Title: Il libro di Sidrach: testo inedito del secolo XIV
Author: active 13th century Sidrac
Editor: Adolfo Bartoli
Release date: December 31, 2013 [eBook #44549]
Most recently updated: October 23, 2024
Language: Italian
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Indice generale e Nota di trascrizione in calce al libro.
COLLEZIONE
DI
OPERE INEDITE O RARE
DEI PRIMI TRE SECOLI DELLA LINGUA
PUBBLICATA PER CURA
DELLA R. COMMISSIONE PE' TESTI DI LINGUA
NELLE PROVINCIE DELL'EMILIA
BOLOGNA
Presso Gaetano Romagnoli
1868.
COLLEZIONE
DI
OPERE INEDITE O RARE
DEI PRIMI TRE SECOLI DELLA LINGUA
PUBBLICATA PER CURA
DELLA R. COMMISSIONE PE' TESTI DI LINGUA
NELLE PROVINCIE DELL'EMILIA
REGIA TIPOGRAFIA.
TESTO INEDITO
DEL SECOLO XIV
PUBBLICATO
DA
ADOLFO BARTOLI
GIÀ COMPILATORE DELL'ARCHIVO STORICO ITALIANO
SOCIO DELLA DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA TOSCANA,
L'UMBRIA E LA MARCHE
PARTE PRIMA
(TESTO)
BOLOGNA
Presso Gaetano Romagnoli
1868.
ALL'ECCELLENZA
DEL SIGNOR COMMENDATORE
CONTE
LUIGI CIBRARIO
MINISTRO DI STATO, SENATORE DEL REGNO
PRIMO SEGRETARIO DI S. M.
PEL GRAN MAGISTERO DELL'ORDINE MAURIZIANO
EC. EC. EC.
Eccellenza,
Mi tengo ad onore che possa venire intitolato a Vostra Eccellenza questo volume, il quale, come documento di molte opinioni popolari del medio evo, sarà forse da considerare non affatto inutile alle discipline storiche, e riuscirà, spero, bene accetto agli studiosi della lingua italiana.
So di offerire cosa troppo men che proporzionata al merito della Eccellenza Vostra; ma siami scusa presso a Lei il desiderio che ebbi di dare il Sidrach in custodia ad un nome illustre, e di attestare publicamente la mia riverenza allo scrittore che gli italiani da molti anni amano e venerano.
Della E. V.
Devotissimo Servitore
ADOLFO BARTOLI.
Noi stiamo in isperanza che questo Libro di Sidrach non vorrà parere indegno di comparire tra le pubblicazioni a cui dà opera la nostra Commissione pe' Testi di lingua, sia come scrittura del secolo decimoquarto, sia come opera ch'ebbe ad essere nei tempi di mezzo ricercata e letta avidamente in Francia, in Italia ed in altre parti di Europa. Forse questo nome di Sidrach, sotto il quale amò di nascondersi lo scrittore, potrebbe ricordarci quel Sirach, padre di Gesù, reputato autore dell'Ecclesiastico, che i Greci chiamarono Sapienza o Panaretos di Gesù figliuolo di Sirach. Infatti noi troviamo che al nostro libro, in molti codici e in istampe del quattrocento, fu dato il titolo di Fontana di tutte le Scenze; e un manoscritto dell'Ambrosiana ne chiama l'autore Iesu Sidracho (1). Ma che che di ciò possa credersi, è fuori di ogni dubbio che lo scrittore di esso libro sperò, con impostura forse non rara a' suoi tempi, nome ed onore di profeta nel mondo; e facendo fascio di ogni erba, pur di darsi per illuminato da sapienza divina, compose una di quelle enciclopedie, ch'erano al medioevo in ammirazione e in amore, e che a noi rimangono come viva e parlante effige di esso. Sidrach di tutto parla, ogni questione risolve, dà a ogni domanda, come che sia, una risposta, facendo mescolanza continua delle cose più diverse, passando da un capitolo di misticismo illibato ad un altro di oscenità stravagante, insegnando al suo re una sapienza, ch'è a noi spesso documento irrecusabile della grossezza di quei tempi. Il libro di questo profeta contiene molto di teologia e di asceticismo: nè mancagli assai di politica, di storia, di medicina, di fisica, di cosmografia; nè un trattato dell'arte astrologica e delle virtù miracolose delle pietre e dell'erbe: imbandigione sontuosa degli errori e dei pregiudizi del medioevo. Quando ai secoli XII e XIII si cominciò a sentire il desiderio e il bisogno di divulgare quelle cognizioni, le quali erano state fino a quel tempo privilegio di pochissimi, vennero composti certi libri, quasi enciclopedie, dove, con più o meno di chiarezza e d'ordine, si raccolse tutto ciò che sapevasi intorno a Dio, alla natura ed all'uomo. La Francia ebbe così l'Imagine del Mondo, il Lucidario, il Breviario d'amore, e, massima fra tutte, l'opera famosa del Bellovacense; l'Inghilterra, i due poemi di Filippo di Thaun e il trattato di Alessandro di Neckam; l'Italia, il Tesoro di Brunetto Latini. Ma pochi tra questi si paiono tanto popolarmente divulgati quanto il Sidrach, del quale esistono codici francesi, provenzali, italiani ed inglesi; e parecchie edizioni fatte in Francia ed in Inghilterra nei secoli quindicesimo e sedicesimo; di maniera che non sono molte le biblioteche d'Europa a cui manchi o un manoscritto o una stampa di esso. Che significa ciò? Perchè ebbero a dilettarsi così nella lettura di questo libro, non solamente l'età di mezzo, ma i secoli posteriori? Come degnò appressare le labbra a questa fontana di acque torbide e lotose il dotto cinquecento? Una delle ragioni che possono spiegare un tal fatto ci pare che sia l'essere stato il libro di Sidrach tenuto quasi come un manuale dell'arte astrologica e dell'arte magica. Non è alcuno che ignori quanto cara fosse al medioevo quella scenza che le leggende narravano insegnata a Cam dagli angeli ribelli. Ma che meraviglia non ebbero dunque a provare le genti, quando nel Sidrach, operatore di prodigi, convertitore di miscredenti, profeta ispirato da celeste virtù, lessero che un angiolo stesso di Dio erasi fatto maestro in astrologia al prediletto Jafet? Questo dovea certo parere come una santificazione della scenza degli astri, la quale era posta così accanto alla teologia; ed anche quasi una canonizzazione della magia, se ne facea professione e ne dava insegnamenti un tale uomo, il quale abbondava in ogni maniera di sapienza più che umana. Tutto il medioevo farneticò dietro gli astrologi e i magi; perchè ogni cosa che avesse del meraviglioso, del fantastico, del soprannaturale, dell'impossibile piacque a quelle immaginazioni ardenti, a quei fervidi cuori; e non il volgo solo, ma anco gli uomini grandi parteciparono fatalmente all'indole morale di quei secoli, ai quali pareva sola ricchezza desiderabile e sola non colpevole sapienza, la fede. Inutile sarebbe parlar qui dell'astrologia, insegnata dal Sidrach chiaramente ed apertamente. Ma questo profeta ed astrologo fece egli veramente anco professione di magia? Di ciò ne è diviso non possa dubitarsi da chi legga i capitoli che discorrono le virtù prodigiose delle pietre e dell'erbe, le quali danno ai muti la favella, la vista ai cechi, fanno vedere le stelle di giorno; obbligano a dire in sogno i propri fatti più riposti e segreti; procacciano odio od amore; sono buone a guarire de' farnetichi, a non annegare nell'acqua, e via discorrendo. Quanto poi non avanzano ed eccedono le pietre in miracolosa virtù! Con lo zaffiro, ad esempio, può l'uomo uscire dalla prigione più vigilantemente guardata; e colla amatista otterrà dal proprio signore tutto che gli piaccia di chiedere. L'onice darà sogni che dicano ciò onde i morti abbisognano; chi abbia sopra di sè calcedonia, sarà parlatore di grande eloquenza; chi dal lato sinistro porti diamante, non potrà, cadendo da cavallo, farsi alcun male, e non commetterà peccato nè d'ira nè di lussuria. Altre pietre ti salveranno da morte subitanea, e se vecchio, ti renderanno forza vigorosa di giovinezza, e ti saranno rimedio ad ogni veleno. Preziosissime notizie dovevano invero esser queste agli uomini de' secoli medioevali; e se i dotti potevano leggere alcune di queste favole o in Dioscoride o in Teofrasto o in Plinio o in Alberto Magno od in altri, chi non sapesse di greco e di latino, nel Sidrach trovava quanto gli bisognasse; e leggendo in un libro di tanta santità era sicuro dalla paventata dannazione dell'anima. Perchè è bene da ricordare come due magie avesse il medioevo: una puramente diabolica, nella quale agli dei del paganesimo si sostituirono i demoni; l'altra, quasi una medicina ed una chimica magica, la quale deriva dalla forza delle piante, degli animali, delle pietre e dei corpi celesti. Chi ignora quello che fossero all'arte magica le erbe, i beveraggi e gli unguenti? Già, per tacere d'altri più antichi, Plinio, pur dichiarando la sua dotta incredulità, parlò dell'erbe buone ad avere figliuoli di bellezza e bontà singolari, a rendersi invisibili, a vincere i nemici, e ad ottenere altri effetti stupendissimi. Anche oggi gli arabi dicono di avere bevande che fanno cantare e ballare ed essere eloquenti; e gli indiani credono che un'erba possa farli mutare in figura di bestia, e che un'altra insegni a scoprire i tesori nascosti (2). Tutti ci ricordiamo di quel filtro magico o beveraggio d'amore de' romanzi cavallereschi. Questa medicina magica, che è tuttora in uso presso alcuni popoli barbari, fu nel medioevo tenuta in altissima venerazione. E per essa forse acquistarono fama di negromanti Gerberto (il quale in progresso fu fatto volare in aria in compagnia del diavolo), Ruggero Bacone ed Alberto Magno, a cui si attribuirono i curiosi libri de virtutibus herbarum e de virtutibus lapidum, che possono essere considerati appunto come trattati di questa magia naturale di cui parliamo, e che è professata dal Sidrach. Innocua magia, la quale anco delle cose sante fece spesso suo strumento, confondendosi col misticismo, di modo che fabbricò, non solamente unguenti, ma anco orazioni buone ad effetti molto miracolosi (3); e che durò lungamente, come può vedersi dalla Physognomonica e da altri libri del Porta.
Nel Sidrach però, oltre i capitoli di magia naturale, sono anche insegnamenti di medicina, i quali danno rimedi per la lebbra, per la volatica, per il male dello stomaco e del fegato, per istagnare il sangue della piaga e per altro. Nel che noi non vorremo troppo meravigliarci di certe strane ricette che troviamo, come la merda de' bachi da seta mescolata con sciloppo per guarire il fegato riscaldato; e la merda del cavallo mescolata col grasso del porco per ingrassare; e gli scarafaggi bruciati e bolliti nel lardo per la lebbra. Oltre poi la parte che riguarda i rimedi, leggiamo ancora altri insegnamenti di medicina: dove parlasi del corpo dell'uomo, del sangue, del parto, della pazzia, delle varie complessioni; ed in ciò sentiamo le dottrine di Galeno e quelle degli Arabi, spesso travisate e male spiegate, come di chi, non essendo scenziato, parla di cosa che solamente in confuso conosce. Così un'altra qualità viene ad aggiungersi al Sidrach, santo, astrologo e mago, per renderlo caro all'evo di mezzo; ciò è l'essere considerato il suo libro come un trattato di medicina popolare. Ed ognuno può agevolmente intendere per quali stretti legami nella mente dello scrittore questa si congiungesse all'astrologia ed alla magia, le quali non furono appunto in origine altro che degenerazioni della medicina.
Ancora ci è diviso che a divulgare questa fontana di tutte le scenze dovessero contribuire altre ragioni. Riducendoci a memoria ciò che fosse l'asceticismo del medio evo, o spietato nel maledire a tutti gli affetti della terra, o goffo arido bamboleggiante nelle sue mistiche contemplazioni, troveremo che il Sidrach è veramente più savio di molti altri; e mentre si piace nelle astruse sottigliezze teologiche, ricordasi spesso anche del mondo, insegnando cose che dovevano riuscire gradite al cuore di chi lo leggeva. Così, se potè parer santo dimenticare i parenti e ricusar loro ogni amore, eccovi nel Sidrach il precetto di amarli e d'aiutarli; e se la demenza umana fecesi adoratrice della povertà, predicando fonte di ogni male la ricchezza, il Sidrach vi dirà che anche la ricchezza è buona a qualche cosa, e che deve essere pregiata; facendo poi questa bella distinzione tra l'uomo ricco e il gentile: «gentilezza è potere e larghezza e vecchia possessione d'avolo e di bisavolo. L'uomo che ha grande potere ed è villano del suo corpo, sappiate che quelli non è gentile, anzi è ricco» (4). Quale scrittore mistico del medio evo avrebbe scritto tali parole? Ed esse non potrebbero per avventura esserci indizio che lo scrittore di questo libro, prima d'invaghirsi del mestier di profeta, amasse di frequentare le corti, forse cantando di donne e d'armi e d'amori? Perchè anco alle donne (così velenosamente maledette dai mistici) è largo qualche volta di affetto il nostro Sidrach; ed una allusione noi troviamo nel suo libro alla gaia scenza, e certi precetti di galateo che ce lo fanno parere uomo nè ruvido nè troppo dato al fervore degli anacoreti. Tutto ciò dovea piacere ai secoli di mezzo; e ogni maniera di gente avea di che sodisfare nel Sidrach al proprio desiderio. Onde esso divenne quasi sorgente a cui attinsero molti scrittori; e noi lo troviamo citato in parecchi libri, in compagnia di Aristotile, di Catone, di Salomone, di San Tommaso, come, ad esempio, nel Fiore di Virtù, e nel Trattatello della natura e virtù delle pietre preziose (5).
Resterebbe che parlassimo ancora di molte altre cose che leggonsi in questo volume; alcune delle quali stranissime, come sarebbe, che la gioia e il dolore derivano dal mangiar bene o male; che le stelle cadenti sono colpi di fuoco dati dagli angeli buoni agli angeli ribelli, che dimorano nell'aria; che Iddio ha fatto la notte perchè l'uomo dorma, se no avrebbe fatto tutto giorno; che l'erba più degna è il grano; e la più degna pietra è la macina del grano; che il dormire è la più saporita cosa che sia; che la vigna da Noè piantata di giorno fa il vino rosso, e quella che piantò di notte, il bianco. Ma da quel poco che siamo andati sin qui esponendo ci sembra che sieno a sufficienza indicate le ragioni che ebbero a rendere questo libro così divulgato e popolare nel medio evo. Onde più utile sarà che passiamo a vedere in che luogo e in che secolo esso sia stato scritto.
I più antichi codici del Sidrach sono in francese ed in provenzale: i Franchi sono spesso ricordati, come la più forte e la più gloriosa gente del mondo. Questo solo basta a renderne certi che lo scrittore fu un francese, il quale compose l'opera sua o nella lingua d'oïl o in quella d'oc. Non sappiamo per quale ragione il Le Clerc supponga che l'autore del Sidrach fosse un ebreo; e che l'opera, quale fu stampata nei secoli XV e XVI, sia una imitazione amplificata del primitivo lavoro (6). Nè meno possiamo intendere come da lui si giudichi incerto il tempo nel quale il libro fu scritto. Prendiamo brevemente in esame il Prologo, identico in tutti i codici che abbiamo veduto. Quivi si narra come il prezioso volume, posseduto già da un principe di Soria, poi smarrito, appresso venuto alle mani di un greco arcivescovo di Samaria, fosse portato in Ispagna, dove fu tradotto di greco in latino; e come al re di Spagna lo chiedesse in prestanza il re di Tunisi, il quale fecelo tradurre in saracinesco. Da Tunisi n'ebbe notizia Federigo imperatore, il quale mandò un frate di Palermo, che lo ritraducesse in latino e glie lo portasse. Alla corte di Federigo videlo un filosofo di Antiochia, che copiatolo, lo mandò al patriarca della sua patria; e da Antiochia un chierico portollo in Tolletta. Questi viaggi, queste traduzioni e ritraduzioni del libro, a noi sembrano un'arte dallo scrittore usata a fine di dare all'opera sua maggior valore, facendo credere che la fosse già stata tenuta in gran pregio da re da imperatori da patriarchi. E l'indizio più chiaro della favola sta nel principio del racconto, dove è detto che in origine questo libro ci «venne d'una mano in altra, tanto ch'egli venne alle mani a uno grande uomo, che lo volle ardere per lo consiglio del diavolo; e Iddio non volle che ardesse» (7). Ma senza tener conto di ciò che può essere piaciuto di narrare all'ambiziosa fantasia dello scrittore, resta pur sempre che in questo prologo è chiaramente ricordato Federigo II imperatore. Oltre ciò, al Cap. LI parlasi dei frati minori e dei frati predicatori. E finalmente negli ultimi capitoli dell'opera, in mezzo alla confusione di racconti guasti dalla tradizione o dalla fama, si accenna evidentemente ai fatti della quarta Crociata, e forse ad alcuno della sesta. Lo scrittore del libro è adunque posteriore alla prima metà del secolo decimoterzo; e siccome possiamo molto ragionevolmente supporre che gli ultimi fatti di cui parla sieno gli ultimi veduti o conosciuti da lui, così non saremo fuori del vero argomentando ch'egli abbia compilata la sua opera nei primi anni dopo il 1250; tanto più che essa verso gli ultimi del secolo ci si mostra già largamente divulgata. Se Pietro Venerabile all'anno 1140 cita il libro di Sirach (8), egli allude senza dubbio, non alla compilazione del Sidrach, quale è ne' codici francesi del secolo XIII e XIV, ma probabilmente a qualche altro lavoro fatto sull'Ecclesiastico, e del quale potrebbe essere quasi una seconda redazione ed anche una amplificazione il Sidrach nostro. Ma questa non è che una congettura; la quale forse da accurate indagini sui manoscritti francesi potrebbe essere chiarita.
Dei molti codici del Sidrach daremo in altro luogo una bibliografia, la quale studieremo di rendere meno incompiuta che per noi si possa (9). Qui intanto occorre dire de' manoscritti che hanno servito alla presente edizione; ed anzi tutto del francese (COD. RICCARDIANO N.o 2758, indicato nelle note C. F. R.). Dai caratteri paleografici questo codice apparisce del secolo XIV, e noi siamo di credere che debba averlo copiato un italiano, il quale non fosse nella lingua d'oïl più che mezzanamente istruito (10). Onde spesso accade di trovare parole delle quali non intendesi e neppure può essere indovinato il senso; le regole della grammatica non sono osservate; e molte voci appariscono scritte a seconda della pronunzia italiana. Chi voglia, può certificarsi di questo ne' brani di esso codice, i quali ci è accaduto di dover recare in nota; ma a prova più larga della nostra opinione ne piace riprodurre qui un tratto maggiore del manoscritto, trascrivendo senza correzione nessuna:
«Le vin si est une preciousa chosse et digne et si est salu dou cors et de l'arme et per vin se peut sauver son cors de molt de enfermites. Et per vin peut hom sauver s'arme de mout de pechies. Ensi com le vin est salu dou cors et de l'arme, ausi est in perdicione dou cors et de l'arme. Car per vin peut hom perdre son cors et s'arme legieremente. Le vin si est per le sages chi le boivent atemprement et a raison et ne font nul daumage ne a eaus ne a la gens; a celes genz vaut miaus a boivre le vin che l'aigue. E as fos chi le boivent folement si boivent le sens o le vin et perdent leur sens et luent la gens et les robent o se tuent ou ce laissent tuer per leur sollement boivre le vin. A cil lor vaut miaus boivre l'aigue che le vin, et le vin n'est mie fait por tel gens nive leur est ne droit ne leyaus ...... Les rois et les seignors dovient estre premiers leyaus de lor cors et de lor iugemens. Apres si doivent estre ardis et prous et vailans de leur cors. Apres doivent estre large et donans. Apres si doivent estre as mauvais et as outraious fiers et durs, ivians a tous a chascun selonc sa deserte a droit et a raison, ia soit ce che il soient nigie a mort et a taglier membres. Se les rois et les seignors sont leyaus de lor cors et de lor parole il font aplaisir a Dieu et honorer a leur seignor; et si sont sages et porveans, il le doivent bien estre, et por ce che luer gens pregnent essample diaus et che il soient tels ce il sa gens et donant itels doivent nestre......
Il y a bons chevaus ases par le monde et biaus. Mais cheval doit avoir en lui IIII choses longues et IIII cosses cortes et IIII chosses larges. Premierement doit avoir le biau cheval en lui lonc col et longues giambes et longe sengle et longe coe. Et si doit avoir en lui large groppe et large boche et large nariles. Et si doit avoir en lui cort pasteron et cort dois et cortes oriles et corte coe, non pas le pel mais la propriete de la car et de l'os.»
Sarebbe affatto superfluo che noi ci facessimo a dimostrare particolareggiatamente agli studiosi della lingua d'oïl non essere questo il buon francese del secolo quartodecimo, il quale scorre proprio elegante fluido efficace sotto la penna di molti poeti e prosatori, tanto più elegante, pare a noi, in quei primi secoli, che oggi non sia. E senza volere far paragone del francese di questo Codice Riccardiano con quello, a modo di esempio, corrottissimo e in tante parti non decifrabile, di Niccolò da Casola, e neppure con quello di Martino da Canale, pur non è dubbio che anche il francese del Sidrach non apparisca guasto ed errato. Tra le illustrazioni che faranno seguito al presente volume sarà ancora uno studio su molti codici francesi delle biblioteche italiane, e su quelli specialmente di cui non dettero saggio nè il Keller nè l'Heyse (11). Ivi apparirà manifesto come in Italia si scrivesse e si copiasse il francese nei secoli XIII e XIV; e come dagli errori del testo altri errori derivassero nelle traduzioni che allora si fecero, ai quali è da aggiungere ancora i molti e stranissimi che dalla conoscenza scarsa della lingua derivavano. Da ciò dovrà essere chiaro ad ognuno come quei nostri antichi volgarizzamenti abbiano bisogno di un raffronto continuo coll'originale, se voglionsi dare scritture alle quali il senso non manchi, e che possano giovare alla storia della lingua. Che cosa è, come lo possediamo nelle stampe, quel Tesoro di Brunetto Latini, del quale, fino dal 1816, desiderava il Giordani (e anch'oggi dovrebbe desiderarlo) il testo italiano ridotto alla vera lezione e accompagnato col suo originale francese? Che cosa sarebbe il Sidrach, se pubblicato sui codici italiani soli, senza le correzioni e le illustrazioni che dal paragone col francese derivano? Nè crediamo sia buona e saggia la opinione, che pure oggi alcuni sostengono, essere da sfatare come inutilissime ed anzi dannose le traduzioni de' primi secoli della lingua. Le quali, se anco non fossero parte della storia delle nostre lettere, e se non ci fossero documento della cultura di quei tempi, rimarrebbero sempre alla lingua importantissime, e indispensabili a chi vorrà e saprà, quando che sia, fare che all'Italia non manchi un glossario della sua lingua, comparata colle altre lingue uscite dalla sorgente latina. Sappiamo non in tutte le traduzioni del duecento e del trecento potersi ammirare una uguale eccellenza di dettato; ma da ciò stesso usciranno utili considerazioni; e, ad ogni modo, il traduttore meno garbato d'allora, potrà sempre essere maestro di proprietà nell'arte, a noi, che non possediamo e non amiamo più nessun'arte, e pare che consigliatamente studiamo di imbarbarire la nostra povera lingua. Non vogliamo parlare delle traduzioni dal latino, nè dire quanto le lettere nostre abbiano potuto ricevere di utilità da' volgarizzamenti di Virgilio, di Livio, di Sallustio, di Ovidio; delle Vite de' Santi Padri, de' Morali di papa Gregorio, e di altri non pochi, tutti elegantissimi. Ma, e le traduzioni de' romanzi di cavalleria, chi si assicurerà di affermare che furono inutili alla lingua ed alla letteratura? Forse perchè in esse troviamo la forma francese? Ma in che si differenzia dunque questa forma francese dall'italiana, nel secolo tredicesimo? Chi si provasse a tradurre parola a parola una poesia o una prosa francese di quel secolo, avrebbe una buona e spesso elegante scrittura italiana; come eleganti sono quasi tutti i nostri romanzi cavallereschi, de' quali i più non sono che letterali volgarizzamenti. A volere però che utili riescano quelle traduzioni, occorre che le sieno raffrontate col testo, sia per correggere gli errori, sia per chiarire i passi più oscuri, sia ancora per mostrare che nelle origini il francese e l'italiano amarono la stessa giacitura di parole e lo stesso temperatissimo stile; come anch'oggi, sventuratamente, pare che amino e l'uno e altro, rinnegando la loro origine, slanciarsi senza regola nelle stranezze e nelle metafore più ardite e più goffe, senza pure serbare quel decoro, che almeno al seicento non mancava.
Dopo il Codice francese 2758, ci siamo giovati assai del CODICE RICCARDIANO 1930 (indicato nelle note C. R. 1.) Esso appartiene senza dubbio ai primi del secolo XIV, ed avrebbe per molti titoli meritato preferenza sugli altri, se non fosse di una redazione soverchiamente abbreviata, contenendo appena la terza parte dei capitoli degli altri codici; onde non avrebbesi avuto da esso un giusto concetto di quello che sia l'opera del Sidrach. Il traduttore è spesso elegante; e noi lo giudichiamo senese dalle forme de' verbi essare, scrivare, aombrarà, vivare ec., che leggonsi costantemente nel Ms. (12). A molti luoghi (come dalle note apparisce) il testo di questo codice corregge quello degli altri, ed è poi sempre nella forma più proprio e più accurato. L'abbreviazione va crescendo quanto più il traduttore volge al fine del suo lavoro; e sembra come uomo preso dalla noia, il quale, avendo cominciato colla intenzione di fare un volgarizzamento, a poco a poco riducesi ad abbreviare, e poi salta addirittura molti capitoli, e termina col far cosa quasi originale. Noi non possiamo astenerci da riferire qui alcuni degli ultimi capitoli di questo Codice, li quali ci sembrano, nella loro brevità, bellissimi:
Che ène il mare?
Quelli scrisse: abbracciamento del mondo, termine coronato, albergo delli fiumi, fontana della pioggia dell'acqua.
Che ène Iddio?
Iddio è mente immortale, allegrezza senza disdegno forma incomprensibile, occhio senza sonno, luce e bene che contiene tutte le cose.
Che ène il sole?
Il sole ène occhio del cielo, cierchio del caldo, isplendore senza abbassare, ornamento del die, dividitore della notte et del die tutto tempo.
Che ène la luna?
La luna si ène porpore del cielo contraria del sole, nemica de' ma' fattori, consolamento de' viandanti, dirizzamento de' navicanti, segno di sepultura, larga di rugiada, agura di diviamento di tempi e delle tempeste.
Che ène l'uomo?
L'uomo ène mente incarnata, fantasima del corpo, aguardatore della vita, servente della morte, romeo trapassante et oste forestiere del luogo, anima di fatiga, abitatore di picciolo tempo.
Che ène amico?
L'amico ène nome desiderevole, refugio delle aversità, biatitudine senza abandono.
Che ène richezza?
Richezza ène peso d'oro e d'argento, ministra di rangole, diletto senza allegrezza, invidia da non satiare, desiderio da non compire, bocca grandissima, concupiscenza invisibile.
Che ène povertà?
Povertà è bene odiato, madre della santità, ritrovatrice del savere, mercantia senza danno, possedimento senza calunnia, prosperità senza sollecitudine.
Che ène sonno?
Sonno ène 'magine della morte, riposo delle fatiche, talento degl'infermi, aspettamento di morte.
Che ène morte?
Morte ène sonno eternale, paura delli ricchi, desiderio delli povari, cacciatrice di vita, risolvimento di tutti.
Che ène parola?
Parola ène manifestamento d'animo.
Che ène il corpo?
Il corpo ène magione dell'anima.
Che ène forte?
Forte ène 'magine d'animo.
Che sono li occhi?
Li occhi sono guida del corpo, vasello del lume, mostratori dell'animo.
Che ène cielabro?
Cielabro ène guardia della memoria.
Che ène il fegato?
Il fegato ène guardia del caldo.
Che ène il quore?
Il quore ène movimento della vita.
Il fiele ène movimento dell'ira.
Che ène milza?
La milza ène albergo dell'allegrezza e desiderio.
Che ène lo stomaco?
Lo stomaco ène quoco delli cibi.
Che sono le ossa?
L'ossa sono fermezza del corpo.
Che sono li piedi?
Li piedi sono mobile fondamento.
Che ène il vento?
Vento ène turbamento d'aria, siccità di terra et movimento d'acque.
Che sono li fiumi?
Li fiumi sono corso che non viene meno, pascimento del sole et bagnamento della terra.
Che ène amistà?
Amistà ène aguaglianza d'amici.
Che ène fede?
Fede ène meravigliosa certezza di cosa non saputa.
Fra i due Codici, RICCARDIANO 1475 (indicato nelle note C. R. 2.) e MEDICEO LAURENZIANO, PLUTEO LXI, 7, siamo stati incerti assai quale meritasse preferenza per la stampa. L'uno e l'altro della seconda metà del secolo quartodecimo, conformi nella lingua, identici nella redazione. E se abbiamo preferito il Mediceo Laurenziano è stato perchè, dopo un minuto e paziente raffronto, abbiamo veduto che l'amanuense di questo codice era incorso meno spesso in errore che non quello del Riccardiano; e forse non sarebbe difficile provare che il Manoscritto della Biblioteca Riccardi fu copiato da quello della Laurenziana. Nonostante però esso Codice 1475 ci è stato di un grande aiuto, a correggere, a supplire, a raddirizzare il senso, a spiegare l'oscurità di molti periodi; poichè non si vuole dissimulare che il Codice Laurenziano non sia troppo spesso di lezione errata e stranamente confusa.
Di aiuto non meno prezioso ci è stata un'antica edizione del Sidrach, che si conserva nella Biblioteca Nazionale di Firenze (sezione Palatina), e che ha questo titolo: MIL QUATRE VINGTZ ET QUATRE DEMANDES, AVEC LES SOLUTIONS ET RESPONSES A TOUS PROPOZ, OEUVRE CURIEUX ET MOULT RECREATIF, SELON LE SAIGE SIDRACH. — Paris par maistre Pierre Vidove, MDXXXI. (Indicato nelle note T. F. P.).
Venendo a dire del modo onde questa stampa è condotta, noteremo solo come sia stato nostro intendimento di riprodurre con la più scrupolosa esattezza il Codice, nella sua ortografia e lessigrafia, parendoci che, se questa regola si seguisse costantemente nelle impressioni delle antiche scritture, molto se ne agevolerebbero gli studi (che restano in gran parte da farsi in Italia) sulle origini e sulla storia della lingua nostra. Nelle note ci siamo studiati di chiarire il senso d'una parola o di una frase con varianti di altri codici, ogni volta che ciò è stato possibile, sembrandoci questo il modo migliore di commento, come quello che pone sotto gli occhi del lettore una forma diversa, e lo lascia libero nel suo giudizio. Ci siamo poi qualche volta allargati a commentare alcune parole del testo francese, quando ciò potesse avere importanza per l'italiano. Non abbiamo richiamato l'attenzione del lettore sopra tutte le parole che potevano meritarla, essendo che ciò sarà fatto nel Glossario delle voci italiane e francesi degne di nota, che troverà il suo luogo nella seconda parte di questo volume.
Il quale, venendo ad accrescere il numero dei nostri testi di lingua, parrà forse a molti cosa affatto inutile, essendo oggi rivolti a ricerche troppo più alte gli ingegni, per avere agio e tempo di pensare anche a quegli studi dell'arte, che furono già tanto cari ai nostri antichi, e che procacciarono pure qualche onore all'Italia. Oltre di che i tempi odierni professano teorie di letteratura così nuove, che riesce spesso molto difficile intenderle a chi abbia educata la mente ai vecchi principii dell'arte italiana. Ed oggi vediamo ancora un'antica questione, che pareva risoluta, sorgere di nuovo; e sentiamo, dopo sette secoli di letteratura, mettere in dubbio se esista una lingua italiana. Concedasi a me, nato e vissuto sempre in Toscana, una modesta parola su questo argomento. Si ricercano i mezzi per diffondere l'uso della buona lingua, ed a ciò rispondesi anzi tutto che per buona lingua s'ha da intendere la fiorentina. Perchè dunque il fiorentino è chiamato la buona lingua? Non sapremmo a questa domanda trovare che una sola risposta. Quando un dialetto parlato passa ad essere scritto, e se ne fa mezzo o strumento di una letteratura, allora esso diventa predominante sugli altri dialetti della stessa famiglia, acquista un titolo quasi di signoria legittima e incontrastata, e noi siamo soliti di chiamarlo non più dialetto ma lingua. Su ciò mi sembra che non possa cadere dubbio alcuno. Il dialetto del Lazio, quando fu scritto, diventò quella che noi diciamo lingua classica di Roma. I missionari che in regioni selvagge sono riusciti a ridurre in iscrittura uno de' cento dialetti parlati, hanno tosto veduto che quel dialetto acquistava una supremazia letteraria, vincendo gli altri che rimanevano come barbari gerghi (13). Poniamo che la letteratura siciliana del secolo XIII non fosse stata spenta col regno glorioso degli Svevi, e il dialetto siciliano avrebbe preso qualità e autorità di lingua scritta, e quindi di dialetto signoreggiante. La Francia vide due dei suoi dialetti passare dalla forma parlata alla scritta, ed ebbe per conseguenza la lingua e la letteratura d'oïl, la lingua e la letteratura d'oc. Se dunque la buona lingua, la lingua classica non è che un dialetto, il quale, reso stabile per mezzo della scrittura, acquista questo titolo, questa qualità, questo privilegio, domandasi come al dialetto fiorentino possa attribuirsi tale supremazia. La nostra lingua scritta è forse il fiorentino? E gli scrittori senesi, pisani, pistoiesi, aretini hanno scritto tutti il dialetto di Firenze, o non piuttosto quello delle loro città? E gli scrittori delle altre città d'Italia hanno preso ad esempio i fiorentini soli o tutti i toscani? Strettamente affini tra loro, fratelli legati da vincoli di somiglianza cosiffatta, che appena ad occhio espertissimo riesce scorgerne le tenui differenze, è facile spiegarsi come tutti i dialetti toscani diventassero lingua scritta, pur rimanendo predominanti il fiorentino ed il senese, non per altra ragione che Firenze e Siena ebbero un numero di scrittori maggiore delle altre città. Ma questa del fiorentino o toscano non è, a nostro credere, la questione principale. Concediamo pure che per buona lingua s'avesse da intendere la fiorentina sola; resterebbe sempre a vedere se si possa stendere l'uso di un dialetto a fine di distruggere gli altri. Una lingua scritta è per sè stessa cosa necessariamente artificiale: «la vita reale e naturale del linguaggio è riposta nei suoi dialetti» (14), i quali di continuo lo alimentano, lo arricchiscono, lo invigoriscono, e sono come una grande sorgente d'acqua che irrigando un campo impedisce alle erbe di intisichire e seccarsi. Spenti o trasformati i dialetti, la lingua scritta manca di vita, e passa nel numero di quelle che chiamiamo lingue morte. Fosse pure possibile con mezzi umani distruggere tutti i dialetti d'Italia, lasciando vivo il solo fiorentino; certo è che in breve giro di anni noi non avremmo più della lingua nostra, vivace, multiforme, potente, che un miserabile avanzo, a cui lentamente verrebbe a mancare ogni forza: l'albero verdeggiante e robusto si tramuterebbe in tronco decrepito e marcio. E per estendere l'uso della buona lingua parlata, si propone di compilare un vocabolario di essa lingua, o sia dialetto, di Firenze. Ma un vocabolario dell'uso vivo di un dialetto a che gioverebbe praticamente? È noto che tutti i dialetti tendono per loro natura a trasformarsi continuamente, non rimanendo stabile che quella parte di essi che è fatta patrimonio della lingua scritta. L'uso d'oggi potrebbe dunque non essere più l'uso di domani; e si potrebbero additare come vive forme, che fossero già anticate. Di più ancora, i dialetti letterari sono soggetti a decadere; ed è questa pure una delle leggi che la scenza del linguaggio ha riconosciuto per vera. Come dunque di questo dialetto, sequestrato da tutti gli altri, farebbesi con profitto un vocabolario? A chi ed a che cosa profitterebbe esso? Che aggiungerebbe al vocabolario della lingua scritta? Non sarebbe per avventura più utile domandare, come poter rendere intelligibile a tutti la lingua italiana, vale a dire la lingua della letteratura d'Italia? Ed a rendere intelligibile questa lingua non sarebbe forse prima e indispensabile condizione che tutti gli italiani sapessero leggerla? Finchè avremo tanti milioni d'uomini che non conoscono l'alfabeto, si può pensare ai mezzi di estendere l'uso della buona lingua? Quando tutti sapranno leggere, allora scegliete abili maestri, allora divulgate buoni dizionari della lingua, allora ponete nelle mani ai fanciulli grammatiche ben fatte, semplici, facili, non come quelle, barbarissime, che oggi sciupano miserabilmente i cervelli dei nostri poveri bambini; allora procacciate che si pubblichino libri che il popolo possa leggere e intendere. Avrete sempre i dialetti; ma a poco a poco tutti intenderanno e parleranno anche la lingua; non la lingua fiorentina o toscana, ma l'italiana; quella lingua che se ha vocaboli toscani, ha una struttura grammaticale italiana; quella lingua che vive rigogliosa, perchè si alimenta delle forme di tutti i suoi dialetti, e che, veramente, in tutte le città apparisce, in nessuna riposa.
E qui è ben tempo che noi prendiamo commiato dal lettore cortese. Al quale diremo per ultimo come, quando ci accingemmo a questa non facile pubblicazione del Sidrach, fosse nostra intenzione di far seguitare al volume del Testo un volume di Illustrazioni, nel quale dovea comprendersi, oltre la Bibliografia, il Saggio dei Codici francesi e il Glossario delle voci, anche un discorso sugli errori popolari del medio evo, e un confronto tra le varie enciclopedie di quel tempo: uno studio sulle traduzioni italiane dal francese nei secoli XIII e XIV, ed un altro sulla influenza che la letteratura francese e provenzale (e specialmente le leggende, le novelle e i poemi) esercitarono nei due secoli anzi detti sulla letteratura italiana. Questo non ci sarebbe parso lavoro affatto inutile in Italia, la quale appena ora comincia a indagare criticamente le origini della sua letteratura. Se non che, mandati dall'altrui volontà in paese dove i libri sono pochissimi, lontani da ogni centro di cultura letteraria, senza aiuti e senza conforti, come por mano o dar compimento a lavori di erudizione? E così hanno dovuto rimanere interrotti quegli studi, già con tanto amore intrapresi, con tanti sudori proseguiti; e la seconda parte del Sidrach comparirà senza ciò che avrebbe forse potuto essere meno sgradito al lettore. Non vogliamo fare vani lamenti; ma solamente ci sia permesso dire che a coloro i quali amano gli studi, e vivono anzi solo di essi, potrebbersi non ricusare quei riguardi e quegli incoraggiamenti che sono necessari a condurre a fine qualche cosa di utile. Chi ha percorsa la faticosa via dello studio può intendere da quanto acerbo e profondo dolore ci sieno dettate queste parole!
A' 20 di Maggio 1868.
ADOLFO BARTOLI.
(1) Cod. segnato I. 68. Inf. (Sec. XV). Comincia: «In nomine domini eterni amen. Qua chomenza el pruolegho ella lezenda del libro del venerabelle astrolagho Iesu Sidracho».
(2) Cf. MAURY, Mag. et Astr., cap. IV.
(3) Vedine alcuni esempi strani nel libretto pub. dal sig. G. Amati, Ubbie, Ciancioni e Ciarpe, Bologna, Romagnoli.
(4) Cap. LV.
(5) Nel Fiore di Virtù è chiamato ora Jesus Sidrac, ora Jesus Sirac, ora Sirac; e questo può confermare quello che abbiamo supposto della confusione tra Sidrac e Sirac.
(6) Hist. Litt. de la France, XXIII, pag. 294.
(8) Hist. Litt. de la Fr. loc. cit.
(9) Vedi PARTE II, Bibliografia dei Codici e dei Testi a stampa del Sidrach. Vogliamo fin d'ora dichiararci riconoscentissimi al Sig. Principe Don Baldassarre Boncompagni di Roma, per le molte notizie da esso forniteci per questa Bibliografia.
(10) Che l'amanuense fosse un italiano, anco da questo si prova, che alla fine del codice è scritto, dello stesso carattere del rimanente: Finito libro referamus gratias. Xpo.
(11) Romvart, Beiträge zur Kunde Mittelalter. Dichtung auf Italiänischen Biblioth. Mannheim, 1844. — Romanische Inedita auf Italiänischen Biblioth. Berlin, 1856.
(12) È curioso a notarsi che in un Codice di cui trovasi indicazione nel Catalogo della Biblioteca Heberiana, Sidrach è detto filosofo e strologo di Siena.
(13) Cf. MAX MÜLLER, Scienza del linguaggio.
(14) MAX MÜLLER, op. cit.
La provedenza di Dio padre tutto possente è stato dal cominciamento del mondo, e sarà sanza fine, di governare tutte le sue creature spirituali, alle quali egli à promesso di dare lo paradiso (15), se per loro non rimane; e vuole (16) ispargiere la sua grazia per l'universo mondo, perchè le genti possano (17) meglio vivere in questo mondo; per la qual cosa e' possano pervenire a quella gloria che mai non avrà fine. La misericordia di Dio fu istabilimento de' patriarchi, che furono al tenpo d'Adamo infino (18) al tenpo di Moysè, che insegniavano vivere alle genti secondo i vizii (19) che allora erano; e tutti quelli che manteneano i loro usi sono altressì salvi, come egli furono; e quelli che contrario feciono, ebono lo contrario, perciò che trapassarono lo comandamento di Dio e de' suoi ministri che allora erano. Lo giorno della sua rexuressione dimorarono in inferno, e furono riconfermati per tutti tenpi, e non furono delli compagni (20) de' ministri del figliuolo di Dio, perciò che non feciero gli suoi comandamenti. Lo giudicamento del nostro Signore, ciò fu quando mandò il diluvio (21), non fu per altra cosa, se non per abondanzia de' peccati, che allora erano per l'universo mondo. E dopo lo diluvio Noe e la moglie e figliuoli colle loro mogli abitavano in terra, incominciarono (22) a fare e a stabilire lo comandamento di Dio, secondo l'usagio (23). Iddio diè loro la perfezione di cresciere e multiplicare; uno degli figliuoli di Noe ch'ebe nome Giafet, di gieneratione in gieneratione, che di lui naquero, mantennero la fede di Dio, siccome Noe loro padre facea (24). E Idio per la sua misericordia (25) volle mostrare lo grande amore ch'egli avea nella generatione di Giafet, figlio (26) di Noe: si fece nasciere uno uomo di quella medesima ingenerazione, lo quale ebe nome Sidracho (27), lo quale Sidracho fue pieno di tutte le scienzie (28) che furono dal cominciamento del mondo insino al suo tenpo. Questo Sidrach fu dopo la morte di Noe anni DCCCXLVII; e anche seppe, come piacque a Dio, dal suo tenpo insino alla fine del mondo. Questo Sidrac Idio gli degnò per la sua gran dimostranza la forma della sua sancta trinitade, (29) acciò ched e' fosse anunziatore (30) all'altre (31) genti che dopo lui deono venire. E egli fu bene cosa conosciuta che dimostrò la forma e la figura della trinitade, per lo comandamento di Dio, a uno re miscredente, lo quale ebe nome lo re Botozo (32). Mostrogliele per convertirlo (33) alla fede di Dio padre onipotente, perciò che questo re adorava prima gl'idoli (34); e alla fine egli lo convertì, lui e altra assai giente, siccome è scritto innanzi. Questo Sidrach ebe grazia da Dio di sapere gli nove ordini degli angioli che sono in cielo, e di che serve ciascuno ordine; e di sapere la storlomia e del fermamento, delle pianete e delle stelle, e de' segni dell'ore e de' punti; e di sapere tutte cose terrene e tenporali, e di tutte cose del mondo, come conterà (35) per innanzi.
Or avenne al tenpo di questo re Botozzo ch'egli avea mandato chiegendo questo Sidrach allo re Trattabar (36), però che Sidrach era filosafo di questo re Tractabar; e mandollo chiedendo per alcuno bisognio ch'egli avea di lui, siccome voi udirete innanzi, perciò che non è bene a contare le cose due volte, noi ne passeremo brievemente, per lo migliore modo che noi sapremo, colla grazia di Dio (37). Lo re Botoczo richiese lo filosafo molto di quistioni, ch'egli disiderava di sapere, e non trovava uomo che ne gli sapesse dire; ma Sidrach ne gli spianò (38) a diritto e a ragione, di ciò che lo re lo domandò: delle qua' cose gli piacquero molto, e feciene fare uno libro di quelle medesime quistioni, cioè questo libro (39). E questo libro venne poi d'una mano in altra, tanto ch'egli venne alle mani, dopo la morte dello re Botozo, a uno grande uomo: sì che questo uomo da indi a certo tenpo lo volle ardere, per lo consiglio del diavolo (40); e Idio non volle che ardesse, anzi lo fece venire alle mani d'uno re ch'avea nome Mandriano (41); e poi venne alle mani d'uno grande prencipe (42) de' cavalieri di Soria, lo quale era lebbroso, lo quale avea nome Marna (43); e sì lo tenea molto caro. Questo Marna guarì detta lebbra al fiume Giordano. Da indi a grande tenpo non potè essere trovato. E dopo la venuta del nostro Signore, per la volontà di Dio, che non volle ch'egli fosse perduto di tutto in tutto (44), si venne al podere (45) d'uno buono uomo greco (46), che fu arcivescovo di Fabastora (47), che all'antico tenpo si chiamava Samaria. E quello arcivescovo avea nome Iovazil (48), il quale fu (49) buono cristiano, e ebe uno cherico ch'ebe nome Dimito (50); e l'arcivescovo lo mandò in Ispagnia a predicare la fede di Jesu Cristo; e portò con seco quello libro, e alla fine morì in Tolletta (51). E questo libro (52) dimorò colà uno grande tenpo. E poi venne la chiericeria (53) in Tolletta, e trovò questo libro, e sì lo traslataro di grecesco in gramatica (54). E lo re di Spagnia udì parlare di questo libro, e ordinò ch'egli l'ebbe (55), e tennelo molto caro (56). E lo re di Tunisi (57) che a quello tenpo era, udì parlare per bocca di suoi anbasciadori di questo libro, mandò pregando lo re di Spagna che, per liberale gratia, gli mandasse quello libro; e lo re di Spagna lo fecie traslatare di gramatica in francesco (58), e si gliele mandò (59). Ora venne che al tenpo che lo 'nperadore Federigo regniava, era uno re in Tunisi che lo leggieva, e usavalo molto, onde n'era tenuto molto savio, per le grandi quistioni che facea alle genti, e per le buone risposte (60) che facea di ciò che altri lo domandava. Lo 'nperadore Federigo avea anbasciadori in quel tenpo nella corte del re di Tunisi; e gli anbasciadori maravigliandosi (61), vedendo tanta iscienzia, onde potea venire, fu loro detto che lo re avea nel suo tesoro uno libro, e lo re di Spagna l'avea mandato a' suoi anticiessori, e di quello libro sapea tutte le scienzie. Ora venne che gli anbasciadori tornarono allo 'nperadore, e contarogli la bontà di quello libro, onde fu molto intalentato di volerlo. Allora mandò uno anbasciadore al re di Tunisi, che per liberale grazia gli mandasse quello libro. E lo re di Tunisi gli mandò a dire, che gli mandasse uno cherico che sapesse grammatica e 'l saracinesco. E lo 'nperadore gli mandò uno frate minore, ch'avea nome frate Ruggieri (62) di Palermo. Quelli lo traslatò di saracinesco in gramatica: onde lo 'nperadore Federigo ne fu molto allegro, e molto lo tenne caro. Nella corte dello 'nperadore avea uno uomo molto savio, lo quale avea nome Codici Pisolatico (63), ed era d'Antioccia (64), e fu molto amato dallo 'nperadore. E quando egli udì parlare di questo libro, si pensò molto com'egli lo potesse avere: tanto promise e donò al camarlingo (65) dello 'nperadore, che gliel diede; l'asenprò, e scrisselo privatamente, che niuno lo sapea. E da indi a certo tenpo Codici (66) folosafo lo mandò in donamento (67) al patriarca Uberto d'Antioccia (68). Quando il patriarca l'ebbe, il tenne molto caro, e usollo tutto il tenpo della sua vita. Egli avea uno suo cherico, ch'avea nome Giovanni Petro di Leone (69); questi exenprò (70) questo libro, e andossene in Tolletto. In questo modo rivenne indietro in Tolletto; e di quello si traslatò molti buoni libri, de' quali ciascuno (71) no gli puote avere (72). Da qui innanzi noi non sapiamo alle cui mani egli si verrà, nè dee venire; ma preghiamo Idio lo creatore, ch'egli possa venire alle mani di tali genti, ch'egli lo possano ritenere e intendere, alla salvatione dell'anima e del corpo (73).
Al tenpo dello re Botozo del Levante, re d'una grande provincia che è tra Persia (74) e India (la qual provincia si chiama Botenes, (75) lo quale re ora chiamato Botozzo, regnò dopo la morte di Noe DCCCXLVII anni (76)), e' voleva fondare una città all'entrata d'India, per guerreggiare (77) uno suo nimico re, ch'era contra lui, e teneva una grande partita d'India, e avea nome re Garabo (78). Sicchè questo re Botozo fece fondare una torre per edificare una città, all'entrata della terra dello re Garabo. E la torre fu cominciata a grande gioia e festa, e lavoraro una grande partita del giorno, ma la mattina trovaro tutto abattuto lo lavorio. Quando lo re lo vide, fu molto dolente, e tostamente fece ricominciare lo lavorio di capo (79). E l'altra mattina ogni cosa (80) si trovò abattuto, e lo re di ciò molto s'adirò. Questo gli avenne ciascuno giorno, bene sette mesi. E lo re Botoczo, vegendo questo, fece ragunare tutti i suoi savi, e domandò in qual modo potesse fare lavorare in quella sua torre e in quella città, che ella non rovinasse. E sopra quella domanda, gli fu dato consiglio che egli mandasse cercando per tutti gl'indovini e astrolaghi della sua terra. E lo re ordinò siccome coloro gli dissono; e fra venticinque giorni furono venuti a lui, e furono LXXXVIIIJ. Lo re Botozzo gli ricievette a grande gioia, e fecegli riposare tre giorni, e al quarto giorno se gli fece venire innanzi, e disse: signori, io v'ò fatto venire dinanzi a me, per farvi asapere quello ch'io vi dirò. Io sono lo maggiore re di tutto lo Levante, e tutti i re di queste parti sono venuti sotto me; ma e' ci (81) à uno re, che à nome Gharabo re d'India, questi non vuole venire sotto me, e io non posso entrare in sua terra, perchè à troppo forte entrata; e fummi dato per consiglio ch'io facessi una città all'entrata di sua terra, per poterlo meglio guerregiare (82); e io incominciava una torre per edificare la città; e òlla incominciata già fa sette mesi, e non si può conpiere, e ciò che si lavora lo giorno, la notte e la mattina si truova abattuto (83). Laonde io ne sono molto cruccioso, e molto mi grava, che le novelle andranno al mio nimico, che io non posso conpiere una città in sua terra. E per questo i' ò mandato caendo (84), per avere il vostro consiglio: ond'io vi priego tutti comunalmente, che voi mi diate tale consiglio, che io possa conpiere questa città; e io vi prometto, per lo mio idio, ch'io farò a tutti voi grande bene: chè, se tutto il mondo fosse mio, io non avrei tale allegreza, come vendicarmi dello re Gharabo. Quando lo re Botozo ebe finita sua diceria (85), si rispuosono tutti i savi comunalmente ad una boce, e dissono: messere, noi faremo tal cosa che a voi tornerà onore e gioia, e vendetta del vostro nimico; e non vogliamo avere termine più che XL dì, per aoperare la nostra arte, e vogliamo istare tutti in uno luogo (86). Quando lo re udì questo, fu molto allegro; e mandogli in uno luogo ch'era pieno di molta verdura, e comandò che fossono serviti come il suo corpo, e fosse loro dato ciò che adomandassero. E stando in questo luogo, incominciaron adoperare la loro arte; e alla fine di XL giorni mandarono diciendo al re ch'egli aveano conpiuto lo suo servigio, e ch'egli voleano andare inanzi (87). Quando lo re lo 'ntese, n'ebbe grande allegreza, e fecesegli venire davanti con grande gioia, e domandogli come aveano facto; e que' rispuosono a una boce e dissono: messere lo re, fatevi di buona voglia (88), chè 'l vostro intendimento è conpiuto; e da cotale giorno passati li XXV dì della luna, ed a l'ora che noi incomincieremo e dallo punto, sì ve lo diremo (89), e allora fate cominciare la torre, e noi vi saremo (90). Quando lo re udì questo, ne fu molto allegro, e ringraziogli tutti. E quando venne lo giorno del termine, egli furono al lavorio. Quando fue otta di lavorare, egli cominciarono a grande festa e allegrezza a lavorare, e tutto lo giorno lavorarono. Quando venne la notte e' savi feciono stare grande luminaria, per guardia della torre, e gli uomini con questa luminaria vi rimaseno a guardare (91), e lo re coll'altra gente s'andarono a dormire con grande allegreza. E quando venne la mattina trovarono abattuto tutto lo lavorio, in terra, e la novella andò allo re; e quando lo re lo 'ntese ne fu molto cruccioso, e venne allo lavorio; e quando vide lo lavorio abattuto, n'ebe gran doglia al cuore, e fece venire i savi dinanzi da lui, e disse: è questa la promessa che voi mi facesti? E' savi non sepono che si rispondere. E lo re disse: per lo mio idio, io vi rimanderò in tale luogo, che sarà molto reo per voi, e non uscirete (92) infino che la città non sarà conpiuta. E fecegli mettere in una prigione; e fu facto suo comandamento, e questa fue la primaia prigione, secondo che ne parlano le scritture. E le novelle n'andaron allo re Gharabo, come lo re Botozo non potea fare per arte, nè per ingegnio (93) nè per niuno modo conpiere una torre: onde n'ebe allegreza grandissima, e mandogli una pistola allo re Botozo, e diceva così: Re Botozo, salute dalla parte di noi re Gharabo. Noi abiamo inteso che voi volete edificare una torre all'entrata di nostra terra, e sì v'avete ispeso molto del vostro avere, e non avete potuto conpiere una torre, nè per arte nè per altro avere. Ma noi vi mandiamo dicendo che, se voi ci volete dare la vostra figliuola a moglie, noi vi lascieremo fondare la torre. Quando lo re Botozo intese la pistola, egli ne fu molto cruccioso, e fece tagliare la testa allo anbasciadore che la recava; e poi fece gridare uno bando (94) nella sua terra, che chiunque gli sapesse dare consiglio da conpiere la città, egli gli darebe la sua figliuola per moglie, e mezo il suo tesoro, e questo giurerà sopra lo suo idio. E dopo questo bando, a dieci giorni, venne a lui uno vecchio uomo, e disse: messere lo re, io sono venuto a voi per darvi consiglio di conpiere questa vostra torre, che voi avete inpresa a fare; e io non voglio vostra figliuola nè vostro tesoro, ma voi mi giurerete di farmi alcuno bene. Quando lo re lo 'ntese, fu molto allegro; e lo re gli giurò sopra lo suo idio di fargli bene, se la città si conpiesse. E lo vecchio disse: mandate allo re Trattabar (95), per lo libro suo della strologia, che fu di Noe, nel quale è scritto lo 'nsegnamento dell'angelo del suo Idio, che quello libro fu lasciato a uno de' figliuoli di Noe magiore (96). Noe ebe tre figliuoli: l'uno ebe nome Sem, l'altro Giafet. L'altro nome non è da mentovare, che lo padre lo maladisse, e tornò di bianco in nero. Quello libro venne da uno re in altro (97), tanto che venne alle mani dello re Trattabar. E pregate che vi mandi lo libro e lo suo astrologo Sidrac (98), perciò ch'egli è molto savio uomo, e sa molto dell'arte della strologia. Sidracho vi darà consiglio di vendicarvi sopra lo vostro nimico, e di conpiere la città. Quando egli l'ebbe inteso, ebe di ciò grande allegreza, e fece aparechiare uno bello e ricco presente, e fece fare una pistola che dicea così: Noi Botozo re vi mandiamo fortemente salutando alla vostra signoria, re Trattabero, come signore e amico (99). Mandianvi pregando che voi facciate per noi, come voi voleste che facessimo per voi. Noi vi mandiamo pregando che voi ci mandiate lo libro della strologia, che fu di Noe, conciosia cosa che noi n'abiamo grande bisogno; e mandate con esso il vostro filosafo Sidrac; e con questa pistola mandiamo il detto presente. Lo messo si mise per cammino, come piacque a Dio, e fu capitato allo re Trattabar, e apresentogli la pistola e 'l presente; e lo re lo ricevette volentieri, con grande allegreza, e poi disse al messo: io ò grande allegrezza, quando messer lo re Botozo m'à mandate sue lettere (100). E egli m'à mandato chiegendo uno mio libro che fu de' miei anticessori; e prima fu di Noe; e parla d'una cosa ch'è in una montagnia, che chi ne potesse avere, tornerebe al mondo grande prode (101). E lo mio padre si mise ad andare su per quella montagnia, ma egli none potè venire a capo del suo disiderio. Ma io credo bene che lo re Botozo ne potrà venire a capo egli, ch'egli à molto grande podere, ch'egli è uno de' grandi re che sia nel Levante. E allora mandò lo libro, e Sidrac con esso, e una pistola che contenea così: Noi re Trattabar ringraziamo altamente voi, re Botozo, del vostro onore e del vostro domandamento. Noi e la nostra terra è (102) al vostro comandamento. Noi vi mandiamo lo libro e Sidrac nostro filosafo. E cavalcò tanto (103) che giunse al palagio del re Botozo.
Quando lo re Botozo vide questo, egli ricevette lo libro e Sidrac con grande allegreza, e cominciò a contare a Sidrac lo suo bisogno, e dissegli come gli era incontrato. E Sidrac gli rispuose, e disse: messere, questa terra è incantata, e niuna forteza vi si potrà fare, se gli incantamenti non si disfanno; e io ò tale consiglio, che io gli disfarò. E lo re ebe di ciò grande allegreza, e molto lo pregò che pensasse sopra questo fatto. E Sidrac rispuose: messere, noi troveremo in questo libro del mio signore, che fu prima di Noe, che uno agnolo del suo Idio gli avea insegniata una montagna e una contrada della profonda India, la quale si chiama la montagna verde del corbo; là ove Noe mandò lo corbo, per iscoprire la terra, al tenpo del diluvio; e egli trovò carogna, e egli si puose sopr'essa (104). Quella montagna è lunga quattro giornate e larga tre, e su v'abita una gente che sono a nostra fazione (105) di corpo, ma lo volto (106) loro ànno facto a maniera di cane. Quella montagnia è presso allo regno femminoro (107), là ove uomo non puote vivere; e si à in quella montagna dodici migliaia di maniere d'erbe: le quattro milia fanno profitto, e l'altre quattro milia fanno danno (108), e l'altre quattro milia non fanno nè prode nè danno. E anche v'à dodici maniere d'acqua, che si ragunano in uno luogo dodici volte l'anno, e abeverano (109) tutta la terra e tutte quelle erbe. E se voi volete andare in su quello monte per avere di quelle erbe, voi potrete fare de' vostri nimici quello che voi vorrete, e sì conpierete vostro disio. Quando lo re intese Sidrac, si ne fu molto allegro; e disse che, se dovesse perdere tutto quello ch'egli à, sì conviene ch'egli abia dell'erbe di quella montagna. E al terzo giorno montò a cavallo colla sua gente, e misesi a cammino; e tanto cavalcaro, che al decimo giorno fu a piè della montagna. E gli volti de' cani si misono a difendere la loro terra, e sconfissono lo re Botozo malamente; e poi anche risalirono, e furono sconfitti alla montagnia. E i volti de' cani un'altra volta saliro la montagna. E lo re iscese a terra della montagna, e mandò per soccorso; e gli venne grande aiuto. E poi per grande forza e vigore sconfissono i volti de' cani, e uccisono molti di loro. E poi si riposarono otto giorni, e alla per fine ebono la terra. Lo re Botozo era miscredente, e non credea nel suo Criatore, anzi credea e adorava gl'idoli. Sidrac credeva e adorava Idio padre onipotente, che fatto l'aveva, e osserva gli suoi comandamenti. E lo re Botozo facea portare, là ovunque (110) andava, l'idoli (111), ciascuno in su grande sedia: e sì erano d'oro e d'argento; e una idola (112) v'era, ch'era adornata di grande riccheze, e era posta a sedere più alta che niuna dell'altre. Lo re fece aparecchiare bestiame, per fare sacrificio agli suoi idoli, e avea fatti suoi padiglioni; e là entro tenea questi idoli, spezialmente nel suo. E poi prese Sidrac per la mano, e menollo allo suo padiglione, con grande compagnia di gente; e poi comandò che uno montone fosse recato; e recato che fu, e egli prese uno coltello, e dicollò lo montone dinanzi al grande idolo; e ciascuno della sua gente, secondo che avea lo podere, uccidea una bestia, e gittavala (113) d'intorno a quelle ydole; e poi l'ardevano tutto. Per questo modo faceano sacrificio agl'idoli. E Sidrach che vide questo, forte se ne maravigliò, e molto ne fu dolente. E lo re lo fece chiamare, e disse: Sidrac, fa sacrificio al mio iddio, ch'è buono e ricco. E Sidrac rispuose con grande cruccio, e disse: messere, non farò; anzi farò sacrificio al mio Idio, ch'è possente sopra tutti, e è creatore del cielo e della terra, e è quelli che fece Adamo e Eva, e tutte l'altre cose che ci sono. E quando lo re udì dire questo, egli ne fu molto crucciato, e disse: che di' tu del mio idio? Dico, disse Sidrac, ch'egli è malvagio; e è dimonio che v'à legato (114), voi e la vostra giente, e per voi distruggiere; e se voi mi vorrete credere, voi no gli crederrete; anzi lo farete disfare; chè idio ch'è fatto per mano d'uomo, non si dee adorare nè credere. E lo re avendolo inteso, ne fu molto crucciato, avendo udito tanto dispregiare lo suo idolo. Allora se lo fece recare davanti con grande cruccio, e disse a Sidrac: come ài (115) tu dispregiato così ricco idio e così bello come questo? Perchè non si dee adorare e credergli? E Sidrac gli rispuose: certo a cotale idio non è da adorare nè da onorare; me' (116) è da ontare e da vituperare (117). Ma lo mio Idio, che creò lo cielo e la terra e l'altre cose che sono, si dee adorare e onorare, lo suo nome sacrificare (118). Lo re Botozo fu molto crucciato, e disse: che è lo tuo Idio? E egli rispuose: lo mio Iddio è criatore del cielo e della terra. E lo re disse: come è egli fatto e di che? Certo, disse Sidrac, lo mio Iddio è una ispirituale sustanzia, e sì è di sì gran biltà (119), che angeli che risplendono sette cotanti che 'l sole di biltade, tutto tenpo disiderano lui vedere (120). E lo re si crucciò molto forte, e fece venire due degli suoi savi, per disputare con Sidrac. E incominciarono a mostrargli la loro miscredenza. E Sidrac tutti gli vincieva di loro quistionare, e tuttavia mostrava loro la potenzia di Dio padre onnipotente. E li miscredenti dissono: vedi lo tuo Idio altressì come noi vegiamo lo nostro? Sidrac rispose, si (121). Allora dissono gli miscredenti: priega lo tuo Idio, e noi pregheremo lo nostro, e ciascuno faccia la sua preghiera. E poi gli miscredenti recarono incenso, e incensarono lo loro iddio; e poi feciono orazione, e dissono così: Noi vi preghiamo che voi non sofferiate che Sidrac per li suoi incantamenti vinca (122) la nostra credenza. E allora parlò lo diavolo dentro dall'idola, e disse ad alta boce: prendete quello incantatore Sidrac, e tagliatelo in quattro pezzi, veggendo tutti quelli dell'oste. E Sidrac avea isguardato (123) lo cielo, e fatto questa preghiera che io conterò: Signore Idio, che se' Iddio d'Adamo e d'Eva e di Noè e mio, che formasti cielo e terra, io credo in voi e nella vostra podestà; io vi priego che voi degniate di mostrare vostra potenzia, veggente questi miscredenti (124), e che lo diavolo non abia podere, là ove lo vostro nome sia nominato. E li miscredenti che udirono lo comandamento del che diavolo, che dentro all'idola era (125), che 'l teneano per loro idio, sì se ne mossono (126) ben cinquanta degli uomini, per prendere Sidrac. E incontanente discese da cielo una folgore, e percosse in su quello ydolo che teneano per loro iddio, e arselo a modo di cienere (127); e così arsono gli uomini ch'erano iti per prendere Sidrac. E lo dimonio si partì dell'idola, faccendo sì grande grida, ch'egli ispaventò tutti quelli che là erano. E quando lo re vide questo, fu di ciò molto crucciato, vedendo arso lo suo iddio e la sua gente; e comandò che Sidrac fosse preso, e legate le mani e piedi, e che fosse ben guardato. E dopo questo, dimorarono in su quella montagnia da otto giorni, e non sapeano che si fare in su quella montagna, come quelli che vedeano lume cogli occhi, e erano ciechi della mente. Lo re Botozo pensò quello che egli avesse a fare, e conobe in suo proponimento che, s'egli non avesse il consiglio di Sidrac, ch'egli era isconsigliato (128). Allora fece ragunare tutti i suoi savi, e loro domandò consiglio. Disse lo re: signori, quelli che ci à condotto insino a qui, per lo cui senno noi ci siamo venuti, àe molto fallato, e beffato lo nostro iddio e arso e confuso; e non sapiamo (129) se questo si fosse adivenuto per forza d'arte o per lo suo iddio (130); ma, in qualunque maniera sia, noi pure abiamo perduto lo nostro iddio e la sua grande ricchezza; però vi priego che voi guardiate quello che noi abiamo a fare in questo istrano paese, ove noi siamo. Quando lo re ebe finita sua diceria, e li savi cominciarono a consigliare lo re. L'uno dicea: facciamo onore (131) a questo incantatore Sidrac, tanto che noi abiamo fornita la nostra bisognia, e potrenci vendicare de' nostri nimici: chè sanza lui non potremo noi fare nulla; e farello ardere e a mala morte poscia morire, come fecie lo nostro (132) iddio, lo quale egli à così distrutto; e poi ritorneremo nella nostra terra. E chi dava uno consiglio e chi dava un altro. Egli s'acordarono tutti al primo consiglio. E poi lo re mandò dieci delli suoi savi a Sidrac, là ove egli era legato e guardato, come detto è, e sì gli dicono: Sidrac, lo re ti manda comandando che tu ubidisca i suoi comandamenti, e elli ti perdonerà quello che tu ài fatto verso lo suo idio. E Sidrac rispuose, e disse che di quello non gli chiedeva perdonanza; e poi anche disse: ditegli che, se egli vuole ch'io compia lo suo servigio, ch'egli si creda in Dio padre onipotente, creatore del cielo e della terra, e ubidisca i suoi comandamenti; e io gli mosterrò chiaramente le potentissime e le graziosissime cose del cielo. E gli messaggi tornarono al re, e si gli dissono la risposta di Sidrac; e lo re di ciò fue molto crucciato, e comandò che fosse lasciato istare così legato in prigione X giorni. E in capo di X giorni lo re gli mandò quelle medesime parole (133) di prima. Sidrac simigliantemente come di prima gli rispuose. E quando lo re vide che non poteva altro fare, e egli e la sua gente era isconsigliato (134), che niuno perfetto consiglio non aveano, se Sidrac non vi fosse, si mandò per lui, e fecelo diliberare de' legami. E Sidrac venne a lui, e disse: voi m'avete fatto venire qui dinanzi a voi, non so perchè cagione neanche, che in verità, per lo mio Idio vero del cielo, ch'è possente sopra tutte le cose e sopra gli tuoi idii e sopra tutto lo mondo, ch'io gli ò fatto una promessa: che per me nè per lo mio consiglio lo tuo bisogno non sarà facto, nè per dono nè per parole che tu mi sapi dire o fare; anzi ti lascierò perire, te con tutta tua gente, in su questa montagnia, e non avrai aiuto nè consiglio, nè chi (135) te lo sappia dare, se non il solo Idio; e, se a lui piace, egli ti darà il consiglio, o per me, ch'io ti consigli io, o per altrui che a lui piaccia. E se di tutto questo tu vuogli iscampare, tu e la tua gente, e avere lo tuo disio, sì ti conviene credere in Dio del cielo, e ubidire i suoi comandamenti, e disfare e rinegare i tuoi idii, i quali sono alberghi e abitacoli del diavolo, il quale Idio cacciò di cielo per lo suo argoglio (136). Quando lo re Botozo udì tanto dispregiare e avilire i suoi idii, cui egli tanto amava e onorava, sì gli disse, per grande cruccio: tu non mi saprai tanto i miei idii avilire, che io allo tuo perciò creda, se di lui o da lui alcuna certezza non ne veggio, apertamente. Ciò ti mosterrò io bene, disse Sidrac. E lo re disse: ora lo mi mostra, e io crederò nel tuo Iddio. E Sidrac si trasse uno poco in disparte, e riguardò verso il cielo, e fece questa preghiera: Messere Domenedio, piatoso padre e udevole (137), criatore del cielo e della terra, che creasti cielo e terra e acqua, e creasti gli angioli dentro dal cielo, e a loro donasti biltà e sapienzia e allegreza e spirito sanza corpo (138), messere, quelli malvagi si innorgoglirono e rubelloronsi da voi; per la loro cupidenzia (139) seguitarono Setanasso; e la vostra umiltà disciese in terra, e formaste tutte le cose corporali, e l'altre che ci sono, e formasti Adamo di terra, e gli donasti spirito di vita; e poi formasti Eva della sua diritta costa; priegoti che mi debi mandare, per la tua santa pietade, la tua sancta grazia, sicchè io possa vinciere lo nemico crudele, e fare tornare questi miscredenti allo tuo sancto nome. Quando egli ebe finita la sua preghiera, e un angelo disciese da cielo, e venne a lui e disse: Sidrac, Iddio à udita la tua preghiera, sicchè tu confonderai lo nimico e lo suo podere; e la grazia di Dio è isciesa in te, sicchè tu saprai mostrare a questi miscredenti dal cominciamento del mondo infino alla venuta del verace profeta figliuolo di Dio; e anche saprai mostrare infino alla venuta del falso profeta figliuolo di Satanas; e anche saprai mostrare infino alla fine del mondo. Piglia uno vasello (140) di terra, e asettalo (141) in su tre legni, al nome della sancta trinità, padre e figliuolo e spirito sancto, tre persone in uno Idio (142); e enpi lo vasello d'acqua, e poi vedrai la vertude di Dio, e mostralo a questi miscredenti. E allora l'agnolo si partì. E Sidrac venne verso lo re, e disse: messere lo re, io vi mosterrò la potenzia del mio buono Idio. E lo re disse, con grande cruccio: mostralomi, che voglio vedere s'egli è migliore che 'l mio. E Sidrac fece recare uno vasello di terra, e fecielo enpiere d'acqua, e si lo puose (143) in su tre legni (144), siccome l'agnolo gl'insegnò. E incontanente vide l'onbra della santa trinitade, ed una boce si gridò ad alti (145), e disse: re Botozo, guarda nell'acqua del vasello, e vedrai lo verace Idio, re di tutto il mondo. E lo re venne con grande ira, e riguardò nell'acqua, e vide l'onbra della santa trinitade, padre e figlio e spirito sancto, in una sedia (146), e gli angeli cantando e glorificando lo padre e lo figliuolo e lo spirito sancto. Era lo figliuolo col padre, e tutti e tre erano uno (147). Quando lo re vide questo, ebene grande allegreza, e parveli (148) essere in gloria. E allora disse lo re: Sidrac, io credo nel tuo Iddio, e in quello ch'è di lui e fu e sarà; ma io ti priego che tu mi dichi come egli sono tre. Disse Sidrac: messere, questa è la sancta trinitade, ed è padre, figlio e spirito sancto, e sono tre persone e uno Idio. Disse lo re: come conversan'eglino insieme? Messere, disse Sidrac, come lo sole, ch'e tre cose in uno: la prima è la sustanzia, la seconda è lo chiarore, la terza è lo calore. La proprietà, cioè la sustanzia, si è lo padre, e la chiarità si è lo figliuolo, e lo calore si è lo sancto spirito. Queste sono tre cose in una; altressì possono essere tre in uno Idio. Quando Sidrac ebe tosto detta questa ragione, molto piacque allo re, e ebene grande allegreza, e gridò ad alta boce: Io adoro e credo nello Idio di Sidrac, padre e figlio e sancto spirito, tre persone in uno Idio (149), e sancta trinitade. Quando ebe questo detto, la sua gente se ne crucciò molto, e giurarono tutti la morte di Sidrac; e consigliaronsi una partita (150) insieme, e dissono: lo nostro re à perduto lo senno, e Sidrac lo 'ncantatore l'à ingannato, e àgli fatto rinegare lo suo buono iddio, e di suo padre e di suo avolo. E vennono a lui e dissono: male ài fatto; la tua gente è malamente crucciata (151) verso di te, di quello che voi avete fatto, e creduto a quello incantatore Sidrac; chè gli suoi incantamenti ànno disfatto lo tuo buono idio; e te à fatto rinegare i tuoi buoni idii, del tuo padre e del tuo avolo. E lo re rispuose e disse: io ò lasciato la bruttura e preso lo fino oro (152); che lo mio padre e li miei anticessori e io avavamo malvagio Idio; ma Sidrac m'à mostrato lo chiarore del mondo; e insino a qui ò avuto ria credenza; e da ora inanzi io non avrò altro Idio, se non colui che creò lo cielo e la terra; e, se a lui piace, nella sua credenza voglio vivere e morire, e lui voglio adorare e sacrificare, e non altro Idio che lui. Di questa risposta si crucciò molto la gente sua, che d'intorno a lui erano; e tornarono indrieto, e consigliaronsi insieme d'avere savi che quistionassono con Sidrac; e elessono quattro, i più savi uomini dell'oste, che lo mattassero (153), acciò che lo re tornasse alla sua credenza. E vennono allo re, dissono che voleano disputare con Sidrac. E lo re di ciò molto si contentò, e Sidrac. E allora cominciarono a disputare insieme, e dimostravano la loro miscredenza; e Sidrac mostrò loro la potenza di Dio, e come fece lo cielo e la terra e lo sole e la luna e tutte l'altre cose ch'al mondo sono; sicchè coloro non si poteano difendere da lui; ma disono: se il tuo Idio è così buono e leale come tu di', bei questo bicchiere pieno di veleno aguto, che noi abiamo fatto recare. E Sidrac istese la mano, e prese il bicchiere, e disse: io beo questo bicchiere pieno di veleno aguto (154), al nome del mio Idio che creò lo cielo e la terra. E bevvelo, e incontanente ch'egli l'ebbe bevuto, dimorò più fresco e più chiaro (155) che prima; e tutti quegli che lo vidono, di ciò assai si maravigliarono. E lo re ebe di ciò grande allegreza; più perfettamente amò Idio onipotente. E incontanente disciese di cielo un fuoco con folgore (156), sopra quelli quattro savi, e abattegli morti incontanente. Quando gli altri videro questo, incominciarono a dire l'uno all'altro: se lo Iddio di questo uomo non fosse buono e leale, egli non sarebbe iscanpato di quello veleno, anzi sarebe incontanente morto, nè costoro non sarebono arsi. Ma perchè furono folli, diceano male del suo Iddio, si ne fece questa maraviglia. E la maggior parte della gente, e spezialmente del popolo minuto, si convertirono a Dio. E lo re diventò più fermamente più credente in Dio. Quando lo diavolo vede che à ricevuto sì grande inganno (157) per Sidrac, si cominciò a gridare altamente, per li idoli (158), che v'erano ancora, da nove o dieci, che non erano ancora disfatti, e diceano: re Botozo, cattivo, che ài fatto tu? ài creduto i detti e gl'incantamenti di Sidrac, el (159) grande incantatore; tu ài lasciato noi, e noi lascieremo te; e le tue (160) offerte giammai non riceveremo, e li tuoi beni distrugeremo, e le tue bestie uccideremo, e li tuoi nimici sopra te manderemo; del tuo reame a tua onta ti caccieremo, e gli tuoi figliuoli e gli tuoi parenti perderai, e a grande dolore ti faremo morire. E se tu vorrai iscanpare, sotto i piedi degli tuoi cavagli (161) fa incontanente ardere lo incantatore, che t'à tracto (162) della nostra buona credenza; e fa ronpere quello vasello; e quell'acqua che v'è dentro falla (163) gettare sotto i piedi de' cavagli (164), ch'è tutta incantata di grandi incantamenti; e gli tre legni fa ardere, chè Sidrac incantatore della credenza sancta e degna di tuo padre e di tuo avolo e delli tuoi anticessori ti vuole levare; e lo capo a lui fa tagliare. Quando lo re Botozo e la sua gente udirono questo, egli si maravigliarono molto di ciò; e Sidrac, che gli vide essere ismagati (165), fu molto adirato, e dissegli: re Botozo, la tua credenza abbi in Dio fermamente, e guarda che lo ingegno (166) del diavolo non ti sormonti (167); chè per lo padre del cielo, cioè Idio, io isconfonderò lo diavolo e lo suo podere. Allora prese Sidrac una iscure (168), e disse agli demoni che dentro v'erano: io vi caccierò per la potenzia di Dio padre onnipotente. E comincia a dare della scure per l'idoli, e tutti quanti gli ruppe. Quando i diavoli vidono che non vi poteano più dimorare, partironsi, e feciono uno romore sì grande (169), che tutta la gente si spaventò. Allora venne uno tuono per la terra, per lo 'ngegno (170) del nimico, che parve loro che tutta la terra dovesse profondare; (171) e cominciò a balenare e a tonare e a piovere sì forte, che tutta la contrada allagava, e pareva che la terra dovesse allagare (172). Quando lo re e la sua gente videro questo (173), forte si maravigliarono (174); e Sidrac disse: messer lo re, non vi isgomentate, chè la forza di Dio del cielo è maggiore che lo 'ngegno del diavolo, e confortatevi che (175), se a Dio piace, voi vedrete incontanente la grazia di Dio sopra voi e sopra coloro che in lui crederanno. E incontanente disciese uno angiolo da cielo, con grande luminaria (176), e disse: Sidrac, piglia dell'acqua di quello vasello, e gittane a quattro cantoni del padiglione (177), al nome della sancta trinità; e piglia l'uno di quegli legni, e picchia (178) l'uno sopra l'altro per lo padiglione, al nome di Dio onipotente; e allora si confonderà il diavolo. Allora si partì l'agnolo, e Sydrac (179) fece lo suo comandamento; e in quella ora medesima la tenpesta rimase, e incontanente disciese un altro agnolo da cielo, con una ispada di fuoco in mano, e fedì lo diavolo, e confondello, e arse tutte l'idole. Quando gli altri che non erano ancora convertiti vidono questo miracolo di Dio, si convertirono tutti a lui. Lo re ebbe di ciò grande allegreza, e molto ringraziò Iddio e lo suo padre (180). E poi domandò Sidrac quello che significavano gli tre legni (181) e lo vasello e l'acqua che v'è dentro, e quella ch'egli gittò ne' quattro canti del padiglione, e gli due legni che tu battesti l'uno contro l'altro. E Sidrac disse: messere, io vel dirò: la significazione di ciò che voi m'avete domandato volentieri vel dirò, colla grazia di Dio: gli tre legni significano la sancta trinità, padre e figliuolo e spirito sancto, tre persone in uno Dio (182). Lo vasello della terra significa lo mondo, lo quale è sostenuto dalla sancta trinità (183). L'acqua che v'è dentro significa lo figliuolo di Dio, che verrà nella Vergine, e prenderà in lei corpo, e serà salvazione del mondo e degli suoi amici, e confusione del diavolo e del suo podere e della sua credenza e degli suoi amici. E quello prezioso corpo, che 'l figliuolo di Dio prenderà nella vergine Maria, morirà nella crocie, e sarà messo in terra, siccome quella acqua fu messa dentro a quello vasello di terra. E per quello crucificamento (184) e morte diliberrà Adamo e gli suoi parenti del podere del diavolo. Quella acqua che io gittava ne' quattro canti del padiglione, significa (185) che 'l figliuolo di Dio sarà battezzato (186) in acqua, e sarà (187) novella legge. I quattro cantoni significano quattro buoni uomini, che saranno al tenpo del verace profeta figliuolo di Dio, e saranno de' suoi disciepoli, e scriveranno lo suo detto e lo suo comandamento e li suoi miracoli; e saranno allevati e cresciuti (188) per li quattro elementi (189) del mondo; e per quelle iscritture confonderà lo diavolo e lo suo podere. I due legni ch'io battei l'uno coll'altro per lo padiglione, significano i santi uomini che saranno disciepoli del figliuolo di Dio verace profeta; e andranno per l'universo mondo, e chiameranno le genti che saranno perdute per la loro miscredenza; e convertirannole (190) alla fede del verace profeta figliuolo di Dio, e sì gli salveranno (191). Quando lo re udì questo dire a Sidrac, piacquegli molto, e ebene grande allegreza; sì si affermò più nella credenza di Dio adorare, e credette (192) nel suo nome perfettamente. E volle che Sidrac gli dischiarasse di belle quistioni, che avea volontà che dischiarate gli fossono, e non trovava niuno uomo che gli sapesse dire, se non Sidrac. Le quali quistioni furono nel torno di 565. E lo re domandò Sidrac e disse:
(15) Abbiamo corretto col C. R. 2. Il C. L. ha: „le quali egli ha promesso di dare loro il paradiso.„
(16) Volle C. R. 2.
(17) Sapesseno C. R. 2.
(18) Insine C. R. 2.
(19) ... qui ensegnoient les gens a vivre selon leur usages; et tous ceulx qui maintiendront leurs usaige, ec. C. F. R. — che insegnavano vivere alle genti li vizi che allora erano, e tucti quelli che manteneano le loro uzanze, ec. C. R. 2. — Ci sembra evidente che sia qui usato vizii per vezzi (usi, consuetudini), due parole che hanno comune la loro origine in vitium lat.
(20) Nella compagnia C. R. 2.
(21) Le jugement de nostre Segnor dou deluge il ne fu per autre cose, etc. C. F. R. Da causa, ant. fr., cause, cose.
(22) habitarono in terra e cominciarono C. R. 2.
(23) uzanza C. R. 2.
(24) Et Deu les beney; et leur dona la beneixion de croistre et de multiplier lor decedence qui ot nom Iafem de generation en generation, si maintindrent la loy de Deu ce que lor pere Noe tenoit. C. F. R. — E Idio diede loro la perfectione di crescere e di multiplicare il mondo uno de' figliuoli di Noe, che ebbe nome Giafet, di generatione in generatione, che di lui nacquero quelli che mantennero la fede di Dio, sì come Noe loro padre l'avea. C. R. 2.
(25) Meraviglia C. L. — Abbiamo corr. col C. F. R. e col C. R. 2.
(26) Figliuolo C. R. 2.
(27) Sydrac C. F. R. — Sidracha C. R. 2.
(28) le quel enpli le monde de toutes sciences de savoir toutes les coses. C. F. R.
(29) Cestui Sidrac Deu le deigna de mostrer per sa grace la forme de la soe sainte trinite. C. F. R. — E questo Sidrach Idio si degnò per sua gratia e misericordia di mostralli la forma della sua santa trinità. C. R. 2.
(30) Nontior C. F. R.
(31) Il C. R. 2. ha qui e sempre: autre.
(32) Boctus C. F. R. — Bottus C. R. 2.
(33) Convertire C. L. Abbiamo corretto col C. F. R. e col C. R. 2.
(34) Gl'idoli sordi e mutoli C. R. 2.
(35) Conteremo. C. R. 2.
(36) Trataber C. R. 2. — Al C. F. R. manca.
(37) per la gratia di Dio nostro signore Jesu Xpo e della sua madre madonna sancta Maria C. R. 2. Qui nel C. R. 2. è una divisione di capitolo, e ciò che segue è intitolato così: Coma lo re Botus domanda Sidrach di quistioni.
(38) glie le dispianò C. R. 2.
(39) per la qual cosa gli piacque molto, e sì ne fecie questo libro C. R. 2.
(40) par la trait dou deable C. F. R. Potrebbe leggersi ancora par l'atrait; e corrisponderebbe meglio alla traduzione italiana.
(41) Madiano C. R. 2. — Madiam C. F. R.
(42) Prine C. F. R. Se non è errore per prince, potrebbe intendersi nel senso che ha il vb. primer. Nell'ant. fr. si trova prin, per prim, prime.
(43) Manan C. R. 2. — C. F. R.
(44) Traduzione litterale del franc. dou tout en tout, che significa affatto, interamente. Trovasi pure du tot en tot, des tot en tot. F. Burguy, Gram. II, 329.
(45) Padre C. R. 2., che è certo errore, legg. nel C. F. R. poeir.
(46) Grison C. F. R.
(47) Sabastra C. R. 2. — Sabaste C. F. R.
(48) Dionasile C. R. 2. — Ayo vacileo C. F. R.
(49) Abbiamo corr. col C. R. 2. Il C. L. ha lo al.
(50) Demetrio C. R. 2.
(51) et si fu a Tolette martures et mors. C. F. R. Martures da marturiare.
(52) Manca questo libro al C. L.: abbiamo supplito col C. R. 2.
(53) Chiericia C. R. 2. — Clergie C. F. R.
(54) de gresois en latin. C. F. R.
(55) e ordinò tanto che lo ebe C. R. 2.
(56) le tint en gran chierte por les belles demandes que il trouva en lui C. F. R. Corr. cherte e cf. Burguy, Gramm., e Littré, Dictionn. Il C. R. 2.: tennelo molto caro per le belle cose che su v'erano scripte.
(57) lo re Amomeni di Tunisi C. R. 2. — Emir el Momenim C. F. R.
(58) Saracinesco C. R. 2. — Sarazinois C. F. R.
(59) Nuova divisione di capitolo nel C. R. 2. dove ciò che segue ha per titolo: Come lo 'mperadore Federigo mandò per questo libro allo re di Tunisi.
(60) respontioni C. R. 2.
(61) maraviglionsi C. R. 2. — merveilloyent C. F. R.
(62) Ogier C. F. R.
(63) Todia filosafo C. R. 2. — Todre le phylosophe C. F. R.
(64) Antiochia C. R. 2.
(65) Camberlain C. F. R. Il prov. camarlenc, chamarlenc, è quello che noi chiamiamo oggi ciamberlano, nell'ant. fr. chambellanc, chamberlens, ufficiale della camera. Manca camarlingo, in questo significato, alla Crusca.
(66) Teodia C. R. 2.
(67) le manda en present C. F. R.
(68) Antiochia C. R. 2.
(69) Abbiamo corr. col C. R. 2. — Il C. L.: Alleone.
(70) Assemprò C. R. 2. — contecrist C. F. R., errore che forse potrebbe essere corr. in contr'escrsit, contrescrist, nel senso che ha contrefaire, reproduire, par imitation, quelque chose. Varie forme ebbe questo vb. al t. p. nell'ant. fr. escrit, escript, escristrent.
(71) ciasquiduno C. R. 2.
(72) De quoy cest livre cascun ne le pot mie avoir C. F. R. De quoy (de coi, d'où vient que) è mal tradotto per de' quali. E il senso torna meglio secondo il testo francese, facendo punto dopo buoni libri. Anche il C. R. 2. ha: non lo possono avere.
(73) Nuova divisione di capitolo nel C. R. 2. dove ciò che segue ha per titolo: Siccome lo re Bottus cominciò la ciptà e ongni vuolta era disfacta, onde fece venire tucti li filozafi et i savi.
(74) Persia la grande C. R. 2. — Perce la grant. C. F. R.
(75) Bocteriensa C. R. 2. — Boctoriens C. F. R.
(76) avint que cil roy Boctus apres la mort de Noe de CVIII. et XLVII ans voloit ec. C. F. R.
(77) guerdoier C. F. R., che potrebbe essere errore per guerroier o per guarder.
(78) Guarahap C. F. R.
(79) da capo tostamente C. R. 2. — de richief mout austivement C. F. R. De richief corr. de rechief, re-chief, re chef. Austivement sarebbe forse errore per vistement, che nell'ant. fr. trovasi per prontamente, tostamente?
(80) Manca ogni cosa al C. L.; abbiamo supplito col C. R. 2.
(81) che C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(82) gueroyer C. F. R.; e ciò conferma l'errore di guerdoyer.
(83) la nocte è abactuto e messo in terra C. R. 2. — le demain se treuve tout abatu C. F. R.
(84) Noi crediamo che da cherere, siasi fatto cherendo, cheiendo, e quindi, pel cambiamento dell'e in a, caiendo, caendo. E lo stesso cambiamento riscontrasi nell'ant. fr. del Berry, ove in luogo di chercher si disse charcher. Cf. Jaubert, Gloss., supplément.
(85) Discorso; e in questo senso manca alla Crusca.
(86) Qui nel C. R. 2. è un'altra divisione di capitolo, intitolato: Si come li Savj disseno ch'aveano veduto come la torre si compierebe.
(87) voleano venire dinanzi da lui C. R. 2. — voloyent venir per devant lui C. F. R.
(88) faites vos bon corage C. F. R.
(89) Abbiamo preferita la lezione del C. R. 2. Il C. L. ha: a quindici dì della luna allora che noi comincieremo, il punto e direllovi (direnlovi), e allora ec. Nel C. F. R.: et a tel jor passant a XVI jors de la lune, alore che nos conmanderons et au point, feres comencer, ec.
(90) vi saremo presenti C. R. 2.
(91) Ci è sembrata migliore la lez. del C. R. 2. Nel C. L.: vi misero a guardare.
(92) Vogliamo notare che il C. F. R. ha: vos de la ne istres; perchè istre è una delle forme più rare del vb. issir. Trovasi ist, uscì e istroit, uscirebbe, nel Romans de Brut: Et Brutus ist de son agait. — Corinéus s'an istroit; vol. I. pp. 14, 48.
(93) È propriam. trad. del franc. engien, engin.
(94) fist aler la crie C. F. R.
(95) Trattabero C. R. 2.
(96) Noe le grand C. F. R.
(97) Così il C. R. 2., preferibile alla lez. del C. L.: venne di mano di re in altro.
(98) Sidrach C. R. 2. — Sydrac C. F. R.
(99) Io re Bottus mando altamente salute alla vostra signoria e amico carissimo C. R. 2.; e meglio il C. R. 1.: a vostra signoria, re Trattabar, come a signore ed amico.
(100) suoi lectere C. R. 2.
(101) prede C. L. Ci è sembrato buono di dare preferenza alla lez. del C. R. 2. Nel C. F. R.: qui les poroit avoir feroit quant que il vodroit. Vodroit, da vouloir, una delle molte forme del condizionale.
(102) siamo C. R. 2.
(103) Et elli si mosse e cavalcò tanto C. R. 2.
(104) sopra essa per pascere C. R. 2. — et s'acist sus celle C. F. R. Acist (assir, asseoir da ad e sedere) è forse una forma del vb. achir, che si usò nel Picard. Cf. Littré, Dictionn.
(105) forma, figura. „Così temo vostra altiera fazzone, Madonna mia.„ Dello Bianco.
(106) les chieres C. F. R. Dal lat. cara, fecesi chere, chiere nell'ant. fr., cara in prov. e spagn., cera in ital., e significò viso, sembianza. „Che s'io troppo dimoro, aulente cera„ Pier delle Vigne. I Cinamologhi, nel Dittamondo di Fazio degli Uberti, han muso e le labbra di cane. Lib. V., cap XX.
(107) feminoro C. R. 1. e C. R. 2. Forse dal gen. plur. del latino, feminarum, feminaro, feminoro. Il trovarsi questa stessa parola in tre codici di lezione diversa, e di diverso tempo, ci pare prova sicura che non sia da tenersi per errore; e ci conferma in questa opinione il trovare regno femminoro nel testo della Tav. Rit. pubbl. dal Polidori, pag. 292.
(108) dampno C. R. 2. È noto che Fra Guittone usò dampnaggio, e che l'ant. fr. ha dampnier, e il prov. dampnatge.
(109) Aboivrent C. F. R., da aboivre.
(110) doveunque C. R. 2.
(111) l'idoli manca al C. L. Abbiamo supplito col C. R. 2.
(112) Così pure gli altri codd. Essendo idole in fr. di gen. fem., il traduttore ha scritto idola.
(113) gittava C. L. Abbiamo corretto col C. R. 2.
(114) enlace C. F. R. Da laqueus, franc. lac, prov. lacs, port. lazo, ital. laccio; e vbb. allacciare ital., lacer, enlacer, franc.
(115) Abbiamo corretto col C. R. 2. Nel C. L.: come ài così idio e così bello come questo?
(116) ma C. R. 2.
(117) non si die nient'adorare, ma vergognare et avilarlo C. R. 1.
(118) et en s'amor sacrifier C. F. R. Nei pronomi possessivi ma, ta, sa si usò qualche volta di elidere l'a, quando la parola che seguitava cominciasse per vocale. Così trovasi: m'amour, s'auctorité ec. Il C. R. 2. ha: del suo benedetto nome si de' sacrificare.
(119) Nel dialetto del Picard si usò biel.
(120) di lui isguardare C. R. 1. — en lui esgarder C. F. R.
(121) Abbiamo dato la preferenza alla lez. del C. R. 1. Il C. L. ha solamente disse Sidrac; e il C. R. 2.: disse lui Sidrach.
(122) Nel C. L. vi noia. Abbiamo corretto col C. R. 2. — Venque nostre creance C. F. R.
(123) iscongiurato C. R. 2.
(124) devant cest mescreant C. F. R.
(125) erano C. L. Abbiamo corretto col C. R. 2.
(126) se murent en tour C. F. R.
(127) e arse, e a modo di cenere si fece C. R. 2.
(128) sconficto C. R. 2. — qu'il ne poient riens faire, et seroient malement desconceilles C. F. R. Desconseillies vale abbandonati, senza consiglio. „Mais nostre sires qui les disconsellies conseille.„ Villehardouin. — Lo isconsigliato del n. t. è traduzione letterale del francese.
(129) sapiate C. L. — Abbiamo creduto di corregg. col C. R. 2.
(130) per forteries ou per la force de son deu C. F. R. Credo da correggere sorteries, per sortilegi. Da sortiarius del b. l. fecesi sortiere ital., sortero spagn. Il testo francese del ediz. Palat. ha: par sorcerie ou par la force de son dieu. — Nel Romans de Brut, sortisséors: venir fist ses sortisséors.
(131) fomes a plaisir C. F. R.
(132) al nostro C. R. 2.
(133) paroule C. R. 2.
(134) isconficti C. R. 2. — desconceilles C. F. R.
(135) ch'io te lo sappia C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(136) gli quali Idio cacciò del cielo per la loro argaria e per la loro superbia C. R. 2. — Argaria per algaria. „Algaria è nelle persone belle„. Bart. da San Conc.
(137) oyables C. F. R., del quale è traduz. letterale udevole (da oyr). Ma parrebbe che avesse piuttosto a leggersi oyant, che odi, udente.
(138) isnel espirt C. F. R.
(139) cupiditade C. R. 2.
(140) vagiello C. R. 1.
(141) asiele C. F. R., che pare abbia ad essere l'imperativo del vb. aseoir, placer, etablir.
(142) tre e per uno idio C. L. Abbiamo corr. col C. R. 2.
(143) acist C. F. R., forse da achir.
(144) fusti C. R. 1.
(145) Lo stesso che ad alto. „Il loro luogo è molto ad alti.„ Fr. Giord. Pred. — Nel C. F. R.: et cria a haute vois.
(146) en leur ciege (siege) C. F. R.
(147) in uno C. R. 2.
(148) parvi C. L. Abbiamo corr. col C. R. 2.
(149) tre per uno idio C. L. Abbiamo corr. col C. R. 2.
(150) parte C. R. 1.
(151) troppo corrucciata C. R. 1.
(152) ò lassato el pionbo et preso el fino oro C. R. 1. — ie ai laisse la longuaigne et la pulentie. C. F. R. — Longuaigne in ant. fr. vale latrina, elvace. Pulentie dev'essere lo stesso che empuance, che significa fetore, corruzione. Trovasi pulent, pullent, che il Burguy fa derivare da purulentus. Cf. Du Cange, Gloss.; Burguy, Gloss. — Fino oro è anche nel Tesoretto di B. L.: Sì ch'io credea che 'l crino. — Fosse d'un oro fino.
(153) L'ant. fr. ha mater, matir; prov. matar, che vuol dire abbattere, vincere, indebolire. Si hanno esempi di matare, emattere, in antichi scrittori italiani. Cf. Nannucci, Analisi, 253, 2.
(154) pessimo veleno C. R. 1. — trencant venin C. F. R. Trencant intenderei mortale, che abbatte, che uccide, dal vb. trencher, trancher. Cf. Burguy, Gramm.; Diez, Etym. Wört. a Trinciare.
(155) Esempio da aggiungersi a quello delle Istorie Pistolesi e de' Fioretti, registrati dalla Crusca. Dove bene osserva il Nannucci (Analisi, 147-48) non essere da intendere chiaro per forte e gagliardo, ma per lieto, brillante, gaio, sereno di spirito. E non solamente il provenzale ha clar in questo significato, come il Nannucci avverte; ma anche l'antico franc. ha clair, cler, cleir, secondo il Burguy, il quale però non reca esempi che confermino questo significato. Il C. F. R. ha solamente plus fres; e il T. F. P.: plus sains; il C. R. 1.: più bello e più fresco.
(156) una saetta di folgore C. R. 1.
(157) dampnagio C. R. 1.
(158) entrò elli e li suoi ne li altri ydoli C. R. 1. — se mist dedens les aultres idoles C. F. R.
(159) allo C. L. — Abbiamo preferita la lez. del C. R. 1.
(160) tuoi C. R. 2.
(161) cani C. R. 1. — chiens C. F. R.
(162) ingannato C. L. — Abbiamo preferita la lez. del C. R. 1.
(163) e falla C. L. — Abbiamo pref. la lez. del C. R. 2.
(164) chiens C. R. 2.
(165) iscomentati C. R. 2.
(166) et garde toy de l'engi au deable C. F. R. Engi è da corregg. in engin, engien, che qui vale, inganno, furberia.
(167) soctometti C. R. 2.
(168) scura C. R. 2. — cougne C. F. R. Da cuneus fecesi in ant. fr. coignie, coignee, cognee; in prov. cunh, conh, cong. Nel dialetto vallone trovasi counie, cougne. Cf. Grandgagnage, Dict. etym. de la langue Wall.
(169) misero una boce sì forte C. R. 1.
(170) 'mpegno C. R. 2. — engin C. F. R.
(171) e vene uno terrimuoto per ingegno del diavolo, sì che allora fu viso ha tucti si dovesser confondare C. R. 1. Nel Romans de Brut: „Vis li fu là où il dormoit„ etc. Confondare è traduzione erronea del franc. confundre, prov. confondre, cofondre, che vale rovinare, distruggere.
(172) annegare C. R. 2. — sonabissare C. R. 1. — de gros tonieres et lampieres et plovoir et gresilles che toute celle terre senblent qu'elle devoit noyer C. F. R. — Gresil sarebbe diminutivo di gresle, grêle. Cf. Burguy, Gloss.
(173) questo manca al C. L. Abbiamo suppl. col C. R. 2.
(174) si smagò C. R. 1.
(175) che manca al C. L. Abbiamo suppl. col C. R. 2.
(176) claritade C. R. 1.
(177) de la haberge C. F. R. — Heberge, tenda, accampamento.
(178) piega C. R. 2. — bates C. F. R.
(179) Sydrac manca al C. L. Abbiamo suppl. col C. R. 1.
(180) pooir C. F. R. Pare che il traduttore abbia confuso poor, poer, pooir con peire, piere, pere.
(181) fusti C. R. 1.
(182) tre per uno Iddio C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 1.
(183) Lo vagello è 'l mondo ke sostiene el podere di Dio e santa trinità k'è tutto uno C. R. 1.
(184) risucitamento C. R. 2. — passione C. R. 1. — cruceflement C. F. R., che credo da corr. crucifiement.
(185) significano C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 1.
(186) battegiato C. R. 1. Il prov. ha bathegar, batejar.
(187) fera C. F. R.
(188) letti e creduti C. R. 1. — leaus et creaus C. F. R. — leuz et creuz T. F. P. — Leaus potrebbe correggersi in leus, partic. pass. del vb. lire; e creaus, creus, creuz potrebbe essere una forma del partic. pass. del vb. creire, crere, croire. Il tradutt. pare che abbia creduto leus partic. del vb. lever, e creus del vb. croistre.
(189) alimenti C. R. 2. — elemens C. E. 2. — parties C. F. P. — Crediamo che non si abbiano esempi di elementi del mondo per parti del mondo, nè in francese nè in italiano.
(190) convertiranno C. L. Abbiamo pref. la lez. del C. R. 2.
(191) e salveranno C. L. Abbiamo aggiunto si gli dal C. R. 2.
(192) ad adorare e credere C. R. 2.
E' non ebbe unque cominciamento nè fine, nè none avrae. Egli fece cielo e terra, e anzi ch'egli lo facesse, si sapea bene ch'egli dovea fare questo e l'altre cose ch'egli fece. E sepe lo novero degli angioli, anzi che gli facesse, e degli uomini e delle bestie e de' pesci e degli uccielli, e quale morte dovea ciascuno fare; e sapea tutti quelli che doveano essere salvi e che doveano essere perduti (193), e gli loro pensieri e gli loro fatti e li loro detti e le loro volontadi; e s'egli non sapesse questo, stato egli non sarebe Idio (194). E di tutto ciò, perchè facesse lo mondo e le cose che sono nel mondo, egli non se ne migliorò punto; e s'egli noll'avesse fatto, egli non potrebe esser di nulla piggiorato. Iddio fu sanza cominciamento e sarà sanza fine (195). La sua potenza sa tutto, e si è per tutto. E si è la sua sustanza in tre (196) cieli; l'uno corporale, e questo è quello che noi veggiamo; e l'altro è spirituale, e questo è quello che noi non vegiamo (197), ove gli angioli sono; lo terzo è quello ove Idio nostro signore dimora, lo quale vedranno i giusti visibilmente.
(193) dampnati C. R. 1.
(194) non sarebbe egli stato Idio C. R. 1.
(195) finiminto C. R. 1.
(196) intra C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 1. e C. R. 2.
(197) veggiano C. R. 2.
Lo re domanda: puote Idio essere veduto? Sidrac risponde:
Iddio è visibile e non visibile: egli vede tutto, e non puote essere veduto; chè niuno corpo terreno puote vedere ispirituale cosa; ma lo spirito vede lo spirito. Ma, se lo spirito è buono e giusto, potrà essere ch'egli vedrà Idio, secondo (198) le sue opere. Ma questo averrà apresso (199) lo tenpo che 'l figliuolo di Dio sarà venuto (200) in terra; che sarà (201) lo spirito di Dio che si aonberrà (202) in una vergine, e lo nome della vergine sarà apellato Maria; e piglierà di lei corpo, e sarà veduto e udito (203); e farà (204) tutto quello che l'uomo; e sarà sanza peccato; e sarà Idio medesimo; e per la sua potenza sarà egli in cielo e in terra. E la vergine Maria, concieputo per spirito sancto, si rimarà vergine inanzi il parto e dopo il parto (205). E se egli non pigliasse corpo nella Vergine, niuna corporale cosa lo potrebbe vedere.
(198) esendo C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(199) presso C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 1.
(200) veduto C. L. — Abbiamo pref. la lez. del C. R. 2. — apresso de l'avenimento di Dio C. R. 1.
(201) cosa arà C. L. — non sarà C. R. 2. La lezione ci pare errata in ambedue; nè col C. R. 1. e col C. F. R. possiamo corregg. Ma il senso del discorso ci fa credere che abbia da legg. sarà.
(202) s'aombrara C. R. 1. — Se ombrerà C. F. R. — S'aombrer, s'anombrer nell'ant. fr. significa divenire uomo nel seno della Vergine. „Com fist Gabriel li Archangles — Quant me dist que li rois des Angles — S'aombreroit en mes sains flancs.„ Du Cange, Gloss. Gall. — In provenzale ha lo stesso significato solumbrar. Il Raynouard ne reca due esempi, tolti da un testo prov. del Sydrac: „Apres l'avenimen del filh de Dieu qui solombrara en la Virgis„; e traduce qui s'ombragera, con errore che ci par manifesto. „Virtus Altissimi obumbrabit tibi.„ S. Luca, I, 35.
(203) manca al C. L. e sarà. — Abbiamo suppl. col C. R. 2.
(204) sarà. C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(205) Così il C. R. 2. Nel C. L.: E la vergine Maria che concieputo per lo spirito sancto l'averà vergine fatta inanzi il parto, e vergine sarà dopo il parto.
Lo re domanda: è Iddio in tutti luoghi e per tutti? E Sidrac risponde:
Iddio è in tutti luoghi e per tutti i tenpi. Egli è potente in ogni luogo come in un altro; e com'egli è possente in cielo, così è possente in terra e in ninferno, perciò ch'egli è tutto possente là ov'egli è; chè a quella ora che governa quelli che sono in oriente, a quell'ora governa le cose che sono in occidente; e però è egli tuttavia per tutto, che governa tutto giorno tutte le cose.
Lo re domanda: sentono tutte le cose Iddio? E Sidrac risponde:
Idio non fece unque (206) nulla criatura, che lui non sentisse, e che lui non dotti; chè queste cose che noi asenbriamo (207) sanza anima mortale (208), quelle vivono e sentono lo loro criatore. Lo fermamento lo sente, quando, per lo suo comandamento, non fina (209) di volgersi il sole, la luna; le stelle lo sentono, che tutto tenpo ritornano (210) nello loro luogo; la terra lo sente, che ciascuno anno rende lo suo frutto; i venti lo sentono e lo mare, che, quando egli fanno la fortuna, ritorna in bonaccia per la sua volontà; l'acque lo sentono, ch'elle corrono allo luogo là ond'elle escono; i morti lo sentono, che risucitano alla sua volontà, quando a lui piace; la notte e lo giorno lo sente, ch'egli guardano bene quella legge che Idio à loro donata; le bestie lo sentono, ch'elle seguiscono la loro natura.
(206) umche C. R. 2. — L'ant. franc. onkes, unkes, unques, unc, onc.
(207) che noi sembriamo C. R. 2. — che noi sembiamo C. R. 1. — chi nos semblent C. F. R.
(208) animale mortale C. R. 2.
(209) finono C. R. 2. — Da finare, ant. franc. finer, prov. finar. „Finar, madre, non volemo„ B. Iacopone. „Per mostrar alla gente. — Che loco sia finata. — La terra e terminata.„ B. Latini, Tesoretto.
(210) ritorna C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
Lo re domanda: che fece Idio primamente? Sidrac risponde:
Primieramente fece Idio uno molto bello palagio, lo quale è apellato regno di cielo; e poi fece questo secolo, e poi lo 'nferno. Ma quello palagio à egli eletto uno grande ordine de' suoi amici (211): onde egli non usciranno giammai, poi che egli vi fieno entro. E quello numero volle egli fare d'uomini come delli angeli, per umiltà, perchè gli uomini e gli agnoli adorassono uno solo Iddio in trinità, padre e figlio e spirito sancto.
(211) Ma in quello palagio àe egli uno lecto grande di suoi amici C. R. 2. — mais ycel palais ailes leupor un grant nombre de ses amis C. F. R.; che io leggerei: mais ycel palais a il esleu por, ec. E uno lecto credo che debba intendersi per una eletta.
Lo re domanda: quando (212) furono fatti gli angioli? Sidrac risponde:
Allora che Idio disse, sia fatto lucerna (213), e tutti gli agnoli e arcagnoli furono fatti in quello punto, cherubin e serafin. E quando lo malvagio agnolo Lucifero vide che Idio gli avea dato onore e gloria sopra tutti gli altri agnoli, si volle dispregiare gli altri agnoli, e volle essere pari del suo (214) creatore; e volle avere altra sedia che Idio non gli avea dato; e si volle agli altri per lo suo argoglio comandare. E egli fu incontanente del paradiso cacciato, cioè gittato, e fu messo in carcere. Siccom'egli era prima bello e splendiente (215), così fu poi laido (216) e scuro e nero, ch'egli cadde incontanente. E si dimorò una ora in gloria (217); che, si tosto com'egli fu fatto, si cadde; che diritto non era (218) ch'egli gustasse di quella gloria, poi che così fatto argoglio avea incominciato contro lo suo criatore. Gli altri che peccarono co lui, traboccarono co lui di cielo, perciò che a loro piacque lo suo argoglio; e credeano ch'egli potesse Idio sopra montare. E egli erano simigliantemente alti sopra gli altri, e gli più mastri di loro con esso lui furono gettati in ninferno (219), e gli altri furono cacciati nella più ispessa aria (220), là ove egli ardono, come s'egli fossono in uno fuoco (221), che giammai mercè non avranno, e non la poterano adomandare (222).
(212) come C. R. 2.
(213) „Vid'io in essa luce altre lucerne.„ Dante.
(214) al suo C. R. 2.
(215) sprendiente C. R. 2. — piagente C. R. 1.
(216) ladio C. R. 2. — lasco C. R. 1. Lasco può essere il lasche, lasque, nel senso di vile.
(217) Sappiate ke non vi dimorò una ora compita C. R. 1.
(218) Nel C. L. sono, per errore evidente, ripetute le parole ora in gloria che si tosto.
(219) onferno C. R. 1.
(220) in questo più spesso aiere C. R. 1.
(221) in onferno C. R. 1.
(222) mercè non avranno potranno e non la domandorno C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
Lo re domanda: di che servono gli angeli in cielo? Sidrac risponde:
Li angioli che sono in cielo non ebono volontà di peccare verso lo loro criatore, e perciò non caddono eglino cogli altri, anzi dimorano in gloria. Idio dà a ciascuno ordine e uficio angielico. Angeli v'à che anunziano (223) agli uomini le grandi cose. Anche altra maniera di angieli v'à, che anunziano (224) alle comuni creature, cioè agli uomini, le piccole cose. Altre maniere d'angioli v'à, che sono potestadi, che comandano agli maligni spiriti, che più non facciano crudeltade all'umane cose. Altre maniere d'angioli v'à, che si chiamano principi (225), che ànno signoria sopra i buoni ispiriti, e lo loro comandamento si è a conpiere lo comandamento di Dio (226). Altre maniere d'angioli v'à, che si chiamano dominazioni, che sormontano gli detti grandi angioli (227), che gli altri son loro subbietti per ubidenzia. Altra generazione d'angioli v'à, che si chiamano troni, sopra gli quali è la sedia (228) di Dio, per gli quali egli giudica i suoi giudicamenti (229). Altre maniere d'angioli v'à, che si chiamano cherubin, in cui tutte le scienzie e molte altre creature umane sono subbiette e ubidienti (230), e servono; in quello ch'egli guardano lo specchio del chiarore (231) di Dio, perfettamente egli ricevono gli segreti del creatore (232). Altre generazioni d'angieli v'à, che si chiamano serafin; quelli sono ardenti e più presso dell'amor di Dio che nulla criatura; e sormontano (233) ogni criatura d'onore, chè tra loro e Dio non è nullo altro spirito.
(223) avanzano C. R. 2.; secondo uno de' significati che ha il vb. avancer in franc., che è di annunziare.
(224) avanzano C. R. 2.
(225) principati C. R. 2.
(226) e loro comandano he compiano el servizio di Dio C. R. 1.
(227) degli angioli C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(228) el sedio C. R. 1.
(229) elli usa spaventevolmente suoi indicamenti C. R. 1.
(230) a cui tucta scientia e più creature entendevoli sono obedienti e subiecti C. R. 1.
(231) della chiarità C. R. 1.
(232) delle umane creature C. R. 2. — de le creature C. R. 1.
(233) formentano C. L. Abbiamo corr. col C. R. 1., e col C. F. R. che ha: surmontent. Nel C. R. 2.: soctomecteno ogni creatura d'onore.
Lo re domanda: gli diavoli sanno tutte le cose e possonle fare? Sidrac risponde:
Di quello ch' (234) egli ànno angelica natura, sanno molto grande iscienzia, ma però non sanno egli tutte le cose. Che tanto quanto la loro natura (235) è più spirituale che quella degli uomini, di tanto sono eglino più (236) savi di tutto ingiegnio (237); le cose che sono a venire non sanno egli niente, se non tanto quanto Idio lascia loro sapere. Ma le cogitationi (238) e le voluntadi non sa se non Iddio, e colui a cui egli lo vuole dimostrare. E non possono fare quello che egli vogliono, che lo bene egli non vorranno fare nè non potranno; ma egli possono assai mal fare, e non mica quanto vorrebono, se non tanto come i buoni agnoli gli lassano (239) fare.
(234) Dal franc. de ce che (que).
(235) Invece di natura legg. nel C. L. ma. Abbiamo corr. col C. R. 1. e C. R. 2.
(236) più manca al C. L. Abbiamo suppl. coi Codd. R. 1. e R. 2.
(237) di tucti ingegni C. R. 1.
(238) comuntioni C. L. Abbiamo corr. col C. R. 1. e C. R. 2.
(239) lascieremo C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
Lo re domanda che forma ànno gli angioli e se sanno tutto. Sidrac risponde:
In una maniera (240) ànno la forma di Dio, che somigliantemente (241) fece la somiglianza (242) del nostro signore in loro, in tale maniera, ch'egli sono lucenti (243). E sono sanza corpi, pieni di tutta biltade. E nella natura delle cose non à nulla ch'egli non sapiano, ch'egli vegono (244) tutti Iddio, e tutte quelle cose ch'egli vogliono, possono (245) fare senza niuna graveza. E perciò che lo numero degli angioli (246) fosse conpiuto, si fu fatto l'uomo. Egli fu fatto di corporale e di spirituale sustanzia. Lo corporale (247) fu fatto di quattro elimenti (248); che l'uomo à carne della terra, e lo sangue dell'acqua, e dell'aria si à l'anima, e del fuoco si à lo calore. Lo capo (249) dell'uomo si è ritondo, come lo fermamento, e si à due occhi altressì come lo cielo à due lucenti (250), cioè lo sole e la luna; e simigliantemente, come lo cielo àe in sè sette pianete, simigliantemente àe in sè l'uomo sette pertugi (251) nel capo; e simigliantemente come l'aria (252) à in sè gli tuoni e gli venti, sì à l'uomo al petto le grande alene (253) e le grande scosse (254). E altressì come il mare riceve tutta l'acqua, così riceve l'uomo nel suo ventre tutto enpitume (255); altressì come la terra sostiene tutte le cose, altressì sostengono i piedi tutti i pondi (256) dell'uomo. Del celestiale fuoco à egli la veduta; e dal più alto aire à l'ardore, e dal più basso à el soffiamento del naso (257); e dell'acqua lo gustare (258); e una partita della dureza delle pietre à egli nell'ossa; lo verdore (259) degli alberi è (260) negli occhi; della spirituale substanzia à egli l'anima, ch'egli è spirito in lui, e la immagine e la simiglianza di Dio (261). La inmagine si dee intendere la forma di lui, e la simiglianza si è la qualità, la grandeza; la divinità si è nella trinità (262). L'anima tiene la sua ymagine, ch'è la memoria, perch'ella si ricordi delle cose che sono passate; e si à intendimento, perch'ella intenda le cose che sono udite (263); e si à volontà, perch'ella dispregia (264) lo male e fa il bene. In Dio sono (265) tutte le cose e tutte le virtudi; e simigliantemente come Idio non puote essere tenuto dentro della sua creatura, conciosiacosa ch'ella conprende tutte le cose, el cielo no la puote mica contastare (266), ch'ella non sappia assai delle cose celestiali e dello inferno, simigliantemente che questa è la spirituale sustanzia (267).
(240) mainira C. R. 1. — Ant. franc. maniere, meniere; prov. maneira, manieira, maniera, manera.
(241) insiememente C. R. 1.
(242) sembianza C. R. 1.
(243) lucerna C. R. 2. — luysans C. F. R.
(244) ch'egli possono vegono C. L. — Abbiamo soppresso il possono, che non trovasi in nessuno degli altri Codd., e che toglierebbe senso al discorso.
(245) Qui manca possono nel C. L., mentre leggesi negli altri Codd. Onde è chiaro che l'amanuense traspose erroneamente questa parola, ponendola sopra, dove non poteva stare, e omettendola qui dov'era necessaria.
(246) degli angeli buoni C. R. 2. — dei boni C. R. 1.
(247) Le corpora C. R. 2.
(248) alimenti C. R. 2.; C. R. 1.
(249) corpo C. R. 2.; C. R. 1.
(250) lucerne C. R. 2. — luminire C. R. 1. — lumiers C. F. R. — Di lucente sost. reca un esempio la Crusca. Invece di luminire crediamo abbia da leggersi luminiere. Si hanno esempi di luminiera per luce. L'Ariosto, a significare il sole e la luna, disse luminario. L'ant. franc. ha lumiere, luminaire; il prov. lumeira, lumneyra, lhumnieyra, luminaria. „Foron fachas luminarias, so es lo solelh e la luna.„ Rayn., Lex. IV, 104. „E troverai de' buon, la cui lumiera. — Non dà nullo splendore.„ Dante, Canz. O patria degna, ecc. pag. 297., ed. Barbèra.
(251) pertusi C. R. 1. — Pertuis, ant. franc., da pertusiare, pertusium.
(252) airie C. R. 1.
(253) aleines C. F. R. — L'ant. fr. ha il vb. anheler e per trasposizione dell'n e dell'l, aleiner, onde aleine, alainne, alaine; ed il prov. ale, alen, hale, halena.
(254) le grande cose. C. R. 2. — le gran cosse. C. R. 1. — les grans tous C. F. R. — les grans corps T. F. P. — Tous e corps ci sembrano errori, e supponiamo che abbia da leggersi invece cous e cops, colps, colpi, forse nel senso che ha coup in franc. di fatto, azione, al che risponderebbe in certo modo le cose de' Codd. Ricc. Se pure non volesse intendersi che l'uomo riceve al petto i grandi colpi; ed allora il senso sarebbe renduto meglio da le scosse del Cod. Laurenz. E noi preferiamo quest'ultima interpretazione.
(255) empictione C. R. 2. — empleures C. F. R.; e pare che voglia intendersi de' cibi. La Crusca registra empitura, ma non empitume nè empizione per empimento.
(256) poins C. F. R. — L'ant. fr. ha poix, pois, peiz; il prov. pens, pes: da pensum. Cf. Diez, Etym. Wört.
(257) Così il C. R. 1. Il C. L. è in questo punto estremamente confuso. Ma è da avvertire che esso C. R. 1. ha, invece di soffiamento, sofocamento; mentre il C. R. 2. e il C. L. hanno soffiamento; il C. F. R. souflement, e il T. F. P. soufflement.
(258) el gustamento C. R. 1.
(259) l'odore C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 1. e C. R. 2.
(260) àe C. R. 2.
(261) e de la spiritual substantia à l'anima di vita ke Dio vi mise per lui, ke n'è scripto in lui l'imagine a la sembianza di Dio C. R. 1.
(262) A' teologi lo spiegare l'imbroglio di questo periodo, in tutti i Codd. ugualmente confuso. Nel C. R. 1. si legge: la imagine si dia intendere la forma di lui; la sembranza è la grandeza; la divinità fie ne la trinità. Nel C. F. R.: la semblance si est qualite, et le grandesse la divinite si est le trinite. E nel T. F. P.: et la semblance est la qualite, et la grandeur est la dignite, qui est en la sainte trinite.
(263) le cose che sono ora C. R. 1. — le cose che sono decte. C. R. 2.
(264) dispera C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 1. e C. R. 2. — despite C. F. R. — Forse invece di dispera è da leggere despira, che potrebbe derivare dall'ant. fr. despire, despirer, che ha appunto il senso di dispregiare.
(265) Idio se non C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 1. e C. R. 2.
(266) Per contrastare.
(267) La confusione e l'oscurità è uguale in tutti i Codd., e maggiore nel francese. Al T. F. P. manca questo tratto.
Lo re domanda: fece Iddio l'uomo colle sue mani? Sidrac risponde:
L'uomo fu facto per lo suo comandamento solamente; e perciò possiamo noi intendere la cattiva natura dell'uomo: elli lo fece di vile cosa (268), per lo confondimento del diavolo, ch'egli n'avesse vergogna (269), che così cattiva cosa montasse nella gloria, unde elli era caduto per suo orgoglio; e si li fece nome di ciò che elli (270) era facto di quattro elementi, donde (271) questo secolo è fatto; e si ebbe nome delle quattro parti (272) del mondo (273), satachano carboncini tramas robras amefin; e lo lignagio dee enpiere le quattro parti del secolo. Anche àe l'uomo simiglianza al nostro Signore in questa maniera, che, altressì come lo nostro Signore è sopra tutte le cose in cielo, e altressie sopra tutte le cose fece l'uomo in terra. E però che egli sapea ch'egli peccherebe, sì fece l'altre cose corporali, cioè quello ch'egli avrebe mestiero (274). E sì fece le mosche e le formiche e le pulci e le zanzare (275) e gli altri vermini, per l'argoglio dell'uomo, perciò che, quando elle lo pungono, egli si pensa che molto è cattivo, che non può contastare a così cattive e vili cose (276). Le formiche e li ragni, che si travagliano (277) nella loro opera, ne danno asenplo (278) che noi dobbiamo lavorare. Se noi guardiamo (279) bene tutto ciò che Idio fece (280), si ci è uno grande diletto: chè gli fiori ànno biltade, e l'erbe ànno medicina, gli frutti della terra si ci pascono, gli venti e lo sole e la luna si ci portono significanza (281); e tutte quelle cose che ci sono buone, e furono fatte per l'uomo, e si furono fatte alla gloria dell'uomo (282).
(268) Il C. R. 2. aggiunge: cioè di bellecta di terra; lo che non leggesi nè nel C. F. R. nè nel C. R. 2., onde è a crederlo un glossema dell'amanuense. Belletta è il limus de' latini. „Or ci attristiam nella belletta negra„. Dante.
(269) ontia C. R. 1. Manca alla Crusca.
(270) Nel C. L.: nella gloria la ove egli era fatto, ec. Abbiamo corr. e suppl. col C. R. 1.
(271) unde C. R. 1.
(272) partite C. R. 1.
(273) secolo C. R. 1.
(274) di ciò ke avia mistiero C. R. 1.
(275) zenzare C. R. 2. — zanzane C. R. 1.
(276) a si picciola cosa C. R. 1.
(277) che si fadicano C. R. 1.
(278) essempro C. R. 2.
(279) sguardiamo C. R. 1. — Ant. fr. esgarder, esguarder.
(280) fane C. R. 1.
(281) portent significations C. F. R.
(282) a lodo de la gloria di Dio C. R. 1. — a la loenge de la gloire de Deu C. F. R. — Loenge, louenge vuol dire permesso, approvazione, onde fu mal tradotto per lodo. Invece di alla gloria dell'uomo, com'è nel C. L., crediamo si abbia a leggere alla gloria di Dio.
Lo re domanda: dove fu fatto Adamo? Sidrac risponde:
Adamo fu facto in Ebrot (283), ove egli morì e fu sopellito. E quando elli fu facto, fu messo in paradiso, cioè in uno luogo molto dilettevole (284), in Oriente. Là (285) sono albori di diverse maniere (286); egli sono buoni contra diverse infermitadi: uno tale albore v'à che, se l'uomo mangiasse del frutto, giammai fame non avrebe; e se del secondo mangiasse, giammai istanco (287) non sarebbe; e al drieto (288), s'egli mangiasse di quello che si chiama frutto di vita, giammai non infermerebe e non invecchierebbe, nè mai non morrebbe. E in quello paradiso fu egli messo; e Eva fu fatta in quello paradiso dal lato (289) all'uomo, quando egli dormia, cioè a intendere della sua costa (290). E simigliantemente, come egli furono d'una carne, così furono d'una volontà e d'uno cuore (291). E Iddio volle ch'egli fossono simiglianti a lui, che siccome di lui disciesono tutte le cose, così nascono di lui tucte le cose e tucti gli uomini (292), cioè d'Adam (293); e però fu fatto Eva di lui. E si li fece tali ch'egli potessono peccare, per magiore merito avere; che, quando egli furono tentati, s'egli non avessino consentito al diavolo, allora sarebono stati sì afermati (294), che giammai eglino e gli altri non potrebono avere peccato. Inanzi ch'eglino peccassono erano ignudi (295), e non aveano di loro membri vergogna, se non come degli occhi; che sì tosto come egli feciono quello peccato verso lo loro criatore, sì si vidono ignudi, e spogliati del vestimento della grazia. Essi ebono cupidizia l'uno verso l'altro, e si cominciò a nasciere tra loro una grande confusione, e ebono vergogna degli loro menbri. E perciò che l'uomo sapesse che tutte le schiatte doveano essere colpevole di questo peccato, fece rimanere lo nodo che àe la gola (296). E 'l nostro Signore sapea (297) che grande bene e grande profitto dovea essere (298) di quella ischiatta. Anzi che peccassono vidono Idio in paradiso. Lo diavolo ebe grande invidia di ciò, ch'egli dovea montare là, onde egli era caduto, si entrò nel serpente, e parlò alla femmina, e la ingannò; che, si tosto com'ella fu nata, ella fue ingannata. Essi non dimorarono in paradiso se non sette ore (299); e le tre ore (300) mise Adamo nome a tutte le bestie; alle sette ore (301) mangiò la femina il pome (302), e diello al marito, e egli lo mangiò per lo suo amore; e a ora di nona furono cacciati fuori del paradiso. E incontanente disciese l'agnolo da cielo, cherubin (303), con una spada di fuoco in mano; quello fuoco era uno muro di fuoco (304), onde quello paradiso ne fue intorniato (305), apresso quello peccato. Cherubin fu quello che guarda lo fuoco ch'è intorniato al paradiso, e getta adietro i corpi e gli spiriti (306); chè nullo ispirito v'enterrà, nè buono nè reo, infino a tanto che il figliuolo di Dio perverrà in terra, e morrà inpeso (307) in croce, per questa disubidienzia che Adamo fece verso lo suo criatore. E per quello amore ispegnerà lo muro del fuoco, che intornia (308) il paradiso, e ronperrà le porti (309) del ninferno, e trarranne fuori Adamo e gli suoi amici, e metteragli nel paradiso celestiale. E allora (310) tutti quelli che morranno perfetti, sì saranno amici di Dio, e andranno in paradiso celestiale, e non troverranno chi loro lo vieti. Certo bene dee l'uomo credere a quello Idio, che manderà lo suo figliuolo di cielo in terra, per noi diliberare (311) si lascierà morire.
(283) Ebron C. F. R., C. R. 1.
(284) diliciano C. R. 1.
(285) ine C. R. 1. — ileuques. C. F. R., che è da corr. ilueques.
(286) mainiere C. R. 1.
(287) lasso C. R. 1.
(288) da dirieto C. R. 2. — a la perfine C. R. 1. — au deran C. F. R. — Vedesi come il traduttore del testo Laurenziano abbia volgarizzato secondo il significato etimologico della parola. Au darrien, au daarrain, a la deraina, significa in ultimo luogo, alla perfine, e deriva da deretranus, e questo da de retro, onde il drieto, dietro del nostro testo.
(289) de la costa C. R. 1.
(290) de la sua costa diricta C. R. 1.
(291) coragio C. R. 1. — corage C. F. R. — Nel franc. ant corage, coraige vuol dire cuore, sentimento, volontà. Lo stesso significato ha coratge in prov. e coraggio in ital.
(292) Abbiamo adottata la lez. del C. R. 2., che è conforme al C. F. R.: que tout encement (esement, ensement) com de lui descendent toutes coses, encement nasquissent tuit li home d'Adam.
(293) cioè Adam C. L. Abbiamo aggiunto il d'. Nel C. R. 1. v'è di più: d'Adamo ke fu masso di tucta l'umana generatione.
(294) fermi C. R. 1.
(295) inudi C. R. 1.
(296) Del nodo della gola non parlasi nè nel C. F. R., nè nel T. F. P., nè nel C. R. 1.
(297) che sapea C. L. e C. R. 2. — Abbiamo tolto il che, parendoci errore evidente, e non leggendosi nè nel C. R. 1., nè nel T. F. R.: et nostre sire soit, ec.
(298) nasciare C. R. 1. — estre C. F. R. Probabilmente il testo francese da cui fu trad. il nostro, diceva istre, una delle forme del vb. issir, uscire, che dal volgarizzatore fu confusa con estre, essere.
(299) VII dì C. R. 1.
(300) e a la terza ora C. R. 1.
(301) a la sexta ora C. R. 1.
(302) pomo C. R. 1. — pome C. F. R.
(303) lo quale avea nome cherubin C. R. 2.
(304) Concordano tutti i codd. Il T. F. P. ha: qui sembloit feu, et de celle espee fist ung mur, ec.
(305) avironato C. R. 2. — environee C. F. R.
(306) i corpi e gli spiriti che di paradiso, che nullo, ec. C. L. — Abbiamo tolto che di paradiso, stando alla lez. del C. R. 2.
(307) apresso C. L. Abbiamo corr. col C. R. 2. Nel C. R. 1.: pendente.
(308) invirona C. R. 1.
(309) Per porte. Cf. Nannucci, Teorica, Cap. X., 265, 268.
(310) e da ine inanzi C. R. 1.
(311) ricomparare C. R. 1., per ricomprare.
Lo re domanda: quando Adamo fu fuori del paradiso dove andò egli? E Sidrac risponde:
Adamo sì venne in Ebrocti (312), ove egli fu fatto, e là ingienerò gli figliuoli (313). E poi (314) cento anni egli pianse Abel suo figliuolo, che Caino l'avea ucciso; e unque poi non si volle acostare (315) alla moglie. Ma però che Idio non volle nasciere della malvagia semenza (316) di Caino, fece Adamo amaestrare per l'agnolo suo, che giacesse colla moglie: e egli sì lo fece, e ingenerò uno figliuolo ch'ebbe nome Sem, della cui ischiatta lo figliuolo di Dio nascierà (317). E sapiate tutti di vero che dal tenpo d'Adamo infino al tenpo di Noè, non piove (318) unque, e non aparvono nuvoli in cielo (319). E non mangiavano carne e non beveano (320) vino: e tutto quello tenpo era così bello come la state; e si era abondanza di tutte le cose; e tutto questo rimase (321) per lo peccato della gente.
(312) Ebron C. R. 1. e C. F. R.
(313) VII anfans C. F. R. — filz et filles T. F. P. — Nel C. L. si legge: e là ingienerò gli figliuoli disse Signore e poi cento anni, ec. Disse Signore, che non trovasi in nessuno degli altri codd., ci è parsa una interpolazione dell'amanuense, e l'abbiamo soppressa.
(314) e per C. R. 1. — e più C. R. 2.
(315) asenbiare C. R. 1. — assembler T. F. R.— Assembler, assambler, assanber, ant. fr., unirsi ad alcuno; e assemblement, unione dell'uomo colla donna.
(316) semente C. R. 1.
(317) nasceo C. R. 1.
(318) piobe C. R. 1.
(319) nè apparì arco in cielo C. R. 1. — l'arc dou ciel C. F. R.
(320) bevivano C. R. 1.
(321) cessò, mancò.
Lo re domanda: fece Adamo altro peccato inverso lo suo criatore, se non quello ch'egli trapassò (322) lo suo comandamento e mangiò lo pome (323)? Sidrac risponde:
Non certo (324); ma questo fu tropo gran peccato, ch'egli disiderò d'essere Iddio, e (325) però mangiò lo pome, che Idio gli avea vietato. Egli non volle fare lo comandamento di Dio, e la criatura non dee fare nulla (326) contra lo suo creatore. Certo se tu fossi inanzi a Dio, e alcuno ti dicesse guardati indietro, e se tu non lo facessi (327) tutto il secolo pericolerà; e (328) Idio ti dicesse, io non voglio che tu guardi indrieto, anzi voglio che 'l secolo pericoli, tu dei (329) fare lo comandamento del tuo criatore, e l'altro no, conciosia cosa che (330) 'l mondo perisca. E così fece Adamo, egli era (331) dinanzi a Dio. E sì tosto come lo diavolo lo molestò (332), egli guardò indietro, e però fece magior peccato, che di pericolare tutto il mondo. Et in quello solo peccato fece secte criminali peccati, per li quali (333) egli ingonbrò (334) tutti quelli che doveano nasciere di lui. Primieramente fue argoglio ch'egli volea essere pari di Dio; lo secondo fu (335) innobedienzia, ch'egli trapassò lo comandamento del suo criatore; lo terzo fu avarizia, ch'egli disiderò più che Idio non gli volea dare (336); lo quarto fu sacrilegio, ch'egli prese in sè quello che Idio gli avea difeso (337); lo quinto fu la spirituale fornicatione, che la sua anima era coniunta a Dio, e quando egli fece la volontà del diavolo, sì fece adulterio (338), e però perdette l'amore del suo verace isposo; lo sesto fu micidio (339), ch'egli uccise sè e tutti gli altri; lo settimo fu morte e ghiottornia (340), ch'egli mangiò lo pome, e credette alla volontà della femina, e fece quello che Idio gli avea vietato (341), e tolse l'onore a Dio. Per quello peccato gli conviene fare sodisfazione, che chi dell'altrui toglie, rendere gli conviene, e per l'amendamento (342) si piglia mercede. E perciò che Adamo dee fare sodisfazione a Dio, egli è ancora in tenebre d'inferno, e sarà, infino a tanto che il verace profeta figliuolo di Dio verrà in terra per lui diliberare.
(322) travalcò C. R. 1.
(323) la poma C. R. 1.
(324) None niente C. R. 1.
(325) ma C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(326) neuna cosa dia fare C. R. 1.
(327) che tu nollo avessi fatto C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2. — e se nol fai C. R. 1.
(328) Abbiamo agg. questo e dal C. R. 2. e C. R. 1.
(329) dii C. R. 1.
(330) Qui ha il senso di malgrado che, nonostante che, conforme al franc. ja soit ce que, ja seit ce que, di cui è traduzione. Cf. Burguy, Gramm., II, 383; Roquefort, Gloss. — Nel C. R. 1.: Se tucto el mondo perisse.
(331) Pare che debba sottintendersi infinchè o quando. Nel C. R. 1.: k'era.
(332) Ci pare migliore la lez. del C. R. 1.: l'amaestrò. Nel C. F. R.: lor mostra. Mostrer, ant. fr., insegnare.
(333) Così ha il C. R. 1., la cui lezione ci è parsa preferibile a quella del C. L.
(334) Così tutti i Codd. Encombrer in ant. fr. e encombrar in prov. hanno il significato di souiller. Il Raynouard reca questo stesso passo, tolto da un testo prov. del Sydrac: el fetz VII peccatz mortals per que encombret cels que devion naisser de lhuy. Cf. Burguy, Gramm., e Roquefort, Gloss.
(335) ch'egli fu C. L. Errore evidente, che abbiamo corr. col C. R. 2.
(336) gli avia donato C. R. 1.
(337) proibito.
(338) avolterio C. R. 1.
(339) omicidio C. R. 1.
(340) mortal ghiotornia C. R. 1.
(341) vetato C. R. 1.
(342) lo mendamento C. R. 1.
Lo re domanda che cose tolse Adamo a Dio, e come gliele converrà rendere. Sidrac risponde:
Adamo tolse a Dio tutto quello che doveano avere tutti quelli che di lui doveano nasciere, e simigliantemente vincere lo diavolo, com'egli era vinto da lui. E se tutti quelli che doveano nasciere di lui in tal maniera lo doveano (343) ristorare, come se egli non avesse unque peccato, però ch'egli avea magior peccato che tutto il mondo, si dovrebbe rendere tal cosa che fosse magiore di tutto lo mondo; ma egli non potè fare nè l'uno nè l'altro; però rimas'egli in cattivitade.
(343) la dovea C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
Lo re domanda perchè non fue perduto di tutto in tutto (344), che (345) così grandissimo peccato avea fatto. Sidrac risponde:
Perciò che non potea essere disfatto quello che Idio avea fatto e stabilito. Iddio avea ordinato che egli conpierebe lo numero degli eletti del legnaggio d'Adamo, e non però (346) egli avea volontà d'amendarlo (347), et egli (348) non potea, e la misericordia di Dio non gli volle perdonare, e mettere nel suo regno tale come egli era. E se Idio gli avesse perdonato la sua ingiuria, sanza sodisfacimento, dunque non sarebe tutto potente, se egli mettesse tale uomo nella (349) sua gloria senza vendetta, là onde egli avea cacciato l'agnolo per una sola cogitazione, dunque non sarebe mica diritto; però dee essere presa la vendetta (350) del peccato, cioè del peccatore. Quando uno uomo truova pietre preziose in alcuno luogo lordo, elli no le mette mica nel suo tesoro, infino a tanto che non l'à lavate. Però che lo servo dee essere fedele del suo signore, e egli era andato al tiranno, che l'avea messo in carcere, serà mandato lo figliuolo dello re, e batterà lo tiranno, e rimenerà lo servo al suo signore colla sua gloria.
(344) in tutto C. R. 1.
(345) puoi che C. R. 1.
(346) impertanto C. R. 1.
(347) amender C. F. R.
(348) egli C. L. — Abbiamo agg. et dal C. R. 2.
(349) in della C. R. 2.
(350) presso alla vendetta C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 1. e C. R. 2.
Lo re domanda e disse: perchè non mandò Iddio uno angelo inanzi per lui diliberare, o ch'egli avesse fatto uno uomo per lui diliberare? Sidrac risponde:
Se l'agnolo raccattasse (351) l'uomo, dunque sarebbe (352) suo servo, e l'uomo dee essere ristorato, sicchè egli sia simigliante all'angelo. E l'altra cosa divisò Idio, che l'angelo (353) è fiebole nella sua natura, e se egli divenisse uomo, di tanto avrebe meno di potestà. E se egli avesse fatto un altro uomo, e l'avesse mandato per lui diliberare (354), dunque non aparterebbe (355) nulla la ragione alla schiatta d'Adamo. E però che l'agnolo non potea raccattare l'uomo, nè egli per sè non potrebbe fare sodisfazione, si piglierà primieramente lo figliuolo di Dio carne in una sola persona, fatta in due maniere: l'una maniera si è che vincierà lo diavolo e serà Iddio, e vincierà lo diavolo simigliantemente che lo diavolo vinse l'uomo, e averà podestà sopra tutte le cose, come elli serà Iddio, che aprirà lo cielo e tutti coloro che entrare vi dovranno; l'altra maniera si è ch'egli diventerà uomo, e farà ciò che fa (356) l'uomo sanza peccato.
(351) Se l'angelo avesse ricomparato C. R. 1.
(352) sarebbe l'uomo C. R. 1.
(353) l'uomo. — Abbiamo corr. col C. R. 1. e col C. F. R.
(354) ricomparare C. R. 1.
(355) parrebbe C. L. — Abbiamo di creduto poter corr. aparterebbe sulla scorta del C. F. R. che ha: apartenist; e del C. R. 1. che dice: dunque non avarebbe apartenuto.
(356) e sarà ciò che l'uomo C. L. — Abbiamo pref. la lez. del C. R. 2.
Lo re domanda (357): perchè vorrà egli nascere di vergine, e come sarà ella vergine quand'egli nascierà di lei? Sidrac risponde:
Per quatro modi (358), siccome Idio fece l'uomo: lo primo, quando Adamo fu facto non ebbe nè padre nè madre, se non Iddio, così nascierà lo figliuolo di Dio, della Vergine, e egli sarà sè medesimo padre (359), e la figliuola sarà sua madre (360). Lo secondo modo si è, siccome Eva nacque della costa dell'uomo, e divenne femmina, altressì lo figliuolo di Dio nascierà della Vergine, dello Spirito Sancto e del Padre, e ciò sarà egli medesimo, e diventerà uomo. Lo terzo modo (361) si fia (362) per la sua potenza, per la sua volontade. Lo quarto modo di solamente femmina nascirae (363), per confondere lo diavolo, e per diliberare l'uomo del suo podere. E dal cominciamento del mondo guardò Iddio quelli che più l'ameranno, e lo suo comandamento faranno, e lo suo benedetto nome adoreranno: di quello lignaggio sarà eletta la Vergine, che sarà netta e pura, sanza peccato, florente, e di tutte degnità; sì generrà (364) lo figliuolo di Dio salvatore, sanza nullo diletto, e partorirà sanza nulla ordura (365) e sanza niuno dolore. E lo Salvatore entrerà (366) nel suo corpo, e uscirà, e tuttavia chiusa (367), similemente come lo sole entra per la vetriera (368), sanza danneggiarla (369). E nel suo ventre piglierà umana natura, e dimoreravvi nove mesi, però che si conpierà nove ordini d'angioli, delle genti che nascieranno in questo secolo. E tutte le cose saprà egli come Idio; e secondo la sua podestà potrà egli fare tutte le cose; ma egli vorrà di tutto in tutto tenere (370) la natura dell'uomo sanza peccare.
(357) domanda disse C. L. — Abbiamo soppresso il disse.
(358) I modi C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2., e sulla scorta del C. F. R.
(359) ed elli medesimo sarà el padre C. R. 1.
(360) „Vergine madre, figlia del tuo figlio„.
(361) mainira C. R. 1.
(362) fa C. L. — Abbiamo pref. la lez. del C. R. 2.
(363) Così ha il C. R. 1. Nascirae manca al C. L.
(364) genererà.
(365) Ord, ordure fr. — Nel C. R. 2.: lordura.
(366) increrà C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 1. e col C. F. R.
(367) entrerà nel suo ventre la porta kiusa e n'escirà la porta chiusa C. R. 1.
(368) ventiera C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2. — Nel C. R. 1.: vetro. Nel C. F. R.: veriere, che vuol dire vetro e finestra.
(369) e no la danagia C. R. 1.
(370) manca al C. L. tenere. — Abbiamo suppl. col C. R. 1.
Lo re domanda (371): quanto tenpo visse Adamo? Sidrac risponde:
Adamo vivette novecento anni. Quando egli venne a morte mandò lo suo figliuolo a l'angelo, che gli desse sanità di quello male ove egli era (372); e lo figliuolo andò per la via che Adamo gli disse, tanto che capitò alla porta del paradiso, là onde Adamo fu cacciato; e volendo entrare alla porta e l'angelo gliel vietò. Egli gli domandò sanitade per lo padre; e l'angelo gli diede tre granella (373), e disse: portale allo tuo padre, e mettigliele in sulla bocca; e diragli che l'uno di queste granella lo diliberrà della grande infermitade: e lo comandamento si è a cinque giorni e mezo. E egli si partì e ritornò a Adamo (374), e missegli le granella in bocca, e contogli quello che l'angelo gli avea detto. E disse, padre, non ti isgomentare, che l'agnolo mi disse che di qui a cinque giorni e mezo tu guarresti (375). E Adamo sospirò, e disse: sappi che lo giorno di Dio è mille anni; e poco stante e egli trapassò di questo secolo. E i diavoli presono l'anima sua con grande allegreza, e misserla nella sponda del ninferno. I novecento anni che Adamo vivette significano quello ch'egli fece disubidienzia verso Iddio, e dispectò la (376) conpagnia de' nove (377) ordini degli angioli (378). Le tre granella significano che nascieranno di loro albori, de' quali legni fia fatta la croce, sopra la quale fia crocificato e morto lo figliuolo di Dio. E Adam guarirà della sua infertà (379), per quella (380) morte che lo figliuolo di Dio farà, sarà diliberato dello inferno, e tutti gli amici di Dio con lui. I cinque giorni e mezo significano cinquemilia cinquecento anni (381).
(371) domanda e disse C. L. — Abbiamo soppr. e disse, stando alla lez. del C. R. 2.
(372) che il li donast guarison de cel mal ou il estoit C. F. R.
(373) tre granella del pomo c'Adamo avia mangiato C. R. 1.
(374) Adamo C. L. — Abbiamo agg. a.
(375) guariresti.
(376) alla C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(377) novi C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(378) les CIX ans senefient les IX ordens d'angles, per ce ch'il fist desobedience vers Deu, et si despita la compagnie des IX ordens des angles C. F. R.
(379) sincope d'infermità.
(380) la qual C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(381) Il C. R. 1. è in questo cap. di lezione assai diversa e più diffusa del C. R. 2. e del C. F. R.
Lo re domanda e disse: perchè è chiamata morte, e quante morti sono? Sidrac risponde:
Perciòe è chiamata morte, perch'ella è amara, perchè Adamo morse lo pome che gli era vietato; però fummo noi morti. Quella morte che non è di natura (382), siccome quella de' garzoni, e quella ch'è di natura (383), siccome quella de' vecchi uomini, per lo peccato d'Adam è ordinata, la morte (384); altrimenti non morrebbe l'uomo. Che somigliantemente come l'una generazione trapassa apresso l'altra per la morte, e l'una generazione apresso l'altra per la vita, simigliantemente saremmo (385) mutati allora di volto in volto (386), e alla fine saremmo stati tutti simiglianti agli angioli.
(382) natura C. L. — Il C. R. 1. e C. R. 2. hanno matura, ma a noi è parso meglio corregg. di natura.
(383) e quella siccome ch'è di natura C. L. — Abbiamo tolto siccome, essendo evidente che è stato scritto per errore. Nel C. R. 1.: k'è naturale.
(384) Crediamo questa ripetizione la morte un errore dell'amanuense.
(385) saremo C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(386) di molto in molto C. R. 2. — de mort en mort C. F. R. — de mont a mont T. F. R. Tre varianti che ci paiono tutte erronee. Noi supponiamo che abbia da leggersi di volta in volta.
Lo re domanda, e disse: nuoce agli uomini di quale morte e' si facciano? Sidrac risponde:
Non mica, nè poco nè molto, chè quelli che si pensano ch'egli deono morire, quelli non muoiono già di morte subitana; e questo fanno (387) medesimamente i buoni, che in Dio credono, e lo suo comandamento fanno. E questi, in qual modo muoiano, o ch'egli sieno uccisi a ghiado (388), o ch'egli sieno divorati per le bestie salvatiche, o ch'egli sieno arsi in fuoco o anniegati in acqua, o ch'egli sieno appesi come ladroni, o ch'egli sieno morti per alcuna disaventura, non nuoce a loro: giustizia, nè lo loro ben fare non puote essere perduto (389). Questa maniera di morte non nuoce loro niente. Che se egli avessono fatto in questo secolo alcuna cosa, per fragilitade della fievole carne, si è loro tutto perdonato, per la grazia dell'aspera morte. Che della (390) morte de' malvagi uomini, che non credono in Dio, e non fanno lo suo comandamento, egli non ànno grande proficto (391), quando egli giacciono lungamente in infermità, anzi ch'egli muoiano. La loro morte è ria, ch'egli non sono mica morti in Dio (392), nè solamente (393) nollo vogliono pensare; e però la loro morte è molta pessima. Non credono mica quelli che viveranno lungo tenpo dopo noi, Idio del cielo mandi loro buona ley (394) e li X comandamenti (395), già sia cosa ch' (396) egli siano credenti in Dio, se egli non servano i dieci comandamenti, che Iddio loro averà mandati, egli morranno in quell'aspra morte, nè loro profitterà niente (397). Anche non credono gli altri, che viveranno dopo loro grande tenpo, che lo figliuolo di Dio si scienderà (398) in terra, e loro comanderà una buona legge e giusta, e crederanno in lui, ch'egli è verace Idio, e quelli che non faranno i suoi comandamenti, che a loro saranno comandati per li suoi ministri, già l'aspra morte non loro profitterà nè poco nè molto (399), anzi loro nuocie.
(387) questi muoiono C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2., C. R. 1. e C. F. R.
(388) a ghiadi C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(389) car la soe iustisse ne les siens bienfais ne peuent onques estre perdus C. F. R.
(390) la C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(391) perfetto C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(392) idio C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2. e C. R. 1.
(393) nella mente C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(394) Questa parola francese che trovasi nel ms. mostra forse che il volgarizzatore non seppe come tradurla. L'ant. fr. ha loy, ley, legge.
(395) li X i comandamenti C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2. Dopo comandamenti il C. L. ha: che Idio; ed essendo chiaro l'errore da ciò che segue, abbiano soppresse queste parole.
(396) Intendasi avvegna che, come ha il C. R. 1. Già sia cosa che è trad. lett. del franc. ja soit ce que, che significa appunto quoique, bien que.
(397) Così abbiamo corr. sulla scorta del C. F. R. che dice: ne lor profitera neent. Il C. L. ha: nè loro perfettamente; il C. R. 2.: nè loro profeta niente varrà; il C. R. 1.: e non proferà loro niente. Proferà supporrebbe un infinito profare, forse fare pro recare utile, non volendo crederlo errore per profitterà. Tutto questo periodo, assai confuso, ci pare da intendere così: Quelli che viveranno dopo noi e avranno da Dio buona legge e i dieci comandamenti, non ritrarranno da ciò alcun profitto, benchè sieno credenti in Dio, se non osserveranno i dieci comandamenti.
(398) ascienderà C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(399) Abbiamo corr. col C. F. R. che dice: ia l'aspre mort ne lor profitera ne tant ne quant. Il C. L. ha: già fia l'aspra morte non loro perfettamente nè poco nè molto. — Ed errate del pari sono le lezioni degli altri codd. ital.
Lo re domanda e disse: come vanno l'anime nell'altro secolo? Sidrac risponde:
L'anime vanno nell'altro secolo simigliantemente come lo malfattore (400) si mena alla giustizia, con grande conpagnia di sergenti; non gli fanno altro (401) se non la giustizia; e simigliantemente, come l'anima si dee partire del corpo morto (402), se ella è (403) ria, si ragunano grande quantità di demoni, e si la portano in ninferno (404), e se l'anima è stata credente verso lo suo creatore, ella sarà diliberata verso la (405) conpagnia d'Adam, quando lo figliuolo di Dio ronperà lo 'nferno, e lo (406) diliberrà (407). E se l'anima non sarà stata credente verso lo suo creatore, ella sarà radice di ninferno tutto tenpo mai (408). Ma al tenpo della credenza del figliuolo di Dio, saranno l'anime menate in tre modi: quelli che avranno tenuto giustamente la sua fede e la sua credenza, e avranno fatto lo suo comandamento, quando questa giusta anima si partirà dal corpo, si raunerà (409) grande moltitudine d'angeli, nella conpagnia dell'angelo che l'averà guardato nelle percussioni (410) e nelle tribolazioni; elli lo porteranno, laudando e glorificando Idio, egli la meneranno nel paradiso celestiale. La seconda maniera, di quelli che muoiono e ànno facto assai male e poco bene, e poi si confidano (411) nella fede, la quale lo figliuolo di Dio àe loro donata e comandata, e s'amendano (412) inanzi la loro morte, quando l'anima loro escie del mortale corpo, si viene l'angiolo di Dio, e si la piglia, e dalla al malignio ispirito; e egli la porta in uno luogo dello 'nferno che si chiama lavatorio (413), cioè purgatorio, di vizii di questo secolo; egli la mette in quello luogo, e no le puote poi più malfare (414), se non quello che lo buono agnolo averà comandato. E quando ella è lavata e purgata quello ch'ella dee (415), e viene lo buono agnolo, e pigliala, e mettela in paradiso celestiale, dove sono gli altri buoni (416). La terza maniera di menare si è di quella anima che tutto tenpo avrà mal fatto, e stata in questo secolo male e in peccato, fuori della fede e del comandamento di Dio: si vengono grandissime moltitudine di diavoli, e piglialla, e portalla a grande onta (417) e a grande vergogna, e mettolla al fuoco dello 'nferno, e là istarà tutto tenpo, che giammai fine non avrà.
(400) li mali factori C. R. 1.
(401) altro male C. R. 2.
(402) mortale C. R. 2. — mortel C. F. R.
(403) la sella sebbe C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(404) in onferno C. R. 1.
(405) ne la C. R. 1. — in della C. R. 2.
(406) egli lo C. L. — Abbiamo pref. la lez. del C. R. 2.
(407) quando el figliuolo di Dio discendarà ad inferno e strugiarà el diavolo e delibarà e' suoi amici C. R. 1.
(408) tous iors mais C. F. R. — L'ant. fr. ha: tos jors, tos dis, tos tans, ma non trovo esempi ne' quali a questo avverbio sia aggiunto mais, conforme al nostro sempre mai. — Sarà radice di ninferno ci pare da intendere: avrà radice nell'inferno, sarà abbarbicata all'inferno.
(409) si raunerà manca al C. L. — Abbiamo suppl. col C. R. 2.
(410) Sebbene tutti gli altri codd. abbiano persecutioni, non ci pare di poter tenere per errore percussioni.
(411) Il C. L. ha: si confondono. — Abbiamo data la preferenza alla lez. del C. R. 2. Nel C. F. R. leggesi: se porpencent; da porpenser, che vuol dire meditare, riflettere, pensare; onde se porpencent de la foy, significherebbe meditano, pensano della fede.
(412) s'emandano C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2.
(413) Nel C. L.: lavoto; e nel C. F. R.: lavest; ma ci sembrano errori ambedue. Il C. R. 2. ha: lavatorio; e forse anche nel francese potrebbe leggersi: lavatoire; parola che trovasi usata dall'Amyot. Cf. Dict. de l'Acad. Franc. — Lavatorio manca alla Crusca.
(414) molestare C. R. 2.
(415) Et quando avrà compiuto ciò ke die C. R. 1.
(416) le buone anime C. R. 2.
(417) ontia C. R. 1.
Lo re domanda e disse: che cosa è paradiso celestiale? Sidrac risponde:
Paradiso celestiale è vedere Iddio, quando l'uomo lo vede a faccia a faccia. Che se tutte le gioie e li diletti che furono che sono e che saranno fossono in uno uomo, non avrebono delle centomilia parti l'una, d'allegreza e di diletto e di bene, che ànno coloro che vegiono Idio: egli non disiderano di sanitade e di biltà nè di forza nè d'allegreza, quelli che Iddio veggono.
Lo re domanda: chi fu fatto innanzi tra il corpo o l'anima? Sidrac risponde:
Lo corpo fu innanzi fatto di quattro elimenti, d'aria e d'acqua e di fuoco e di terra; e sì à quattro complessioni (418) in sè. E poi ch'egli fu formato, Iddio, per la sua grazia, gli soffiò nel volto ispirito di vita, e gli donò la signoria sopra tutte le cose che sono in terra; e che egli fosse signore in terra; altressì come Iddio è in cielo. E di lui fece Eva la sua parecchia (419), e non volle da loro se non l'ubidienza, siccome voi avete udito inanzi. E ella (420) si uscì fuori de' suoi comandamenti, e incontanente fu ispogliato de' vestimenti di grazia, e gittato fuori del paradiso.
(418) Sebbene tanto il C. L. che il C. R. 2. abbiano comparazioni e comperazioni, noi abbiamo creduto di correggere complessioni, stando al C. F. R. che dice: et si a IIII conplesions; parendoci che dalla lez. de' due codd. fiorentini non si potesse ritrarre nessun senso. — Il presente cap. manca al C. R. 1.
(419) I due codd. fior. hanno parrocchia, errore manifesto, che noi abb. corr. in parecchia, nel significato di pari, simile, come in quel verso di Dante: „Salendo su per lo modo parecchio — A quel che scende„ (Purg. XV); e nel Ninfale del Bocc.: „Or che farà la tua madre cattiva, che non arà giammai un tuo parecchio?„ Il C. F. R. ha: sa pairille; e questo pure crediamo errore per pareille. In provenzale parelha vuol dire compagna, femmina, ed altri potrebbe forse supporre che il volgarizzatore toscano abbia voluto dare a parecchia questo significato, come già lo ebbe par nel basso latino e per nell'ant. francese, i quali si trovano usati per isposa, compagna.
(420) elli C. R. 2.
Lo re domanda e disse: chi parla o 'l corpo o l'anima? Sidrac rispuose:
Lo corpo non parla, anzi l'anima; ma l'anima è spirito e 'l corpo mortale (421). Simigliantemente uno uomo che fosse in su una bestia, e egli la mena ove egli vuole, et ella (422) lo porta, simigliantemente aviene del corpo e dell'anima: che cioè (423), che 'l corpo parla e fae si viene dall'anima, conciosia cosa che (424) 'l corpo abia volontà di fare alcuna cosa, egli no la puote contastare. E magiore colpa àe l'anima che lo corpo: chè il corpo è fatto di terra; e in terra dee ritornare, e morire gli conviene. Perciò non à egli così forte natura, come l'anima, che morire non puote, nè niuno travaglio sente. Dunque à l'anima magiore podere sopra lo corpo, che il corpo sopra l'anima. E l'anima puote molte volte delle cose vietare al corpo, che 'l corpo non puote fare all'anima; e perciò dician noi che l'anima governa lo corpo, e fallo muovere a parlare, e fa tutti argomenti, ciòe che 'l corpo non puote fare all'anima. E questo potete voi vedere chiaramente: quando l'anima si parte dal corpo, lo corpo rimane la più laida carogna (425) che sia nel mondo, che parlare nè muovere non si puote. Perchè l'anima si parte dal corpo, ella non muore nè mica, ma ella va a ricevere lo guidardone di quello ch'ell'avrà fatto in quello corpo ov'ella è stata; e secondo ch'ell'avrà governato, in quello tempo (426) ch'ella sia istata in quello corpo (427), ella sarà pagata. E però de' avere l'anima magior colpa che lo corpo: che per lei fae lo corpo tutti gli argomenti (428) ch'egli fa. Che s'ella non fosse consentiente del male ch'egli fa, dunque non sareb'ella dannata; nè non sarebbe messa in gloria, per lo bene che 'l corpo facesse, che 'l corpo avrebbe (429) l'uno e l'altro. Ma però che tutti gli argomenti che lo cuor pensa (430), vegnon da lei, sarà ella più colpevole e dannata che 'l corpo.
(421) e l'anima parla però che l'anima è spirito e lo corpo è mortale C. R. 2.
(422) Abb. agg. et dal C. R. 2.
(423) echo C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(424) Qui come indietro ja soit ce que (avvegna che) è stato trad. per conciosiacosache.
(425) carogna (ant. fr. charoigne, carongne), dal nom. lat. caro, è la carne senza spirito, il cadavere.
(426) tempo manca al C. L. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(427) in quel corpo al secolo C. R. 2.
(428) Qui argomento pare che abbia il significato di azione. Nel C. F. R.: argumens.
(429) manca al C. L. chè 'l corpo avrebbe. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(430) che lo corpo fae C. R. 2. — che le cors fait C. F. R.
Lo re domanda: l'anima ch'è ispirito solamente, che non à corpo nè membro, nè prendere nè tenere non si può, nè vedere, come può sentire gioia e gloria in cielo, e pene e dolore nello 'nferno? Sidrac risponde:
L'anima si è spirito (431) veramente, e lo spirito si è l'anima; e si è sottile cosa, ch'ella non si può vedere; e si è leggiere come vento, nè morire non puote, nè mangiare nè bere non vuole. E se centomilia anime fossono in su uno pelo, lo pelo non peserebbe più, nè più carico non avrebbe, e pigliare non si potrebe. E sì gusta (432) e sente l'anima grande gioia e grande pena e grande gloria e grande dolore: chè, quando la buona anima si parte di questo secolo, incontanente ricieve ella vestimento di gratia e di gloria, sente la gratia e la gloria di Dio, e stae (433) tra gli angioli, che mai non avrà fine (434). E la ria anima, quando ella si parte di questo secolo, incontanente riceve vestimento di pene e di dolore, e incontanente è menata allo 'nferno e al purgatorio, là ov'ella à servito (435) di stare. S'ella è in ninferno, ella vi sta sanza fine; e s'ella è in purgatorio, ella si purgherà, e poi incontanente monta in cielo, e sarà vestita di vestimento di grazia e di gloria; e questo sarà dopo l'avenimento che 'l figliuolo di Dio farà (436) in terra.
(431) isposa C. L. — Abb. corr. col C. R. 2. — Nel C. F. R.: espirt.
(432) se giusta C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(433) Abb. agg. stae dal C. R. 2.
(434) est ele entre les angles sans fin C. F. R. — tra gli angioli che mai non ànno fine C. R. 2.
(435) a deservi C. F. R. — Desservir nell'ant. fr. ha il senso di meritare, come in alcuni es. di ant. scritt. ital. ha servire.
(436) verrà C. L. — Abb. pref. la lez. del C. R. 2. — Nel C. F. R.: apres la venue dou fis de Deu en terre.
Lo re domanda: qual'è più sicura tra l'anima e 'l corpo? Sidrac risponde:
Lo corpo è più sicuro; ma, se dannaggio loro aviene, l'anima avrà più pericolo che lo corpo. Altressì come due uomini che vanno per uno cammino pericoloso, e l'uno è ardito e l'altro è codardo; lo codardo pensa in sè medesimo: io sono in compagnia d'uno valente uomo, e se alcuno ci asaliscie, egli difenderà sè e me; e questa ragione fa lo codardo sicuramente. E lo valente pensa in sè medesimo: io sono in conpagnia d'uno codardo uomo, e se alcuno ci asaliscie, egli fuggirà, e io rimarrò solo al fatto, o serò preso o serò morto; e a questa cagione non va bene sicuro. Tutto altressì aviene del corpo e dell'anima: lo corpo dice: io farò i miei diletti e le mie volontadi, e quando morrò, io diventerò terra, e non mi cale che avegnia di me. L'anima dice: lo corpo mi tiene ria compagnia, e menami in malo luogo e in malvagio camino e pericoloso, e al dirieto io arò pericolo e pena (437); con tutto ciò egli de' essere meco participale di tutte le mie pene; cioè ad intendere che lo corpo è lo codardo e l'anima è lo valente. E spesse volte viene magiore male del codardo che del valente, per molte cose.
(437) Nel C. L.: e pene nella fine. — Abbiamo corr. col C. R. 2. — Al dirieto è trad. del franc. au derain.
Lo re domanda e disse: dove abita l'anima? Sidrac risponde:
L'anima abita nel suo vasello, cioè a intendere per tutto lo corpo, dentro e di fuori, là ove è lo sangue; chè lo vasello dell'anima è lo sangue, e lo vasello del sangue si è il corpo. Là ove sangue non è, l'anima non vi dimora, cioè a sapere agli denti, all'unghie, a' capelli. L'anima non abita giammai in questi luoghi; e lo duolo di queste tre cose che noi abiamo contate, si è perchè la loro radice tocca il sangue, e però dogliono elle; ma chi le tagliasse o tondesse, egli non dorrebbono punto.
Lo re domanda: perchè non puote dimorare nel corpo quando lo sangue è tutto fuori? Sidrac risponde:
L'anima non puote dimorare nel corpo, altressì come una fonte piena di pesci, e allora viene l'uomo, e spande l'acqua di quella fonte, a poco a poco, tanto che tutta l'acqua è perduta, e gli pesci si truovano sopra terra, e conviene loro morire. Allora viene l'uomo, e si gli piglia, e l'uno fa arostito e l'altro fa lesso e l'altro fritto, secondo ch'egli fieno buoni a mangiare. Altressì viene (438) dell'anima: quando lo corpo perde lo suo sangue, di qualunque modo si sia (439), l'anima va tuttavia infievolendo; e quando lo sangue è tutto fuori, l'anima rimane come lo pescie sanza acqua, che si truova in terra; e allora si parte di quello medesimo cuore, che non vi puote più dimorare, ch'ella à perduta la sua innodritura (440), simigliantemente come lo pescie l'acqua, e a ciò si conviene allora partire per forza. Lo pescatore dell'anime buone o malvagie, cioè a intendere pescatore, o angelo o diavolo, la piglia, e portalla, e dalla (441), secondo ch'ell'à fatto e governato in quello medesimo corpo. E se ella à ben fatto, ella sarà della conpagnia del figliuolo di Dio, quando egli sarà risucitato.
(438) adiviene C. R. 2.
(439) di quale uomo sia C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 2. — Nel C. F. R.: de chelche maniere chi soit.
(440) notritura C. R. 2.
(441) e si la dae C. R. 2.
Lo re domanda: come è ciò, che in questo mondo chi vive e chi muore? Sidrac risponde: (442)
Le genti muoiono per molti modi: alcuno modo è quando egli ànno conpiuto lo termine che Idio à loro dato. Altri muoiono per grandi misfatti, ch'egli ànno misfatto verso lo loro creatore, simigliantemente come lo servo, ch'è cacciato, anzi lo termine, dell'albergo del suo signore, per lo suo misfatto. Altri muoiono per molte malizie (443); altri per necessità di cose corporali; altri per battaglia e per molti altri modi; chè niuna anima del mondo potrebbe vivere solo uno punto, oltre al termine che Idio gli à dato. Ma per lo suo misfatto puote bene morire anzi lo suo termine, simigliantemente, come noi abiamo detto di sopra, del servo che è cacciato, anzi lo termine, dell'albergo del suo signore, per lo suo fallo e per la sua volontà. In luogo (444) del forfatto (445), potea egli ben fare, e sarebe dimorato nell'albergo del suo signore, a conpiere lo termine al suo signore e al suo amore, la ov'egli si fosse soferto (446) di mal fare, già arebe (447) bene fatto. E semigliante fanno le genti del bene e del male, per la loro volontade. E di qual maniera egli muoiono, della giustitia di Dio non possono fuggire, chè al suo giudicamento conviene passare (448) i buoni e i rei.
(442) Questa rubrica nel C. L. dice: Lo re domanda come vivono le genti ch'età muoiono tosto e quanta diede. Mancando il senso, nè potendo giovarci, a correggerlo, del C. R. 1. nè del C. F. R., abbiamo posto il titolo quale trovasi nel C. R. 1.
(443) Per malattie, come trovasi negli antichi. Il franc. malice non ha questo significato; trovasi però maligeux, agg., di debole salute, e maleza prov. per malattia.
(444) e luogo C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(445) Da foris facere fecesi forfaire, e in ital. forfare. Alcuni credono che il prefisso for delle lingue romane, sebbene abbia relazione col lat. foris, sia stato ant. usato sotto l'influenza del prefisso germanico fair, far, for.
(446) fosse C. L. — Abb. agg. si dal C. R. 2., necessario in questo luogo, per il senso che ha sofferire di astenersi, conforme a' due es. citati dalla Crusca. Lo stesso significato ha pure in ant. fr. il vb. sofferir, e in prov. sufferre, sufrir. Cf. Roquefort, Gloss.; Raynouard, Lex.
(447) Sebbene tanto il C. L. che il C. R. 2. abbiano sarebe, noi abbiamo corr. arebe, e perchè altrimenti non avremmo saputo qual senso potesse avere il periodo, e perchè il C. F. R. ha: auroit.
(448) essere C. R. 2. — passer C. F. R.
Lo re domanda: come potrebbe l'uomo sapere che Idio facesse l'uomo alla sua similitudine? Sidrac risponde:
Noi troviamo nel libro del buon servo di Dio, ciò fu Noè, che quando l'umanità di Dio fece Adam, ch'egli disse: noi faremo uno uomo alla nostra simiglianza; e la parola fu alla divinità, al suo spirito (449). E per quella parola sapiamo noi bene che Idio fece l'uomo alla sua simiglianza; che egli è tre per uno Dio; ch'egli potrebe bene avere detto: faremo uno uomo; e questo sarebe inteso che Idio avesse facto uno uomo in altrui simiglianza che nella sua. E se avesse detto: io farò uno uomo, sarebe inteso ch'egli non sarebe istato padre e filio e spirito sancto; che lo figliuolo e lo sancto spirito venisse in terra, e (450) quello medesimo uomo dilibera (451) dal podere del diavolo, Adamo e li suoi amici. Si disse egli anche: noi faremo uno uomo, però ch'egli volle che noi fossimo degni d'avere parte del suo regno, chi (452) servire lo vuole. Ancora ci diede pura iscienzia di sapere, che noi siamo la più degna criatura del mondo.
(449) e allo spirito santo C. R. 2.
(450) por C. F. R.
(451) diliberare C. R. 2. — delivrer C. F. R.
(452) a qui C. F. R.
Lo re domanda: quando (453) noi siamo fatti alla simiglianza di Dio, perchè non possiamo noi fare altressì com'egli? Sidrac risponde:
Veramente Idio ci à facto alla sua simiglianza. Perciò ch'egli ci à facto alla sua simiglianza, egli à dato podere sopra tutte l'altre criature ch'egli fece, che tutte ci fanno reverenza, e sono al nostro comandamento. E per quella medesima simiglianza, conosciamo noi le cose che sono state e sono e saranno; e conosciamo il nostro bene e il nostro male; e sapiamo guadagnare e vivere e lavorare; e sapiamo tutto l'altre criature pigliare al nostro servigio, travagliare e aoperare. L'altre creature che Idio fece, che non sono alla sua simiglianza, non ànno già podere di questo fare che noi facciamo. Noi non dobiamo comandare, nè dire che noi fossimo altressì savi nè altressì forti come Idio: ciò non possiamo noi essere, ch'egli è possente di tutto, e noi siamo servi, e egli è signore di tutto lo mondo. Egli è più degno che 'l cielo; e tutte l'altre cose che sono e saranno di lui muovono. Egli non ebe unque cominciamento, nè fine non avrà. Però ch'egli volle enpiere la sedia degli angioli che caddono per lo loro argoglio, ci à elli (454) fatti alla sua simiglianza; che di noi che siamo alla sua simiglianza dee le sedie rienpiere; che altra criatura e altra simiglianza che la sua, non sarebe degna d'entrare nella sua conpagnia. Ma noi v'enterremo, cioè quelli che degni saranno, e gli suoi comandamenti faranno.
(453) Per poichè; ma non trovo che in questo significato siasi adoperato il quant, quand dei Francesi.
(454) e àgli C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
Lo re domanda e disse: lo sangue che diviene quando lo corpo è morta? Sidrac risponde:
Iddio fece lo sangue d'acqua e lo corpo di terra; che altressì come l'acqua abevera la terra e la mantiene, altressì lo corpo abeverato è mantenuto (455). L'anima mantiene lo corpo, e l'anima per lo suo calore iscalda lo sangue e lo corpo. Quando lo sangue perde lo suo calore dell'anima, si torna alla sua natura in acqua; e di questa acqua bee il corpo, ch'è della natura della terra, altressì il bee come la terra l'acqua; e allora, quando lo corpo l'à bevuta, egli la scaglia (456), e diventa nulla. L'anima non puote essere sanza lo sangue, e 'l sangue sanza l'anima al corpo.
(455) Meglio nel C. R. 1.: altresì el sangue abevera l'uomo e sostiene el suo corpo.
(456) et cel aigue le cors la boit chi est de la nature de la terre, auci le boit com la terre reboit l'aigue; adonc le prent le cors et le boit et le chaille et devien neent C. F. R. — Vedesi che la scaglia dovrebbe essere trad. del fr. le chaille; ma mi pare evidentemente un errore. Sul modo di correggerlo sto incerto assai, non vedendo quello che possa significare il chaille fr., e non parendomi ch'e' possa corregg. in echaille. — Il C. R. 1. ha: quando el corpo bee el sangue elli cambia et viene in niente.
Lo re domanda: che diviene lo fuoco quand'egli è spento? Sidrac risponde:
Lo fuoco escie del sole, e al sole ritorna quando egli è ispento. E simigliantemente, quando noi vegiamo che il sole fa lo suo torno, pare che si corichi, e tutto lo sprendore e lo calore che si spande sopra la terra si ritrae a lui, egli dimora tuttavia sopra la terra, e da lui non si parte; altressì il fuoco quando è spento e' si ritrae a quella medesima regione del sole, cioè della sua natura; che tutti i fuochi e i calori del mondo escono del sole e al sole ritornano.
Lo re domanda: perchè non si parte l'anima, quando il corpo perde la metà del sangue e più? Sidrac risponde:
Quando lo corpo perde la metà del suo sangue, lo caldo che è nell'anima, che lo sangue mantiene, non perde già; che in quello poco sangue che vi dimora, l'anima dimora in lui. Il sangue sostiene l'anima, e l'anima sostiene il sangue e lo corpo: e l'uno de' due non puote stare al (457) corpo solo. E quello poco sangue che rimane al corpo sostiene l'anima, altressì come uno piccolo lucignolo sostiene uno molto bello fuoco; e quando lo lucignolo falla, il fuoco viene meno e si spegne e si parte; che il sangue si è lo lucignolo, e il fuoco si è l'anima. Quando lo corpo non perde il sangue e muore di malattia, l'anima consuma; e allora parte l'uno dall'altro, altressì come lo lucignolo è al fuoco, èe tutto consumato e diviene nulla. Il fuoco ne va al sole, che è di sua natura; altressì diviene dell'anima e del sangue: l'anima si ritrae a Dio, al suo comandamento; e per la lena che di bocca gli uscie (di quella lena gli donò l'anima), altressì si ritrae al suo comandamento; e ella aventa, secondo ch'ell'avrà servito in questo secolo (458).
(457) lo C. L. — Abb. corr. cogli altri Codd.
(458) Nel C. F. R. leggesi: „auci se retrait ele a son comandement, et per cel comandement elle aura, seguont ce che elle aura deservi en cest siecle.„ Notisi il seguont (segont, selon) di cui nota il Burguy trovarsi rari esempi nella lingua d'oïl, se non nelle provincie prossime alla lingua d'oc. — Nel C. L. sia scritto: altressì ritrae. — Abbiamo aggiunto il si sulla scorta del Francese. — Di aventare reca un solo esempio la Crusca, nel senso di crescere, allignare. Ma noi crediamo che il nostro aventa abbia piuttosto il significato dell'avantar provenzale, avvantaggiare, avere vantaggio (esse potiori conditione): l'anima si avvantaggia, si nobilita, secondo i proprii meriti. Nel C. R. 1.: e per quello comandamento avrà secondo l'uopara k'avarà servito in questo mondo.
Lo re domanda: di qual natura è 'l corpo e di quale conpressione? Sidrac risponde:
Lo corpo è della natura della terra e di fredda conpressione; e si è facto di quattro elimenti: che della terra à egli la carne, e dell'acqua lo sangue, e dell'aria l'anima, e del fuoco calore. La carne, che è fatta di terra, è fredda; lo sangue, che è facto d'acqua, si è freddo; l'anima, ch'è fatta d'aria, si è calda, che ciascuna torna alla sua natura. Il calore che è della lena di Dio, si è l'anima, che la lena si è di due cose: aria e calore (459). E quello calore che a l'anima (460) dà la lena di Dio, si abita al sangue, e per diritta natura inforza (461) il sangue e lo scalda. Et elli scalda (462) l'altre cose che sono al corpo, e si fa gli omori neri e gialli, per la natura del sole, caldi essere.
(459) el calore ke ella avia da Dio è anima di natura; di natura si è calda, kè alena si è due cose: aiere e calore C. R. 1.
(460) che è anima C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(461) isforza C. L. e C. R. 2. — Abb. corr. col C. R. 1., e col C. F. R. che ha esforce, da esforcer, fortificare, rendere più forte. Isforzare, trad. letter. di esforcer, non ha in ital. questo significato.
(462) Abb. aggiunto et elli scalda, dal C. R. 1.
Lo re domanda: l'anime sono fatte dal cominciamento del mondo o sono facte ciascuno giorno (463)? Sidrac risponde:
Dio fece tutte quelle cose che essere doveano dal cominciamento del mondo a una volta (464), e tutte le cose fece insieme; che iscritto è che allora fece tutte le cose che erano a venire; ma egli le divise poi di (465) diverse maniere. Che altressì come lo comandamento fue dal cominciamento del mondo, che, tante creature nasciessero, tante anime fossero facte a una volta dal cominciamento del mondo, che incontanente fue lo suo comandamento adenpiuto. Però diciamo noi che infino allora furono conpiute tutte le cose che essere doveano in questo secolo, infino allora che 'l suo comandamento fu fatto. Non credete già che ciascuna criatura che nascie (466), che Idio in quell'ora comandi lo suo nascimento; anzi è il suo nascimento (467) comandato dal cominciamento del mondo; chè 'l buono signore a una volta suo comandamento e volontà à compiuto, insiememente come leale justizia, ch'è ordinata e scripta sempre mai a tucti (468).
(463) o sono facte di dì in dì C. R. 2.
(464) a l'octa C. R. 1.
(465) in C. R. 1. e C. R. 2.
(466) nascesse C. L. — Abb. corr. coi Codd. R. 1 e R. 2.
(467) sua nascenza C. R. 1.
(468) Nel C. L. e nel C. R. 2. questo periodo è molto confuso e senza senso. Al C. F. R. manca. Noi abbiamo per conseguenza adottata la lez. del C. R. 1., sebbene assai oscura anch'essa.
Lo re domanda: quelli che Idio nè nullo bene conoscono s'elli possono avere (469) nulla scusa? Sidrac risponde:
Tutti quelli che non conoscono Idio, Idio non conoscie loro; e tutti quelli che non vogliono conosciere Dio (470) nè per fede nè per ley (471) nè per opere, quelli saranno dannati colli suoi nemici per tutto tenpo. E quelli che lui credono e non vogliono fare le sue opere (472), che semplicemente intendono, come semplici uomini (473), se egli sono dannati, elli sono più crudelmente tormentati, se inanzi la loro morte chegiono perdono e merciede, e prometteranno che giammai peccato non faranno, e in questa promessa attendono (474).
(469) Abb. agg. avere. Nel C. R. 1.: puote avere niuna scusatione.
(470) Abb. agg. Dio dal C. R. 1.
(471) Parola schiettamente francese. Nel C. R. 1.: nè per leggi, nè per fede, nè per uopera. — La stessa parola abbiamo trovata al cap. XX.
(472) suo comandamento C. R. 1.
(473) Intendi: coloro che hanno intelletto semplice.
(474) È evidente che il senso non torna. Correggasi dunque col C. R. 1., che va daccordo col francese: s'elli sono dampnati non sono duramente tormentati; ma kelli ke bene conoscono e suoi comandamenti, e no li vogliono fare, quelli sono duramenti tormentati, se prima ke muoiono non si pentono, e promectano di giamai più non peccare, et kesta promessa manterano.
Lo re domanda: dèe l'uomo fare altra cosa che 'l comandamento di Dio? Sidrac risponde:
Idio à facto l'uomo naturalmente per lui servire, e fare lo suo comandamento, e odiare lo suo nimico e lo nostro, cioè a intendere lo diavolo e lo suo ingegno. E simigliantemente (475), come noi abiamo e volemo avere signoria, e essere serviti da tutte l'altre criature che Iddio fece, altressì vuole Iddio che è tutto possente avere servigio da noi, e che noi gli crediamo e adoriamo, che noi dobiamo avere grande amore in Dio lo creatore, e grande odio al diavolo.
(475) e essere simigliantemente C. L. — Abb. soppresso essere sulla scorta de' Codd. R. 2, e F. R.
Lo re domanda: perchè è chiamata morte? Sidrac risponde:
Le morte non è chiamata morte a quelli che trapassano di questo secolo, anzi è chiamata trapassamento; che quegli che muoiono in questo secolo, e pare che muoiano, non fanno (476), anzi trapassano di questo secolo nell'altro. Quelli che non credono in loro criatore, e sono fuori del suo comandamento, quelli muoiono, e a cotal gente vale molto la morte, se avere la potessono, perch'egli domanderanno la morte, e la morte loro fuggirà. Quando verrà la seconda volta lo figliuolo di Dio a giudicare lo mondo, i buoni e li malvagi risuciteranno; i malvagi saranno col corpo e coll'anima, siccom'egli sono in questo secolo, in pene; e gli buoni trapasseranno. E non morranno già quelli che lo loro creatore conoscono. E quelli che (477) lo suo comandamento non fanno, saranno messi nel più alto inferno; egli vi dimoreranno sanza fine. E la seconda volta che 'l figliuolo di Dio verrà per noi giudicare, i corpi de' buoni ritorneranno coll'anime in (478) gloria di vita eterna, nella conpagnia degli angioli, che mai non averà fine.
(476) ma non muoiono C. R. 1.
(477) Abbiamo agg.: E quelli che; poichè altrimenti il senso non torna. — Il C. R. 2. concorda col C. L.
(478) di C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
Lo re domanda: quanti secoli sono, e quanti mondi, e come si tengono? Sidrac risponde:
Due sono i secoli e due mondi: l'uno si è la grazia e la gloria di Dio, là ove sono gli angioli e gli arcangioli, e là ove la buona generazione d'Adamo monterà. L'altro secolo è lo 'nferno, là ove è lo diavolo, e le tenebre sono e lo grandi pene. L'uno mondo è chiamato lo sole e la luna, e lo giorno e la notte, e l'altre cose spirituali che a noi danno lo lume, e noi servono in questo secolo. L'altro mondo si è quello che noi vegiamo e che noi tocchiamo corporalmente; l'altro, che tutto inghiotte nostro ventre e tutto consuma, cioè mondo corporale, èe il mondano secolo, buono o rio (479).
(479) Nel T. F. P.: L'aultre est ce que nous mangons et touchons corporellemente; ce de quoy nous vivons en la terre, qui tout engloutte en nostre ventre, qui tout consumme, c'est le mond corporel.
Lo re domanda: Idio è di grande guidardone? Sidrac risponde:
Niuna anima non potrebe pensare nè dire nè 'l bene nè l'amore nè 'l guidardone (480), che Idio dae a quelli che in Dio (481) credono e lo suo comandamento fanno. E non domanda loro altro che questa piccola cosa, ch'egli faccino il bene e lascino lo male. Egli gl'innorerà (482) cogli suoi angioli; e poichè gli angioli sono spiriti tanto solamente (483), i buoni, quando il suo comandamento faranno, egli gli metterà in cielo col corpo e collo spirito; e per loro manderà il suo figliuolo in terra a liberragli, e per loro si lascierà morire. Questo è grande guiderdone alli suoi amici. Chi è quelli che per li suoi amici lascierebe il suo figliuolo morire? Sapiate di verità che Idio lo farà per li suoi amici, e sapiate che ciò sarà, e sarà grande guidardone che Idio loro farà; che niuna anima potrebe pensare lo bene nè l'amore nè il guiderdone che Iddio darà ai buoni.
(480) ne bene nell'amore del guidardone C. L. — Abb. corr. col C. R. 2., che concorda perfettamente col C. F. R.
(481) da quelli che in Dio C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(482) Per onorerà, come in parecchi esempi citati dalla Crusca.
(483) Per solamente, come nel Boccaccio: „essendo contento d'avervi tanto solamente ricordato,„ ec. — Il C. F. R. ha: tant solement.
Lo re domanda: le gienerazioni che saranno al tenpo del figliuolo di Dio, saranno egli credenti a lui tutti comunemente? Sidrac risponde:
Tutti saranno credenti alla sua fede, cioè (484) a 'ntendere del suo popolo. Ma egli saranno di diverse maniere di linguaggi (485); e l'uno avrà più stretto comandamento che l'altro (486); che quello che il figliuolo di Dio comanderà al suo popolo sarà tutto uno; e quello (487) che li suoi dodici ministri comanderanno, sarà quello ch'egli avrà comandato della sua bocca. Ma gli altri che verranno apresso, saranno in luogo di ministri (488), vedranno la fragilità della fievole carne della gente, e allora faranno uno comandamento più leggiero, ch'egli ànno il podere di ciò fare, dal podere di Dio e de' suoi ministri. Ma ciascuna delle nazioni crederà essere migliore l'una che l'altra, al loro parere; ma tutti saranno come in uno grande giardino, ove avrà molti albori, e l'albero che più renderà al giardino, lo giardiniero più l'ama e più lo 'nnacqua e tienlo più caro (489). Simigliantemente saranno tutte le nazioni e le generazioni che crederanno nel figliuolo di Dio vivo, e lo suo comandamento (490): quelli che più fermamente terrà sua fede e suo comandamento, quelli sarà più presso di lui in cielo e in gloria.
(484) acciò C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(485) ligniagi C. R. 2.
(486) che la loro C. L. — Abb. corr. sulla scorta del C. F. R.: des autres.
(487) quegli C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(488) meglio il C. F. R.: et seront en leu des ministres.
(489) Abb. adottata la lez. del C. R. 2., come più corretta di quella del C. L. Dobbiamo però avvertire che in esso C. R. 2. si legge, invece di lo giardiniero, lo giardino, che a noi è parso errore da potersi senza esitanza correggere, sull'autorità del C. F. R. che ha jardinier.
(490) ed al suo comandamento C. R. 2.
Lo re domanda: che comandamento farà Iddio al suo popolo? Sidrac risponde:
Iddio comandò al suo popolo amore e giustizia, e che l'uomo non faccia a niuno quello che non volesse che l'uomo faccia a lui (491). Che per l'amore di Dio che à in Adamo (492), egli manderà il suo figliuolo in terra a morire, per lui diliberare; e per l'amore che 'l figliuolo di Dio avrà in lui, si lascieranno molti morire per diversi tormenti, per andare nella sua compagnia in cielo. Per l'amore e per la povertà e per l'astinenzia, andranno egli in cielo nella sua gloria: che chi àe buono amore in Dio, egli à buono amore in sè medesimo; chi à la povertà (493) e la sofferenza e l'astinenzia in lui, egli à l'amore di Dio in lui.
(491) Migliore la lez. del C. R. 2.: Idio comanda al suo populo timore e giustizia e astinenzia, e che l'omo non faccia a nullo quello che non volesse che fosse fatto a lui.
(492) che Dio àe in Adamo C. R. 2.
(493) punta C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
Lo re domanda: qual'è la più sicura cosa che sia e la più benedetta e la più degna e la più bella? Sidrac risponde:
L'anima è la più degnia cosa del mondo, e la più bella e la più benedetta; chè la buona anima è più bella e più isplendiente che 'l sole, e più degnia che niuna altra cosa che Idio abia fatta in terra; ch'ella è fatta della lena di Dio; e sì sono stabiliti gli angioli per lei isguardare (494); e si istà inanzi a Dio a faccia a faccia, e è la più sicura cosa (495) che Idio abia fatta; ch'ella è buona, e sicura ch'ella sarà della conpagnia di Dio, nella sua gloria, tra gli agnoli, e non avrà mai fine, nè fame nè freddo nè caldo nè male nè dolore nè tristizia nè invidia nè cupidigia, ma tutto giorno gioia (496) e letizia delle sue benedizioni. L'anima è la più benedetta cosa che Idio abia fatta; chè egli benedisse tutte le cose per lei servire. La benedizione è sì grandissima, che, se ella entrasse in una pietra, ella parlerebbe. Ella sarà benedetta per lo figliuolo di Dio, per tutti i tenpi, quando egli verrà la seconda volta a giudicare lo mondo, cioè a sapere alla fine del mondo, che giudicherà i buoni e' rei.
(494) Il C. F. R. ha garder, che noi crederemmo usato qui nel senso di proteggere. Potrebb'essere che il testo francese da cui fu tradotto il nostro avesse esgardeir, esguarder, che fu adoperato per consigliare.
(495) Abbiamo agg. cosa da' codd. R. 2 e F. R.
(496) e tutto giorno è gioia C. L. — Abb. corr. sulla scorta del C. F. R.: mais tous iors ioie, ec.
Lo re domanda: qual'è la più laida cosa che sia, e la più pericolosa e la più maledetta e la più paurosa? Sidrac risponde:
L'anima ria è la più laida cosa che Idio facesse, e la più orribile cosa che sia; che, chi la ria anima potesse vedere, egli avrebe paura di lei. Ella si è la casa del diavolo; e si è sì puzzolente, che gli angioli nolla possono sofferire a vedere nè udire. E sta ella tutto giorno in grande paura d'avere maggiore pene che non à; e si sarà tormentata, nella conpagnia del diavolo, di sua maladizione. Ella è la più maladetta cosa che Idio abia fatta, che ella sarà maladetta dal figliuolo di Dio, al dì del giudicio, inanzi gli angioli e inanzi gli arcangioli e tutte l'altre buone anime, che tutte avranno allegreza del suo male.
Lo re domanda: le buone anime non avranno duolo del male delle rie anime? Sidrac risponde:
In verità vi dico che le buone anime saranno nella volontà di Dio, e a tutti piacerà lo suo giudicamento degli suoi nimici, e ched egli si vendichi (497) di tutti coloro che sono istati contra lui; chè egli è diritto, e lo suo giudicamento si è diritto e leale. E quando le buone (498) anime vedranno che (499) Idio l'avrà giudicate in pene, elle si diletteranno di vederle, altressì come noi ci dilettiamo di vedere i pesci nell'acqua.
(497) e ch'egli si vendica C. L. — Abb. pref. le lez. del C. R. 2.
(498) rie C. L. — Abb. creduto di dover preferire la lez. del C. R. 2., anche per l'autorità del C. F. R. che ha: quant les bones armes.
(499) Meglio il C. F. R.: veront les felons.
Lo re domanda: che vale meglio o la santà o la malizia? Sidrac risponde:
Degna cosa è la sanità dell'anima che è pura e netta, e quella anima sarà nella conpagnia del cielo (500). Altressì come uno cavaliere che è forte e prode e è valente, e fosse della vostra masnada, e voi andasti in battaglia, bene vorresti ch'egli fosse della vostra conpagnia; e se egli fosse malato e fievole e debole, voi non vorresti che egli fosse presso a voi; simigliantemente (501) della sanità e della malizia; che sanità varrà meglio che malizia all'anima. Che l'anima ch'è malata, cioè di peccato, quella anima è della conpagnia del diavolo; e Dio non vuole che s'acosti a lui, se di quella malizia non guariscie. La sana, ch'è sanza peccato, vuole egli bene che sia apresso di lui. Eziandio al corpo vale meglio la sanità che la malizia, a coloro che la sanità e la forza usano bene per loro e per altrui. Gli rei, che lo bene non vogliono fare e fanno lo male, la malizia al corpo loro vale meglio che la santà; chè, per la fievoleza del corpo e della malizia, si ritragono di mal fare; e gli buoni non ànno briga delle loro rie opere, ch'egli fanno.
(500) Così hanno i due Codd. L. e R. 2. Ma la lez. è senza forse errata, e a corregg. giova riferire il testo del C. F. R. che ha: car l'arme chi est saine, elle est nete et pure; et celle arme sera en la compagnie Deu. Chi corr. ki. — E del pari ha il C. R. 1.: „Dengna cosa è la sanità dell'anima; imperciò ke l'anima k'è sana e necta, quella cotale anima saràe de la conpagnia di Dio.„ Ed esso C. R. 1. seguita: E l'anima k'ene amalata si è de la compagnia del diavolo; e Dio non vuole ke s'apressi a lui, se di chel male non guarisse.
(501) simigliantemente è C. R. 2.
Lo re domanda: che podere dona Iddio all'anima in questo mondo? Sidrac risponde:
Iddio à donato a ciascuna uno reame (502) a guardare e a governare; s'ella lo governa bene, quello reame che Idio l'à donato a guardia, ella sarà coronata e posta a sedere nella sedia reale (503), a grande allegreza e con grande laude, innanzi a Dio; e Idio gli dirà: amico, vieni inanzi, e ricevi la corona ch'io t'ò serbata, che l'ài bene lealmente guadagnata, e tu se' degna di questa corona portare. Lo reame è lo bene che 'l corpo fa; lo corpo è questo secolo, e la buona credenza che l'uomo à nel suo creatore, e a fare il suo comandamento (504). Che ciò che l'anima vuole, lo corpo fa alla sua volontà (505), che l'anima è lo re, e lo corpo è lo reame e lo comandamento di Dio. E se l'anima non governa bene lo reame che Idio l'à donato in guardia, ella sarà nel mal fuoco gittata; e però dobiamo noi lasciare l'opere del diavolo, e fare quelle del nostro criatore che ci à fatti, e fare i suoi comandamenti. E chi avesse uno suo grande amico, che gli facesse uno grande benefacto per lui, conciosia cosa ch'egli non sia di suo prode, anzi di suo travaglio, egli lo farebe volentieri per colui che bene gli fa (506). Dunque diricto è che noi crediamo il nostro criatore, e che noi facciamo i suoi comandamenti, che egli ci darà signoria sopra tutte le cose del mondo; e non ci comanda nullo travaglio, se non che noi lo crediamo, e che noi l'amiamo, e che noi non facciamo male per lo suo amore. Sappiate che quegli che verranno dietro a noi, egli saranno credenti in Dio. Loro domanderà più ch'egli non fa ora a noi; e saranno chiamati il popolo del figliuolo di Dio, lo veracie profeta. Egli a loro domanderà più che a noi, nè a coloro che inanzi a loro verranno; e più loro domanderà, chè lo servigio sarà più (507).
(502) regname C. R. 1.
(503) assettata in sedio di re C. R. 1.
(504) Abb. corretto questo periodo coll'aiuto del C. R. 2., del C. R. 1. e del C. F. R. Altri veda se abbiamo errato. Ecco le tre lezioni: Lo reame e ello bene che 'l corpo fa lo corpo e in questo secolo la buona credenza che l'uomo à nel suo creatore e facto il suo comandamento C. L. — Lo reame è lo bene che lo corpo fa lo corpo è questo secolo la buona credensa che l'uomo àe nel suo creatore àe fatto il suo comandamento C. R. 2. — Lo reame si è el corpo e 'l ben fare ke l'omo fa in chesto secolo e la buona guardia C. R. 1.— Le royaume est le cors afait en ceste secle et la bone garde et la bone creance che l'om a à son creator et à fair son comandement C. F. R. — Afait potrebbe essere errore per afaitié, afetié, poli, ajusté, da afaiter, orner, parer ec.
(505) che ciò che l'anima volle lo corpo alla sua volontà C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(506) Il senso di questo periodo riescirebbe oscuro se non lo chiarisse il C. R. 2., conforme al C. F. R.: — E chi avesse uno suo buono amico che gli facesse grande bene, e lo suo amico lo pregasse ch'elli facesse uno grande fatto per lui, conciosiacosa ch'elli non sia di suo prò, anzi di suo travaglio, egli lo farebbe volentieri per colui che bene gli fa. — Conciosiacosachè è traduz. erronea di ja soit ce que, sebbene, abbenchè. Meglio degli altri poi ha il C. R. 1.: Unde ki avesse uno buono amico, e pregasselo ke facesse uno gran facto per lui, avenga ke non fusse sua utilità, anzi fusse in suo affanno, elli lo farebbe volentieri, per colui ke ben li fae; molto magiormente ec.
(507) e più domanderà loro perchè 'l servigio sarà più grande C. R. 2. — a costoro domandarà più k'a noi e che a quelli ke apresso noi veranno, ke la comandigia sarà più grande C. R. 1. — Di comandigia non reca che un esempio solo la Crusca.
Lo re domanda: lo cruccio e la gioia onde viene? Sidrac risponde:
La gioia e lo crucio sono di molti modi: gioie sono di ricchezze e di guadagni e di buone novelle e di molti modi; lo cruccio viene di dannaggio e di perdite e di malizie e di paura e di molte cose. Ma l'uomo che avesse di queste cose cioè di sopra dette, della gioia e del cruccio (508), si aviene (509) per sè medesimo per due cose: di vivande e d'olore. Che se egli mangia buone vivande (510), sì gli viene buono sangue, che gli rinverdiscie lo cuore e fagli avere gioia. Lo cruccio viene di male vivande e di pesanti e grievi, ch'elle si muovono lo rio sangue e lo rio omore, e vanno intorno al cuore e lo rinfebiliscono (511), e faglielo grave, e allora si cruccia. E simigliantemente aviene del male olore, ch'egli l'amena al cervello e portalo al cuore, e fallo crucciare.
(508) cioè della gioia e del cruccio C. R. 2.
(509) se li aviene C. R. 2.
(510) buone vivande e umide C. R. 2.
(511) infievoliscono C. R. 2. — Abbiamo lasciato rinfebiliscono perchè lo crediamo traduzione di afebloient (da afebloir). Il presente capitolo manca al C. F. R., quindi non possiamo sapere quale fosse la parola francese corrispondente a rinfebiliscono. È noto che la Crusca registra infiebolire e infiebolito.
Lo re domanda: dopo lo tenpo che 'l figliuolo di Dio monterà in cielo averà istolomia (512) nel mondo per insegnare? Sidrac risponde:
Quando lo figliuolo di Dio monterà in cielo, si lascierà lo suo podere a' suoi XII apostoli, e quelli istabiliranno una casa che sarà chiamata dello figliuolo di Dio (513). Dopo loro verranno gli altri, che tuttavia lo comandamento loro seguiteranno uno grande tenpo, e saranno i primi che al figliuolo di Dio avranno creduto, e saranno di grande podere e di grande ricchezze e signoria; e poi diventeranno fievoli nella credenza del figliuolo di Dio e ne' suoi comandamenti, i quali avranno istabiliti i dodici apostoli; e non si vorranno amendare delle loro rie opere. Iddio per loro peccato gli distruggierà. Quelli saranno dell'arte della stolomia (514), perch'elli saranno molti savi e di grande provedenza.
(512) istrologhi C. R. 2. — estronomen C. F. R. — Crediamo che sia da correggere istrolomia. — Il prov. ha: estrolomia; e più sotto strolomia ha il C. R. 2.
(513) una casa che sarà chiamata lo figliuolo di Dio C. L. — e quelli stabiliranno uno che sarà chiamato lo figliuolo di Dio C. R. 2. — Lezioni erronee ambedue. Noi abbiamo creduto di ristabilire rettamente il senso, correggendo dello figliuolo di Dio, sull'autorità del testo francese: une sainte maison che sera apelée la maison dou fis de Deu; e del C. R. 1.: che sarà apellata la magione di Dio.
(514) Il C. R. 1. ha qui: astralumia.
Lo re domanda: chi bene nè male non fa è menato a peccato? Sidrac risponde:
Lo principe (516) de' ministri del figliuolo di Dio quelli l'acomanderà (517) a uno buono uomo che avrà nome Pietro (518); e dall'uno a l'altro sarà comandato (519), insino alla venuta del falso profeta che tutto il mondo divorerà; quelli sarà figliuolo del diavolo. Dopo la venuta del figliuolo di Dio M anni, crescerà peccato al mondo, fra 'l suo popolo, contra la fede, e sarà mescolato (520) tra' buoni, come i' loglio (521) tra 'l grano (522). E dopo lungo tenpo nascieranno due grandi colonne (523), che la fede di Cristo accrescieranno; e i miscredenti, che tra' buoni saranno, distrugeranno. L'una delle due colonne saranno apellate frati minori, e gli altri fratri predicatori (524); e saranno molto temuti per lo mondo, e povera gente saranno. I buoni gli ameranno e onoreranno e temeranno, per lo bene che faranno, e per la fede ch'egli acrescieranno; i rei gli temeranno, e onore e reverenza loro faranno, per la paura ch'egli avranno di loro; che per la gente di quelle due colonne (525) molti mali si lascieranno a fare, per la paura che i malvagi avranno di loro; ch'egli saranno la spada e la forza della casa del figliuolo di Dio, e aversari del diavolo di ninferno.
(515) Questo Cap. nel C. R. 2. e nel C. F. R. ha per titolo: Lo palagio del figliuolo di Dio a cui sarà accomandato quando elli verrà in terra? E questo titolo è necessario tener presente alla memoria, per intendere ciò che segue.
(516) principio C. L. — Abb. corr. col C. R. 1.
(517) lo comanderanno C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(518) È curioso a notare che, mentre i due Codd. L. e R. 2. sono affatto conformi al C. F. R., e il C. R. 1. è affatto diverso e nell'ordine e nella dicitura e nella mole, qui esso C. R. 1. ha, invece di Pietro, padre de' padri; e pere des peres ha il C. F. R., mentre Pietro ha pure il C. R. 2., come il L.
(519) Per accomandato. Comander franc. e comandar prov. hanno il senso il raccomandare.
(520) saranno anunziato C. L. — Abb. corr. col C. R. 1. — Il C. R. 2. ha: e saranno amischiati.
(521) gramegna C. R. 1. — La Crusca non registra che gramigna e gremigna.
(522) Aggiunge il C. R. 1.: et sarano famati per loro risia patarini. — La Crusca non registra famato, nè risia.
(523) Così hanno tutti i Codd.
(524) sarà chiamata la minore, l'altra l'amonestatore C. L. — Abb. corr. col C. R. 1. Pare che il traduttore non intendesse la parola amonesteors del testo francese, che vuol dire propriamente consigliere, da amonester (ad monitare) consigliare. — Il C. F. R. ha: amonesteors prechors. Prechor significa predicatore, da precher.
(525) che per quelle gente de le due colonne C. R. 1.
Lo re domanda se quelli che non fanno nè bene nè male è menato al peccato. Sidrac risponde:
Chi bene nè male non fa egli mena vita di bestia, e peggio che bestia; che se la bestia avesse iscienza in lei (527), farebe bene. Quelli che fa lo peccato, fa male; e quelli che lascia lo bene a fare, là ove egli lo possa fare (528), egli pecca simigliantemente. Come colui che à gran voglia di manicare, e egli passa per uno molto bello verziero, ove àe molti belli frutti, e lasciasi morire di fame, che non ne vuole toccare nè mangiare, egli fa male, quando egli no ne piglia e mangine, anzi che si lasci morire; chè magior male è di lasciarsi morire, che di mangiare il frutto.
(526) Nel C. L. il titolo del presente cap. è errato; cioè e stato dato a questo Cap. il titolo che appartiene al seguente LIII.; e ad esso LIII., il titolo del LIV.; mentre doveva avere quello del LII.
(527) en soi C. P. R.
(528) Abb. adottata la lez. del C. R. 2. — Il C. L. ha: la ond'egli lo possa fare.
Lo re domanda se la signoria de' fare asprezza o de' essere piatosa. Sidrac risponde:
La signoria si è dal comandamento (529) di Dio; egli comanda in terra giustizia; e se la giustizia non fosse tra le genti del popolo del figliuolo di Dio, sarebe a maniera di pesci, che lo forte mangierebe lo fievole, e lo grande lo piccolo (530). Tutte le giustizie debono esser fatte (531) per giudicare i rei a diritto e a ragione, e a ciascuno dare la sua ragione. Inanzi che lo figliuolo di Dio venga in terra, nascierà uno re molto buono e credente a Dio e suo profeta (532); e dirae nella sua profezia: benedetti sieno quelli che faranno giustizia, e che la manteranno a tutti i tenpi. Se lo malvagio è preso in alcuna malvagia opera, egli si die iudicare secondo sua uopera (533); e se lo signore vuole avere merciè di lui, e perdonagli una volta, egli lo puote bene fare; ma s'egli vi cade altra volta, egli è ben degno del suo merito (534).
(529) se dal cominciamento C. L. — Abb. corr. col C. R. 1., che concorda col C. F. R.
(530) troppo cresciarebbero e malifatori, che li forti mangiarebero li debili C. R. 1.
(531) Così ha pure il C. R. 2.; ma il C. R. 1.: tucta justizia dia essare forte. — E il C. F. R.: toute justice doit estre fort.
(532) Qui, come in parentesi, sia scritto nel C. F. R.: Roy Daniel.
(533) Abb. corr. col C. R. 1. Il C. L. ha: è ispento e lealmente judicare. — Ed errato è pure il C. R. 2.
(534) Tanto il nostro che il C. R. 2. hanno: degno del suo merito. — Ed eccone la spiegazione. Nel C. F. R. sta scritto: il est bien dignes de sa deserte avoir. — E siccome deserte avea il significato di merito e di ricompensa, il traduttore ha scambiato l'uno coll'altra. Ed infatti il C. R. 1. ha: è degno di ricievare guidardone di sua uopera. — Vale a dire, è degno di avere la sua ricompensa, la ricompensa di avere perdonato la seconda volta.
Lo re domanda: de' l'uomo fare bene a' suoi parenti e a' suoi amici? Sidrac risponde:
Buono e rio (535). Se gli tuoi parenti sono buone genti, e sono disagiate, e ànno perduto lo loro per disaventura, loro dei ben fare e consigliare e atare. E se i tuoi parenti e i tuoi amici sono rei, e perdono in male, per la loro volontade, grande malfatto fae chi fa bene loro, e tutto si perde; altressì come uno grande ciero di bella ciera, accieso inanzi a uno uomo cieco, che non vedesse lume, o come la candela allo lume del sole, ch'ella non à nullo valore. Simigliantemente aviene de' rei uomini, che si perde tutto, siccome la cera inanzi al cieco, e la candela inanzi al sole.
(535) Egli ene bene e si è male C. R. 1.
Lo re domanda che cosa è gentileza. Sidrac risponde:
Gentileza è podere e largheza e vecchia possessione d'avolo e di bisavolo. Quelli che à più di podere è più gentile. E si à anche altre gentileze. L'uomo che àe grande podere e è villano del suo corpo, sapiate che quelli non è gentile, anzi è ricco. Uomo di podere e savio e cortese e di buona aria (536) e bene insegnato (537), quelli puot'essere chiamato gentile uomo; che tutti siamo d'Adamo e d'Eva venuti, e fummo dal cominciamento del mondo; e quelli che à magior podere, e meglio insegnato, e più beni sono in lui, questi è gentile uomo.
(536) dibuonaire C. R. 1. — De bon aire si disse nell'ant. fr. per di buona indole; onde poi debonaire, per buono, dolce, affabile. Anche il prov. ha de bon ayre, ma non l'aggettivo debonnaire, rimasto esclusivamente al francese.
(537) Nell'ant. fr. trovasi adoperato come sostantivo il part. pass. del vb. enseigner, enseigné, nel senso di dotto, sapiente. E il trad., avendo trovato enseigné ha voltato in ital. insegnato. Insegnato registra la Crusca per ammaestrato, e per accostumato, scienziato, dicendo di quest'ultimo significato, ch'è maniera antica che viene dal Provenzale.
Lo re domanda: come fa freddo quando il tenpo è chiaro? Sidrac risponde:
Quando lo tenpo è chiaro e l'aria è pura e chiara, lo freddore (538) isciende dall'aria in terra, e caccia con travaglio (539) in terra lo calore. E quando l'aria è turbata (540) lo freddo non può venire giuso alla terra, lo calore della terra monta di sopra, e lo caldo viene; cioè a sapere lo calore del sole si de' intendere che scalda la terra di notte, quando fa lo suo torno.
(538) splendore C. L. — Abb. corr. col C. R. 2., sull'autorità del C. F. R. che ha: la freidor. Vogliamo notare che freidor è parola schiettamente provenzale. Il franc. ha froit, freit, froideur, froidour.
(539) Il C. L. ha: con travale (travail, franc.). — Abb. corr. col C. R. 2.
(540) Tutto ciò che segue di questo Cap. è tratto dal C. R. 2., essendo la lez. del nostro stranamente confusa ed errata.
Lo re domanda: puote l'uomo conosciere li buoni uomeni dalli malvagi per neuno segno? Sidrac risponde (541):
Li buoni uomini ànno allegri volti, quando egli ànno buona coscientia (542), e sono sicuri della perdurabile (543) vita; e li loro occhi sono isprendenti, e le menti sono molto misurevoli (544). E per li dolci coraggi (545) ch'egli ànno, si ànno dolci parole. Ma gli malvagi, per la ria coscientia (546) ch'egli ànno, si ànno molti scuri coraggi, e non possono essere istabili in loro fatti nè in loro detti; e si sono molti mordabili (547) e pieni di maltalento, e si vanno molto dismisurando (548); e ciò che ànno (549) in cuore dimostrano in loro faccia e in senbianti, in loro fatti e in loro detti (550).
(541) Il titolo del presente Cap. è errato nel C. L. — Abbiamo quindi posto il titolo come sta nel C. R. 1.
(542) Tutti e tre i Codd. L., R. 1., R. 2. hanno conoscenza. Ma oltre il senso, ci fa avvisati dell'errore il testo francese che ha: conscience; ed il C. R. 1. che più sotto ha: coscientia. Onde noi abbiamo corretto secondo quest'ultima lezione.
(543) permanevole C. R. 1.
(544) mesurable C. F. R., che nell'ant. fr. ha il senso di saggio, ragionevole, moderato, come mesure di saggezza, ragione. Anche il C. R. 2. ha misurevoli.
(545) Per cuore, secondo l'ant. significato di questa parola, sia in ital. che in franc. ed in prov.
(546) conoscientia C. L. — Abb. corr. col C. R. 1.
(547) mordables C. F. R. — Ma non trovo che il franc. ant. abbia questa parola, come non ha mordabili l'ital. — Nel C. R. 1.: mordaci.
(548) desmesureement C. F. R. Nell'ant. fr. desmesure ha il significato di disordine, ingiustizia; e desmesurer, disordinare. Qui dunque è da intendere vanno molto disordinando, commettendo disordine. La Crusca ha dismisura, dismisuranza e dismisurare, di cui reca l'es.: Se uom dismisura, Conservando leanza, Non fa dismisuranza. Rim. ant. P. N.
(549) ciascuno C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(550) Migliore e più conforme al testo francese è la lez. del C. R. 1.: et il veleno ched ène in loro coraggi si e' dimostrano in loro detti et in loro fatti.
Lo re domanda: sarà giammai rilevata la grandeza del diavolo altressì com'ella fu al mio tenpo? Sidrac risponde:
Li garzoni grideranno (551) Dio lo possente; e gli loro figliuoli, e gli altri che verranno dopo loro, torneranno alla ria credenza dinanzi, infino alla venuta di Giovanni. Elli faranno una città, nella quale avrà una torre di XL staggi (552) alta, nella quale regnerà lo più alto re del mondo del suo tenpo. Quelli farà una immagine, alla simiglianza del suo padre, e comanderà a tutte le genti che l'adorino come Idio.
(551) creiront C. F. R. — È evidente che il traduttore ha confuso creire (credere) con crier (gridare). Anche il C. R. 2. ha: gridano; ma dee correggersi crederanno.
(552) estages C. F. R.
Lo re domanda: perchè non fece Iddio all'uomo, quando la persona avesse mangiato una volta, ched elli se ne potesse istare una semana? Sidrac risponde:
La fame è una delle pene per lo peccato d'Adamo; che l'uomo fu così fatto, che, s'egli volesse, sarebe vivuto tutto tenpo sanza mangiare. Ma poi che fu caduto in peccato, non si potè rilevare a quello ch'egli avea perduto, se non per travaglio. E se cosa fosse che l'uomo non avesse fame nè sete nè freddo nè caldo nè altre cose necessarie, e non avesse bisogno, egli non avrebe cura di lavorare nè di travagliare così fattamente. E però gli diede il nostro Signore la fame e la sete e l'altre cose, però che, quando egli fosse costretto per questi bisogni, si ricoverasse ciò ch'egli avea perduto, che per pene e per travaglio gli conviene ricoverare.
(553) Il titolo del presente Cap. è tolto dal C. R. 1. Nel C. L. dice: Perchè non tolse Iddio all'uomo, quand'egli avesse mangiato una volta, ch'e' se ne potesse sofferire una settimana?
Lo re domanda: come muore altressì il ricco come il povero? Sidrac risponde:
Iddio à fatto lo ricco e lo povero d'una natura e di quattro alimenti, e sono tutti facti l'uno come l'altro; dunque la loro conparazione (554) è tutt'una; e quello che più il serve e lo suo comandamento fa, più gli dà; ma al fatto della morte sono tutti uno. Altressì come uno vasello di quattro bocche, che n'escie di tutte, simigliantemente alena lo povero come lo ricco, e mangia e bee (555), e à gioia e dolore e sospiri, e dormire e veghiare e ingienerare, e mani e piedi, e altre cose ànno altressì i poveri come i ricchi. Ma lo povero àe più forte compressione (556) che lo ricco, per lo travaglio che egli soffera. Ma alla morte tutti sono comunali, e la sua riccheza no lo potrebbe canpare uno solo punto.
(554) Anche il C. R. 2. ha: comperazione. Manca questa parola ai Codd. R. 1. e F. R. Noi crediamo che abbia da correggersi complessione, perchè più sotto, dove il nostro ripete comparisione, il C. F. R. ha: complecion; e il C. R. 1.: compressione.
(555) et mangia e beve, e sta famuloso e satollo C. R. 1. — La Crusca registra famulento, ma non famuloso.
(556) comparisione C. L. — Abb. corr. col C. R. 1.
Lo re domanda: dee l'uomo giudicare gli poveri come gli ricchi? Sidrac risponde:
L'uomo dee più forte (557) giustizia fare a' ricchi che a' poveri, e più gastigare; che della giustizia de' poveri i ricchi non ànno paura; anzi dice a sè medesimo: la giustizia è fatta sopra lo povero, ma io non potrei essere giudicato in questo mondo per la mia riccheza. E lo povero pensa e dice in sè medesimo: quando la giustizia istarà sopra lo ricco e possente, che farà sopra me, che sono povero uomo? E da l'altra parte aviene più volte che 'l mal fatto del ricco è magiore che quello del povero, perchè egli à più podere di malfare. E simigliantemente come Idio giudica così legiermente lo ricco come il povero, e più forte giustizia fare (558). Simigliantemente come quelli che crede più in Dio e falla verso lui, Idio gli dona (559) più che a colui che nol conoscie, e cui egli non à nulla comandato.
(557) rigorosa, severa.
(558) A correggere questo periodo non possiamo giovarci del C. R. 2., dove il capitolo manca; nè del C. R. 1. dov'è brevissimo; nè del C. F. R. che è indecifrabile. Dobbiamo quindi star contenti a riferire la lezione del T. F. P.: Et pour ce doibt on faire plus grant iustice du riche que du poure, car il a plus grant coulpe de mal faire, comme il a plus grant povoir de bien faire tout. Ainsi comme Dieu a iuge et ordonne la mort au riche comme au poure, aussi doit on iuger le riche comme le poure.
(559) Errore manifesto. — Il T. F. P. ha: demande.
Lo re domanda: dee l'uomo avere mercè del suo nimico? Sidrac risponde:
L'uomo dee avere merzè del suo nimico, lo quale à fallato verso di lui, se elli gli chiede merzè e perdono, conciosia cosa ch' (560) egli gli avesse ucciso il padre e lo figliuolo; chè dalla bocca del figliuolo di Dio sarà comandato e detto: perdono avrà dal mio padre chi perdona egli medesimo; perdonerà a coloro che gli misfaranno, quando egli gli chiederanno perdono. Quelli ch'è possente e signore di tutto, e che vendicare si può a sua volontà, perdona a' ma' fattori, quando perdonanza gli chieggiono: bene lo dobiamo noi fare; chè questo farà egli per dare exenplo al suo popolo, che perdonino a coloro che misfanno verso di loro. Bene dobiamo noi perdonare a chi perdono a noi ne dimanda.
(560) Il solito errore già notato indietro. Corregg. sebbene (ja soit ce che).
Lo re domanda: può lo reo uomo avere l'amore di Dio come il buono? Sidrac risponde:
Lo malvagio puote avere l'amor di Dio altressì leggiermente (561) come il buono; chè a Dio piacerà più la conversazione del rio che del buono, perchè lo buono è tutto suo, e lo rio àllo perduto (562). Simigliantemente colui che à perduto alcuna cosa, e egli la ritruova, egli à magiore allegreza di quella ch'egli à ritrovata, e àlla in suo podere (563). E Iddio chiama comunemente lo rio come il buono. Simigliantemente come una gente che sono in una nave in mare, e la fortuna è grande, e sono tutti ispogliati per paura, e per notare; lo mare porta la nave, e lo vento sospigne tanto, che la nave viene a terra, e fiede in una rôcca, e si ronpe, e tutta la gente n'escie fuori in una piccola piazza (564); e truovano due fiumi molti correnti: in su ciascuno fiume, uno ponte; l'uno de' ponti è molto fermo, e l'altro è molto debole, che non potrebe sostenere uno uccello. Di là dal forte ponte si à uno ricco uomo, e tiene molti vestimenti intorno di lui, e è in uno bello giardino. Egli chiama quella gente, ch'escie fuori di quella nave, e dicie loro: venite a me, e passate sicuramente su per quello ponte, e io vi menerò in questo giardino; e guardatevi di passare per quell'altro ponte, perchè egli è molto debole e molto pericoloso, sicchè egli non vi potrà sostenere; anche v'à grande fuoco; dopo lui si à gioganti con molti grandi uncini, che, così tosto come voi caderete nell'acqua, i gioganti vi piglieranno cogli uncini, e metterannovi in quello fuoco. E egli guardano, e vedono l'altro ponte, e la fralezza e gli gioganti e gli uncini e lo fuoco. Quelli che passeranno sopra lo forte ponte sono salvi, e saranno vestiti e messi nel bello giardino, con grande allegreza; e quelli che passano per lo debole ponte andranno nell'acqua, e li gioganti gli piglieranno cogli uncini, e metterannogli nel fuoco. La nave significa lo mondo; lo vento e lo mare significa lo tenpo che mena l'uomo alla fine; lo dispogliare significa la ira di Dio, quando l'uomo lascia lo bene e fa il male; lo ronpere in terra significa la fine della vita; i due ponti si è lo bene e lo male; lo buono uomo che siede in capo del ponte, che chiama la gente a ben fare, si è Iddio; gli vestimenti, di che egli vuole vestire la sua gente, si è la grazia; lo giardino si è lo paradiso; lo buono ponte si è lo buon cammino di Dio; lo rio ponte si è lo cammino dello 'nferno; i gioganti e gli uncini si sono i diavoli e gli loro ingegni; lo fuoco si è lo 'nferno. Chi vuole avere l'amore di Dio si passi al sicuro sopra il forte ponte, e sarà vestito di grazia di Dio, e sarà suo amico; e chi passerà sopra il debole ponte, egli sarà nimico di Dio e amico del diavolo, e sarà messo nel fuoco dello 'nferno per tutti i tenpi. L'uomo dee odiare l'amistà del diavolo, perchè egli fa male a' suoi amici, e mettegli nel fuoco dello 'nferno. Questa è malvagia amistà: dee l'uomo seguire tale amico?
(561) Per facilmente.
(562) Nel Codice pare che debba leggersi perdure; corretto da noi in perduto, sull'autorità del C. R. 2. e del C. F. R.
(563) Migliore la lez. del C. R. 2.: à magiore allegressa di ritrovare quello che avea perduto, che non à di quello che àe in suo podere.
(564) en une petite place de terre C. F. R.
Lo re domanda: come puote la creatura uscire della femmina ch'è piena nel suo corpo? Sidrac risponde:
La virtù di Dio e 'l suo podere è troppo grande: che, così come egli à podere di mettere dentro dal corpo, e uno corpo dentro a un altro, così à elli podere a fare uscire, a sua volontade, o vivo o morto. Quando la femina vuole partorire, tutte le sue giunte (565) s'aprono e allargano l'una dall'altra, salvo il mento (566), per la virtù di Dio, come una matera di pasta. E si tosto com'egli (567) averà l'aria, per la virtù di Dio, l'ossa gl'induriscono e diventano come noi siamo; e la femmina si richiude sanza niuna mancanza (568). Simigliantemente così è se l'uomo tirasse lo dito dentro una scodella piena di mele; inanzi lo suo dito si lorderebbe, e dietro non si lordasse, nè più nè meno come se non fosse toccato (569); simigliantemente si richiude la femmina dopo il partorire, siccome ella non avesse partorito, nè fosse stata aperta.
(565) giunture C. R. 2. — „Perchè sì forte guizzavan le giunte, Che spezzate averian ritorte e strambe.„ Dante, Inf., 19.
(566) Non sappiamo invero quello che qui abbia che fare il mento; ma mento ha pure il C. R. 2., e menton il C. F. R.
(567) Intendi: il figliuolo.
(568) bleseure C. F. R.
(569) A decifrare il senso di questo periodo non giova la lez. del C. R. 2.: simigliantemente così se l'uomo tirasse lo dito in dirieto a una scudella di mèle, inanzi al suo dito si lorderebbe, nè più nè meno come se non fosse toccato. — Nè chiaro è il C. F. R.: — ensement si com l'om traist son doy en une escuele pleine de mel, devant, son doit au tirer, s'ouvriroit, et après se recloiroit, come se il ne fust onques touche. — Ma, messo il testo francese della Riccardiana a confronto col francese della edizione Palatina, e corretto, il senso esce fuori abbastanza chiaro: tout ainsi come ung homme tiroit son doy parmy une escuele plaine de miel, devant, son doy au traire, il ouvriroit, et dessus se clorroit, comme s'il n'y eust pas bouté. — Che vuol dire: come un uomo che traesse il suo dito da una scudella piena di miele, il miele, nel trarre il dito, prima s'aprirebbe e poi si richiuderebbe, come se non fosse stato toccato. — Non sapremmo spiegare come il trad. abbia confuso lordare con aprire.
Lo re domanda: puote la femina portare più di due figliuoli a uno corpo? Sidrac risponde:
La femina può portare nel suo ventre sette figliuoli; chè la madre (570) della femina à sette camere (571); e in ciascuna camera puote avere uno figliuolo, secondo la volontà di Dio, primamente; e poi secondo la natura della femmina. Che se la femmina è di calda compressione, e desiderosa dell'uomo, una o due o tre delle sue camere s'aprono; e quando l'uomo s'acosta a lei, lo seme cade nelle camere che truova aperte, e elle si chiudono sopra, e pigliano; e se v'àe altre camere aperte, e l'uomo s'acosta altra volta a lei, quella notte o quello giorno o lo domane o lo secondo giorno, e lo seme vi cade entro, e ella si chiude, allora si ferma (572) la creatura; e tanto istà a nasciere l'uno dopo l'altro, quant'egli à penato a ingenerare. E non intendere già che ciascuna volta che l'uomo s'accosta alla femmina, e lo seme cade nella camera, ch'ella possa pigliare; chè conviene che l'uomo e la femina sieno di buona tenperanza. Chè se l'uomo è luxurioso, e giace volentieri colla femmina, lo seme cade nella camera fraile (573), e è cosa sanza niuno podere o forza, quella (574) non si puote pigliare per la sua fralezza (575). E se l'uomo è stato grande tenpo ch'egli non sia giaciuto con femina, e lo seme cade nella camera, quello seme è sì caldo e sì ardente ched e' la consuma e arde, e non si puote apigliare. E se l'uomo e la femina sono tenperati, e la femina sia di calda volontà, e' s'apiglia, perchè lo loro seme si è di buona tenpera; e conciepino (576) a quello acostamento lo figliuolo; e quello figliuolo sarà gioioso e allegro e di bello modo. E se egli s'acostano niquitosamente (577), e lo loro figliuolo sarà d'altrettale maniera. E se l'uno di loro è fello e l'altro gioioso, simigliantemente lo loro figliuolo sarà alcuna volta fello e alcuna volta gioioso. E se l'uomo e la femina pensano in una persona, o l'uno di loro, quello che più vi pensa, puote bene essere che lo loro figliuolo somiglierà quella persona ove egli pensano (578).
(570) matrice C. R. 1.
(571) camarelle C. R. 1.
(572) forma C. R. 1. — Il C. R. 2. ha: ferma.
(573) Fraile è parola dell'ant. fr. che significa frale, debole. — Il C. R. 1. ha: fievole e aguto; per uno strano equivoco del trad., il quale leggendo nel testo fr. foible et aigue ha volgarizzata quest'ultima parola per acuto, mentre invece aigue vuol dire acqua, e qui dev'essere stata usata per acquoso.
(574) Intendi: lo seme o la semenza (semence), come hanno i Codd. R. 1. e F. R.
(575) frailezza C. R. 2.
(576) concepono C. R. 2.
(577) corrucciosamente C. R. 1.
(578) Et se l'uomo e la femina pensano, al loro assembramento, in una persona, overo l'uno di loro pensasse ad altra persona, dico che quelli a cui ellino più pensano, lo fanciullo rasembrarà quella persona C. R. 1.
Lo re domanda: qual'è la migliore cosa che l'uomo possa avere. Sidrac risponde:
Lealtà è la migliore cosa che l'uomo possa avere in sè; che chi è leale a Dio è leale a sè medesimo e alle genti; e quella è la cosa che Iddio più ama. Per lealtà gli agnoli che sono in cielo non furono abattuti cogli altri, che furono abattuti, che non erano leali. Per lealtà scanpò Noè dal (579) diluvio; e Idio volle rienpiere lo mondo della sua generazione. Per lealtà la buona gente che nascieranno, profetezeranno (580) l'avenimento del figliuolo di Dio. Per lealtà la Vergine conceparà lo veracie figliuolo di Dio (581), che si lascierà morire per diliberare Adamo e gli suoi amici del podere del diavolo. E per lealtà i buoni che saranno e verranno dopo lui si donaranno a diversi martiri (582), per lo suo amore. Lealtà è altressì pura e degna e chiara e netta come il sole, che non resta d'intorneare, e fa lo suo torno a ciò che Idio l'à istabilito, ch'egli non possa lo stabilimento nè 'l comandamento di Dio trapassare (583).
(579) per lo C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(580) profetaranno C. R. 1.
(581) la Vergine sarà conceputo dal figliuolo di Dio C. L. — Abbiamo corr. col C. R. 1.
(582) si 'l merranno in diverse maniere C. L. — Abb. corr. col C. R. 1., sull'autorità del C. F. R. che ha: se livreront a divers martires por s'amor.
(583) ch'egli non passi lo stabilimento e lo comandamento di Dio C. R. 2. — che non trapassa neente il comandamento di Dio C. R. 1.
Lo re domanda qual'è la peggiore cosa che l'uomo possa avere in sè. Sidrac risponde:
In verità vi dico che la invidia è la (584) piggiore cosa che l'uomo possa avere in sè; che della invidia si genera avarizia e cupidigia e tradigione. E gli angioli che del cielo caddono, fu per invidia, la quale ebono verso Idio, lo loro creatore. Adamo primo nostro padre fu cacciato del paradiso e ispogliato della grazia di Dio per la invidia. Lo diluvio (585) coperse lo mondo, cioè a intendere lo popolo che erano inanzi noi, che erano cupidi del mal fare. La cupideza si è figliuola della invidia, che di lei disciende; e per invidia e cupideza molti ne perdono i loro corpi, e la grazia che Idio à loro donata. Tre grandi città nascieranno al mondo: le due saranno, inanzi a l'avenimento del figliuolo di Dio, distrutte per cupideza di malfare: l'una sarà per fuoco, l'altra sarà per acqua; l'altra sarà distrutta, dopo la venuta del figliuolo di Dio, per ispade. E per cupidizia del male fare e per invidia molti mali avengono.
(584) Manca al nostro invidia è la. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(585) diavolo C. L. — Abb. corr. col C. R. 2., sull'autorità del testo francese che ha: le deluge.
Lo re domanda come puote essere l'uomo leale. Sidrac risponde:
Leale puote essere l'uomo legiermente, per molti modi: primieramente credere nel suo creatore, che lo creò, e disformare (586) lo dee, quando suo piacere sarà; e credere ch'egli sia tutto possente, sopra tutte le cose del mondo; e che egli à fatto tutte le cose, e che egli è degno e puro; e ch'egli non unque cominciamento nè fine nè mai non avrà, e tuttavia si è, fue, e tuttavia sarà; e lascierà lo male e farà lo bene; e lascierà lo scuro per andare al chiarore; e lascierà la puzza (587) e andrà al buono odore; cioè a intendere, lascierà lo peccato e farà lo bene, e lascierà la 'nvidia e la cupidizia, e piglierà pazienzia e astenenzia e sofferenzia; chè chi à in sè queste tre cose, egli è leale, e per lealtà puot'essere coronato in cielo, tra gli angioli, innanzi a Dio a faccia a faccia.
(586) Per distruggere; come dire, disdire; fare, disfare; così formare (creare), disformare. La Crusca registra disformare nel senso di difformare, render deforme, e per esser differente. Il Gherardini (Supplimento ec.) disformare, mutar la forma di che che sia. „Ma così morte l'essenza disforma.„ Zenon. Piet. font., p. LXXX.
(587) putidore C. R. 1.
Lo re domanda: la prodezza e la paura di che aviene? Sidrac risponde:
La prodeza e la paura vengono dalla conpressione dell'uomo. Che se lo corpo è di buona tenperanza, di quattro conpressioni, l'una comunale come l'altra, lo corpo non è nè ardito nè codardo (588). Che se le quattro conpressioni sono comunali, che lo freddo non vince lo caldo, nè lo caldo l'umido, nè l'umido lo secco, lo cuore non si muove poco nè molto per loro; e se il caldo il vince (589), e lo secco l'umido, lo sangue si muove di tutte cose fare, e non teme colpo di morte, e diventa ardito. E se lo freddo non vince lo caldo, e 'l secco l'umido, lo cuore diventa freddo e molle e pauroso, e diventa codardo di tutte cose fare; che le collere nere e lo sangue sono quelle che fanno avere lo cuore (590) codardo, quando egli ànno podere sopra gli altri omori innanzi detti (591).
(588) Che se 'l corpo dell'uomo ène di buona natura, compressionato di quattro compressioni, non è ardito nè codardo C. R. 1.
(589) et se il caldo vince il freddo C. R. 1.
(590) manca lo cuore al nostro. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(591) che la collera nera et il sangue sono quelli che fanno l'uomo ardito et il quore, quando sopramontano l'altre; la collera gialla et la fremma sono quelli che fanno il quore codardo, quando sormontano l'altre sopra dette C. R. 1.
Lo re domanda: la lebbra e la tigna di che aviene? Sidrac risponde:
La lebbra viene se la femina avesse due cose: l'una è se la femina avesse lo tenpo suo (592), e l'uomo s'acosta a lei, e ella ingenera, i suoi fiori (593) sono caldi e secchi; e lo figliuolo ch'ella avrà, conviene per diritta forza e per la natura che sia tignoso e lebbroso; che lo figliuolo si nodriscie in quello medesimo fiore della femina. Ma se li fiori fieno di buona conpressione, lo figliuolo non avrà niuno male nè niuno pericolo. Perciò non si dee l'uomo acostare alla moglie, quando è lo suo tenpo (594). E quando egli s'acosta a lei, si dee acostare a tale intenzione e con tale volontà, d'aver frutto per lo suo creatore adorare. Quando egli sentirà che la femina sia pregna, non si dee più acostare a lei nè toccalla carnalmente, infino che ella non abia partorito; e dopo lo partorire quaranta giorni. Questo è lo comandamento di Dio, ch'egli mandò a Noè, per lo suo angelo benedetto.
(592) Queste due cose avengono quando la femina àne sua privata malattia C. R. 1.
(593) Il C. L. ha: figliuoli. — Ma abbiamo corr. col C. R. 2., perchè il C. R. 1. ha: fiore, e il C. F. R.: flors.
(594) Quando ella àne il suo fiore C. R. 1.
Lo re domanda: tutte le cose Idio fece, furono fatte dal cominciamento del mondo? Sidrac risponde:
Iddio fece tutte le cose; ma alcuna cosa ce n'à, che non fu già fatta dal cominciamento del mondo; ma, per lo tenperamento di sua natura, sono poi fatte mille e mille, che furono poi create per la volontà d'Iddio, come sono asini e giomente e pelli, che furono dopo lo mondo fatti per lo sudore dell'uomo (595). Vermini furono poscia fatti per la carne fracida. Furono dapoi fatti altri vermini assai, uccelli volanti e molte altre cose, che molto sarebe lunga cosa a contalle; ma in qual modo sieno, Dio gli à fatti; per la sua volontà sono creati.
(595) La lez. del C. R. 2. è perfettamente uguale alla nostra, e nel C. R. 1. manca questo Cap. Non resta dunque che a consultare il C. F. R., e l'ediz. Palat. Ma questa se la sbriga senza parlare d'asini nè di giumenti. E nel C. F. R. sta scritto così: Dieu fist toutes cosses dou monde; mais aucunes ya que nefurent pas faites dou comencement dou monde; mais par le consentement Deu et per sa volente, et per latemprement des natures sunt depuis faites M. et M. furent depuis crees por la volente de Deu dame. Et poils furent puis fait de la suor de l'omo. — Io suppongo quindi che per errore sia stato scritto Deu dame in luogo di dame Deu, che trovasi usato nell'antico francese, e che è conforme al nostro domene Dio; e che il traduttore abbia letto, invece di dame, dane, d'âne, onde gli sieno usciti dalla penna gli asini e le giumente. Notisi ancora l'errore di avere volgarizzato poils (peli) per pelli.
Lo re domanda: chi vi nodriscie lo frutto della terra? Sidrac risponde:
Iddio gli nodriscie e gli pascie. Egli àe stabiliti quattro elimenti, per lui servire e onorare. La terra gli sostiene e gli guarda; l'aria gli nodriscie e gli sveglia (596); l'acqua gli pascie e gli verdiscie (597); lo sole gli scalda e gli crescie. Simigliantemente le continue (598) vivande, che l'uomo vuole cuocere, vi conviene di quattro elimenti: vasello e acqua e fuoco e aria; nè altrimenti non si potrebe cuocere (599).
(596) l'esveile C. F. R.
(597) rinverdisce C. R. 2.
(598) comuni C. R. 2.
(599) Meglio nel C. F. R.: Encement come une viande che l'om velt cuire, si convient IIII cosses: vaissel, aigue, feu, air; autrement ne ce puet cuire.
Lo re domanda: le bestie come arabbiano? Sidrac risponde:
Le bestie arabbiano alli (600) XIX giorni della luna del mese di giugno, che (601) apare una stella, verso lo levante, in cielo. In quello giorno o in quella notte le bestie che la veggiono nell'onbra dell'acqua arabbiano; e simigliantemente, se elle mordono alcuna persona, ella sarà arrabbiata, o alcuna bestia. Altressì guardisi del piscio (602) del topo, che nol tocchi. Chè da ivi a XL giorni gli conviene guardare (603) delle grosse vivande d'olio e di carne e di pescie e di pane, ove levame sia facto (604); nella fine di XL giorni tutta la notte veghiare; e se la rabbia s'apressa sì forte, che non puote guarire nè dormire, anzi si pena, e dannaggia l'altre genti, ànno paura della sua morsura (605), l'uomo dee pigliare uno suggello (606), e mettervi entro di sottile cenere; e poi la metta in sulla bestia o uomo che sia; incontanente morrà, o si dilibera di quella pena. Le genti simigliantemente si diliberano di lui; ch'egli potrebe molte genti e bestie damangiare (607), per la sua morsura rabbiosa.
(600) manca alli al nostro. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(601) manca che al nostro. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(602) pissace au rat C. F. R. — Sebbene non trovi pissace nell'ant. fr., pure credo che siasi potuto usare, vedendo pisser registrato dal Du Cange (a pissare).
(603) se convient garder C. F. R. — si de' guardare C. R. 2.
(604) ove levame sia stato C. R. 2. — Levame è trad. di levain (lievito).
(605) perchè non faccia danno a niuna altra persona C. R. 2.
(606) uno staccio C. R. 2. — e questa crediamo la vera lezione. Nel C. F. R.: I. sayas. — L'ant. fr. ha séas, saas (staccio); séel (sigillo).
(607) danneggiare C. R. 2. — Damangiare è trad. del franc. damagier.
Lo re domanda: chi vive più che cosa che sia in questo mondo? Sidrac risponde:
L'aguiglia vive in questo mondo più che cosa che sia; che l'aguiglia vola e monta tutto giorno nell'aria, e lo vento la rinfresca: per questa ragione dee ella più vivere (608). I serpenti vivono assai, chè tutto loro dimoro si è sotterra e sotto pietre; che lo freddore della terra è tutto giorno fresco e novello (609), e sono più che l'anguille (610): questo è l'ordinamento di Dio. Lo serpente vive più di mille anni, e ciascuno anno gli nascie una tacca (611) nella testa, grande come una lenticchia; e quando egli à conpiuto i mille anni, si diventa egli uno fiero dragone. Non è già che tutti i serpenti vivono cotanto; ma alcuni serpenti v'à che tanto vivono; che l'uno muore, e gli altri sono uccisi; gli altri, divorati da uccelli e da bestie, in questo modo sono consumati.
(608) Nel Tesoro di Brunetto Latini: „li aigles vit longuement, porce qu'il renovele et despoille sa viellesce„ — pag. 197. — Il T. F. P. ha: et l'air et le vent le refroide et le tient freschement, et pour ceste raison il doibt plus viure.
(609) Credo da correggere: che per lo freddore della terra ec. — Nel T. F. P.: — Le serpent demeure tousiours soubz terre et soubz les pierres et boit la froidure de la terre, et est tousiours fraiz et nouveau.
(610) Et si vit plus che l'aigle C. F. R. — Nel C. R. 2.: e sono più che l'aquile.
(611) Manca tacca al n. c. — L'abb. agg. dal C. R. 2. — B. Latini dice del basilisco che ha: „tacche bianche sul dosso„. (trad. del Giamboni); „blanches taches„ nell'orig. franc.
Lo re domanda se Dio pascie tutte le cose. Sidrac risponde:
Tutte le cose che Idio à fatte egli le pascie, che egli fece tutte le cose del mondo, e si le partì alle genti, (613) e gli diede iscienzia di travagliare e di guadagnare e di vivere e di mangiare; e a l'altre creature diede che si mangiassono bestie con bestie, e uccelli con uccelli, e pescie con pescie; mangia l'uno l'altro; e a loro à dato iscienzia di mangiare lo frutto della terra; in quello modo passano loro tenpo.
(612) Nel C. L. questo cap. è intit.: Lo re domanda le cose che Iddio fece pensò egli? — Abb. corr. col C. R. 2., che è conforme al testo franc.
(613) Manca al nostro alle genti. — Abb. suppl. col C. R. 2.
Lo re domanda: le bestie e gli uccelli e' pesci ànno anima? Sidrac risponde:
Iddio non donò anima se non all'uomo e alla femina solamente, che è signore dell'altre criature; che lo signore dee avere in sè magiore dignità che lo servo. Se lo servo avesse in sè la dignità e lo podere che à lo signore, dunque sarebe egli signore e possente come egli. L'altre criature movevoli che Idio à fatte, elle non ànno già anima, anzi ànno alena movibile (614). E quando elli sono morti, si diventa quella lena neente. Simigliante (615) tutte l'altre criature, salvo l'uomo e la femmina.
(614) Il nostro testo ha: innabile. — Abb. corr. col C. R. 2., sull'autorità del C. F. R.: aleine mouable; e dell'ediz. Palatina: alaines mouvables.
(615) Simigliante sono C. R. 2.
Lo re domanda: il popolo che sarà al tenpo di Dio morranno tanto quanto noi facciamo? Sidrac risponde:
Altressì come noi siamo magiori di persona, ch'egli non saranno, simigliante alziamo più lunga vita, ch'egli non averanno; chè lo mondo è più forte al nostro tenpo, che egli non sarà allora; la terra rende più lo suo frutto che non farà allora; e la pianeta che ora governa lo mondo, sarà più forte che quella di quel tenpo; e il vento è più forte che allora non sarà; l'acque sono più dure che non saranno allora. Perciò dobiamo noi più vivere per natura, che quelli che saranno a quello tenpo; che, in quello tenpo, chi viverà CL anni, sarà tropo vivuto; e tutto giorno andrà menomando di loro vita e di loro forza e di loro corpo, e cresciendo insieme e in vizii. E simigliantemente l'altre criature andranno menomando di loro vita e di loro corpo e di loro forza.
Lo re domanda: lo mondo quanto viverà (616)? Sidrac risponde:
Lo segreto di Dio è sì grande e sì profondo, che niuno lo potrebbe sapere, se non quelli che più ama e più tien cari. Simigliantemente lo vostro grande segreto niuno lo puote sapere, se non quelli che voi più amate, e che voi volete: o sia vostro figliuolo o vostro fratello, o sia vostro amico. Quelli avrà uno buono amico, cui elli amarà (617) molto; e quelli richiederà di sapere i segreti del re, e quelli gli dirà; e quelli sarà savio e provedente, e penserà in sè medesimo: lo re m'ama e vuolmi bene, e perciò m'à egli detto lo suo segreto; e perciò non sarebbe senno che io diciessi al mio amico lo suo secreto. Ma per fare a piacere al mio amico, e perch'egli sappia che lo re ama me, e mi dice lo suo segreto, io gliele dirò un poco iscuramente, perch'egli non possa intendere come nè quando. Similmente è del segreto di Dio, ch'egli nollo dirà se non fosse suo buono amico e suo figliuolo, cioè a intendere lo verace profeta, che verrà nella Vergine. Quelli saprà tutto lo segreto di Dio, che egli medesimo sarà (618); e sarà intra 'l popolo come uomo; e farà tutto quello che farà uomo sanza peccato. Anche fiano altri, sapranno lo segreto di Dio, cioè fieno i suoi ambasciadori, e saranno quelli che profeteranno la venuta del figliuolo di Dio. Nè eglino sapranno (619) già tutto lo segreto di Dio, ma tanto solamente ne sapranno, quanto Idio loro per lo suo sancto spirito manderà. Ma lo figliuolo di Dio, che sarà signore e possente sopra tutto, come quelli che sarà egli medesimo (620), e 'l figliuolo di Dio sarà domandato in terra: lo mondo durerà settemila anni? E egli risponderà che sì. E detto li fia: e più? E egli risponderà, sicuramente; perchè niuno sapia lo sagreto del padre (621). L'uomo non può intendere nè sapere lo quando sarà o può essere; chè essere può centomilia anni, e può essere uno giorno, o più o meno; che questo rimane alla volontà di Dio. Ma bene troviamo che Iddio per la sua grazia à facto (622) VII pianete, per governare lo mondo. Egli le stabilì alla sua volontà, e comandò che ciascuna di loro governasse lo mondo mille anni; e quando ciascuna di loro avrà conpiuto e servito mille anni, e settemilia anni saranno conpiuti, farà poi del mondo a suo comandamento, e farà come a lui piacerà, e saràe signore e possente di tutto. E egli stabilio le pianete a governare lo mondo, e lo suo podere lo governa (623).
(616) basterà C. R. 2.
(617) quelli avrà C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(618) Sottintendi Dio.
(619) Nè egli non saprà C. L. — Abb. corr. col C. R. 1.
(620) Anche qui pare da sottintendere Dio.
(621) Giova riferire la lez. del C. R. 2.: Ma il figliuolo di Dio, che sarà signore e possente sopra tucto, si come che saprà elli medesimo e che saprà tucto, quando lo figliuolo di Dio sarà domandato in terra e detto: lo mondo durerà egli mVII. anni? E egli risponderà che si. E detto anco li fie più volte, risponderà oscuramente, perchè nullo nollo sappia, nè sapere possa lo segreto del padre. — Ed ecco ora la lez. del C. F. R.: — Mais le fis de Deu, chi est seignor et tout puissant cil meysmes, saura tout. Au fis de Deu sera domande en terre: durera le monde mVII. ans? Il respondera: oil ou plus, et le dira oscurement.
(622) a fare C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(623) Anche il C. R. 2.: lo governa; ma nel C. F. R.: les governe.
Lo re domanda: à egli altra gente che viva oltre la terra, in mare? Sidrac risponde:
Oltre a mare à mille dugento (624) isole, nel mare del levante; alquante ne sono abitate; e altre s'abiteranno. Alcune ve n'à che sono abitate d'una gente molta grande, alla nostra fazione, ma non sono grandi di tre palmi o meno (625); e si ànno barba di fino (626) al ginocchio, e ànno i capelli infino alle calcagnia; e non vivono se non d'erbe e di carne; e le loro bestie sono piccole, alla loro misura; e si ànno uno linguaggio loro proprio; e si non ànno niuna credenzia, se non come bestie. Anche v'àe un'altra isola, presso alla terra, dov'egli à una gente piccola d'un palmo e di meno; e non vivono se non di pesci; e stanno e durano in acqua come pesci, di dì e di notte; e sono a maniera d'uomini e di femine; ma egli sentono come bestie. Anche v'à una ysola in mare, ove à gente alla nostra fazione e alla nostra grandeza, e non ànno se non un occhio nella fronte; e ànno linguaggio propio; e sono molti pilosi; e temono molto noi, che abiamo due occhi; e non vivono se non di carne, e delle pelli si vestono. Un'altra ysola v'à, che v'à gente che ànno coda, a modo di montoni (627), che non vivono se non di pesci. Un'altr'isola v'à, che v'à gente che portano una ispina sotto lo fondo delle natiche, lunga d'uno palmo e grossa d'uno dito (628); e non possono sedere in piano, ma in aspro luogo, dove la spina possa andare giuso; e sono tutti pilosi come montoni, e non ànno altro vestimento; e sono poca gente; e non vivono se non di corbi, chè altre bestie non ànno. Anche v'à un'altra gente, alla nostra fazione, che non finano di conbattere, ch'ànno uno grande uccello (629); e abitano in tane, per paura degli uccelli, la state, perch'egli n'ànno grande dottanza; e il verno, per lo grande freddo. La gente gli vincono, e gli uccidono, e mangiano, e serbano, per vivere la state. Un'altra ysola v'à, dove abitano uccelli che covano l'uova al fuoco (630), e la loro piuma non si puote ardere (631). Un'altra ysola v'à, ch'ànno i volti come cani. Anche ci à un'altra gente in questa terra fermata (632), che credono il sole e la luna e l'idole; e fanno sacrificio al nimico (633) del loro corpo. E sono in una provincia che fanno al loro sacrificamento uno tavoliere di legno, alto di tre passa, sì grande che vi cappia (634) cento uomini o più. E quelli che si vuole sacrificare invita i suoi amici, che gli facciano conpagnia al suo sacrificamento; e fanno grande sollazo e grande festa otto giorni; e a' nove giorni salgono tutti in sull'altare, quelli che gli vogliono fare conpagnia al suo sacrificamento; e l'altra giente fanno grande sollazzo intorno al tavoliere; e si fanno mettere legne tutto intorno intorno in grande abondanzia (635); e poi fanno acciendere lo fuoco tutto intorno intorno. E lo signore del convito, che si vuole sacrificare, sì si leva ritto, e dicie al popolo: io salto nel fuoco per amore di quella ydola, del sole e della luna. E gli altri si levano, e gridano lo suo amore, e saltano nel fuoco, e tutti s'ardono in quello fuoco, e vanno al diavolo. L'altre genti fanno grande sollazzo intorno di quello fuoco, tanto che sono tutti arsi; e poi pigliano la cenere e fannone arlique. E simigliantemente fanno le femmine. Altre maniere di gente v'àe che non le conto.
(624) mille trecento due C. R. 1. — M. et CC. et VII C. F. R.
(625) Al C. R. 1. e al C. F. R. manca molta grande: onde in essi corre meglio il senso.
(626) infino C. R. 1.
(627) gente cornute in guisa di montone C. R. 1.
(628) gente che portano brocchi sopra loro fondamento, et ène d'uno osso d'uno palmo, della grossezza d'uno dito C. R. 1.
(629) con uno grande uccello C. R. 2. — con una grande generatione d'uccelli C. R. 1.
(630) Ancora v'àe un'altra isola, nel (così) quale abita uno ucciello, il quale uccello cova nel fuoco, o fae i suoi pulcini nel fuoco C. R. 1.
(631) Plumee fr. deve essere stato usato nel senso di plumail che significava ogni specie di animale che avesse piume. Infatti nel T. F. P. si legge: et font pigeons au feu, et leurs pigeons ne ardent point.
(632) Terra ferma hanno altri Codd.
(633) au deable C. F. R.
(634) che vi capiono C. R. 2.
(635) et sie fanno istipare tutta la tavola d'intorno di legna secche C. R. 1.
Lo re domanda: perch'alcuno uomo è nero e altro bianco? Sidrac risponde:
Per tre ragioni è l'uno bianco e l'altro nero. L'una per lo seme (636); che se il padre è bello (637), e ingenera per grande volontà, per diritta natura conviene che la criatura sia del colore del padre. E se la femina riceve volentieri il seme con grande volontà, e la volontà del padre non vi sia, per diritta natura conviene che la criatura sia della somiglianza della madre. E se l'uomo e la femina sono amendue di grande volontà, lo loro figliuolo sarà del colore del padre, perchè egli disciende e viene di tutti i suoi menbri e nerbi e vene; e per diritta natura conviene che sia di quello medesimo colore, e della somiglianza della madre, perchè la madre lo riceve come pasta, sanza nulla figura (638); e poi nel suo corpo piglia egli figura; e però conviene che la figura sia somigliata a lei (639). E l'altra maniera si è che se la femina è di calda conparazione (640), la creatura s'arde (641) nel suo ventre, e diviene bruna. L'altra cagione si è per cagione della terra e dell'aria, conviene che la criatura diventi nera o bruna.
(636) per la sembianza C. R. 1. — E questa crediamo la vera lezione, confermata dal C. F. R. e dal T. F. P., che hanno: semblance.
(637) bruno C. R. 2. Lezione confermata qui pure dal C. F. R. e dal T. F. P.
(638) la madre lo riceve senza nulla fazzone C. R. 1.
(639) sia sembiante a lei C. R. 1.
(640) compresione C. R. 2. — complessione C. R. 1.
(641) l'enfant se art en son corps, et devient brun T. F. P.
Lo re domanda: fellonia di che aviene? Sidrac risponde:
De' malvagi omori viene la fellonia; che alcuna volta rinflabisceno (642) al cuore come fuoco; e ismuove lo cuore e iscalda, e lo fa per lo loro inflabiamento (643) diventare nero e scuro; e per quella iscurità diventa pensoso e malinconoso. Poi quella iscurità risponde al cervello, e 'l cervello risponde agli occhi e agli altri menbri, e sì gl'ingrossa, per diritta forza (644) conviene che egli sia fello e malinconoso. E quando gli omori cessano, e lo rinflabiamento (645) si spegnie, lo cuore riposa, e la scurità si parte da lui, e gli menbri e gli occhi perdono la grossezza (646), e diventano gioiosi e allegri.
(642) remflanbent C. F. R. — Nell'ant. fr. flamber, flambier, flamble, flambe; onde il remflabent ed il rinflabisceno del n. t., per rinfiammano, che leggesi nel C. R. 1. Meglio nel T. F. P.: reflambent.
(643) e smuovono il quore, e sie lo scaldano, e si lo fanno per loro iscaldamento C. R. 1.
(644) che per diritta forza C. R. 1.
(645) rinfiamamento C. R. 2. — infiammamento C. R. 1.
(646) gordezza C. R. 1. — gordesse C. F. R. — Da gourd, gonfiato per l'umidità. Cf. Dict. de l'Acad. Franc., Suppl.
Lo re domanda: perchè sono le bestie di molti colori? Sidrac risponde:
Perciò ch'elle non sono alla simiglianza di Dio, si conviene ch'elle sieno di molti colori; e perciò ch'elle pascono l'erbe calde e umide e fredde e secche. Quando le bestie sono grosse (647) e pascono l'erba, della magior parte de l'erbe ch'ella mangia, conviene ch'ella abia magiore simiglianza. E se la magior parte è calda e secca, conviene che la bestia sia nera; e se la magior parte è solamente calda, conviene ch'ella sia vermiglia; e s'ella è umida, ella sarà taccata; e s'ella è fredda ella sarà bianca: e se le quattro nature dell'erbe saranno comunali, e' sarà vaio (648); e altrettanto quanto ella averà pasciuto dell'una erba più che dell'altra, di quella averà più colore nella lana (649). Simigliantemente aviene delle bestie salvatiche, come delle dimestiche e degli uccegli: ciascuno à sua natura; e tutto è l'ordinamento e la volontà di Dio; che tutto questo à egli fatto per lodo della sua gloria. Egli à fatto molte diverse erbe, e bestie e uccelli e pesci e gente, in quello modo che a lui pare, l'uno bello e l'altro laido, alla sua volontà.
(647) pregne C. R. 1.
(648) vaiolato C. R. 1.
(649) Il C. L. ha: e altrettanto quanto egli avrà più nella lana. — Abbiamo supplito col C. R. 2.
Lo re domanda: quegli che mangiano e beono più che mestieri non è loro, fanno male? Sidrac risponde:
Quelli che mangiano più che non deono, fanno gran male al corpo e all'anima, e fanno peccato, e guastano la vivanda di che un altro uomo potrebe vivere. Quelli sono chiamati ghiottoni, e peggio che bestie; e sì sono incontro lo stabilimento di Dio; che Idio à ordinato che l'uomo dovesse mangiare e bere tanto, quanto mestiere loro fosse; e lo rimanente serbare per altre volte, e per darne a coloro che n'ànno mestieri. E in questo mondo l'uomo dee mangiare una volta o due il dì; e chi altrimenti farà, non farà bene, anzi fia chiamato ghiottone, e peggio che bestia, che non à senno come l'uomo, quando è satolla si riposa, infino ch'ella à fame; e per diritta natura l'uomo lo dee meglio fare, e se altrimenti lo fa, si è più da biasimare che una bestia, che non à iscienza nè senno.
Lo re domanda: che cosa è la migliore e la piggiore cosa che sia (650)? Sidrac risponde:
La lingua è lo migliore e lo pigiore menbro del corpo; che per la lingua puote l'uomo avere bene e amore e onore e profitto e alzamento (651) dalle genti; e puote l'uomo avere da' suoi e dagli altri prò e onore di buono uomo (652), conciosia cosa che (653) egli non sia. E per la lingua l'uomo puote avere onta e male e villania e perdizione del corpo; chè tal parola potrà la lingua dire, che tutto il corpo ne potrà aver gran dannaggio; altressì come per la buona lingua puote l'uomo avere onore e bene. La lingua non à osso, ma ella fa ronpere il dosso (654). Più legiermente, più salvamente (655) puote l'uomo dire lo bene che 'l male.
(650) Manca al n. t. cosa che sia — Abb. suppl. col C. R. 1.
(651) essaucement C. F. R., che propriamente significa esaltazione, da eshaucier, essaucier, innalzare, esaltare.
(652) Nel n. t.: e puote l'uomo da' suoi uomini laude. — Abb. suppl. e corr. col C. R. 2.
(653) Il solito errore per sebbene.
(654) ma ella fane ronpere reni e dosso C. R. 1. — Nel T. F. P.: la langue n'est pas d'os, mais elle fait rompre les reins et le dos. — Questo proverbio è sempre vivo sulla bocca del popolo.
(655) salvamente hanno tutti i Codd., ed è trad. di sauvement che vuol dire utilmente, sicuramente, senza pericolo.
Lo re domanda: chi dà magiore iscienzia o migliore, le cose calde o le cose fredde? Sidrac risponde:
Le calde vivande iscaldano lo corpo, e nodriscono gli menbri e le vene, e iscalda lo cuore e lo cervello, e gli rischiariscie; e però rende più iscienzia la calda vivanda. La fredda vivanda induriscie gli nerbi e le vene e lo cuore e lo cervello; e simigliantemente lo rinfalabimento de' rei omori rinfredda lo cuore; e lo cervello e i menbri di quello freddore induriscie, e conviene ch'egli sia un poco grave (656).
(656) Gioverà riferire la lez. del C. R. 1.: — La fredda vivanda indura li nervi e le vene e 'l coraggio e 'l celabro, e ismuovelo e infiammalo di malvagi omori, et raffredda il quore e 'l corpo e 'l celabro e li menbri; et di quello freddore ène durezza del quore e del celabro. — Il C. R. 1. corrisponde letteralmente al T. F. P.
Lo re domanda: quando l'uomo è fello e crucciato e malinconoso, come si potrebbe ciò cessare? Sidrac risponde:
Primieramente dee l'uomo pensare al suo creatore, e ringraziarlo altamente quando lo degnò di fare alla sua similitudine; e ricordarsi della morte ch'egli dee fare, che l'uomo non puote scanpare nè ischifare; e ricordarsi di coloro cui Iddio à magagnato di loro nenbri, e malizia di loro corpi, e povertà più che a lui (657); e non ricordarsi di coloro che sono più ricchi di lui; e legere i comandamenti di Dio; e ascoltare e udire le buone ragioni, e di buone autoritadi; e dimorare in buone luogora; e così puote egli ischifare la fellonia e lo cruccio e la malinconia.
(657) et ricordarsi di quelli che Dio àne fatti magagnati i suoi nenbri, et malati di loro corpi et povari C. R. 1. Nel C. F. R. leggesi: ceaus a cui Deu a done mahain. — Mahain ant. fr. significa propriamente difetto corporale. Il prov. ha il verbo maganhar. Ved. quello che il Muratori (Antich. Ital., Diss. XXVI) scrive sulla etimologia della parola magagna; e ciò che ne dice il Burguy (Gramm. de la Lang. d'oïl).
Lo re domanda: che vale meglio o l'amore della femina o l'odio? Sidrac risponde:
La buona femina dee l'uomo amare e onorare e pregiare e avanzalla (658) e tenella per donna. E per la buona conpagnia della femina buona, l'uomo non puote avere se non bene e onore e avanzamento e buono pregio, ch'ella tiene lealtà al suo conpagnio, e sì lo difende di tutto male al suo podere, altressì come la madre guarda lo suo figliuolo di tutto male. L'amore della femina ria dee l'uomo schifare, e fuggire da lei come dal fuoco; e s'egli no la può fuggire, elli si dia alungare da sua volontade (659); chè la malvagia femina non è altro che la ria cosa; chè l'uomo non puote avere da lei se non onta e vergogna tra la gente, perch'ella non tiene niuna lealtà al suo conpagno, nè più nè meno come la calcatrice (660) fa all'uccello, che gli fa bene e gli rimonda la bocca de' vermini, e ella l'uccide. Calcatrice si è una bestia che sta nell'acqua, con grande testa e lunga; e due volte l'anno inverminiscono molto (661); e ella escie alla rena, e si corica al sole, e apre la bocca. E allora viene uno uccello, che Iddio àe ordinato, e sì gli rimonda la bocca di vermini. Quello uccello àe uno isprone (662) in capo, a modo di cresta di gallo, e entragli nella gola alla calcatrice, e mangiale tutti i vermini; e la calcatrice chiude la bocca, per mangiare l'uccello che tanto bene gli averà facto; l'uccello sente lo malvagio guiderdone che gli vuole rendere; allora fiede dello sprone che à nel capo, nel palato della calcatrice; e la bestia, che sente lo mal colpo dello uccello, si apre la bocca, e l'uccello se n'escie fuori. Tale guiderdone rende la ria femina all'uomo, che bene le fa; e però la dee l'uomo ischifare, lei e le sue volontadi.
(658) Intenderei: renderla superiore agli altri.
(659) Nel n. t.: alunga almeno la sua volontade. — Abbiamo corr. col C. R. 1. che è conforme al C. F. R.
(660) Tanto il C. R. 1. che il C. R. 2. hanno: calcatrice; strano errore, che possiamo correggere mercè il testo fr., dove leggesi coquatrix, sapendo che cocatrice nell'ant. fr. significò coccodrillo. Cf. anche Du Cange, Gloss. a Cocatrix. — Brunetto Latini fa del Cocodrille e del Cocatris due animali distinti. „Or avient que quant li oisiaus qui a non strophilos vuet avoir charoigne por mangier, il boute la bouche dou cocodrille, et li grate tout belement, tant que il oevre toute sa gorge pour le grant delit dou grater. Lors vient . i . autres poissons qui a nom ydre, ce est cocatris, et li entre dedanz le cors, et s'en ist de l'autre part, brisant et derompant son oste, en tel maniere que il l'ocist„ Li Tresors, p. 185.
(661) e due volte l'anno le 'nvermina tutto dentro da la bocca C. R. 1.
(662) uno brocco C. R. 1.
Lo re domanda: quando l'uomo è gioioso e allegro, ed egli oda alcuna cosa che non gli piaccia, come si cruccia egli? Sidrac risponde:
Lo cuore si è maestro e signore di tutto il corpo; lo corpo si è servente e guardia del cuore, e ciò che piace al cuore piace al corpo (663). E gli occhi sono guardatori (664); e gli orecchi sono messaggi del cuore; le mani sono difenditori del cuore; la testa è lo castello del cuore. Quando il cuore ode alcuna parola che gli sia o buona o ria, egli nolla puote sapere se non per li suoi anbasciadori; e se gli piace, egli ingioiscie e allegra; tutti i suoi menbri ringioiscono e allegrano della sua gioia; e li suoi aversari sono isconfitti. Quando gli suoi ambasciadori gli portano cosa di cruccio, della ria anbasciata egli triema, e si smuove, e tutti i suoi menbri sono crucciati e paurosi, e del suo cruccio triemano altressì come fa egli. Gli suoi aversari ànno grande allegreza, e sì si muovono contro di lui, e rinfiamano come egli fae (665). Se lo cuore è savio e provedente, e ama il suo castello e li suoi uomini, egli riceve tutto lo biasimo e il carico e il cruccio sopra sè, e si tiene fermo e costante, e gli suoi uomini riposano, i suoi nimici sono isconfitti. E se lo cuore è fievole e vano, gli suoi nemici rinfalabiliscono (666), sicchè egli non à podere di sostenere gli altri suoi nimici. E li suoi uomini, che sono altressì frali e vani come egli, non possono soffrire, e allora si muovono a malfare. E così riceve lo signore lo danno; che se il cuore soffera, il corpo non si muterà (667).
(663) Lo quore si è rôcca e fortezza della vita, e signore del corpo; et ciò che piace al quore si piace al corpo C. R. 1.
(664) guidatori C. R. 2. — guides T. F. P. — specchi C. R. 1.
(665) e infiamallo C. R. 2. — e infiammano lui C. R. 1.
(666) e suoi nemici lo rinfiammano C. R. 1.
(667) che se il cuore soffera lo danno, il corpo non si muta C. R. 2.
Lo re domanda se dee l'uomo amare la femina, e la femina l'uomo sanza biasimo. Sidrac risponde:
L'uomo e la femina si deono amare secondo Idio, inperò ch'egli gli à fatti conpagni e d'una cosa, per avere frutto, che ringrazino lo suo nome. E per questa ragione l'uomo dee avere colla femina buono amore e leale, secondo lo comandamento di Dio, e così la femina a l'uomo, secondo lo mondo, per molti modi: primieramente dee l'uomo amare per la sua lealtà e per la sua bontà e per le sua biltà e per la sua chiareza e per gli suoi doni e per lo suo buono servire e per lo suo senno. L'uomo che àe una femina che tali costumi à in lei, o l'uno di questi, elli non è già da biasimare, secondo il mondo, s'ella non à già altra reità in lei che spegna la buona opera, se elli l'ama, ched elli l'ama per le sue buone opere (668). La femina dee amare l'uomo, secondo il mondo, primieramente per lealtà e per bontà e per biltà e per valore e per doni e per cortesia e per suo servigio e per suo senno. Femina che abia uomo che alcuna di queste cose sieno in lui, e non abia in lui altri costumi che spegnia li buoni, ella non è da biasimare, se ella l'ama, chè ella l'ama per una bella cosa ch'è in lui. Uomo che odia la femina, e la femina che odia l'uomo, e non ànno niuno rio costume in loro, sappiate ch'egli sono molto da biasimare e da riprendere.
(668) A spiegare la confusione di questo periodo gioverà riferire la lez. del T. F. P.: L'home qui ayme femme qui sesdictes choses a en soy, ou aulcune de ycelles, il n'est mie a blasmer, selon ce monde, et s'elle n'a nulle aultre mauvaise coustume en soy, qui esteigne la bonte, car il l'ayme pour les bones coustumes qui sont en elle.
Lo re domanda: onda viene la grasseza del corpo? Sidrac risponde:
La grassezza viene dalle flemme dolci; quando lo corpo è flemmoso, elle sono dolci, elle tornano per lo corpo; in questo modo signoregiano il corpo, e lo 'ngrassano (669). Quando le flemme sono insalate, elle ardono la carne e sì s'aconpagniano colle fleme gialle; e le gialle si spandono poi per li menbri e per le vene, e fanno grande male a quello corpo. L'uno diventa magro e l'altro rognioso, ed altri escie del corpo, e là ov'egli escono, la carne diventa nera (670). E grande bene fanno a quello corpo dell'uscire, che uccidere lo potrebono; e agli altri aviene una rogna secca e minuta, che apena ne guariscie mai.
(669) La grassezza dell'uomo povaro disagiato viene di flemma dolce, che si espande per lo corpo, et amorta il calore dell'altre collare; e in tale maniera signoreggia il corpo e si lo ingrassa C. R. 1.
(670) et aulcune fois yssent hors du corps par quelque lieu, et en devient la chair noire la par ou ilz yssent T. F. P.
Lo re domanda: dee l'uomo gastigare la femina, e conbattella, quand'ella falla? Sidrac risponde:
Della buona femina lo suo fallo è piccolo; e quando ella l'à fatto, ella si pente molto tosto, e sì si vergognia. L'uomo la dee allora gastigare, e amaestrare con belle parole, e mostrarle ragioni e utilitade, siccom'ella à mal fatto; e allora riconoscierà lo suo mal fatto, e gastigherala (671). La ria femina, quando ella falla, ella non à vergognia, anzi si glorifica e si vanta e si diletta; e quando l'uomo la gastiga, ella peggiora; e quando l'uomo la batte, ella peggiora; e quando l'uomo la proverbia, ella peggio fa. L'uomo la dee gastigare con belle parole e con promessa e con doni due volte o tre o cinque o dieci; e se poi non si gastiga (672), l'uomo la dee fuggire e lasciare; e altro gastigamento non ci à alla ria femina ch'è della volontà del diavolo e in cui lo diavolo abita; l'uomo si dee dilungare da lei e dalle sue volontadi.
(671) Meglio nel C. R. 2.: et ella stessa si castigherà.
(672) et se a tanto non si amenda C. R. 1.
Lo re domanda di che cosa escie gelosia, e perchè è geloso l'uomo. Sidrac risponde:
Molte maniere sono di gelosia; che l'uomo à in Dio e nella sua fede (673). Quando l'uomo disputa con altrui, e parla di cosa che non è e non puote essere, dice male di sua fede e di sua ley; sapiate che là deono essere molti gielosi e di grande cuore (674). Anche dee l'uomo essere geloso per lo suo buon amico: questa gelosia è buona e leale, e di buono amore, puro e netto, sanza niuna bruttura. Anche ci à altre maniere di gelosia, che è di lordo cuore e di malvagio amore, che fortemente e lungamente s'asettano (675) al cuore. Questo è gelosia di femina, che consuma il cuore e la mente in perdizione, e chiamasi follia, che il cuore fa di rei pensieri; allora gli omori bollono e rinfrabiano (676). Allora lo corpo e di mangiare e di bere s'astiene, e perde lo suo diletto e si confonde. Ma legiermente ne può essere dilibero, se egli vuole, che egli de' pensare un poco in sè medesimo, che egli fa male, e tutta la sua angoscia e lo suo travaglio non gli vale nulla. E se la femina è propia, egli dee gittare a non calere (677), e gittare la soma di dosso in terra, e pensare ch'egli si dee guardare al meglio sè medesimo che un altro uomo; e non gratti (678) più la gelosia, che chi più la gratta, più la prende e più arde. E si dee pensare ch'egli non è solo al mondo, e in questo mondo e in poco tenpo puote essere dilibero. E se la cosa ch'egli ama non è propia sua, sapiate ch'egli si travaglia di grande follia, e è diritto folle e stolto, quand'egli diventa geloso dell'altrui cose, per perdere lo suo tenpo in grande angoscia e in grande travaglio, altressì come quelli che non fina nè dì nè notte conbattere a uno scudo e a uno bastone contra lo vento.
(673) Sottintendi: quella che. — Nel C. R. 2. si ripete: la gelosia che ec.
(674) Confessiamo di non intendere quello che qui siasi voluto significare. — Il C. R. 2. concorda col n. t. Forse qualche lume a questo oscuro periodo potrebbe venire dal C. F. R.: la gelousie che l'om a de Deu et de sa foy, chant l'om la despite et parle d'une cosse qui non est ni ne puet estre, et dit mal de sa foy et de sa loy; saches la doit l'om estre mout durement gelous et de grant cuer.
(675) Anche il C. R. 2. ha: s'asettano. Errore che si spiega col testo francese: saisissent le cuer; essendo, se non erriamo, evidente che il traduttore, non conoscendo il significato del vb. saisir, lo ha voltato per s'asettano.
(676) reflambent C. F. R.
(677) il la doit geter a noncaler C. F. R. — Nel fr. ant. mettre à nonchaloir significava obliare, disprezzare. È chiaro che qui pure il traduttore non intese il testo, e credè di volgarizzare alla lettera.
(678) Anche il C. R. 2. ha qui gratti e più giù gratta. — Nel C. R. 1. e nel T. F. P. manca questo periodo; il C. F. R. ha grater e grate. Potrebbe questo essere un modo proverbiale, quasi a dire: non istuzzichi di più la gelosia. Ma noi crederemmo piuttosto che nel testo fr., invece di grater, avesse a leggersi guarder (serbare, conservare); e che l'errore del cod. fr. sia stato copiato dal volgarizzatore.
Lo re domanda: dee l'uomo amare lo suo buono amico? Sidrac risponde:
L'uomo de' amare lo suo buono amico lealmente e di buon cuore, e fargli piacere di suo podere, e portare del suo carico o fascio, che nulla cosa è che lo buon amico vaglia (679). Non già tutti quelli che sono amici, chè amici sono perchè lo loro profitto lusinghi l'uomo; e per lo suo pro fare gli mosterrà bello senbiante, e non gli cale di quello consiglio che egli gli dà, o sia a suo pro o suo dannaggio; e non gli cale che di lui avegna, ma ch'egli possa fare lo suo prode; si lo seguita in tutte le sue follie; e quelli pensa in sè medesimo ch'egli sia suo buono amico, ma non è, anzi è suo grande nimico. Altre maniere ci à d'amici, siccome di manicare e di bere, e di più maniere; e s'egli avesse mestiere di tale amico, egli non trovarrebbe niente quello che li bisognasse (680). Di tale amico l'uomo si dovrebe molto guardare.
(679) car il n'est chose qui vaille le bon amy C. F. R.
(680) Abb. adottata la lez. del C. R. 1. — Nel C. L. leggesi: egli si troverebbe nulla di tale.
Lo re domanda: può l'uomo fare lo suo profitto sanza travaglio? Sidrac risponde:
Da poi che Adamo mangiò lo pome in Paradiso, lo quale Idio gli avea difeso, d'allora innanzi niuno pote fare lo suo profitto sanza travaglio, che inanzi bene lo potrebe aver fatto. Niuno uomo è nè non nascierà, che possa suo pro fare sanza travaglio. Si conviene che l'uomo pure si travagli di suo corpo: e' richi, di loro cuore e di pensieri travagliano alcuna volta; altressì conviene travagliare lo ricco come il povero, che meglio vale che lo travaglio sia primaio, lo merito poscia (681). Altressì come due uomini andassono per due cammini: l'uno troverrà a uno miglio chi 'l metterà a cavallo, e grande bene e onore gli farà, e l'albergherebbe; domane troverrà al camino chi maggiore onore gli farà e magiore riposo; lo terzo giorno troverrà più di bene; e il quarto e il quinto e il sesto giorno troverrà una gente che gli faranno onta, e sì lo inpiccheranno per la gola. Sapiate che quello onore e quello agio è stato molto rio, che tale fine avrà fatta. L'altro uomo che va per l'altro camino, lo primo giorno troverà una gente che lo battesse molto forte e noll'albergasse, e l'altro dì trovasse peggio, lo terzo e 'l quarto e 'l quinto andasse più pegiorando, e 'l sesto giorno trovasse una grande conpagnia di gente che venisse contra lui con grande allegreza, e coronerebbollo re, e darebogli grande podere. Sapiate che quello travaglio e quello disagio sarebe istato buono, che a tale fine è venuto. Altressì come aviene in questo secolo: chi vuole avere pro grande e durevole, si conviene ch'egli si travagli per Dio del cielo suo criatore, altressì come l'uomo si travaglia in questo mondo, per questo poco di profitto che abbiamo; falla chi si fida: e' non è durabile (682).
(681) Crediamo utile riferire la lez. del T. F. P.: Adonc convient il que les poures si travaillent pour leur prouffit, et les riches travaillent de pensees et aulcunes fois de corps.
(682) Il C. L. ed il C. R. 2. hanno: per questo poco di profitto che a nome falla chi si fida e non è durabile. — Il C. R. 1. e il T. F. P. mancano di questo periodo. Nel C. F. R. si legge: por cel poi de profit che nos avons; et por ce est fol chi se en fie; car il nen est neent durable. — Noi, sulla scorta di quest'ultima lez., correggiamo a nome in abbiamo; lasciando il resto quale è nel C. L.
Lo re domanda: dee l'uomo fare bene e dare carità a' poveri? Sidrac risponde:
Si veramente dee l'uomo fare bene alla povera gente, chè Idio à date le riccheze a' ricchi perchè ne dieno a' poveri, e per atagli. Lo ricco dee pensare che 'l povero è nato d'Adamo e d'Eva altressì com'egli, e è fatto alla similitudine di Dio come egli; e che la riccheza che Idio gli à donata non è a lui, se non tanto solamente per lo suo corpo e per la sua anima, se egli vuole. Quando egli morrà, non porterà con lui nulla; ma, altressì come egli venne povero e ignudo, povero n'anderà; e però de' egli di quello bene ch'egli àe farne bene alle povere genti; e quando egli lo fa, lo dee fare umilmente, sanza niuno argoglio e sanza niuna mostranza, e sanza niuno broncio (683).
(683) reproche C. F. R. e T. F. P.
Lo re domanda: come si dee l'uomo contenere con tutta gente? Sidrac risponde:
Quando l'uomo è tra genti, egli si dee contenere saviamente e cortesemente, con bella cera e con bella contenenza; e parlare a misura (684) e a ragione, quando tenpo è, e ascoltare la ragione dell'altra gente, conciosia cosa ch' (685) egli non vi sia diletto, che ciò è grande senno e cortesia, d'ascoltare quelli che parla. E anche si dee l'uomo contenere sanza niuno orgoglio, conciosia cosa ch' (686) egli sia gran signore, che tanto come egli è più possente, dee essere più cortese e più umile. E in questo modo sarà egli tenuto cortese e gentile e di buona aria (687). Quando egli à sua ragione a dire, egli dee pensare infra sè medesimo in che modo dire la dee, con bella cera e con belli sembianti e con grande cuore. E non ispaventare e vergognare di nulla, che molte volte l'uomo che à il diritto, e dice la sua ragione spaventatamente e vergognosamente, egli perde la sua ragione e 'l suo diritto. E quando l'uomo è tra' fatti (688), s'egli si può contenere saviamente e cortesemente, con suo pro e con suo onore, egli lo dee fare, se egli vede che dannaggio non gli venga; e s'egli vede che 'l suo senno nè la sua cortesia non gli vale nulla, egli si dee contenere follemente, inanzi che lo male gli venga: tra buoni, buono; tra li rei, reo, se la sua bontà e lo suo senno non gli vale (689).
(684) misurevolmente C. R. 1.
(685) Per sebbene.
(686) c. s.
(687) debonaires C. F. R.
(688) E quando l'uomo entra a' fatti C. R. 2.
(689) Questo strano consiglio del savio Sidrac è in parte spiegato dalla lezione del C. R. 1.: si dia contenere follemente, siccome elli sono..... intra' buoni, buono, e intra' folli, folle. — Infatti anche il C. F. R. ha: entre les fol, fol.
Lo re domanda: quando lo ricco perde la sua riccheza val meno, e quando il povero diventa ricco val più? Sidrac risponde:
Quando lo ricco perde la sua ricchezza, egli perde lo suo onore e lo suo podere e il suo senno e la sua cortesia, e diventa istolto; e non si chiama nimica a consiglio, come dinanzi; e ciascuno s'alunga da lui, perch'egli perdè la sua memoria e lo suo onore; e niuno pregia le sue parole, e non è bene ascoltata, anzi è tenuta per nulla; e si diventa codardo e vile; da tutta gente èe disonorato. Il povero, quand'egli diventa ricco, egli diventa savio e cortese, conciosia cosa ch' (690) egli sia folle o villano; e si diventa prode e valente; e la sua parola è ascoltata e udita; e tosto truova amici e benevoglienti e servidori; e ciascuno s'accosta volentieri co' lui; e ciascuno gli fa onore e reverenzia; e si è ispesso a consiglio chiamato. Lo ricco si è altressì come uno vasello di terra, che è adornato di pietre preziose e di fino oro e di grande ricchezze, e poi è gittato nel fuoco, e tutta la riccheza si perde e si consuma: lo vasello che è di terra che avea le riccheze acattate, diventa terra e nulla. Si che tutta la riccheza di questo secolo non è già di coloro che l'ànno, anzi l'ànno in prestanza: siccome uno mercatante che signoreggia lo castello d'uno ricco uomo, e non à di quello se non quello ch'egli travaglia, e vive di quello; e quando lo ricco uomo vuole pigliare lo suo, lo mercatante è tutto fuori dell'avere, ma tanto àe, ch'egli è bene vivuto di quello avere. Altressì sono le genti di questo secolo, se non tanto come egli sono in vita, cioè ch'egli fanno la loro volontade; quando egli muoiono, altressì poveri vanno come egli vengono. Ma lo povero che fue ricco, è più gentile che quelli che non ebe unque nulla.
(690) Anche qui per sebbene.
Lo re domanda: la malvagia maniera e' costumi donde viene? Sidrac risponde:
Della volontà dell'uomo e della sua malizia e del suo malvagio cuore, che tutto escie di lui, ch'egli àe lo senno che conoscie, che egli àe malvagia maniera e costumi; e ch'egli lo può bene lasciare, se egli vuole pigliare lo buono costume, e fare bene. Che quelli che àe malvagio costume in sè, bene non puote fare nè dire, nè bene avere, nè buone lode avere dalla gente, nè bene rispondere di cuore; che tuttavia lo suo cuore pensa a mal fare, e si è tuttavia in grande travaglio; e consuma lo suo cuore, e usa lo suo tenpo a mal fare. Altressì come colui che puote andare sicuramente per uno piano con piccolo cammino, e egli vae per dirupi e per grande montagne, e fa gran camino, e mettesi in pericolo, altressì aviene di quelli che fa la ria costuma e lascia la buona.
Lo re domanda: lo ferro ch'è forte e duro, come fue primieramente fermato il martello e le tanaglie e l'ancudine? Sidrac risponde:
Iddio fece tutto; e sepe bene che l'uomo avea bisognio (691) in questo mondo. Sì lo mandò Adamo a insegnare per lo suo agnolo (692), che egli prendesse lo ferro, che era come rena, e facessene ancudine e martello e tanaglie, e quello che bisognio gli era, e che di ciò servirà lo mondo, tanto come egli durerà. E Adamo fece lo suo comandamento. E diventò poi così duro, come egli è ora. Quando venne el diluvio, Noè mise nell'arca delli stovigli (693), che furono fogiati con quelli, e l'uno coll'altro dureranno infino alla fine del mondo.
(691) di ciò che l'uomo ebbe bisogno C. R. 2.
(692) Trad. letterale del C. F. R.: si le manda Adam enseigner per son angle. — Meglio nel C. R. 1.: Et sie mandò Idio ad Adamo uno angelo che li disse, ecc.
(693) Corrisponde al C. F. R.: mist en l'arche de ceaus ostils qui furent ec. — Ostil, ant. fr. significa utensile, strumento dell'uso domestico. — Nel C. R. 1. si legge: e quando venne il diluvio, Noè mise le dette ferramenta nell'arca, e duraranno sempre, infino alla fine del mondo.
Lo re domanda: quelli che giurano lo loro Iddio fanno egli male? Sidrac risponde:
Di quelli che giurano lo loro Idio falsamente, quale egli sia o buono o rio, fanno molto grande male; ch'egli nol tengono già per rio, anzi lo tengono per buono. S'egli giurano falsamente per cupidigia, e conoscono bene che egli giurano falsamente, quelli sono diavoli e peggio che miscredenti, perch'egli falsano lo loro Idio per cupideza. Conciosia cosa ch' (694) elli sia malvagio, per buono lo tengono (695) elli; anche sapesse elli ch'egli fosse malvagio, e si spergiurano (696), per falsare la gente, e ellino peccano fortemente, per falsità ch'egli fanno alla gente. Quelli che non ànno fede nè lealtà, non dovrebono essere creduti fra la gente, di cosa ch'egli dicano. Anzi dovrebono essere tenuti peggio che una bestia; nè affidare (697) nè asicurare non si dee uomo in loro; chè quando il loro Idio falsano per cupideza, bene lo faranno a uomo.
(694) Il C. R. 1. ha qui: già sia ciò che.
(695) tengo C. L. — Abb. corr. col C. R. 1.
(696) spergiurassero C. R. 1.
(697) di fare C. L. — Abb. corr. col C. R. 1. — Il C. F. R. ha: afier; che spiega l'errore del n. c.
Lo re domanda: de' l'uomo essere casto di tutte cose? Sidrac risponde:
L'uomo dee essere casto del suo corpo e di tutte cose: primieramente di luxuria, nè di giurare male, nè di riguardare nè udire male, nè pensare male, nè andare in malo luogo, nè mangiare in male, nè dormire in male, nè consigliare in male, nè bere in male nè più ch'egli suole, nè vestire in male, nè togliere in male. Di tutto questo dee l'uomo essere casto, e di molte altre cose. Chi così farà, quelli sarà quelli cui Iddio formò alla sua figura (698). Chè Idio à dato a ciascuno senno e sapere di schifare tutto questo; e se egli lo fa, egli è amico di Dio e degno della sua conpagnia, quando tenpo sarà.
(698) sigurtà C. L. — Abb. corr. col C. R. 2., confermato dal C. F. R.
Lo re domanda: con cui dee l'uomo andare e cui dee l'uomo schifare. Sidrac risponde:
L'uomo dee andare nella bella rugiada e nella bella verdura, e dee l'uomo schifare d'andare sopra il fuoco ardente; chè chi va sopra la rugiada e sopra la verdura, non può avere niuno male e va sicuramente; e quelli che va sopra lo fuoco, non puote avere se non male e danno. Cioè a dire: l'uomo dee amare la buona gente e andare in loro conpagnia, perch'egli non potrà andare se non bene, e sarà salvo e sicuro, come quelli che va sopra la rugiada. E quelli che vanno in buona conpagnia, avranno tutto bene e lodo dalla gente; e quelli che vanno colla ria conpagnia, conciosia cosa ch' (699) egli sieno buona gente, si non possono avere se non male e onta e vergogna e biasimo e rio lodo, e saranno dispregiati in fra la gente. E però de' l'uomo amare i buoni, e tenegli presso; e non gli caglia s'egli è povero o ricco; e odiare i rei, e schifagli.
(699) benchè C. R. 2.
Lo re domanda: che vale meglio, o riccheza od onore? Sidrac risponde:
Riccheza si è corporale, e onore si è spirituale. Chi à la ricchezza, si può aver quello che mestiere gli è all'anima e al corpo; egli troverrà chi gli farà piacere e servigio per la sua ricchezza; e non puote essere sì cattivo, che egli non abia ciò che mestieri gli fa al corpo; e la sua riccheza si potrà molto adagiare (700). Il povero che non à se non onore, poco gli vale; che dello onore che le genti gli fanno non potrà essere satollo nè ben vestito, chè l'onore vae al vento, che è spirito (701). Egli non è si bene tenente come lo ricco; che meglio vale che l'uomo dica ch'egli sia ricco villano, che povero onorato.
(700) È da correggere colla lez. del C. R. 1.: et per sua ricchezza si poterà molto adagiare. — Adagiare per prendere i suoi agi; come aiser del C. F. R., per mettre à l'aise. L'ital. ha anche: agiare.
(701) ène uno vento C. R. 1.
Lo re domanda: de' l'uomo portare onore al povero come al ricco in giustizia? Sidrac risponde:
Chi lealtà vuol fare, egli dee altressì giudicare lo povero come lo ricco. E in giudicamento non dee stare già lo povero in piede e lo ricco a sedere; anzi de' comandare al povero e al ricco di stare in piede; e intendere e ascoltare così la ragione del povero come del ricco. E l'uno e l'altro debono essere al giudicamento comunali, chè la giustizia si è Iddio, e però si dee fare lealmente, altressì come Idio giudica lealmente a tutti, alla morte, al povero come al ricco; che niuno nol puote ischifare nè scanpare.
Lo re domanda lo povero se si diletta nella sua povertà, come lo ricco nella sua ricchezza. Sidrac risponde:
Li poveri si dilettano nella loro povertà, più che gli ricchi nella loro ricchezza; chè i ricchi sono più cupidi che i poveri. I ricchi non possono tanto bene avere, ch'egli non disidirino più; similemente come l'affamato e lo satollo; che quelli che è satollo, è agiato; e quelli che è affamato, è disagio; lo ricco non si puote satollare di riccheza; e lo povero non puote avere sì poco del suo, ch'egli non si diletti a magiore gioia. Altressì come uno uomo ch'è stato in infermità uno grande tenpo, e egli vede intorno a lui altrui sano e lieto; sì tosto come l'angoscia e lo male l'à lasciato uno giorno o due, egli è più ad agio e più gioioso che quelli ch'è stato tuttavia sano e allegro. E così si diletta lo povero di cento danari, chi glieli donasse, come lo ricco di mille marche d'oro, in sua riccheza.
Lo re domanda: dee vantarsi l'uomo di quello ch'à fatto? Sidrac risponde:
L'uomo non si dee vantare di quello ch'egli avrà fatto; e se egli lo fa, egli farà dispiacere a Dio e onta a sè medesimo. E s'egli è prò e valente, e egli si vanta, egli fa come vile e codardo, e le genti lo spregiano direto da lui (702), conciosia cosa che inanzi non gli dicono. E quello valore tengono per codardia, perchè i codardi si vantano, perciò ch'egli non ànno niuna prodeza in loro; e si credono fare tenere prò e valenti per li loro vanti (703); e per questo sono tenuti più vili ch'egli non sono. Ma lo savio prò e valente dee tacere, e stare cheto di suo valore contare; e allora è egli più pregiato, e la sua prodeza più inalzata tra la gente; e la gente contano la loro prodeza per loro; e così è loro grande onore. E gli stolti che si vantano de' peccati (704), quelli non sono già uomini, ma peggio che bestie, ch'egli ricontano la loro onta e gli loro peccati senza vergogna, altressì come bestie che fanno la loro bisogna inanzi l'altre bestie. La bestia non è da biasimare, imperò ch'ella non à senno (705) ch'ella lo faccia copertamente; nè peccato non fa ella già. Ma quelli che si vanta del peccato ch'egli à fatto, e che si diletta in contallo, egli pecca molto, e è tenuto peggio che bestia.
(702) Manca direto al C. L. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(703) per loro buffe e per loro vantanze C. R. 1. — Anche l'ant. franc. ha buffoi, bufoie per vanità, ostentazione. Ma tanto nel C. F. R. che nel T. F. P. leggesi invece bourdes (dal vb. bohorder), che significa moquerie, raillerie. Cf. Burguy, Gramm., a Horde. — In provenzale si ha il vb. bordir, che vuol dire joûter, folatrer.
(704) Et il folle che si vanta di sua follia C. R. 1.
(705) Manca senno al C. L. — L'abb. agg. dal C. R. 2.
Lo re domanda: come fiatano i cani più ch'altra bestia (706)? Sidrac risponde:
I cani sono di più calda natura che altra bestia; e del loro calore, quando eglino si congiungono, eglino si rinflabiliscono; e si giungono e s'apigliano, altressì come due pezi di ferro rovente (707): l'uomo mette l'uno sopra l'altro, e fiere di sopra, e elli s'apiccano lo loro calore; altressì fanno gli cani.
(706) Questo titolo è errato. Deve dire, come negli altri Codd.: come li cani s'apiccano insieme.
(707) Nel C. R. 1. v'è questo di più: et anco si ci àne un'altra ragione, che, quando il maschio discende sopra la femina, suo membro s'attortiglia in essa, e non si puote sì tosto partire da essa. Che s'elli discende dritto com'elli monta, elli non si appicciarebbero tanto.
Lo re domanda: quelli ch'ànno cupideza dell'altrui cose o dell'altrui femine fanno male? Sidrac risponde:
Quegli che ànno cupideza dell'altrui femine o dell'altrui cose, egli fanno grande male, e sono chiamati vicini (708) del diavolo; che il diavolo non si satolla giammai di mal fare, e vorrebe tutto giorno trarre a lui. Altressì è di coloro ch'ànno cupideza dell'altrui cose o dell'altrui femine; che altressì dovrebono egli fare con altrui, come e' volesseno che altri facesse a loro (709); chè quelli che volesse che altri gli togliesse sua roba o sua femina, molto gli parebe grande fatica, e molto ne sarebe dolente; e similmente è di colui (710); chè l'uomo de' avere astinenza delle cose, povero e ricco ch'egli sia, e non dee avere cupideza dell'altrui cose, altressì come gli angioli di Dio, che non ànno cupideza.
(708) Pare da intendersi compagni del diavolo. — Nel C. R. 2.: ventri del diavolo. — Nel T. F. P. e nel C. F. R.: gracieux au deable.
(709) e vorrebbe che facesse a lui C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(710) Meglio sarebbe lui. E qui deve essere stato usato colui, come traduzione letterale di celui.
Lo re domanda: può l'uomo scanpare dalla morte, per nulla ricchezza o per niuna cosa, per forza o per ardire nè per fuggire? Sidrac risponde:
La morte è simigliante all'aria di questo secolo, che tutte le creature che vivono, conviene che vivano di lei; e se l'aria loro falliscie una ora, morti sarebono. Già non può essere tanto sotterra, che l'aria non vada (711); e chi non sente l'aria si è morto. Altressì della morte; che niuno nolla puote fugire, che non sia morto (712), per tenpo o tardi; chè s'egli andasse al nabisso della terra o al fondo del mare, o s'agrappasse (713) all'aria, della morte non potrebe fugire; chè, in qualunque luogo egli sia, o alto o basso o grande o piccolo, la morte va tuttavia a lui, che uno solo passo nollo lascia; anzi lo porta sopra a sè, come uno de' suoi menbri, e più; chè uno de' suoi menbri potrebe l'uomo tagliare, uno o due o tre, e gittagli via; e tutto l'avere del mondo e tutta la forza non potrebe l'uomo acattare (714) a vivere una sola ora più che a Dio venisse a piacere; chè buoni e rei, ricchi e poveri, vecchi e giovani, frali e forti, savi e folli morire gli conviene, chè niuno ne puote scanpare.
(711) Così hanno pure gli altri Codd. italiani. — Ma il C. F. R. corregge l'errore: ja ne peut estre soute terre cosse che de l'air vivent.
(712) che non moia C. R. 2.
(713) Nel C. F. R.: campast en l'air. E probabilmente aggrappasse fu, nell'intenzione del traduttore, volgarizzamento di campast.
(714) rechepter T. F. P. — nolla potrebbero ricomprare nè scanpare una quarta ora più, se a Dio ec. C. R. 1. — non potrebono avere gracia di fare vivere una sola ora più, che a Dio ec. C. R. 2.
Lo re domanda: è buono a rispondere a quelli che folle parla? Sidrac risponde:
A quelli che follemente parlano l'uomo loro non degnia rispondere, se le sue parole non sono in suo danno. Che alcuna volta che i folli parlano d'alcuno uomo follemente, e l'uomo non sa perchè (715) quelli si dice, se egli risponde, ogni uomo saprà che per lui l'avrà detto. Quando lo savio è ripreso, ch'egli abia follemente parlato, egli se ne vergogna e si pente; e lo folle quando egli parla follemente, e l'uomo lo riprende, egli si cruccia e si infolliscie più; e afermano incontanente le loro folli parole; e si ingenerano molte follie, e in pensieri e in ragioni e in grandi pianti (716). E lo tacere vale meglio che lo rispondere a cotali gente.
(715) per cui C. R. 2.
(716) et de la sont engendrees moult de folles pensees et de raisons et de grans plaitz T. F. P. — Notisi l'errore di avere tradotto plaitz per pianti, mentre vuol dire disputa, litigio. Infatti il C. R. 2., che concorda nel resto col C. L., ha, invece di pianti, piati.
Lo re domanda: qual'è la più grave cosa che sia? Sidrac risponde:
La più grave arte (717) che sia si è la lettera, e la più sottile e la più profonda e la più innorata (718); e si è signora e maestra dell'altre arti; e non si chiama arte anzi senno, per coloro che guadagnano delle loro mani dello scrivere. E lo scrivere è la più grave e la più travagliosa e la più noiosa, che niuna arte che sia al mondo. E non è arte che l'uomo non potesse lavorare e pensare, e parlare altro, e ridere e ascoltare; e (719) nell'arte della scrittura l'uomo non può fare (720); chè quelli che iscrive, travaglia tutto il suo corpo e gli occhi e 'l cervello e le reni, e sì non puote pensare nè parlare altro, nè ridere nè guardare nè cantare, se non solamente gli conviene avere la sua mente allo scrivere. E chi non sa iscrivere, non potrebe credere che cosa lo scrivere sia. Ella non è arte, ma è arte e travaglio, più che niuna altra arte; e non si potrebe fare grande pagamento allo scrivano (721).
(717) Il C. L. ha: cosa. Ma poichè in tutti gli altri Codd. leggesi arte, abbiamo creduto di poter fare questa correzione.
(718) onorata C. R. 1., C. R. 2.
(719) ma C. R. 1.
(720) non può l'uomo ciò fare C. R. 1.
(721) Forse queste ultime parole sono state aggiunte o mutate dal povero amanuense fiorentino. Esse non leggonsi nè nel C. R. 1., nè nel C. F. R., nè nel T. F. P.
Lo re domanda: quelli che si travagliano e non sanno aiutare (722), perchè non fanno eglino? Sidrac risponde:
Quegli che si travagliano, e non sanno adagiare sè, son servi a quello avere che è d'altrui, e muoiono in servitudine, e altri gode quello avere. L'uomo non dee nimica follemente guastare lo suo avere, nè lasciarsi avere disagio; ma dee ispendere a misura e a ragione, quando eglino ànno tenpo, ed agiare quelli che non ànno. Di che, quelli fa bene e a diritto che così fa.
(722) ceulx qui travaillent et ne se osent ayser pourquoy le font ilz? T. F. P. — Aiser significa tanto donner de l'aise, soulager, che aider, securir: indi l'errore del testo. Il quale più sotto traduce bene aiser per adagiare, nel senso di prendere i suoi agi. — Questo adagiare, di cui la Crusca registra un solo esempio, pare che piaccia al nostro volgarizzatore, che l'ha usato anche pochi capitoli indietro.
Lo re domanda: come infolliscono le genti? Sidrac risponde:
Le genti si infolliscono in molti modi. Uomini sono nati molti senplici, come folli. Altri perdono lo senno per malizie; altri della fralezza del cervello; altri de' rei omori, per tropo perdere sangue; altri per grande alore; altri per rie onbre, che si dimostrano loro e gli spaventa; altri di tropo digiunare e di tropo veghiare, che loro secca lo cervello; altri per danno ch'egli ricevono, per grande dolore e per molti altri modi. E di tutti questi modi di follie ciascuno porta lo suo danno; ch'apena farebono mai male ad altrui. Ma altre maniere di folli sono, che sono molte rie per loro e per altrui; cioè a sapere di coloro che mangiano e beono e tolgono l'altrui, che inbolano e uccidono la gente, e che falsamente giurano e peccano in molti modi, quelli che dicono false testimonianze. E di cotali folli l'uomo si dee molto guardare; che per la loro follia e malvagità fanno molti altri mali a molte altre genti. E l'altre follie inanzi dette non gravano la gente, anzi loro medesimi portano la loro pena (723).
(723) portent leur somme et leur peine avecques elles T. F. P.
Lo re domanda: grava all'anima quand'ella si parte dal corpo, e al corpo quand'egli si parte dall'anima? Sidrac risponde:
Si, molto grande forte gli grava (724), e sono molti tristi e angosciosi, quando l'uno si parte dall'altro; e, se fosse in loro, giammai non si partirebbono. Altressì loro grava fortemente, come d'uno novello isposo e d'una novella isposa che si travagliano (725) oltr'a misura, e l'uomo gli parte a forza, molto sarebono angosciosi; che lo corpo e l'anima sono due isposi, che molto s'amano, e che giammai non si vorebono partire. E quando conviene che si partano, e ch'egli abiano male conversato in questo secolo, allora lo duolo è troppo grande, che l'anima va male, e lo corpo torna a nulla. Eziandio, tutto che gli tardi (726), si conviene ch'egli sia colla sua isposa in questa pena. E se egli sono bene conversati insieme, anche grava loro lo partire; altressì come uno uomo andasse a guadagniare in una lunga (727) contrada; e quando egli avesse assai guadagnato, egli verrebbe per la sua isposa, e s'agiugnerebono insieme in bene (728). Quando l'anima si parte dal corpo, ella va come un uccello, là ove ella à servito; e il corpo rimane come uno albore, che è diradicato e gittato, che secca, e diventa quasi nulla.
(724) Molto e grandemente e forte C. R. 2.
(725) qui s'entreament T. F. P. — È assai probabile che entreament sia stato tradotto travagliano, non conoscendosi il significato di questo verbo, che è quello di amarsi reciprocamente. — Però potrebbe anche essere un errore del n. c., avvegnachè nel C. R. 2. si legga: che si amassero oltr'a misura.
(726) et quoy qu'il tarde T. F. P.
(727) lontaine C. F. R.
(728) et s'asembleroit bien C. F. R. — Qui assembler ha il significato di reunir. Ed aggiugnersi ha pure in ital. il significato medesimo. „Con maritale legame meco si agiugnesse.„ Guid. G.
Lo re domanda: cui de' l'uomo più temere, o l'uomo vecchio o 'l giovane: Sidrac risponde:
L'uomo dee temere l'uno e l'altro, cioè a intendere lo folle; che se lo giovane è folle e male insegnato (729), alcuna volta la calda natura, ch'è in lui, e gli omori lo rinfrabiscono (730) e lo scaldano e lo fanno essere (731) giolivo (732) e oltragioso. E quando quello calore e quello rinfabilimento cessano; egli s'abonaccia e diventa cheto e soave; che quella jovelitade (733) che fue in lui, fue per diritta natura. Ma lo folle vecchio, che non à nullo calore in lui, e egli è giolivo, sapiate che quelli è diritto folle, e da lui si dee l'uomo ben guardare; che egli àe avuto tutto lo suo tenpo, e vogliono avere l'altrui, quando egli vuole mostrare la sua gioventudine per diritta forza; chè in lui non sono i calori, nè lo rinfabilimento, nè gli omori che gli dieno la giolività, anzi la pigliano in presto per diritta forza, come quelli che volesse cuocere carne al calore del sole. Altressì è del vecchio folle, che si vuole fare giolivo e allegro e giovane, che per forza essere vuole; e vuole mantenere la gioventudine colli suoi motti e con suoi vantamenti, e si fa lo prode, lo fiero e lo forte e l'ardito, e mantiene la sua follia; quelli dee l'uomo temere, che quelli è diritto folle.
(729) et mal enseignes C. F. R.
(730) reflambent C. F. R.
(731) manca al C. L.: e lo fanno essere. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(732) jolis C. F. R. — Ma qui avrebbe piuttosto il senso di joliard, cioè plaisant.
(733) jolivete C. F. R. — esmouvement T. F. P. — giovinezza C. R. 2.
Lo re domanda: piove più in un luogo che in un altro? Sidrac risponde:
In uno anno piove più che in un altro, primieramente per la volontà di Dio, e per lo movimento delle pianete e de' segni; ch'elle si muovono per la volontà di Dio, siccome deono, e si rincontrano; e questo fanno in uno anno magiore caldo che in un altro. L'anno che poco piove, sarà grande danno in terra; che la terra non rende tanto del suo frutto, come s'egli piove assai. E quello anno sarà inferma la terra, per lo calore ch'è stato dinanzi, perchè non piovve, tanto ch'ella potesse raffreddare per lo calore che viene della state. Quando la terra è calda e arde e rinfiamma, ella gitta fuori lo suo veleno per l'acque e per li frutti; e perciò infermano le genti. Non intendere mica tutte le terre. Ma se l'anno non piove bene, al movimento de' segni e delle pianete e alla volontà di Dio, sono corrotti.
Lo re domanda: perchè non fece Idio l'uomo che non potesse peccare? Sidrac risponde:
Se Iddio avesse fatto l'uomo che non potesse peccare, dunque non servirebbe (734) egli niuno bene avere; e non servirebe d'avere la grazia di Dio e la gloria; che egli non avrebbe fatto lo bene per lui, se non per Dio che lo fece di quella natura, che non potesse peccare (735). Ma perciò che Idio volle che l'uomo diservisse guidardone (736) di gloria per lui e per lo suo travaglio medesimo (737), e non per fare oltragio al diavolo, lo fece in tal natura ch'egli potesse fare il bene e 'l male per lo suo grado (738), e per lo suo guidardone di gloria; e per lo diavolo avere vergogna (739), che sì frale cosa, come la natura dell'uomo, facesse bene e lasciasse il male per suo grado, e guadagniasse la gloria, onde egli era caduto per lo suo orgoglio, che egli fece per lo suo grado contra al creatore. E altrettale (740), che, se l'uomo facesse lo male, che egli fosse dannato per quello medesimo male ch'egli avrà fatto, per lo suo grado; e che egli sia degno d'avere o l'uno o l'altro, secondo ch'egli avrà diservito: chè tutto è stato per lo suo grado.
(734) deserviroit C. F. R. — Deservir, ant. fr., vale meriter.
(735) chè l' bene tornarebbe a Dio, ond'elli muove; e l'uomo non meritarebbe d'avere gloria da Dio, ched elli none avrebbe fatto il bene per lui, ma per Dio, che Idio l'avrebbe fatto in tale natura di fare il bene tanto solamente C. R. 1.
(736) Il C. F. R. ha: deservist gueredon.
(737) Tanto il C. F. R. che il T. F. P. hanno di più: et qu'il peust gaigner.
(738) par son gre C. F. R.
(739) et per quoy che le deable eust honte C. F. R.
(740) autretel C. F. R., mal tradotto per altrettale, mentre vuol dire parimente, similmente.
Lo re domanda: è buono di tramettersi di tutte cose con tutte genti? Sidrac risponde:
L'uomo si dee agrappare (741) a uno albero, ove (742) egli possa avere del suo frutto di suo prò. Ma chi si vuole agrappare a l'albero del sole (743), egli puote cadere, e ronpersi il collo. Altressì adiviene che i possenti si debbono inpacciare co' possenti; e' poveri co' poveri, nella loro povertà. Chè i poveri che s'infrascano (744) co' gli richi, egli fanno follia; e di ciò possono essere dannegiati, altressì come una foglia che si percuote in una pietra (745). Non tocca allo povero il fatto de' possenti (746); ch'egli nollo pregia, nè sa chi si sia, nè a consiglio nollo chiama, nè di suo bene nè di suo male (747). Dunque perchè si dee inframettere del fatto del possente, quando così poco lo pregia? Lo povero si dee tenere cheto e di buona aria; e vivere nella sua povertà, come savio uomo; e non gli caglia del fatto del possente. E anche s'egli è chiamato a consiglio, egli si dee difendere di non mettersi tra loro in nulla guisa, s'egli può; e s'egli non si può difendere, egli dee dare tal consiglio, ch'egli salvi l'una parte e l'altra, e ch'egli non sia biasimato nè dal ricco nè dal povero, perchè lo ricco (748) non sia sopra di lui. Chè ciò che adiviene del possente, l'uno riguarda l'altro, ma lo povero è male venuto (749); che tutto lo carico è posto sopra di lui. Altressì come montoni che si percuotono nell'acqua l'unghie delli loro piedi, e iscasano, perciò ch'elle sono piccole (750); altressì sono i poveri tra' possenti. Perciò non si dee il povero intramettere ne' fatti de' ricchi e de' possenti. Ciò che vogliono, facciano, bene o male sia loro.
(741) ramper C. F. R. — apigliare C. R. 2.
(742) onde C. R. 2.
(743) a la rais dou solail C. F. R. — Rais vuol dire raggio di luce.
(744) s'entremetent C. F. R. — Qui infrascarsi vale impacciarsi, intramettersi; ed in questo senso non è registrato nella Crusca.
(745) une foile chi hurte en une pietre C. F. R. — Foglia qui forse è stato usato per significare in genere una cosa fragile, facile ad esser rotta. — Migliore però è la lezione del T. F. P.; une chenille qui se heurte a une pierre. — Chenille vale conchiglia.
(746) Le fait des puissans ne touche point aux poures T. F. P.
(747) de son mal et de son bien tot li est un C. F. R. — Intendi: il suo male e il suo bene gli è tutt'uno.
(748) lo carico C. R. 2. — la charge T. F. P.
(749) Così hanno tutti i Codd. — Forse si disse malvenuto per male arrivato; se pure non è da correggere male veduto.
(750) Accozzo strano di errori. Ecco la lezione del C. F. R.: com les moutons, qui en l'aigue se hurtent, et les grenoilles eschacent l'un sur l'autre, por ce che elles sunt petites. — Come grenoilles (grenouilles) sia stato tradotte per unghie non sapremmo. Invece di iscasano (eschacent, chassent nel T. F. P.), il C. R. 2. ha: cascano.
Lo re domanda: perchè Iddio fecie il mondo? Sidrac risponde:
Primieramente per enpiere le sedie del cielo, onde furono traboccati gli rei angioli, e per lodo della sua gloria; ch'egli volle d'uomo e di femina, e di frale natura, avere gienerazione di rienpiere le dette sedie; e per la vergognia del diavolo. Non tutti quelli che sono al secolo, nè che saranno, non s'asetteranno già a quelle sedie; ma quelli vi sederanno, che degni ne saranno, d'averla quella gloria, per la loro opera.
Lo re domanda: come fu fatto il mondo, e come si tiene egli? Sidrac risponde:
Iddio fece terra e acqua, e tutto quello che egli volle fare; e l'uomo, apresso lo traboccamento de' rei angioli. Egli disse: sia fatto lo mondo; in quella ora fue lo suo comandamento adempiuto. E lo mondo fu fermato sopra acqua, siccome a lui piacque. E tutta l'acqua che in questa aria (751) è sopra terra, questa che è scoperta, à altre acque che la sostengono; chè lo fondamento della terra si è l'acqua, e lo fondamento dell'acqua si è lo fermamento, per la potenza di Dio. Idio per la sua potenza fece il mondo a guisa d'uno uovo; altressì lo fermamento che tutto intornea lo bianco dell'uovo, si è l'acqua, ch'è tra lo fermamento che intornea la terra (752). Lo giallo dell'uovo si è la terra, che è intorniata e siede sopra l'acqua; altressì come lo giallo dell'uovo che è intorniato di bianco. Lo giermo che è nel giallo, si è la gente in terra, cioè la forma del mondo. Ma egli è altressì ritondo come una mela, che non à capo nè coda.
(751) Parrebbe che qui aria volesse significare mondo. Non trovo esempii nè in franc. nè in ital. di questa parola usata in un tal senso. Il quale però non sarebbe a reputarsi troppo strano, da chi consideri specialmente che aire in provenz. si usò per paese, ed il perchè di questo significato. — Il C. F. R. ed il T. F. P. hanno air.
(752) „Rien de plus commun, scrive il Le Clerc (Hist. Litt. de la France, XXIII, 306) dans les écrivains du XII siècle, que la représentation du monde sous la figure d'un oeuf, dont la terre occupe le centre.„ E reca i seguenti versi dell'Image du Monde:
Tot ensi come on voit l'uef
Que l'abuns enclot le moief.
Et enmi le moief s'abaisse
Une gotte ensi come graisse
Qui de nulle part ne se tient,
Et la graisse qui le soustient
Ne l'aproche de nulle part;
Ensi est, par itel esgart,
La terre enmi le ciel assise,
Et si ingalment enmi mise, etc.
Lo re domanda: à gente di sotto a noi, che vegano lo chiarore del sole, altressì come noi qui? Sidrac risponde:
Per la ritondezza del mondo si àe altre genti di sotto da noi, che vegono lo chiarore del sole, altressì come noi qui; e gli loro piedi sono contra i nostri. E ciò è per la bassezza e per l'altezza delle parti del mondo, e per la ritondezza, che il levante è più alto che il ponente. E quando il sole si leva al ponente, anco è notte al levante, per largheza e grandeza del mondo (753); che in quello che 'l sole avrà corso in terra una onbra di quattro dita, si sarà corso lo fermamento MM miglia. Non intendere già che il sole si mostri nè s'abassi punto (754). Una contrada è dove abitano genti, che il sole non vi sta se non una ora, e incontanente è notte. Un'altra v'è, che tuttavia (755) è oscuro come notte. E quando in uno luogo del mondo è istate, in un altro è verno. Tutto questo aviene per la ragione del sole, che piglia altro cammino, per la volontà di Dio, ciascuno anno (756).
(753) chant le solail se lieve au levant, encore est l'aube au ponent; et chant il s'abasse au ponent, il est nuit au levant, per la grandesse et la reondesse dou monde C. F. R.
(754) Questo periodo, che qui e nel C. R. 1. non ha senso, così sia scritto nel T. F. P.: N'entendez pas que le soleil se demonstre au lieu ou il se couche, rez a rez de la terre, ne pres de la terre; mais a grand haulteur de la terre, autant comme la longueur de la terre est de l'ung chief a l'aultre, et encore aultre tant plus.
(755) tout jors C. F. R.
(756) il prent chascun an aultre chemin, ne ne peult repaire en son lieu T. F. P. — Repaire, da reparier, revenir.
Lo re domanda: quanto è il mondo lungo e largo e ispesso? Sidrac risponde:
Altrettanto è la sua larghezza come la sua lungheza e come la sua anpieza, che è tutto ritondo come una mela. Chi volesse andare dall'uno capo del mondo all'altro, diritto per lo mezo, e ciascuno giorno andasse bene comunalmente dalla mattina infino alla sera, e l'acqua (757) del mare, ch'è tra levante e 'l ponente, fosse tutta terra ferma, e tutto il mondo fosse piano come la palma della mano, non potrebbe andare dall'uno capo all'altro, in meno di mille giorni. E dalla largheza e grossezza (758) altrettanto.
(757) Il C. L. ha: il braghite. — Il C. R. 2.: e braghieri. — Nel C. F. R.: l'aigue. E secondo questa lezione, noi abbiamo corretto. Il nostro braghite sarebbe forse traduz. di brahic, brac, ant. fr., che vuol dire fango, melma? Veda un po' il lettore se la nostra congettura sta in gambe, e si ricordi che qui trattasi di un viaggio a traverso lo ispessore della terra, dove è facile supporre che al buon Sidrac avesse a parere che l'acqua fosse fangosa. — L'ital. ha brago, e il prov. brac. E l'ant. fr. ha l'agg. brageus.
(758) Nel C. L.: ispesta. — Abb. corr. col C. R. 2. — Supponiamo che invece di ispesta volesse scriversi ispessezza. — Il T. F. P.: espesseur.
Lo re domanda: perchè vorrà Iddio disfare lo mondo di tutto in tutto? Sidrac risponde:
Per lo meglio di lui. Se uno uomo avesse uno bello palagio, grande e nobile, e in un'altra parte avesse una bella casa piccola, e una parte del bello palagio fosse caduta; e bisognasse che delle pietre di quello piccolo albergo si riconciasse lo suo grande palagio, certo egli disfarebe lo piccolo albergo, e non guarderebe altro se non che lo suo bello palagio fosse racconcio e conpiuto. Altressì è di Dio: egli non vuole se non che lo novero (759) del cielo sia conpiuto; e di questo mondo non à cura.
(759) nombre C. F. R. e T. F. P. — Forse per armonia?
Lo re domanda: come volano gli uccelli per aria? Sidrac risponde:
Gli uccelli volano per aria per la sua spessità, che l'aria è molto ispessa e umida; e per questa ragione sostiene gli uccelli volando. E per ciò viviamo noi dell'aria, per grande ispessità e umidore che è in lei. E di questo vi potrete voi avedere legiermente, con una verga: che se voi tosto e forte la menate, ella piegherà; e se l'aria non fosse, ella non piegherebe. E per questa ragione gli uccelli volano per l'aria.
Lo re domanda: la piova di che viene? Sidrac risponde:
La piova viene d'acqua di mare; e per uno cannone (760) di vento monta nell'aria, e 'l calore del sole la tira; chè lo vento tira e bee l'acqua; e lo sole, che è caldo di natura, lo tira, per lo suo calore, alto nell'aria. E di questo si puote l'uomo avedere leggiermente: che altressì la bee, com'egli bee la rugiada, e tirala in alto. E tanto e tanto tira a monte (761) dell'acqua, ch'ella diventa nuvolo. E si ingrossano e enfiano, e lo vento poi la ronpe, e l'acqua si sparge sopra molta terra (762), e a noi toglie lo chiarore del sole. Quando i nuvoli sono bene pieni, si comincia a piovere; e quando tutta l'acqua è isparta, lo nuvolo rimane bianco, ch'escie del fredore dell'aria (763). E lo calore del sole lo spinge e caccia e consuma (764); e allora apare l'aria chiara e pura. In molti luoghi sono, che i nuvoli e la piova nascono di terra, e montano nell'aria, come lo fummo (765) che si chiama brina; e chi vi tenesse la mano entro, la troverrebbe bagniata; e questo è per lo spiramento (766) della terra.
(760) canon C. F. R. — tourbillon T. F. P. — Il Raynouard (Lex. Rom.) cita appunto questo passo del testo provenzale del Sidrac: La plueia ven de la mar e per un cano de ven monta en l'aire. — E spiega la parola cano per tourbillon. Sarebbe il nostro turbine, forse detto canon, per somiglianza di forma colla canna.
(761) amont C. F. R. — Questo avverbio, dell'ant. fr., significa en haut — La Crusca registra a monte per in alto, ad alto, citando due esempii della traduz. del Tesoro di Brunetto Latini. Ma ciò anzi conferma ch'ell'è parola schiettamente francese, non usata dagli italiani.
(762) sur une grand partie de la terre C. F. R.
(763) chi est de le freidor de l'air C. F. R.
(764) et la calor au solail si l'eschaufe et la consume C. F. R.
(765) come une fumée C. F. R. — Fumée, meglio vapore che fumo.
(766) sospirement C. F. R. e T. F. P.
Lo re domanda: di che vengono le neve (767)? Sidrac risponde:
Dell'acqua e del freddore dell'aria che molto è fredda. Tanto come lo sottile nuvolo è alto e sottile, tanto giela più tosto, che lo grosso; e quanto ella è più grossa, ella scaufa (768) piùe, e non si può gelare; altressì come uno grosso ferro scalfa più che uno sottile. Che di tanto come la cosa è più dura, s'aprende più forte. Altressì è dell'aria: quando ella è più grossa, si scalfa più, e non si puote gielare; e quando ella è sottile, egli è più freddo, e giela più; e poi lo freddo vento la ronpe, e falla venire in terra, e questa è la gragnuola (769).
(767) gresles T. F. P. — Ed infatti il C. R. 2. ha: gragnuola.
(768) Traduzione litterale di ele eschaufe. Notisi più sotto lo scalfa. — Migliore è la lezione del C. R. 2.: Tanto come lo sottile nuvolo è alto e sottile, tanto giela più tosto che lo grosso; e quanto egli pare più grosso, egli è più caldo e non si può gelare.
(769) Autretel est de l'air: chant il est plus gros, il eschaufe plus, et ne ce puet geler; et chant il est soutil, il est plus fort et froit, et gele plus; et apres le vent les presse, et les fait a terre venir C. F. R.
Lo re domanda: la tempesta di che aviene? Sidrac risponde:
L'anno (770) che nella state nascono i tremuoti, nell'aria nascie uno grande umidore, che col freddore si raguna e apiglia; e poi lo calore del sole la speza, e falla venire in terra (771); e più grossa nascie ch'ella non cade. E la terra criepa in molti luoghi; e' venti escono fuori e ispandonsi per l'aria; e vengono grandi tenpeste, in quello anno, in più luogora.
(770) Il C. L. ha: Lo vento. — Il C. R. 2.: Lo verno. — Il C. F. R.: L'an. — Abbiamo corretto secondo questa ultima lez., parendoci che da essa sola potesse venire qualche senso al discorso.
(771) L'an que en l'iste vienent les troles, une grant froidure naist, la quele moillor che en l'air naist, et s'asemble en l'air et s'amace, depuis la chalor au solail la depesse, et la fait en terre venir C. F. R. — En la nuee que en l'este viennent les gresles et les tempestes, une froidure se naist, et sort icelle nuee: et la moiteur qui en l'air naist ensemble a l'air et s'amasse; et apres vient la chaleur du soleil qui les deffait, et les fait a terre venir T. F. P. — Troles per terremoti è senza dubbio errore. L'ant. fr. ha terremoete. „E terremoete co i ad veirement„ ec. (Chans. de Rol., Ch. II., v. 767., ed. Génin). — Così non trovo registrato moillor, ma non credo che sia errore. Il prov. ha il vb. moillar, molhar; ed il mod. franc. mouiller, mouillure. Errore deve essere moiteur, del T. F. P., per moileur; come al foglio CCXXXIX del medesimo testo, moyte per moyle: „l'iver... est froit et moyte„ — Riguardo poi a troles, potrebbe forse leggersi trones (tron, tro, prov.; tuono ital.). Infatti il C. F. R. ha più sotto: tonitres, tonieres e tron: „si naist le tron„. O più probabilmente croles, crollo, che trovasi usato nell'ant. fr. per tremblement.
Lo re domanda: li tuoni e li lanpi che sono? Sidrac risponde:
Li tuoni e li lanpi escono dell'aria, e della forza de' venti che s'incontrano in altri, nell'aria, molto fortemente, e si feriscono; e nello loro fedire escono i tuoni di grandi colpi; e di percosse escie uno grande chiarore, come fuoco; e lo splendore apare inanzi in terra; che lo tuono è inanzi che lo lanpare (772); altressì come d'uno fucile che l'uomo volesse trarre fuoco, e lo colpo è inanzi, e lo fuoco escie poi. Non intendere nimica che lo incontramento de' venti sieno sotto i nuvoli, ma sono sopra di loro; e quando egli (773) non sono, sì sono nell'aria in alto.
(772) e lo sprendore appare innanzi in terra che lo tuono venga; ma bene sapiate che lo tuono viene inanzi che lo sprendore C. R. 2. — E questa lez. concorda con quella del testo provenzale: la resplandors pareis avans en terra que lo tonedres sia: mas lo tonedres es abans que lh'esluciada.
(773) li nuvoli C. R. 2.
Lo re domanda: onde vengono gli venti? Sidrac risponde:
Li venti escono del mare che intornea la terra, e s'incontrano fortemente d'una parte e d'altra. I venti escono all'incontro del loro incontro (774); e sì si spandono nell'aria per lo mondo, e confortano le genti e l'erbe e l'altre criature. L'anno che vento viene più che l'altro, in quella contrada ove quello vento regnia, l'acque di mare s'incontrano più che in altre contrade (775).
(774) Così ha pure il C. R. 2. — Nel C. F. R.: yssent contremont de lor encontrer. — Contremont significa in alto; onde intenderei: escono in alto ad incontrarsi. Il trad., non conoscendo il valore dell'avverbio contremont, lo ha volgarizzato all'incontro.
(775) En l'an que l'ung vent en une contree vente plus fort que les aultres, en celle contree de ce vent, les eaues de le mer se rencontrent plus la que en ung autre part; et pour ce le vent est plus en celle contree que en une autre part T. F. P. — Incontrarsi pare che qui abbia il significato di darsi di cozzo, ad esprimere le acque del mare in burrasca, le quali veramente si cozzano tra loro. Anche in franc. encontrement trovasi usato per choc.
Lo re domanda: come monta e sale l'acqua nell'alte montagnie? Sidrac risponde:
La terra à molte vene, siccome il corpo à molte vene; e si viene per la testa in alto, e per tutto va lo suo sangue. E se uno uomo si segnasse (776) nel capo, lo sangue n'uscirebe per le vene; altressì aviene dell'acqua nella terra; l'acqua va per mezo della terra, di lungo e per traverso e in alto e per lato, là ove ella truova vene tenere e frali (777); ella la criepa (778), e sciende d'alto e di basso (779).
(776) se seignast C. F. R. — Saigner, seigner, tirer du sang.
(777) terre vaine et feible C. F. R. — Il Roquefort (Gloss.) tra i varii significati che attribuisce alla parola vain, registra anche quello di vide; che a noi pare meglio degli altri adattarsi al nostro esempio.
(778) ella le fa crepare C. R. 2. — elle la crieve C. F. R.
(779) et ist soit de haut soit de bas C. F. R.
(780) Questo capitolo manca al C. R. 2.
Lo re domanda: l'acque onde escono e vanno? Sidrac risponde:
Tutte l'acque del mondo escono del mare, e nel mare ritornano; e vanno per la terra in diverse maniere, e si ritornano in più luogora, che l'una va qua e l'altra là; vengono altressì, come voi vedete che le formiche (781) fanno nel loro andare. L'acque che entrano nella terra inverso i' levante, elle escono verso il ponente; e quelle che entrano verso ponente, escono verso il levante; altressì aviene del traverso del mondo (782). Non intender mica ch'elle entrino per tane nè per buchi; anzi la bee la terra e ricoglie, altressì come fa la spugna l'acqua; e poi si ragunano di molti luoghi, e diventano grandi fiumi, e la terra sì li sospira (783) di fuori, dall'altra parte, a quella medesima (784) ragione, come ella la bee.
(781) Il C. L. ha: i fiumi. — Ma poichè tanto il C. F. R. che il T. F. P. hanno formies, formis, e poichè stando alla lezione del n. c. il discorso non avrebbe senso, noi abbiamo corretto le formiche. Gioverà poi riferire la lezione del T. F. P.: ainsi comme vos voyez les formis aller en leur lieu, les ungz vont et les aultres viennent.
(782) Non possiamo correggere, mancandoci l'aiuto degli altri Codd. — Solo il T. F. P. ha questo passo: et ainsi est il du travers du monde. — Ma anch'esso si sembra errato. — Crediamo che abbia da intendersi che le acque traversano il mondo da una parte all'altra. — Forse, invece di est il, potrebbe leggersi issent, istrent; o al singolare, ist, eis; e nel n. c.: e così escono del traverso del mondo. O piuttosto: e così aviene (l'acqua) del traverso del mondo. — È noto che avvenire fu usato dagli antichi per venire.
(783) le sospire C. F. R. — les souspire T. F. P. — Due passi del testo prov. del Sidrac ci aiutano a intendere il significato di sospira: Las nivols que so, ieisso del sospir de la terra. — Aysso es per lo sospiramen de la terra. — È chiaro dunque che, come in prov. sospir si usò per esalazione, anche qui li sospira ha da significare (sebbene con poca proprietà di linguaggio) li esala, li manda fuori.
(784) par celle mesme T. F. P.
Lo re domanda: perchè è il mare insalato? Sidrac risponde:
Lo salsume del mare si è inperciò che tuttavia (785) il sole e lo calore lo scalda e arde tutto giorno, e lo mare non può fuggire di quello calore (786). Nel mare è molte montagne insalate (787); e l'acque che sono a fondo, pigliano di quello salsume e amaritudine, e monta di sopra. Iddio l'à bene istabilito a ragione, come essere dee; che, se lo mare fosse dolce, e egli istesse tuttavia in un luogo, come egli fa, il puzo n'uscirebe sì grande, che niuno pescie vi potrebe vivere; e la terra infermerebbe molto, che niuno vi potrebe istare, per lo grande puzo che del mare uscirebe, perchè lo vento lo porterebe sopra la terra.
(785) tous iors C. F. R.
(786) „E l'acqua del mare è salsa, a cagione della virtude del sole, che no trae il sottile per vapore e rimane lo grosso.„ Ristoro d'Arezzo, Della composizione del mondo, VI, 5.
(787) montaignes de terre ameres et salces T. F. P.
Lo re domanda: onde vengono l'acque calde, che surgono (788) sopra terra? Sidrac risponde:
L'acqua calda che sopra la terra surge, ella passa sopra lo solfo, e lo grande calore del zolfo la scalda, e passa sopra terra calda. E chi la vuole bene aseccare, elli sentirebe lo secco del solfo in quella medesima acqua (789).
(788) sourt T. F. P. — Da sourdre, sortir, jaillir.
(789) Il testo francese è chiarissimo: et chi la voudroit bien flairer, il sentiroit la flairor dou souffre, en colle meime aigue. — Il C. R. 2., invece di aseccare e secco, ha asetare e seto. Onde sieno usciti tali errori non sapremmo. Certo è che bisogna correggere: e chi la vuole bene odorare, elli sentirebbe l'odore ec.
Lo re domanda: che cosa è zolfo? Sidrac risponde:
Lo zolfo si è di folgore, che cade sopra rocca viva, e l'arde e la scalda; e così si doentano (790) zolfo. Poi la gente lo piglia, e lo faranno (791) per loro senno, e fanno di lui molte medicine; chè il zolfo àe molte medicine, e molte utilitadi in lui.
(790) diventa C. R. 2.
(791) afaitent C. F. R.; erroneamente tradotto per faranno. — Nel C. R. 2.: conciano.
Lo re domanda: la folgore di che viene e di che sono? Sidrac risponde:
La folgore viene di grandi incontramenti di venti; chè, allora che egli s'incontrano fortemente, schianta uno pericoloso fuoco. E questo è per li peccati della gente, chè molte genti e luoghi sono istati arsi per questi medesimi fuochi. Che innanzi al diluvio a cento anni, a belli tenpi e a bello cilestro (792), disciendeano di molte grandi e pericolose folgore sopra terra, e consumavano molte cose, per lo peccato della gente che allora erano, per la malvagità loro. E voi potete vedere chiaramente che ora disciendono in più luoghi, per la malvagia credenza che tengono. Ma tenpo sarà che folgore non iscienderanno così ispesso nè così pericolose; e questo averrà per la credenza di coloro che saranno a quello tenpo, che egli saranno credenti in Dio lo criatore. Quando le folgore disciendono dall'aria, e elle incontrano lo grosso nuvolato, si perdono una parte della loro forza, per l'acqua che le 'nfralia (793); e con tutto ciò sono pericolose.
(792) au bieu celestre C. F. R. — e l'aria bella e cilestra C. R. 2.
(793) Da infralire. — Nel C. R. 2.: infrailiscie.
Lo re domanda: le montagne e le rocche furono create dal cominciamento del mondo? Sidrac risponde:
Da Adamo infino al tempo del diluvio non ebe niuna montagnia, che tutto il mondo era piano, come la palma della mano; e non ebe unque piova nè tenpesta. E la terra rendea lo suo frutto, più che la nostra, ora. E la gente non mangiavano carne e non beveano vino. Ma i loro peccati erano molti grandi, chè a Dio non si voleano convertire; sicchè a Dio piacque per gli loro peccati di mandare il diluvio sopra la terra, per lavare la terra de' loro peccati. Lo diluvio durò sopra la terra XL giorni, e alto XL cubiti. Quando elli volle coprire la terra, per la volontà di Dio, l'angelo venne a Noè, e comandogli che facesse una arca, e entrassevi entro egli e la moglie e' figliuoli e le loro mogli, e di ciascuna criatura vi mettesse una coppia, cioè maschio e femmina. Noè fece lo suo comandamento; e di quelli che nell'arca furono, sono usciti quelli che oggi sono. Quando lo diluvio cominciò a venire, per la volontà di Dio, si fue sì grande la corrente, ch'ella cavava la terra e' sassi, e menavagli qua e là; e là ove la corrente rimanea, le pietre e le rocche si restavano, e facevano montagne. E d'allora in qua cominciò a piovere, e a essere gielo. Del freddore dell'aria e del calore del sole s'acostano insieme, e diventano vive rocche e montagne, come voi vedete (794).
(794) de la froidor de l'air et de la chalor au solail si asoderent, et devindrent roches vives et montaignes, tel com vos le vees C. F. R.
Lo re domanda: da quale parte viene lo diluvio? Sidrac risponde:
Lo diluvio venne del volto (795) del mondo, cioè a sapere del levante, chè quella è la più degna contrada del mondo; chè di là viene la grazia e la misericordia di Dio nel mondo e in terra, quando egli la vuol mandare. E quando egli vuole strugere alcuno uomo o alcuno luogo, per la loro follia, egli manda la sua ira diverso il levante. Ma per la ritondeza del mondo e per l'alteza del fermamento, ella (796) non puote conosciere di qual parte è il levante. E medesimamente gli angeli, che in terra vengono per le genti guardare e anuziare e amaestrare, di quella parte vengono.
(795) chiere C. F. R. — Chiere significa volto e capo, testa. — Come il capo è la parte più nobile del corpo, così è il levante la più degna contrada del mondo. — Nel T. F. P: chief du monde.
(796) l'on ne C. F. R.
Lo re domanda: verrà altra volta lo diluvio in terra? Sidrac risponde:
Iddio per la sua potenzia à promesso che altra volta il diluvio non manderà in terra. Ma se le genti peccheranno contra lui, egli manderà lo suo fragello, che gli fragellerà. Lo suo fragello s'intende la sua ispada; che l'una generazione correrà sopra l'altra, e in questo modo si consumeranno.
Lo re domanda: quando Noè entrò nell'arca, e prese di ciascuna bestia e uccielli un paio, che bisogno avea di rea bestia, e di metterla nell'arca, i scorpioni e tarantole e altre ree bestie? Sidrac risponde:
Egli gli mise per due cose: l'una fue per lo comandamento che egli ebe da Dio, chè comandato gli fue che egli mettesse di ciascuna bestia due; egli non ardì di trapassare (797) lo suo comandamento, come del suo criatore. L'altra si è che, se le malvagie bestie velenose non fossono sopra la terra, la terra sarebbe sì invelenata, ch'ella invelenerebe lo suo frutto, sicchè niuno lo potrebe mangiare, ch'egli non morisse inmantenente. Chè la terra è in molte parti tropa velenosa; e le bestie che noi abiamo mentovate, non vivono se non del veleno della terra. E di questo si può l'uomo legiermente avedere: chi pigliasse lo più velenoso uccello (798) del mondo, e tenesselo in uno vasello, che fosse di terra, XV giorni; e dessegli a mangiare pane e carne o altra cosa che non fosse di terra, egli perderebe lo suo veleno, e non potrebe dannegiare niuno, se della terra non mangiasse.
(797) travalcare C. R. 1. — La Crusca non registra che travalicare.
(798) animale C. R. 2. — serpant C. F. R.
Lo re domanda: l'oro onde viene? Sidrac risponde:
L'oro viene del levante della terra, e simigliantemente l'argento; che là ove la terra è pura e netta, ivi si truovano le vene dell'oro e dell'ariento. E la gente lo truova, e poi l'asettano (799) per lo loro senno. E ciò non è mica per tutta la terra; ma delle L. giornate o più, si truovano una di queste vene. Nelle parti del ponente si truova l'oro, come rena, alla riva del mare. Uno fiume à in India che mena di pagliuola (800).
(799) lo lavorano C. R. 2. — les affaictent T. F. R.
(800) oro di pagliuola C. R. 2.
Lo re domanda: le perle e gli carbonchi onde vengono? Sidrac risponde:
Uno mare è che si chiama lo mare nero. In quello mare si à molti nicchi (801), che si tengono a due a due, e sono aperti sopra l'acqua; e la piova si disciende dall'aria e entra ne' nicchi, per la volontà di Dio. Egli si chiudono, e vanno e vanno dentro dal mare, e ivi dimorano C. anni o più. E quegli che gli vogliono avere, sì si cuoprono i volti di vessiche di buoi, per allenare (802) sotto l'acqua, e per lo grande dimoro ch'eglino vi fanno; e sì s'ungono d'uno incenso (803) nero, perchè gli pesci si fughino, e non fanno loro male (804). E quando eglino tragono fuori i nicchi, egli gli aprono, e tragonne fuori le perle, che sono come carne bianca, ritonda. Quando elle sentono l'aria, elle induriscono, tali com'elle sono. E quando elle non sono di stagione, elle putono come carogna, e non vagliono nulla. I carbonchi si truovano simigliante ne' nicchi che sono nell'acque dolci; e sono di grandine che cade dall'aria in loro; e elli si chiudono, e vanno nel fondo, e quivi dimorano CC. o CCC. anni, in quello fondo, e le genti le truovano. E quando elli non sono di stagione, simigliantemente putono, come le perle, e non vagliono nulla. Non intendere che tutta la piova che cade ne' nicchi e la grandine, diventino perle o carbonchi, se non lo primo giorno della luna di giemini (805), quando la luna è nel suo segno; allora diventa la piova che vi cade entro, perle. E a' dì XII di giugno (806), quando la luna è in cancro, diventa la grandine che cade ne' nicchi, carbonchi; e ciòe aviene più tardi che quelle delle perle.
(801) molte coquilles C. R. 1.
(802) per alitare C. R. 1.
(803) unguento C. R. 1.
(804) laonde li pesci li dottano e fuggono. R. C. 1.
(805) genvier C. F. R. — il dì di calen di gennaio C. R. 1.
(806) a' XXIIII dì della luna del mese di dicenbre C. R. 1.
Lo re domanda: quante terre sono al mondo? Sidrac risponde:
Tutta è una terra; ma per la ragione del mare, che è in terra per lo mezo (807), egli le diparte in tre parti, che si chiamano tre contrade, sanza l'isole. Ma tutta è una terra ferma; e tutte sono sopra uno fondamento; e tutte le formò Idio, a una ora e a una volontà. Ma chi andasse sotto il mondo, conciosia cosa che (808) niuno vi possa andare, ma per la volontà di Dio uno andasse tutto intorno, egli troverebe che tutta la terra è una, là ove è il mare e là ove non è; che tanto profondo non può essere (809), che la terra non vi sia sotto. E quella medesima terra àe acqua di sotto, ella, che la sostiene.
(807) ch'entra per lo mezo C. R. 2.
(808) sebbene.
(809) che tutta profonda essere C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
Lo re domanda: puote l'uomo andare intorno al mondo? Sidrac risponde:
Niuno puote andare intorno, nè atorniare lo mondo. Bene potrebbe l'uomo tanto vivere, che, se la terra fosse tutta terra ferma, e fosse piana, che andare vi potrebbe. Ma chi andare vi volesse, molto vi troverrebe contrariose (810) montagnie, che passare non si potrebono in niuna guisa; perchè troverebono molti diserti, che fiore (811) d'acqua non v'à. Anche si troverebono molte bestie e uccelli salvatichi, che l'ucciderebono. E là ov'egli avesse passati tutti questi pericoli, si troverebe lo grande diserto, ove è la grande scuritade, che l'uomo non vi puote vedere nulla. E là ove l'uomo avesse passato questo, si troverrebbe le crepature della terra, là ove il mare batte, e passa per mezo la terra. E per molte ragioni niuno uomo andare non vi potrebe, eziandio fosse uccello, volando, per la sete e per l'affanno e per molte altre ragioni (812).
(810) contraires C. F. R.
(811) Per punto, niente. — punto d'acqua C. R. 1. e C. R. 2. — goute d'aigue C. F. R.
(812) Per molte ragioni, le quali si potrebbero asegnare, non potrebbe niuna persona intorno alla terra andare; ancora fosse elli uno uccello volante, non vi potrebe andare per la sete e per la fame che patirebbe C. R. 1.
Lo re domanda: potrebbe l'uomo andare tanto in su una nave, che tuttavia la spingesse il vento inanzi, ch'egli potesse venire presso al fermamento? Sidrac risponde:
Chi fosse in una nave in mare, e il vento la portasse e sospignesse tuttavia inanzi, e movesse dal levante, da indi a due anni o più si troverrebbe dalla riva del ponente. E simigliante, s'ella si partisse dal ponente, si troverrebbe dalla riva del levante; e dal traverso del mondo altressì. E s'egli avenisse cosa che fosse per la volontà di Dio, che uno uomo fosse sì grande, come tutto il mondo, e fosse presso del fermamento, là ove egli si volgie a mille miglia e più, quello uomo che fosse magiore del mondo, morrebe incontanente, della paura e delle tenpeste che fa il fermamento, quando egli si volge; chè lo fermamento non fina di volgere nè di torneare.
Lo re domanda: che non creò Iddio l'uomo che potesse vivere lungo tenpo? Sidrac risponde:
Se Iddio avesse fatto quello che tu dici, egli avrebbe fatto grande oltraggio al diavolo, ch'egli lo traboccò di cielo per una sola cogitazione. E l'uomo che il suo diletto avesse in questo mondo, e lungamente vivesse sanza molti e grandi peccati, che non potrebe? E se egli lo mettesse in paradiso, sapiate che Idio avrebe fatto grande oltragio al diavolo. Non perciò ch'egli ci à dato vita e santà e gioia, più che tu non dici. Li buoni giammai non morranno, e tuttavia giovani e allegri e ricchi e savi saranno. La morte che noi abiamo in questo secolo, si è altressì come trapassamento; e altressì come uno uccello, che entra per una finestra e escie per un'altra. E chi vuole vivere lungo tenpo, faccia quello che Idio gli comanda. E se uno re dicesse a uno povero: vieni al mio tesoro, e piglia del mio avere e delle mie gioie e delle mie pietre preziose, tante quante tu vorrai, e serbale per me; che, un'altra volta, quando tu verrai a me, tu non venghi lordo, che tu sarai cacciato alla mia porta; se quello uomo vorrà pigliare di quello tesoro, egli sarà inorato tra li possenti; e s'egli vorrà andare tra la puzza, egli sarà cacciato ontosamente da la conpagnia de' possenti. Altrettale aviene di Dio. Idio ci à donato gioia e vita e sanità e ricchezza e gioventudine per tutti i tenpi, e vita a chi la vuole avere, sanza fine; che già non morrà, per lo trapassamento ch'egli farà di questo secolo. Lo suo tesoro si è la nostra credenza e lo bene che noi facciamo; e lo nostro andare a lui altra volta si è la morte; e chi vuole questo fare, egli avrà questo per tutti i tenpi, ciò è a sapere che egli andranno nella vita perdurabile. E s'egli ci desse lungamente gioia e vita e santà, e poi morire e andare diritto in paradiso, non sarebbe mestiero di darci tutto questo, ma di metterci del tutto in paradiso. Io non vorrei vivere tanto quanto il mondo durerà, e essere tuttavia ricco e giovane e possente, e alla fine del mondo morire, e andare in onferno. Certo inanzi amerei di morire ora, e andare immantenente in paradiso. Che tutti i diletti e le gioie e le ricchezze di tutto il mondo fossono insieme, tanto quanto il mondo durerà, e fossono ragunate tutte in un luogo, non sarebbono nimica delle mille parti l'una, delle gioie di paradiso. E simigliantemente, a questa medesima ragione, delle pene dello 'nferno: che tutte le pene che giammai furono e saranno per universo mondo, e tutte quelle che potessero essere, tanto quanto il mondo durerà, non sarebbono mica delle mille parti l'una, del dolore e delle pene dello 'nferno.
Lo re domanda: quali angieli pigliano l'anime? Sidrac risponde:
Ciascuna anima, se ella è buona e giusta, quando ella si vuole partire di questo secolo mortale, si viene l'angelo che la guarda e governa in questo secolo, si viene con grande conpagnia d'angeli, e portalla, cantando e glorificando lo nome di Cristo lo criatore. E poi la mettono in cielo, e là istarà, infino a tanto che lo figliuolo di Dio verrà a giudicare i morti e i vivi. Allora verrà l'anima al giudicamento, e piglierà lo suo corpo, e monterà nella conpagnia di Dio in cielo, come uno de' suoi angeli. Le ree anime, quando elle si dovranno partire de' loro corpi mortali, si viene lo diavolo, a quella anima che à aconsentito alla sua volontà, con grande conpagnia di demoni, e portolla ontosamente e dolorosamente, e mettolla nelle pene dello 'nferno. Ma non intendere nimica che questo sia al nostro tenpo; ma questo sarà dalla morte del figliuolo di Dio: tutti fieno in inferno, buoni e rei, ma tutti non vanno già in uno luogo, ch'egli vanno tutti in nabisso d'inferno per tutti i tenpi; ma i buoni vanno ne' canti (813), là ove egli non ànno se non tenebre; e là istaranno tanto che il figliuolo di Dio gli verrà a liberare per la sua morte.
(813) en l'orle C. F. R. — nelli cantoni C. R. 2.
Lo re domanda: quale è meglio, od opera o castità? Sidrac risponde:
Opera vale meglio sanza castità, che castità sanza opera. Se tu se' casto del tuo corpo, e le tue opere sono rie, quella castità che tu ài non sono per Dio, anzi sono per alcuna cagione che tu ài, o per vechieza o per fraleza di natura. Quelli che uccidono le genti, ingannano, e inbolano l'altrui, e sì si spergiurano, e non conoscono lo loro criatore; e quelli che lo conoscono, e non fanno lo suo comandamento; quelli che fanno le rie opere di male maniere contra gente, che castità possono avere in loro? Quando cotali opere fanno, cotali gente, non ànno in loro la castità per Dio, anzi l'anno per le cose sopradette (814). La castità che è in loro non è prode neuno alla gente. Quelli che ànno buone opere in loro, e non sono casti, quelli non fanno niuno danno alla gente, anzi fanno male a loro medesimi. Chi buone opere fae, può fare rei fatti, bene e pietà e lealtà alberga in lui; e se egli non è casto, lo suo peccato non fa niuno male a l'altre genti; anzi puote essere per le buone opere ch'egli fa, raccatterà lo suo peccato. E però diciamo noi che le buone opere sanza castità vagliono meglio che castità sanza buone opere.
(814) Quelli che fanno le male opere, e uccidono le genti, e ingannano e rubano e uccidono e furano, quelli sono ispergiuri; e quelli che non conoscono loro creatore, et quelli che non fanno suoi comandamenti, ke fanno le male opere per molte maniere; tali gente, che castitade possono avere in loro, quando elli non ànno pietade d'altra creatura? Quando cotali opere rie fanno, tali gente non ànno la castitade in loro per Dio, anzi l'ànno per le cose avanti nominate C. R. 1.
Lo re domanda: di che vengono gli tremuoti? Sidrac risponde:
I tremuoti avengono per l'acque che corrono fortemente sotterra, e fanno grandi marosi, e gittano grandi venti del loro incontrare. Che l'aria si serra e si raguna in tane, che sono sotto terra, e per lo suo grande serramento (815) e per la sua grande forza ella crolla la terra, e falla rimutare, e criepa. E 'l vento e l'aire escie tutto di fuori, là ove la terra è frale; e al suo uscire abatte e confonde (816) tutto ciò che sopra v'è fondato; e là ove la terra è forte, ella triema sanza altro fare (817).
(815) raunamento C. R. 2.
(816) confund C. F. R. — Confondre, confundre, oltre confondere, vuole anche dire rovinare, distruggere.
(817) „Onde volendo noi cercare la cagione, che fa tremare la terra, troviamo una ventosità che s'ingenera nel ventre delle terra.... E già avemo trovati forati nella terra, che continovamente n'uscia fuori lo vento..... E in quelle contrade erano bagni: onde, entrando lo calore del sole entro per lo corpo, lo quale ha a risolvere l'umidità in vapore, risolve l'umidità della terra e diventane vapore ventoso, lo quale è racchiuso nella concavità della terra..... onde, non potendovi istare, combatte colla terra per uscire fuori; e se truova la terra dura e soda, levata su e giù, e falla tremare, e insolliscela ed escene fuori; e se la truova arenosa e solla, escene fuori sanza tremuoto.„ Ristoro d'Arezzo, Compos. del Mondo, VII, iv., 7.
Lo re domanda: le piante perchè mutano lo loro segno e fannoli contro? Sidrac risponde (818):
Iddio à stabilito che tre volte averà: le prima è venuta, e le due averranno. L'una fue per l'avenimento del diluvio, che tutto il mondo dovea perire. L'altra sarà quando il figliuolo di Dio sarà crocifisso e morto: questa sarà molto grande e molto iscura, e bene dee essere, per la morte di così grandissimo signore, come il figliuolo di Dio sarà. L'altra sarà quando lo falso profeta nascierà, lo quale tutto il mondo divorerà. Questi tre sono naturali. Gli altri che sono stati e saranno, sono per la ragione del sole e della luna e della terra; chè la scurità della luna aviene per la terra, e quando ella toglie lo chiarore del sole. La luna e 'l sole vanno per una via, ciascuno nel suo cerchio; e quando aviene che la terra tolga lo chiarore del sole, si conviene che la luna iscuri, perchè la luna non luce per sè, anzi per lo chiarore del sole che fiede in lei; e se lo splendore non vedesse, la luna giammai non lucerebbe; che la luna è come uno specchio, che niuno chiarore non rende. Quando lo fermamento fa lo suo torno, e lo sole intornea lo mondo, si comincia la terra a tôrre lo chiarore del sole alla luna, a poco a poco; siccome voi vedete che la luna rischiara a poco a poco. E ciò aviene per la terra, che li ombra (819) lo splendore del sole. Quando la luna è tutta coperta per la terra, ch'ella à tolto lo chiarore del sole al volgere del fermamento, lo sole iscuopre della terra parte, e la luna perde l'onbra della terra; e allora lo sprendore del sole la comincia a fedire, a poco a poco, tanto che la luna à tutto ricovero (820) la sua luce. La luna perde per lo sole lo suo lume, a poco a poco, dall'una parte, e dall'altra lo ricovera simigliantemente, a l'uscire del sole (821). E simigliantemente aviene del chiarore del sole, quando la stagione è che il sole va per la via della luna; e egli medesimo viene sopra lei; ella fa ombra alla terra, e toglie lo chiarore del sole, tanto che egli avrà passato dall'altra parte, per lo movimento del fermamento; e si discuopre dall'altra parte, a quella medesima ragione che la terra toglie lo chiarore del sole alla luna. E quando la luna rende lo suo chiarore, quelli che non la veggono, si ànno notte, perchè non ànno lo chiarore del sole. Quando lo sole fa lo suo chiarore, quelli che vegiono, si ànno giorno, ch'egli ànno lo suo chiarore. Allora quando noi vegiamo lo suo chiarore, l'altre genti nollo veggiono; quando noi nollo veggiamo, e quelli lo veggono.
(818) Questo capitolo tanto nel C. F. R. che nel T. F. P. è intitolato: Les esclips de quoy vienent? E questo pare che abbia da essere il vero titolo di esso.
(819) Ombrer, ant. fr., ha ancora il significato di coprire. Il testo prov. del Sidrac: esdeve escura per la terra que lhi enombra la resplandor del solelh. — Ombrare in questo senso manca alla Crusca.
(820) àe ricoverata C. R. 2.
(821) Aussi comme le solail se couvre de la terre de l'une part a son passer, et se decouvre a son yssir de l'autre part C. F. R.
Lo re domanda: le stelle che vanno per l'aria, vanno elleno, e come cagiono elle? Sidrac risponde:
Lo chiarore che voi vedete andare per l'aria non sono già istelle, anzi sono tre cose: l'una è lo vento, che corre per l'aria (822); la seconda si è l'umidore che la terra sospira (823), che egli monta in alto ne l'aria, nello grande calore che la terra getta, e quando egli sente l'aria, egli ischianta. La terza si sono gli angioli, che di cielo sono abattuti, siccome a Dio piacque; chè quando lo suo comandamento fue ch'eglino non cadessono più, in quello punto dimorò ciascuno in quello luogo là ove egli era. Quelli che nell'aria furono traboccati, dimorarono nell'aria; e alcuna volta vogliono per loro ingegno (824) agrappare al fermamento; e gli angeli di Dio gli fediscono di fuoco, e buttano in inferno, là ove gli altri sono. E quello fuoco che caccia (825) nel nabisso dello 'nferno, si dimostra a noi i modi di stelle (826). Simigliantemente avengono quelle cose così di giorno come di notte; ma per lo chiarore del sole non si possono vedere.
(822) „Quod in nocte videntur stellae cadere, non sunt stellae, sed igniculi a flatu ventorum ab aethere in aerem tracti, etc.„ Imago mundi, c. 50.
(823) Per esala.
(824) par lor engin C. F. R.
(825) chi les eschaufe C. F. R. — Forse eschaufe fu tradotto per caccia? Anche il C. R. 2. ha: cacciano.
(826) si dimostra a noi in modo di stelle C. R. 2.
Lo re domanda: quanti cieli sono? Sidrac risponde:
Tre cieli sono: l'uno è quello che noi vegiamo, che intorno di noi torna, e si è del colore dell'azzurro, e si è lo primo fermamento, e si è corporale. Lo secondo si è quello ove i buoni saranno, là ove gli angeli sono, e si è ispirituale, e si è alla simiglianza di cristallo. Lo terzo si è quello ove Idio è; e è di simiglianza d'oro. E ciascuno di questi cieli è di lungi l'uno dall'altro, come la terra infino al primo cielo. Ma egli si nominano VII cieli per la substanzia di VII pianeti.
Lo re domanda: quanto è alto lo cielo da terra? Sidrac risponde:
Lo cielo è tanto alto dalla terra, che, una pietra fosse al cielo, che pesasse quanto una macina da mulino, si penerebe a cadere più di cento anni, anzi che ella fosse quagiù, ove noi siamo. E si è così presso lo cielo dalla terra, agli buoni, e agli angeli (827), che così spesse volte vi montano e asciendono, come l'uomo chiuderebe gli occhi e aprirebbe; questo è per la volontà di Dio.
(827) as bons chi monteront et as angles qui souvent montent et descendent C. F. R.
Lo re domanda: di quale virtù è il fermamento? Sidrac risponde:
La virtù del fermamento è maggiore che nullo uomo del mondo non potrebe contare. Egli è fatto ritondo, come una ruota che testa nè coda non à; e non fina tuttavia di volgersi intorno lo mondo. E se egli posasse del suo torno, e non torneasse lo mondo, niuno uomo e niuna femmina e niuno pescie andare nè mutare non si potrebbe, anzi sarebono come morti; che Dio l'à fatto bene ordinatamente in quella maniera e in quello modo, che bisogna al mondo e alla gente. Per lo suo torno tutte le gienti vivono.
Lo re domanda se le pianete e le stelle sono di gran virtute (828). Sidrac risponde:
Le pianete e stelle sono di grande virtude. Le sette pianete fanno nasciere tutte l'erbe del mondo e tutti i frutti della terra. Le pianete governano, per volontà di Dio, la terra e l'acque e' venti e le genti e le bestie e gli uccelli e' pesci e tutte l'altre cose che ci sono; e sì si stabiliscono per lo loro torno le cose tenporali e le corporali. Elle sono sette pianete: la prima si chiama Saturno, che è di sopra e più forte, e è maggiore che l'altre; e ciascuno (829) segno istae due anni e mezo; e si è pianeta di podere e di possanza. E quelli che sono nati in quella pianeta, quando elli comincia ad abassare, elli abassano di podere e di forza; quando egli regna, egli regnano nelle loro ricchezze e in bene. Ella (830) regnia in XXX anni una volta; e regnia in uno segno che si chiama libra, e s'abassa in un altro che si chiama aries. La seconda pianeta si chiama Juppiter. Pianeta è di riccheza e d'avere e di mercatantia e di senno e di savere e di buono lodo tra le genti; e si torna li XII segni, e ciascuno segno dimora VII anni. Quelli ch'è nato in quella pianeta, in capo di XII anni, egli è nel meglio di suo punto. Ella regna in uno segno ch'à nome chancer, e s'abassa in un altro che si chiama chapricorno. La terza pianeta à nome Mars. Quelli che è nato in quella pianeta, in uno anno e trentatrè giorni si può canbiare lo suo fatto (831) e la sua volontà. Ella regnia in uno segnio che à nome capricorno, e s'abassa in un altro che à nome chancer. La quarta pianeta à nome Sole: pianeta è di grandi fatti di re e di signori e di podere; e governa la terra; e passa per li XII segni; in ciascuno segno dimora uno mese. Quelli che è nato in questa pianeta, ciascuno dì si puote canbiare lo suo fatto e di sua volontà. E regna in uno segno che à nome aries, e s'abassa in un altro che à nome libra. La quinta pianeta à nome Venus. Questa è pianeta d'amore e di sollazzo e d'allegrezza. Quelli che in questa pianeta nascierà, di vano cuore e di frale sarà. In trecento trentatrè giorni si può cambiare lo suo fatto e le sue volontadi e le sue cogitazioni. Ella passa li XII segni, e in ciascuno segno dimora XXXIII giorni; e si regna in uno segno che à nome piscies, e s'abassa in un altro che à nome gemini. La sesta pianeta à nome Mercurio: pianeta è d'arte e d'inframmettersi in tutte cose; e passa li XII segni, e dimora in ciascuno segnio XXII giorni. Quelli ch'è nato in questa pianeta, in centotrè giorni si puote canbiare lo suo fatto e la sua volontà. Ella regna in uno segno ch'à nome virgo, e s'abassa in un altro ch'à nome pisce. La settima pianeta si à nome Luna: pianeta è d'acque e di viaggi e di leggierezza (832); e si passa gli XII segni, e in ciascuno segno dimora II giorni e terzo. Quelli che è nato in questa pianeta, in uno mese si può canbiare lo suo fatto e la sua volontà. Ella regna in uno segno ch'à nome taurus, e s'abassa in un altro segno ch'à nome iscorpio. Non intendere nimica che questo avenga alla persona, quando la pianeta è in quello segno; anzi averrà quando la pianeta comincia a regnare: la persona avrà grande bene in sua vita; quando ella è nata nel suo abassamento, la persona avrà tribolazione. E s'ella è nata in altro punto, la persona sarà d'altra qualità, secondo l'ora ch'ella è nata; non già secondo l'ora solamente, anzi secondo l'ora e il punto in che serà nato, e secondo lo sguardamento de' segni, che saranno incontro a quella pianeta, in quella ora e in quel punto. Lo giorno e la notte si è XXIIII ore, e ciascuna ora è mille ottanta punti, che fanno 25920 punti; moltiplicando XXIIII vie MLXXX punti (833), cotante creature possono essere nate per l'universo mondo, e ciascuno giorno e in ciascuno punto, e cotante persone. Bene puote essere che non si somigli l'una l'altra; e se alcune si somigliano di tutte cose, non puote essere che alcuna differenza non sia tra loro, o dei loro corpi, o delle loro qualitadi e del loro podere, chè più sono le diferenze che i punti di XXIIII ore. E perciò conviene che abbia tra loro alcuna differenzia, se non sono nati in uno punto. E tutto questo è per la volontà di Dio, che degnò di stabilire lo fermamento e le sette pianete, e i segni e l'ore e i punti del giorno e della notte. E di ciò potete voi vedere apertamente, delle cose visibili. Voi vedete lo sole cresciere l'erbe, e nodriscie gli frutti; e della luna apertamente: quando ella crescie, l'acque crescono e il sangue dell'uomo; e quando ella menoma, altressì si menomano le sue altre vertudi, che le aluminano lo mondo, l'una di giorno e l'altra di notte. E si ànno l'altre pianete le loro vertudi, che molto sono grandi. A chi le volesse contare, le vertudi delle VII pianete, assai avrebe a contare, che nulla di loro non manca lo stabilimento che Iddio à loro donato (834); e tutte le nature per lei passano, siccome è stabilito (835). E tutte l'altre stelle ànno molto grande vertù, ch'elle alluminano lo cielo, e rendono chiarore in terra; e di questo vi potete voi chiaramente avedere, quando la luna non luce, e l'aria è chiara e cilestra, e ciascuno puote andare d'ogni parte, e vedere, per lo chiarore delle stelle, in terra. E non v'à niuna pianeta che non sia magiore di tutto lo mondo, salvo Venus e Mercurio e Luna.
(828) Abbiamo preferito il titolo del C. R. 2., essendo evidentemente errato quello del C. L., che dice: Lo re domanda di quante maniere d'aquie (sic) e di quante pianete.
(829) en chascun C. F. R.
(830) Intendi la pianeta.
(831) lo suo stato C. R. 2.
(832) leggiere C. L. — Abb. corr. col C. R. 2., sulla scorta del C. F. R.
(833) Così il C. R. 2. — Nel C. L.: Lo giorno e la notte si è XXIIII punti che fanno XXV miglia e VIIII XX.
(834) car nulle d'eles ne forvee (sic) l'establissement che Deus li a done C. F. R. — Paragona forvee al signif. di forvoier.
(835) Non sappiamo che senso possano avere queste parole. — Il C. R. 2. ha: et tucte le nature loro si passano si come è stabilito. — E forse potrebbesi meno difficilmente spiegare questa seconda lezione, pensando al significato che nell'antico franc. ha il vb. passer, di se comporter. — Però il C. F. R. ha invece: toutes les nativites par elles passent, enci com Dieu l'a establi. — E questo potrebbe intendersi che i pianeti influiscono sulle nascite.
Lo re domanda: di che maniere sono l'acque? Sidrac risponde:
Di più maniere sono l'acque. Prima è lo mare, che è insalato, onde tutte acque escono. Anche ci à fontane che si canbiano, e surgono la settimana quattro giorni, e li III stanno chete (836). Uno fiume è che tutta la settimana corre, e il sabato non si muta (837). Un altro fiume à nel levante, che di notte è ghiacciato e di giorno corre. Altre fontane àe, nell'isole di mare d'India, che è sì spessa l'acqua, che, chi la mettesse in uno drappo, non si potrebbe colare; e è sì calda, che se l'uomo vi gittasse rame dentro, egli arderebe come il fuoco; e sì non si potrebe ispegnere se non con orina. Una fontana v'à, che surge acqua nera, che l'uomo fa di lei fuoco volante, che molto arde. Altre fonti v'à, che guariscono e saldano le ferite. Altre fontane v'à, che quando l'uomo bee di loro, elle rendono memoria; e altre v'à che fanno dimenticare; e altre che fanno giacere l'uomo colla femina ispesse volte; e altre v'à che fanno portare figliuoli alle femine che sono sterili; e altre che fanno sterili le femmine. E altre v'à che fanno dare a' ferri buone tenpere e dure; e altre v'à che fanno buoni colori. E fiumi v'à che fanno nere le pecore, e sono ispesse l'acque, che nullo non vi puote passare, nè pesci notare. Altre fontane v'à di diverse maniere, che tropo sarebe lungo a raccontarle (838).
(836) Mancano alcune parole al nostro e al C. R. 2. — Ecco la lez. del C. F. R.: Il y a fontaines che IIII fois l'an cangent lor color: premier noire, apres sanguine, et puis troble, clere, fine. Il y a fontaines che IIII fois la semaine sordent IIII jors, et les III se tienent coyes. — Sordent da sordre, jaillir; che ha comune con sorgere il significato e l'etimologia nel lat. assurgere. — Stanno chete non è ben tradotto. Il testo dice se tienent coies, che vuol dire si nascondono, non si mostrano; e sta in relazione col sordent.
(837) Per muoversi. — Nel C. F. R.: ne curt point.
(838) Il C. F. R. ha di più: Il y a autres fointanes chaudes, chi aveuglent la gens. Il y a une grant fontaine, chi est toute coye, et chant l'on fait aucun solas entor elle, et sont des strument, et corre com I flum. Il y a autres fointanes chi sunt mult perilloses: chi enteroit dedens, ne poroit iemais issir che mort. Il y a autres fointanes chaudes, autres froides, autres ameres, autres salees; et tout ce est par la nature de la terre; et devient de celle meyme nature. Et toute ce est la volente de Deu.
Lo re domanda: quanti mari sono? Sidrac risponde:
Tre mari sono: l'uno si è lo mare borre (839), che intornea la terra, e si è salato, così come voi vedete. Lo secondo si è lo mare nero, che niuno uomo non vi potrebe andare entro. Lo terzo è lo mare puzolente, che niuno uomo non vi potrebe entrare entro, che non morisse incontanente. Così come lo mare orrebe (840) intornea la terra, simigliante lo mare puzolente intornea lo mare nero. E tutto questo à istabilito Iddio.
(839) bocave C. R. 2. — botee C. F. R. — betee T. F. P.
(840) bactee C. R. 2. — boutee C. F. R. — betee T. F. P.
Lo re domanda: perchè fecie Idio ritondo il mondo (841)? Sidrac risponde:
Per tre cose: l'una per significanza di sè medesimo, che non ebbe incominciamento nè fine. L'altra per sua gloria e per sostenere tutte le cose. L'altra per lo torno del fermamento, che non fina di torneare per tutto il mondo (842), siccome Idio l'à istabilito.
(841) Manca ritondo al C. L. — L'abb. agg. dal C. R. 2.
(842) Correggi, col C. F. R.: entor le monde.
Lo re domanda: perchè fece Idio lo sole caldo e la luna fredda? Sidrac risponde:
Se il sole non fosse caldo e la luna fredda, niuno uomo vivere non potrebbe, nè la terra niuno frutto non renderebbe; chè Idio per la sua potenzia l'à bene istabilito e ordinato, siccome al mondo bisognia. Lo sole iscalda la terra, e fa vivere le creature, e fa nasciere i frutti della terra; e tutto questo aviene per lo suo calore. E se quello calore fosse di giorno e di notte, le genti e l'altre creature afogherebono, e l'erbe seccherebono. Ma di notte viene lo freddo della luna e dell'aria, e tenpera quella calura, e rende umidore, e così gli nudriscie, e fa vivere e cresciere. E se lo freddo della luna fosse tuttavia (843), e 'l calore del sole non fosse, la gente e l'altre criature vivere non potrebbono. Se non fosse lo calore del sole e lo freddore della luna, lo mondo essere nè vivere non potrebbe.
(843) tout jors C. F. R.
Lo re domanda: quale è la maggiore cosa che sia? Sidrac risponde:
La misericordia di Dio è la magiore cosa che sia, nè che fu, nè che sarà; chè nullo cuore non potrebbe pensare, nè lingua dire la grandeza della misericordia di Dio, a quelli che la cheggiono e che la disidirano d'avere. Ella è magiore che le granella della rena e le gocciole dell'acqua del mare e le foglie degli alberi: è magiore di tutte (844).
(844) di tutte le cose del mondo C. R. 2.
Lo re domanda: quale è più o la rena della terra o le candelle (845) del mare? Sidrac risponde:
La rena è più assai che le candelle del mare. Una pugnata di rena sarebe grande quantità di candelle d'acqua, che molto sono più minute le rene che le candelle dell'acqua. Ella non puote essere nulla parte che l'acqua non sia sopra terra e sopra rena; e la rena sostiene molte parti del mondo. La rena dura molte giornate, e sì non v'à candella d'acqua. Lo mare non puote essere tanto profondo, che la rena e la terra non vi sia; chè tutta l'acqua del mondo si è posta sopra terra e sopra rena. E alcuna volta l'uomo cava la terra, e truova l'acqua sopra rocca; ma la rocca è posta sopra terra; e questa è ragione per la minutezza della rena, e perchè in molte parti à rena, ove non ci è acqua. E la rena è più che le candelle dell'acqua.
(845) Candelle è ripetuto tante volte nel Cod. che noi non sapremmo qualificarlo per errore. D'altra parte il C. F. R. ha sempre goutes, e il C. R. 2. sempre gocciole. Ed è evidente che candelle ha da avere appunto questo significato. Ma come e perchè? Per un momento ci parve di potere supporre che invece di candelle fosse da leggere canelle; e che trovandosi nel latino barbaro guttarium per canalis, il traduttore, per una strana confusione d'idea e di parola, avesse scritte canella per gutta, gocciola. Appresso credemmo di essere sulla via per ispiegare le candelle, considerando come questo vocabolo abbia riferimento ad acqua, ne' dialetti di varie città d'Italia; come ad es. nel milanese candìla, e nel bresciano candela, rigagnolo, piccolo rivo artificiale. Ma dobbiamo pur confessare che nè l'una nè l'altra di queste spiegazioni, dopo più matura riflessione, ci sodisfecero. Neppure sapendo che il provenzale ha cadenel, canale, rivo; dal quale forse potrebbe non esser difficile passare a candel, candella per onda. — Altri potrebbe per avventura supporre che avesse a leggersi ondelle, come già si disse ondetta e ondicella.
Lo re domanda: potrebbe l'uomo contare l'onde del mare o la rena della terra? Sidrac risponde:
Se il mondo fosse magiore mille volte, e fosse terra tutta ferma, e che durasse mille anni e fosse molto atticciato (846); lo giorno e la notte sono XXIIII ore, e ciascuna ora sono mille ottanta punti, e di (847) ciascuno punto nascieranno mille volte mille uomini e altrettante femine; e fossono tutti pilosi, e per ciascuno pelo avesse mille volte candelle di mare (848), le candelle dell'acqua sono più che questo numero, e la rena della terra è più che le candelle del mare, e la misericordia di Dio è magiore che l'una e che l'altra, e più che tutte le cose che al mondo sono, e che sono state o che saranno, a quelli che la disiderano d'avere.
(846) abitato C. R. 2. — habitees mout durement C. F. R. — habitees de grant multitude de gens T. F. P.
(847) a C. R. 2.
(848) mille volte mille gocciole di mare C. R. 2.
Lo re domanda: quante stelle sono in cielo? Sidrac risponde:
Se tutte l'acque fossono terra ferma, e l'una e l'altra fossono molto abitate da gente, e tutti quelli che sono morti e nasceranno e che sono, fossono in numero (849), le stelle sarebono più; chè per l'altezza del fermamento e per la sua ampiezza le stelle non si possono tutte vedere; che gli nuvoli s'abassano e gli altri innalzano; e però le stelle sono più assai; chè la vista dell'uomo, ched è sì tagliente (850), non puote tutte le stelle vedere. Lo fermamento, che è così grande, e è tutto alluminato dalle stelle, si risprende, come voi vedete e più; ma per lo suo torneare, l'uomo nolle puote vedere tutte (851), chè l'una disciende e l'altra monta, all'ore e a' punti dello giorno e della notte, così come Idio l'à comandato; che già non posano e non cessano, e fanno loro torno per lo movimento del fermamento.
(849) in uno numero C. R. 2.
(850) la viste de l'home chi est si trenchant C. F. R. — Non trovo es. nell'ant. fr. di trenchant agg. a vista; come neppure di tagliente in ital. — Il T. F. P. ha: sì penetrative.
(851) Manca al C. L.: l'uomo nolle puote vedere tutte. — L'abb. agg. dal C. R. 2.
Lo re domanda: quanti angeli creò Idio, e quanti furono quelli che caddono, e quanti no dimorano in cielo? Sidrac risponde:
Idio, per la sua santisima misericordia e per lo suo piacere, creò nove ordini d'angeli, che sono molto grande numero; e tutti rendono grazie e lodo a Dio lo padre onipotente. E di questi VIIII ordini, ne traboccò una parte, per lo loro orgoglio. Altrettanti sono quelli che ubidettono, come la metà della gente (852). E tutti quelli che sono morti e che nascieranno e che sono nati al mondo, si porranno a sedere in quelle sedie. Quando gli nove ordini saranno conpiuti, per quegli che traboccarono, il mondo finirà, e sarà alla volontà di Dio. Non intendere mica che tutti quelli che sono nati e nascieranno, monteranno in cielo, alle dette sedie; ma monteranno quelli che degni ne saranno, e quelli che lo comandamento di Dio faranno, e quelli che per lo loro servigio lo serviranno. Gloria e gioia e allegrezza non fallirà loro.
(852) la moitie des gens dou monde C. F. R.
Lo re domanda: quali sono più o le genti o le bestie o gli uccegli o' pesci? Sidrac risponde:
Le genti à fatte Idio assai meno che le bestie; che per ciascuna persona del mondo, sono più di cento bestie, sanza i vermini; e per ciascuna bestia che è al mondo, sono più di mille uccielli e più; e per ciascuno uccello, àe mille pesci e più in mare. Questi sono quelli che Idio à fatti più di nulla creatura movibile; e tutto questo è la sua volontà e lo suo comandamento.
Lo re domanda: Iddio ch'è tutto possente perchè non fece altre creature che vermini e bestie o uccielli o pesci? Sidrac risponde:
Idio per la sua potenza fece bene e ordinatamente a ragione ciò che egli fece; e fece al mondo quattro alimenti, e di quattro conpressioni, di caldo e di secco di freddo e d'umido; e si fece all'uomo corpo di terra, e alla bestia corpo d'aria (853), e a' pesci corpo d'acqua. E se egli avesse fatto corpo di terra, così come agli uomini, egli risusciterebono al dì del giudicio, altressì come l'uomo; ma perchè non ànno corpo di terra, diventano nulla (854). Lo più dilettevole luogo del mondo si è colà, là ove il cuore istàe, e à volontà d'essere; che se uno fosse nella più bella piazza del mondo, e avesse quello che mestiere gli fosse, e egli amasse altro luogo, quella bella piazza gli parebe nulla, inverso l'amore ch'egli avrebbe in altra parte (855), conciosia cosa ch'elli fosse laido; e se elli fosse la più brutta piazza del mondo, e egli amasse quello luogo, e' gli parrebbe il più dilettevole luogo del mondo. E perciò diciamo noi che lo più dilettevole luogo del mondo si è là dove l'uomo ama e disidera.
(853) et as oisiaus si fist cors de l'air C. F. R.
(854) Qui nel C. F. R. e nel T. F. P. comincia un altro Cap., intitolato: Le quel est le plus deletable leu de monde?
(855) leu C. F. R.
Lo re domanda: quale è più ardito o quelli che va di notte o quegli che va di giorno? Sidrac risponde:
Quegli che va per pericoloso luogo, e' va di giorno per la sua grande prodezza (856), come quelli che à grande coraggio di sè difendere dal suo nimico. Quelli che vae di notte, vae con grande paura, e non è uomo da difendersi da un altro, e va come ladrone. Gente sono che non dottano uomo nè bestia, e si non osano andare di notte, per paura d'onbra; e ciò loro aviene di difalta di cuore. Altra gente sono, che si chiamano codardi, e sono vantatori (857); e lo giorno vanno saviamente tra la gente, e la notte si devisano (858), e vanno per le ville, come arditi, perchè sono sicuri non saranno conosciuti. Ma le genti che li veggiono, credono che sieno alcuni valenti uomini. E per questa sicuranza vanno di notte facendo il male. Sapiate che quelli sono vili e codardi, che si devisano per parere altra gente.
(856) Celui chi vait en perilous leu et vait de jor, cil vait par sa grant proesse C. F. R.
(857) boubansors C. F. R., per boubancier.
(858) se desguisent C. F. R., che vuol dire sortir de la guise, se transformer. — Devisarsi è traduzione letterale del vb. fr.; ma può piacere, ad esprimere il cangiare di viso, di apparenza, di abito, invece di travisarsi.
Lo re domanda: quale è maggiore prodezza o quella di città o quella de' boschi? Sidrac risponde:
Prodezza di città non è già chiamata (859), ch'ella non è prodezza, anzi è follia e stoltezza. E' pigliano sicurtà dalla gente. Che molti sono quelli che, quando ànno parole con altrui, egli lo vogliono asalire tra l'altra gente; e quelli che sono asaliti, sono più valenti e più arditi; e si non si vogliono muovere contra di loro. E quelli che asaliscono lo fanno per tre cose: la prima, è per grande follia; la seconda, per sicurtà delle genti che si metteranno in mezo, e non lascieranno acostare; la terza, quando egli ànno troppo bevuto, e lo cervello loro è tutto smoto (860) di vino. E lo valente che è asalito, lascia lo mal fare per tre cose: la prima, che egli à paura di mal fare; la seconda, ch'egli dotta la signoria, chè tutti i valenti uomini dottano la signoria (861); la terza, dottano l'onta di non perdere lo suo, e però non si vuole egli muovere. Ma se amenduni fossono alla foresta, lo valente della città non avrebe ardimento di farlo; chè là non troverebe egli chi lo tenesse; e lo prod'uomo del bosco non temerebbe onta nè signoria nè di perdere lo suo, e tosto l'ucciderebbe. E se gli due s'incontrano insieme, lo prode uomo del bosco si difende valorosamente; e lo prode uomo della città, che spesse volte fanno le stampite (862) tra la gente, non oserebbe dimorare nella piazza, anzi fugirebe nel canpo. E però diciamo noi che la prodeza del bosco è detta prodeza, e quella della città è detta follia.
(859) ne est mie apelee proesse C. F. R.
(860) Traduz. letterale del franc. esmeue, dal vb. esmaier, commosso, turbato, alterato.
(861) car tout home la doit douter C. F. R.
(862) estampie C. F. R. — bombans T. F. P. — Pare che qui stampita abbia da intendersi per vantazione, millanteria. Trovasi questa parola nel provenzale, ove ebbe anche il significato di disputa, rumore. E nel nostro esempio potrebbe intendersi che chi fa chiasso, rumore, quando è in mezzo a molta gente, fugge poi se si accorge che vi sia pericolo di trovarsi solo di fronte al proprio avversario. — Cf. Gachet, Gloss. du Chev. au Cygne, a Estampiez. Il Gherardini reca un esempio di stampita per chiacchierata; e questo pure potrebbe adattarsi al caso nostro. — Vogliamo anche notare che il mod. spagn. ha: estampida, che significa il rumore del colpo di un fucile o di un cannone.
Lo re domanda: dee l'uomo rinproverare l'uno all'altro o di povertà o di ricchezza o di malizie o di malvagità di sua moglie, o d'altre cose? Sidrac risponde:
L'uomo non dee rinproverare l'uno all'altro di nulla cosa; che se tu gli rimproveri malizie, quelli che le dà, lui le potrebe bene dare a te (863). E se tu gli rinproveri della follia di sua moglie, egli potrà bene essere che altrettale averrà ad te. E se tu gli rinproveri d'altre cose, lo somigliante puote avenire a te. E però niuno dee rinproverare altrui, chè niuno è che sapia che avenire gli dee.
(863) car si tu li reproches de maladie, cil chi li dona la maladie puet bien doner a toy C. F. R.
Lo re domanda: dee l'uomo portare e fare onore a tutta gente (864)? Sidrac risponde:
Si bene, ma nulla anima del mondo lo potrebe fare a piacere con suo prode e con suo onore. L'uomo lo dee fare, conciosia cosa che tu non dei del tutto loro (865). Fa' loro bella cera e bello senbiante e buono conforto e buono consiglio; in questo modo potrai fare a piacere a uno e a uno altro con tuo prode e con tuo onore; e si avrai grado dalle genti, e sarai amato e pregiato, e tenuto per buono tra la gente.
(864) doit l'om porter honor et faire a plaisir de toutes gens? C. F. R.
(865) A rettificare questa prima parte del presente cap., poichè non può giovare il C. R. 2., sarà utile riferire la lez. del T. F. P.: Ouy bien, qui le poutroit faire; mais nulle personne ne le pourroit faire que Dieu. A ceulx a qui tu en pourras bien faire plaisir en ton honneur, ja soit ce que tu leur donne du tien, fais le vouluntiers. Et ceulx que tu ne pourras servir du tien, sers les de belles paroles et beau semblant, ec.
Lo re domanda: dee l'uomo dimenticare quelli che gli hanno fatto onore? Sidrac risponde:
Non già dimenticare nol dee, conciosia cosa che 'l servigio sia piccolo; a niuno tenpo lo dei dimenticare. E chi grado e piacere mi fa, egli mi dà assai del suo; e però dee portare l'uomo amore e reverenza e benevoglienza a quelli che l'ànno servito; e lui dee aiutare al suo podere, se bisogno àe, che lo buono guidardone dee l'uomo fare contra colui che servigio gli à fatto. E lo servigio che l'omo fa a quelli che l'omo non è tenuto, quello cotale (866) de' essere più gradito, che se l'uomo lo dee fare. E però non dee l'uomo dimenticare lo servigio che gli è fatto, a nullo giorno.
(866) Abb. corr. col C. R. 2. — Nel C. L.: dee l'uomo fare contra essere più gradito, ec.
Lo re domanda: come si puote l'uomo tenere dalla sua grande volontà? Sidrac risponde: (867)
Sì, bene e legiermente, quando egli è di quella volontà. E egli dee pensare allo suo criatore, e così come egli lo degnò creare alla sua simiglianza; e perciò non si dee lordare; ma onorare e nettamente guardare, per amore di quelli che lo degnò fare alla sua simiglianza. E si dee pensare come egli dee morire, e venire in nulla; e l'anima di lui ricevere tali guidardoni, come avrà servito in quello corpo, fia bene o fia male, secondo le sue opere. E in questi pensieri gli passerà questa volontà. Si lo re desse a uno uomo la sua roba, che la si dovesse vestire per lo suo amore, sapiate che quello uomo la si vestirebbe a grande onore, e la guarderebe nettamente, e sarebe molto innorato dalla gente, quando egli la si vestisse. Bene dobiamo noi essere più innorati e meglio guardare la somiglianza che Idio ci à vestiti, che è della sua propia, e più caramente che una roba d'uno cotale uomo, chente noi siamo, tutto fosse egli re. Che se tu non pensi in quella volontà per lei medesima passerà, se tu lasci nolla gratiare di fatti nè di pensieri (868); ch'ella è altressì come lo fuoco: chi più vi mette più arde; e per la sofferenza (869) e per gli buoni pensieri, leggiermente passerà. E tanto quanto l'uomo più soffera, più vorrà sofferire; e tanto quanto l'uomo più l'usa, e più lo vorrà usare. E uno fuoco che fa dannaggio, l'uomo lo dee ispegnere, e sì amortare nell'acqua, che giammai dannaggio non gli faccia. Simigliantemente dee l'uomo fare della luxuria; chè la luxuria è pericoloso fuoco, e fa molto grande dannaggio al corpo e all'anima. L'uomo la dee amortare e ispegnere tuttavia.
(867) Le roy demande: ce peut l'om tenir de luxurie, chant l'om est de volonte? C. F. R.
(868) Riferiremo prima la lez. del T. F. P.: Ainsi donc quant l'homme entre en ceste voulunte de luxure, et en luy mesmes il pensera les choses dessusdictes, bien legierement se passera y celle voulunte; mais qu'il la delaisse et qu'il ne la nourrisse point ne de faiet ne de pensee. — Ecco ora la lez. del C. F. R.: car se tu penses en celle volunte, elle passera par celle meesme volunte, se tu la laisses et ne la graees ne de faites ne de pencees. — Se tu la laisses (laisser ant. fr., quitter) è stato trad., come vedesi, se tu lasci. — Et ne la graees (graer ant. fr., gratiaer), è stato trad. nolla gratiare. — Il nostro periodo potrebbe intendersi così: se tu stabilisci, se sei fermo di non far grazie, di non fare concessione a quella volontà nè di fatti nè di pensieri.
(869) por ces soffraites. C. F. R. — Soffraite ant. franc., sofracha prov. ha, fra altri, il significato di mancanza; e qui pare che potrebbe appunto intendersi: e per la mancanza di materia che alimenti il fuoco, e per i buoni pensieri ec. — Potrebbe però anche interpetrarsi: e coll'essere tollerante (soffrir) e con i buoni pensieri ec. —
Lo re domanda: quale è lo magiore diletto che sia? Sidrac risponde:
Due sono i diletti del mondo: l'uno è spirituale e l'altro corporale; e lo corporale è poco diletto, perchè passa legiermente, e ispegnesi come uno lume, e diventa nulla; che del diletto corporale si generano molte malizie e avarizie e pericoli all'anima, e morte e onta e vergognia e si è tutta vanità; che ciò che l'uomo può fare di diletti in cento anni, se uno giorno e' gli falla, tutto quello che àe avuto gli pare nullo diletto (870). Lo spirituale, cioè a sapere di quelli che si dilettano in Dio e delli suoi comandamenti e nelle sue opere, e quegli che ànno buona fede e buona isperanza d'avere la vita perdurabile nella conpagnia di Dio, sapiate che quelli ànno molto grande diletto; tanto quanto più travagliano e sofferano per Dio, si loro richieda a fare di quello travaglio e sofferenzia (871); e si pare loro ch'egli sieno in gloria. E questo diletto mai non finiscie, anzi si canbia di bene in meglio, e di gioia in allegreza e in gloria, che mai fine non avrà. E perciò diciamo noi che lo diletto ispirituale vale meglio e è più grande che lo corporale, e è più durabile.
(870) car chant che l'home se puet delitier en C. ans, et un jor li faut tout et si resemble che riens n'en a este. C. F. R.
(871) si requirent plus a faire de cel travaile et soffrance. C. F. R.
Lo re domanda: desi l'uomo dilettare colla femina? Sidrac risponde:
Due maniere sono di dilettarsi l'uomo colla femina: l'uno è spirituale e l'altro è corporale. Lo spirituale si è quando l'uomo àe la sua moglie, si dee acostare a lei onestamente e degniamente. E sì si dee acostare co' lei a tale intendimento e intenzione, d'avere frutto di lei, che renda grazie al suo criatore. E quando ella è pregna, elli non si dee più acostare a lei, infino che partorito non à; e dopo il partorire XL giorni. E quando la femina è nel suo tenpo, e' non si dee acostare a lei, tanto quanto ell'à quello; e sarà questo lo buono diletto spirituale. Lo diletto corporale del mondo si è in modo di bestia, che non si guarda quando s'acosta alla sua femina, anzi s'acosta tutte le volte che n'à volontà. Sapiate che questo è malvagio diletto, e morte e perdizione dell'anima e del corpo. Quelli che lo fa a modo di bestia è di vita di bestia; e fanno contra lo comandamento di Dio.
Lo re domanda: quando l'una oste è contra l'altra come si deono conbattere? Sidrac risponde:
Quando l'una oste è contra l'altra, lo capitano dell'oste dee essere savio e proveduto e valente e vigoroso. E dee guardare e avisare (872) l'oste che è incontro a lui; e dee ordinare saviamente le sue ischiere; e desi muovere vigorosamente, con senno; e fedire contra loro e sopra loro. E se egli s'avedeno che i loro nimici sieno più forti di loro, e egli si dee tenere fortemente, e confortare la sua gente, e dare loro vigore e baldanza; e fare grande senbianza di muovere contra i nimici, e ricogliere la sua gente, e venire a salvamento. E se l'altra oste gli asaliscie, e egli si deono difendere vigorosamente. Che se l'oste forte sapesse lo fatto del meno forte, tosto la piglierebbe; ma perchè non si sa, ispesse volte n'aviene che le frali osti iscanpano dalle forti e possenti.
(872) esmer C. F. R. — Aesmer, esmer ha qui il significato di valutare, calcolare. L'avisare del n. t. ha il senso di guardare attentamente, o riconoscere, come nell'es. del Caro, citato dalla Crusca.
Lo re domanda: quali sono quelli menbri senza li quali l'uomo non potrebbe vivere? Sidrac risponde:
Se l'uomo avesse meno le mani, e' piedi e gli occhi e' coglioni e' gli orecchi e' denti e la lingua fosse sano (873), egli potrebe vivere. E se egli avesse tutti i suoi menbri sani, e egli non avesse nè denti nè lingua, egli non potrebe vivere; che i denti e la lingua apartengono alla vivanda; di che le genti vivono. La lingua mena la vivanda a' denti, ed aiuta; e sanza queste due cose non potrebe l'uomo vivere. Idio à fatto la lingua all'uomo, per adorare lo suo sancto nome, e per parlare, e per menare la vivanda a' denti; e sì l'à fatta di carne viva e reale sopra tutti gli altri menbri del corpo; e fatti i denti di nerbi ghiacciati (874), simiglianti a ossi che divorano gli ossi.
(873) fussent sains. C. F. R.
(874) de ners glacies C. F. R.
Lo re domanda: chi trovò e fece lo prima stormento del mondo, e come fu fatto? Sidrac risponde:
Lo primo stormento lo fece e trovò uno de' figliuoli di Noè, quelli ch'ebbe nome Giafet (875). Egli trovò in prima il suono dell'acqua corrente nelle pietre che erano nell'acqua, alte e basse: che l'una pietra dà più alto il suono l'una che l'altra, per la sua altezza o per la sua bassezza (876). E anche lo trovò per le foglie degli alberi, quando il vento vi dà entro. E di tale maniera ordinò, e stabilì lo stormento per lo scandalio (877) di queste due cose, e per lo senno, che era molto savio e sottile. E tutto questo fue per la volonta di Dio.
(875) par deux hommes dont l'ung eut nom Tubal et l'autre Tubalcain. T. F. P.
(876) Il traduttore non ha inteso, ed ha quindi messo insieme parole senza senso. Ecco la lez. del C. F. R.: Et le trova premierement par le son de l'aigue corante, et per le son dou vent des arbres; car il temproit le son de l'aigue corante, de pierres, de haut et de bas, car l'une partie donoit plus grant son che l'autre par sa autesse et par sa basesse.
(877) scandail. C. F. R. — exemple T. F. P. — scandaglio è usato per esperimento, esempio. La Crusca non ne registra che un esempio del Berni.
Lo re domanda: l'uomo che nascie sordo e muto, che linguaggio pensa e intende lo suo cuore (878)? Sidrac risponde:
L'uomo che nascie sordo e mutolo, nè parlare non puote, egli pensa e intende lo linguaggio del suo primo padre, cioè Adamo; e lo suo linguaggio fu ebreo. Dunque per diritta forza conviene che ritorni allo linguaggio del suo primo padre, ciò fu Adamo, là ond'egli fu schiantato. Altresì come uno omo che pigliasse i noccioli d'uno frutto d'uno alboro e si gli piantasse, quello nocciolo farebbe uno altro alboro simigliante a quello ond'egli fosse stato (879); e farebe il frutto di quella medesima senbianza e colore e sapore, come dal suo principio. E per tutte quelle volte che l'uomo piantasse di quelli noccioli, nascierebono albori e frutti di quella medesima senbianza e colore e sapore, come dal suo principio. E chi pigliasse di quello albore, e lo nestasse cogli altri frutti, egli diventerebbono di quella senbianza di quello onde furono nestati. Altressì fummo noi del primo linguaggio d'Adamo, primo nostro padre; e poi siamo nestati con altri legnaggi. Che chi pigliasse uno garzone di XI giorni o di meno, che non sapesse parlare nè intendere, e che lo mettesse in uno luogo che non potesse udire niuna persona parlare, e che l'uomo gli desse e facesse tutto ciò che bisognasse, e fosse sanza parlare altrui, quando egli avesse X anni o più, egli non parlerebe altro linguaggio che del suo primo padre, cioè ebreo; come la natura dell'albero che ritorna a sua natura.
(878) en son cuer. C. F. R.
(879) manca al n. c. da là ond'egli fino a ond'egli fosse stato. — Abb. suppl. col C. R. 2.
Lo re domanda: perchè sono gli nuvoli l'uno bianco e l'altro nero? Sidrac risponde:
Per due cose quelli che sono bianchi son posti da lungo l'arie (880), e tengono l'uno capo verso terra e l'altro verso il cielo; e lo chiarore del sole lo fiede e allumina col suo lume; e la luna lo fiede di notte e le stelle; e per questa ragione risprendiscono (881), e diventano bianchi. L'altra ragione si è perch'elli sono sottili e vani (882); e per lo caldo e per lo calore del sole elli passa la notte lo freddo dell'aria; e lo lume della luna gli passa (883); e perciò sono elli bianchi. Quelli che sono neri elli toccano l'aria di largo (884), e sono ispessi e grossi; e lo chiarore del sole nè de la luna nolli possono passare; e però sono elli neri.
(880) sunt assises dou lonc de l'air. C. F. R. — Assises da seoir. asseoir, être placé, situé.
(881) risplendono.
(882) vaines. C. F. R., leggeri.
(883) les perce. C. F. R.
(884) de travers. T. F. P.
Lo re domanda: dello tenpo ch'è chiaro e sereno gli nuvoli onde vengono? Sidrac risponde:
Quando lo tenpo è così chiaro come voi vedete, gli nuvoli che sono, eglino iscorrono (885) dello spirare della terra. Là dov'ella getta grande caldo, ella getta fuori di lei a modo di brina; e lo chiarore del sole la bee, a modo di rugiada, e porta suso; e poi si ragunano, e diventano nuvoli bianchi; e l'aria l'ispande per molti luoghi, e gli consuma.
(885) issent. C. F. R.
Lo re domanda: tutte le criature che sono fatte possono sapere la volontà della cogitazione di Dio? Sidrac risponde:
Nè niuno angelo nè niuno arcangelo nè niuna criatura che Iddio fece o farà, non potrà sapere la volontà nè la cogitazione di Dio, tanto quanto una candella di mare (886), se per Dio e per la sua volontade nolla sanno. La volontade e la cogitazione di Dio è sì grandissima, come tutto il cielo e la terra. E quando egli vuole che alcuna cosa sia fatta, punto non vi tarda, nè niuno più vi può calognare (887). E quelli che ànno saputo e sapranno la volontà di Dio, si fia per la sua medesima volontà, che loro lo manda a sapere per lo suo sancto angiolo; nè nulla creatura che Idio abia facta non può sapere la volontà di Dio nè la sua cogitazione, se per lui non lo sa (888); se non come una formica potrebe sapere lo profondo del mare.
(886) une goute de la mer. C. F. R.
(887) chalonger C. F. R. Chalonge, chalenge, ant. franc. vuol dire calunnia e insieme disputa, rifiuto; come chalonger, disputare, rifiutare, calunniare. E così in prov. calonja significa rifiuto e disputa. — In lingua vallona calengi vuol dire mettre en contravention, à l'amende; adresser un défi, un cartel. — Abbiasi a mente, per ispiegar ciò, i varii significati che ebbe calumnia nel basso latino (Du-Cange Gloss.). — In ital. calognare non vuol dir altro che calunniare, secondo ciò che registra la Crusca. Ma qui è chiaro che deve intendersi per porre ostacolo, proibire, impedire, disputare.
(888) Abb. corr. col C. R. 2. — Nel C. L. mancano molte parole.
Lo re domanda: dee l'uomo tutto giorno adorare? Sidrac risponde:
Sì bene, se fare lo può; ma sì fare nollo puote, perchè lo corpo vuole lo suo riposo. Che se egli non si riposasse, vivere nè andare non potrebe. E però dee l'uomo Idio adorare una parte del giorno e la notte, a certe ore; e travagliarsi per la vita del corpo; e un'altra riposare per dare forza e podere al corpo, perchè possa travagliare per sè e per la sua anima. E quando egli viene ad adorare Iddio, e' lo dee fare di buon cuore e di buona intenzione; e tenersi queto e di buona aria in uno luogo; e dire umilemente e perfettamente quello che vuole; e avere lo cuore e la volontade a Dio e alla sua gloria. E per niuna cosa non dee lasciare ch'egli non conpia la sua orazione. E quelli che lo fa, adora Iddio giustamente e perfettamente e intendevolemente; chi altrimenti, egli non adora siccome egli dee.
Lo re domanda: gli occhi che lagrimano ispesso donde viene? Sidrac risponde:
Gli occhi che lagrimano ispesso aviene dalla tenerezza del cuore e dalla purità del coraggio. Chè lo cuore che è tenero e puro, incontanente che ode cosa che gli dispiaccia, sì la pensa e guata; e sale l'acqua della sua tenerezza suso agli occhi; allora piange, e getta l'acqua fuori, per travaglio e per angoscia, che à il cuore, che è tenero e pietoso. Apena puote l'uomo male avere da lui, cioè per forza degli omori, che sono di quattro conpressioni al corpo; che la loro durezza sormonta la tenereza del cuore. Gli occhi che spesso lagrimano fanno grande abagliamento al cuore; che per le lagrime che gli occhi gettano, raffreddano l'arsura e lo calore del cuore. Gli occhi che non lagrimano, non possono avere ciò. Loro aviene, per la grande dureza, ch'egli ànno al cuore della grande fellonia. Cotale cuore apena potrebe pensare se non malizia e ingegno all'altra gente (889); e quando pensa alcuna volta l'uomo bene, ciò non gli aviene già per lui, ma per gli omori umidi che al corpo sono, che sormontano la sua dureza e la sua fellonia, e lo fanno per forza pensare in alcuno bene.
(889) Car tel cuer apeines puet penser que a malice et a engigner ec. C. F. R. — Engigner, ingannare.
Lo re domanda: quante maniere di gente de' l'uomo onorare (890) in questo mondo? Sidrac risponde:
Primieramente l'uomo dee adorare lo suo criatore, che lo fece e lo disfarà, quando lo suo piacimento sarà. E apresso dee l'uomo portare onore alla sua moglie, che Idio gli à donata a conpagnia, altressì come egli donò a Adamo Eva; e a loro comandò che amendue fossono una cosa. Ciascuno simigliantemente così dee essere alla sua moglie. E apresso deono adorare lo loro Signore, a cui egli à data la fede, per guardarlo e per salvarlo in tutte l'altre cose che intervenire possono. E apresso deono onorare il padre e la matre sopra tutte l'altre cose; e gli dee aiutare e mantenere lealmente. E apresso dee poi l'uomo onorare lo suo buono fattore, é figliuoli é fratelli é parenti é suoi amici; e ciascuno onorare e amare lealmente.
(890) debono orare. C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
Lo re domanda: qual'è lo più largo uomo del mondo? Sidrac risponde:
In questo secolo non v'à nullo largo uomo; e nullo è che donare possa; che tutto ciò che l'uomo dà in questo secolo e nell'altro è di Dio lo creatore, e da lui vengono. Che niuno uomo in questo mondo non potrebe tanto avere, che nulla potesse portare nell'altro. Ma quelli che in questo secolo danno, si è della grazia di Dio, le quale egli dona per aministrare a' poveri in questo secolo. Assai potete voi sapere che Idio è largo; e ch'elli dona il dono (891) in questo secolo a quelli che vegnono ignudi, e non portano nulle co loro. E Idio dice: donate del mio medesimo, a quegli che non ànno, e io vi darò nell'altro secolo a cento doppi.
(891) chi done les dons. C. F. R.
Lo re domanda: in via o in camino più onorare o 'l povero o 'l ricco (892)? Sidrac risponde:
Se lo povero è in cammino con migliore di lui, egli dee sofferire che quello migliore di lui vada innanzi, e egli apresso; e simigliantemente al sedere dee sofferire che lo migliore segga più alto e egli poi più basso. Lo povero non dee mica sedere più alto che lo ricco, perchè un altro migliore di lui verrà, e dirà: lieva suso, e lasciami sedere, chè questo non è già luogo per te. Ma s'egli avenisse che il povero fosse collo ricco in una battaglia, là si dee lo povero, se egli puote, più avanzare, e mettere inanzi al ricco, e conbattere, e se difendere vigorosamente e forzevolemente.
(892) Le roi demande: se doit l'om poure en chemin ou en place metre soi devant le riche? C. F. R. — E concorda col T. F. P.
Lo re domanda: è peccato di mangiare tutte cose? Sidrac risponde:
Iddio per la sua misericordia creò tutte le cose all'uomo, e ch'e' fosse altressì signore in terra, come egli è signore in cielo, d'uccidere, di manicare e di comandare e di travagliare tutte l'altre criature al suo servigio. E per questo grande dono e signoria e possanza che Idio ci à donata sopra tutte l'altre cose, noi abiamo podere d'uccidere e di manicare e di comandare quello che noi vogliamo. E ciò che noi mangiamo di buono cuore, egli ci è buono e diritto, se fosse serpente o scarpione o altra ria bestia del mondo, o uccello o paone, è questo buono mangiare. E se non ci piacesse, e nollo mangiassimo di buona volontà, sapiate che quello buono mangiare, non è buono nè diritto nè leale; chè ciò che l'uomo mangia di buono cuore e di buona volontade, egli è buono e diritto e leale; e ciò che l'uomo mangia sopra cuore (893) e di mala volontade, egli no gli è buono nè diritto nè leale.
(893) sor cuer. C. F. R. — Sor ebbe il significato di contre.
Lo re domanda: de' l'uomo salutare la gente a tutte l'ore? Sidrac risponde:
Non già. Non dee l'uomo nimica tuttavia salutare la giente. Che se tu se' nel tuo albergo, tra li tuoi amici e tra la tua masnada, tu dei due volte salutare il giorno, ciò è a 'ntendere la mattina e la sera; e se piue lo farai, tu farai contra ragione, e non li tuoi amici. E se tu incontri lo tuo amico nel cammino, tu lo dei salutare una volta il giorno; e la salute dee essere cotale secondo la stagione del giorno. Sapiate che quelli che in prima saluta à l'onore. E quando lo tuo amico o altri ti saluta, tu li dei cortesemente rispondere, a chi che si sia.
Lo re domanda: come dee l'uomo mantenere gli figliuoli? Sidrac risponde:
Se tu ài figliuolo, tu lo dei nudrire onestamente, e falli inparare senno e iscienzia; e gastigarlo ispesso; e fargli inparare arte, onde si possano aiutare, se mestiere loro è. E tu no gli dei ispesso mostrare bella ciera, nè lusingargli; che quando tu gli graverai d'alcuna parola, molto magiormente anoierà loro, per le lusinghe che tu averai loro fatte. L'uomo dee fare di suo figlio e di sua famiglia come della verga, ch'è verde, che l'uomo la può piegare alla sua maniera e alla sua volontà; che quando ella è secca, e l'uomo la vuole piegare a suo modo, ella si ronpe e non fa nulla per lui. E altressì è de' tuoi figliuoli e della tua famiglia: in prima gli gastiga perchè al di drieto (894) facciano la tua volontade; e che se alla prima no gli gastighi, al dirieto non faranno nulla per te.
(894) au derain. C. F. R.
Lo re domanda: qual dee l'uomo più amare tra la moglie o figliuoli? Sidrac risponde:
L'uomo dee amare la sua buona famiglia (895), più cara che cosa che sia, apresso lo suo criatore, e sè medesimo; inperò che egli e la sua moglie sono una cosa, altressì come Iddio per la sua potenza fece Adamo e Eva una cosa. Che Idio avrebe potuto fare Eva de' piedi d'Adamo, se egli avesse voluto, e ella sarebbe stata sotto i suoi piedi. E se egli l'avesse fatta della sua testa, ella sarebbe istata sopra la sua testa. Ma Idio volle che due fossono uno; che l'uno fosse possente come l'altro; perciò la fece della sua costola diritta, per ch'ella fosse suo pari di tutte le cose, e che egli fosse signore e ella donna; e che 'l mondo non si potrebbe moltiplicare sanza loro. E perciò diciamo noi che l'uomo dee amare, apresso al suo criatore, sè medesimo, sopra tutte le cose del mondo; e altressì la femina l'uomo. Che se tu perdi la tua buona moglie, e' ti manca del tuo onore del tuo saluto (896); chè tu non dei avere altra moglie, se non una sola in tutta la tua vita. Ma tenpo sarà che quello che averà a venire del popolo del figliuolo di Dio, che quelli che ordineranno la fede, ordineranno e stabiliranno, per la fragilità della frale carne, se la moglie muore, che egli ne possa pigliare un'altra; e simigliantemente possa fare la femina dell'uomo.
(895) moglie. C. R. 2. — feme. C. F. R.
(896) Per salute; usato al masc., come in ant. franc. e in prov.
Lo re domanda: se mio padre e mia madre non fossono istati, noi come saremo istati (897)? Sidrac risponde:
E da poi che lo comandamento di Dio è fatto, e tu se' nato in questo secolo, tu dovevi nasciere. Chè inanzi che Idio facesse lo mondo, sapea egli bene che lo mondo egli dovea fare; e sapea bene il numero della gente che nati sono, e che nascieranno, e gli loro nomi, e gli loro detti e fatti, e la loro perdita e la loro salute. E simigliantemente delle bestie e de' pesci e degli uccelli. E se egli non avesse saputo tutto questo, egli non sarebe istato Idio. La sua misericordia e la sua potenzia sapeva bene che noi dovevamo nasciere; e poi che tu se' nato, se lo tuo padre e la tua madre non fossono istati nati, tu saresti nato da un altro uomo e da un'altra femmina.
(897) come saremmo nati C. R. 1.
Lo re domanda: perchè non vengono a bene le creature che sono create in corpo alle loro madri (898)? Sidrac risponde:
Per tre cose: l'una è per lo comandamento di Dio; la seconda per lo frale seme, di che la criatura è stata seminata (899); la terza per la fraleza delle reni della femina; che le reni che sono frali, elle non possono sofferire lo peso del garzone; e ora si rimuta la madre (900), per lo garzone ch'è nel ventre della femina, dove il garzone si nodriscie; e dal suo rimutare lo garzone si versa (901), e la femmina s'apre, e lo garzone cade fuori; e poi per lo podere di Dio ella si richiude.
(898) Nel C. L. si legge: Lo re domanda se le criature che sono formate e vi crescono e non vengono a bene. — Abb. posto il titolo quale si legge nel C. R. 2.
(899) de quoy li enfans est formes. C. F. R.
(900) si remue la mere. C. F. R. — Intenderei: si muove la matrice.
(901) se verse. C. F. R. — Verser, ant. fr., ha, fra altri, il significato di rovesciare.
Lo re domanda: tutte le femine sono d'una maniera? Sidrac risponde:
Tutte le femine sono fatte d'una cosa, e ànno una taglia (902) dentro e di fuori. Ma alcune sono che ànno più calda conpressione che un'altra. Ma di menbri che vedere non si possono, che sono dentro del corpo della femina, tutti sono a una similitudine. E di ciò ch'all'uomo apartiene di fare alla femina, elle sono tutte uno; altressì è la più bella del mondo come le più laida. Ma elle non sono tutt'uno nè di detti nè di fatti, che l'una è migliore che l'altra. Ma alcune gente sono, che dicono che l'una femina è più dolce che l'altra; e questo aviene per tre cose: la prima della biltà della femina, e bene vestita e netta e bene adornata: l'uomo si diletta più co lei che con quella che è brutta e laidamente vestita; l'altra cosa che passa l'altre due, si è quando l'uomo ama la femina di cuore e di volontà; e egli si diletta più in lei, che con quella che non ama; e altressì fanno le femine degli uomini.
(902) et si ent unes entrailles. C. F. R. — Entrailles qui pare che, oltre le parti interne del corpo, stia a significare anche le esterne. — Anche il T. F. P. ha: et si ont telles entrailles l'une comme l'aultre, dehors et dedans.
Lo re domanda: dee l'uomo fare a sapere al suo amico la dislealtà della sua moglie? Sidrac risponde:
Se la femina del tuo amico è malvagia, e porta dislealtà al suo marito, e dannagio gli fa, e tu te ne puoi avedere, tu cortesemente lo dei bene fare a sapere al tuo amico, in bello modo, conciosia cosa che si crucci. Che se tu gliele fai a sapere, per aventura si guarderà della sua onta e del suo danno, e metterà consiglio che torni in suo prode e in suo onore. E se tu non gliele (903) fai a sapere, ed egli si puote fortemente adontare, e lo suo puote malamente consumare. E per quella cagione tu lo dei fare a sapere della sua masinada (904).
(903) vuogli gliele. C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(904) masnada. C. R. 2. — maisnee. C. F. R. — Pare che voglia intendere: tu devi fargli sapere ciò che accade nella sua famiglia.
Lo re domanda: fa alcuna cosa l'afrettare (905)? Sidrac risponde:
Non già. Quando tu vuogli fare alcuno bene, e tu lo fai celatemente, e tu lo fai bene, a questo tu non dei tropo tardare. Che quando tu vuogli fare alcuno male, e tu t'afretti, tu lo farai, e per aventura, quando tu l'avrai fatto, e' si te ne peserà. E se tu non ti affretti alla mala volontà che tu ài a fare lo male, si passerà (906), e lo tuo cuore raffredderà della mala volontade, e avrai poi allegreza che tu non l'avrai facto. E però l'uomo non si dee tropo afrettare di fare lo male, ma lo bene sì.
(905) meglio assai nel C. R. 2.: quando l'omo de' fare alcuna cosa desi afrettare?
(906) Et se tu ne te hastes, la male volente che tu auras a faire te passera. C. F. R.
Lo re domanda: dee l'uomo amare tutte gente? Sidrac risponde:
Primieramente Iddio. L'uomo dee amare tutte le genti (907), e pregare Iddio che le converta alla sua credenza. Corporalmente noi dobiamo amare quelli che noi amano, e odiare quelli che noi odiano (908). Se tu andassi nell'albergo del tuo amico, che di buono cuore t'amasse, egli ti ricoglierebe di buono cuore e lealmente; E se tu avessi mestiere di lui, egli t'aiuterebe volentieri. Tu dei bene tale amico amare e pregiare e guardare (909). E se tu andassi nell'albergo di colui che t'odia, egli non vi ti lascierebe entrare; e se tu adomandassi alcuna cosa, egli non la ti darebe nimica. Cotale uomo non dei tu punto amare, ma odiare, e allungarti da lui.
(907) Primamente tu dei amare Iddio, e tutte le genti, e pregare Iddio, ec. C. R. 2. — Esperfuelment en Dieu doit l'om amer toute gens, et prier, ec. C. F. R.
(908) È questo, invero, un precetto tutt'altro che cristiano, e non sappiamo come possa accordarsi coll'ascetismo ond'è pieno il libro di Sidrac. — Gli altri Codd. concordano perfettamente col nostro.
(909) Per conservare.
Lo re domanda: sono tutte le genti comunali in questo mondo e secolo? Sidrac risponde:
Quegli che nascono e dimorano in questo mondo sono comunali; ma non di corpi, ma non di venbri e di riccheze nè di povertade nè di coraggi nè di cogitazioni. Che nel mondo àe assai gente che ànno i menbri che noi abiamo noi, e altri più. E assai sono quelli che sono d'altre maniere che noi non siamo. Eziandio assai sono (910) gli ricchi e assai li poveri. Ma alla natura (911) e alla morte siamo tutti comunali. Quando lo veracie profeta verrà nella Vergine Maria, e morrà nella croce, per diliberare Adamo e gli suoi amici dello 'nferno, e quando egli gli avrà diliberati, e' dirà una parola della sua sancta bocca, molto chiara: chi in inferno entrerà giamai non uscirà, in tutto seculo non finerà. Nè nulla delle sue parole canbierà. E però quelli dell'altro secolo non sono nè non saranno comunali, che gli buoni saranno in gloria a tutti i tenpi, e gli altri saranno tormentati alle pene dello 'nferno, dove saranno grande pene e grande dolore, che giamai non avranno fine.
(910) Manca al C. L.: assai sono — L'abb. agg. dal C. R. 2.
(911) natività. C. R. 2.
Lo re domanda: fanno onore nell'altro secolo a' ricchi e disinore a' poveri (912)? Sidrac risponde:
In verità vi dico che nell'altro secolo fanno onore vie magiore a' richi che a' poveri; e magiore onta avrà il povero. E ciò sarà al tenpo del figliuolo di Dio. Ch'e' ricchi se n'andranno nell'altro secolo, e gli angeli di Dio verranno incontro a loro con gioia e allegrezza, e faranno loro grande onore, e gli assetteranno nelle sedie tra loro, e diranno: questo onore e gloria che noi vi facciamo è per la riccheza che voi aveste nell'altro secolo. E gli cattivi poveri, quando gli angeli gli vedranno, si fugiranno da loro, per la loro povertà; e non sofferranno ch'egli stieno tra loro, per la loro puzza. E allora i diavoli gli piglieranno, e faranno loro grande onta e villania, e gli metteranno nella loro conpagnia, nel fuoco dello 'nferno. Ora potete vedere che fa la richezza, e che fa la povertà. E nullo uomo del mondo non si può disdire (913), che non possa prendere la riccheza e lasciare la povertà, s'egli vuole. E se lascia la riccheza, egli perde l'onore che gli angeli faranno, e prende la povertà; e quella onta riceverà, e quelle pene, cogli diavoli in inferno; e farà come istolto. E nullo uomo può biasimare di suo male, se non egli medesimo, che nel secolo puote avere quella ricchezza, e lasciare quella povertà. Non credete che queste riccheze sieno podere d'avere (914): la riccheza si è l'anima, che è ricca in questo secolo di bene fare, che lascia lo male e fa lo bene. Chi fa lo male, questi è povero e pieno di dolore e di bruttura. Quelli che bene fa, averà bene nell'altro secolo e gioia e letizia; perch'egli à schifato lo male e fatto lo bene. Quelli che male farà in questo secolo, avrà male nell'altro, e avrà grande dolore e grande trestizia, quando (915) egli fece lo male e lasciò lo bene; e quella trestizia nè dolore non gli varrà nulla, anzi gli adopierà senza fine.
(912) Nel C. R. 2.: Lo re domanda se nell'altro mondo si fa onore al ricco e al povero no, come in questo mondo.
(913) Intenderei: e non si può negare che ogni uomo del mondo non possa, s'egli vuole, prendere la ricchezza e lasciare la povertà.
(914) E non crediate che questa ricchezza sia podere d'avere ricchezza. C. R. 2.
(915) perchè. C. R. 2. — chant. C. F. R. — Di quant per perchè ved. un es. reg. dal Burguy, Gramm., II., 323.
Lo re domanda: porterà nell'altro secolo lo padre lo carico del figliuolo? Sidrac risponde:
Non già nimica, lo padre non porterà lo carico del figliuolo, nè 'l figliuolo quello del padre. E non voglio che voi crediate che al mondo sia una giusta anima (916) che non le convenga passare per uno fiume di fuoco, inanzi ch'ella sia in paradiso, per lo peccato che Adamo fece inverso Iddio. Ma l'altre, ciascuna porterà suo carico, come ella avrà fatto lo suo peccato, a lei; e siccome le bestie che si scorticano, che ciascuna pende per li suoi piedi (917). Ma se lo padre vede lo figliuolo fare male, e gastigare lo puote, e nol gastiga, sappiate che lo padre pecca con esso lui, quando egli nol distorna di quello male. Niuno peccato di niuno uomo può venire altrui; ma l'uno può peccare per l'altro; e simigliantemente può venire da figliuolo a padre, egli può gastigare e non lo gastiga. E dunque viene (918) da una persona a un'altra, se egli la vede peccare e nolla gastiga, e gastigare la puote.
(916) una sì giusta anima. C. R. 2.
(917) Ausi com la beste che l'om a escorche, che cascune pent par son pie. C. F. R.
(918) E anco adiviene. C. R. 2.
Lo re domanda: quelli che uccidono la gente pigliano elli loro peccato della vita sopra loro (919)? Sidrac risponde:
Non mica; in quella forma che noi abbiamo disopra detto, che lo peccato dell'uomo non potrebe venire sopra l'altro. La signioria, che à lo podere da Dio, ello giustizierà. E lo più piccolo peccato che l'ucciso abia adosso, non verrà sopra colui che l'avrà ucciso; anzi potrà avenire che per la pena della morte, che riceverà dalla signoria, umilemente, che alcuni de' suoi peccati gli saranno perdonati. Dunque quelli che uccidono non pigliano niuno peccato delli uccisi. Anzi crescie lo peccato d'un omicidio o di due o di tanti come n'avrà fatti (920). E ciascuno sarà dannato de' suoi peccati medesimi nell'altro secolo.
(919) Lo re domanda se quelli che uccidono li omini rimangono loro adosso i peccati dei morti. C. R. 2.
(920) mais ses pechez croyssent du meustre ou delict qu'il aura faiet. T. F. P.
Lo re domanda: quale è magiore dolore che l'uomo vede o quello che l'uomo ode? Sidrac risponde:
Quelli che vegiono colli loro occhi si è cosa conpiuta, e vegono lo dolore e la pena in presente, che non la possono ischifare e si è corporale (921). Quelli deono avere molto grande dolore al cuore e agli occhi, quelli che veggiono. Ma quelli che odono e non veggiono, si ànno molta grande isperanza e conforto, se la cosa non abia stata (922); e pensano che così puot'essere, di no come di sì. Gli occhi non piangono, perch'egli non ànno veduto quello dolore, e pensano che quella cosa non sia istata. Lo cuore è segnior (923) a tutti menbri, e li menbri sono servidori al cuore. E se lo cuore crede che la cosa sia istata, egli à dolore, ma non già siccome vedesse cogli occhi. E perciò è magior dolore a quelli che veggiono, che a quelli che odono: chè quelli che vegono, è corporale, e quelli che odono e non vegono, ispirituale.
(921) et si est chose corporelle. T. F. R.
(922) che la cose non sia stata. C. R. 2. — Non ci fermiamo sull'abia invece di sia, perchè veramente lo crediamo errore dell'amanuense.
(923) segnor. C. R. 2. — È copiata alla lettera la forma dell'ant. fr.
Lo re domanda: à in questo secolo gente che mangino altre genti? Sidrac risponde:
Si, à assai gente in questo secolo che mangiano altre genti ontosamente. Quelli che tolgono l'altrui a torto, quelli mangiano le carni dell'altra gente, perchè gli tolgono lo bene ch'egli ànno procacciato per lo loro travaglio, e del sudore delle loro carni, di che loro conviene vivere, e passare loro tenpo in questo secolo. E un'altra maniera è di mangiare la gente; che tutti quelli che dicono male d'altrui, e biasimano e acagionano falsamente (924), e quelli fanno altressì loro grande male, come se eglino mangiassono la loro carne. Quelli uccidono la gente colle loro male parole; e sarebe meglio che mangiassero le loro carni medesime.
(924) e gli fanno via all'altra gente. C. L. — Abb. adottata la lez. del C. R. 2. — Nel C. F. R.: et les font blachmer as autres. — Blachmer, blahmer, blamer.
Lo re domanda: quale è peggio tra micidio o furto o baratto? Sidrac risponde:
Certo queste tre sono molte ree; ma l'una è piggiore che l'altra: cioè a sapere che lo micidiale è pegio che niuno degli altri, perchè disfà la forma che Idio per la sua pietà fece alla sua simiglianza. Sapiate che questo è molto grande peccato, e sì toglie la vita a quella criatura che vivere dovea, e fare, per aventura, bene. Furto è un altro grande peccato, che egli toglie lo travaglio altrui, e lo mette in angoscia e in necessitade: sapiate che questo è grande peccato. Baratto è molto grande peccato e molto pericoloso, che del baratto nascie micidio e furto, e mena l'uomo per lo baratto a uccidere e a inbolare, e fare e dire molto male, e pensare a onta, e a male perdere lo suo (925): molte gente ne sono ingannate. Sapiate che questo è molto grande peccato e pericoloso a molti uomini, che ogni uomo si dovrebe guardare di barattare più che furo o da micidiale (926). Ma altra maniera di vizii ci à, che passa questi tre vizii, e si è molto incontro al comandamento di Dio: cioè traditore, è a intendere in resia o di sodomia, e da uomo e da femina, d'altra maniera che egli nollo deono fare (927). Questi sono coloro che Idio odia più, e che saranno dannati e più tormentati nelle pene dello 'nferno; che maraviglia è che quando quella opera si fa, che la folgore da cielo noll'arda in quella ora e che la terra non s'apre e la inghiottiscie (928). E gli angeli di cielo triemano, quando quello peccato si fa, perch'egli ànno dottanza che Iddio non isconfonda tutto il mondo. Ma Iddio, per la sua sancta misericordia e pietade, gli lascia, acciò che egli si rimanghino di questo male e degli altri, e che vengano alla sua credenza e al suo comandamento.
(925) Lo barattieri fa et dice male e pensa male, e a onta e a male perdere lo suo. C. R. 2.
(926) più che di furto o di micidiale C. R. 2. — Ma nel C. F. R.: plus che de murtrissor ni ne laron.
(927) Molto migliore la lez. del C. F. R.: mais il y a un autre mauvais vice, li ques passe ces trois, et si est mout encontre le comandement de Dieu; ce est a entendre herezie et sodometerie: ce sont il chi s'aprocent as mahles carnelment, et home a feme d'autre guise ch'il ne doit.
(928) che la terra non s'apra e inghiottiscali. C. R. 2.
Lo re domanda: Idio ch'è pietoso e misericordioso perdona egli tutti gli peccati che l'uomo fa in questo secolo? Sidrac risponde:
Se tutte le candelle (929) del mare e la rena della terra e le foglie degl'albori e le stelle del cielo e gli capelli delle teste delle genti e delle bestie e degli animali fossono in una somma, non sarebono mica il diecimo della misericordia di Dio. Se uno uomo avesse lo padre e la madre (930) di MC migliaia di persone, e con tutto ciò si fosse agiunto (931) carnalmente, e poi si lasciasse quello male, e tornasse a Dio di buon cuore e con pentimento, Iddio lo riceverebbe allegramente, e torrebelo (932) per suo. E quelli che a Dio convertire non si vogliono, niuno cuore d'uomo non potrebe pensare i martiri che egli avranno nell'altro secolo. Al tenpo del figliuolo di Dio e del suo popolo, quelli peccatori che di quelli peccati vorranno essere diliberi, loro converrà dire i loro peccati, a quelli che ordinati saranno sopra ciò, e con netteza e con isperanza di non mai ritornare in su quello peccato. E quelli che così faranno, si manteranno, è saranno sicuri della vita perdurabile; chè gli loro peccati saranno lavati, come l'acqua lava la bruttura.
(929) gocciole. C. R. 2.
(930) Manca al C. L. se uno uomo avesse lo padre e la madre. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(931) e con tutte fosse giaciuto. C. R. 2.
(932) terrebelo. C. R. 2.
Lo re domanda: perchè si travaglia l'uomo in questo secolo? Sidrac risponde:
Per due cose: l'una è per mantenere lo corpo, a ciò che bisogno gli è comunalmente; l'altra è perciò, che lo corpo possa avere forza e podere a servire Idio lo creatore per la sua anima; chè l'anima (933) non puote avere bene nè guidardone, se non per quello che lo corpo à servito. Questa ragione fanno i savi, che vogliono bene vivere. Quelli che si travagliano per lasciare dopo la loro morte alli loro figliuoli et alli loro amici, sappiate che quelli (934) si travagliano follemente, nè senza peccato non può essere; chè l'uomo dee fare come la formica, che si travaglia la state per avere che vivere lo verno. Altressì dee fare l'uomo in questo secolo, e travagliare per atare e mantenersi a vivere, e per fare limosina e caritade a quelli che sono poveri, e aiutare i loro proximi se bisogno è (935). L'uomo non dee dire mica, io guadagno per li miei figliuoli; chè, se i figliuoli sono buoni, egli si guadagneranno (936), siccome egli guadagnò. E sapiate ch'una carità che tu farai per la tua anima, ti varrà più che tutti i tuoi figliuoli o parenti; una carità che tu farai di buono cuore, ti sarà più profitto che tutti i tuoi figliuoli, nè che cento limosine dopo te. E che se tu fai nella (937) tua vita limosina, tue la dai al povero per la tua anima, lo povero la reca ispiritualmente a Dio, dinanzi a lui (938), e l'apresenta e offera: ella non puote essere sì picciola, che dinanzi al cospetto di Dio ella non sia oferta a grande gloria (939) per te. Ma quello che tu lasci dopo la tua morte, non è per la tua volontade, che tu non puoi altro fare, che tu non el puoi (940) portare teco alla fossa, anzi lo ti conviene lasciare, allora. Ma se tu fai la limosina a tua vita, tu la fai per due cose: l'una per buona conoscienza (941), che tu ami Idio, chè per quella limosina troverrai bene nell'altro secolo, per le preghiere che fanno per te quelle limosine; e Iddio le riceverà (942). E perciò l'uomo non dee mica per li suoi figliuoli nè per li suoi amici nè per sè medesimo volere perdere la sua anima. Chè se l'uomo sapesse in questo secolo che cosa è perdere l'anima, egli non la perderebbe, per cento figliuoli che egli avesse. L'uomo puote bene perdere lo corpo, per gli suoi figliuoli e per li suoi amici, in lealtade egli puote bene fare, se egli vuole (943). Ma l'anima non dee egli volere perdere, per niuna cosa, perchè niuna cosa è più degna che l'anima. L'anima è più degna del corpo, e perciò nolla può niuna cosa racattare (944); onde l'uomo non dee volere perdere l'anima, se ciò non fosse per più degna cosa di lei e per migliore. E poi che l'anima è così degna e così preziosa, l'uomo la dee guardare incontro al corpo, e incontro alle cose tutte che sono e saranno e potrebbero essere. Quando lo diluvio venne sopra la terra, la gente fugivano quà e là; e quando l'acqua cresceva, egli pigliavano i loro figliuoli, e poneagli sopra i loro capi, perchè l'acqua no gli annegasse. E quando l'acqua pur crescieva, e egli vidono la paura della morte, egli non si metteano i loro figliuoli sopra capo, anzi sotto i piedi, per soprastare all'acqua. Quando l'uomo dubita (945) di perdere lo corpo, magiormente dee dubitare di perdere l'anima, che è la più degnia cosa del mondo.
(933) Manca chè l'anima al C. L. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(934) Manca al C. L. quelli che si travagliano per lasciare dopo la loro morte alli loro figliuoli et alli loro amici, sappiate che quelli. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(935) Altresì de' fare l'omo in questo secolo, travagliare si de', et aiutare li suoi prossimi, se fa mestieri loro. C. R. 2.
(936) se ne guadagneranno. C. R. 2.
(937) Nel C. L. dopo la tua vita. — Ci è parso un errore evidente, e abb. corr. col C. R. 2.
(938) la porta ispiritualmente dinanzi a Dio. C. R. 2.
(939) loenge. C. F. R., che vuol dire lode.
(940) nol puoi. C. R. 2.
(941) coscienza. C. R. 2.; e concorda col C. F. R.
(942) anco per quella lemosina troverai bene nell'altro secolo. L'altra si è per le preghiere che di te faranno quelli che limosine da te riceveranno. C. R. 2.
(943) Il T. F. R. ha un altro senso: L'om puet bien perdre le cors por ces amis et por ces anfans et por leiaute: cil chi le pert en tel maniere, le fait por la vie rachater.
(944) rachater. C. F. R., ricomprare, riscattare.
(945) Meglio nel C. F. R., per legare il senso di questo col precedente periodo: Or pies veoir com l'om doute la perte, ecc. — Notisi come sia stato trad. doute (teme) per dubita. La Crusca registra molti es. di dubitare per temere; in varii de' quali però sembra a noi che essa non abbia sufficentemente considerato se piuttosto non fosse da interpetrare questo verbo per stare in dubbio, stare in forse, essere incerto.
Lo re domanda: quale è la più scura cosa che sia? Sidrac risponde:
L'uomo è la più scura cosa che sia; chè gli rei faranno bella senbianza di fuori, e dentro avranno le loro malizie; e l'uomo crede ch'egli sieno buoni, per li belli senbianti che mostrano di fuori, ma leggiermente li può l'uomo conosciere a ciò, che disiderano l'altrui; chè i buoni non disiderano l'altrui, anzi danno ciò che deono, volentieri. Ma gli rei pensano le genti ingannare per le loro parole. E però può l'uomo conosciere i buoni da' rei.
Lo re domanda: lo male che l'uomo fa in questo secolo è d'Iddio? Sidrac risponde:
In verità vi dico che Idio non pensò nè non fece unque nullo male, anzi fece grazia e gloria di bene; e niuno cuore d'uomo lo potrebbe pensare, i beni che sono in lui. Chè egli fece lo cielo e la terra e le stelle e lo sole e la luna e l'altre cose; e fece carità muovere con misericordia (946); male nè peccato non fece unque; anzi lo fa colui che l'aopera, e non per Dio (947); chè a lui piace che faccia tutto bene. E sì gli donò senno e sapere di conosciere lo bene e lo male; e conoscienza che per fare lo bene averà bene, e per male avrà male e le pene di ninferno. Se Iddio avesse fatto l'uomo che non potesse peccare, certo bene lo potrebe avere fatto, s'egli avesse voluto. Ma egli avrebbe fatto torto e oltragio al diavolo, che, per una sola cogitazione di peccato, lo traboccòe di cielo in terra. E se l'uomo non disservisse (948) quella gloria ch'egli perdette per così poco fallo, lo bene che l'uomo farebbe non sarebbe suo, anzi di Dio. Ma l'uomo dee fare lo bene per le sue buone opere (949), e lasciare lo male, chè Idio gli donò senno di conosciere l'uno e l'altro; e diegli iscienzia, che per lo suo travaglio e volontà potesse in terra guadagniare la gloria del cielo, e stare in cielo cogli angeli. Ma l'angiolo non è se non ispirito solamente; e lo buono omo (950) in cielo vi fia collo spirito e collo corpo; chè lasciò il bene e lo diletto di questo secolo e l'altre cose corporali. E si dee essere pro e valente di guadagniare quella gloria, che è durabile per tutti i tenpi, per lo suo travaglio. Lo travaglio del corpo l'anima lo conpera caro (951). E però niuno uomo, s'egli non lascia lo male per lo suo grado, e facesse lo bene per lo suo grado, non sarebe ciò ragione ch'egli avesse la gloria di Dio, perch'egli noll'à servita. E se l'anima andasse con tutto il peccato in cielo, dunque sarebbe lo corpo più degnio che l'anima. Chè, tardasse quanto volesse, pure l'anima riceve il suo corpo; e s'eglino andassono amendue in cielo, con tutti i peccati loro, lo corpo avrebbe diletto del secolo e la gloria di cielo (952). E se Idio avesse facto che l'anima avesse la gloria di cielo per tutti i tenpi, e lo corpo diventasse terra tuttavia, dunque non sarebe istato bisognio ch'egli avesse criato l'uomo di terra, ma che l'avesse criato solamente, l'avesse messo in gloria; e l'anima sarebe istata come angielo; e lo mondo non sarebe istato bisogno; chè lo mondo non fue fatto se non per l'anima. Certo Idio non volle questo nè quello; anzi fece diritto e a ragione ciò ch'egli fece, l'uomo di corpo e d'anima. E l'uomo dee dirittamente governare e salvare l'anima, e per lei adorare e ringraziare, e multiplicare di sua generazione. Chè Idio ci à donato senno e sapere di conosciere e di fare lo bene e lo male a nostra volontade; e di conosciere che lo diavolo traboccò di cielo per lo suo peccato; e che l'uomo dee montare in cielo per lo suo bene fare; e dee avere la gloria che lo diavolo perdè, per lo suo peccato, ch'egli fecie.
(946) Intenderei: e fece che si muovesse per noi carità e misericordia. — Forse potrebbe intendersi: che nascesse per noi, che prendesse vita; secondo il senso che ha nell'ant. fr. movoir. Cf. Burguy, Gloss. — Nel C. F. R.: et fist moveir carite et misericorde et piete.
(947) Così ha pure il C. R. 2.; ma è senza dubbio lezione errata. — Nel C. F. R.: ains fait par celui chi l'uevre, non pas par Deus. — E nel T. F. P.: mais le mal est faict par celui qui en fait l'oeuvre, et non pas par Dieu. — E pare da intendere: il male lo fa colui che lo commette, e non Iddio.
(948) deservist. C. F. R. — Desservir ant. fr., meritare. — Anche in prov. desservir ha il significato di meritare, guadagnare, secondo un es. del Sydrac, citato dal Renouard (Lex. Rom., a Serv): „Negus gazerdo non agra desservit, quar lo be non agra fah de sa voluntat.„ — In ital. si usò servire in questo medesimo senso da alcuni antichi scrittori.
(949) par son gre. C. F. R. — Il trad. non ha inteso il testo.
(950) Manca al C. L. e lo buono omo. — Abb. suppl. col C. R. 2., che concorda col C. F. R.
(951) Così ha pure il C. R. 2. — Ma pare che manchi qualche cosa, almeno stando alla lez. del C. F. R.: Cors viaut travail et aime repos; et par le delit dou cors l'arme l'achate chier. — E nel T. F. P.: Corps c'est travail et ame c'est repos; les quelz deux Dieu a donne a l'homme; et l'ung doibt salver et garder l'aultre sans le travailler. Et pour ce si le corps, qui est travail, prent son delict en ce monde, l'ame si l'achatera en l'aultre bien cher.
(952) Nel C. F. R.: Car, che che tarde, l'arme resevera son cors, etc. — La lez. del C. R. 2. è diversa, e concorda col T. F. P.
Lo re domanda: come potrebe l'uomo salire in cielo? Sidrac risponde:
L'uomo dee fare lo bene per lo bene avere; e divietare e dottare il male; chè per lo mal fare noi traboccheremo in nabisso; e per bene fare nella compagnia del Signore del bene, cioè Iddio. Imperciò che Idio volle che l'anima fosse degnia d'avere guiderdone, le diede tutti gli albitri, per ch'ella facesse lo bene per la sua grazia e per lo suo grado.
Lo re domanda: dove si nasconde lo giorno la notte (953)? Sidrac risponde:
Lo mondo era tutto in tenebre e in acqua; e lo sancto spirito come (954) uno grande chiarore sopra l'acqua. E quando a lui piacque, elli fece giorno e scuro, siccome noi abiamo altra volta detto; e fece lo sole e la luna e le stelle e l'altre cose che ci sono; e ordinò il fermamento del suo torno (955); e alluminò lo mondo, siccome egli è del chiarore del sole; e la notte per la luna e per le stelle. E altresì l'ànno l'altre genti sopra loro, per la volontà di Dio. Lo sole e la luna e l'altre cose non fallano giammai al mondo; che, quando il sole falla a noi, egli allumina altra gente al mondo e la loro scurità. E quando elli falla a loro, e elli viene a noi, chè lo fermamento non fina di torniare; e ciò viene per la ritondeza del mondo. Gente sono al mondo, tali come noi siamo; e vegono apertamente il chiarore del sole e della luna e delle stelle; e sono sotto di noi; i loro piedi sono contra i nostri; e vanno sopra terra, e coltivano e adorano, siccome noi facciamo; e tutto questo è per la ritondità del mondo.
(953) Nel C. R. 2.: Lo re domanda se era luce innanzi che fosse fatto lo sole e la luna.
(954) era come C. R. 2.
(955) nel suo torno C. R. 2.
Lo re domanda: Come si tengono la luna e le stelle? Sidrac risponde:
Le pianete sono del fermamento, e lo fermamento è di loro, e tutto insieme si tengono (956), e sono sode, e l'una nascie dell'altra. In tal maniera, per la forza di Dio, si tengono le pianete in cielo. E non credere ch'elle sieno in uno fermamento tutte; anzi sono in tre fermamenti, l'uno più alto che l'altro; e elle vanno l'una incontra l'altra. Quando il fermamento d'alto à fatto uno torno, quello di basso n'àe fatti due; perciò sono alcuna volta lo 'ncontramento (957) delle stelle in cielo. E quelle che ci paiono piccole, elle sono magiori che quelle che ci paiono grandi; e per l'altezza elle paiono piccole, e elle sono, al fermamento, grandi.
(956) si regono C. R. 2.
(957) li incontramenti C. R. 2.
Lo re domanda: come possono conosciere le genti l'ore e punti della notte? Sidrac risponde:
L'uomo gli può conosciere per lo giorno e per la notte; chè, in qualunque terra voi istate, in quello punto che lo sole apariscie, egli è punto del giorno, e in quello punto che gli falla (958), egli è punto della notte, sia o al levante o al ponente, in qualunque luogo voi siete. E per li punti conoscierai l'ore, che lo giorno e la notte è piccolo e grande, e si è XXIV ore; e ciascuna ora è MLXXX punti; e ciascuno si è tanto, quanto tu potessi istendere lo braccio; e se nollo puo' tanto distendere, che ti sia noia (959), si conta una o due (960), sanza ristare o tardare: ciò sono CLX (961) movimenti, che fanno MLXXX punti, cioè una ora. E questo potete voi provare per l'onbra. del sole e per l'orivolo dell'acqua, e fatto d'altre cose (962). E per questo conto potete voi conosciere l'ore del dì e della notte, tanto ch'elle sieno grandi o piccole; chè la state crescie lo giorno e menoma la notte, per la ragione del sole, e però è lo verno, quando lo sole si parte da noi con tutto lo suo calore. Allora le folgori e gli venti e l'acque si spargono sopra la terra, là ove la forza del sole non escie; allora tenpesta e tuona, e fae lo verno (963). Altresì aviene dell'altre terre, quando il sole si parte da loro. Non intendere mica che il sole si volge per sè medesimo; ma lo fermamento si dichina presso a una parte, tanto, quanto è uno palmo, là ove lo sole piglia nel verno altro camino, per la sua grandezza, e poi ritorna nel suo luogo.
(958) defaut C. F. R. — Da defaillir, mancare. — «Così li ciechi a cui la roba falla» etc. Dante, Purg., XIII.
(959) e ciascuno punto si è tanto quanto tu potessi stendere lo braccio e tirare a te; e se tu lo braccio non puoi stendere, si conta etc. C. R. 2.
(960) una, due C. R. 2.
(961) sono due milia ciento sessanta momenti C. R. 2.
(962) e per lo rivo dell'acqua C. R. 2. — Nel T. F. R.: et ce poies esprover par le stendal de l'aigue et dou solail. — Nel T. F. P: et ce tu peule prouver par lestandail du soleil et de l'eaue, et par moult daultres manieres. — Sarebbe forse da leggere, invece di stendal e standail, scandalh, per misura? L'orivolo è difatti una misura; e l'idea di acqua, potrebbe aver fatto nascere quella di scandaglio.
(963) E per questo conto potete voi conosciere l'ore del dì e della notte, quante sono, o sia grande o sia piccola; chè la state crescie lo giorno e menoma la notte, per la ragione del sole, che prende altro camino e altro torno, per altra contrada a scaldare: per che noi abiamo verno e state. Quando lo sole s'alunga da noi, lo suo calore si parte; allora sopra la terra, là ove la terra sospira lo suo freddore, le folgore li venti e l'acqua si spargeranno sopra la terra, là ove la forza del sole non escie; allora tempesta e tuona e fa lo verno C. R. 2. — La forza del sole non escie è trad. di la force dou solail neniest (C. F. R.), che intenderei neniest, non vi è.
Lo re domanda se le stelle tornano al (964) fermamento. Sidrac risponde:
Tutte le stelle tornano col fermamento, se non se una c'ha nome gitta, cioè tramontana, la quale quelli del mare e della terra la guardano; et è posta in una maniera al fermamento, per ch'ella non si volge, se non come la chiavichia (965) della pietra sottana del molino. E lo fermamento si volgie d'intorno come la macina, e quella stella non si muove come la chiavichia; e si è più alta che tutte l'altre stelle, e perciò ci pare piccola. Ma allo dichinamento del fermamento ella monta, una volta l'anno, forsi uno palmo; e sì si ciela inmantenente che l'àe fatto. E quelli che vanno per mare e per terra, alla guida di quella stella, a quell'ora, se non si guardano, ellino potrebono smarire la via, e essere a condizione (966). E quel movimento, che a noi pare uno palmo, è al fermamento ben due milia miglia conpiute.
(964) al per con il. — Nel C. F. R.: o le firmament. — O, ant. fr., ebbe anche il significato di avec.
(965) Per cavicchia.
(966) Per essere in pericolo. — La Crusca registra due es. di mettere a condizione per mettere a risico, a pericolo. — Il C. F. R. ha: estre en condicion. — Ma non trovo ne' lessici francesi questa parola con questo significato. Il quale non manca all'ant. spagn., poter, tener en condicion.
Lo re domanda se sarà continuamente guerra nel mondo. Sidrac risponde:
Cierto guerra sarà tuttavia per lo mondo, grande e pericolosa. E s'egli ci avesse tuttavia pace, elli non sarebe chiamato mondo, anzi sarebe chiamato paradiso; e (967) in paradiso è tuttavia pace. E perciò al mondo non fallirà guerra. E si à due maniere di guerra: l'una per lo nimico, la quale è spirituale; l'altra guerra si è corporale: ciò è a sapere l'una gente coll'altra (968); e sarà tuttavia, infine alla fine del mondo.
(967) Crediamo da leggere piuttosto chè. — Infatti il C. F. R. ha: car.
(968) ce est a savoir les gens les uns encontra les autres C. F. R.
Lo re domanda: perchè è chiamato mondo? Sidrac risponde:
Perciò ch'elli è nulla: chè tutte le cose che non sono durabili, anzi ànno fine, sono nulla. Perciò diciamo noi che, se questo mondo è nullo, che l'omo non si de' affidare nè asigurare a cosa di nulla; chè, s'egli è oggi, non sarà domane, overo uno altro giorno; e cierto è che partire li conviene, e andare in quello mondo ch'è durabile, e tuttavia e giamai fine non avrà. Dio per la sua potenza fecie questo mondo, e per ciò che l'omo non potesse andare nell'altro mondo se non per questo là ove è egli; e in quello egli à lasciato questo del tutto (969). E perciò diciamo noi che questo mondo è nullo, che tempo fia che non ci sarà; chè questo mondo de' essere disabitato come uno diserto.
(969) Intenderei: e se per amore di quello ha abbandonato etc. — Nel C. F. R. en celui a il guelpi (guerpi) cestui doutout.
Lo re domanda se Iddio si cruccia delle morti, e delle genti che morte si faccino. Sidrac risponde:
Non mica, nè poco nè molto, chè Dio non à in sè nullo coruccio. Che se tutto 'l mondo fosse nabissato e la giente morta, Iddio non si darebbe nullo cruccio nè nulla gravezza, imperciò che 'l mondo non potrebbe inabissare e la giente morire se non per la sua volontà. Così no gli peserebe, come a noi d'una vite di uva che noi avessimo alevata, e poi ci facesse noia, e per quella noia noi la tagliassemo e ardessemola, di questa vite nè dell'uva non si penserebbe nè poco nè molto. Altresì adiviene a Dio, quando tutto 'l mondo fosse distrutto, come fue per lo diluvio, tutto fue perduto per lo peccato che feceno contra a Dio, e si ne fue lieto quando lo distrusse. Altresì li sarà buono quand'egli distrugierà quelli che sono a venire, per li loro peccati, e per molte maniere. E tutto sarà per lo loro peccato, tardi quanto vuole, se non meglioreranno.
Lo re domanda: qual'è il più degno giorno del mondo (970)? Sidrac risponde:
Lo più degno giorno si è lo sabato; chè Iddio, per la potenza, creò lo cielo e la terra e l'altre cose che sono in sette giorni. Lo primo giorno si fue la domenica; e al settimo giorno benedisse tutto le cose, e santificò l'omo, e lo fecie riposare di tutte cose fare della settimana. (971): ciò è lo sabbato, che fue lo primo degno die della settimana. Ma quando lo figliuolo di Dio verrà in terra, d'allora innanzi fie lo più degno giorno la domenica, perchè la resurresione del mondo che farà tra li morti e ciò fie in una domenica. E per questo si è lo die della settimana, la domenica (972).
(970) de la semaine C. F. R.
(971) Nel C. F. R.: et le fist reposer de toutes chosses.
(972) le plus digne ior de la semaine le dimenche C. F. R.
Lo re domanda: perchè fu fatto lo dormire? Sidrac risponde:
Lo dormire fue fatto per lo riposo del corpo e del cuore; e per la forza del cuore e delli menbri; chè quando lo corpo dorme, lo cuore e tutte l'altre menbra si riposano, e stanno in pace, per quello riposo. Altresì come uno signore, quand'elli è isvegliato, tutta la sua masnada gli è d'intorno, al suo servigio e al suo comandamento; e quand'egli dorme, la sua masnada si riposa; altresì adiviene del cuore. Lo suo dormire e lo suo vegiare viene e risponde al ciervello; e 'l cervello risponde agli occhi, e gli occhi rendono a tutti li altri menbri, si dormeno e si riposano (973). E quello dormire e riposo si è per la forza del corpo, perch'egli possa essere forte di travagliare, e di guadagnare la sua vita, e di rendere grazie e lode al suo creatore Dio. E per questa cosa fece lo dormire. E se non fosse lo dormire, la notte non sarebbe stata.
(973) et les ieaus respendent a tous les membres et si dorment et reposent C. F. R.
Lo re domanda: quale è il più sano luogo del mondo? Sidrac risponde:
Lo più sano luogo del mondo si è là ove l'uomo si guarda d'infermare, e di male vivande e di freddo e di caldo e di dormire e di veghiare; chè l'uomo non dee mica nella calda terra mangiare trope calde vivande, nè vestire tropo caldo, nè andare al caldo, chè dell'uno caldo e dell'altro (974) può l'uomo avere infermità. E così aviene del freddo. E non però (975) luoghi sono, l'uno più infermo (976) che l'altro, per la ragione del calore e del freddo, e per la gente inferma che vi vanno tra l'altra gente. E molti luoghi sono, che sono infermi perchè non sono abitati, chè s'egli fossono abitati, egli non sarebono già infermi. Ma chi vuole essere sano, faccia in questa maniera: una volta il giorno mangiare, e una volta la settimana con femina giacere, e una volta il mese togliere sangue del braccio, e una volta l'anno pigliare medicina. E chi questo modo manterrà, egli sarà sano.
(974) l'uno caldo e dell'altro C. L. — del caldo dell'altro C. R. 2. — Abbiamo corr. sulla scorta del T. F. P.: car d'ung chault et de l'autre.
(975) Et neporchant C. F. R., per neporquant che vale nonostante.
(976) Per malsano, atto a indurre infermità.
Lo re domanda: quali gente sono quelle che mantengono il mondo? Sidrac risponde:
Certo cotali maniere di giente sono che lo mondo mantengono. Prima sono quelli che le iscienzie mostrano, e insegnano alle genti la credenza di Dio padre onnipotente; e in qual modo egli si dee mantenere in questo secolo. La seconda maniera di gente, per cui lo mondo si mantiene, sono quelli che lavorano e coltivano la terra, e pugnano di guadagnare (977) lo frutto della terra, per loro e per gli altri. La terza si è la signoria, che mantengono la gente a ragione, e mantengono la terra, lo povero e lo ricco, ciascuno in suo luogo. La quarta maniera sono gli artefici, che le mercie fanno (978), e portano le cose bisognose (979) dall'uno paese all'altro. Se queste quattro maniere non fossono, lo mondo non si potrebbe mantenere.
(977) et poingnet de gaagner C. F. R. — Poigner qui ha il significato di procurare, sforzarsi, ingegnarsi. Non trovo che nell'ant. franc. siasi usato questo vb. — Si usò però nel prov. ponhar, poignar, che il Raynouard (L. R. IV., 598) spiega tâcher, s'efforcer, se hâter, s'empresser, se peiner.
(978) La quarta maniera sono quelli che mercantia fanno C. R. 2.
(979) Per necessarie.
Lo re domanda: quale è più alto o lo re o la giustizia? Sidrac risponde:
La giustizia è la più alta, però che la giustizia può giudicare lo re, per diritto e per ragione. E la giustizia si è più che re, chè lo re vuol dire l'onore e la possanza del secolo; giustizia vuol dire l'alteza e la degnità e la signoria e lo comandamento di Dio. Uno re nascierà profeta, che dirà per la bocca di Dio: benedetti sieno quelli che faranno leale giustizia, e manterrannola tuttavia.
Lo re domanda: può l'uomo avere riccheze corporale e portarle co' lui? Sidrac risponde:
Quello uomo puote avere riccheza grande corporale, per sè mantenere in tutto, e la può bene portare co' lui, che giammai nogli fallerà, e nogli farà bisogno d'avere d'altrui, cioè a sapere arte. Chi sa alcuna arte, giammai necessità non puote avere, chè in tutti i luoghi là ov'egli sia, puote avere per la sua arte la sua vita. E perciò diciamo che l'arte è ricca, che lo suo Signore la porta seco, là ovunque elli vae.
Lo re domanda: uomo e femina che si traamano (980) e si dilungano uno grande tempo e poi s'accontano, possonsi eglino amare come di prima? Sidrac risponde:
Sì più (981) che dinanzi, per l'usanza, e per lo buono servigio che l'uno fa all'altro, e per lo dare e per lo pigliare, si possono amare più che dinanzi come altressì uno albore ch'è in uno giardino, e lo giardino lo comincia ad innacquare e a studiare, l'albore in pochi giorni rinviene in sè, e comincia a riverdire, e diventare così buono e bello come dinanzi, e più, per lo buono servigio e per lo studiamento ch'egli ebbe; e se lo giardino l'avesse lasciato di tutto in tutto, egli sarebe secco (982). Così aviene dell'uomo e della femmina, che si vogliono più bene che di prima; altressì come l'albore riverdiscie e riviene, quando egli è bene abeverato e servito dal giardino.
(980) s'entraiment C. F. R., che vale amarsi scambievolmente.
(981) puote C. L. — Abb. corr. col C. R. 2., sulla scorta del C. F. R. che ha plus.
(982) Gioverà riferire la lezione del C. F. R., alla quale è conforme la lez. del C. R. 2.: com I arbre chi est en I iardin, et le iardinier le laist a nonchaleir, et ne le vodra laborer ni abeurer; cel arbre comencera a feblir et a sechier, et puis chant le iardinier le comence abeurer et laborer, l'arbre en I poi da iors revient a soi, et comence a reverdir, et devient si bon et si biau com davant et miaus par le bon servise et le bon garniment che il li met; et se le iardinier l'eust laisse de tout en tout, il fust gaste, con cosse obliee. — Notisi nel n. t. giardino per giardiniere, che è pure nel C. R. 2. — È noto come ant. siasi invece usato giardiniere per giardino.
Lo re domanda: come l'uomo alcuna volta la femina e la femina l'uomo amansi? Sidrac risponde:
Quando l'uomo vede la femina e la femina l'uomo, e egli s'amano, sapiate che ciò aviene della volontà del cuore, che è di frale comparizione (983); e per la volontà del loro cuore, tengono lo diletto di quella vanità e di quello viso e della biltà, che in loro sarà somigliata a' loro cuori (984); e tali cuori mirano follemente, e tengono quella follia nel cervello, e poi risponde agli occhi del capo, e li fa follemente guardare a quella criatura, e sì gli diletta in quello pensiero (985). Ma lo savio cuore che è forte e fermo, quand'egli vede alcuna altra criatura bella, egli pensa in sè medesimo e dice: benedetto sia Iddio lo criatore, che così bella criatura à fatta; e rende grazie a Dio; nè giamai gli risoviene di quella criatura più, nè di biltade nè poco nè molto; e se pure gli soviene, no'gli farà niuna forza. Altresì aviene alla buona femmina.
(983) compressione C. R. 2.
(984) che in loro sarà simigliante al loro cuore C. R. 2.
(985) et por la vanite de lor cuer si retinent le delit de cel vice de la biaute de lor cors chi lor sere resenblee a luer cuer; et cel cuer tremue folement, et tient celle folie en la servelle, et respont as iaus de la chief, et les fait solement regarder a celle regardure de la creature; et le cuer chi est fol et vain pense folement en celle creature, et ce delite en celle pencee, et par cel delit convient che il l'aime. C. F. R.
Lo re domanda: chi fa uno falso saramento di Dio per x cose falsare, è egli spergiuro per una volta? Sidrac risponde:
Chi fa uno sacramento falso del suo Idio, quand'elli sia buono o rio, per x cose falsare, e e' si conosce in sè medesimo che egli à fatto falsamente, sapiate che egli è spergiuro x volte. E se altro consente a quelle saramenta false, e egli gli pare buono e bello, sapiate che egli è altressì bene spergiuro, come quelli che fa lo falso saramento.
Lo re domanda: quelli che insegniano lo bene in questo secolo ànn'egli più guidarnone che gli altri? Sidrac risponde:
Quelli che insegnano lo bene in questo secolo alla gente, avranno doppia la grazia di Dio, quelli che lealmente la manteranno. Chè due maniere sono quelle che insegnano lo bene alla gente in questo secolo. L'una sono simigliante al sole (986), che tutto il mondo allumina, e non viene giamai meno, e tuttavia è in sua gloria. Questi sono i buoni, che tutto giorno insegnano il bene alla gente in questo secolo, e lo bene fanno. Questi sono quelli che la grazia di Dio avranno nell'altro secolo. Gli altri che il bene insegnano, e lo male fanno, certo diritto è e ragione ch'egli male abiano a quattro doppj, non a due, come a quelli che porta alcuna cosa e può dare buona parte a ciascuno e pigliare buona parte altressì per lui (987); bene è diritto e ragione che lo male sia suo, poi che egli lo piglia per la sua buona volontà, più che se altri li avesse donato.
(986) alla gloria C. R. 2.
(987) Così ha pure il C. R. 2. — Ma è chiaro che manca qualche cosa. Nel C. F. R.: et laisse la bone et prent la mauvaise. — Il T. F. P. è di diversa lez., ed ha solamente: telz gens sont ressemblans a la chandelle, que les aultres enlumine et soy mesmes degaste.
Lo re domanda: di che viene lo magiore odio del mondo? Sidrac risponde:
Di fatto di legge e di fatto di signoria e di femina. Chè l'uomo tiene la legge e la fede, buona e giusta, conciosia cosa che ella sia malvagia; e un altro la spregia; sapiate che molto gli è a noia fortemente, e molto odia colui che lo suo Idio dispregia. Egli disidera tutto giorno tutto male e tutto odio, come quelli che dispregia la cosa ch'egli più ama e più tiene cara. L'altra maniera si è di fatto di signoria e di possessione, che l'uomo li toglie e vuole torre. Quelli l'odia fortemente, e li disidera tutto male. La terza maniera si è di fatto di femina, o d'alcuna cosa ch'egli ama. Altro uomo la vuole torre e spregiare (988) da lui; elli n'è molto geloso e molto odia quelli che ciò gli vuole fare. E di molte altre maniere muovono gli odii e le male voglienze.
(988) fortraire. C. F. R., che qui ha il significato di sedurre.
Lo re domanda: lo pensiere che l'uomo pensa onde escie? (989) Sidrac risponde:
Lo pensiero che gli uomini pensano escie della scienzia, e la scienzia è di puro coraggio; chè se lo cuore è buono, egli pensa tutte cose sottilmente, di ciò ch'egli vuole e di ciò ch'egli non vuole, bene e male. E tutto aviene della scienzia, che viene di puro coraggio. Sapiate che questo muove di grande scienzia, chè quelli ch'è di puro coraggio è savio. Lo puro coraggio che egli ànno si è del loro puro sangue, che intorno allo loro cuore corre, e per la purità del cuore e del sangue rischiariscie lo cervello; e quello cervello, per lo suo rischiarimento, mostra chiareza agli occhi e allegreza a' menbri. Perchè l'uomo sia savio e sottile non dee adoperare la sua iscienzia in male, anzi in bene, e in tutta dirittura e in tutta lealtade; e se egli altrimenti lo fae (990), sapiate che la scienzia è perduta in lui. Questi sono chiamati bestie, e peggio che bestie; che la bestia pensa alcuna volta di sua vivanda trovare, e dell'acqua a bere. Perciò diciamo noi che quelli che non à niuno pensiero al cuore, sono pegio che bestie che eglino lo dovrebono avere, e in Dio credere sopra tutte le cose.
(989) Meglio nel C. R. 2.: da che viene lo pensare?
(990) fae. C. R. 2.
Lo re domanda: per che cagione sono gli uomini malvagi mali (991)? Sidrac risponde:
Per tre cose: la prima si è delli rei omori che sono nell'uomo, sicchè li malvagi omori e le collere sormontano e signoregiano i buoni omori (992); cioè a dire che i mali omori signoregiano il corpo e il fegato, e cuoprogli il cuore, e riboliscono (993) lo cervello, e portallo in terra, e fannolo travagliare de' piedi e delle mani (994), e fannolo ischiumare la bocca, e tolgogli il senno e la memoria, e fannogli sognare rei sogni, diavoli, dragoni, orsi, serpenti, cani e malvagie bestie, che lo divorano e battono; e sogna d'annegare in acqua e d'ardere in fuoco. E tutto questo è dalla forza de' malvagi omori. E quando i mali omori si cessano, e lo male lo lascia, e elli raccontano quello che elli ànno veduto in loro visione; e quelli a cui elli l'averà contato, pensa che ciò sia istato per diavoli. Sapiate che lo diavolo non à podere di nulla (995), che Iddio creda fermamente; che non è niuna anima, che sopra terra vada, ch'ella non abia seco uno spirito, cioè a dire un angelo, che la guarda, perchè lo diavolo no' le faccia male, se ella non consente per la sua volontà. L'altra maniera si è lo corpo, che è intorniato e ornato (996) di molti peccati, nè in Dio nè in suoi comandamenti non vuole credere, nè fare (997). Alcuna volta lo diavolo si dimostra a colui, in molte maniere e figure, e gli entra in corpo, e travaglialo molto fortemente; e l'angelo di Dio nollo vuole aiutare, anzi l'abandona. Ma non intendere già che egli lo lasci uccidere; ma egli a la sua volontà gli fa fare tali cose, che egli perde il corpo e l'anima. Ma se egli a Dio vuole tornare, e lo diavolo lasciare, già lo suo ingegno non gli varrà; nè la sua forza nè 'l suo ingegno forza nè podere non averà sopra lui. La terza maniera si è della fallanza del cuore. Quando l'uomo è codardo e pauroso, e egli vae fuore di gente (998), di giorno e di notte, pensa nella paura, e cade in malvagio male; che sì tosto come egli àe la paura, gli rei omori sì si muovono, e rinfabiliscono nel suo corpo, e fannonlo sognare di malvagi sogni, cioè della fallenza del suo corpo.
(991) Correggasi col C. F. R.: por quoy cheent les gens de mauvais mal? — Nel C. R. 2.: da che aviene che le genti ànno così forti malatie?
(992) li malvagi omori si raunano nel corpo, e l'uno s'acapiglia nell'altro. C. R. 2.
(993) infiammano. C. R. 2.
(994) e si li fanno menare li piedi e mani. C. R. 2.
(995) Di nullo per sopra nullo.
(996) È da credere usato ironicamente. — Anche il C. F. R. ha: adornes.
(997) ne Dieu ne son comandement ne viaut croire ne faire. C. F. R.
(998) hors de la gens. C. F. R.
Lo re domanda: quali sono gli più pericolosi menbri del corpo? Sidrac risponde:
Gli occhi sono i più pericolosi menbri del corpo, e quelli che fanno perire lo corpo e l'anima. Che lo diletto della vista gli occhi avanzano al cuore (999), e mettollo in pensieri, e fanno peccare lo corpo e l'anima. E se egli non vedessono, lo cuore non disiderebbe nimica tante cose com'egli disidera, che più disidera quelli che vede, che quelli che non vede. Che per la vista degli occhi lo cuore e 'l corpo e tutti menbri triemano e ànno grande paura e grande ispaventamento. Altressì come quelli che vede lo male inanzi di lui, elli àe magiore paura che quelli che l'ode e non vede. E d'altra parte gli occhi sono più teneri che altri menbri del corpo, e sono quelli che guardano lo corpo di pericoli corporali.
(999) Non sappiamo se avanzano possa qui avere il senso di anticipano. — Nel C. F. R.: avantent; e potrebbe intendersi che gli occhi magnificano, esaltano al cuore il diletto che si prova nel vedere gli oggetti esterni. Il T. F. P. ha, meglio degli altri: annoncent.
Lo re domanda: qual'è la più pericolosa arte che sia e la più sicura? Sidrac risponde:
Quelli che insegnano la credenza di Dio alle genti ànno la più pericolosa arte e la più sicura e la più degna, che niuna altra arte del mondo. Altressì come gli occhi sono lo lume del corpo, e altressì come il corpo va sicuramente per lo insegniamento degli occhi, altressì deono, quelli che questa arte mostrano alle genti, menare l'altre genti sane e salve alla credenza, e al comandamento di Dio fare; e fare (1000) quello ch'egli deono conpiutamente, sanza niuna menomanza e sanza niuna fallenza e sanza niuna gravezza, a ora e a punto. Che quelli che questo fanno, fanno apiacere a Dio, e sono degni inanzi a Dio, e chiari come il sole è al mondo, che tutto giorno è puro e netto, tra li monti e tra le valle, e getta i suoi raggi, e toccare si possono (1001). Questa arte è la più degna e la più preziosa di niuna altra arte; e quelli che questa arte insegnano, e nolla fanno, così come deono, eglino aprossimano l'altre genti a Dio, e eglino si dilungano; e sono siccome la candela, che rende bello chiarore altrui, e sè medesima consuma.
(1000) Così ha pure il C. R. 2. — Migliore è la lez del C. F. R.: a la creance et a comandement de Deu; et a faire etc.
(1001) Manca agli altri Codd. e toccare si possono.
Lo re domanda: come alcuna volta muove la gaieza al corpo dell'uomo gaio e allegro (1002)? Sidrac risponde:
La gaieza che alcuna volta muove al cuore, e l'uomo diventa gaio, sapiate che ciò è per lo vecchio sangue, ch'egli arecò con seco del corpo della madre (1003). Quello sangue alcuna volta si muove, per lo ismovimento del malvagio sangue, che si muove per tutto il corpo, e rinverdisce lo cuore, e fallo diventare gaio o di cose fatte o di pensieri. E sapiate che la gaieza è molto pericolosa cosa: chè, se uno buon uomo savio fosse gaio, egli sarebe dispregiato tra le genti, e incolpato d'alcuna cosa, per la sua gaieza, conciosia cosa che egli nolla faccia; e se egli non fosse gaio, e fosse savio e convenevole, apena potrebe essere incolpato di follia. E quando lo sangue cessa, lo corpo diventa posato e cheto di fatti e di pensieri. E lo sangue ismuove al corpo di troppo bere o di troppo posare.
(1002) Nel C. R. 2.: da che aviene la gioia e l'alegrezza che aviene all'omo di subito?
(1003) par le viel sanc chi est en lui de la jovente, le queil a aporte dou ventre de sa mere o lui. C. F. R.
Lo re domanda: ciascuna volta che l'uomo s'accosta alla femina ingenera egli? Sidrac risponde:
Non già, l'uomo non ingenera tutte le volte ch'egli s'acosta alla femina; ma egli ingenera alcuna volta ispesso e alcuna volta tardi. E la femina non piglia nimica ciascuna volta la generatura, perchè l'uomo ingenera più che la femina non piglia. E uno uomo luxurioso che spesso giace con femina carnalmente, si perde la forza delle reni e de' nervi e de' menbri; e quello ispermo che egli fae è sì frale e sì vano, che non à niuna sustanza di generare. Ma chi si astenesse della luxuria otto giorni o più, ben potrebe essere ch'egli generrebbe; e simigliantemente aviene alla femina. Ma nella ganba dell'uomo è vena, chi se ne facesse isciemare sangue giammai non ingenererebe; e simigliante alla femina, giammai inpregnare non potrebe (1004).
(1004) Merita di essere riferito, se non altro per la sua stranezza, il seguente tratto, che leggesi nel C. R. 2., e che manca anche al C. F. R.: Ma nella gamba dell'omo àe una vena, che tiene da l'uno capo a l'altro della polpa, e va insino al garetto, e si è molto sottile a trovare. Che chi isciemasse sangue dal capo di quella vena, e traesene una menata del ditto sangue, poi giammai ingienerare non potrebe. Item a femina che non fosse sterile, e tardasse troppo ad avere figliuoli, sed ella portasse co' lei così come porta al loro modo, la radice d'una erba che si chiama achel, ben pesta senza premere, con lana di pecora sucida, otto giorni e otto notti, e ciascuno giorno mutarsi due volte, e guardarsi di vivande grasse e dal freddo, e al nono giorno farsi isciemare una pugnata d'una vena della madre, dal lato diritto, presso del pettignone, là dove l'anguinaia monta, e la mattina giacere coll'omo, se ella e l'omo non fossono sterili, ella e l'omo ingenerebono di fermo.
Lo re domanda: che potrebe l'uomo fare, che la femina inpregnasse? Sidrac risponde:
Femina che non fosse isterila, e tardasse tropo a portare figliuoli, se ella si traesse sangue del braccio, e quello giorno, quando andasse a dormire, bevesse zucchero bollito e rose vecchie vermiglie, e un poco di regolizia, e così facesse la mattina e la sera, e l'altro giorno altressì apresso, la mattina e la sera; e ch'ella si guardasse carnalmente di giacere con uomo VII giorni, e l'ottavo giorno portasse calcina (1005) pesta nella natura, così come le femine la sanno portare, con lana lunga di pecora; e lo nono giorno portasse in quella maniera unguento di quarto peso e lana sucida, e una notte lo tenesse (1006), e in quello giorno si guardasse di bagnare la sua natura con aqua calda o fredda, e ancora di manicare grosse vivande, e la dimane giacesse carnalmente con uomo, incontanente ingraviderebbe.
(1005) racine d'ache. C. F. R. — È evidentemente la radice d'achel del n. t., scambiata qui dal trad. con la calcina.
(1006) et le IX iors che le portast en cele maniere loignement philosophen, le quart d'un pois ou plus en laine sulente ec. C. F. R. — sulente crediamo da corr. pulente, pullante.
Lo re domanda: di quale parte si raguna la schiatta dell'uomo quand'ella escie? Sidrac risponde:
Ella escie di quattro cose: di tutti i menbri dell'uomo, e de' nerbi e delle vene, che egli sudano dentro dal corpo, del grande calore, e della volontà delle quattro conparizioni dell'uomo, cioè del corpo e della loro natura; sì si canbia di vermiglio in bianco; e sì si ragunano e scagliano, e di là escono fuori: e questa è la schiatta dell'uomo, quando usa con femine (1007). La prima si è la volontà dell'uomo, che egli disidera a fare; e per quello disagio tutti i menbri rinfabiliscono, e la natura, che è i' lui, richiede. (1008). La seconda natura si è lo scaldamento in quella volontà. La terza cosa si è lo sforzamento (1009) dell'uomo alla femina. La quarta cosa si è di pigliare riposo al corpo. E simigliantemente per quella ragione si corronpe la femina come l'uomo; e alcuna volta si corronpe in dormire. Ma il travaglio del corpo e lo disagio e gli omori rasoave (1010) tutto questo.
(1007) Elle isse de IIII cosses de l'home, de tous ces membres et des ners. Car il sont sanc dedens le cors, de la grant calor, et de la volente des IIII complexions au cors et de lor nature ce chanse com deu vermeil au blanc, et s'asemblent escailes, et per la issent hors, et ce est l'esclate. C. F. R.
(1008) le chiert. C. F. R.
(1009) frotement ou touchement. C. F. R.
(1010) rabonacciano. C. R. 2. — Assoage. C. F. R. — Assoage, da asoager, significa qui calmare. — È chiaro che rasoave è un errore del trad., che pare non intendesse la parola franc. Non sapremmo indurci a credere che si dovesse leggere rinsoavisce per rende soave.
Lo re domanda: de' l'uomo amare gli figliuoli? Sidrac risponde:
Li figliuoli debonsi amare, ma non troppo. I figliuoli sono frutti delle genti, e bene dee l'uomo amare cotali frutti. Ma se tu ài i tuoi figliuoli, tu gli dee bene amare, ma non più di te, chè quelli è folle che ama altrui più che sè. Niuno dee amare altrui più di Dio; e poi la tua buona moglie, e poi i tuoi figliuoli e tutta la gente. Che se tu ài figliuoli, e tu gli ami tropo, tu fai follia, perchè tu non gli dei amare più che Dio e te medesimo. Che se l'anima tua è perduta e dannata per li tuoi figliuoli, per lasciargli ricchi o per mantenegli, se tu avessi centomilia figliuoli, governare non ti potrebono del tuo dannamento (1011). Meglio varrebe per te che tutti i tuoi figliuoli fossono dannati, che tu. Non dei mantenere i tuoi figliuoli di folle guadagnio, ma fargli inparare arte, ond'ellino si mantengano, se bisogno a loro farà.
(1011) Uno de' soliti equivoci del volgarizzatore. Il C. F. R. ha: ne te poroient de ton dampnement maintenir. — Ora maintenir (da manu, manum tenere) significa e governare e proteggere, soccorrere. E qui questo vb. aveva appunto il secondo significato. — Infatti il C. R. 2. ha: aitare non ti potrebono del tuo dampnamento.
Lo re domanda: incantamenti e malie sono vane? Sidrac risponde:
All'anima non profittano nulla, ma elle fanno noia e danno. Al corpo vagliono per tre cose: chi incantamenti e malie vuole fare, si gli conviene sapere e conosciere l'ore e i punti, quando si dee adoperare; e se egli in questo non conoscie assai, gli conviene aoperare che nulla vaglia (1012). La seconda cosa gli conviene avere in loro fede. La terza cosa si è che gli conviene sapere dell'arte della stonomia. E chi altrimenti lo fa, non sa che si faccia.
(1012) li conviene adoperare, che nulla li vagliono. C. R. 2. — Nel C. F. R. il senso è indecifrabile. — Il T. F. P. ha: il peult assez ouvrer, mais son ouvraige riens ne luy voultroit.
Lo re domanda: qual è la più leggiera bestia che sia e la più asentivole (1013)? Sidrac risponde:
Il cane è la più legiere bestia che sia, e la più conosciente e la più leale; che niuna bestia puote sì tosto correre, nè tanto tracciare (1014) come il cane. Di senno la formica è più asettevole (1015) che bestia che sia, a la ragione della sua piccoleza. Ella è la più savia, chè ella raguna la state per vivere il verno; e Iddio per la sua potenza l'à dato questa natura, per dare asenpro all'uomo, quando così piccolo vermine à iscienzia di ragunare la state per vivere lo verno; ciò è a intendere che noi dobiamo in Dio credere, e fare i suoi comandamenti, e travagliare in questo secolo per guadagnare l'altro secolo; e di fare altressì come la formica, che provede da lunga e da presso. Altressì dobiamo noi credere che Iddio à podere in tutte le cose, e adorare lo suo benedetto nome per tutti i tempi, e lo suo comandamento fare, e il suo servigio.
(1013) Asentivole pare voglia dire che sente. Il C. F. R. ha: flairant; da flairier, flarier, mandare odore e sentirlo (Cf. Gachet, Glossaire du Chevalier au Cygne, a flair). — Anche il prov. ha, con questo medesimo significato, il vb. flairar; e l'ital. odorare.
(1014) Tracier, ant. fr., vuol dire, oltre seguitare la traccia, come in ital., anche cercare con cura. «Si com le quert et k'il le trache — Une vies capele a trouvée.» Mir. de Notre Dame, presso Roquefort.
(1015) Crederemmo da correggere asennevole, per assennata, o piuttosto asestevole, per assestata. Potrebbe anco credersi usato asettevole per assettata nel senso di bene ordinata. — Ma come intendere il testo francese del C. F. R.: et de flairor formie est la plus flairant vermine et beste chi soit?
Lo re domanda: quale è più alto o la terra o lo mare? Sidrac risponde:
La terra è assai più alta che 'l mare. Se il mare fosse più alto che la terra ella (1016) coprirebbe la terra. Questo potete voi vedere apertamente: pigliate uno vasello, e enpietelo pieno d'acqua, raso col vasello, cioè coll'orlo, e l'acqua si terrà senza ispandere, se il vasello non si tocca; e se voi mettete anche uno poco d'acqua, ella saglierà d'ogni parte, e spande sopra l'orlo del vasello. Altressì averrebbe se lo mare fosse più alto che la terra, lo mare ispanderebe da tutte parti e coprirebbe la terra.
(1016) elle, C. F. R.
Lo re domanda: le lumache perchè s'appiccano agli alberi? Sidrac risponde:
Le lumache escono del sudore e del calore dell'erbe, e dell'umidore della terra; e per quella natura ond'elle sono, s'apiccano all'albore volentieri, per lo suo umidore. Lumaca è laida, ma ella è sana e molto buona per persona che fosse ingonbrata del petto, che fiatare non potesse. Chi pigliasse le lumache, e friggiessele con olio d'uliva, o dessele a mangiare dieci giorni con mèle di lape (1017), egli sarebe diliberato di quello male e di quello ingonbramento. E chi ardesse le lumache, quello dentro (1018), a modo di carboni, la decima parte, e altrettanto d'uno legnio che si chiama ybano (1019), e pestasse insieme molto bene, e lo stacciasse sottilmente, e poi ugnesse quelli che àe lo bianco nell'occhio, due volte il giorno, in trenta giorni lo bianco se n'andrebbe tutto (1020).
(1017) d'api C. R. 2.
(1018) les limasses dedens C. F. R.
(1019) ybanus.
(1020) Dioscoride insegna che le lumache abbruciate con tutta la carne, ridotte in polvere e unte col miele, guariscono le macchie degli occhi. Lib. II, Cap. 9.
Lo re domanda: come dormono gli vecchi più leggiermente che gli piccoli garzoni non fanno? Sidrac risponde:
Li piccoli garzoni dormono leggiermente per lo dolciore e per l'ardore e per lo verdore del loro cervello. E altressì come lo fiore del frutto a l'albore, quando uno poco di vento lo tocca, egli si dichina e abassa simigliante è del garzone, che, quando elli è satollo, uno poco d'aire che lo fiere, elli dorme e si riposa e si nodriscie. L'uomo vecchio dorme come i piccoli garzoni, per la fraleza del cervello: come uno frutto maturo e fracido, quando un poco di vento lo tocca, si lo caccia in terra. Altressì aviene del vecchio uomo, ch'egli dorme come uno garzone. E questo è per lo mancamento del sangue, e per la fraleza delle sue reni e de' suoi menbri.
Lo re domanda: se Idio avesse fatto uno uomo così grande come tutto il mondo, potrebb'egli contastare contra lui? Sidrac risponde:
Si Iddio avesse fatto un uomo (1021) così grande come tutto il mondo e più, egli non avrebbe forza nè podere di contastare contra di lui. E di questo vi potete voi avedere chiaramente: che se l'uomo facesse uno grande uomo alla simiglianza di lui (1022), e quand'elli fosse conpiuto, si lo potrebbe disfare tutte l'ore che volesse, e già contastare no gli potrebbe. E molto magiormente, a cento doppi, à magior podere di contastare a noi quella figura, che non averebe l'uomo, che fosse magiore di tutto il mondo, inverso Dio; nè uno migliaio d'uomini nè altrettante femine non potrebono pensare lo podere nè la possanza di lui; che anche n'avesse vie più che tanto, quanto l'uomo più pensa in lui, più ne truova in lui e di forza e di podere (1023). Che se Idio dicesse: sia lo mondo di fino oro e fine pietre preziose, inmantanente sarebe lo suo comandamento conpiuto e fatto; e s'egli dicesse: sia uno uomo bestia e peggio, overo uno vermine sì grandissimo che tutto il mondo potesse portare in capo, in quello punto medesimo sarebe tanto tosto fatto. E s'egli dicesse: fia il cielo e la terra distrutta, e la gente morta, incontanente sarebe conpiuto il suo comandamento. E se egli è così grande di podere, ch'egli potrebe fare uno uomo che fosse magiore che tutto il mondo, certo altressì lo potrebbe fare nullo (1024). Come l'uomo potrebe pigliare colla mano la più alta stella del fermamento.
(1021) Manca uno uomo al C. L. — Abb. supp. col C. R. 2.
(1022) chi fereit une grant figure a semblance. C. F. R.
(1023) Et mout plus a C. doubles ont plus de poer envers vos, che cil grant home chi fust com tout le monde n'en auroit envers Dieu, ne M. miliers d'omes et autretant de femes, et chascun d'iaus eust le sens de M. miliers de sages homes ne poroient il penser de M. I des poers de Dieu et de sa puissance, che il n'en trovassent plus de puissance et plus de poeir en lui. C. F. R.
(1024) Ci pare migliore il senso del T. F. P.: et ainsi doncques quelle resistence pourroit faire ung homme contre Dieu, et fust il aussi grant que tout le monde?
Lo re domanda: se Idio non avesse fatto lo secolo, di quale maniera sarebbe il mondo? Sidrac risponde:
Lo mondo sarebe istato come uno grande abismo (1025), pieno di tenebre, altressì nulla, come cosa che non fu mai. E già per ciò Idio non avrebbe perduta la sua gloria, e così sarebe egli stato allora, com'egli è e starà. Per tutte le genti e per tutte le criature ch'egli à fatte in questo secolo non sarebbe egli migliorato nulla; e s'egli non l'avesse fatto, non sarebe stato nulla; e però sarà fatto tuttavia lo suo comandamento, e tutto giorno sarà, sanza fine.
(1025) Abisme. C. F. R. — Abisso C. R. 2.
Lo re domanda: gli angeli che Idio fece furono fatti della lena di Dio, come Adamo lo primo uomo fue fatto? Sidrac risponde:
Non mica, se non solamente della parola di Dio, quand'egli disse, sia fatto l'angelo; e in quella parola e in quella ora furono fatti. Ma Adamo fue fatto della lena di Dio, quand'elli soffiò (1026) nel volto; e però Adamo e la sua generazione, che a lui credono e crederanno, saranno più degni che gli angeli per tre cose ch'egli ànno: la vita perdurabile della lena di Dio; l'altra, ch'egli ànno corpo e anima, e gli angeli non ànno se non lo spirito solamente; la terza che Idio à stabilito l'angiolo per l'uomo guardare e governare da tutti i mali, se egli non vuole consentire alla volontà del diavolo.
(1026) li sofiò. C. R. 2.
Lo re domanda: cui de' l'uomo più amare, o quelli cui elli ama o quelli che l'amano? Sidrac risponde:
Tu dei amare quelli che t'amano più che coloro che (1027) tu ami; che per aventura tu potrai amare tale che non amerà te, anzi t'odierebbe; e per ciò tu dei amare quelli che t'amano; e se tu lo fai, tu ami Iddio, inperciò che Iddio ama ogni uomo, e ciascuno lo dee amare. Quelli che amano il peccato, si ama (1028) il diavolo, e lo diavolo non l'ama punto, anzi odialo, e menalo al fuoco dello 'nferno. Che lo diavolo non ama la gente, se non per ingannargli e menarli al fuoco. E non credete che lo diavolo abia podere di male fare, se non a quelli che l'amano, e fanno i peccati. Ma i buoni odia egli fortemente, e non à podere di fare niuno male: che Iddio li guarda e difende del suo podere e del suo ingegno.
(1027) Manca al C. L. coloro che. — Abb. suppl. col. C. R. 2.
(1028) amano. C. R. 2.
Lo re domanda: dove sono le più degne parole e d'erbe e di pietre (1029)? Sidrac risponde:
Iddio fece vertude in queste tre cose, più che in niun altra cosa del mondo, chè questa è la propietà del mondo. E le più degne parole del mondo sono quelle quando l'uomo rende grazia, e adora al suo criatore, chè migliori parole nè più degne non potrebono di bocca d'uomo uscire. Le più degne erbe che al mondo sieno, sono quelle di che l'uomo vive, e che più servono al corpo dell'uomo: ciò è a intendere il grano, che noi abiamo di (1030) magiore bisogno, e più ci mantiene che niuna altra erba del mondo. E per ciò la chiamiamo noi la più degnia erba che sia. Delle pietre molte ne sono; ma delle loro bontà ci potremo ora sofferire (1031). Ma solamente quella pietra che macina lo grano è la più degna pietra, che tutte genti serve, e a tutte le genti abisognia: per ciò è la più degna pietra che sia.
(1029) Nel C. R. 2.: in che regna più virtù tra nelle parole o nelle erbe o nelle pietre?
(1030) di lui. C. R. 2.
(1031) Intenderei: ci potremo ora astenere, ci potremo passare di discorrere. È noto come l'ant. fr. sofferir avesse questo significato, del pari che il prov. suffrir.
Lo re domanda: come la scurità della luna non si vede se non inverso ponente, e tuttavia quand'ella è novella? Sidrac risponde:
La luna fa così bene lo suo corso al levante come al ponente: chè quella ora ch'ella fa lo suo corso, a quello punto, ella è vermiglia, così di giorno come di notte. E quand'elli si fa di giorno, ella non si puote vedere per lo chiarore del giorno. In quella che lo giorno falla (1032), ella è novella al levante; e lo fermamento fa lo suo torno, e ella viene al ponente, e allore è notte. E quand'ella è novella al ponente, e lo giorno dura, la notte non si puot'ella vedere per lo torno che lo fermamento fa; quando viene la domane, e ella si vede.
(1032) 'l giorno si diparte cioè falla. C. R. 2.
Lo re domanda: dee l'uomo discoprire il suo segreto al suo amico, quand'egli fa alcuna cosa celata? Sidrac risponde:
In niuna maniera de' l'uomo discoprire lo suo segreto se non a Dio, che tutto sa: ciò che è a intendere (1033), a quelli che saranno nel suo luogo in terra, dopo la venuta del veracie profeta. Ma in altra maniera non dei discoprire lo tuo segreto a niuno. Che se tu lo discuopri al tuo amico, alcuna cosa lo tuo amico, o altro amico ch'egli avrà, la discopirrà; se egli è poco savio, egli lo discopirrà tutto collo suo amico che egli à. Quello amico anche, o altro amico, lo dirà per aventura ad un altro; e così potranno sapere lo tuo segreto molte genti; e così ne potrai essere adontato e svergognato. E per questa ragione non è bene di scoprire lo tuo segreto. Che tanto come averai lo tuo segreto, egli sarà tuo servo; e quando tu l'avrai discoperto, tu sarai suo servo. E certo tale lo potrà sapere, lo tuo segreto, che ti vorrà male, e di ciò ne sarai più frale, e egli ti potrà più nuocere; e per la paura di lui, di ciò ch'egli avrà saputo lo tuo segreto, tu non potrai contastare. E se tu non ti puoi sofferire di discoprire lo tuo segreto per la tua follia, e lo ventre per la tua necessità l'enfia di pur dirlo, dillo infra te medesimo, altressì come tu lo ragionassi con altrui; e allora lo tuo cuore si rafredda e lo tuo ventre si disenfierà. E, se per bisogno che tu abbi, te lo conviene pur dire, guarda che tu lo dichi a tale uomo, che nol ti possa rinproverare, per alcuno cruccio che tu abbi co' lui.
(1033) che tutto ciò è ad intendere. C. R. 2. — Il n. t. è conforme al C. F. R.
Lo re domanda: quali femine sono più utili a l'uomo quand'egli giacie co' loro? Sidrac risponde:
Secondo l'anima, niuna femina è utile all'uomo, a giacere co' lei, se non se la sua moglie. E secondo il corpo, due istagioni sono l'anno di giacere con femina: quando l'aria è fredda, e rende lo suo gielo in terra. La femina, viva bruna è utile all'uomo, quando elli usa co' lei; chè la bruna femina è di calda alena e di caldo interiore, e quello calore iscalda l'uomo, e fagli grande prode e grande sanitade al corpo. E il caldo tempo, quando la stagione è calda, e rende lo suo calore in terra, la femina bianca è utile all'uomo, quand'egli usa co' lei; che la femina bianca è fredda, le sue interiore sono fredde, e quello freddore fa grande prode all'uomo, e lo rinfresca di suo calore. La femina vecchia si è calda e di grieve alena e grieve interiore e di grieve uscite (1034), e si dona grande pesanza al corpo dell'uomo, e grava lo cuore, e si gli fae mutare lo suo bello colore, e fallo diventare palido, sia la femina bianca o bruna. Dell'uomo vecchio alla femina altressì aviene.
(1034) Così ha pure il C. R. 2. — Manca al C. F. R.
Lo re domanda: perchè alcuna gente si levano a mattotino da dormire bianchi e coloriti, e altri palidi e ismalfati? (1035) Sidrac risponde:
Per tre cose: la prima per le forze delle collere gialle, che sormontano l'altre collere al corpo, e per la forza ch'elle ànno al corpo, quando lo corpo dorme, e l'altre collere e lo sangue cessano al corpo. E l'altre collere gialle che sormontano, lo tingono del loro colore, e alla mane si levano di quello medesimo colore. La seconda maniera si è di pigliare cosa, la notte, che scalfa lo corpo, e fa bollire lo stomaco, e iscalfare lo corpo, e rinfabilire gli occhi, e amarire (1036) la sua lengua; e si fa molte infermitadi.
(1035) Questo cap. manca al C. R. 2. — Invece di ismalfati crederemmo da leggere iscalfati. — Il C. F. R. ha: iaunes. E siccome eschaufeté, ant. fr., vuol dire collera, crederemmo che iscalfati potesse significare del colore che dà la collera. A conferma di ciò notisi la frase del n. t., in questo cap.: le collere gialle lo tingono del loro colore, e alla mane si levano di quello medesimo colore. In questo stesso cap. si troverà pure scalfa e scalfare, nel senso di riscaldare, chaufer franc.
(1036) Rendere amara.
Lo re domanda: lo triemo del corpo di che aviene, che alcuna volta si muove il corpo? Sidrac risponde:
Lo triemamento che alcuna volta si muove lo corpo, si è le forza delle flemme che sono al corpo, che alcuna volta sormontano l'altre collere che sono al corpo dell'uomo; e per questa forza ch'elle ànno, allora quando sormontano, l'altre collere rinfiammano, e corrono per tutto lo corpo e per li menbri e per le 'nteriora, e fannolo tremare, a modo di lampi che dell'aria viene (1037), che le flemme sono fredde, e lo fermamento (1038) è freddo.
(1037) Così ha pure il C. R. 2. — Nel C. F. R.: en guise de lampement che de l'air vienent.
(1038) Anche nel C. R. 2.: fermamento. Ma crediamo che sia errore. — Il C. F. R.: et le reflambement si est froid. — E il T. F. P.: et leur reflambement aussi est froid.
Lo re domanda: la vista che l'uomo vede entra negli occhi dentro? Sidrac risponde:
Niuna cosa del mondo non può uscire, se ella non entra inanzi; e similemente aviene della vista. Ella entra dentro agli occhi, e riguarda; e l'umidore tira a sè la senbianza della fazione (1039) di quella cosa entro, e la bee, similemente come lo sole bee e tira l'umidore del mattino della rugiada (1040). E gli occhi lo rendono al cervello, e il cervello rende quella medesima senbianza e fazione al cuore, e s'adolcia in lui, e tiello in memoria uno grande tenpo. Perciò che la vista degli occhi entra, e piglia, e rende al cervello, e il cervello rende al cuore, e lo cuore la rende a lui, e tiello in memoria uno grande tenpo; per quello sodamento (1041), lo cuore pensa, e vede chiaramente le maniere delle cose, ch'egli àe alcuna volta vedute. E se la vista non vi entrasse (1042) negli occhi, lo cuore non vedrebe nulla. E nulla cosa puote uscire, se ella non entra.
(1039) e la fazione C. R. 2.
(1040) et la rozee. C. F. R. — Tutto quello che segue di questo cap. manca al C. F. R.
(1041) Tanto nel n. c. che nel C. R. 2. leggesi chiaro sodamento Non sarebbe forse da correggere solamente?
(1042) non entrasse C. R. 2.
Lo re domanda: uno uomo solo non puote dire e parlare più cose? Sidrac risponde:
Niuno uomo solo può bene parlare; e dirovvi come: che non è niuna criatura, che alla simiglianza di Dio sia fatta, ch'ella non abia tre cose in sè, cioè corpo e senno e anima; questi sono tre in uno, e questa ragione i savi che parlano, dicono (1043).....
(1043) Non intendesi ciò che l'autore abbia voluto dire in questo cap. — Il C. R. 2. concorda col nostro, salvo che infine ha: e per questa ragione li savi ne parlano, e dicono che non puote essere l'omo in due luoghi. — Gioverà riferire la lezione del C. F. R. che è simile a quella del T. F. P: Le roy demande: par quel raison peut I sol parler et dire nos? Sydrac respond: Un sol peut bien parler et dire nos; car il n'en est creature en ceste monde che a scemblance de Deu soit faite, ch'ele n'en ait III en un; et por ceste raison dient les sages, nos.
Lo re domanda: se lo mare può menomare? Sidrac risponde:
Tutte le cose che crescono l'uomo può pigliare di loro, e si (1044) menimano (1045); se la mare non crescie ciascuno giorno, ma menomerebbe; chè egli mancherebe alla sua menomanza di tutte l'acque che le genti e le bestie beono, che tutte escono di mare. Ciò che l'uomo ne piglia di fiumi e di fontane, e ciò che noi ne beviamo e usiamo, non ritorna mica al mare, anzi si guasta e consuma. E la terra sospira di piovere (1046), e la getta al mare, e lo crescie tuttavia. Ma se la terra non sospirasse di piovere in mare, e i fiumi e le fontane si tenessono chete, che non entrassono in mare, si menomerebbe di tanto, come l'uomo ne pigliasse, se non fosse se non una candella (1047). Conciosia cosa ch'ella (1048) sia così grande com'ella è, e non però, se la terra non sospirasse giamai acqua in mare, e li fiumi e le fontane che di lui escono non vi ritornassono, mai non parrebe che lo mare fosse menomato una candella, tanto è alto e lungo e largo.
(1044) Manca e si al C. L. — Abb. supp. col. C. R. 2.
(1045) Menomano. C. R. 2.
(1046) Mais la terre suspire l'aigue de pleue. C. F. R.
(1047) goute. C. F. R.
(1048) Intendi: sebbene il mare.
Lo re domanda: femina che spesso si corronpe di sua orina dormendo, e nolla può ritenere, può ella ingravidare, e l'uomo ingenerare? Sidrac risponde:
Due maniere sono di corrompimento d'orina: l'una maniera gli viene ispesso, e l'altra gli viene tardi (1049). Quella che gli viene ispesso, si può bene ingravidare, e l'uomo simigliantemente ingenerare. Che la madre della femina, ove lo spermo dell'uomo cade, si è dalla lunga dalla vescica, ove l'orina si raguna, che la madre si tiene alle reni e la vescica al pettignone. E però l'uomo e la femina, che ispesso si corronpa di loro orina, ciò non aviene mica loro di fraleza di loro vescica; anzi aviene per aventura perchè la vescica è un poco usata (1050) più dall'una parte che dall'altra; e quando ella è piena d'orina, si la getta fuori per virtù ond'ell'àe usata (1051). Quella femina può bene ingrossare, e quello uomo medesimo bene ingenerare; che ciò non aviene mica delle fralezze delle loro reni. Ma femmina e uomo che si corronpono tardi della loro orina, cotale femina non può (1052) ingravidare nè cotale uomo ingienerare; chè ciò loro aviene della fraleza delle loro reni; chè le reni sostengono tutto il fascio ch'è dentro dal corpo (1053); e quando sono a fredità (1054), o fanno una grande forza, o scaricano uno grande carico, le reni della loro fraleza l'asaliscono, e vengono sopra la loro vescica, e bagnano per forza, e versano l'orina (1055). E s'egli avenisse che cotale femina ingravidasse, apena cotale figliuolo potrebe bene avenire (1056); chè, quando egli diventa grande, le reni non possono sostenere lo carico nè il suo peso; e per la loro fraleza gli conviene che egli lo getti fuori. E simigliantemente lo spermo di quello cotale uomo, perciò che ella (1057) serà uscita di fredo sostenimento, e perciò non potrà venire a conpimento, chè lo spermo si è frale e molle, che apena si potrà pigliare.
(1049) tart. C. F. R., che significa difficilmente, raramente.
(1050) Anche il C. R. 2. ha: usata. — Nel C. F. R.: vercee (versé) da verser, che potrebbe intendersi per risiedere, esser posto. È noto che questo vb. fu usato in un tale significato da Rabelais. Cf. Barré, Gloss. de Rabelais. — Vedi la nota seguente.
(1051) La lez. del C. R. 2. è uguale alla nostra. — Nel C. F. R. leggesi: car chant ele est plaine de orine, si la zete de hors, par la verteure dont elle vertee. — E nel T. F. P: car quant elle est plaine de l'urine, l'urine chiet dehors, par ce quelle penche ung peu d'ung couste. — Mi par chiaro che verteure sia parola fatta dal vb. vertir (tourner); e l'averla in ital. trad. per virtù, è errore che facilmente si spiega. — Forse, in luogo di vercee, che abbiamo trovato già nel C. F. R., è da leggere vertee.
(1052) Manca non può al C. L. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(1053) soustiennent tout ce que dedans le corps est. T. F. P.
(1054) Fredità, per freddezza, ha pure il C. R. 2. — Nel T. F. P.: quant le froit les prend. — Al C. F. R. manca tutto questo tratto del presente cap.
(1055) Nel T. F. P.: ilz se laschent et se amollient, et la vessie qui est dedans par droicte force verse l'urnine.
(1056) a bene venire C. R. 2.
(1057) La semence.
Lo re domanda: cui dee l'uomo più amare, o i figliuoli del fratello o quegli della sirocchia? Sidrac risponde:
L'uomo de' amare l'uno e l'altro, secondo Idio, e secondo le loro opere. Ma secondo lo mondo, più gli tocca lo figliuolo del fratello, che quello della sirocchia, chè la criatura è più dell'uomo che della femina. Chè il primo uomo Adamo non fu di femina nè d'uomo, se non di terra, per lo comandamento di Dio; e la schiatta disciende dall'uomo al ventre della femina; per la volontà di Dio si forma; e lo figliuolo dell'uomo e della femina più apartiene all'uomo, ond'egli escie. Simigliantemente come d'una pianta d'uno albore, che le pianta è lo padre, e la terra è la madre che la guarda e che la nodriscie; nè sanza l'uno nè sanza l'altro non può essere; ma più à nome dell'albore, onde egli è stato, che della terra. Perciò dee l'uomo più amare lo figliuolo del fratello, che quello della sirocchia, perchè appartiene più all'uomo (1058).
(1058) È assai curioso questo che aggiunge il C. F. R.: Et segont la certainete dou monde, l'om est plus certain de l'enfant de sa seur che de celui de son frer; car la seur a bien sentu l'enfant en son ventre, et fu bien certain de lui. Et il meismes a bien veu sa seur groce. Et de celui de son frere ne puet il pas estre certain, che cil enfans de sa fame soit sien, ne son frere chi soit ses nevous; car ausi bien puet elle estre grosse d'autre home, com son frere.
Lo re domanda: qua' sono le pericolose collere del corpo? Sidrac risponde:
Quattro maniere di collere sono al corpo, di quattro conparazioni: primieramente sangue, secondo collere, terzo flemme bianche, quarto collere gialle. E se l'una delle quattro fallisse al corpo, lo corpo non si sosterrebbe; chè altrettanto di sostentamento à 'l corpo dell'uno come dell'altro; e ciascuna dee essere alla sua ragione. Se l'una di loro sormonta l'altra, dannegiare potrebbe il corpo. E tutte e IIII sono pericolose: che, se lo sangue sormonta gli altri, egli può ispegnere lo corpo, e fallo morire, alla sua casa, diritto al cuore (1059); e si gli toglie lo fiato e lo sospiro e l'alenare, e in tale maniera lo spegne e l'uccide. Le collere nere sono pericolose; chè s'elle sormontano l'altre, elle potrebono dannegiare lo corpo per molte maniere; ch'elle possono fare cadere lo corpo in malvagia infermità (1060), e perdere lo senno e lo savere, e diventare rognoso e lebroso; e si lo fa diventare fello ad ria maniera (1061). E quando elle sormontano l'altre, elle sono molto gravi a rabonacciare e medicare per erbe e per fiori e per digiunare e per beveraggi. Le flemme sono pericolose, quand'elle sormontano l'altre flemme del corpo, perch'elle li mangiano malamente; ch'elle signoregiano in malvagie malizie fredde, e si mangiano i piedi e le mani e i capelli e le reni e le ganbe e i diti, e fanno putire la bocca e gli orecchi e 'l naso, e fanno molte altre malizie assai. Abonacciano per erbe e per fiori e per beveraggi e per vomicare. Le collere gialle sono molto pericolose, quand'elle sormontano l'altre collere al corpo. Elle cercano il cuore, e fanno travagliare, e fanno diventare li menbri frali e molli, e tolgono la volontà al corpo, del bere e del mangiare; e si li cambia il colore, e si lo fa diventare vocolo (1062). E s'abonacciano con erbe e con fiori e con vomicare. Queste quattro maniere d'omori sono di IIII comparazioni, e si signoregiano il corpo, l'anno, quattro volte ciascuno. L'anno si è XII mesi, cioè a sapere LI settimane e IIII giorni, cioè CCCLXV giorni e VI ore. La prima istagione dell'anno, che signoreggiano il corpo, si sono tre mesi; e sì si noma capricorno e acquario e piscies. Questi sono tre segni, che ànno podere delle flemme al corpo, e si sono freddi; e cominciano a' XXIIII giorni di dicembre, e durano insino a' XXIIII giorni di marzo, e sono inverno. La seconda parte dell'anno, tre mesi, si sono questi segni aries, tauro, giemini; e si ànno podere nel corpo della gente, che sono caldi e umidi; e cominciano a' XXIIII giorni di marzo, insino a' XXIIII giorni di giugno. La terza ìstagione dell'anno si sono tre mesi, e si sono in questi segni, cancer, leo, virgo; e si ànno podere nel corpo della gente, e sono caldi e secchi, e si cominciano a' XXIIII giorni di giugno, insino a' XXIIII giorni di settembre. La quarta parte dell'anno si sono tre mesi, e ànno questi segni, libra, scorpio, sagittaro; e si sono freddi e secchi, e cominciano a' XXIIII giorni di settembre insino a' XXIIII giorni di dicenbre. E la natura di queste stagioni ciascuno uomo si può guardare di malizie e di contrarii, di vestimenti e d'altre cose contrarie; e s'egli lo fanno, egli non avranno mai infermitade al corpo.
(1059) à sa maison, droit sur le cuer C. F. R. — Probabilmente è un errore del testo francese, passato nel testo italiano. Potrebbe supporsi che, invece di a sa maison, avesse da leggersi car s'amasse; cioè, il sangue lo fa morire, perchè si raduna diritto sul cuore.
(1060) le cors faire cheir de mauvais mal. C. F. R.
(1061) di ria maniera. C. R.
(1062) et si li font perdre la viste C. F. R. — Vocolo per avocolo.
Lo re domanda: quale è la migliore carne che sia al corpo? Sidrac risponde:
La migliore carne si è quella che à magiore sustanzia di forza in sè, ch'è la più forte, e dà magiore forza al corpo dell'uomo, ed a l'uomo sano che àe buono istomaco. La carne del bue e della buffola è più sana, che niun'altra carne; chè queste carni ànno grande sustanzia in loro, e rendono grande forza a uomo infermo. La carne del montone è più sana, per la tenerezza ch'è in lei, nello stomaco frale (1063). La carne della polastra è più sana che altra carne, per la tenereza ch'è in lei, per la fraleza ch'è nello stomaco dello amalato; e se non fosse per questa cagione, l'uomo darebbe a l'amalato pur carne di bue o di bufola, che l'ànno grande forza e grande sustanzia in loro. Ma per la infermità e per la fraleza dello stomaco del malato, l'uomo gli dona la tenera carne.
(1063) allo stomaco d'uomo fraile C. R. 2.
Lo re domanda: perchè la notte, quando l'uomo cena la mattina à fame, e s'egli non cena si è satollo? Sidrac risponde:
E ciò aviene per gli omori. La notte che l'uomo cena, la vivanda èe nello stomaco pieno, e bolle tutta la notte dentro; e quando viene inverso lo giorno, tutto è consumato e è nullo; e lo stomaco che si sente voto, si gli conviene avere fame. E quando l'uomo non cena, lo stomaco dorme voto, e gli omori gocciolano (1064) dentro, e crescono, in quello che si pena a fare giorno; e al mattino si trova pieno di flemme e di collere. E questo aviene perch'egli è satollo; chè la fame e lo saziamento non viene se non dallo stomaco.
(1064) Vogliamo notare che, invece di gocciolano, il C. R. 2. ha candellano. Questo a proposito della nota a pag. 200-201.
Lo re domanda: la vivanda che l'uomo mangia come si parte ella per lo corpo? Sidrac risponde:
La vivanda che l'uomo mangia si raguna tutta nello stomaco; e quand'ella è ben consumata e ben cotta, allora si parte in cinque parti. La prima parte è la più pura e la più netta, ne va dirittamente al cuore. La seconda va dirittamente al cervello e agli occhi e per tutta la testa. La terza va al corpo e a tutti i membri e al sangue. La quarta vae al polmone e al fegato e alla schiena. La quinta parte vae al fondo, e è lo sterco. E altressì interviene del bere.
Lo re domanda: l'uomo ch'avrà inghiottito osso o spina, e gli sarà ristata nella gola, e non potrà andare su nè giù, come si potrà torre quello osso? Sidrac risponde:
In due maniere: per inghiottire acqua e mangiare pane, e inghiottire aspramente. E se per questo no' ne vuole uscire del collo, e tu piglierai uno buono boccone di carne cruda, e legala con un filo sottile e forte, e masticheràla due volte o tre o più, e poi lo 'nghiottirai, e terrai lo capo del filo in tua mano. E se l'osso va giuso colla carne, tu inghiottirai ogni cosa; e se l'osso non va giuso, tu torrai il filo e la carne indietro, incontro all'osso, e tirerai con esso. E se quello filo si ronpe, sì lo farai un'altra volta.
Lo re domanda: perchè pute lo sterco dell'uomo e della femmina? Sidrac risponde:
Lo sterco dell'uomo e della femina pute per due cose: l'una per lo rinfrabimento del corpo, dentro: similmente come se l'uomo pigliasse uno pezo di carne (1065), e lo coprisse in tale maniera che punto di vento nolla potesse toccare, allora putirebbe. La seconda per gli omori che discendono allo stomaco, che sono amari e agri e insalati e di rio sapore; e si mischiano colla vivanda; e quando la sustanzia della vivanda (1066) si parte per lo corpo, e vi dimorano gli omori e lo cacchiume (1067) insieme, e iscalfano, e però putono.
(1065) carne cruda C. R. 2.
(1066) e quando la vivanda, cioè la sustanzia C. R. 2.
(1067) cacume C. R. 2. — Pare che sia da intendere per sudiciume essendo trad. del franc. ordure.
Lo re domanda: per che cagione è l'orina della persona insalata? Sidrac risponde:
L'orina della persone è salata per tre cose: la prima perch'ella discende e passa per la vivanda, e colà piglia la salatura che v'è entro, così come è la sua natura, chè tutte salature si sono di natura d'acqua. E perciò diciamo noi che l'acqua che l'uomo bee passa per la vivanda al corpo, e cola, e vanne con tutta la salatura alla vescica. La seconda cosa si è per lo sudore (1068) del corpo; che tutto il sudore che l'uomo tira dentro, tira l'acqua che l'uomo bee co' lei; che lo sudore che escie di natura, si è per calura ch'è dentro dal corpo, che fa mischiare e bollire l'acqua dentro dal corpo insieme (1069). E per queste tre ragioni diventa l'orina salata.
(1068) Tanto il C. L. che il C. R. 2. hanno: sapore. Ma abbiamo creduto di poter corr. sudore, sulla scorta del C. F. R. che ha suor.
(1069) Ecco la lez. del C. F. R.: car toute la suor che li cors sue dedens tire toute l'aigue che l'on boit aveuc ele, car le suor si est de nature de saleure. La tierce mainire si est por la chalor chi est dedens le cors, chi foit mehler l'aigue et la suor tout ensemble.
Lo re domanda: le femine ànno granelli? Sidrac risponde:
Se le femine non avessono granelli, elle non potrebono ingravidare, nè corrompersi. Per gli granelli ch'elle ànno, elleno si corrompono, e ingravidano. Ma non però elli non sono videvoli (1070) come quelli degli uomini, perchè le femine gli portano dentro a' loro ventri, presso alla matre, ove la criatura si nodriscie. Nè non sono nimica così grandi come quelli degli uomini. E se i granelli non fossono, le femine sarebono più femine ch'elle non sono. E di tanto come elle gli ànno più piccoli che quelli degli uomini, di tanto ànno meno di valore. Perciò è bisogno che le femine abiano granelli come gli uomini.
(1070) sì vedevoli C. R. 2. — si veables C. F. R.
Lo re domanda: come nascono i vermini nel corpo dell'uomo? Sidrac risponde:
Li vermini nascono nel corpo degli uomini e delle femine dello sterco, e della più inferma (1071) vivanda e della più grossa che l'uomo mangia. E si non vivono nel corpo dell'uomo, se non della più inferma vivanda e della più velenosa che l'uomo mangia. Altressì come i serpenti e l'altre bestie velenose a noi nettano la terra del veleno, similemente i vermini nelli nostri ventri a noi nettano grande parte delle 'nferme vivande e delle velenose. S'egli non fossono, i corpi non sarebono nimica tutti sani. Non intendere nimica di troppi, chè troppi fanno male al corpo.
(1071) Per malsana.
Lo re domanda: quante sono l'arti del mondo che l'uomo non si potesse sofferire sanza loro? Sidrac risponde:
Quattro sono l'arti reali, che l'uomo non si potrebe sofferire sanza loro: primieramente fabro, secondo maestro di legname, terzo cucitore, quarto texitore. Queste quattro sono molto bisognose al mondo, che sanza loro lo mondo non si potrebe sofferire (1072). Lo fabbro è signore di tutte l'altre arti del mondo, che niuna cosa ch'abisogni al corpo dell'uomo non si potrebe fare, se i loro stovigli non passassono per le mani del fabro. Maestro di legname si è conpagno del fabro al bisogno del mondo, ciò è a intendere lo legno al ferro; chè altressì come lo legnio s'aopera per lo ferro, conviene che lo ferro abia aiuto da legnio; e altrimenti non potrebe ben fare; e se egli non fosse, non si potrebe fare. Del cucitore il mondo àe molto grande bisognio di lui, chè per li cucitori si vestono le genti. Texitori è di molto grande bisognio, ch'egli fae la cosa onde tutte le genti si vestono e si cuoprono; e fa molte altre cose al bisognio delle genti. L'altre arti che sono dopo queste, sono molte bisognose alle genti; ma l'uomo si potrebe sofferire più che di queste IIII arti; che al tempo d'Adamo la prima arte fue fabro, la seconda maestro di legname, la terza cucitore, che gli cucivano le cuoia del filo del cuoio, e si coprivano in qualunque maniera egli poteano. Poi la quarta fu tessitore, che gli faceano le tovaglie del pelo delle capre, il meglio ch'egli poteano. E poi apararono a fare l'altre arti che sono nel mondo, che ciascuno giorno s'asottigliano, e asottiglieranno tanto quanto il mondo durerà (1073).
(1072) sostenere C. R. 2.
(1073) Nel C. F. R.: car chascun jor s'asoutiloient et s'asoutilieront tant com le monde durera. — Intenderei assottigliare per perfezionare, raffinare. L'ant. franc. soutiller ha il senso di studiarsi, ingegnarsi, conforme a assotigliarsi ital. — Infatti la lezione del T. F. P. è questa: car chascun iour se subtillioit luy (Adam) et les aultres gens de faire tousiours nouvelles choses.
Lo re domanda: come potrebe l'uomo vinciere la volontà di questo mondo? Sidrac risponde:
Legiermente sanza niuno pericolo tu potrai vincere la volontà del secolo: chè quando tu ai volontà di fare alcuna cosa che non sia buona, lieva lo tuo pensiere da lei, e pensa in altra parte, in bene, e lo tuo mal talento trapasserà. Chè quando tu pensi in alcuna follia o in alcuno vano pensiero, tu non puoi iscanpare di lui, se tu non pensi in altra cosa; e quando tu più gratti quello pensiero (1074), e egli più t'acciende il cuore, e t'aferma la volontà, e poi vieni tu al fatto. E se tu ài podere di farlo, tu lo farai, e apena puoi iscampare, che tu nol facci, della grande pena che tu ài, e volontà e pensiero al cuore. Ma se del tutto vuogli iscanpare della mala volontà che ài al cuore, sì tosto come tu ti diletti in rio e vano pensiero, lo tuo coragio atenpera, e pensa d'altro che in quella follìa. E se il tuo diletto di quello pensiere conbatte con lo tuo cuore, lo tuo cuore sia fermo e forte alla battaglia, tanto ch'egli di fuori da sè lo possa gittare; e allora iscanperai del male fare e di peccare, e il tuo corpo sarà in riposo; chè quelli che à folle pensiere nel cuore, e si diletta in lui, quello cuore non è sanza grandi martiri; e ti toglie lo mangiare e lo bere e riposo, e portagli angoscia e tribolazione.
(1074) et chant tu plus cele pencee grates C. F. R. — Sembra che allo scrittore di questo libro piacesse il vb. grater in questo curioso significato. Al cap. XCII. (pag. 137) trovammo già e non gratti più la gelosia, e nella nota dicemmo che forse nel testo francese era da leggere piuttosto che grater, guarder. Ora però quella nostra congettura cade, sia per questo nuovo esempio del medesimo verbo; sia perchè abbiamo trovato nel Raynouard (Lex. Rom.) l'es. prov. del cap. XCII: non grate plus la gelosia, car qui plus la grata, ela plus art.
Lo re domanda: quali ànno magiore onore e gioia nell'altro secolo, o i piccoli garzoni che anche non peccarono, o li buoni che lasciano lo male per l'amore di Dio? Sidrac risponde:
Li piccoli garzoni che peccato non fecero unque, egli avranno gioia nell'altro secolo assai veracemente. Ma la perfetta gente che saranno, e sapranno che cosa è il diletto e la gioia di questo secolo, e lascieranno tutto per l'amore di Dio, e riceveranno in questo secolo pene e martiri per lui, sapiate in verità che quelli avranno magiore gloria che i piccoli fanciulli, per ognuno cento (1075). E ragione e bene è ch'egli l'abiano, ch'egli lascieranno lo diletto di questo secolo per la loro volontade, e riceveranno per Dio martiri. E gli piccoli garzoni che nulla non saperono nè fecero per Dio, non lo debono avere simile di coloro; e però dico io ch'egli avranno magiore gioia e magiore onore nell'altro secolo. E ciò sarà quando lo figliuolo di Dio verrà in terra, e ronperà lo 'nferno.
(1075) per uno ciento C. R. 2.
Lo re domanda: di quanto, poi che 'l diavolo fue abattuto, fue fatto Adamo? Sidrac risponde:
Di quell'ora e di quel punto che l'angiolo fue abattuto del cielo, a intendere lo diavolo, da poi a mille anni fue fatto Adamo; e altrettanto è da Adamo a Noè, mille anni. Ma alcuna gente nasceranno, che per la loro sottigliezza diranno, che VIII generazioni viveranno mille anni. Sapiate che di questo diranno egli vero; ma egli diranno che, i mille anni furono dell'abattimento del diavolo infino Adamo, sono contati mille anni de' sette milia anni (1076). Sapiate che di ciò falleranno egli bene, e chiaramente lo potete conosciere: chè per la volontà di Dio, VII generazione di gente deono nasciere al mondo, e ciascuna generazione dee vivere mille anni; onde mille anni che furono dello abattimento del diavolo infino alla venuta d'Adamo, non deono essere contati; chè i diavoli non sono mica generazione, se non ispiriti solamente, che niuno ispirito solamente puote essere generazione, se ciò non fosse corpo e spirito. Perciò diciamo noi che mille anni che furono dinanzi Adamo, non deono essere contati della generazione di mille anni, che nulla generazione non può essere, se non di corpo e d'anima, e di generazione d'uomo e di femina, e ch'elli possano vivere e morire.
(1076) mais il diront che les M. ans che furent de l'abentemat dou deable en iusches a Adam sont toutes M. de les mVII.
Lo re domanda: quale è il più bello vembro del corpo? Sidrac risponde:
Lo più bello menbro del corpo si è lo naso; che lo naso è al corpo, altressì come lo sole è in cielo, quando egli è nel mezo giorno, e rende la sua biltade per tutto lo mondo. Altressì fa lo naso per tutto lo corpo. Se uno uomo avesse meno uno degli occhi della testa, e uno piede, e una mano, e' non parrebe tanto laido, come s'egli avesse meno il naso. Ma magiore danno avrebbe degli altri menbri che del naso; e magiore danno avrebe delle mani, che di niuno altro menbro del corpo; chè meglio si potrebe l'uomo aiutare sanza uno piede, che sanza una mano; chè uno piede di legno lo potrebe portare d'ogni lato, e della mano non si potrebe aiutare.
Lo re domanda: lo vento come si sente e non si vede? Sidrac risponde:
Lo vento si è simigliante a Dio lo tutto possente, che si sente e non si vede. Chè tutte le cose del mondo sentono Idio, e quelle cose che ci paiono che sieno morte, sentono Idio; e niuna cosa sanza Idio può vivere. Altressì è lo vento. Tutte le creature del mondo lo (1077) sentono e nollo possono vedere, perciò ch'egli è ispirito; e quelle cose che non lo sentono sono morte. Chi prendesse una criatura, e mettessela in uno grande albergo (1078), ove il vento non potesse entrare per pertugio (1079), quella criatura non potrebe vivere guari, per niuna cosa che egli sapesse fare. E similmente sono tutte le cose che vivono, che, se il vento no' gli movesse, morti sarebbono (1080).
(1077) Manca lo al C. L. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(1078) en I grant ostel C. F. R.
(1079) per nullo pertugio C. R. 2.
(1080) car ce elles ne sentissent le vent mort seroient C. F. R.
Lo re domanda: come il fuoco si vede e non si può pigliare? Sidrac risponde:
Lo fuoco si è della natura del sole, e si à lo colore del sole, e si è spirituale come lo sole, che lo sole si può vedere e non si può pigliare nè ritenere. Lo fuoco che l'uomo piglia, egli àe alcuna sustanzia; ma lo diritto fuoco e la fiamma, quella non si può pigliare, ch'ella è del sole, e al sole ritorna quand'ella è spenta.
Lo re domanda: perchè si dice pulcella e vergine, e quale è più degna? Sidrac risponde:
Vergine è assai più degna che pulcella. Vergine vuol dire pura e netta del suo corpo e del suo pensiero e della sua volontà e cogitazione e della sua bocca e degli occhi e degli orecchi e de' piedi e delle mani e di tutto il suo corpo dentro e di fuori, comunalmente, sanza niuna corrottura di fatti nè di pensieri. Questa è vergine. Pulcella vale a dire che non è corrotta del suo corpo, ma ella può essere corrotta, di molte maniere pericolose, di suoi menbri e de' suoi occhi e de' suoi piedi. E non però molto è degna cosa chi guarda lo suo pulcellatico (1081) per Dio, perch'ella sarà tra gli agnoli posta a sedere.
(1081) Per pulzellaggio.
Lo re domanda: qual si puote meglio tenperare di lussuria, o la pulcella o quella che sia corrotta? Sidrac risponde:
Quella si dee meglio sofferire delle cose che non à provate, che quella che l'à fatte; e più leggiermente si tiene l'acqua meglio là, ove ella non esciè unque, che là ov'ella si tiene per forza, e là ov'ella si può legiermente uscire. La corrotta si à tutto aperto lo cammino (1082); la pulcella si à lo camino tutto chiuso. E perciò diciamo noi che la pulcella si dee meglio tenere che la corrotta, ch'ella non sente cotale fatto, e non sa che ciò è, come la pulcella che non cognoscie unque (1083).
(1082) àe aperta la camera C. R. 2.
(1083) Correggasi colla lez. del C. R. 2., che è conforme al C. F. R.: perciò ch'ella non sente cotale fatto, nè non sa che sia la corrottura; e quella che l'ha sentito sì si diletta de la fraile carne; e perciò non si può così tenere nè soferire la corrotta, come la pulcella che non conosce quello affare.
Lo re domanda: quale si puote meglio sofferire di lussuria, o l'uomo o la femina? Sidrac risponde:
La femmina si può meglio sofferire di quello fatto, che non puote l'uomo, che è di più calda conparisione che non è la femina. La più calda femina del mondo è più fredda che 'l più freddo uomo del mondo, e per una volta che la femina si corronpa, si può l'uomo corronpere XXVII volte. E questo potete voi vedere chiaramente, che ciascuna volta che l'uomo s'acosta alla femina carnalmente, poco si falla che non si corronpa; e in molte altre maniere si può corrompere. La femine non si può nimica sì tosto corronpere: apena si corronpe, delle dieci volte (1084) che l'uomo si corronpe. Ma la femina è più calda di volontà e di coragio in quello fatto, che l'uomo non è, e più si diletta in vista in pensieri e in toccare, che l'uomo. Ma lo corrompere della femina gli dura molto, inanzi ched elli passi. E anche v'àe altro pericolo nella femina che nell'uomo (1085): che incontanene ch'uomo èe corrotto, quella volontà è passata, come il fuoco arde (1086), e l'uomo vi gitta suso l'acqua, incontanente è spento e si fa freddo; ma la femina, che spesso non si può corrompere, sì si iscalda, e arde più che il fuoco che arde, e l'uomo vi gitta entro le legne, e egli più arde. E per questa ragione la femina à calda volontà, e più si diletta in quello fatto che l'uomo, per ciò ch'ella non si puote corronpere sì tosto nè sì ispesso come l'uomo.
(1084) delle dieci volte l'una C. R. 2.
(1085) che non è nell'omo C. R. 2.
(1086) come lo fuoco che arde C. R. 2.
Lo re domanda: la femmina gravida come puote ella notricare la criatura nel suo ventre? Sidrac risponde:
Lo garzone si nodriscie del sangue della femina, cioè di quello del suo tempo; e del fiato dell'aria che la femina fiata (1087), e della vivanda ch'ella mangia, e dell'acqua ch'ella bee. Ma quando ciò aviene, non intendere nimica che lo figliuolo mangi di quella vivanda nè bea di quella acqua della femina. Ma quando la femina mangia, si gli cola di quello olore e del savore per lo latte, inanzi al volto del figliuolo (1088), e di quello si nodriscie e si pascie e si diletta. Ma la sua diritta nudricatura si è del sangue della femina, che lo figliuolo bee per lo bellico; e questo potete vedere chiaramente della femina grassa, che, quando ella non è gravida, ciascuno mese le viene lo suo tempo, se malizia no' gli toglie.
(1087) et de l'air che la feme flaire C. F. R.
(1088) a la chiere de l'enfant C. F. R. — s'en vont en la bouche de l'enfant T. F. P.
Lo re domanda: dee l'uomo adontare la femina, quand'ella falla del suo corpo? Sidrac risponde:
Se la tua moglie o la tua filiuola o la tua nipote fanno follia di loro corpi, tu no' le dei nimica adontare; e se tu l'adonti, tu farai peccato, ed onta a te medesimo. Che se la tua moglie è tenuta per buona femina, le genti le porteranno onore e reverenzia, e l'onore e il lodo è tuo più che suo. E sapiate che se tu discuopri lo suo male e la sua follia, sapiate ch'ella sarà adontata, e lo fascio del disonore sarà tutto vostro, chè, chi isputa in alto, nel viso gli torna. E perciò tu nolla dei nimica adontare, perchè a noi non tocca questo fatto (1089); e se tu lo fai, tu farai peccato e male. E non ti caglia del suo fatto, chè ciascuno renderà ragione delle sue opere a Dio.
(1089) a noi non tocca del suo fatto C. R. 2.
Lo re domanda: dee l'uomo essere geloso della sua moglie (1090)? Sidrac risponde:
Tu non dei essere geloso della tua donna in niuna guisa del mondo; che, se la tua moglie è buona femina e leale, e tu la gelosi (1091), tu la fai diventare ria femina; e s'ella è ria, e tu ti farai geloso, tu la farai diventare più ria ch'ella non è. La femina buona per niuna cosa del mondo l'uomo nolla puote conperare, nè oro nè argento nè niuna pietra preziosa non vale. È più assai a pregiare la buona femina che il buono uomo, per molte ragioni; altressì come uno sparviere, s'egli pigliasse una gru, sarebe più da pregiare, che s'egli pigliasse uno falcone. E simigliante è della femina e dell'uomo: chè la buona femina è più da pregiare che il buono uomo, per ciò ch'ella non à mica tanto di senno in lei, quanto l'uomo, e per la sua grande bontà ella è buona; e però ella è più da pregiare che il buono uomo. Due cose potranno avenire nella buona femina per gelosia: che se tu la tieni in gelosia, ella si potrà tanto istare in gelosia, ch'ella potrà venire in grande infermitade; o ella sarà per lo tuo dispetto ria femina. Se tu tieni in gelosia la ria femina, sarà peggio per lo tuo dispetto: o ella farà cosa per te uccidere, o ella ti farà uccidere ad altro uomo, chè di rio àlbore non puote uscire che rio frutto. Per ciò diciamo noi che l'uomo non dee istare in gelosia della sua moglie, in niuna guisa del mondo, nè rinproverare la sua follia ch'ella averà fatto. E per ciò se tu lo fai, tu l'accendi lo fuoco al cuore da capo a mal fare. E similmente non faccia all'uomo la femina, ch'egli è peggio di lei.
(1090) est il bon de geluzer la feme? C. F. R. — Il prov. ha engelozir.
(1091) ingielosisci C. R. 2. — et tu l'agelouses — Il prov. ha il vb. agelosir, per ingelosirsi.
Lo re domanda se l'omo de' (1092) avere gelosia di sua moglie. Sidrac risponde:
Certo a diritto e a ragione, si, e grande (1093). Se la tua moglie è folle, e tu nolla dei coprire nè mottegiare, che tu potresti pigiorare di discoprire la tua onta; e le genti che l'udisono, te ne potrebono tenere a vile, e per più cattivo. Ma gli savi cuoprono tutta via la loro moglie.
(1092) Manca al C. L.: se l'omo de'. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(1093) Non sappiamo come mettere d'accordo questo col cap. precedente. Al n. t. corrisponde tanto il C. R. 2., che il C. F. R., il quale ha: Certes, oil, a droit et a raison, se la fame etc. — Diversa però è la lez. del T. F. P., dove questo cap. è intitolato: se doit on courroucer ou estre ialoux quant sa femme parle a ung aultre homme?
Lo re domanda: debbono tutte le genti bere vino? Sidrac risponde:
Lo vino è una preciosa cosa e degna, e si è salute del corpo e dell'anima; chè per lo vino puote l'uomo sanare lo suo corpo di molte infermitadi. Lo vino, per la gente che il beono temperatamente e a ragione, non fa niuno dannaggio. A cotali gente vale meglio bere il vino che l'acqua. E a' folli che beono il vino follemente, e beono lo senno, e uccidono le genti e rubagli, si lasciano uccidere, e fanno mischie e battaglie di bere il vino, quelli non deono già bere lo vino, anzi varrebbe loro meglio ch'egli bevessono acqua di mare. E a quella gente lo bere lo vino non è diritto e leale, e per loro egli non è già fatto, anzi loro è molto difeso. Lo vino fa a' savi lo corpo sano e netto, e puro cuore e umile; lo vino fa a' malvagi rio cuore, e di rio, vituperoso. E per ciò diciamo noi che a' buoni è migliore lo vino che l'acqua; a' malvagi è meglio bere l'acqua, chè il vino è loro molto difeso (1094).
(1094) molto contradio C. R. 2.
Lo re domanda: dee l'uomo dilettarsi in niuno luogo del mondo? Sidrac risponde:
In niuno luogo del mondo niuno si dee dilettare, chè lo diletto, qualunque egli è, se non quello di Dio, si è avarizia e invidia e fornicazione. E fontana del diavolo è ciò che voi dilettate, se non quello di Dio. Si farete la volontà del diavolo. E perciò vi dico in verità che niuno uomo si dee dilettare in niuno diletto, se non in quello di Dio, chè tutti gli altri sono vani e mutoli e nulla.
Lo re domanda: dee l'uomo essere ardente di tenzone e di conbattere colla gente? Sidrac risponde:
Quando l'uomo è ardente di tenzone (1095) e di conbattere con alcuna persona, egli dee pensare in Dio e nella sua anima, e ch'egli non faccia cosa che torni dannaggio nè perdimento all'anima. E si dee pensare altro, e conbattere nel suo cuore, e di torre (1096) di lui quelle pensiero. E se questo non si puote raffreddare, egli si dee trarre fuori della gente, e tencionare in sè medesimo e conbattere, sicchè quella arsura, la quale enfia lo cuore, disenfierà, e in tale maniera si conserva (1097) di quella arsura.
(1095) Nel C. L.: tentazione — La correzione era evidente.
(1096) de' traere C. R. 2.
(1097) si ritrae C. R. 2.
Lo re domanda se l'uomo si dee vantare del suo peccato, quand'egli l'à fatto. Sidrac risponde:
Quegli che del loro peccato si vantano sono chiamati ministri del diavolo; chè tutto il male aviene per lo tentamento del diavolo; e quelli che si vanta di quello che il diavolo à fatto, questi è diritto ch'elli sia chiamato ministro del diavolo, ch'egli avezza la gente all'opere del diavolo. Quelli fae grande peccato e male molto forte, che tale peccato avrà per aventura fatto; chè altri, quando l'udirà, lo farà. E nello anunziare (1098) farà peccato quelli che l'avrà ricordato, perch'egli l'avrà insegniato per lo suo vantamento.
(1098) nello dinunziare C. R. 2.
Lo re domanda: nel male puossi trovare niuna iscienzia (1099)? Sidrac risponde:
Nel male si truova (1100) grande iscienzia; ma questa non è chiamata perfetta iscienzia, per ciò che il vasello onde escie è orbo e non vede punto; chè s'elli vedesse, ellino non farebono nimica il male. E quelli che 'l conoscono, quelli sono malvagi. Similemente come se voi vedeste una carognia laida e putente, e in quella carognia vede (1101) una bella cosa, certo quella cosa sarebe molto innorata e male posta (1102); altresì aviene della iscienzia, ch'ella è male posta, quando ella è posta in corpo peccatrice (1103); chè il peccatore è più laido a vedere che la più puzzolente carognia del mondo. Perciò diciamo noi che la scienzia del peccatore, che non la cura in Dio nè ne' suoi comandamenti, non è perfetta iscienzia. Quattro iscienzie sono: l'una è quella di colui che in Dio crede, e ne' suoi comandamenti la cura (1104). La seconda si è quella del peccatore, che il comandamento di Dio non volle (1105) fare, ma in male e in peccato l'usa; quella è (1106) corporale iscienzia, perfetta in diavolo. La terza è del gaio uomo, ch'è bene di grande iscienzia; per la sua gaieza è a nulla tenuta, poco pregiata (1107); e si è come quelli che fa ardere dinanzi al sole uno bello candelo, che quello chiarore è nulla pregiato, per lo chiarore del sole; altresì è la scienzia del gaio folle, e nulla pregiata per la sua gaiezza e per la sua follia. La quarta iscienzia si è del povero uomo, ch'è tenuto a nulla fra la gente, e si era (1108) molto savio, e si era come uno ispecchio, che mostra in tutte le maniere che l'uomo lo mostra; altressì il povero uomo in tutte le maniere che l'uomo il domanderà, egli risponderà di quello che l'uomo l'avrà richiesto. E però l'uomo non dee ispregiare iscienzia di niuno uomo, conciosia cosa ch'egli sia grande o povero o piccolo, chè di piccola fontana puote uscire grande acqua e buona; e però l'uomo non dee dispregiare nulla persona (1109).
(1099) puet nul mauvais home avoir grant science en lui? C. F. R.
(1100) en les mauvais C. F. R.
(1101) vedessi C. R. 2.
(1102) certes celle belle chosse seroit laide a veir en celle carogne. C. F. R.
(1103) peccatore C. R. 2.
(1104) Cioè l'adopera. — Nel C. F. R.: la euvrent.
(1105) vuole C. R. 2.
(1106) è chiamata C. R. 2.
(1107) La tierce si est de jolif home, que de lui ist grant science, et par sa volente si est neent tenue ne prisie C. F. R. — Non si lasci qui di notare questa allusione alla gaia scienza, il gai saber de' Provenzali.
(1108) sarà C. R. 2.
(1109) Abb. corr. col C. R. 2. — Nel C. L.: in nullo.
Lo re domanda: perchè ànno le femine la gioia e lo cruccio del secolo (1110)? Sidrac risponde:
Le femine ànno la gioia e lo duolo di questo secolo, perciò ch'elle lo debono avere, per ragione, più che gli uomini, ch'elle ànno lo sangue e la curata (1111) più legiere che gli uomini; e sono altressì come le cime d'uno àlbore ch'è inchinato dal vento, da qualunque parte egli viene. Le femina si piccola cosa non puote udire, ch'elle non triemino tutte; e questo aviene per la fraleza del corpo ch'elle ànno (1112); e così aviene loro della gioia. Che s'elle fossero così savie come gli uomini, elle sarebono balie (1113) e giudicatrici e signori; e comanderebero a giudicare, come gli uomini fanno. E perciò ch'elle non sono guari savie, e sono volatiche (1114), ànno elle tosto la gioia e lo dolore, chè imantanente credono e discredono ciò ch'elle odono; e perciò si sentono elleno gioia e dolore del mondo. E piutosto potrebono essere ingannate LXX femine che uno savio uomo; e questo è per lo povero senno ch'elle ànno.
(1110) Questo titolo è conforme a quello del C. F. R. Nel C. R. 2. leggesi invece: Chi à in questo mondo più gioia o più duolo, o la femina o l'omo?
(1111) le sanc et la cervelle C. F. R. — Al C. R. 2. manca questo periodo, e il seguente.
(1112) ce est por le poi de sens ch'eles ont; et lor feiblese dou sens lor fait tost avoire ioie et tost duel C. F. R.
(1113) baile C. R. 2. — bailies C. F. R.
(1114) voltanti C. R. 2. — volages C. F. R.
Lo re domanda: dee l'uomo andare ispesse volte a casa del suo amico? Sidrac risponde:
Tu non dei andare nimica ispesse volte a casa del tuo amico, ma tu lo dei andare a vedere a ora e punto, e non troppo ispesso, chè tutti i troppi sono male. Chè per aventura egli avrà a fare nel suo albergo e nella sua masnada, e se tu gli vieni sopra, tu gli farai grande noia. E poni mente a te medesimo: se tu fossi nella tua casa, e avessi a fare colla tua famiglia, tu non vorresti che niuna anima venisse sopra te; e molto ti farebe grande noia chi sopra te venisse, eziandio se fosse tuo figliuolo o tuo fratello; altrettale noia sarebe a lui, se tu andassi sopra lui. Ma se tu ài voglia d'andare all'albergo del tuo amico, fagli inanzi asapere la tua venuta; sì gli farai cortesia, e allora sarai molto bene insegnato (1115).
(1115) Intenderei: bene educato o saggio. — In prov. essenhadamens vale saggiamente.
Lo re domanda: dee l'uomo mostrare laida cera al suo amico? Sidrac risponde:
Se tu se' nella tua casa colla tua famiglia, e il tuo amico viene sopra te, tu non dei però mostrare laida cera, nè crucciare, conciosia cosa che (1116) tu ti crucci in fra te. Ma tu gli dei mostrare bella cera e bello senbiante, e fagli onore e piacere al tuo podere. Che se tu gli mostri rio sembiante, tu lo cruccierai, e avrai mala volontà in lui (1117).
(1116) benchè C. R. 2.
(1117) e farai la mala volontà verso te di lui venire C. R. 2.
Lo re domanda: come alcuna volta l'uomo conquisterebbe in battaglia due uomini o tre, e alcuna volta è vinto da uno solo? Sidrac risponde:
La battaglia si è simigliante a Dio; che quelli che loro pensiero ànno in Dio, non intendono ad altra cosa se non a Dio servire, e quivi ànno gli loro pensieri. Altressì dee fare quelli che battaglia fa: lo cuore e la volontà e lo suo podere dee mostrare di tutto in tutto alla sua battaglia fare; e dimenticare di tutto in tutto gli suoi figliuoli e la moglie e la sua ricchezza. E dee pensare che s'egli è valente e vigoroso, egli vincerà la sua battaglia, e s'egli è cattivo e ricredente (1118), egli sarà vinto e morto; e in cotale modo conquisterà egli la battaglia.
(1118) Vedasi intorno a questa parola ciò che, nello Spoglio degli Statuti Senesi, e nello Spoglio Lessicografico della Tavola Ritonda, scriveva il nostro carissimo Filippo Luigi Polidori, nel quale l'Italia ha perduto un altro di que' vecchi nostri, modestamente sapienti, che non conoscevano i superbi e prosuntuosi disprezzi si certa odierna gente dottissima.
Lo re domanda: è sanità di mangiare tutte cose? Sidrac risponde:
Tutte le cose che Idio fece per mangiare sono buone e sane, che le cose che sono inferme, non sono se non della infermità del corpo. Quando il corpo è sano, ciò ch'egli mangia si è sano per lui; e quando egli è frale e malato, poco di cosa ch'egli mangi, si gli fa male. Che la 'nferma vivanda e la sana viene dal corpo; chi à sano corpo, no gli fa (1119) quello ch'egli mangia, che tutto gli è sano e buono; e al corpo infermo poca cosa gli fa male.
(1119) non li caglia C. R. 2.
Lo re domanda: quali sono quelli che si vantano più che gente del mondo? Sidrac risponde:
Quegli che più si vantano che gente del mondo sono tre maniere di gente: la prima sono vecchi folli, che si vantano di loro gioventudine, e pensano che le genti lo credano, e non credono mica che quelli a cui elli lo contano li gabbano e beffano. La seconda maniera si è lo folle istrano, che racconta le grandi follie ch'egli ànno fatte nel loro paese; e dicono, io era ricco e gentile; e si ne va ad uno che li crede, e beffallo (1120). La terza maniera si è lo folle ricco, che conterà le sue follie e le sue bugie; e quelli che l'odono lo gonfiano, e si gli confessano ciò ch'egli dice, per la sua ricchezza; chè per aventura egli ànno mestiere del suo servigio.
(1120) Così ha pure il C. R. 2.; ma certo qualche errore o qualche omissione è qui corsa nel testo; il quale può essere corretto col C. F. R., dove leggesi: par I qui le croit, X le moquent.
Lo re domanda: perchè sono (1121) gli nuvoli così di state come di verno? Sidrac risponde:
Li nuvoli sono altresì di state come di verno; e altressì pioventi di tutte le stagioni dell'anno; e s'elle non sono nelle nostre parti, si son elle negli altri paesi; e di tutte le stagioni dell'anno non fallano giamai al mondo, nè di verno nè di state. Che quando lo fermamento fa lo suo movimento, lo sole piglia lo suo alto corso, e così fa istate e a noi verno; e in questo modo non falla giammai istate e verno al mondo, di tutte istagioni dell'anno. E quello torno che il sole fa, non è mica la montanza d'uno palmo, ma per l'altezza del fermamento ci pare molto mutato (1122).
(1121) non sono C. R. 2.
(1122) Forse montato; ma anco il C. R. 2. ha: mutato; ed il C. F. R.: loins.
Lo re domanda: lo nuvolo ch'è piccolo, come pare, come puote cuoprire tanta quantità di terra? Sidrac risponde:
Lo nuvolo ci pare piccolo alla vista, ma lo suo corpo (1123) è molto grande; nè la sua grandeza l'uomo nollo puote vedere, per la sua altezza. Lo nuvolo è simigliante alla vesica, che è piccola, e a poco a poco crescie e diventa grande, quando l'uomo vi soffia entro. Altresì è del piccolo nuvolo: quand'egli è piccolo molto, e l'uomo nol può vedere, se non quello ch'è di contro la terra, di verso noi. Nè la sua spessezza l'uomo nolla può vedere, nè la sua lunghezza, nè per lo traverso, per la sua altezza e per la sua iscurità. E a questo lo vento lo fiede, e enfialo, e fallo criesciere, e spandere sopra grande province, e spezare, e muovere, e ventare in terra (1124); e abeverano (1125) i beni che ci sono. Non intendere che quella aqua nascie in aria, ma ella viene del mare, e monta dello spiro che la terra getta (1126), e diventa nuvolo, e piove così come noi lo vegiamo.
(1123) Abb. corr. col C. R. 2. — Nel C. L.: corso, per erronea traduzione del cors franc.
(1124) Ventare forse per muovere il vento. — Nel C. F. R.: et pluire et vennir en terre.
(1125) abevera C. R. 1.
(1126) dou sospir che la terre zette C. F. R.
Lo re domanda: gli piccoli garzoni sono come bestie che non intendono? Sidrac risponde:
Li piccoli garzoni sono verdi e teneri, e non ànno gustato del diletto del mondo, nè del mangiare nè del bere nè d'andare nè di venire. E la loro natura si è per la volontà di Dio, che la loro anima è giovane e verde com'egli sono, e non possono parlare se non al tempo e alla stagione. E questa natura l'à fatta Idio per fare onta al diavolo, ch'è così piccola cosa, e meno intendevole che bestia quando ella è piccola. E poi diventa savio (1127), e piglia la sua ereditade, ch'elli per la sua superbia perdette. Che bestie sono assai che intendono più che uno piccolo garzone; e perciò àe il diavolo grande onta, che così piccola cosa conquista la sua eredità, ch'egli perdè per lo suo orgoglio. Altre maniere ci à, che gli garzoni non intendono quando egli son piccoli, perciò ch'egli è di frale natura e conparizione. (1128) Adamo mangiò inanzi che Idio gli donasse lo spirito; e perciò intendee egli in quello anno tutte le cose; e d'Eva avenne altrettale, perch'egli non furono fatti di schiatta, se non della lena di Dio solamente. Ma noi altri che poi siamo venuti, siamo nati di padre e di madre. E però non sono eglino così intendevoli, come quelli che non ebono padre, se non Idio e la sua volontà.
(1127) grant C. F. R. — Intendi: il fanciullo diventa grande, ec.
(1128) Pare che manchi qualche parola. Leggesi nel C. F. R.: por ce che il est de sclate d'Adam. — E così ad intendere quello che segue gioverà riferire il testo francese: Maintenant che Deus dona l'esperit a Adam, en l'ore entendi toutes chosses, et Eva autretel. Car il ne furent mie de la sclate, che tant soulement de laine de Deu.
Lo re domanda: com'à l'uomo alcuno menbro grande e l'altro piccolo? Sidrac risponde:
Li grandi menbri e gli piccoli si sono d'una vena che tocca al suo bellico, cioè al suo budello; sed ella è troppo tortigliata al ventre della madre (1129), egli tira (1130) la vena che tocca al menbro, e diventa piccolo; e se il budello del bellico non è tortigliato, le vene istanno larghe, e li menbri istanno ritti e non tirati, e diventano grandi. E quando egli è nato, e egli gli tagliano assai del bellico, lo venbro diventa piccolo; e quando ne tagliano poco, lo venbro diventa grande. Altressì aviene della natura della femina.
(1129) si le nombril est trop etortile au ventre de la mere C. F. R.
(1130) ture C. F. R.
Lo re domanda: lo senno onde viene? Sidrac risponde:
Lo senno viene di puro coraggio e di puro sangue e di puro cervello. Quando le due di queste cose sono pure (1131), è altressì come quelli che non vede se non d'uno occhio, che non può vedere così chiaramente come quelli che vede di due. Se tu ài puro coraggio e puro cervello, e tu ài iscuro sangue, sapiate che egli è sopra il cuore, e a lo cervello non lascia avere senno naturale. E se tu ài puro sangue e puro cervello e iscuro cuore, egli ti sturba gli altri due, e non gli lascia avere buono senno naturale. Ma se tu ài i tre buoni e puri e netti, tu ài lo buono senno naturalmente, per diritto natura. E tutto questo aviene per lo corso delle pianete e per l'ordinamento di Dio.
(1131) Meglio nel C. R. 2.: Quando le due di queste cose sono pure e la terza non è pura, elli non à diritto senno nè naturale, altressì come quelli ec.
Lo re domanda: di che viene lo pensiero che l'uomo àe, che gli pare vedere quello che non è? Sidrac risponde:
Li pensieri che l'uomo pensa alcuna volta di cosa che non è stata, e gli pare ch'ella sia, sapiate che ciò aviene del sangue ched egli aportò co' lui del ventre della sua madre che è gelato e vano. E alcuna volta si muove coll'altro, e rinfabilisce verso lo cuore, e fallo pensare in malvagità (1132), e credere cose che non furono, per la vanità del movimento di quello sangue.
(1132) in malvagie follie C. R. 2. — vanite et folie C. F. R.
Lo re domanda: lo sospiro (1133) onde viene? Sidrac risponde:
Lo sospiro viene del coraggio (1134). Quando lo cuore dell'uomo è pieno di rinfabilimento del sangue, allora sospira, per sè iscaricare e votare di quello rinfabilimento. Chè quando lo sangue si muove per lo corpo, egli rinfabla, e rende al cuore uno aiere molto caldo, che molto la grava, e allora lo cuore sospira per discaricarsi di quello malvagio aiere. E altre volte lo cuore à cruccio, e gli omori si muovono per quello cruccio, e rendono al cuore loro rinfabilimento, e l'infiamano tanto che sofferire nol puote; e allora li conviene gittare molti grandi sospiri. E spesse volte aviene che lo cuore sospira sanza cruccio: questo è lo rinfabilimento del sangue che si discarica.
(1133) Nel C. L.: spirto. — Abb. corr. coi Codd. R. 2. e F. R.
(1134) Per cuore.
Lo re domanda: la lena onde viene? Sidrac risponde:
La lena escie della rischiaratura (1135) degli omori, che sopra lo cuore vengono, che fendono lo cuore per lo mezzo, e l'uomo chiude gli suoi occhi per dormire; e di quella lordura ch'è d'intorno a lui (1136), escie una aire molta grieve per la sua bocca; e poi viene un altro aire puro e netto, che a lui va dirieto, e si lo iscarica di quella medesima lordura.
(1135) della rischiaratura e della schiuma C. R. 2.
(1136) Pare che abbia da intendersi intorno al cuore.
Lo re domanda: lo starnuto onde viene, e come lo potrebe l'uomo tenere? Sidrac risponde:
Lo starnutire viene di due cose: la prima del vento e della freddura del corpo, che egli escie di due vene del capo, e escie per lo più presso ispiraglio ch'egli truova, e ciò sono gli anari del naso. L'altra maniera si è di guardare lo sole: che se tu lo riguardi, tu istarnutirai. Lo calore del sole gli entra nelle vene del corpo, e caccia la freddura di là. E se tu ti vuogli tenere di starnutire, quando tu n'avrai talento, inmantenente ti cuopri la bocca, e alena: quello aire che dee disciendere per gli anari, si discienderà per gli pertugi della bocca, e così se ne partirà, che già nollo sentirai; che all'aprire che tu fai la bocca, la lena se ne va senza sentire.
Lo re domanda: lo menbro dell'uomo come si distende (1137) e onde escie e come ritorna dentro? Sidrac risponde:
Lo menbro dell'uomo crescie per tre cose: la prima pegli occhi, la seconda per lo cuore, la terza per lo ventre. Quando gli occhi vegono una bella femmina, egli si dilettano d'avella, e si l'anunziano al cuore, e allora si mette in quello pensiero (1138). E quello pensamento si muove gli quattro omori del corpo, e infiammano al menbro, ove la volontà della natura è; e si l'enfiano per diritta natura, chè il menbro si è fatto alla maniera della vescica. L'altra maniera si è molto pericolosa, ciò è la volontà che l'uomo àe in quello fatto, che fa gli omori tutti riscaldare e lo menbro ismuove. La terza si è lo riposo e la rienpitura, che li fanno avere quella volontà e cresciere lo menbro. Quando lo riscaldamento degli omori torna di dietro (1139), lo menbro si disenfia, e la volontà gli passa; altressì come uno otre, che è disenfiato del vento. E quando lo corpo si travaglia, quella enfiatura non si puote ronpere (1140). E quando gli occhi non guardano, lo cuore no' si diletta. E perciò l'uomo non dee nimica follemente riguardare, nè follemente pensare, nè troppo riposo dare al suo corpo. E quelli che in questa maniera lo farà, a pena lo suo menbro si distenderà.
(1137) ce dresse C. F. R.
(1138) Il C. R. 2. ha di più: ed egli riceve quello anunziamento con grande favore e dolzore, e allora si mette ec.
(1139) Intendasi: torna indietro, cessa.
(1140) coronpere C. R. 2.
Lo re domanda: di quale alimento si potrebbe l'uomo meglio sofferire (1141)? Sidrac risponde:
Nè d'uno nè d'altro non si puote l'uomo troppo sofferire, che lo corpo àe troppo grande bisognio dell'uno e dell'altro. E se l'uomo volesse dire che fosse (1142) in mare in una nave, e avesse co' lui ciò che mestieri gli facesse, e egli dicesse che egli si potesse sofferire della terra, io dico che della terra sofferire non si potrebbe, chè se la terra non fosse, la nave non potrebbe essere istata (1143). E s'egli dicesse ch'egli si potesse sofferire del fuoco, come mangierebbe le vivande cruda? Già però non si potrebe egli sofferire del fuoco, che se lo calore non fosse, niuno frutto di terra non nascierebe. E s'egli dicesse ch'egli non volesse giamai bere acqua, se non vino puro, anche di tutto questo dell'acqua sofferire non si potrebe, chè se l'acqua non fosse, la terra non potrebe rendere suo frutto. S'egli dicesse che giamai vento non fiatasse, e ch'egli potesse vivere sanza vento, con tutto ciò mestieri ne averebe, che se il vento non fosse, la terra lo suo frutto rendere non potrebbe. E per ciò diciamo noi che altressì poco si potrebbe sofferire dell'uno come dell'altro.
(1141) di quale alimento si potrà l'omo meglio passare, non avendolo? C. R. 2. — Intendi alimento per elemento, come gli antichi spesso scrivevano.
(1142) se il fust C. F. R.
(1143) istata fatta C. R. 2.
Lo re domanda: la pioggia quand'ella viene, perchè muove prima lo vento (1144)? Sidrac risponde:
La pioggia viene inanzi lo vento in guisa (1145) di coverta, e non lo lascia passare. In quello che la piova dura, l'acque che intorneano lo mondo lievano lo vento inmantanente; e medesimamente per lo torno delle pianete al movimento del fermamento. E se lo vento viene da alto, egli passa la pioggia, e va oltre da lei; e se egli viene da basso egli no' la può passare, ch'egli la truova molto ispessa inanzi, e gli toglie la via.
(1144) chant il fait vent et la pluie vient por quoy la vent muert? C. F. R.
(1145) Nel C. L.: guida; errore manifesto che abb. corr. cogli altri codd.
Lo re domanda: perchè gli uccelli femine non ànno natura come l'altre bestie? Sidrac risponde:
Se gli uccelli femine avessono natura come l'altre bestie, volare non potrebono, che i loro corpi s'empierebono dell'aria per la loro natura, e peserebbono sie che volare non potrebono. Idio per la sua pietà gli fece tali, come si convenia.
Lo re domanda: quale è più forte o 'l vento o l'acqua? Sidrac risponde:
Lo fondamento d'una torre è più forte che non è la cima; e similmente avviene dell'acqua; che se l'acqua non fosse, vento non sarebe. Bene potrebe avere fatto Idio, s'egli avesse voluto, vento senza acqua; ma egli non volle fare d'altra maniera se non tale come egli à fatto: che tutti i venti del mondo si muovono del corso dell'acqua. E per questa ragione l'acqua è più forte che lo vento.
Lo re domanda: perchè pena a nasciere l'uno fanciullo più che l'altro? Sidrac risponde:
Niuna criatura può nasciere inanzi lo suo tornamento (1146) un solo punto, in niuna maniera di mondo; e tutto questo è per lo punto dello generamento: che alcuno punto è che se la criatura è generata in lui, si nascie in un altro punto, tosto o tardi, che più inanzi o più adrieto non può nasciere che al suo punto. E quando la femmina si travaglia del suo partorire, non è ancora venuto lo punto della natività della criatura; e sì tosto come lo punto viene, la criatura nascie.
(1146) avant son terme C. F. R.
Lo re domanda: perchè si travaglia la gente della morte più l'una che l'altra? Sidrac risponde:
Per due cose l'una persona pena più che l'altra: l'una per lo punto, l'altra per alcuno merito avere nell'altro secolo. Chè Idio àe istabilito tre maniere di pene, l'una è dello ingieneramento, l'altra del nascimento, la terza della morte. La prima che è dello ingeneramento si anuzia. Lo secondo punto risponde al primo della natura delle cose corporali, presenti e avenire. Lo terzo risponde al secondo della morte. Allora inmantenente muore, che in altro punto non può toccare più, per tutto l'avere del mondo. E forse per lo travaglio ch'egli fa, Idio gli consentirà alcuno allegramento all'anima nell'altro secolo, che Idio per la sua pietà consentì esser nato in questo punto. E non credete ch'egli possa morire sanza punto, e vivere non può più di quello punto, per tutto l'oro del mondo, se a Dio non piacesse.
Lo re domanda: chi sente lo dolore della morte o l'anima o il corpo? Sidrac risponde:
Quattro cose sono al partimento dell'anima dal corpo: (1147) paura, tristizia, pena e dolore. L'anima à la paura e la trestizia, e lo corpo àe la pena e lo dolore. La paura dell'anima è sì grande, che niuno cuore d'uomo non lo potrebe pensare in questo secolo. La tristizia è più grandissima che niuno cuore d'uomo non potrebe pensare. Magiore trestizia e' li è che se una femina vedesse innanzi lei uccidere lo suo figliuolo. La pena del corpo è sì grandissima, come potesse essere unque pensato in niuna guisa. Che se uno uomo fosse battuto tanto d'uno martello in sulla ischiena, nè morire non potesse, e fosse tanto battuto ch'egli fosse sottile ch'egli potesse entrare per uno anello d'uno piccolo dito, egli non avrebe mica la decima parte di pena che il corpo sostiene, quand'egli si parte dall'anima, conciosia cosa ch'egli passi inmantenente, sanza niuno senbiante fare (1148). Lo dolore del corpo è sì grandissimo, come più potesse essere pensato, però ch'egli torna a infracitura (1149) e a nulla. Che se uno uomo fosse signore di tutto il mondo, e tutte le genti gli portassero reverenza, e le bestie tutte fossero al suo comandamento, e egli diventasse sì povero e sì al nulla (1150) ch'egli non avesse a mangiare uno solo giorno (1151), egli non avrebe mica la diecima parte del dolore che à lo corpo, quando egli si parte dall'anima.
(1147) a partire l'anima dal corpo C. R. 2.
(1148) Intenderei, senza mostrare nel volto quella pena ch'ei sente.
(1149) in fracidura C. R. 2.
(1150) da nulla C. R. 2.
(1151) ch'egli non avesse nulla da mangiare nè da bere uno solo giorno C. R. 2.
Lo re domanda: perchè gli piccoli fanciulli non sono intendevoli quand'elli nascono e sono noiosi al nodrire? Sidrac risponde:
Per due cose è che gli fanciulli non sono intendevoli e sono noiosi al nodrire. La prima si è per lo peccato che Adamo fece verso lo suo criatore, si sono ingonbrati quelli che di lui nascieranno, e sono meno intendevoli che bestia, per la sua grande ghiottornia, ch'egli desiderò quello che Idio gli avea difeso (1152). Se Adamo non avesse peccato, tutti quelli che sono nati e nascieranno sarebono così istati intendenti, piccoli come grandi. L'altra ragione perch'egli (1153) sono noiosi a nodrire, si è ch'egli sono di padre e di madre, e per lo diletto che Eva ebbe ch'Adamo lo suo conpagnone mangiasse lo pome che Iddio gli aveva difeso, ch'ella credette che fosse (1154) simigliante a l'altissimo (1155). E per quello diletto sono noiosi a nutricare i fanciulli, perciò ch'ella (1156) avesse pena a nutricargli. E anche sono in tenebre per lo diletto ch'ebono di mangiare lo pome che Idio avea loro vietato; e però ell'averà pene a partorire, e a notricare lo suo frutto.
(1152) vietato C. R. 2.
(1153) Manca al C. L.: l'altra ragione perch'egli — Abb. suppl. col C. R. 2.
(1154) ch'il seroit C. F. R.
(1155) a Dio altissimo C. R. 2.
(1156) perch'ella C. R. 2.
Lo re domanda: come dee l'uomo vivere in questo mondo? Sidrac risponde:
L'uomo dee vivere in una maniera, e in un'altra morire, e in un'altra àe a risucitare. L'uomo dee vivere lealmente e di suo travaglio e di suo leale guadagno, e avere pace, e amore a Dio e a tutte le genti, e Idio primieramente laudare e innorare, e fugire la cupidizia (1157) di questo secolo. Uomini che questo fanno, vivono innoratamente. L'altra si è che l'uomo dee morire pietosamente; cioè quelli che credono in Dio e che lo conoscono e adorallo e lodano e ànno pazienzia e astinenzia e sofferenzia, quelli che per Dio morranno, quellino faranno preciosa morte, e quellino risusciteranno gloriosamente, quando a Dio piacerà.
(1157) concupiscenza C. R. 2.
Lo re domanda: come si dee l'uomo comportare collo suo nimico? Sidrac risponde:
Se lo tuo nimico è forte o frale, tu non ti dei mica ispaventare nè troppo asicurare, che tale è oggi vinto, che domane vincerà. Chi non dotta non sarà ridottato, e lo troppo dottare fa troppo avilire, e la troppa fretta fa troppo dannaggio. E chi la paura porta tuttavia co' lui, egli porta grande pena e grande fascio sopra lui. Quelli che porta la sicurtà sopra lui, si porta lo suo danno e la morte sopra lui. E però quando è tenpo e stagione da dottare, si dotti; e però quando è tenpo e stagione di sicurare, si s'asicuri.
Lo re domanda: dee l'uomo giucare col suo amico (1158)? Sidrac risponde:
Guardati di non giucare col tuo amico nè con altrui colle mani, nè beffare; chè de' giuochi delle mani ingienera micidio e grande cruccio, conciosia cosa che (1159) sia tuo amico o tuo fratello; o tu lo magagni, o li tocchi di mani (1160), o lo metta a terra, o lo fiere d'altro modo, elli gli sarà grande vergogna (1161), conciosia ch'egli sia piccolo o frale; che ciascuno si tiene in sè forte e ardito e fiero, e pochi sono quelli che dispregino sè medesimo, se non fosse già vile o codardo (1162). Se tu lo beffi, tu gli fai gran male al cuore, che crede in sè medesimo che le beffe che tu gli fai, il facci per ispregiarlo; che di beffe viene cruccio e odio (1163), conciosia cosa che sia tuo fratello o tuo amico. Ma tu dei giucare (1164) colla gente con belle parole; e a ragione e a utilità di te mostrare e traggere (1165); e di cotale giuoco viene cortesia e allegrezza.
(1158) Meglio nel C. R. 2.: de' l'omo essere vago di scherzare colle mani?
(1159) benchè C. R. 2.
(1160) o li torci le mani C. R. 2.
(1161) egli lo avrà a grande noia C. R. 2.
(1162) benchè sia codardo C. R. 2.
(1163) Nel C. L.: che beffe a cruccio e odio. — Abb. corr. col C. R. 2.
(1164) usare C. R. 2.
(1165) Nel C. F. R.: Mais tu dois iuer o la gent de belles paroles, et di e raisons, et de biaus proverbes dire et retraire.
Lo re domanda: se l'uomo dee dottare del suo nimico. Sidrac risponde:
Tu ti dei tenere vigorosamente e fieramente contra lo tuo nimico, conciosia cosa che tu lo dotti, e sia codardo (1166). Se tu lo fai, lo tu nimico ti pregerà, e ti dotterà, e non ti oserà asalire; che s'egli lo pensasse fare, egli crederebe essere vinto da te. E se tu ti cansi da lui, e non ài fierezza contra lui, tu se' vinto, che egli ti dispregierà, e non ti dotterà, che in cotale maniera che tu ti sconterrai co' lui, in cotale sarai tenuto. Se tu se' prode uomo e valente, tienti lo tuo onore, e tu sarai più pregiato e più onorato; e se tu se' vile e codardo, tienti a onore, e cortese (1167) vieni tra la gente, e in questo crederanno che tu sii prode e valente. E se la tua codardia si scuopre una volta, tuttavia sarai ontoso e vile tenuto in fra la gente. E se alcuno ti riscalda d'arme, e tu non v'abbi ardire nè cuore inverso lui, confortati e piglia asenpro dal leone (1168), e torna a lui, e così lo potrai viliare e te inalzare. Lo cane, quando fugge, altri cani lo cacciano; e egli piglia vigore e torna indietro loro (1169); inmantenente si tragono gli altri indietro, e non osano conbattere co' lui, chè lo volto dotta lo volto (1170).
(1166) e che tu sia codardo C. R. 2.
(1167) cortesemente C. R. 2.
(1168) de chien C. F. R.: e che non leone ma cane abbia da leggersi è chiaro da ciò che segue. — Il C. R. 2. ha pure: leone.
(1169) verso loro C. R. 2.
(1170) la chiere ne doute mie le dos, mais la chiere doute bien la chiere C. F. R.
Lo re domanda: qual vale più o lo ricco o lo povero nell'altro secolo? Sidrac risponde:
Ispiritualmente quelli che amano Iddio più vagliono. Corporalmente i ricchi più che li poveri, che altrettanto quanto tu averai, tanto varrai. Lo verace profeta, lo figliuolo di Dio, quando egli verrà in terra, e' dirà colla sua santa bocca: tanto quanto tu avrai tanto varrai; ma egli nollo dirà mica per gli corpi, anzi lo dirà per l'anima; che tanto quanto l'anima avrà fatto in questo secolo, tanto averà nell'altro. Similemente aviene del corpo, che altrettanto quanto egli à di podere in questo secolo, altrettanto vale egli in questo mondo.
Lo re domanda: quali sono più ad agio o li poveri o li ricchi in questo secolo? Sidrac risponde:
Li ricchi sono più ad agio che i poveri; ma i poveri sono più al sicuro. Lo ricco à ciò che egli è mestieri, e può fare lo suo agio; ma egli è inpeso di paura del suo reame perdere (1171), e della sua ricchezza, e non puote andare ove vuole, se non à grande conpagnia con seco. Lo povero vae e viene sicuramente, e non dotta nulla per lo suo (1172); e quando egli àe lo ventre pieno (1173), egli è ad agio, altresì come lo ricco è ad agio de' grandi mangiari ch'egli mangia.
(1171) mais il est plus souent en paour et en dote d'estre enpoisone ou abeure por son royaume perdre C. F. R. — È da credere che l'inpeso del n. t. e del C. R. 2. sia derivato da non avere inteso l'enpoisone del testo francese.
(1172) Così anche nel C. R. 2., e pare da intendere per le cose sue. — Nel C. F. R.: ne doute nului ne le beurage ne l'entoschement, por convetise de lui ne por le sien.
(1173) de pain et d'aigue C. F. R.; aggiunta che chiarisce meglio ciò che segue.
Lo re domanda: quali sono le più ricche genti del mondo? Sidrac risponde:
Le più ricche genti del mondo spiritualmente sono coloro di cui Iddio s'apaga più di loro, per le buone opere. Corporalmente a questo tenpo sono gl'indiani. Ma egli nascieranno una gloriosa gente (1174), che prima si convertiranno al verace profeta, e quella sarà la più ricca gente del mondo; ma per la loro malvagità e per gli loro agi, perderanno tutto, e diventeranno dispregiati in fra le genti; ch'egli crederanno essere migliori che l'altre genti, ma egli non saranno. Ma dopo loro la ricchezza del mondo sarà d'altre genti franche, gli quali saranno più onorati a Dio (1175), che niuna altra gente del mondo.
(1174) une gente grezoise C. F. R. — Anche il C. R. 2.: ha: groliosa. — Che il traduttore non intendesse la parola grezoise?
(1175) plus humelians a Dieu C. F. R.
Lo re domanda: quali sono li più onorati uomini del mondo? Sidrac risponde:
Le più onorate genti di questo mondo sono a questi tenpi i persiani. Ma tenpo verrà che quelli del ponente saranno la più innorata gente del mondo, e gli più savi e gli più valenti e gli più pregiati, e la migliore gente a Dio e al mondo; e saranno credenti fortemente alla fede del figliuolo di Dio. E sarà tenpo ch'egli giustizieranno (1176) le tre parti del mondo; e gli loro onori andranno per tutto il mondo, e la loro signoria tuttavia rinforzerà. Ispesso sarà tra loro guerra, e quando Idio vorrà distrugere l'altre nazioni, quelle genti andranno ne' loro paesi.
(1176) Forse per rendere giustizia, e quindi signoreggiare. Non si hanno esempi di giustiziare in questo significato.
Lo re domanda: quando tu se' in uno luogo deilo tu lasciare per migliore cercare? Sidrac risponde:
Quando tu se' in buono luogo, tu ài lo tuo vivere, tielloti in pacie, e non ti intramettere in cupidizia di migliore avere. Ma quando Idio il ti (1177) manderae, si lo piglia, e statti in pace; chè chi troppo cupita (1178) tutto perde, e tanto gratta capra che male giace (1179), e tal crede trovare il pane fatto, che non truova il grano nel canpo. E per ciò è buono, quando l'uomo è in buono luogo, che non si parta per altro cercare, che tosto potrà perdere l'uno pell'altro.
(1177) tel C. R. 2.
(1178) cupidità àe C. R. 2. — Forse da cupere, invece di cupe, fecesi cupita.
(1179) et tant grate chieure che mal gist C. F. R.
Lo re domanda: dee l'uomo credere ciò che le genti lo consigliano? Sidrac risponde:
Certo tu farai come senplice, se tu crederai tutti i consigli che l'uomo ti dà. Tu dei udire lo consiglio della gente, e intendere uno e altro; e quello che non ti parrà buono e leale, lasciarlo e fugirlo. E se tu se' savio, non dei però dispregiare nè biasimare lo consiglio dell'altra gente, ma lodare e innorare, che allora sarà (1180) egli tenuto per savio e per provedente.
(1180) sarai C. R. 2.
Lo re domanda: de' l'uomo amare i malidicenti? Sidrac risponde:
Certo chi maldicente ama, egli ama la conpagnia del diavolo, che maldicente vale tanto a dire come male aoperante e mal cercante; e cotale uomo non dei amare, ma odiare e fugire da lui: chè maldicente mette discordia tra' fratelli e gli amici, e fa generare micidio e perdizione di corpo e d'anima. E maldicente si è servente del diavolo, e si è altresì figliuolo del diavolo. E cotali genti deino fugire (1181), e odiare sopra tutte le cose, e non crederli di cosa ch'egli dicano, perch'egli non dicono se non male, come quelli che sono dati al diavolo. E tanto com'egli viveranno, non faranno altro che male, e disamore e discordanzia mettere infra la gente; e perciò l'uomo gli dee odiare sopra tutte le cose.
(1181) de' l'omo fugire C. R. 2.
Lo re domanda: se si dee l'uomo crucciare se altri gli mostra mala cera? Sidrac risponde:
Non certo, che se il tuo amico o il tuo fratello ti mostra malo senbiante alcuna volta, tu per ciò non ti dei crucciare, chè per aventura egli àe alcuno cruccio in sè, per ch'egli a voi nè altrui non può mostrare bello senbiante (1182).
(1182) Il C. R. 2. ha di più ciò che segue: E per ciò tu lo dei comportare, e pensare in te medesimo che, se tu fossi corucciato, non potresti fare bel senbiante nè a lui nè altrui. E se tu ài parole a piato con altrui, ed egli ti mostra malo sembiante, non ti dei per ciò corucciare, che per aventura egli è poco saputo, e poco senno regna in lui, che ciò li fa fare; chè tuttavia lo poco saputo mostra più di coruccio; che lo savio, bench'egli sia corucciato, egli mostra tutto lo più bello di fuori, e ciò adiviene per lo suo grande senno. E però de' l'uomo più temere lo coruccio del savio che del folle. E lo savio si sa meglio vendicare del suo nimico che lo folle.
Lo re domanda: può l'uomo dimenticare lo suo paese? Sidrac risponde:
L'uomo puote bene dimenticare lo suo paese, ove egli è stato povero e mendico, e poi tu vieni in altro paese ove tu truovi bene. Ben dei dunque dimenticare lo tuo paese, ove se' stato povero e mendico. E se tu fossi nel più bello luogo del mondo, e tu avessi parenti e amici assai, che tu làe non potessi istare per la tua povertà, e tu andassi in altra parte, là ove tu trovassi la tua vita, là è lo tuo paese. E quello paese dei tu amare, ove tu ài lo tuo vivere, e non là ove tu se' nato, che non avevi di che vivere. Che chi vuole porre mente al mondo, si troverrà che tutta la gente che furono e saranno sono istrani in questo secolo, che niuno à paese per sè, se non solamente albergo. La durata di questo secolo, se ella fosse cento milia anni e più, non sarebe albergheria una ora, alla lunghezza dell'altro secolo. Cento milia anni sono in questo secolo, a comparazione dell'altro, siccome uno uomo albergasse una ora in una strana albergheria. Per ciò siamo noi tutti istrani in questo secolo.
Lo re domanda: quale è meglio o forza o ingiegnio? Sidrac risponde:
Forza è buona all'anima e alcuna volta al corpo, ma ingegno vale meglio al corpo. Quando tu ài alcuna cosa a fare per la tua forza, se tu la fai con alcuno ingegnio, tu la farai in tutte le cose del mondo. Ingegno vale meglio che forza al corpo. All'anima vale meglio forza che ingegnio.
Lo re domanda: se alcuno domanda ragione dègli l'uomo inmantanente rispondere? Sidrac risponde:
Se alcuno domanda ragione l'uno all'altro, e egli è savio e proveduto, ch'egli sapia rispondere a diritto e a ragione di ciò ch'egli lo domanda, egli dee rispondere a diritto e a ragione di ciò ch'egli lo domanda, egli dee rispondere inmantenente; e se ciò averà, egli vincerà lo piato e sarà tenuto per savio. E se ciò non sa fare, può pensarsi dinanzi quello ch'egli dee rispondere; e se così tosto non può pensare, egli dee pigliare termine. E poi vada alle scritture, e legga i libri, e riceva nel suo cuore ciò ch'egli vi troverà; e poi conbatta tutto giorno con quelli che lo contastano, e faccia sì che gli vinca e gli metta di sotto. E allora sarai tutto savio e filosafo, e porterai lodo sopra l'altra gente. Quelli che rispondono di ciò che l'uomo loro domanda, quelli sono chiamati filosafi, e gli filosafi sono i ministri del mondo corporalmente; che altra gente possono insegnare e inprendere.
Lo re domanda: come dee l'uomo domandare quando vuole sapere alcuna cosa (1183)? Sidrac risponde:
L'uomo dee domandare ciò che dee (1184), cortesemente e di buona aria, una o due o dieci (1185); e s'egli nol puote avere, egli lo dee mostrare cortesemente, là ove egli crede avere ragione. E se tu dei dare alla gente alcuna cosa, pagagli cortesemente, perch'egli un'altra volta ti possano aiutare in tuoi bisogni; chè quelli che cortesemente pigliano e rendono, quelli ànno parte nell'altrui avere; e quelli che pigliano e malvolentieri rendono, quelli non avranno forza nè aiuto ne' loro bisogni.
(1183) Meglio nel C. R. 2.: in che modo de' l'omo domandare ragione?
(1184) ce che l'om li doit C. F. R.
(1185) una volta o due o tre o dieci C. R. 2.
Lo re domanda: perchè sono più savia gente quegli del ponente che quelli del levante? Sidrac risponde:
Quegli del ponente non ànno tanto del calore del sole come ànno quelli del levante. Quando lo sole si leva a levante egli è molto caldo e secco, e allora iscalda tutto lo levante, e quelli che vi sono. E quando egli è alto, egli non è tanto caldo in tali luoghi. E quando egli è a mezzo giorno, egli è caldo comunalmente per tutto lo mondo. Quando egli s'abassa per la notte aprossimare (1186), si piglia lo suo torno al ponente, e allora non è tanto caldo. Dunque non ànno quelli dal ponente tanto caldo, quando lo sole iscende, come n'à quelli del levante, quando egli si leva. Per questa ragione sono più savi quelli del ponente che quelli del levante, chè lo loro cervello non à tanto del calore come quelli del levante. E di questo vi potete voi avedere legiermente: chè chi fosse in uno luogo, che lo sole lo potesse iscaldare oltra a misura, in poco (1187) potrebe diventare folle e perdere il senno. E anche ci à altra ragione, che quelli del ponente possono mangiare calde vivande, tutte le stagioni dell'anno, che giamai male non faranno. Se quelli del levante le mangiassono, elle farebono loro grande male: che ciò è per la calda compressione della terra ove egli sono. Quelli del ponente le possono mangiare per la fredda compressione della terra dove sono.
(1186) Intendasi, per l'approssimarsi della notte. — Per la nuit aprochier C. F. R.
(1187) in poco di tempo C. R. 2.
Lo re domanda: quale è più bello alla femina o lo bello corpo o la bella persona o lo bello volto? Sidrac risponde:
Uomo o femina che sieno conpiuti di loro menbri e sono interi, la bella cera istà loro meglio che il bello corpo; che se lo corpo è bianco o bruno, egli è coperto di vestimenti, e lo volto è scoperto tuttavia; e lo diletto non è se non nel volto. L'uomo non dee riguardare se non nel volto; e chi inanzi si mette a riguardare, egli pecca fortemente. E perciò diciamo noi che lo bello volto è più piacevole al corpo sano e conpiuto, che non è lo bello cuore saggio (1188).
(1188) Et por ce dions nos che la belle chiere est plus seant a la persone entiere et conplie che la belle charogne C. F. R.
Lo re domanda se le pianete sono tutte in un luogo o sono tutte d'una maniera e natura o sono di più nature? Sidrac risponde (1189):
Ciascuna è per sè in ciascuno luogo, ed àe suo esaltamento e suo abbassamento. Mercurio dimora in ciascuno segno giorni XXIIII e più. Sua natura si è calda e umida, e si ama tutte le cose amare; si è di tutte sapienzie e di tutte arti e sottiglieze; ciò è a dire, quando egli è posto in buona inmagine; lo suo buono amico è Iupiter e Venus e Saturno. Lo suo asaltamento è a Virgo, e per la forza dell'esaltamento si è a tre gradi di Virgo. Lo suo abbassamento si è a Pisces; la forza dell'abassamento si è a tre gradi del Pesce. Luna si dimora in ciascuno segno due giorni e mezzo; e si è posta al sottano cielo (1190). Sua natura si è fredda e umida, e lo giorno di sua conbustione si è per fare tutte cose a la sua quintadecima. Altressì si ama colori d'argento o d'acque. Suo asaltamento si è a Tauro, e la forza dello abassamento è a Scorpio, a tre gradi di Scorpio. Saturno dimora in ciascuno segno due anni e mezzo, e si è posto nel settimo cielo. Sua natura si è fredda e secca, e si ama tutte cose amare e lo ferro e tutti i colori neri. Egli à grande nimistà con Mars, e' suoi amici sono Iuppiter, Sole, Luna. Lo suo asaltamento è Libra; e la forza dell'asaltamento si è a XXIIII gradi. Lo suo abassamento è in Aries; e la forza del suo abassamento si è a XXIIII gradi d'Aries. Iuppiter dimora in ciascuno segno uno anno, e si è posto al decimo cielo. Sua natura si è calda e umida; egli ama tutte cose umide, siccome burro, latte e mele e cera; e si s'ama con tutte l'altre pianete; se non se con Mars. Lo suo abassamento si è Cancer; e la forza dell'asaltamento si è a gradi XXIIII di Cancer; e l'abassamento si è in Capricornio. Mars dimora in ciascuno segno giorni XXX e più, insino al XLV; e si è posto al quinto cielo; e si è vago di sangue e di battaglie e di ruine, di tutti colori vermigli, e di tutte cose agre e forte alla bocca dell'uomo; e si è ria pianeta. La sua natura è calda. Ella s'ama con Venus, e con tutte l'altre pianete; si vuole grande male. Lo suo grande nimico si è Iuppiter. E ella ama città e reame e vino. E lo suo asaltamento si è a Capicornio. La forza del suo asaltamento è a gradi XXVIII di Cancer. Sol dimora in ciascuno segno giorni XXX; e è posta al quarto cielo. Sua natura è calda e secca, e è vago di tutte signorie, e di colori gialli e vermigli; ella ama tutti. Soli suoi nimici sono Mercurio e Luna. L'asaltamento è in Aries, a gradi XVIIII; l'abassamento in Libra, a gradi XVIIII. Venus dimora in ciascuno segno giorni XXX, e più e meno; e si è posto al terzo cielo. Sua natura si è friggida e umida; egli ama tutte cose umide, burro, latte e mele; egli è vago di signorie, di femine, e di sollazzi e di diletti; e si è buona pianeta; e si non à niuno nimico. Il suo asaltamento si è a gradi XVIII di Piscies. L'abassamento si è a gradi XVIII di Virgo. Testa di Dragone dimora in ciascuno segno uno anno e mezzo; ma ella non è nimica pianeta, e non va siccome pianeta; ma ella va siccome casa; o fae scurare lo Sole e la Luna, quando ella passa per la sua casa. Lo suo asaltamento si è Virgo, a uno grado. La coda di Dragone vae per quella medesima ragione, e è malvagia per tutte cose, e fa iscurare lo sole e la luna.
(1189) Questo cap. manca al C. F. R.
(1190) al cielo di sotto C. R. 2.
Lo re domanda: se uno uomo trovasse un altro sopra la moglie (1191)? Sidrac risponde:
Se uno uomo trovasse un altro uomo che vituperasse la moglie, se elli si cruccia egli non è da biasimare; ma tuttavia egli si dee passare cortesemente e di buona aria. Le dee gastigare umilemente e amaestrare cortesemente, e lasci andare l'uomo, chè tutto il carico e il biasimo non è se non della femmina; chè niuno uomo del mondo potrebbe sforzare femina, se egli nolla volesse uccidere. E mai questo fatto nol dei mettere dinanzi, nè rimproverargli più, perchè le farebe peggio. E tu dei tôrre lo cruccio e la gelosia del cuore. E se tue pensi più in questo fatto, tu penserai follia. Che se ài trovato mogliata con uno uomo, tu non se' solo al mondo; e per questa follia che mogliata à fatta, tu non sarai però morto, e per ciò la terra non perde il suo frutto a rendere, nè l'acque non sono però secche, nè le genti nè l'altre criature del mondo non sono però morte, e già per ciò lo nostro Signore non distruggerà lo mondo. E per ciò si dee passare leggiermente, non si dee mettere in pensieri nè in tribulazioni, per uno cane che s'acosta a una cagnia; chè tutti gli uomini che colle moglie altrui giacciono, eglino sono cani, e peggio che cani; e tutte le femine che si danno altrui che al suo marito, elle sono simili alla cagnia e peggio; e per ciò per uno cane e per una cagnia tu non dei fare cosa per la quale tu sii distrutto e morto, e poi lo pentere no' gli vale nulla. Ma egli si dee passare brievemente e celatamente e di buona aria; e tu farai lo tuo profitto e lo tuo onore all'anima e al corpo, e farai piacere all'anima e al corpo (1192), e piacere a Dio, e duolo al diavolo.
(1191) Se l'omo trovasse uno altro uomo adosso alla moglie che de' fare? C. R. 2.
(1192) e farai lo tuo bene e lo tuo onore, e prode all'anima e al corpo C. R. 2.
Lo re domanda: de' l'uomo pensare per la gente (1193)? Sidrac risponde:
Spiritualmente l'uomo dee pensare al fatto della gente; ma corporalmente tu non dei pensare se non di te e de' tuoi. Che ài tu a fare degli altri strani? Tu non dei mica pensare di quelli che niuno pensiero ànno di te, se tu ài bene o male o santà o malizia; niuna menzione fanno di te, come quella (1194) cosa che non fue; anche lo simile dei tu fare di loro. Bene sarebbe tenuto stolto quelli che pensasse de' pesci del mare che non fossero presi nè mangiati; altressì è stolto quelli che pensa ne' fatti della gente; chè di quelli che non pensano di loro, egli non deono pensare di loro.
(1193) Correggasi col C. R. 2.: de' l'omo pensare de' fatti de le gienti e de la terra? — E meglio nel C. F. R.: porter pencer.
(1194) di quella C. R. 2.
Lo re domanda: de' l'uomo biasimare Dio per perdita o per dannaggio ch'egli abbia? Sidrac risponde:
Iddio per la sua bontà non può essere biasimato, nè niuno biasimo non può giugnere a lui; ma lodo e ringrazia e onore. Se tu se' folle, e tu ti crucci per la tua follia, di che dei tu biasimare Dio? Se tu ài dannaggio per la tua negligenzia, però non dei tu biasimare Dio; biasima te medesimo e la tua negligenzia. E se tu non puoi guadagnare per la tua fraleza, tu non dei però biasimare Dio, ma te, per la tua fraleza. Biasimati, penati a travagliare (1195), e Idio t'aiuterà o consiglierà. E se tu non puoi per lo tuo travaglio guadagnare lo tuo vivere, e tu non vuogli per la tua fraleza, che colpa te n'à Iddio, che tu dimandi a Dio che egli ti mandi lo tuo vivere? Sappi che non te ne manderà punto, se tu non ti travagli; ma se tu t'aiuti con una mano, egli t'aiuterà con due. Se uno uomo fosse in una aqua, e fosse in pericolo d'annegare, e egli sapesse notare; e per la sua cattività non si volesse aiutare per diliberarsi di morte, se non che dicesse (1196): siri Iddio, aiutami; sapiate che Idio nollo aiuterebe nimica, se egli non si aiutasse; ma s'egli menasse i piedi e le mani, Idio l'aiuterebbe bene iscanpare di quello pericolo.
(1195) di travagliare C. R. 2.
(1196) e non faciesse altro se non ch'egli diciesse C. R. 2.
Lo re domanda: di che può l'uomo avere più lodo di dare al ricco uomo o al povero? Sidrac risponde:
L'uomo puote avere magiore onore del ricco che del povero; chè lo ricco può fare magiore onore del suo e del suo corpo, che non può fare il povero; ma del povero può avere magiore grado che dello ricco. Al povero uomo non può dare l'uomo sì piccola cosa, ch'egli non abia di lui gran gioia; e terrallo a grande onore, e riconterà all'altra gente la cosa che l'uomo gli avrà donata. In tutt'i luoghi ch'egli sarà, vorrà ricontare lo dono che uno prode uomo gli avrà fatto, per farsi onore di quello dono, e per mostrare alla gente che quello prod'uomo l'ama, e gli donò del suo. E se il dono è per Dio, egli à lodo da Dio. E se tu donassi uno dono a uno ricco uomo, già per quello dono non ti vorrà lodare, nè metterti inanzi; chè per aventura egli àe altrettanto onore chente tu; e non vorrà mica portare lo tuo onore sopra lui. Onde l'uomo de' avere magiore lodo di dare lo dono al povero che allo ricco, e da Dio e dalle genti.
Lo re domanda: dee l'uomo servire a tutte genti? Sidrac risponde:
L'uomo dee servire a tutte genti, e non dee guardare a cui, povero o ricco. Se tu servi minore di te, tu lo fai per Dio e per tuo pro', e per onore di lui avere. Chi serve alla gente per onore o per pro' avere o per merito, non si dee mica anoiare, nè stare in gran dire; chè a tale giorno potrà venire, che quelli ch'egli averà servito lo guidardonerà, n'avrà per uno dieci. E però non si dee tenere niuno prode uomo del servire, chè tenpo verrà del guidardone.
Lo re domanda: quale è la più saporita cosa che sia? Sidrac risponde:
La più saporita cosa che sia si è lo dormire; chè quando tu ài talento grande di dormire, mangiare nè bere, neuno altro diletto è nulla incontro lo diletto del dormire (1197); chè lo corpo non può vivere sanza il dormire, altressì come tutte criature vivono di vento; che se il vento non fosse, niuna criatura vivere non potrebe. Idio per la sua pietà vide che l'uomo, ch'è fatto di terra, volea avere riposo per frale natura in che egli è fatto; si stabilio giorno e notte, per lo riposo dell'uomo. E se non fosse per lo dormire, Idio che è tutto potente avrebe tutto fatto giorno (1198); ma per lo dormire fece egli il dì e la notte. E similmente si dilettano le bestie e gli uccelli al dormire, come le genti. Niuna bestia è, sì piccolo (1199) vermine, che non si diletti in dormire. Lo dormire è spirituale, simigliante all'udire (1200), che si sente e non si vede. Nè niuna persona nè niuna criatura movibile (1201) che l'aria sente, non potrebe vivere sanza il dormire.
(1197) tu lassi mangiare e bere e ogni altro diletto C. R. 2.
(1198) tuttavia fatto giorno C. R. 2.
(1199) nè sì piccol C. R.
(1200) Così ha pure il C. R. 2.; ma l'errore è corretto dal C. F. R. dove leggesi: le dormir si est espirituel, et ensemblant a l'air che il ce sent et ne se voit.
(1201) mobile C. R. .
Lo re domanda: gli re e gli signori deono essere leali e larghi? Sidrac risponde:
Li re e le signorie (1202) debono essere in prima leali di loro corpi, e di loro parole e di loro giudicamenti; apresso deono essere savi e proveduti e cortesi e di buona aria; apresso deono essere a' malvagi e a' rei e a' traditori duri e fieri, e dare a ciascuno secondo che serve, a diritto e a ragione. E se li signori sono leali di loro corpi e di loro parole, egli fanno piacere a Dio, e onore alla loro signoria; e s'egli sono savi e proveduti, egli deono essere (1203), perchè molte genti ànno a governare per lo loro senno. E s'egli sono cortesi e di buona aria e di grande bontà e di grande umilitade, a Dio fanno onore (1204). E se sono arditi e pro' e valenti di loro corpi, elli deono bene essere, perchè la gente piglino asenpro di loro. E s'egli sono larghi e donanti, egli debono bene essere, chè per doni e per larghezza manterranno egli la loro signoria. E s'egli sono di leale giudicamento e fieri e duri a' rei, a' ma' fattori, cotali deono egli essere, per mantenere giustizia e lealtade a' poveri e a' ricchi. E così faranno gli comandamenti che Iddio à comandati e comanderà in terra. E altrimenti i re e i signori non deono essere.
(1202) li signori C. R. 2.
(1203) come denno essere C. R. 2.
(1204) Nel C. L.: a Dio lo fanno. — Abb. corr. col C. R. 2., conforme al C. F. R.
Lo re domanda: gli re deono andare in battaglia? Sidrac risponde:
Li re e le signorie (1205) deono prima uscire della cittade e degli alberghi, perchè la loro gente esca apresso di loro; e quando egli sono venuti alla battaglia, egli deono tenere una buona parte della loro gente in loro conpagnia; e dee muovere al dirieto di tutte le battaglie, vigorosamente. E se la loro gente dinanzi è sconfitta, e egli vegano ch'egli non (1206) abiano forza e potere contra gli loro nimici, egli deono muovere a loro (1207) vigorosamente e coragiosamente. E s'egli vegono ch'egli sieno più frali di loro, egli si debono ricogliere bellamente e saviamente al (1208) loro onore; chè meglio vale un buono fugire che uno male stallo. E se i loro nimici gli seguitano troppo, e gravano, egli deono rivolgersi a loro vigorosamente e di grande coraggio, e difendere i loro corpi contro ai loro nimici, come prodi uomini. Nè niuno re nè niuno signore giammai non dee venire alla prima battaglia, ma pure alla deretana, perchè tutta l'oste prende il loro (1209). Se la battaglia del signore è sconfitta, tutte l'altre sono isconfitte, chè lo corpo del signore è per tutti gli altri. E se l'oste è perduta, e lo signore scanpa, egli ricoverrà in altra oste (1210), per aventura. E se lo signore è perduto, tutto è perduto.
(1205) li signori C. R. 2.
(1206) Manca non al C. L. — Abb. corr. col C. R. 2.
(1207) contra di loro C. R. 2.
(1208) col C. R. 2.
(1209) L'errore del C. L. è corretto nel C. R. 2., che ha: crede in loro. — Ed è al solito una parola del testo francese che il traduttore non ha saputo intendere: car tout l'ost pent en yaus C. F. R.
(1210) ricoverà per aventura un'altra oste C. R. 2.
Lo re domanda: lo sudore del corpo onde escie e onde viene? Sidrac risponde:
Lo sudore del corpo escie del malvagio sangue. Quando lo corpo si travaglia, e' si muove e si muta per lo corpo, e si rinfiamma e si mischia cogli altri omori; e gitta lo suo calore al corpo, e truova lo suo corpo frale e vano, e lo fae fortemente sudare. E quando lo corpo è forte e sano, e' non dotta quello calore, e non suda come dinanzi; chè lo buono sangue non fa al corpo se non bene.
Lo re domanda: qual colore è meglio vestire? Sidrac risponde:
Lo più nomato colore si è il vermiglio e lo bianco e lo verde e il biadetto. Lo vermiglio è reale e possente sopra tutti gli altri colori; e si dà a quello che lo veste grande impresa di coraggio (1211); e si è simigliante al sole. Lo bianco vestimento si è degno vestire, e si è vestimento d'agnoli; e fae avere a quelli che lo veste dolce coragio e amoroso; e si li fae bene allo cervello; e si è simigliante alla luna. E lo vestimento verde si è prezioso vestimento, che egli à colore della nostra vita, e di tutte l'altre criature, che Dio le veste al frutto della terra, di che noi viviamo, ch'è sì degna cosa, che sostiene lo corpo e fallo vivere. Bene dee essere vestitura di prezioso colore. Bene potrebe avere fatto Idio d'altro colore i frutti che verdi; ma a così preziosa cosa egli volle dare prezioso colore (1212). Lo vestimento biadetto si è vestimento del fermamento; e si è umile vestire; e fa diventare quelli che lo veste umile e di buona aria e di buona credenza. E gli altri colori non sono nomati principali come questi.
(1211) grant confort et grant proesse dou corage et grant honor au cors C. F. R.
(1212) Il C. F. R. ha questo di più: cil chi vert vestent si lor fait la verdour de lor vestiment devenir larges et iolif, et penser tous biens.
Lo re domanda: qual'è la più verde cosa che sia? Sidrac risponde:
La più verde cosa che sia si è l'acqua, che tutte le cose rinverdiscie; che se l'acqua non fosse, niuna verde cosa non sarebe. L'erbe che sono nella montagna, si rinverdiscie l'acqua che dell'aria disciende; ella abevera le loro cime.
Lo re domanda: qual'è la più grassa cosa che sia? Sidrac risponde:
La più grassa cosa che sia si è la terra, che a noi rende il frutto per la volontà di Dio e della sua grazia (1213). Che altressì come l'acqua è la più verde cosa che sia al mondo, altressì la più grassa cosa che sia al mondo è la terra.
(1213) Il C. F. R. ha: chi nos rende le fruit, par la volonte de Deu, de sa gracesse. — Il traduttore non ha inteso gracesse, ed ha scritto grazia.
Lo re domanda: quale vale meglio al punto della morte o lo grande pentimento o la grande sicurtade della vita perdurabile? Sidrac risponde:
Molto preziose cose sono quelle due propiamente al punto della morte; e la grande isperanza vale meglio che 'l grande pentimento (1214). Che se uno uomo avesse tutti i giorni della sua vita fatto bene; e egli non avesse la speranza d'avere la vita perdurabile, sapiate che sarebbe disperato, e non l'avrebbe mica, e sarebbe dannato. E se uno peccatore avesse giaciuto colla madre, e poi avesse isperanza, che la misericordia di Dio è sì grande che gli perdoneràe e gli daràe la vita perdurabile, e morisse in quella isperanza, sappiate ch'egli sarebbe salvo; chè la speranza escie del pentimento.
(1214) Nel C. L.: l'oro grande. — Abb. corr. col C. R. 2., conforme al C. F. R.
Lo re domanda: dee l'uomo piangere i morti? Sidrac risponde:
L'uomo dee piangere gli morti, e fare gioia e duolo per li buoni che in Dio credono e lo suo comandamento fanno. Quando egli muoiono, l'uomo ne dee avere grande gioia, e farne festa, perch'egli è sicuro della perdurabile vita. E quando i malvagi muoiono, che a Dio non credono e i suoi comandamenti non fanno, l'uomo dee avere grande duolo e grande trestizia della loro morte, ch'egli è dannato per tutti i tenpi.
Lo re domanda: venne mai niuno dell'altro secolo, che contasse di paradiso e di ninferno? Sidrac risponde:
Assai ne sono venuti dell'altro secolo, e verranno, e ànno contato di paradiso e di ninferno, ciò è a sapere per lo comandamento di Dio, e per le scritture de' buoni antichi, che furono dinanzi da noi, che a noi scrissero, e mostrarono ne' loro scritti, per la grazia che Idio avea loro dato, la gioia di paradiso e la pena di ninferno: e ciò sono a sapere Abel figliuolo d'Adamo e Seth e Noe e Melchisedech. Questi sono quelli che vennero dell'altro secolo; ciò è a sapere i comandamenti ch'egli scrissero per la volontà di Dio. E quelli che verranno dopo noi, saranno molti grandi profeti, che lo comandamento di Dio insegneranno. E benedetti sono quelli e seranno che lo comandamento, ch'è la vita perdurabile, giammai non falleranno (1215).
(1215) E benedetti sono quelli che saranno, e che il comandamento di Dio faranno, che la vita perdurabile giamai non falliranno C. R. 2.
Lo re domanda: che dee l'uomo dire quand'egli si leva o quand'egli si corica? Sidrac risponde:
Quando l'uomo si vuole porre a dormire, e l'uomo dee alzare le mani in alto, e riguardare verso lo cielo umilemente, e dire questa orazione: Signore Idio, lo tutto possente creatore del cielo e della terra, nelle tue mani raccomando lo spirito mio; abiate merciè di me, messere verace Idio; difendimi dal podere del diavolo. Poscia dormi. Altressì dei dire al mattino, quando ti levi; e lo volto dei tenere verso oriente, ch'è lo volto del mondo; e la grazia di Dio viene di là.
Lo re domanda: chi non avesse ma ch'una coglia potrebbe egli ingenerare, per l'una grande e l'altra piccola (1216)? Sidrac risponde:
Chi non avesse se non una coglia, bene potrebbe ingenerare, altressì bene come quelli che perde uno degli occhi, e si s'aiuta dell'altro. L'una coglia è grande e l'altra piccola: la grande coglia è lo maschio e la piccola è la femina. E tutte le creature che generano, ingenera lo maschio colla grande coglia, e la femmina colla piccola. Idio inanzi che stabilisse l'uomo, stabilìe tutte le cose che deono essere, e ciò che mestiero era a lui; e tutto fece a diritto e a ragione.
(1216) Nel C. R. 2.: perchè aviene che l'omo à più grosso l'uno coglione che l'altro? E chi no' n'avesse se non uno potrebe aquistare figliuoli?
Lo re domanda: gli garzoni di X anni o di meno, perchè non ingenerano, e le fanciulle simigliantemente perchè non impregnano? Sidrac risponde:
Li fanciulli di X anni o di meno non sono ancora compiuti in quello fatto, nè la schiatta non è ancora conpiuta nè matura in loro; chè quando egli sono di stagione, e' fanno quello che altre genti fanno. Egli sono altressì come uno albore, che è piccolo e vano, che frutto non può menare; e quando egli è di stagione, egli fa lo suo frutto. Lo primo frutto non è così grande come il secondo, nè tanto saporito. Altressì aviene della persona. Lo primo figliuolo (1217) che gli garzoni ànno, egli sono piccoli in tutte cose che la natura gli ordina (1218). E perciò che lo loro padre nè la loro madre non sono ancora conpiuti in senno nè in forza nè in grandezza, però diventa lo frutto loro medesimo simigliante di loro.
(1217) li primi figliuoli C. R. 2.
(1218) loro dona C. R. 2.
Lo re domanda: ànno gli diavoli pena nell'altro secolo? Sidrac risponde:
Li diavoli di quella otta che egli cadono di cielo ebono grande pena, che sì tosto come egli pensarono orgoglio verso lo loro criatore, la pena fu in loro e egli furono nella pena. E in quello punto cadono di cielo giù nello 'nferno, e gli altri sopra terra, e gli altri nell'aria, là ove sono in grande pena. E in qualunque luogo egli sono, egli vanno in grande fuoco ardente. E quando verrà lo giorno del giudicamento la loro pena si radopierà nell'abisso dello 'nferno, dove egli saranno per tutti i tempi, sanza fine.
Lo re domanda: quale è la più forte battaglia che sia? Sidrac risponde:
La più forte battaglia che sia si è la tentazione del nimico, e la più aspra e la più ardente; chè tutte le battaglie del mondo alcuna volta fallano e s'alungano di vista e di fatti; e la battaglia del nimico porta l'uomo tuttavia co' lui, andando e istando e dormendo e veghiando; e l'uomo nol puote vincere se non per noia (1219) e per travaglio, per buoni pensieri in Dio lo criatore, e per rimenbranza della morte e per sofferenza. E perciò diciamo noi che la battaglia del nimico è la più forte che sia, ch'ella è corporale e spirituale; e l'altre battaglie sono pure corporali.
(1219) Così anche il C. R. 2. — Nel C. F. R.: par ieiunes. — Pare che i digiuni sieno diventati noia nella mente del traduttore.
Lo re domanda: dee l'uomo dottare tutta gente? Sidrac risponde:
L'uomo dee dottare quelli che Dio non dottano (1220), sono di rio coragio e pieni di veleno e di male, e non ànno in loro niuna misericordia nè niuna piatà. Che s'egli avessono niuna misericordia e pietà in loro, eglino dotterebbono Dio; e perciò si deono dottare. Gli uomini (1221), che Dio non dottano sono in tutto dati al diavolo; e non cale loro quello ch'egli facciano, sia o bene o male, se non che i loro disideri sieno compiuti. E cotale gente dee l'uomo dottare. Ma quelli che Dio dottano sono pieni di misericordia. Là dove egli ànno volontà di coraggio di fare male, e la misericordia e la piatà che è in loro, loro non fascia fare male; e perciò non ànno podere di fare male. E quella gente de' l'uomo dottare (1222).
(1220) Il C. R. 2. ripete: chè quelli che Dio non dottano sono ec.
(1221) Manca gli uomini al C. L. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(1222) E quella giente non bisogna l'uomo dottare C. R. 2.
Lo re domanda: perchè lo ferro vae inverso la stella calamita? Sidrac risponde (1223):
Lo ferro si è della natura di quella stella, come il fuoco è della natura del sole. Se lo ferro fosse ispirituale come il fuoco, e che non si puote pigliare niente, egli ritornerebe a questa stella, altresì come il fuoco ritorna al sole, quando egli è spento. E s'egli avesse umidore in lui, quella stella lo berebbe, altressì come lo sole bee la rugiada. Niuna (1224) pietra ci à che sia della comparazione di quella stella. E quando lo ferro la sente, che è di quella medesima conparazione, si apiglia a lei. E quando quella pietra si parte dal ferro, la conparazione di quella medesima stella ch'e' nel ferro, conviene per diritta natura che il ferro ritorni a quella medesima stella, per lo toccamento di quella stella; che è di quella comparazione, altressì come lo sole, che tutto il fuoco del mondo ritorna a lui. Chi sottilmente vorrebbe toccare una cotale pietra, ella àe uno luogo in sè, che toccando lo ferro fa toccare un'altra stella (1225).
(1223) par quoi le fer vait envers la stelle chi a nom guierre (sic) ce est tremontane? C. F. R.
(1224) Ma una C. R. 2.; e così pure nel C. F. R.: mais il y a une pierte calamite, chi est ec.
(1225) A correggere questo periodo non possiamo punto giovarci del C. R. 2., più spropositato del laurenziano; e poco dal C. F. R., dove leggesi: et chi soutilment voroit sercher une tiel piere, si troveroit che elle a 1. leuc en elle chi fait le fer torner, et autre estoile.
Lo re domanda se tutti quelli che nascieranno morranno. Sidrac risponde:
Tutti morremo, in qualunque modo noi andremo o andiamo o vegniamo; e tardi quanto vuole, che della morte non puote canpare una sola ora (1226). Lo figliuolo di Dio, quando egli piglierà umana natura nella vergine, si gli converrà morire. E a nullo può questo fallire. Quelli che sono nati sono morti, e noi che nati siamo morremo, e quelli che nascieranno morranno. E di questo niuno scampare non puote, se egli desse uno altrettale secolo (1227) come questo.
(1226) et che che targent, ne peuent fuir la mort. C. F. R.
(1227) mondo C. R. 2.
Lo re domanda: come sono posti i fanciulli nel ventre delle loro madri? Sidrac risponde:
Per lo podere di Dio sono posti nel ventre delle madri inginocchiati, e le loro ginocchia inanzi, i loro pugni inanzi i loro occhi. E sono nel ventre con grande gioia e con grande letizia, sì ch'egli non vorebono mai uscire di quella gioia ov'egli sono, inperciò che non ànno sentito l'aria di questo mondo, e non credono ch'altra gioia sia al mondo se non il ventre delle loro madri. Ma quando per la forza di Dio nascono nel mondo, e sentono l'aria del secolo, eglino non vorrebono giammai ritornare nel ventre delle loro madri; chè per lo dolciore dell'aria del cielo dimenticano lo ventre di loro madre, sicchè giammai non se ne ricordano.
Lo re domanda: puote l'uomo dimenticare la gioia e 'l duolo? Sidrac risponde:
Tutte le cose del mondo può l'uomo dimenticare, o tardi o tosto. Ma se tu ài alcuna gioia o alcuno bene, tu nolla puoi così tosto dimenticare, insino a tanto che tu non ài alcuna gioia magiore di quella; e sì tosto come tu l'avrai, la prima dimenticherai per quella ch'è magiore. E perciò ch'ella è presente èe magiore. Il simigliante aviene del duolo.
Lo re domanda: de' l'uomo mostrare sua ragione? Sidrac risponde:
Se tu ài alcuna ragione a mostrare in giustizia o in altra parte, tu la dei mostrare brievemente e saviamente e di forte coraggio. Che se tu la dici brievemente, gli giudicatori la ricevono ne' loro cuori, e sapranno giudicare come e perchè. E se tu la dici saviamente, volentieri l'ascoltano, e meglio sapranno giudicare. E se tu dici di grande coraggio, tu non ti puoi isperdere nè vergognare; chè molti sono quelli che perdono il loro diritto in un punto, per ciò ch'egli si sperdono e si vergogniano e si spaventano, conciosia cosa ch'egli abbiano lo diritto.
Lo re domanda: dee l'uomo mostrare lo suo senno tra la stolta gente? Sidrac risponde:
Quegli che mostrano lo loro senno tra li stolti sono (1228) simiglianti a loro. E gli folli che vogliono mostrare a una bestia leggere e scrivere, egli avranno grande travaglio, e quella bestia per tutto ciò inparare non potrebbe. Simiglianti sono i savi che lo loro senno mostrano tra li stolti; che non intendono se non come le bestie, anzi per la loro stoltia (1229) e follia contastano lo detto del savio. Tra gli stolti l'uomo dee passare brievemente, sanza niuna pena e sanza niuno travaglio. Tra gli savi l'uomo dee mostrare lo suo senno e la sua memoria, ch'egli sarà ascoltato e udito.
(1228) Manca al C. L.: tra li stolti sono. — Abb. suppl. col C. R. 2., conforme al C. F. R.
(1229) Anche il C. R. 2. ha: stoltia.
Lo re domanda: perchè l'uno vino è bianco e l'altro è vermiglio? Sidrac risponde:
Quando Noè piantò la prima vigna del mondo, per la volontà di Dio, della pianta che dimorò (1230) in terra dopo il diluvio fu fatto vino, per lo comandamento di Dio, bianco e vermiglio; e si ne fecie XL piante, e le piantò in XX giorni: che ciascuno giorno ne piantò due, l'una di giorno e l'altra di notte. Quella del giorno per lo calore del sole diventò vermiglio; e quella della notte per lo freddore della luna diventò bianco. E tutto questo fu per la volontà di Dio. E perciò lo vino vermiglio è più caldo che lo bianco; e l'uno e l'altro ànno calura in loro, ma l'uno più che l'altro.
(1230) rimase C. R. 2.
Lo re domanda: le bestie e gli uccegli ànno linguaggio? Sidrac risponde:
Linguaggio non à se non l'uomo. Non credete mica che una (1231) bestia o uno uccello grida, che voglia alcuna cosa dire per quello grido; anzi lo fa senplicemente per natura e per usanza. E non però le bestie e gli uccegli già non intendono l'uno l'altro ciò che dicono; ma a quella simiglianza ch'egli gridano per sua natura, a quella simiglianza lo 'ntendono l'altre. Quella che grida non sa che si dire, nè quella che lo 'ntende simigliantemente; ma ciò è uno usato (1232) che è tra loro sanza niuno intendimento. E questo è per natura che Idio à loro donato.
(1231) quando una C. R. 2.
(1232) è usanza C. R. 2.
Lo re domanda: qual'è magiore profitto all'anima, o quello che fa in questo secolo, o ciò che l'uomo le fa dopo lei (1233)? Sidrac risponde:
L'uno e l'altro profitta a quello che è a le pene e al fuoco del purgatorio; ma s'ella è dannata al fuoco dello 'nferno, no' gli fa niuno pro' nè l'uno nè l'altro. E non però, se l'uomo fa bene in questo secolo a sua vita, egli n'à magiore pro' dell'uno cento, che s'egli è fatto dopo la sua morte; ch'è similmente come quelli che vae in un oscuro, e porta inanzi uno lume (1234). E quelli che dopo loro si fanno fare il bene, portano il lume di dietro a loro, e lo risprendore loro viene inanzi, perchè possano in alcuna cosa vedere. E non però (1235) lo bene che l'uomo fa per loro, alleggia molto delle loro pene, e gli dilibera tosto, se non sono dannati allo 'nferno.
(1233) o quello che gli è fatto quando è morto? C. R. 2.
(1234) in uno luogo scuro C. R. 2. — com cil chi vait en oscure, et porte o lui une lumiere, et la clarite li vait devant C. F. R.
(1235) Per nondimeno, non per quanto dei nostri antichi, che corrisponde al ne porquant franc.
Lo re domanda: chi è lo più savio uomo del mondo? Sidrac risponde:
Lo più savio uomo del mondo che è e fu e sarà si fu Adamo. E non però chi pigliasse uno fanciullo d'uno anno o di meno, e ciascuno giorno X volte o più sonasse inanzi lui stormenti, e la notte (1236), il suono degli stormenti gli tenperrebbe il cervello, e gli purgherebbe il sangue, e gli adolcirebbe lo cuore, sicchè in venticinque anni diventerebbe uno de' tre più savi uomini del mondo.
(1236) e la notte altresì.
Lo re domanda: qual'è la più saporita carne che sia? Sidrac risponde:
La più saporita carne che sia si è se l'uomo pigliasse una bestia salvatica, e castrassela, e poi la lasciasse andare al bosco due mesi o tre, e poi la pigliasse, si la troverrebbe la più saporita carne che sia, e più sana al corpo.
Lo re domanda: à egli niuna anima al mondo che potesse sapere quello che in tutto il mondo si fa in uno giorno? Sidrac risponde:
Niuna anima del mondo non potrebe sapere nè vedere quello che in tutto il mondo si fa in uno giorno, nè starlobio (1237) nè indovino. Ma lo starlobio ne puote bene sapere una partita. Quelli che saranno nel paradiso celeste, dopo la venuta del verace profeta, si vedranno chiaramente tutto il mondo, dall'uno capo all'altro, e tutto ciò che vi si fa di bene e di male, ched e' vedranno (1238) della natura degli angioli. E quando lo peccato si farà, egli n'avranno grande duolo, non già delle loro persone, che non possono avere se non gioia e letizia; ma 'l dolore ch'egli avranno si è altressì come una vergogna e pietà per coloro che peccano contro il loro criatore; e quella pietà è perchè non siano dannati.
(1237) istrologhi C. R. 2. — estromiens C. F. R.
(1238) veront C. F. R.
Lo re domanda: le piccole bestie e vermi come funno fatti (1239) per lo mondo che tanto sono piccoli? Sidrac risponde:
Elle furono in prima sparte per la volontà di Dio, per li venti e per li ucielli, che gli portano d'uno paese in altro; che allora niuna bestia nè niuno uccello non mangiavano l'uno l'altro, per comandamento di Dio. E quando elle furono disparte per tutto lo mondo, allora incominciarono a mangiare l'una l'altra. Ma inanzi si pascievano del frutto della terra.
(1239) Nel C. L.: come fatti. — Abb. agg. funno dal C. R. 2.
Lo re domanda: perchè i giovani ànno più chiara la vista che i vecchi? Sidrac risponde:
Li fanciulli ànno molta chiara vista, e meraviglia è com'egli non vegiono le stelle di giorno. Da uno anno in cinque istanno in istato (1240), e poi menomano di cinque anni in X; e di X infino in XX ella si mantiene, in fino in XL; ella si mantiene, se per malizia e' no' la perdono. Li giovani ànno lo cervello netto e chiaro e pieno di verdore, e tutt'i verdori ànno buona chiareza (1241). Gli vecchi ànno lo cervello mucido e secco, sanza niuno verdore e umidore; e per questa ragione non possono avere i vecchi così chiara vista (1242) come ànno gli giovani fanciulli.
(1240) Intenderei: restano nello stato medesimo. — Non possiamo giovarci a chiarir meglio questo passo degli altri Codd., perchè mancano queste parole nel C. F. R.; e nel C. R. 2. la lezione è evidentemente errata, leggendosi: stanno in vistato.
(1241) et tote verdour rent bone clarte C. F. R.
(1242) non possono avere gli occhi così chiari di vista C. R. 2.
Lo re domanda: gli pesci dormono nell'acqua? Sidrac risponde:
Non già, gli pesci non dormono mica nell'acqua. Ma quando travagliati sono, egli si riposano tra due acque presso alla rocca (1243). E s'eglino fiatassero ispesse volte l'aria, siccome facciamo noi e gli altri animali che sopra terra vanno, egli dormirebono. Alcuno pescie è che viene in terra, e fiata l'aria, e s'adormenta per la riva e per l'isole; e quello aviene per l'aria ch'eglino fiatano.
(1243) Mais chant il sont travailles si ce reposent pres as roches ou au fons de l'aigue ou entre II aigues C. F. R. — Cf. C. Plinii Sec., Nat. Hist., IX, 6.
Lo re domanda: perchè gli pesci ànno pietra in testa? Sidrac risponde:
Li pesci sono fatti d'acqua, e in acqua muoiono (1244); e sono sì leggieri e sì isnelli che disciendere non potrebono nel fondo, per la loro leggierezza, per la loro vita cercare, se le pietre non fossono in capo (1245), che elle loro donano contrapeso per andare al fondo. E ciascuno pescie à la pietra grande alla sua misura. E lo pescie che non à pietra in capo, non puote andare al fondo come quelli che l'ànno.
(1244) e vivono nell'aqua C. R. 2.
(1245) L'aspide, nel Tesoro, porta in capo una pietra preziosa che ha nome carbonchio. — E in Plinio hanno una pietra nel capo i lupi, i chromes, le sciaenae, i pagri. — IX, 24.
Lo re domanda: di quante maniere sono pesci? Sidrac risponde:
Li pesci sono di tante maniere (1246), chi le volesse tutte nominare tropo vi sarebe grande noia l'ascoltare. E pesci ci à della maniera che voi vedete ciascuno giorno. Altre maniere v'à che sono fatti a modo di persone; altri a modo di bestie che ànno quattro piedi; altri a modo d'uccelli; e altri lunghi e grandi XX passi o più; e altri verdi di molti colori; e di tante maniere che sarebe lunga mena (1247) a contare.
(1246) che chi C. R. 2.
(1247) noia C. R. 2.
Lo re domanda: di quante maniere sono bestie? Sidrac risponde:
Di diverse maniere sono le bestie. Chè bestie àe sopra terra, che sono molte pericolose. Una maniera di bestie sono, che sono fatte a maniera d'uomo maschio e di femmina; e si è molto grande e molta pilosa e molta pericolosa. Anche ci à bestie che ànno quattro piedi e due teste. Anche ci à bestie che sono sì grandi, che ciascuna potrebe portare X uomini adosso e più. Anche ci à bestie ch'ànno coda di lione e volto e unghia di leone, e sono molte pericolose. Anche ci à bestie a modo di serpente, e si ànno volto d'uomo e capegli di femina (1248). Anche ci à bestie che della cima della coda à uno osso lungo d'uno palmo, molto tagliente, come uno rasoio (1249). Anche v'àe altre bestie diverse assai, che troppo vi parebbe (1250). E queste pericolose bestie sono ne' grandi deserti. Per paura di loro molte provincie saranno disabitate. Ma uno re nascierà che le caccierà indietro nel grande diserto, là ove l'uomo non vede punto; e là istaranno tuttavia.
(1248) Vedi Tesoro, Lib. V., cap. 59. — Curioso a leggersi, e non privo di importanza, è il capitolo dove parlasi delle bestie d'India nel poema Ymage du monde.
(1249) Il C. R. 2. ha questo di più: Anche ci àe altre bestie che ànno uno corno nella fronte, e altre che n'ànno due, l'uno torto verso la fronte, e l'altro verso lo collo. E altre bestie sono in guisa di serpenti, e ànno viso d'uomo, e sono pericolosi, che s'eglino vegono la persona prima che la persona loro, inmantenente muore; e lo simile aviene se la persona vede prima loro, cioè la bestia. Anche ci àe altre bestie, che vanno in due piedi, e ànno mani e piedi a modo di scimia, e non ànno se non uno occhio in della fronte, e tutt'i denti della bocca sono due passi: eglino li ànno sì forti che romperebero gli ossi; e sono molti isnelli.
(1250) troppo vi parebono a udire contare C. R. 2.
Lo re domanda: di quante maniere sono gli uccelli? Sidrac risponde:
Li uccelli sono di molte maniere, che lunga cosa sarebe a contalle. Ma una maniera d'uccelli sono, che sono magiori che bufole, e più forti, e sono vaiati; e non vivono se non di carne, e non possono fare lo dì se non tre voli, e ciascuno volo è di due miglia, o di IIII al più. È un'altra maniera di uccielli, che sono fatti a modo di bestie (1251); e sono grandi e forti molto e pericolosi. E questo due maniere d'uccelli abitano nell'isole del mare d'India. E uccelli sono che ànno due teste e quattro piedi, e non vivono se non d'una gente che sono nell'isola d'India, che pigliano la gente, e mangialla; e quella gente à tuttavia co' loro briga e guerra (1252). Un'altra maniera sono d'uccelli che covano al fuoco, e al fuoco fanno i loro pulcini, e la loro piuma non si puote ardere; e quando egli vogliono covare, egli ragunano legne, e entranvi dentro, e battono tanto dell'alie, che lo fuoco sale e s'aprende a quelle legne. Altre maniere ci à d'uccelli, che ànno il collo lungo come una lancia; e altri ch'ànno i piedi a modo di cavallo; e altri che cantano dolcemente inanzi la loro morte, due giorni o quattro. Altri v'à che non covano i loro pulcini se non collo sguardare, e fanno due figliuoli maschi; e quando ànno XXX giorni, egli montano nell'aria, e combattono tanto che l'uno cade morto. Altra maniera v'à d'uccelli assai, alli quali noi faremo fine (1253).
(1251) ch'ànno il corpo come uciello, il capo come bestia C. R. 2.
(1252) Anche al Cap. LXXIX è parlato della gente che ha guerra cogli uccelli, favola negli antichi scrittori spesso ripetuta. Ved. Leopardi, Err. degli Ant. — Nell'Ymage du Monde:
Iluec sont unes gens menues
. . . . . . . . . . .
Qui soventes fois se bataillent
Contre les grues que les assallent
. . . . . . . .
Teles gens ont nom pigmen
Et sunt petit comme naien.
Intorno ai pigmei, cf. Berger de Xivrey, Trad. Teratolog., pag. 101.
(1253) Veda il lettore come alcune di queste favole sugli uccelli sembrino tolte dai racconti del Polo.
Lo re domanda: quale è lo più bello uccello del mondo? Sidrac risponde:
Lo più bello uccello del mondo si è lo gallo; ch'egli à molto di bellezza e di bontà in lui, le quali uomo non truova in altri uccelli. Lo gallo à primamente corona; secondo, porta speroni; terzo, Idio gli à donato di sapere conosciere l'ore del dì e della notte. Il gallo è geloso della moglie, più che niuno uomo della sua, e si è sì largo ch'egli soffera fame, per dare alla sua moglie a mangiare. Gallo fa asalto e battaglia l'uno contra l'altro. E se lo gallo fosse di caccia, tutti gli altri gli farebono onore e riverenzia e lo doterebono (1254). Di biltà è egli lo più bello uccello del mondo, di sua grandezza.
(1254) Nel C. L.: terebono. — Abb. corr. col C. R. 2., conforme al C. F. R.
Lo re domanda: qual'è la più bella bestia del mondo? Sidrac risponde:
La più bella bestia e la più forte e la più valente si è lo cavallo, perchè i cavalli si mantengono signorie, e si guadagna onore e terre e provincie. Non à niuna bestia al mondo che, s'ella fosse caricata com'è il cavallo covertato, e collo cavaliere con tutta l'arma, ch'ella potesse andare più che nel passo (1255). Lo cavallo non sa essere sì carico, che con sia più isnello che un'altra iscaricata (1256). Cavallo si dee amare e innorare e pregiare sopra tutte l'altre bestie del mondo.
(1255) di passo C. R. 2.
(1256) non sia isnello come niuna altra bestia scarica C. R. 2.
Lo re domanda: qual'è lo più degno uccello del mondo? Sidrac risponde:
Lo più degno uccello del mondo si è la lape, che procaccia la sanità al corpo dell'uomo. Ella ci aducie i buoni fiori per la volontà di Dio (1257), e si fa lo mele, lo quale si fa prode al corpo dell'uomo e delle bestie, per molte maniere; e si fa cera, della quale noi facciamo bella luminaria, e di medicine e unguenti (1258).
(1257) Così anche nel C. R. 2.; ma nel C. F. R.: abeille vait maniant des bones flores.
(1258) e si aopera la ciera e lo mele a medicine C. R. 2.
Lo re domanda: quali sono gli più begli cavagli che siano? Sidrac risponde:
Assai sono di belli cavalli per lo mondo. Ma lo cavallo dee avere in sè IIII cose lunghe, e IIII cose larghe, e IIII cose corte. In prima dee avere in sè lo bello cavallo lungo collo e lunghe gambe e lunga ischiena e lunga coda. E si dee avere in lui largo petto e larga groppa e larga bocca e larghi anari. E si dee avere corto pasterone (1259) e corto dosso e corti orecchi e corta coda, non mica, le setole, ma lo canone della coda (1260). E sopratutto questi dee avere grandi occhi aperti. E s'egli à in sè tutto questo, e egli è sano e bello e di buona costuma, quelli è buono cavallo e bello e bene da pregiare.
(1259) Forse per panzerone, panzirone?
(1260) Nel C. L. sta scritto: e corta coda nello pelo ma la proprietà della carne e dell'osso. — Noi abb. adottata la lez. del C. R. 2. — A spiegar poi l'errore del n. t. giova riferire il C. F. R.: et corte coe, non pas le pel, mais la propriete de la car et de l'os.
Lo re domanda: quale è la più benignia bestia che sia? Sidrac risponde:
La più benignia bestia che sia si è l'agnello e il bue. Agnello viene a dire benedetto e umile; bue viene a dire umile cosa e semplice. Il bue si travaglia per la vita dell'uomo e per la sua, e per la vita di molte altre bestie. Bue non à altro officio se non della terra arare, per lo frutto della terra guadagniare.
Lo re domanda: quale è la più bella cosa che Idio abia fatto al mondo? Sidrac risponde:
Iddio per la misericordia fece tutte le cose e tutti i beni, e non maledisse se non il diavolo solamente, perciò ch'egli volle essere simigliante a lui. L'altre criature non maledisse egli mica, chè le bestie velenose e pericolose non maledisse egli già per lo veleno; chè, con tutto loro pericolo, si tengono elli bene la legie che Idio diede loro, e lodano e ringraziano lo loro criatore.
Lo re domanda: perchè gli piccoli alberi portano grande frutto, e gli grandi alberi portano piccoli frutti? Sidrac risponde:
Li grandi alberi portano piccoli frutti. La ragione è per l'umidore che disciende di sua grandezza e nelle sue branche, e perciò nascono i frutti piccoli. E quando l'albore è piccolo, i frutti per natura diventano grandi, chè tutto l'umido vae in lui. E per questa ragione lo piccolo albore porta grande frutto, e lo grande albore porta piccolo frutto.
Lo re domanda: quali sono le più intendevoli bestie che sieno? Sidrac risponde:
Le più intendevoli bestie del mondo sono iscimmie, orsi e cani. Queste sono le più conoscienti bestie del mondo, chè Idio à loro donato cotale natura, d'intendere alcuna cosa dell'uomo. Quando Noè fue nell'arca per lo diluvio, queste tre bestie stettono più presso a lui che niuna altra; e quand'egli uscirono dell'arca, elle furono le sezaie che si dipartirono da lui, chè per lo loro intendimento aveano paura che lo diluvio non tornasse adietro.
Lo re domanda: gli uccelli di caccia perchè non beono? Sidrac risponde:
Gli uccelli di caccia non beono per lo loro volare, ch'egli volano più alto che tutti gli altri uccelli, e ànno tuttavia la frescura dell'aria. Iddio à loro donato natura che non possono bere spesso; e alcuna volta beono, quand'egli vogliono montare, s'egli truovano acqua.
Lo re domanda: le serpi sono istate tuttavia in questa forma? Sidrac risponde:
Lo serpente è stato tuttavia in forma tortigliata; e perciò lo diavolo entrò in lui, e si atortigliò (1261) nell'albero, e tentò Eva di manicare il pome, e Eva tentò lo suo compagnone. Ma allora era lo serpente di più bello colore ch'egli non è ora. Ma la forma à egli come allora.
(1261) Nel C. L.: conciliò. — Abb. corr. col C. R. 2.
Lo re domanda: a cui escie sangue del naso e stagnare non si può, che ne potrebbe l'uomo fare? Sidrac risponde:
Naso che getta sangue e stagnare non si puote, per due cose lo può l'uomo istagnare. Piglia lo sterco del porco, caldo, e fa ricevere al naso lo fummo, inmantenente istagnerà. L'altra, piglia merda di cammello, secca, e pestala che la facci sottilmente (1262), e metti al naso quella polvere, e alenerà bene forte, sì ch'ella vada ben dentro, e inmantenente lo sangue istagnerà.
(1262) e pestala sottilmente C. R. 2.
Lo re domanda: la rea lebbra che monta alle gambe dell'uomo come si può guarire? Sidrac risponde:
Ria lebbra che al corpo monta leggiermente si può guarire, chi pigliasse li scarafagi, e ardesseli come cenere, e pestasseli sottilmente, e poi bollisse lo lardo (1263) del porco vecchio, e mettesse quella polvere dentro, e altrettanto, come la metà, di biacca, e facessene unguento, e ugnessene la piaga; e poi vi mettesse una piastra di pionbo sottile, sopra la ganba, e pertugiata ispesso (1264), e mutassesi la mattina e la sera lo pionbo (1265), se rotto non fosse, si guarrebbe.
(1263) sangue di porco vecchio overo lardo C. R. 2.
(1264) e pertugiata in più luoghi C. R. 2.
(1265) e mutasseli la matina e la sera l'unguento, non mica lo piombo C. R. 2. — et changeroit matin et vespre l'ongiement et le plomb. C. F. R.
Lo re domanda: come potrebe l'uomo trarre la volatica che fortemente è apresa nella carne? Sidrac risponde:
Volatica che s'apiglia alla carne, non (1266) si vuole partire, chi pigliasse porcar (1267) (cioè uno vermine bacarozolo, grande com'una fava, e si è biadetto e tenero, e à molti piedi sottili e bianchi, e lo ventre bianco; e quando l'uomo lo tocca egli diventa tondo com'uno bottone), chi fregasse lo vermine sopra la volatica, sì forte che lo vermine si spiccioli (1268) tutto, due volte o III o IIII, egli guarrebbe tosto.
(1266) e non C. R. 2.
(1267) pichaar C. F. R.
(1268) si disfacesse C. R. 2.
Lo re domanda: uomo che à male stomaco che gli potrebe l'uomo fare? Sidrac risponde:
L'uomo che à rio stomaco pigli mele cotogne dolci, e cavane le granella, e falla com'uno bossolo, e enpila di mele di lape e di fiori, e la 'nvogli (1269) con pasta di grano, e mettila sopra la senplice brucia, e falla bollire e ispremare bene, e bere di quella acqua a digiuno IIII o V matine, e guarrà.
(1269) Così nel C. R. 2.: per la involgi. — Nel n. t.: lavogli. — Nel C. F. R.: et metre dehors tout en tout part, ec.
Lo re domanda: stomaco ch'è scaldato ed è enfiato come si potrebbe aiutare? Sidrac risponde:
Lo stomaco ch'è scaldato e enfiato, piglia radice di serpillo, e mettila in buono vino dolcie o in altro buono vino, uno giorno e una notte, e poi lo cola, e usalo VIII giorni o X, a digiuno.
Lo re domanda: che può l'uomo fare al dolore dello stomaco? Sidrac risponde:
Chi avesse calore al fegato e fosse di colore giallo, e anche fosse rognoso, pigliasse acqua di cicoria e acqua di cime di more salvatiche, e chi vuole avere queste acque, priemile insieme e pestile, e acque di lattuga; e piglia altrettanto zuchero; e fallo tanto bollire che diventi a modo di sciloppo; e poi metti entro uno peso e mezzo di ribarbero, e bealo la mattina e la sera con acqua fredda, una parte di scilopo e due parti d'acqua, e guarirà.
Lo re domanda: chi fosse in cammino, ed egli non potesse avere delle cose, ed egli avesse male al fegato o allo stomaco o di calore o di stordigione, che vi potrebe fare per ricoverare? Sidrac risponde:
Uno lattovaro che si fa di cinque cose, o le mangiasse o le beesse in acque, III pesi o IIII, egli guarirebbe. E queste sono le cose: iscerlogie, zamur, more, ziezara, granelatorio (1270). E tutte queste cose pestare, e confettare, come gli è bollito. E chiamasi lattovario di vita.
(1270) Non sapremmo che intendere di queste parole, le quali variano ne' diversi Codd. Il C. R. 2. ha: stralogia, zaracut, more, genziera, granellatori. — Il C. F. R.: storlozie, zaront, more, gencian, grainderere. = Par certo che siaci dello zenzero e delle more, da pestare insieme! Il C. R. 2. vuole ancora che le sieno confettate con mele d'api bollito. Forse per iscerlogie potrebbe intendersi l'aristologia, la quale mundificat pectus. E per zamur, il zirumber, che stringit ventrem et retinet vomitum. Cf. Alb. Magn. De veget. et plant.
Lo re domanda: perchè à lo stomaco cotante medicine? Sidrac risponde:
Dallo stomaco vengono i più de' mali del corpo; e chi potesse domandare i morti che sono e che saranno, egli troverrebe più che le tre parti sono morti di male di stomaco, imperò che lo stomaco è la più pericolosa cosa del corpo.
Lo re domanda: come potrebe l'uomo stagniare lo sangue della piaga? Sidrac risponde:
Pigliare un'erba che si chiama lunemaca (1271), e mettere delle sue foglie in nella fedita, e lo sangue istagnerà. E chi non puote avere di quella erba, ai pigli piume, e ardale, e fanne cenere e di quella cenere si lordi (1272), e polla in sulla piaga; e lo sangue ristagnerà.
(1271) limemachaf C. R. 2. — mohaf. C. F. R.
(1272) Questo lordi pare abbia ad essere un errore del Cod., e forse trovasi qui per una associazione d'idee col lardo; leggendosi nel C. R. 2. che la cenere delle piume s'ha a mescolare col lardo di porco fresco e sevo. Forse potrebbe leggersi lardi. Il C. F. R. non ha nulla di ciò.
Lo re domanda: che potrebe (1273) l'uomo allo 'nfermo che avesse lo fegato riscaldato e fosse di giallo colore? Sidrac risponde:
Bere VIII giorni o X merda di vermi che fanno la seta, e ciascuno (1274) uno peso; e tosto guarirà. E chi non la puote avere, bere similmente della 'nfracidatura del legname (1275), con iscilopo, dieci giorni, e guarirà.
(1273) potrebe fare C. R. 2.
(1274) ciascuno giorno C. R. 2.
(1275) della polvere del legno C. R. 2.
Lo re domanda: persona che sia troppo magra e à male nel ventre di vermini come guarrà? Sidrac risponde:
Midolla di volpe e foglie di cabar (1276) e merda di cammello (1277) e midolla (1278) d'oriner; pestale tutte con tre pesi di grasso di porco, e mettere poi latte di fichi (1279), e farne unguento, e usarlo; e guarirà.
(1276) ghabar C. R. 2.
(1277) di cavallo C. R. 2.
(1278) granella C. R. 2.
(1279) di femina C. R. 2.
Lo re domanda: quale fu lo primo uomo che Idio fece e che generazione fu e sarà? Sidrac risponde:
Lo primo uomo che Idio fece si fue Adamo; e di lui venne Abel lo giusto, e fece sacrificio a Dio inanzi sua morte. E poi fue uno ch'ebe nome Seth, che Idio elesse in suo luogo; del quale Seth uscirà il parentado del figliuolo di Dio. E poi fu un altro ch'ebe nome Enoc, che Idio traportò andando a lui (1280). Apresso fu lo buono servo di Dio Noè, del quale Iddio enpiè il mondo di lui, e de' suoi figliuoli nacquero XX migliaia di persone, innanzi la sua morte. E di quella generazione siamo noi venuti. Questi ch'io v'ò mentovati furono gli amici di Dio, che furono da Adamo infino al tempo di Noè.
(1280) alant o lui C. F. R.
Lo re domanda: che generazione sarà quella del veracie profeta? Sidrac risponde:
Per la grazia di Dio, la quale egli ci degnò di dare alcuna cosa a sapere della loro maniera, alcuna cosa ne diremo (1281). Uno buono uomo fue, lo quale ebe nome Melchisedec, del quale Idio degnò di ricevere da lui pane e vino in sagrificio. E nascierà uno buono uomo Abraam, il quale Idio diliberrà di tutte tentazioni. E nascierà un altro, il quale Idio diliberrà del suo fratello Iacob. E nascierà un altro, il quale Idio diliberrà della 'nvidia de' suoi fratelli, Ioseph; e per le sue buone opere diliberrà una grande gente di fame. E nascierà un altro, il quale Iddio diliberrà delle tentazioni di Satanas, Iob; e lo diliberrà della sua lebbra, e gli renderà la sua substanzia, secondo lignaggio di vita. E nascierà un altro e uno suo fratello, al quale Idio manderà una legge da cielo, Moyse e Aron, gli quali diliberanno una grande generazione di servaggio; e Idio farà per lui molte virtudi, e distrugerà e annegherà in mare uno possente re con tutta la sua gente, Faraone. E apresso nascierà un'altra gente, che Idio diliberrà d'una fiera gente, Osian, Balan. Apresso diliberrà un'arca di loro testamento per uno fiume Giordano. E apresso diliberrà uno buono uomo, Roboan, d'una villa, Gerico. E apresso diliberrà uno forte uomo, Sansone, dell'ira del leone e delle mani d'una gente, Filistei. E apresso diliberrà il popolo Isdrael, là ove l'angelo ucciderà LXX uomini di quello popolo. Apresso diliberrà uno buono uomo, Davit, della fiera d'uno orso e d'uno lione e delle mani di due re, Golia e Saul. E apresso diliberrà uno popolo della setta del popolo Isdrael, e due fanciulli di servaggio. E apresso diliberrà cento uomini di XXX pani, e loro soperchierà assai dello rilievo (1282). E apresso diliberrà uno grande uomo, Amon, della lebbra, al fiume Giordano. E si diliberrà molti uomini profeti, per quello medesimo fiume, e uno re d'Egito. Apresso diliberrà Datan, e due cittadi dell'oste di Soria. Apresso diliberrà uno buono uomo, Geremia, d'una fiera terra, Babillonia. Apresso diliberrà Anania, Esariel, Misael, tre fanciulli, della fornace di fuoco ardente. Apresso diliberrà una femmina di falsi testimoni; e Iona, si è uno uomo, del ventre del pescie balena. E apresso di LXX anni diliberrà Iuda Macabeo della lebbra, e di molte passioni. E si diliberrà Daniel delle mani d'uno fiero uomo. E apresso diliberrà uno buono uomo, e ancora padre di santo Iohanni, che sarà molto buono uomo e grande. E diliberrà una femmina che fia sterile, che anunzierà al suo marito Gioachino, com'ella sia pregna d'una santa figliuola Maria, ch'egli averanno, per cui tutto il mondo sormonterà. In quella vergine s'aonberrà lo figliuolo di Dio, e piglierà carne e sangue in lei. E apresso di quella vergine nascerà lo figliuolo di Dio, che diliberrà sè medesimo d'un possente re Erode, lo quale farà uccidere tutti i fanciulli di quella contrada, per lui uccidere, e lo numero di coloro sarà CXLIIII. E si diliberrà Guaspar, Baldassar, Melchior, tre re che veranno del levante, per lui adorare, per lo guidamento della stella del cielo; e porterannogli presenti, oro e incenso e mirra. Gli tre re significano ch'egli vorrà trarre a sè, per fey (1283) gli Asiriani e gli Africani e quelli di Uropia, e bene tre parti del secolo, Asia e Africa e Uropia. Questi sono quelli che nasceranno di Noè, infino alla venuta del figliuolo di Dio, che verranno e saranno amici del figliuolo di Dio. E molte altre cose (1284) che molto sarebe lungo a raccontare (1285).
(1281) Manca al C. L. alcuna cosa ne diremo. — Abb. suppl. col C. R. 2.
(1282) e a loro rimarrà assai rilievo C. R. 2.
(1283) per fede C. R. 2.
(1284) E molti altri assai C. R. 2.
(1285) Ci è parso inutile, comecchè fosse facilissimo, correggere i molti errori di nome, che leggonsi in questo Cap.
Lo re domanda: sarà conosciuta la natività del figliuolo di Dio? Sidrac risponde:
La natività del figliuolo di Dio sarà conosciuta per molte maraviglie. Una grande istella lo giorno aparirà, e al sole uno grande cierchio, che lo nuvolo verrà tutto che lucerà come oro (1286). Una fontana d'olio surgerà fuori della terra; le bestie mutole parleranno; e gli uccegli e gli pesci si rallegreranno; gli diavoli tristi seranno. All'ottavo giorno della sua natività sarà circonciso per lo conpiere della ley (1287), e per mostrare ch'egli è verace Idio e verace uomo.
(1286) Così nel Cod.; potrebbe intendersi che le nuvole saranno del colore dell'oro. — Anche il C. R. 2. ha la stessa lezione. — Nel C. F. R. non parlasi di nuvole: I sercle chi environera le souleil chi sera a or propre. — E ciò che nel Cap. seguente dicesi, par confermare l'erroneità dei due Codd. ital.
(1287) leggie C. R. 2.
Lo re domanda: che significheranno le maraviglie che saranno quando lo figliuolo di Dio sarà nato? Sidrac risponde:
La stella significa i buoni uomini; e però aparirà ella molto chiara, chè lo signore de' signori sarà nato. Lo cerchio dell'oro intorno al sole significa la sua grazia, che allumina la sua santa fede; e sarà altressì chiara e pura e netta come il sole. La fontana dell'olio significa misericordia, che discenderà della vergine. Signum verace pacie (1288), che sarà nata sopra terra, ciò sarà egli medesimo. La bestia mutola che parlerà significa le genti pagane disconoscienti, che si dovranno (1289) al figliuolo di Dio convertire. Li diavoli avranno duolo, inperciò che sarà quelli che ronperà lo 'nferno, e metterà fuori i suoi amici; e a' diavoli egli raddopierà la loro pena. Le bestie e gli uccegli saranno allegri, inperciò ch'egli sentiranno l'umiltà del loro criatore, che degnò d'umiliarsi a volere nasciere sopra terra, a santificarla.
(1288) La pacie significa verace pace C. R. 2.
(1289) Tanto nel n. t. che nel C. R. 2. leggesi daranno. La correz. ci è parsa evidente, tanto più leggendosi nel C. F. R.: devoient.
Lo re domanda: lo giorno che lo figliuolo di Dio nascerà saprà egli più d'un fanciullo? Sidrac risponde:
Lo giorno che lo figliuolo di Dio nascierà, egli saprà tutte le cose, come Dio, che co' lui serà riposto lo tesoro di sapienzia, tutto quello che unque fue e sarà e potrebe essere (1290). E secondo la sua podestà potrà egli fare tutte le cose. Ma egli vorrà di tutto in tutto tenere la via dell'uomo, sanza peccare (1291).
(1290) Manca al C. F. R. tutto quello; onde corre meglio il senso.
(1291) Soulement sanz pechier C. F. R.
Lo re domanda: quando (1292) lo figliuolo di Dio verrà in terra con che gente converserà egli? Sidrac risponde:
Quando lo figliuolo di Dio sarà fanciullo, egli converserà colla madre vergine, in una provincia in Egitto, perchè vorrà mostrare ch'egli è loro verace profeta. Tutto altresì come quello profeta Moyse avrà deliberato lo popolo Isdrael del servaggio del fiero re Faraone di quella terra, li metterà in terra di promissione, tutto altresì simigliantemente lo figliuolo di Dio li buoni delle tenebre dello 'nferno egli ne trarrà, e metterà allo regno di cielo. Dopo gli sette anni si partirà egli d'Egytto, ed irà tra una gente credente in Dio. E poi si battezerà in acqua, per dare asenplo a coloro che a lui crederanno, che si battezino, siccome egli fece per santificare loro acqua che è contraria al fuoco; e per ciò che questo fuoco sia ispento si battezzerà egli in acqua; e anche per l'acqua che lava e netta tutte lordure, e spegnie la sete, e rende all'uomo la sua biltade. Simigliantemente laverà la grazia del sancto ispirito, gli peccati, al battesimo, quand'egli saranno battezati, alla fede del figliuolo di Dio; e si renderà loro la salute dell'anima, per la parola del figliuolo di Dio, e renderà loro quelle ymagine che noi avemo perduto per lo peccato d'Adamo.
(1292) Abb. agg. quando dal C. R. 2.
Lo re domanda: lo figliuolo di Dio sarà bello uomo, e come si troverà egli? Sidrac risponde:
Lo figliuolo di Dio sarà molto bello uomo, e aparirà a' suoi discepoli, in una montagna, a monte Tabor; e la sua faccia risprenderà come lo sole, e lo suo colore (1293) come la neve, ma secondo la forma ch'egli sarà. Assai sarà d'alta persona.
(1293) Sa robe C. F. R.
Lo re domanda: perchè morrà egli, perchè si lascierà egli morire? Sidrac risponde:
Per obedienzia; ch'egli sarà obediente, d'infino alla morte della croce; perch'egli sarà diritto uomo tutta la sua vita. E di questa obedienza della morte si verrà l'umanità alluminata (1294). E ciò richiede Iddio a tutte le sue criature. E quando Idio vedrà che 'l figliuolo vorrà così buona opera fare, per conbattere il diavolo e per deliberare Adamo e gli suoi, si vorrà volentieri la sua morte. E di questa maniera dimosterrà egli in questo secolo sua grande caritade, ch'egli lascierà morire lo figliuolo per raccattare i suoi servi. Egli darà lo figliuolo, e lo figliuolo darà sè medesimo. E tutto questo sarà per caritade. E morrà sopra lo legnio, ch'egli vorrà raccattare quello d'Adamo, che per lo legnio (1295) è dannato. E per la sua morte si potranno salvare gli uomini de' loro peccati, chè magiore sarà la sua morte, che lo peccato. Se Dio fosse dinanzi a te, e io sapessi ch'egli fosse lo signore del secolo, e alcuno ti dicesse, uccidi quest'uomo o tutto il secolo perirà; tu nol dei mica uccidere, per salvare tutto il mondo, chè la sua vita è più preziosa che tutto il mondo, e che tutto quello che potesse essere. Altrettale sarà del figliuolo di Dio: la sua morte sarà più che lo peccato. E simigliantemente come la sua vita sarà più degnia di tutti i secoli, similemente sarà la sua morte, alla ragione di molti uomini.
(1294) L'umana generazione alluminata C. R. 2. — de ceste obedience de la mort se deura la humanite a la divinite C. F. R.
(1295) por la pome C. F. R.
Lo re domanda: chi 'l vedrà e come sarà egli morto? Sidrac risponde:
Una gente l'uccideranno, li giudei; e quelli che (1296) Idio avea dato li X comandamenti, si faranno consiglio per lui uccidere. E staràe nel sepolcro due dì e una notte. E ciò significa le due morti dell'uomo, l'una del corpo e l'altra dell'anima. Lo giorno significa la sua morte, ch'ella fa loro lume, a quelli (1297) che moranno nella sua fede (1298). La sua anima andrà nel celestiale paradiso, siccome egli dirà a uno malfattore, che sarà a peso co' lui, dal lato diritto: oggi sarai con meco in paradiso. E poi discenderà allo 'nferno, a mezza notte della sua risuresione; e lo dispoglierà; e quelli ch'egli ne trarrà fuori metterà nel pardiso celestiale. E poi n'andrà nel sepolcro, e risuciterà. E se egli risucitasse (1299) così tosto com'egli sarà morto, gli giudei direbono ch'egli non fosse mica morto, ma egli era tramortito per l'angoscia della passione. Egli risuciterà il terzo giorno, lo primo dì della settimana, cioè la domenica; ch'elli vorràe rinovellare il secolo, in quello giorno che l'avea fatto.
(1296) di quelli a cui C. R. 2.
(1297) ch'ella sarà lume di quelli C. R. 2.
(1298) Nel n. t. leggesi morte. — Abb. corr. secondo i Codd. R. 2., F. R.
(1299) Manca al n. t. E se egli risucitasse. — Abb. suppl. col C. R. 2.
Lo re domanda: dove andrà egli dopo la sua risuresione? Sidrac risponde:
Egli starà XL giorni con Enoc, che fue inanzi Noè, e con un altro buono uomo, ch'à nome Elia, nel paradiso terresto. E si sarà dopo la sua resuresione più bello che non è il sole per sette volte; e di quella forma lo vedranno i suoi disciepoli; egli aparirà XII volte, e prenderà vestimento dell'aria (1300). Alla prima volta aparirà a quelli che 'l sopellirà, in carne, a Iosep (1301). La seconda volta aparirà alla madre. La terza alla Maddalena. La quarta a uno de' suoi sancti ministri Jacopo, che quelli si boterà, che giammai non manicherà, se non lo vedesse. La quinta aparirà a due suoi disciepoli. La sesta aparirà allo prencipe de' suoi disciepoli, sancto Piero. La settima aparirà a' pellegrini, che lo meneranno a uno castello. L'ottava aparirà a tutti i suoi disciepoli, in uno tabernacolo, là dove saranno tutte le porte chiuse. La nona volta quando sancto Tommaso metterà le sue dita nelle sue piaghe, per essere creduto (1302) della sua morte. La decima allo mare di Taburia. L'undecima al monte Taburro. La dodecima là dove troverrà del popolo de' giudei insieme.
(1300) Nel n. t.: anima. — Abb. corr. secondo la lez. dei Codd. R. 2. e F. R.
(1301) apparirà in carne a quello che lo soppelliro nella prigione dove sarà Giuseppo C. R. 2.
(1302) credente C. R. 2.
Lo re domanda: monterà egli solo in cielo? Sidrac risponde:
Tutti quelli che morranno co' lui risuciteranno co' lui. In quella forma monterà in cielo chente sarà istato inanzi la sua passione. E allora monterà in sul nuvolo; e quand'egli sarà in su i nuvoli, si avrà quelle figura che si dimostrò alla montagna a' suoi disciepoli. Egli vorrà montare, dopo la sua resuressione XL giorni, in cielo, perch'egli vorrà mostrare che quelli che faranno i X comandamenti della legge per gli quattro vangelisti, si monteranno tutti dopo lui.
Lo re domanda: avrà egli magione lo figliuolo di Dio? Sidrac risponde:
Lo figliuolo di Dio avrà una santa magione in terra, la quale sarà la sua isposa. E simigliantemente come il capo dell'uomo è sopra il corpo, simigliantemente lui e la sua magione saranno una, per lo sagramento del suo corpo. E similiantemente come gli ministri saranno governati per lo corpo, simigliantemente gli buoni del suo popolo saranno governati per lo suo sacramento. E quelli che saranno iscacciati della sua magione, elli saranno dannati nello 'nferno, se quelli della casa no' li ricevono per l'amendamento ch'egli faranno.
Lo re domanda: Lo corpo del verace profeta sarà tuttavia in terra in sua casa per lo comandamento di Dio? (1303) Sidrac risponde:
Lo suo corpo sarà tuttavia in terra, e sarà nella sua casa, per lo comandamento e lo dono ch'egli farà a' suoi ministri. Ch'egli sarà in una cena, che loro ronperà lo pane, e dirà: pigliatelo e mangiate, chè questo è lo mio corpo. In simiglianza, quand'egli avrà cenato, e egli piglierà lo vasello del vino, e dirà: pigliate e beete, chè questo è lo mio sangue. E tutti quelli che riceveranno quello corpo e quello sangue, e avranno fede in lui, ch'egli sia veracemente lo corpo di Dio, salvi saranno. E quello corpo sarà tutto giorno veduto nell'universo mondo, chè gli boni avranno lo podere che avranno gli suoi ministri, di farlo, ciascuno giorno; e faranno del pane corpo di Dio. E le degne parole ch'egli sopra loro diranno e faranno, e lo segno della croce che faranno, e lo dono che da lui avranno, e quello pane diventerà carne e sangue in lui, e l'umana natura tuttavia vi sarà in lui; che così degna cosa d'umana vita non potrà istare sanza sangue. Simigliantemente quand'egli sarà morto in croce, e' sarà fedito d'una lancia al fianco diritto, e lo sangue salterà (1304) fuori del suo corpo, e ralluminerà quelli che fedito l'avrà. Altressì lo suo corpo che sarà fatto di pane nella sua santa casa, conciosia cosa che lo corpo sarà fatto di pane, tuttavia sarà il sangue in lui; chè l'umana natura è sostenenza di vita, e sarà tuttavia in lui. E ciò sarà pane di vita, ch'egli dirà colla sua santa bocca, io sono pane di vita; e di questo sarà lo suo santo corpo, che di pane sarà fatto. Anche, quelli che avranno lo podere di fare quello prezioso corpo, s'egli avessero mille pani inanzi di loro, e dicessono quelle sante e degne parole, e facessero lo segno della santa croce, incontanente tutto quello pane si farebbe carne e sangue del figliuolo di Dio, e l'umana natura di vita sarebbe in lui. E niuno uomo e niuna femmina salvare non si potrà, se di questo verace pane e corpo di Cristo non ricevono, con credenza ch'egli sia veracemente lo corpo del verace profeta. E li piccoli garzoni che non cognoscono, e non sanno che ciò si sia, per la loro gioventudine, non è già forza se no' 'l ricevono, chè per la loro puritade e per la loro verginitade egli sta tuttavia co' loro. Gli miscredenti che in lui non credono, e lui conosciere non vogliono, quelli nol dee mica ricevere di tutto in tutto, se lui non riconoscono, e a lui non si convertono; e allora lo puote ricevere. E chi altrimenti lo riceve, la sua dannazione farà; chè il corpo di Dio dee morire in sè medesimo, e quelli riceverà fuoco.
(1303) Nel C. F. R. prima della rubrica di questo cap. leggonsi le seguenti parole, le quali ci pare non inutile riferire: Cest capitle si est encontre toutes les naisons, chi dient, por quoi les frans ne donent au peuple dou cors che le presle resoit et dou sanc che il resoit o le cors?
(1304) spillerà C. R. 2.
Lo re domanda: ciascuno del suo popolo buoni e rei potranno fare lo corpo del veracie profeta? Sidrac risponde:
Non già, se non quelli solamente che avranno lo podere della sua santa magione eclesia. E quello dignissimo corpo non potrà essere menomato nè lordato, se non come lo sole che non puote essere lordato da neuna carogna che l'uomo metta (1305). E quelli che degniamente lo riceve e lo riceverà e manterrà, in colui rimarrà egli. E quelli che lo riceverà, e non sarà degno di riceverlo, in colui non dimorerà egli mica, anzi monterà egli in cielo, per gli angioli, e lo corpo del verace profeta dimorerà in sè medesimo; e quelli che lo piglierà, piglierà pane tanto solamente; e sì tosto com'egli piglierà quello pane, lo diavolo enterà nel suo corpo. E tutti quelli che degnamente lo riceveranno, egli dimorerà in loro; e quelli che no' lo riceverà degniamente, egli non dimorerà mica in loro, anzi se n'andrà in cielo, per gli angeli; e egli riceveranno la loro dannazione.
(1305) Nel C. R. 2.: che l'uomo vi metta. — Ma non si intende, veramente, come potrebbe mettersi la carogna nel sole. — Migliore è la lez. del C. F. R.... soleil chi ne peut estre concies de la pulentie d'une longuaige — Vedi la nota (3) a pag. 26.
Lo re domanda: quelli che avranno podere di fare lo corpo del verace profeta saranno eglino onorati più inanzi a Dio che gli altri? Sidrac risponde:
Già, per lo dono nè per altri mestieri ch'elli ànno, non potranno fare piacere a Dio, se non per le loro buone opere. E se riamente (1306) mantengono i loro ministerii, elli saranno più dannati che gli altri; chè lo verace loro profeta gli domanderà più che l'altre genti; chè a loro più comanderà della fede e de' suoi comandamenti che gli altri. Egli gli farà pastori sopra le sue pecore; se per la loro mala guardia i lupi le pigliassono, cioè lo diavolo, eglino saranno risponditori inanzi a Dio, e fortemente però saranno tormentati.
(1306) Nel n. t. lealmente. — Abb. corr. l'errore evidentissimo, secondo la lez. del C. R. 2.
Lo re domanda: deono egli fare tutto giorno lo corpo del verace profeta? Sidrac risponde:
Elli debono (1307) fare per la sua gloria, e per la sua santa madre eclesia, e per sè, e per lo popolo. E quelli che lo faranno giustamente, siccom'egli dovranno, egli saranno onorati e innalzati sopra tutti gli altri. E quelli che lo riceveranno con mala conoscienza (1308), meglio sarebbe di mettervi uno tizzone di fuoco. E sapiate che molto dannerà la sua anima chi così lo riceverà. Iddio non fece in paradiso niuno male nè niuna pena, anzi lo fece tutto buono; ma Adamo fece bene male a suo corpo, quand'egli mangiò lo pome che Idio gli avea divietato, e si fece la volontà del diavalo. Quelli che di buona conoscienza lo riceveranno, già perciò ch'egli sieno peccatori, non deono lasciare di pigliarlo, se lo ricevono di buono cuore e di buona fede confessata (1309).
(1307) lo deno C. R. 2.
(1308) coscienza C. R. 2.
(1309) e confessati C. R. 2. — Questo confessati manca al C. F. R.
Lo re domanda: che cosa è peccato? Sidrac risponde:
Peccato è nulla, chè Idio fece tutte le cose, e tutte le fece buone. Perciò dobiamo noi sapere che 'l peccato è nulla, per sustanzia, chè tutte le cose che Iddio fece ànno sustanzia, e tutte sustanzie sono buone. Ma nulla (1310) non à nulla substanzia. Ma si è sì grieve cosa il peccato, che uno piccolo peccato è maggiore di tutto il mondo. E quando l'uomo fa il peccato, elli sarà tutto tornato a lui per la sua dannazione; chè niuno uomo puote dire che nella santa creatura abbia niuno male.
(1310) il male C. R. 2.
Lo re domanda: come conoscierà (1311) la morte del santo profeta verace? Sidrac risponde:
La morte del verace profeta sarà conosciuta per tenebre che saranno per tutto il mondo, e per la ressuresione, ch'egli risuciterà i morti, e per molti miracoli che allora saranno. Starlobio santo Dionigio (1312) sarà nel ponente, che conoscierà la sua morte per le tenebre e per la sua strologia.
(1311) conoscerà l'omo C. R. 2.
(1312) Uno buono uomo strolago santo Dionizio C. R. 2.
Lo re domanda: quale virtù farà in terra lo figliuolo di Dio? Sidrac risponde:
Prima vincerà l'umano lignagio per sè medesimo; vincerà lo diavolo e ghiottornia e cupidigia e argoglio per che Adamo cadde, lo primo uomo. E sanerà uno fanciullo di centurione, in una città ch'à nome Carnafan; e apresso sanerà tutti gli malati che là saranno, e deliberrà due indemoniati, e diliberrà paralitichi; e questi IIII miracoli farà; e gli peccati saranno perdonati, e li pensieri mutati. E sanerà una femina nella via del sangue del corpo; e resuciterà in una casa una figliuola d'uno uomo sordo e mutolo del diavolo; e sazietà MV uomini, sanza i fanciulli e le fanciulle femine, di V pani d'orzo e di due pesci; e si ne rimarà XII cofani pieni di rilievo (1313); e comanderà al vento e al mare di bonacciare (1314), incontanente sarà bonaccia. E diliberrà per lo suo comandamento molta gente, in una città di Nazaret; e diliberrà in quella parte una pulcella, per umile risposta, dal diavolo, che molto la travaglierà; e satollerà MIIII uomini di V pani e di due pesci; e diliberrà altrui della fame del corpo; e deliberrà una lunatica, che gli suoi discepoli non potranno curare nè sanare; e sanerà uno sordo e mutolo; e alluminerà due ciechi, che grideranno apresso di lui, figliuolo di Davit, abbi misericordia di noi e dacci lo vedere. E si perdonerà gli suoi peccati a una che avrà nome Madalena, la quale laverà i suoi piedi delle sue lagrime; e si guarirà uno cieco di XVIII anni; e si sanerà uno zoppo, uno sabato, in una casa d'uno grande uomo, e sanerà X lebbrosi; e risuciterà uno uomo morto, Lazaro; e si sanerà uno orbo in Gierusalem collo sputo suo, che gli ungerà gli occhi (1315); e risuciterà molti corpi di buoni uomini che morti saranno, inanzi la sua resuresione, e si deliberrà quelli di ninferno.
(1313) dodici corbelli di rilevo C. R. 2. — XII cofins de relif C. F. R.
(1314) La Crusca non registra bonacciare.
(1315) e sputerà nella polvere e farà loto e ongierà gli occhi di colui che sarà aluminato C. R. 2.
Lo re domanda: gli disciepoli del figliuolo di Dio dopo la sua andata in cielo che faranno? Sidrac risponde:
Li suoi discepoli si dipartiranno per l'universo mondo, che egli lo dirà loro: andate per l'universo mondo, e anunziate lo mio verbo, cioè lo vangelo. E tutti quelli che vi crederanno e che si battezeranno, salvi saranno; e quelli che non vi crederanno, dannati saranno. E però egli andranno per l'universo mondo, anunziando la parola di Dio, ciò sono gli vangeli; e tali andranno soli, e tali acompagnati.
Lo re domanda: gli disciepoli del figliuolo di Dio potranno eglino salvare gl'infermi? Sidrac risponde:
Egli faranno miracoli e vertudi a' miscredenti, e gli saneranno di molte malizie, per convertirgli alla fede di Dio e lo figliuolo di Dio farà per loro, e tuttavia sarà co' loro. Lo principe delli ministri, cioè santo Piero, sanerà molti uomini di corporali malizie; e Idio per lui sanerà uno paraletico; e poi sarà rinchiuso da uno re miscredente, cioè Herode; e uno angelo lo caverà di prigione. E poi saneranno uno uomo (1316) d'una grande malizia, della quale egli sarà giaciuto VIII anni; e risuciterà una morta povera femmina. E lo figliuolo di Dio diliberrà uno fiero uomo di pene