si fa, l'uomo alla pianta senz'intenzione di deprimerlo, ma col fine di mostrarne evidentemente le varie stagioni e vicende; per significare l'uomo che non ha nemmen la vita del bruto, bisognerebbe ricorrere al paragone con la pietra; ma anche questo è imperfetto paragone, perchè la pietra non ha quel primo intelletto e affetto.

Insomma, o pianta sterile in paragone della fruttifera, o pianta, sia quanto voglia feconda in paragone degli animali irragionevoli e ragionevoli, ma sempre pianta è l'uomo che non mostra se non l'anima vegetativa, e non merita nè lode nè biasimo. Perciò selva oscura è il simbolo di questa sorta d'uomini; nè solo di quelli che fioriti per mezzo del battesimo, non tennero i fiori; che sono gli ignavi del vestibolo, punti da mosconi e vespe, come piante, come le piante della dolorosa selva che sono beccate dagli uccellacci Arpie;[395] ma di quelli ancora che [457] ebbero appena tempo di germogliar da terra, e non ottennero dal battesimo la mirabile fioritura virtuale; che sono i parvoli innocenti; e di quelli che fiorirono de' più bei fiori e fruttarono i più bei frutti, ma, mirabilmente, per non aver avuto battesimo, questi fiori non li misero, questi frutti non li diedero, al modo stesso che, essendo in luogo luminoso e alto, vivono nelle tenebre; che sono gli spiriti magni. Nè ignavi, nè parvoli innocenti, nè spiriti magni furono mai vivi, sebbene respirassero e mangiassero e bevessero, e fossero pure Aristotile e Plato: vissero della vita vegetativa soltanto, perchè l'operazione loro o fu nulla o fu annullata. Così gl'ignavi sono vivi e morti, nel tempo stesso, e nè vivi nè morti, come chi, nel mondo, vivesse sempre nella selva oscura, in cui raggia la luna e non si vede, in cui è quasi morte e pur non se n'esce se non morendo; così i sospesi dal limbo formano una selva di spiriti spessi, e hanno un lume che non è lume. Nè vita nè morte: uno stato di sonno, come si può chiamare il vegetare, senza sentire e muoversi e ragionare. Molto simili a questi sono gli eresiarche “che l'anima col corpo morta fanno„. Essi sono messi dal Poeta in sepolcri, i cui coperchi caleranno nel giorno del giudizio. Ora i coperchi sono sospesi. Dopo, il “cimitero„ non lascerà uscir più una voce, un segno di vita. Essi sono i morti nel regno de' morti. Non contano: sono come non ci fossero. E pure vivono e soffrono. Anch'essi nè vivi nè morti.

Al triangolo si aggiunga un canto: divien quadrangolo. L'uomo, con la potenza sensitiva sopra la vegetativa, da arbore o selva diviene “animale bruto„. (Co. 4, 7) Sebbene abbia anche la potenza vegetativa, [458] tuttavia si dice di lui che è una “cosa con anima sensitiva solamente„. Quella è sottintesa, come nel quadrangolo è sottinteso il triangolo; anzi l'anima loro, a parlar meglio, non è triangolo, è quadrangolo, cioè sensitiva. Questa condizione è raffigurata dal poeta con paragoni ad animali bruti, e con simboli di animali bruti che abbiano una natura sola, cioè il solo appetito sensitivo. I peccatori, invero, d'incontinenza, sono paragonati a gru, stornelli e colombe, i carnali; (Inf. 5, 46 etc.) a cani che urlano, i golosi; (ib. 6, 19) a cani che abbaiano, gli avari; (Inf. 7, 43) a ranocchi o botte gorgoglianti nel limo, i tristi; (ib. 125)[396] a cani, quelli come Filippo Argenti. (ib. 8, 42) In genere, tutti guaiscono. (ib. 5, 2) I simboli sono Cerbero che è un cane, (ib. 6, 14) un vermo, (ib. 22) una fiera insomma “diversa„; (ib. 13) ed ha tre gole, che, senza affermare una natura trina del cane o del vermo, significano forse, o senza forse, la triplice incontinenza di concupiscibile.[397] Pluto è un maledetto lupo. (ib. 7, 8) Flegias, come tale che grida, Discite iustitiam, fa riscontro a Minos, che giudica, e come barcaiolo dello Stige, a Caron barcaiolo dell'Acheronte. Flegias grida, non ha voce che per gridare, e forte; sempre, come una volta (ib. 619), magna voce; (ib. 8, 18, 19, 80 sg.) Caron grida; (ib. 3, 84); Minos ringhia, (ib. 5, 4) e grida. (ib. 21) [459] Di Minos è ricordata la coda, (ib. 11) la quale costituisce, credo, la parvenza di demonio. Demonio è anche Caron: è caudato, credo, anch'esso; e così Flegias. Hanno tutti e tre, e per la coda e per la voce, della bestia; e sono bestie di una natura sola. E sono simboli del peccato, di chi visse come avesse la sola anima sensitiva, di chi sommise la ragione al talento, che è l'appetito sensitivo. E sono i punitori del peccato: peccato pena a sè stesso.

Al quadrangolo aggiungiamo un altro canto: sarà pentagono. L'uomo è vero uomo, se ha, sopra le due anime vegetativa e sensitiva, l'anima razionale. Se questa è corrotta, ecco l'uomo, il vero uomo, peccatore. Ora è superfluo dire che nell'anima razionale sono due potenze, volontà e intelletto. Dante fa tale distinzione, per es. in questo terzetto: (Inf. 31, 55)[398]

l'argomento della mente
s'aggiunge al mal volere ed alla possa;

e in quest'altro: (Pur. 5, 112)

Giunse quel mal voler che pur mal chiede
con l'intelletto, e mosse il fumo e il vento
per la virtù che sua natura diede.

Bene: Dante significò con due nature aggiunte alla prima nei simboli suoi, queste due parti della ragione nel peccato. S'induce, in modo indubitabile, dal fatto che a Caco, centauro a parer suo, che non sta e va cogli altri centauri per aver commesso frode [460] oltre che violenza, egli aggiunge un drago sopra la groppa: uomo dunque è Caco, e cavallo e serpente. (Inf. 25, 23) Ora la frode è detta proprio male dell'uomo e perciò più punita della violenza. Perchè proprio male dell'uomo? Perchè eseguita con ciò che è proprio bene dell'uomo, ossia con la ragione. Ma la ragione è volontà e intelletto; e invero sì intelletto e sì volontà mancano negli animali bruti. Ora la frode, se ha da differire dalla violenza, differirà non per la volontà e l'intelletto che in essa siano e nella violenza manchino, ma per l'una di esse: per la volontà, chè l'intelletto è più specialmente proprio dell'uomo, essendoci nei bruti una parvenza, almeno, di volontà. E così l'uomo che commette il male con la volontà ma senza intelletto, non è bestia, chè le bestie volontà non hanno, ma a bestia assomiglia assai: è theroeides, bestiale, come dice Dante interpretando con somma esattezza l'espressione greca; sebbene, per abusione, si possa anche dir bestia e fiera. Questo peccato, in cui entra oltre il quadrangolo, oltre, cioè, l'anima sensitiva, anche la volontà, è rappresentato dal Poeta con simboli bicorpori o biformi o bimembri, che dir si voglia: il Minotauro, chiamato bestia, sebben sia anche uomo; i Centauri, chiamati fiere, sebbene siano anche uomini, le Arpie mezze donne e mezze uccelli, le cagne che corrispondono alle Scille biformi di Virgilio.[399] Ciò, ripeto, è indubitamente confermato dalla figura del centauro Caco che, per aver rubato, oltre le due nature, d'uomo e di bestia, ha anche la natura serpentina che figura l'intelletto.

[461] Tricorpori e tricipiti e triformi sono, come Caco, i simboli dei peccati in cui oltre l'anima sensitiva entra la corruzione o il disordine dell'anima intellettiva nella sua interezza, di volere e mente. Ciò è perfettissimamente lucido per le apparenti eccezioni, che son tre: i diavoli, le furie, i giganti. Ebbene dei diavoli ha cura, quell'attentissimo artefice del pensiero, che è Dante, di dire che hanno mal volere, intelletto e la virtù lor naturale, corrispondente a ciò che è nell'uomo l'appetito sensitivo, proximus motui corporis nostri. Dei giganti il Poeta dice che oltre la possa e il mal volere, è in loro anche l'intelletto, che manca, per esempio, in Capaneo, violento com'essi, ma in cotal guisa bestiale e matta, contro Dio. Del resto tricorpore è Gerione, tricipite è Dite. E le furie? Le furie son tre, e sono unificate dall'unico Gorgon che mostrano per far di smalto i peccatori: il Gorgon che è l'accecamento e indurimento che consegue per lo più al peccato di malizia, sì che è ben difficile che uno se ne penta e risalga e si salvi.

Così la teorica dell'amore nel purgatorio ha la sua corrispondenza nei simboli. La macchia che si monda o la piaga che si ricuce nelle sette cornici, non è dell'anima intellettiva, sì della sensitiva. Il volere in quell'anime è volto a Dio, l'intelletto è rischiarato dalla luce del bene. Macchiata o ferita od offuscata è l'anima sensitiva in cui ha sede l'amore. L'amore erra per troppo o poco vigore o per mal obbietto, dando origine a sette peccati: quattro e tre. Ora nei quattro l'errore è semplice, consiste cioè in un piegare o soverchio o manchevole verso il bene: nei tre, l'errore è composto, per così dire, o duplice, [462] a meglio dire. Il superbo spera eccellenza e perciò e con ciò ama la soppressione del vicino; l'invido teme di perdere il suo bene o i suoi beni, e perciò e con ciò ama il male d'altrui; l'iroso s'attrista per un'ingiuria ricevuta, e perciò e con ciò ama di renderla tal quale. Ora questi sette peccati chiamandosi capitali, Dante li rappresenta come capi; e poichè i primi quattro capi hanno un elemento solo, così “un sol corno avean per fronte„, e le altre teste avendone due, “eran cornute come bue„. (Pur. 32, 145).

L'inordinazione nella volontà e nell'intelletto, nella ragione, per dirla con una parola sola, non ha luogo nel monte santo di Dio; dove le anime salgono e pregano volte a Dio. Quindi nella citata figurazione i peccati si considerano per quel solo inizio loro che solo di loro si purga per le sette cornici: inizio che ha la sua sede nell'appetito sensitivo e non nella ragione. In vero chi mai è ragionevole peccando? Però nello antipurgatorio, di là della porta ove è l'angelo a cui si grida, Misericordia!, là, sì, si deve ancora scontare la malizia, di cui è fonte la “cupidità„ che si liqua in mal volere. Nel fatto, là, c'è un serpe, il serpe, il peccato proprio dell'uomo, l'avversario, il diavolo. Ma gli astori celestiali mettono subito in fuga la biscia. (Pur. 8, 95).

XXXIII.
LIA E RACHELE

Il nuovo Enea è anche un Giacobbe novello. Egli ama Beatrice che siede “con l'antica Rachele„. [463] (Inf. 2, 102, Par. 32, 8) Rachele ebbe un'ancella, Bala, che s'interpreta “inveterata„, come Lia un'altra, Zelfa, che s'interpreta “os hians„.[400] Poichè in Dante anche Lia è idealmente insieme con una donna, la quale sta a lei, come Beatrice a Rachele, senza difficoltà possiamo ammettere che il Poeta s'ispirasse al fatto di queste ancelle, per dare a Rachele una compagna di nome Beatrice, alla quale egli appartenne “tostamente dalla sua puerizia„, (VN. 12) e che rivede, dopo una decenne sete, provando nel cuore “i segni dell'antica (veteris) fiamma„; (Pur. 30, 48) e per dare a Lia una compagna, o quel ch'ella sia, di nome Matelda, che oltre cantare e ammaestrare,[401] è quella, nel suo significato di arte, o scienza e arte, o Musa, che rende atto Dante ad “aprir la bocca„ per far manifesta la sua visione. E Beatrice è “inveterata„ anche per un'altra ragione: ell'è, per l'Enea novello, quello che per l'antico è Anchise, il vecchio Anchise, cui, per dirne una, il re Anio veterem... agnoscit amicum. (Aen. III 83) Due vecchioni del poema Virgiliano trasforma il Poeta della nuova Italia in due donne bellissime; ciò in qualche modo ispirato dagli interpreti mistici di Virgilio. Fulgenzio non manca di ricordare che nei campi Elisii Enea “vede primo Museo, che è più eccelso di tutti per il dono delle Muse, il quale gli mostra Anchise e il fiume Leteo: il padre per [464] tenere la gravità de' costumi, il Leteo per dimenticare la levità della puerizia (puerizia di animo, in Dante, non molto differente da quella d'età in fatto e in ispecie)„. Ma fermiamoci un poco. Può riluttare alcuno alle mie dimostrazioni che Beatrice rimproveri l'amico di puerizia d'animo; può riluttare non ostante che Dante figuri sè, a quei rimproveri, come un fanciullo che si sente dire a un tratto, Alza la barba. Ebbene, Enea era un fanciullo, che aveva, secondo Fulgenzio, a dimenticare la levità della puerizia? “E poi considera„ aggiunge Fulgenzio “il nome di Anchise. Anchise, quasi ainoiscenon (parola indecifrabile per ora), vuol dire abitante la patria. E il solo Dio è padre, re di tutti, solo abitante negli eccelsi, il quale si vede per il dono della scienza (sapientia). Vedi infatti, che cosa insegna al figlio:

Principio caelum ac terram camposque liquentes.
Lucentemque globum Lunae Titaniaque astra...[402]

[465] Beatrice non è Dio, bensì la sapienza, che nella Trinità di Dio è la seconda persona. Ma si veda a ogni modo che Beatrice mostra al visitatore dell'oltremondo “il globo della luna e le stelle„, come Anchise, e che Matelda adduce prima il medesimo viatore a Beatrice, e gli parla, e prima e dopo, del fiume Leteo. E si può aggiungere che Fulgenzio aveva rilevati in Anchise il suo insegnamento intorno ai misteri della natura e la sua dimostrazione circa il ritornar dell'anima alla vita e le sue predizioni del futuro.

Dante è Enea e Giacobbe in uno. Già nello errar per la selva oscura egli vuol assomigliare tanto a Enea che cammini per incertam lunam in silvis, (Aen. VI 270) il che non impedisce che il cammino sia sola sub nocte per umbram; (ib. 268) quanto a Giacobbe che lotta con l'angelo. Muove sul mattino a pie' zoppo, per la via del mondo, come Giacobbe dopo la lotta: grida in quel giorno Miserere a un vate, come Enea alla Sibilla.[403] Quando poi il vate acconsente ad aiutarlo, ecco veramente che Giacobbe si fonde in Enea. L'altro viaggio che il vate propone all'uomo, è sì il cammino d'Enea agli inferi per ritrovare il vecchio Anchise, e sì il servaggio di sette e sette anni per congiungersi a [466] Rachele; e sì quel cammino e sì questo servaggio hanno un fine che è di là di Anchise e di Rachele. Enea vuol l'Italia, Giacobbe vuole il cielo; e l'Italia, interpretata mentis excessus,[404] è la stessa cosa del cielo; chè l'una e l'altro riescono a “contemplazione di Dio„. Sicchè e il cammino e il servaggio sono verso la contemplazione, ma non sono la contemplazione propria; sono ciò senza cui non si giunge a quella, non sono quella. Sono la contemplazione, ma dispositivamente.[405] Ora, codesta dispositività è data dall'esercizio delle quattro virtù cardinali;[406] o, secondo l'autore nostro Aurelio Agostino, dall'osservanza dei sette comandamenti che pertengono a giustizia, e dei sette precetti di virtù impliciti nelle sette beatitudini, per i quali si ottiene Rachele, cioè la facoltà di contemplare, e perciò la beatitudine superiore. Ora Dante, come Enea, che è l'eroe della vita attiva in qualità di fondatore dello impero, esercita le quattro virtù cardinali; come Giacobbe, che è il patriarca della vita contemplativa in qualità di innamorato di Rachele, serve a Laban, cioè alla Grazia della remission dei peccati, che è una dealbatio dell'anima; cioè a Lucia, quanto a dire “bianca di luce„; serve o è “fedele„ di Lucia, mortificando sette peccati, sentendosi poi promettere le sette beatitudini, nelle quali sono impliciti sette precetti di virtù.

Questo esercizio delle quattro virtù, e questa [467] mortificazione e cancellazione dei sette peccati che gli equivale, è proprio della vita attiva. In essa consiste l'uso operativo dell'animo. Dunque il viaggio e il servaggio di Enea e Giacobbe sarà la ripetizione del corto andare al bel colle. Infatti, è. La selva oscura è il vestibolo e il limbo dell'inferno, le tre fiere sono le tre disposizioni che il ciel non vuole. La selva oscura è il peccato originale, le tre fiere sono i sette peccati, di quei della palude pingue, che porta il vento, che batte la pioggia, che s'incontrano con voci discordi, di violenti, fraudolenti e traditori, ne' quali sette peccati si risolvono, a detta di Virgilio, le tre disposizioni. La selva oscura è la condizion vegetativa dell'anima; quindi è la stessa che la selva degli spiriti e che quell'altra selva semovente punta dagli insetti; le tre fiere sono il Cerbero, trifauce ma unicorpore, cane, vermo, fiera crudele e diversa; e il Minotauro, toro furioso per la ferita, bestia bicorpore, intorno a cui s'aggruppano i bimembri Centauri, le Arpie e le cagne biformi; e il Dite tricipite, o il vermo reo, o il tergemino Gerione, o la fiera che appuzza, o il maledetto lupo che è Pluto che comincia a regnare là dove mal si tiene: bestie tutte e tre anche queste, con la gradazione che è tra l'uomo che vive come bestia, e quello che vive peggio di bestia, e quello che molto peggio di bestia. Contro tali bestie Dante userà le medesime virtù, che contro le fiere della piaggia deserta: la temperanza e fortezza contro la doppia incontinenza di concupiscibile e d'irascibile; la giustizia contro ciò che nella malizia è il mal volere; la prudenza contro ciò che nella malizia è il mal pensare o mal vedere. E giungerà al vero inferno dal vestibolo e [468] dal limbo in modo analogo e simile a quello per cui esce dalla selva. Dalla guerra contro le bestie degli abissi uscirà vincitore, come non contro le fiere della piaggia diserta, e allora salirà un monte in vetta al quale è la beatitudine. E questo è dunque il cammino della vita attiva, ma è dispositivo alla vita contemplativa, in quanto che su quella cima egli sogna, bensì, Lia, che è la vita attiva, e vede Matelda, che è di Lia la compagna come di Rachele è Beatrice; ma Lia non è laborans, e Matelda non è lippis oculis: l'una e l'altra colgono i fiori, che è una operazione sì, ma dilettevole, e Lia si specchia, sebben non come Rachele che siede tutto giorno, e Matelda ha gli occhi, quelli occhi che avrebbero a essere lippi, ardenti e lucenti come di Venere trafitta da Amore. “Contro il lor costume„ sono l'una e l'altra così; e differiscono da quel che dovrebbero essere, per ciò appunto per cui Lia, e dietro lei Matelda, sono simboli della vita attiva: non laborant, non hanno gli occhi lippi, contemplano. Lia dunque (per limitarci ad essa) è la vita attiva in quanto è disposta alla contemplativa. In vero su quella cima Dante trova Beatrice, che è la speranza della contemplazione di Dio, e si trova “puro e disposto a salire alle stelle„.

Ma il bel colle non potrebbe rappresentare questa beatitudine della vita attiva in quanto dispone all'altra? non sarebbe egli, il colle, lo esatto equivalente del monte? No.

Il viaggio per loco eterno è altro dall'andare al colle. Dante troppo insiste altra volta sui due cammini: buono e ottimo. E li distingue per la meta in questa vita. Se il viaggio proposto da Virgilio è [469] altro, la sua meta non è il bel colle. L'andare al colle è corto, e s'intende che ciò è detto non riguardo al tempo sottinteso sotto il velo dell'allegoria che sarebbe di cinque anni, ma riguardo al tempo espresso nell'allegoria medesima. Un mattino o magari un giorno sarebbe bastato a Dante per salire; nell'altro viaggio gli occorsero più giorni e più notti. Ora questa proporzion di tempo, s'intuisce che significa la minore e maggior difficoltà. Agevole è raggiungere la beatitudine della vita attiva: lo andare al colle è corto. E sarà dunque della vita contemplativa l'altro viaggio che è tanto malagevole, a cui si richiede in Dante tanto coraggio, tanta perseveranza, tanta fatica, tanto tormento. Nell'andare al colle nessuno gli era scorta; nell'altro viaggio gli è duce, maestro, pedagogo, Virgilio che è lo studio: studio dell'arte, studio della sapienza o delle scienze, studio che fu lungo. Infine quell'andare fu su questa superficie terrestre; la lupa che lo impedì, era bensì un mostro dell'inferno, ma non era nell'inferno, dipartita come era di là, dall'invidia satanica: l'altro viaggio fu sotterra. Ora nascondersi sotterra vale “contemplare„. Fu, entrando col terremoto della redenzione la quale fece le tre rovine. Ora fare le rovine, o le macerie, significa contemplare. Fu, uscendo da un foro nel sasso. Ora andare per tali foramina petrae significa contemplare.[407] E poi ognun vede, ognun comprende che Dante salendo al colle, cammina e opera, che è lo stesso, e altro non fa; e che, scendendo negli abissi e risalendone sino al monte, cammina e opera, sì, e con fatica e con timore e con [470] pietà e con ira, ma guarda, anche se guarda e passa, guarda, nota, chiede e riceve dichiarazioni e lezioni: studia, insomma, e contempla. E infine ognun sa che Dante medesimo chiama “visione„ tutto il suo altro viaggio.

Non avrebbe Dante in vetta al bel colle trovato nè Matelda nè Beatrice. E lo studio che adduce all'una e all'altra; e Virgilio che è lo studio, mandato da Beatrice a soccorrerlo, come gli dice sulle prime?

Perchè non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta gioia?

Per quanto, a rigore, lo studio sia utile e necessario anche nella vita attiva, e perciò a rigore, non si debba escludere che Virgilio potesse accompagnar Dante per il corto andare;[408] tuttavia, pur sembrando sulle prime incorarlo a salire, non gli propone già di salirlo con lui, il bel colle, non gli dice mica: Ti condurrò! Non è la sua via, quella; e d'altra parte egli non avrebbe potere contro la “bestia„. Con Virgilio egli diventa, come Stazio, poeta; con Virgilio egli diventa, come Stazio, vero cristiano, cioè sapiente e filosofo. Poeti e filosofi non son uomini di vita attiva. Perchè mi sembra inutile ripetere che Matelda è l'arte, in genere e in ispecie. Come Beatrice è la sapienza, Matelda è l'arte. Ella pertiene sì alla vita attiva e sì alla vita contemplativa: opera e sa o vede. Ebbene è l'arte, che è virtù intellettuale e abito operativo.[409] È l'operazione, ma gioconda, perchè è nel paradiso terrestre, dove [471] l'operare sarebbe stato giocondo: dunque è l'arte, figlia veramente della natura e veramente nepote di Dio. Su ciò non è dubbio.[410] Ella è il Musaeus di Dante; e noi dobbiamo imaginare, invece del vecchio sacerdote, la gentile coglitrice di fiori e cantatrice e danzatrice, dagli occhi lucenti e ardenti d'amore, tra quei gruppi d'eroi, di guerrieri, di poeti, di sacerdoti, (Aen. VI 663)

inventas aut qui vitam excoluere per artis
quique sui memores aliquos fecere merendo,

i quali tutti Dante direbbe aver l'abito dell'arte. Chè egli conosce un'arte di Dio, (Inf. 11, 100 al.) degli angeli, (Par. 29, 52 al.) dell'imperatore (Co. 4, 9) dei guerrieri, (Inf. 13, 145) dei sacerdoti, (Pur. 1, 126) dei filosofi, degli altri scienziati, (Par. 13, 123, Pur. 4, 80 al.) dei meccanici, (Co. 4, 9 al.) e la sua, l'arte dei poeti; (Inf. 4, 73 al.) la quale, prima di veder Matelda, sentiva usare agli uccelli della foresta, (Pur. 28, 15) e dopo che l'ebbe veduta e n'ebbe avuti i benefizi, sentì in sè stesso, che lo frenava. (ib. 33, 141) Tra le quali artes dell'Elisio Virgiliano noi possiamo discernere quale il Poeta pregiasse più. Chè nell'Elisio suo proprio Dante vede, esaltandosi in sè, degli spiriti magni prima il gruppo degli eroi; poi, inalzando un poco più le ciglia, il gruppo dei filosofi. Ora, se questo del sedersi più su, è certo indizio di superiorità, superiore è al gruppo dei filosofi il gruppo dei poeti che rimira li altri da [472] luogo luminoso ed alto. (Inf. 4, 116) La poesia è l'arte che il Poeta pregia più, e Matelda è più propriamente come Musa così poesia. Ella è quella che apparisce in sogno a Dante, e fa confusa la fetida Sirena; e chi non si commuove pensando a questa confession di Dante, ch'egli con la divina poesia vinceva l'inerzia forzata dell'esilio, e per il conforto di quella sapeva far a meno de' ben vani, degli agi della vita, dei diletti della mensa e del talamo? O arte consolatrice che fai sì macro e sì puro! Matelda, la Musa eterna, come allora si volge con antica familiarità al Mantovano, dicendogli O Virgilio, Virgilio; (Pur. 19, 28) così, parlando poi dell'età dell'oro e de' sogni de' poeti, sembra a Virgilio più specialmente alludere, col garbo di chi voglia ricordarsi a un presente cui debba nascondersi. (Pur 28, 139) Il fatto è che Virgilio resta avanti a Matelda che è donna di lui come donna si mostra dell'altro antico poeta; (Pur. 33, 135) resta avanti all'arte o alla Musa, e sparisce avanti Beatrice. Sparisce, e ciò non è senza perchè. Beatrice, è vero si reca a lui, chiamandolo attraverso il fuoco purificatore. Virgilio ne vide lucere gli occhi. (Inf 2, 55) Anche passando con i suoi due discepoli il muro di fiamme, gli pareva vedere quelli occhi. (Pur. 27, 54) Gli occhi della sapienza sono le sue dimostrazioni. (Co. 3, 15) Ora in tale distinzione, che la sapienza si mostra, o mostra i suoi occhi, a Virgilio, e perciò a quelli del limbo, e in genere agli antichi savi e poeti, e questi non giungono a veder lei, o appena appena la intravedono; è il concetto che fa rimaner turbato Virgilio nel pensare a sè e ai savi del limbo che desiano senza frutto. Desiano essi invano l'alto sole, come [473] a dire il lume supero, differente da quel lume che non è lume nel loro luogo luminoso e alto. E sospirano. Sospirano come “gli altri miseri che ciò mirano„ i quali “ripensando il loro difetto, dopo il desiderio della perfezione caggiono in fatica di sospiri„. (Co. 3, 13) E sono quelli che la sapienza amarono più ardentemente e amano, perchè amarono e amano invano, non giungendo essi mai al proprio possesso di quella per cui sospirano, ma ottenendo, tutto al più, ciò che è espresso in queste dubbiose parole: “per le... tre virtù si sale a filosofare a quella Atene celestiale, dove gli Stoici e Peripatetici ed Epicurei, per l'arte della verità eterna, in un volere concordevolmente concorrono„. (Co. 3, 14) Concorrono nel volere e non giungono: vedono, per l'arte del vero, (Par. 13, 123) e trovano lucide dimostrazioni, ma posseder la sapienza che amano e sospirano, non possono. L'arte non è la sapienza: con Matelda si trovano; avanti a Beatrice, che pur li va a trovare nella loro sede tenebrosa, e mostra loro gli occhi suoi attraverso il fuoco della loro mondizia, avanti a Beatrice, a cui pur concorrono, spariscono.[411]

[474] A loro è negato salire all'Atene celestiale. A loro è interdetta quella verace filosofia che è la contemplazione. Essi restano, con tutto il fuoco che li ha purificati, puri sì, ma non disposti a salire alle stelle, per quanto lo desiino e sospirino; sicchè, per quanto grandi e veggenti, oltre la vita attiva non vanno, sebbene siano o siano per essere all'estremo limite di essa, dove, passando il Letè, potrebbero, sì, dalla loro Matelda essere offerte alla danza delle quattro ninfe che furono già con loro viventi (elle erano in terra, prima che vi scendesse Beatrice); ma non potrebbero aver gli occhi acuti dalle altre che miran più profondo.

XXXIV.
MISENO

Dante, come Enea, va per altro viaggio a cercare il suo Anchise, e trova prima il suo Museo che lo conduce a lui; come Giacobbe, serve, nel tempo e modo stesso, a Laban che è la Grazia della remission de' peccati; per avere la sua Rachele. Ma è Dante, non Enea e non Giacobbe: egli va a cercare e vuol avere la sua inveterata, in cui è la vecchiezza sapiente di Anchise e la giovane e bella femminilità [475] di Rachele. E alla sua antica ed eternamente giovane Beatrice è addotto non dal vecchio Museo, ma dall'eternamente giovane e antica Musa, Matelda.

Enea ha, per iscendere, un ammonimento dal suo vate, cioè dalla Sibilla: “hunc... conde sepulcro!„ (Aen. VI 122) “T'hai il corpo esanime d'un amico, e non lo sai. Portalo al luogo suo: seppelliscilo: soltanto così vedrai le selve Stigie e i regni dove i vivi non possono penetrare„.[412] Il novello Enea non può fare il viaggio dell'antico se non al medesimo patto: seppellire il corpo d'un amico: soltanto così. L'esattezza è mirabile: soltanto così, Dante vedrà la selva Stigia, sarà nei regni invii ai viventi. E il corpo deve essere esanime.

D'un amico, del primo amico, come Dante poteva intendere che fosse Miseno Eolide a Enea, da [476] quei versi che ricordò nella Monarchia: “Si ha da ascoltare il medesimo (Virgilio) nel sesto, quando parlando di Miseno morto, che era stato ministro d'Ettore in guerra, e dopo la morte di Ettore s'era fatto ministro d'Enea, dice Miseno non inferiora sequutum etc.„. Del primo amico, e ministro suo in guerra. Perchè, chi è colui che Dante deve seppellire? Il proprio corpo, sè stesso. Invero l'uomo “dal principio sè stesso ama„. (Co. 4, 22) Ecco il primo amico. Vero è che poi “conoscendo in sè diverse parti, quelle che in lui sono più nobili, più ama„, e poichè “più nobile parte dell'uomo sia l'animo che il corpo, quello più ama„. (ib.) Ma lì si dice “ama„ per dire “deve amare„; nel fatto, ama più ciò che deve amar meno: il corpo. E qui si tratta di uomo che ritorna a essere ciò che dovrebbe essere e non è; d'uomo che ha da seppellire, dunque, quello che ama più e deve amar meno: il corpo. Chè qui si parla di battesimo.[413]

S. Paolo (Dante dopo essere stato Enea, diverrà Paolo) ha del battesimo queste due gradazioni del medesimo concetto che è “quicumque baptizati sumus in Christo Iesu, in morte ipsius baptizati sumus„:[414] la prima: “mortui sumus cum Christo„;[415] la seconda: “consepulti sumus[416] cum illo per baptismum in mortem, o complantati facti sumus similitudini mortis eius„. La somiglianza nella morte e nella sepoltura o nel nascondimento sotterra come d'un seme, porta poi la somiglianza nell'effetto. Questa [477] somiglianza è espressa o col vivere o risorgere dai morti o col “camminare in novitate vitae„.[417] Dico subito che Dante, dopo essere uscito dal passo della selva ed aver riposato il corpo lasso, “cammina„. E aggiungo che nella selva era quasi morte, e che il corpo uscendo da quella quasi morte mediante una specie di morte (quasi morte anch'essa), è non altro che lasso e non ha bisogno che d'un po' di riposo, e poi si trova “mortificato„ solo ex parte: zoppica da un piede. Nel passare, invece, la vera fiumana, il suo corpo è “esamine„ esattamente, come quello del Miseno, poichè ne era stato vinto ciascun sentimento; e poi il suo occhio è a dirittura “riposato„. Ma sopra tutto occorre notare che questa volta Dante non muore soltanto, non cade soltanto, come uomo cui sonno piglia, ma si trova di là, nella proda d'abisso, sotterra, nella tomba: è sepolto.[418] Ora è evidente che con quella prima quasi morte o mezza morte, non seguìta da seppellimento, in confronto dell'altra morte e sepoltura, Dante vuol esprimere la necessità che dice S. Agostino, di conformarsi con la volontà, cum primum sapere coeperit, al battesimo ricevuto da parvolo; la qual necessità è di tutti, di quelli ancora che si danno alla vita attiva. La qual sentenza generica di S. Agostino è trascritta in questo passo di S. Bernardo: “Il fatto d'avervi prima generati (il battesimo è morte, cioè nascita o rinascita) col sacramento della pietà, sebbene [478] fosse volontario per chi generava, non potè essere volontario per chi era generato; chè questi non avevano alcun uso della volontà, nessun esercizio della ragione; e perciò non vi fu alcun riconoscimento della generazione stessa, nessun conoscimento di tanto genitore. Solo ora la generazione volontaria fa un sacrifizio volontario, secondo quel detto (Ps. 53, 8): volontariamente a te sacrificherò e confesserò il tuo nome, poichè è bene„.[419] Ma già S. Bernardo, sebbene pronunzi una verità generale, non l'applica qui a tutti, ma a soli quelli che si danno alla vita contemplativa. Per questi, per questi, succede tal rinnovazione (non ripetizione) del battesimo. E perciò succede a Dante, se è vero, come è vero, che il passaggio dell'Acheronte è il suo entrare nella vita contemplativa. E succede la rinnovazione spirituale e volontaria d'un vero battesimo, con la morte e la sepoltura.

Il passaggio dell'Acheronte ha tutte le note del battesimo, come era significato misticamente.[420] Non possiamo dire il modo proprio con cui Dante passò, perchè egli, nella sua alta finzion poetica, essendo addormito, essendo anzi morto, non lo può dire. Egli finge di non saperlo nemmen esso. Ma passò mediante quella croce, che si segna sul neofito, mediante quel legno della croce, che è il più lieve legno, indicato da Caron, che è l'arca in cui si galleggia sul diluvio della perdizione. Passò o sulle acque come Gesù e Pietro, o tra le acque che si scostarono per lui, come già per gli ebrei fuggenti dall'Egitto. [479] Passò tra il rimbombo della tempesta, quale era quella che minacciò la navicella degli apostoli. Ma in che modo proprio, non è dato sapere, se non se forse ci dà qualche indizio, come vedremo, di ciò che fu la propria imaginazione di Dante in questo passaggio, l'altro passaggio del fiume che equivale misticamente all'Acheronte, e che è il Letè nel quale fu tuffato, e così passò. Comunque sia, dobbiamo tener per certo che Dante in sì fatto passaggio adombrò la rinnovazione del battesimo, del perfetto battesimo, che lo liberava dal languor naturae conseguenza dell'umana colpa. Ora noi vedremo che “altro battesimo, secondo battesimo„ è ciò per cui si entra nella vita contemplativa; e potremo esser certi sì, che battesimo fu il passaggio dell'Acheronte, e sì, che ingresso alla vita contemplativa fu quel passaggio; e che il poema di Dante ha, dunque, tale argomento, di rinunzia alla vita attiva, e che perciò non fu potuto cominciare se non dopo la morte d'Arrigo imperatore; e che la selva oscura è il peccato originale, come il vestibolo e il limbo, e che perciò le tre fiere sono il peccato attuale ossia le tre disposizioni; e che son vere tante illazioni e tanti corollari che ho esposti nei miei libri danteschi, e che è certo che io, aiutato certo nella mia umiltà dalla grande anima di colui che morì nella mia terra, ho veduto attraverso il velame e ho contemplata la mirabile visione.

Vita contemplativa è per eccellenza di coloro che fanno la professione religiosa. Ebbene la professione religiosa è detta e considerata un “secondo battesimo„. Primo fu, credo, S. Girolamo a usare questa espressione. Egli dice, scrivendo a Paula, sulla morte [480] della figlia di lei: “In vero se immaturamente la morte l'avesse rapita mentre era in desiderii secolari e pensava (Dio ne tenga lontani i suoi!) alle delizie di questa vita, sarebbe ella stata da piangere. Ma poichè invece, col favore del Cristo, già da quattro mesi s'è lavata col secondo, per così dire battesimo del proposito (cioè della profession religiosa), e quindi ella è vissuta così che, spregiato il mondo, ha sempre avuto in cuore il monastero...„ non c'è da piangere.[421] Questo concetto ricorre più volte nel fedele di Maria, maestro di Dante.[422] Egli dice: “Agl'immondi principalmente il Cristo aprì questa via, egli che venne a cercare e a salvare ciò ch'era perito nelle vie del secolo„. Lasciamo star gli immondi; ma certo Dante era per essere ucciso nelle vie del secolo, e si mise per un altro cammino. “Che dunque?„ continua l'Abate “passerà uno macchiato per la via santa? No. Venga quanto si voglia macchiato a quella, e tuttavia non passerà macchiato per quella: perchè quando passerà, non sarà macchiato. La via santa lo ammette macchiato, ma, ammessolo, [481] subito lo lava; che lava ogni reità quasi fosse un secondo battesimo di penitenza...„[423] Altrove S. Bernardo dichiara il perchè di questo nome: secondo battesimo. “Voi volete saper da me, donde, tra gli altri istituti di penitenza, la disciplina monastica abbia meritata codesta prerogativa di chiamarsi secondo battesimo. Credo, per la perfetta rinunzia al mondo e per la singolare eccellenza della vita spirituale per cui una così fatta conversazione essendo superiore a tutti i generi di vita umana, fa chi la professa e ama, simile agli angeli, dissimile dagli uomini; anzi torna a formare nell'uomo l'imagine divina, configurandoci al Cristo, a mo' del battesimo. E infine siamo battezzati con una specie di secondo battesimo, mentre, per ciò che mortifichiamo le nostre membra che sono sulla terra, ci rivestiamo di nuovo del Cristo, piantati sotterra di nuovo a somiglianza della morte di lui.„[424] Anche: “Vieni o Signore Gesù... Noi saremo veramente liberi, se tu ci libererai. Facemmo vano il primo patto... sottomettendoci a una misera schiavitù, (Dante nella selva era servo). Pertanto, o fratelli, conviene ci ribattezziamo; ci è necessario stringere un secondo patto; ci è mestieri una seconda professione; nè più basta rinunziare al diavolo e alle opere di lui; bisogna rinunziare, sì al mondo, sì alla propria volontà. (Dante in vero, fa suo il volere di Virgilio, e così giunge a libertate). Il mondo ci sedusse, la volontà ci travia. Nel primo battesimo, quando la nostra volontà non ci aveva ancora punto nociuto, bastò rinunziare al diavolo, per la cui invidia il peccato [482] insieme e la morte entrando per l'entrata medesima, passarono a tutti gli uomini. Dopo che manifestamente provammo le blandizie del mondo fallace e l'infedeltà del nostro volere, in questo secondo, per così dire, battesimo della nostra conversione dobbiamo non solo risarcire il primo patto, ma rinunziare alle passioni stesse„.[425] Noi vediamo che S. Bernardo questo secondo battesimo, che è la profession religiosa o il rinunziare al mondo o secolo e mettersi nella via santa, nella via di Dio, nella vita spirituale, lo dice uguale, non alla semplice morte, ma al nascondimento sotterra, alla sepoltura. Il che più chiaro dice, parlando d'un fra' Natale: “Fu di nuovo sepolto col Cristo mediante il battesimo dell'eremo: io starò a metter fuori i vizi di lui, già seppelliti?„[426]

Così il novello Enea obbedisce al precetto del vate, cui aveva gridato il suo Miserere. Il vate gli dice: A te conviene altro viaggio; gli dice: ti trarrò per loco eterno; gli viene a dire: Andrai a immortale [483] secolo, e vi sarai sensibilmente: il che tutto torna a rinnovare l'ammonimento: Hunc conde sepulcro. Il Miseno ch'egli ha da seppellire è lui stesso, suo primo amico esanime. Dopo, vedrà lucos stygios e sarà nella tomba. E nella tomba si trova, dopo il passaggio dell'Acheronte, e non sa dove si trovi. E vede lucos stygios; boschi o selve, per mo' di dire (questo attenuamento per così dire bisogna ripeterlo a ogni tratto interpretando il Poeta mistico, come lo vediamo ripetuto in S. Bernardo e in tutti gli scrittori così fatti): vede una selva: la selva, dico, di spiriti spessi. (Inf. 4, 66) E selva Stigia, sì: passato l'Acheronte, sottentra lo Stige, che si mostra solo al quarto cerchio, ma che continua subito l'Acheronte sin dal cerchio superno.

Quand'egli passò la selva oscura, che era anch'essa una specie di fiumana, un Acheronte anch'essa che si valica a nuoto, fu aiutato da un lume, che egli non vedeva e non narra: dal lume di grazia, dal lume della luna piena, da Lucia. Nell'Acheronte, da chi se non dalla medesima grazia o Lucia? Il Letè attraversò tenuto da Matelda; l'Acheronte, aiutato, in modo misterioso, da Lucia, la quale in modo pur misterioso lo recherà poi all'ingresso del Purgatorio. In qual forma venisse, ella che è donna, luna, aquila, folgore, non vuol Dante che si sappia; e tuttavia possiamo imaginarcelo con un'imaginazione di Dante: e con qual altra? La croce nel passaggio che è un battesimo, ci ha da essere: ell'è il più lieve legno. E ci ha da essere la grazia, nel battesimo; la grazia che poi nella lunga via fa meravigliare tutti (per es. Pur. 14, 14); la grazia o Lucia. Lucia è figurata, nel sogno che Dante sognò con la [484] mente divinatrice, in un'aquila con penne d'oro: l'aquila imperiale. (Pur. 9, 20) Questa scende come folgore. Ora un lampo vermiglio è quello che vince i sentimenti di Dante, avanti l'Acheronte. Dorme qui Dante, e dorme là: la grazia opera senza che ce n'accorgiamo e oltre il merito nostro. Venne anche questa volta l'aquila? E allora, la croce? Ecco: Dante nel paradiso contempla la croce di spiriti beati del ciel di Marte. Nel tempo in cui una donna da rossa per vergogna si rifà bianca, egli vede il rosso di Marte cambiarsi nel bianco di Giove: e invece degli spiriti nella croce, vede altri spiriti, volitanti nella grande frase della Giustizia, formare all'ultimo “la testa e il collo d'un'aquila„. (Pur. 18, 107) Ma qui manca possa alla nostra fantasia. A noi, dove Dante non disse, basti dire che egli passò l'Acheronte mediante la croce che è aquila.

Così entriamo nel grande significato della divina Comedia. Dante è l'uomo o gli uomini, nella via del mondo o nella via di Deo. Il ribattezzatore dell'umana volontà è il potere imperiale. È questa luna piena che trae l'umanità dalla selva oscura, è questo altro sole, anzi, che impedisce che il mondo disvii, è questa luce o Lucia che fa varcare al genere umano il fiume che è morte e vita, vita e morte; è questo “governo„ che deve fare sì che il frutto venga dopo il fiore del volere, ossia che il battesimo non sia invano: (Par. 27, 147)

sì che la classe correrà diretta.

Gli ammiratori d'un Dante astratto da' suoi tempi e dalla sua scolastica, che cosa hanno a dire a codesto [485] passo del Paradiso in cui dopo le onde della cupidigia vengono i bozzacchioni dei susini, e poi la pelle bianca che si fa nera della luna, e poi la classe che vira di bordo, e poi il fiore che dà frutto vero? Hanno a dir male, per certo, essi che in Dante non vogliono considerare se non la parte formale. Ebbene io spero che ne penseranno meno peggio per quello che, con l'aiuto della scolastica, io ho mostrato e sono per mostrare intorno al legame di codeste imagini svariate e disformi, tenute insieme però dall'unica idea della rigenerazione del volere, prodotta dalla grazia del battesimo rinnovellata dall'autorità imperiale. Ne penseranno meno peggio, quando vedranno che Beatrice, in quel suo discorso, riassume la divina Comedia nelle sue prime ed essenziali concezioni e figurazioni, facendo riapparire la fiumana su cui il mar non ha vanto, e la selva che si passa per virtù della luna che c'è e non c'è, per incertam lunam; richiamando al nostro pensiero quei motivi iniziali d'acqua e vegetazione; d'acqua Acherontea che se non si varca su più lieve legno, ci invischia poi nel brago, ci bolle nel fuoco, ci serra nel gelo; di vegetazione selvatica, che se non è favorita da convenevole temperie, o tale resta, o ci trasforma poi in bestie o in semiferi peggiori o in diavoli pessimi.[427] Ne penseranno meno peggio, quando vedranno dove ci conduce la classe (latinismo fuor di rima), la classe così stranamente comparsa dopo i bozzacchioni e la luna bianca nera[428] (si noti anche [486] come è bella questa bruttezza, quando s'intenda!), e che è così stranamente seguìta dal fiore che allega, come causa da effetto: una classe diretta che fa sì che le susine non si convertano in bozzacchioni! Ma quella classe ci conduce all'Acheronte, e perciò al battesimo, e perciò alla pianta che fiorisce e al fiore che allega, e perciò alla grazia, e perciò alla luna che c'è e non si vede, bianca nera, e perciò a Lucia. Quella classe in vero ci porta a Miseno: hunc conde sepulcro! Sì: la classe andrà bene, sol quando l'umanità, per opera dell'impero strumento della grazia, seppellirà Miseno; il quale così insepolto, cioè battezzato invano, come i più degli uomini insepolti misticamente, nel vestibolo infernale, insepolti perchè ebbero in vano quel battesimo che è un conseppellirsi col Cristo; insepolto; ed ehu nescis! non lo sapete! e perciò lo dico io e lo figuro in tanti modi e lo faccio dire da Marco e da Beatrice! il qual Miseno, che è il primo amico d'ognuno (l'appetito sensitivo, il tallo, la pianta che ha non solo da fiorire ma da allegare e fruttare); il qual Miseno (Aen. VI 150)

totam... incestat funere classem.[429]

Questo battesimo figurato, che dissolve la tenebra [487] e che è iterato per l'ombra e il veleno della carne,[430] imprime ciò che il sacramento vero: il character, per cui Dante è riconosciuto, alle parole di Virgilio, dai fantasmi e dai diavoli, e lasciato passare e portato sui fiumi dell'inferno, derivati dall'Acheronte che spiccia dalla colpa originale.[431] Nè mancano nell'immensa Visione le imagini degli altri sacramenti. Il del ciel messo viene come lo Spirito Santo agli Apostoli: “Dal cielo si produsse d'un tratto un suono, come d'un vento (spiritus) forte che venisse, e riempì la casa tutta...„[432]

E già venìa...
un fracasso d'un suon pien di spavento...
non altrimenti fatto che d'un vento
impetuoso... (Inf. 9, 64).

E un cenno a quel che segue negli Atti, “che apparvero lingue spartite, come fuoco„, può essere in quella ragione naturale data dell'impeto del vento, impetuoso per gli avversi ardori. Ora la confermazione o cresima, si sa in che rapporto sia con quella narrazione evangelica. E si veda: non è figurata l'imposizion delle mani nell'atto di Virgilio che chiude con le sue mani gli occhi a Dante, atto che è seguìto dall'ammonimento di mirar la dottrina ascosta sotto [488] il velame? non è adombrato nel vento che viene sull'onde, sull'onde dello Stige che è la continuazione d'Acheronte, d'Acheronte o Letè, il fiume battesimale che Dante aveva passato poco prima, non è adombrato, in quel vento sull'acqua, quel versetto: “Giovanni battezzò con acqua: voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni„?[433] Il fatto è che dopo quel vento impetuoso (vehementis, ha il testo sacro), tanto gli Apostoli quanto il Poeta sono corroborati nell'anima: Dante, che non mai aveva temuto come avanti Dite, entra sicuro appresso le parole sante. Il luogo è una fortezza, egli che v'entra, è un milite; ed entra senza guerra, perchè la guerra era vinta. (Inf. 9, 104) Chi l'aveva vinta, è Enea, doppiamente connesso allo Spirito Santo, e perchè eletto nel cielo padre di Roma e perchè dotato della virtù eroica.[434] Anche: a principio e al fine della missione di Virgilio nel purgatorio, a piedi e in cima al monte santo, Virgilio compie due riti che hanno l'aria di sacramentali. Distende nel piano, sull'erbetta molle di rugiada, ambe le mani, e lava le guancie di Dante e poi lo cinge del giunco schietto; (Pur. 1, 121) sul grado superno ficca gli occhi nel suo figlio, lo proclama libero, corona e mitria lui sopra lui (Pur. 27, 125) Là Dante è che dalla tomba ha aperto gli occhi alle stelle, cioè uno che muore, perchè altro non è cristianamente il morire del pio, se non un aprir gli occhi nel chiuderli: quella lustrazione non è forse l'olio santo, col quale l'uomo va avanti Dio senza più alcuna nebbia? (Pur. 1, 97) E il giunco m'ha l'aria [489] dell'umile issopo di cui asperso l'uomo si monda. Qua, nel grado superno, Dante ha, con quella spiritual corona e mitria, da Virgilio la licenza d'entrar nella foresta dove vedrà la visione che ha da scrivere “in pro' del mondo che mal vive„, (Pur. 32, 103) e apprenderà le parole che deve insegnare ai vivi di questa vita mortale: (Pur. 33, 52) non è codesto l'ordine sacro? E tutto il salire per il monte è penitenza; ma con la penitenza si fonde l'eucaristia, quando Beatrice pronunzia quelle solenni parole, che non sembreranno belle se non quando ci saremo assuefatti al linguaggio mistico di Dante, linguaggio conforme a quello del sacri libri, pieno d'idee e imagini che dai trivii talora metton l'ali e s'inalzano ai cieli: quelle solenni parole: (Pur. 30, 142)

L'alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Letè si passasse, e tal vivanda
fosse gustata senz'alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda.

Qual vivanda è nel passaggio d'un fiume? Ma questo passaggio del Letè, combinato col dolce bere ad Eunoè, è tale che l'uomo n'esce “rifatto„, (Pur. 33, 143) come per quella santissima bevanda e vivanda, che è l'Eucaristia, detta appunto refectio.[435]

E aggiungerò parole sulle nozze? In Dio sapientissimo la sapienza è “per modo perfetto e vero, quasi per eterno matrimonio„. (Co. 3, 12) E matrimonio è dunque l'ascendere di Dante filosofando all'Atene celestiale: filosofando, cioè amando la [490] sapienza la quale è Beatrice, possedendo Beatrice, con Beatrice congiunto per sempre.[436]

XXXV.
GIACOBBE

Nell'“antica selva„, antica come il peccato d'Adamo, antica come la miseria conseguitane agli uomini, selva che è “profonda tana di fiere„, delle fiere che Dante non trova nel profondo ma nella radura, non nella notte ma nel giorno, perchè egli deve distinguere dal peccato originale il peccato attuale, e questo fu dopo quello ed effetto di quello; Dante è servo e fuggitivo: servo, come egli dice, (Par. 31, 84 al.) fuggitivo, come egli viene a dire affermando che il suo animo, oltre il passo, ancor fuggiva. (Inf. 1, 25) Se la verghetta con la quale si aprono sacra ostia,[437] non la strappa esso nell'antica [491] selva (e tuttavia quella verghetta viene dalla selva di spiriti spessi, equivalente, col vestibolo, alla selva oscura); tuttavia Dante ha avuto in mente tutto il valor mistico che in quell'episodio dell'Eneide ravvisava l'antico interprete di Virgilio. Servio[438] dopo aver narrato il mito di Oreste fuggito ad Aricia con l'idolo Taurico, e il rito sanguinario di quel tempio; dove era sacerdote uno schiavo fuggitivo il cui posto era preso da altro schiavo fuggitivo che avesse ucciso il primo e così avesse potuto svellere un ramo dall'albero sacro; continua: Virgilio da questo rito “prese la sua figurazione (colorem). Chè il ramo bisognava fosse causa della morte d'uno; donde subito soggiunge la Morte di Miseno; e accedere ai riti di Proserpina non poteva, se non preso il ramo etc.„. Ora perchè Virgilio non dice, esplicitamente, al novello Enea, Seppellisci Miseno? Perchè il novello Enea è anche un novello Giacobbe, e a questo bisogna dire, quello che appunto dice Virgilio a Dante: È Rachele che ti chiama! È Beatrice di cui sei amico, che cura di te! Eppure, torna lo stesso. Seppellisci Miseno, vuol dire, Esci dal tuo involucro terreno. Va a Beatrice, significa, La tua mente si diparta dal corpo. Ella è morta, e i morti non si trovano se non morendo. Ella è la sapienza, e la sapienza non si vede se non mentis excessu.[439]

Dante, dunque, e per rivedere Anchise e per rivedere Rachele, va “a immortale secolo„ e si [492] seppellisce. “Ma„ ecco dice S. Bernardo[440] “come nel battesimo siamo tratti dalla potestà delle tenebre e trasferiti nel regno della eterna carità, così nella, per dir così, seconda rigenerazione di questa santa professione (propositi), usciamo in simil modo dalle tenebre, non del solo peccato originale, ma dei molti attuali, e riusciamo al lume delle virtù, adattando di nuovo a noi il detto dell'apostolo: Nox praecessit, dies autem appropinquavit„.[441] In questo, che si può dire il sommario della divina Comedia, notiamo il detto di S. Paolo, come appare e riappare nel poema. Nella selva oscura Dante erra di notte; riprende via nel giorno: nox praecessit. Un sonno pari a quello di che era pieno quando entrò nella selva, precede il passaggio dell'Acheronte. La notte è al suo colmo, quando il Messo del cielo gli apre le porte di Dite. Tutta una notte è quella passata nell'inferno; (Pur. 23, 122) è vicino il giorno quando si trova alle falde del santo monte: dies appropinquavit. E s'appressava il giorno, quando è da Lucia trasportato, nel sonno, alla porta del purgatorio: e la notte precedè, quando si mise a cercar la divina foresta; ed era mane sul balzo del purgatorio, quando salì al cielo. (Par. 1, 43) Dalla notte al dì. E il dì veramente s'appropinqua sempre, e mai non giunge sino al momento del “fulgore„, in cui Dante vede l'unione della carne al Verbo, che è la gran meta del poema sacro, del poema in cui si abbandona la vita umana per la divina e si [493] concilia e s'insegna questa con quella. (Par. 33, 141)

Dante in persona di Enea e Giacobbe, scende, dopo morto al peccato originale, a rigenerarsi dai molti peccati attuali. Per Enea, son tre disposizioni che il ciel non vuole; per Giacobbe, sono sette peccati: sette, poichè, discorrendo appunto delle tre disposizioni, tra Virgilio e Dante enumerano sette tra cerchi e cerchietti: quattro cerchi in cui sono quei della palude pingue, che porta il vento, che batte la pioggia e che s'incontrano con loro ignominie; (Inf. 11, 70) e tre cerchietti, (ib. 17) dei violenti e dei fraudolenti, i quali ultimi sono distinti in due specie, secondo che la frode esercitano in chi non si fida o in chi si fida. Devono essere sette, e non più nè meno, perchè sette beatitudini risuonano nei sette gradi del purgatorio, opposte ai sette peccati che si purgano; e tali sette beatitudini sono l'interpretazione dei secondi sette anni che Giacobbe serve a Laban, cioè alla Bianca di luce, cioè alla Grazia, per aver Rachele: ora il “fedele„ di Lucia, “amico„ di Beatrice, la quale siede con Rachele, serve questi secondi sett'anni, cioè deterge le macchie di sette peccati opposti a quelle sette beatitudini; dunque deve aver servito anche i primi sette anni, sette e non più nè meno. E sette sono, come sette devono essere. E poichè nell'inferno vi sono altre distinzioni di peccato che sono taciute da Virgilio, come non fossero, bisogna rendersi conto del perchè e siano taciute e non contino e non siano. Gl'ignavi sono nel vestibolo: nell'inferno dunque non sono. Gridano invano la seconda morte; dunque nell'inferno non sono. Misericordia e giustizia gli sdegna: dunque, se non sono nel purgatorio o nel paradiso [494] della misericordia, non sono nemmeno nell'inferno della giustizia. Terribile concezione: non sono nè morti nè vivi: non sono.[442] Restano quelli del limbo e quelli del “cimitero„. Nel limbo è un vagir di culle, nel cimitero è un tacer di tombe. Voglio dire, il silenzio sarà, non è. Sarà, per una parte, il silenzio, quando caleranno sulle arche i coperchi. I quali, sino al gran dì, sono sospesi. (Inf. 9, 121) Ora sospesi sono gli spiriti magni e i parvoli innocenti del limbo. (Inf. 2, 52) Non anch'essi sino al gran dì? Sino al gran dì in cui così chiara sarà la veste di Catone? Il fatto è che allora il cimitero sarà tacito come ha da essere un cimitero. Dove sono coloro che fecero l'anima morta col corpo? Non sono. Sono nella necropoli della città dei morti: sono i morti della morte. Come (o divino acume di mente!), come quelli che di là del fiume della morte, corrono e corrono e corrono, sono i vivi della morte. Ebbene, resteranno quelli del limbo? i parvoli innocenti e gli spiriti magni? cui è destinato dall'Eneida verace a giudice Catone? Catone che nel gran dì sarà così glorioso? Catone che era de' sospesi e s'è mosso e si trova a mezza via tra il limbo e il paradiso terrestre? Saranno dunque otto, e non sette, non sette come devono essere, le ripartizioni dell'inferno? Altri, più ingegnoso di me, trovi dove collocare questi sospesi, pur che non li conservi nell'inferno. Cerchi e cerchi; e troverà... che cosa? “Un luogo di seconda felicità per i parvoli non battezzati edificato dai Pelagiani„:[443]inter damnationem regnumque caelorum, quietis [495] vel felicitatis cuiuslibet vel ubilibet quasi medium locum„.[444] Questo luogo di mezzo promettevano ai parvoli i Pelagiani, che ne furono riprovati.[445] Ma essi dicevano che i parvoli non potevano essere annoverati nè tra i fedeli nè tra gl'increduli; al che gli ortodossi rispondevano che, a quel modo, i battezzati non erano, come invece erano, fedeli.[446] Checchè questi rispondessero. Dante mostra di credere a codesta medietà, e di assegnare sì ai parvoli innocenti e sì agli spiriti magni quel luogo di mezzo, di pace o beatitudine, tra l'inferno e il cielo: luogo che non può essere se non la sommità del purgatorio, arra di pace, sede di felicità, mezza tra la dannazione e la salute. E si aggiunga alle argomentazioni irrefutabili questo indizio piccolo e grande. S. Agostino, disputando contro i Pelagiani, porta a dimostrar la sua tesi ciò che predice il Signore d'essere per dire ai suoi che vuole nel suo regno; nel regno che è la vita eterna opposta alla eterna ambustione: dirà: Venite benedicti Patris mei...[447] Sono le parole che la voce di là rivolge a quelli che traversano il muro di fuoco. Con quelli, Dante e Stazio, è anche Virgilio. Non a caso la voce accomuna ai due discepoli il maestro, chiamati tutti e tre dall'angelo “anime sante„; (Pur. 27, 8) non a caso [496] Virgilio s'era accomunato, nel dar conto di sè ai parvoli innocenti. (Pur. 7, 31)

Restano i sette tra cerchi e cerchietti, i sette tra peccati d'incontinenza e di malizia: quattro d'incontinenza, tre di malizia. Vengono subito in mente i peccati del purgatorio che sono, nella figurazione del carro, quattro e tre, unicorni e bicorni, come quelli dell'inferno sono, i quattro di minor offesa e minor biasimo e minor pena, e i tre di “felli„. Inoltre Virgilio si ferma, a esporre il sistema penale sì dell'inferno e sì del purgatorio, a un punto, in cui sono, sotto e sopra loro, tre cerchietti dell'inferno e tre cornici del purgatorio, sicchè abbiamo la distinzione di quattro e tre, rimanendo il quarto come una specie di peccato centrale. E sì: nel purgatorio si vede tale centralità del peccato quarto, che preceduto da tre di amor del male e seguìto da tre di amor soverchio del bene, è definito peccato di lento amore nel vedere o acquistare il bene. Il che è quanto dire: nella vita contemplativa o nell'attiva. Nell'inferno la dichiarazione avviene in un ripiano, inclinato o meno, che comprende due cerchi, la palude e il cimitero, d'uomini che rissano o gorgogliano inerti nel fango vischioso; e d'altri che hanno “mala luce„. S'intuisce subito che questi peccatori peccarono gli uni nella vita attiva, gli altri nella contemplativa. E s'intuisce che peccarono d'accidia, carnale e spirituale; manifestamente, d'accidia spirituale, gli eresiarche, perchè furono volontariamente ignoranti, e la ignoranza si riduce ad accidia; e più che manifestamente gli altri del pantano, de' quali i fitti nel fango dicono d'essere stati tristi e di aver portato dentro “accidioso„ fummo e non possono dire il [497] loro inno con parola integra. Ora l'accidia è tristizia che mozza la voce.

Ma si obbietta: quelli che rissano, sono tali cui vinse l'ira: non dunque accidiosi, ma irosi. Non mai si ebbe dagli interpreti di Dante così mala luce come nel considerare quest'espressione: cui vinse l'ira; la quale significa che non dominarono l'appetito irascibile, come quelli dei cerchi precedenti sommisero la ragione al talento concupiscibile; e non può significare rei d'ira, perchè l'ira è libidine di vendetta: ora, o la vendetta fecero, e allora fecero ingiuria e sarebbero in Dite, o non la fecero, e allora l'ira senza vendetta è tristizia e non ira.[448] Masopra tutto è da notare che rissosi e fitti nel fango sono tra loro come nel cerchio precedente gli avari e i prodighi che sono rei de' due vizi collaterali alla virtù di liberalità. Qual è la virtù che sì i rissosi e sì i fitti misconobbero in modo opposto tra loro? È, e non può essere altra, la fortezza, nella quale Dante fonde la magnanimità, (Co. 4, 26) la fortezza, di cui cote e calcar è l'ira; l'ira passione incolpevole, e non vizio; l'irascibile. E Dante chiama dunque orgogliosi e tristi quelli che il Filosofo chiama audaci e timidi, pusillanimi e tronfi o gonfi. Chè audacia e timidità sono i due vizi collaterali alla fortezza; e la pochezza d'animo e la tronfiezza sono quelli collaterali alla magnanimità.[449] E che Filippo Argenti [498] sia, come rissoso, il tipo degli audaci e gonfi, è manifesto da queste parole di Aristotele: “I gonfi sono stolti; e non conoscono se stessi, e questo si vede manifestamente, imperocchè mettono mano alle cose onorevoli, come se ne fossero degni; e di poi vengono scoperti e scornati. E si adornano nel vestire e nella figura e in cose siffatte; e vogliono che le loro buone fortune sieno visibili, e parlano di sè stessi, come se per mezzo di ciò potessero venire onorati„.[450] Basta ricordare i ferri d'argento! basta rileggere le novelle del Boccaccio e del Sacchetti! basta richiamare alla mente l'atto di lui, che vuol afferrare la sponda del legno, per salire anch'esso dove Dante siede con suo alto onore! E si veda ora come è il magnanimo, e se le sue note si convengono al Messo del cielo, persuadendo sempre più ch'egli sia Enea, tipo già nel Convivio di fortezza o magnanimità. “Sembra essere propria del magnanimo la grandezza in ciascuna virtù„.[451] Enea dal Poeta è posto ad esempio, nella parte del Convivio che compì, delle virtù convenienti all'età giovanile, annunziando che ne avrebbe discorso ancora. “Versa adunque principalmente il magnanimo circa gli onori... e si rallegra moderatamente di quei grandi che riceve, o che gli vengano dai virtuosi, come chi ottenga cose a lui proprie o anche di [499] meno... non guarda neanche all'onore, quasi sia la più grande delle cose... i magnanimi sembrano essere disprezzatori... e il magnanimo disprezza giustamente, chè opina secondo verità„.[452] Ricordiamoci le parole di Virgilio a Dante, Taci e inchinati, se non vogliono dire: Non è uomo quegli, da gradir plausi e grida; un cenno d'onore gli basta! E si veda il contrapposto: “Quelli che senza virtù posseggono siffatti beni (onore, potere, preminenza, ricchezza), nè a buon diritto si stimano degni di grandi cose, nè rettamente sono chiamati magnanimi: chè senza virtù perfetta non hanno luogo queste cose. E diventano anche superbi e insultatori quelli che possedono questi beni: infatti senza virtù non è facile il sopportare con moderazione le buone fortune; e non potendole portare e pensandosi di soprastare agli altri, li disprezzano, ed essi, in qualunque cosa s'abbattano, agiscono. Che imitano il magnanimo non essendogli simili; e ciò fanno nelle cose che possono: e pertanto non fanno le loro cose secondo virtù, ma disprezzano gli altri„.[453] Non è il ritratto della persona orgogliosa quale Filippo Argenti è dipinto dai novellieri? “È proprio del magnanimo... il far servigi volenterosamente... accorrere dove l'onore o l'azione da compiersi sia grande; e far poche cose, ma grandi e gloriose. È necessario anche essere apertamente nemico e apertamente amico, chè il restar nascosto è d'uom che teme... e parlare e operare manifestamente; chè il magnanimo sarà franco pel suo disprezzo„.[454] Non [500] è questo il contegno e il disdegno del Messo, sì nell'accorrere e sì nello sgridare i cacciati del cielo? E se è, non è egli, colui che così accorre e parla e opera manifestamente e disprezza o disdegna, uno che renda un servigio? E se lo rende, chi può essere egli se non Enea? “È anche apertamente verace tranne nelle cose che dice per ironia; ed è ironico verso i più„. Cerbero vostro, se ben vi ricorda: parole dette con sogghigno. “Nè parlerà intorno a sè, nè intorno ad altri, non gli sta infatti a cuore nè che si dieno a lui lodi nè che gli altri vengano biasimati, e però non è neppure atto a lodare. Per la qual cosa non è neanche maldicente, nemmeno dei nemici, se non fosse per arroganza„.[455] Ecco il Messo che non si ferma per esser lodato o ringraziato, o per biasimare e maledire la gente dispetta (eppure ha loro detto il fatto loro), e parte, come pensando ad altro che a quella pur grande impresa che ha compiuta. “E il muoversi del magnanimo sembra dover esser lento, e la voce grave, e la parola ponderata; chè non ha mai fretta...„. Come è impazientemente aspettato da Virgilio il Messo! Ma egli giunge a tempo, nè prima nè dopo, e tuttavia piuttosto dopo che prima. Dante sopra tutto ha ricordata del magnanimo un'altra nota, quella di esser “pronto a contraccambiare con più, che non abbia avuto; chè così viene ad essere riobbligato chi ha fatto il benefizio, e diventa egli il beneficato„.[456] Enea era obbligato al Poeta che ne aveva celebrata le gesta: ora lo riobbliga.[457]

[501] I tronfi od orgogliosi (si ricordi “l'usato orgoglio„ dei colombi) e audaci, coi pusillanimi e timidi, della palude Stigia (così corrispondenti agl'ignavi del vestibolo, come i sepolti nell'arche dal coperchio sospeso corrispondono ai sospesi del limbo), dànno, tutti insieme questi e quelli, il concetto dantesco di accidia in operare e vedere.[458] Sicchè possiamo dire che le lezioni di Virgilio sui peccati dell'inferno e del purgatorio sono date nel medesimo ripiano centrale, che è dell'accidia carnale e spirituale, fra tre e tre peccati, che sono nel purgatorio di amor soverchio del bene, i tre di sopra, e nell'inferno, d'incontinenza di concupiscibile, i tre pur di sopra; e i tre di sotto, nell'uno, d'amor del male, e nell'altro, di malizia. Che l'incontinenza di concupiscibile e l'amor soverchio del bene si equivalgano, oltre che da questo chiaro raffronto, risulta dai nomi dei [502] tre peccati, che è uguale nell'uno e nell'altro regno: lussuria, gola e avarizia. E i tre di sotto? I tre di sotto sono ira, invidia e superbia, nel purgatorio; ma violenza, frode in chi non si fida e in chi si fida, nell'inferno. Per altro questi tre peccati hanno per simboli, il tradimento, Lucifero, che è il primo superbo; la frode semplice, Gerione che è serpente infernale, cioè l'invidia satanica; la violenza, il Minotauro che appena vede i visitatori, morde se stesso “sì come quei cui l'ira dentro fiacca„. E perchè il Minotauro non è, sebbene sia ira bestiale, dell'ira simbolo così evidente, come il serpe dell'invidia e il primo superbo della superbia, poi Dante ci definisce la violenza, perchè noi non ci abbiamo a ingannare, così: (Inf 12, 49) “O cieca cupidigia, o ira folle!„ Le quali parole si riferiscono alla sola violenza, e non all'oculata frode, non alla frode che, come è tutt'altro che cieca, così non è davvero folle, nella sua cupidità, avendo al suo servizio (e Dante l'ha pur detto!) ciò per cui ella è proprio male dell'uomo: l'intelletto.

I sette peccati dell'inferno equivalgono ai sette del purgatorio. I quattro peccati unicorpori e i tre uno biforme e due tergemini dello inferno sono i quattro unicorni e tre bicorni del purgatorio; salvo che questi ultimi sono figurati secondo l'inordinazione iniziale dell'appetito e quei primi secondo la conseguente inordinazione della volontà e dell'intelletto. I peccati bicorni sono quelli dove è la cupidigia, cioè l'amor del proprio bene complicato con l'amor del male altrui: dunque equivalgono ai peccati infernali dove è la cupidigia, cieca e non cieca: e questi sono i tre di cui ingiuria è il fine. Ed è bello osservare che in essi il disordine nello appetito è figurato dal [503] Poeta in qualche modo duplice, che può essere bensì la duplicità dell'appetito che è irascibile e concupiscibile, ma può essere ancora l'amor del bene proprio e del male altrui, cioè la cupidità, che è la fonte del peccato. Gerione ha invero due branche pilose, i giganti hanno incatenate e immobili le due braccia. Lucifero delle tre teste ha una, quella dell'inordinazione dell'appetito, di colore tra bianca e gialla.

Ma c'è davvero qualcuno che dubita ancora dell'equivalenza tra i sette peccati dell'inferno e i sette del purgatorio? C'è? E legga: sono per dargli la prova delle prove. Gli dimostrerò che Dante i peccati dei tre cerchietti definisce peccati spirituali, cioè dunque, ira invidia e superbia;[459] che Dante i due ultimi peccati dell'inferno dichiara superbia e invidia. Basterà ciò a convincere il lettore che il peccato mediano, nelle fosse e negli spaldi di Dite, è accidia in operare e vedere? Speriamo.

Gli angeli rei, ossia i diavoli propriamente detti, compariscono solo alla porta di Dite, (Inf. 8, 82) poco prima che sull'alta torre si mostrino le tre furie di sangue tinte. (ib. 9, 37) Perchè mai? Il perchè di questo fatto si saprà quando si sarà veduto il perchè d'un altro fatto: di questo, che i diavoli stessi, gli angeli da' ciel piovuti, sebbene appariscano alle porte di Dite che ha tre cerchietti, nel primo di essi cerchietti che è quel della violenza, non si trovano. No, non ci sono diavoli nel primo cerchietto, ma Minotauro, Centauri, Arpie, cagne, che sono dèmoni o mostri del genere dei dèmoni o mostri che hanno stanza nei cerchi dell'incontinenza; dello stesso [504] genere, pagano e mitico, sebbene di specie differente: biformi e non unicorpori. Questa somiglianza sarà (è chiaro) per ciò che la bestialità è una cotale incontinenza, sebbene peggiore.[460] Ora perchè gli angeli caduti sono simboli e punitori esclusivamente dei due ultimi peccati dell'inferno, ossia della malizia vera e propria, e non anche dell'incontinenza, nemmen di quella che è oltre incontinenza, anche malizia? Perchè, risponde il buon senso, eglino sono creature spirituali e non hanno quindi l'anima sensitiva se non metaphorice. Ecco dunque perchè queste creature spirituali si mostrano soltanto alle porte di Dite, dove, raffigurati dalle tre furie, si puniscono tre peccati, che sono perciò i tre peccati spirituali, ossia ira invidia e superbia; ed ecco perchè pur non si trovano nel primo cerchietto, dove è punito un peccato che ha un de' due elementi carnale o sensitivo, l'inordinazione cioè dell'appetito irascibile. Questo dice il buon senso; ma non fidiamoci. Su, o buon lettore, leggi: “Negli angeli rei possono aver luogo quei soli peccati che toccano una natura spirituale. Una natura spirituale non è toccata da beni che sono propri del corpo, ma da quelli che si possono trovare nelle cose spirituali„.[461] Così, o lettore, comprendi perchè gli angeli cattivi compariscano dove cessano i peccati carnali e cominciano gli spirituali, che sono tre, ira invidia e superbia. Ma leggi: “L'ira... è con una passione, come la concupiscenza. Donde ella non può essere nei diavoli [505] (nisi metaphorice )„.[462] Così comprendi, o lettore, perchè i diavoli non si mostrano, come nè in quelli della concupiscenza, così nel cerchio della violenza o bestialità, che è perciò ira. Ma leggi, leggi: Esclusa anche l'accidia (per vero non ci sono diavoli nel brago e nel cimitero!), “sic patet quod sola la superbia e l'invidia sono pure spiritualia peccata, che possono competere a diavoli„.[463] E così, o lettore, comprendi perchè i diavoli siano soltanto in Malebolge e nella Ghiaccia, dove dunque sono puniti i due peccati, che (a differenza dell'ira che è spirituale ma non pure) sono pure spirituali: i quali sono perciò l'invidia e la superbia.

Dunque, ripeto, sette, e i setti medesimi, rappresentati fontalmente o integralmente, sono i peccati del purgatorio e dell'inferno. Ciò è tanto esatto e indubitabile che, essendo sciolto questo problema, potrei lasciare ad altri l'altro: come equivalgano; e ad altri potrei affidare la risposta all'obbiezione che nasce dal nome di superbia dato alla contumacia di Capaneo e dal nome di superbo dato al fraudolento Vanni Fucci. Ma e ho risposto all'obbiezione e ho dimostrata l'equivalenza dottrinale.[464] Qui basti ricordare che Vanni Fucci e Capaneo sono detti superbi in quanto bestemmiano Dio e Giove, unici in tutto l'inferno; col fine di chiarire come in ognun dei tre peccati di Dite è quella generica superbia che si chiama aversio da Dio. Sono tre furie molto simili tra loro quei tre peccati, e sono meschine, le furie, cioè dominati i peccati, della regina dell'eterno [506] pianto, moglie dell'imperador del doloroso regno; cioè della superbia che è peccato generale e peccato speciale. E c'è l'intenzione di far sentire la differenza che è tra bestemmia di parola e bestemmia di fatto. Vanni Fucci, per quanto punito del suo gesto e del suo detto, pure se non fosse reo d'altro che di tal bestemmia, sarebbe nel cerchio precedente con Capaneo. Più grave della sua bestemmia parlata è la sua bestemmia operata, la quale è una frode, e appunto, per maggior evidenza, una frode sacrilega. E così del gesto e del detto è punito appunto dalle serpi che gli avvolgono il collo e le braccia, e minacciato dal Centauro Caco che viene col drago ardente sulle spalle: serpi e drago, simboli d'intelletto volto al male. Sicchè Dante ci mostra la gradazione di bestemmia, da Capaneo a Fucci e Lucifero: il primo bestemmia col cuore soltanto, cioè con l'appetito senza ragione; il secondo bestemmia a parole, ma con l'intelletto ancora, ancora col gesto che è un principio di fatto; il terzo (e con lui, s'intende, i Giganti) ha commesso una bestemmia di fatto, alzando le ciglia (i Giganti le braccia): non altro che un alzar di ciglia, un cenno, nemmeno un gesto, eppure un gran fatto contro Dio.[465]

Quanto all'equivalenza dottrinale, rammento che la vera superbia è, per Dante, la violazione del minimum della legge di Dio, ossia dei suoi comandamenti di religio ai quali va aggiunto il comandamento di pietas; la violazione, cioè, dei tre precetti della prima tavola e del primo della seconda. Inoltre la superbia essendo definita “apostatare a Deo„, Dante [507] prende il peggior degli apostati, Giuda, che è nel tempo stesso il peggior dei traditori, e così ne fa il peggior de' superbi, mettendolo nella bocca di mezzo di Lucifero primo superbo, ottenendo così l'equazione di superbia a tradimento. E conserva a tutti e tre i rimanenti peccati della ghiaccia la nota di apostasia giudesca, e così, nel tempo stesso, di superbia e tradimento. Perchè, avendo Giuda tradito e apostatato alla cena o alla mensa, ed essendo allora in lui entrato Satana, Dante fa che tutti quelli che tradiscono a mensa accolgano in quel punto dentro sè un diavolo; mentre l'anima loro ruina, come Lucifero dopo il suo alzar di ciglia, nel profondo del lago. Ed essendo il peccato di Giuda figurato con l'espressione “di aver alzato il calcagno sopra il Signore„, Dante mostra di considerare uguale a quello il peccato di coloro che tradirono parte e patria, perchè li fa per contrappasso premer dal calcagno suo;[466] e così anche i peccatori della terza circuizione della ghiaccia sono detti apostati e perciò superbi, e violatori essi del terzo comandamento del decalogo, come i secondi violarono il secondo, avendo corrotto il giuramento grande dell'ospitalità, e come i primi violarono il primo, avendo misconosciuto direttamente Dio nel suo Figlio e nel fondatore del suo impero; e più direttamente Lucifero. Ma essi terzi violarono il terzo, cioè il Sabato di Dio, significato, oltre che [508] per altri modi, dalla festività pasquale nella quale Giuda tradidit il Signore ai giudei. Nel che è da notare (e non sembrerà oziosa osservazione, spero) che Bocca tradì appunto in un sabato, poichè la battaglia di Montaperti avvenne “il giorno di sabato 4 Settembre 1260„.[467] I quarti violarono il quarto, che nella dilezion de' genitori comprende quella dei consanguinei tutti, e che è messo insieme coi primi tre, perchè se non contro il principio generale, è contro il principio particolare dell'essere; se non contro Dio, è contro chi di Dio più tiene. E sono puniti nella circuizione detta Caina, che è finitima alle Malebolge e all'invidia, perchè Caino fu superbo in quanto uccise il fratello, fu invido in quanto uccise quello che era allora il solo suo prossimo; ond'è nel purgatorio esempio d'invidia. Ora questi ultimi Dante chiama apostati e perciò superbi, sebbene in grado minore e modo diverso, perchè fa che essi temano quella pressura del calcagno e non l'abbiano: come se da sè non se ne credessero indegni e dagli altri non ne fossero creduti proprio degni.[468] Infine l'esclamazione di Dante nel cominciare e trattar dei traditori nell'inferno, Oh! sovra tutte mal creata plebe... me' foste state...; (Inf. 32, 13) e che fa riecheggiare nel cominciar a parlare dei superbi nel purgatorio, O superbi cristian miseri...; (Pur. 10, 121) muove dalle parole di Gesù a mensa: “Guai a quell'uomo, per il quale il figlio dell'uomo sarà tradito: bene era per lui se non era nato quell'uomo!„[469] se non era nato uomo colui! Così Dante traduceva.

[509] Che sia invidia, la frode semplice, è manifesto da ciò che come la superbia in Dante è il peccato dell'angelo superbo, peccato imitato e svolto nel genere umano col peccato di Giuda e con quello di Caino, che sono a capo e in fine della Ghiaccia; così l'invidia avrebbe da essere il peccato del diavolo invido, cioè del serpente tentatore e corruttore, imitato e svolto tra gli uomini coi peccati specialmente che sono a capo e in fine di Malebolge. Avrebbe da essere, voglio dire, se veramente la frode fosse invidia; ed è. È, perchè a capo di Malebolge è la seduzione delle donne; e il serpente invido sedusse la donna; e in fine sono i falsatori; e il serpente fu il primo e tipico falsatore. E si noti: i falsatori sono divisi come in due gruppi; e ognun de' due gruppi è come diviso in due fazioni nemiche; i rabbiosi conciano i lebbrosi, gl'idropici percuotono col pugno i febricitanti. Ebbene con questo loro fare ingiuria anche laggiù, è indicata la maggior ingiuria che fecero in vita. Ora codesti rei peggiori sono quelli che falsificarono sè in altrui forma, e quelli che dissero male, che, cioè, con la menzogna fecero gran male. (Inf. 30, 41 e 155) E subito noi vediamo che furono quelli che meglio (o diciamo peggio) imitarono il diavolo invido, che si mutò in serpente e con una bugia, con un fallo solo, (Inf. 30, 116) perde il genere umano. E che la menzogna sia il nocciolo, per così dire, della frode, e il proprio linguaggio del demonio, dice Dante stesso: il diavolo ha molti vizi, ma si può dire, sopra tutto, padre di menzogna. (Inf. 23, 144) E questo fa dire nella bolgia sesta, che punisce gl'ipocriti. Ora l'ipocrisia è ciò per cui la frode è frode. Gerione è la sozza imagine di frode [510] e potrebbe, più specialmente, raffigurare l'ipocrisia, con la sua faccia d'uom giusto. E il primo ipocrita fu il serpente d'Eva, che finse di volere il bene di lei e di Adamo e degli uomini, come il primo superbo o apostata e perciò traditore fu Lucifero. Lucifero fu contro Dio, il serpe contro il genere umano, così come contro Dio è la superbia, e contro gli uomini è la invidia. Ossia, se la superbia è la violazione dei precetti di religio e pietas, l'invidia è il corrompimento degli altri comandamenti di iustitia semplicemente detta, che non è, vale a dire, contro Dio e contro chi è più simile a Dio, ma contro gli uomini in genere. Questi comandamenti della seconda tavola, se ne escludiamo il primo, che va piuttosto messo nella tavola prima e tuttavia non è proprio della prima, se ne escludiamo insomma il comandamento di pietas, sommano a sei. Ora il precipuo peccato di frode, l'ipocrisia per cui la frode è frode, e che è dipinto precipuamente nel serpente dell'invidia, è punito nella bolgia sesta. Notiamo che non a caso nell'enumerazione dei peccati di frode, il primo è appunto ipocrisia. (Inf. 11, 58) Notiamo che in questa bolgia dell'ipocrisia è crocifisso in terra Caifas, che disse: Oportet ut homo... e che è, come Giuda della Ghiaccia, il peccatore tipico di Malebolge. E così vedremo che in quest'altro modo Dante ha significato che i peccati di Malebolge stanno al peccato di Gerione, come quelli della Ghiaccia stanno a quello di Dite; che si riducono, cioè, a invidia, come quelli a superbia; perchè il Poeta oltre a metter primo e ultimo di essi due peccati, la seduzion della donna e il contrafacimento di sè e la bugia, nei quali si estrinsecò l'invidia prima, pone precipua di tutti la [511] ipocrisia che fu nel serpente seduttore e falsario e menzognero precipua, mettendola nel numero sesto che è il numero dei comandamenti che avanzano togliendone i quattro primi. Violazione del decalogo di iustitia è l'invidia o frode; perciò le bolgie sono dieci, e dieci sono i passi verso Gerione; ma viola più specialmente la iustitia comunemente detta, di cui sono sei comandamenti; perciò la bolgia sesta è la principale. Non dubbia infine anche è l'intenzion del Poeta nel convertire in serpi i ladri. Egli ha voluto anche qui marcare la somiglianza del peccato di chi ruba, con l'invidia prima, che derubò la pianta. (Pur. 33, 57).[470]

La violenza o bestialità è ira, cioè libido ulciscendi. Il concetto di vendetta unisce tutti i peccatori del cerchietto, i violenti sì contro il prossimo, sì contro sè, sì contro Dio, la natura e l'arte. A ciò è da ricordare, che come frode è fatta uguale a invidia, e tradimento ad apostasia e superbia, in considerazione principalmente del peccato primo del diavolo contro l'uomo e dell'angelo contro Dio, e dei conseguenti peccati di Caifas contro l'homo e di Giuda contro il Redentore; così vis è fatta uguale a ira o desiderio adempito di vendetta, in riguardo al medesimo primo dramma. Considerò il Poeta che la prima colpa d'uomo, ricordata nella Genesi, dopo la cacciata dal paradiso, fu ira? Dio non guardò ai doni di Caino: iratusque est Cain vehementer. Sicchè il Signore gli chiede: Quare iratus es? Ed aggiunge: Sub te erit appetitus eius, et tu dominaberis illius.[471] [512] Ora la bestialità Dante con Aristotile poneva fosse per metà o in cotal guisa incontinenza, ossia predominio dell'appetito sulla ragione.[472] Tuttavia il Poeta ebbe il pensiero, più probabilmente, all'altro luogo in cui la terra aprì la sua bocca e prese su il sangue del fratello dalla mano del fratello. Il sangue che bolle sotterra nella riviera della violenza contro il prossimo, può ben derivare di qui.[473] A ogni modo il nesso tra la pena e la colpa del primo girone con quelle dell'ultimo (il qual accordo del primo e dell'ultimo si vede e nella Ghiaccia e in Malebolge) si scorge meglio per un altro luogo pure della Genesi. Dopo il diluvio disse Dio a Noè e a' suoi figliuoli: Crescete e moltiplicate: tutti gli animali della terra vi siano di cibo: chi spargerà sangue umano, sarà sparso il suo sangue: voi, crescete e moltiplicate.[474] Quest'ultimo e primo precetto sottintende tutto ciò che disse Dio ai primi parenti, prima e dopo il peccato. Prima l'aveva posto nel paradiso della gioia, perchè operasse. L'operazione sua sarebbe stata allora gioconda. Fece l'uomo maschio e femmina, e disse loro: Crescete e moltiplicate. Dopo la colpa disse alla donna: “Moltiplicherò i tuoi dolori e i tuoi concepimenti; nel dolore partorirai figli e sarai sotto il potere dell'uomo, ed esso dominerà su te„. All'uomo disse... “Maledetta la terra nell'opera tua: ne' travagli mangerai di lei per tutti [513] i giorni della tua vita... Nel sudore del tuo volto, ti nutrirai di pane, finchè tornerai alla terra, donde fosti preso„.[475] Ora nell'ultimo girone, per cui è ricordato lo Genesi e questo luogo appunto, (Inf. 11, 107) sono quelli che non vollero trarre dalla terra e dal lavoro il loro sostentamento, e quelli che si rifiutarono a crescere e moltiplicare, e altri che bestemmiando, senza intelletto, Dio, dicono (lo dice uno per tutti): tal fui vivo qual son morto, disconoscendo così d'essere tornato sotterra, per opera diretta di quel Dio che dalla terra l'aveva preso. Nel primo, sono coloro che sparsero sangue umano, disubbidendo a un divieto che nella Genesi è così vicino al comando di crescere e moltiplicare e perciò agli altri che gli sono congiunti: “chi spargerà sangue umano, sarà sparso il suo sangue: voi crescete e moltiplicate„. Non solo: ma la bestialità in Aristotile è il mangiar carni crude e carni umane. Non forse Dante sentiva in quel precetto rituale, di non mangiar carni col sangue[476] e a ogni modo di mangiare solo animali (tutti gli animali della terra vi siano di cibo), la condanna della bestialità? Certo egli chiama bestiale e fero il pasto di Ugolino.[477] A [514] ogni modo, si deve ammettere che “lo Genesi dal principio„ è presente nel primo e terzo girone. O non anche nel secondo? Non è implicito in tutti quei comandamenti di Dio benigno e irato, quello di “vivere„? Si capisce.

L'Etica e la Fisica d'Aristotele citate nella lezione di Virgilio insieme allo Genesi, fanno vedere che la narrazione biblica si accorda, nel trattato di Dante, con la filosofia peripatetica. Ebbene tutti questi peccatori violenti sono rei di bestialità. Anche, perciò, gli usurieri de' quali uno si lecca il muso come bue. Ora noi non comprendiamo che gli usurieri siano bestiali, se non consideriamo ch'essi si ribellarono (diciamo così) al precetto di Dio; si ribellarono da stolidi e da folli, come, dunque, Capaneo. Sì Capaneo e sì gli usurieri sono avanti a un Dio che punisce nella sua giustizia, ed essi dicono: È una ingiuria, è una vendetta; e aggiungono: La vendetta non sarà allegra. E così vien fuori il concetto d'ira, come è definita nel purgatorio. (17, 121) Chè dove si parla di vendetta, sorge l'imagine di quella che è libidine di vendicarsi. Tutti in questo cerchietto si vendicano: gli spietati giustizieri, i ladroni da strada, i suicidi, che sbagliano l'oggetto, i dissipatori, che se la prendono con le cose inanimate, i bestemmiatori, che se la prendono con Dio, rivestendo così una falsa sembianza di superbia, i sodomiti, che non vogliono generare,[478] gli usurieri, che non vogliono lavorare. Ira è nella Bibbia il primo commovimento di chi primo sparse il sangue umano, che [515] la terra bevve; ira è per i filosofi la feritas;[479] ira è quella che il giudice, se non vuol commettere ingiustizia, non ha da usare nel punire;[480] ira è quella de' suicidi;[481] ira è quella dei dissipatori;[482] ira è quella che sprezza gli dei;[483] ira è quella, diciamo senza più esitare, feritas dei sodomiti e degli usurieri, ribelli a Dio, i quali nell'inferno sono figurati sdegnosi e sprezzatori.[484] Certo assomiglia, a questo peccato del fuoco e del sangue, quello del brago. Seneca chiama ira, sì quella vana e ventosa, sì quella sanguinosa e struggitrice; ma egli è stoico che anche l'ira passione considerava peccato. Dante che fa vedere un'ira sprone e cote di fortezza in sè e Virgilio, e un'ira magnanima nell'eroe che schiude le porte di Dite con una verghetta, crede, con Aristotele, che l'ira passione sia incolpevole, e crede, con lo stesso, che questa passione possa ispirare fortezza e magnanimità, come, per il suo soperchio, creare l'audacia e l'orgoglio, col suo manco, la timidità e la povertà di cuore, e, quando sopra il mal voler s'aggueffa, (Inf. 23, 16) fare la cieca folle ingiuria contro gli uomini, contro sè, e contro Dio e la natura e l'arte. E tutto ciò ha il suggello di questa riprova. Non nasce ira in uno se non c'è disprezzo nell'altro; e non si sente questo disprezzo altrui, se non si crede alla propria eccellenza (se non si è superbi nel pensiero; ed ecco un'altra ragione [516] della superbia di Capaneo). Ebbene tutti i violenti o bestiali, tutti, tutti, sono rappresentati da Dante eccellenti o nell'opinion loro o anche nella sua: tiranni e ladroni celebri, un gran cancelliere, ricchi uomini, un eroe, un nobile maestro, cherci e letterati grandi e di gran fama, cittadini degni di riverenza, e, ciò che è più persuasivo d'ogni altro fatto, persone con una tasca dove è uno stemma nel quale l'occhio dell'usuriere si pasce. Possiamo ben esser certi che tutta questa eccellenza suggerì il timore e sospetto di parvipensio, e questa l'ira. Con ciò gli usurieri sono anche assomigliati agli innominabili avari.

Persuasivo poi quant'altro mai, è il raffronto tra le pene e le figlie dei sette peccati dell'inferno e del purgatorio. La lussuria, gola, avarizia e accidia sono in sè brutti peccati; ma ne possono generare di più brutti: così quando Dante getta la corda dell'incontinenza, ecco venir su Gerione.[485] Quel gesto è come un mito, un'allegoria, una favola, che sta a sè. Eppure la dottrina che v'è nascosta è dichiarata anche altrove. Così gli esempi nel purgatorio dei primi quattro peccati sono di effetti peggiori: bestialità o sodomia per la lussuria; (Purg. 26, 40 sg.) violenza di centauri o pusillanimità di ebrei, per la gola; (Pur. 24, 121) tradimento, frode, simonia per l'avarizia; (Pur. 20, 103) violenza di lapidatori e d'incendiarii, per l'accidia. (Pur. 18, 133) Chi ha commesso di tali cose non sta nell'inferno al posto [517] della lussuria e degli altri peccati d'incontinenza; ma più sotto. Invece quelli che sono imaginati o gridati o scolpiti come rei d'ira, d'invidia e di superbia, dove starebbero? L'empia imbanditrice delle carni umane, sarebbe nel cerchio della bestialità o, per un'affinità già osservata, in Caina; il crocifisso dispettoso e fiero, in questo medesimo cerchio della bestialità o violenza; Amata, che s'ancise, ma non per amore, sarebbe o è nella selva dei suicidi. (Pur. 17, 19) Aglauro, che divenne sasso, è degna della pietra di color ferrigno. Caino dà il nome alla circuizione esterna della ghiaccia. Lucifero, Briareo, i Giganti, Nembrotte si sa dove stiano, e degli altri ci pare inutile discorrere.[486] L'ira, l'invidia e la [518] superbia del purgatorio, quali appariscono negli esempi scolpiti o gridati o imaginati, sono nell'inferno punite ai luoghi della violenza, frode e tradimento. Dunque loro equivalgono, e così le pene che, per i quattro cerchi e gironi superiori, discordano; si richiamano invece nei tre cerchietti e nelle tre cornici inferiori: peso e peso, pietra e pietra, fumo e fuoco; di più marmo invece di gelo, occhi forati per visi stravolti.[487] Di più: la sferza dei [519] primi e tipici imitatori del diavolo (Inf. 18, 35) colpisce l'invidia del purgatorio. (13, 37) E di più: i sette peccati del purgatorio sono divisi in quattro unicorni e tre bicorni. Ebbene bicorni, sin che si può, sono anche i simboli dei tre ultimi peccati dell'inferno. Chè bicorne è il Minotauro, paragonato a un toro; e cornuti sono i diavoli; (Inf. 18, 13) così chiamati non appena si presentano come punitori, con le sferze della vendicatrice in mano. (Aen. VI 558 sqq.) Ciò non è a caso: i simboli dei quattro cerchi superiori sono demoni sì, ma che sian cornuti [520] si tace, ossia si nega; demoni paragonati a cani e lupi e vermi, e dannati paragonati a uccelli, a cani, a rane: tutti animali senza corna. E vero che ne dovrebbero aver uno, dei corni; ma via! Si vuol sofisticare? Ebbene dirò che per l'unico corno essi hanno la coda.

Ma questi e tanti altri argomenti,[488] persuadano o non persuadano, riguardano il come e perchè Dante abbia fatto uguale superbia a tradimento, invidia a frode, e ira a violenza, e accidia a vizi collaterali delle virtù di fortezza e magnanimità e a dismisura d'ira o irascibile; il come e il perchè: a ogni modo è certo e indubitabile, che nell'inferno e purgatorio non vi sono che i setti peccati capitali: il doppio settennato del servaggio di quel novello servo della Grazia o Laban, e innamorato di Rachele o della Sapienza, che è Dante. Il quale dopo il primo settennato vede la giustizia laboriosa sotto il sembiante, non di una donna lippis oculis e feconda, ma di un vecchio solo, che s'uccise per esser libero. Nel tempo stesso, in persona di Enea novello, egli ha esercitato contro le tre profane disposizioni, le quattro virtù pagane, entrando dalla porta infranta e prendendo via per le tre rovine, e passando i quattro fiumi. Ebbe il lume della prudenza e la forza della giustizia originale passando l'Acheronte: esercitò la temperanza nei tre cerchi del concupiscibile, la fortezza nella palude dell'irascibile, la giustizia e la prudenza, contro l'ingiustizia, nel regno di Dite, con questo che dove l'ingiustizia è senza intelletto, basta la virtù di giustizia, e quando è con intelletto, [521] allora fa mestieri la prudenza. E il novello Enea volge, col suo duce, a destra quando occorre la prudenza; volge a destra nel cimitero degli eresiarche non colpevoli che di mala luce; volge a destra verso Gerione simbolo del male che si fa con l'aiuto della luce o dell'intelletto.

XXXVI.
I SETTE SPIRITI

Il viatore è aiutato da sette Spiriti. Egli è un eroe, se non di quelli che nell'Elisio amano ancora i carri e i cavalli, di quelli però che là cantano cinti il capo di nivea vitta. (Aen. VI 665) Come eroe, come tale che è portato all'etra dall'ardente virtù, è un ispirato dallo Spirito Santo.[489] Chè così Dante intende la virtù eroica di Aristotile. (Co. 4, 21) Questi doni, primi della visione che Dante ha nel paradiso terrestre, dopo aver mondata la vista nel fuoco dell'ultima cornice, gli appariscono sotto forma di sette alberi d'oro. (Pur. 29, 43) Così, dopo uscito dall'inferno e attraversata la burella, ecco vede quattro stelle che fanno godere il cielo. Queste sono le quattro virtù che ha esercitate nell'inferno, quelli sono i sette spiriti che l'hanno aiutato nel purgatorio. Dieci passi fa Dante verso Gerione, per significar i dieci comandamenti di giustizia: (Inf. 17, 32) dieci passi sono tra il primo e l'ultimo di quelli alberi, candelabri, stendali; (Pur. 29, 8) doni che son prima semi che [522] germogliano, poi lumi che guidano, infine glorie che trionfano. In verità, contro i dieci comandamenti, sono i sette peccati; contro i setti peccati, sette spiriti:[490] sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio.

Dante, modificando da sè o trovando modificata da altri per qualche parte, l'azione di questi Spiriti,[491] mostra di credere che la sapienza perfeziona la ragione speculativa ad apprender la verità, e la scienza perfeziona a ciò la ragione pratica;[492] o in altro modo, dispongono la mente a seguire l'istinto dello Spirito Santo nella cognizione delle cose divine (la sapienza) e umane (la scienza). L'intelletto e il consiglio perfezionano la ragione speculativa e pratica a giudicare rettamente; a giudicare, cioè, rettamente le cose divine (l'intelletto) e umane (il consiglio). La pietà e la fortezza perfezionano la virtù appetitiva ne' nostri sentimenti verso il prossimo (la pietà), e in quelli verso noi, contro il timore dei pericoli, (la fortezza). Infine contro la concupiscenza inordinata d'ogni cosa dilettevole, questo medesimo appetito è retto dal timore, secondo il detto (Prov. 15): [523] In timore domini declinat omnis a malo; e l'altro (Ps. 118): confige timore tuo carnes meas, a iudiciis enim tuis timui.

Questi doni sono detti essere in congruenza con le beatitudini, ma in senso inverso.[493] Ora le beatitudini, variamente enumerate e distinte, in Dante che le fa annunziare a ogni grado del purgatorio, sono così: poveri di spirito, misericordi, pacifici senz'ira mala, piangenti, assetati di giustizia, mondi di cuore. Quindi la corrispondenza di spirito a beatitudine sarebbe per Dante questa:

7 Timore — 1 Poveri di spirito : superbia
6 pietà — 2 misericordi : invidia
5 scienza — 3 pacifici : ira
4 fortezza — 4 piangenti : accidia
3 consiglio — 5 sitibondi di giustizia : avarizia
2 intelletto — 6 famelici di giustizia : gola
1 sapienza — 7 mondi di cuore : lussuria.

Così S. Agostino, a proposito però dell'intelligenza della sacra scrittura, concepisce i sette doni, come sette gradi per i quali si ascenda dal timore di Dio sino alla sapienza.[494] Che Dante vi s'ispirasse, sarà chiaro da uno di quei raffronti i quali fanno pensare quanto d'inesplorato e d'inesplorabile rimanga tutt'ora nell'abisso sacro. Eccolo. Il Padre così dichiara il secondo grado: “Poi bisogna divenir miti (la seconda beatitudine è, per lui, quella dei miti, mentre Dante questa non l'ha o la fonde in quella dei pacifici) [524] mediante la pietà, nè contradire alla divina scrittura, sia intesa, se percuote alcun nostro vizio, sia non intesa, quasi non possiamo melius sapere meliusque praecipere; ma piuttosto pensare e credere esser più buono e vero ciò che lì è scritto, anche se c'è oscuro, di quello che ciò che noi per nosmetipsos sapere possumus„. Si tenga a mente il sapere e il praecipere; e si perda un po' di vista il particolare riferimento alle scritture. E poi si legga ciò che nel purgatorio è dell'invidia, seconda colpa, a cui risponde il dono della pietà. Gli invidi hanno gli occhi forati e chiusi, per averli volti con invidia, ma anche per questa altra ragione, che vollero melius sapere meliusque praecipere di Dio, che volle un apparente male. Lo dice chiaramente uno di quei peccatori: “Savia non fui avvegna che Sapia fossi chiamata„. (Pur. 13, 109) È causale questo tratto d'una Sapia, che non sapit, e che è nel grado della pietà, per cui non si deve pretendere di melius sapere per noi stessi? E allora ci sarebbe un altro caso più strano: ella, in suo vivente, non solo pretese di melius sapere, ma anche di melius praecipere! Sì: ella fece come “il merlo per poca bonaccia„: praecepit la primavera, mentre era ancor verno. Anche questo, caso? E allora un terzo caso. Il dono di questo non sapere e non praecipere meglio di Dio, non l'usarono in vita: ora l'usano per salir su, in morte. Invero Sapia biasima la mancanza di saviezza che è nei Sanesi, che male sperarono di Talamone, e predica la rovina degli ammiragli; come Guido del Duca predice le iniquità di Fulcieri, (Pur. 14, 58) e ha il pensiero alla discendenza dei Romagnoli del buon tempo. (ib. 88)

[525] Da questo autore dunque senza esitare prenderò, come da altri, alcune note nella rassegna che farò dell'efficacia di questi doni nel disegno del purgatorio e del paradiso.

Il dono del timore corrisponde alla beatitudine dei poveri di spirito, ed è opposto al vizio di superbia. Esso fa sì che noi temiamo i giudizi di Dio e perciò decliniamo a malo. Aggiungiamo, con S. Gregorio,[495] che il timore preme la mente; e che bisogna pregare, che il timore non sia soverchio e non ci faccia disperare. Secondo poi S. Agostino, per il timore dobbiamo “rivolgerci a conoscere la volontà di lui, che cosa ci ingiunga di cacciare e fuggire. E codesto timore deve incuterci il pensiero della nostra mortalità e della futura morte...„[496] Il sasso che doma le superbe cervici, il paternoster detto dalle anime, col fiat voluntas tua (Pur. 11, 10) e col libera nos a malo, (ib. 20) espressi con tanto rilievo, non basterebbero a persuadere che Dante ha voluto qui mostrare l'efficacia di quello spirito del timore, sebbene molto significhi il far dire alle anime anche l'ultima preghiera superflua, e il far loro accennare, perchè la dicano. Chè il timore è specialmente di cader nelle branche del malo, cioè dell'“antico avversaro„. Ma chi può stare in dubbio, se consideri che Dante dichiara la sua “paura„ di questa pena, rimastagli dopo uscito dalla cornice? (Pur. 13, 136) La sua anima ne è ancora sospesa, dopo pur cancellato il primo P. Chi può conservare il dubbio, se ripensa non solo quanto insista il Poeta nel segnalare [526] la gravezza del tormento, ma specialmente come ammonisca il lettore di non temere soverchio e di non disperare? (Pur. 10, 106)

Il dono della pietà è con la beatitudine seconda, la quale in Dante è quella dei misericordes. Giova notar subito come il Poeta faccia dichiarar da Virgilio formalmente, che la ferza è tratta da “amore„; (Pur. 13, 27 e 39) e sè dichiari punto di straordinaria compassione, (ib. 54) e come rappresenti gl'invidi in atto di chiedere pietà, (ib. 64) e come si senta commosso di carità, (ib. 73) e loro domandi per carità e grazia, (ib. 91) e una di loro ricordi la carità di un sant'uomo, (ib. 129) e un'altra invochi consolazione per carità, (Pur. 14, 12) e siano, quell'anime, dette care. (ib. 127) Amore, (Pur. 13, 146; 14, 100) pietà, carità sono le note che qui suonano, con dolci atti (ib. 6) e delicati pensieri. (ib. 127) Ma non basta: ho già detto che il dono della pietà fa che noi non presumiamo di melius sapere e melius praecipere di Dio; e ho già mostrato come tale dottrina echeggi in questa cornice.

Il dono della scienza si trova con la beatitudine dei pacifici che son senz'ira mala. Esso perfeziona la ragion pratica ad apprendere la verità (S. Tomaso dice a rettamente giudicare): in ogni modo, ci dispongono “nella cognizione delle cose umane„. Scire è un vedere: appena salito al terzo girone, a Dante parve essere tratto in una visione estatica. (Pur. 15, 85) E mediante visioni, non falsi errori, si propongono gli esempi della virtù contraria e del vizio stesso. È da notare che l'esempio della sposa dello Spirito Santo è, sì, di mansuetudine, ma a proposito della disputa tra i dottori; e che nell'esempio pagano [527] di Pisistrato è ricordata Atene “onde ogni scienza disfavilla„;[497] e che nel terzo esempio di Stefano, si vede lui chino per la morte, e i suoi occhi aperti al cielo. (ib. 87) Si ponga poi mente alle molte volte, che ricorre l'idea di “vedere„ e “non vedere„ e scorgere e discernere. Si osservi la pena del fumo, che è derivazione come dal fuoco d'ira, così dal fuoco della visione; e che è pena condegna di chi non vide assai. Si osservi l'aggettivo “saputa„ dato alla scorta; si osservi come ella guidi dietro sè il cieco; (Pur. 16, 8) si osservi questo nome stesso di scorta (da scorgere) e come le parole siano qui dette scorte. (ib. 45) Infine Marco è uno che del mondo seppe, cioè scivit le cose umane o civili; e a Dante, che vuol vedere, cioè sapere, e mostrare altrui (il che tutt'insieme è scienza e arte)[498] la cagione dell'imperversar della malizia, dichiara scientificamente, diremmo noi, perchè il mondo disvii, il mondo cioè la vita attiva, cioè le cose umane. All'ultimo, Dante discerne (Pur. 16, 131) la più importante sentenza del suo sistema politico: la separazione delle due vite, delle due strade, delle due potestà, dei due luminari. Dei quali il sole apparisce al tramonto tra la nebbia.

Il dono della fortezza è coi piangenti, e perfeziona [528] la virtù appetitiva, nei nostri rapporti con noi stessi, contro il timore di pericoli. S. Agostino che mette questo dono con la fame e sete di giustizia, beatitudine unica, dice che “per tale affetto l'uomo si trae fuori da ogni mortifera gioia delle cose passeggiere, e rivolgendosene, si volge alla dilezione delle eterne, cioè all'incommutabile unità e trinità. La quale appena avrà veduto quanto può, raggiare in lontananza, e comprenderà di non poter sostenere, per l'infermità della sua vista, quella luce, ecco che già nel consiglio della misericordia purga l'anima che in certo modo tumultua...„[499] L'ordine e il novero, diversi in Agostino e Dante, non ci devono togliere di scorgere la rispondenza perfetta di quest'ultimo passo con ciò che racconta il Poeta nel salire dal grado della misericordia o pietà al grado della scienza: che non si può schermare, e si sente abbagliare da una luce ancora lontana.[500] (Pur. 15, 28) Ma c'è altro. Intanto il Poeta nell'entrare in questo girone sente venir meno la possa delle gambe (ambulare è vivere) e fuggir la sua virtù. Possa e virtù indicano fortitudo. La fortitudo manca e ci dovrebbe essere; e tale spossatezza e successiva sonnolenza nella cornice della fortitudo è per la medesima ragione che il fumo è in quella della visione o scientia. Un ragionamento tien luogo dell'andare: invece delle cose passeggiere, o del vivere attivo, c'è la contemplazione della verità. Il ragionamento verte sulla libertà del volere, la cui mancanza [529] è sonno;[501] onde la sonnolenza del Poeta. Più particolarmente vi si considera amore come fonte d'ogni bene e d'ogni male. Si distingue un triforme amore e un altro amore tripartito, con un altro amore che è in mezzo, lento a vedere e a operare. E son dunque tre questi amori, e uno d'essi semplice e gli altri due triplici. C'è, insomma, in tale dottrina una somiglianza di trinità, come nella triplice incontinenza di concupiscibile e nella triplice malizia infernali, cui distermina l'accidia che è per Dante il doppio vizio contrario alla fortezza o magnanimità. Al che è d'uopo esaminare un altro luogo di S. Agostino. Sull'imitazione che vi è di Dio, pur nel male, egli dice: “la violenza (vis) imita la virtù, e la frode (fallacia) la sapienza (di Dio). Invece... la magnanimità imita la virtù, la dottrina la sapienza. I peccatori imitano lo stesso Dio Padre con l'empia superbia, i giusti con la pia liberalità. Lo Spirito Santo è imitato dalla cupidità degli iniqui e dalla carità dei retti„.[502] Ricavo da queste parole che nella triade dell'amor del male la superbia può essere ciò che nella Trinità è il Dio Padre; e che l'avarizia (contraria alla liberalità) è questo medesimo, nella triade dell'amore soverchio. Nella prima triade è anche designato il luogo allo Spirito; poichè amore, pietà o carità è la nota della seconda cornice. Resta il figlio, cioè la sapienza; e S. Agostino ci [530] dice che la nostra dottrina imita la divina sapienza, e il lettore ricorda che l'arte segue la natura, “come il maestro fa il discente„, e che perciò ella è, l'arte o scienza, a Dio quasi nipote. (Inf. 11, 104) E dunque è presumibile che nella triade dell'amor del male Dante abbia raffigurate, per il contrario, le tre persone della Trinità. E così potremmo vedere, partendoci dall'avarizia, dell'altra triade. E a ogni modo questo numero ternario, che si riscontra nell'amor tripartito, e nella specificazione dell'amore, in soverchio, lento e malvagio, basta a giustificare, vedute le altre sicure derivazioni, la credenza che nel quarto grado del purgatorio sia raffigurato in qualche modo il distogliersi dalle cose transeunti, e il rivolgersi alla incommutabile unità e trinità, la quale ha il suo nesso, come è noto, nell'amore. E ciò, dunque, in virtù dello Spirito di fortezza. Il quale è contro il timor de' pericoli; e anche questo aspetto è considerato; chè non solo qui timido è il voler di Dante, (Pur. 17, 84) ma sono ricordati come esempi di funesta accidia il timor dei pericoli che tenne di qua della gloria gli Ebrei e i Troiani che non seguirono Giosuè ed Enea.[503]

Il consiglio conduce a ben giudicare le cose umane, e l'intelletto a ben giudicare le cose divine. Sono contro l'avarizia, il consiglio, contro la gola, l'intelletto. A ben giudicare: le beatitudini che si proclamano in queste due cornici sono dei sizienti ed esurienti giustizia. Dante ha sdoppiata una beatitudine unica, quale si può vedere in un passo succitato di S. Agostino. Ora in queste due cornici è [531] figurata la sete e la fame, a tacer d'altro,[504] nel solenne principio del canto ventesimoprimo, La sete natural che mai non sazia con l'acqua di quaggiù; nelle parole di Virgilio riferite da Stazio, O sacra fame; (Par. 22, 40) e nella voce che suona di tra l'albero: di questo cibo avrete caro; (Pur. 22, 141) e nell'opposizione tra cibo e savere; (ib. 147) e in molti altri tratti.[505] La giustizia è nominata insieme con la speranza appena si comincia a parlar di avari; (Pur. 19, 77) e risuona, ripetuta con enfasi, nella risposta del papa Adriano: Così giustizia... così giustizia...; (ib. 120, 13) e se ne parla a proposito di Bonagiunta; (ib. 24, 39) e altrove.[506] Ma tutto questo luogo del purgatorio è governato dai due spiriti affini del consiglio e dell'intelletto.[507] Invero per l'una e per l'altra cornice sorgono dubbiezze che son risolute e parvenze diverse dall'ascosa realtà: un papa che non è papa, un re che non è re; omaggio che non si deve più, parole sacre non bene [532] intese, tremuoto che fa dubbiare e rimaner sospesi, ignoranza che fa desiderar di sapere, timore e pensiero. Stazio s'inganna intorno a Dante; (21, 20) e intorno al suo ridere; (ib. 127) e intorno alla natura d'ombra che è in Virgilio. (ib. 130) Virgilio s'inganna intorno alla vera colpa di Stazio, che è altra da quel che pare, (22, 22) e intorno alla vera sua religione che era altra da quel che pareva. (ib. 59) Virgilio l'aveva fatto cristiano, senza accorgersi esso del lume che faceva ad altrui! (ib. 67) Sin qui si tratta di cose umane; ed è degno di molta meditazione il fatto del papa e del progenitore di re, colpevoli d'avarizia, che non diventò cupidità, in loro, sì nei loro successori: son lì tutti e due a ricordare che cosa è che impedisce la via del mondo, la lupa che qui è maledetta: la lupa che si forma dall'avarizia iniziale, come per il loro esempio si scorge; chè essi, non altro che avari, ossia maltenitori, ebbero discendenti cupidi e fraudolenti e traditori. Ma come il consiglio ci deve reggere nella via del mondo, l'intelletto ci deve illuminare nella via di Dio. Ed ecco che Dante ricorda a Forese il suo smarrimento nella selva oscura, nella quale splendeva inavvertito il lume di grazia, e ricorda Beatrice, alla quale giungerà egli che ha attraversata la profonda notte dei veri morti, salendo e girando la montagna soltanto nel dì, e sostando nella notte. (23, 119) Ed ecco inoltre che come con Forese ricorda Beatrice a cui Virgilio lo mena, con Bonagiunta parla di quell'altra donna che con lo studio si trova prima della prima, e che non s'incontra, come nè l'altra così lei, nella via del mondo. Con Bonagiunta parla della sua arte che anni prima iniziò con la canzone dove è la parola intelletto. [533] (24, 49) E si vedono i due alberi, della vita e della scienza, che corrispondono a quelle due parole contrarie, cibo e savere, (22, 147) la qual unione fa sì che S. Tomaso, per esempio, e i santi dottori siano nella sfera del paradiso corrispondente ai cerchi della gola nell'inferno e nel purgatorio. E soltanto l'essere, questo della gola e della carne, il grado dell'intelletto, fa sì che si parli di generazione e di animazione qui, e, nel cerchio d'inferno e nella sfera di paradiso corrispondenti, di rigenerazione e reintegrazione.[508] E anzi, quivi si parla di cosa più analoga: della natura dell'ombra, la quale si riunirà poi al corpo nel gran dì.[509]

Il dono della sapienza ci guida nella cognizione delle cose divine. S. Gregorio aggiunge ch'ella rifà la mente intorno alla speranza e certezza delle eterne cose.[510] S. Agostino, che fa sesta la beatitudine dei mundicordi, interpreta tuttavia codesta così: “ascende al sesto grado (per Dante, è il settimo) dove già purga l'occhio stesso, col quale si può veder Dio, per quanto si può da chi muore, quanto egli possa, a questo secolo. Chè in tanto si vede, in quanto si muore a questo secolo; in quanto si vive, non si vede... In questo grado così l'uomo purga l'occhio [534] del cuore, che alla verità non preferisce e non paragona nemmeno il prossimo, e perciò, nemmen sè... Perciò codesto santo sarà di cuor così semplice e mondo, che non si distolga dal vero, nè per piacere ad uomini, nè per evitare qualsiasi disagio che contraria questa vita„. E poichè S. Agostino fa settima la beatitudine dei pacifici corrispondente al dono della Sapienza, aggiunge: “Così ascende alla Sapienza, che è l'ultima e settima, della quale usa pacifico e tranquillo„.[511] Chiaramente si rispecchia il concetto di S. Gregorio; che la sapienza dà speranza e certezza di eternità felice, misto al ricordo che la settima e ultima beatitudine non è, come a Dante è piaciuto, quella de' mundicordi, ma quella de' pacifici; nelle parole: (Pur. 26, 53)

o anime sicure
d'aver, quando che sia, di pace stato.

Chiaramente è espresso il concetto di S. Agostino sulla prevalenza che ha da essere del vero sul prossimo e su sè, nelle parole con cui Guido preferisce Arnaldo Daniello a sè e a quel di Lemosì, e con cui biasima quelli che “a voce più che al ver drizzan li volti„, e cui il vero poi finalmente vince. (26, 115) Chiaramente è riflesso il concetto pur di S. Agostino, che per la sapienza non si deve ricusare qualsiasi dolore o pena o disagio, nelle parole dell'angelo: Più non si va, se pria non morde, anime sante, il fuoco; e nel fatto del timido e doloroso passaggio. (27, 7) E che del cuore si mondi l'occhio, chiaramente è detto con le parole di Virgilio che afferma [535] esser di là del fuoco Beatrice, cioè la sapienza, e che esclama “gli occhi suoi già veder parmi„ (tanto è veder gli occhi della sapienza, cioè le sue dimostrazioni, quanto mondar gli occhi suoi per vederle). (27, 36)

Invero di là del muro di fuoco Dante, guidato dallo studio, vede prima l'arte, quale anche gli antichi potevano vedere, l'arte del buono e del bello e del vero; e poi la sapienza, avanti cui lo studio sparisce, perchè è già sufficiente, e ormai è insufficiente.

Dante ritrova la sua Beatrice.

XXXVII.
LA TRINITÀ

Tre cantiche in terza rima, ognuna di trentatrè canti, più il primo proemiale, che è l'uno rispetto al tre e al trentatrè e al novantanove: tre donne del cielo con Dio, tre persone della Trinità con Maria, tre fiere con la selva, e tre disposizioni cattive col peccato originale, e tre ordini di simboli del male, unicorpori biformi e trigemini, e tre ternari d'ordini angelici, intorno all'I, e tre furie e un Gorgon, e un'accidia fra tre cerchi e tre cerchietti, d'incontinenza e di malizia, e un lento amore tra un amor triforme e un amor tripartito, e una ternaria divisione in tenebra e carne e veleno, e antinferno inferno alto e basso, e antipurgatorio purgatorio e Eden, e tre guide a Dante nel gran viaggio, [536] Virgilio Beatrice e Bernardo; tutta questa triplicità[512] ci ammonisce che base del poema dantesco è quella Trinità, di cui pareva un miracolo Beatrice giovinetta. Invero nelle Confessioni di S. Agostino, libro che Dante ben presto conobbe, è questa dichiarazione della Trinità: “Chi intende la Trinità onnipotente?... Vorrei che gli uomini pensassero in sè stessi queste tre cose. Sono queste tre cose ben altro che quella Trinità, ma io propongo un argomento dove possano esercitarsi e provare e sentire quanto siano lungi. Ecco le tre cose: esse, nosse, velle. Io sono e so e voglio: sono sciente e volente, e so d'essere e di volere, e voglio essere e sapere (scire). In tali tre cose quanto sia vita inseparabile e una vita sola e una sola mente e una sola essenza, e quanto infine inseparabile distinzione, e tuttavia distinzione, veda chi può...„[513] Dante vi s'è esercitato, su questa somiglianza, e ha provato e ha sentito quanto s'è lungi, con ciò, da “aver trovato ciò che sopra lei è incommutabile, ed è e sa e vuole incommutabilmente„.[514] Invero quando nella pace del regno di Dio vede la visione della Trinità, meta del poema,[515] all'alta fantasia manca possa; (Par. 33, 142) pure egli volle igualmente. E in tanto tutto il poema di quest'alta fantasia è pieno.

La prima cantica è la morte e il seppellimento [537] del primo amico, del vecchio Adamo. Dante muore nel passaggio dell'Acheronte, come Miseno nelle onde del mare, e si seppellisce nella gran tomba, dove continua misticamente a morire, finchè esce dal sepolcro, dopo tanto tempo, quanto fu quello che Gesù passò sepolto. Esce a riveder le stelle, dunque risorge: è morto a ciò che è morte: ora è. La prima cantica è dell'esse, la qual idea corrisponde alla prima persona della Trinità, al Padre. In fatti Dante, uscito a riveder le stelle, uscito dalla morta poesia e dall'aura morta, fuggito dalla prigione eterna, vede un veglio solo, degno, come non altri, della riverenza che il figlio deve al padre. È Catone, che già nel Convivio simboleggiava Dio: “e quale nome terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo„. (Co. 4, 28) È Catone, cioè la virtus; e virtù o possa o potestate è la prima persona della Trinità. È Catone, che si uccise per essere libero, cioè essere; e fece perciò (nel simbolo) quel che Dante, che volontariamente morì e si seppellì, per essere libero, cioè essere.

Nella seconda cantica Dante giunge a Matelda e a Beatrice, addotto da Virgilio. Cioè lo studio lo conduce all'arte o scienza e alla sapienza, a conoscere, nosse o scire le cose umane e divine, sì da poterle significare altrui. La seconda cantica è dello scire. Dante è congiunto all'ultimo con la sapientia che è la seconda persona della Trinità. L'ultima operazione di Dante nel paradiso terrestre è di bere all'Eunoè; e quello fu un “dolce ber che mai non l'avria sazio„. (Pur. 33, 138) E dunque tal sete era quella “naturale che mai non sazia se non con l'acqua„ che a noi fornisce il Figlio di Dio. (ib. 21, 1) [538] E Dante dall'onda ritorna rifatto, come dalla tomba esce rinato: “rifatto sì come piante novelle, rinnovellate di novella fronda„. Nella parola ripetuta echeggia distintamente il nosse o novisse. Sì fatti accenni etimologici non sono nuovi, in Dante, che appunto altra volta s'indugiò su quel verbo. (Co. 4, 16) La prima operazione per salire al paradiso celeste è il fissarsi di Beatrice nel Sole; nell'alto Sole, che invano desiano i sapienti del limbo, nel Sole degli angeli.

Nella terza cantica Dante giunge a fissare, per intercessione di Maria, che fu l'ispiratrice del gran viaggio, l'occhio nella Trinità. A un tratto la mente è percossa “da un fulgore in che sua voglia venne„. Poi il suo velle è volto. Da chi? Dall'Amore. La terza cantica è del velle che corrisponde alla terza persona della Trinità: al primo Amore o Spirito Santo. Una tomba che vaneggia, una fonte che gorgoglia, una ruota che gira, sono le tre imagini con le quali si chiudono le tre cantiche, in cui Dante dice: Sum et novi et volo. Egli, per ricorrere ad altra opera del medesimo autor di Dante, est, videt, amat, o viget, lucet, gaudet. Uscito dall'aura morta, est e viget; portato da Lucia alla porta della purgazione e passato attraverso il fuoco della visione, videt e lucet; col suo volere mosso dall'amore pien di letizia, amat e gaudet. Essentia, Scientia (=Sapientia), Amor sono le tre parole di S. Agostino che Dante avrebbe messe come titolo alle sue tre cantiche.[516]

Ma questi tre concetti s'intrecciano nella fantasia di Dante in mirabili modi, che noi appena appena [539] possiamo imaginare. Certo vediamo che il velle e il nosse è con l'esse nella prima cantica, rispondendo forse alla formula agostiniana ultima: Volo esse et scire. La “virtù possente„ per la quale, vinte la dubbiezza e la viltà, entrò dalla porta oscura, e morì e si seppellì, è bene il volere. (Inf. 2, 11) Volle Dante riapplicare al sacramento lustrale, ricevuto da bimbo, la sua volontà. Volle morire, per rinascere, esser sepolto per riveder le stelle (quattro spiccano lucide nel cielo australe), volle esse, e volle scire. Egli si mise nell'alto passo e nell'altro viaggio, con lo studio, con un savio che tutto seppe; e da lui a mano a mano imparava e con lui vedeva e per lui sapeva. Egli dice dunque nella sua prima cantica: Volo esse et scire. E invero nella seconda può dire sum, perchè è risorto o rinato, sciens, perchè dallo studio è stato addotto all'arte e alla sapienza, et volens, perchè donde bevve quell'onda santissima? Da Eunoè, ossia dal buon volere. E non è, l'ascendere di grado in grado, tutto una purificazione, tutto un alleggerimento della volontà, dalle macchie e dai pesi che la tirano giù? sì che all'ultimo, libero dritto e sano è l'arbitrio, e l'uomo è vago di girare e penetrare la divina foresta? e dopo essere stato tuffato nell'oblìo di quei pesi e di quelle macchie, e dopo aver bevuto il supremo ristoro di quel volere, vuole salire alle stelle, essendo puro e disposto; e perciò sale? E lassù di sfera in isfera giunge a quello stato di coscienza divina e perfetta, in cui può dire, Scio esse me et velle, tratto com'è nel moto circolare dallo Spirito Santo che illumina, e che è sol quello che può far sì ch'uomo dica: Scio.

Scio, cioè novi, cioè vidi. La terza cantica è propriamente [540] quella nella quale Dante può dire: Vidi. Tutto il viaggio è di contemplazione; ma le prime due descrivono l'esercizio, contemplativo sì, ma di vita attiva, esercizio che dispone alla contemplativa propriamente detta. La quale è propriamente narrata e descritta nel paradiso, dove, Dante dice; Fui io e vidi; (Par. 1, 5) il che è più solenne del primo: ciò ch'io vidi. (Inf. 2, 8) Più solenne, come si scorge dalla reiterata e raddoppiata invocazione; più solenne, come si scorge dal tacito confronto con le parole sottintese di S. Paolo: Scio hominem in Christo... (sive in corpore nescio, sive extra corpus nescio, Deus scit), raptum huiusmodi usque ad tertium caelum.[517] Dante che nei due primi regni è stato un eroe della vita attiva (un pius vates, se non un guerriero) che ha contemplato, un Enea novello che discende agli inferi e riesce all'Elisio, che entra lì per lamenti feroci e qui per canti, (Pur. 12, 113) come l'Enea antico, (Aen. VI 274 sq. 557, e poi 644, 657) ora è quell'altra persona che nel principio, dubitando, negò di essere: è Paolo, e tutto e perfettamente contemplativo.

E che vide? Cioè, che contemplò? La Trinità a parte a parte, e poi insieme, il Dio uno e trino, per ispirazione della Vergine Madre, sposa dello Spirito Santo. La quale inizia e termina il poema sacro.[518]

[541]

XXXVIII.
LO VAS D'ELEZIONE

Ripensiamo al Giacobbe, che, con lena affannata quasi per una lotta sostenuta nelle ore antelucane, al passo della selva oscura, zoppicando s'avvia per la piaggia diserta. Quel Giacobbe ormai pensa soltanto quae Dei sunt e in ispirito vola libero al cielo, ed è divenuto Paolo.[519] Egli dopo aver chiesto al buon Apollo di farlo “vaso del suo valore„, (Par. 1, 14,) vaso come Paolo, (Inf. 2, 28; Par. 21, 128) è ratto al terzo cielo, che è quello della visione e corrisponde alla cornice del purgatorio dove è il fuoco che monda la vista; sino al terzo cielo e più su. Egli passa per i sette gradi delle beatitudini preannunziate nel purgatorio... Ma le sfere sono nove, più l'empireo. E già: questo numero nove è anche nell'inferno e nel purgatorio, che hanno un antinferno e un antipurgatorio, diviso in due regioni. Nell'inferno, ignavi del vestibolo o battezzati invano o invano dotati della libertà del volere, la quale essi non usarono per operare; e non battezzati, parvoli e magni, del limbo, che non ebbero il lume senza il quale non si può meritare, ed ebbero, cioè, un difetto originario e radicale che li impedì di vedere o contemplare. Nel purgatorio peccatori resisi a Dio nell'estremo della vita, scomunicati o no: scomunicati, che, per ciò, furono esclusi in vita dal ben meritare, come non [542] avessero avuto battesimo; indugiatori semplici che in vita ebbero inerte il volere sino all'ultimo: gli uni dunque affini a quelli del limbo, gli altri a quelli del vestibolo:[520] in ordine, dunque, inverso, come gli accidiosi del purgatorio stanno in ordine inverso con gli accidiosi dell'inferno; essendo nominati nella quarta cornice primi quelli in vedere, secondi quelli in acquistare, mentre nel quinto cerchio sono tali di cui bontà non fregia la memoria, e nel sesto tali che ebbero e hanno mala luce. Nel paradiso le prime due sfere costituiscono un antiparadiso analogo. Invero nella prima sfera sono quelli in cui volontà s'ammorzò, come nel vestibolo sono tali in cui volontà fu spenta; nella seconda sono quelli, che a ben far poser gl'ingegni, come gli spiriti magni del limbo. Anche: la luna è simbolo che riguarda la vita attiva. Mercurio è stella più luminosa della luna, sebben velata anch'essa un poco; e che è in proporzione del fioco lume che è nel vestibolo e del lume che è nel limbo (lume però che non è lume). Anche: nella sfera della luna vi è sermo sapientae, e in Mercurio sermo scientiae, il che pare accordarsi con la disposizione de' due luoghi dello inferno, perchè nel limbo è manco di sapientia e abbondanza di scientia, mentre nel vestibolo è sì la sapientia infusa col battesimo, e manca ogni scientia, e ogni operazione, quindi, e di vita attiva e di contemplativa. Perchè questo dal pensier di Dante, riesce evidente che senza la sapientia la scientia non è meritoria; ma la sapientia senza la scientia è nulla, è invano. Or nel vestibolo del paradiso, nella stella macchiata e nel pianeta [543] velato, dove godono spiriti in qualche modo difettivi, perchè il loro vóto fu vòto, e la loro vita troppo esclusivamente attiva; in codesto vestibolo è, come ho detto, sermo sapientiae e sermo scientiae. Dante, io credo e vedo, ne' suoi inizi di Paolo, ricorda il versetto del Vas d'elezione: Alii quidem per Spiritum datur sermo sapientiae; alii autem sermo scientiae secundum eumdem spiritum.[521] Invero nella sfera della Luna parla a Dante la Sapienza in persona, Beatrice, e gli parla delle macchie della luna e dell'ordine delle sfere e del ritorno dell'anima alle stelle e della natura del voto: tutta materia speculativa. Nella sfera di Mercurio parla a Dante la Scienza in persona, Giustiniano, il raccoglitore e purgatore delle leggi; e gli parla del corso dell'Aquila Romana e della giustizia: materia di vita attiva o civile o di governo. Sermo sapientiae: il discorso di Beatrice; sermo scientiae: il discorso di Giustiniano.

E qui occorre osservare che, in certa guisa, le prime due cantiche sono in dominio della scientia o dell'arte, e l'ultima e sublime è irraggiata dalla sapientia o contemplazione. Si capisce: nelle prime due cantiche è Virgilio in principio e Matelda infine (l'ultime parole nell'ultimo canto del purgatorio riguardano un'operazione di Matelda e un'ispirazione dell'arte). Beatrice che apparisce quando Virgilio sparisce, illumina e riempie di sè la terza cantica. Si capisce e s'intuisce; ma c'è anche una prova dottrinale d'altro genere. Nell'inferno e nel purgatorio vedemmo le figurazioni dei sacramenti. Ebbene nel [544] libro che Dante studiò sin dall'adolescenza è questa dottrina: “Il sermo scientiae, nella quale scienza sono contenuti tutti i sacramenti, che variano ne' tempi come la luna... quanto differisce da quel candor di sapienza, di cui gode il... tanto sono nel principio della notte„.[522] Ora ricordiamo l'opera di Lucia e nell'inferno e nel purgatorio, di Lucia che con la luna ha attinenza; ricordiamo che tutto il tempo passato nell'inferno è una notte rispetto al purgatorio, e tutto il tempo passato nell'inferno e nel purgatorio è di nuovo una notte rispetto al paradiso; ricordiamo, Nox praecessit, dies appropinquavit;[523] ricordiamo infine che il battesimo e la confermazione sono indicati nel passaggio dell'Acheronte e dello Stige; che l'olio santo e l'ordine sacro sono raffigurati alle radici e in vetta del monte santo; che la penitenza e l'eucaristia sono presentati nel tuffo in Letè e nel bere ad Eunoè; e che le nozze purissime e celestiali sono la conclusione di tutti sei: noi potremo dire che Dante ha posto la scientia, nelle prime due cantiche, e la sapientia nell'ultima.[524]

Con Venere cominciano le beatitudini, e si scorgono i singoli spiriti. In Venere è la beatitudine dei mundicordi, ai quali è promessa la visione. In vero la nota dominante è vedere, antivedere, discernere, mostrar la verità; e la stella raggia d'amore. Vi è il dono della sapienza, che consiste nella cognizione della verità; e in essa è definito il conoscere: Dio vede tutto e il tuo veder s'inluia; e Carlo Martello [545] dice a Dante: s'io posso mostrarti un vero.[525] Nel Sole è la beatitudine dei famelici, e il dono dell'intelletto. Vi domina la nota di cibo e convivio. In Marte è la beatitudine dei sizienti, il dono è il consiglio. Vi domina la nota di sete e di liquore.[526] L'intelletto e il consiglio sono per ben giudicare nella via speculativa e nella via pratica. Si paragonino i ragionamenti dei due dottori e quelli di Cacciaguida: si vedrà che differiscono per ciò che l'intelletto differisce dal consiglio.[527] E nel cielo di Giove è la beatitudine promessa a quelli che lugent, e il dono è di fortitudo. C'è invero, nella giovial facella, molto gioviale aggirarsi e volare e cantare, e letizia e piacere. E i beati di tale sfera formano una milizia del cielo.[528] E l'aquila della giustizia è ispirata certo da quella virtù che mancò ai gran regi del brago. In Saturno è la beatitudine dei pacifici. A ciò bisogna ricordare il fatto, che questa è l'ultima delle beatitudini nel Vangelo di Matteo, la quale perciò dai Padri e Dottori fu interpretata in modo analogo a quella dei mundicordi che la precede. S. Agostino, per esempio, dice, a dichiarare il beati pacifici: “Nemo sine pace videt istam visionem„.[529] S. Tomaso pone quest'ultima beatitudine insieme con la penultima e dice che appartengono tutte e due “alla felicità o beatitudine contemplativa„;[530] le dice tutte [546] e due “effetti della vita attiva per i quali l'uomo è disposto alla vita contemplativa„.[531] Ora in Saturno sono i santi contemplativi. Di più v'è il corrispondente dono della scienza per cui s'apprende la verità nelle cose umane. Ed ecco, il discorso di Marco Lombardo si trasforma costassù, nel cielo dei contemplanti, in due invettive che riguardano la vita bensì umana, ma di pastori e di monaci; e Pier Damiano e Benedetto parlano della mondanità e secolarità degli uomini contemplativi.[532] La beatitudine de' misericordi e il dono della pietà sono nel cielo delle stelle fisse. In esso troviamo dunque la pietà nel senso umano e la pietà nel senso divino. Maria in sè riassume l'una e l'altra: in lei misericordia! in lei pietate! O dolci imagini di uccello che cova i suoi nati, di fantolino che tende le braccia inver la mamma, di pecora serrata nella notte fuor dell'ovile! O imagini sublimi di tre apostoli che esaminano intorno alle virtù teologali, e incoronano lassù il bandito, l'esule, il dannato a morte di guaggiù![533] Nel nono cerchio è certo la beatitudine dei pauperes spiritu, e il dono del timor di Dio. In esso si mostrano gli angeli che furono fedeli, e furono, cioè, l'opposto di colui che scende folgoreggiando dal cielo nella prima cornice del purgatorio e che è costretto da tutti i pesi del mondo nella ghiaccia ultima dell'Inferno.[534]

[547] Le beatitudini corrispondono ai doni dello spirito; le une e gli altri alle sette macchie o cicatrici del purgatorio, e perciò ai sette peccati dell'inferno. In paradiso corrispondono ai cieli; dunque ai cieli corrispondono in qualche modo i peccati; e questo modo sarà, è intuitivo, per il contrario. I singoli cieli iniziano, diremo, i movimenti dai quali viene, per il libero arbitrio donato agli uomini, o un male o un bene, che si troveranno perciò in un'opposizione e in una somiglianza tra loro. (Pur. 16, 73)

La cosa è evidentissima per il cielo di Venere, che iniziò certo i movimenti per cui Francesca si danna, per cui Dante attraversa il fuoco purificatore, per cui Carlo Martello, con mondo il cuore e l'occhio, vede. In tutti e tre è l'amore, è l'influsso del bel pianeta ch'ad amar conforta. Ma per gli altri cieli? Rispondo subito che l'astrologia assegnava alle sfere influssi così diversi e contrari, che Dante non aveva che trascegliere, per far sì che da ogni cielo emanasse e un peccato e una virtù, e un castigo e un premio, e un vizio e un dono. E vediamo come egli si comportò.[535]

I cieli sono nove, e i peccati sono sette. Ma Dante lesse certo nel comento all'alta tragedia queste parole: la terra “è sotto tutti i cerchi, vale a dire, sette pianeti, Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio, Luna, e i due grandi. Di ciò quell'et novies Styx interfusa cohercet. Perchè con nove cerchi cinge la terra„.[536] Ecco nove cerchi infernali messi [548] in relazione con i nove cieli. Abbiamo veduto come Dante compia questo numero di nove, aggiungendo ai sette peccati, sì nell'inferno e sì nel purgatorio, due difetti, non propriamente reità: difetti nel volere. E il modo è sottile e sembra intricato. Nell'inferno il numero nove si ottiene o contando nel novero quelli del vestibolo e tralasciando i sepolti nell'arche, per il fatto che sono sepolti, e sono allo stesso piano del quinto cerchio; o tralasciando nel novero gli sciaurati per il fatto che sono oltre Acheronte e non hanno nè possono avere la seconda morte, e contando gli eresiarche. Nell'un caso e nell'altro, ai sette peccati sono aggiunti due difetti. Nel primo: difetto totale di volontà, nella vita attiva; difetto, quasi involontario, di volontà, nella vita contemplativa; difetto di volere e difetto di lume che governa il volere; vestibolo e limbo; peccato originale, non ostante il battesimo e per mancanza di battesimo. Nel secondo: difetto quasi involontario di lume; volontario e malizioso difetto di lume, ossia mala luce. Nel purgatorio, sono pure, oltre le sette macchie, due difetti: degli scomunicati esclusi dal meritare, e degli indugiatori, che aspettarono, gli uni e gli altri, il fin della vita per i buoni sospiri: non vollero, insomma, prima. E si aggiunge la valletta amena dei principi intorbidati alquanto dalla cupidità, oltre che per altro, anche per dare all'antipurgatorio codesta nota di colpa originale e di languor naturae conseguente; poichè il serpente del primo peccato ivi si mostra dove sono i fiacchi, gl'inerti, gl'irresoluti. Nel paradiso dove Dante s'imbatteva nella difficoltà contraria a quella che incontrava nei primi due regni, che avevano a contenere sette peccati e corrispondere [549] alle nove sfere, mentre nell'ultimo nove sfere dovevano corrispondere a sette peccati; nel paradiso Dante crea nei cieli della Luna e di Mercurio un antiparadiso, dove fa che si mostrino spiriti difettivi; nella contemplazione (i religiosi che ruppero forzatamente i voti) e nell'azione (i virtuosi, perchè onore e fama lor succedesse). Ma ciò può ridursi a norma astrologica? Può insomma riferirsi agl'influssi della Luna e di Mercurio, questo difetto sì degli sciaurati e sì degli spiriti magni, sì degli scomunicati e sì degli indugiatori e dei principi macchiati in qualche parte di cupidità, sì di Piccarda e sì di Giustiniano? Dico subito che la Luna è stella macchiata e Mercurio è pianeta velato: difettivi anch'essi. Ma non basta.

L'anima ha dalla luna (è in Macrobio) la facoltà “di piantare e accrescere il corpo„, sì che al principio quaggiù “prova un silvestre tumulto, ossia l'hyle (silva e materia) che influisce„ su lei.[537] Giovi ricordare e la selva oscura e gli uomini arborei del vestibolo e la selva di spiriti spessi del limbo, e l'adolescenza che è “accrescimento di vita„, nella quale si smarrì Dante, e la parvolezza d'animo nel vestibolo e d'età nel limbo: non si durerà, credo, fatica a riconoscere come queste imagini e questi concetti siano sotto l'influenza della Luna. Aggiungo ch'ella “nutrisce i metalli e le piante„;[538] e che “ama la Flemma, il Verno, il Freddo l'Humido, l'Acqua (ricordiamo Belacqua, e per l'acqua e per [550] la flemma)„; e che è “Dea„ sì di molti altri, e sì di “Mobili, Instabili... Timidi„. Aggiungo che Dante ricorda “il freddo della Luna„. (Pur. 19, 2) E così vediamo come sotto quest'unica influenza della luna, stia la selva e l'atrio, vestibolo e limbo, dell'inferno, e parte dell'antipurgatorio e parte dell'antiparadiso. Nè se ne sottrae il cimitero degli eresiarche, i quali hanno mala luce, sub luce maligna, quale i viatori di Virgilio per incertam lunam, in silvis; un d'essi ricorda appunto “la donna che regge„. (Inf. 10, 10)

L'altra parte dell'antiparadiso è sotto l'influsso di Mercurio. Mercurio induce, tra molte altre cose, “aperti oracoli e manifesta indivinatione, e tanta eloquenza nel persuadere e disuadere, in commuovere e acquietare gli animi nostri, che induce l'huomo a qualunque cosa gli piace„. Sono sotto lui “Eloquenza... Arte... Sagacità, Accorgimento... Negromantia, Arte maga, Incanti, Augurii, Auspicii, Pronostichi etc.„; ed è Dio “de' Scrittori, Pittori etc.„ Tutto ciò basta, credo, a porre sotto questo segno Virgilio, che oracoleggiò del Cristo, che fu dòtto e indótto nell'Arte maga, che scrisse l'Eneida (posto che Dante non sapesse che i poeti erano viri Mercuriales), che diè prova di tanta eloquenza nel persuader Dante all'alto passo, e di tanto accorgimento nello scortarlo.[539] A proposito di che, bisogna aggiungere che Mercurio è il dio dei pellegrinaggi e de' pellegrini e de' messi e de' nunzi. Sicchè l'influsso di Mercurio giunge sino al limbo, o almeno [551] sino al nobile castello del limbo. E aggiungiamo che “induce dottrina, memoria, historie, astrologia, acume d'ingegno... speculazione di cose oscure„. Ma per avere il concetto de' ritardatari dell'antipurgatorio, di quelli che sono, specialmente, nella valletta amena, aggiungeremo, con l'Alunno, che Mercurio induce “cupidità d'impero„ e con Servio (Aen. IV 714), “lucri cupiditatem„. Ecco la mala striscia della valletta. L'ambitio glorie di Albumasar[540] spiega bene in parte la apparizione degli spiriti attivi, per l'onore e la fama, nella sfera di Mercurio. E tuttavia quelle “dottrina, memoria, historie„ dell'Alunno spiegano ancor meglio la narrazione istorica di Giustiniano; e “la natura di pronunziare ed interpretare„ di Macrobio,[541] illustra la affermazione di lui che per volere del primo Amore (Par. 6, 11) o per spirazioni di Dio (ib. 23) ordinò e ridusse le leggi. Nè sfugga come in questa spera sia un pellegrino: Romeo. E a ogni modo si interpreta in questa spera l'alto e magnifico processo di Dio nel redimere il genere umano. E grande è l'acume dell'ingegno in sciogliere tali nodi.

Venere “è Pianeta benivolo et inducitore di amicitie... Della sua influenza procede ogni musica; non solamente quella ch'è nella consonanza delle voci, ma anchora la compositione de versi„. Ecco, vede come nel ciel di Venere Dante trovi il Principe amico e benevolo che gli ricorda suoi versi. “Induce amore, e secondo gli aspetti di diversi pianeti alcuna volta pubblichi e casti, alcuna volta [552] lascivi e impudichi„. E si vede come il cerchio e il girone della lussuria corrispondano a questo cielo. Ma tuttavia, a intendere tutto il pensier di Dante, bisogna ricordare come fuoco sia quel di amore, e fuoco sia quello che lo purga; e come attraverso il fuoco si mondi il cuore, per una beatitudine, e si acquisti il vedere e il sapere, per un dono.

“Nel Sole è la virtù vivificativa, perchè nessuna cosa vive, dove non penetra la virtù del sole„. “Il Sole... eccita la virtù ch'è nelle radici, e rinova tutte le piante, e nutriscele risolvendo l'humore nella terra, e convertelo in nudrimento„. I golosi si accontentarono di questa virtù vivificativa e nutritiva, e non vollero saper dell'altra; chè “il sole influisce nell'huomo natura di sapere, e d'imaginare„ ed è secondo Albumasar, summe divinitatis contemplatio. Così Ciacco si trova nel girone corrispondente al cielo dove è Tomaso e Bonaventura. Anzi: sì Ciacco e sì, fuor d'ogni dubbio, i golosi del Purgatorio, Forese e Bonagiunta, tutta gente d'ingegno, mostrano il prevalere in loro d'una dell'influenze del sole, la vivificativa, sull'altra che pure in loro si trovava, la intellettiva e imaginativa. Quei due ultimi sono rimasti a mezza via, di qua. Dante diventò macro per quello studio che mancò a Bonagiunta e a Forese.

Marte è la guerra; ma per Dante, la guerra per la croce: il martirio. (Par. 15, 148) Tutte le armi attribuite a Marte “Spade, Brandi, Stocchi... Pugnali, Coltelli, Spuntoni etc.„ si riducono al segno in cui vinse il Cristo. (Par. 14, 125) Ora si noti che gli avari di Dante nello inferno son tutti cherci, e cherci sono quelli del purgatorio, salvo il capostipite dei re di Francia. Dovevano, dunque, esser tutti militi [553] della croce; si ascrissero anzi alla milizia, e non militarono. Sicchè come il Sole nei golosi non potè far prevalere la sua virtù intellettuale, così Marte negli avari non potè far prevalere la sua “egregia virtù in disciplina militare„.

Sotto la “giovial facella„[542] si contengono “la giustizia, le leggi e i regni„. “De gli animali se gli dedica l'aquila„. Ciò basta a illustrare il cielo Dantesco di Giove. Ma e la cornice dell'accidia, e la palude stigia corrispondenti? Gli esempi di accidiosi nel purgatorio sono di eletti a una grande impresa: gli ebrei di Giosuè e i Troiani d'Enea. Nel brago son destinati a stare come porci, gran regi. E questi e quelli sono come i chercuti militi del Cristo, che non pugnarono, ossia non obbedirono alla loro stella. Di più, nota Albumasar, da Giove viene accidenter... inconsultus rerum aggressus ac difficultatum incursus. Da Giove, dunque, veniva l'orgoglio prevolante e subito spento dello spirito bizzarro.[543]

Saturno è pianeta “malenconico„. Sotto lui, dice Albumasar, è omne melancolie genus. Così per suo influsso operarono coloro che piansero dove avevano a essere giocondi, ossia i violenti o bestiali o rei d'ira, che è preceduta sempre dalla tristezza per l'ingiuria ricevuta. Così è: in vero “non s'allegra; l'ira sua è implacabile...„. Ma c'è altro: per essere, forse, “solitario„ “produce sacerdoti, ma più Religiosi vestiti a nero e di color di terra„. Ecco dunque, sotto la medesima stella, coi violenti e iracondi, i contemplativi.

[554] Nel cielo stellato ci dobbiamo aspettare che si avveri e veda ciò che Dante diceva nel Convivio: “se tutte le precedenti virtù s'accordassero sopra la produzione d'una anima nella loro ottima disposizione... tanto discenderebbe in quella della deità, che quasi sarebbe un altro Iddio incarnato„. (4, 21) E sì, apparisce in questo Cielo il Cristo sotto la forma umana, oltre Maria e Adamo e i tre apostoli. Di più Dante qui parla di sè, per riconoscere dai Gemini “tutto, quel che si sia, il suo ingegno„; (Par. 22, 112) ingegno che così dice alto e perfetto. Qui Dante afferma, nel segreto della sua ultramondana finzione, d'essere un nuovo Cristo. In verità non discese egli negl'inferi per ascendere, come l'uomo Dio, in pro' del mondo che mal vive? Non raccolse egli l'influenze dei sette pianeti, e non ebbe egli l'aiuto dei sette Spiriti? Chè “per via teologica si può dire, che poichè la somma deità, cioè Iddio, vede apparecchiata la sua creatura a ricevere del suo beneficio, tanto largamente in quella ne mette, quanto apparecchiata è a riceverne. E perocchè da ineffabile carità vengono questi doni, e la divina carità sia appropriata allo Spirito Santo, quindi è che chiamati sono doni di Spirito Santo... Oh! buone biade! e buona e mirabile sementa!„. (ib.) Di qui Dante si volge all'aiuola che ne fa tanto feroci; feroci perchè la nostra mente mira pur a terra per via dell'invidia. (Pur. 14, 150) L'invidia è tra uguali; è la superbia nell'ambito dell'umanità; è il peccato di Caifas che in Gesù vedeva l'uomo, unus homo; è la colpa per cui s'incarnò il nemico nel serpente con la faccia d'uom giusto. Così all'invidia dell'inferno e del purgatorio corrisponde il cielo stellato con tutta l'umana [555] perfezione. In simil modo il primo Mobile in cui si mostra Dio coi nove cerchi di fuoco, e in cui si maledice al superbir di Lucifero, corrisponde alla ghiaccia immobile dove Lucifero è costretto da tutti i pesi del mondo, e alla cornice dove son l'anime angosciate dal carico che doma le superbe lor cervici. Dio quassù coi nove cori d'angeli fedeli; l'Antidio laggiù coi suoi nove cerchi di dannati, e con le sue tre teste e sei occhi, coi suoi sei occhi e tre menti, con le sue sei ali e tre venti.

Dopo il gran dì continueranno le ruote delle nove spere celesti e non si arresteranno i meandri sotterranei della Styx noviens interfusa. Questi cerchi saranno, per una indubitabile convenienza, nove, sebbene, per un'altra convenienza, non alberghino se non sette, i sette, peccati. Saranno nove. Ma l'inferno ha dieci ordini di puniti... No: in vetta al monte solitario, nella foresta antica, saranno i pii poeti filosofi ed eroi che non adorarono debitamente Dio. Saranno così veramente secreti.

XXXIX.
L'ULTIMA VISIONE

Ogni cielo ha per motore un ordine di angeli. Dante enumera le gerarchie con qualche diversità nel Convivio e nella Comedia. In questa segue Dionigi, non solo nel novero ma anche negli uffizi dei singoli ordini.

La prima e più sublime gerarchia, di Serafi, [556] Cherubi e Troni ha quest'uffizio in S. Dionigi. Il nome di Seraphim designa (mi limito alle ultime parole del periodo) “una proprietà luciforme e illuminativa che caccia e cancella ogni oscurità di tenebra„.[544] Dal comento del gesuita Croderio (commento derivato da autorità più antiche, il quale però non è assurdo citare a proposito di Dante) ricavo: “Tropologicamente, in Ezechiele, i Serafini presentano il tipo d'un'umile e pronta e cieca obbedienza, mentre, coperta la faccia e gli occhi, quasi rinunziando al proprio giudizio, e coperta la parte inferiore del corpo, per la quale si designano gli effetti, ritengono due ale spedite a volare, cioè a eseguire i divini comandi„.[545] Ricordo che le ale loro son sei: due velavano la faccia e due i piedi: le altre due erano pronte al comando. Risulta da ciò che i Serafini son simili e contrari a Lucifero il quale ha sei ali; e che son umili quant'esso è superbo. Egli non aspettò lume, e quelli ritengono la proprietà luciforme e illuminativa. Ed essi sono igne, e quello è gelo. Il nome Cherubini significa la loro virtù di conoscere e rimirar Dio; ed essi (mi limito, come sopra) “la sapienza loro donata, senza invidia derivano e trasfondono agli inferiori.„[546] I cherubini “hanno molti occhi a significare la moltitudine della cognizione„.[547] E qui ricordiamo la pena degl'invidi nel purgatorio, i quali son fatti orbi, e ricordiamo sopra tutto il facile etimo d'invidia, e ricordiamo [557] che neri cherubini son le Melebranche di Malebolge. (Inf. 27, 113) Per Dante a quel che pare, non si dannò (oltre gli angeli nè caldi nè freddi, non dannati e non beati) se non un Serafino, il più bello anzi dei Serafini, per superbia, e molti Cherubini per invidia; per superbia e invidia che sono, come ho detto, gli unici peccati di cui quelle creature spirituali erano capaci. “Il nome di Troni dinota ciò che è separato da ogni terrena bassura, senza alcuna mistione, e che è portato all'alto da divino studio... in lui che è veramente sommo, immobile sta„.[548] Ecco perchè sono i contemplanti nel cielo di Saturno cui muovono i Troni. E il nome di Dominazioni indica “la dominazione liberalmente severa, che inalzandosi sopra ogni abietta servitù e sopra ogni bassezza, libera da ogni dissimiglianza, brama incessantemente la dominazione e il principio della dominazione...„[549] Ecco il cielo di Giove, e la dominazione o signoria giusta che in quel cielo trionfa. E il nome di Virtù indica, per non dir altro, “una forte e inconcussa virilità„. Ecco il cielo di Marte, e gli imperturbabili campioni della fede, e l'inconcusso animo di Dante, apostolo della verità, che farà manifesta, checchè gliene avvenga, la sua visione tutta.[550] Le Potestà significano “un ordine senz'alcuna confusione nell'accogliere le cose divine, e una intellettuale e supermondiale disposizione di [558] potestà...; la quale con animo invitto ordinatamente si diriga alle cose divine„.[551] Ed ecco i dottori di scienza divina nel Sole, governato dalle Potestati. I Principati hanno “la facoltà di principare (per così esprimermi) e guidare in modo deiforme e con sacro ordine... e di rivolgersi totalmente al sopraprincipale principato, e condurre gli altri principalmente a quello...„[552] La ragione astrologica prevale, senza dubbio, nel cielo Dantesco di Venere, mosso dai Principati; ma Carlo Martello è un principe, e Cunizza è sorella di principe, e Folco fu vescovo. E tutti e tre parlano di “principare„ in modo buono e retto; e un d'essi, convertito appunto al sopraprincipale principato, indica ai principi uno scopo divino nelle loro umane operazioni; il conquisto di terra santa. Per gli Arcangeli udiamo il comentatore: “Arcangeli si chiamano i sommi Nunzi che annunziano le somme cose. Loro uffizio è, secondo Dionigi, rivelare le profezie: essi ancora le illuminazioni che ricevono dai superiori annunziano agl'inferiori, e mediante loro, a noi„. Sappiamo che cosa apprenda da Giustiniano e poi da Beatrice Dante nel ciel di Mercurio. Di più: “secondo Gregorio, il loro uffizio [559] è far consapevoli gli uomini delle cose che pertengono alla promozione della fede, e de' principali misteri, come la Natività del Cristo, e simili...„. Il corso dell'aquila e la vendetta della vendetta son certo di tali cose che gli arcangeli annunziano! Gli angeli, infine, “toccano le cose più evidenti e mondane„.[553] Da ciò non indurremmo la convenienza che Dante sentì di farli presiedere alle vergini sorelle che mancarono forzatamente ai loro voti (sebbene tornano al mondo!). Questa convenienza la induciamo da alcuno dei dodici ministeri, per es. rimuovere gl'impedimenti del loro bene e le occasioni del male; aiutare contro i nemici visibili; eccitare al fervore (la volontà, se non vuol, non s'ammorza! Par. 4, 76); consolare (Dio sa qual fu la vita di Piccarda! Par. 8, 308); rintuzzare le potenze contrarie, “affinchè non possano tanto nuocere quanto vogliano„.[554]

Ma l'uffizio generale di tutti gli angeli è, come Dante afferma nel Convivio, speculare e contemplare Dio, cioè la Maestà Divina in tre persone. (Co. 2, 6) Gli ordini angelici, egli ammonisce, sono primi o secondi o terzi “quanto al nostro salire a loro altezza„. Ora Dante sale, nel suo paradiso, via via a ognuna delle loro spere, cioè contempla, con loro e come loro, Dio ossia la Trinità. E contemplare la Trinità è quella massima beatitudine a cui Dante arriva dalla “miseria„ sua umana. E ci arriva a grado a grado, per le nove sfere, mosse da nove ordini d'angeli, che contemplano nel modo che egli assegna nel Convivio.[555]

[560] “Si può contemplare la potenza somma del Padre, la quale mira la prima Gerarchia (Serafini, Cherubini e Troni), cioè quella che è prima per nobiltade, e che ultima noi annoveremo: e puotesi contemplare la somma sapienza del Figliuolo; e questa mira la seconda Gerarchia (delle tre dee, Dominazioni, Virtudi e Potestati): e puotesi contemplare la somma e ferventissima carità dello Spirito Santo; e questa mira la terza Gerarchia (Principati, Arcangeli e Angeli), la quale più propinqua a noi porge delli doni che essa riceve. E conciossiacosachè ciascuna Persona nella divina Trinità triplicemente si possa considerare, sono in ciascuna Gerarchia tre ordini che diversamente contemplano. Puotesi considerare il Padre, non avendo rispetto se non ad esso, e questa contemplazione hanno li Serafini, che veggiono più della prima Cagione, che alcun'altra Angelica natura. Puotesi considerare il Padre, secondochè ha relazione al Figliuolo, cioè come da lui si parte, e come con lui si unisce, e questo contemplano li Cherubini. Puotesi ancora considerare il Padre, secondochè da lui procede lo Spirito Santo, e come da lui si parte, e come con lui si unisce; e questa contemplazione fanno i Troni. E per questo modo si puote speculare del Figliuolo e dello Spirito Santo„. (Co. 2, 6) Poniamo ora tutti questi modi, con vicino il loro cielo e i loro ordini d'angeli.

[561]

Luna: Angeli carità dello S. S. [556]. . . . . . . .
Mercurio: Arcangeli . . . . . . . .
Venere: Principati . . . . . . . .
 
Sole: Potestati sapienza del F. . . . . . . . .
Marte: Virtudi rispetto al F.
Giove: Dominazioni . . . . . . . .
 
Saturno: Troni potenza del P. in relazione allo S. S.
Cielo Stellato: Cherubini in relazione al F.
Primo Mobile: Serafini rispetto al P.

Osservo, prima di tutto, che dei trentatrè canti del paradiso sono assegnati alle prime tre sfere, nove, più parte del decimo; alle seconde tre, il resto del decimo e gli altri sino al vigesimo; alle ultime tre i canti del vigesimo primo al trigesimo non intero; chè al verso 38 Dante è nell'Empireo. Per quanto la divisione non sia netta, possiamo arguire che il Poeta ha dato a ognun de' tre ternari, un dieci, numero perfetto, serbando per l'Empireo una triade di canti. Ed è notevole che nel ternario mediano di sfere, risuonano tre volte le tre voci Cristo, Cristo, Cristo; la prima nel Sole (12, 71), la seconda in Marte, (14, 104) la terza in Giove. (19, 104) E notevolissimo è poi che de' tre ultimi canti, che avanzano alle tre decine, quello di mezzo, ossia il trigesimo secondo, contenga di nuovo le tre voci. (32, 83) E in quel regno centrale del Sole Marte e Giove, [562] dove fiammeggia la croce dei combattenti, tra la corona de' savi dottori e l'aquila dei giusti regnatori, Dante è chiamato Figlio dal suo tritavolo e da lui fatto imperturbabile nella sua divina missione. Sol chi consideri questi più sacri segni che parole, queste imagini di luce in cui Dante, come i suoi beati, luminosamente s'asconde, potrà stupire avanti quell'abisso di grandezza consapevole, che era l'anima dell'esule fiorentino.

Per quanto i singoli ordini contemplino specialmente una persona rispetto all'altra, contemplano però sempre la Trinità in due persone o in una sola delle tre. Onde la menzione, espressa o implicita, della Trinità da per tutto.[557] Anche qui è da considerare come la lauda della Trinità sia tre volte nel paradiso: la prima (13, 26) e la seconda (14, 29) nel Sole, e la terza volta, più solenne,

Al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo
cominciò gloria tutto il Paradiso,

nel cielo delle stelle; e appunto al principio del canto vigesimo settimo: tre volte nove. Premesso questo, ricordiamo che in ognuna delle sfere è un dono dello Spirito. Ora io congetturo che la gloria della Trinità sia cantata in quelle sfere appunto in cui essendo la contemplazione delle due prime persone, elleno facciano insieme con lo Spirito che è presente col suo dono, la Triade. Così, vediamo che nel primo ternario [563] in cui è la contemplazione dello Spirito, la Triade a questo modo non può formarsi. Si formerà dunque nel Sole, che conterrà quindi la contemplazione del Figlio in relazione con la potenza del Padre, come è nel Cielo stellato che contempla il Padre col Figlio. Così possiamo aver intero l'ordine con molta probabilità.

PM. Serafini Pot. del P. rispetto al P. Spirito di timore
CS. Cherubini col F. Spirito di pietà P.F.SS.
Sat. Troni con lo SS. Spirito di scienza
 
Giove. Dominazioni Sap. del F. con lo SS. Spirito di fortezza
Marte. Virtudi rispetto al F. Spirito di consiglio
Sole. Potestadi col P. Spirito d'intelletto F.P.SS.
 
Ven. Principati Car. dello SS. col P. Spirito di sapienza
Merc. Arcangeli col F. Sermo scientiae
Luna. Angeli rispetto allo SS. Sermo sapientiae

Nel cielo della Luna e degli Angeli, deve contemplare lo Spirito in sè stesso. Dice invero: (Par. 1, 73)

S'io era sol di me quel che creasti
novellamente, Amor che il ciel governi
tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti.
Quando la rota che tu sempiterni
desiderata, a sè mi fece atteso,
con l'armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
dalla fiamma del sol...

Poi Beatrice esclama: (ib. 2, 29)

Drizza la mente in Dio grata...
che n'ha congiunti con la prima stella.

[564] L'amore lo levò, Dio lo congiunse: come a dire, lo Spirito è Dio. Beatrice è in questo cielo chiamata, (ib. 3, 1)

quel sol che pria d'amor mi scaldò il petto;

e amanza del primo amante, (4, 118) ed è piena di faville d'amore. (ib. 139) Piccarda alla domanda del Poeta, risponde subito: (3, 43)

La nostra carità non serra porte
a giusta voglia...

e soggiunge:

li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer dello Spirito Santo...

e aggiunge: (ib. 70)

Frate, la nostra volontà quieta
virtù di carità...[558]
essere in caritade è qui necesse...
divina voglia...
allo re che 'n suo voler ne invoglia...
In la sua volontade...

Infine Piccarda conclude cantando la salutazione dell'angelo alla sposa dello Spirito. (ib. 121) E sempre è qui la nota del desiderio di sapere e del caldo d'amore e della luce. E infine gli spiriti di questo pianeta macchiato sono tali in cui la volontà un poco [565] s'ammorzò, e della libertà del volere si ragiona. Ora la volontà è in noi ciò che lo Spirito è nella Triade. E si menziona la mala cupidigia, ben diversa da quella che fa cupido l'ingegno di Dante: (ib. 5, 79 e 89) ora cupidigia mala è quella che si liqua in volontà ingiusta, e la buona, cioè il retto amore, in volontà benigna.

Nel secondo regno del cielo, mosso degli Arcangeli, si contempla lo Spirito col Figlio. Lume, grazia, desio, ardore sono nel cielo di Mercurio. Giustiniano si nasconde nel suo raggio; (ib. 5, 136) e parla dell'aquila, che è molto affine alla colomba dello Spirito, dell'aquila che altra volta noi vediamo scendere con penne d'oro, e terribile come folgore; (Pur. 9, 20) e dice di sè: (ib. 6, 41)

per voler del primo Amor ch'io sento
dentro alle leggi trassi il troppo e il vano.

Questo, per lo Spirito: o il Figlio? Giustiniano dice che l'aquila romana ebbe la gloria di far la vendetta di Dio, sottomettendo al suo potere il suo Figlio. Il che Beatrice dichiara, ragionando a lungo della redenzione, per la quale il Verbo di Dio (ib. 7, 3)

la natura che dal suo Fattore
s'era allungata, unio a sè in persona
con l'alto sol del suo eterno amore.[559]

Nel cielo di Venere e dei Principati si contempla lo Spirito col Padre. Lo sfavillare, l'ardore, il cielo e l'amore crescono. Gli spiriti nella luce sono come il baco nel bozzolo di seta. Tutto quel vedere e mostrare, [566] onde risulta che qui è lo Spirito di sapienza, indica che qui è anche la contemplazione dello Spirito Santo. Ora il vero, che il pien d'amore principe d'Angiò mostra a Dante, qual è? (Par. 8, 97)

Lo Ben che tutto il regno che tu scandi
volge e contenta, fa esser virtute
sua provedenza in questi corpi grandi.

Questo Bene è la prima persona della Trinità, è il Padre, ossia la Potestà o Virtù; e Carlo Martello dichiara come essa Virtù si deleghi, per così dire, ai cieli. E in altri modi ha il Poeta significata la contemplazione dell'amore in relazione alla podestà. Non sono qui nominati sì i Troni e sì i Serafini che sono del primo ternario e contemplano il Padre nello Spirito, i primi, in sè stesso, i secondi? (Par. 9, 61, 77) Non si nomina reiteratamente il “Valore ch'ordinò e provvide„? (ib. 105)

Salendo al Sole, che è delle Podestadi le quali contemplano la sapienza del Figlio in relazione con la potenza del Padre, il Poeta esclama: (ib. 10, 1)

Guardando nel suo Figlio con l'Amore
che l'uno e l'altro eternalmente spira,
lo primo ed ineffabile Valore,
quanto per mente o per occhio si gira
con tanto ordine fe...
Leva dunque, lettore, all'alte rote
meco la vista...
E lì comincia a vagheggiar nell'arte
di quel Maestro, che dentro a sè l'ama
tanto che mal da lei l'occhio non parte.

Così si forma il concetto della Trinità. Dio con sapienza [567] tutto ha disposto, e ama l'opera sua sapiente:[560] ossia guarda nel Figlio (che è la Sapienza) con Amore (che è lo Spirito Santo). E comincia un trattato su codest'arte del Maestro, di cui il Sole è ministro maggiore, (ib. 28) e a questo concetto si unisce quello dell'amore, tanto che Beatrice è dimenticata. (ib. 59) E S. Tomaso parla a Dante, ricordando (ib. 83)

lo raggio della grazia, onde s'accende
verace amore, e che poi cresce amando...

Dante vuol sapere e non ha bisogno di dire che cosa. Spiriti sapienti sono a lui mostrati, e tra gli altri il più sapiente degli uomini. Ma più rifulge il concetto della Sapienza nell'Amore, e più si mostra l'ingegno di Dante che l'esprime, nell'elogio de' due Principi, ordinati in favore della Sposa del Cristo. Udite: (Par. 11, 37)

L'un fu tutto Serafico in ardore,
l'altro per sapienza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.

Ebbene lodando l'uno, si loda anche l'altro. La nota dell'amore accompagna sempre Francesco, (ib. 63, 74, 77, 114) il quale pure è assomigliato a Gesù (ib. 107) che è la Sapienza. E pien di amore è raffigurato Domenico (ib. 12, 55, 61), il quale è pur il sapiente de' due. (ib. 58) Ecco, invero, risuonare le tre grida: Cristo! Cristo! Cristo! (ib. 71) Così in lui s'intrecciano le due idee d'amore e di sapienza: (ib. 74)

[568]

il primo amor che in lui fu manifesto
fu al primo consiglio che diè Cristo...
per amor della verace manna
in picciol tempo gran dottor se feo.

Ed è da notare che l'elogio dell'amoroso è pronunziato da un sapiente, e quello del sapiente da un amoroso. Inoltre il dubbio risolto da S. Tomaso si appunta sulle generazioni, che, amando, fa Dio; (ib. 13, 52) sulla sapienza che non si disuna dal Padre e dell'Amore. Ed è fatto intelligibile il mistero della relazione della Sapienza e dell'Amore, con le parole, che l'ardore seguita la visione, ossia quanto più s'ama, più si vede o sa. (ib. 41) E si conclude: (ib. 76)

O vero sfavillar del Santo Spiro,
come si fece subito e candente
agli occhi miei che vinti nol soffriro!
Ma Beatrice sì bella e ridente
mi si mostrò....

(Beatrice è la Sapienza). E qui dunque le tre Persone si ritrovano tutte e tre: e così risuona il canto mistico: (13, 25)

Lì si cantò non Bacco, non Peana,
ma tre Persone in divina natura,
e in una persona essa e l'umana;

e l'altro: (14, 28)

Quell'uno e due e tre che sempre vive,
e regna sempre in tre e due e uno,
non circoscritto, e tutto circonscrive.
tre volte era cantato da ciascuno
di quegli spirti...

[569] La stella affocata è mossa dalle Virtudi che contemplano la Sapienza del Figlio nel Figlio. Ecco invero la croce, ecco le tre voci, Cristo! Cristo! Cristo! (ib. 95, 104) In questo cielo dedicato al Figlio, Dante è chiamato figlio, è abbracciato, lodato, istruito, consigliato, confortato come figlio. In questo cielo della Sapienza, la Sapienza personificata in Beatrice lo regge nelle sue domande che altrove fa da sè o nemmeno esprime. Qui la Sapienza medesima arride un cenno a Dante, (ib. 15, 71) prima che parli; ride, quando incomincia col voi romano (ib. 16, 14); gli dice che parli e gli soggiunge il perchè deve parlare; che è un savio perchè; (ib. 17, 7) onde Dante si rivolge all'ultimo ancora a destra (a destra, notiamo) per vedere il suo dovere in Beatrice. (18, 52) Inoltre i discorsi di Cacciaguida sono un piccolo (o grande e grandissimo) libro di Sapienza, applicata alla Terra nativa di lui e di Dante. Infine, ciò che più monta, qui si dirime vittoriosamente il contrasto tra la Sapienza e la Ventura o Fortuna, la quale non può prevalere contro la sua contraria. (16, 84; 17, 24 e 26) Dante è amico di Beatrice, che qui gli accenna, gli ride, gli suggerisce, “e non della Ventura„.[561] Nel Verbo del suo trisavo il Figlio si acqueta, “tetragono ai colpi di ventura„.

Giove è delle Dominazioni che contemplano la Sapienza del Figlio rispetto alla carità dello Spirito. Anche qui risuonano le tre voci, Cristo! Cristo! Cristo! (Par. 19, 104) Continua qui, per così dire, il liber sapientiae, di cui le prime parole sono scritte dai beati coi loro stessi splendori: Diligite iustitiam [570] qui iudicatis terram. Questo per la Sapienza. Ora vediamo per lo Spirito Santo. Nella giovial facella è l'Aquila che è figurazione connessa allo Spirito Santo, e l'Aquila è composta di molti amori, (19, 20) ed è contesta “di laude della divina grazia„ (ib. 37), anzi “di lucenti incendi dello Spirito Santo„ (ib. 100); e il dolce amore ardeva (20, 13)

in quei flavilli
ch'aveano spirto sol di pensier santi;

e poi si sente “un mormorar di fiume„; e dell'aquila la pupilla è “il cantor dello Spirito Santo„. In tanto teniamo per fermo che se il primo ternario è dell'Amore, il secondo è della Sapienza, cioè di Cristo! Cristo! Cristo! tre volte ripetuto. La croce scintilla nella sfera di mezzo di questo ternario. Nella sfera di mezzo la Sapienza vince la Fortuna. E la corona dei dotti di scienza divina precede, e l'aquila dei re giusti segue il segno in cui si vince.

Saliamo in Saturno, che è dei Troni che contemplano il Padre con lo Spirito. Essi sono gli specchi in cui rifulge Dio giudicante. (Par. 9, 61) E Dante deve diventare un Trono anch'esso: (ib. 21, 16)

Ficca dietro agli occhi tuoi la mente,
e fa di questi specchio alla figura
che in questo specchio ti sarà parvente.

Ora si osservi il predominio, dirò così, del Padre, nella contemplazione di questa sfera contemplativa, in cui tacciono i canti e Beatrice non ride; si legga: (ib. 83)

Luce divina sopra me s'appunta...
La cui virtù con mio veder congiunta
mi leva sovra me tanto, ch'io veggio
la somma Essenzia...

[571] Ora l'unione con lo Spirito. Il contemplante scende giù dalla scala per tanto e tanto amore; (ib. 67 sg.) amore che è libero e segue la provvidenza eterna. (ib. 74) L'alta carità lo fa servo con gli altri (ib. 70): egli è un amore; (ib. 82) e parla di Cephas e del gran vasello dello Spirito Santo. (ib. 127) E un altro parla della carità che arde tra loro. (ib. 22, 32)

Siamo tra le gloriose stelle. Ivi sono i Cherubini che contemplano la Potenza del Padre nella Sapienza del Figlio. Ecco le schiere del trionfo di Cristo! (ib. 23, 20) Quivi è la Sapienza e la Possanza! (ib. 37) Dante è fatto possente a sostenere lo riso di Beatrice, cioè la dimostrazione della Sapienza. (ib. 47) E apparisce, per la ragione sopra detta, anche lo Spirito, in quell'amore angelico che gira intorno a Maria; (ib. 103) e si parla qui come altrove, della larga ploia dello Spirito Santo, (24, 91) e di coloro che furono fatti almi dall'ardente Spirto. (ib. 138) E si canta gloria (27, 1)

al Padre al Figlio allo Spirito Santo.

Finalmente si sale al primo Mobile, dove sono i Serafini che contemplano il Padre nel Padre. Già a ciò era Dante preparato dalle parole di Adamo che gli aveva detto come il Sommo Bene si appellasse in terra: I. (Par. 26, 134) Ma poi ecco espressa la grande unità: (ib. 27, 106)

La natura del moto che quieta
il mezzo, e tutto l'altro intorno muove,
quinci comincia come da sua meta.

Ma trina è quest'unità, e subito perciò sono nominati [572] la luce e l'amore. (ib. 112) E ritorna a splendere l'I sommo e unico: (ib. 28, 16, 36)

Un punto vidi...

Ma il punto è uno e trino: raggia lume, e il lume affoca: luce e amore. Intorno all'uno si aggirano i nove cerchi d'angeli, distribuiti ne' tre ternari della potenza, della sapienza e dell'amore. Nel primo Mobile Dante coi Serafini, che è il cerchio che più ama e più sape, contempla l'unità di Dio, che pure è trino: (29, 142).

Vedi l'eccelso omai e la grandezza,
dell'eterno Valor, poscia che tanti
speculi fatti s'ha, in che si spezza,
uno manendo in sè, come davanti.

E Dante è nell'Empireo. Vede l'alto trionfo del regno verace: vede la rosa, vede il convento delle bianche stole. Un gran seggio è preparato per l'imperatore; per l'uno in terra. (Par. 30) Restano i tre canti ultimi. Dante s'apparecchia alla visione ultima, a cui è salito a mano a mano: deve vederla “la trina luce in unica stella„. (31, 28) Beatrice non è più presso lui. C'è un sene, che sembra un tenero padre e gli parla come a figlio. È mandato da amore (31, 16) e da carità. (ib. 110) Mostra a Dante (nel canto 31) Maria tra più di mille angeli, raggiante un caldo calore; (ib. 140) e la disposizione dei beati (nel 32), secondo che credettero in Cristo venuto o venturo, in Cristo il cui nome tre volte risuona (ib. 83); e finalmente, dalla Vergine gli impetra la suprema visione della luce eterna. (nel 33)

[573] Negli ultimi giorni della sua vita Dante scriveva queste ultime parole. Si credè che il paradiso ch'egli chiamava il suo peana, non lo avesse compito: Vulnere saevae necis stratus ad sidera tendens.[562]

Gli ultimi tredici canti, in verità, non si trovarono sulle prime. Appunto s'era fermato, essi credettero, avanti il cielo della contemplazione o di Saturno, (il 21) che inaugura la terza parte della cantica, la parte più altamente e meramente contemplativa, la parte che comprende il cielo delle stelle, medio tra Saturno e il primo Mobile. Appunto appunto mancava all'ultimo lavoro, ispirazione ineffabile del buon Apollo, la salita ad sidera. Ma egli l'aveva compiuta questa cantica, che abbiamo veduta procedere per decine, più il ternario ultimo: egli aveva compiuto il poema sacro che, in verità, come nella sua misteriosa canzone s'aspettava, lo fece morire,[563] e non lo ricondusse, come egli nel poema sperava, al bell'ovile della sua patria.

[574]

XXXX.
LA DIVINA COMEDIA

Nella sua prima giovinezza, “passando... per un cammino lungo lo quale sen gìa un rivo chiaro molto„, (VN. 19) chè può ben essere il “fiumicel che nasce in Falterona„, (Pur. 14, 17) e non differire dal “fiume bello e corrente e chiarissimo„, (VN. 9) lungo il quale gli era già apparso Amore peregrino; Dante concepì un suo primo disegno di ciò che fu la Comedia; la quale fu richiamata al pensiero, e così disegnata come ella è, più di venti anni dopo, iuxta Sarni fluenta,[564] cioè lungo il medesimo fiume d'allora. E quest'ultima circostanza spiega benissimo, come a un tratto, quasi in un baleno, negli stessi luoghi a lui venisse la stessa ispirazione.[565]

Il primo disegno era questo. Dante ispirato dalle confessioni di S. Agostino, il quale narra come di buono divenisse cattivo e di cattivo tornasse buono e migliore e ottimo,[566] imaginava o narrava d'essere stato ingannato, nella sua adolescenza, dall'amore, incolpevole, sementa come d'ogni virtù così d'ogni vizio, e d'essere stato distolto di amar Beatrice; e poi di ritornare a lei pentito.[567] Per mostrare che [575] l'amore è passione incolpevole, mentre è colpevole chi male ama e disama, il Poeta adolescente faceva che Amore stesso, mal vestito e vergognoso ed errante, desse prima il consiglio cattivo, e poi il rimprovero o il compianto d'averlo seguito. Per mostrare che ell'erano false imagini di bene, cioè simulacra d'amore, Dante fingeva che il suo nuovo amore (vero o non vero che in sè fosse) fosse un amor simulato. Ora Dante si pentiva e tornava alla sua Beatrice.

Beatrice o Bice era veramente una fanciulla fiorentina ch'egli amò sin da bambino. L'amò invero come si ama, desiderando e sognando,[568] struggendosi e adorando.[569] Ella era una donna reale; che se tale non era, egli non aveva bisogno di fingere ch'ella morisse, quando per il suo disegno poetico e filosofico ebbe necessità di tal morte: poteva narrare ch'ella era morta.[570] E invece fu la vera morte di lei che interruppe quel disegno primo!

Bice era una donna reale, ma a Dante negata o vietata. E Dante allora trasfigurò, ispirandosi a un'altra opera di S. Agostino (ai libri contro Fausto il qual Fausto è ricordato nelle Confessioni), in Sapienza o Speranza dell'eterna contemplazione.[571] Essa, la Rachele del patriarca, non si può vedere, se non morendo, se non liberandosi del grave involucro corporeo.[572] E così Dante in due canzoni, che [576] di quel primo disegno ci rimangono, cantava, nella prima, come Beatrice fosse codesta speranza, per cui l'uomo si salva, nella seconda, come egli avesse sognato ch'ell'era morta e che esso moriva, raggiungendo così la sapienza. Queste canzoni, specialmente, se non esclusivamente, costituivano le nove rime scritte con dolce stil nuovo o bello stile, che gli fece onore, e ch'egli dedusse dallo studio dei poeti regolari e grandi.[573] E poichè questi un verace intendimento filosofico (e in ciò stava la loro eccellenza) solevano coprire d'una vesta di figura o colore retorico, anch'esso d'una simil vesta copriva un intendimento profondo, pieno di mistero. Dalle poesie e prose (ma meglio dalle poesie) che nel libello giovanile precedono e seguono le due canzoni Donne che avete e Donna pietosa, s'inducono altri particolari di questa cotal tragedia che Dante non compiè. Nella via della contemplazione, nella quale s'entra morendo, Dante era probabilmente guidato da Amore, da quell'amore che gli si mostrava ora in figura di un signore di pauroso aspetto in mezzo a una nebula di colore di fuoco, con nuda tra le braccia la sua fanciulla, ora come peregrino leggermente vestito di vil drappi, ora come un giovane piangente vestito di bianchissime vestimenta: era guidato da Amore a impetrare il perdono della donna amata. Incontrava, forse, in questo cammino prima Giovanna la precorritrice, ossia la Primavera, che è l'Arte che prima verrà della Sapienza. Dopo, avrebbe veduta, uscito di sè, [577] la Beatrice. Ciò nel suo anno vigesimo quinto, nel 1290, quand'egli stava per lasciar l'età adolescente. Il suo traviare, vero o non vero, era avvenuto a mezzo, presso a poco, del cammino della sua vita nuova. E così avrebbe mostrato (questo era il verace intendimento delle Rime nove) che facilmente nell'anima semplicetta si torce il tallo o appetito sensitivo, il quale, se non si raddrizza o riferma nella sua stagione, fa che il seme, quanto si voglia buono, dia amari frutti nella vita. Ma quest'argomento non era una mera speculazione astratta e nemmeno un trattato puramente morale: Dante s'ispirava già al Liber Sapientiae, e certo, a esempio di quel libro che è in persona d'un re e si volge ai giudici della terra, egli voleva insegnare al mondo come governarsi per essere felice.

Quando, Beatrice morì, e la Tragedia restò a mezzo. Dante che per la necessità del suo soggetto aveva finta poetando la morte di Beatrice e la sua (e con ciò le sue rime erano usate di portar letizia), ora pianse la morte vera, e su quella non seppe più accomodare la sua ultro-umana concezione. E pare che del suo intendimento morale e politico volesse fare un trattatello in latino, con istile biblico, una specie di Liber Sapientiae, ispirato profeticamente, rivolgendosi ai principi della terra, a cui si rivolge Salomone e di cui parla Geremia.

Non corre molto tempo; e Dante, nel 1292 o giù di lì,[574] mette insieme il suo libello, accogliendovi, delle rime fatte sino ad allora, alcune, e vigliandone altre: il tutto collegando con un racconto e [578] comento in prosa. Ciò perchè aveva riconcepito il suo primo disegno. Invero gli s'era presentata una Mirabile Visione, per la quale narrare degnamente, molti anni occorrevano e molto studio. In tanto mettendo insieme quelle prime poesie e collegandole e lumeggiandole con quella prosa, segnava l'antefatto del futuro poema. Il quale non differiva gran che, nel suo principio essenziale, da quel che fu la divina Comedia e da quel che doveva essere la giovanile Tragedia. Beatrice era morta (nella Tragedia la morte si fingeva) veramente. Dante, dopo averla pianta, si commoveva della pietà che una Donna gentile mostrava per lui. Dopo un traviamento, così leggero così attenuato come quel primo o quei primi, che erano amori simulati e schermi e difese, cioè simulacra, cioè imagini di bene false; dopo un traviamento così scusabile, perchè ispirato da non altro che pietà, sentimento buono se altri mai; Dante tornava, in pianto, a Beatrice morta, e la vedeva beata in cielo. Il traviamento fu vero? la Donna gentile era una donna reale? È lecito dubitarne. Si ispirava Dante, anche questa volta, alle Confessioni, e anche questa volta voleva trattare di quel decisivo torcersi del tallo. Questa volta poneva la crisi dell'anima sensitiva alla fine dell'adolescenza o meglio al principio della gioventù; un anno dopo la morte della gentilissima. Ritornava in sè quasi subito, alla fine del terzo novennio della sua vita.[575] Poichè nel libello, che è come un proemio alla futura Comedia, introduce anche i traviamenti primi, avvenuti in vita di Beatrice, si può arguire che, seguendo in parte [579] Agostino che a diciott'anni è preso d'amore per la sapienza e poi per un novennio è sedotto e seduce,[576] dei tre novenni assegnasse uno alla puerizia incosciente, un altro alla bontà, il terzo alle seduzioni, finchè la morte di Beatrice lo fa tornare in sè, non senza un ultimo traviamento, il più inescusabile e più doloroso di tutti, perchè a Beatrice, con la morte, era cresciuta bellezza e virtù.

E si diede dunque, più fervorosamente, allo studio, e più che mai risolvè nel suo cuore di dar la vita alla contemplazione, non all'azione.[577] Studiò, segregato dal mondo, trenta mesi. Nel 1295 abbandonava la via sino ad allora seguìta, rinunziava al proposito fatto e confermato, e si metteva nella via della vita civile o del mondo, la quale di lì a qualche anno doveva imparare a sue spese che non era la via vera per lui. Forse ebbe qualche momento nell'incamminarvelo l'apparizione fastosa e leggiadra di Carlo Martello in Fiorenza e la benevolenza di quel principe per Dante. Il fatto è che Dante, dandosi alla politica, metteva da parte la Mirabile Visione. Del libello giovanile, già pubblico, faceva quasi ammenda, scrivendo la canzone Voi che intendendo.[578] In essa esprime il concetto che una vera donna (cioè domina) lo consola della perdita di Beatrice e lo attira a sè: è, anagogicamente, la Madonna, allegoricamente, la Filosofia. Anche Beatrice egli aveva rappresentata e come Madonna (una specie di Madonna) e come Sapienza. E qui dunque contradice il suo primo libello, e toglie alla morta la sua aureola [580] mistica, lasciandole peraltro il suo pallore di carne che palpitò. Continua a poetare giovandosi degli studi fatti; ma la rinunzia alla vita attiva, che è la pietra angolare della Comedia, egli naturalmente non la canta più. Adoperando ad altro fine i materiali preparati per quell'edifizio, mostra di non volerlo inalzare più il monumento mistico del pensiero medioevale.

Invece egli si dà a scrivere canzoni sulle virtù morali necessarie alla vita civile,[579] facendole precedere da una triade, che significa l'abbandono delle rime d'amore e cancella così nella Vita Nova tutto il significato filosofico e mistico ch'ella aveva ed ha.

Nel cammino della vita attiva Dante trovò ben presto la lupa, cioè la superbia invidia e avarizia de' suoi avversarii, gente avara invidiosa e superba; cioè i lupi che facevano guerra all'ovile della sua patria. Fu bandito, andò ramingo, divenne vile agli occhi degli uomini tra cui s'avveniva. Per non perder vita, per non trapassare come non nato, per non essere oscuro come i più, arbori e pietre piuttosto che uomini, cominciò dopo alcuni anni d'esilio, a raccogliere le canzoni che aveva scritte, di rettitudine, e a fare e disegnare le altre e incorniciarle (come aveva fatto per le dolci rime di amore) in un vero trattato di vita attiva. Nel frattempo, in latino (quasi, oltre che per altre ragioni, a mostrare che in latino sapeva pur comporre) componeva il trattato di Eloquenza volgare, col quale giustificava il suo Convivio volgare e gli procacciava onore e [581] lode. La Mirabile Visione era dimenticata.[580] Ma e il Convivio volgare e il trattato latino restarono a mezzo. Questi due libri, cospirando insieme, dovevano farlo vivere nell'estimazione delle genti e impetrargli il ritorno in patria. Il ritorno in patria, ora, gli era fatto sperare da un avvenimento di pace: dalla discesa di Arrigo imperatore che calava a conciliare le fazioni e raddrizzare i torti e cancellare i peccati. Dante pose mano al suo alto stile latino, e cominciò a scrivere i libri de Monarchia.[581] Breve illusione! Tutto si sommuove in Italia avanti l'imperatore della pace; Fiorenza gli si oppone fieramente. E Dante che ha scritte epistole, a mano a mano più severe; che ha implorato, sgridato, minacciato, maledetto; ridottosi alla fonte dell'Arno, nell'aspettazione ogni dì più ansiosa di scendere lungo quella corrente e rivedere il suo bel S. Giovanni, sente che l'imperatore è morto e che la patria, la quale pochi anni prima confidava di muovere con la sua dottrina e gloria, e ora sperava di forzare con l'armi dell'imperatore, spronato dai suoi consigli e dai suoi rimbrotti; la patria, da lui offesa e a lui divenuta ora più ostile che mai, non gli si sarebbe aperta forse più mai per accoglierlo nel suo dolcissimo seno.

E allora lungo quel fiume da lui detto anche fiumicello (e perchè non anche rivo?), gli riapparisce la Mirabile Visione di prima del 1290, la visione, veduta forse andando armato ver Campaldino, la visione ch'egli rivide nel piangere per Beatrice morta [582] e disamata e riamata. Una donna gli apparve come folgore: la divina Comedia. Seguì un tuono pieno di terrore. Egli ne vide, in un lampo, la forma e la sublimità e la gloria: ne sentì, nel lungo e terribile tuono, la difficoltà lunga e terribile. Ciò dunque nel 1313 avanzato.[582]

Se fin qui non raggiungemmo se non il verisimile, di qui innanzi siamo nel vero e nel certo. Dato il concetto fondamentale della Comedia, che è la rinunzia alla vita attiva, resa impossibile dalla lupa, dato che la Comedia è l'attuazione stessa di quel proposito, di lasciare il mondo e darsi a Dio; la Comedia è dunque la conclusione della vita di Dante. E tale si dimostra con un fatto irrefutabile, che in un epitafio, composto per il suo monumento, è scritto ch'egli morì (e vulnere saevae necis si deve interpretare, impensatamente e acerbamente) mentre scriveva il paradiso.[583] E chi compose l'epitafio era tale, per familiarità col Poeta, che si può ben essere certi ch'egli attesta quel primo dubbio, quella prima ansia, quel primo rammarico de' figli e di tutti, che il gran morto non avesse compiuta la grande opera.[584] Il che è confermato da una notizia che abbiamo da Dante stesso, ch'egli nel 1319, due anni perciò avanti la morte, era al principio del paradiso, il quale, perciò, non era meraviglia non si trovasse compiuto due anni dopo. E questa notizia è certissima e liquidissima. Dante riceve un'epistola in versi latini da Giovanni del Virgilio, il quale con essa vuol indurlo [583] a scrivere in latino per i dotti. Risponde con un'ecloga pastorale, in cui, per convenienza di stile, trasforma l'espistola del Bolognese in modulamina e lui stesso in mandriano di bovi, mentre sè pone in figura di pastore di pecore. Tutto dice che Dante ha nel pensiero l'ecloga X di Virgilio e il verso: Nec te poeniteat pecoris, divine poeta. Tutto porta a concludere che tra il mandriano di bovi e il pastore di pecore è la proporzione che tra poeta latino o grande o regolare, e rimatore volgare; non quella che tra grande e piccolo nella medesima poesia latina. Se fosse così, in quest'ultimo modo; poichè la finzione pastorale varrebbe a indicare per l'un de' due, cioè per Dante, anche il proprio genere di poesia latina ch'egli vuol coltivare e coltiva, cioè la poesia latina bucolica; la finzione pastorale dovrebbe valere anche per l'altro, cioè per Giovanni: a indicare che cosa? un genere pastorale più elevato? bovino e non ovino? Ma il maestro Bolognese non aveva mandato all'esule Fiorentino un saggio di poesia pastorale o mandriale; sì di poesia latina in genere, o di sermo, anzi epistola, in ispecie. E perciò se chiamar mandriano di bovi Giovanni non è affermarlo poeta bucolico, ma latino, così chiamar sè pastor di pecore non è affermarsi poeta bucolico, inferiore o no, ma volgare. Inoltre chiaramente Dante allude nella sua ecloga al peana con cui comincia il paradiso e che riecheggia a principio del canto XXV, del canto della speranza per cui fu salvo. Perciò è certo che a Giovanni, ammiratore di lui e delle prime due cantiche del poema volgare, a Giovanni che tuttavia chiedeva a Dante qualcosa di più alto e più negato al volgo e più cònsono alla grande arte degli antichi, egli prometteva [584] l'ultima cantica del poema sacro, con la quale il Poeta, chiaramente a principio del primo canto e del vigesimo quinto, pronunziava ch'egli aveva attinte le cime dell'arte e aveva guadagnata la fronda peneia e il nome di poeta.

E questa vecchia interpretazione diventa più che mai indubitabile, quando si consideri che nell'ecloga è detto come Dino Perini non sappia di latino, almen tanto da leggere da sè la epistola di Giovanni del Virgilio, la cui poesia (di mandriano di bovi) è separata dal vulgo mediante l'alveolus che solo chi sa di latino può passare. Ma l'ovis del pastore di pecore, questa sì, è conosciuta dall'umile amico; dunque non è un'ovis latina. Oh! ella è l'ovis gratissima all'autore di tanti sonetti e ballate e canzoni e di due cantiche del poema sacro; ella è l'ovis facile ed agevole a mungersi dal divino pastore di pecore che in sì breve tempo compie sì lunga opera; ella è l'ovis così ricca di latte quale noi vediamo che era, noi che leggiamo i cento canti del poema sacro: è la Comedia nella sua terza sublime cantica, la quale Dino sa e Giovanni no. Ma questi ne avrà in dono dal pastore decem vascula (da una pecora, intendi, decem vascula!) di latte, e allora comprenderà che si può essere poeti come gli antichi, degni della laurea Delfica, anche senza scrivere in latino. Dunque nel 1319 Dante era intorno ai primi dieci canti del paradiso.[585]

[585] E questa conclusione, alla quale invano si oppone che l'ovis, tra le altre oves (quali? le sue poesie volgari? e allora “pastor di pecore„ non significa poeta bucolico) gratissima (anche più cara della Comedia?), che Dino conosce (sebbene non munta mai, come si dovrebbe dire per significare che non esisteva prima di quest'ecloga prima; e invece è detta abbondevole di latte e facile e solita a mungersi!); che l'ovis sia la poesia bucolica che a Dante ispirerà la classica decuria d'ecloghe; questa conclusione indubitabile, quando all'ecloga si confronti il principio del paradiso, dove è persino l'indignatio (sì rade volte etc. 28) che nell'ecloga accompagna il prenunzio del peana; questa conclusione vince anche l'obbiezione di coloro che non credono verosimile il compimento in sì breve tempo di poema così grande. In otto anni per vero potè esser compiuto il poema di cento canti, dei quali ventitrè almeno mancavano nel 1319. E il fatto di codeste ecloghe poi dà un singolar valore al verso di Minghino e alla notizia del Boccaccio, riguardo l'interruzione creduta di questa cantica, della quale Dante stesso aveva affermata l'eccellenza in tale celebre, come si ha a credere, corrispondenza poetica.

Potè il poema essere compiuto dal 1313 al 1321, e non potè essere cominciato prima del 1313; quando [586] il cacciatore imperiale, coi suoi indugi a Dante increscevoli, non seppe prendere la vulpecula e perciò sgombrare a Dante la via del ritorno e del governo. Dopo la morte di Arrigo scrisse Dante il suo canto proemiale, in cui è espressa l'impossibilità della vita attiva, per Dante e per tutti, infin che non venga col tempo un veltro, un cane ben diverso da Arrigo, contro la lupa in cui s'è trasformata la vulpecula.[586] Nessuna o notizia o ragione contrasta a tal data del cominciamento.[587] E tutto la conferma.

Il poema rimeditato nel Casentino, sub fonte Sarni, fu cominciato e compiuto a Ravenna, dove, secondo la notizia del Boccaccio che del soggiorno di Dante a Ravenna era particolarmente ben informato, Dante si recò subito dopo la morte di Arrigo.[588] La parte che ha la Romagna nella Comedia, ci persuaderebbe senz'altro ad ammettere che lungo fosse il soggiorno di Dante in Romagna e a Ravenna. L'onore ch'egli fa, e parlando a Guido Montefeltrano e con l'episodio di Francesca, alla casa di Polenta, ci fa certi che il Poeta era là a Ravenna, ospite o in qual altra condizione si voglia, presso Guido Novello, quando scriveva non solo il canto XXVII ma il V dell'inferno. La divina foresta è suggerita dalla pineta di Chiassi, come Dante medesimo ci fa vedere. Ora la selva oscura, con cui comincia il primo canto del poema, è, come antitesi di essa foresta, così derivazione, per il contrario, di quella. Dunque è verosimile che a Ravenna egli scrivesse quel primo [587] canto.[589] E così è probabile che il dramma di Ugolino egli pensasse o ripensasse nel Casentino o in una sua gita a Pisa nel tempo che in Pisa sostava Arrigo: ora da quel dramma dipende, per antitesi, l'episodio di Francesca. Dunque è verosimile, se non fosse certo per tante altre ragioni, che Dante, mentre dimorava nel Casentino, mentre si recava a Pisa, mentre era ancor vivo Arrigo, non avesse cominciata la Comedia. E poi c'è un'altra prova, misteriosa sì ma molto persuasiva. Dante in persona, con l'epistola a Moroello Malaspina e con la canzone sua montanina, racconta il ritorno nel suo animo dell'esule visione:[590] il che avvenne quand'egli era fermo in finibus Thusciae sub fonte Sarni. E l'epistola a Moroello, la quale nessuno vorrà credere modellata sul racconto del Boccaccio, viene a riprocacciare fede al Boccaccio in cosa che meno gli si credeva, nel fatto dei sette canti; come gli epitafi di Minghino e del Canaccio e la corrispondenza in versi latini confortano l'altro così ostico racconto di lui intorno ai tredici canti. E così il novellatore riacquista credibilità anche nel resto.

Negli otto ultimi anni, dunque, nella sua vita raminga, in Ravenna, Dante cominciò e compiè (appena, appena) la divina Comedia. Il che non si troverà così superiore alla fede da chi consideri il disegno semplice del poema. Chi crede che il poema sia un laberinto irremeabile, non si acconcerà mai a crederlo finito dal suo Dedalo in così breve tempo. Ma io sottopongo al lettore gli schemi della grande [588] costruzione; i quali saranno così il riassunto degli altri capitoli del libro.

Vediamo prima, analiticamente, i rapporti tra l'Eneide, lib. VI (i versi che numero, sono del VI quando altro non aggiungo), e l'inferno e purgatorio: tra

l'alta tragedia e la divina comedia
 
(Enea nel sesto libro è esempio di virtù nella giovinezza “colmo della nostra vita„. Co. 4, 26)   Dante nel mezzo del cammin di nostra vita, Inf. 1, 1
va in antiquam silvam 179 (per incertam lunam in silvis 270)   si ritrova in una selva oscura, 1, 2 (la luna per la selva 20, 127)
exanimum corpus amici 149   l'animo... con lena affannata, 1, 22, 25
pelagi defuncte periclis! 83   uscito fuor del pelago 1, 23
fugitivus. Serv. ad 136   l'animo... che ancor fuggiva, 1, 25
ramus necesse erat ut unius causa esset interitus Serv. ib.[591]   lo passo che non lasciò giammai persona viva, 1, 26
stabula alta ferarum 179   le tre fiere.
Sibylla,   Virgilio cantor della Sibilla.
magnam cui mentem animumque Delius inspirat vates,   Degli altri poeti onore e lume, 1, 82 e al Cfr. Par. 1, 13 e al.
aperitque futura 10 sqq.[592] praescia venturi 66 et. al.   insin che il Veltro verrà... cfr. Pur. 22, 64 sgg.
lucis praefecit Avernis 118   (Virgilio si mostra presso la selva e poi muove per cammino Silvestro, 2, 142, e il limbo dove dimora, è una selva di spiriti spessi, 4, 65. Egli è il primo dei poeti, primi degli spiriti magni).
[589]
miserere 117   miserere 1, 65
o sanctissima vates! 65   o se' tu... o degli altri poeti etc. 1, 79
o virgo! 104   quel Virgilio? 1, 79
potes... omnia... te...[593] praefecit... 117 sq.   ... famoso saggio 1, 89
graviora manent... bella, horrida bella etc. 84 sqq.   se vuoi campar etc. 1, 93 sgg. sostener la guerra 2, 4
causa mali tanti... 93   questa bestia... 1, 94
coniunx... 93   s'ammoglia 1, 100
via... salutis 96   altro viaggio 1, 91
Accipe quae peragenda 136   per lo tuo me' etc. 1, 112
hunc conde sepulcro 152[594]   trarrotti per loco eterno etc. 1, 114 sgg.
omnia... ante peregi 105   l'impresa nel cominciar cotanto tosta 2, 42
Deus ecce Deus! 46 mitte hanc de pectore curam 85 audentior ito 95   (la narrazione di Virgilio per mostrare che la sua venuta è voler di Dio, e i rimbrotti e conforti 2, 44 sgg.).
doceas iter et sacra ostia pandas 109   Poeta, i' ti richieggo etc. mi meni... la porta... 1, 130 sgg. son tornato nel primo proposto 2, 138
ire ad conspectum cari genitoris 108   (Dante apprende da Virgilio che giungerà a Beatrice... 2, 53 sgg.)
orans mandata dabat 116 tua... imago 695 cfr. V 722   (Beatrice in sogno o altrimenti rivocava Dante Pur. 30, 134)
pauci quos... ardens evexit ad aethera virtus, dis geniti potuere 129 sqq.   chi 'l concede? etc. 2, 31. Cfr. VE. 2, 4. Dante afferma col fatto esser di cotesti dis geniti.

[590]

Dopo il colloquio di Enea con la Sibilla e di Dante con Virgilio, le due coppie scendono agl'inferi. Due porte ha l'inferno di Virgilio, due quello di Dante; il quale poi confonde la porta del re d'Averno con quella del Tartaro. Si veda.

Inferni ianua regis et tenebrosa palus 106 sq.   Questa è in Dante la porta più segreta con avanti la palude Stige;
patet atri ianua Ditis 127   la porta di Dite, che ora Dante trova chiusa. Dunque? Dite al tempo di Enea regnava sino alla porta men segreta;
vestibulum ante ipsum primisque in faucibus 273 vagitus... in limine primo 426 sq.   a questa: la quale patebat perchè era chiusa. Invero Gesù l'infranse, e questo avere infranta la porta, significa aver chiuso l'inferno, cioè la fatale dannazione del genere umano.
sub rupe sinistra moenia lata 548 sq. porta adversa ingens 552 Tisiphone 555 vestibulum 556 vestibulo 575, limina ib. gemitus 557   Questa è la porta del Tartaro, ma Dante, conscio o no, per quell'adversa richiamato da adverso fornice 631 e adverso limine 636, la confonde con la ianua inferni regis o Ditis,
Cyclopum educta caminis moenia... adverso fornice portas 631 sq. adverso in limine 636   che è questa qui, sotto un certo aspetto, e sotto un altro, no, perchè invero ella non patet.

E vediamo ora il concetto Dantesco della porta dell'inferno rispetto agli avari.

Inferni ianua regis 104   Pluto il gran nemico, 6, 115, che grida Pape Satan, e che è maledetto lupo, 7, 1 sgg., lupo che è figura del diavolo che invidia gli uomini; è una anticipazione del regis inferni 34, 1. Così la ianua infranta da Gesù viene a essere rispetto agli avari la atri ianua Ditis, men segreta, che non fu infranta dal redentore.
[591]
et tenebrosa palus 105   Invero nel cerchio degli avari si mostra un'acqua buia che fa la palude Stige 7, 103 sgg.
Acheronte refuso 105   Lo Stige deriva da Acheronte. Nelle parole di Virgilio Dante vedeva forse la speciale inutilità della redenzione per questi speciali peccatori che sono tutti chercuti.
saxum ingens volvunt 616   voltando pesi 7, 27

La pena è tartarea, di dentro Dite. In vero per questi cherci e papi e cardinali la porta men segreta è misticamente la ianua Ditis o regis inferni. Il che non toglie che nel prospetto che segue siano incontinenti, non felli, e ignavi o sciaurati o non mai vivi. Segue il prospetto della Tragedia in comparazione della Comedia in quanto l'inferno di Dante è ancora quello di Enea.

patet atri ianua Ditis 127   Dante intende queste parole così: l'inferno, avanti Cristo, era aperto a tutti. Ma Cristo infranse la porta, cioè chiuse l'inferno. Sicchè il fatto d'essere aperta al tempo di Enea, equivale all'essere chiusa. Al tempo di Dante invece ella era aperta per il fatto che era senza serrame 8, 126. Ma non per i dannati! Per i dannati patet, cioè è chiusa; sicchè al verso Virgiliano corrisponderebbe questo:
patet... ianua   lasciate ogni speranza 3, 9
revocare gradum... hoc opus, hic labor 128   parole di colore oscuro 3, 10, il senso lor m'è duro 3, 12
Luctus 274   quivi sospiri etc. 3, 22
Metus 276 Letum 277 Sopor 278   mai non fur vivi etc. 3, 64
Labosque 277   girando correva 3, 53
ultrices Curae 274   mosconi... vespe 3, 66
[592]
centum... annos 329   antichi spiriti 1, 116
errant 329 circum   girando 3, 53
volitantque 329   come la rena 3, 30
inops... turba 325   ignudi 2, 65 cattivi 62 sciaurati 64
inhumata 325 orantes 313 ripae ulterioris amore 314   non hanno speranza di morte 3, 46 la seconda morte ciascun grida 1, 117 invidiosi son 3, 48
quos vehit unda sepulti 326   codesti... son morti 3, 89
in silvis..... cadunt folia 309 sq. tenent media omnia silvae 131 ulmus opaca ingens 283 et al.[595]   come d'autunno etc. 3, 112. La turba, stimolata da insetti, è una selva semovente.
multae... aves 311   come augel 117
sortem miseratus iniquam 332   ne lagrimai 24
cernit ibi maestos et mortis honore carentis 333   v'ebbi alcun riconosciuto 58 senza infamia e senza lodo 36
maestum cognovit 340   guardai e vidi l'ombra di colui etc. 59 cfr. 34 sgg.
en haec promissa fides est? 346 (?)   colui che fece il gran rifiuto 60 (?)
inhumatus 374   colui etc.
Acherontis undae 295   riviera d'Acheronte 78
Cocyto eructat harenam 297 scilicet per Stygem Serv. ad h. v.   Acheronte, Stige e Flegetonte... 14 116 fanno Cocito 119
Portitor ille Charon etc. 299   ed ecco etc. 3, 82 sgg.
fluvio propinquant etc. 384   infino al fiume... 81
corpora viva nefas 390[596]   anima viva 88
pietate insignis 403   vuolsi così colà... 95 (è grazia, cioè meritata dal pius vates)
[593]
ramum hunc 406 unius causa interitus Serv. ad 136.   più lieve legno (la croce) 93 col quale si è conseppellito al Cristo
hunc conde sepulcro 152   mi vinse ciascun sentimento e caddi... 135 sg.
sic demum lucos... aspicies 155 (ostia... lucum Georg. IV 467)   vero è che etc. 4, 7 la selva, la selva, dico, di spiriti spessi 65
trans fluvium vatemque virumque 415   incominciò il Poeta... 14
Cerberus haec... regna personat 417 sq.   tuono d'infiniti guai 9, che giungono dai regna di Cerbero
occupat Aeneas aditum 424   sulla proda mi trovai 7
infantum animae 427   d'infanti 30
in limine primo 427   nel primo cerchio 24
hos iuxta 430   sto io coi parvoli Pur. 7, 31
falso damnati crimine mortis 430 insontes 434[597]   viri 39 non per... rio semo perduti 40 sg.
sibi letum insontes peperere manu 434 sq.   Catone era nel limbo Pur. 1, 72 e nel limbo è Lucrezia, Empedocles etc.
quam vellent... 436 fas obstat 438   in disio 42 senza speme 42
lugentes campi 441 sqq.   tanto più dolor... 5, 3
Cerberus haec... regna... personat 417 sqq.[598]   a guaio 3
durus amor... peredit 442   Amor... dipartille, 69 Amor condusse noi ad una morte 106
dulci... adfatus amore 455   o anime affannate 80 l'affettuoso grido 87
monstrantem vulnera 446 recens a vulnere 450   noi che tignemmo il mondo di sanguigno 90
Infelix Dido! 456[599]   Francesca, i tuoi martiri 116
[594]
coniunx etc. 473   mai da me non fia diviso 135
curae non ipsa in morte relinquunt 444   anime affannate 180 nessun maggior dolore etc. 121 (?)
prosequitur lacrimis 476   di pietade i' venni men... 141
Cerberus 417   Cerbero 6, 22
bello clari 478   Farinata etc. 6, 79
multum fleti... 481   che fur sì degni ib.
caduci 481   cadde... 93
ingemuit 483   a lagrimar m'invita 59
Danaum proceres 489   Farinata (il fiero ghibellino avverso a Dante e a' suoi maggiori)
laniatum 494... lacerum... manus ambas 495 sq.   il Mosca 80 (cfr. 28, 103 sgg.)
vix adeo agnovit 498   riconoscimi se sai etc. 41
notis... vocibus 499   tu fosti prima ch'io disfatto, fatto 42
reddar tenebris 545   a par degli altri ciechi 93 più non si desta 94
I decus, i, nostrum... 546   Giusti son due... 73 (non è un d'essi Dante?)
moenia lata videt 549 porta adversa 552   Quivi trovammo Pluto il gran nemico 115 (Misticamente Dante vede nel cerchio degli avari l'inferno basso a cui l'avarizia conduce. Questo cerchio è misticamente entro Dite).

E Dante torna a rileggere l'alta Tragedia col pensiero che la ianua inferni regis che patet ossia è chiusa, sia veramente quella di Dite che è chiusa sì nella Tragedia e sì nella Comedia. Torna dunque a capo, come si vedrà.

Inferni ianua regis et tenebrosa palus 106 sq.   Pluto il gran nemico 6, 115 l'acqua buia 7, 103
mortis honore carentes 333 Stygias aquas 374 Stygia... unda 385 (detto dell'Acheronte e così) Stygia palus 323, 371   la sconoscente vita... ad ogni conoscenza or li fa bruni 7, 53 una fonte che bolle e riversa etc. 101 sgg.
[595]
inops inhumataque turba 325   ignude 7, 111 come quelle del vestibolo.
mortis honore carentis (naufraghi) 333   genti fangose in quel pantano 110 (innominabili anch'esse) bontà non è che sua memoria fregi 8, 47
Navita... stygia ab unda 385   un galeoto 17 il nocchiere 80
Phlegyas... 618   Flegias Flegias 19
magna voce 619   gridava 18 forte ci gridò 80 sg.
discite iustitiam 620 et non temnere divos ib.   anima fella (cioè de' felli, 11, 88 rei contro la iustitia e la pietas e religio). Flegias è pien d'ira 8, 24, perchè l'ira è la prima specie d'ingiustizia (violenza o bestialità), e l'incontinenza d'irascibile, che nasce dall'incont. di concupiscibile, porta all'ingiustizia.
increpat 387   gridava etc. 18
gemuit sub pondere cumba 413   quand'i' fui dentro parve carca 27
effusus in undas 339   un pien di fango 32
tu Stygias inhumatus aquas? 374[600]   rimani! 38 via costà 42
ramum hunc...   (sempre l'interitus battesimale che ha impresso in Dante il character) tu gridi a vuoto! etc. 19
tumida ex ira tum corda residunt 407   nell'ira accolta 24
sub rupe sinistra moenia lata videt 548 sq.   le sue meschite etc. 70
quae flammis ambit Phlegethon 550 sq.   il foco ch'entro le affoca 73 sg.

Ma questa è misticamente la medesima ianua regis inferni con la tenebrosa palus, è la ianua Ditis per cui si entra nell'inferno [596] virgiliano e quella per cui s'entra nel Tartaro, chè Dante confonde le due porte della reggia e del Tartaro. Vediamo prima questa confusione o fusione ultima.

ianua Ditis 127   la città c'ha nome Dite 69
(via) dextera... Ditis magni 541   alla man destra si fu volto 9, 132
laeva malorum 542 sub rupe sinistra 548   volse a man sinistra 10, 133

Ora si veda come la ianua di tutto l'inferno è assimilata misticamente alla ianua di Dite o del Tartaro che sono una sola per Dante.

per domos Ditis 269 dextera Ditis magni 541   la città Dite 8, 69
per lunam 270   la donna 10, 80
sub luce maligna 270   mala luce 100
Luctus... 274   sospir dolenti 9, 126
Letumque 277   seppellite 125 sepolto 130 etc.
Bellum 279   lo strazio etc. 10, 85
Discordia 280   mia parte etc. 47
auditae voces 426   si fan sentir 9, 126
lucemque perosi proiecere animas 435 sq.   mala luce 100, l'anima col corpo morta 10, 15
Styx cohercet 439   (lo Stige circonda Dite)
lugentes campi 441   campagna piena di duolo 9, 110
me iussa deum 461   da me stesso non vegno 10, 61
corripuit sese 472   supin ricadde e più non parve fuora 72
miseratur 476   di mia colpa compunto 109
bello clari 478   Farinata 32
belloque caduci 481   lo strazio etc. 85
Danaum proceres 489   a ciò non fui io sol etc. 89
Deiphobum vidit 495   (Il Mosca 28, 103 sgg.) Ma a Deifobo s'ispira anche nell'episodio di Cavalcante, padre del suo compagno d'arte e forse d'arme.
[597]
sed te qui vivum casus? 531   se per questo cieco etc. 58
i decus, i, nostrum... 546   (è sottintesa la glorificazione di Dante che si fece seguace dello Studio)
melioribus utere fatis 546...   (arde nelle parole di Dante la pietà e il rammarico per il primo suo amico degno di miglior fato)
in verbo... 547   quando s'accorse... ricadde 10, 70 sgg.
quae scelerum facies? o virgo 560   alcun compenso etc. 11, 13 sgg.
tum vates sic orsa loqui 562   figliuol mio etc. 16
Gorgones 289 Tisiphone 555, 571   Tesifone 9, 48 etc. il Gorgon 56
Eumenides 280 sorores 572   tre furie 38
vipereum crinem 281 anguis 572   idre serpentelli ceraste 40 sg.
Centauri in foribus 286 Lapithae 601   Centauri 12, 56[601]
Harpyiae 289   Arpie 13, 10
Scyllae biformes 286   nere cagne 125
forma tricorporis umbrae 289   una figura... sgg. 15, 131
Briareus 287 Titania pubes 580   Giganti 31, 44, Briareo 98
belua Lernae 287 hydra saevior 576 furiarum maxima 605   Dite 34, 20
myrtea silva 443   la dolorosa selva
extrema secutam 457   dei suicidi 13, 2 sgg.

Dopo aver osservato che il Minotauro è richiamato da ben più lontano vestibolo, (in foribus 20 Minotaurus inest 26, come Centauri in foribus stabulant 286) dove quel numero settenario (septena 21) può aver influito sulla settenaria divisione del regno del Minotauro (tiranni, ladroni, suicidi, dissipatori, bestemmiatori, sodomiti, usurieri); passiamo al ramo o verghetta, di Enea, nel qual episodio è fusa la porta più segreta con la men segreta.

Invero il ramo serve ad Enea con Caron per passare l'Acheronte, ma l'Acheronte è pur detto Stige; lo figge nell'adverso [598] limine della ianua Ditis, che Dante confonde con la porta adversa del Tartaro, e misticamente equipara alla ianua Ditis che patet.

patet ianua Ditis 127   (dunque misticamente è chiusa) chiuser le porte 8, 115
Ditis magni moenia 541   la città ha nome Dite 68
moenia lata etc. 549   le mura di ferro 78
porta adversa ingens 552 adverso fornice portas 631   chiuser... quei nostri avversari 115
inferni ianua regis et tenebrosa palus 106 sq.   (Lo Stige circonda la terra)
Stygia ab unda 385 Stygia carina 391 ramum hunc 406   passava Stige 81 (il ramo è simbolo di quella morte per cui si passa l'Acheronte)
occupat Aeneas aditum 635 (Ditis magni)   giunse alla porta 89 (di Dite)
corpus spargit aqua 635 sq. (quia impiatus al. inquinatus fuerat Serv. ad h. v.)   quell'aer grasso etc. 82
ramum adverso in limine figit 636   con una verghetta l'aperse 90
(il ramo è per Proserpina 142. Nel mostrarlo a Charon, la Sibilla ricorda Proserpina 402. Hecate 56)   (Proserpina è accennata in quest'episodio di Dite al 9, 44, e come donna che regge al 10, 80)
(Charon prima di vedere il ramo Stygia ab unda parla:) Stygia carina 391   (l'episodio del Messo è nello Stige)
Alciden 392 Tartareum custodem 395   Cerbero vostro etc. 98 sgg.
dominam Ditis 397   la regina dell'eterno pianto, 9, 44 donna 10, 80 (è superbia, quindi oltracotanza 93: per essa furon cacciati dal cielo 91 gli angeli rei)
(La Sibilla risponde) ingens ianitor 400   Cerbero 98
Proserpina 402   9, 44; 10, 80
[599]
pietate insignis 403, pietatis imago 105   quella voglia 94 sgg.
ramum hunc 406   verghetta 89
ex ira corda residunt 407   non v'ebbe alcun ritegno 90. Cfr. m'adiri 8, 121 senz'ira 9, 33.
nec plura his 408   e non fa motto 101
(Aggiungi questo tratto:) fatalis virgae 409 (cfr. si te fata vocant 147, virga 144)[602]   nelle fata 97

Riprendiamo la via per domos Ditis, di cui abbiamo già veduti i simboli in generale e coloro dalla mala luce. Flegias col suo doppio ammonimento divide in due l'ultima parte dell'inferno Dantesco, di rei contro la iustitia e di rei contro la pietas e religio (non temnere divos). Questi sono felli.

Iustitiam 620   d'ogni malizia ingiuria è il fine 11, 22 sgg.
In foribus Minotaurus 20, 26 e Centauri 286   (l'ingiustizia senza intelletto spiace meno a Dio 11, 25)
ausi omnes immane nefas 624 (?)   son tiranni etc. 12, 104 sgg. colui fesse 119 etc.
(silva myrtea 442 III 23)   la dolorosa selva 14, 10, 13, 2 sgg.
Aloidae 582 Salmoneus 585   Capaneo 14, 46 (quel grande)
vetiti hymenaei 623 (?)   d'un peccato lerci 15, 108
divitiis soli incubuere 610   usurieri 17, 35
sedet aeternumque sedebit 617   gente seder 36
fraus 609 doli 567   frode più spiace a Dio 11, 25 sg.
forma tricorporis umbrae 289   una figura 16, 131 imagine di froda 17, 7 (faccia d'uomo, fusto di serpente e due branche pilose)
ultrix accincta flagello 570   (i primi puniti di Malebolge sono battuti da dimoni con gran ferze 18, 35)
[600]
ob adulterium 612   di Medea si fa vendetta 96
vetiti hymenaei 623   Mirra 30, 38
vendidit hic auro 621   per oro e per argento 19, 4
quae forma 615 scelerum formas 626 (?)   di nuova pena 20, 1 (?) (Euripilo ebbe nome... 112)
fixit leges pretio etc. 622   barattieri 21, 4 sgg.
dominumque potentem imposuit 622 (?) dominorum fallere dextras 613 (?)   servo d'un signor 22, 49; i nimici di suo donno 83; donno Michel Zanche 88 (?)
miserrimus... per umbras 618 sq.   giva intorno 23, 59; stanca e vinta 60. O in eterno... 67 tristo pianto 69.
atra silex... cadenti adsimilis 601 (?)   a questo è rotto 23, 134 sgg.
Tityos 595   un crocifisso in terra 111
Tisiphone intentans anguis 571 sq.   serpenti 24, 83
castigat dolos subigitque fateri 567   io non posso negar 136
furto inani 568   io fui ladro... e falsamente già fu apposto altrui 137 sgg.
apud superos 568   le mani alzò... Togli, Dio! 25, 2 sg.
laetatus 568   non mucci 24, 127 (e tutto l'atteggiamento del ladro)
continuo ultrix 570 (che ha un flagello e serpenti)   una gli s'avvolse etc. 25, 4
un centauro pien di rabbia etc. 17 (con bisce 20)   fraus innexa 609 (?)
si geme l'aguato 26, 58 sg. l'arte 61   innexa clienti 609 (?)
mi chiese per maestro etc. 27, 96 sgg.   nec fibris requies ulla renatis 600
le ferite son richiuse etc. 28, 41   arma secuti impia 612
or di' a Fra Dolcin che s'armi 55 etc.   fraus innexa clienti 609
volle ch'io gli mostrassi l'arte 29, 115   fraus 609
alchimia 119   furto laetatus inani 568
Minos a cui fallir non lece 120   divitiis repertis 610 (?)
falsai li metalli 137 etc. (?)   epulae ante ora paratae 604
li ruscelletti etc. 30, 64
[601]
non temnere divos   l'amor s'oblia... ch'è poi aggiunto 11, 61 sgg. di che la fede etc. (Caino è fideicida, Giuda è deicida, Giganti fer paura ai dei. Dante adopera l'espressione “uccidere„ 55)
genus antiquum Terrae 580   i giganti 31, 21
Briareus 287   Briareo 98
invisi fratres 608   d'un corpo usciro 32, 58 etc.
pulsatusve parens 609   Mordrec 61 etc.
vendidit hic patriam 621   Bocca 32, 106
fallere dextras 613 (?)   fidandomi di lui 33, 17 etc.
districti pendent 617   pende dal nero ceffo 34, 65
Furiarum maxima prohibet... intonat ore 605 sgg.   (Lucifero dirompe coi denti i tre peccatori massimi)
pendentem scopulo VIII 669   pende etc. 65
furiarum ora trementem ib.   (quasi le furie, come suppongo che Dante interpretasse, volessero mangiarlo)
(porta) candenti nitens elephanto 895   per la buca d'un sasso 34, 131
porta emittit eburna 898   (il sasso è bianco come l'avorio, pensava forse Dante)
viam secat ad navis   (Dante si trova nell'altro emisfero sul mare, dove apparisce di lì a poco una vela Pur. 1, 117; 2, 32)

Così siamo nel purgatorio. Nell'Eneide Dante leggeva che all'Elisio si va hac, 541, cioè per la destra; e nel purgatorio invero va sempre a destra; per la via stessa che conduce alle moenia Ditis magni, 541. Invero dalla città di Dite riesce al monte santo che in cima ha l'Elisio. Il discorso di Anchise sulla purgazione delle anime si trasforma in un purgatorio locale, che viene prima della visione, che è in Virgilio e in Dante, dell'avvenire di Roma.

devenere locos laetos 638   per canti s'entra Pur. 12, 113 sg. (l'amenità del luogo 1, 13 sgg.)
[602]
his dantem iura Catonem VIII 670   Catone 1, 31 (ma non ha, sino al gran dì, i pii cui deve presiedere)
in valle reducta seclusum nemus 703   valletta amena 7, 73 con molte particolarità comuni
exercentur poenis 739   il debito si paghi 10, 108 etc.
ad ventos 741   mi batteo l'ale 12, 98 etc.
exuritur igni 742   il fuoco 27, 11 etc.
sub gurgite vasto 741   tratto m'avea nel fiume 31, 94
Lethaeum ad fluvium 749   d'una fontana 32, 113
velle reverti 751   Eunoè 33, 827
cfr. Lethaei fluminis undam potant 715   lo dolce ber 138
te tua fata docebo 759   perchè... non guardi? 29, 59 sgg.
huc flecte acies 788   al carro tieni or gli occhi 32, 104
hic vir, hic est 791   un cinquecento dieci e cinque 33, 43
Alcides... fixerit 801   anciderà la fuia 44
et dubitamus adhuc 806   Tu nota... 52 etc.
heu quantum inter se bellum 828   qual hai vista la pianta 56 etc.
incenditque animum famae venientis amore 889   sì le insegna ai vivi 53
exin bella viro memorat 890   (la qual missione ricevuta da Beatrice s'integra col monito di Cacciaguida Par. 17, 46 sgg.)

Mi sembra inutile metter di nuovo a confronto i passi dell'Eneide e della Comedia per veder chiaro il pensiero di Dante intorno ai suoi sospesi del Limbo, destinati al superum lumen e al largior aether della divina foresta. Vedi a pag. 432 sgg. Qui basti aggiungere che il fuoco o l'incendio (Inf. 4, 68; 2, 93) del Limbo, come è il medesimo muro ultimo tra la purgazione e l'Eden, così è quel lumen purpureum dell'Elisio Virgiliano (645).[603]

[603] La Comedia è per le due prime cantiche un'Eneide novella fusa con l'interpretazione mistica della lotta di Giacobbe e delle sue nozze. Vediamo questa fusione. Segno dell'Eneide i dati principali. Dante[604]

come Enea   come Giacobbe
nell'antica selva, di notte, per incertam lunam 179, 268, 270 sq.   lotta nelle ore antelucane. La luna c'è e non c'è Inf. 20, 127 con lena affannata Inf. 1, 22
ad fauces 201   il passo di Iaboc e il luogo Phanuel 26
(leni vento 209) (?)   sorge il mattino 38
.............   zoppicava 30 è salvo per la speranza Pur. 30, 83 ma non oltre pedes.[605]
le fiere 170   .............
Miserere 117; Inf. 1, 65. Virgilio è la Sibylla, che conduce Dante “ad immortale secolo„.   o uomo certo... 1, 66; non uomo... 67 (et ecce vir... dic mihi quo appellaris nomine... Gen. 32) Virgilio non è nè Dio nè un angelo, ma è mandato da Dio e Dante lo chiama signore (vidi Dominum facie ad faciem et salva facta est anima mea. Gen. ib.); e a lui Dante dice Miserere, come misericordia (Purg. 9, 110) chiede all'angelo.
Seppellisce Miseno, ossia si conseppellisce al Cristo, passando l'Acheronte   Iaboc e Phanuel ripetuti. Dante fedele di Lucia (cioè servo di Laban) passa con più lieve legno.
[604]
(Charon)   la grazia battesimale
Passa Stige o incontinenza, prima, di concupiscibile   mortifica, contemplando, sette peccati (serve i primi sette anni): ossia
— usa la temperanza    
Minos (corrispondente al Minotauro)   lussuria
Cerbero (simbolo precipuo)   gola
Pluto (corrispondente a Dite)   avarizia
che riconoscono il character   simboli unicorpori
e incontinenza d'irascibile
— usa la fortezza
Flegias (ossia l'irascibile che porta all'ingiustizia)
— usa la prudenza
con quelli della mala luce
  (color cui vinse l'ira e che portarono accidioso fummo; che furono audaci e tronfi, e timidi e poveri di cuore; che peccarono contro la fortezza e la magnanimità, ossia)
    accidia
Flegetonte o incontinenza d'irascibile con mal volere, ossia ingiustizia con forza   (violenza o bestialità o)
  ira
— usa la giustizia    
Minotauro, Centauri, Arpie, Cagne o Scille, fuoco (flammis torrentibus)   simboli biformi perchè l'ira sopra il mal voler s'aggueffa
Cocito o mal volere con intelletto, ossia ingiustizia con frode semplice   (malizia con frode in chi non si fida, o)
  invidia
— usa la giustizia (comune) e la prudenza    
Gerione   il serpe dell'invidia infernale
e con tradimento   (malizia con frode in chi si fida, o)
— usa la giustizia (speciale, ossia pietas e religio) e la prudenza   superbia
Dite   Lucifero o il primo superbo
his dantem iura Catonem   l'uomo che si è ucciso (si è mortificato al peccato) e perciò è, vale a dire è libero (Dante non sarà veramente libero, per altro, se non al sommo del monte dove appunto è destinato a essere Catone)
Il fedele di Lucia, cioè servo di Laban è portato occultamente e gratuitamente a purificarsi di sette macchie e ottenere la promessa di sette beatitudini
[605]
suspensae ad ventos   Beati pauperes spiritu — Superbia 12, 110
(aere ventilantur Serv. ad 741 vedi Pur. 12, 121 sgg.) mi batteo l'ale per la fronte Pur. 12, 98
item    
(non è espresso il ventilare: pare un'anticipata purificazione per splendore Pur. 15, 10 sg.: ma pur qui si dice delle piaghe, che sono) spente Pur. 15, 79   Beati misericordes — Invidia 15, 38
item    
senti' mi... ventarmi nel volto Pur. 17, 68   Beati pacifici, senz'ira mala — Ira 17, 68 sg.
item    
ventilonne Pur. 19, 49   Qui lugent beati — Accidia 19, 50
item    
un colpo raso Pur. 22, 3   Beati quelli che sitiunt giustizia — Avarizia 22, 4 sgg.
item    
un vento dar per mezza la fronte Pur. 24, 148 sg.   Beati gli esurientes quanto è giusto — Gola 24, 151
exuritur igni    
più non si va se pria non morde... il fuoco Pur. 27, 10   Beati mundo corde — Lussuria 27, 8
(Musaeus) la Musa o Arte   Matelda (Lia non laborans e che non è lippis oculis)
(Anchises) la Sapientia   Beatrice (che siede con l'antica Rachele)
Visione di Roma (Chiesa e Impero divisi e riconciliati)   (Visione della grande scala che porta al cielo. Gen. 28)
Ed Enea-Giacobbe diventa S. Paolo e va al cielo.

[606]

Paragoniamo ora il corto andare per la piaggia diserta infestata dalle tre fiere, ossia la vita attiva come fine a sè stessa, e impossibile senza il veltro, e l'altro viaggio per l'inferno e il purgatorio, viaggio dispositivamente di contemplazione, ossia la vita attiva come disposizione alla contemplativa. A ciò riporto un passo di Lattanzio che ci dà i tre nomi coi quali, metonimicamente, possiamo chiamare le tre fiere.[606] “Tres sunt adfectus qui homines in omnia facinora praecipites agunt, ira, cupiditas, libido. Ira ultionem desiderat, cupiditas opes, libido voluptates„. Sono forse i tre nomi che Dante avrebbe segnati in margine a' suoi versi. Il leone che ha una brama sola, ultionem, è ira; la lupa che ha tutte brame, opes, è cupiditas; la lonza che ammalia e snerva, con le sue voluptates, è libido. Il collocare questi tre nomi di faccia ai loro equivalenti dottrinali, c'insegnerà molte cose e ci toglierà ogni dubbio.

  Libido Ira Cupiditas
 
libido 1 lussuria    
2 gola    
    3 avarizia
 
ira 4 accidia    
(sì di fummo sì di color cui vinse l'ira)
  5 ira folle ovvero (cieca cupidigia)
 
cupiditas     6 invidia
    7 superbia

Si vede come la lonza — libido, cioè lussuria gola (e anche mal tenere e mal dare), mediante la conseguente accidia (a ciò la definizione cui vinse l'ira) confini cioè si fonda nel leone — ira, cioè peccato d'ira o violenza o bestialità, peccato metà di incontinenza e metà di malizia, il quale mentre confina, come incontinenza, con la lonza, sparisce poi, come cupidigia, nella lupa — cupiditas, cioè avarizia che dal mal tenere e mal dare opes, passa a volerle prendere altrui con frode o con tradimento.

E propongo un altro quadretto in cui si veda l'equivalenza delle tre appellazioni Lattanziane con quelle Aristoteliche:

[607]

    lussuria    
Inc. di conc. gola      
  avarizia libido
lonza
   
       
         
d'irasc. accidia   ira
leone
 
         
Mal. con forza ira (cieca cupid.)   cupiditas
lupa
         
con frode invidia      
superbia      

Così il lettore può vedere come la lonza sia in iscena quando sopraviene il leone, e poi sparisca al suo apparire; la libido lonza contenendo anche l'accidia (tristitia), la quale appartiene (spec. ma non escl. come di vinti dall'ira) anche all'ira leone, è un po' anch'essa leone (invero è leonza). E poi il lettore vede come l'ira leone, unito alla leonza per la conseguenza della lussuria e gola, che è tristitia, e per il fatto ch'egli è la bestialità, ossia per metà incontinenza, per metà malizia o ingiustizia, sia ancora unito alla lupa o leopede per la cupidigia che in esso è unica e rabbiosa, e nell'altra è molteplice e accorta. Vede anche come la leopede, per mezzo della cupidigia, contenga il leone e perciò la leonza, alla quale è poi unita anche per mezzo dell'avarizia che è cupidità iniziale, in fieri, direi. E così ella è tutto il peccato e tutta la trinità del male, libido ira e cupiditas in genere, e avarizia, invidia e superbia in ispecie. Il che risulta da quest'altro specchietto:

inordinazione nell'appetito concupiscibile leonza libido leopede cupiditas
irascibile  leone ira
nella volontà
nell'intelletto

[608]

e da quest'ancora:

incontinenza        
di concup.        
| lonza  
incont. d'irasc.        
|   leone  
ingiustizia        
|     lupa  
frode        

Vedi ora, o lettore, come le bestie spariscano l'una nell'altra? come dall'incontinenza, contro cui vale la corda, si caschi nelle branche di Gerione?

E veniamo al paragone tra

il corto andare e l'altro viaggio
 
  inferno purgatorio
Tenebra o miseria originale Tenebra o miseria originale Originale felicità, libertà e innocenza con Catone che volle esser libero ed ebbe i raggi delle quattro virtù, e sarà beato, longa cum veste, tra i pii sospesi del limbo, nel gran dì: e allora egli avrà ai suoi piedi le sette cornici dove erano i sospesi del purgatorio, in quest'ordine
selva oscura (antiqua silva) vestibolo con la selva semovente
passo (interitus del servo fuggitivo) della riviera o dell'acqua perigliosa passo dell'Acheronte
piaggia diserta (ritorno dove il sol tace, cammino selvaggio, dove si trova Virgilio) selva di spiriti spessi, tra i quali è Virgilio
  Ombra della carne  
Lonza, snelletta e leggera Rovina. Principio invisibile dello Stige  
  lussuria (Minos) lussuria
  gola (Cerbero) gola (i due alberi)
  avarizia (innominabile, Pluto) Principio visibile dello Stige avarizia (con la maledizione alla lupa)
[609]
  accidia operativa accidia in acquistare
a bene sperar m'era cagione... l'ora del tempo e la dolce stagione Stige che si fa palude e incontinenza di concupiscibile che si fa incontinenza d'irascibile, o carnalità che si fa accidia, libido che si mescola ad ira; contro cui gioverebbe il sole e l'aer dolce.  
  Accidia contemplativa accidia in vedere
  Veleno  
Leone, con rabbiosa fame, che apparisce quando si vede tuttora la lonza, la quale sparisce al suo apparire (Il fuoco di Flegetonte affoca le mura di Dite 8, 73) Rovina. Incontinenza d'irascibile o tristizia o ira (passione) che si mescola al mal volere o ingiustizia. Minotauro. Ira folle e cieca cupidigia di vendetta. Flegetonte. ira
Lupa, con tutte brame, che viene a poco a poco, che apparisce insieme col leone il quale sparisce al suo apparire Flegetonte cade nel baratro. L'ingiustizia d'incontinenza e mal volere si unisce all'intelletto, e diventa frode, di cui la specie più grave è la ipocrisia, nella cui bolgia è la terza rovina. L'avarizia si fa cupidità; la cieca cupidigia si fa oculata. Gerione o il serpe infernale. Malebranche o neri cherubini, con virtù mal volere e intelletto. Invidia (contro uomini in generale). invidia
  Giganti, contro gli Dei, con possa, mal volere e mente. Dite o il primo superbo, unico serafino caduto, tricipite. Superbia (contro Dio o chi di Dio più tiene) Cocito superbia
    ritardatari e valletta amena
    scomunicati

[610]

i quali corrispondono doppiamente al vestibolo e limbo infernale, così:

Ritardatari Sciaurati
scomunicati non battezzati
valletta amena nobile castello con spiriti magni
esclusi dalla chiesa non mai vivi, esclusi dall'inferno.

Infine tentiamo di ricomporre (in diversi pezzi come si vedrà) la grande scidula che l'Alighieri dovè tenere avanti gli occhi in quei terribili otto anni del Poema Sacro. Io numero i singoli prospetti e le singole divisioni d'ognuno, sì che il lettore, accostandoli, possa fare il quadro complessivo.

Comincio dalla ragione astrologica. Noto che più importante d'ogni altra notizia, a spiegarci la Comedia, è quella dei nove giri di Stige posti a confronto dei nove cerchi del Cielo;[607] ma che, in fuori di questa base primitiva, il modo con cui sono fatti combinare i peccati e difetti con le sfere, è secondario.[608]

I.
             
  corto andare altro viaggio salita al cielo
  o o o
  vita attiva in sè vita dispositivamente contemplativa contemplazione
             
             
    inf. purg.  
    noviens Styx     novem circuli
    porta infranta      
  selva oscura 1 (0) selva semovente 1 scomunicati 1 Luna
  passo Acheronte  
  dove il sol tace 2 (1) selva di spiriti e nobile castello[609] 2 ritard. flemmatici e valletta 2 Mercurio
[611]
lonza[610] Rovina
Stige invisibile
     
  3 (2) lussuria 9 superbia 3 Venere
  4 (3) gola 8 invidia 4 Sole
  5 (4) avarizia innominab.
Stige buio
7 ira 5 Marte
  6      accidia
Stige brago
6 accidia 6 Giove
     (5) in operare in vedere e  
     (6) in vedere
Rovina
in acquistare  
leone 7 (7) ira (o violenza etc.)
Flegetonte
5 avarizia 7 Saturno
lupa 8 (8) invidia (o frode)
Cocito invisibile rovina
4 gola 8 Stelle
  9 (9) superbia (o trad.)
Cocito
3 lussuria 9 Primo Mobile
  10 selva oscura 10 foresta 10 Empireo
II.[611]
         
sfere corto andare inferno purgatorio paradiso
1 Luna hyle e piante (incerta luna) hyle e piante (fioco lume) flemma acqua etc. (di giorno e non di notte) instabili, mobili etc. (cielo della luna)
[612]
2 Merc. oracoli, Virgilio profeta e poeta etc. spiriti magni valletta amena (cupiditas che è la biscia) per l'onore e la fama
3 Venere lonza lasciva amor... amore... vizio di lussuria (noi leggevamo etc.) fuoco purificatore mondizia degli occhi, amicizia, versi
4 Sole (il sol montava in su) nutrizione dominante sulla illuminazione nutrizione e illuminazione: i due alberi illuminazione (summe divinitatis contemplatio)
5 Marte   cherci, o milizia che non pugnò cherci (salvo un prog. di re) martiri della fede
6 Giove   re nel brago etc. Ebrei e Troiani giusti re
7 Sat. leone (cfr. Par. 21, 13 sg.) violenza (ira implacabile) iracondi (melanconici) contemplativi (religiosi)
8 CS. lupa aiuola che ci fa feroci occhi che mirano a terra perfezione (ingegno di Dante)
9 PM.   Lucifero col noviens Styx Lucifero che scende folgoreggiando etc. Dio coi nove cerchi d'angeli

Il paradiso si unisce col mezzo delle beatitudini e dei doni dello Spirito Santo al purgatorio.

III.[612]
     
  Purgatorio Paradiso
Beati pauperes sp. timor 9 miseri (Pur. 10, 121) libera a malo etc. paura di Dante 9 angeli fedeli che temerono Dio
misericordes pietas 8 amore, pietà, carità Sapia che sapit e praecipit etc. 8 in te misericordia! in te pietate! etc.
[613]
pacifici scientia 7 iracondi (fumo) sapere, vedere nella via del mondo 7 contemplativi (nemo sine pace videt visionem) mondanità de' contemplativi
lugentes 6 Ebrei e Troiani lugentes e flentes[613] 6 letizia etc.
fortitudo (manco di possa e virtù, sonno) libertà del volere milizia del cielo, l'aquila
sitientes consilium 5 sete, giustizia etc. inganni nelle cose umane 5 sete etc. conoscimento delle cose umane
esurientes intellectus 4 cibo e savere etc. inganni nelle cose divine 4 cibo etc. conoscimento delle cose divine
mundo corde sapientia 3 purif. dell'occhio del cuore per ottener la visione 3 l'occhio è puro vedere, antivedere etc.
  2 Ahi serva Italia etc. 6, 76 Giustiniano 6, 89 Colui che etc. 7, 91 sqq. 2 sermo scientiae di Giustiniano intorno all'aquila
  1 Matto è chi spera che nostra ragione 3, 34 Se 'l pastor... avesse in Dio ben letta... 3, 124 Se Castore e Polluce... 4, 61[614] 1 sermo sapientiae di Beatrice intorno alla luna e al voto.

[614]

Per la contemplazione della Trinità e l'uffizio degli angeli si veda il seguente prospetto.

IV.[615]
     
1 Angeli eccitano al fervore e consolano
toccano le cose più evidenti
contemplano lo Spirito rispetto allo Spirito
2 Arcangeli rivelano i principali misteri la carità dello Spir. con la sapienza del Figlio
3 Principati arte di “principare„ e conversione al vero principato la car. dello Spir. con la potestà del Padre
4 Potestati direzione alle cose divine la sap. del F. con la pot. del Padre[616]
5 Virtuti forte virilità senza tacer nulla la sap. del F. rispetto al Figlio
6 Dominazioni dominazione a imagine di Dio la sap. del F. con la car. dello Spir.
7 Troni divino studio di ciò che è sommo la pot. del P. con la car. dello Spir.
8 Cherubini trasfusione senza invidia della conoscenza di Dio la pot. del P. con la sap. del F.[617]
9 Serafini (con sei ali) umile e pronta e cieca ubbidienza la pot. del Padre rispetto al Padre

[615] Così termina questo abbozzo della storia intima del Poema Sacro. Mancano certo molte linee, e molte che vi sono, devono essere certo emendate. Pure a me sembra che La Mirabile Visione sia così assai chiara. Quanto, per la sua maggior chiarezza, riesca anche più mirabile, si vedrà nel volume che è per seguire e che ha il titolo La poesia del mistero Dantesco.

FINE

NOTE:

1. “Augusto„ per esattezza s'avrebbe a dire, poichè le predizioni del veltro che verrà, di colui per cui la lupa disceda, del messo di Dio che anciderà la fuia, sono echi delle predizioni dell'Eneide, nelle quali si promette, per bocca di Giove e d'Anchise, Augustus Caesar (Aen. I 286; la lupa è il furor impius; VI 791: la lupa è il complesso dei mostri domati da Alcide).

2. Ep. VI ad Florentinos, 5.

3. Vedi a pag. 473, nota. Nell'Ottimo (ed. Pisa Capurro 1828) leggo al verso 118 del XXXIII Pur. “se altro non ne sai, vedi il libro Donico, il quale trattò di questa materia„. Che è o chi è questo Donico? Non forse Doniço? cioè, quel Donizone che cantò la contessa Matelda e le disse Marta e Maria? Su che, vedi L. Rocca, Matelda (nel vol. Con Dante e per Dante, 1898 Hoepli).

4. Co. 4, 9.

5. Co. 4, 6. E si legga ciò che segue: “Oh miseri, che al presente reggete! e oh miserissimi, che retti siete! che nulla filosofica autorità si congiugne colli vostri reggimenti nè per proprio studio, nè per consiglio„. Essi non furono addotti dal proprio studio all'arte lor conveniente. Sull'arte leggi tutto il Cap. 9.

6. Mi pare che sia naturale interpretare che Matelda cantasse (Pur. 28, 41) appunto il salmo Delectasti a cui poco dopo ella si riferisce (ib. 80).

7. Pur. XXXII 100 segg.

8. Vedi L'Ultimo Rifugio di Corrado Ricci, pag. 114 segg. e anche la sua Guida di Ravenna, 2a, pag. 134 sgg.

9. Vedi a pag. 279 sgg. Tralascio qui l'ancor più debole obbiezione di Marcabò diruto nel 1309.

10. Vedi a pag. 259 sgg.

11. Vedi a pag. 277 sgg.

12. Vedi a pag. 240 sgg. e a pag. 581 sgg.

13. Vedi Aen. I 716 sqq. IV 165 sq. 169 sq. Vedi nel mio libro a pag. 271 sgg. e 283 sgg.

14. Aen. VI 640 sqq. Vedi in questo libro a p. 250 e sg.

15. Vedi Sotto il velame (Bologna, Zanichelli 2ª ediz. MCMXII) pag. 434 sgg. Al luogo del libro XXII contra Faust, si può confrontare un passo de Cons. Evang. I 5. Ne ricavo questi dati: “(la vita attiva) è quella per cui si va, (l'altra) è quella per cui si giunge; per l'una si fatica, al fine di mondare il cuore per veder Dio; per l'altra si riposa e si vede Dio; quella è nei precetti di esercitar questa vita temporale; questa nella dottrina di vita eterna... Quella è nella purgazione de' peccati, questa nella luce che segue la purgazione. E perciò in questa vita mortale, quella consiste nell'operare il bene, questa più nella fede, e presso pochissimi quasi in uno specchio, per enigma, e in parte in alcuna visione dell'incommutabile verità...„. Queste ultime parole sono di S. Paolo ad Cor. I 13, 12.

16. Il lettore a pag. 22, nel momento d'una dimostrazione decisiva, aggiunga alla penultima riga il concetto che è a pag. 149; così: “Il che Dante ha espresso nel poema, a proposito di Maria alla quale è tanto divota e simile Beatrice, dicendo ch'ella in cielo è face di carità e in terra fonte di speranza„. (Par. 33, 10)

17. Indico con le sigle VN. la Vita Nova (edizione del Witte e del Casini), con Ca. il Canzoniere (ed. Fraticelli), s. sonetto, b. ballata, c. canzone; con VE. il de Vulgari Eloquentia (ed. Rajna), con Co. il Convivio (ed. Fraticelli), con M. il de Monarchia (ed. Fraticelli), con Inf. Pur. Par. le singole cantiche della Comedia (ed. Witte). Nelle note, MO. e Vel. significano i miei due volumi, Minerva Oscura (Giusti) e Sotto il Velame (Zanichelli).

18. “Da questa visione innanzi cominciò lo mio spirito naturale ad essere impedito ne la sua operazione etc.„

19. V. nella Vita Nova di AD'Ancona (Pisa, Nistri 1872 e 1884) la nota in proposito al cap. III.

20. Un nobile maestro di psicologia, a questo proposito dice: “Per quanto sia ancor tenebrosa la psicologia dei sogni nei loro rapporti colle provocazioni della veglia, si può ritenere che il prodotto intellettuale di origine esclusivamente fantastica, meno facilmente s'inquadra nella trama d'un sogno, come quello che dispiega minor relazione cogli stimoli sensitivi. La disposizione al sogno par più viva sempre rispetto al reale, di cui il sogno è una qualche trasformazione, che rispetto all'ideale di cui il sogno non è che continuazione, perchè l'ideale è appunto il sogno della veglia„.

21. Il Casini (VN. pag. 22) con poca verisimiglianza intende “la morte chedea... la tua donna„. Come avrebbe detto Dante che lo verace giudizio del detto sogno non fu veduto allora per alcuno, se Guido l'aveva veduto? Meglio PErcole (Guido Cavalcanti e le sue rime p. 314 segg.). Pur dissento anche da lui. Il su' contraro è per me il contrario del sonno, e non l'avversione di Beatrice. Di più non credo a ciò ch'egli dice che “B. conquistandolo (il cuor di Dante) ne voleva la morte„, e che Amore desse “alla Donna da mangiare il cuore, destinato alla morte, per impietosirla„. Leggiamo per es. il Son. XXIII di Guido:

la nova donna cui mercede cheggio
questa battaglia di dolor mantene.
············
drizzami gli occhi de lo su disdegno
sì feramente che distrugge 'l core.

Il core muore, quando è disdegnato. E ci vuol, da parte della donna, mercede. Or questa mercede, nel fatto del sogno, Guido la vedeva e interpretava con quel fero cibo delle novelle, che si credeva potente a indurre in amore. (V. in VN. del D'A. pag. 34).

22. Togliendo a venticinque (l'adolescenza termina a venticinque anni) i nove anni della puerizia, abbiamo sedici, la cui metà è otto. Nell'esatto mezzo della sua adolescenza sarebbe stato Dante, se avesse avuto diciassette anni e non (come egli pone), due volte nove anni. Il nostro pensiero si fermerà su questi numeri. Notiamo ora che, se non Dante, Bice, sì, era allora proprio nel mezzo, avendo ella poco più di diciassett'anni.

23. MBarbi (Un son. e una ball. d'amore etc. Fir. 1897) crede sia da preferire la lezione monna Lagia a monna Bice.

24. Son. XXIX nell'edizione di PErcole. Il quale legge, con l'Arnone, al v. 8 avei ricolte, lasciando la lezione avea ricolte, havea riccolte di due codici, cui si può agguagliare l'altra d'un terzo, have (have') riccolte. E anche l'interpretazione, non solo a questo punto ma altrove, è disforme dalla mia. E bisogna leggere in FD'Ovidio, Studii sulla D. C. “La rimenata di Guido„, per aver notizia della letteratura dell'argomento. FD'O. sostiene tutt'altra opinione della mia.

25. Son. X dell'ed. citata. FTorraca pensa così in Rass. Crit. di Percopo e Zingarelli I 33.

26. che tutte le tue rime avea ricolte. Quel senso di ricogliere è in Dante, Pur. 18, 86. Par. 4, 88; 10, 81; 29, 69; e altrove. E a me pare alluda alla risposta perfetta, rima per rima (come non era sempre solito: cfr. gli altri sonetti a botta e risposta in PErcole p. 317 segg.). E mi pare interpretazione così facile e piana, che per certo alcun altro l'avrà trovata prima di me. L'asindeto avversativo, appoggiato al forte del verso di me parlavi sì coralemente, che io dichiaro col ma, non è alieno dallo stile stringato e poco agevole di Guido in altre sue cose. Anche il D'O. dà a quel valore esclamativo e lo dichiara per invece.

27. E può venire in mente che queste rime fossero quelle “certe cosette per rima„ fatte per la “gentile donna schermo de la veritade„ (VN. 5).

28. “Sì mi venne una volontà di volere ricordare il nome di quella gentilissima, e d'accompagnarlo di molti nomi di donne, e specialmente del nome di questa gentile donna„: VN. 6. Checchè fosse il segreto intendimento di Dante, quello “specialmente„ ci dice che nella pistola trionfava il nome della donna dello schermo.

29. Casini: Notizia sulla VN. nella sua edizione par. 5: “Se quest'idea del nove non avesse avuto un fondamento nel fatto, Dante avrebbe potuto imaginarla in ogni circostanza, non avrebbe avuto bisogno di dare un'espressione approssimativa alle sue parole, e tanto meno poi dì ricorrere a un artificio del ragionamento etc.„. Lascia invece dubitare l'intervallo tra la prima apparizione e il saluto.

30. Aur. Aug. Confessiones 3, 11, 20; 4, 1, 1.

31. Non posso tenermi dal dire che (nè con ciò intendo che Dante vi s'ispirasse qui o non s'ispirasse anche altronde), che ne' libri Contra Faustum di S. Agostino è grande uso di tali spiegazioni simboliche di numeri. Per es. Et quod vicesimus et septimus dies mensis commemoratur... id est quodam modo conquadratos trinitas perficit; in memoria qua Deum recolimus, in intelligentia qua cognoscimus, in voluntate qua diligimus. Tria enim ter et hoc ter fiunt viginti septem, qui est numeri ternarii quadratus. Lib. XII cap. XIX.

32. Vedasi, per citar l'ultima, negli “Studi sulla D. C.„ di FD'Ovidio, la trattazione “Dante e San Paolo„ a pag. 326-31. Il D'O. s'acqueta alla chiosa di GMazzoni, ridotta alla più semplice espressione, così: “I celesti vorrebbero subito in cielo la celeste Donna, e Dio la concederebbe se un solo essere celeste, la Pietà, nol rattenesse. I celesti avranno un giorno Beatrice, gli uomini destinati a salvarsi l'avranno ugualmente, ma e quei poveretti che non vedranno mai il Paradiso? Dio misericordioso pensa di lasciar che essi godano almeno un raggio di Paradiso in terra vedendo Beatrice„. Vedi nella VN. del d'Ancona e anche del Casini le varie opinioni d'altri, come quella dello Scherillo nello studio innanzi citato.

33. In molte questioni della Summa specialmente in 2a 2ae 18, 2 e 3. Trascrivo: Contra est quod Apost. dicit ad Rom. 8: Quod videt quis, quid sperat? sed beati fruuntur Dei visione; ergo in eis spes locum non habet... cum beatitudo iam non sit futura sed praesens, non potest ibi esse virtus spei; et ideo spes, sicut et fides, evacuatur in patria, et neutrum eorum in beatis esse potest... Evacuata spe in beatis, secundum quam sperabant sibi beatitudinem, sperant quidem aliis beatitudinem, sed non virtute spei, sed magis ex amore charitatis... — Ad conditionem miseriae damnatorum pertinet, ut ipsi sciant, quod nullo modo possunt damnationem evadere... unde patet, quod non possunt apprehendere beatitudinem ut bonum possibile, sicut nec beati ut bonum futurum; et ideo neque in beatis, neque in damnatis est spes; sed in viatoribus, sive sint in vita ista, sive in purgatorio, potest esse spes... magis potest esse fides informis in damnatis, quam spes.

34. Ne trovammo altri. Leggasi per esempio il mito del lume che è tenebra in Vel. pag. 67.

35. Vedasi nella Summa 2a 2ae 14, 2. L'uomo si distoglie dall'elezion del peccato, mediante la speranza che sorge dalla considerazione della misericordia che rimette i peccati e premia le virtù: e questa speranza è tolta dalla disperazione.

36. Vel. p. 477.

37. Aur. Aug. Contra Faustum XXII cap. 52-8. Riferisco qui molte delle dichiarazioni che dà S. Agostino di Rachele, dichiarazioni sinonimiche e che s'accentrano nella parola sapientia... (52) Rachel... (interpretatur) Visum principium, sive Verbum ex quo videtur principium — Spes... aeternae contemplationis Dei, habens certam et delectabilem intelligentiam veritatis, ipsa est Rachel; unde etiam dicitur bona facie et pulcra specie... (53) Unusquisque, quid aliud corde gestavit, quid aliud adamavit, nisi doctrinam sapientiae...? — pro concupita et sperata delectatione doctrinae... — ad pulcrae atque perfectae sapientiae delicias pervenire... — voluptas intelligendi quae vera sunt — Concupisti sapientiam — intelligentiae meritum... — ad sapientiam... intelligentia pertinere monstreturqui flagrant ingenti amore perspicuae veritatis... — in eo quod appetit, (est) luminosa sapientia... Verbum quo videam rerum omnium, principium... — speciosa intelligentia... — (54) Rachel clara adspectu mente excedit Deo et videi in principio Verbum Deum apud Deum (Paul. ad Cor. 5, 13, Ev. Ioan. 1, 1)... studio contemplationis, ut ea quae carni sunt invisibilia, non infirmis oculis mentis, per ea quae facta sunt, intellecta conspiciat, et sempiternam Dei virtutem, ac divinitatem ineffabiliter cernat (Paul. ad Rom. 1, 20)... — studia contemplationis ignescunt... etc.

38. Liber Sapientiae, Cap. VIII. Vedi FPPerez, La beatrice svelata, cap. XI.

39. Vel. passim spec. 49 sgg.

40. La lezione di questo verso è assai incerta. “Pur„ non può significare “ancora„, dice il Rajna, che perciò interpunge col d'Ancona

che mi dicean pur: Morrati, morrati

Il Casini vuole che “pur morrati„ sia mantenuto, per far riscontro al “Tu pur morrai„ della prosa dichiarativa. Ma come “pur morrati„ valga “tu pur„ ossia “tu solo„ non si vede.

41. Vel. Il passaggio dell'Acheronte, pag. 69-103.

42. Aur. Aug. contra Faustum XXII 53: Quamlibet enim acute sinceriterque cernatur a mortalibus incommutabile bonum adhuc corpus quod corrumpitur etc. (Sap. 9, 15).

43. Ciò è in Perez, La beatrice svelata, XII.

44. Notevole il fatto, segnalato dal Perez, che l'autore dell'Epistola a Can della Scala ricorda e questo passo di S. Paolo e il nome di Riccardo da S. Vittore. È un fatto in favor dell'autenticità che vale quanto molte argomentazioni, quanto si vogliano sottili, contro.

45. PRajna, La genesi della Divina Comedia: “Dante, in un periodo d'afflizione, perchè la sua Beatrice, biasimando alcuna cosa in lui, gli ha tolto il prezioso saluto, cerca conforto nella esaltazione dell'amata, e s'attenta, forse per la prima volta, ad affrontare il genere lirico più elevato, cioè la canzone. Egli parla — a donne e donzelle amorose — ...„

46. Vel. pag. 28.

47. Giuliani: “Io duro costante, non così tu: io rimango sempre lo stesso, non mi muto mai per diverse che sieno le circostanze in cui m'aggiro, ma tu invece ti cambi di frequente„. Il Witte: “un amico amore manda i suoi raggi ugualmente a tutte le parti della circonferenza, cioè si manifesta ugualmente in tutte le azioni dell'amante, ma le tue azioni hanno più d'un centro„. Queste due spiegazioni implicano il concetto d'incostanza e imprudenza. E l'implica anche quella del Notter: “Amando Beatrice mortale, oppure quel che in lei è mortale e non iddio, tu non sei ancora nel vero centro del tuo essere, cioè in me, che sono iddio„.

48. Nel Vel. (pag. 153) è notato lo sparire quasi a questo modo della lonza e specialmente del leone nella lupa.

49. AD'Ancona nella sua ed. della VN. “In questi due amori... a noi sembra trovare la conferma di ciò che il Boccaccio scrisse, Dante cioè essere stato prono ad amori, non sempre spirituali, specialmente in gioventù. Dovendo egli in questo libretto far le sue confessioni, non poteva tacere di quei due affetti giovanili: solamente, volendo anche mostrare la fatalità e la perennità dell'amore a Beatrice, li collegò con questo rappresentandoli come schermi„ etc.

GCarducci, nella medesima ed. “Peregrino indica lo errare da un amore all'altro o da una sembianza d'amore a un'altra: leggermente vestito, adombra la leggerezza e varietà di siffatti amori; e di vili drappi, significa che quel nuovo amore fu indegno: per ciò, più sotto, guarda la terra.„

MScherillo in Alcuni Capitoli etc. (pag. 268-272) rintraccia in poeti provenzali quest'uso d'amori finti a coprire il vero. Io credo però che Dante s'ispirasse a codesti rimatori per dare la sua figurazione allegorica di amori veri sebbene non serii, o che tali, almeno, non gli parvero dopo.

50. L'idea del circolo a significare l'amore può D. averla tratta dal 3 de Anima (in Summa 1a 2ae 26, 2): appetitivus motus circulo agitur. Invero il quid appetibile muove l'appetito che tende all'appetibile, da cui è mosso: così la linea converge a ritrovar sè stessa. Come però l'amore sia il centro di questo circolo, piuttosto che il principio di questo moto, qual è nella Somma, D. può averlo indotto da questo passo di S. Agostino nelle Confessioni, 13, 9: “Il corpo tende, per il peso, al suo luogo. Il peso non è solo verso il basso, ma verso il luogo suo. Il fuoco va a su, la pietra a giù. Sono tratti da' loro pesi, cercano i luoghi loro... Il mio peso è l'amor mio: là son condotto, ovunque io sia condotto„. Per la gravità il corpo cerca invero locum medium come è in Summa 1a 2ae 26, 1; e questo locus medius è detto centro da Dante stesso; (Inf. 34, 107)

dal centro...
il punto
al qual si traggon d'ogni parte i pesi.

È incluso, nel paragone di Dante, il concetto che amore sia Dio stesso? Può stare. Dio (per dirla con un filosofo cattolico, GMCornoldi, Lezioni di Filosofia, pag. 551), Dio “amando sè ama in sè e con sè tutte le cose„. E come egli è il centro cui tendeva l'anima ardente d'Agostino, ed è l'Amore stesso, così possono essere buone e cattive le cose ch'egli ama.

51. Secondo il Lubin sarebbe stato nel 1289. La canzone è trascritta in parte sopra un memoriale dell'anno 1292 del notaio bolognese Pietro Allegranza. Ve la trovò il Carducci.

52. Si contradice a F P Perez, che si giova di questo passo, per dimostrare che tutto è allegoria e simbolo nella VN. (Vedi ad esempio Gaspary). Si dice che qui si tratta di personificazioni. Le quali, dunque (dico io), il rimatore deve sapere denudare di cotal vesta. E così dunque negli esempi recati da Dante di poeti, Virgilio avrebbe dovuto certo aprir per prosa che Aeole namque tibi valeva, che cosa? Lucano “non senza ragione alcuna, ma con ragione„ avrebbe detto: Multum, Roma, tamen debes, e questa ragione consisterebbe tutta, in che? nel dire, tu, o Roma, devi, invece che, Roma deve? O guardate: lo scoliaste (vedi per ciò la V. N. del Casini, pag. 141) di Lucano qui soccorre: tamen quod per illud (bellum) tantum rectorem habemus, ideo etc. Dante forse non pensava che quel sì grande reggitore fosse Nerone o pensava che il concetto di Lucano fosse “che le guerre civili avevano portato alla monarchia„. Superfluo ricordare i sensi mistici attribuiti all'Eneide. Per questi, e per altri, attribuiti alla Farsalia, vedi di Dante stesso il Co. 4, 26, 28. Dante dice che tali personificazioni non si adoperano che in poemi i quali hanno ben altro intendimento di quel che paia, e così non si debbano adoperare in rime (d'amore, per forza) se non per coprire di tal veste un altro senso.

53. FPPerez, Beatrice svelata, Cap. XVIII. “Le quali (Beatrice e Giovanna) mentre esprimono, nel concetto di Dante, la distinzione delle due Vite possibili all'uomo — l'operativa, sotto l'impero della ragione, e la speculativa, sotto quello dell'intelligenza — e i loro rapporti d'attenenza e successione, valgono a sodisfare pur anche un gentile bisogno dell'anima sua; consociare alla propria gloria colui che fu primo e dolcissimo tra' suoi amici„. Così vedi nel cap. VIII il divario tra scienza e sapienza, basato sul passo di Paul. ad Cor. 1 12, 8: alii quidam datur per spiritum sermo sapientiae, alii sermo scientiae. Scientia in Dante era anche sinonimo di “arte„, poichè la Musa (VN 25) egli chiama la propria scienza del poeta.

54. La proporzione sarebbe questa: 25 : 10 :: 18 : 7, 2.

55. Vel. La selva oscura, pag. 1-48.

56. Non diversamente del Giuliani, FFlamini in Dante e lo “Stil Novo„ (Rivista d'I. 15 Giugno 1900): “Nè chiosa più veritiera poteva egli fare appunto a quella designazione (Io sono uno che scrive quando etc.), se gli dobbiamo credere quanto nella Vita Nova afferma, il cominciamento di canzone riferito da Bonagiunta essergli venuto spontaneo sulle labbra„ etc.

57. Vedi a pag. 49.

58. Ol. II 94. Nem. III 80. V. 21.

59. Perchè non si creda trattarsi di facoltà essenzialmente diversa, basti, per un esempio, ricordare (Pur. 4, 73):

Vedrai...
Se l'intelletto tuo ben chiaro bada
············
Non ved'io chiaro sì, com'io discerno,
là dove mio ingegno parea manco.

Ingegno è espressione più modesta che intelletto. Intelletto si fa dir da Virgilio, esso dice ingegno.

60. Ecco il luogo del Convivio: “Pure avvegnachè all'abito di quella si vegna, non vi si viene sì per alcuno, che propriamente abito dire si possa; perocchè il primo studio, cioè quello per lo quale l'abito si genera, non può quella perfettamente acquistare„.

61. Sap. 8. Lo cita il Perez, e se ne parlerà ancora.

62. E qui scienzia vale certo sapienza, come si vede da ciò che seguita all'ultimo passo che cito: “chè, siccome di sopra si dice, Filosofia è quando l'anima e la sapienza sono fatte amiche„. Pure non credo a una svista di Dante. Scientia è anche nel VE. per habitus scientiarum. Le scientiae (di cui una è l'arte poetica, detta pur scienza da Dante in VN.) sono le membra della sapienza. Scienzia sarà quindi la Sapienza ma considerata nelle sue parti, veduta come un complesso di parti. Sarà insomma scienzia lo stesso concetto di sapienza, analiticamente espresso invece che sinteticamente. Nello stesso capitolo dice che i seguitatori di scienza, cioè filosofi, erano chiamati sapienti, e che filosofo vuol dire amator di sapienza. Scienza da scire, che in italiano è sapere da sapere, donde sapienza: gran confusione.

63. V. in IDel Lungo Dal Secolo e dal Poema di Dante, Bologna 1898, nello studio “Il disdegno di Guido„ a p. 40-41, la biblioteca (una gran biblioteca) del disdegno di Guido. E aggiungivi “Il disdegno di Guido„ degli Studii sulla D. C. di FD'Ovidio; studio che contiene con qualche lieve ritocco i successivi articoli di lui. NTommaseo aveva enunziate le parole decisive nel suo commento: “Guido non curò l'eleganza dello stile e lo studio degli antichi... Non mai però l'arte e lo studio sono (in Guido) quanto in Dante profondi„.

64. È tanto decisiva, che basterebbe, invertendo il modo della dimostrazione, a provare che Virgilio significa studio.

65. Oltre i suoi modi di “sdegnoso e solitario„ (Cronica di D. C. I. 20) giova ricordare che Guido Orlandi (PErcole p. 330) gli dice: “Ovidio leggi: più di te ne vide!„ e Cino (ib. 358) par che dica di lui, ch'e' “cuopre sua ignoranza con disdegno„. Ma a nessuno sfugga che Dante nella Vita Nova non fece tanto alta testimonianza di Guido, quanto nella Comedia, perchè qui lo dichiara l'unico idoneo a venir con lui, mancandogli solo lo studio, che forse non disdegnò volontariamente.

66. Per es. FPPerez. “Non so qui tenermi dal notar la singolarità di questo esprimere per sillogismo e in modo induttivo, anzichè affermativo, il dolore della propria donna alla morte del suo padre„.

67. Vedi a pag. 16, 24, 25, 30 e 31.

68. Sap. 6. FPPerez, in Beatrice svelata XI.

69. Tradurrei: non qui prior vidit, ma, con la frase biblica, cui se prior ostendit.

70. AD'Ancona nella sua VN. “Per uno di quegli accorgimenti, di quelle transazioni, che facciamo con noi stessi, quando vogliamo persuaderci della bontà di una cosa che il sentimento o la ragione ci fanno apparire d'altra natura, Dante mormora entro di sè che le ragioni dell'antico e del nuovo affetto sono identiche, che è lo stesso amore quello che lo fa triste e quello che appare adesso nel volto della donna pietosa. Così l'antico affetto scusa e spiega il nuovo„.

71. V. a pag. 12.

72. Pag. 57.

73. Vedi Scritti su Dante di Giuseppe Todeschini, 1872 vol. I pag. 311 e segg.; Studi su Dante di Raffaello Fornaciari, La Trilogia Dantesca, pag. 113 segg.

74. Vedi Intorno all'epoca della Vita Nova... diss. di A. Lubin, Graz. 1862; a pag. 22. Questi afferma trattarsi di due rivoluzioni equivalenti a due anni solari. Il Todeschini contradice affermando significate dalle parole di Dante due rivoluzioni “di Venere nell'orbita sua„, dello spazio, cioè, di 450 giorni circa, in tutto.

75. Confess. IV 1, 1: Per idem tempus annorum novem, ab undevicesimo anno aetatis meae, usque ad duodetricesimum, seducebamur et seducebamus, falsi atque fallentes... Si tratta proprio di false imagini di bene. Vedi S. Agostino e Dante, Saggio di Arena Antonio, 1899. Della Vita Nova questi non parla.

76. Confess. I 6, 10; 7, 12.

77. ib. III 4, 7.

78. ib. III 11, 19.

79. ib. V 3, 3 sqq. E vedi a pag. 15, 16, 24, 31.

80. Nel pensiero di Dante, Giovanna non mi sembra che fosse, come non è Matelda, la vita attiva in sè e per sè, ma qualche cosa della vita attiva in quanto questa dispone alla vita contemplativa. Ne riparleremo, e già se n'è parlato molto in Vel. Il colle, sì, rappresenta la beatitudine della vita attiva in sè; il santo monte, no, ma della vita attiva in quanto si dispone e si rende atta alla contemplativa. In cima al bel colle non avrebbe Dante trovata nè Giovanna nè Matelda. Lia lassù non si sarebbe specchiata. Beatrice a Dante dice: (Pur. 30, 73)

Ben son, ben son Beatrice:
come degnasti d'accedere al monte?
non sapei tu che qui è l'uom felice?

“Qui: non nell'altro colle, dove è beatitudine imperfetta, per chi ci può arrivare. E tu non potesti. Gran mercè, che allora lasciasti il colle e ti mettesti per questo monte! Eppure io lo sapevo che tu non eri fatto per quella vita là, che poi non dà la beatitudine perfetta, non ha me sulla cima„.

81. Vedi VN. di TCasini, pag. 199; PRajna, Per la data della VN. in Giorn. stor. della lett. ital. VI 112-162.

82. Hier. proph. lam. I. Vedi anche ALubin, Dante spiegato con Dante, 1884, p. 39 segg. Egli non persuade me come non aveva persuaso il D'Ovidio (Nuova Antologia 15 marzo 1884).

83. Sopra tutti, AD'Ancona, Discorso su Beatrice, nella sua ed. della VN.

84. Dino Compagni, Cronica (ed. Del Lungo); II. G. Villani VIII, I. Vedi Dino Compagni e la sua cronica, e Da Bonifazio VIII ad Arrigo VII di IDLungo. Qui specialmente di quest'ultimo volume il cap. III.

85. La V. di D. Testo del c. d. Compendio... per cura di E. Rostagno.

86. Nè in queste imaginazioni sono primo, giova avvertire. Ma lungo e fuor del mio proposito, far qui una lista. Si ricorra per altro, da chi voglia vedere come possa aver proceduto Dante nel trasformare una Bice donna in una Beatrice Sapienza, al citato “Discorso su Beatrice„ di AD'Ancona.

87. La nota già citata (pag. 11) di MBarbi porta a escludere monna Bice. Un solo ms. ha monna bice e... uaggia. Nella Giuntina (del 1527) che recò monna Vanna e monna Bice, questo nome può essere emendamento dell'editore. Il quale si sarebbe ricordato del sonetto XIV della VN. verso 9: io vidi monna Vanna e monna Bice. Ora non è più verosimile che i trascrittori antichi cercando la monna di Lapo e non volendola riconoscere in quella ch'era in sul numero di trenta o delle trenta (se non pensavano al serventese, potevano vedere in quel numero qualcosa di privilegiato), cominciassero a mettere, prima in margine e poi dentro, monna Lapi (Vat.) e monna Lagia?

Questo non è più che un dubbio; ma fa pensare quell'unione di Vanna e Bice nel sonetto XIV! e quel pensiero di Dante su Giovanna precorritrice della vera luce! A ogni modo, anche se si esclude Bice dal sonetto del vascello, non si deve però escludere che Guido avesse dall'amico la confidenza dell'amore suo per Bice o Beatrice.

88. Cronica di Dino Compagni, XX. Vedi PErcole, nel libro citato, a pag. 44: “Resta dunque che il pellegrinaggio si ponga tra il 1292-93 e il 1295-96. Ed io credo infatti che, avvicinandosi la bufera del 1293... Guido aristocratico, sdegnoso, dovesse sentire assai forte dispetto della sconfitta dei Grandi... è molto probabile che Guido abbandonasse sconfortato Firenze, approfittando dell'occasione d'un pellegrinaggio„.

Leggi poi a pag. 49: “Il primo (periodo della vita di G.) va dalla fanciullezza sino al tempo in cui egli cessò, come dice Dante, di mirare la beltà della Primavera gentile. Fino a questo tempo lo vedemmo quasi interamente estraneo dalle lotte cittadine... Il secondo periodo, che va dal 1290 (per me, dal 1292 o 93, riferendomi non al tempo del sonetto, ma della prosa dichiarativa) al 1300, è il più fortunoso... È quindi probabile assai che nel primo periodo egli attendesse a quegli studi filosofici che lo resero così celebre fra i contemporanei„. E aggiungiamo che è assai probabile che nel secondo periodo, non vi attendesse più. Per il viaggio interrotto, vedi a pag. 80 e segg. dello stesso libro.

89. IDLungo Bon. e Arr. VII pag. 118, id. Dal Sec. e dal Poem. di D. pag. 385 segg. Ivi si legge anche che il Biscioni aveva a' suoi tempi veduto di Dante atti consiliari del 1295.

90. Vel. La selva oscura.

91. Vel. Le tre fiere; e, spec. qui Il corto andare, pag. 169 seg.

92. Vel. Il passaggio dell'Acheronte, p. 73 segg.

93. Così almeno dice Dante di sè; ma le sue non erano confessioni come quelle d'Agostino; bensì erano note della sua vita, molto generiche, per formare una specie di trattato filosofico.

94. Vel. pag. 171. Iohn Earle, La “Vita Nova„ di Dante, 1899, pag. 56. Egli crede che il monte non sia quello del Purgatorio, sì quello al termine della valle. Duro peraltro è intendere espresso, da una che sta sur un monte, con quella parola “il monte„, un altro monte che quello su cui ell'è. La sconnessione tra i versi 74 e 75 sparisce, quando s'unisce il 75 al 73. Del resto IEarle intende bene: qui, non là; pure non interpretando esattamente il colle ch'egli dice “il monte della scienza„. E pure anche “scienza„ andrebbe, ma interpretandola come quasi sinonimo di vita attiva, nel modo stesso che sapienza si prendesse per vita contemplativa.

95. Nel che peraltro è da vedere un dubbio che veramente ebbe il Poeta. Come la sapienza, di cui si parla nel libro di sapienza, non è la sapienza vera? la sapienza che s'identifica nella contemplazion di Dio? E solve il dubbio dicendo che veramente ella era senno (cfr. Inf. 16, 20: fece col senno assai e con la spada) o prudenza regale. Così nel Convivio (4, 17): “Bene si pone Prudenza, cioè Senno, per molti essere morale virtù... avvegnachè essa sia conducitrice delle morali virtù, e mostri la via perchè elle si compongono, e senza quelle essere non possono„. Vedi Co. 4, 27.

96. Nel Convivio (2, 5) Dante chiama “più divina„ la vita contemplativa. Divina la chiama, a dirittura, Beatrice qui nella Comedia (Pur. 33, 88).

97. Aur. Aug. contr. Faustum XXII. L'espressione è in Sap. 9, 14. Vel. pag. 435.

98. Ps. 91.

99. Ottimamente tratta GPoletto (in Alcuni Studi su Dante Alighieri, App. X) questa materia della vita attiva preparazione alla contemplativa. È meno esatto, a parer mio, in alcune conclusioni. Queste, per esempio. “La Vita Contemplativa non è che complemento dell'attiva, questa quale preparazione di quella„. No: non tutti quelli che riescono a bene, dall'attiva sono passati alla vita contemplativa, in questo modo. Sarebbe un negare che ci sia vita attiva. “Matelda adombra le due Vite„. Non precisamente: adombra qualche cosa che tiene delle due vite: dall'operare e contemplare: l'arte, virtù intellettuale e abito operativo, Vel. 462.

100. Osservazione di GPoletto, in Alcuni Studi, pag. 217: “Così è stabilita la necessità della prima parte del viaggio, lasciando alla libera elezione di Dante la seconda„. E cita un passo di S. Gregorio citato in Summa 2a 2ae 182, 4.

101. S. Bern. Op. I 842: “Quod quidem si magnum illud Ecclesiae corpus considerare libet, facile satis advertimus, longe acrius impugnari spirituales viros ipsius Ecclesiae, quam carnales: quae nimirum duo eius latera, dextrum sinistrumque, puto non inconvenienter accipimus„. Vedi Vel. 264.

102. Vedi in S. Bernardo (op. II 461) l'antitesi tra Lucifero e Maria. Mi giovo, trattando di Maria, pure in cose vulgate, di S. Bernardo, perchè certo autore di Dante.

103. Bern. Op. I 1564.

104. Bern. Op. I 468.

105. A ogni tratto Maria è chiamata domina e domina nostra in S. Bernardo. Vuolsi ch'ella cominciasse a chiamarsi domina a esempio de' Cistercensi, chè tutti i loro monasteri sono dedicati alla Vergine. Vedi in Bern. Op. (ed. Migne) I 89.

106. Bern. Op. I 743.

107. Bern. Op. I 468.

108. Bern. Op. I 1006, 723.

109. Bern. Op. I 1374.

110. Bern. Op. I 1012.

111. Vedi a pag. 18 sgg.

112. Bern. Op. I 1012.

113. Vedi a pag. 87 sgg.

114. Bern. Op. II 610.

115. Bern. I 995.

116. Leggi più avanti a pag. 155.

117. Ev. Luc. 1, 35.

118. Bern. Op. I 1328.

119. Vedi a pag. 12 sgg. e 98.

120. Vedi a pag. 35.

121. Si può dire che dietro CWitte (Dante-Forschungen I 1-65 e altr.) tutti ora credano alla così detta Trilogia Dantesca, di cui il Convivio figurerebbe il traviamento, pieno di contradizioni e di martirio, e la Vita Nova uno stato per così dire d'innocenza e purezza, e la Comedia il ritorno a quella. Modo superficiale, a parer mio, d'intendere! O se invece il Convivio è l'opera moralmente più pura! Lì Dante è fermo (vedremo, come pietra) nell'amor della sapienza, dal quale amore sì nella VN. e sì nella C. narra d'essersi disviato! Per alquanti dì, nella VN.; per un decennio, nella C. Il martirio dell'anima nel Convivio è l'alternarsi di luce e d'ombra ne' suoi stadi: non altro.

122. Per es. il Dionisi, del sonetto E' non è legno; il Fraticelli, delle tre sestine, e della sestina doppia e della canzone Io son venuto.

123. Isaia 16, I.

124. ad Cor. I 10, 4.

125. S. Bern, Op. II 1002. In annunt. Dominica Sermo II.

126. id. ib.

127. In festo S. Benedicti Sermo I. Bern. Op. II 988 sqq.

128. Ev. Iohann. 6, 61.

129. Così nel comento alla canzone seconda conviviale dice, come già riferii: “E di tutto questo il difetto era dal mio lato„.

130. Così intesero veramente il Dionisi e il Fraticelli, interpretando allegoricamente queste composizioni.

131. A pagina 156.

132. In cantica, Sermo XLVIII, 6; alle parole del Cant. 2, 3: Sub umbra eius quem desideraveram sedi, et fructus eius dulcis gutturi meo. Bern. Op. I, 1437.

133. Sermo LIII, 8. Op. I, 1453.

134. De laudibus Virginis Mariae, Hom. II, 6. Op. I, 745.

135. Medit. in Antiph. Salve Regina. Op. II, 750. Veramente la meditazione si attribuisce ad Anselmo vescovo di Lucca, che visse avanti la nascita di S. Bernardo.

136. Georg. I 208. Libra die somnique pares ubi fecerit horas. Servio annota: dicit autem aequinoctium auctumnale, quod fit sole in Libra posito. Vernale enim aequinoctium sol in ariete efficit.

137. Georg. II 336.

138. IDLungo Dal Sec. e dal Poem. di Dante: pag. 385 segg.

139. OBacci Dante ambasciatore, etc. Firenze 1899.

140. Non mi persuade al tutto Antonio Cimmino con Il Giubileo del 1300 e D. A. Roma 1900, dell'importanza in genere dell'anno santo nella Comedia; nè prima di lui m'aveva persuaso Nunzio Vaccalluzzo con Il plenilunio e l'anno della Visione Dantesca, Trani, 1899 (pag. 23 sg.), nè gli altri, citati in quel bello opuscolo. L'importanza c'è; non però precipua nè grande.

141. Vel. pag. 126 segg.

142. Vel. pag. 331.

143. Vedi a pag. 94. E vedi nota a pag. 134.

144. Vedi, per un esempio, PFraticelli nella Dissertazione nel Convito (pag. 6 segg. dell'ed. Barbera 1857). Con che non dico d'accettare le sue date.

145. Vedi in FPPerez, La beatrice svelata, l'inoppugnabile capitolo XVIII.

146. Vedi nota a pag. 49. E leggi tutto il discorso di GCarducci, Della varia fortuna di Dante.

147. IDLungo: da Bon. VIII ad Arr. VII. Cap. VIII.

148. Su ciò ritorneremo. E dico sin d'ora che m'acqueto a ciò che dei Malaspina ospiti di Dante dice LStaffetti in Bull. Soc. Dant. It. N. 5. VI 6.

149. Epistola V dell'ed. Fraticelli.

150. IDLungo, Op. cit. Cap. IX.

151. IDLungo, Op. cit. pag. 421.

152. IDLungo, Op. cit. pag. 422.

153. Epistola VII.

154. GAScartazzini, Dante in Germania, II, 317 segg. Id. in Giorn. stor. lett. ital. I, 270 sg. — Scheffer Boichorst, Aus Dante's Verbannung, pag. 105-138.

155. Tesi di FSKraus in Dante sein Leben und sein Werk etc. V. Egli però sostiene che tutto il Trattato ebbe occasione da quella bolla e principio in quell'anno.

156. CWitte, IDel Lungo, Grauert.

157. Il seme, i due capitoli 4 e 5 del IV del Convivio; l'innesto, le correzioni e aggiunte che Dante nella Monarchia fa a' concetti del Convivio: per es. a quello della nobiltà. Nel Co. 3, 8 non cita l'autore dell'opera di S. Martino Dumiense; in M. 2, 5 l'attribuisce, sia pure a torto, a Seneca. E altro, in rapporto alle epistole e al poema.

158. In questo senso mi par di accettare l'idea di IDel Lungo.

159. Nella Comedia (Pur. 16, 107) rettifica, e dice che anche l'autorità temporale è un sole. Nel vigesimo dell'inferno (v. 127) ha seguito l'idea o imagine della Mon. che quell'autorità si raffiguri nella luna. Con l'ipotesi e il calcolo che si leggeranno nei cap. seguenti, Dante alla fine del 1317 si sarebbe trovato a comporre, su per giù, il diciottesimo del purgatorio. C'è da credere che nel tempo stesso che, in ossequio alla tradizione, manteneva nel terzo di Monarchia l'imagine della luna imperiale, nella Comedia la facesse correggere quasi dispettosamente da Marco Lombardo.

160. Vel. pagg. 122, 169 e altr.

161. Dell'epistola a Can Grande è controversa l'autenticità, negata in questi giorni dal D'Ovidio, difesa da FTorraca. A me man mano pare che quest'autenticità risulti dall'esattezza singolare con cui è esposto il pensiero di Dante: da chi, se non da lui stesso?

162. È l'epitafio di Giovanni del Virgilio, che al verso 7 dice:

Pascua Pieriis demum resonabat avenis:
Atropos heu! lectum livida rupit opus.

Intorno a cui vedi FNovati Indagini e Postille Dantesche, Bologna 1899, pag. 37 sgg. Io non credo, come dirò di qui a poco, che Dante volesse fare un opus di dieci ecloghe; credo però che Giovanni del Virgilio lo credesse.

163. Vedi su questo e sugli altri epitafi il bellissimo libro di CRicci, L'ultimo rifugio di D. A. p. 249 segg.

164. Di che parleremo.

165. De off. I 13, 41. Vedi Vel. pag. 119. La Vulpecula si chiama Florentia, dice Dante; ma è per dire che ha la sua tana in Fiorenza. È, quanto si voglia, cupidità guelfa, ma cupidità, a ogni modo, e frode, come abbiamo dichiarato in Vel.

166. VCian, Sulle orme del Veltro, Messina 1897, pag. 58 sg. Dante, ivi citato, (nel Co. 1, 12) dice che la bontà propria del veltro è “il bene correre„.

167. Vel. pag. 122.

168. Si può opporre che nemmeno nella Monarchia è l'imagine del Veltro. Ma si consideri il diverso stile di quel grave trattato, nel quale non sono neppure le altre imagini di vipera, Mirra, volpe, ecc.

169. Vel. pag. 122 seg.

170. Istorie Fiorentine, V 29. Il Boccaccio nel suo Comento ricorda “alcuni altri„ che pensarono appunto a' Tartari e al feltro di che inviluppano il morto corpo de' loro imperatori. Un moderno, Bassermann, dichiarò il veltro essere l'imperator de' Tartari. Nelle note alla Vita di Dante di CBalbo, scritte da Emmanuele Rocco (Napoli, 1840) a p. 175 si legge: “Io per me son quasi certo che nel Veltro di Dante debba intendersi un Imperatore o già eletto o da eleggersi. Ed in conferma accennerò un fatto che pare ci abbia qualche relazione, e ch'è raccontato da GVillani etc.„. E riporta il passo che io riporto.

171. Secondo i calcoli che si vedono più giù, il canto XVII del paradiso cadrebbe dopo il 1318, nel qual anno a dicembre Can Grande fu eletto capitano della lega ghibellina in Lombardia, e prima dell'agosto del '20, quando la fortuna del “vittorioso tiranno„ si mutò all'assedio di Padova.

172. CRicci. L'ultimo rifugio di D. A. pag. 12.

173. In verità il nome rimase. Vedi l'art. Marcabò nell'Enciclopedia Dantesca di GAScartazzini.

174. Vedi a pag. 63 e 68.

175. Vedi su tale questione FNovati, Indagini e Postille Dantesche, pag. 39 sgg. Egli nega ciò che io torno a confermare. FD'Ovidio in Studii sulla Divina Commedia assente in tutto al Nevati, che gli ha “bene aperti gli occhi„, e agli altri augura “non li tengan chiusi per forza„. Questo riporto, perchè il lettore stia sull'avviso.

176. Può questa coincidenza d'argomenti nei due passi accennati persuadere alcuno, che Giovanni non conoscesse le due cantiche per intero, ma avesse avuto sentore o notizia di quei due luoghi soli, che attestavano la cultura antica di messer Dantes Alagerii.

177. Queste e simili dichiarazioni si devono all'anonimo glossatore Laurenziano.

178. Poco importa a qual parola si unisca de more. Ma mi pare sia da unire a recensentes. Virgilio ha pasti tauri, (ecl. 7, 39, 44) saturae capellae (ecl. 10, 77) senz'altro.

179. Quamquam mala coenula turbet. Mi pare si riferisca a tutti e due, a Titiro e Melibeo. Mangiavano tutti e due lo stesso pane delle sette croste. Lo dice Dante all'ultimo dell'ecloga, dove ci fa sapere persino in che consisteva la coenula: parva tabernacla et nobis dum farra coquebant.

180. La glosa vuol che significhi lo stil bucolico (bucolicum carmen). Non mi pare. Giovanni del Virgilio non aveva scritta un'ecloga bucolica, sì un cotal sermone oraziano. Vuol dire la poesia latina. Ser Dino è poco saputo di latino, come vedremo. E Titiro ride di codesto. O di che altro? Notiamo la corrispondenza con l'ecl. X 14: Pinifer... Maenalus et gelidi... saxa Lycaei. I due monti arcadici sono fusi in uno, con quell'idea del rezzo.

181. Alveolus, comenta il glossatore, stilus humilis. Errore! Dante attribuisce al poeta bolognese stile tutt'altro che umile, nel cantare hominum superumque labores! Ma il buon glossatore ha preso un dirizzone dal bel principio, nell'interpretare malamente i pascua. Si tratta di un fiumicello che circonda i pascoli del Menalo e li difende da chi non sa, come quel del Limbo difende il nobile Castello. Melibeo non poteva passar quello come terra dura; e perciò i pascoli gli erano ignota.

182. Nell'ecl. X 56 è Maenala, come qui, mentre più su, nell'una e nell'altra, è Maenalus.

183. In herbis ignotis, ignota carmina, te monstrante; allude alla poca conoscenza che ha Melibeo di latino. Titiro deve tradurre i canti di Mopso, per farli intendere a Ser Dino. Qui capris e più su capellas: scolares, interpreta l'An.

184. È arbitrario interpretare queste frondi per una “laurea„ vera e propria, sì nella proposta di Giovanni e sì nella risposta di Dante. Indicano esse il pregio della vera “poesia„ che era, anche già secondo Dante, solo latina. E Giovanni che chiama Dante “censor liberrime vatum„ mi pare dovesse conoscere il Trattato d'eloquenza, oltre l'episodio di Bonagiunta. Questo solo non mi pare potesse condurre Giovanni a chiamare l'altro censore, e senza peli sulla lingua. Vedi il cap. VII e seg. a pag. 60.

185. La glosa, ignara deorum interpreta imperatorum, quia contraria parti Dantis tunc Bononia erat. Ma anche Ravenna! Notevole che Dante conosceva la professione d'empietà di Polifemo.

186. Nam iam senuere capellae Quas concepturis dedimus nos matribus hircos. Si traduce matribus come un “per madri„ predicativo. Io ho tradotto emendando concepturis in concepturas. Eppure, invece di hircos, sarebbe meglio hoedos.

187. La glosa interpreta circumflua corpora per il purgatorio, astricolae per il paradiso. Ma infera regna vale i due regni terreni, del baratro e del monte.

188. Revocare non può aver qui se non questo senso di “far ricredere„, in relazione col concedat di più su.

189. Se Melibeo la conosce, non è una pecora latina, sì volgare. A ogni modo, anche se non si ammette che prima Dante alluda alla debole latinità di Ser Dino, si spieghi qui in che modo Ser Dino conosca la musa latina o bucolica di Dante!

190. Ha finito il purgatorio: lo rumina. Si spieghi, se la pecora è il bucolicum carmen, in che modo ora rumini.

191. Numquam vi poscere mulctram. Il senso mi pare quel che ho dato io; ma la lettera porterebbe ad altro. Si capisce che Dante ha voluto dire sponte, iniussa. Ora si spieghi questa gran facilità di mungere la poesia bucolica; e si abbia la mente a quel che dice prima sul gran pallore di Mopso. Si spieghi ancora come possa Dante credere di assecondare il bolognese che gli aveva chiesti carmi epici, mandandogli bucolicum carmen.

192. FNovati. Indagini e Postille Dantesche: p. 54 segg.

193. Vel. pag. 461 e segg.

194. Fa impressione vedere nell'epistola di Giovanni d. V. Peneis... sertis. Non sembra quest'esordio del Paradiso una risposta al Bolognese? Si potrebbe credere a un rimaneggiamento della protasi, dopo ricevuta l'epistola, nel mandare i decem vascula.

195. Aen. VI 662.

196. Vel. pag. 408.

197. Pag. 18: La speranza de' beati.

198. Aen. VI 657, 645, 658, 665, 638. Vedremo come egli professi codesta speranza alla foce di quell'Eridano, al cui fonte sono i pii vates.

199. Opinione di altri, come può ognuno vedere nel bello studio di FNovati.

200. Ecl. X 15 e 56, 9, 7, 30, 78, 14, 1, 64, 22, 65, 72. E bisogna ricordare che c'è saturantur capellae al 30. E i due versi dolcissimi Hic gelidi fontes sqq. (42 sq.) sono alla meglio imitati nella descrizion de' pascua di Mopso.

201. ib. 32; V 1 sq.

202. X 50, 46. E della morte: 33.

203. Ecl. X, 16 sqq. L'ecl. si legge: 2.

204. Ecl. I di Dante, v. 18, 21.

205. Ecl. V 4; VII 4, I 2; VI 3. Quest'ultima è citazione di FNovati (Op. cit. pag. 58): Cum canerem reges et proelia, Cynthius aurem Vellit et admonuit: Pastorem, Tityre, pinguis Pascere oportet ovis, deductum dicere carmen.

206. Ecl. V, 45.

207. FNovati, Op. cit. pag. 98. E ci sono altre osservazioni da fare. Che autorità aveva Giovanni del Virgilio di proporre a Dante o il modesto convento o la solenne e rarissima cerimonia della, diremo, gran laurea poetica? Come poteva Dante credere di Giovanni un'autorità come d'un Roberto di Napoli o d'un senatore di Roma?

208. CRicci. L'U. R. pag. 69 sgg.

209. Fa pensare, come già ho detto, che Giovanni del Virgilio ricordi i passi dell'inferno e del purgatorio, dove si parla de' poeti nel limbo. Ma certo l'argomento e il fine dell'epistola gli fecero ricordare quelli e non altri.

210. Leggi le belle pagine (170 sgg.) dell'U. R. del Ricci.

211. CRicci. L'U. R. pag. 118 sg.

212. Id. ib. pag. 124 sgg.

213. Id. ib. pag. 126.

214. Id. ib. pag. 127 sgg.

215. Noto di passaggio che col verso

Tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno.

Dante non ha voluto circoscrivere la Romagna propriamente detta.

216. CRicci, l'U. R. pag. 128 sgg. specialmente per questo punto, pag. 138.

217. CRicci. L'U. R. pag. 138 sg.

218. Id. ib. pag. 128 sgg. Vedi le opinioni di molti in Studi Danteschi di Vittorio Imbriani (che incespica in una pietra), pag. 492 sgg.

219. Vedi nel “Trattato dell'amore humano„ di Flaminio Nobili etc. pubblicato da Pier Desiderio Pasolini, a pag. 18 e altrove: “Aristotile, come nelle altre cose è usato di penetrare più addentro, che tutti gli altri, così in questa mi pare, che toccasse molto il vivo, conchiudendo per ferma ragione, questo vicendevole Amore essere il desiderato fine dell'Amore„.

220. Aen. VI 440 sqq.

221. CRicci, L'U. R. pag. 134, e altr.

222. Aen. I 683 e sqq.

223. Aen. VI 469; IV 331.

224. Aen. VI 467 sqq. E forse Dante lacrimasque ciebat interpretava “faceva piangere„, piuttosto che “voleva far piangere„, o “piangeva„.

225. Aen. IV 522 sqq. Confronta carpebant fessa soporem corpora, con At non infelix animi Phoenissa.

226. Aen. IV 648 sqq.

227. CRicci, L'U. R. passim, spec. a pag. 14 sgg.

228. Vedi più su a pag. 49.

229. CRicci, L'U. R. pag. 5. E così in seguito.

230. Vedile in CRicci, L'U. R. a pag. 377 sgg. Su Guido rimatore, leggi nel medesimo libro a pag. 86.

231. L'U. R. pag. 28.

232. Dott. E. M. L'autenticità della Quaestio de aqua et terra, Zanichelli 1899. A me non par lecito di dubitar più.

233. CRicci, L'U. R. pag. 19 sgg.

234. MO. Appendice pag. 159 sgg.

235. Per esempio quei di Romena.

236. Vedi in CRicci, L'U. R. pag. 39.

237. Prima di tutto mi sia permesso dire una sciocchezza: quel pane sapeva, appunto, di sale, se già d'allora i romagnoli salavano il lor pane, come ora, giovandosi, specialmente a Ravenna, la cui aquila vi stendeva i suoi vanni, del molto sale di Cervia. E un'altra sciocchezza. Nell'ecloga si accenna, da Fiorentino a Fiorentino, alla comune mala coenula di farro, in cui Melibeo, ossia ser Dino, deve imparare a ficcare i denti duris crustis. Spiaceva ai due fiorentini il pane, quale s'usa fare anche oggi in Romagna, con la crosta scrosciante sotto i denti? Oltre il sale, anche la solida fattura e vigorosa cottura, spiaceva ai due fiorentini? Solito vezzo degli esuli o spatriati dissimulare col mal di stomaco, il mal di cuore! “Non sanno fare nemmeno il pane!„ E colui che c'è da più tempo, Dante, scherza amaramente, invitandolo ad assuefarsi e rassegnarsi, con l'altro che c'è capitato di fresco. E anche questo è un po' di riprova che Dante, nel 1319, era da tempo in Ravenna.

Ma in che qualità? Di lettore nello studio, afferma il Ricci. (U. R. pag. 78) Nega il Novati. (op. cit. 7 sgg.) A me par certo che non fosse là in tal condizione da essere obbligato a Guido Novello, come fu ai Malaspina e sperò d'essere agli Scaligeri, e da poter o dover dire di ricevere da lui un beneficio. Faceva là, e n'era modicamente retribuito, qualcosa che avrebbe mutato con qualcos'altro. Egli mal soffriva di mangiar quel pane duro e di quell'aver che fare, come Melibeo, con le capellae di Ravenna; e sperava in Can Grande. Quelli che suppongono in Dante tal brama di “convento„ per potere insegnare, contradicono a ciò che mostra di noia e di malumore per dovere insegnare. Perchè, le capellae che cosa sono se non scolares? e come, di Melibeo solo scolares, se le rassegnavano tutti e due insieme, Melibeo e Titiro, e tutti e due aspettava al fin della giornata l'istessa mala coenula di farro, cotta nella medesima capanna? e come, se quel di Guido aveva a chiamarsi un vero beneficio di signor magnifico, come, come non avrebbe Dante consegnato a noi, dal poema sacro, il nome di Guido Novello, come consegnò quelli dei Malaspina e degli Scaligeri? Dante era a Ravenna maestro, non molto alto, da appagarsene in sè, non troppo basso, che il povero Ser Dino non fosse più basso di lui. Lavorava, per campare, Dante a Ravenna. E io ringrazio il Podestà della mia sacra Ravenna d'aver offerto a Dante Alighieri, esule immeritevole, il pane, quanto duro e salato che fosse, piuttosto della scuola che della corte.

Tu sei dei nostri, o padre nostro!

238. Leggi la mirabile descrizione che ha della Pineta il Ricci nel libro tante volte citato: pag. 114 sgg.

239. Vedi a pag. 238. Già lo Scartazzini rispose con argomenti simili a CRicci.

240. Secondo LStaffetti (cit. a pag. 209): “... Se di un Moroello, dopo la pace di Castelnuovo, Dante fu amico, siamo indotti a credere che costui fosse il giovane marchese di Villafranca poi che fu uscito dalla minore età. Quel Currado trovato dal Poeta nella valletta del Purgatorio fra gente che gli fu cara, era appunto uno dei principali signori del ramo di Villafranca: Moroello gli fu nipote, perchè figliuolo di suo fratello Obizzino...„.

241. Cic. Div. 1, 55. Altrove in Nat. D. 1, 4: continuatio seriesque rerum.

242. Aen. III 376.

243. ib. 446. Più giù, ib. II 129.

244. Il ms. ha quem affectus gratuitatis dominantis servum reddiderat. Il senso è aperto da una parentesi che segue. Gratuitas, sarebbe di una parola sola, la formula gratia gratis data. Ricordiamo che nel poema Dante è fedele, cioè servo, di Lucia, cioè della Gratia che è l'interpretazione mistica di Laban il quale fu dominans di Giacobbe. Noterò tra poco quanto questo concetto di “servo di grazia„ mi faccia pensare.

245. Ecco il passo che suggerisce il senso del precedente.

246. S'intende però che nella Comedia, oltre Beatrice, è anche Maria.

247. Il Bartoli in Storia d. L. I. IV, pag. 288, vide in questa canzone un amore non reale. Per lui la donna è Firenze.

248. La vita di Dante... per cura di ERostagno: 23.

249. Il concetto angolare della Comedia è nelle nozze del nuovo Giacobbe con la nuova Rachele; le quali nozze impetrò Giacobbe, servendo Laban cioè la Grazia, per sette anni e poi altri sette. Nella lettera a Moroello campeggia il pensiero del servaggio alla Grazia. E io sospetto che nel quadernuccio, contenente la bozza giovanile della Visione, avesse luogo l'interpretazione di quella storia biblica, in cui dominava il numero sette, e qualche divisione dell'opera in cui si procedesse per questo numero. Onde la tradizione, singolarmente rafforzata da quell'Io dico seguitando, a principio del canto ottavo dell'Inferno.

250. Questa data si conferma senza più dubbio nello studio di Nunzio Vaccalluzzo, Il plenilunio e l'anno della Vis. Dant. Trani 1899.

251. Vedi a pag. 178, e anche a 130, dove correggerai la frase “sono una notte e un mattino„ in “sono una notte e un giorno„. Nel Vel. non avvertii questa circostanza.

252. Un Grande, in vero, sin dal 5 marzo del 1295, nel qual giorno Giano della Bella era bandito, poteva prevedere l'abolizione degli Ordini di giustizia, o almeno la loro riforma, che avvenne in quel medesimo anno.

253. Anche questo non è nel Vel. Molti antichi conducono a credere, come io dico qui. E molti moderni così credono.

254. NVaccalluzzo nel citato opuscolo fa acute considerazioni sul fatto che Dante nel primo canto non accenna alla luna, e s'induce a credere che a mettere il plenilunio in quel suo errore fosse ispirato dopo. Vedi però Vel. a pag. 283. E tuttavia il V. non ha torto a porre la questione, che è invero importantissima. Come si vedrà.

255. Così credo d'aver purgato “d'ogni macola„ il mio comento alla selva oscura in Vel. a principio.

256. Segno, del canto notissimo, solo i richiami più importanti.

257. Summa, 1a 94, 4. E vedi Vel. pag. 108.

258. Vel. pag. 84. Ecco il passo della Summa 1a 2ae 82, 2. “Nel peccato originale virtualmente preesistono tutti i peccati attuali, come in un cotal principio...„. Ma vedi tutto l'articolo, anzi tutta la questione.

259. Il caro e bravo NVaccalluzzo nella recensione del Vel. (Rassegna critica della L. A. di Percopo, pag. 65-84) nota: “Io credo con... (un altro, un'autorità) che il sistema del Casella, con alcune mutazioni, possa ancora sostenersi, specialmente con l'inversione fatta dal Pascoli„. Vedo da queste parole la via per la quale le mie dichiarazioni passeranno nella scienza dantesca: passeranno come mutazioni, magari lievissime, di nessun conto e merito, di sistemi altrui. E sia. Morirò anch'io; e a me morto si renderà quella giustizia che, ora a confronto d'un morto, a me vivo si rende così scarsa. Del resto, passeranno, passeranno. Non ne dubiti l'egregio amico; che conclude: “Ma chi sa? anche qui si finirà col tornare agli antichi!„ Sulla spiegazione del Casella rispetto alla mia, scrissi nel Marzocco del 20 gennaio 1901 e in un num. seg. Così in n. precedenti, del 7, 14, 28 ottobre del 1900, avevo trattato del Disdegno di Guido e del Dolce stil nuovo.

260. La selva è d'origine Virgiliana, come vedremo. Dante trova il suo vates, come Enea la sua dea, in un bosco o selva. (Aen. VI 13, 118) Dante va all'inferno per un cammino alto e silvestro. Così Enea. (ib. 131, 257, 271). Inoltre in una selva Enea trova il ramo d'oro, per il quale può scendere e uscire; itur in antiquam silvam stabula alta ferarum. (ib. 179) Ecco le fiere di Dante! E secondo il modello dovrebbero esser nel folto e nel fondo.

261. In Summa 1a 2ae 82, 1.

262. Vel. pag. 67.

263. Vedi Aur. Aug. de libero arbitrio, lib. III, passim. Dante riconosce negli spiriti magni l'esercizio delle quattro virtù morali, il ben fare; quindi non riconosce in loro questa difficultas, la quale è in supremo grado negli ignavi del vestibolo. Ma con le parole “non per far ma per non fare„ messe in bocca a Virgilio, sana quel non so che d'eretico che sarebbe nell'affermazione sua, che i grandi uomini non cristiani potessero essere esenti di questa necessaria conseguenza dell'umana colpa. E tuttavia non fare può (e Dante volle che potesse) interpretarsi, come vedo interpretare, per “non vedere„. Darò di qui a poco l'interpretazione esatta del pensiero di Dante.

264. Summa 3a 65, 1; 67, 1; 69, 5.

265. Vel. 174 sgg. Summa 2a 2ae 50, 1 et al. 2a 2ae 58, 6 et al.

266. Vedi tutto il libro primo, spec. il cap. 7, in cui parla della prudentia, che egli chiama res intellectualis, che è nel singolo uomo regulatrix et rectrix omnium aliarum (cfr. Summa 2a 2ae 166, 2, e Co. 4, 19: “Aristotile denumera quella (la prudenza) intra le intellettuali, avvegnachè essa sia conducitrice delle morali virtù„).

267. Vel. La selva oscura. Vedi anche in questo volume a pag. 38 e sgg. La concezione giovanile sta un po' a disagio nel poema dell'età matura: pag. 59.

268. Ognun vede qui delinearsi l'imagine degli sciaurati nell'atrio dell'inferno: imagine che è la traduzione visibile di questo concetto.

269. Vel. pag. 20 sgg.

270. Pianta è dunque usata in Pur. 18, 54. Tallo e ramo in Co. 4, 8 e 21.

271. Summa, 3a 69, 5.

272. Ognun vede come l'opposto della selva oscura sia la divina foresta, dove Dante trova la scienza e arte personificata in Matelda, se scienza e arte formano un concetto solo in due parole; oppure l'arte in Matelda, e la scienza o sapienza in Beatrice, se quivi, come altrove. Dante ha usato scienza come astratto di sapere. Vedi a pag. 77, nota.

273. Aur. Aug. Contra Iul. Pel. IV, 12, parlando di Cicerone: “Egli non sapeva come fosse sui figli di Adamo un grave giogo... perchè... ignorava il peccato originale„. Id. ib. 83: “l'evidenza di questa miseria spinse i filosofi gentili che non sapevano o non credevano al peccato originale, a dire etc.„ L'espressione “grave giogo„ è dell'Eccl. I 40. E l'uso della parola miseria, nel senso esatto di conseguenza dell'umana colpa, non avrebbe avuto bisogno d'esemplificazione.

274. Non sarà male che quelli che disputano sull'autenticità dell'epistola a Cane, mettano sulla bilancia anche questo importantissimo argomento. Qualche cosa di simile a questo concetto, de' due termini estremi della Comedia, miseria e felicità, è, si può dire, in tutti i commentatori. I quali peraltro aggiungono qualche cosa, corrompendo l'esattezza del concetto. Per es. il Da Buti così dichiara il fine del poema: “arrecare li uomini viventi nel mondo dalla miseria del vizio alla felicità della virtù„. Come, prima, il Laneo: “rimovere le persone che sono al mondo dal vivere misero ed in peccato, e perducerli a vertuoso e grazioso stato„. E anche: “rimuovere li uomini dalli peccati... ed inducerli nelle vertute etc.„ Con le due semplici parole dell'ep. a Cane sarebbero venuti, gl'interpreti antichi e moderni, agevolmente all'interpretazione verace della selva oscura, che invece dichiarano come vita viziosa, peccaminosa etc. sbagliando a bel principio e radicalmente tutto il comento.

275. Si può, sull'ignoranza e difficoltà originali, meditare, tra molti e vulgatissimi, questo passo di S. Bernardo, Op. I 966: “Si, siam figli d'ignoranza, d'ignavia, di servitù, e abbiamo conseguita sapienza, virtù, redenzione (libertà). L'ignoranza della donna sedotta ci aveva acciecati; la debolezza dell'uomo traviato e allettato dalla propria concupiscenza, ci aveva snervati; la malizia del diavolo ci aveva asserviti, esposti giustamente da Dio. Così dunque nasciamo tutti, prima al tutto ignari della via, della città, dell'albergo; poi deboli e ignavi sì, che sebbene ci sia nota la via della vita, siamo impediti e rattenuti dalla nostra propria inerzia; all'ultimo servi sotto il peggiore e più crudel dei tiranni etc.„. Tutto ciò è miseria. Il passo è del primo sermone in purific. B. Mariae dove è l'espr. di S. Giovanni (1, 5), della luce cui le tenebre non compresero.

276. Questa miseria involve, sì, tutte le miserie, e questo peccato, tutti i peccati. Ma il lettore comprende: un parvolo innocente morto avanti il battesimo non è un malvagio!

277. Vedi in Aur. Aug. Op. XIII 1103, 1224; spec. 774 (contra Iul. Pel. IX 83): “Ecce circumstat sensus tuos miseria generis humani... parvulos intuere, quot et quanta mala patiantur, in quibus vanitatibus, cruciatibus, erroribus, terroribus crescant. Deinde iam grandes, etiam Deo servientes tentat error, ut decipiat, tentat labor aut dolor, ut frangat, tentat libido, ut accendat, tentat maeror, ut sternat, tentat typhus, ut extollat. Et quis explicet omnia festinanter, quibus gravatur iugum super filios Adam?

278. Aur. Aug. Op. IX 718 (De civ. D. XIX 4, 2). Notevole che in questo passo si legge: “impetus porro vel actionis appetitus, si hoc modo recte latine appellatur ea quam Graeci vocant hormen...„ che può essere stato fonte del Co. 4, 21: “l'appetito dell'animo, il quale in Greco è chiamato hormen„.

279. Vedi il passo più su alla nota 2.

280. “E non dicesse alcuno, che ogni appetito sia animo, chè qui s'intende animo solamente quello che spetta alla parte razionale, cioè la volontà e lo intelletto, sicchè se volesse chiamare animo l'appetito sensitivo, qui non ha luogo nè stanza può avere etc.„ (Co. 4, 22) “In questo sonetto fo due parti di me secondo che li miei pensieri erano in due divisi. L'una parte chiamo cuore, cioè l'appetito; l'altra anima, cioè la ragione„. (VN. 39).

281. Definizione di Aur. Aug. Op. VI 110.

282. Altra def. dello stesso Op. I 723, 888.

283. Summa, in moltissimi luoghi; per es. 1a 22 1; 23, 4; 1a 2ae 57, 6 etc. 2a 2ae 47, 1, 2.

284. Summa, passim: per es. 1a 2ae 57, 5; 58, 4; 65, 1 etc.

285. Vedi a pag. 334.

286. Vel. pag. 94 sgg.

287. Aur. Aug. Op. VII 1686 (De cataclysmo 3).

288. Summa, passim: per es. 3a 66, 11.

289. Aur. Aug. Op. XIII 823, 636.

290. id. XI 591.

291. id. X 817.

292. id. XI 588.

293. id. XIII 662 sqq.

294. Aur. Aug. Op. XIII 662 (contra Iul. Pel. II 14). Le parole di S. Paolo, ad Rom. 6, 7 sono appunto quelle “Qui enim mortuus est, iustificatus est a peccato„.

295. Citato ib. L'opera di S. Ambrogio, che non rimane, era de sacramento regenerationis seu de philosophia. Questo concetto del battesimo che è morte, dovuto a S. Paolo, è trattato e accennato in Summa, passim: per es. 2a 2ae 147, 5; 3a 49, 3; 51, 1; 61, 1; 66, 3 etc.

296. Vedi, per es. a pag. 108.

297. Gli editori milanesi emendano in “di malo in buono„.

298. Conf. IX, 14.

299. Anticipando dico che l'altra figurazione, più chiara anzi evidente, del battesimo, che è nel passaggio dell'Acheronte, si riferisce appunto nel colmo dell'età, che è l'anno trigesimo quinto; nel qual anno, in certo modo, morì Gesù Cristo nella cui morte siamo battezzati. (Co. 4, 23).

300. Op. II 351 (Epistola XCVIII).

301. Vedi un opuscoletto di LPerroni Grande, in cui si conferma questo senso “di alcuna volta„, così dichiarata da CCipolla.

302. Arguta osservazione di NVaccalluzzo, il quale spero di convincere con le mie parole.

303. Vel. pag. 67.

304. Summa, passim. Vedi per es. 3a 70, 4; 69, 3, 4, 5, 6, 8, 10; 2a 2ae 47, 13 et al.

305. Aur. Aug. Op. XII 415, 423.

306. Id. Op. XIII 132, 133.

307. Id. ib. 962.

308. Id. ib. 300.

309. Id. ib. 903, 948.

310. Vel. pag. 38 segg.

311. Ricordiamo da MO. (126) e dal Vel. (401), che la spera del Sole corrisponde al cerchio e alla cornice della gola.

312. Summa 2a 2ae 55, 1. Nel cielo corrispondente al cerchio e alla cornice della gola, nel cielo del sole, si fa, dichiarare in qual modo, e sino a qual punto si deve amare la carne. (Par. 14, 43 segg.).

313. Vel. pag. 283.

314. Vel. pag. 40 sg.

315. Aur. Aug. XIII 661 sqq. XI 714.

316. GFraccaroli fece altrimenti il computo, ma il mio, che ritengo più giusto, è certo ispirato dal suo.

317. Vel. pag. 40 sg.

318. Aen. VI 270 sqq.

319. Perchè Dante chiami nel paradiso figlia del sole quella che nel purgatorio chiama suora, e che nell'inferno dice “luna tonda„, senza nominarla però nel primo canto, mi pare che ogni lettore debba intendere. La grazia si manifesta gradatamente più, e a mano a mano la luna si spiritualizza.

320. Vedi a pag. 211.

321. Vel. pag. 450. Giova ricordare la prima fonte di questa figurazione, che è nelle Confessioni di S. Agostino, libro molto letto da Dante. S. Agostino (Conf. XIII, 23) dice che il sermo sapientiae di S. Paolo è il luminare maius, e il sermo scientiae è il luminare minus. Tra sapienza e vita contemplativa, e tra scienza e vita attiva è quel nesso che tutti sanno.

322. Vedi a pag. 220.

323. L'abbiamo già veduto in Vel. 168 sgg.

324. Op. XII 559 (Sermo CIX, 4).

325. Pag. 133, e nota a pag. 113.

326. ALubin nel suo comento, che non ho presente, porta luoghi di mistici in cui si dichiara lo zoppicare di Giacobbe a proposito del pie' fermo di Dante.

327. Gen. 32, 22 sqq. Non bisogna trascurar nulla in questa narrazione, nemmeno le circostanze che Dante modificò più che tralasciasse. Per es. questa, Iacob... transivit vadum Iaboc. Questo è il passo della selva. Ma la fatica Dante la durò prima del passo, e Iacob, dopo.

328. Vel. pag. 453.

329. Vedi a pag. 20 sgg. e 25 sgg. e poi 36.

330. Aur. Aug. Op. III 528 (Quaest. in Gen. I 104).

331. Bern. Op. II 1034 (Guerrici Abbatis in Nat. Iohann. Bapt. Sermo II, 1).

332. Bern. Op. I 898 (in Coena Domini Sermo, 4).

333. Contra Iul. Pel. IV 83 in Op. XIII pag. 774.

334. Vedi a pag. 336.

335. È questione, credo, risoluta. Vel. 107-164. Si dice peraltro risoluta da GCasella nel suo Discorso “dell'allegoria della D. C.„ In verità egli disse che essendo la selva prefigurazione dell'inferno, tanto è vero che selva è chiamato il limbo, (4, 65) le tre fiere dovevano esser le tre disposizioni che il ciel non vuole; la Lonza rappresentando la frode, perchè Dante getta la corda, con cui voleva prendere la lonza, a Gerione imagine di froda, la lupa essendo l'avarizia e perciò incontinenza, e il leone violenza. Di tutte queste affermazioni, solo l'ultima resta in piedi; le altre si trovano fallaci tutte. Io mossi in MO. dai caratteri che hanno le due ultime fiere in comune con le tre Furie. Vedi Marzocco in nn. citati a pag. 319, nota.

336. Vedi MO XXI e p. 64. Vel. pag. 252 sgg.

337. Così la rovina, corrisponde all'incontinenza, è ampia e dà facile la scesa. Vel. pag. 189.

338. Vel. pag. 259.

339. Non ce n'avrebbe a esser bisogno; tuttavia vedi a pag. 339 in nota come Dante distingua “la parte razionale„.

340. Vedi sempre Vel. Le tre fiere, pag. 107 sgg.

341. Iud. XVI 19: et rasit septem crines eius... statim... ab eo fortitudo discessit.

342. Vel. 123-136.

343. MO. pag. 50 seg. Vel. pagina 320 e altrove.

344. Questo porta a riconoscere nel leone l'ira, e nella lupa l'invidia e superbia, più, come vedremo, l'avarizia.

345. Vel. pag. 159.

346. Summa 1a 2ae 46, 3 Vel. pag. 340 e altr.

347. Vel. pag. 153 sgg.

348. Dell'esattezza di questa indagine, si veda questa riprova. Il leone, avendo inordinato solo l'appetito irascibile e non anche il concupiscibile, come la lonza; essendo tristo e non anche amante di quei beni che concupisce la lonza; apparisce quando l'altra non è ancora scomparsa. Dante bene sperava dalla lonza, quando apparve il leone. Ma si noti, sopra tutto: quando apparisce il leone, Dante, per via dell'ora e della stagione, sperava di vincere la lonza ne' suoi effetti, cioè nella tristizia; quando comparve la tristizia ma accompagnata dal mal volere. Come a dire: quella tristizia mia stavo per vincerla, ma mi capitò addosso la tristizia altrui, che era ben altro! Ora qui bisogna ricordare l'episodio del nemico che dice: Son un che piango! O se non si vuol andare tanto in là, basti dire: Quella tristizia, sì, la vincevo; ma venne quest'altra! Il e non sì congiungono due parole uguali. Si noti che il leo è il nesso sì etimologico e sì filosofico delle altre due bestie; leonza e leopede; incontinente (in particolare tristo) come la prima, ingiusto, come la seconda. Ed è maschio tra femmine.

Le fiere sono connesse l'una all'altra per un de' loro capi, così: leonza è concupiscenza e tristizia; leone è tristizia e ingiustizia; leopede è ingiustizia e frode. La prima pecca nel concupiscibile e irascibile; il secondo nell'irascibile e nel volere; la terza nel volere e nell'intelletto. Il leo è centrale ed è, come si vede dai primi puniti de' violenti, l'ingiustizia tipica. Nè senza cagione è Marco Lombardo, un macchiato d'ira, la quale corrisponde a questa ingiustizia tipica, che discorre dell'origine della malizia, cioè dell'ingiustizia, che copre e aggrava il mondo.

349. Ma leggi però Vel. 121 segg. Che il lupo sia animale fraudolento, come e più della volpe, e che insidii gli ovili, come la volpe i pollai, e spii l'assenza dei cani e pastori, e si travesta (lo dice Dante) da pastore, e la lupa tolga la voce, vedendo ella per prima, e veduta prima non noccia, e venga innanzi sensim, cioè a poco a poco, sarà bene ricordare. Qualcosa posso aggiungere. Nelle Constitutiones regni Siculi Tit. I (in Cantù, Doc. 3, 499) leggo: Hi sunt lupi rapaces intrinsecus et eo usque mansuetudinem ovium praetendentes, quousque possint ovile subintrare dominicum... Hi sunt filii pravitatum a patre nequitiae et fraudis authore ad decipiendas simplices animas destinati... Hi sunt serpentes qui latenter videntur inserpere et sub mellis dulcedine virus evomunt, et dum vitae cibum ministrare se simulant, cauda feriunt, et mortis poculum etc. Qui abbiamo la lupa e Gerione, che sono la stessa cosa sotto diversa forma. Come la vulpecula ciceroniana diventasse la lupa dantesca, vediamo da questa strofa di S. Paulino: Vulpes Herodes, cur cauda dissimulas Praedam captare? belluino gutture Sanguinem sitis: agni carnes esuris, Lupe crudelis.

350. Osservazione partita da un'altra di TCasini che notò l'allitterazione dei tre nomi, e suggerita da FD'Ovidio, che in Flegrea, 5 luglio 1900, ricordò la pretesa etimologia di lonza, come io aveva riferita in Vel. l'altra, e più curiosa ancora, etimologia falsa di lupo.

351. Vel. 148 sgg.

352. Correggo qui alquanto Vel. p. 331 sg. In verità violenza ci fu, e come; ma mi pare che Dante non volesse fare a tutta quella sequela di tradimenti e frodi l'onore di chiamarla anche violenza. Il giostratore con la lancia di Giuda qui piaggia. A ogni modo, se ha adombrata anche la violenza, ella è, come il leone, compresa nella frode. Che cos'è Vanni Fucci? Un leone divenuto lupo. E nelle bolgie e nella ghiaccia sono tanti violenti, micidiali, commettitori di scismi, che s'avrebbero a dire “violenti con frode„.

353. Non ce n'è bisogno: tuttavia si mediti questo passo delle Conf. di S. Agostino (13, 21): Continete vos... ab inerti voluptate luxuriae.

354. Vel. pag. 457 sgg. e in questo libro a pag. 72 e sgg. spec. 82, nota. Era facile, credo, trovare anche senza la mia fonte (Vel. 429 sgg.), il significato simbolico di Virgilio. Invero Dante nella VN. e nelle rime personifica continuamente l'amore, e nel Convivio, personificando tuttavia, sebbene in modo meno plastico, ci spiega che amore è studio. Come non pensare che anche nel poema sacro dividesse nelle sue due parti il concetto di filosofia? Come pensare che nella Comedia non desse alcuna parte all'Amore fatto persona?

355. Vedi a pag. 60 sgg.

356. In Monarchia 2, 3 ricorda Miseno qui fuerat Hectoris minister “in bello„, e afferma, secondo Aristotile, che Omero Hectorem... prae omnibus glorificat.

357. Vedi però FD'Ovidio nel vol. cit. pag. 520 sgg.

358. Vel. pag. 59.

359. Su questo s'appuntò Dante per ammettere nel suo Elisio i sospesi del Limbo, come e abbiamo veduto e vedremo.

360. Vel. pag. 84 sgg.

361. Alcune di queste somiglianze sono imitazioni di arte; sta bene. Il lettore mentalmente tralasci tutto ciò che non riesce a mostrare l'identità voluta da Dante, del suo inferno con quello Virgiliano: questa, per esempio. Ma questa può portare ad avere un indizio buono per colui dal gran rifiuto. Deve essere (si può sospettare) un compagno di Dante, come Leucaspi e Oronte e Palinuro sono d'Enea. Non il timoniere, il gubernator, della parte Bianca? Ma forse è tutt'altri.

362. Vel. pag. 182 sgg.

363. Vedi a pag. 226 sgg.

364. Vel. 264 sgg. Così la verga d'Enea significa con la branca sinistra i vizi, con la destra le virtù. (Serv. ad Aen. VI 136). La distinzione generale è così formulata da S. Bernando (De adv. Dom. Sermo V — Op. II 920): Spiritus est ad dexteram, caro est ad sinistram. Donde il doppio significato, di destra, a esprimere la vita contemplativa o spirituale, e la vita buona e virtuosa; di sinistra, a indicare la vita attiva o civile o anche carnale (in senso non vizioso); e la vita malvagia o carnale in senso vizioso.

365. Vel. pag. 264 sgg.

366. Ad Aen. VI 576: alii tria volunt habuisse capita, alii novem, Simonides quinquaginta dicit. Il luogo di più su, intorno Cerbero, è ad... 395.

367. Vel. pag. 267 sgg.

368. Vedi in Vel. la pag. 102.

369. Vedi nella pag. citata il passo di S. Ambrogio.

370. Vel. pag. 84.

371. Notevole che la contradizione Dante la trovava per questo punto anche nell'autor suo, e segnata dal comentatore, il quale anche gl'insegnava l'essenza simbolica d'Ercole, mente magis quam corpore fortis, e di Cerbero che raffigura omnes cupiditates et cuncta vitia terrena: l'incontinenza. (Vedi a pag. 411) Servio annota: “Ma Cerbero è subito dopo i fiumi!... Il trono di Plutone è più dentro. Dunque o ci si deve riferire alla natura de' cani, che atterriti fuggono al padrone, o solium è da intendersi pro imperio„.

372. Serv. ad Aen. VI 136.

373. I versi 743 sq. vanno posti fra parentesi. Vedi il mio Epos. I a questo luogo: pag. 256.

374. ad Aen. VI 740.

375. Vel. pag. 65 sgg.

376. Vedi a pag. 336 segg. Dante, a proposito dei veri “miseri„ del suo inferno, di quelli cioè che direttamente patiscono le conseguenze del peccato originale, esprime il difficile concetto che la suprema miseria sia il non esse, poichè chi è misero vuol piuttosto esse con quella miseria, che non esse pur senza quella. Intorno a che vedi Aur. Aug. de civ. Dei XI 27. I miseri per es. del vestibolo non sono nè furono: quindi la lor miseria è superiore a qualunque altra, ed essi sono invidiosi di qualunque altra sorte. Qual'è la sorte che lor si presenta come invidiabile? Quella dei morti della seconda morte; morti che sono miseri, ma dunque sono, non sono miseri per non esse.

377. Serv. ad 720. Si potrebbe ricavarne il senso che dà l'autore dell'epistola a Can Grande, della parola sublimis, attribuita alla terza cantica. Significherebbe “grande, magna„; e sarebbe d'accordo con la protasi di essa cantica, e con l'interpretazione dell'ecloga Dantesca. Vedi a pag. 240.

378. Il. XXIV 258.

379. Vedi, per esempio, Pur. 6, 30.

380. Su Catone leggi un opuscolo di PChistoni in Raccolta di studi critici dedicata ad AD'Ancona, Barbèra, Firenze MCMI, pag. 97.

381. Vel. pag. 196 e 422.

382. Servio, al verso in cui la Sibilla interroga Museo, annota: “Et sciendum hoc loco Sibyllam iam a numine derelictam„. Virgilio, all'ultimo, non dichiara più nulla esso a Dante, ma lascia dire a Matelda, e poi sparisce, quasi a numine derelictus, avanti Beatrice.

383. Pag. 68, 73 sgg. 95 sg.

384. Al verso VI 660 Servio annota che è detto figuratamente. “Si deve avvertire che cosa dice Orazio nell'Arte Poetica: dire cose insieme piacevoli e utili alla vita. Chè i nostri maggiori vollero non ci fosse arte che non riuscisse di qualche pro' alla repubblica„. Tutto arte, dunque: dei guerrieri, dei sacerdoti, dei poeti.

385. Che è però anche in Lucano.

386. Assurdo è pensare che Virgilio intendesse d'alcuno venuto di fuori, che, mentre parlava, egli sentisse già penetrato nell'inferno. Assurdo, assurdissimo. Virgilio avrebbe deposto ogni dubbio ed ogni impazienza; e invece li mostrerebbe, dopo, più che mai. (Inf. 9, 7)

387. Vel. pag. 413 sgg.

388. Non ascende chi non discende. La discesa nel baratro e la salita per il monte non sono che mezzi per giungere alla divina foresta, donde poi volare al cielo.

389. Notevole il comento di Servio al verso: bis Stygios innare lacus, bis nigra videre Tartara: VI 134. Comenta: Modo et post mortem. Vuol dire, “morendo„, e pur quant'ansa dà all'interpretazione (volutamente arbitraria) di Dante!

390. Vel. pag. 236 sgg.

391. Vel. 60 sgg. 181 sgg. Michelangelo intuì il pensiero di Dante. Egli pose nel suo Giudizio “per più pena di chi non è ben vissuto, tutta la passione di Gesù, facendo portare in aria da diverse figure ignude la croce, la colonna, la lancia, la spugna, i chiodi e la corona...„ Vasari.

392. EProto in un bell'opuscolo, Gerione, Fir. Olschki 1900, confermò questa equazione.

393. Vedi altro in Vel. pag. 421 sgg.

394. Vedi a pag. 333 sgg.

395. E conservano, s'intende, il loro senso dottrinale. (Vel. pag. 208) Errano, gli sciaurati, e sono cruciati. Quanta poesia è nel paragonare l'immobile selva dei suicidi e la selva semovente degl'ignavi! O Dante!

396. “Che dir nol posson con parola integra„, oltre la sua derivazione dottrinale, mostra d'imitare il noto verso d'Ovidio: (M. VI 376) quam vis sint sub aqua, sub aqua maledicere tentat. E poi a Dante paion rane.

397. Diverse l'una dall'altra, per colore e tipo, sono le tre teste di Lucifero, dell'hydra saevior. Vedi su Cerbero a pag. 428, nota.

398. Vedi a pag. 376 nota, e nota a 339.

399. Vel. pag. 291.

400. Vel. pag. 502, nota.

401. Zelfa (os hians) è la predicazione buona a parole non a fatti. Parrebbe che Dante ne facesse la predicazione che riguarda la vita attiva. Matelda deve prender le veci di Beatrice quando si tratta di dichiarare alcunchè riguardo al paradiso terrestre. (Pur. 33, 118)

402. Fulg. de Virg. Cont. in Mythographi Latini, Lugd. Bat. 1742: pag. 760 sq. Altro è da vedere in quell'operetta, che Dante osservò. Dante a Virgilio, nel passo dello Stige, fa fare l'uffizio di Radamanto: verbum (verba) domantem... Qui verborum inpetum domare scit, hic superbiae et damnator et contemtor est. Pag. 759. Da Fulgenzio trasse Dante la falsa etimologia di Tisifone “furibunda vox„ (gridavan sì alto, Inf. 9, 51). Resta confermato così che ella è la superbia speciale. Resta confermato che il regno della malizia può chiamarsi, se si vuole, il regno della superbia, cioè aversione od apostasia da Dio, che si esplica nei tre peccati spirituali di ira, invidia e superbia (speciale): in vero Dante, a prova di ciò, chiama superbo uno dei peccatori d'ira, Capaneo, uno dei peccatori d'invidia, Vanni Fucci, oltre che il più insigne dei peccatori della ghiaccia, che è Lucifero. Si può rileggere, nell'operetta, la nota proposizione “poema... superbiae deiectio est etc.„. A riprova di ciò che significa la morte di Dante avanti Francesca, si legga: “Illic etiam et Dido videtur, quasi amoris atque antiquae libidinis umbra iam vacua. Contemplando enim sapientiam libido iam contemtu emortua lacrimabiliter poenitendo ad memoriam revocatur„. Pag. 757. Le lagrime di Dante e la pietà che fa ch'e' venga meno, non sono, via, da interpretarsi soltanto nel modo geniale e simpatico che si suole!

403. Vedi a pag. 408.

404. FPPerez, B. S. pag. 24, 233, 381.

405. Vel. p. 429 sgg. Punto importantissimo, non considerato mai, o non assai considerato.

406. Summa 2a 2ae 181, 1; 180, 2. Vedi GPoletto, Alcuni Studi etc. App. X.

407. Vel. pag. 310 sgg.

408. Vedi a pag. 430.

409. Vel. pag. 462 sgg.

410. Si potrebbe giocar di parole, dicendo che è la scienza o la Musa o la scienza ed arte. E sia pur così; ma si aggiunga sempre: nel senso d'arte.

411. Chi poi sia Matelda, è grande controversia. AMancini in un opuscolo (Matelda etc. Lucca, 1901) dimostra fondata su un equivoco la nuova candidatura proposta da MScherillo (Rivista d'I. III, 11). Si tratta sempre della Matilde di Hackeborn già propugnata da ALubin. Nuovi argomenti in favore di questa porta il Mancini (Ancor su Matelda etc.) in Riv. d'I. E io non nego che Dante abbia potuto ispirarsi alle Rivelazioni di questa Beata. Ma certo più s'ispirò alla storia di Matelda contessa, la quale, come ricorda LRocca (Matelda in Con Dante etc. Hoepli 1898) è detta da Donizone una Marta insieme e Maria (pag. 142) come l'arte è insieme della vita attiva e contemplativa, della vita attiva dispostasi alla contemplativa. Poi la contessa era nepote d'un imperatore e protettrice della chiesa: univa in sè queste due instituzioni che male discordano. Era spirituale e temporale. E sua madre si chiamava Beatrix. Nell'Eden ell'è come figlia di Beatrice.

412. Non fu tralasciato da Fulgenzio il precetto che sapeva tanto di mistico. “Sed sepeliat ante Misenum necesse est„. Per lui però Miseno è la pompa della vana lode. L'ispirazione che n'ebbe Dante, è tuttavia manifesta. In vero ecco, per chi n'ha bisogno, la conferma che il viaggio agli inferi è ricerca della sapienza, o contemplazione (dispositivamente, in Dante), e che Virgilio che è guida in quel viaggio, è Studio. Dice Fulgenzio che nel sesto libro Enea arrivando al tempio d'Apollo discende agli inferi. Fulgenzio mette queste due azioni in un nesso di causa ed effetto; nel nesso medesimo in cui Dante mette il mostrarsi di Virgilio e la visita al regno dei morti. Ebbene “Apollinem deum studii dicimus, ideo et Musis additum„. Pag. 753. Dal che possiamo trarre un'altra conferma per ciò che abbiamo detto significare Apollo e le Muse ed Elicona in Dante. (pag. 83 sgg.) Quanto alla contemplazione, ecco: “... ad templum Apollinis, id est ad doctrinam studii pervenitur, ibique de futurae vitae consultatur ordinibus, et ad inferos descensus inquiritur, id est, dum quis futura considerat, tunc sapientia obscura secretaque mysteria penetrat„. E qui aggiunge: “Sed sepeliat ante Misenum necesse est„.

413. Vel. Il passaggio dell'Acheronte.

414. Ad Rom. VI 3, et al.

415. ib. 8, et al.

416. ib. 4 e 5.

417. ib. 4 et al.

418. In Vel. non tenni conto di queste dissimiglianze tra morire, anzi quasi morire, morir per metà, nel passo della selva, e morire non solo ma essere seppellito nell'alto passo; sebbene qualche cosa intravedessi. Vedi a pag. 102 di quel libro.

419. S. Bern. Op. I, 1160 (Serm. de divers. XXXVII).

420. Vel. pag. 94 sgg.

421. Hier. Ep. XXV ad Paulam. Si noti la frase calcato mundo.

422. Il medesimo S. Girolamo nell'epistola a Demetriade: Quia saeculum reliquisti et secundo post baptismum gradu inisti pactum cum adversario tuo, dicens ei, Renuntio tibi, diabole, et saeculo tuo et pompae tuae et operibus tuis, serva foedus quod pepigisti. S. Pier Damiano (Opusc. 16) ha, scrivendo a un vescovo che chiamava al secolo i monaci: Dic, obsecro, legisti aliquando vitae monasticae propositum secundum esse baptisma? Sed quia hoc inveniri in dictis Patrum perspicuum est, negare licitum non est. Invero tal sentenza è anche in questi autori che non posso ora confrontare: Theodori Studitae testamentum apud Baronium, t. IX; Odo Abbas Cluniacensis, Collationum lib. II cap. 7.

423. Bern. Op. II 920-1 (De adventu Dom. Sermo V, 4).

424. Id. ib. I 520-1 (De praec. et dispens. cap. XVII, 54).

425. Id. ib. I 1108 (Sermones de diversis, XI de dupl. Capt. etc.).

426. Nell'ed. Migne dell'Opere di S. Bernardo, vol. I pag. 889 (I 520) si può leggere una dotta nota che bene illustra il concetto che è fondamentale nel poema sacro. “Questa è la ragione per cui la professione della vita religiosa si considera come un battesimo. Come nel battesimo avviene che noi moriamo alla vita vecchia e rinasciamo alla nuova (vedi Rom. VI, Coloss. III, Ephes. II et al. da cui si ricava che dal battesimo non emerge l'uomo medesimo che v'era entrato, ma al tutto un altro); segue ancora che i peccati di quell'uomo anteriore non s'hanno da attribuire al neonato, più che i miei a un altro, e gli altrui a me. Così nella profession religiosa. Muore il religioso al mondo e alle opere sue, inoltre a sè stesso e alla volontà sua, e muore così, che non gli è lecito usar del mondo e delle sue delizie e della sua volontà, come se fosse proprio morto e sepolto etc.„.

427. Si chiamano così da loro. Vedi quel che dice Simone a Maestro Adamo: alcun altro dimonio. (Inf. 30, 117)

428. Così si fa la pelle bianca nera... Oh! non poteva dire (domando io a quelli che in Dante non vogliono mirare se non il poeta bello), non poteva dire: Così la pelle bianca si fa nera? Perchè Dante volle fare cozzare insieme quelle due parole nemiche?

429. Funere: perchè l'uomo nella selva oscura e nel vestibolo è come morto. Dalla morte che è morte, si deve riscattar con la morte che è rigenerazione e vita. Il battesimo (ripetiamolo) trova il neofito morto, lo fa morire per vivificarlo: morto a Dio, morire al peccato, cioè vivificare a Dio: concetti, quanto si voglia sottili, ma comuni, saputi, triti, volgati.

430. Vel. pag. 47 e altrove. Ma bisogna capovolgere il concetto che v'esposi, del seppellimento rispetto alla morte. Il seppellimento è prima, nel battesimo cioè nell'alto passo dell'Acheronte: la morte segue, avanti Francesca e Lucifero. Parrà strano; e tuttavia se alla morte segue la vita, al seppellimento deve seguire la morte. È un rovescio.

431. Vel. pag. 204 sgg.

432. Act. Ap. II 3.

433. Act. Ap. I 5.

434. Summa 1a 2ae 51, 4.

435. Per es. vedi S. Bern. II 686 in fine.

436. Il lettore critico sogghignerà, e chiederà: “Come mai Virgilio ministro di sacramenti cristiani? Questa è la più grossa di tutte!„ Il lettore critico si degni di capire; e per capire, ricordi che Virgilio è lo Studio, lo studio di Dante. Dopo, vada a pag. 346 e rilegga il passo capitale di S. Agostino e si fermi alle parole: ma lo intenderà, sed intelliget; e capirà anch'esso.

Per l'ordine sacro e il matrimonio, fusi in uno, per così dire, dal Poeta, giova ricordare che sono i due sacramenti instituiti in favore della moltitudine. (Summa, 3a 65 e 2).

437. Notevole, come osservai in Vel. pag. 244, che occupat aditum (Aen. VI, 635) è già interpretato in Servio, ingreditur. Ingreditur, dunque, sì dalla porta principale (424) e sì da questa men segreta. Qui soggiungo che Servio al 109 commenta sacra ostia pandas così: “o venerabili o esecrande: come dirà del Tartaro: sacrae panduntur portae„. L'equivoco ne era aiutato.

438. Ad 136. Si noti anche: “sub imagine fabularum docet rectissimam vitam (non viam?) per quam animabus ad superos datur regressus„.

439. Vedi a pag. 27, e prima e dopo.

440. È la continuazione del passo capitale già citato dall'opera De praec. et dispens. cap. XVII, 54.

441. ad Rom. XIV 12.

442. Vedi nota a pag. 433.

443. Aur. Aug. Op. XIII 1165.

444. ib. 426 (De anima I 11).

445. ib. 36, 90, 91.

446. ib. 18 et al. Non si dica che questo luogo medio è appunto il limbo. Dice esplicitamente S. Agostino contro i Pelagiani, che gl'infanti saranno dannati, col diavolo, sebbene con la pena più mite. Questa è la sorte del limbo, contraria, perciò, a quella del medio luogo.

447. Aur. Aug. Op. XIII 90 (De pecc. mer. et rem. III 3, 6). Le parole Venite... son di Matth. 25, 34.

448. MO. pag. 95 Vel. pag. 333 sgg.

449. Arist. Eth. Nic. IV 3. Questa dalla magnanimità fusa nella fortezza (vedi pag. 195) è aggiunta che faccio in questo libro. E non dubito che non sia per essere persuasiva. Filippo Argenti come si comporta nella palude e come è descritto nella sua Fiorenza, è il tipo di quelli che Brunetto Latini, traducendo Aristotele, (che ha chaunoi) chiama (ahimè! uso l'ed. Romagnoli!) vaneglorious et bobanciers, e l'Arrò tronfi, e Dante persone orgogliose. Quanto ai pusillanimi (micropsychoi) Brunetto traduce poures de corage e il Giamboni, uomini piccoli. Vedi la cit. ed. del Tesoro, Vol. III pag. 73 sgg.

450. Id. ib. IV 3, 36. Trad. Arrò.

451. Id. ib. 14.

452. Id. ib. 17, 18, 21.

453. Id. ib. 20 sg.

454. Id. ib. 27 sg.

455. Id. ib. 31.

456. Id. ib. 24.

457. Potrebbe alcuno metter fuori la virtù della mansuetudine, alla quale sono opposti i vizi contrari tra loro dell'ira e della “troppa pazienza contra li nostri mali esteriori„. (Co. 4, 17) Ammettendo che qualche nota e dell'ira e della pazienza si trovi nei mobili e immobili dello Stige, vediamo peraltro che la virtù loro opposta è la fortezza umana di Dante e Virgilio, e la magnanimità, o fortezza eroica, del Messo del cielo; non davvero la mansuetudine degli uni o dell'altro. E se la mansuetudine non è la virtù loro, non sarà l'ira propriamente il vizio delle “rane„ loro opposte.

458. Rimando al molto che ne scrissi in MO e Vel. Si continuerà a ripetere uggiosamente, cui vinse l'ira, l'ira, l'ira? Buon prò lor faccia. Studiamo piuttosto perchè Dante abbia usata quella parola fuorviatrice. Sì: per nascondersi, per far prova dell'acume del lettore; ma anche perchè qui volle fare un trattato dell'ira passione, che è sprone di fortezza e magnanimità, se è retta; e causa di tronfiezza e pusillanimità, se non è o è vana. E qui mal invischia e nel primo cerchietto mal immolla.

459. MO. pag. 84. Summa 1a 2ae 73, 5 et al.

460. Vel. pag. 259 Ar. Eth. VII 6, 9.

461. Summa 1a 63, 2: Utrum in angelis possit esse tantum peccatum superbiae et invidiae.

462. ib.

463. ib.

464. Vel. pag. 343 e passim.

465. Vel. pag. 377.

466. Uno dei soliti accorgimenti di Dante: Caifas sebbene non reo d'apostasia e di tradimento e di superbia (per lui Gesù era homo) lo fa pur calpestare, per la somiglianza, che so io? dell'effetto se non dell'intenzione. Il passo del calcagno è in Ev. sec. Ioann. III 18: “chi mangia il pane con me, leverà contro me il suo calcagno„ Cfr. Psalm. XL 10.

467. Bart. Aquarone, Dante in Siena, Lapi, 1889: p. 18.

468. Vel. L'altro viaggio.

469. Matth. XXVI 24, Marc. XIV 21.

470. E vedi in Vel. L'altro viaggio.

471. Gen. IV 5 sgg.

472. Vel. pag. 259. Vedi più sopra, a pag. 504 sg.

473. Gen. ib. 11. Vedi in Vel. (pag. 254) un'altra derivazione, che non esclude questa.

474. Gen. IX 1 sgg. Ho tolto dal passo ciò che per un cristiano non ha più senso o ne ha un altro: il mangiar carne col sangue.

475. Gen. I 27 sq. II 15, III 16 sqq.

476. Gen. IX: carnem cum sanguine non comedetis.

477. Chi sa che Dante non avesse assegnata, in suo pensiero, a Ugolino, come di lui propria sede, non Caina ma la riviera di sangue? Chè certo là dov'è, non dovrebbe essere: la buca è una e fatta per un solo. Vedi MO. pag. 159 sgg. E io non posso che confermarmi nella interpretazione bestiale (offro e dedico l'epigramma agli avversari) dell'episodio. Mi si dica (ma prima si cerchi di ravvivare l'impressione, ormai stinta e logora, dei versi tante volte letti); mi si dica: Come è saltato in mente a Dante d'introdurre figliuoli che facciano al padre affamato la proposta di mangiar loro?

478. In essi talvolta è anche l'ira, cioè il proposito di vendetta, contro le fere mogli. (Inf. 16, 45)

479. Vel. pag. 340.

480. ib.

481. Vel. pag. 344.

482. ib.

483. Vel. 343, 350.

484. Vel. L'altro viaggio.

485. Si domanda, credo: o dopo come fece Dante senza corda? Dio mio! o perchè non si domanda, dove, in quei giorni del suo viaggio, Dante mangiò e bevve? O non si vuol capire che il buon senso non basta e non vale a dichiarare il viaggio ultrasensibile?

486. Vel. L'altro viaggio, pag. 372.

Ecco la genealogia dei sette peccati secondo Dante.

Peccato originale
         
         
(concupiscenza)
lussuria e gola
avarizia (cupidità)
           
           
accidia invidia superbia
   
ira        

I peccati in corsivo sono inconoscibili e innominabili. Si veda che l'avarizia (mal dare e mal tenere) sta alla invidia e alla superbia, come l'accidia all'ira. È l'accidia dell'invidia e superbia, essa. L'accidia genera l'ira, perchè i violenti o bestiali o rei d'ira piangono dove avrebbero a essere giocondi. (Inf. 11, 45) La lussuria e gola, generano l'accidia. (Vedi pag. 378 sg. e Vel. 123 sgg.) La concupiscenza e la cupidità nascono tutti e due dal peccato originale. Si ricordi (Vel. pag. 141) che S. Agostino trova nel peccato dei primi parenti la mala volontà (in cui si liqua la cupidità) e la mala concupiscenza. L'avarizia è concupiscenza, quando è mal tenere, cupidità, quando si risolve a mal prendere. Si riscontri questo specchietto con gli esempi del purgatorio: si veda come da lussuria gola e accidia non nasca nulla di peggio di violenza o bestialità o ira: dall'accidia, la violenza degli ebrei lapidatori e dei troiani incendiari; dalla gola, violenza dei centauri ebbri (oltre la mollezza degli ebrei di Gedeone, che è accidia); dalla lussuria, Soddoma e Gomorra e la bestialità di Pasife. Dall'avarizia invece deriva frode e tradimento, cioè invidia e superbia: i tradimenti di Carlo d'Angiò, e dell'altro Carlo Giuda, e del nuovo Pilato, e Pigmalione traditore e ladro e parricida, e Polinestor, e il folle ladro Acam (folle e ladro, come Vanni Fucci).

Da ciò traggo motivo a ricordare la mia interpretazione della corda gettata a Gerione. (Vel. pag. 137 sgg.) Dante si scinge la corda che contiene il concupiscibile; dunque è divenuto (in apparenza s'intende), mediante l'accidia, (la quale conséguita i due peccati più propriamente carnali) reo d'ingiustizia violenta o d'ira. Al cerchio della violenza sale Gerione dal suo regno di frode. Segno, che il violento sta per divenire fraudolento, che il leone sta per isparire nella lupa, come la lonza, non presa, diventò leone; segno che dopo l'ira viene l'invidia e la superbia; che chi fa il primo passo nel male ruzzola spesso sino all'ultimo abisso, se non si contiene sulle prime; che chi è colpevole d'incontinenza (la bestialità è per metà incontinenza) divien reo di malizia; infine, e qui è l'esatto pensiero dantesco, che chi commette de' peccati simboleggiati da mostri, è prono a commetterne di quelli rappresentati da diavoli. (Vedi a pagina 503 sgg.)

487. Vel. pag. 356 sgg. Anche la dolorosa selva è arsa dall'incendio che bolle nel primo girone e piove nel terzo. Questo io dissi. Si leggano ora questi passi d'un breve e bello studio estetico di Ettore Sanfelice (Eros, Messina, Giugno 1901), il quale non conosceva la mia argomentazione mistica o filosofica: “.... il canto XIII dell'Inferno, dove suona quella similitudine, è in quantità ben maggiore ricco di armonia imitativa... le parole di Pier della Vigna e quelle di Rocco de' Mozzi sono un continuo cigolìo. Ce ne aveva già fatti scorti Dante stesso; invano (dedico queste e le seguenti parole a quanti per far rimaner male chi cerca e trova, e mostra e insegna, escono a dire: io non sento, son sordo; io non vedo, son cieco; io non comprendo, sono un pover uomo!); egli nella sua arte meravigliosa assomiglia spesso, come qui, a Natura (la sua Musa, aggiungo io, è Matelda, arte figlia di natura e nepote di Dio), della quale molte bellezze dissimulano sotto la loro perfezione esterna l'arcana intima arte ond'esse hanno vita... (Il canto di Pier della Vigna) tutto sibila e trema. Rileggiamo...„ E il giovane e dotto e schietto pensatore e poeta rilegge il mirabile canto, facendone notare il misterioso sigmatismo. Riferisco qui un bel gruppo di parole che egli sottolinea a facile dimostrazione dell'ineccepibile tesi: schiante, scerpi, spirto, sterpi, esser, state fossim, serpi, stizzo, arso sia, scheggia, insieme, sangue, adeschi, inveschi, volsi, serrando e disserrando sì soavi etc. Rilegga ognuno il canto, e vedrà da sè. E il Sanfelice nota tanti altri suoni di io, di ir: “L'animo mio per disdegnoso gusto. Credendo col morir fuggir disdegno. Ingiusto fece me contro me giusto„. Si osservino le terzine che seguono quella in cui soffiò lo tronco! E altro e altro!

488. Vel. L'altro viaggio.

489. Vedi a pag. 446.

490. Vel. pag. 381 sgg.

491. Vel. pag. 388.

492. In Summa 1a 2ae 68, 4. Si scambiano il posto le due coppie sapienza e scienza, intelletto e consiglio. Ma possiamo notare nell'articolo seguente: sapientia et scientia uno modo possunt considerari... prout scilicet aliquis abundat in tantum in cognitione rerum divinarum et humanarum, ut possit etiam fideles instruere et adversarios confundere... Alio modo possunt accipi, prout sunt dona S. S. et sic sap. et scient. nihil aliud sunt quam quaedam perfectiones humanae mentis, secundum quas disponitur ad sequendum instinctum S. S. in cognitione divinorum ed humanorum.

493. Vel. pag. 386 sgg.

494. Aur. Aug. Op. III pag. 28 sq. (De Doctr. Christ. II 9 sqq.). Noto che quest'opera di S. Agostino è citata da Dante in Mon. 3, 4; idem ait in libro de D. Ch. etc.

495. In Summa 1a 2ae 68, 6. Vel. pag. 396 segg.

496. De Doctr. Christ. II 7, 9.

497. Vedi a pag. 472 sgg. e spec. 473 (a quella Atene celestiale...). Ripeto che Dante non attribuisce che la scienza o arte agli antichi savi. Matelda (l'arte e scienza) ha gli occhi ardenti e luminosi per amore, ed è scorta a Dante che ha mondati gli occhi nel fuoco d'amore per la visione.

498. Il lume che sfavilla nel passar dal girone dell'invidia a quello dell'ira, e che abbaglia, non è senza allegoria. Da notare ivi la parola arte (Pur. 15, 21).

499. De doctr. christ. II 7, 10 sq.

500. E la cosa si ripete nel salire dalla scientia alla fortitudo (17, 44).

501. Vedi a pag. 316 sgg.

502. Aur. Aug. Op. X 640 (Contra Secund. Man. X). Ecco una buona fonte per provare l'equivalenza, per il contrario, del diavolo al Dio uno e trino. La cupidità che si riduce a iniqua volontà, è proprio rappresentata nella faccia di mezzo. Vel. pag. 298.

503. Vel. pag. 396.

504. Ma vedi Vel. pag. 391 sgg.

505. Sete: Pur. 20, 3, 89, 92, 117; 21, 1, 39, 46 sgg., 74, 97; 22, 6; fame: 22, 40, 132, 141, 144, 147, 149, 151 sg.; 23, 27, 30, 35, 66, 67; 24, 18, 24, 28, 30, 33, 39, 80, 104, 110, 116, 122. La fame entra nel posto della sete; e questa di quella in 20, 12, 105 (?), 107 (?); 22, 65, 102 (?), 105 (?), 137, 145, 150, 23, 36, 62, 66, 67, 86; 24, 24, 32, 124. Il che mostra una specie di rifusione delle due beatitudini (cfr. per esempio 21, 39 sete men digiuna, e 31, 128 cibo che asseta).

506. Pur. 19, 77, 120, 123, 125; 20, 48, 95; 21, 16 sgg., 65, 83; 22, 4, 71; 23, 15, 39; 24, 82 sgg., 129, 154.

507. Consiglio e intelletto sono tutti e due nominati nella cornice della gola. (23, 61; 22, 129; 24, 51) Il che mostra che essi vanno insieme e a pari, come il bere e il mangiare. Anche i due trattati, per così dire, dell'avarizia e della gola sono fusi; e male scorgiamo quando cessa l'uno e l'altro comincia.

508. Vel. pag. 391 sgg.

509. Su Stazio vedi alcune pagine di profonda intuizione in Su le orme di Dante (Roma, 1901) di Angelo de Gubernatis: lez. quarta. Vuol essere conosciuto anche un bello studio di Giovanni Longo-Manganaro: L'allegoria di Stazio nella D. C. Messina, 1901.

Dante volle il suo canone di poeti nel numero di sette. Tre, Virgilio e i suoi due discepoli, l'antico e il nuovo, entrano primi nella futura dimora dei pii vati antichi ossia poetae magni.

510. Vel. pag. 389.

511. De doctr. christ. II 7, 11.

512. Nè è tutta qui. Vedi l'arguto studio di PPetrocchi, Del numero nel poema Dantesco in Rivista d'Italia IV 6, pag. 242 sgg.

513. Conf. XIII 11, 12.

514. ib. Codesto avverbio è in Dante igualmente. (Par. 33, 144)

515. ib. Nemo sine pace videt istam visionem. L'ultima beatitudine è vulgatamente quella dei pacifici, cui è promessa la visione. Dante fa che sia in quella dei mundicordi.

516. Aur. Aug. Civ. D. XI 24 e 27.

517. Ad. Cor. II 12, 2.

518. Vedi il cap. XXXIX L'ultima visione.

519. Vedi a pag. 368.

520. Vel. pag. 335 sgg.

521. Ad. Cor. I 12, 8.

522. Aur. Aug. Confess. XIII 23.

523. Vedi a pag. 491 sgg.

524. Vedi a pag. 486 sgg. Per i sacramenti vedere in Summa 3a Quaestio 65 sqq.

525. Vel. pag. 400.

526. Vel. pag. 402 sg. Pure vi si sente quella fusione tra vivanda e bevanda e fame e sete, che è nel purgatorio. Vedi qui a pag. 531.

527. Vel. pag. 404 sg.

528. Vel. pag. 404 sg.

529. Aur. Aug. Conf. XIII 11, 12.

530. Summa 1a 2ae 69, 4.

531. ib. 3.

532. Vel. pag. 406.

533. Vel. 407.

534. Vel. 408. E vedi più avanti. Lucifero era (e a suo modo è) un Serafino, con le sue sei ali, come le Malebranche sono neri Cherubini.

535. Vedi FPLuiso, Struttura morale e poetica del Par. Dant. in Rassegna Nazionale, anno XX 16 luglio 1898.

536. Serv. ad Aen. VI 127.

537. Somn. Scip. I 12.

538. Prendo questo e i dati astrologici che seguono, dal “buono accoglitor„ M. Francesco Alunno, Della fabrica del mondo. E rimando al Luiso, studio citato, il quale reca il testo di Albumasar.

539. Del resto Albumasar in Luiso ha philosophie ac poetrie studium, che è il proprio significato di Virgilio nella Comedia.

540. Dal cit. studio di FPLuiso; e così di seguito, quando nomino Albumasar.

541. Somn. Scip. Vedi più giù la nota a pag. 553.

542. Espressione di Macrobio in Somn. Scip. 1, 19; ergo Venerea et Iovialis stella.

543. Vel. pag. 218 sgg.

544. Dion. Ar. De cael. Hier. 7, 1.

545. Nell'ed. di Dion. Areop. Lutetiae Parisiorum Chaudière 1644: pag. 76.

546. Dion. Ar. ib.

547. Dalla parafrasi di Pachymere, ed. cit. pag. 78.

548. Dion. Ar. ib. Ed ecco, in “divino studio„, il nome di Bernardo, che è il Virgilio dell'ultima visione.

549. Id. ib. 8, 1.

550. Certo Dante aveva letto ciò che segue in Dionigi; “affinchè le illuminazioni in loro insite non patiscano alcun menomamento„. Tutta tua visione!

551. Id. ib.

552. Id. ib. 9, 1. Trascrivo per chiarezza il comento di Croderio: “Ai Principati pertiene, secondo Dionigi, il regime universale, verbigrazia, d'un regno o gente, o il condurre un regno alla similitudine di Dio„. (Ed. cit. p. 112). Utili poi a meditare, per rendersi ragione di molte cose in quel cielo Dantesco, sono le parole che seguono: “Secondo Gregorio, è loro ministero ammaestrare gli uomini a porgere a ognuno riverenza secondo il suo grado„. Anche: promuovere gli uomini “che facciano giustizia non per utilità propria, ma per amore e onore del solo Dio„. Ricordiamo la mala signoria.

553. Dion. Ar. ib.

554. Del suddetto comento.

555. Correggo e metto in corsivo il Convivio con la Comedia, in ciò in cui quello differisce da questa, cioè nel posto dei Troni. Principati e Potestati. Tutta questa parte fu trovata e trattata da LRCapelli in Giornale Dantesco, A. V pag. 58. Io non faccio altro che emendare in qualche punto che mi sembra emendabile.

556. Segno con puntolini questi luoghi che possono essere del Padre e dello Spirito, non essendo noi certi in che modo avrebbe Dante continuato il suo ordine. Certo mi pare quel di mezzo, sin d'ora, perchè nella sfera di Marte è la Croce. Per il resto, vedremo.

557. Per es. 1, 7 (desire intelletto e memoria: cfr. Aur. Aug. passim. per es. De Trin. XI, 3, 6, dove è voluntas e non desire; ma l'amore si sa che si liqua in volontà); 2, 41; 7, 64; 10, 1; 13, 25; 14, 29; 15, 47; 24, 139; 27, 1; 31, 28.

558. Carità è poi in 3, 102. La grazia che piove, (3, 89) ricorda lo Spirito. Anche l'espressione “del secondo vento di Soave„ par suggerita da quel ricordo.

559. E tralascio tante altre prove: 7, 1 sg. 65, 70 etc.

560. Matelda e Beatrice (arte e sapienza) formano un concetto solo.

561. FPPerez, B. S. pag. 360 sgg.

562. Ricci U. R. p. 259. Vedi in questo libro a pag. 257. L'argomento principale che conferma la verità sostanziale del racconto Boccaccesco, è quel verso di Minghin da Mezzano. Egli scrisse il suo povero epitafio zoppicante, quando tutti credevano che Dante fosse rimasto a mezzo del suo cammino verso le stelle, ossia della terza cantica. Nè il cenno manca, forse, in quel del Canaccio: cecini voluerunt fata, quousque. La morte interruppe il canto.

563. Vedi a p. 231: Tu vuoi ch'io muoia etc. Vedi a p. 300 e sg. Il senso dei versi “Fa, signor mio„ in ultima analisi è che vuol compiere la Comedia prima di morire.

564. Vedi a pag. 292 sg.

565. E questo s'accorda con l'ipotesi di ALubin, che Dante nel XIX della VN, alludesse alla cavalcata del 1289 contro i ghibellini d'Arezzo. Vedi a pag. 49, nota.

566. Vedi a pag. 108 sgg.

567. Cap. I-VI.

568. Cap. I. La prima visione.

569. Cap. II. L'angiola.

570. Vedi a pag. 33, 117, 123 sg.

571. Cap. III. La speranza de' beati. Di Fausto si narra in Conf. V 3 sgg.

572. Cap. IV. Mentis excessus. Cap. V. I simulacri d'amore.

573. Cap. VI. Le nove rime. Cfr. Vel. pag. 479. Vedi questo libro pag. 275 e cap. VII Lo stil nuovo, e VIII Guido e il suo disdegno.

574. Cap. IX Beatrice beata, e XI La Vita nova.

575. Pag. 108.

576. Vedi a pag. 108 sgg.

577. Cap. XII Per via non vera.

578. Cap. XIII L'Angiola e la Donna.

579. Cap. XV Rectitudo.

580. XVI Legno senza vela.

581. XVII Il re pacifico.

582. Cap. XXII L'Alpigiana.

583. Vedi a pag. 231 sg.

584. Vedi a pag. 573.

585. Capo XIX Decem vascula. Ho già notato, ma giova ripetere, che la terza cantica procede per decine, sebbene tra loro commesse e non recise l'una dall'altra: la prima decina è dell'ultimo ternario angelico, la seconda del penultimo, la terza del primo; e restano tre canti. Mentre correggo le bozze di queste pagine, leggo in Atene e Roma, ottobre 1901, un arguto ed elegante studio, sulla lezione di questi carmi latini, di GAlbini. Riferisco poche parole, che fanno presentire (non so se mi son qui troppo folle) come egli non sia punto persuaso delle conclusioni del Novati, alle quali si acqueta il D'Ovidio: “... Scrivere il Paradiso e poi coronarsi; coronarsi, certamente dell'alloro ideale etc. coronarsi anche materialmente, col rito e col ramo, se le circostanze non avversino„.

586. A pag. 392, nota, aggiungi che la strofa di S. Paolino d'Aquileia è del Natale.

587. Cap. XVIII Il veltro.

588. Cap. XX Romagna tua. Cap. XXI In Ravenna.

589. Cap. XXIII La selva e la foresta, a principio.

590. Cap. XXII L'alpigiana.

591. Il com. di Servio è al verso “Senti che cosa devi far prima„ per andare all'Averno. E racconta del ramo per cui un servo fuggitivo doveva morire. Dante era servo.

592. La profezia del Veltro è consimile a quella di Virgilio per Augusto, per il buon Augusto; e anche per questo modo si conferma che il Veltro è l'imperatore o la podestà imperiale. Cfr. Aen. I 286 sqq. VI 791 sqq.

593. Virgilio, spec. come narratore degli inferi a guisa della Sibilla (562 sqq.), è anch'esso praefectus lucis Avernis. Invero gli altri poeti lo considerano loro principe. (4, 80, 94 sgg.) È il maestro.

594. Si tratta, per Dante come per Enea, di andare ad immortale secolo, (2, 14 seg.) ossia di morire.

595. Si noti che non curerò sempre le pure imitazioni d'arte, come per es. l'episodio di Pier della Vigna di fronte a quel di Polidoro etc.

596. Questo cambiamento di corpo in anima fa vedere che la sepoltura necessaria per passare, è in Dante una spirituale sepoltura.

597. Falso; e forse anche perchè saranno salvi, ed essi nol sanno!

598. I guai di 4, 9 non vengono dal limbo (cfr. Pur. 7, 30), che è escluso dal regno di Cerbero.

599. Vedi altro a pag. 266 sgg.

600. Nell'episodio dello spirito bizzarro, a Dante sottentra Virgilio nello sgridare e respingere l'insepolto. Così, in quello del gubernator, la Sibilla risponde e respinge invece di Enea. (372)

601. I Lapiti sono per Dante centauri, co' doppi petti. (Pur. 24, 121 sgg.)

602. Vedi altro a pag. 446 sgg.

603. Vedi per tutta questa materia i cap. XXIX Virgilio, XXX Lo tuo volume, XXXI Enea e Catone. Leggi poi in FD'Ovidio, Studii citati, lo studio Non soltanto etc. a pag. 225 sgg. Vi troverai molte osservazioni di lui e d'altri, le quali precedono le mie, e altre che non sono qui.

604. Vedi XXVI Il minor luminare XXVII Il pie' fermo.

605. Vedi a pag. 367; e aggiungi questa ripresa della nostra interpretazione del pie' fermo, comparando il Pur. 30, 84. Gli angeli affermano che Dante era solo a metà mortificato o vivificato, perchè era uscito sì dal languor naturae originale ma si avviava per la via del mondo, e l'un dei pedes era quindi infermo e fermo nel tempo stesso.

606. Lact. Inst. div. lib. VI cap. 19. Vedi il cap. XXVIII Le tre fiere.

607. Vedi a pag. 549. In quella nota di Servio osservo: hanc terram in qua vivimus inferos esse voluerunt. Vada questa nota a confermare che per infera regna Dante intendeva l'inferno e il purgatorio. Vedi a pag. 244, nota 3.

608. I numeri tra parentesi sono quelli di Dante.

609. La corrispondenza è duplice.

610. La lonza non comprende l'avarizia se non come concupiscenza. Essa avarizia viene a essere, come innominabile, il vestibolo della frode o lupa; al modo che l'accidia, come innominabile, viene a essere il vestibolo della ira o violenza o leone; al modo stesso che il peccato originale degli sciaurati, pure innominabile, è il vestibolo della incontinenza o lonza.

611. Vedi il Cap. XXXVIII Lo vas d'elezione.

612. Vedi cap. XXXVI I sette spiriti.

613. Num. XIV Locutusque est Moyses... et luxit populus nimis. Aen. V 613 sqq. Troades... flebant... pontum adspectabant flentes.

614. Questo ripara a una dimenticanza. In vero i discorsi, i sermones, che si tengono nella prima parte dello antipurgatorio sono, con quelli della seconda, nella proporzione che il discorso di Beatrice ha con quello di Giustiniano.

615. Vedi cap. XXXIX L'ultima visione. Cfr. lo specchietto a pag. 563.

616. A questi luoghi, entrando nella contemplazione del Padre e del Figlio, anche lo Spirito col mezzo d'un de' suoi doni, risuona la lauda della Trinità.

617. Vedi nota precedente.

Finito di stampare
il giorno 30 agosto 1913
nella tipografia di Augusto Cacciari
in Bologna

Marchio dell'editore

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (demoni/dèmoni e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.