Title: Annali d'Italia, vol. 2
Author: Lodovico Antonio Muratori
Release date: August 27, 2013 [eBook #43575]
Most recently updated: October 23, 2024
Language: Italian
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ANNALI
D'ITALIA
2
DAL
PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE
SINO ALL'ANNO 1750
COMPILATI
DA L. ANTONIO MURATORI
E
CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI
Quinta Edizione Veneta
VOLUME SECONDO
VENEZIA
DAL PREMIATO STAB. DI G. ANTONELLI ED.
1844
Anno di | Cristo CCCXLI. Indizione XIV. |
Giulio papa 5. | |
Costanzo e | |
Costante imperadori 5. |
Consoli
Antonio Marcellino e Petronio Probino.
Un'iscrizione che si legge nella mia Raccolta [Thes. Novus Inscript., pag. 377.], quando pur sia indubitata reliquia dell'antichità, ci assicura dei nomi di questi consoli, in addietro ignoti. Aurelio Celsino dal dì 25 di febbraio cominciò ad esercitare la prefettura di Roma. Sul fine di giugno diede Costanzo Augusto una legge in Lauriaco [L. 31, de Decurion., Cod. Theodos.], creduto dal Gotofredo luogo della Batavia, ma che più verisimilmente fu il Lauriaco, luogo insigne e colonia de' Romani, posta alle parti superiori del Danubio. Era questo principe divenuto signor delle Gallie, e colà dovette accorrere [Idacius, in Fastis.], perchè i Franchi, passato il Reno, metteano a sacco le vicine contrade romane. Abbiamo da san Girolamo [Hieron., in Chron.] che seguirono [10] fra que' Barbari e le armate di Costante varii combattimenti, ma senza dichiararsi la fortuna per alcuna delle parti. Libanio [Liban., Orat. III.], descrivendo a lungo i costumi e il genio de' Franchi d'allora, li dipinge per gente turbolenta ed inquieta, a cui il riposo riusciva un supplizio. Solamente nell'anno seguente ebbe fine questa guerra. Tanto il medesimo san Girolamo che Idacio mettono sotto il presente anno spaventosi tremuoti che fecero traballare moltissime città dell'Oriente. Tennero in quest'anno gli ariani un conciliabolo in Antiochia, per alterare i decreti sacrosanti del concilio niceno. Appena terminata fu la sacrilega loro assemblea, che il tremuoto cominciò a scuotere orribilmente la misera città, siccome attestano Socrate [Socrates, Histor., lib. 2, cap. 11.] e Sozomeno [Sozomenus, Histor., lib. 3, cap. 6.], e quasi per un anno si andarono sentendo varie altre scosse. Non parla Teofane [Theophanes, in Chronogr.] se non di tre giorni, ne' quali probabilmente quella città fu in maggior pericolo. Lo stesso autore nota che circa questi tempi Costanzo Augusto cinse di forti mura e fortificò in altre guise Amida, città della Mesopotamia, [11] situata presso il fiume Tigri, acciocchè servisse di antemurale contro ai Persiani. Ammiano [Ammianus, Histor., lib. 18, cap. 9.], scrittore di maggior credito, all'incontro, scrive che molto prima d'ora, cioè vivente ancora il padre, Costanzo Cesare con torri e mura fece divenir quel luogo un'importante fortezza, di cui sempre più crebbe la popolazione e la fama ne' tempi susseguenti. Durava tuttavia la guerra coi Persiani, ovvero, se Socrate [Socrat., Histor., lib. 2, cap. 25.] non s'inganna, essa ebbe principio in questi medesimi tempi; ma quali azioni militari si facessero, non è pervenuto a nostra notizia. Già abbiam detto che Costantino il Grande con varii editti e in altre guise si studiò di abolir le superstizioni del paganesimo, distrusse moltissimi templi de' gentili, vietò gli empii loro sagrifizii: il che vien confermato da Socrate [Idem, ibid., lib. 1, cap. 8.], da Teodoreto [Theodoret., in Histor. Eccl.], da Teofane [Theoph., Chronogr.] e da altri. Ma lo svellere dal cuore di tanta gente gli antichi errori e riti, difficil cosa riusciva nella pratica. Costante Augusto nell'anno presente, siccome principe di massime cattoliche e di zelo cristiano, per eseguire eziandio ciò che il padre gli avea premurosamente raccomandato, pubblicò una legge, con cui, confermando gli editti paterni [L. 2, de Paganis., Cod. Theod.], sotto rigorose pene abolisce i sagrifizii de' pagani, e per conseguenza ancora il culto degl'idoli. Siffatti editti, e l'esempio de' principi seguaci della legge di Cristo, furono quegli arieti che diedero un gran tracollo al gentilesimo, con ridurlo a poco a poco all'ultima rovina. Ma se ad occhio veniva meno la falsa religion de' pagani, per cura massimamente dell'Augusto Costante, andavano ben crescendo in questi tempi le forze dell'arianismo in Oriente con discapito della Chiesa cattolica, per la protezion che avea preso di quella fazione l'Augusto Costanzo. Le insigni [12] sedie episcopali di Alessandria, Antiochia e Costantinopoli vennero in questi tempi occupate da' vescovi ariani [Socrat., lib. 5, cap. 7. Theoph. Cedr.]: e tutte le chiese d'essa città di Costantinopoli caddero in poter de' medesimi eretici. Ma intorno a ciò è da consultare la storia ecclesiastica. Grande solennità nel presente anno fu fatta in Antiochia per la dedicazione di questa magnifica cattedrale, cominciata da Costantino il Grande, e compiuta solamente ora per cura del suddetto imperadore Costanzo.
Anno di | Cristo CCCXLII. Indizione XV. |
Giulio papa 6. | |
Costanzo e | |
Costante imperadori 6. |
Consoli
Flavio Giulio Costanzo Augusto per la terza volta e Flavio Giulio Costante Augusto per la seconda.
Ad Aurelio Celsino nella prefettura di Roma succedette in quest'anno nelle calende d'aprile Mavorzio Lolliano [ Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.], il cui impiego durò sino al dì 14 di luglio, con avere per successore Acone (ossia Aconio) Catulino (ossia Catullino) Filomazio (o pur Filoniano). All'anno presente riferisce il Gotofredo [ Gothofred., Chron. Cod. Theodos.] un editto [ L. 3, de Paganis, Cod. eod. Theod.] di Costante Augusto, dato nel dì primo di novembre, e indirizzato al medesimo Catullino prefetto di Roma, in cui ordina che, quantunque s'abbia da abolire affatto la superstizione pagana, pure non si demoliscano i templi situati fuori di Roma, per non levare al popolo romano i divertimenti dei giuochi circensi e combattimenti che aveano presa la origine da que' medesimi templi. Nè già paresse per questo raffreddato punto lo zelo di questo principe in favore del cristianesimo, perchè egli non altro volle che conservar le mura e le fabbriche materiali di que' templi, ma con obbligo [13] di sbarbicar tutto quel che sapeva di superstizione gentilesca, come idoli, altari e sagrifizii. Fors'anche non dispiaceva ad alcuni accorti cristiani che restassero in piedi que' superbi edifizii, per convertirli un dì in onore del vero Dio. Ma che in tanti altri luoghi venissero abbattuti i templi de' gentili, Giulio Firmico [Julius Firmicus, de error. prof. Rel.], che circa questi tempi fioriva e scrisse i suoi libri, ce ne assicura. Fino al presente anno sostennero i Franchi la guerra nelle Gallie contra dell'Augusto Costante [ Hieronymus, in Chron. Idacius, in Fastis. Socrates, lib. 2, cap. 13. Theoph., in Chron.]. Tali percosse nondimeno dovettero riportare dall'armi romane, che finalmente si ridussero a chiedere pace. Un trattato di amicizia e lega conchiuso con Costante li fece ripassare il Reno. Libanio [ Liban., Orat. III.] con oratoria magniloquenza lasciò scritto che il solo terrore del nome di Costante obbligò que' popoli barbari ad implorare un accordo, senza dire che fossero domati coll'armi, come scrissero tanti altri. Aggiugne ch'essi Franchi riceverono dalla mano di Costante i loro principi, e stettero poi quieti per qualche tempo. Occorse nell'anno presente in Costantinopoli più d'una sedizione fra i cattolici ed ariani [ Socrates, lib. 2, cap. 13. Sozomenus, Hist. Eccl. Idacius, in Fastis. Hieronym., in Chron.], da che Costanzo Augusto, sposata affatto la fazione degli ultimi, mandò ordine che fosse da quella cattedra cacciato Paolo vescovo cattolico, per introdurvi Macedonio ariano. Crebbe un dì a tal segno l'impazienza e il furor della plebe cattolica, che andarono ad incendiar la casa di Ermogene generale dell'armi, a cui era venuto l'ordine dell'imperadore di eseguir la deposizione del vescovo cattolico; e messe le mani addosso al medesimo Ermogene, lo strascinarono per la città, e lo uccisero. Costanzo, che allora si trovava ad Antiochia, udita cotal novità, tosto per le poste volò a Costantinopoli: cacciò Paolo e gastigò il popolo, [14] con privarlo della metà del grano, che per istituzione di Costantino gli era somministrato gratis ogni anno; cioè di ottanta mila moggia o misure ridusse il dono a sole quaranta mila.
Anno di | Cristo CCCXLIII. Indizione I. |
Giulio papa 7. | |
Costanzo e | |
Costante imperadori 7. |
Consoli
Marco Mecio Memmio Furio Baburio Ceciliano Procolo e Romolo.
Questa gran filza di cognomi data al primo console, cioè a Procolo, si truova in un'iscrizione creduta spettante a lui, e rapportata dal Panvinio e Grutero. Non Balburio, come essi hanno, ma Baburio viene appellato nelle schede di Ciriaco, che riferisce lo stesso marmo. Il secondo console dal suddetto Panvinio, che cita un'iscrizione, vien chiamato Flavio Pisidio Romolo. Vopisco, nella Vita d'Aureliano [Vopiscus, in Aurel.], ci rappresenta questo Procolo per uomo abbondante, non so se più di ricchezze o di vanità, scrivendo essersi poco fa veduto il consolato di Furio Procolo solennizzato con tale sfoggio nel circo, che non già premii, ma patrimonii interi parve che fossero donati ai vincitori nella corsa de' cavalli. Ci fan conoscere tali parole in che tempo Vopisco fiorisse e scrivesse. Nella prefettura di Roma continuò ancora per quest'anno Aconio Catullino. Dappoichè la pace stabilita coi Franchi rimise la calma in tutte le Gallie, Costante Augusto, il quale si truovava in Bologna di Picardia nel gennaio dell'anno presente [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.], volle farsi vedere anche ai popoli della Bretagna, e passò nel furore del verno colà con tutta felicità. Se prestiam fede a Libanio [Liban., Orat. III.], guerra non v'era che il chiamasse di là dal mare, ma solo timor di guerra; e da Ammiano [15] Marcellino [Ammianus, lib. 20, cap. 1.] si ha abbastanza per credere che i Barbari di quella grand'isola avessero fatta almen qualche scorreria nel paese de' Romani. Per altro, che non succedessero battaglie e vittorie in quelle parti, si può argomentare dal suddetto Libanio, giacchè egli di niuna fa menzione. Truovansi nulladimeno alcune medaglie, dove egli è appellato [Mediob., in Numismat. Imperator.] debellatore e trionfatore delle nazioni barbare, le quali, se non sono parti della sola bugiarda adulazione, possono indicare qualche vantaggio delle sue armi in quelle contrade ancora. Oltre di che, Giulio Firmico [Julius Firmicus, de error. profan. Rel.], parlando ai due Augusti, dice, che dopo aver essi abbattuti i templi de' gentili nell'anno 341, Dio avea prosperate le lor armi; che aveano vinti i nemici, dilatato l'imperio; che i Britanni, all'improvviso comparir dell'imperadore, s'erano intimoriti. Truovasi poi esso Augusto nel dì 30 di giugno ritornato a Treveri, dove è data una sua legge. Ci fanno poi altre leggi vedere Costanzo Augusto in Antiochia, in Cizico, in Jerapoli, tutte città dell'Asia, imperocchè non gli lasciava godere riposo la guerra sempre viva coi Persiani. Osserviamo ancora in una delle sue leggi [L. 35, de Decur., Cod. Theod.] ch'egli chiamò a militare in quest'anno i figliuoli dei veterani, purchè giunti all'età di sedici anni, per bisogno certamente di quella guerra. Non so io dire quale credenza si meriti Teofane [Theoph., in Chronogr.], allorchè scrive che circa questi tempi Costanzo, dopo aver vinti gli Assirii, cioè i Persiani suddetti, trionfò. Niuno de' più antichi e vicini storici a lui attribuisce alcuna memorabil vittoria di que' popoli, e molto meno un vero trionfo. Abbiamo inoltre dal medesimo Teofane che la città di Salamina nell'isola di Cipri per un fierissimo tremuoto restò la maggior parte smantellata; [16] siccome ancora circa questi tempi ebbe principio la persecuzione mossa da Sapore re di Persia contra de' cristiani abitanti ne' paesi di suo dominio.
Anno di | Cristo CCCXLIV. Indizione II. |
Giulio papa 8. | |
Costanzo e | |
Costante imperadori 8. |
Consoli
Leonzio e Sallustio.
Nel dì 11 d'aprile ad Acone, ossia Aconio, Catullino succedette nella prefettura di Roma Quinto Rustico. Nulla di considerabile ci somministra per questo anno la storia, se non che truoviamo una legge [L. 3, de excusat. artific.], con cui Costanzo Augusto concede delle esenzioni ai professori di meccanica, architettura e ai livellatori delle acque. Il genio edificatorio veramente non mancò a questo imperadore, ed egli lasciò molte suntuose fabbriche da lui fatte in Costantinopoli, Antiochia ed altri luoghi. Ma se egli coll'una mano innalzava materiali edifizii nel suo dominio, coll'altra incautamente si studiava di atterrare e distruggere la dottrina e Chiesa cattolica, lasciandosi aggirare a lor talento dai seguaci dello eresiarca Ario. Però in questi tempi smisuratamente prevalse in Oriente la lor fazione: laddove Costante Augusto in Occidente, con dichiararsi protettore dei dogmi del concilio niceno, divenne scudo della Chiesa cattolica. Se in Oriente si tenevano conciliaboli contra la fede nicena, in Occidente ancora si formavano concilii per sostenerla. Ma intorno a ciò mi rimetto alla storia ecclesiastica. Intanto era flagellato da Dio l'imperador Costanzo col tarlo della guerra persiana; e benchè Teofane [Theoph., in Chronogr.] ancora sotto quest'anno racconti che vennero alle mani le due armate romana e persiana, e che gran numero di que' Barbari lasciò la vita sul campo; pure, poco o nulla [17] servirono questi pretesi vantaggi, perchè più che mai vigorosi i Persiani continuarono a fare il ballo sulle terre romane, senza che mai riuscisse ai Romani di cavalcare sul paese nemico. Abbiamo poi da san Girolamo [Hieronymus, in Chronico.] e dal suddetto Teofane che nell'anno presente Neocesarea, città la più riguardevol del Ponto, fu interamente rovesciata a terra da un orrendo tremuoto colla morte della maggior parte del popolo, essendosi solamente salvata la cattedrale fabbricata da san Gregorio Taumaturgo colla casa episcopale, dove esso vescovo e chiunque ivi si trovò rimasero esenti da quello eccidio.
Anno di | Cristo CCCXLV. Indizione III. |
Giulio papa 9. | |
Costanzo e | |
Costante imperadori 9. |
Consoli
Amanzio ed Albino.
Secondo il Catalogo del Cuspiniano e del Bucherio, nel dì 5 di luglio Probino fu creato prefetto di Roma. Una legge [L. 7, de petition., Cod. Theod.] di Costante Augusto, data nel dì 15 maggio, ci fa vedere questo imperador ritornato dalla Bretagna a Treveri. Però non so se sussista l'aver creduto il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs et de l'Histoire Ecclesiastique.] ch'esso Augusto verso il fine del medesimo mese fosse in Milano, dove invitò lo sbattuto santo Atanasio, per patrocinarlo contra la prepotenza degli ariani. Certamente cominciò verso questi tempi il cattolico Augusto a tempestar con lettere il fratello Costanzo, acciocchè si tenesse un concilio valevole a metter fine a tante turbolenze della Chiesa. Ma non si arrivò a questo se non nell'anno 347, siccome allora accenneremo. Da una legge del Codice Teodosiano [L. 5, de exactionib., Cod. Theod.] apprendiamo [18] che l'Augusto Costanzo, nel dì 12 di maggio del presente anno, si trovava in Nisibi città della Mesopotamia, e, senza fallo, per accudire alla guerra coi Persiani. Abbiamo poi da san Girolamo [Hieron., in Chronico.] e da Teofane [Theoph., in Chronogr.] che in quest'anno ancora i tremuoti cagionarono nuove rovine in varie città. Fra le altre la marittima di Epidamno ossia di Durazzo, città della Dalmazia, restò quasi affatto abissata. Anche in Roma per tre giorni sì gagliarde furono le scosse, che si paventò l'universal caduta delle fabbriche. Nella Campania dodici città andarono per terra; e l'isola, o, vogliam dire, la città di Rodi, fieramente anch'essa risentì la medesima sciagura. Se crediamo alla Cronica Alessandrina [Chronic. Alexandrinum.], Costanzo Augusto cominciò in quest'anno la fabbrica delle sue terme in Costantinopoli; ma intorno a ciò è da vedere il Du-Cange [Du-Cange, Hist. Byz.], che rapporta altre notizie spettanti a quell'insigne edifizio.
Anno di | Cristo CCCXLVI. Indizione IV. |
Giulio papa 10. | |
Costanzo e | |
Costante imperadori 10. |
Consoli
Flavio Giulio Costanzo Augusto per la quarta volta e Flavio Giulio Costante Augusto per la terza.
Perchè non si dovettero speditamente accordare i due Augusti intorno al prendere insieme il consolato, o pure a notificarlo, noi troviamo che nel Catalogo del Bucherio e in un concilio di Colonia per li primi mesi dell'anno presente non si contavano i consoli nuovi; perciò l'anno veniva indicato colla formola di dopo il consolato di Amanzio ed Albino. Nella prefettura di Roma stette [19] Probino sino al dì 26 di dicembre dell'anno presente [Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.], ed allora in quella carica succedette Placido. Noi ricaviamo dalle leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.] spettanti a quest'anno che Costante Augusto era in Cesena nel dì 23 di maggio, e in Milano nel dì 21 di giugno. Dall'Italia dovette egli passare in Macedonia, perchè abbiamo una legge di lui data in Tessalonica nel dì 6 di dicembre. Per conto dell'Augusto Costanzo, egli non altrove comparisce che in Costantinopoli, dove confermò o pur concedette molte esenzioni agli ecclesiastici. All'anno presente riferisce san Girolamo [Hieron., in Chron.] la fabbrica del porto di Seleucia, città famosa della Soria, poche miglia distante da Antiochia, capitale dell'Oriente. Anche Giuliano [Julian., Orat. I.] e Libanio [Liban., Orat. III.] parlano di questa impresa, che riuscì d'incredibile spesa al pubblico, perchè per formare quel porto non già alla sboccatura del fiume Oronte, come talun suppone, ma bensì alla stessa Seleucia, convenne tagliar molti scogli e un pezzo di montagna, che impedivano l'accesso alle navi, e rendevano pericolosa e poco utile una specie di porto che quivi anche antecedentemente era. Perchè la corte dell'imperador Costanzo per lo più soggiornava in Antiochia, di incredibil comodo e ricchezza riuscì dipoi a quella città il vicino porto di Seleucia. Teofane [Theophanes, Chronogr.] aggiugne che Costanzo con altre fabbriche ampliò ed adornò la stessa città di Seleucia; ed inoltre abbellì la città di Antarado nella Fenicia, la quale prese allora il nome di Costanza. Mentre poi esso Augusto Costanzo impiegava in questa maniera i suoi pensieri e i tesori, cavati dalle viscere dei sudditi, dietro alle fabbriche, il re di Persia Sapore non lasciava in ozio la forza delle sue armi; e però, secondochè scrive il suddetto Teofane, nell'anno [20] presente si portò per la seconda volta all'assedio della città di Nisibi nella Mesopotamia. Vi stette sotto settantotto giorni, e, non ostante tutti i suoi sforzi, fu in fine obbligato a vergognosamente levare il campo e ritirarsi. Nella Cronica di san Girolamo un tale assedio vien riferito all'anno seguente. Ma cotanto hanno gli antichi moltiplicato il numero degli assedii di Nisibi con discordia fra loro, che non si sa che credere. Verisimilmente un solo assedio fin qui fu fatto, cioè se sussiste il già accennato all'anno 338, un altro non sarà da aggiugnere all'anno presente. Parleremo, andando innanzi, d'altri assedii di quella città. Pare che in quest'anno accadesse una sedizione in Costantinopoli, per cui quel governatore Alessandro restò ferito, e se ne fuggì ad Eraclea. Tornossene ben egli fra poco al suo impiego, ma poco stette ad esser deposto da Costanzo, con succedergli in quel governo Limenio. Libanio [Liban., in ejus vita.] quegli è che ci ha conservata questa notizia, e che sparla forte d'esso Limenio, perchè il buon sofista fu cacciato da Costantinopoli d'ordine suo.
Anno di | Cristo CCCXLVII. Indizione V. |
Giulio papa 11. | |
Costanzo e | |
Costante imperadori 11. |
Consoli
Rufino ed Eusebio.
Abbiamo dal Catalogo di Cuspiniano, ossia del Bucherio, che nel dì 12 di giugno dell'anno presente Placido lasciò la prefettura di Roma, e in suo luogo subentrò Ulpio Limenio, il quale nello stesso tempo esercitava la carica di prefetto del pretorio nell'Italia. Più che mai truovandosi sconcertata la Chiesa di Dio in Oriente per la prepotenza degli ariani, a' quali l'ingannato Costanzo Augusto prestava ogni possibil favore, e vedendosi di qua e di là comparire in Italia i vescovi banditi, per implorar soccorso [21] dal romano pontefice Giulio e dal cattolico imperador Costante: finalmente in quest'anno si sperò il rimedio a tanti disordini. Non meno il pontefice che Costante picchiarono tanto, che l'Augusto Costanzo acconsentì che si tenesse un solenne concilio [Labbe, Collection Concilior.] di vescovi, al giudizio e parere de' quali fosse rimessa la cura di queste piaghe. Ottenne Costante che fosse eletta per luogo del concilio Serdica, chiamata anche Sardica, città di sua giurisdizione, e non già, come pensò il cardinal Baronio [Baron., in Annalib. Eccl.], di quella di Costanzo, perchè capitale della Dacia novella, la quale nelle divisioni era toccata a Costante. Quivi dunque fu celebrato un riguardevolissimo concilio, dove tanto pel dogma cattolico, quanto per la disciplina ecclesiastica, furono fatti bei regolamenti, e fra le altre cose confermato il gius delle appellazioni alla sede apostolica, e proferita sentenza in favore di santo Atanasio e d'altri vescovi cattolici; ma con poco frutto, perchè Costanzo, ammaliato dagli ariani, in breve guastò tutto, e più che mai continuarono le divisioni e gli sconcerti. Due sole leggi spettanti ad esso Costanzo cel fanno vedere nel marzo in Ancira di Galazia, e nel maggio in Jerapoli della Soria. Di Costante Augusto nulla si sa sotto l'anno presente, se non che probabilmente egli dimorò nelle Gallie, dove santo Atanasio fu a ritrovarlo, prima di passare al concilio di Serdica.
Anno di | Cristo CCCXLVIII. Indizione VI. |
Giulio papa 12. | |
Costanzo e | |
Costante imperadori 12. |
Consoli
Flavio Filippo e Flavio Salio o Salia.
Perchè s'era introdotto il costume che cadauno de' due Augusti eleggesse il suo console, si può perciò conghietturare che questo Filippo console orientale [22] fosse quel medesimo che nel Codice Teodosiano e in altri monumenti delle antichità si truova prefetto del pretorio d'Oriente, uomo crudele e partigiano spasimato degli ariani, come s'ha da san Girolamo [Hieron., in Chronico.]: del che ricevette egli il gastigo da Dio anche nella vita presente, siccome vedremo. Era quest'anno il millesimo centesimo dalla fondazione di Roma, e s'aspettavano i Romani quelle feste che in altri tempi furono fatte dal paganesimo per celebrare un tal anno. Niuna cura di ciò si prese il cristianissimo Costante Augusto, nemico delle superstizioni: del che si duole Aurelio Vittore [Aurel. Vict., de Caesarib.], con farci anche conoscere che il millesimo di Roma era stato nell'anno di Cristo 248 solennizzato sotto Filippo Augusto. Per lo contrario, esso imperadore, veggendo che non venivano ristabiliti nelle lor chiese santo Atanasio e gli altri vescovi cattolici, dichiarati innocenti nel concilio di Serdica [Theodoretus, Hist., lib. 1, cap. 28. Socrat., Histor., lib. 2, cap. 21.], prese talmente a cuore gl'interessi della Chiesa cattolica, che risentitamente sopra ciò scrisse al fratello Costanzo, con giugnere a minacciare di romperla con lui per questo. Un linguaggio sì fatto mise il cervello a partito a Costanzo, il quale perciò parte nel presente e parte nel seguente anno consentì al ritorno di que' vescovi alle lor chiese. Per quanto si può ricavare da santo Atanasio [Athan., in Apolog.], esso imperadore Costante venne a Milano nell'anno corrente, e l'Augusto Costanzo fu in Edessa di Mesopotamia. San Girolamo [Hieron., in Chron.] e Idazio [Idacius, in Fastis.] riferiscono sotto quest'anno la battaglia formidabile succeduta fra i Romani e Persiani presso Singara nella suddetta Mesopotamia. Ma il Gotofredo e i padri Arduino e Pagi han creduto che questa appartenga piuttosto all'anno 345, perchè Giuliano [23] Apostata [Julian., Orat. I.] lasciò scritto che sei anni dopo d'essa battaglia saltò su il tiranno Magnenzio; e questi senza fallo cominciò le sue scene nell'anno 350. All'incontro il Petavio, Arrigo Valesio e il Tillemont, appoggiati al testo espresso de' suddetti due storici, han rapportato quell'avvenimento all'anno presente, e creduto qualche fallo nel testo dell'orazion di Giuliano. A me ancora sembra più verisimile l'ultima opinione, perchè Libanio [Liban., Orat. III.] ne parlò in maniera circa l'anno 349, che fece intendere quel combattimento come azione accaduta di fresco, e non già alcuni anni prima, e combattimento ultimo, che ne suppone degli altri antecedenti. Lo stesso Gotofredo [Gothofr., Chron. Cod. Theodos.] riconobbe per recitata nell'anno 349 quella orazione di Libanio in lode dei due Augusti Costanzo e Costante, di modo che nel testo di Giuliano si può credere scappato per negligenza de' copisti un sexto in vece di tertio.
Il fatto, in poche parole, fu così. Dopo il secondo assedio di Nisibi dovette seguir qualche tregua fra i Romani e i Persiani; ma gli ultimi, poco curanti delle promesse e de' giuramenti [Liban., Orat. III.], si andarono disponendo per far nuovi sforzi, e questi divamparono dipoi in questo anno. O sia che Costanzo non volesse o pure che non potesse impedire i passi di così possente armata, col mezzo di tre ponti gittati sul fiume Tigri entrarono i Persiani nella Mesopotamia, e vennero sino ad un luogo vicino a Singara, città di quelle contrade, nel bollore della state. V'era in persona lo stesso re Sapore. Costanzo, a cui non erano ignoti i preparamenti de' nemici, s'affrettò anche egli ad unir gente da tutte le parti, ed essendo poi marciato con tutto il suo sforzo contra d'essi, andò ad accamparsi poche miglia lungi da loro. Stettero le due armate per qualche tempo senza far [24] nulla, quando i Romani impazientatisi un giorno, dopo essere stati in ordinanza di battaglia fin passato il mezzodì, si mossero, senza poter essere ritenuti da Costanzo Augusto, per assalire il campo nemico. Contuttochè fosse già sera, cominciarono inferociti il combattimento, nè la notte potè ritenerli dal menare le mani. Ruppero le prime schiere nemiche; forzarono ancora alcuni loro trincieramenti con molta strage d'essi Persiani; fecero gran bottino; ed ebbero fin prigione il principe primogenito del re Sapore, che fu poi barbaramente ucciso, se pure, come vuol Rufo Festo [Rufus Festus, in Breviar.], egli non lasciò la vita nel bollore della battaglia. Era la notte, tempo poco proprio per combattere, e però Costanzo a furia chiamava alla ritirata le sue genti; ma ebbe un bel dire, un bel gridare. Perchè verisimilmente i suoi sapevano che più innanzi si trovava qualche fiumicello o canale vegnente dal Tigri, siccome morti dalla sete, seguitarono i fuggitivi Persiani, ed arrivati all'acqua, ad altro non attesero che ad abbeverarsi. Allora gli arcieri persiani postati in quel sito un tal nembo di saette scaricarono contro degli affollati Romani, che molti vi perirono, e chi potè, ben in fretta se ne tornò indietro. Aveano questi ultimi, per attestato di Festo [Idem, ibidem.], accese varie fiaccole che servirono mirabilmente ai nemici per meglio bersagliargli. Giuliano, avendo preso in quella orazione [Julian., Orat. I.] a tessere le lodi dell'Augusto Costanzo, non parla che di pochi Romani restati in quel conflitto. Libanio [Liban., Orat. III.] slarga un po' più la bocca. Per lo contrario, Ammiano Marcellino [Ammianus, lib. 18, cap. 5.], anch'egli vivente allora, e che volea poco bene a Costanzo, scrive che grande strage fu ivi fatta delle soldatesche romane: il che si può anche dedurre da Rufo Festo. Altro non dice [25] Eutropio [Eutrop., in Brev.], se non che i Romani per loro caparbietà si lasciarono togliere di mano una sicura vittoria; e le di lui parole furono copiate da san Girolamo [Hieron., in Chron.]. Tutti poi gli storici van d'accordo in dire che il re Sapore prese la fuga; nè mai si credette in salvo, finchè non ebbe passato il fiume Tigri. Giuliano pretende che anche prima della zuffa quel valoroso re, al solo mirar da lungi la poderosa armata de' Romani, battesse la ritirata, e lasciasse il comando al figliuolo, che poi miseramente morì. Del pari è certo che non tardarono i Persiani a levar il campo nel giorno seguente, e a ritirarsi precipitosamente di là dal Tigri, con rompere tosto i ponti per paura di essere inseguiti dai creduti vincitori Romani. Sicchè, se essi Romani non poterono cantar la vittoria, nè pure i loro nemici ebbero campo di attribuirla a sè stessi. E san Girolamo nota che di nove battaglie succedute durante la guerra suddetta coi Persiani, questa fu la più riguardevole e sanguinosa; ed essa almen per allora fece svanire i boriosi disegni del re nemico, il quale, senza aver presa città o fortezza alcuna, malconcio si ridusse al suo paese.
Anno di | Cristo CCCXLIX. Indizione VII. |
Giulio papa 13. | |
Costanzo e | |
Costante imperadori 13. |
Consoli
Ulpio Limenio e Acone ossia Aconio Catulino Filomazio o Filoniano.
Dal Catalogo de' prefetti di Roma, pubblicato dal Cuspiniano e dal Bucherio [Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.], abbiamo che il console Limenio seguitò ad essere prefetto di Roma e prefetto del pretorio sino al dì 8 di aprile. Restarono vacanti queste due dignità, senza che se ne sappia il perchè, sino al dì 18 di maggio, in cui tutte e due [26] furono conferite ad Ermogene. Dall'Apologia di sant'Atanasio [Athan., in Apolog.] si può ricavare che Costante Augusto ne' primi mesi di quest'anno soggiornasse nelle Gallie; perchè il santo vescovo, chiamato da lui, si portò colà prima di passare ad Alessandria, giacchè finalmente di consenso dell'imperadore Costanzo egli ricuperò in quest'anno la sedia sua. Truovasi poi Costante in Sirmio della Pannonia nel dì 27 di maggio, ciò apparendo da una sua legge. Libanio [Liban., Orat. III.] anche egli attesta che questo principe nell'anno presente visitò le città d'essa Pannonia. Quanto all'Augusto Costanzo, apprendiamo dalle leggi del Codice Teodosiano ch'egli nel principio d'aprile soggiornava in Antiochia, e da Emesa scrisse a sant'Atanasio per sollecitarlo a tornarsene in Oriente. Alcune leggi da lui date in quest'anno ci fan conoscere la premura di lui per reclutar le milizie sue, e per ben disciplinarle. Imperciocchè i Persiani, con tutte le percosse patite nell'anno precedente, non rallentavano punto le disposizioni per seguitar le guerra, divenuta oramai una perniciosa cancrena de' Romani in quelle parti; imperciocchè anno non passò, durante il regno di Costanzo, in cui egli fosse esente dalle minaccie ed incursioni di quella nemica e potente nazione, ora con vantaggio, ed ora con isvantaggio delle sue genti. Intorno a che convien osservare due diverse figure che fecero i due pagani Giuliano Apostata [Julian., Orat. I et II.] e Libanio [Liban., Orat. III.]. Finchè visse Costanzo, l'eloquenza loro trovò dei luoghi topici per esaltare il di lui valore e la sua condotta in fare e sostenere quella guerra. Ma da che egli compiè la carriera de' suoi giorni, amendue se ne fecero beffe, e formarono di lui un ben diverso ritratto. All'udir questi due adulatori, Costanzo più volte gittò dei ponti sul fiume Tigri, [27] e passò anche sulle terre nemiche, tal terrore spargendo ne' Persiani, che non osavano di lasciarsi vedere per difendersi dai saccheggi. Passava egli il verno in Antiochia, e nella state era in campagna contro i nemici, i quali si stimavano felici se potevano fuggire e nascondersi dal valore di questo augusto eroe. Che se riuscì talvolta a coloro di riportar qualche vantaggio sopra i Romani, fu solamente per mezzo d'imboscate, e col mancare alle tregue. Passato poi all'altra vita esso Costanzo, mutò linguaggio il sofista Libanio, con dire che a lui non mancavano già buone milizie per vincere i Persiani, ma bensì un cuore di principe e una testa di capitano. Alla primavera comparivano i nemici per assediar qualche fortezza, e Costanzo aspettava la state per uscire in campagna; ed usciva, non già per andar contra di loro con tutto il suo magnifico apparato, ma per fuggir con diligenza, informandosi studiosamente a tal fine de' lor movimenti per ischivarli; di maniera che terminava ordinariamente la campagna in tornarsene i Persiani alle lor case pieni di spoglie dei miseri abitanti della Mesopotamia: dopo di che Costanzo si lasciava vedere per le città e luoghi saccheggiati, quasichè la venuta sua avesse messo lo spavento in cuore ai nemici, e fattili ritirare. In somma ci rappresentano Costanzo per un vile coniglio; e pur troppo, se si ha da parlare schietto, contuttochè, siccome abbiam veduto, san Girolamo [Hieron., in Chron.] parli di nove combattimenti seguiti in tutto il corso di questa guerra fra i Romani e i Persiani; pure ogni storico [Ammianus. Socrates. Festus. Eutropius et alii.] in fine confessa che l'armi di Costanzo non cantarono mai vittoria alcuna, anzi ebbero sempre delle busse; e che i Persiani presero e saccheggiarono or questa, or quella città, fecero gran copia di prigioni; e quantunque d'essi ancora fosse talvolta fatta strage, secondo le vicende giornaliere [28] della guerra, pure senza paragone fu il danno patito dalle armate e terre romane. Ed ecco in succinto un'idea della lunghissima guerra di Costanzo coi Persiani, guerra infelice per lui, perchè principe sprovveduto di coraggio e saper militare, e perchè egli aveva ancora dei non lievi peccati che meritavano poco l'assistenza di Dio per felicitarlo in questa vita. Abbiamo da Teofane [Theophan., in Chronogr.] che un fiero tremuoto diroccò in quest'anno la maggior parte della città di Berito nella Fenicia, il che fu cagione che molti di que' pagani ricorressero alla chiesa e chiedessero il battesimo. Ma costoro dipoi, separatisi dai cristiani, fecero una assemblea, dove praticavano le cerimonie imparate da essi, vivendo nel rimanente da pagani.
Anno di | Cristo CCCL. Indizione VIII. |
Giulio papa 14. | |
Costanzo imperadore 14. |
Consoli
Sergio e Nigriniano.
Ad Ermogene nella prefettura di Roma succedette nel dì 27 di febbraio [Bucher., in Catalogo.] Tiberio Fabio Tiziano. Funestissimi furono gli avvenimenti e le rivoluzioni di quest'anno specialmente per la sventurata morte di Costanzo Augusto. Truovavasi egli nelle Gallie, e perchè regnava la pace fra tutti i popoli, il familiare suo divertimento consisteva nella caccia, dietro alla quale era perduto: il che dicono alcuni fatto per tenersi con questo esercizio sempre disposto per le occorrenze e fatiche della guerra. Non badò egli che nel suo stesso seno nudriva de' più fieri nemici. Magno Magnenzio (così il miriamo nominato nei marmi e nelle medaglie), capitano allora di una o due compagnie delle guardie, prevalendosi della disattenzione del principe, quegli fu [Idacius, in Fast. Zosimus, lib. 2, cap. 42. Zonar., in Eutrop. Aurelius Victor. Socrat. et alii.] [29] che nella città di Autun tramò una congiura contra la vita di lui, con tirar nel suo partito Marcellino, presidente della camera angustale, Cresto ed altri uffiziali della milizia. Venuto il dì destinato a fare scoppiar la mina, cioè il dì 18 di gennaio, come s'ha da Idazio e dalla Cronica Alessandrina, Marcellino (se pur non fu lo stesso Magnenzio), col pretesto di solennizzare il giorno natalizio di un suo figliuolo, invitò l'uffizialità ad un lauto convito, e massimamente Magnenzio. Dopo aver costoro ben rallegrato il cuore, e fatto durare il banchetto sino ad una parte della notte, Magnenzio alzatosi, e ritiratosi in una camera, quivi si vestì della porpora imperiale, e poi tornò a farsi vedere in quell'abito ai convitati. Una parte d'essi già congiurata l'acclamò Augusto; gli altri per le parole e promesse dell'usurpatore si lasciarono anche essi condurre a riconoscerlo tale. Presa poi la cassa del principe, coll'impiego di quel danaro seppe Magnenzio guadagnar le milizie quivi acquartierate e il popolo di Autun, e qualche cavalleria venuta di fresco dall'Illirico. Proclamato che fu imperadore l'indegno Magnenzio, non differì punto d'inviar gente per levar la vita all'Augusto Costante, con far anche tener serrate le porte della città, affinchè niuno uscendo gli recasse l'avviso della nata ribellione, e lasciando solamente l'adito a chi voleva entrarvi. Secondo Zonara, fu ucciso il misero Costante verso il fiume Rodano, dove, ritrovato a dormire stanco per le fatiche della caccia, da questo passò ad un più lungo sonno. Ma convengono i più antichi storici [Zosimus. Idacius. Hieron. Aurel. Victor.] in dire ch'egli, non ostante la precauzion presa dal tiranno, fu immediatamente avvertito della succeduta novità; e però, deposti gli abiti e le insegne imperiali, fuggì con isperanza di salvarsi in Ispagna. Ma avendogli tenuto dietro Gaisone con alquanti cavalieri scelti per ordine di Magnenzio, il raggiunse ad Elena, castello [30] vicino ai monti Pirenei, a cui Costantino il Grande suo padre avea dato questo nome in onor della madre, e quivi il trucidò. Presero di qui motivo alcuni d'inventar una favola, narrata poi da Zonara [Zonaras, in Annal.] come una verità, cioè che dagli strologhi fu predetto a Costantino suo padre che questo figliuolo morrebbe in seno dell'avola, cioè di sant'Elena. Morta ella prima di Costante, fu derisa la predizione suddetta, che poi in altra maniera si verificò, con essere egli stato svenato nel suddetto castello in età di soli trent'anni.
Come è il costume, dopo la morte di questo sventurato principe, chi ne fece elogi, e chi mille iniquità raccontò o, per dir meglio, inventò della sua persona. Si può ben credere che i partigiani di Magnenzio non lasciarono via alcuna per iscreditar lui, e nello stesso tempo scusare, se era possibile, la rivolta detestabile del tiranno. E perchè egli fu principe zelante della religione cristiana, non è da stupire se gli scrittori pagani [Athanasius, in Apolog. Optatus, lib. 3.], cioè Eutropio, Aurelio Vittore e il velenoso Zosimo, l'infamarono a tutto potere, attribuendogli gran copia di vizii. E Zonara poi, prestando fede a Zosimo, denigrò anch'egli non poco la di lui memoria. Sopra gli altri esso Zosimo il descrive per un cane verso de' suoi sudditi, trattandoli con inaudita crudeltà, ed aggravandoli con eccessive imposte, e tenendo al suo servigio dei Barbari, ai quali permetteva l'usare ogni sorta di violenza. Il tacciano ancora d'una sfrenata libidine, e fin della più abbominevole, di una sordida avarizia, e di avere sprezzato le persone militari. Sopra tutto dicono ch'egli sommamente pregiudicò a sè stesso colla cattiva scelta dei governatori delle provincie, vendendo le cariche, e che specialmente i perversi suoi ministri gli tirarono addosso l'odio di ognuno; di modo che divenne insopportabile il suo governo. Può darsi che [31] parte di tanti vizii non fosse sognata, ma più verisimilmente ancora si dee credere che con alcune verità sieno mescolate molte calunnie. Certamente gli autori cristiani [Victor, in Epitome. Victor, de Caesarib. Eutrop., in Breviar.] parlano con lode di questo principe, gran difensore della religione cattolica contro gli ariani e donatisti, propagatore del Cristianesimo, e che non cessava di esercitar la sua liberalità verso i sacri templi. Confessano gli stessi pagani [Aurelius Victor. Eutropius.] che gran pruove diede egli del suo valore in varie congiunture, e che era assai temuto dai popoli della Germania. Libanio [Liban., Orat. III.] poi, nell'orazione recitata nell'anno precedente, di lui vivente fa un bell'elogio, rappresentandolo come principe attivo, vigilante, sobrio, e nemico, non solamente degli eccessi del vino e delle femmine, ma anche dei teatri e d'altri simili divertimenti. Pare, in somma, che buona parte de' disordini nascesse non da lui, perchè la poca sanità sua, per essere gottoso di mani e di piedi, non gli permetteva di far molto, ma bensì da' suoi cattivi ministri. Comunque sia, non dovettero mancar dei reati di Costante nel tribunale di Dio; e grande soprattutto ne sarebbe stato uno, se fosse vero, cioè che ingiustamente e a tradimento egli avesse procurata la morte del suo maggior fratello Costantino: del che parlammo di sopra. Non si sa ch'egli lasciasse dopo di sè figliuoli. E nè pur ebbe moglie. Avea ben egli contratti gli sponsali con Olimpiade figliuola di Ablavio, primo ministro di suo padre, ma di tenera età, e per la di lui morte violenta non si effettuarono le nozze. Questa giovinetta fu poi data da Costanzo in moglie ad Arsace re dell'Armenia, che se ne compiacque assaissimo, come di un insigne favore, siccome attesta Ammiano [Ammianus Marcellinus, lib. 20, cap. 11.]. Ma a sant'Atanasio [Athanasius, in Epistol. ad Solitar.] parve uno strano [32] mancamento di rispetto al fratello l'aver Costanzo Augusto maritata con un Barbaro chi era stata considerata qual moglie dell'imperador Costante.
Restò dunque l'usurpatore Magnenzio padrone delle Gallie, alle quali tennero dietro le Spagne e la Bretagna; ed essendosi egli affrettato a spedir truppe, regali e larghe promesse in Italia [Julian., Orat. I. Zosimus, lib. 2, cap. 43.], trasse ancor queste provincie colla Sicilia e coll'altre isole, ed anche l'Africa alla sua divozione. Ch'egli, dopo aver ucciso Costante, scrivesse a nome di lui varie lettere agli uffiziali lontani, che o per lo merito loro, o per l'amore a Costanzo potessero disapprovar l'assunzione suo al trono, e che per istrada li facesse uccidere, lo scrive Zonara [Zonar., in Annal.], ma con poca verisimiglianza. Certo è bensì che Magnenzio, considerando il bisogno ch'egli aveva di buone braccia per sostenersi nell'usurpata signoria, conferì dipoi, cioè nell'anno seguente, il titolo di Cesare a Decenzio, che, secondo il giovane Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], era suo parente, o pure suo fratello, come vuol l'altro Vittore [Idem, de Caesarib.] ed Eutropio [Eutrop., in Breviar.]. Questi si trova nelle monete [Mediobarbus, Numismat. Imper.] appellato Magno Decenzio. Similmente diede dipoi il nome di Cesare a Desiderio suo fratello, di cui si trova ancora qualche medaglia, se di legittimo conio, non so. Era Magnenzio [Julian., Orat. I.] originario dalla Germania, nato da Magno, uno forse di coloro che furono trasportati da' paesi germanici ad abitar nelle Gallie. Però Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesarib.] il fa nato nelle medesime Gallie. Ma Giuliano Apostata chiaramente scrive che costui fu condotto prigioniero dalla Germania nelle Gallie a' tempi di Costantino il Grande, ed, ottenuta la libertà, si diede alla milizia, dove fece di [33] molte prodezze. Alto di statura, robusto di corpo, avea studiato lettere, e si dilettava molto di leggere, nè gli mancava eloquenza e forza nel discorso. Secondo Zonara [Zonaras, in Annal.], egli comandava allora ad alcune milizie appellate Gioviane ed Erculie, che si suppongono guardie del corpo formate da Diocleziano e Massimiano Augusti. Filostorgio [Philostorgius, lib. 3, cap. 26.] pretende ch'egli fosse pagano; ma le medaglie cel rappresentano cristiano, forse di solo nome, e di coloro, senza fallo, ne' quali l'ambizione sconciamente prevale alla religione. Chiunque degli antichi [Julian. Libanius. Zosimus et alii.] parla de' costumi di lui, cel dipinge per uomo d'insopportabil avarizia e crudeltà, e che tutte le sue azioni spiravano quella barbarie e salvatichezza ch'egli portò dalla nascita. Fiero nelle prosperità, timido e vile nelle avversità, dotato nondimeno [Aurelius Victor, in Epitome.] di tale accortezza, che sapea comparire un bravo allorchè più tremava. Sant'Atanasio [Athanasius, in Apolog.], il quale, per esperienza, sapeva qual fosse il merito di costui, non ebbe difficoltà di scrivere che egli era un empio verso Dio, spergiuro, infedele agli amici, amico degli stregoni ed incantatori, e finalmente una bestia crudele, un diavolo. Non indegno certamente di questi titoli comparve chi contra tutte le leggi della religione e della natura aveva assassinato il proprio principe, e toltogli imperio e vita. Dovette ben tentare Magnenzio ancora di stendere le griffe alle provincie dell'Illirico, anch'esse in addietro sottoposte al dominio dell'ucciso Costante; ma gli andò fallito il colpo.
Trovavasi nella Pannonia generale della fanteria Vetranione [Chron. Alexandrinum.], uomo originario della Mesia superiore, invecchiato nel mestier della guerra, cristiano di professione, come eziandio si deduce dalle [34] medaglie [Mediobarbus, Numismat. Imper.]. All'udire Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesarib.], questi era persona di brutal barbarie, corrispondente alla vil sua nascita, che nè pur sapea leggere, che pareva uno stolido, ed era in fine un pessimo uomo. Ben diversamente parla di lui Giuliano l'Apostata [Julian., Orat. I.], mostrando stima delle di lui qualità; ed Eutropio [Eutrop., in Breviar.] ne fa un elogio, con descriverlo vecchio, fortunato nell'armi, che si faceva amare da tutti per la sua civiltà ed umore allegro, per la sua probità e pel suo vivere all'antica, ancorchè nulla avesse studiato, e cominciasse solamente in questi tempi ad imparar di leggere e scrivere. Vetranione adunque, intesa ch'ebbe la morte dell'Augusto Costante, e trovata sì bella occasione, si fece acclamare Augusto dalla sua armata, ed occupò tutte le dipendenze dell'Illirico, cioè la Pannonia, le Mesie, la Grecia, la Macedonia ed ogni altra parte di quelle contrade; e ciò nel primo giorno di marzo, come s'ha dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alexandrinum.], e non già di maggio, come per errore si legge nel testo d'Idazio [Idacius, in Fastis.]. Se abbiamo qui a prestar fede a Filostorgio [Philostorg., Histor., lib. 3, cap. 22.]; non di suo capriccio Vetranione prese la porpora, ma per consiglio di Costantina Augusta, sorella di Costanzo Augusto e vedova di Annibaliano, già re del Ponto, la quale, temendo che Magnenzio non s'impadronisse anche dell'Illirico, con questo ripiego volle parare il colpo. Aggiugne quello storico che si andò ancora di concerto con esso Costanzo, e che egli mandò il diadema a Vetranione. Teofane [Theophan., in Chronogr.] del pari lasciò scritta la risoluzion suddetta di Costantina, per opporre questo Augusto, creatura sua, al tiranno Magnenzio; e lo stesso vien accennato [35] da Giuliano [Julian., Orat. I.]. Scrive inoltre Zonara [Zonaras, in Annalibus.] che Vetranione mandò a chiedere soccorso di gente e danaro a Costanzo, da cui, per testimonianza di Giuliano, venne fornito di tutto, giacchè Vetranione protestava di voler tenere esso Costanzo per suo imperadore, con far egli non altra figura che quella di suo luogotenente. Dal che veniamo ad intendere, perchè, avendo anche Magnenzio inviato a lui dei deputati per tirarlo nel suo partito, tuttavia Vetranione preferì sempre l'alleanza di Costanzo, e si dichiarò contra del tiranno Magnenzio.
Vegniamo alla terza scena. Avea ben Roma accettato per suo signore il suddetto Magnenzio; ma Flavio Popilio Nepoziano, già stato console nell'anno 336, per essere figliuolo d'Eutropia sorella del gran Costantino, trovò d'avere dal canto suo più diritto al dominio di Roma, che il barbaro traditore Magnenzio; e però [Zosimus, lib. 2, cap. 43. Idacius. Aurel. Victor. Eutrop.], unita una gran frotta di giovani scapestrati, ladri e gladiatori, e presa la porpora nel dì 3 di giugno, venne alla volta di Roma. Uscito con sue genti contra di lui Aniceto, o sia Anicio, prefetto del pretorio di Magnenzio, tardò poco a tornarsene indietro sconfitto, e fece serrar le porte di Roma. Per forza, al dire d'Aurelio Vittore, Nepoziano v'entrò dipoi, e gran sangue sparse, verisimilmente di chi sosteneva la fazion di Magnenzio. Ma che? non passò un mese, che quel Marcellino, da cui si può dire che Magnenzio avea in certa guisa ricevuto l'imperio, e che era divenuto sopraintendente a tutta la di lui corte, spedito con grandi forze da esso Magnenzio, venne ad affrontarsi coi Romani [Idacius, in Fastis.]. Abbiamo da san Girolamo [Hieronymus, in Chronico.], che per tradimento di un Eraclida senatore rimasero sconfitti i Romani, ed ucciso Nepoziano, la cui testa sopra una picca [36] fu dipoi portata per Roma. A questa vittoria tenne dietro un gran macello di chiunque s'era dichiarato parziale di Nepoziano. Sfogò Marcellino inoltre la rabbia sua contra di qualunque persona che avesse attinenza per via di donne alla famiglia imperiale, e vi perì fra l'altre la stessa Eutropia madre di Nepoziano e zia dell'Augusto Costanzo. Anche Temistio fa menzione [Temisthius, Orat. III.] delle crudeltà usate da Magnenzio contra del senato e popolo di Roma; queste nondimeno si veggono attribuite da Giuliano [Julian., Orat. II.] ai ministri di lui, cioè, per quanto si può credere, al suddetto Marcellino. Santo Atanasio [Athan., in Apolog.] parla anch'egli di tali carnificine, siccome altresì nella sua Storia Socrate [Socrat., lib. 1, cap. 32.], con asserire che molti senatori vi perderono la vita, e con supporre che Magnenzio in persona venisse a Roma: del che non resta alcun altro segnale nelle antiche storie. Abbiamo bensì da Giuliano [Julian., Orat. I.] ch'egli fece morir molti uffiziali della propria armata, ed obbligò con un eccesso di tirannia i popoli a pagare al suo fisco la metà dei lor beni sotto pena della vita (il che se non s'intende della metà delle rendite, io non so credere vero e nè pur possibile). Diede anche licenza agli schiavi di denunciare i lor padroni, e sforzò altri a comperar le terre del principato, con altre iniquità che non sono espressamente dichiarate dagli scrittori d'allora. E tutto per ammassar danaro e milizie, sotto pretesto di voler muover guerra ai Barbari, ma in effetto per farla contra di Costanzo.
Mentre in queste rivoluzioni di cose si trovava involto l'Occidente, non era meno in tempesta l'Oriente. Imperocchè in quest'anno, di nuovo ritornò Sapore re della Persia [Idacius, in Fastis. Socrates, Histor. Eccl., lib. 2, cap. 26. Chron. Alexandrinum. Zonaras, in Annalib. Julian., Orat. II.] ad assediar Nisibi [37] nella Mesopotamia, dopo aver dato un gran guasto a que' paesi e presi ancora varii castelli. Non oso io decidere se questo sia il secondo o pure il terzo assedio di quella città, come fu d'avviso il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.]; il quale scrive che Lucilliano, suocero di Gioviano, che fu poi imperadore, era comandante allora di Nisibi, e fece una maravigliosa difesa. Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 8.], parlando d'esso Lucilliano, e della sua bravura in difendere quella città, chiaramente riferisce quell'assedio, non al presente anno, ma bensì all'anno 360, siccome allora vedremo. Può essere che Zosimo s'ingannasse scambiando i tempi, come il Petavio avvertì [Petav., in Notis ad Julianum.]. Quanto al presente, l'abbiamo descritto da Giuliano [Julian., Orat. II.], da Teodoreto [Theodoret., Histor., lib. 2, cap. 26. Chron. Alexandrinum.], da Zonara [Zonaras, in Annalib.] e da altri, i quali ci fan vedere i mirabili sforzi de' Persiani per espugnar quella fortezza. Giacchè a nulla servivano gli assalti, gli arieti e le mine, ricorse Sapore al ripiego di levar l'acqua ai cittadini, con voltare altrove il fiume Migdonio che passava per mezzo alla città. Ma pozzi e fontane non mancarono al bisogno di quegli abitanti. Quindi si studiò Sapore d'inondar con quel fiume la città; ma essendo alto il piano d'essa, altro non fecero le acque che allagarla d'intorno. Se con delle macchine poste sopra navi fu fatta guerra alle mura, vi si trovarono anche valorosi difensori che vano renderono ogni sforzo nemico. L'ultima e più formidabile pruova per vincere l'ostinata città, fu quella di trattener l'acque del fiume alla maggior possibile altezza, e poi di lasciarle precipitar addosso alle mura. In fatti ne restò abbattuta una parte, ed allora i Persiani alzarono un grido, come se già si vedessero padroni di Nisibi. Ma affacciatisi [38] dipoi alla breccia per entrarvi, vi trovarono una resistenza sì forte, che furono obbligati a ritirarsi, avendo anche il cielo combattuto con pioggia e fulmini in favore de' difensori. Concordano gli storici cristiani che l'assistenza e le preghiere del santo vescovo della città suddetta, Jacopo, quelle furono che ottennero da Dio la preservazione di Nisibi tanto ora, quanto ne' precedenti assedii, sicchè non cadesse in man dei Persiani. Rifecero i Nisibini un muro interiore, e contuttochè Sapore continuasse pertinacemente anche un mese l'assedio, pure altro non ne riportò che la perdita d'assaissime migliaia d'uomini e cavalli, e di moltissimi elefanti, per tal maniera che scornato dopo quattro mesi si vide sforzato a levar il campo, e a ritornarsene al suo paese, dove sfogò la sua rabbia contro molti de' suoi uffiziali, imputando a lor difetto l'infelice riuscita di quell'impresa, secondo l'uso dei tiranni d'Oriente, presso i quali ogni perdita si attribuisce a colpa de' generali, e si punisce la sfortuna come un grave delitto. Restò con ciò abbassata non poco la superbia e fierezza del re persiano, nel cui regno entrati intanto i Massageti, fecero vendetta anch'essi dei danni recati al paese cristiano.
Durante questo celebre assedio s'era trattenuto l'Augusto Costanzo in Edessa e in Antiochia senza osare di comparir in campo contra dell'innumerabil esercito de' Persiani; e poichè intese la loro ritirata, tutto lieto rivolse più che mai i pensieri agli affari dell'Occidente, non parendo probabile ch'egli partisse prima di quell'assedio dalla Soria, come ha l'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.]. Aveva egli in questo tempo raunata quanta gente atta all'armi egli potè raccogliere dai suoi Stati, ed allestita anche una formidabil flotta di navi, che dall'adulatore Giuliano [Julian., Orat. I.] vien chiamata superiore a quella di Serse. L'intenzione sua [39] era di procedere con tutto queste forze contra del tiranno Magnenzio; ed affinchè i nemici persiani non si prevalessero della sua lontananza, provvide tutte le fortezze di frontiera di buone guarnigioni, di macchine e di viveri; e poi si mosse dalla Soria alla volta di Costantinopoli. Aveva più d'una volta Magnenzio spediti suoi deputati ad esso Costanzo, per trattare un qualche accordo, affin di assicurare e legittimare l'usurpazion sua: e di ciò parla anche sant'Atanasio [Athanasius, Apolog.]. Ma Costanzo, che si credeva avere dalla sua Vetranione, divenuto imperadore dell'Illirico, e, per conseguente, giudicava il suo partito superiore di forze a quello del tiranno, niun ascolto avea dato finora a sì fatte proposizioni. Restò egli dipoi ben sorpreso o stordito, allorchè gli giunse l'avviso che Vetranione e Magnenzio aveano fatta pace fra loro. Più ancora crebbe l'apprensione e l'affanno suo, quando arrivò ad Eraclea della Tracia [Petrus Patricius, de Legat. Tom. I Histor. Byzant.], perchè ivi se gli presentarono gli ambasciadori di amendue, cioè Rufino prefetto del pretorio, Marcellino già da noi veduto il braccio diritto di Magnenzio, e general delle sue armi, insieme con due altri primarii uffiziali, cioè Nuneco e Massimo. Esposero costoro che Magnenzio e Vetranione erano pronti a riconoscere Costanzo per Augusto primario, purchè egli volesse lasciar loro godere il medesimo titolo, cercando di persuaderglielo con ricordare gl'incerti avvenimenti delle guerre. Magnenzio inoltre, per assodar meglio l'amicizia, proponeva di torre per moglie Costanza, o pur Costantina, sorella del medesimo Costanzo, esibendo nello stesso tempo a Costanzo una sua figliuola per moglie: segno che egli era vedovo allora. Trovossi ben imbrogliato Costanzo, nè sapea qual risoluzion prendere, se non che Zonara [Zonaras, in Annal.] scrive essergli apparuto in sogno Costantino [40] suo padre, che presentargli Costante, gli ordinò di vendicarne la morte, e gli promise la vittoria. Vera o falsa che sia tal diceria, certo è intanto che Costanzo rigettò ogni proposizion di Magnenzio; ma forse trattò più dolcemente con quei di Vetranione.
Quindi coraggiosamente marciò innanzi, ed arrivò sino a Serdica, capitale della Dacia novella [Julian., Orat. II.]. Turbossi veramente Vetranione all'improvvisa venuta di Costanzo: ma non lasciò di andare ad incontrarlo con un corpo vigoroso d'armata, maggiore ancora di quella di Costanzo: il che si crede che inducesse Costanzo a trattar amichevolmente con lui, e dopo avergli confermato il titolo d'Augusto, ed unite le sue colle di lui milizie, si diede a trattar seco delle maniere di opprimere Magnenzio. Un dì poi alla presenza di tutte le lor truppe salirono amendue sopra un palco, e Costanzo, come più privilegiato per la preminenza della sua nascita, fece [Zosimus, lib. 2, cap. 44.] una arringa in latino a quell'esercito, ricordando ad ognuno la liberalità loro usata da Costantino suo padre, e il giuramento da essi prestato di dare assistenza ai di lui figliuoli, e pregando ognuno di mostrar la fedeltà e l'amore dovuto, per vendicar la morte di suo fratello Costante, e per non lasciar impunito l'indegno usurpatore Magnenzio. Finì con dire che egli non dimandava se non quello che gli conveniva di ragione, essendo di dovere che l'eredità di un fratello pervenisse all'altro. Stava ben la lingua in bocca a Costanzo, e però tra il suo bel dire, e l'aver dalla sua tutto il suo esercito, con aver anche guadagnato con regali segretamente molti dell'armata di Vetranione, ancorchè nulla specificatamente proferisse contra d'esso Vetranione, tuttavia quelle milizie all'improvviso con alte grida si lasciarono intendere di non volere se non Costanzo per imperadore [Socrat., lib. 2, cap. 28. Zonar., in Annal.], [41] che a lui solo servirebbono, per lui solo spenderebbono sangue e vita. Accortosi allora troppo tardi il vecchio Vetranione della rete, in cui era caduto, altro scampo non ebbe che di gittarsi ai piedi dell'Augusto, e di deporre la porpora e il diadema. Costanzo, senza lasciarsi vincere in cortesia, l'abbracciò, chiamollo suo padre, e gli diede volentieri la mano a scendere dal trono. Succedette questo fatto nel dì 25 di dicembre dell'anno presente, e non già del seguente, come ha Idazio [Idacius, in Fastis.]; imperciocchè la Cronica Alessandrina [Chronic. Alexandrinum.] ed anche Aurelio Vittore [Aurel. Vict., de Caesarib.] non danno più di dieci mesi d'imperio a Vetranione. Che in Naisso, città della Dacia novella, si trovasse allora Costanzo, l'abbiamo da san Girolamo [Hieron., in Chron.], ma Socrate e Sozomeno dicono in Sirmio. Dan qui nelle trombe Giuliano [Julian., Orat. I.] e Temistio [Themistius, Orat. III.], esaltando con lodi magnifiche Costanzo, per essersi egli con tanta animosità, eloquenza e destrezza sbrigato di questo competitore, ed aver con sì poca fatica guadagnate tante e sì fertili provincie, piene di popoli bellicosi, ed insieme un'armata di venti mila cavalli, e d'una copiosissima fanteria. Quello che indubitatamente ognun riconoscerà per lodevole in Costanzo è il trattamento ch'egli fece al deposto Vetranione. Gli avrebbono fra poco tempo i tiranni sotto qualche pretesto tolta la vita, acciocchè non potesse risorgere. Ma Costanzo [Chron. Alex. Philostorg. Zosimus. Julianus et alii.], senza permettere che gli fosse fatto alcun torto, il tenne seco a tavola, poscia il mandò ad abitare in Prusa di Bitinia, con ordine che gli fosse fatto un trattamento onorevole ed anche delizioso. Quivi, secondo Zonara [Zonar., in Annal.], egli tranquillamente campò anche sei anni, esercitandosi in [42] opere di cristiana pietà e in limosine ai poveri, con trovar più dolce quella vita, siccome libera dalle spine dei gran governi. Sovente ancora [Socrat., lib. 2, cap. 28.] scrisse a Costanzo, ringraziandolo del bene fattogli, con liberar la sua vecchiaia dalle inquietudini del principato, ed esortandolo ad abbracciar anch'egli un eguale stato di felicità. Il testo di Socrate pare che dica ciò scritto da Costanzo a Vetranione; ma han creduto il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] e il Fleury [Fleury, Hist. Eccl., lib. 13.] che colla mutazion sola d'una parola più naturale sia il primo senso, e al loro parere par giusto l'attenersi.
Anno di | Cristo CCCLI. Indizione IX. |
Giulio papa 15. | |
Costanzo imperadore 15. |
Dopo il consolato di Sergio e Negriniano.
Così è notato in tutti i Fasti, perchè nei paesi dipendenti da Costanzo Augusto non furono riconosciuti i consoli che Magnenzio elesse per quest'anno in Roma. Per altro abbiamo la testimonianza dell'Anonimo [Cuspinianus. Bucherius.] Autore de' prefetti di Roma che Magnenzio e Gaisone (lo stesso che tolse di vita Costante Augusto) furono consoli in Roma nell'anno presente. Un frammento nondimeno d'antica iscrizione, da me dato alla luce [Thes. Novus Inscript., pag. 380.], parla di Magnenzio e Decenzio consoli, e parrebbe che appartenesse a questo anno. Quanto alla prefettura di Roma, v'ebbe più volte cangiamento di ministri nell'anno corrente [Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.]. Fabio Tiziano la tenne per i due primi mesi. Nel primo dì di marzo a lui succedette Aurelio Celsino. Nel dì 12 di maggio Celio Probato, al quale nel dì 7 di giugno fu sostituito Clodia Adelfio; e nel dì 18 di dicembre surrogato gli fu Valerio Procolo. Fra gli [43] altri Adelfio fu sospettato di nudrir pensieri pregiudiziali contra di Magnenzio, come s'ha da Ammiano Marcellino [Ammianus, lib. 16, cap. 6.]. Passò l'Augusto Costanzo il verno in Sirmio della Pannonia, dove andò facendo le necessarie disposizioni per procedere ostilmente al primo addolcirsi della stagione contra del tiranno Magnenzio. Ma eccoti novelle che il re Sapore di Persia [Philost., lib. 3, cap. 23. Zonar., in Annal.] con formidabile armata minacciava di nuovo la Mesopotamia, e corse anche voce che entratovi dopo fieri saccheggi fosse ritornato indietro. Conobbe allora Costanzo di non poter solo accudire a due diverse guerre, e che per acquistar l'Occidente, correva pericolo di perder l'Oriente; e però venne alla risoluzione di eleggersi un collega, il quale mentr'egli guerreggiava nell'una parte, avesse l'occhio alla difesa dell'altra. Niuna prole maschile fin qui gli aveva dato Iddio, e nè pur gliene diede dipoi. Rivolse dunque il guardo a Gallo suo cugino, figliuolo di Giulio Costanzo, cioè di un fratello del gran Costantino. Avea Gallo col fratello suo Giuliano, che fu poi Apostata, quasi miracolosamente scappata la morte nell'anno 337, allorchè Costante Augusto fece quell'orrido macello di tanti suoi parenti, e fra gli altri del padre d'esso Gallo. Tornato poi in sè stesso, non solo lasciò di perseguitare i due giovanetti cugini [Julian., in Epist. ad Athen.], ma ebbe cura di farli signorilmente educare, con restituire a Gallo buona parte de' beni paterni e a Giuliano quei della madre, tenendoli nondimeno amendue come in una specie d'esilio in varii luoghi, e specialmente in una terra della Cappadocia. L'occasione suddetta portò che gli affari di Costanzo abbisognassero d'un braccio fedele per costodir l'Oriente dai continuati insulti de' Persiani. Costanzo adunque, chiamato a sè Gallo, gli conferì il titolo e la dignità di Cesare nel dì 15 di [44] marzo [Idacius, in Fast. Zonar., in Annal. Socrat., Hist., lib. 2, cap. 28.], e nel medesimo tempo volle ch'egli sposasse sua sorella, chiamata da alcuni Costanza, ma che, per attestato di Ammiano, fu veramente Costantina, vedova del già re Annibaliano. Poscia il mandò alla difesa dell'Oriente, dandogli per generale dell'armi Lucilliano. Benchè Gallo prendesse allora il nome di Costanzo, o per onorare il benefattore Augusto, o pure per ricreare suo padre Giulio Costanzo, nientedimeno gli scrittori continuarono a chiamarlo Gallo, per non confondere il nome di lui con quello del regnante imperadore. Il Gotofredo [Gothofred., in Chron. Cod. Theodos.] fu di parere che Gallo assumesse il nome non di Costanzo, ma di Costante, citando in prova di ciò Idazio [Idacius, in Fastis.] e l'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alexand.], ma il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] con più fondamento sostenne la precedente opinione; e pur troppo si trovano nelle memorie antiche sovente confusi e cambiati questi nomi per la loro vicinità, o per le abbreviature. Dovrebbono servire a decidere questa per altro poco importante quistione le medaglie [Mediobarbus, Numismat. Imper.] rapportate da varii autori col CONSTANTIVS GALLVS, se noi fossimo certi della loro legittimità. In passando esso Gallo per Nicomedia [Liban., Orat. XII.], visitò Giuliano suo fratello, ivi dimorante sotto la disciplina di Eusebio vescovo ariano di quella città.
Solamente in quest'anno fu, per attestato di Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 45.] e di Zonara [Zonaras, in Annalib.], che il tiranno Magnenzio, trovandosi in Milano, diede il titolo di Cesare a Decenzio suo fratello, inviandolo poscia alla difesa delle Gallie, che in questi tempi più che mai rimasero esposte alla rabbia ed avidità dei Franchi, Sassoni, Alemanni ed altri popoli della Germania. [45] Libanio [Liban., Orat. XII.] non ebbe difficoltà di scrivere che Costanzo Augusto, considerando più la ragion di stato, fiera turbatrice del riposo de' popoli, che ogni altro riguardo; e pensando solo a vincere, senza mettersi pensiero, se legittimi o no fossero i mezzi, quegli fu che mosse con sue lettere e con danaro i Barbari a far guerra a Magnenzio nelle Gallie, per facilitare maggiormente a sè stesso la maniera di atterrarlo. Di simili esempli volesse Dio che le susseguenti età, ed anche la nostra, non ne avessero mai veduto, ed insieme deploratane l'iniquità. Certo è che que' Barbari recarono incredibili danni alle Gallie, posero a sacco molte ricche città, e scorrendo dappertutto senza trovare resistenza alcuna, talmente fissarono ivi il piede, che solamente si poterono far isloggiare di là ai tempi di Giuliano Cesare, siccome diremo. Le tante estorsioni di Magnenzio, accennate di sopra, per adunare il nerbo quasi principal delle guerre, cioè il danaro e le diligenze da lui fin qui usate, aveano servito a metter insieme una sì sterminata copia d'armati non solo suoi sudditi, ma anche Sassoni, Franchi e di altre nazioni germaniche [Julian., Orat. I.], prese al suo soldo, che pareva con tante forze atto ad annientare l'Augusto Costanzo, e ad assorbire il rimanente dell'imperio. Per maggiormente ancora animar le sue genti, promise loro la libertà dei saccheggi. In questo mentre Costanzo, stando nella Pannonia, niun movimento faceva; mostrava anzi paura, con disegno di tirare il nimico nel paese piano d'essa Pannonia, perchè, quantunque inferiore di fanteria, sperava di far meglio giuocare la sua cavalleria, superiore di numero a quella di Magnenzio [Zosimus, lib. 2, cap. 45 e 46. Zon., in Ann.]. In fatti dalla Italia pel Norico s'inoltrò la possente armata del tiranno alla volta della Pannonia, e mandò innanzi a sfidare Costanzo, [46] con dire che nelle campagne larghe di Sciscia al fiume Savo verrebbe a trovarlo, per chiarire chi sapesse più bravamente menar le mani. E perciocchè intese che Costanzo avea spedite innanzi alcune schiere per contrastargli qualche passo, in un'imboscata che loro tese, le mise a filo di spada. Or mentre egli insuperbito per questo primo vantaggio si andava disponendo per passare il Savo, ecco giugnere Filippo, uno de' primi uffiziali della corte di Costanzo, perchè prefetto del pretorio, e personaggio di sperimentata prudenza, spedito dall'Augusto padrone in apparenza, secondo la opinione d'alcuni, per trattare di pace, ma in sostanza per iscoprire le forze e i disegni di Magnenzio, e studiarsi di mettere sedizione nella di lui armata. Diedegli udienza Magnenzio alla presenza di tutte le sue milizie, e seppe ben valersi l'accorto ambasciatore dell'occasione, mostrando di parlare al solo tiranno, per fare un'aringa anche alle ascoltatrici truppe di lui, con rappresentare come cosa vergognosa a gente romana il portar l'armi contra d'altri Romani, e massimamente contra de' figliuoli del gran Costantino, principe, a cui tutti aveano tante obbligazioni. Aggiunse, che se Magnenzio volea cedere a Costanzo l'Italia, consentirebbe Costanzo a lui la signoria delle Gallie; sotto il qual nome sembra verisimile che fosse compresa anche la Spagna e Bretagna. Zosimo e Zonara furono d'avviso che Costanzo veramente desiderasse la pace, per ischivare lo spargimento inevitabile del sangue di tanti popoli. Fece tal impressione nel cuore degli ascoltanti il discorso di Filippo, che durò fatica Magnenzio a far intendere la sua risposta, consistente in dire ch'egli di buon cuore accettava la proposizion di pace, ma che gli bisognava un po' di tempo per maturarne le condizioni. Con tale scappata rimise lo affare al giorno seguente, nel quale aringò la sua armata, e tanto disse dei mancamenti ed eccessi dell'estinto Costante, [47] che smorzò in cuore dei più d'essi la inclinazione alla pace.
Tosto dunque fatto prendere l'armi, andò per passare il Savo in vicinanza di Sciscia; ma gli fu all'incontro la guarnigione di quella città, che diede una fiera percossa alle di lui genti, parte precipitandole nel fiume, e parte trucidandole colle spade. Allora Magnenzio, vedendo tanto scompiglio de' suoi, cacciata la punta dell'asta sua in terra, fece segno con la mano alle milizie di Costanzo, di voler parlare di pace; e ne parlò in fatti, mostrando di passare unicamente per trattarne con Costanzo; di modo che o i soldati di Costanzo, o Costanzo medesimo ch'era vicino, fecero cessar la battaglia, e permisero il passo a Magnenzio. Tale è il racconto di Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 48.], in cui nondimeno apparisce poca verisimiglianza. Quel che è certo, valicato ch'ebbe Magnenzio il Savo, stese il poderoso esercito suo nelle pianure poste tra il Savo e il Dravo, bramando intanto Costanzo di ridurlo a Cibala, per dargli battaglia in quel luogo, dove Costantino suo padre, ventisette anni prima, aveva sconfitto Licinio. Era appunto in Cibala Costanzo, e quivi teneva mirabilmente afforzato il suo campo, quando Tiziano, senator romano, creduto il medesimo che vedemmo poco fa prefetto di Roma, spedito da Magnenzio, venne a parlargli. Disse costui un'infinità d'insolenze contro la memoria del gran Costantino e de' suoi figliuoli, conchiudendo in fine che se a Costanzo era cara la vita, dimettesse l'imperio. Non altro gli rispose Costanzo, se non che rimetteva la sua causa alla giustizia di Dio, sperando che essa combatterebbe in suo favore, e vendicherebbe la morte indegna del fratello. Permise ancora a Tiziano di andarsene salvo, ancorchè i suoi cortigiani fossero in affanno, perchè Filippo, già inviato a Magnenzio, non era per anche tornato indietro dal campo, e nuova di lui non [48] si sapeva. Accadde poscia che Silvano, il quale comandava un corpo di cavalleria di Magnenzio, con tutti i suoi disertando, passò ai servigi di Costanzo: azione, che quanto recò di giubilo all'esercito d'esso Costanzo, altrettanto di affanno portò a Magnenzio, il quale, per paura che altri imitassero quell'esempio [Zosim., lib. 2, cap. 49. Zonar., in Annal.], si affrettò per venire alla decision della lite con qualche combattimento. Assalì Sciscia, e, presala d'assalto, la desertò. Dopo aver dato il sacco al paese posto fra il Dravo e il Savo, piombò addosso alla città di Sirmio, capitale del paese, credendosi di entrarvi senza contrasto. Trovò che i cittadini e il presidio militare aveano sangue nelle vene e cuore in petto; e però, lasciata quell'impresa, rivolse i passi e l'armi contro la città di Mursa, situata alla riva del fiume Dravo, dove ora è il ponte di Essec; e poichè la trovò ben munita, e costò caro alle di lui genti un furioso assalto, per cui sperava di prenderla, si mise ad assediarla. Allora fu che Costanzo, per non lasciar cadere quella città in man del nemico, mosse il suo campo a quella volta. Avvisato nel cammino che Magnenzio gli avea tesa un'imboscata, ebbe maniera di far tagliare a pezzi quella nemica brigata.
Furono dunque a vista le due possenti armate, vogliose amendue di menar le mani, e nel dì 28 di settembre si schierarono per venire a battaglia. Stettero in ordinanza la maggior parte del dì, senza che alcuna d'esse cominciasse la danza: nel qual mentre, se vogliam credere a Zonara [Zonar., in Annal. Idacius, in Fastis.], Magnenzio, per consiglio d'una maga, fece un orrido sagrificio d'una fanciulla. Finalmente, accostandosi la sera, cominciò il terribil fatto d'armi, le cui particolarità, secondo il solito, son raccontate diversamente dagli scrittori. Giuliano [Julian., Orat. II.] pretende che la vittoria non tardasse a dichiararsi in [49] favor di Costanzo, con rimanere rovesciato il corpo di battaglia di Magnenzio dall'ala sinistra; e dalla cavalleria d'esso Costanzo; e che Magnenzio non tardò a prendere la fuga; ma che le sue genti rimesse in ordinanza continuarono a far testa, animate dal coraggio de' loro uffiziali. Zosimo [Zosim., lib. 2, cap. 49.] e Zonara [Zonar., in Annalib.], per lo contrario, scrivono che il combattimento restò dubbioso fino alla nera notte, quando le genti di Costanzo, fatto uno sforzo, misero finalmente in rotta i nemici, buona parte de' quali o restò fredda sul campo, o andò a bere la morte nel fiume Dravo. Presi furono gli alloggiamenti dei vinti, che andarono a sacco; e Magnenzio, allorchè vide disperato il caso, e d'aver anche corso pericolo d'essere preso, come scrive Eutropio [Eutrop., in Breviar.], deposti gli abiti imperiali, e travestito si diede alla fuga, lasciando indietro il suo cavallo ben addobbato, acciocchè si credesse ucciso il padrone, e niuno gli tenesse dietro. Abbiamo da Sulpicio Severo [Sulpitius Severus, Hist., lib. 2.] che l'Augusto Costanzo nel tempo della zuffa stette aspettandone l'esito nella chiesa de' Martiri di Mursa. Certo egli non fu mai in concetto di gran guerriero, ed allora dovette raccomandarsi ben di cuore a Dio, ed implorar l'intercessione de' santi. Fu questa una delle più fiere e sanguinose battaglie che da gran tempo avesse veduta l'Europa, e vi perirono assaissimi uffiziali di raro valore dall'una parte e dall'altra, uno de' quali specialmente è rammemorato da Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 52.], cioè Menelao capitano degli arcieri, il quale con tal forza e disinvoltura nel medesimo tempo scagliava tre freccie, che colpiva tre diverse persone. Con una d'esse avendo egli mortalmente ferito Romolo, generale dell'armata magnenziana, questi non volle desistere dal combattimento, finchè non ebbe tolta la vita al feritore, con lasciarvi appresso [50] anch'egli la sua. Nuova più non si seppe di Marcellino, altro generale d'esso Magnenzio, e gran promotore della di lui ribellione; e però fu creduto ch'egli perisse nel Dravo. La mattina seguente [Zonar., in Annalib.] Costanzo Augusto si portò a mirare da un'eminenza il campo della battaglia; ed osservato il funesto spettacolo della innumerabil gente tanto sua che nemica estinta, non potè contener le lagrime, considerando come l'imperio romano fosse rimasto privo di sì gran copia di bravi uffiziali e forti soldati, che sarebbono stati il terror de' Barbari e il sostegno delle provincie romane. Eutropio [Eutrop., in Breviar.] anch'egli nota che di sommo pregiudizio all'imperio riuscì la perdita di sì valorose milizie. Non sembra poi credibile il dirsi da Zonara che Costanzo di ottanta mila combattenti, ch'egli avea, ne perdè trenta mila; e Magnenzio di trentasei mila ne lasciò sul campo ventiquattro mila. Vi sarà dell'error nel suo testo. Ordinò dunque Costanzo che si desse tosto sepoltura a tutti i cadaveri senza distinzion d'amici e di nemici, e che si curassero i feriti dell'una e dell'altra parte. Pubblicò ancora il perdono per chiunque avesse portate l'armi contra di lui, ed avuta parte nella morte del fratello Costante. Intanto il fuggitivo Magnenzio [Zosimus, lib. 2, cap. 53.] ebbe la fortuna per ora di scappare il meritato gastigo, e di salvarsi, con ripassar l'Alpi, tornandosene nelle Gallie, giacchè non si fidava de' Romani e degl'Italiani, a' quali sapeva d'essere in odio. Nè Costanzo si sentì voglia di fargli tener dietro, nè di proceder oltre, perchè trovò anche l'armata sua troppo affaticata ed infievolita di forze [Julian., Orat. II.]. La flotta sua, che s'era lasciata vedere sulle coste dell'Italia in questi medesimi tempi, senza aver operato cosa alcuna degna di memoria, solamente servì ad imbarcar molti che fuggivano la crudeltà di [51] Magnenzio, e fra essi non pochi senatori e principali di Roma.
Anno di | Cristo CCCLII. Indizione X. |
Liberio papa 1. | |
Costanzo imperadore 16. |
Consoli
Flavio Costanzo Augusto per la quinta volta e Flavio Costanzo Gallo Cesare.
Tali furono i consoli nell'Oriente e nell'Illirico, cioè nelle provincie dipendenti da Costanzo imperadore; imperciocchè per conto di Roma, e dell'Italia e delle provincie oltramontane, tuttavia ubbidienti all'usurpatore Magnenzio, abbiamo dal Catalogo de' Prefetti di Roma [Cuspinianus. Bucherius.] che furono consoli Decenzio (cioè il fratello del tiranno) e Paolo. Fece fine in quest'anno ai suoi giorni il romano pontefice san Giulio, dopo avere con incredibil fermezza e zelo sostenuta la religione cattolica contro la prepotenza degli ariani [Chronic. Damasi. Baronius, Annal. Eccl. Pagius, Crit. Baron.]. Accadde il beato passaggio di lui nel dì 12 d'aprile, e poscia nel dì 21 di giugno, Liberio in sua vece fu posto nella sedia di san Pietro. Tornò Valerio Procolo ad essere prefetto di Roma, e a lui poscia nel dì 9 di settembre in quell'uffizio succedette Settimio Mnasea, che lo tenne sino al dì 26 del medesimo mese, in cui ebbe per successore Nerazio Cereale. Passò l'Augusto Costanzo il verno nella Pannonia, allestendo intanto le maggiori forze possibili per calare nella prossima primavera in Italia. Magnenzio, che già prevedeva il colpo, ossia ch'egli non si fosse ritirato nelle Gallie nell'anno prossimo addietro, o che tornasse da esse Gallie in Italia, si andò a postare ad Aquileia, per quivi impedir la calata de' nemici [Julian., Orat. I et II.]. Quivi, credendosi egli più che sicuro, attendeva a [52] solazzarsi; quando Costanzo, venuta la prima buona stagione, mise in marcia l'esercito suo; e la prima sua impresa fu quella d'impadronirsi senza gran fatica d'un castello situato sull'Alpi Giulie, creduto da Magnenzio inespugnabile per la numerosa guarnigione ch'egli avea qui collocata. Ammiano Marcellino [Ammianus, lib. 31, cap. 11.] sembra attribuire la facilità di questa conquista ad un conte Atto, il quale si lasciò prendere da quel presidio, e seppe poi con doni e promesse tirarlo alla divozion di Costanzo. Per questo colpo veggendo Magnenzio sconcertate le sue misure, si ritirò da Aquileia, lasciando all'armi di Costanzo libera l'entrata in Italia. Di quello che dipoi avvenne in queste contrade poco si sa. Aurelio Vittore [Aurel. Victor, in Epitome.] in due parole accenna che Magnenzio verso Pavia diede delle percosse alle milizie di Costanzo, mentre disordinatamente l'inseguivano: il che nondimeno a nulla servì per impedire i progressi dell'armi di Costanzo, le quali in fine il ridussero ad abbandonar l'Italia. Per quanto s'ha da Zonara [Zonaras, in Annal.], contribuì non poco a farlo ritirar nelle Gallie l'averlo abbandonato molte delle sue soldatesche, per darsi a Costanzo colle fortezze raccomandate alla lor custodia. Non lasciò per questo il tiranno d'inviare un senatore, e poi dei vescovi a Costanzo, cercando pure, se poteva, d'intavolar qualche trattato di pace, con esibirsi infino di sottomettersi, purchè gli restasse qualche onorevol grado nella milizia. Costanzo senz'altra risposta rimandò indietro quegli inviati.
In somma non passarono molti mesi che Costanzo Augusto divenne pacifico padrone di Roma e dell'Italia tutta. Una legge da lui pubblicata [L. 5, de infirmandis bis, quae sub Tyrann. Cod. Theodos.] per cassare gli atti del tiranno, se pur la data non è [53] guasta, cel fa vedere in Milano nel dì 3 di novembre dell'anno presente. E il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] osservò che se Nerazio Cereale, che dicemmo creato prefetto di Roma, è quel medesimo che si sa essere precedentemente stato uffiziale della corte di Costanzo, veniamo ad intendere che anche nel dì 26 di settembre Costanzo signoreggiava in Roma, perchè egli inviò colà un nuovo prefetto, cioè il medesimo Cereale. Ricavasi poi da Giuliano [Julian., Orat. I.] che Costanzo spedì la sua armata navale dall'Egitto e dall'Italia, per ridurre alla sua ubbidienza Cartagine e l'Africa: il che gli venne fatto. Veleggiarono similmente altre navi a prendere il possesso della Sicilia; ed avendo fatto passar la flotta in Ispagna, que' popoli sino ai monti Pirenei l'accettarono per loro signore. Ma questi felici avvenimenti appartengono piuttosto all'anno seguente. Accudiva in questi tempi Gallo Cesare al governo dell'Oriente, quando, per testimonianza di Zonara [Zonar., in Annal.], Magnenzio spedì colà un suo sicario per assassinarlo, e dar con ciò apprensione di novità a Costanzo. Sovvertì costui alcune persone militari; ma, scoperta la trama, ognun la pagò colla vita. Ma forse non v'era bisogno d'immaginar costui inviato da Magnenzio, perchè sì malamente, come vedremo, reggeva Gallo que' popoli, che da maravigliarsi non sarebbe se nella stessa Soria si fosse maneggiata qualche congiura per torgli la vita. A questi tempi vien riferita da san Girolamo [Hieron., in Chron.] e da Teofane [Theophanes, in Chronogr.] una solevazion de' Giudei nella Palestina. Prese l'armi, uccisero di notte le guarnigioni romane; poi sfogarono la rabbia loro contra de' Samaritani con fieri saccheggi, e con giugnere infino, se Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesarib.] non falla, a dare il titolo di re ad un certo Patrizio. Ebbero ben presto a [54] pentirsene. Marciò colà da Antiochia Galle Cesare; ne mise a fil di spada molte migliaia, senza nè pur perdonare ai fanciulli; e diede in preda alle fiamme alcune loro castella e città, e fra l'altre Tiberiade, Diospoli e Diocesarea. L'ultima soprattutto fu spianata dai fondamenti, perchè ivi era nata la ribellione. Varie leggi [Gothofred., Chron. Cod. Theod.] del Codice Teodosiano ci fan vedere l'imperadore Costanzo nei primi sei mesi, ed anche nel dicembre dell'anno presente, in Sirmio e Sabaria della Pannonia; ma si può ben temere che non tutte quelle date sieno giuste.
Anno di | Cristo CCCLIII. Indizione XI. |
Liberio papa 2. | |
Costanzo imperadore 17. |
Consoli
Flavio Costanzo Augusto per la sesta volta e Flavio Costanzo Gallo Cesare per la seconda.
Continuò ad esercitar la prefettura di Roma Nerazio Cereale sino al dì 8 di dicembre, nel qual giorno ebbe per successore Memmio Vitrasio Orfito. L'anno fu questo in cui l'Augusto Costanzo giunse a terminar felicemente la guerra contra del tiranno Magnenzio. S'era, siccome dicemmo, ritirato costui nelle Gallie, dove attese a premunirsi il meglio che potè, giacchè prevedeva che le forze di Costanzo erano per cadere addosso di lui anche in quelle parti. Giuliano [Julian., Orat. I.] ci assicura ch'egli maggiormente si screditò per le tante estorsioni e crudeltà che allora commise per unir danari, di modo che abbondavano i desiderosi della di lui rovina. Abbiamo da Ammiano [Ammianus Marcellinus, lib. 15, cap. 6.] che la città di Treveri chiuse le porte a Decenzio Cesare di lui fratello, ed elesse per suo difensore un certo Pemenio, che poi nell'anno 335 ne pagò il fio. Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 53.] ancora scrive che avvenne in questi [55] tempi l'irruzione de' Barbari della Germania nelle Gallie, procurata sotto mano con regali dal medesimo Costanzo Augusto. Ma quello che probabilmente ridusse a mal termine gli affari di Magnenzio fu l'andare i soldati ed uffiziali suoi disertando, con passare al servigio del nemico imperadore. Perciò, impoverito di forze, impedir non potè il passaggio delle Alpi all'armata di Costanzo, riducendosi solamente a contrastarle i progressi al luogo di monte Seleuco nell'Alpi Cozzie, posto nel Delfinato d'oggidì fra Die e Gap. Quivi battaglia seguì fra i due nemici eserciti; e ne andò sconfitto quel di Magnenzio. Perciò il tiranno, salvatosi a Lione con poca gente di seguito, si trovò presto in istato di disperazione; perchè, avvedutosi che i suoi soldati lo aveano come bloccato in casa, con pensiero di darlo vivo in mano di Costanzo, uscì per ricordar ad essi il loro dovere nel dì 15 d'agosto, come ha Socrate [Socrates, in Histor. Eccles.]. Ma udito [Sozom. Zonaras. Zosimus et alii.] che gridavano tutti: Viva Costanzo Augusto, rientrato nel palazzo, e trasportato da rabbia e furore, uccise la propria sua madre, ferì gravemente Desiderio Cesare suo fratello; svenò ancora, o pure ferì chi gli capitò davanti de' suoi cortigiani, ed in fine [Aurelius Victor, in Epitome.] colla punta della spada rivolta al suo petto, correndo contro al muro, tal ferita si diede, che col sangue uscì anche l'empia di lui anima, esentando in tal guisa sè stesso dai tormenti che poteva aspettarsi, cadendo in mano di Costanzo, ma non già da quei della divina giustizia per le tante iniquità da lui commesse. Decenzio Cesare suo fratello, che chiamato veniva in aiuto di lui, arrivato alla città di Sens [Idacius, in Fastis. Hieron., in Chronic. Eutrop., in Brev. Zosimus, lib. 2, cap. 53.], dove intese il fine di Magnenzio, anche egli, con istrozzar sè stesso, terminò i suoi giorni nel dì 18 d'agosto. Zonara [Zonaras, in Annalib.], che fa solamente ferito [56] Desiderio Cesare, altro di lui fratello, quando v'ha chi il vuole ammazzato dal medesimo Magnenzio, scrive che guarito esso dalle ferite, andò poscia a rendersi all'Augusto Costanzo, senza poi dire cosa ne divenisse. Ed ecco il fine del tiranno Magnenzio, per la cui morte niuna fatica durò più Costanzo ad aver l'ubbidienza di tutte le Gallie e Spagne, e della Bretagna, e videsi, per conseguente, tutto l'antico vasto imperio romano ridotto sotto il comando di lui solo.
Abbiamo nel Codice Teodosiano leggi [Gothofr., Chron. Cod. Theodos.] che ci fan vedere questo imperadore in Ravenna nel dì 21 di luglio, in Lione nel dì 6 di settembre, e in Arles nel dì 5 di novembre. Certo è ch'egli passò nelle Gallie per rallegrare i suoi occhi in mirar sì grandi conquiste, ma non già per recar allegrezze a' popoli di quelle contrade. Giuliano Cesare [Julian., Orat. II.], nell'orazione seconda fatta in onore d'esso Costanzo, esalta molto la di lui clemenza verso coloro ancora che s'erano mostrati più appassionati in favor di Magnenzio; ma è da credere che la sua penna prendesse unicamente consiglio dall'adulazione. Comincia qui a comparire in aiuto nostro la storia di Ammiano Marcellino, scrittore contemporaneo, cioè il libro decimoquarto coi susseguenti, giacchè il tempo ci ha rubato gli altri tredici precedenti. Ora egli scrive [Ammianus Marcellinus, lib. 14, cap. 5.] che pervenuto Costanzo ad Arles sul fin di settembre, o sul principio di ottobre, quivi passò anche il verno. E che nel dì 8 d'esso ottobre solennizzò i tricennali del suo imperio cesareo con singolare magnificenza di divertimenti teatrali e di giuochi circensi: il che fatto, s'applicò a contaminar la felicità ed allegrezza della vittoria, con divenir più fiero e superbo, come Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 54.] lasciò scritto, e con mettersi a far rigorosa giustizia degli amici e parziali dell'estinto tiranno. Il [57] peggio fu che da ogni banda saltarono su accusatori e calunniatori, a' quali si prestava facilmente credenza, perchè piacevano; e tanto addosso ai colpevoli (se pur colpa era l'aver dovuto ubbidire ad un tiranno) quanto agl'innocenti si scaricò l'ira di Costanzo e l'avidità del fisco, levando a non pochi di loro e roba e vita, e condannando altri all'esilio. Ammiano ci lasciò un lagrimevol racconto di tali crudeltà, delle quali spezialmente fu ministro un Paolo Spagnuolo, notaio di corte, spedito anche nella Bretagna, per far quivi buona caccia: azioni tutte di grave discredito alla riputazion di Costanzo, il quale sì malamente pagava i benefizii a lui compartiti da Dio. Ai primi mesi di quest'anno pare che appartengano le nozze d'esso imperadore con Eusebia, figliuola d'un console di Tessalonica, lodata dagli antichi scrittori [Aurelius Victor, in Epitome. Julian., Orat. III. Ammianus, lib. 21. Zosimus, lib. 3, cap. 1.] per la sua beltà, ma più per la saviezza e regolatezza de' suoi costumi, e per la letteratura superiore all'uso del suo sesso; ma non esente però da difetti, siccome vedremo. Era Costanzo da qualche tempo vedovo, senza aver potuto ricavar prole da più d'uno antecedente matrimonio; e quantunque egli amasse non poco questa nuova compagna, nè pur col tempo da essa riportò alcuno de' sospirati frutti. Due fratelli ancora aveva essa Eusebia, cioè Eusebio ed Idacio, che furono poi consoli, avendo ella principalmente fatta servire l'autorità sua per esaltare i suoi parenti e gli amici della sua famiglia. Vero è che Ammiano parla della di lei prudenza; ma non seppe ella guardarsi dal fasto e dalla superbia, maligni ed ordinarii compagni delle umane grandezze. Intorno a ciò abbiamo un caso narrato da Suida [Suidas, in Lexico, ad verbum Leontius.]. Tenevano i vescovi ariani d'Oriente un concilio in una città, dove anche soggiornava l'Augusta Eusebia; e portatisi ad inchinarla, furono da essa ricevuti con [58] gran contegno ed altura. Il solo Leonzio, vescovo di Tripoli in Lidia, ariano anche esso, e di testa non meno alta che quella dell'imperadrice, si astenne dal visitarla. Fumò per la collera Eusebia; ma tuttavia si contenne o contentossi di fargli ricordare il suo dovere, offerendosi ancora di dargli una somma di danaro e di fargli fabbricare una chiesa. Leonzio le fece rispondere che v'andrebbe ogni qual volta ella fosse disposta a riceverlo col rispetto dovuto ad un vescovo, cioè a venirgli incontro, e ad inchinarsi per prendere la sua benedizione; altrimenti egli non intendeva di voler avvilire la dignità episcopale. A tale risposta smaniò l'altera principessa, proruppe in indecenti minaccie, e corse in fatti al marito, dolendosi come di un grave affronto, ed attizzandolo alla vendetta. Costanzo più saggio di lei, dopo aver lodato la generosa libertà del vescovo, consigliò l'adirata signora ad attendere ai grandi affari della sua toletta. Ma se questo prelato ariano volle correggere il fasto dell'imperadrice con un maggiore dal canto suo, non si può già lodare; perchè lo spirito del cristianesimo ha da essere spirato d'umiltà, e i saggi sanno accordar insieme questa virtù col sostenere nello stesso tempo il decoro dovuto alla lor dignità. Abbiamo poi da Ammiano [Ammian., lib. 14 et seq.] che, non ostante così prosperosi successi dell'armi di Costanzo Augusto, le Gallie non goderono in questi tempi pace, perchè infestate dalle scorrerie delle nazioni germaniche, e dai soldati di Magnenzio o cassati o pertinaci nella primiera ribellione. In Roma ancora si provarono sedizioni per la penuria del vino, o pure per i mali effetti dell'abbondanza e dell'ozio. Un bel ritratto fa qui Ammiano del lusso e dei corrotti costumi de' Romani d'allora, confessando nulladimeno che quella gran città era tuttavia in venerazione presso d'ognuno. L'Oriente anch'esso fieramente restò turbato dalle incursioni degli [59] Isauri, che si stesero per varie provincie, dando il sacco dappertutto; e nel medesimo tempo i Saraceni infestarono non poco la Mesopotamia. Finalmente, se son giusti i conti del Gotofredo, appartiene a quest'anno un'importante legge [L. 4, Placutt. De Paganis Cod. Theod.] dell'Augusto Costanzo, indirizzata a Tauro prefetto del pretorio d'Italia, con cui fu ordinato che per tutte le città e in ogni luogo d'Italia si chiudessero i templi dei gentili, e fossero vietati i sacrifizii ai falsi dii; e ciò sotto pena della vita e del confisco di tutti i beni. A questa legge pare che avesse riguardo Sozomeno [Sozomenus, Histor., lib. 3, cap. 16.], allorchè anch'egli accenna l'imperial comandamento di chiudere i templi del paganesimo. E perciocchè il tiranno Magnenzio, condiscendendo alle istanze de' gentili, avea permesso loro il far de' sacrifizii in tempo di notte, Costanzo con altra legge [L. 5, de Paganis. Cod. eodem.] cassò quella licenza: il che non bastò già ad estinguere le inveterate superstizioni, trovandosi anche da lì innanzi dei sagrifizii notturni fatti al dio Mitra, cioè al sole, come consta da alcune iscrizioni che si leggono nella mia Raccolta [Thes. Novus Inscript. Class. Cons.] ed altrove.
Anno di | Cristo CCCLIV. Indizione XII. |
Liberio papa 3. | |
Costanzo imperadore 18. |
Consoli
Flavio Costanzo Augusto per la settima volta e Flavio Costanzo Gallo Cesare per la terza.
Continuò anche per quest'anno ad esercitar la prefettura di Roma Memmio Vetrasio Orfito, siccome consta dal Catalogo antichissimo pubblicato dal Cuspiniano e poi dal Bucherio, che in questo anno viene a noi meno, convenendo cercar altronde i successori in essa dignità. Dopo avere l'Augusto Costanzo passato il verno in Arles, città allora delle primarie delle Gallie, avvicinandosi [60] la primavera, passò a Valenza [Ammianus, lib. 14, cap. 10.], con animo di portar la guerra addosso a Gundomado e Vadomario fratelli, re degli Alamanni, per vendicar le frequenti incursioni fatte da loro nel paese romano. La massa delle milizie si faceva a Sciallon sopra la Sona; ma perchè i tempi cattivi impedivano il trasporto de' viveri, l'esercito che ne penuriava, si ammutinò, e bisognò inviar colà Eusebio mastro di camera che, guadagnati con danaro i principali, quietò il tumulto. Misesi finalmente in marcia quell'armata collo stesso Augusto, e dopo molti disagi pervenuta al Reno al disopra di Basilea, quivi tentò di gittar un ponte sul fiume. Per le freccie, che diluviavano dalla ripa opposta, si trovò quasi impossibile; ma avendo persona, pratica del paese e ben regalata, scoperto un buon guado, per di là passarono tutti nel territorio nemico, ed avrebbono potuto lasciare una funesta memoria agli Alamanni, se qualche uffiziale dell'esercito imperiale, ma di essa nazione, non avesse pietosamente avvertiti i re nemici del pericolo in cui si trovavano, e per cui spedirono tosto ambasciatori ad umiliarsi e chiedere pace. Non durò fatica l'uffizialità a consentire, forse perchè sapevano essere Costanzo fortunato nelle guerre civili, molto sventurato nelle altre. Fu dunque conchiusa la pace, con accettar l'esibizione fatta dagli Alamanni di somministrare all'imperadore delle truppe ausiliarie. Dovette poi Costanzo fare un giro per l'Italia, [Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.] trovandosi leggi da lui date in Milano, Cesena e Ravenna, con tornare in fine a Milano, dove, per attestato di Ammiano, egli si trattenne per tutto il verno seguente.
Correva già gran tempo ch'esso Augusto era disgustato di Gallo Cesare suo cugino, a cui già vedemmo appoggiato il governo dell'Oriente; e ciò a cagione de' suoi mali portamenti. Non aveva questo principe più di ventiquattro anni, [61] allorchè fu promosso alla dignità cesarea da Costanzo. Il trovarsi egli portato improvvisamente sì alto dalla bassa fortuna, in cui era vivuto per l'addietro; l'aver per moglie una sorella dell'imperadore; l'essere suo cugino, e il godere un'autorità quasi sovrana in tante belle provincie, gli mandò tosto dei fumi alla testa, accresciuti da qualche buon successo dell'armi sue contra de' nemici dell'imperio, e dagli adulatori e panegiristi, fra' quali si conta anche Libanio sofista. A renderlo anche più cattivo e crudele contribuì non poco Costantina sua moglie, che portava il titolo d'Augusta, donna piena d'orgoglio, che Ammiano [Ammianus, lib. 14, cap. 1.], forse con eccesso di passione, arrivò a chiamare una Megera; la quale in vece di addolcirlo, lo andava incitando continuamente ai processi e alle morti, non mancando mai pretesti per opprimere anche le persone più illustri ed innocenti. Professava Gallo, è vero, la religione cristiana [Sozomenus, Hist., lib. 4, cap. 19. Chrysostomus, in Gen., et alii.], e per cura sua seguì in Antiochia la traslazione del corpo del celebre martire s. Babila; ma non men di Costanzo Augusto favoriva anch'egli e fomentava l'arianismo: perlochè Filostorgio [Philostorgius, lib. 3, cap. 27.] ariano parla assai bene di lui. Ma convengono gli storici tutti d'allora che non lieve era la sua crudeltà ed ingiustizia; e infin lo stesso Giuliano [Julian., Epist. ad Athen.] suo fratello, contuttochè si sforzi di scusar le di lui azioni, e di rigettarne la colpa addosso a Costanzo Augusto, pure confessa ch'egli fu d'umore selvatico e fiero, e non fatto per regnare. Ma lo storico Ammiano senza briglia scorre nelle accuse di questo principe, dipingendolo per uomo di testa leggiera, pieno sempre di sospetti, credulo ad ogni calunnia, e però portato a spargere il sangue ancora degl'innocenti, non che dei veri colpevoli. Faceva egli [62] uno studio particolare col mezzo di assaissime spie per saper quello che si diceva di lui anche nelle case private; e per chiarirsene meglio cominciò ad usare di andar la notte travestito per le osterie e botteghe. Ma non durò molto questa sua viltà, perchè essendo le strade in Antiochia illuminate da molte lumiere la notte, in guisa che quasi vi compariva al chiarezza del giorno (il che si praticava allora anche in altre città), egli fu più di una volta riconosciuto, nè più si attentò ad esporsi a maggiori pericoli. Ma non gli mancavano relatori di quanto si diceva, o pur si fingeva che si dicesse; e ad ognuno si dava benigno ascolto, e poi senza processi, e senza dar le difese, facilmente si procedeva alle condanne. Perchè Libanio sofista [Liban., in Vita.] gli era assai caro (verisimilmente per le sue adulazioni) la scappò netta un giorno. Da chi gli voleva male fu subornato un uomo iniquo ad accusarlo di sortilegi contro la persona dello stesso Gallo. Ma Gallo freddamente gli rispose che andasse a produr tali accuse davanti ai giudici ordinarii; e con ciò si sciolse in fumo la meditata trama. Accaddero dipoi varii disordini in Antiochia per la carestia del grano. Perchè a cagion d'essa i magistrati non poterono soddisfare alla di lui premura per una festa, ne fece morir alcuni, ed altri cacciò nelle carceri: il che accrebbe il male. Andossene egli a Jerapoli, senza provvedere al bisogno del popolo, con aver solamente dato per risposta che Teofilo governatore della Soria avea gli ordini opportuni. Lasciò in tal guisa esposto quel ministro al furor della plebe, la quale, vedendo sempre più incarire i viveri, un dì gli pose le mani addosso, e dopo averlo barbaramente ucciso, strascinò il di lui cadavero per le strade.
Erano riferiti a Costanzo Augusto tutti questi ed altri disordini ch'io tralascio; e però a poco a poco cominciò a ritirare di sotto al comando di Gallo le [63] milizie di quelle parti. Poscia, in occasione [Ammianus, lib. 13, cap. 7.] che mancò di vita Talassio prefetto del pretorio d'Oriente, mandò colà Domiziano ad esercitar quell'autorevole impiego, riconoscendosi da ciò che gli imperadori, nel dare allora i governi ai Cesari, si riserbavano l'elezione almen delle cariche principali. Seco portò Domiziano un ordine segreto d'indurre con bella maniera e tutta dolcezza Gallo a dare una scorsa in Italia. Ma siccome costui era un uomaccio ruvido ed incivile, arrivato ad Antiochia, passò davanti al palazzo del principe, senza curarsi di usare con lui atto alcuno di rispetto, e portatosi all'abitazion consueta dei prefetti del pretorio, quivi si fermò per qualche tempo senza uscirne, con allegar degl'incomodi di sanità, ma intanto raccogliendo tutto il male che si diceva di Gallo, per avvisarne l'imperadore. Chiamato poi da esso Cesare, andò in fine a visitarlo, e fra le altre cose sgarbatamente gli disse, esservi ordine di Costanzo ch'esso principe andasse in Italia; perchè, altrimenti facendo, comanderebbe che gli fossero trattenuti i salari e le provvisioni solite a somministrarsi a lui e alla sua famiglia: e, ciò detto, dispettosamente se ne andò. Gallo, giacchè Domiziano, benchè invitato altre volle, non si lasciò più vedere, montato in collera, mandò parte delle sue guardie a rinserrarlo in casa [Sozom., Hist., lib. 4, cap. 2. Epiphan. Scholast. Theoph., in Chronogr.]; e perciocchè Monzio, ossia, come altri lo appellarono, Magno questore, parlò a quelle guardie, con dir loro che quando pur volevano far simili violenze a un sì riguardevole uffiziale dell'imperadore, dovevano prima abbattere le statue dell'Augusto Costanzo, cioè venire alla ribellione: Gallo Cesare, di ciò avvertito, andò sì fattamente in furia, che spinse le guardie addosso al questore, il quale insieme col prefetto Domiziano fu in breve messo a pezzi, e i lor corpi gittati nel fiume. [64] A questi sconcerti ne tennero dietro degli altri, che tutti riferiti a Costanzo imperadore, il misero in grande agitazione, e tanto più, perchè saltò su il timore che Gallo fosse dietro a far delle novità, e meditasse di usurpare l'imperio. Questo timore agevolmente in cuore di lui nato, perchè principe naturalmente sospettoso, poscia fu avvalorato [Ammian., lib 14, cap. 8, et lib. 15.] da Dinamio e Picenzio, iniqui suoi cortigiani, e da Lampadio prefetto del pretorio, uomo sommamente ambizioso, e dagli eunuchi di corte, che gran credito aveano presso il regnante. Socrate [Socrates, Hist., lib. 2, cap. 34.] fu d'avviso che ben fondati fossero i sospetti di Costanzo, ed Ammiano inclinò anch'egli a credere dei perniciosi disegni in Gallo. Giuliano [Julian., Epist. ad Athen.] di lui fratello, e Zosimo pretendono tutto ciò falso. La gelosia di Stato ne' principi, massimamente deboli, è un mantice che di continuo loro ispira le più violente risoluzioni; e così ora avvenne, con prendere Costanzo la determinazione di levare al cugino Gallo, non solamente la porpora, ma anche la vita.
La maniera da lui tenuta, per compiere tal disegno, fu la seguente. Chiamò prima in Italia Ursicino, generale delle armi in Oriente [Ammianus, lib. 14, cap. 9 et seq.], per paura ch'egli non si unisse con Gallo, o facesse altra novità in quelle parti. Venuto ch'egli fu, Costanzo spedì a Gallo una lettera, tutta profumata di espressioni amorevoli, pregandolo di venire a trovarlo in Italia, per consultar seco intorno ai bisogni presenti, e massimamente intorno ai Persiani, che minacciavano un'irruzione nelle provincie romane. Nello stesso tempo fece sapere a Costantina sua sorella, che se voleva dargli una gran consolazione, venisse anch'ella alla corte. Attesta Filostorgio [Philostorgius, lib. 4, cap. 1.] che questa chiamata pose in somma apprensione tanto [65] Gallo che la moglie: tuttavia fu creduto che andando Costantina innanzi, saprebbe essa ammollir l'ira del fratello ed ottener grazia pel marito. Però ella si mise in viaggio, e Gallo le tenne dietro. Ma giunta Costantina nella Bitinia al luogo di Cene, quivi assalita da maligna febbre, terminò il corso del suo vivere, e il corpo suo fu portato dipoi a Roma, e seppellito nella chiesa di sant'Agnese, già da lei fabbricata. Allora Gallo si vide come perduto; e, se Ammiano dice il vero, pensò ad usurpar l'imperio; ma non ne trovò i mezzi, perchè odiato dai più, e perchè Costanzo gli avea tagliate le penne, con levargli le milizie. Incoraggito poi dagli adulatori, arrivò a Costantinopoli, dove si fermò a vedere i giuochi circensi, benchè sollecitato dalle lettere di Costanzo che l'aspettava a braccia aperte, e mandato aveva intanto uffiziali per vegliare sopra le di lui azioni, sotto pretesto di servirlo nel viaggio. Lasciò Gallo in Andrinopoli buona parte della sua famiglia, e con pochi de' suoi giunse a Petovione, oggidì Petau, vicino al fiume Dravo, dove poco stette ad arrivar anche Barbazione conte de' domestici, ossia capitan delle guardie, che molte calunnie avea prima inventato contra di lui [Ammianus. Philostorg.], e non tardò a spogliarlo della porpora e di tutti gli altri ornamenti principeschi, assicurandolo poi con più giuramenti a nome di Costanzo, che niun altro male gli accaderebbe. Ma il misero fu condotto di poi alla fortezza di Fianone sulle coste della Dalmazia, ossia dell'Istria, vicino a Pola, dove a Crispo, figliuolo del gran Costantino, negli anni addietro era stata tolta la vita, e dove Gallo fu sequestrato sotto buona guardia. Credesi che veramente l'Augusto Costanzo avesse intenzione di non far di peggio al deposto cugino; ma tanto picchiarono Eusebio e gli altri eunuchi di corte, che mutò massima. Fu inviato lo stesso Eusebio con Pentado segretario, per esaminarlo intorno alla morte di Domiziano [66] e d'altri, secondochè si ha da Ammiano: il che è da contrapporre a Giuliano [Julian., Epist. ad Atheniens.] e Libanio [Liban., Orat. XII.], che il dicono condennato senza ascoltarlo. Rispedì poi Costanzo lo stesso Pentado ad eseguir la sentenza di morte fulminata contra di Gallo; e quantunque Filostorgio [Philostorg., Histor., lib. 4, cap. 1.] e Zonara [Zonar., in Annal.] scrivano ch'egli pentito inviò un ordine in contrario, questo, per frode degli eunuchi, non arrivò a tempo, e Gallo ebbe mozzata la testa. Cattivo fine fecero poi coloro che maggiormente colle lor bugie aveano contribuito alla di lui morte, come Barbazione, Scudilone ed altri. Scaricossi ancora lo sdegno di Costanzo, principe implacabile, come avviene a chiunque è di picciolo cuore, sopra gli uccisori di Domiziano e di Monzio: giacchè trovandosi esso Augusto solo possessore del romano imperio, diviso per tanto tempo addietro fra più imperatori e cesari [Ammianus, lib. 15, cap. 1 et 2.], andava ogni dì più crescendo la di lui crudeltà ed orgoglio. Fatto anche venir dalla Cappadocia Giuliano, fratello dell'estinto Gallo, poco mancò che a lui pure non levasse la vita per le suggestioni degli adulatori di corte; ma interpostasi in favore di lui l'Augusta Eusebia, fu mandato a Como, e poscia ottenne di poter passare ad Atene, per continuar lo studio delle lettere che era il suo favorito.
Abbiamo da Ammiano che in questo anno, per avere alcuni popoli dell'Alemagna fatte più incursioni nelle terre romane verso il lago di Costanza, Costanzo Augusto nella state mosse l'armata contra di loro, e fermatosi nel paese di Coira, inviò innanzi Arbezione, che sulle prime ebbe delle busse, ma poscia in un secondo combattimento sconfisse i nemici: perlochè Costanzo tutto glorioso ed allegro se ne tornò a Milano, dove passò ancora il verno seguente. A [67] quest'anno appartiene pur anche la ribellion [Aurel. Victor, in Epit. Zonaras, in Annalib. Ammianus, lib. 15, cap. 5.] di Silvano, nobile e valoroso capitano franzese, quel medesimo che, abbandonato il tiranno Magnenzio prima della battaglia di Mursa, era passato ai servigi dell'Augusto Costanzo, e creato dipoi generale di fanteria, fu inviato nelle Gallie per reprimere i barbari germanici, che mettevano a sacco e fuoco quelle contrade. Che che dicano di lui Giuliano [Julian., Orat. II.] e Mamertino [Mamertinus, in Panegyr. Jul.], si crede che Silvano procedesse da uomo prode ed onorato in far guerra contra de' Barbari. Ma non gli mancavano emuli e nemici alla corte, i quali procurarono la di lui rovina. Dinamio, uno dei bassi cortigiani, per quanto si disse, fu il fabbricator della trama. Impetrò egli lettere commendatizie da Silvano a varii personaggi di corte, e poi ritenuta la sottoscrizione, e scancellate con pennello le altre lettere della pergamena, vi scrisse ciò che volle, cioè delle preghiere in gergo ad essi suoi amici, per essere aiutato a salire dove la fortuna il chiamava. Portate dall'iniquo Dinamio tali lettere a Lampadio prefetto del pretorio, che poi si sospettò complice della frode, passarono sotto gli occhi di Costanzo; e tosto saltò fuori l'ordine della carcerazione delle persone alle quali erano indirizzati que' fogli. Fu ancora spedito nelle Gallie Apodemo, per far venire Silvano alla corte; ma costui prima di avvisarlo, si predè ad occupare i di lui beni, e a tormentare alcuni dei di lui dipendenti. Ciò diede impulso a Silvano di non volersi arrischiare al viaggio d'Italia, essendo egli assai persuaso che in questi tempi l'essere accusato e condennato era facilmente lo stesso; e però non sapendo qual partito prendere, si ridusse a farsi proclamare Augusto dalle milizie di suo comando. Troppo sventuratamente per lui, perchè in questo mentre essendosi [68] scoperte le furberie di Dinamio alla corte, e per conseguente la di lui innocenza, se avesse tardato a far quel gran passo, era in salvo l'onore e la vita sua. Giunto a Milano l'avviso della di lui ribellione, ne sguazzarono i suoi emuli, al vedere fortunatamente verificati i lor falsi rapporti; e Costanzo Augusto inviò tosto nelle Gallie Ursicino conte, il quale a dirittura si portò a Colonia; e fingendo d'essere colà andato per unirsi con Silvano, entrò seco facilmente in confidenza finchè sotto mano guadagnati alcuni soldati, il fece un dì tagliare a pezzi, dopo soli ventotto giorni dell'usurpato imperio. Aspra giustizia fu dipoi fatta di alcuni complici di Silvano. Contuttociò si mostrò questa volta sì discreto Costanzo [Aurel. Victor, in Epitome.], probabilmente perchè capì essere stato precipitato l'infelice in quella risoluzione non da mala volontà, ma da un giusto timore, che presto desistè dal perseguitare i di lui amici [Ammian., lib. 15. Jul., Orat. I et II.], anzi volle che fossero conservati tutti i di lui beni ad un suo figliuolo, lasciato dianzi in corte per ostaggio della sua fede. Vi ha chi mette all'anno seguente il fatto di Silvano. Io, tenendo dietro a s. Girolamo [Hieronymus, in Chronico.], ne ho parlato in questo, giacchè egli sotto lo stesso anno riferisce le tragedie di Gallo e di Silvano.
Anno di | Cristo CCCLV. Indizione XIII. |
Liberio papa 4. | |
Costanzo imperadore 19. |
Consoli
Flavio Arbezione e Quinto Flavio Mesio Egnazio Lolliano.
Col favore d'alcune iscrizioni da me rapportate altrove [Thesaur. Novus Inscript., p. 380.], sembrano a me sufficientemente provati i nomi di questi consoli. Lolliano si trova ancora col nome di Mavorzio. Continuò per alcuni mesi dell'anno presente nella prefettura [69] di Roma Memmio Vitrasio Orfito, ed ebbe poi per successore Leonzio, personaggio assai lodato da Ammiano. Per quanto si raccoglie dalle leggi del Codice Teodosiano [Gothofr., Chron. Cod. Theodos.], l'Augusto Costanzo per lo più soggiornò in Milano nell'anno corrente, nè andò a Roma o a Sirmio, come per errore si legge in due date. Fu appunto in essa città di Milano tenuto in quest'anno un famoso conciliabolo, a cui intervenne lo stesso imperadore, spasimato fautor degli ariani: il perchè prevalse il loro partito. Quivi fu deposto sant'Atanasio [Sever. Sulpicius, lib. II. Baron., Annal. Eccl.]; e perchè papa Liberio con altri vescovi ricusò di sottoscrivere gli iniqui decreti, d'ordine di Costanzo fu mandato in esilio. Venne anche forzato il clero romano ad eleggere un altro pontefice, che fu Felice; essendosi poi disputato fra gli eruditi, se questi fosse vero o non vero papa. Tolto di vita Silvano, l'unico generale di cui rispetto e paura aveano in addietro i Barbari della Germania, parve che si aprisse la porta al loro furore, per iscorrere liberamente per le provincie gallicane, e portar la desolazione dappertutto [Ammian., lib. 15, cap. 8.]. Attesta Sozimo [Zosimus, lib. 3, cap. II.] che i Franchi, Alamanni e Sassoni presero e devastarono quaranta città poste lungo il Reno, e, fatto un immenso bottino, condussero in ischiavitù una infinità di persone. Nello stesso tempo anche i Quadi e Sarmati, dandosi probabilmente mano con gli altri Barbari, mettevano a sacco la Pannonia e Mesia superiore, senza trovar chi loro facesse resistenza. Del pari i Persiani non lasciavano quieta la Mesopotamia. Costanzo intanto se ne stava da lungi osservando questi malori, nè provvedeva al bisogno. Pieno sempre di diffidenze e timori, non osava di passar nelle Gallie, dove maggiore era il bisogno; e nè pur vi spediva generali, paventando l'esempio di Silvano. Mentre [70] vacillava, senza appigliarsi a risoluzione alcuna, l'imperadrice Eusebia, donna di singolar prudenza, ancorchè conoscesse il sospettoso genio dell'Augusto consorte, massimamente verso de' parenti, pure con sì bel garbo gli seppe dipingere la persona di Giuliano di lui cugino, e fratello dell'estinto Gallo Cesare (chiamandolo giovane d'ingegno semplice, che metteva tutto il suo piacere ne' soli studi delle lettere, usando perciò il mantello da filosofo, e poco comparendo pratico degli affari politici), che bel bello indusse Costanzo a richiamarlo da Atene in Italia, e poscia a conferirgli il titolo di Cesare.
Scoperta dai cortigiani questa intenzione dell'imperadore, e temendo di veder calare la loro autorità e possanza, non dimenticarono [Ammianus, lib. 15, cap. 8.] di far quanta opposizione poterono; con rappresentargli i pericoli ai quali si esponeva, massimamente innalzando un fratello di Gallo, e tanto più perchè egli non avea bisogno di compagni per governar tutto l'imperio. Ma più di loro si trovarono possenti le persuasive dell'Augusta Eusebia, di modo che raunate le milizie tutte in Milano [Idacius, in Fastis. Socrates, Hist., lib. 2, cap. 27. Hier., in Chronico.], e salito Costanzo sul trono, dichiarò Cesare il suddetto suo cugino Flavio Claudio Giuliano, gli diede la porpora cesarea e destinollo al governo delle Gallie, per far testa a tanti barbari scatenati contra di quelle contrade. Straordinarie in tal congiuntura furono le acclamazioni e il giubilo de' soldati, ed orribile lo strepito de' loro scudi battuti sopra il ginocchio: chè questo era il segno consueto dell'allegrezze: laddove il battere colle lance gli scudi, segno era di sdegno e dolore. Trovavasi allora il novello Cesare in età di venticinque anni, picciolo di statura, ma spiritoso ed agile, di volto nondimeno poco avvenente; al che contribuiva ancora l'aver egli voluto ritener la barba mal pettinata e [71] rabbuffata [Aurelius Vict., in Epitome. Julian., in Misopogon.], che affettavano i filosofi di quel tempo, benchè avesse deposto il mantello filosofico. Ma qui non finirono gli onori da Costanzo compartiti a Giuliano. A lui diede ancora in moglie Elena sua sorella, e poscia nel dì primo di dicembre [Ammian., lib. 15, cap. 9.] l'incamminò alla volta delle Gallie, accompagnandolo fino ad un luogo posto fra Lomello e Ticino, o vogliam dire Pavia. Appena giunto a Torino intese Giuliano la funesta nuova che l'insigne città di Colonia, assediata dai Barbari, era finalmente caduta in loro mani, spogliata e diroccata dal loro furore: nuova che il rattristò forte, quasi cattivo augurio ai suoi passi. Nè si dee tacere che il geloso Costanzo si studiò per quanto potè di ristrignere l'autorità del cognato e cugino Cesare, per paura ch'egli se ne abusasse, come avea fatto il suo fratello Gallo. Sotto specie d'onore gli mutò tutta la famiglia; gli diede guardie scelte da sè, con ordini segreti ad ognuno di vegliare sopra i di lui andamenti; gli prescrisse infino la tavola [Julian., in Epist. ad Athen. Ammian., lib. 15, cap. 5. Zosimus, lib. 3, cap. 2.], come se si fosse trattato di un figlio che si mettesse in collegio. Deputò per generale dell'armi Marcello; in man di esso e non di Giuliano doveva essere tutto il comando, con ordine espresso che Giuliano nulla potesse donare ai soldati, e nè pure per la sua promozione, come si stilò sempre in addietro. Tante precauzioni del sospettoso Augusto dove andassero a terminare, lo scorgeremo dopo qualche tempo. Intanto Giuliano Cesare passate le Alpi prima che finisse l'anno arrivò a Vienna del Delfinato, ivi accolto con gran festa da tutto il popolo; ed allora fu, se merita fede Ammiano, che una vecchia cieca di quella città gridò, essere venuto chi ristabilirebbe un dì i templi de' falsi dii. Malcontento nondimeno fece Giuliano quel viaggio, perchè [72] Costanzo non gli avea dato seco se non trecento sessanta soldati [Zosimus, lib. 3, cap. 2. Libanius, Orat. ad Julian. Julian., in Epist. ad Athen.]; quando le Gallie si trovavano in un estremo bisogno di forze militari, per resistere alla gran possanza e crudeltà delle nazioni barbariche, alle quali il Reno non serviva più di confine. Nè mancò gente maligna, per attestato di Socrate [Socrat., Histor., tom. 3, cap. 1.], che giudicò averlo Costanzo Augusto inviato colà apposta per farlo perire, soperchiato dai Barbari: il che niun colore ha di verisimiglianza. La di lui nobile promozione, e l'illustre maritaggio smentiscono abbastanza tal voce, e facilmente apparisce, aver solamente paventato Costanzo che questo giovane alzato tant'alto, potesse un dì rivoltarsi contra del benefattore, come in fatti dopo qualche tempo avvenne. Quanto ad Eusebia Augusta, priva di figliuoli, considerando ella Giuliano per successore del marito, cercò per tutte le vie di sempre più affezionarselo con proteggerlo, e perchè conosceva il di lui genio ai libri, gli donò anche una bella libreria, che forse fu a lui non men cara che i ricevuti onori.
Anno di | Cristo CCCLVI. Indizione XIV. |
Liberio papa 5. | |
Costanzo imperadore 20. |
Consoli
Flavio Costanzo Augusto per l'ottava volta e Flavio Claudio Giuliano Cesare.
Leonzio, prefetto di Roma, continuò ancora per quest'anno in quel riguardevole impiego, senza che apparisca se alcuno gli succedesse dopo il mese d'ottobre, in cui si vede una legge [L. 13, de Episcop. Cod. Theodos.] a lui indrizzata da Costanzo Augusto. In Milano si fermò per tutto il verno esso imperadore, e qualche apparenza v'ha ch'egli desse, venuta la primavera, una scorsa nella Pannonia, perchè si sa che chiamò a Sirmio il celebre vescovo [73] Osio [Athanasius, ad Solitar.], ritenendolo ivi come in esilio. Ma egli si truova poi anche in Milano nel suddetto ottobre, dove confermò, colla legge poco fa accennata, i privilegi della Chiesa romana. In questi tempi ancora affascinato più che mai dai vescovi ariani esso imperadore fece un'orribil persecuzione al santo vescovo d'Alessandria Atanasio, il quale fu forzato a fuggire e a nascondersi, con essersi intruso Giorgio ariano nella di lui sedia. Mandò ancora in esilio il celebre vescovo di Poitiers sant'Ilario con altri vescovi cattolici, benchè nel medesimo tempo mostrasse grande ardore in favor della religione cristiana, e pubblicasse editti contra chiunque sacrificava agl'idoli. Per quel che riguarda Giuliano Cesare, egli soggiornò per tutto il verno in Vienna, dove per la prima volta procedette console [Ammianus, lib. 16, cap. 1.], ed attese a raccogliere quante milizie potè, e a far preparamenti [Liban., Orat. IX et XII.] per uscire in campagna contro de' Barbari nemici, i quali, più fieri che mai, seguitavano a dare il sacco alle contrade gallicane. Assediarono essi appunto verso questi tempi la città di Autun, la quale, ancorchè poco fortificata, fu bravamente difesa dai soldati veterani che vi erano di presidio. Le diedero i nemici un dì la scalata, e furono rispinti con loro gran danno. A quella città pervenne Giuliano verso il fine di giugno, perchè gli antichi non solevano mettersi in campagna se non dopo il solstizio di state. Di là passò ad Auxerre, e poscia a Troia, e nel cammino si vide attorniato dai Barbari con forze superiori alle sue, ma gli riuscì di dissiparli con grande loro perdita. A Reims, dove i due generali Marcello ed Ursicino aveano avuto ordine di far la massa di tutte le milizie, si mise Giuliano alla testa dell'armata, e marciò dipoi verso l'Alsazia contra degli Alamanni, i quali, ancorchè avessero presa Argentina, Vormazia, Magonza [74] ed altri luoghi di quel tratto, amavano piuttosto di abitare alla campagna, che di star chiusi nelle città [Liban., Orat. XII.]. Un corpo d'essi che assalì la di lui retroguardia, fu disfatto: dopo la qual picciola vittoria [Ammianus, lib. 16, cap. 3.], giacchè non compariva più ostacolo veruno, rivolse i passi verso la città di Colonia, ed, entratovi, attese a ristabilire quell'abbattuta città. Colla promessa ancora di un tanto di danaro per cadauna testa che i suoi portassero de' nemici, animò ciascuno a far con calore la guerra. Mentre quivi egli dimorava, vedendo i re dei Franchi che i Romani aveano alzata forte la fronte, proposero e conchiusero con Giuliano una tregua, che in questi tempi fu creduta molto utile ai di lui affari. Così è a noi descritta da Ammiano la prima campagna di Giuliano, che sembra stata gloriosa per lui, e pure, scrivendo egli stesso agli Ateniesi [Julian., Epist. ad Atheniens.], confessa che assai male procederono le cose sue in questo primo anno. Libanio [Liban., Orat. IX et XII.] aggiugne aver egli avuto da soffrir molto per la contrarietà de' suoi assistenti, i quali, in vece di secondare i di lui buoni disegni, parevano stargli al fianco solamente per contrariarli, a tenore degli ordini segreti che tenevano dal geloso Costanzo Augusto, quasichè tutta la sua autorità avesse da consistere in solamente lasciarsi vedere per quei paesi, ma senza far nulla: il qual dire ha cera di un'esagerazione maligna di quel sofista pagano. Parla Giuliano [Julian., Orat. III in fine.] dell'andata di Eusebia Augusta a Roma, mentre il consorte Costanzo facea guerra agli Alamanni con aver passato il Reno, e del grande onore a lei fatto dal senato e popolo romano, e dei donativi d'essa ai capi delle tribù e centurioni di esso popolo. Può essere che questo suo viaggio accadesse nell'anno presente. Ma noi nulla altro sappiamo della guerra suddetta contro gli Alamanni.
Anno di | Cristo CCCLVII. Indizione XV. |
Liberio papa 6. | |
Costanzo imperadore 21. |
Consoli
Flavio Costanzo Augusto per la nona volta e Flavio Claudio Giuliano Cesare per la seconda.
Anche per la seconda volta Memmio Vitrasio Orfito esercitò in quest'anno la carica di prefetto di Roma, come s'ha da Ammiano e dal Codice Teodosiano. Le leggi di esso Codice [Gothofred., in Chron. Cod. Theod.] attestano essere soggiornato l'Augusto Costanzo in Milano nei primi mesi dell'anno presente. Giunta poi la primavera, voglioso di vedere l'augusta città di Roma, dove, secondo tutte le apparenze, non s'era mai portato per l'addietro, verso colà si inviò nel mese di aprile, conducendo seco Elena maritata già con Giuliano. Per attestato d'Idazio [Idacius, in Fastis. Hieron., in Chron.] v'entrò nel dì 28 di esso mese con somma magnificenza ed aria di trionfante. Per questo suo trionfo gli dà Ammiano [Ammianus, lib. 16, cap. 10.] la burla, perchè nè egli nè i suoi capitani vittoria alcuna aveano mai riportato de' nemici dell'imperio, nè egli aveva aggiunto un palmo di terreno al paese romano, nè mai era intervenuto a verun combattimento; che se avea abbattuto Magnenzio, non solevano i principi romani trionfare de' proprii sudditi ribelli. Vedesi appresso descritta da esso istorico quella splendidissima funzione coll'incontro del senato, e dei vari ordini dell'immenso popolo romano, coll'accompagnamento delle schiere militari, e fra le incessanti acclamazioni della plebe e strepiti di innumerabili suoni di gioia. Poscia con vari giuochi e spettacoli rallegrò egli il popolo romano e di mano in mano andò visitando le tante rarità e magnifiche fabbriche di quella regina delle città, le quali non aveano fin qui provata la distruggitrice [76] fierezza delle nazioni barbare. Attesta Ammiano ch'egli alla vista di sì belle e grandiose opere dei precedenti Augusti e cittadini, non capiva in sè stesso per lo stupore, giugnendo in fine a dire che per le altre città la fama era bugiarda, perchè troppo ne dicea; ma che non men bugiarda era essa per Roma, perchè ne dicea troppo poco. Siccome altrove accennammo, al suo corteggio si trovava sempre Ormisda, fratello del re di Persia, che tanti anni prima s'era rifugiato sotto l'ombra di Costantino il Grande. Non incresca al lettore, s'io ricordo di nuovo, che interrogato questo saggio straniero da esso Augusto intorno alle grandezze di Roma qual cosa gli fosse più data negli occhi rispose: Che nulla più gli era piaciuto quanto d'aver imparato che anche in Roma si moriva. In questa occasione fu che molte città, e particolarmente Costantinopoli, inviarono delle pesanti corone d'oro in dono all'Augusto Costanzo, secondochè s'ha da Temistio sofista [Themistius, Orat. III et VI.], il quale avea preparato per questa congiuntura un'orazione in lode di esso imperadore, ma senza poterla recitare, perchè restò interrotto il disegno da una malattia sopraggiuntagli nel suo viaggio. Ci resta tuttavia quella orazione, siccome un'altra ch'egli recitò in Costantinopoli a gloria del medesimo Augusto.
Osservato ch'ebbe Costanzo tante insigni memorie di magnificenza, lasciate in Roma dagli antecessori suoi, non volle essere da men di loro. Pertanto ordinò [Ammianus, lib. 17, cap. 4.] che si facesse venir dall'Egitto un superbissimo obelisco (guglia ora lo chiamano) da collocarsi nel Circo Massimo, per adempiere nello stesso tempo il disegno di Costantino suo padre, che lo avea fatto condurre da Heliopoli sino ad Alessandria, senza poi compiere l'impresa per cagion della morte. Ammiano fa qui una lezione intorno agli obelischi, e racconta il trasporto a Roma di quella [77] mirabil mole, la stessa che poi l'animo grande di papa Sisto V fece di nuovo innalzare nella piazza del Vaticano. Il Lindenbrogio [Lindenbrogius, in Not. ad Ammian.], che suppone trasportato non a Roma antica, ma alla nuova, cioè a Costantinopoli questo stupendo obelisco, citando l'iscrizione che si trova in un altro esistente in essa città di Costantinopoli, prese un granchio, chiaramente parlando Ammiano, che il suddetto sopra una smisurata nave fu pel Tevere introdotto in Roma. Degno è qui di memoria il glorioso zelo delle dame romane [Theodoret., Histor., lib. 2, cap. 14.], per impetrar la liberazione di papa Liberio, relegato per quasi due anni a Berea. Si presentarono esse animosamente all'imperadore, per pregarlo di rimettere in libertà il loro pastore; e perchè egli rispose che avendo elle Felice, non mancava pastore al popolo romano, ne mostrarono esse dell'orrore. Fu cagione un tal ricorso, che Costanzo pensasse a richiamar l'esiliato pontefice, ma sedotto dai consiglieri ariani, tanto fece, che lo indusse poi a comperar la grazia con discapito non lieve della sua riputazione, siccome accennerò all'anno seguente. Abbiamo ancora da sant'Ambrosio [Ambrosius contra Sym. Epist. XII.] che Costanzo o prima di giugnere a Roma, o giunto che vi fu, fece levar dal senato la statua della Vittoria, adorata tuttavia dai pagani: il che quanto fece risplendere la di lui cristiana delicatezza, altrettanto diede motivo di mormorazione e collera a chi tuttavia professava il culto degl'idoli, e massimamente al senato, giacchè tutti i senatori d'allora, o almeno la maggior parte erano idolatri. Pensava poi e desiderava esso Augusto di fermarsi più lungamente in quella maestosa e deliziosa città [Ammian., lib. 16, cap. 10.], quando gli vennero nuove che gli Svevi facevano delle scorrerie nella Rezia; i Quadi nella Valeria o sia nella Pannonia, e i Sarmati nella Mesia superiore. [78] Per tal cagione, dopo la dimora di soli trenta giorni, si partì di colà e tornossene a Milano. Convien credere che cessassero i torbidi della Rezia, perchè non si sa che Costanzo alcun movimento facesse per quelle parti. Le leggi [Gothofred., in Chron. Cod. Theodos.] bensì del Codice Teodosiano, ed Ammiano [Ammianus, lib. 16, cap. 10.] ci assicurano che forse verso il fine dell'anno, per via di Trento, egli passò nella Pannonia [Sozomenus, lib. 4, cap. 14.], andando a Sirmio, dove si trattenne poi per tutto il seguente verno [Philostorgius, lib. 4, cap. 3.]. Visitò le frontiere verso i Quadi e Sarmati, e da quelle barbare nazioni ricevette quante belle parole di pace ed amicizia egli voleva, ma pochi fatti, siccome vedremo. Non piaceva certo a Costanzo il faticoso e pericoloso mestier della guerra, e però si studiava di acconciar le cose come poteva il meglio colle buone, guardandosi di venire a rottura.
Passiamo ora nelle Gallie, dove Giuliano Cesare si trattenne durante il verno nella città di Sens, con ritener poche truppe presso di sè, e distribuire il resto in altri paesi [Ammian., lib. 6, cap. 4.], perchè il paese si trovava disfatto dai Barbari. Non tardarono le spie a ragguagliare i nemici dello stato presente di Giuliano; e però volarono nel cuor del verno ad assediarlo in quella città [Julian., Epist. ad Atheniens.]. Così bravamente si difese egli con quel poco di guarnigione che ivi stava di guardia, che da lì a un mese que' Barbari levarono il campo e se ne andarono. Quello che specialmente disgustò Giuliano, fu che Marcello generale delle armi, acquartierato in quelle vicinanze, niun pensiero si diede per soccorrere la città assediata e lui posto in sì grave pericolo. Ne fece perciò amare doglianze Giuliano alla corte, e non le fece indarno, perchè Costanzo, mentre soggiornava in Milano nella primavera, [79] richiamò esso Marcello, e toltogli il comando dell'armi, come a persona inetta per quell'impiego, il mandò a riposare a Serdica patria sua. Alla deposizion di costui contribuì l'essere stato spedito alla corte da Giuliano, Euterio suo eunuco, uomo di vaglia, che fece ben valere le ragioni del suo padrone contro le informazioni dell'altro. Di questa occasione [Zosim., lib. 3, cap. 2.] si servì l'imperadrice Eusebia per ottenere dall'Augusto consorte, che Giuliano avesse il comando dell'armi, senza dipendere dal pedante. Per suo tenente generale, e generale della cavalleria [Julian., Epist. ad Atheniens. Libanius, Orat. XII.], gli fu poi inviato Severo, uomo pratico del mestier militare, e discreto, a cui non rincresceva di ubbidire agli ordini di esso principe. A questi tempi riferisce Ammiano [Ammian., lib. 16, cap. 8.] i rigorosi processi, formati per ordine di Costanzo contra chi ricorreva ai maghi, strologhi e indovini, per sapere il significato de' sogni o de' fortuiti incontri degli animali, o pure facea de' sortilegi per guarire da qualche male. Il che ci fa intendere sempre più la debolezza di Costanzo, che pien di sospetti, tutte queste inezie, per altro ridicole, ed insieme viziose e condannabili, interpretava sempre come tendenti contro la vita propria, ed insieme ci rappresenta la stoltizia, riferita anche da altri, degli antichi Gentili, prodigiosamente attaccati a simili superstizioni ed augurii. Per questo fu pubblicata nell'anno seguente da esso imperadore una rigorosissima legge contro simili impostori, riguardandoli come rei di lesa maestà. Inviò poscia Costanzo dall'Italia verso l'Elvezia in soccorso di Giuliano Cesare Arbezione, con titolo di generale della fanteria [Idem, ibid., cap. 11.], dandogli seco venticinquemila combattenti, con intenzione di cacciar da quelle contrade gli Alamanni, i quali continuamente le infestavano. Era [80] costui un bravo solenne, ma solamente di parole, e non già di fatti [Liban., Orat. XII.]; e si trovò poi che non perdonava alle calunnie, per abbassar la gloria di Giuliano. Giunse egli colle sue genti sino alle vicinanze di quella città, che oggidì porta il nome di Basilea, ma senza fare impresa alcuna meritevol di lode in quelle parti. Riuscì intanto circa questi tempi ai Leti, popolo germanico, di giugnere con una scorreria fin sotto la città di Lione, che andò a pericolo d'essere occupata e bruciata, come era il loro disegno; ma felicemente quel popolo si difese, e il solo territorio andò a sacco. Giuliano armò i passi per dove costoro doveano ritornare, e ne fece tagliar a pezzi la maggior parte. Il resto passò in vicinanza del campo di Arbezione, che non volle che si facesse guardia alcuna, e pure scrisse dipoi alla corte contra di alcuni uffiziali, mal veduti da lui, incolpandoli di non aver guardati i posti, e li fece cassare. Uno di essi fu Valentiniano, che poi divenne imperadore.
Venuta la state, Giuliano colle sue milizie si mise in campagna. Avea egli arrolata quanta gente potè, e perchè ebbe la fortuna di trovar delle armi in un vecchio magazzino, ne fece buon uso [Zosimus, lib. 3, cap. 3. Ammianus, lib. 16, cap. 11. Libanius, Orat. XII.]. Marciò alla volta del Reno, e trovò che i Barbari parte s'erano afforzati in vari siti di qua dal fiume con diversi trincieramenti d'alberi tagliati, e parte accampati nelle isole di quel fiume, quivi si riputavano sicuri. Avendo inviato a dimandar delle barche ad Arbezione, nulla potè ottenere. Non per questo lasciò d'andare innanzi, e trovate l'acque basse, fece transitar in alcune di quelle isole alquanti de' suoi soldati, che diedero la mala pasqua a que' Barbari ivi sorpresi, e si impadronirono delle lor barche, con valersene poi ad assalir le altre isole, in guisa che ne snidarono tutti i nemici, con ridurli a salvarsi di là dal [81] fiume. Allora Giuliano attese a formarsi un buon asilo, fortificando Saverna, luogo dell'Alsazia, e provvedendola di viveri per un anno. Per lo contrario Arbezione, coll'aver tentato di gittare un ponte di barche sul Reno, mosse i Barbari a scagliarsi contra di lui. Tanti alberi tagliati mandarono essi giù pel fiume [Liban., Orat. XII.], che ruppero il ponte, uccisero moltissimi Romani, e gl'inseguirono fin presso a Basilea. Contento di questa bella impresa Arbezione, ossia Barbazione, mandò le sue genti a' quartieri d'inverno. Non così operò Giuliano Cesare [Ammianus, lib. 16, cap. 12.]. Cnodomario re degli Alamanni, informato dalle spie che questo principe non avea seco più di tredicimila persone, gli spedì per uno, o pure per più suoi deputati, lettera, con cui imperiosamente gli comandava di levarsi da quelle terre, perchè a lui cedute da Costanzo Augusto mentre Magnenzio viveva, e fece anche veder le lettere di esso imperadore. Giuliano mostrando di credere che quel messo fosse inviato per ispia, il ritenne fin dopo la battaglia, di cui ora parlerò, e poi gli diede la libertà. Non veggendo Cnodomario nè risposta nè messo, volle venir in persona ad abboccarsi alla testa della sua armata con Giuliano. Dicono che egli seco menasse trentacinque mila armati, e fra Saverna ed Argentina attaccò un fatto d'armi, in tempo che era matura la messe, cioè probabilmente dopo la metà di luglio. Stette dubbioso un pezzo l'esito del combattimento, descritto minutamente da Ammiano [Idem, ib.]. La cavalleria romana andò quasi in rotta; la fanteria tenne sì forte, che infine sbaragliata la nemica, e sconfitti gli Alamanni diedero alle gambe. Strage non poca di loro fu fatta, e forse più di essi ne assorbì il fiume [Idem, ib. Liban., Orat. XII.]. Chi dice sei, chi ottomila di loro vi perì. È guasto il testo di [82] Zosimo [Zosim., lib. 3, cap. 3.], che parla di sessantamila nemici estinti. Dalla parte de' Romani alcune sole centinaia rimasero sul campo. Ma quello che rendè più gloriosa la vittoria di Giuliano [Jul., in Epist. ad Athen.] fu la presa del medesimo re Cnodomario, colto fuggitivo in un bosco, che fu poi presentato a Giuliano alla vista di tutto l'esercito, ben trattato da lui, e fra pochi giorni inviato prigioniere all'imperador Costanzo. Noi troviamo esaltata forte dagli scrittori pagani [Ammian. Marcellin. Aurel. Vict. Liban. Eutrop. Mamert.] questa felice giornata di Giuliano, ed essa veramente liberò tutte le Gallie dal peso delle nazioni germaniche che si ritirarono di là dal Reno. La vittoriosa armata in quel bollore di allegrezza proclamò Giuliano Augusto; ma egli represse le loro voci, e diede poi tutto l'onore di tale impresa a Costanzo, il quale in fatti si pavoneggiò di essa vittoria, come se in persona fosse intervenuto a quel conflitto; ciò apparendo da un editto, accennato da Temistio [Temist., Orat. IV.] e da Aurelio Vittore. Per profittar poi della vittoria, Giuliano, formato un ponte sul Reno a Magonza, passò di là, e diede il guasto al paese nemico, finchè le nevi obbligarono le sue soldatesche a cercar quartiere. Ebbe inoltre cura di fortificare di là dal Reno il castello di Trajano, creduto oggidì quello di Cromburgo, distante circa dieci miglia da Francoforte: azioni tutte che empierono di spavento gli Alamanni, avvezzi da gran tempo solamente a vincere e a saccheggiare gli altrui paesi. Perlochè più volte spedirono inviati per dimandar pace, con ottener in fine non più che una tregua di dieci mesi. Andò poscia Giuliano a passare il verno a Parigi, luogo, il cui nome comincia ad udirsi solamente in questi tempi, e che consisteva allora in un castello posto nel recinto dell'isola della Senna.
Anno di | Cristo CCCLVIII. Indizione I. |
Liberio papa 7. | |
Costanzo imperadore 22. |
Consoli
Daziano e Nerazio Cereale.
Nel grado di prefetto di Roma continuò Memmio Vitrasio Orfito anche per quest'anno. Seguitò ancora l'imperador Costanzo a trattenersi nella Pannonia, ciò apparendo da varie sue leggi [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.] pubblicate in Sirmio e Mursa, fallata essendo la data di due, come fatte in Milano. Trattenevasi egli in quelle parti, perchè durava la guerra coi Quadi e Sarmati. Costoro nel verno col favore del ghiaccio fecero non poche scorrerie nella Pannonia e Mesia superiore. Nello stesso tempo i Giutunghi, popoli della Alamagna, infestarono la Rezia; ma spedito di poi contra di essi Barbazione [Ammian., lib. 17, cap. 6.], gli riuscì per questa volta di dar loro una rotta, cioè una buona lezione, per portar più rispetto da lì innanzi alle terre de' Romani. Ora l'Augusto Costanzo sul principio di aprile [Idem, ibid., cap. 12.], ansioso di vendicarsi delle insolenze de' medesimi Barbari, dopo aver gittato un ponte sul Danubio, passò colla sua armata ai lor danni; ed essendosi eglino arrischiati ad affrontarsi con lui, conobbero a loro spese quanto ben fossero affilate le spade romane. Questa lor perdita e il guasto del loro paese li consigliò a spedire ambasciatori per aver pace, con esibire ancora di sottomettersi. Costanzo si contentò di obbligarli solamente a rendere i prigioni e a dar degli ostaggi, poscia se ne tornò di nuovo nella Pannonia. E perciocchè abbiam detto altrove, cioè all'anno 334, che i Sarmati erano stati cacciati dal proprio paese dai loro schiavi appellati Limiganti, Costanzo, pregato di volerli rimettere in casa, ne prese l'assunto, e con essi portò la guerra addosso [84] a quella canaglia. Vennero in gran copia i Limiganti a trovar l'imperadore, con far vista di volersi sottomettere, ma con disegno di fare un brutto scherzo ai Romani se li trovavano poco guardinghi. Per loro disgrazia i Romani vegliavano, e al primo cenno che fecero coloro di dar di piglio alle armi, li prevennero con tagliarli tutti a pezzi, giacchè niun d'essi volle dimandar la vita. Ora dappoichè ebbero sofferto un fier sacco delle loro campagne, nè potevano più resistere a quel flagello, si ridussero i Limiganti a cedere il paese agli antichi loro padroni, e a ritirarsi in un più lontano [Aurel. Victor, de Caesarib.]. Il che fatto, Costanzo ebbe la gloria di dare per re ai Sarmati un principe della lor nazione, per nome Zizais, e di rimetterli in possesso dei lor antichi beni, dopo ventiquattro anni di esilio. Per questa felice impresa a Costanzo fu dato il titolo di Sarmatico dopo il suo ritorno a Sirmio, nella qual città egli soggiornò poi nel verno seguente. Ma non si dee omettere un altro fatto spettante al medesimo Augusto [Ammian., lib. 16, cap. 9.]. Avea nell'anno precedente Musoniano, prefetto del pretorio di Oriente, mossa parola di pace con Tansapore general de' Persiani, il quale veramente ne scrisse al re Sapore suo padrone, ma con termini che mostravano l'imperador romano, se non bisognoso e supplicante, almeno assai voglioso di pacificarsi con lui [Idem, lib. 17, cap. 5.]. Perchè Sapore si trovava alla estremità del suo regno in guerra con alcuni suoi nemici, le lettere tardarono a giugnergli, o pure egli tardò a rispondere, finchè ebbe terminati quegli affari. Allora egli spedì per suo ambasciatore a Costanzo Augusto uno de' suoi ministri, per nome Narsete, con diversi regali, e con una lettera riferita da Ammiano, carica di que' bei titoli che tuttavia usano i vani e superbi Turchi, ed altri monarchi dell'Asia, cioè re dei regi, parente delle stelle, fratello del sole e della [85] luna. Era essa lettera involta in bianca tela di seta: rito anche oggidì praticato nelle corti orientali; e con essa il re persiano parlava alto, richiedendo la restituzion d'immensi paesi stati una volta della nazion persiana, riducendosi nondimeno a contentarsi dell'Armenia e Mesopotamia. Scrive Idazio [Idacius, in Fastis.] che questa ambasceria passò per Costantinopoli nel dì 23 di febbraio dell'anno presente, e si portò a Sirmio a trovar lo imperadore. Anche Temistio [Temisthius, Orat. IV.] la vide prima passar per Antiochia. Costanzo, senza voler entrare in negoziato alcuno, rimandò l'ambasciatore con solamente rispondere che sua intenzione era più che mai di conservare interamente lo imperio, e che darebbe mano alla pace, purchè ne fossero onorevoli e non vergognose le condizioni. Poscia anch'egli inviò per suoi ambasciatori a Sapore con lettere e regali tre scelte persone [Ammianus, lib. 17, cap. 5.], cioè Prospero conte, Spettato, uno dei suoi segretari, parente di Libanio, che ne parla in varie sue lettere, ed Eustazio filosofo, discepolo di Jamblico, di cui parla Eunapio [Eunap., Vit. Sophist., cap. 3.] con molta lode, o, per dir meglio, con troppa adulazione. Nulla di pace fu conchiuso, avvegnachè Costanzo dopo qualche tempo spedisse altri ambasciadori al Persiano: cioè Lucilliano conte e Valente, che vedremo a suo tempo ribello all'imperio; il perchè continuò la rottura, nè andrà molto che la vedremo passare in guerra viva. L'anno fu questo, in cui papa Liberio ottenne da Costanzo Augusto d'essere richiamato dall'esilio, ma con pregiudizio del suo onore, perchè si lasciò indurre alla condannazione di sant'Atanasio, per non condiscendere alla quale s'era esposto in addietro con eroico coraggio a tanti patimenti. Venne egli in quest'anno alla corte di Costanzo, esistente in Sirmio; [86] e il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] pretende che solamente nell'anno seguente egli ritornasse a Roma, dove ripigliò il pontificato coll'esclusione di Felice già posto sulla sedia papale in luogo suo, e cacciato fuor di Roma all'arrivo di Liberio: intorno a che è da vedere la storia ecclesiastica. Terribile avvenimento ancora dell'anno presente fu il tremuoto che nel mese d'agosto si fece sentire spaventosamente in Oriente, ed è mentovato e compianto da più scrittori [Idacius. Ammianus. Hieronym., in Chronico. Socrates, Sozomenus et alii.] di que' secoli. Nicomedia, città della Bitinia, una delle più popolate dell'imperio romano, che Diocleziano cotanto amò ed abbellì, bramando di farne un'altra Roma, in un momento fu rovesciata a terra, con perir ivi, se Libanio [Liban., Orat. VIII.] non esagera di troppo quella gran calamità, quasi tutti gli abitanti. Ammiano ci lasciò un lagrimevol ritratto delle sue rovine. Si stese quell'orrenda scossa della terra per le contrade dell'Asia, del Ponte e della Macedonia, con iscrivere Idazio, che ben centocinquanta città ne provarono gran danno.
Per conto di Giuliano Cesare, egli durante il verno, dimorando in Parigi, attese a regolar le imposte solite delle Gallie con tale esattezza, che senza metterne delle nuove, ricavò il danaro occorrente per continuar la guerra in quest'anno [Ammianus, lib. 16, cap. 8.]. Le mire sue, giacchè durava la tregua con gli Alamanni, tendevano contra dei popoli Franchi, divisi in varie popolazioni l'una indipendente dall'altra, e governata da' suoi principi o re, de' quali non sappiamo il nome. Venuto dunque il tempo proprio, uscì in campagna, e rivolse l'armi sue verso i Franchi Salii, abitanti fra la Schelda e la Mosa, dove ora è Breda ed Anversa. Arrivato a Tongres, trovò ivi i deputati di quella gente che erano inviati a Parigi, per parlare con lui, ed ascoltò le lor preghiere di [87] lasciarli, come amici, nelle terre dove abitavano. Con belle parole li licenziò, ed entrato dipoi nel loro paese, obbligò quella gente a rendersi. Passò di là contra de' Franchi Camavi, i quali arrischiatisi a far fronte, rimasero in una zuffa sconfitti, e buona parte prigionieri. Di questi popoli soggiogati non pochi ne arrolò, ed accrebbe il suo esercito. Quindi avendo trovati sulla ripa della Mosa tre forti smantellati dai Barbari, immediatamente ordinò che si rimettessero in piedi con buone fortificazioni, e li fornì di viveri. A questo fine, ed anche per sussidio dell'armata, fece venir gran copia di grani dalla Bretagna. Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 5.], storico pagano, che scrive delle maraviglie di queste spedizioni del suo Giuliano, racconta ch'egli a tal effetto fece fabbricare ottocento piccioli legni; i quali poi, salendo pel Reno (cosa non praticata in addietro per l'opposizione o padronanza de' Barbari) portarono la provvisione opportuna all'esercito e alle fortezze di quel tratto. Ma forse questo fatto appartiene all'anno seguente. Dovette intanto spirar la tregua con gli Alamanni, e perchè Giuliano non volle aspettare [Ammianus, lib. 17, cap. 10.] ch'essi tentassero cosa alcuna contro il paese romano, e conosceva il vantaggio di far la guerra in casa de' nemici: gittato un ponte sul Reno, passò nelle terre alamanniche coll'esercito suo. Si disponeva a far gran cose, se il suo generale Severo (non si sa bene il perchè), dianzi sì ardito, non fosse divenuto pauroso ed alieno da ogni rischio di battaglia. Ciò non ostante, Suomario, uno dei re alamanni, intimorito per questa visita, venne in persona a dimandar pace a Giuliano. L'ottenne con patto di rendere tutti gli schiavi romani, e di somministrar vettovaglie alle occorrenze. Colle condizioni medesime accordò Giuliano la pace ad Ortario, altro re o principe dell'Alamagna. Fatto dipoi con diligenza mirabile raccogliere il nome di tutti i Romani già menati in ischiavitù da [88] que' Barbari, volle rigorosamente la restituzione di chiunque non era mancato di vita, e ne vide ritornare ben venti mila alle lor case. Con tali imprese terminò Giuliano la campagna dell'anno presente, e poi condusse l'armata a' quartieri d'inverno.
Anno di | Cristo CCCLIX. Indizione II. |
Liberio papa 8. | |
Costanzo imperadore 23. |
Consoli
Flavio Eusebio e Flavio Hypazio.
Erano questi consoli amendue fratelli di Eusebia Augusta, moglie di Costanzo imperadore, la quale non lasciò indietro diligenza alcuna per esaltare i suoi parenti. Sono amendue lodati da Ammiano [Ammianus, lib. 29.]; ma sotto Valente imperadore, benchè innocenti, patirono delle gravi disgrazie. Memmio Vitrasio Orfito si trova nel dì 25 di marzo di quest'anno tuttavia prefetto di Roma [Gothof., Chron. Cod. Theod.]. Giunio Basso gli succedette; ma il rapì la morte nel dì 23 d'agosto [Baronius, ad an. 358.], dopo aver ricevuto il sacro battesimo. In quella dignità, esercitata per qualche tempo con titolo di viceprefetto da Artemio, entrò dipoi Tertullo. Giacchè Ammiano Marcellino [Ammianus, lib. 18, cap. 1.] dà principio a quest'anno con raccontar le imprese di Giuliano Cesare, seguitandolo anch'io, dico ch'egli, dopo avere nel tempo del verno avuta gran cura di rimettere in piedi, e fornire di vettovaglie varie città sul Reno, già rovinate dai Barbari, uscì al consueto tempo da' quartieri coll'esercito, disegnando di passar di là dal Reno, e di far guerra a quegli Alamanni che tuttavia restavano nemici. Non volle gittar ponte su quel fiume a Magonza, per non disgustar Suomario re o principe amico, e negli altri siti trovò le opposte ripe ben guardate dalle milizie nemiche. Fatti nondimeno una notte passar in barche tacitamente [89] trecento de' più valorosi suoi soldati, questi presero posto di là dal fiume, misero in fuga quelle guardie, e diedero campo all'armata romana di formare il ponte, e di passare il Reno: il che fatto, si stesero i saccheggi per tutte quelle parti. Macriano ed Ariobaudo, re o principi d'esso paese, altro scampo non ebbero che di umiliarsi, ed ottenuta licenza si presentarono supplichevoli a Giuliano. Venne ancora a trovarlo Vadomario, padrone del paese, dove oggidì è Spira, il quale già vedemmo divenuto amico dei Romani, ma per aver insolentemente voluto da Giuliano il figlio suo [Eunap., in Excerpt. de Legat. Tom. I Hist. Byz.] lasciato per ostaggio, senza neppure restituire i prigioni promessi, era caduto in disgrazia di lui. Fu con cortesia accolto, e si può credere che soddisfacesse agli obblighi suoi. Ma non impetrò già perdono per altri principi di quelle contrade, come per Urio, Ursicino e Vestralpo, esigendo Giuliano che essi o venissero, o mandassero ambasciatori con plenipotenze. In fatti costoro, dopo d'aver tollerato il guasto del loro paese, spedirono deputati, a' quali fu conceduta la pace, con obbligo di rendere i prigioni. Non altro di più si sa di questa terza campagna di Giuliano, il quale poi si ridusse alle stanze del verno.
Soggiornava tuttavia ne' primi mesi di quest'anno in Sirmio di Pannonia l'Augusto Costanzo, quando gli fu portata una lettera [Ammianus, lib. 18, cap. 3.] pazzamente scritta a Barbazione, generale della fanteria, da sua moglie, la quale perchè uno sciame d'api si era fermato ed annidato in sua casa, secondo la folle credenza degli auguri d'allora, figurò che il marito, dopo la morte di Costanzo, diverrebbe imperadore, raccomandandosi perciò che non abbandonasse lei per isposare Eusebia Augusta. Bastò questo perchè Costanzo facesse levar la vita ad amendue, e fossero tormentate varie persone innocenti, come complici del fatto. Ed ecco i perniciosi [90] effetti dei superstiziosi cacciatori dell'avvenire. In quei medesimi tempi [Ammianus, lib. 18, cap. 11.] giunse avviso alla corte augusta che i Limiganti, cacciati nell'anno precedente dalla Sarmazia, partendosi dal paese, dove già si ritirarono, si accostavano al Danubio, parendo disposti a passarlo coll'occasione del ghiaccio. Costanzo sul principio della primavera per tal novità andò ad accamparsi colle truppe lungo quel fiume, nella Valeria, provincia della Pannonia, e mandò per sapere che pensiero bolliva in capo a que' Barbari. La risposta fu, che troppo scomodo trovavano il paese dove s'erano rifugiati, pregando perciò l'imperadore di voler prenderli per sudditi, con dar loro qualche sito nell'imperio, e di permettere che venissero ai di lui piedi. Piacque e Costanzo la lor proposizione e li ricevette ad Aciminco, creduto oggidì un borgo vicino a Petervaradino. Era egli salito sopra un luogo eminente per ascoltar le loro preghiere, le quali poco corrispondevano all'aria dei loro volti e alla positura rigida delle lor teste; e mentre si preparava per parlare ad essi, ecco un loro capo gridar marha, marha, segno di battaglia fra loro. Ebbe la fortuna Costanzo di salvarsi, posto a cavallo da alcuno dei suoi cortigiani. Fecero a tutta prima le guardie colle lor vite argine al furor di que' perfidi, da quali fu presa la sedia imperiale coll'aureo cuscino. Intanto l'armata romana, dato di piglio alle armi, furiosamente volò contra de' Barbari, e a niun d'essi lasciò la vita. S'effettuarono, poi in quest'anno le minacce di Sapore re della Persia contra de' Romani [Idem, ibid., cap. 5.], avendolo spezialmente confermato a questa guerra un Antonino, già mercatante ricchissimo della Mesopotamia, ma poscia fallito, che si ricoverò nella Persia, e ben accolto alla corte di Sapore, gli diede un minuto ragguaglio delle fortezze e guarnigioni, in una parola, di [91] tutte le forze e debolezze dell'imperio romano. Fatto dunque un potente armamento, si mise alla testa d'un esercito, composto almeno di centomila combattenti, assistito anche dai re d'Albania e de' Chioniti. A tale avviso la corte dell'imperador Costanzo gran bisbiglio fece; e gli eunuchi, che vi comandavano le feste, seppero far richiamare dalla Soria Ursicino, uffiziale di gran valore e sperienza nella guerra, per dare il comando dell'armi d'Oriente a Sabiniano, uomo vecchio e poltrone di prima riga, ma ricco. Fu poi rimandato indietro Ursicino, con titolo bensì di generale della fanteria, ma con restare la principal autorità del comando nel suddetto Sabiniano. Passato il Tigri, entrò il re persiano nella Mesopotamia, e per consiglio del traditore Antonino pensava di tirar diritto all'Eufrate, e passando in Soria, di dare il sacco a quel ricco paese, con isperanza ancora d'impadronirsene. Ursicino ai primi movimenti del re nemico mandò ordine per la Mesopotamia, che i popoli si ritirassero ne' luoghi forti coi lor viveri, e che si desse il fuoco alle biade già mature, per levare ogni sussistenza all'armata persiana. Fece parimente fortificar le ripe dell'Eufrate, e guernirle d'armati: provvisioni che fecero mutar disegno a Sapore, e determinarlo a portarsi all'assedio della città d'Amida. Ammiano Marcellino, che diffusamente racconta questi fatti, vi si trovò in persona, e suo malgrado si vide chiuso in quella città. Grande fu la difesa di Amida fatta da quella guarnigione; pure dopo due mesi e mezzo d'ostinato assedio, in essa entrarono per forza i Persiani. Furono impiccati i principali degli uffiziali romani, e gli abitanti condotti tutti in ischiavitù, a riserva di chi potè salvarsi con la fuga, come fortunatamente riuscì ancora al suddetto Ammiano. Costò nondimeno ben caro al re persiano un tale acquisto, perchè vi restarono morti circa trentamila de' suoi; la qual perdita unita alla stagione avanzata indusse Sapore a ritirarsi [92] a' quartieri del verno nel regno suo. Nulla fece Sabiniano, il generale primario, per soccorrere Amida, ed Ursicino non avendo mai potuto ottenere alcun braccio da lui, fu costretto a veder cadere quella città senza maniera di soccorrerla. Se n'andò egli poscia alla corte dell'Augusto Costanzo, dove se gli formò addosso un gran processo per quella perdita. Finì poi la faccenda, che Ursicino ebbe per grazia il potersi ritirare a casa sua, con essere poi dato il posto di generale della fanteria ad un Agilone di nazion germanica [Ammianus, lib. 19, cap. 11.]. A cagione di tali disgrazie, Costanzo dalla Mesia passò a Costantinopoli, per accudir più da vicino alle piaghe dell'Oriente, e per reclutare le sue milizie, ben persuaso che il Persiano continuerebbe con più vigore la guerra nell'anno vegnente. Per attestato del suddetto Ammiano, inviò egli nel presente, Paolo, suo segretario e principal ministro della sua crudeltà, a Scitopoli nella Palestina, a fare una rigorosa inquisizione di chi, tanto nella Soria che nell'Egitto, avesse consultati gli oracoli de' pagani, o commesse altre superstizioni ed augurii per indagar l'avvenire. Moltissimi, ed anche de' primarii, processati per questo, a diritto o torto vi perderono la vita o ne' tormenti o per mano del boja; ed altri con pene pecuniare o coll'esilio schivarono la morte. Per colpa anche [Labbe, Concil. General. Baronius, Annal. Eccl.] del medesimo Costanzo il numeroso consilio di vescovi, tenuto in questo anno a Rimini, dopo aver condannati gli errori d'Ario, e confermata la dottrina de' Padri Niceni, andò a terminare in un lagrimevol conciliabolo, con trionfar ivi la fazione e prepotenza degli Ariani: conciliabolo che fu poi detestato da tutta la Chiesa di Dio.
Anno di | Cristo CCCLX. Indizione III. |
Liberio papa 9. | |
Costanzo imperadore 24. |
Consoli
Costanzo Augusto per la decima volta, e Flavio Claudio Giuliano Cesare per la terza.
Prefetto di Roma in parte di questo anno continuò ad essere Tertullo, di professione pagano, che nell'anno precedente corse pericolo della vita in una sedizion del popolo affamato, perchè i venti contrarii non lasciavano venir le navi solite a portare i grani. L'anno presente fu quello in cui si sconciò fieramente la competente armonia, durata fin qui tra l'imperadore Costanzo e Giuliano Cesare, tuttochè anche in addietro, per testimonianza d'Ammiano [Ammianus, lib. 17, cap. 11.], nella corte d'esso Costanzo abbondassero coloro che screditavano a tutto potere Giuliano, e mettevano in ridicolo ogni azione di lui, non mai nominandolo se non con parole di disprezzo. Avea esso Giuliano passato il verno in Parigi [Idem, lib. 15, cap. 1.], quando gli giunse l'avviso che gli Scotti e Pitti, popoli barbari della Bretagna, facevano delle scorrerie nelle provincie romane di quella grand'isola. Spedì egli colà con un corpo di soldatesche Lupicino generale, uomo valoroso, ma crudele ed avaro, e così borioso, che Giuliano ebbe ben cara questa occasione di allontanarselo dai fianchi. Partì costui sul fine del verno da Bologna di Picardia, ed arrivò felicemente a Londra. Altro di più non sappiamo della sua spedizione. Ma eccoti arrivar nelle Gallie Decenzio, uno de' segretarii di Costanzo, con lettere ed ordini indirizzati a Lupicino (era questi andato già in Bretagna) e a Gintonio primo scudiere [Julian., Epist. ad Atheniens.] di condurre in Levante gli Eruli, i Batavi, i Petulanti ed i Celti, con trecento altri [94] scelti dalle truppe di Giuliano. Era fatta istanza di tal gente pel bisogno pressante della guerra persiana; ma credesi che vi entrasse ancora un'invidia segretamente portata da esso Augusto al plauso e buon concetto che s'andava Giuliano acquistando coll'armi nelle Gallie. Intanto ad esso Giuliano unicamente fu scritto di eseguir certi ordini dati a Lupicino. Noi qui non abbiamo se non istorici pagani [Zosimus, lib. 3, cap. 10. Libanius, Orat. X. Ammianus, lib. 20, cap. 4.] che parlano di questo fatto, e può dubitarsi della lor fede. A udir costoro, procedette onoratamente Giuliano in tal congiuntura, col mostrarsi prontissimo all'ubbidienza, ancorchè sommamente se ne affliggesse, perchè così veniva a restare spogliato del miglior nerbo della sua armata, per modo che non solamente niuna impresa poteva egli più tentare, ma restavano anche le Gallie esposte alla violenza de' Barbari transrenani. Rappresentò ben egli a Decenzio il pericolo del paese, e la difficoltà di menar in Oriente que' soldati che s'erano arrolati, o pure come ausilarii militavano con patto di non passar le Alpi; ma Decenzio non aveva autorità di mutar gli ordini imperiali; e però scelti i migliori soldati, senza risparmiare nè pur le guardie del medesimo Giuliano, intimò a tutti la marcia. Giuliano [Julian., Epist. ad Atheniens.] anch'egli volle che abbandonassero i quartieri, e fossero lesti al viaggio. Ma si cominciarono ad udir pianti, grida e querele di quella gente; si sparsero biglietti pieni di lamenti contra di Costanzo e in favor di Giuliano, quasichè si volesse condurli alla morte, facendoli pattare a sì rimoti paesi. Giuliano, per facilitar la loro andata, ordinò che potessero condur seco le loro famiglie, nè volea che transitassero per Parigi, dove egli dimorava, affinchè non succedesse sconcerto alcuno. Ma Decenzio fu di altro parere. Vennero a Parigi, e quanto quel popolo gli scongiurava di non andare, [95] affinchè il paese non rimanesse esposto alla crudeltà dei Barbari, altrettanto i soldati mostravano desiderio di restarvi. Tenne Giuliano alla sua tavola i più cospicui uffiziali, usando con loro ogni cortesia, e facendo ad essi ogni più larga esibizione, in guisa tale che tra queste dolci parole e l'abborrimento a lasciar quel paese, se ne ritornarono tutti molto pensosi ed afflitti al loro quartiere.
Ma non terminò la giornata, che i soldati già commossi dai biglietti, si ammutinarono, e, prese l'armi, andarono ad assediar il palazzo dove era Giuliano, e con alte grida cominciarono a proclamarlo imperadore Augusto, e che voleano vederlo [Zosim. l. 3, c. 11. Julian., Epist. ad Athen. Ammianus, lib. 20, cap. 4. Libanius, Orat. XII.]. Fece Giuliano serrar le porte, e i soldati costanti stettero ivi sino alla mattina seguente, in cui rotte le porte, l'obbligarono ad uscirne, ed allora rinforzarono le acclamazioni, dichiarandolo Augusto. Mostrò Giuliano colle parole e coi fatti quanta resistenza potè; ma perchè i soldati minacciarono di torgli la vita se non si rendeva, forzato fu in fine di acconsentire. Allora posto sopra uno scudo, fu alzato da terra, e fatto vedere ad ognuno. Occorreva un diadema per coronarlo, ed egli protestò di non averne. Si pensò a prendere una fascia giojellata della toletta della moglie; ma non parve buon augurio il ricorrere ad un ornamento donnesco. Fu proposto di pigliare una redine ricamata di cavallo, acciocchè servisse almeno all'apparenza; ma stimò la cosa vergognosa; finchè un uffizial moro, cavatasi di dosso una collana d'oro giojellata, l'esibì, e con questa applicatagli al capo comparve in certa maniera coronato. Il che fatto, egli promise ai soldati cinque nummi d'oro e una libbra d'argento per testa. Nella lettera scritta agli Ateniesi, Giuliano protesta e giura per tutti gli dii (a molti pagani dovea costar poco un tal giuramento) [96] ch'egli nulla sapeva della risoluzion presa dai soldati, e nulla operò per indurli a tale atto, e ch'egli fece quanto fu in sua mano per sottrarsi alla lor volontà; ma che dopo aver acconsentito, benchè per forza, non era più sicura la sua vita, se avesse voluto retrocedere. Ne creda il lettore quel che vuole. Ammiano scrive [Ammianus, lib. 20, cap. 5.] che nella notte precedente, mentre Giuliano ondeggiava, invocando i suoi dii, per sapere se dovea cedere al voler dei soldati, gli comparve un'ombra, qual si dipingeva il genio del popolo romano, che gli disse d'essere più volte venuto alla sua porta per entrare, e far lui salire in alto; ma che se fosse rigettato anche questa volta, se ne partirebbe ben mal contento; avvisandolo nondimeno che non istarebbe gran tempo con esso lui. Comunque sia di questa o inventata o pazzamente creduta fantastica visione, ci assicura Eunapio [Eunap., Vit. Sophist., cap. 5.] che Giuliano in quella stessa notte, avendo seco un pontefice gentile, ch'egli segretamente avea fatto venir dalla Grecia, fece con lui certe cose, delle quali eglino soli ebbero conoscenza, potendosi non senza fondamento sospettare che fossero sacrifizii, o incantamenti di magia, per cercar l'avvenire, de' quali è certo che si dilettò forte l'empio ed ingannato Giuliano. Ritiratosi poi egli nel palazzo, parve pieno di inquietudine e malinconia; e perchè corse nel giorno seguente voce ch'egli era stato ucciso (scrivendo in fatti Libanio [Liban., Orat. XII.], essere stato guadagnato un eunuco, suo aiutante o mastro di camera, per fare il colpo), i soldati volarono al palazzo, e vollero vederlo, con far susseguentemente istanza che fossero uccisi gli amici di Costanzo, i quali s'erano opposti alla di lui promozione. Ma Giuliano protestò che nol sofferirebbe giammai, e donò anche la vita all'eunuco suddetto. Perchè ad una parte di quelle [97] milizie che già erano partite arrivò dietro la nuova dell'esaltazione di Giuliano, se ne ritornarono anch'esse a Parigi, dove esso novello Augusto, raunata tutta l'armata, fece un'arringa, lodando il lor coraggio, e protestando che non darebbe mai le cariche alle raccomandazioni, ma solamente al merito: il che piacque di molto a chi l'ascoltò.
E tale fu la maniera con cui Giuliano salì alla dignità imperiale, verisimilmente nel marzo od aprile di questo anno. Certamente gli storici gentili [Liban. Ammian. Zosimus.], partigiani spasimati di questo apostata imperadore, cel rappresentano portato per forza al trono, e senza sua precedente brama o contezza. Ma gli scrittori cristiani [Gregorius Nazianzen., Orat. II. Philostorgius, lib. 4, cap. 5. Theodoret., in Histor. Eccl. Sozom., in Hist. Eccl. Zonaras, in Annal.] furono d'opinion diversa, e condannarono la di lui ribellione ed ingratitudine verso Costanzo, sospettandola o credendola figliuola della di lui ambizione. Ora, dappoichè Decenzio ebbe veduta questa scena, non tardò a ritornarsene alla corte di Costanzo. Fiorenzo prefetto del pretorio delle Gallie, che s'era ritirato apposta a Vienna, perchè prevedeva dei torbidi, anch'egli s'affrettò ad uscir dalle Gallie. Ebbe Giuliano tanta moderazione, che gli mandò dietro tutta la sua famiglia, con provvederla ancora del comodo delle poste. Vi restava il solo Lupicino, creduto capace d'imbrogliar le carte. Ma Giuliano, assai accorto, spedì un uffiziale a Bologna di Picardia, affinchè non passasse persona in Bretagna a portargli le nuove; ed intanto con sue premurose lettere il chiamò di là, e, ritornato che fu, il ritenne prigione. Non tardò poscia a spedire Euterio suo maggiordomo, e Pentado mastro degli uffizii, all'Augusto Costanzo con lettera, in cui rappresentava la violenza a lui fatta, pregandolo di consentirvi, e promettendo d'ubbidire come prima agli ordini [98] suoi, d'inviargli alcune milizie, di accettar dalle sue mani un prefetto del pretorio, con riserbarsi l'elezione degli altri uffiziali. Leggesi questa lettera presso Ammiano [Ammian., lib. 20, cap. 8.]. Fece anche scriverne un'altra dall'armata di tenor poco diverso [Julian., Epist. ad Athen.]. Il bello fu che agli ambasciatori suoi, se non falla Ammiano, diede un'altra segreta lettera, indirizzata al medesimo Costanzo, piena di sentimenti ingiuriosi e mordaci, che lo stesso storico confessa indecenti, e tali da non essere rivelati al pubblico. Zonara [Zonar., in Annal.] veramente rapporta più tardi, cioè dappoichè seguì aperta rottura fra Costanzo e lui, questa lettera; ma Ammiano ha il vantaggio sopra di lui d'essere scrittore contemporaneo ed adoratore dello stesso Giuliano. Andarono gli ambasciatori, passando con difficoltà, e con assai ritardi per l'Italia e per l'Illirico; e finalmente arrivati in Asia, trovarono l'imperadore Costanzo in Cesarea di Cappadocia. Era già stato prevenuto l'arrivo loro da Decenzio, Fiorenzo ed altri fuggiti dalle Gallie. Costanzo ammise quei legati all'udienza, si mostrò alterato stranamente contra di Giuliano, nè più li volle ascoltare. Tuttavia, contenendo la collera sua, e consigliato dai savii, fece sapere colla spedizione di Leonas questore a Giuliano di non poter approvare il fatto, e che s'egli voleva provvedere alla salute propria e dei suoi amici, si contentasse del titolo di Cesare, e di ricevere gli uffiziali che gli verrebbero spediti, cioè Nebridio eletto prefetto del pretorio delle Gallie, e Felice mastro degli uffizii. Arrivato Leonas a Parigi, fu ben accolto [Liban., Orat. XII.], ed esposti gli ordini di Costanzo, Giuliano si mostrò pronto ad ubbidire, purchè l'esercito v'acconsentisse [Zonar., in Annalib.]. Leonas non volle rimessa la decision dell'affare a tante [99] teste, per paura d'essere tagliato a pezzi. Accettò bensì Giuliano per uffiziale Nebridio, ma rifiutò tutti gli altri, con rimandar poscia Leonas a Costanzo, e dargli, secondo Zonara, la lettera suddetta ben fornita di querele ed ingiurie contro il medesimo Augusto. Andarono poi innanzi e indietro altre ambascerie, ma senza che alcun dei due retrocedesse un passo: con che rotta affatto restò fra di loro l'armonia, e crebbe l'odio e lo spirito della vendetta.
Sì preso dalla rabbia per questo tradimento del beneficato Giuliano si trovò l'Augusto Costanzo, che pose infino in consulta, s'egli dovesse lasciar la guerra strepitosa de' Persiani per volgere l'armi contra del cugino. La vinse il parere de' saggi, che gli consigliarono di continuar la dimora in Oriente: altrimenti non la sola Mesopotamia, ma anche la Soria correvano rischio di cader nelle mani del re Sapore. Esso re appunto, venuta la stagione del guerreggiare, uscì in campagna nell'anno presente ancora con grandi forze [Ammian., lib. 20, cap. 6.]. Caddero i primi suoi fulmini sopra la città di Singara nella Mesopotamia, la quale fece per qualche dì gagliarda difesa; ma soccombendo essa in fine alla nemica potenza, furono tutti i suoi abitanti col presidio condotti in una misera schiavitù, e la città restò smantellata. Di là Sapore passò addosso alla città di Bezabde, appellata anche Fenice, città forte alle rive del fiume Tigri, custodita da tre legioni romane. Dopo alcuni giorni d'assedio il vescovo della città si portò al campo persiano per procurar la liberazione o la salute del suo popolo. Parlò ai venti, e la città da lì a qualche tempo fu presa a forza d'armi. Chi de' cittadini scappò al furor delle sciable, andò a penare schiavo nelle contrade persiane. Con questa felicità camminavano gli affari di Sapore: ed ancorchè l'imperadore Costanzo, dimorante in Costantinopoli, udisse tanti suoi progressi, sembrava [100] più applicato a rovinar la Chiesa cattolica, che a difendere i proprii Stati. Quando Dio volle, passò pur egli in Asia, e giunse a Cesarea di Cappadocia, dove poco fa dicemmo che gli capitarono le disgustose nuove della ribellione di Giuliano. Fece maneggi per tener saldo nella fedeltà verso l'imperio Arsace re dell'Armenia, il qual veramente con tutte le minaccie di Sapore corrispose alle speranze de' Romani. Passò dipoi Costanzo a Melitene, città della picciola Armenia, per unir ivi tutta la sua armata, e questa non fu all'ordine che dopo l'equinozio dell'autunno. Se un così timido e negligente generale d'armi fosse capace di grandi imprese, e di far paura ai Persiani, ognun sel vede. Marciò egli alla perfine, e, passando per Amida, non potè mirarne le rovine senza un tributo di lagrime. Si credette di poter ricuperare Bezabde, e l'assediò; ma sopravvenendo le pioggie e la cattiva stagione, fu costretto a levare il campo, e a ritirarsi coll'esercito ad Antiochia, dove si fermò per tutto il verno. In questo mentre [Ammianus, lib. 20, cap. 10.] il novello imperador Giuliano, a fin di tenere in esercizio le sue truppe, passò all'improvviso il Reno, per quanto si crede, verso Cleves, e diede addosso ai Franchi cognominati Attuarii, che avevano in altri tempi colle loro scorrerie inquietata la vicina Gallia. Durò poca fatica a vincerli. Perchè umilmente chiesero pace, loro la diede; e poi, dopo aver visitate sin verso Basilea le fortezze poste sulla riva del Reno, per Besanzone passò a svernare in Vienna del Delfinato. Morì circa questi tempi Flavia Giulia Elena Augusta sua moglie, e sorella dell'imperador Costanzo [Goltzius Tristanus.]: chi disse di parto, chi perchè cacciata dal palazzo [Ammianus, lib. 21, cap. 1. Zonar., in Annalib.]: e non mancò chi parlò di veleno, come s'ha, per attestato del Valesio, da una orazion [101] manuscritta di Libanio. Fioriva in questi tempi l'insigne vescovo di Poitiers nelle Gallie sant'Ilario, che per la religion cattolica tanto soffrì e tanto scrisse.
Anno di | Cristo CCCLXI. Indizione IV. |
Liberio papa 10. | |
Giuliano imperadore 1. |
Consoli
Flavio Tauro e Flavio Fiorenzo.
Il secondo console, cioè Fiorenzo, quel medesimo è che vedemmo prefetto del pretorio delle Gallie, e fuggito di là dopo la ribellion di Giuliano, da cui poscia fu condannato a morte; ma egli si nascose, tanto che venissero tempi migliori. Tauro era anche prefetto del pretorio d'Italia, e, per ben servire a Costanzo, aveva oppresso i cattolici nel concilio di Rimini. Permise Iddio che anch'egli fosse dipoi condannato all'esilio da Giuliano, tuttochè nulla avesse operato contra di lui. Tertullo in questo anno ancora si truova prefetto di Roma. In luogo suo fu poi creato Massimo, dappoichè Giuliano divenne padron di tutto. Passò esso Giuliano Augusto, siccome già accennai, il verno in Vienna [Ammianus, lib. 21, cap. 3.], dove sul principio di marzo gli giunse avviso che gli Alamanni sudditi del re o principe Vadomario verso Basilea aveano fatto delle scorrerie nel paese romano della Rezia. Spedì egli Libinone conte con una brigata di soldati per mettere al dovere que' Barbari; ma essi misero lui a morte, avendo egli disordinatamente voluto venir alle mani con loro. Fama corse che Vadomario, uomo furbo, trattando con Giuliano, gli dava i titoli d'Augusto e di dio [Liban., Orat. V et XII. Julian., Epist. ad Atheniens.]; menava poi segreti trattati con Costanzo imperadore, e da lui avea ricevuti ordini d'infestare il medesimo Giuliano; dicendosi di più ch'erano state intercette lettere comprovanti tal fatto. Vero o falso che [102] ciò fosse, Giuliano se ne prevalse per uno de' suoi pretesti di far guerra a Costanzo. Intanto diede commissione a Filagrio suo segretario, che poi fu conte d'Oriente, di attrappolar, se poteva, Vadomario, con cui continuava l'apparenza della pace; ed in fatti gli riuscì di farlo prigione in un convito. Altro male non gli avvenne, se non che Giuliano il relegò nelle Spagne, di dove uscito nei tempi susseguenti, fu creato duca della Fenicia. Passò poi lo stesso Giuliano di là dal Reno per gastigar coloro che aveano ucciso Libinone; ma non ebbe molto a faticare, perchè tutti dimandarono pace, o pure la confermarono, con che restarono quiete quelle contrade. Ma questi non erano i gran pensieri di Giuliano. Giacchè durava la nimicizia insorta fra lui e Costanzo, andava egli da gran tempo ruminando qual partito convenisse prendere, cioè di venire a guerra aperta, o pur d'intavolare qualche accordo con lui anche con proprio svantaggio. Ma perchè conosceva non essere Costanzo principe da potersi fidare della di lui parola, antepose la risoluzion di passare all'armi contra di lui. E tanto più si animò a questa impresa, perchè, essendo egli perduto nell'arte d'indovinare [Ammianus, lib. 20, cap. 1. Liban., Orat. XII.] o per augurii o per negromanzia, s'immaginò che Costanzo avesse da mancar di vita in questo anno, e nel mese di novembre. San Gregorio Nazianzeno scrive [Gregor. Nazianzen., Orat. III.], non essere da stupire s'egli previde la morte d'esso imperadore, perchè avea guadagnato uno dei di lui cortigiani per avvelenarlo; e per questa fidanza s'incamminò dipoi coll'armi verso Levante. Osservò ancora Sozomeno [Sozom., lib. 5 Hist., cap. 1.] la follia di Giuliano in prestar fede ai suoi auguri e indovini, perchè egli non previde punto la propria morte, nè il funesto fine della sua impresa contro i Persiani. Ammiano il vuole scusar su questo, con [103] dire ch'egli riguardava, non come cose certe, ma solamente come conghietture le predizioni de' suoi indovini: scusa familiare ad altri che s'immergono nell'arte empia e vanissima di voler conoscere l'avvenire.
La risoluzion presa da Giuliano di sguainar la spada contra di Costanzo imperadore ognun può scorgere quanta occasion desse a tutti i saggi di mormorare di lui, trattandosi di volgere l'armi contra di un cugino che l'avea colmato di benefizii, valendosi dell'autorità a lui conferita per ispogliare ed abbattere il medesimo suo benefattore. Cresceva anche l'iniquità ed ingratitudine sua, perchè Costanzo non si movea punto contra di lui, e trovavasi allora in angustie per la svantaggiosa guerra che avea coi Persiani. Si studiò lo stesso Giuliano di parare questa odiosità con varie scuse e pretesti, essendosi spezialmente studiato di giustificar la sua condotta presso le città della Grecia, come apparisce dalla lunga sua lettera, o sia dal manifesto scritto agli Ateniesi [Julian., Epistol. ad Atheniens.], che si legge stampata. Il bello è ch'egli pretendeva di essere stato o consigliato o pure obbligato dai suoi dii a ribellarsi; e Zosimo scrive [Zosimus, lib. 3, cap. 9.] che una deità, apparendogli in sogno, l'animò all'impresa, senza badare ch'egli covava in cuore un interno iniquo dio, cioè l'ambizione, da cui era più che da altro spronato a tanta sconoscenza verso chi l'avea tanto beneficato. Anche i suoi soldati e partigiani dicevano promesso a lui da essi dii un felice successo: il che quanto si verificasse, si vedrà a suo tempo. Intanto fece egli quanti preparamenti mai seppe di gente e danaro per marciare verso l'Oriente. L'amore, ch'egli s'era guadagnato fra i popoli delle Gallie, indusse molti ad offerirgli spontaneamente ori ed argenti per isperanza di ricavarne buon frutto a suo tempo; nè si trovò più difficoltà ne' soldati per uscir dalle [104] Gallie, e passar l'Alpi, facendo egli credere alla sua armata di non cercar altro per ora che d'impossessarsi dell'Illirico sino alla Dacia novella, per prendere poi altre misure o di accordo o di guerra. Nebridio, mandato già per prefetto del pretorio nelle Gallie da Costanzo, il solo fu [Ammianus, lib. 21, cap. 5.] che protestò di non poter impegnarsi contra dello stesso Costanzo Augusto, e corse rischio d'essere messo in brani dai soldati, se Giuliano non l'avesse coperto col suo manto, e datagli poi licenza di ritirarsi in Toscana. Da Libanio [Liban., Orat. XII.] vien chiamato esso Nebridio un mezzo uomo. Se vuol dire per avventura un codardo, da quando in qua merita nome di codardo la fedeltà verso il principe suo? Se non si trattasse di un nobile romano, si crederebbe che egli parlasse di un eunuco. Fece Giuliano una promozion d'uffiziali, creando generale della sua cavalleria Nevitta, Dagalaifo capitan delle guardie, Mamertino tesoriere, quello stesso che poi compose il panegirico di Giuliano, e distribuendo ad altri varie cariche militari e civili. Lasciò Sallustio per prefetto del pretorio nelle Gallie, e finalmente mise in moto l'esercito suo, diviso in varii corpi, parte inviandone per l'Italia, e parte per la Rezia, per far credere che fossero più che non erano le forze sue, quando non più di ventitrè mila persone, se non s'inganna Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 10.], egli conduceva seco. Con gran diligenza marciarono; ed ordine v'era di trovarsi tutti a Sirmio. Era allora tempo di state. Arrivato che fu Giuliano dove il Danubio comincia ad essere navigabile, trovata ivi fortunatamente gran copia di barchette, con tre mila soldati s'imbarcò, e andò a prendere terra in tempo di notte a Bononia, nove miglia lungi da Sirmio, capitale della Pannonia. Di là spedì Dagalaifo con una brigata di soldati, a mettere le mani addosso a Lucilliano [105] conte, generale d'armi di Costanzo nell'Illirico, il quale per sua negligenza niun sentore pare che avesse avuto de' frettolosi movimenti di Giuliano. Coltolo a letto, il menarono via, e presentarono ad esso Giuliano: dopo di che a dirittura egli marciò a Sirmio, dove fu con gran pompa e festa accolto da quel numeroso popolo: cosa che gli fece sperar facile la conquista di tutto l'Illirico. E così in fatti avvenne, perchè senza adoperar lancia o spada in poco tempo tutto l'Illirico, la Macedonia e la Grecia il riconobbero per loro signore [Ammianus, lib. 21, cap 10. Libanius, Orat. XII.]. Creò egli allora governatore della seconda Pannonia Aurelio Vittore, quel medesimo che ci lasciò un compendio delle Vite dei Cesari. Venuto già era l'autunno, e Giuliano si ridusse a Naisso nella Dacia novella, o nella Mesia, dove, secondo le apparenze, si fermò sino alla morte di Costanzo, applicandosi intanto ad ingrossar la sua armata e a munir le fortezze, con disegno poi di entrar nella Tracia, e far maggiori progressi.
Quello che può parere strano, si è che non sappiamo avere Giuliano inviato altro corpo di milizie in Italia, se non quel tenue che, passando per Aquileia, andò a congiugnersi seco a Sirmio: e pure certa cosa è che Roma e l'Italia tutta, quasi con universale concordia, abbandonò Costanzo, e si mise sotto la signoria di Giuliano. Convien credere che questi popoli fossero ben malcontenti del governo d'esso Costanzo e del suo arianismo, credendo essi tuttavia cristiano e cattolico Giuliano; e che si prevalessero di questo leggier vento per sottrarsi dal di lui dominio. Si aggiunse ancora un panico terrore, perchè si sparse voce [Ammianus, lib. 21, cap. 9.] che Giuliano calava in Italia con un diluvio di gente: laonde ognun si affrettò a rendergli ubbidienza. Tale dovette essere in Roma stessa la commozione e paura, che Tauro e Fiorenzo [106] consoli scapparono, non so se di là, o da altro luogo, dove stessero allora, e passarono per le poste verso l'Oriente, parendo loro disperato il caso, e paventando lo sdegno di Giuliano, il quale poi, per testimonianza di Zosimo [Zosim., lib. 3, cap. 10.], mandò ordine che, mettendo il loro nome negli atti pubblici, si aggiugnesse consoli fuggitivi o fuggiti. In mezzo poi ai pensieri della guerra non dimenticava Giuliano quei del governo civile, scrivendo Ammiano ch'egli si occupava ad ascoltar e decidere le liti de' particolari, a riformar gli abusi: notando nondimeno esso istorico, ch'egli talvolta commetteva delle ingiustizie per correggere quelle degli altri. Mamertino [Mamertinus, in Panegy.] si stende qui all'uso de' panegiristi nelle lodi di lui, dicendo ch'egli mise in buon ordine e stato le città tutte dell'Illirico, della Grecia, Macedonia, Epiro e Dalmazia. Carestia di grani si provava in Roma. Fu inviato colà da Giuliano per prefetto di quella città Massimo, il quale, contuttochè permesso non fosse all'Africa di mandar frumenti colà, pure seppe trovar maniera di provvedere al bisogno, e di prevenire i pericolosi tumulti, ai quali fu sottoposto il suo predecessore Tertullo. Diedesi poi meglio a conoscere in tal occasione la vanità e l'ingratitudine di Giuliano [Ammian., lib. 21, cap. 10.], perchè già scorgendo tolta affatto la speranza di riconciliarsi con Costanzo Augusto, scrisse contra di lui al senato romano una invettiva piena di mordacità, con esagerar tutti i vizii e difetti di lui: il che parve sì improprio agli stessi senatori, che, al leggersi nella loro assemblea quella satira, non poterono contenersi dal gridare ad una voce che il pregavano di portar più rispetto e riverenza a chi l'avea creato Cesare e beneficato cotanto. Lo stesso Ammiano, tuttochè adoratore, non che parziale di lui, non potè di meno di non condannare una sì ingiuriosa [107] scrittura, e tanto più perchè, non contento egli di sfogarsi contra di Costanzo, addentò anche la memoria di Costantino il Grande, proverbiandolo come novatore e perturbatore delle antiche leggi, e perchè avesse innalzate persone barbare sino al consolato: sciocca accusa, come Ammiano confessa, perchè lo stesso Giuliano poco stette a crear console Nevitta, Goto di nazione, e persona selvatica, anzi crudele; laddove Costantino non promosse se non persone di raro merito e di gran riputazione e virtù [Ammianus, lib. 21, cap. 11.]. Avvenne intanto un affare che avrebbe potuto imbrogliar non poco le misure di Giuliano, se non fosse intervenuta la morte di Costanzo Augusto. Due legioni e una compagnia di arcieri, che già servivano a Costanzo, trovate da Giuliano in Sirmio, perchè d'esse egli non si fidava, prese la risoluzione d'inviarle nelle Gallie; e queste andarono. Ma giunte ad Aquileia, ricca città, e forte non meno pel sito che per le buone mura, e trovata la plebe tuttavia divota al nome di Costanzo Augusto, che si sollevò all'arrivo loro, quivi fermarono il piede, e si afforzarono contra di Giuliano. Perchè questo fatto potea tirarsi dietro delle brutte conseguenze, Giuliano mandò ordini a Giovino general della cavalleria, che era in marcia verso la Pannonia, di accorrere colà, e convenne formarne l'assedio, che fu lungamente sostenuto con bravura e spargimento di sangue. Nè finiva sì presto quell'impegno, se non veniva la nuova della morte di Costanzo, per cui que' soldati in fine capitolarono la resa, lasciando esposto allo sdegno di Giuliano il promotore di quella sedizione Nigrino tribuno, che fu bruciato vivo, ed alcuni pochi altri, ai quali fu reciso il capo.
Tempo è oramai di parlare dell'Augusto Costanzo, che noi lasciammo a' quartieri d'inverno in Antiochia. Le applicazioni sue tutte erano in preparamenti di [108] guerra, e in far masse di milizie per opporsi ai sempre nemici Persiani. Ma non era così occupato da' pensieri guerrieri, che non ne nudrisse ancora de' mansueti e geniali [Ammianus, lib. 21, cap. 6.]. Gli avea tolta la morte poco dianzi Eusebia Augusta sua moglie, donna che non l'avea mai arricchito di prole, e che (siccome spacciò la fama) per aver voluto prendere un medicamento, creduto atto a farla concepire, abbreviò a sè stessa la vita [Zonar. Cedrenus. Chrysost., Hom. 15 ad Philipp.]. Voce ancora corse [Ammianus, lib. 16.] ch'essa con una bevanda data ad Elena sua cognata, allorchè questa fu per maritarsi con Giuliano Cesare, la conciasse in maniera che abortisse ad ogni gravidanza. Le dicerie del volgo son facili in tal sorta di accuse. Ora Costanzo, per desiderio di lasciar dopo di sè qualche figliuolanza [Du-Cange, Hist. Byz.], prese in questi tempi per moglie Massimo Faustina, della cui famiglia nulla dicono le storie. Solamente si sa ch'egli morendo la lasciò gravida, ed esserne nata una figliuola, appellata Flavia Massimo Costanza. Questa poi prese per marito Graziano, che vedremo a suo tempo imperadore. Forse non si figurava Costanzo che Giuliano si avesse a muovere dalle Gallie, e però non prese le convenevoli precauzioni per munire l'Italia e l'Illirico contra dei di lui tentativi. Provvide bensì all'Africa [Ammianus, lib. 21, cap. 7.], con inviare colà Gaudenzio suo segretario, il quale, andando d'accordo con Crezione conte, dispose così ben le cose, che durante la vita d'esso Augusto da niuno restò turbata la quiete di quelle provincie. S'udivano intanto le grandiose disposizioni di Sapore re della Persia per tornare ostilmente ad invadere la Mesopotamia. Il perchè Costanzo si procacciò con diversi regali l'assistenza e il favore dei re confinanti co' Persiani, e massimamente di Arsace re dell'Armenia. Poscia, allorchè vennero nuove che pareva [109] imminente il passaggio dei Persiani nella Mesopotamia, circa il mese di maggio uscì anch'egli in campagna, e passato di là dall'Eufrate, andò a fermarsi in Edessa, con inviare nello stesso tempo i suoi generali Arbezione ed Agilone alle rive del Tigri, ma con espresso ordine di non azzardare una battaglia. Stettero ivi le soldatesche romane gran tempo, aspettando il nemico, senza mai vederlo comparire; ed intanto giunse a Costanzo la dolorosa novella che il ribelle Giuliano s'era già impadronito dell'Illirico. Facile è l'immaginare che turbazione ed affanno gli recassero i passi dell'odiato cugino. Ma nel dì seguente ricevette il grato avviso che il re Sapore, o sia perchè da' suoi indovini gli furono predette disgrazie se s'inoltrava, o pure perchè gli diedero apprensione le forze de' Romani, se n'era tornato addietro. Allora fu che Costanzo, tenendosi come liberato dalla molestia de' Persiani, lasciate solamente le guarnigioni opportune nelle città e fortezze della Mesopotamia, se ne tornò indietro con disegno di procedere armato contra di Giuliano, giacchè si teneva sicura la vittoria, combattendo con quell'ingrato. Partecipata all'esercito questa sua intenzione, tutti ne fecero festa, e si animarono al viaggio. Partissi egli da Antiochia nell'autunno avanzato; ma arrivato a Tarso nella Cilicia, fu preso da una picciola febbre, per cui non desistè dal cammino. Si trovò poi forzato dal male, che andò crescendo, a posare in Mopsuerene, luogo situato ai confini della Cilicia plesso il monte Tauro [Hieronymus, in Chronico. Idacius in Fastis. Chronicon Alexandr. Theophan., in Chronogr.], dove nel dì 5 di dicembre (Ammiano scrive nel dì 3) in età di circa quarantacinque anni diede fine al suo vivere, con essersi detto che Giuliano l'avesse fatto avvelenare.
Lasciò questo principe dopo di sè una assai svantaggiosa memoria. Certamente a lui non mancavano delle belle qualità, come l'essere indurato alle fatiche e a [110] dormir poco, se il bisogno lo richiedeva [Ammianus. Aurel. Victor, de Caesaribus.]. Negli esercizii militari niuno gli andava innanzi, e quanto fu moderatissimo sempre nel mangiare e bere, altrettanto si guardò dal lusso e dai piaceri illeciti, in guisa tale che nè pur chi gli voleva male arrivò mai ad accusarlo di avere contravvenuto alle leggi della castità. Ornato delle belle lettere, sapea far discorsi sensati e gravi. Chi prese a lodarlo vivente (il che fecero Giuliano e Temistio [Themist., Orat. I et II. Julian., Orat. I et II.]), cel rappresenta moderato in tutte le passioni, e specialmente padrone della sua collera, con soffrir le ingiurie senza farne vendetta. E certo sensibili segni di clemenza diede talvolta [Eutrop., in Breviar.] sino a perdonare con facilità alle città che aveano fatta sollevazione: laonde da molti per questa sua indulgenza era amato non poco. Fece ancora risplendere il suo zelo contra dell'idolatria, e di sopra accennammo le rigorose sue leggi contro di essa. Ristaurò pur anche o di nuovo edificò molte chiese in Oriente, e le arricchì; e gran rispetto conservò sempre verso i vescovi, facendoli mangiare alla sua tavola, e ricevendo da loro con umiltà la benedizione. Tali erano i pregi di Costanzo in poche parole. Ammiano [Ammianus, lib. 21, cap. 16.] più a lungo ne lasciò descritto quel poco o molto ch'egli aveva di buono. Ma, voltando carta, troviamo che contrappesavano ben più i di lui difetti. Gran disgrazia è l'aver principi deboli di testa, e che si figurano nondimeno di aver testa superiore in intendimento a quella di ognuno. A Costanzo ne era toccata una di questo tenore. Peggio poi se il principe non ama e non soffre se non chi il loda, e solamente si compiace degli adulatori, disprezzando o rigettando chi osa dirgli la verità, e non sa lodare i difetti, nè far plauso alle azioni viziose o mal fatte. Costanzo era appunto un di questi [Julian., Orat. VII. Liban., Orat. XI.], pieno di una [111] vanità ridicola, per cui voleva, a guisa dei tiranni dell'Oriente, essere appellato Signore di tutta la terra [Athanasius, de Syn.]; e si fece alzar archi trionfali nelle Gallie e nella Pannonia per aver vinto dei Romani ribelli: gloria abborrita da tutti i saggi imperadori; pavoneggiandosi ancora delle vittorie riportate da' suoi generali [Ammianus, lib. 16, c. 6, et lib. 21, cap. 16.], come se in persona fosse egli intervenuto alle battaglie. Nè la sua clemenza andò molto innanzi, perchè spietato comparve contro chiunque o tentò o fu sospettato di tentare contro la di lui corona. Non si può poscia abbastanza esprimere che predominio avessero nella corte di lui gli adulatori, e quanta fosse la prepotenza de' suoi eunuchi, i quali, abusandosi della tenuità del di lui intendimento, e della timidità del suo cuore, l'ingannavano continuamente, ed arrivarono in certa guisa a far essi da imperadori di fatto, con lasciarne a lui il solo nome, perchè nulla operava, nulla determinava senza il lor consiglio, nè pur osando di far cosa che venisse da lor disapprovata. Di qua poi venne la vendita delle cariche e della giustizia, e l'elezion degl'indegni ministri e governatori con immenso danno dei popoli. Non venne anche un peggior male, cioè un gravissimo sconcerto alla Chiesa di Dio; perchè quella vile, ma superba canaglia, guadagnata dagli ariani, il portò a sposar gli empii loro insegnamenti, e a perseguitare i vescovi della Chiesa cattolica, e ad abbattere per quanto potè la dottrina della vera Chiesa di Dio. Però nella storia ecclesiastica noi il troviamo dipinto (e ben sel meritava) con dei neri colori, spezialmente da santo Ilario e da Lucifero vescovo di Cagliari, come principe o tiranno, che contra le leggi del Vangelo si arrogò l'autorità di far dipendente da' suoi voleri la religione santa di Cristo, e volle esser arbitro delle controversie della fede che Dio ha riserbato al giudizio dei sacri suoi pastori. Lo stesso Ammiano, ancorchè gentile, il [112] condannò per questa sua prepotenza. Imbevuto egli così degli errori dell'arianismo, in essi durò poi sino alla morte, senza mai prendere il sacro battesimo, fuorchè negli ultimi dì di sua vita [Athanasius, de Syn. Socrat., lib. 2, cap. 47. Philostorg., lib. 6, c. 6.], nei quali fu battezzato da Euzoio vescovo ariano. Ma finiamola di parlar di un regnante cattivo, per passare ad un peggiore, che, provveduto da Dio di molte belle doti personali, avrebbe potuto far bella figura fra gl'imperadori de' Romani, ma per la sua empietà si screditò affatto presso de' Cristiani, che tuttavia rammentano con orrore il di lui nome. Parlo di Giuliano, che già aveva usurpato il titolo d'Imperadore Augusto, e si trovava nell'Illirico allorchè gli giunse la gratissima nuova della morte di Costanzo Augusto. Riserbando io di favellare più precisamente di lui all'anno seguente, solamente ora dirò ch'egli, veggendo tolto ogni ostacolo alla sua grandezza, marciò a dirittura a Costantinopoli nel dì 11 di dicembre [Mamert., in Panegyr. Ammianus, lib. 22, cap. 1. Idacius, in Fastis. Chronicon Alexandr.], dove fu ben accolto, e fatto portar colà il cadavere del defunto cugino Augusto, gli fece dar sepoltura colla pompa consueta degl'imperatori nella chiesa degli Apostoli, intervenendo egli stesso alla sacra funzione come cristiano in apparenza, ancorchè qual fosse internamente, staremo poco a vederlo.
Anno di | Cristo CCCLXII. Indizione V. |
Liberio papa 11. | |
Giuliano imperadore 2. |
Consoli
Mamertino e Nevitta.
Fu alzato Nevitta alla dignità consolare, perchè uomo di molto credito nel mestiere delle armi, e perchè di lui si fidava molto Giuliano, dopo averlo creato generale della cavalleria. Essendo costui barbaro di nazione, e probabilmente Goto, di costumi crudeli, ebbe motivo [113] Ammiano Marcellino [Ammian., lib. 21, c. 11 et 12.] di riflettere, come accennammo di sopra, alla malignità di Giuliano, il quale poco prima avea tacciato Costantino di aver conferito il consolato a personaggi barbari, quando egli poco appresso fece lo stesso. Quanto a Mamertino primo console, Giuliano lo avea dianzi creato prefetto del pretorio dell'Illirico. Essendo egli uomo eloquente, compose e recitò nel dì primo di quest'anno, cioè nell'entrar console, un panegirico in lode di Giuliano, componimento salvato dalle ingiurie del tempo, e giunto sino ai dì nostri. Ma prima di raccontar le azioni spettanti a Giuliano nell'anno presente, non dispiacerà ai lettori di conoscere prima chi fosse questo novello Augusto. Altrove dicemmo che Flavio Claudio Giuliano avea avuto per padre Giulio Costanzo, fratello del gran Costantino, e per fratello Gallo Cesare, da noi veduto ucciso da Costanzo imperadore. Nacque in Costantinopoli [Julian., Epist. LI.] nell'anno 331. Allorchè mancò di vita Costantino il Grande nell'anno 337, e fu ucciso suo padre con altri parenti d'esso Augusto per ordine di Costanzo, anche Giuliano corse rischio di perdere la vita [Idem, in Misopog.]. Il salvò la sua tenera età. In Macello, luogo della Cappadocia, in Costantinopoli, e poscia in Nicomedia s'applicò allo studio delle lettere, avendo per maestro Eusebio vescovo di quella città [Socrates, Hist., lib. 3, c. 1.], famoso capo dell'arianesimo. Essendogli toccato per aio un eunuco, uomo di gran senno, chiamato Mardonio, questi per tempo gli diede buoni documenti di moderazione, di sprezzo dei divertimenti, e di fare resistenza alle passioni. Fu provveduto sempre di eccellenti maestri, ma cristiani, da Costanzo; e siccome a lui non mancava la felicità del talento, così fece non lieve profitto nelle scienze, e massimamente nell'eloquenza. Ma questa felicità d'ingegno [114] consisteva piuttosto in una prontezza d'intendere e in una vivacità di esprimere i suoi sentimenti, e non già in una soda penetrazione e riflessione sopra le cose, essendo superficiale la forza della sua mente, e portata sempre alle novità la di lui inclinazione. Già si osservò che di nuovo fu in pericolo la di lui vita, allorchè quella di Gallo Cesare suo fratello mancò. Il sottrasse a quel rischio Eusebia Augusta, la di cui protezione servì ancora a farlo promuovere alla dignità di Cesare e al governo delle Gallie; dal che poi nacque la di lui ribellione contra del benefattore Costanzo.
Ma la più obbrobriosa delle azioni di Giuliano è quella che riguarda la sua religione. Era egli, non men che il fratello, stato allevato in quella di Gesù Cristo sotto varii precettori cristiani; la professava egli, e con varie opere di pietà si dava a conoscere (ed era in fatti allora) persuaso della verità e santità della medesima [Julian., Epist. LI.]. Confessa egli stesso che sino all'età di vent'anni stette saldo in essa religione; anzi, per togliere a Costanzo i sospetti ch'egli aspirasse in guisa alcuna all'imperio, si arrolò nella milizia ecclesiastica, e col fratello Gallo esercitò nel clero l'uffizio di lettore. Ma siccome egli era un cervello leggero e fantastico, insensibilmente si lasciò portare al paganesimo. Ordine espresso avea dato Costanzo [Socrates, Histor., lib. 3, cap. 1. Libanius, Orat. V et XII.] ch'egli non praticasse con Libanio sofista, letterato di gran credito allora per la sua eloquenza, ma gentile, per timore che noi sovvertissero le di lui ciance. Giuliano tanto più s'accese di voglia di leggere e di studiar segretamente le di lui opere, che servirono non poco ad infettarlo: tanta era la stima ch'egli professava a quel sofista. La scuola principale nondimeno della sua apostasia ed impietà fu l'essersi egli dato a praticar con gl'indovini, strologhi, maghi [115] ed altri impostori, che gli fecero sperar la cognizion dell'avvenire: con che maggiormente se gli ammaliò e riempiè il capo d'illusioni, di oracoli, e della potenza dei falsi dii, con terminar poi i suoi studii in un'aperta empietà e somma prosunzione. Libanio stesso [Liban., Orat. X.] non ebbe difficoltà di confessare ch'egli era visitato dagli dii, da loro sapeva quanto si faceva sopra la terra: il che chiaramente ci fa comprendere le illusioni della magia. Per maestri di così sacrileghe arti e dottrine ebbe spezialmente Giuliano [Eunap., Vit. Sophist., cap. 5. Socrat., Hist., lib. 3, cap. 1. Liban., Orat. V.] Massimo Efesio, mago di professione, Eusebio discepolo di Edesio, un Jamblico diverso dal pitagorico, ed altri simili ciurmatori, più tosto che filosofi, i quali colle empie loro istruzioni il trassero in fine ad abbandonare il Cristianesimo, e ad abbracciare il culto degl'idoli. Ma come mai potè passare uomo intendente della santità della religion cristiana e della sua celeste morale all'aperta sciocchezza dell'idolatria, e a credere e a dare alle creature e a sorde statue di numi ossia di demonii il culto ed incenso dovuto al solo vero Dio? In poche parole ne dirò il perchè. Da che la religion cristiana luminosa comparve sul candelliere con tanta raccomandazione di verità, i filosofi, pagani, non sapendo come difendere tanta deformità dell'idolatria, ricorsero al ripiego di sostenere che sotto le più ridicole favole ed azioni vergognose dei lor creduti dii si nascondeva qualche mistero o verità o teologica, o istorica, o morale; e riconoscendo non esservi che un Dio, dicevano poi che nelle differenti deità si adorava quel medesimo Dio, cioè qualche suo attributo, rappresentato dai poeti sotto il velo di molte favole. In somma inorpellavano tanto la detestabil empietà e superstizione del paganesimo, ne predicavano l'antichità, ne esaltavano l'ampiezza, che la testa leggiera di Giuliano (per [116] tale la riguardò anche Ammiano [Ammianus, lib. 16.]) vi precipitò dentro [Theodoret., Hist., lib. 3, c. 1. Gregorius Nazianz., Orat. III.]. E forse la spinta maggiore venne dal promettergli que' ciarlatani di pervenire per tal via al romano imperio. Dopo questo salto si studiava ben Giuliano di coprir la sua apostasia e idolatria nel suo cuore; finchè visse Costanzo Augusto, professava nell'esteriore il Cristianesimo, e poi la notte faceva dei sacrifizii a Mercurio, senza mettersi pensiero s'egli tradiva Dio e la propria coscienza. Ma chi sapeva ben esaminar le di lui azioni, i ragionamenti e quel suo spirito volubile, inquieto, buffone, sprezzante, giungeva a scorgere ch'egli non era cristiano, o pur era un mal cristiano, e che si allevava in lui un fiero mostro all'imperio romano. San Gregorio Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Orat. IV.], che il conobbe e praticò in Atene, ce ne lasciò un vivo ritratto, per cui predisse quello che in fatti poi fu. Aggiungasi ora che Giuliano, dopo essersi applicato alla filosofia di que' tempi, affettò da lì innanzi di comparir filosofo non solamente in molte azioni, ma con prender anche l'abito proprio de' filosofi, cioè il mantello, e nudrire le barba: tutto per acquistarsi credito con tale apparenza presso chi solo misura gli uomini dal portamento esterno. La sua sobrietà era grande [Ammianus, lib. 16. Julian., in Misopog. Libanius, Orat. X et XII.]; poco sonno prendeva, e questo sopra un tappeto e una pelle. De' piaceri e divertimenti del teatro, del circo, de' combattimenti nulla si dilettava; in una parola, da che fu creato Cesare, con questa severità di costumi molta riputazione s'acquistò nelle Gallie, col ministrar buona giustizia, con frenar le insolenze e l'avidità delle arpie, cioè dei pubblici uffiziali, che con taglie ed avanie cercavano di accrescere le calamità de' popoli, e di empiere la propria borsa.
[117] Ritornando ora al corso della storia, convien ripetere che nel dicembre del precedente anno, mentre esso Giuliano soggiornava in Naisso città della Dacia (Socrate [Socrat., lib. 3, cap. 1.] scrive nella Tracia), gli giunse l'avviso della morte di Costanzo, avviso il più grato che mai gli potesse avvenire. Secondo Ammiano [Ammian., lib. 22, cap. 2.], fecero a lui credere gli ambasciatori che Costanzo, prima di spirar l'anima, l'avea dichiarato suo successore: il che non par vero, quando sussista che l'apostasia di Giuliano fosse a lui già nota. San Gregorio Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Orat. XXI.] aggiugne essere stata fama che Costanzo sul fin della vita si pentisse di tre cose: cioè di avere sparso il sangue de' suoi parenti, di aver conferita a Giuliano la dignità di Cesare e di aver cagionato tante turbolenze nella Chiesa di Dio. Quando pur si accettasse per vero che Costanzo, giacchè non potea togliere a Giuliano la successione, gliel'avesse lasciata, ciò sarebbe stato per procacciare il di lui favore a Faustina Augusta sua moglie, la quale restava gravida, e partorì dipoi una femmina. Tutto lieto, siccome già dicemmo, passò Giuliano a Costantinopoli, dove qualche poco ancora fece la figura di cristiano, e poscia, per attestato di Socrate [Socrat., lib. 3, cap. 1.] e di Ammiano [Ammianus, lib. 22, cap. 5.], cavatasi la maschera, apertamente professò l'idolatria. Anzi non aveva aspettato fino a questo tempo, perchè Libanio [Liban., Orat. XII.] e il Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Orat. III.] attestano che, appena giunto nell'Illirico, avea ordinato che si aprissero i templi de' pagani, e che si sacrificasse agl'idoli [Julian., Epist. ad Atheniens.]; nè tardarono punto gli Ateniesi a valersi di questo sacrilego indulto. Che allegrezza per questa metamorfosi provassero i gentili, che orrore e dispiacere i cristiani, [118] non occorre ch'io lo dica. Corsero a gara i deputati delle città e provincie a riconoscere il nuovo sovrano [Julian., in Misopog. Eunap., Vit. Sophist.], portandogli delle corone d'oro; e gli Armeni ed altri re dell'Oriente, fuorchè il persiano, e fin gl'Indiani tributarongli dei regali. Anche dagli stessi Goti gli furono spediti ambasciatori per rinnovare i precedenti trattati; ma Giuliano fu vicino a romperla con loro, perchè non volea legge da que' Barbari, nè lasciarsi far paura, com'era avvenuto sotto il precedente Augusto. Quindi si diede a riformar la corte imperiale per risparmiare le spese, cassando una prodigiosa quantità di cuochi, barbieri ed altri simili, ed anche più riguardevoli uffiziali, che mangiavano a tradimento il pane del principe. Specialmente mandò a spasso tutti coloro che aveano servito a Costanzo, non distinguendo i buoni dai cattivi [Liban., Orat. X.], e sostituendo degli altri a suo talento. Ancorchè Ammiano [Ammianus, lib. 22, cap. 4.] pretenda che la maggior parte di costoro fosse piena di vizii, e s'ingrassasse a forza d'iniquità e di rubamenti, con dire fra le altre cose che avendo Giuliano dimandato un barbiere per farsi tosare, se gliene presentò uno sì magnificamente vestito, che Giuliano gridò [Zonaras, in Annal.]: L'ordine mio è stato che si chiamasse un barbiere, e non già un senatore: contuttociò lo stesso Ammiano condanna sì rigorosa riforma da lui fatta, con ridurre tanta gente in una misera povertà. Libanio [Liban., Orat. X.] all'incontro il loda forte per questo, aggiugnendo ch'egli ristrinse al numero di mille e settecento coloro che si chiamavano agentes in rebus, ufficiali del fisco, poco diversi, o pure gli stessi che i curiosi e frumentarii, cioè ispettori ed esattori che si mandavano per le provincie. Dianzi si contavano dieci mila di costoro.
Qui nondimeno non si fermò Giuliano. [119] Eresse un tribunal di giustizia, affinchè quivi si ascoltassero le molte querele de' particolari contro gli uffiziali del defunto Costanzo. Capo ne fu Sallustio Secondo, dichiarato prefetto del pretorio d'Oriente, a cui furono aggiunti Mamertino e Nevitta, consoli di quest'anno, Arbezione ed Agilone [Ammianus, lib. 22, cap. 3.]. Costoro, iti a Calcedonia, cominciarono a processar chiunque non godea la grazia di Giuliano, principalmente chi gli era in disgrazia. Palladio, già mastro degli uffizii (splendida dignità della corte), fu relegato in Bretagna; Tauro, già prefetto del pretorio, a Vercelli, benchè non sel meritasse; Fiorenzo, anch'esso mastro degli uffizii, in un'isola della Dalmazia. L'altro Fiorenzo già prefetto del pretorio delle Gallie, che aveva irritato forte Giuliano, se ne fuggì colla moglie, e nascoso stette finchè visse Giuliano, perchè contra di lui fulminata fu la sentenza di morte. D'altri cospicui uffiziali processati e condannati chi all'esilio, chi a perdere il capo, parla Ammiano; e perchè non solo a' colpevoli, ma anche a molti innocenti si stesero le condannagioni, Giuliano si tirò dietro le maledizioni, non che le mormorazioni de' suoi parziali, e molto più di chi era nemico, per sì fatte crudeltà. Con tal occasione si può dire che cominciò la persecuzione di Giuliano contra de' cristiani, perchè tutti i cortigiani professanti la legge santa di Cristo furono da lui cacciati fuori del palazzo. Dalle lettere del medesimo Giuliano [Julian., Epist. XXXVIII.] risulta, aver esso invitato alla sua corte Massimo filosofo, quello stesso che poco fa dicemmo essergli stato maestro di magia [Liban., Orat. XII.], e dell'arte empia ed ingannatoria di cercar l'avvenire. Allorchè seguì l'arrivo di costui alla corte [Ammianus, lib. 22, cap. 7.], Giuliano era nel senato, e, dimenticata la propria dignità, corse ad incontrar l'impostore, come se fosse stato qualche re, [120] o divinità, abbracciandolo e baciandolo: azione lodata da Libanio, ma ritrovata assai impropria da Ammiano. Questa sua eccessiva degnazione verso le barbe de' filosofi cagion fu che altri di tal professione [Gregor. Nazianz., Orat. IV. Eunapius, Vit. Sophist., cap. 5. Socrates, lib. 3, cap. 1.] a folla accorsero da varie parti alla corte; alcuni anche vi furono chiamati. Di carezze e belle parole certamente si mostrò liberale con esso loro il filosofo imperadore: di tanto in tanto teneva ancora alcun di essi alla sua tavola, e beveva alla lor salute: pavoneggiavasi inoltre, nell'uscir di palazzo, di esser corteggiato da essi; ma in fine i più di loro lasciava colle mani piene di mosche, e laddove erano coloro venuti lusingandosi di far gran fortuna, si trovavano poi costretti, per non morir di fame, a ritornarsene delusi ai lor paesi, maledicendo non so dire se più la furberia ed avarizia di Giuliano, o pure la stolta loro credulità. Ci lasciò san Giovanni Grisostomo [Chrysostomus, in Gent.] una descrizion della corte d'esso Giuliano, tale che fa orrore. Imperocchè, appena si seppe ristabilita da lui l'idolatria, e come egli era perduto dietro allo studio dell'avvenire, che da ogni banda fioccarono colà maghi, incantatori, auguri, indovini, e simil razza di gente, alcuni dei quali di pezzenti divenivano appresso non solo sacerdoti, ma pontefici del gentilesimo. Con costoro si tratteneva Giuliano, poco curando i generali e magistrati; e qualora usciva in pubblico, il seguitava un infame corteggio di tali ciurmatori; nè vi mancava quello di molte femmine che professavano le medesime empie arti ed illusioni, uscite da' bordelli e d'altri luoghi, dove vendevano le inique loro mercatanzie. In testimonio di questa verità il Grisostomo chiama moltissimi tuttavia allora viventi, e ben pratici della corte dell'apostata Augusto. E il Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Orat. IV.], che fioriva [121] nell'istesso tempo, ci assicura che si vedeva Giuliano mangiare pubblicamente e divertirsi con quelle infami donne, coprendo quest'obbrobrio col pretesto ch'esse servivano alle cerimonie dei suoi sagrifizii e misteri.
E tale era la vita di questo imperatore, il quale nientedimeno non ometteva di applicarsi ai pubblici affari, come consta da molte sue leggi [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]; ed era frequente al senato, dove spezialmente campeggiava la di lui vanità nel recitar delle arringhe ed orazioni, e nel decidere le liti. Volendo poi esercitare la gratitudine verso di Costantinopoli patria sua, per attestato di Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 11.], vi costituì un senato simile a quel di Roma. Ma sapendosi che anche prima d'ora un senato v'era in quella gran città, vorrà egli dire che gli concedè i privilegii medesimi e lo stesso decoro che godeva il senato di Roma. Vi fabbricò eziandio un porto che difendesse dal vento australe le navi, ed anche un portico che guidava ad esso porto, della figura del sigma greco, che si solea allora scrivere come il C de' Latini. Formò ancora [Julian., Epist. LVIII. Themistius, Orat. IV.] sopra il portico regale una biblioteca, dove ripose quanti libri egli possedeva. Studiossi ancora di condurre da Alessandria colà un obelisco: cosa già meditata dall'imperador Costanzo, ma nè pure da lui eseguita dipoi per la sua morte. Di questo parla egli in una epistola da me data alla luce [Anecdota Graeca, pag. 325.]. Bella azione dovette poi parere quella di Giuliano [Ammian., lib. 22, cap. 5.], allorchè liberò dell'esilio tutti i vescovi già banditi da Costanzo ariano, uno de' quali fu santo Atanasio, benchè poi nel seguente anno per ordine del medesimo Giuliano di nuovo ne fosse cacciato. Ma infin lo stesso Ammiano, e poi Sozomeno [Sozomen., lib. 5 Hist., cap. 5. Chron. Alexandr. Chrysost., Orat. II in Babyl.] ed altri chiaramente riconobbero aver ciò fatto [122] il malizioso Augusto, non già per alcun buon cuore verso i pastori del popolo cristiano, ma affinchè, trovandosi eglino liberi, si continuassero come prima le civili discordie tra loro, cioè tra' cattolici, ariani, donatisti, macedoniani ed eunomiani; e la plebe interessata in quelle contese non pensasse a far tumulti e sedizioni contra del regnante: il che fu ancora avvertito da sant'Agostino in riguardo ad essi donatisti. Dieci mesi pretende Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 11.] che Giuliano si fermasse in Costantinopoli. Dovea dire quasi otto; imperciocchè le leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.] cel rappresentano in quella città forse per tutto maggio. Di là poi mosse per passare in Antiochia con disegno di far pentire i Persiani di tanti danni recati al romano imperio. Per qualche tempo si fermò nella Bitinia; e massimamente in Nicomedia, città sì grandiosa ne' tempi addietro, e diroccata dal terribil tremuoto dell'anno 358: il che cavò le lagrime dagli occhi di Giuliano, e dalla sua borsa molto danaro per riparar quelle rovine. Una sua legge abbiamo quivi data nel luglio del presente anno. Per viaggio visitò quanti templi famosi la gentilità avea riaperti in quelle parti, sagrificando dappertutto con gioia immensa de' pagani e dolor de' cristiani. Non finì il luglio che giunse ad Antiochia, ricevuto con acclamazioni indicibili da quel popolo, e molte leggi si veggono date da lui nei susseguenti mesi in quella città [Ammian., lib. 22, cap. 10.]. Quivi si applicò ad ascoltar le querele dei particolari, e a decidere le loro liti con giuste bilancio, e senza guardar in faccia a chi che sia, nè qual fosse la di lui religione. Confessa nondimeno Ammiano ch'egli camminava in ciò con troppa fretta, e che, conoscendo poi la leggerezza del suo ingegno e l'impetuosità della sua collera, raccomandava ai suoi assessori di frenarlo, per non fallare. Un [123] dì si presentò a' suoi piedi Teodoto, uno de' primi cittadini di Jerapoli, ma tremando, perchè sapeva d'essere in disgrazia di lui. Giuliano il ricevette con volto cortese, e gli disse [Ammian., lib. 22, cap. 14.] che se ne ritornasse a casa senza paura, affidato dalla clemenza di un principe che solamente bramava di sminuire il numero de' suoi nemici con farseli amici. Belle parole, quand'anche in Antiochia fece continuar i processi e le condanne contra di molti, da' quali si pretendeva offeso. Ed in essa città ancora si diede più che mai a perseguitare i cristiani, per l'odio che portava alla lor religione, e per rabbia, sapendo di essere detestato da essi, essendovi stati alcuni che a visiera calata lo aveano rimproverato per la sua apostasia ed empietà. Fin sotto il precedente anno già dicemmo aver gli dato principio a sfogar questo suo mal animo contra d'essi cristiani, cacciando dalla sua corte chiunque abborriva di adorare i suoi falsi dii, uno de' quali specialmente fu celebre [Gregor. Nazianz., Orat. IV.], cioè san Cesario, fratello di san Gregorio Nazianzeno, e medico suo, che generosamente abbandonò il posto per non abbandonar la fede di Gesù Cristo. Escluse dipoi dalla milizia tutti i cristiani; ordinò che niuna carica si desse, se non agli amatori degl'idoli; proibì ai Cristiani l'insegnare ed imparar le scienze e le belle lettere. E quantunque non osasse pubblicamente di levar la vita a chi seguitava la legge di Cristo, perchè infinito era il lor numero, ed egli paventava delle sollevazioni: pure in segreto gran copia ne fece uccidere, e sotto di lui la Chiesa contò moltissimi gloriosi martiri [Idem, Orat. III. Theodor., lib. 3. Hist., cap. 11 et seq.], senza poter nè pure raccogliere il numero di tutti. Mise anche in opera tutte le arti, lusinghe e premii per sovvertire i medesimi cristiani; e pur troppo non pochi ne trovò che si lasciarono [124] vincere da così dolci batterie. Ma intorno a ciò rimetto io il lettore agli Annali Ecclesiastici del Baronio [Baron., in Annalib. Eccl.], e sopra tutto al Tillemont [Tillemont, Mémoires pour l'Histoire Ecclesiastiq.], che egregiamente ha trattato questo argomento, siccome ancora al Fleury nella sua Storia Ecclesiastica [Fleury, Hist. Eccl.].
Anno di | Cristo CCCLXIII. Indizione VI. |
Liberio papa 12. | |
Gioviano imperadore 1. |
Consoli
Flavio Claudio Giuliano Augusto per la quarta volta e Secondo Sallustio.
Era questo Sallustio console anche prefetto del pretorio delle Gallie, e diverso da un altro Sallustio prefetto del pretorio d'Oriente, siccome può vedersi presso il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad annum 362, n. 32.]. Lucio Turcio Secondo Aproniano Asterio, uno de' senatori che da Roma furono inviati a Giuliano, fu creato prefetto di Roma in questo anno, ed è sommamente lodato da Ammiano [Ammian., lib. 26, cap. 3.] pel buon governo che fece col mantenervi l'abbondanza de' viveri e la pace, e col perseguitar severamente gli incantatori e malefici che il paganesimo produceva in gran copia. Volle Giuliano onorato il suo consolato da un panegirico di Libanio sofista, e questo l'abbiam tuttavia. Varii segni diede in questi tempi Iddio dello sdegno suo con molte calamità inviate all'imperio romano, le quali avrebbono potuto avvertir Giuliano della sua empietà, s'egli fosse stato capace di correzione [Gregor. Nazianz., Orat. IV. Chrysostom., in Gent. Sozomenus, lib. 6 Hist., cap. 2.]. Frequenti furono i tremuoti che afflissero molte città. Nicomedia stessa che, per ordine di Giuliano, cominciava a risorgere, tornò di nuovo alle primiere rovine. Nicea in gran parte andò per terra; e Costantinopoli corse [125] rischio di un eguale esterminio. Libanio [Liban., Orat. XII.] è testimonio che ne patirono forte le città della Palestina e della Libia, e traballarono le più grandi della Sicilia e tutte quelle della Grecia. Si bruciò in Roma il tempio d'Apollo, e nell'ottobre antecedente era del pari rimasto divorato dalle fiamme l'altro insigne tempio d'Apollo esistente in Dafne, luogo posto in vicinanza d'Antiochia [Ammian., lib. 22, cap. 13.]. Trovavasi allora in essa città Giuliano; e perchè sospettò che il fuoco fosse stato attaccato dai cristiani per l'odio che professavano contra di lui, fece far molti processi, tormentar molte persone, e chiudere la chiesa maggiore. Anche Alessandria in Egitto restò fieramente inondata e danneggiata dal mare a dismisura gonfiato. A questi mali si aggiunse una orribil carestia che afflisse tutto il romano imperio, e fu seguitata dalla peste: malori che fecero perire una gran quantità di persone. Entrò la fame con Giuliano in Antiochia, o pur crebbe a cagion della numerosa sua corte [Julian., in Misopog. Libanius, Orat. XII.]. Il popolo smaniava, e portò i suoi lamenti ad esso imperadore, con accusare i ricchi, come cagione del caro de' viveri, tenendo chiusi i loro granai. A questo disordine si credette di rimediare col suo gran senno Giuliano, tassando il prezzo di essi viveri assai bassamente. Ne seguì appunto un effetto tutto contrario a' suoi disegni, perchè laddove prima si scarseggiava solamente di grano, venne anche a mancare l'olio, il vino ed altre specie di commestibili, non potendo i mercatanti vendere a quel basso prezzo la vettovaglia senza rovinarsi. Questa imprudenza di Giuliano vien condannata fin da Ammiano [Ammianus, lib. 22, cap. 14.] e da Libanio [Liban., in Vita sua.] suoi panegiristi.
Ma il popolo d'Antiochia, che, oltre all'essere naturalmente inclinato alla [126] satira e alle pasquinate, si trovava per la fame assai malcontento di Giuliano [Zosimus, lib. 3, cap. 11.], e maggiormente ancora perchè, troppo avvezzo agli spettacoli pubblici, osservò che Giuliano gli abborriva, e di alcun d'essi non li regalò: quel popolo, dissi, ne fece quella vendetta che potè, dileggiandolo pubblicamente con dei motti pungenti, e deridendolo con dei versi satirici [Julian., in Misopog.]. Specialmente mettevano in burla la di lui piccola statura, benchè marciasse con passi da gigante, e la sua lunga barba, per cui somigliava un caprone, e con cui si poteano far delle funi. Gli davano il titolo di macellaio per tante bestie ch'egli svenava ne' suoi empii sagrifizii. Similmente il beffavano per la vanità di portar egli colle proprie mani i vasi ed altre cose sacre, facendo piuttosto la funzion di sagrificatore che di principe. Si può ben credere che molti cristiani, dei quali era senza paragone più che di pagani piena Antiochia, ebbero parte con imprudenza a questi scherni dell'apostata Augusto. Al vedersi Giuliano sì sconciamente messo in commedia [Socrates, lib. 3 Hist., cap. 17. Sozomenus, lib. 4 Hist., cap. 19.], smaniava ben per la collera, e minacciava pene e scempii a quell'indiscreto popolo; ma perchè la positura de' suoi affari non gli permetteva di venir per ora a verun pubblico gastigo, la vendetta che ne fece, fu di comporre coll'aiuto di Libanio una invettiva [Gregorius Nazianz., Orat. IV.] satirica contro il popolo d'Antiochia, intitolata Misopogon, cioè Nemico della barba, carica di velenose ironie, spacciando que' cittadini per gente interessata, data al lusso, alla crapola, vana, e perduta unicamente dietro a' teatri e alle bagattelle. Pubblicò egli solamente nel gennaio di quest'anno essa satira, applaudita non poco dai parziali pagani, ma derisa prima e dopo la morte di lui dai cristiani. Il peggio fu ch'essa ad altro non servì [Ammianus, lib. 22, cap. 14.] che ad aguzzar [127] maggiormente le lingue di quel popolo contro di lui. In questi tempi evidente fu, celeste e degno di grande attenzione, un miracolo operato dalla mano di Dio. Avea conceduto Giuliano, per far dispetto ai cristiani, che i Giudei potessero rimettere in piedi il loro tempio di Gerusalemme. Corsero da tutte le parti costoro con immense oblazioni d'oro per eseguire la disegnata fabbrica. Demolirono le reliquie dell'antico tempio per farne un nuovo, venendo essi a verificar sempre più la predicazione di Gesù Cristo [Theodoretus, lib. 3 Hist., cap. 15. Gregorius Nazianz., Orat. IV. Socrates, l. 3 Hist., c. 20.]. Ma dacchè ebbero ben cavato per cominciare i fondamenti, ecco un tremuoto che rovinò tutte le cave e case vicine colla morte d'assaissime persone, e specialmente di moltissimi di quegli operai. Non rallentarono per questo i Giudei il lavoro; ma, nel più bel del cavare, sboccò da più lati de' fondamenti, e più di una volta, un fuoco che abbruciò gran numero di persone; e beato chi ebbe tempo da fuggire. In somma questi ed altri flagelli, riconosciuti per prodigiosi fin dagli stessi Giudei, fecero cessar l'impresa, e recarono insigne gloria alle parole del Salvatore e alla santa sua religione. E non già i soli scrittori cristiani di questo e del seguente secolo, come il Nazianzeno, sant'Ambrosio [Ambros., Epistol. ad Theod.], il Grisostomo [Chrysostomus, in Judaeos.], Socrate, e Sozomeno, ed altri attestarono la verità del miracolo, ma anche lo stesso Ammiano [Ammianus, lib. 23, cap. 1.] gentile ne fa fede con iscrivere: Metuendi globi flammarum prope fundamenta crebris assultibus erumpentes fecere locum exustis aliquoties operantibus inaccessum.
Le applicazioni maggiori dell'Augusto Giuliano erano state fin qui intorno i preparamenti della guerra ch'egli meditava di fare a Sapore re di Persia, per vendicare, diceva egli, i tanti oltraggi e danni recati all'imperio romano da' Persiani [128] sotto Costanzo, ma più per avidità di gloria, figurandosi non da meno d'altri Augusti predecessori che aveano portate l'armi e il terrore nel cuor della Persia. Ed ancorchè Sapore, sentendo il turbine minaccioso, dimandasse con sua lettera di potergli spedire degli ambasciatori per trattar di pace, con offerir anche delle condizioni vantaggiose [Liban., Orat. X.], Giuliano stracciò la lettera, nè volle ascoltarlo. Socrate [Socrat., lib. 3, cap. 19.] pretende che gli ambasciatori vennero, ma non riportarono altra risposta, se non che verrebbe l'imperatore a trattare in persona con quel re senza bisogno d'ambasciatori. Ammassato dunque un fioritissimo e potente esercito, senza voler aiuto da molte nazioni orientali che s'erano esibite ausiliarie, a riserva d'un corpo di Goti, mosse Giuliano da Antiochia nel dì 5 di marzo [Ammianus, lib. 23, cap. 2.]. Ai nobili antiocheni che lo accompagnarono un pezzo, e gli augurarono un buon viaggio, e un felice e trionfal ritorno, con pregarlo di venir più placato e clemente verso di loro, aspramente rispose che nol vedrebbono più, perchè volea passare il verno in Tarso della Cilicia. Ve lo passò, ma diversamente da quello ch'egli credeva. Il viaggio del guerriero Augusto e della sua armata, e il passaggio dell'Eufrate, si trovano descritti dal medesimo Giuliano [Julian., Epist. XXVII.], da Ammiano [Ammianus, lib. 23, cap. 2.] e da Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 12.]. Giunto ch'egli fu a Carres, lasciò uno staccamento di circa venti mila persone sotto il comando di Procopio e del conte Sebastiano, acciocchè custodissero le frontiere della Mesopotamia, con iscrivere nel medesimo tempo ad Arsace re dell'Armenia in termini ingiuriosi, perchè era cristiano, e comandandogli boriosamente di venire ad unire le sue forze colle sue. Non mancò Sozomeno [Sozom., lib. 6 Histor., cap. 1.] di rilevar la vanità di Giuliano in quella [129] lettera, e il di lui veleno contro di Costanzo Augusto: lettera che, perduta in addietro, ho io poi data alla luce [Anecdota Graeca.]. Intanto una flotta di settecento barche e di quattrocento altre da carico scendeva per l'Eufrate, e venne ad unirsi all'armata di terra. Ammiano ne fa molto maggiore il numero. Prese allora Giuliano il cammino a seconda di quel fiume, e dopo aver passato il fiume Abora, e fatto rompere il ponte, affinchè i soldati conoscessero che conveniva menar le mani, e non fuggire, gl'incoraggì poi col donare a cadaun soldato centotrenta nummi d'argento [Zosim., lib. 3. cap. 13.]. I suoi principali comandanti dell'armata erano Nevitta, Arinteo, Ormisda fratello bandito del re Sapore, Dagalaifo, Vittore e Secondino. Ascendeva questo corpo d'armata a sessantacinque mila persone, gente scelta, e con esso entrò Giuliano nel paese persiano dalla parte dell'Assiria, come dice Ammiano; e trovato quel territorio fertile e ricco, lasciò metterlo tutto a sacco; e ciò senza consigliarsi colla prudenza, perchè si privò de' foraggi e viveri che gli avrebbono potuto servir nel ritorno. Ammiano [Ammianus, lib. 24, cap. 1.], che si trovava in quella spedizione, oltre a Libanio [Liban., Orat. XII.] e Zosimo [Zosim., lib. 3, cap. 17.], descrive minutamente il continuato viaggio di Giuliano, a cui niuno si trovava che facesse resistenza. Prese alcune castella, e specialmente la città di Bersabora, una delle maggiori di quelle contrade, e poscia a forza d'armi Maozamalca, altra gran città. Non era egli lungi da Ctesifonte, capitale allora della Persia, quando arditamente fece passare il fiume Tigri all'armata sua in faccia ai nemici che ne difendevano la ripa opposta, e andarono ben presto in rotta. Vero è avere Socrate [Socrat., lib. 3, cap. 21.] scritto che Giuliano imprese l'assedio di Ctesifonte, dove era chiuso lo stesso re Sapore; ma dagli autori contemporanei, cioè da Ammiano, Libanio [130] e s. Gregorio Nazianzeno, altro non sappiamo se non ch'egli fece dar il guasto ai contorni d'essa città, e che Sapore si trovava lungi di là, intento a metter insieme una poderosa armata per resistere ai Romani. Non lasciò egli di spedir altri deputati a Giuliano per dimandar pace; e questi s'indirizzarono ad Ormisda, fratello d'esso re, il quale militava in favor di Giuliano. Ne parlò Ormisda; ma Giuliano, senza volerne intender parola, gli ordinò di licenziar tosto que' messi, e di coprire il motivo della lor venuta per timore che le lusinghe della pace non ismorzassero l'ardor delle truppe. Giacchè riconobbe pericoloso l'assediar Ctesifonte, non che difficile l'impadronirsene, determinò Giuliano di tornarsene addietro alla lunga del Tigri [Joan. Malala, Chron. Rufus Fest., in Brev.]. Ma lasciatosi sovvertire da un furbo disertore persiano, al dispetto de' consigli d'Ormisda si allontanò da quel fiume, e prese a passare per mezzo al paese insperanzito ancora di trovar Sapore e di dargli battaglia. Fece prendere ai soldati dei viveri per venti giorni, ed affinchè la flotta, da cui ritirò le milizie, non cadesse in man dei nemici, a riserva di alquante barche, tutta la bruciò. Dio, che voleva alfin liberare la terra da questo nemico del nome cristiano, e che tanto confidava ne' falsi dii, permise ch'egli si accecasse in questa forma, appigliandosi ad una risoluzion tale, che da Ammiano e de altri altamente vien condannata.
Si mise in marcia l'armata romana, ma piena di mormorazioni, nel dì 16 di giugno: ed ecco comparir Sapore con quante forze potè, non per decidere la sorte con una giornata campale, ma solamente per infestare e pizzicar da ogni lato i Romani, sperando specialmente di affamarli, perchè preventivamente avea desolato il paese per dove aveano da passare [Ammianus, lib. 25, cap. 1 et seq. Rufus Festus, in Brev. Aurelius Victor, in Epitome.]. Così appunto avvenne. D'uopo fu lo star quasi sempre in armi; frequenti [131] furono le scaramuccie; mancarono in fine i viveri, e foraggio non si trovava: però i lamenti e la costernazione si diffusero per tutto l'esercito. Venne il dì 20 di giugno, in cui più arditi che mai giunsero in grosso numero e in varii corpi i Persiani ad assalire i Romani che erano in marcia, molestandoli qua e là, e massimamente alla coda. Giuliano, all'intendere il gran rumore e la strage che faceva de' suoi il nimico, senza far caso del trovarsi allora senza usbergo, anzi affatto disarmato, dato di piglio ad uno scudo, volò ad incoraggire i suoi. Ma mentre egli dà la caccia ai nemici [Ammianus, lib. 25, cap. 3.], un'asta lanciata da un cavaliere gli volò addosso, e trapassategli le coste, penetrò sino alle viscere. Caduto da cavallo, fu immediatamente portato sopra uno scudo in luogo sicuro; si mise mano ai medicamenti; tale nondimeno era la ferita, che nella notte seguente si trovò disperata la sua salute. Dimandò egli che luogo era quello. Gli fu risposto Frigia. Allora Giuliano si tenne spedito, perchè dicono essergli stato gran tempo innanzi predetto che morrebbe nella Frigia. Di simili predizioni altri esempli ci somministra la storia, con apparenza che sieno state inventate dopo il fatto dai gentili, per accreditar le pazze loro superstizioni. In somma Giuliano in quella stessa notte terminò i suoi giorni in età di circa trentadue anni. Tale è il racconto che fa della morte di Giuliano lo storico Ammiano, il quale si trovava in quella stessa armata, ed aggiugne essersi nel conflitto d'esso giorno fatto gran macello dei Persiani, finchè la notte diede fine alla pugna, e che restarono sul campo morti cinquanta dei loro satrapi. Io non la finirei sì presto, se volessi qui riferir la varietà dei racconti che abbiamo intorno alle circostanze della morte di questo apostata imperadore. Scrive Teodoreto [Theodoretus, lib. 3 Hist., cap. 20.] ch'egli, preso colla mano del suo sangue, [132] lo gittò in aria dicendo: L'hai vinta, Galileo. Così soleva egli chiamare il Signor nostro Gesù Cristo. Altrettanto abbiamo da Sozomeno [Sozomenus, Histor., lib. 4, cap. 2.]. Secondo Filostorgio [Philostorg., lib. 6, cap. 15.], egli bestemmiò il sole, suo gran dio, e tutti gli altri dii, trattandoli da traditori. Quanto al cavaliere che colla lancia (altri [Zonaras, in Annalib. Chronicon Alexandrin.] dicono con un dardo, ed altri colla spada) diede il colpo mortale a Giuliano, mai non si potè sapere chi fosse. Libanio sofista pagano [Liban., Orat. XII.], spacciato adorator di questa apostata, il solo è che ne fa autore un cristiano, giacchè egli dice aver prima d'allora i cristiani tramate altre insidie contro la vita di lui; e che il re persiano, per quante diligenze facesse, e per quante ricompense promettesse, non potè trovare alcun de' suoi che si vantasse d'aver fatto quel colpo. Ma il medesimo Libanio altrove [Idem, Orat. XI.] tien un altro parere, attribuendo ciò ad un Aquemenide, cioè ad un Persiano. Eutropio [Eutrop., in Breviar.], che si trovò anche egli in quella spedizione, Rufo Festo [Rufus Festus, in Breviar.] ed Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] scrivono che la ferita venne dalla mano d'un cavalier nemico, che gli gittò l'asta in fuggire, com'era l'uso de' Persiani. Ammiano e Zosimo, se un cristiano fosse stato l'uccisore, siccome pagani, verisimilmente non l'avrebbono taciuto. Il primo d'essi solamente scrive essere corsa voce, che un Romano l'avesse mortalmente ferito. Qualunque nondimeno fosse un tal cavaliere, certo egli fu esecutore e ministro della volontà e giustizia di Dio, nel cui tribunale era acceso il processo della nera apostasia di Giuliano, e peroravano le lagrime e preghiere de' santi contra di questo persecutore del popolo e della religion de' cristiani. Però essi cristiani attribuirono alla onnipossente mano di [133] Dio la di lui caduta [Joannes Malala, in Chron. Alexand.], e il rappresentarono dipoi come trafitto con una lancia da san Mercurio martire. Fu portato il corpo dell'estinto Giuliano a Tarso di Cilicia [Gregor. Nazianzen., Orat. IV.], dove accompagnato da commedianti e buffoni (che tale era l'uso dei gentili) ebbe un'assai vile sepoltura, e per accidente fu posto vicino a quello di Massimino II Augusto, cioè di un altro fiero nemico della religion cristiana. Non si potrebbe abbastanza dire con che gioia dai popoli cristiani, con che dolore dai pagani fosse intesa la morte di questo empio imperadore. Libanio [Liban., in Vita sua. Idem, Orat. XI et XII.] confessa che fu vicino a darsi la morte a questo avviso; ma volle sopravvivere, per poterne far l'orazione funebre, ed in fatti la compose dipoi con impiegar la sua adulatoria eloquenza a dare risalto alle apparenti di lui virtù, e a caricarlo di lodi eccessive. Ma nè pur fra i cristiani mancò chi con migliore pennello lasciò dipinti i vizii e le iniquità di Giuliano; e questi fu san Gregorio Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Orat. IV.], il quale con soda facondia compose due celebri orazioni contra di lui, e ci lasciò un ritratto più somigliante al vero di quel che fecero i gentili.
Questo avvenimento poi, quanto men pensato, tanto più dovette recar di confusione non solo al medesimo Giuliano ferito, ma ancora al paganesimo tutto. Sforzaronsi ben Ammiano [Ammian., lib. 23, cap. 2.] e Libanio [Liban., de Templ.] per far credere che gli aruspici indovini e maghi, de' quali cotanto abbondava, e sì forte si fidava il superstizioso Augusto, osservarono più presagii della di lui vicina morte; ma il fatto grida in contrario. Certo è che Giuliano, badando a quegl'impostori, si prometteva gloriose vittorie, ed aveva già spedito Memorio presidente della Cilicia, perchè gli preparasse buon quartiere in Tarso, [134] dov'egli pensava di svernare. Si sa inoltre che egli avea minacciato un fiero scempio ai cristiani, tornato che fosse glorioso per la sognata vittoria de' Persiani. Fuor di dubbio è ancora che Giuliano [Ammian., lib. 22, cap. 12.] prima di uscire in campagna, e per tutto il viaggio, fece innumerabili sagrifizii, tanto per aver favorevoli gli insensati suoi dii, quanto per cercar nelle viscere delle vittime la cognizion dell'avvenire. Lo stesso Ammiano [Idem, ibid.] confessa ch'egli alle volte in un sol sacrifizio faceva scannar centinaia di buoi, ed innumerabili greggi d'altre bestie, e bianchi uccelli, cercati per mare e per terra, di modo che quasi non passava giorno, in cui colle carni di tanti animali uccisi non solamente s'ingrassassero i falsi suoi sacerdoti, ma ne sguazzassero ancora tutti i suoi soldati: spesa indicibile, condannata fin da quel medesimo storico gentile. Così nel celebre tempio di Carres dedicato alla Luna, per quanto narra Teodoreto [Theodoretus, lib. 3 Hist., cap. 21.], chiusosi Giuliano un giorno durante la suddetta spedizione, non si seppe cosa ivi facesse, se non che uscito, mise le guardie a quel luogo, con ordine di non lasciarvi entrar persona sino al suo ritorno. Venuta poi la nuova di sua morte, fu aperto il tempio, e vi si trovò una donna impiccata col ventre aperto, per qualche incantesimo fatto da Giuliano, o pure per cercar nelle di lei viscere quel che gli dovea succedere nella guerra co' Persiani. Che impostore solenne dovette mai essere il primo che fece credere, e trovò poi tanti che stoltamente credettero potersi nelle viscere degli animali scoprir l'avvenire de' fatti degli uomini e degli accidenti della vita! Che han che fare i fegati e polmoni delle bestie, sagrificate a caso, colle azioni umane, onde si potesse leggere quivi, come in un libro, le cifre di quel che dovea accadere? L'evento poi fece pur conoscere quante [135] fossero in ciò le illusioni di Giuliano, quanto vana la di lui fidanza ne' suoi idoli. Allorchè egli si credea vicino al colmo della gloria, e nel tempo stesso, come osservò il Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Orat. IV.], che tutto il paganesimo immolava vittime per lui: eccolo steso a terra dalla destra di Dio, e andare in un fascio le sue glorie, e seco tutte le speranze de' gentili, i quali già si figuravano di dover calpestare la Croce, e rendere idolatra di nuovo il romano imperio. Perchè erano bene incamminate le lettere in questi tempi, si possono rammentare sotto il breve regno di Giuliano varii scrittori che registrarono le azioni di lui, come Ammiano Marcellino, Eunapio, Temistio e Libanio, celebri sofisti pagani. Abbiamo ancora alcuni libri del medesimo Giuliano pieni di satire e di buffonerie. Non resta più quello ch'egli scrisse contro la religione cristiana, ma bensì ne abbiamo la confutazione fatta da san Cirillo vescovo d'Alessandria. Altri sofisti e filosofi fiorirono allora, de' quali si son perdute le opere, e fu in credito ancora Oribasio medico, di cui si son conservati varii libri. Ma se i gentili coltivavano allora le lettere, non men di loro vi si applicarono i cristiani, fra' quali specialmente gran nome e venerazione venne ai santi Basilio, Gregorio Nisseno, Gregorio Nazianzeno, Cesario, Ilario e ad altri, dei quali parla la storia ecclesiastica e letteraria.
Trovavasi l'armata romana per l'imprudente condotta di Giuliano in grandissime angustie, perchè in un paese incognito e difficile; priva di vettovaglie, e senza sapere onde condurne; sminuita di molto per li patimenti e per le battaglie; attorniata tuttavia e continuamente infestata dall'armi persiane. A questi malanni si aggiunse l'inaspettata morte dell'imperadore: il perchè tutto era confusione ed affanno. Sì fiera contingenza obbligò gli uffiziali di esso esercito a [136] provvedersi di un capo senza perdere tempo; e perciò nel dì seguente, giorno 27 di giugno, concordemente elessero imperador Gioviano [Eutropius, in Breviar. Hieronymus, in Chronic.], ch'era allora capitan della guardia appellata de' domestici, personaggio di gran riputazione nella corte, e per la sua dolcezza, onoratezza e prudenza amato e stimato da ognuno [Aurelius Victor, in Epitome. Ammianus, lib. 25, cap. 7.]. Era stato suo padre Varroniano conte, nativo di Singidono città della Mesia, che aveva esercitata la stessa carica nella guardia de' domestici, e poi s'era ritirato per godere il resto dei suoi giorni in riposo [Themist., Orat. V.]. Anche il credito del padre contribuì non poco alla esaltazione del figliuolo. Secondo i conti di Eutropio, nacque Gioviano circa l'anno 331, e nelle medaglie [Du-Cange, Hist. Byz. Mediobarbus, Numism. Imper.] il troviamo chiamato Flavio Claudio Gioviano. Ci vorrebbe far credere Ammiano [Ammian., lib. 25, cap. 7.] che quasi accidentale fosse la di lui elezione, e molti se ne mostrassero malcontenti; e vorrà dire i pagani. Sparla ancora dei di lui costumi. Altrettanto fa Eunapio [Eunap., Vit. Sophist.]. Erano amendue gentili. Ma Zosimo [Zosimus, lib. 3 Hist., cap. 30.], che pur era anch'egli pagano, e Teodoreto [Theod., lib. 4 Hist., cap. 1.] lo attestano eletto di comune consentimento; e ciò vien confermato da Eutropio che si trovò in quell'armata. Cristiano di professione era Gioviano; e ricavasi da Socrate [Socrates, lib. 3 Hist., cap. 22.], che avendo l'apostata Giuliano intimato agli uffiziali di rinunziare alla religion cristiana, o pur ai lor impegni, Gioviano allora tribuno scelse l'ultimo partito. Ma perchè egli era uomo sperimentato nella milizia, gli conservò il suo posto. E di questo suo attaccamento una pruova gloriosa [137] diede egli appena creato imperadore [Rufin., Hist., lib. 3. Socrates. Sozomen. Theodoret.]. Imperocchè, senza temere la possanza de' generali e il capriccio dei soldati, protestò d'essere cristiano, e di non poter comandare ad un'armata, che avendo appresa da Giuliano l'empietà, ed essendo abbandonata da Dio, altro non dovea aspettarsi che l'ultimo eccidio. Al che risposero ad alta voce i soldati, con dichiararsi cristiani, perchè parte tali erano, e gli altri elessero di farsi. Quello che dipoi succedesse per conto della guerra co' Persiani, benchè spettante al presente anno, pure chieggo licenza di riferirlo al seguente.
Anno di | Cristo CCCLXIV. Indizione VII. |
Liberio papa 13. | |
Valentiniano e | |
Valente imperadori 1. |
Consoli
Flavio Claudio Gioviano Augusto e Flavio Varroniano nobilissimo fanciullo.
Ebbe Gioviano Augusto per moglie Caritone, figliuola di Lucilliano generale rinomato in questi tempi, che gli partorì una figlia ed un figliuolo, nomato Varroniano, in età allora, per quanto si può raccogliere da Ammiano [Ammianus, lib. 25, cap. 10.], di circa un anno. Conferì Gioviano a questo suo rampollo il titolo di nobilissimo fanciullo, e il volle console seco per l'anno presente; ma perchè coi vagiti e colla ripugnanza mostrò di non voler essere condotto nella sedia curale, i superstiziosi pagani presero ciò per un presagio di disgrazie. Tornando ora alle avventure dell'anno precedente, da che Gioviano fu proclamato Augusto, cominciò a pensare ai mezzi di salvare l'armata dall'evidente rischio di perire affatto o per le armi de' Persiani, o per la mancanza de' viveri [Ammian., lib. 25, cap. 5. Liban., in Vita sua.]. Intanto un alfiere [138] romano, tra cui e Gioviano erano passati dei disgusti, desertò, e portò al re Sapore la nuova della morte di Giuliano; che essendo eletto in luogo di lui un imperadore dappoco, era venuto il tempo di subissare i Romani. Animato da tali avvisi il Persiano, per tre giorni con tutte le sue forze inseguì la marcia del nemico esercito, non senza strage di molti Romani, ma sempre con perdita maggiore dal canto suo. Arrivò nel primo dì di luglio l'afflitta armata romana alla città di Dura, non lungi dal Tigri, e si stentò forte a tener in dovere le ammutinate milizie, che faceano istanza di passar tosto quel rapido fiume, benchè senza ponte, e prive affatto di barche, perchè la fame li pungeva, e toccava ai poveri cavalli uccisi di servir loro di pane. In questo miserabile stato, e in pericolo di restar tutti preda dei nemici, come si può conghietturare, mosso Iddio in riguardo del piissimo imperadore a pietà [Gregor. Nazianz., Orat. IV. Theodoret., lib. 4, cap. 2. Socrates. Sozomenus.], fece che il re persiano spontaneamente inviò persone a Gioviano Augusto per trattar di pace [Ammianus, lib. 25, cap. 7.]. A tale spedizione si credè spinto Sapore dalla notizia d'essere stati in ogni scaramuccia e fatto d'armi perditori i suoi soldati, dal timore di peggio, e dal desiderio di liberare il suo paese da un sì poderoso nemico. Riconobbe lo stesso Ammiano, benchè nemico di Gioviano, per un favor particolare di Dio, una tale spedizione e dimanda, quando le apparenze tutte erano che Sapore potea finir la guerra colla total rovina dell'esercito romano. Trattossi dunque di pace nello spazio di quattro giorni; e perchè i Romani si trovavano in troppo svantaggio, e si udiva che Procopio, parente del defunto Giuliano, macchinava ribellione, fu astretto l'Augusto Gioviano a comperar dai nemici una pace vergognosa bensì per l'imperio romano, [139] ma necessaria [Eutrop., in Breviar.]. Gli convenne dunque restituire a' Persiani cinque provincie picciole con alcune castella che essi aveano già ceduto ai Romani sotto Diocleziano, ed inoltre abbandonar loro le città di Nisibi e di Singara, con ritirarne prima gli abitanti. Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 31.] aggiugne che anche buona parte dell'Armenia passò allora in poter de' Persiani, ma ciò accadde in altro tempo. Non lasciarono gli scrittori pagani, cioè Ammiano, Eutropio e Zosimo, di processar Gioviano imperadore, quasichè con questo trattato di pace egli facesse perdere il credito al romano imperio, il cui chimerico dio Termine si gloriavano una volta i Romani che non rinculcava giammai. E pure abbiamo veduto che Adriano, Aureliano e Diocleziano abbandonarono ai Barbari varie provincie che già erano dell'imperio. Oltre di che, non si doveva a Gioviano attribuir questo infelice successo, ma bensì alla imprudenza e temerità di Giuliano, per aver fatta bruciar la flotta necessaria, e poscia impegnata l'armata romana così innanzi nel paese nemico, fatto altresì devastare da lui, senza aver punto di comunicazione col proprio, e senza prendere buone misure per l'importante sussistenza e provvisione de' viveri. In tali strettezze il consiglio si prende non dall'amore della gloria, nè dalla propria volontà, ma bensì dalla necessità e dall'arbitrio di chi gode il vantaggio. Che se da Eutropio [Eutrop., in Breviar.] è biasimato Gioviano, perchè dopo essere giunto in salvo non ruppe il trattato: di questa infame politica non si servono i principi veramente cristiani che rispettano Dio più della propria utilità, nè adoperano mai il giuramento per ingannare altrui, sapendo quando Iddio, chiamato in testimonio de' patti, abborrisca e gastighi gli spergiuri.
[140] Stabilita la pace e dati gli ostaggi, quietamente, ma con gran fatica e perdita di molte persone annegate, o morte di fame [Ammianus, lib. 25, cap. 8.], passò l'armata romana di là dal Tigri, e le convenne far tuttavia viaggio per sei giorni, senza trovar neppur acqua non che cibo, supplendo al bisogno l'erbe e la carne de' cammelli uccisi. Arrivati finalmente al castello d'Ur, trovarono ivi qualche rinfresco, finchè giunsero in siti da potersi ben satollare. Allora Gioviano Augusto spedì in Italia, nell'Illirico e nelle Gallie uffiziali a portar la nuova della sua esaltazione, distribuì i governi e le cariche. Giunto poi che fu a Nisibi, volle eseguita la capitolazione, consegnando a' Persiani quella ricca e popolata città, con trasportarne altrove gli abitanti: scena lagrimevole descritta da Ammiano [Idem, ibidem.] e da Zosimo [Zosimus, lib. 3, cap. 33.], e più pateticamente dal Grisostomo [Chrysost., in Gentiles.], in guisa che intenerisce i lettori. Nel mese di ottobre finalmente pervenne ad Antiochia, il cui popolo, da che intese la morte dell'apostata Giuliano, avea fatta gran festa, gridando dappertutto [Theodoretus, lib. 3 Hist., cap. 22.]: Dio l'ha vinta, e Gesù Cristo con lui: con passar poi a dileggiare l'estinto odiato principe, e Massimo filosofo, e tutta l'altra ciurma degli incantatori e indovini che l'aveano burlato con tante loro promesse. Applicossi tosto il novello imperadore a ristabilire la pace della religione cristiana. Se vogliam credere a Temistio [Themistius, Orat. V.], egli permise ad ognuno la libertà di osservar quella che più gli piacesse, nè ai pagani vietò l'uso dei loro templi e sagrifizii. Altramente ne parla Socrate [Socrat., lib. 3 Histor., cap. 25.], con dire che d'ordine suo furono chiusi di nuovo i templi degl'idoli. Quel che è più, lo stesso Libanio [Libanius, Orat. XII.] [141] sofista, sì caro a Giuliano, confessa che dopo la morte di lui ognun poteva a man salva parlare contra de' falsi dii, e che i templi de' gentili restavano serrati e andavano in rovina; e che i sacerdoti filosofi e sofisti pagani erano maltrattati, derisi e imprigionati. Libanio anch'egli corse gran pericolo della vita [Liban., in Vita sua.], perchè non cessava di piangere e lodar Giuliano; ma il buon Gioviano non gli volle mai fare un reato di questo suo pazzo impegno. Furono dunque dal piissimo Augusto restituiti tutti i privilegii alle chiese, al clero, alle vergini e vedove sacre, e richiamati dall'esilio i vescovi cattolici, molti de' quali erano stati banditi dal perfido Giuliano, e massimamente l'insigne vescovo d'Alessandria sant'Atanasio [Gregor. Nazianz., Orat. XXI. Theodoret. Socrates.]. Andò egli a trovar Gioviano in Antiochia, e la sua presenza assaissimo giovò per preservare il di lui cuore dalle suggestioni degli ariani, de' macedoniani e degli altri eretici o scismatici di questi tempi. Ma che? Mentre il buon principe s'affatica per la tranquillità della Chiesa e per la pubblica felicità, ecco un'improvvisa morte troncar il filo di sua vita, e far abortire tutti i di lui gloriosi disegni. S'affrettava egli per venire in Occidente affin di mettere riparo alle sedizioni e rivolte che si temevano. Ed in fatti essendo egli pervenuto a Tiana nella Cappadocia, gli giunse avviso che Lucilliano suocero suo, creato ultimamente, o pure confermato generale dell'armi nell'Illirico [Ammian., lib. 25, cap. 10. Zosimus, lib. 3, cap. 35.], essendo passato nelle Gallie, quivi dai soldati batavi ammutinati era stato privato di vita. Valentiniano tribuno, ch'era seco, ebbe la fortuna di salvarsi, destinato da Dio per divenir imperadore fra pochi mesi. Di peggio non accadde nelle Gallie; e quei popoli spedirono poco dipoi deputati ad umiliar la loro ubbidienza a Gioviano. Trovossi l'Augusto principe [142] in Ancira, capitale della Galazia, nel primo giorno del presente anno, e quivi con solennità celebrò il consolato da lui preso col suo picciolo figliuolo Varroniano. Per tal congiuntura il sofista Temistio compose un'orazione che resta tuttavia. Ancorchè i rigori del verno dovessero persuadere a Gioviano il fermarsi in Ancira, tale nondimeno era la di lui premura per arrivare a Costantinopoli [Socrates, lib. 3, cap. 26. Zosimus, lib. 3, cap. 35. Sozom., lib. 6, cap. 6.], che non si potè trattenere dal continuare il viaggio. Ma pervenuto a Dadastana nei confini della Galazia e Bitinia, dove se gli presentò Temistio con altri senatori a lui spediti da Costantinopoli, nella notte del dì 16 venendo il 17 di febbraio, sorpreso da un maligno accidente, fu nella seguente mattina ritrovato morto, dopo aver regnato solamente sette mesi e venti giorni, in età, secondo Ammiano [Ammianus, lib. 25, cap. 10.] ed Eutropio [Eutrop., in Breviar.], di trentatrè anni. Varie furono le dicerie intorno alla cagion di sì funesto caso. Chi l'attribuì all'aver egli dormito in una camera poco dianzi imbiancata colla calce; chi all'odore del carbone acceso in esso per riscaldarla; altri ad un eccesso di mangiare fatto nel dì innanzi [Sozom. Orosius. Hieronym. et alii.]. Il Grisostomo [Chrysostom., Homil. XXV in Philipp.] ed altri parlano di veleno, o ch'egli fosse strangolato dalle guardie; e pare che Ammiano [Ammianus, lib. 25, cap. 10.] stesso non si allontani da sì fatto sospetto. Fu poi portato a Costantinopoli il di lui corpo, ed onorevolmente seppellito nella chiesa degli Apostoli. Caritone Augusta sua moglie, che vivente non l'avea potuto vedere imperadore, lo accolse morto nel venirgli incontro a Costantinopoli. Si trova poi essa tuttavia viva nell'anno di Cristo 380 insieme col figliuolo Varroniano [Zonar., in Annalib. Cedrenus, Histor.], a cui nondimeno era stato cavato un occhio, [143] affinchè non osasse un dì pretendere all'imperio, vivendo egli nondimeno sempre in timore di qualche peggior trattamento che venisse consigliato dall'iniqua politica del mondo.
Stettero gli uffiziali dell'armata romana dopo la morte di Gioviano per nove o dieci giorni senza principe, consultando sempre chi fosse degno di sì eccelsa dignità. Varii furono i candidati; ma in fine i voti concordi andarono a cadere in Valentiniano, per opera specialmente di Sallustio Secondo, prefetto del pretorio d'Oriente, e d'Arinteo e Dagalaifo generali delle armi [Ammianus, lib. 26, cap. 1, et lib. 30, cap. 7.]. Per patria sua riconosceva Flavio Valentiniano (che così egli è nominato nelle iscrizioni e medaglie) Cibala città della Pannonia; per padre Graziano, il quale nato di famiglia ignobile, ma dotato d'una gran forza, per varii gradi della milizia era giunto ad essere conte dell'Africa. E quantunque sotto Costanzo Augusto, mentr'egli era comandante dell'armi nella Bretagna, fosse spogliato de' suoi beni, siccome incolpato d'aver accolto in sua casa Magnenzio poco prima della di lui ribellione: non però di meno fu egli sempre in grande stima tra le persone militari, e il credito suo giovò al figliuolo per salire sul trono. Anche Valentiniano, nato circa l'anno di Cristo 321, per la via dell'armi fece il noviziato della sua fortuna, mostrando in varie occasioni non men coraggio che perizia dell'arte militare [Zosimus, lib. 3, cap. 36.]. Per una calunnia del general Barbazione, Costanzo Augusto il cassò nell'anno 357, levandogli un corpo di cavalleria, a cui nelle Gallie comandava in grado di tribuno. Sotto Giuliano esercitò la carica di tribuno d'una compagnia delle guardie d'esso Augusto, nel cui servigio gli occorse un glorioso accidente che fece molto parlare di lui [Zosim., lib. 4, cap. 2. Sozomenus, lib. 4, cap. 6. Theodoret., lib. 3, cap. 12.]. Trovandosi esso Giuliano in Antiochia, ed entrando in un [144] tempio degl'idoli, un di que' sacerdoti che spargeva dell'acqua sopra chi l'accompagnava come per purificarlo (rito antichissimo santificato nella religion cristiana) con una goccia toccò la veste di Valentiniano. Era questi di profession cristiano, e però sembrandogli d'essere contaminato per quell'acqua spruzzata dalle mani di un idolatra, il quale forse anche caricò la mano appunto perchè sapea che egli era cristiano, gli disse una mano d'ingiurie; e v'ha chi crede che gli desse un pugno, o pure che si tagliasse quel pezzo dell'abito, dov'era caduta l'acqua. Fu osservato da Massimo filosofo pagano, che ne informò tosto Giuliano. Irritato l'apostata Augusto per tale sprezzo del rituale gentilesco, ordinò a Valentiniano di sagrificare agl'idoli, o pure di dimenticare la carica. Generosamente elesse egli la perdita di tutto piuttosto che di mancare alla fede verso Dio, il qual poi per tanta fedeltà il ricompensò sulla terra, e più dovette farlo in cielo [Orosius, lib. 7, cap. 32. Sozomenus. Theodor. Philost.]. I più degli antichi tengono che Giuliano il cacciasse in esilio; ma questo non è certo. Di sopra accennammo che Valentiniano sotto l'Augusto Gioviano accompagnò nelle Gallie il generale Lucilliano, e per buona ventura scappò dalle mani de' Batavi, allorchè nella città di Rems tolsero la vita ad esso Lucilliano. Essendo egli poi venuto a trovar Gioviano in Oriente, creato capitano della seconda compagnia delle guardie, restò in Ancira con ordine di tener dietro all'imperadore dopo qualche tempo. Ma venuto a morte Gioviano, ed essendosi accordati i principali dell'esercito ad eleggere lui per Augusto, giunsero i deputati ad Ancira con questa lieta nuova, facendogli istanza che s'affrettasse a raggiungere l'armata, la quale con impazienza l'aspettava in Nicea, capitale in questi tempi della Bitinia (ma senza pregiudizio di Nicomedia), dove era seguita la di lui elezione.
[145] Arrivò Valentiniano nel dì 24 di febbraio a Nicea, ma nel dì seguente non volle farsi vedere in pubblico, se è vero ciò che scrive Ammiano [Ammian., lib. 26. cap. 1.], perchè nel dì 25 di febbraio di quest'anno correva il bissesto, e per una ridicola superstizione doveano i Romani d'allora crederlo giorno di cattivo augurio. Ora nel dì 26, essendo schierato l'esercito romano fuor di Nicea, montò Valentiniano sopra un palco alla vista di tutti, e con incessanti acclamazioni fu dichiarato Augusto, vestito della porpora ed ornato col diadema. Fece egli cenno di voler parlare; ma i soldati, senza lasciarlo dire, rinforzarono le grida, con esigere ch'egli in quel punto dichiarasse un collega nell'imperio, non volendo più restar senza capo, se l'imperatore per disavventura mancasse di vita. Parevano anche disposti a violentarlo, ma egli senza punto lasciarsi intimidire, allorchè potè farsi intendere, intrepidamente disse [Ammianus, lib. 26, cap. 2. Sozomen. Theodoret. Philostorg.], che dianzi dipendeva da essi il creare lui imperadore; ma da che aveano creato lui tale, a lui toccava il pensare a quel che più conveniva al pubblico bene; non ricusar già egli di prendere un collega, ma che un affare di tanta importanza esigeva matura considerazione: e così cessò il tumulto. Ci vien dipinto Valentiniano Augusto da Aurelio Vittore [Aurel. Victor., in Epitome.] per uomo di bell'aspetto, nel cui portamento ed operare compariva la gravità ed un ingegno svegliato, inclinante alla severità e alla collera. Poco parlava, ma quel poco bene e con proprietà, ancorchè, se vogliam credere a Zosimo [Zosim., lib. 3, cap. 36.], egli non avesse studiato lettere, e nè pur sapesse bene il greco, come pare che si ricavi da Temistio [Themistius, Orat. VI.]. Si osservò sempre in lui un abborrimento ai vizii e alla avarizia. Pratico dell'arte militare degli antichi, andava [146] studiando nuove armi da offesa e difesa. Dilettavasi di lavorare statue di terra; e nella guerra compariva sperto in valersi de' luoghi, de' tempi e di ogni menoma occasione per cavarne profitto. In somma tante doti in lui concorrevano, che s'egli avesse tenuto in sua corte uomini professori di onoratezza al pari di lui, e che gli avessero detta la verità, in vece di altri infedeli da lui presi, credendoli di buona legge, avrebbe potuto gareggiare coi più accreditati regnanti. Certo è che, nel mediocre impiego ch'egli esercitava, non dovea immaginare un sì glorioso ascendente, o almeno non dovette far brighe per ottener l'imperio, trovandosi allora lontano dall'armata; anzi Vittore sembra dire ch'egli fece anche della difficoltà ad accettarlo. Comunque sia, alzato al trono, egli riconobbe dalla mano di Dio l'esaltazione sua e gliene mostrò da lì innanzi la sua gratitudine, con proteggere la Chiesa e dottrina cattolica [Sozom., lib. 6, c. 12. Socrat., lib. 4. cap. 1.], e con tener basso il paganesimo: intorno a che molte sue leggi abbiamo, non però di molto peso, perchè egli, sto per dire, non volea che la religione sconciasse la politica sua. Le stesse sue azioni dipoi mostrarono che non erano assai radicati in suo cuore i documenti del Vangelo. Ora egli non tardò ad impiegar le sue applicazioni per togliere gli abusi introdotti ne' tempi addietro, come consta da molte sue leggi [Gothofred., in Chronolog. Cod. Theodos.] di questo medesimo anno, a noi conservate nel Codice Teodosiano, le quali ci fanno nello stesso tempo conoscere il progresso del suo viaggio da Nicea a Costantinopoli, e di là sino a Milano.
In Costantinopoli appunto volle Valentiniano soddisfare alle premure dell'esercito, con eleggersi un collega [Ammianus, lib. 26, cap. 4.]. Se n'era trattato in un gran consiglio tenuto in Nicea, dove niuno osò di scoprire il suo interno, a riserva di Dagalaifo, il quale animosamente gli disse [147] che se egli amava la propria famiglia, non gli mancava un fratello; ma se il pubblico bene, cercasse il migliore. Dichiarossi appunto Valentiniano in favor del fratello, cioè di Flavio Valente, nel dì 28 marzo [Idacius, in Chronic. Chronicon Alexandr.], e gli diede la porpora e il diadema in un luogo lontano dalla città sette miglia, e perciò appellato Hebdomon. Era anch'egli cristiano, e, secondo Teodoreto [Theodor., lib. 4, cap. 11.], seguitava allora i dogmi del Concilio Niceno, ma col tempo divenne persecutore del cattolicismo, con lasciarsi sovvertir dagli Ariani, dei quali comparve sempre gran protettore. Fu applaudita allora, almeno in apparenza, da tutti l'elezion di Valente, come utile all'imperio; ed in fatti la concordia, che passò da lì innanzi fra i due fratelli nel governo, parve cosa mirabile, e giovò non poco al pubblico. E di vero meritò non poca lode Valente per aver sempre conservata una fedel dipendenza dal fratello maggiore, nulla di rilevante operando senza consultarlo, ed ubbidendo ai cenni, come avrebbe fatto un suddito col principe suo. Scrive Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 1.] che nel viaggio da Nicea a Costantinopoli Valentiniano si ammalò. Ammiano [Ammian., lib. 16, cap. 4.], più autentico scrittore, racconta che dopo la promozione suddetta amendue gli Augusti fratelli furono presi da gagliarde febbri: il che fece lor sospettare originata la lor malattia da qualche fattucchieria lor fatta dagli amici del defunto Giuliano. Perciò fu data incumbenza ad Orsacio maestro degli ufficii, o sia maggiordomo, uomo crudo, e a Giuvenco questore, di esaminar questo affare. Nulla si scoprì; e contuttochè fossero denunziate molte persone illustri, pure la destrezza di Sallustio Secondo, prefetto del pretorio, tagliò le gambe a tutti i processi. Per altro erano i due principi assai portati ad odiare chiunque avea goduto della grazia ed [148] amicizia di Giuliano; e però non la poterono scappare nell'anno seguente Massimo e Prisco filosofi, che più degli altri erano stati confidenti dell'Apostata, e riguardati di mal occhio anche dal popolo. Prisco fu rimandato alla Grecia, come innocente [Eunap., Vit. Sophist. cap. 5.]; Massimo condannato alla prigionia, finchè avesse pagato una grossa pena pecuniaria. Avendo amendue gli Augusti ricuperata la sanità e le applicazioni ad affari più importanti, fecero poco dappoi cessar quel rumore e i processi suddetti.
Venuta la primavera, si misero essi in viaggio alla volta dell'Occidente, e sul fine d'aprile apparisce da una lor legge [L. 5, de re militar., Cod. Theod.], che erano in Andrinopoli. Di là passati a Filippopoli, a Serdica, e finalmente a Naisso della Dacia nuova; quivi nel castello di Mediana, lontana da Naisso tre miglia, divisero fra loro il governo dell'imperio [Ammianus, lib. 16, cap. 5.]. Valentiniano ritenne per sè l'Italia, l'Illirico, le Gallie, le Spagne, la Bretagna e l'Africa. A Valente cedette le provincie dell'Asia tutta, coll'Egitto e colla Tracia. Partirono anche fra loro le milizie e gli uffiziali, con avere Valentiniano voluto al suo servigio Dagalaifo generale dalla cavalleria, Giovino general delle milizie delle Gallie. Equizio ch'ebbe poi il comando dell'armata dell'Illirico, Mamertino prefetto del pretorio dell'Illirico, dell'Italia ed Africa, e Germaniano prefetto del pretorio delle Gallie. Con gran vigore e credito di molta giustizia avea Lucio Turcio Aproniano esercitata la carica di prefetto di Roma. Egli ebbe in quest'anno per successore Cajo Cejonio Rufio Volusiano, che poco dovette godere di tal dignità, perchè molte leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chron. Cod. Theod.] ci fan vedere prefetto di Roma Lucio Aurelio Avianio Simmaco, pagano di credenza, e padre di quel Simmaco, parimente pagano, che [149] riuscì celebre per varie cariche e per la letteratura, di cui ci restan le lettere. Se noi ascoltiamo Ammiano [Ammianus, lib. 26, cap. 5.], in questi tempi l'imperio romano si trovava da più parti infestato dai Barbari: il che accrebbe i motivi a Valentiniano di non differir la elezione del collega. Cioè nella Gallia e nella Rezia le scorrerie degli Alamanni recavano frequenti danni. Dai Sarmati e Quadi era infestata la Pannonia: la Bretagna dai Sassoni, Pitti ed Atacotti, popoli bellicosi di quella grand'isola. Nè da somiglianti mali andava esente l'Africa, perchè varie nazioni more di tanto in tanto correvano a darle il sacco. I Persiani poi dal canto loro aveano mossa guerra ad Arsace re dell'Armenia, con pretesto di poterlo fare in vigor della pace stabilita con Gioviano, ma ingiustamente, come scrive Ammiano. A cagion di tali turbolenze si affrettò Valentiniano di venire a Milano, per istar vicino e pronto per accorrere dove maggior fosse il bisogno. Chi vuole apprendere i buoni regolamenti fatti da lui in quest'anno, non ha che leggere nel Codice Teodosiano varie sue leggi spettanti a questi tempi. Non piacquero già ai popoli cattolici due di esse. Coll'una [Lib. 7, de Maleficis, Cod. Theod.] proibì ai pagani solamente i lor sacrifizii notturni, ma non già quei del giorno; ed altronde si sa che la sua politica, tuttochè certamente egli fosse buon cattolico, e favorisse la vera Chiesa, il portò a lasciare ad ognuno la libertà della coscienza, e a non inquietar veruno per cagion di religione [Sozom., lib. 6, cap. 21. Socrates, lib. 4, cap. 1.]. Per questa indifferenza fu egli processato dal cardinale Baronio. Coll'altra legge [L. 17, de Episcopis, Cod. Theodos.] proibì ai vescovi di ricevere nel clero le persone ricche, sì perchè non si pregiudicasse al bisogno del pubblico per gli magistrati, e perchè i lor beni non colassero nelle chiese. Solamente [150] permise a quei che poteano essere decurioni (erano questi, per così dire, il senato d'ogni città) di farsi chierici, con sostituire qualche lor parente, a cui lasciassero i lor beni, o pure con cedere al pubblico essi beni. Ma forse questa legge, fatta per la provincia Bizacena dell'Africa, fu un regolamento particolare, nè si stese a tutto l'imperio.
Anno di | Cristo CCCLXV. Indizione VIII. |
Liberio papa 14. | |
Valentiniano e | |
Valente imperadori 2. |
Consoli
Flavio Valentiniano e Flavio Valente Augusti.
Siccome si ricava dalle leggi del Codice Teodosiano, la prefettura di Roma per gli cinque primi mesi fu appoggiata a Simmaco, e dopo lui a Volusiano, de' quali si è parlato di sopra. Per buona parte dell'anno presente si fermò l'Augusto Valentiniano in Milano; e ch'egli facesse una scorsa per varie città d'Italia, si scorge da alcune sue leggi [Gothofred., in Chronolog. Cod. Theod.] date in Sinigaglia, Fano, Verona, Aquileia e Liceria, che non può essere quella del regno di Napoli, e forse fu Luzzara, terra del Mantovano, ossia del Guastallese. Nelle date nondimeno di quelle leggi si osserva qualche sbaglio [Ammian., lib. 26, cap. 5.]. Passò dipoi Valentiniano nelle Gallie, e andò a posare in Parigi; veggendosi ancora qualche legge data in quel luogo, che a poco a poco crescendo di abitatori nel sito fuori dell'isola della Senna, divenne poi famosissima città. I movimenti degli Alamanni quei furono che trassero l'imperador nelle Gallie. Imperocchè que' popoli avendo spediti i lor deputati di buon'ora alla corte per rallegrarsi con Valentiniano, in vece [151] di riportare a casa dei regali suntuosi, com'era il costume, non ne ebbero che pochi e di poco prezzo. Furono anche trattati con asprezza da Orsacio, maggiordomo dell'imperadore, a cui fumava presto il commino. Il perchè disgustati, per vedersi poco apprezzati da quell'Augusto, rifiutarono quei doni, e poi furiosamente cercarono di vendicarsene addosso agl'innocenti loro confinanti della Gallia, e fecero leghe con altre nazioni barbare, istigandole tutte ai danni dell'imperio romano. Comandò Valentiniano che il generale Dagalaifo marciasse coll'armata contra di essi Alamanni; ma questi li ritrovò già ritirati di là del Reno. Era vicino il primo dì di novembre, quando ad esso Augusto arrivò la dispiacevol nuova che Procopio s'era ribellato in Levante contra del fratello Valente, con impadronirsi di Costantinopoli. Per timore che costui non volgesse le armi verso l'Illirico, che era di sua giurisdizione, spedì Valentiniano colà Equizio, creato general delle milizie di quel paese, con buon numero di truppe, ed egli stesso facea già i conti di tenergli dietro; ma non meno i suoi consiglieri che i legati di varie città galliche il trattennero, con rappresentargli il pericolo, a cui restavano esposte le Gallie; e con fargli conoscere che Procopio era nimico di lui e del fratello, ma che gli Alamanni erano nemici di tutto l'imperio romano. Perciò si fermò, e solamente andò a Rems. Ed affinchè non penetrasse nell'Africa il turbine mosso in Oriente, spedì colà Neoterio, che fu poi console nell'anno di Cristo 390, ed altri uffiziali, raccomandando loro che ben vegliassero alla quiete di quelle contrade. Molte leggi abbiamo pubblicate da esso Augusto in quest'anno, e registrate nel Codice Teodosiano [Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.], colle quali proibì il condannare alcun cristiano a fare da gladiatore; siccome ancora l'esigere danaro dalle provincie per regalare chi [152] portava le nuove di qualche vittoria, o dei consoli novelli. Parimente levò i privilegii de' particolari, volendo che ognun portasse il suo peso ne' pubblici aggravii. Inventò ancora i difensori delle città, acciocchè proteggessero il popolo contro la prepotenza de' grandi, e decidessero anche le lor liti di poco momento. Questa istituzione fatta per bene del pubblico durò poi gran tempo, e cagion fu che anche gli ecclesiastici ottenessero dagli Augusti dei difensori per assistere ai lor interessi ne' tribunali.
Per conto di Valente imperadore, sul principio dell'anno presente egli procedè console in Costantinopoli, e venuta la primavera passò nell'Asia, perchè facendo i Persiani guerra viva all'Armenia, le apparenze erano che volessero rompere la pace già stabilita da Gioviano, ed assalir le terre del romano imperio. I fatti mostrarono che tale non era la loro intenzione. Ancorchè Socrate [Socrat., lib. 4, cap. 2.] scriva che Valente giunse ad Antiochia, pure abbiamo da Ammiano [Ammianus, lib. 26, cap. 7.] che s'incamminò bensì a quella volta, ma poi si fermò a Cesarea di Cappadocia, dove cominciò a farsi conoscere parziale assai caldo degli Ariani, e persecutor dei Cattolici. Mentre egli dimorava in quelle parti, un fierissimo tremuoto nel dì 21 di luglio, secondo Ammiano ed Idazio [Idacius, in Chron.], oppure nel dì 21 d'agosto, come ha la Cronica Alessandrina [Chronicon Alexandr.], si fece sentire per tutto l'Oriente. San Girolamo [Hieronymus, in Chronic.] scrive per tutto il mondo; il che ha ciera d'iperbole, tuttochè anche Teofane [Theophan., in Chronogr.] coi termini stessi ne parli. Amendue lo riferiscono all'anno seguente, quando pure non fosse cosa diversa. In Alessandria il mare sì stranamente si gonfiò, che portò le navi sopra le case e mura più alte (ancor questa possiam contarla [153] per una iperbole), e poscia con pari reflusso retrocedendo lasciò quei legni in secco. Accorsero quei cittadini (i quali doveano pure essere stati tutti annegati, se vera fosse la prima parte) per dare il sacco alle merci; ma ritornando indietro l'acqua, tutti li colse ed annegò. Gran danno è scritto ancora che patirono l'isole di Sicilia e Creta. Soggiornava tuttavia in Cappadocia Valente [Ammianus, lib. 36, cap. 7.], quando arrivò per le poste Sofronio, uno de' suoi segretarii, che poi fu creato prefetto di Costantinopoli, portandogli la funesta nuova della sollevazione e ribellion di Procopio. Era costui d'una famiglia illustre della Cilicia, e parente dell'apostata Giuliano [Idem ib., cap. 6.], uomo d'umor melanconico, e riconosciuto prima d'ora per cervello capace di far delle novità. Già il vedemmo lasciato da esso Giuliano nella Mesopotamia con Sebastiano generale al comando di un'armata di trenta mila persone, mentre esso Giuliano marciava coll'altro maggior esercito contro i Persiani. Ebbe poi da Gioviano Augusto l'incumbenza di condurre il corpo dell'estinto Giuliano alla sepoltura di Tarso. Fu creduto (e lo racconta Ammiano) che nel tempio di Carres segretamente Giuliano gli avesse donata una veste di porpora, con dirgli di vestirsene e di farsi proclamar imperadore, in caso che accadesse la morte sua. Aggiunsero altri che Giuliano negli ultimi disperati momenti di sua vita il dichiarasse suo successore; il che si niega da Ammiano. Ma per quel che riguarda la porpora, Zosimo [Zosim., lib. 4, cap. 4.] racconta che Procopio, dappoichè fu eletto Gioviano Augusto, andò a presentargliela, e nello stesso tempo il pregò di lasciarlo ritirare colla sua famiglia a Cesarea di Cappadocia, per menar ivi una vita privata, ed attendere all'agricoltura, perchè in quelle parti vi possedea molti stabili. Vero o falso che fosse l'affare di [154] quella porpora, si dee ben credere sparsa voce ch'egli avesse aspirato all'imperio, e però si appigliò al partito della ritirata. Ma nè pur credendosi sicuro in Cappadocia, passò di poi nella Taurica Chersoneso, oggidì la Crimea; e conoscendo fra poco tempo che non era da fidarsi di que' Barbari infedeli, e trovandosi anche in necessità, venne a nascondersi in una villa vicina a Calcedone in casa d'un amico suo, nominato Stratego. Di là passava talvolta travestito a Costantinopoli; e raccogliendo quanto si diceva dell'avarizia di Valente Augusto, e della crudeltà di Petronio suocero di esso imperadore, s'avvide che il popolo era mal soddisfatto del presente governo, e questo essere il tempo di tentare un gran giuoco, giacchè non sapea più lungamente sofferire quel suo infelice stato di vita. Gli accrebbe ancora l'animo la lontananza di Valente; e però passato in Costantinopoli, e guadagnato un eunuco assai ricco [Ammianus, lib. 26, cap. 7. Zosimus, lib. 4, cap. 4. Themist., Orat. VII.], si diede a conoscere ad alcuni soldati suoi vecchi amici, ed animosamente si fece proclamare imperadore Augusto. Niun forse giammai sì temerariamente cominciò una sì grande e pari impresa, perchè senza gente, senza denaro e senza altre disposizioni, per andare innanzi e sostenersi. Eppur si vide costui secondato dalla fortuna, perchè a forza di artifizii, di bugie, di promesse, e di far venir di qua e di là persone che asserivano morto Valentiniano, ed incamminati rinforzi di gente in aiuto suo, egli giunse a tirare nel suo partito [Eunap., Vit. Sophist., cap. 5.] un'incredibil quantità di soldati, o disertori, o tratti dalla plebe, in maniera tale, che i primarii dell'imperio dubitavano già che egli potesse prevalere a Valente. Uno degli artifizii suoi ancora fu, che avendo trovato in Costantinopoli Faustina Augusta, vedova dell'imperador Costanzo, con [155] una sua figliuola di età di cinque anni [Ammian., lib. 26, cap. 7.], vantandosi suo parente, la facea venir seco in lettiga ai combattimenti, e mostrava ai soldati quella fanciulletta, per isvegliar in loro la cara memoria di Costanzo Augusto.
Non solamente venne Costantinopoli in poter di Procopio, ma anche la Tracia tutta, e gli riuscì ancora di occupar Calcedone e Nicea, ed in fine tutta la Bitinia, e di guadagnare con mirabil destrezza un corpo di milizie che era stato spedito contra di lui. Valente imperadore, siccome principe allevato sempre nell'ozio e nella pace, e di poco cuore, a tali avvisi, accresciuti anche dalla fama, restò sì sbigottito, che già gli passava per mente di deporre la porpora. Pure animato da' suoi, inviò Vadomario, già re degli Alamanni, all'assedio di Nicea. Ma Rumitalca, che la difendeva per Procopio, con una sortita il fece ritirar più che in fretta. Portossi lo stesso Valente all'assedio di Calcedone, dove non riportò se non delle fischiate e degli scherni ingiuriosi da quei difensori, e fu anch'egli costretto a battere la ritirata. Accadde poi un caso curioso. Essendosi Arinteo, uno de' bravi generali di Valente, incontrato in una brigata nemica, comandata da Iperechio, in vece di assalirla con l'armi, con quel possesso ch'egli usava ne' tempi addietro con quei soldati desertori, loro comandò di condurgli legato il lor capitano, e fu ubbidito. Quel nondimeno che sconcertò non poco gli affari di Valente, fu che essendosi ritirato Sereniano suo uffiziale nella città di Cizico colla cassa di guerra, con cui dovea pagar le armate imperiali, un grosso corpo di gente di Procopio quivi il colse, ed, espugnata la città, si impadronì di tutto quel tesoro. Fece inoltre esso Procopio votar la casa di Arbezione, già uno de' generali d'armata sotto Costanzo, che non si era voluto presentare a lui, colla scusa della vecchiaia e degli acciacchi suoi. Valsero [156] un tesoro tutti que' preziosi suoi mobili. Diede poscia Procopio in proconsole all'Ellesponto Ormisda, figliuolo di quell'Ormisda che già vedemmo fratello di Sapore re di Persia, e rifugiato presso i Romani. Intanto arrivò il verno, ed altro più per allora non seppe far Procopio [Themist., Orat. VII.], che caricar d'imposte i popoli, e lasciar la briglia alla già coperta sua malignità e fierezza, per cui cominciò a calar ne' sudditi l'avversione a Valente, e si svegliò l'odio contra dell'iniquo usurpatore. Sembra ancora ch'egli pubblicasse qualche editto pregiudiziale ai filosofi, avvegnachè anch'esso pretendesse d'essere un gran filosofo. In segno di ciò portava un'assai bella barba, in cui consisteva tutta la di lui filosofia.
Anno di | Cristo CCCLXVI. Indizione IX. |
Damaso papa 1. | |
Valentiniano e | |
Valente imperadori 3. |
Consoli
Graziano, nobilissimo fanciullo e Dagalaifo.
Amendue questi consoli appartengono all'Occidente. Sembra che Pretestato fosse prefetto di Roma. Il Panvinio ci dà Lampadio, e poscia Juvenzio; ed in fatti la prefettura di Juvenzio vien confermata da Ammiano. Accadde [Pagius, Crit. Baron.] nel dì 24 di settembre dell'anno presente la morte di Liberio papa, il quale nei torbidi della religione non avea fatto comparire quel petto, per cui sono stati sì commendati tanti altri suoi antecessori e successori. Si venne all'elezione di un novello pontefice, ma questa non succedè senza un lagrimevole scisma [Baron., Annal. Eccl. Fleury, Hist. Eccl. Tillemont, Mémoires de l'Hist. Eccl.], avendo una parte eletto Damaso diacono della Chiesa romana, personaggio dignissimo; ed un'altra Ursino, appellato da altri, contro la fede de' manuscritti, Ursicino, diacono [157] anch'esso della medesima chiesa. Per questa divisione in gravissimi sconcerti si trovò involta Roma, e ne seguirono ferite ed ammazzamenti non pochi, tanto dell'una che dell'altra arrabbiata fazione, e fino nelle chiese sacrosante. Chi ne attribuì la colpa a Damaso, e chi ad Ursino; ma in fine riconosciuta la buona causa e l'innocenza di Damaso, la quale si vide allora esposta a non poche calunnie dei suoi avversarii, restò egli pacifico possessore della sedia di s. Pietro, e governò da lì innanzi con gran plauso la Chiesa di Dio. Celebri sono in questo proposito le parole e riflessioni di Ammiano Marcellino [Ammianus, lib. 27, cap. 8.], scrittore pagano, e però nulla mischiato in quelle sanguinose fazioni. Racconta egli che per questa maledetta gara in un sol giorno nella sacra basilica di Sicinio si contarono fin cento trentasette cadaveri; nè Juvenzio, prefetto di Roma, fu con tutta la sua autorità bastante a reprimere la matta inviperita plebe, anzi convenne a lui stesso di ritirarsi fuori della città nei borghi, per non restar vittima del loro furore. Scrive dunque Ammiano: Quanto a me, considerando il fasto mondano, con cui vive chi possiede in Roma quella dignità, non mi maraviglio punto, se chi la sospira, non perdoni a sforzo ed arte alcuna per ottenerla. Perocchè ottenuta che l'hanno, son certi di arricchirsi assaissimo mercè delle oblazioni delle divote matrone romane, e che se n'anderanno in carrozza per Roma a lor talento, magnificamente vestiti, e terranno buona tavola, anzi faranno conviti sì suntuosi, che si lasceranno indietro quei dei re ed imperadori. E non s'avveggono che potrebbono essere felici, se senza servirsi del pretesto della grandezza e magnificenza di Roma, per iscusar questi loro eccessi, volessero riformar il loro vivere, seguitando l'esempio di alcuni vescovi delle provincie, i quali colla saggia frugalità nel mangiare e bere coll'andar poveramente vestiti, e con gli occhi dimessi e rivolti alla terra, rendono [158] venerabile e grata non meno all'eterno Dio, che ai veri suoi adoratori, la purità de' lor costumi, e la modestia del loro portamento. Così Ammiano. Noi, secondo l'usanza, se miriamo eccessi ne' pastori della Chiesa e vizii nel popolo, subito caviam fuori i primi secoli della religion cristiana, come lo specchio di quel che si dovrebbe fare oggidì; e certo è che grandi esempi di virtù s'incontrano in que' tempi; ma nè pur mancavano allora i vizii e i mali dei nostri dì, e le opere di Eusebio Cesariense, e dei santi Gregorio Nazianzeno, Giovanni Grisostomo e Girolamo, per tacer d'altri, ci assicurano non essere stati sì fortunati i lor tempi, che facciano vergogna ai nostri. L'ambizione è mal vecchio; e dove son ricchezze sempre sono tentazioni. Lo stesso romano pontificato già era divenuto un maestoso oggetto dei desiderii mondani; ed è altresì famoso ciò che s. Girolamo [S. Hieron., Epist. LXI.] racconta di Pretestato, uno de' più nobili romani, che fu proconsole, e circa questi tempi prefetto di Roma, e morì poi console disegnato. Essendo egli pagano, papa Damaso l'andava esortando ad abbracciare la religione cristiana: ed egli allora ridendo rispose: Fatemi vescovo di Roma, ch'io tosto mi farò cristiano.
Continuò Valentiniano Augusto in questo anno ancora il soggiorno nelle Gallie, dimorando per lo più nella città di Rems, dove si veggono date alcune leggi [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.], per opporsi, occorrendo, ai non mai quieti Alamanni. Sul fine dell'anno precedente avea quella gente [Ammian., lib. 27, cap. 1.], senza essere ritenuta dal verno, fatta un'irruzione nel paese romano. Cariettone e Severiano conti, che guardavano quei confini, colla gente di lor comando cavalcarono contra di essi, e vennero alle mani. Andò a finir la zuffa colla morte di que' due conti e di altri Romani, colla fuga del resto, e colla perdita della [159] bandiera degli Eruli e Batavi, portata poi da que' Barbari come in trionfo a casa loro. Con rabbia e dolore inteso che ebbe tal fatto Valentiniano, diede ordine a Giovino, generale della cavalleria, di marciare contra de' nemici, probabilmente nella primavera dell'anno presente. Giunto questi fra Tullo e Metz, all'improvviso piombò addosso al maggior corpo di que' Barbari e gran macello ne fece. Trovò dipoi un altro corpo d'essi che dopo il sacco stava a darsi bel tempo, e a questi ancora fece provare il taglio delle spade romane. Vi restava il terzo corpo d'essi Alamanni verso Sciallon. Fu a visitarli Giovino, e li trovò coll'armi in pronto per far testa. Venuta dunque l'aurora, messe le sue schiere in ordinanza di battaglia, fece dar fiato alle trombe. Durò per tutto il giorno l'ostinato combattimento colla rotta in fine de' Barbari, dei quali restarono sul campo sei mila, e quattro mila se ne andarono feriti. De' Romani si contarono mille e dugento morti, e dugento soli feriti: il qual ultimo numero par ben poco. Preso il re di quella gente nel dare il sacco al campo loro, fu fatto impiccare senza saputa del generale, da un tribuno, il quale corse pericolo di perdere la testa per questa sua prosunzione. Abbiam tutto questo da Ammiano, la cui autorità val più che quella di Zosimo [Zosimus, lib. 4, c. 9.], diversamente parlante di questi fatti, con dire che Valentiniano stesso in persona diede battaglia agli Alamanni, e che finì la zuffa con suo svantaggio. Avendo cercato per colpa di chi, trovò rea di tal mancamento la legione de' Batavi, cioè degli Olandesi, che, siccome dicemmo, aveano lasciata in man de' nemici l'insegna. Il perchè alla vista di tutto l'esercito ordinò che i Batavi fossero spogliati delle armi e come tanti schiavi dispersi per le altre legioni. S'inginocchiarono tutti chiedendo misericordia, pregando che non volesse caricar di tanto obbrobrio quella gente e l'armata tutta; e tanto [160] dissero, promettendo d'emendare il fallo, che ottennero il perdono. Il che fatto, tornò Valentiniano ad assalire i nemici con tal bravura, che un'infinita moltitudine d'essi vi restò tagliata a pezzi, e pochi poterono portar l'avviso di tanta perdita al loro paese. Vero sarà ciò che riguarda i Batavi, ma non già l'essere intervenuto a que' fatti d'armi lo stesso imperadore. Anche Idazio [Idacius, in Fastis.] di questa vittoria riportata contra degli Alamanni lasciò memoria.
In Oriente all'aprirsi della buona stagione si mise in campagna Valente Augusto, per procedere contra del tiranno Procopio [Ammianus, lib. 26, c. 9.]; e perchè conobbe quanto potesse in tal congiuntura giovare ai propri interessi Arbezione, vecchio generale, conosciuto ed amato dalle milizie, fattolo chiamare, a lui diede il comando dell'armata. Ottima risoluzione che produsse tosto buon frutto. Era Arbezione irritato forte contra di Procopio pel sacco dato alla sua casa; e non tralasciò diligenza alcuna per ben servire a Valente. Tirò egli al suo partito Gomeario, uno dei generali di Procopio. Zosimo [Zosimus, lib. 4, c. 8.] scrive che ciò avvenne in una battaglia, in cui mancò poco che a Valente non toccasse la rotta per valore del giovane Ormisda persiano, da noi veduto di sopra uffizial di Procopio. Ammiano nulla ha di questa battaglia, parlando solamente di quella che ora son per narrare. Cioè passato Valente sino a Nacolia, città della Frigia, quivi trovò Procopio, e con lui venne alle mani. Dubbioso fu un pezzo l'esito della pugna, finchè Agilone tedesco, uno de' generali di Procopio, all'improvviso colle sue squadre passò alla parte di Valente. Per questo inaspettato colpo atterrito Procopio prese la fuga; ma in fuggendo da due suoi capitani, Fiorendo e Barcalba, tradito, fu preso e legato; e questi il menarono nel seguente giorno a Valente, che immantinente gli fece mozzare il capo. Il [161] premio che ebbero i due suddetti capitani del fatto tradimento, fu d'essere per ordine di Valente anch'essi uccisi. E tal fine ebbe il tiranno Procopio, la cui morte vien riferita da Idazio [Idacius, in Fastis.] al dì 27 di maggio dell'anno presente. Prima della di lui caduta, Equizio, generale dell'armata di Valentiniano nell'Illirico, vedendo ridotto lo sforzo della guerra nell'Asia [Ammianus, lib. 26, c. 10.], era entrato colle sue genti nella Tracia, con imprendere l'assedio di Filippopoli; ma ritrovò quella città più dura di quel che pensava. Non si volle mai rendere il nemico presidio finchè non vide co' proprii occhi la testa di Procopio [Idem, lib. 27, c. 2.], che Valente inviava al fratello Valentiniano. A questi difensori toccò poscia la disgrazia di provar la crudeltà d'esso Valente. Osserva Ammiano che il capo del suddetto Procopio fu presentato a Valentiniano, mentre se ne tornava a Parigi il general Giovino, glorioso per le vittorie di sopra narrate; e però vegniamo a conoscere che le di lui fortunate imprese contro degli Alamanni appartengono anch'esse al maggio dell'anno presente. Era senza figliuoli l'Augusto Valente [Chronicon Alexandrin.]; uno gliene partorì nel dì 18 o 21 di gennaio di questo anno Domenica sua moglie: il che fu preso per buon presagio di que' felici avvenimenti che appresso si videro. Nel testo d'Idazio [Idacius, in Fastis.] stampato egli è detto figliuolo di Valentiniano; ma, siccome osservò il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], ne' manoscritti è chiamato figliuol di Valente. E così fu in fatti, ciò ricavandosi da un'orazione di Temistio [Themistius, Orat. IX.]. Gli fu posto il nome di Valentiniano juniore, ed abbiamo da Socrate [Socrates, lib. 4, c. 26.] e da Sozomeno [Sozom., lib. 6, c. 16.] ch'egli per soprannome venne poi chiamato Galata, perchè nato nella Galazia, a distinzione [162] dell'altro Valentiniano juniore, figlio del vecchio Valentiniano. Ci comparirà poi questo figliuol di Valente console nell'anno 369, ma di corta vita, perchè in uno dei seguenti anni egli diede fine a' suoi giorni. Oltre a ciò, convien rammentare le conseguenze della ribellion di Procopio. All'udire Temistio [Themistius, Orat. VII.] nell'elogio di Valente Augusto, grande fu la di lui moderazione dopo la vittoria, perchè punì solamente i principali autori della cospirazione; con sole parole castigò altri che senza fatica s'erano sottomessi al tiranno; e nulla perdè della di lui grazia chi per forza gli aveva prestata ubbidienza. Non così parlano Ammiano [Ammian., lib. 4, c. 8.] e Zosimo [Zosim., lib. 4, c. 8.], da' quali abbiamo una lugubre descrizione delle crudeltà usate da Valente o collo scuri, o coi confischi, o con gli esilii verso le persone nobili che si trovarono involte nella ribellione, e parecchie ancora innocenti, perchè, per non poter di meno, aveano aderito all'usurpatore. Ma forse quelle penne pagane ingrandirono più del dovere il rigor di Valente, avendo noi un altro scrittore della lor setta, cioè Libanio [Liban., in Vita sua.], il quale, scrivendo la propria vita, e però lungi di voler quivi incensar Valente, attesta non aver egli fatto morir gli amici di Procopio, ed essersi contenuta in molta moderazione la sua giustizia.
Anno di | Cristo CCCLXVII. Indizione X. |
Damaso papa 2. | |
Valentiniano e | |
Valente imperadori 4. | |
Graziano imperadore 1. |
Consoli
Lupicino e Giovino.
Abbiam veduto di sopra Giovino generale di Valentiniano Augusto nella Gallia. Ebbe questi l'onore del consolato in ricompensa delle vittorie riportate contra [163] degli Alamanni. Era Lupicino anch'egli generale di Valente Augusto in Oriente, e con avergli condotto a tempo un soccorso numeroso di truppe, ebbe gran parte ad atterrare il tiranno Procopio, perlochè si guadagnò la trabea consolare. Libanio [Liban., in Vita sua.] ne parla con lode, e Teodoreto [Theodor., Vit. Patr.], con esaltare la di lui pietà e virtù, ci fa intendere ch'egli dovette essere cristiano. Ricavasi poi da Ammiano e dal Codice Teodosiano che la prefettura di Roma fu per alcuni mesi dell'anno presente esercitata da Juvenzio, e poi da Vettio Agorio Pretestato, di cui s'è parlato di sopra. Servono poi le suddette leggi a dimostrare la continuata permanenza di Valentiniano Augusto nelle Gallie. L'ordinario suo soggiorno era in Rems; perchè, quantunque fossero cessate le insolenze degli Alamanni, e fors'anche fosse succeduta qualche pace con loro, pure conveniva tener sempre l'occhio alle barbare nazioni, troppo volonterose di bottinar ne' paesi altrui. Trovavasi egli nella state in Amiens [Ammianus, lib. 27, cap. 6.], quando gli sopravvenne una pericolosa malattia, che crebbe a segno di far disperare della di lui vita il che diede occasione a molti segreti imbrogli per eleggere, in mancanza di lui, un novello Augusto. Furono in predicamento per questo due personaggi, amendue temuti per la loro indole sanguinaria, cioè Rustico Giuliano e Severo generale della fanteria. Dopo lungo combattimento col male si riebbe l'Augusto Valentiniano [Zosimus, lib. 4, cap. 12.]; ed allora i suoi fedeli cortigiani, riflettendo al pericolo in cui egli s'era trovato, non durarono fatica a persuadergli la necessità di eleggersi un collega e successor nell'imperio. Venuto dunque il dì 24 d'agosto [Idacius, in Fastis. Hieronymus, in Chron. Socrates, lib. 4, cap. 11.], e fatto raunar l'esercito fuori d'Amiens, salito Valentiniano sopra un palco, presentò ai soldati il suo figliuolo Flavio Graziano, a lui partorito [164] da Valeria Severa sua prima moglie, tuttavia vivente; e con una maestosa allocuzione espose la risoluzione presa di dichiararlo suo collega ed imperadore Augusto; sopra di che dimandò la loro approvazione. S'udirono allora incessanti viva, e le trombe e il battere degli scudi collo strepito loro maggiormente attestarono il giubilo universale delle milizie. Era allora Graziano in età di otto anni e di qualche mese [Idacius, in Fastis. Chronicon Alexand.], perchè nato prima che il padre fosse Augusto, cioè nell'aprile o nel maggio dell'anno di Cristo 359, benchè Ammiano il dica adulto jam proximum; di grazioso aspetto, d'ottimi costumi e buona inclinazione, talmente che prometteva assaissimo per l'avvenire. Molti nondimeno si maravigliarono come il padre, in vece di crearlo Cesare, ad imitazion di tanti altri suoi predecessori, il volesse in un subito Augusto. Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] pretende ciò fatto per impulso della suocera e della suddetta sua moglie Severa.
E qui convien riferire una strana e biasimevol azione di Valentiniano, imbrogliata nondimeno dal disparere degli storici, tanto in riguardo al tempo che alle circostanze. Certa cosa è che, vivente ancora la medesima Severa madre di Graziano, riconosciuta da ognuno per sua legittima moglie, fu sposata da lui Giustina, la qual poi divenne madre di Valentiniano II imperadore. Essendo azion tale contraria alle leggi degli stessi gentili, non che della cristiana religione, diedesi luogo alle dicerie delle persone; e Socrate [Socrat., lib. 4, cap. 31.], fra gli altri, una ce ne fa sapere che sembra ben mischiata con delle favole. Padre di Giustina era stato un Giusto, governatore del Piceno, il quale, per aver divulgato un suo ridicolo sogno in cui gli pareva d'aver partorita una porpora imperiale, fu fatto morire dal sempre sospettoso Costanzo Augusto. Sua figlia Giustina [165] cresciuta in età ebbe la fortuna di entrar in corte di Severa Augusta moglie di Valentiniano, ed arrivò a tal confidenza con lei, che seco si lavava al bagno. Severa, in osservar la rara beltà di questa fanciulla, se ne innamorò sempre più; ma sconsigliatamente avendone lodata la bellezza al marito, cagion fu che egli s'invogliasse di sposarla. A questo fine pubblicò una legge, che fosse lecito il poter aver due mogli nello stesso tempo, e poi la sposò; avendo poco prima creato Augusto il figlio di Severa Graziano, e per conseguente in quest'anno. Ma giusta ragion ci è da credere, come ha insegnato il celebre vescovo di Meaux [Bossuet, Des Variations.], favoloso un tal racconto, che fu poi preso per cosa vera da Giordano [Jordan., de Regn. Success.], Paolo Diacono [Paulus Diaconus, in Contin. Eutr.] e Malala [Joannes Malala, in Chron.]. Se Valentiniano avesse fatta una legge sì contraria all'uso dei gentili, e molto più de' cristiani, Ammiano e Zosimo non avrebbon lasciata nella penna cotal novità per iscreditarla. E Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 43.] chiaramente scrive essere stata Giustina dianzi moglie di Magnenzio tiranno, e però non quale essa ci vien dipinta da Socrate. Pertanto è piuttosto da credere che Valentiniano, o per qualche fallo di Severa, o pure per suggestion della propria passione, ripudiasse Severa, e sposasse dipoi Giustina: il che non era vietato dalle leggi del paganesimo, benchè contrarie a quelle del Vangelo. Di questo abbiamo un barlume nella Cronica Alessandrina [Chronicon Alexandr.] e in quella di Malala [Joannes Malala, in Chron.], dove scrivono che per l'ingiusta compra di un podere fatta da Marina o Mariana Augusta (così chiamano quegli autori Severa), Valentiniano la bandì, e che poi Graziano suo figliuolo, dopo la morte del padre, la richiamò dall'esilio. A quest'anno ancora appartengono alcuni [166] fatti d'esso Valentiniano, per relazion di Ammiano [Ammian., lib. 27, cap. 7.]. Cioè, che egli s'era ben fatto forza ne' primi anni del suo governo per reprimere il suo natural aspro e fiero, ma che in questo cominciò a lasciargli la briglia, con far morire in Milano a fuoco lento Diocle conte e Diodoro altro uffiziale con tre sergenti, e, per quanto sembra indebitamente, perchè i Milanesi li riguardarono da lì innanzi come martiri, e chiamavano il luogo della lor sepoltura agl'Innocenti. D'altre sue azioni crudeli fa menzione il suddetto Ammiano. Abbiamo parimente da lui che Magonza, un dì che i cristiani facevano festa, fu all'improvviso occupata e saccheggiata da Randone, uno de' principi alamanni. All'incontro, i Romani fecero assassinar Viticabo re di quella nazione, figlio del fu re Vadomiro, per mano di un di lui familiare. Scrive inoltre quello storico che i Pitti e gli Scotti, entrati nella Bretagna romana, vi aveano commesso dei gravi disordini, e minacciavano di peggio. Fu spedito colà Teodosio conte, padre di Teodosio che fu imperadore, il quale con tal prudenza e valore si condusse in essa guerra, che non solamente ripulsò i Barbari, ma loro eziandio tolse una provincia, che restò da lì innanzi aggiunta alle terre dell'imperio romano. Succedette nella stessa Bretagna una ribellione di certo Valentiniano o pure Valentino, che cercò di farsi imperadore [Zosimus, lib. 4, cap. 12.]. Fu preso dal conte Teodosio, e pagò la pena dovuta al suo misfatto. Dalla parte ancora de' Franchi e Sassoni fu fatta una irruzione nel paese romano della Gallia. Pare che lo stesso Teodosio quegli fosse che per mare e per terra gli sbaragliò.
Veniamo ora a Valente Augusto. Pareva che dopo la caduta del tiranno Procopio avesse in Oriente da rifiorir la pace; ma non tardarono ad imbrogliarsi gli affari coi Goti, abitanti allora [167] di là del Danubio, verso dove quel gran fiume sbocca nel mar Nero [Ammian., lib. 27, cap. 5. Zosimus, lib. 4, cap 10.]. Aveano essi Goti inviato un soccorso di tre mila combattenti al suddetto Procopio, e costoro, udendolo ucciso, se ne tornavano addietro verso il loro paese, ma lentamente, perdendosi in dare il sacco a quel dei Romani. Avendo Valente inviato con diligenza un buon numero di milizie contro di coloro, gli riuscì di coglierli, e di obbligarli quasi tutti a deporre l'armi e a rendersi prigionieri. Li fece poi egli distribuire per varie terre lungo il Danubio, ma senza obbligarli alla carcere. Era in que' tempi Atanarico il più possente tra i principi goti, quegli stesso che avea provveduto di quella gente Procopio, ancorchè durasse la pace fra il romano imperio e i Goti: uomo certamente di gran coraggio, e di non minor senno ed eloquenza [Themist., Orat. X. Eunap., de Legat.], il quale fra i suoi non usava il titolo di re, ma bensì quello di giudice. Udita ch'egli ebbe la prigionia de' suddetti suoi soldati, mandò a Valente per riaverli, allegando per iscusa d'avergli inviati ad un imperador de' Romani, e facendo veder le lettere di Procopio. All'incontro Valente spedì Vittore general della cavalleria ad esso Atanarico a dolersi dell'assistenza da lui data ad un ribello d'esso imperio. Le scuse da lui addotte non furono accettate, e però Valente determinò di fargli guerra, consigliato anche a ciò da Valentiniano Augusto, per quanto pretende Ammiano. La riputazione in cui erano allora i Goti, perchè usati a vincere i vicini, e a non mostrar paura, siccome gente fiera; e l'esser eglino collegati con altre nazioni barbare della Sarmazia e Tartaria, faceva apprendere per pericoloso l'impegno di tal guerra non solamente ai privati, ma anche allo stesso Valente. Il [168] perchè, non avendo egli fin qui preso il sacro battesimo [Theodoret., lib. 4, cap. 12.], volle in tal congiuntura premunirsi con esso, e si fece battezzare; ma, per disavventura sua e della Chiesa cattolica, da Eudossio vescovo di Costantinopoli, capo degli ariani, il quale si fece prima promettere ch'egli costantemente terrebbe l'empia dottrina della sua setta. Così fu. Da lì innanzi Valente, gran protettore dell'arianismo, persecutore del cattolicismo più che prima si mostrò. Dopo il ritorno di Vittore inviato ai Goti s'intese che Atanarico facea de' gagliardi preparamenti da guerra; ma Valente non perdè tempo ad uscire in campagna, e da Marcianopoli, capitale della Mesia inferiore, nella primavera si portò al Danubio [Ammianus, lib. 27, cap. 5. Themistius, Orat. X.], e, gittato quivi un ponte, passò coll'armata addosso al paese nemico. Senza trovare per tutta la state resistenza alcuna, essendo fuggiti quegli abitanti alle loro aspre montagne, altro non fece l'esercito cesareo che dare il guasto al paese, e prendere chi non fu presto a fuggire. Venuto poi l'autunno, se ne tornò indietro l'esercito a prendere i quartieri d'inverno; e che Valente lo passasse nella suddetta città di Marcianopoli, si raccoglie da alcune leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. Fa Ammiano [Ammianus, lib. 27, cap. 9.] anche menzione di varie scorrerie fatte circa questi tempi dagl'Isauri nella Panfilia e Cilicia. Loro si volle opporre Musonio vicario dell'Asia, ma con tutti i suoi tagliato fu a pezzi. Miglior sorte ebbero i paesani ed altre milizie romane, alle quali venne fatto di costrignere quei masnadieri a chieder pace: dopo di che per alcuni anni cessarono i lor ladronecci. Mancò in quest'anno di vita santo Ilario, celebre scrittore della Chiesa di Dio, e vescovo di Poitiers.
Anno di | Cristo CCCLXVIII. Indizione XI. |
Damaso papa 3. | |
Valentiniano e | |
Valente imperadori 5. | |
Graziano imperadore 2. |
Consoli
Flavio Valentiniano Augusto per la seconda volta e Flavio Valente Augusto per la seconda.
Vettio Agorio Pretestato, per quanto apparisce da una legge del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], esercitava tuttavia nel gennaio del presente anno la prefettura di Roma. A lui succedette in quella dignità, come costa da altre leggi, Quinto Clodio Ermogeniano Olibrio. Era questi della famiglia Anicia, la più potente, la più nobile che si avesse allora la città di Roma, divisa in più rami, ed esaltata da tutti gli antichi scrittori, ma maggiormente gloriosa per aver essa dato il primo senatore alla religion cristiana, quando tanti altri conservarono anche dipoi il paganesimo. Intorno alla nobiltà e a tanti personaggi illustri di questa casa, si può vedere il Reinesio [Reines., Inscription. Antiq.], e spezialmente il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Emper.], che diffusamente ne tratta all'anno presente, in parlando di esso Olibrio e di Sesto Petronio Probo, a cui fu appoggiata la prefettura del pretorio in questi medesimi tempi. Scrive questo Ammiano [Ammian., lib. 27, cap. 11.], essere stato Probo conosciuto per tutto l'imperio romano a cagion della sua chiara nobiltà, possanza e ricchezze, perchè egli possedea delle gran tenute di beni per tutte le provincie romane. Leggonsi moltissime leggi pubblicate da Valentiniano Augusto nel presente anno, e rapportate nel Codice Teodosiano [Gothofr., Chronol. Cod. Theod.]. Con una di esse egli restituì ai cherici cattolici della provincia proconsolare [170] dell'Africa i privilegii loro già tolti dallo apostata Giuliano. Con un'altra egli ordinò che in cadauno de' quattordici rioni di Roma si mantenesse un medico per servigio de' poveri. Riformò ancora varii abusi degli avvocati nelle cause civili, comandando loro di non ingiuriare alcuno, di non tirare in lungo le liti, e di non far patti per la ricompensa delle lor fatiche. Pel tempo del verno era soggiornato Valentiniano in Treveri, facendo intanto le disposizioni opportune per continuar la guerra contra degli Alamanni. Alla stagione solita d'uscirne in campagna, avendo chiamato all'armata Sebastiano conte [Ammian., lib. 27, cap. 10.], insieme col figliuolo Graziano e coi generali Giovino e Severo, passò egli il Reno senza opposizione di alcuno; e spedì poi varii distaccamenti delle sue truppe a dare il guasto ai seminati e alle case de' nemici. Per quanto s'inoltrassero i Romani, resistenza non si trovò, fuorchè ad un luogo appellato Solicinio, creduto da alcuni nel ducato ora di Wirtemberg. S'era ritirato un grosso corpo di Alamanni sopra una montagna, e si sudò non poco a sloggiarli di là colla morte di molti degli aggressori. Pare che in fine quei popoli chiedessero ed impetrassero pace dall'imperadore. Il che fatto, se ne tornò egli a Treveri, come trionfante, non per aver vinti gli Alamanni, ma per aver desolate le lor campagne, ricavandosi da Ausonio [Auson., in Mos.] che in tal congiuntura Valentiniano celebrò de' giuochi trionfali, e diede de' solazzi al popolo.
Poche faccende ebbe in quest'anno Valente Augusto, tuttochè fosse viva la guerra di lui coi Goti. Le leggi del Codice Teodosiano cel fanno vedere in Marcianopoli; nè Ammiano accenna di lui impresa alcuna militare che si creda appartenere a quest'anno. Perchè il Danubio fu oltre misura grosso, non si potè passare. Temistio sofista [Themist., Orat. VIII.], cioè oratore, [171] nella suddetta città recitò un panegirico, tuttavia esistente, in lode di lui. Giacchè quivi si legge che un principe orientale avendo abbandonato gli Stati del padre, Stati di molta ampiezza, era venuto a servire sotto Valente: giustamente si conghiettura che Temistio disegnasse con tali parole il figliuolo di Arsace re dell'Armenia, appellato Para, il quale in fatti dopo le disavventure di suo padre ricorse alla protezion di Valente. Parla appunto Ammiano [Ammian., lib. 27, cap. 12.] circa questi tempi degli affari dell'Armenia. Pretendeva Sapore re di Persia che, in vigore del trattato di pace conchiuso con Gioviano Augusto, non potessero i Romani, in caso di guerra, prestar aiuto all'Armenia. Però da lì innanzi, parte colla forza e parte colle insidie, si studiò d'impadronirsi di quel regno, con ricorrere in fine al tradimento. Invitato ad un convito Arsace re d'essa Armenia, fece prenderlo, cavargli gli occhi, e il privò in fine di vita. Ciò fatto, non gli fu difficile di rendersi padrone d'essa Armenia, con darne il governo a Cilace ed Artabano, due nazionali di quel paese. Erasi ritirata la regina Olimpiade con Para suo figliuolo in una fortezza chiamata Artagerasta, dove fu assediata dai due governatori del regno, co' quali passando d'intelligenza, un dì ebbe maniera di far tagliare a pezzi i Persiani ch'erano in quel presidio. Posto Para in libertà, ricorse allora al patrocinio di Valente Augusto, e per qualche tempo si fermò in Neocesarea del Ponto, finchè assistito, per ordine segreto d'esso Valente, da Terenzio conte, ebbe la fortuna (probabilmente nell'anno seguente) di rientrar nell'Armenia, e di possederla, ma senza titolo di re, perchè Valente non volle conferirglielo, per non dar occasione a Sapore di pretendere rotto il suddetto trattato di pace. In tale stato era intorno a questi tempi l'Armenia. La città di Nicea, per attestato di [172] Girolamo [Hieronymus, in Chronico.], restò in quest'anno totalmente atterrata da un orrendo tremuoto.
Anno di | Cristo CCCLXIX. Indizione XII. |
Damaso papa 4. | |
Valentiniano e | |
Valente imperadori 6. | |
Graziano imperadore 3. |
Consoli
Flavio Valentiniano, nobilissimo fanciullo, e Vittore.
Resta ora deciso fra gli eruditi che questo Valentiniano console non fu già il figliuolo di Valentiniano Augusto, e molto meno Giulio Felice Valentiniano, come pensò il Panvinio [Panvin., in Fast.], ma bensì il figliuolo di Valente Augusto, soprannominato Galata, di età di tre anni, perchè a lui nato, come vedemmo, nell'anno 366. Per opinione d'alcuni, il secondo console Vittore lo stesso fu che Sesto Aurelio Vittore, di cui abbiamo una storia romana; ma avendo osservato il Gotofredo [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.] e il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che questo console Vittore fu cristiano, ciò ricavandosi dalle lettere de' santi Basilio e Gregorio Nazianzeno, e da Teodoreto, cotal qualità non conviene allo storico che si scuopre gentile. Continuò Quinto Clodio Ermogeniano Olibrio nella prefettura di Roma. Valentiniano Augusto nell'anno presente, come costa da varie sue leggi, si trovava in Treveri, Brisacco, ed altri luoghi verso il Reno [Ammian., lib. 28, c. 2.]. Le sue maggiori applicazioni consisterono in far fabbricare per tutto il lungo d'esso fiume, cominciando dalle Rezie sino all'Oceano, torri, castella e fortezze in gran copia, in siti proprii, affinchè servissero di freno alle nazioni barbare, le quali troppo spesso e troppo volentieri venivano a far delle scorrerie e a bottinare nel paese romano. Ma perchè volle azzardarsi ad alzare di là dal [173] Reno una di queste fortezze nel monte Piri, gli Alamanni pretendendo ciò contrario ai patti della pace, giacchè non trovavano giustizia, nè volevano desistere da questa fabbrica i Romani, tutti un dì li misero a fil di spada, e non ne scappò alcuno, fuorchè Siagrio, segretario dell'imperadore, che ne portò la dolorosa nuova alla corte, e n'ebbe in ricompensa la perdita dell'uffizio. Ma questi col tempo risalì in posto, ed arrivò ad essere console, siccome vedremo. Furono in questi tempi le Gallie afflitte da gran copia d'assassini da strada, che non perdonavano alla vita delle persone; e fra gli altri fu colto da loro ed ucciso Costanziano, soprintendente alla scuderia imperiale, e fratello di Giustina Augusta moglie di Valentiniano [Ammian., lib. 28, c. 1.]. Abbiamo poi sotto il presente anno una lugubre descrizione delle giustizie, anzi delle crudeltà fatte in Roma da Massimino prefetto dell'annona, con permissione dell'Augusto Valentiniano, principe pur troppo privo di clemenza ed inclinato al rigore. Be parlano ancora Suida [Suidas.], Zonara [Zonar., in Annal.] e la Cronica Alessandrina [Chronicon Alexandrin.]. Si fecero dunque in Roma de' fieri processi contra di molti nobili dell'uno e dell'altro sesso, per veri o per pretesi delitti di veleni, di adulterii e di mala amministrazione, e simili, con essere stati tormentati in tal congiuntura e condannati a morte varii di que' nobili, e forse giustamente i più, ma certo con troppo rigorosa giustizia. Pare che queste terribili inquisizioni continuassero molto tempo dipoi, e che non sia scorretto il testo di san Girolamo [Hieron., in Chron.], il quale ne parla all'anno 371, perchè anche Ammiano, in favellarne, rammenta Ampelio prefetto di Roma, il qual veramente in esso anno esercitò quella carica.
[174] In poche parole racconta Ammiano [Ammian., lib. 27, cap. 5.] le imprese di Valente, con dire ch'egli verso la state, passato il Danubio, fece guerra ai Grutingi e Gotunni, nazione bellicosa fra i Goti. Osò ben Atanarico, il più potente de' principi di quella nazione, di far fronte ai progressi dell'armi romane; ma allorchè si venne ad un combattimento, toccò a lui di voltare le spalle: il perchè non indugiò a spedir deputati per pregar Valente di dargli la pace. Vittore ed Arinteo, generali, l'uno della cavalleria e l'altro della fanteria, spediti a trattarne, non poterono mai indurre Atanarico a passare di qua dal Danubio, allegando egli un giuramento fatto di non toccar mai il terreno de' Romani. Perciò in mezzo a quel fiume, dove egli venne in nave, fu d'uopo che anche Valente in un'altra si conducesse per istabilire i patti della concordia [Zosim., lib. 4, c. 11.]. Dopo di che Valente si restituì a Costantinopoli. Temistio [Themistius, Orat. X.] parla di questo abboccamento vantaggiosamente per la parte dell'imperadore, come dovea fare un panegirista. Verisimilmente questa pace quella fu che diede motivo ad esso Augusto di restituire al popolo di Costantinopoli un combattimento, o sia giuoco pubblico, che già era stato abolito [Idacius, in Chronico.]. E se fosse vero ch'egli rendesse ai pagani la libertà dei sagrifizii, come lasciò scritto Cedreno [Cedren., Histor.], avrebbe egli mal riconosciuta l'assistenza prestatagli da Dio fin quella guerra. Certamente anche Teofane [Theophan., Chronogr.] racconta ch'egli concedette licenza ai gentili di fare i loro sagrifizii e le feste lor proprie; e quell'agon restituito, ed accennato da san Girolamo ed Idacio, forse è un indicio di questo.
Anno di | Cristo CCCLXX. Indizione XIII. |
Damaso papa 5. | |
Valentiniano e | |
Valente imperadori 7. | |
Graziano imperadore 4. |
Consoli
Flavio Valentiniano Augusto per la terza volta, e Flavio Valente Augusto per la terza.
Per qualche mese ancora dell'anno presente Olibrio sostenne la carica di prefetto di Roma, come s'ha dalle leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. Una d'esse ci rappresenta Principio in quella stessa dignità nel dì 29 d'aprile. Se ne può dubitare, dacchè Ammiano [Ammianus, lib. 28, cap. 4.], dopo d'aver parlato dei buoni e cattivi costumi d'Olibrio, immediatamente viene a quelli di Ampelio, come successore di lui in quella carica. Chi poi amasse di mirare un ritratto della nobiltà e plebe romana di questi tempi, non ha che da leggere quanto il suddetto Ammiano (con penna più d'un poco satirica) lasciò scritto, dopo aver favellato dei due sopra nominati prefetti. Il lusso, l'ignoranza, il fasto, l'effemminatezza, il dilettarsi di buffoni e adulatori, il darsi al giuoco e ad altri non pochi vizii, si veggono ivi descritti. Così la dappocaggine ed oziosità della plebe, l'essere spasimati dietro agli spettacoli, ed altri loro ridicoli difetti truovansi dipinti in quello storico, senza ch'io mi creda in obbligo di rapportar qua tutto il suo pungente racconto. Abbiamo molte leggi di Valentiniano Augusto [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.] date nell'anno presente quasi tutte in Treveri. Con esse spezialmente egli diede buon sesto agli studii delle lettere di Roma, prescrivendo buoni regolamenti per gli scolari che da varie parti concorrevano a quelle scuole, e non men per li medici che per gli avvocati. Famosa è poi [176] una costituzione sua [L. 20, de Episc. Cod. Theodos.] indirizzata a papa Damaso, in cui proibisce ai cherici e monaci l'introdursi nelle case delle vedove e pupille, e il poter ricevere da esse o per donazione, o per testamento, o per legato, o fideicommesso, stabili o altri beni sotto pretesto di religione, cassando con ciò ogni contraria disposizione. Non si vietava già con questa legge il donare alle chiese; ma non so come si fece poi essa valere per escludere generalmente tutte le persone ecclesiastiche dalle donazioni pie, in maniera che poi fu d'uopo che Marziano Augusto nel secolo susseguente abolisse questo divieto, e lasciasse in libertà la pietà de' fedeli per poter donare ai luoghi sacri. Il cardinal Baronio [Baron., Annal. Ecclesiast. ad hunc annum.] fu di parere che lo stesso Damaso papa fosse quegli che procurasse questa legge per reprimere l'avarizia degli ecclesiastici romani, giunta oramai all'eccesso: cotanto andavano essi a caccia della roba altrui sotto titolo di divozione e in profitto proprio. Di questo abuso in più d'un luogo fa menzione san Girolamo [Hieron., Epist. II ad Nepotian.], dolendosi non già della legge, ma bensì che il clero se la fosse meritata, con fare mercatanzia della religione. E il santo arcivescovo Ambrosio [Ambros., advers. relat. Symmach., et Epist. XII.] nè pur egli si lamenta di tal divieto, perchè è più da desiderare che la Chiesa abbondi di virtù che di roba. Solamente a lui pareva strano l'essere permesso il donare ai ministri de' templi de' gentili quel che si voleva, e vietato poi il fare lo stesso per quei della Chiesa.
Dai sassoni corsari furono in questo anno maltrattati i paesi marittimi delle Gallie, arrivando essi all'improvviso per mare addosso ai popoli di quelle contrade [Ammianus, lib. 28, cap. 5.], e bottinando dappertutto. Contra di costoro fu da Valentiniano spedito Severo generale della fanteria, che li mise in tal disordine e paura, [177] che dimandarono pace, e di potersene tornar colle vite in salvo alle lor case. Si conchiuse il trattato; ma nell'andarsene que' Barbari, Severo fece tendere ad essi un'imboscata, e tagliarli tutti a pezzi, con pericolo nondimeno che i suoi restassero sconfitti, senza alcun riguardo ai giuramenti e alla fede pubblica, la quale, secondo la legge cristiana, dev'essere osservata anche verso gli eretici e Turchi, e verso qualsivoglia altro nemico. Pensando poi Valentiniano alle maniere di reprimere la superbia ed insolenza degli Alamanni e del re loro Macriano, che sì spesso portavano il malanno alle frontiere romane, segretamente mosse i Borgognoni, popoli confinanti alla Lamagna, e che si vantavano di trarre la loro origine dai Romani, a muovere l'armi contra d'essi, giacchè con essi aveano spesso liti a cagion de' confini e delle saline. Vennero costoro sino alle ripe del Reno con un fioritissimo esercito. San Girolamo [Hieron., in Chronic.] scrisse che ascendeva il lor numero ad ottanta mila persone. Avea loro promesso Valentiniano di passare anch'egli il Reno, per secondar colle sue forze le loro. Non mantenne poi la parola, e perciò se ne tornarono essi indietro mal soddisfatti, dopo aver ucciso tutti i prigioni da lor fatti. Già era stato creato generale della cavalleria Teodosio, che già vedemmo vittorioso nella Bretagna, e che fu padre di Teodosio Augusto. Si servì questo valoroso uffiziale di tal congiuntura per dare addosso agli Alamanni, i quali, per paura d'essi Borgognoni, s'erano sparsi per le Rezie, cioè pel paese romano. Molti ne uccise, che vollero far testa. Tutti gli altri ch'egli fece prigioni, per ordine di Valentiniano, furono mandati in Italia, e sparsi ne' paesi contigui al Po, dove, assegnate loro delle buone terre da coltivare, divennero poi fedeli sudditi del romano imperio. A questi pochi fatti aggiunge Ammiano [Ammianus, lib. 28, cap. 6.] una lunga descrizione [178] dei mali cagionati da Romano conte nella provincia della Libia Tripolitana dell'Africa, e cominciati molto prima dell'anno presente, senza che que' popoli potessero mai ottener giustizia e riparo dalla corte imperiale: tante cabale seppe adoprar quel malvagio uffiziale. Nulla di riguardevole operò in quest'anno Valente Augusto in Oriente; tuttochè egli passasse a Nicomedia con pensiero di far guerra ai Persiani, ma con ispendere il tempo in soli preparamenti. Le leggi del Codice Teodosiano attestano che egli fu a Jerapoli, creduta dal padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] città della Frigia, e, secondo Zosimo [Zosimus, lib. 4, c. 13.], arrivò anche ad Antiochia; ma ciò convien più tosto agli anni seguenti. Le maggiori sue applicazioni sembra che fossero quelle di perseguitare i cattolici [Socrates, Hist., lib. 4, cap. 14 et seq.], de' quali ne fece morir non pochi, e di esaltar la setta ariana. A questo anno riferisce il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad hunc annum.] la morte di Eusebio, vescovo di Cesarea di Cappadocia, celebre per la sua storia ecclesiastica e per altri libri che restano tuttavia di lui, ma con aver lasciato agli eruditi una gran disputa intorno alla di lui credenza, cioè s'egli tenesse coi cattolici o pur cogli ariani. Successore di lui fu poi in quella chiesa san Basilio il grande, uno dei più insigni scrittori e pastori della Chiesa cattolica.
Anno di | Cristo CCCLXXI. Indizione XIV. |
Damaso papa 6. | |
Valentiniano e | |
Valente imperadori 8. | |
Graziano imperadore 5. |
Consoli
Flavio Graziano Augusto per la seconda volta, e Sesto Anicio Petronio Probo.
Il secondo console Probo quel medesimo è che di sopra vedemmo il principal mobile della casa Anicia, riguardevole [179] personaggio per le tante dignità da lui sostenute, e per le esorbitanti sue ricchezze. Esercitava egli nello stesso tempo la carica di prefetto del pretorio dell'Italia, come consta dalle leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., in Chronolog. Cod. Theodos.], le quali ancora ci assicurano che in quest'anno la prefettura di Roma seguitò ad essere amministrata da Ampelio. Sono esse date la maggior parte in Treveri, ed alcune in Contionaco, forse luogo vicino a quella stessa città. Alcune delle medesime giusto motivo somministrano al cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] di biasimar questo imperadore, principe più politico che cattolico. Imperocchè in una d'esse, indirizzata al senato romano, egli permise le illusioni degli aruspici gentili, e gli altri esercizii di religione permessi dalle leggi antiche, purchè non vi si mischiasse la magia. Confermò ancora ai pontefici pagani i lor privilegii, concedendo ad essi l'onor medesimo che godevano i conti. In quest'anno ancora Ammiano [Ammianus, lib. 29, cap. 3.] ci vien raccontando una mano di crudeltà usate da Massimino, inumano suo uffiziale, e dallo stesso Valentiniano Augusto, le quali ci fan sempre più conoscere che egli, benchè professasse la religione di Cristo, poco ne doveva studiare i santi insegnamenti. Ardeva tuttavia questo imperadore di voglia di abbattere il sopra mentovato Macriano re degli Alamanni,, che gli stava molto sul cuore. Colla forza delle sue armi non si credeva egli da tanto di poterlo opprimere. Si rivolse alle insidie. Passò all'improvviso nell'autunno il Reno con un buon corpo di milizie, sulla speranza datagli dalle spie, che potrebbe sorprendere il nemico re, senza aver seco nè tende, nè grosso bagaglio. Seco andarono i due generali Severo e Teodosio. Contuttochè ordini rigorosi fossero dati ai soldati di non saccheggiar nè bruciar case, acciocchè non ne seguisse dello strepito, egli non [180] fu ubbidito. Le grida delle persone giunsero agli orecchi delle guardie di Macriano, le quali, sospettando quel che era, postolo incontanente in una carretta, il sottrassero all'imminente pericolo. Se ne tornò indietro Valentiano molto malcontento, dopo aver dato il fuoco ad un tratto del paese nemico. Agli Alamanni appellati Bucinobanti, che abitavano di là dal Reno in faccia a Magonza, diede appresso per re Fraomario della lor nazione; ma perchè questi trovò desolato il paese per la suddetta scorreria de' Romani, amò meglio d'essere inviato nella Bretagna per tribuno del reggimento de' suoi nazionali che in quella isola erano al servigio dell'imperio.
Avea Valente Augusto passato il verno a Costantinopoli. Venuta la primavera, di nuovo si mise in viaggio per andare ad Antiochia, ma senza che chiaro apparisca ch'egli vi arrivasse in questo anno, per quanto pretende il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.]. Una legge sua data nel dì 13 luglio cel fa vedere in Ancira, capitale della Galazia. Socrate [Socr., lib. 4 Hist., cap. 14.] e Teofane [Theoph., in Chronogr.] suppongono ch'egli veramente nel presente anno pervenisse in Soria, e ad Antiochia almen verso il fine dell'anno, e quivi poi si fermasse nel susseguente verno. Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap 13.] anch'egli scrive che, messosi Valente in viaggio, lentamente lo continuò per dar sesto di mano in mano ai pubblici affari e bisogni delle città per dove passava; e che, giunto ad Antiochia, attese più che mai ai preparamenti per la meditata guerra di Persia. Non lasciò egli di stabilire nel medesimo tempo dovunque potè il suo caro arianismo, e di sfogare l'empio suo zelo contro dei difensori della verità cattolica. Era in questi tempi Sapore re della Persia parte colla forza e parte colle insidie intento ad occupare affatto il regno dell'Armenia: del che s'è parlato [181] di sopra. Vedemmo che Para, figlio del già tradito re Arsace, era ricorso all'imperador Valente per aiuto. Ma Valente [Ammianus, lib. 27, c. 12.], che non amava d'essere il primo a rompere i trattati, andava temporeggiando, e solamente ordinò ad Arinteo suo generale di portarsi ai confini dell'Armenia, per mettere in apprensione con tale apparenza i Persiani. Cilace ed Artabano erano stati in addietro le due potenti braccia di Para per guardare gli Stati dalla violenza persiana. Sapore, che li teneva per traditori della sua corona, voleva togliere all'Armenia il loro antemurale: con lusinghe ed offerte, segretamente fatte all'incauto Para, l'indusse a mandargli le loro teste. Dopo questo crudele sproposito sarebbe perita l'Armenia, se l'arrivo di Arinteo coll'esercito romano in quelle vicinanze non avesse trattenuti i Persiani dall'ingoiarla. Spedì Sapore ambasciatori a Valente, per dolersi di que' movimenti, pretendendo infranta la pace. Valente sostenne il suo punto, e li rimandò mal soddisfatti. Si mischiò ancora negli affari dell'Isauria, disputata fra due cugini [Themist., Orat. XI.]; e consentì che quel paese si partisse tra loro: il che accrebbe le doglianze dei Persiani. Però dall'un canto e dall'altro si accingeva ognuno a venire ad un'aperta rottura. Circa questi tempi il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] sospetta che, trovandosi Valente in Cesarea di Cappadocia, gli fosse rapito dalla morte l'unigenito suo figlio, che già vedemmo appellato Valentiniano Juniore, e soprannominato Galata: del che s'ha memoria nella vita di san Basilio, vescovo chiarissimo di quella città. Tal morte di lui è certa, ma non già il tempo in cui essa accadde. Per un gastigo di Dio interpretata fu dai cattolici questa perdita fatta da Valente, siccome persecutore della vera Chiesa.
Anno di | Cristo CCCLXXII. Indizione XV. |
Damaso papa 7. | |
Valentiniano e | |
Valente imperadori 9. | |
Graziano imperadore 6. |
Consoli
Domizio Modesto ed Arinteo.
Amendue questi consoli erano uffiziali di Valente Augusto in Oriente. Nelle leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.] si trova tuttavia prefetto di Roma Ampelio sul principio di marzo dell'anno presente, e sembra che egli continuasse anche per tutto il maggio. Trovasi poi in una legge, data in Nassonaco nel dì 22 d'agosto, prefetto d'essa città un Bapone. Non è certa la prefettura romana di costui, siccome personaggio di cui non resta altra memoria. Pretende il Panvinio che ad Ampelio succedesse Claudio in quest'anno; ma ciò avvenne più tardi. Nulla abbiamo di particolare di Valentiniano Augusto intorno a questi tempi, se non che egli dimorò molto tempo in Treveri e in Nassonaco, che si crede luogo delle Gallie. All'anno presente riferisce il Gotofredo l'irruzione de' Quadi e Marcomanni in Italia, accennata da Ammiano [Ammian., lib. 29, cap. 6.], scrivendo egli aver essi assediata Aquileia, e spianato Oderzo. Ma uno dei difetti della storia d'Ammiano, oltre l'esser venuta a noi con molte lacune, è quello di non notare per lo più i tempi precisi delle imprese, di modo che possiam ben essere sicuri dei fatti, ma non già assegnarne con certezza gli anni; e verisimilmente accadde più tardi il movimento di quei Barbari contro l'Italia. Forse sul fine del precedente anno era giunto Valente Augusto ad Antiochia, ed è almen certo che nella primavera del presente egli dimorava in essa città, e si truova anche in Seleucia, città poche miglia distante di là. Quali imprese militari egli [183] facesse, non si può ben discernere. Quando appartenga a quest'anno ciò che vien riferito da Temistio [Themistius, Orat. XI.] nel di lui Panegirico, recitato nell'anno seguente, egli fece un giro per la Mesopotamia con arrivar sino al Tigri, dando gli ordini opportuni per le fortificazioni dei luoghi esposti ai Persiani, e conciliandosi l'affetto dei Barbari che non erano loro suggetti, ed insieme animando gli Armeni a tener forte contra de' comuni nemici. Non obbliava egli intanto di far guerra ai vescovi e personaggi cattolici [Socrates, lib. 4, cap. 17. Theophan., Chronogr.], togliendo loro le chiese, e facendo altri mali descritti nella storia ecclesiastica. Ma neppur egli godè molta tranquillità, perchè circa questi tempi furono fatte varie cospirazioni contro la di lui vita, le quali nondimeno rimasero scoperte e punite. Di una fa menzione Ammiano, con dire che un certo Sallustio, uffiziale delle sue guardie, avea formato il disegno di ucciderlo, mentr'egli dormiva al fresco in un bosco. Ma Dio sa a qual anno s'abbia da riferir questo attentato. Abbondano certamente le tenebre nella storia civile per i tempi presenti, ed è anche imbrogliata la storia della Chiesa per quel che concerne la cronologia.
Anno di | Cristo CCCLXXIII. Indizione I. |
Damaso papa 8. | |
Valentiniano e | |
Valente imperadori 10. | |
Graziano imperadore 7. |
Consoli
Flavio Valentiniano Augusto per la quarta volta e Flavio Valente Augusto per la quarta.
Non Claudio, come scrisse il Panvinio, ma Caio Ceionio Rufio Volusiano, come risulta dalle leggi del Codice Teodosiano [Gothofr., Prosop. Cod. Theodos.], sostenne in quest'anno la prefettura di Roma. L'aveva egli goduta [184] anche nell'anno 364. Presero nell'anno presente la trabea consolare i due Augusti, perchè si celebravano i decennali del loro imperio. Abbiamo da Simmaco [Symmachus, lib. 10, cap. 26.] che, in occasione di tal festa, il senato romano fece un considerabil regalo di danaro non solamente a Valentiniano, ma anche a Valente, tuttochè questi non comandasse a Roma. Parimente ci resta un panegirico di Temistio sofista [Themistius, Orat. XI.] in lode di esso Valente, recitato, secondo tutte le apparenze, non già in Costantinopoli, ma bensì in Antiochia, dove per questi tempi fece esso Augusto lunga dimora. Per testimonianza delle leggi spettanti all'anno presente, Valentiniano si truova in Treveri nel mese di aprile, e nel seguente giugno in Milano, dove si scorge ch'egli fece dimora almen sino al novembre, senza apparire alcuna delle azioni sue. A lui nondimeno non mancarono le applicazioni, perchè forse nel precedente anno s'era formata in Africa la sollevazion di Fermo, e questa gli dava non poco da pensare. Era costui [Ammian., lib. 29, cap. 5.] figliuolo di Nabal, polente principe fra i Mori, ed avea molti fratelli. Perchè uno di essi appellato Zamma si era molto introdotto nella confidenza di Romano conte, governatore di quelle provincie, Fermo segretamente il fece ammazzare. Caricato per questo da Romano di varie accuse alla corte di Valentiniano, e vedendo egli in pessimo stato e pericolo i proprii affari, prese il partito della disperazione, con ribellarsi, e sollevar varie nazioni di que' Mori, gente già disgustata per la strabocchevol avarizia degli uffiziali romani [Aurelius Victor, in Epitome. Augustinus, contr. Parmen., lib. 1, cap. 10.]. Preso il titolo di re e il diadema, aspra guerra fece nella Mauritania e in altre provincie ai Romani, con impadronirsi di varie città, e rallegrare i seguaci suoi col sacco di quelle contrade. Questo incendio obbligò [185] Valentiniano Augusto a spedire in Africa un buon corpo di milizie, alle quali diede per generale Teodosio conte, il più valoroso e prudente uffiziale di guerra ch'egli avesse in questi tempi. L'arrivo e la riputazione di Teodosio, sostenuta dalle forze seco menate, bastò per consigliar Fermo ad implorar il perdono, ma non osò già di comparir davanti al generale cesareo, se non dappoichè questi ebbe ripigliate varie città, e date due rotte alle genti di lui. Allora, dicendo daddovero, spedì alcuni vescovi a trattar di sommessione e grazia, e con esso loro, acciocchè restassero per ostaggi, varii parenti suoi. Fu egli dipoi ammesso da Teodosio all'udienza, ottenne il perdono e la libertà, e restituì i prigioni. Continuò poscia Teodosio il suo viaggio contra dei ribelli, e s'impadronì della ricca città di Cesarea, creduta da molti l'Algeri moderno; ma non tardò ad accorgersi dalla mala fede di Fermo, perchè lo spergiuro tornò all'armi, e diede più che mai da fare ai Romani. Seguirono perciò varii e dubbiosi combattimenti, ma per lo più favorevoli a Teodosio, il quale continuò la guerra nell'anno seguente, e forse anche nell'altro appresso; finchè, vedendosi ormai Fermo in rischio di cader vivo nelle mani di Teodosio, da sè stesso, con lo strangolarsi, si liberò dai soprastanti pericoli, e colla sua morte tornò la tranquillità in quelle provincie. Ammiano diffusamente descrive tal guerra e i fatti del suddetto generale Teodosio.
In questi tempi (se pur è possibile il registrare agli anni precisi gli avvenimenti d'allora) Valente Augusto, come poco fa accennai, dimorava in Soria, e specialmente nella capital d'essa, cioè in Antiochia. Seppe egli [Ammian., lib. 29, cap. 1.] che Sapore re di Persia finalmente era in moto con possente armata per passare nella Mesopotamia romana, e però contra di lui spedì Marciano conte e Vadomario già re di una parte dell'Alemagna, con [186] ordine nondimeno di stare all'erta, e di non cominciar essi le ostilità, se non forzati, affinchè non a sè, ma ai Persiani si attribuisse la rottura della pace. Appena conobbe il barbaro re tali essere le forze romane, che giuoco troppo pericoloso era il venire ad una battaglia campale, si contentò di consumar la campagna con varie scaramuccie solamente, ora vantaggiose ed ora infelici, tanto che, giunto l'autunno, e conchiusa una tregua, amendue le armate si ritirarono ai quartieri del verno. Scrive Ammiano che Sapore se ne tornò a Ctesifonte, e Valente imperadore ad Antiochia, dove poi succedette la scena di Teodoro, di cui parleremo all'anno seguente. Ma non lascio io di dubitare, se al presente appartenga il detto di sopra, perciocchè abbiamo due leggi del medesimo Valente [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.], date nel dicembre di quest'anno in Costantinopoli, che non si accordano col racconto di Ammiano, il qual pure, siccome storico contemporaneo, non dovrebbe in tal circostanza fallare. Secondo i conti del padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad ann. 373.], terminò la sua gloriosa vita in quest'anno santo Atanasio arcivescovo d'Alessandria, uno de' più insigni scrittori e campioni della fede cattolica, per cui sofferì tante traversie, chiamato da Dio a ricevere il premio delle sue virtù e fatiche. A quest'anno ancora verisimilmente appartiene un'irruzione fatta dai Goti della Tracia, di cui s'ha un barlume presso Ammiano [Ammianus, lib. 30, c. 2.], e ne parla ancora Teodoreto [Theodoretus, lib. 4, cap. 31 et seq.]. Valente, che si trovava impegnato con tutte le sue armi contra dei Persiani, inviò lettere all'Augusto Valentiniano, pregandolo di volerlo soccorrere con un corpo delle sue soldatesche dalla parte dell'Illirico. Se dice il vero Teofane [Theophan., in Chronogr.], la risposta di Valentiniano fu di non potere in coscienza aiutare un fratello che faceva nello stesso tempo [187] guerra a Dio, cioè che perseguitava i cattolici, esaltando continuamente la fazion degli ariani. Ma non è molto sicura in questi tempi la cronologia di Teofane, e forse Valentiniano non si diede mai a conoscere si zelante della vera religione.
Anno di | Cristo CCLXXIV. Indiz. II. |
Damaso papa 9. | |
Valentiniano e | |
Valente imperadori 11. | |
Graziano imperadore 8. |
Consoli
Flavio Graziano Augusto per la terza volta ed Equizio.
Il Relando [Reland., Fast. Consul.], appoggiato ad una delle inscrizioni del Gudio, chiama il secondo console Caio Equizio Valente. Già s'è detto che non si può far sicuro fondamento sulle memorie antiche del Gudio; e dacchè osserviamo che l'ordinario stile in nominar i consoli era quello di notar l'ultimo lor cognome o soprannome; qualora tali fossero stati i nomi di questo console, pare che non Equizio, ma Valente dovesse comparir la di lui appellazione ne' Fasti. Fu in questo anno prefetto di Roma Euprassio, e dopo lui Claudio. Una legge del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], data nel dì 5 di febbraio dell'anno presente, ci fa veder tuttavia Valentiniano Augusto in Milano, dove si dovette fermare nel verno. Se ne ritornò dipoi, venuta la primavera, nelle Gallie; s'incontrano alcune sue leggi date in Treveri ne' mesi di maggio e giugno. Dopo aver lungamente descritto Ammiano [Ammianus, lib. 28, c. 1.] le rigorose, anzi crudeli giustizie fatte in Roma da Massimino vicario di Roma, tali certo che screditano il regno di Valentiniano Augusto, egli parla di altre fatte da Simplicio, succeduto a lui nel vicariato di quella gran città, e non men di lui sanguinario. [188] Nobili non pochi dell'uno e dell'altro sesso, o furono tormentati o esiliati o privati di vita. Se tutti con ragione, se ne può dubitare. A me non piace di rattristar qui i lettori con sì funesti ritratti; ma non vo' già tacere che questi, per così dire, illustri carnefici di Valentiniano, cioè Massimino Simplicio e Doriferiano dopo la morte di esso Augusto pagarono anch'essi il fio della lor crudeltà. Volle in quest'anno esso imperadore tentar di nuovo la fortuna delle sue armi contra degli Alamanni, e, passato il Reno coll'armata, lasciò che le soldatesche sue si facessero onore col saccheggiare un buon tratto del paese nemico. Poi si diede a fabbricare una fortezza in vicinanza di quella che oggidì chiamiamo Basilea. Quivi stando, ricevette da Probo, prefetto del pretorio dell'Illirico, l'avviso che i Quadi, fatta una fiera scorreria in quelle parti, davano anche da temere di peggio, ogni qualvolta non fosse spedito a lui opportunamente soccorso di gente. Il motivo, per cui que' popoli uscirono ai danni delle terre romane, fu il seguente. Già dicemmo le premure di Valentiniano, acciocchè a tutte le frontiere verso i Barbari si fabbricassero delle fortezze [Ammianus, lib. 29, cap. 6.]. Equizio console di quest'anno e generale delle milizie nell'Illirico, secondo l'uso dei più potenti, ne piantò una di là dal Danubio nel paese de' Quadi. Ne fece doglianza quel popolo, e si fermò il lavoro. N'ebbe avviso Marcellino, già divenuto prefetto del pretorio delle Gallie, uomo sempre portato all'alterigia e alla crudeltà, ed ottenne da Valentiniano che si spedisse colà Marcelliano suo figliuolo, con ordine e facoltà di compiere quel forte. Questo Marcelliano è chiamato Celestio da Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 16.], forse perchè portò anche questo nome. Venuto dunque costui, ripigliò arditamente quella fabbrica, senza far caso alcuno delle pretensioni e querele dei Quadi. Per [189] questo il re loro Gabinio si portò in persona a trovar Marcelliano, e modestamente il pregò di desistere dal lavoro, con rappresentargli le sue ragioni. Lo accolse Marcelliano con civiltà, si mostrò inclinato ad esaudirlo, il tenne anche seco a tavola; ma dopo il convito, mentre egli voleva tornarsene a casa, il fece assassinare, e torgli la vita: tradimento infame e troppo indegno del nome romano, le cui conseguenze funeste tardarono poco a vedersi.
Per tal ingiuria ed enorme prepotenza sommamente irritati i Quadi, trassero in lega i Sarmati, stomacati tutti dell'iniquo procedere de' Romani; e, passato il Danubio, vennero a farne vendetta con dare il sacco e guasto ad un gran tratto dell'Illirico. Poche erano allora nella Pannonia e nella Mesia le guarnigioni e forze dei Romani, perchè Valentiniano avea fatto passare in Africa alcune legioni [Ammian., lib. 29, cap. 6.] che ivi prima stanziavano: perciò niun ritegno trovarono al lor furore que' Barbari. Passò in così pericolosa congiuntura per la Pannonia la figliuola del fu imperadore Costanzo, che in una medaglia (se pure è fattura legittima) si vede appellata Flavia Massima Costanza [Mediobarbus, Numism. Imperat.]. Andava ella verso le Gallie per unirsi in matrimonio con Graziano Augusto figliuolo di Valentiniano. Poco vi mancò che questa principessa non fosse colta un dì da que' Barbari in una villa chiamata Pistrense. Messala governator della provincia ebbe la fortuna di trafugarla e di ridurla salva in Sirmio. Crebbe poi cotanto la possanza de' Quadi, che Probo prefetto del pretorio dell'Illirico, trovandosi in essa città di Sirmio, fu in procinto di abbandonarla. Ma avendo ripigliato il coraggio, e fatto quel preparamento che potè per difendersi, i Quadi non la toccarono, intenti, più che ad altro, a perseguitare Equizio, creduto da essi autore della morte di Gabinio loro re. In fatti diedero una rotta a due legioni [190] romane comandate da lui, e stesero i lor saccheggi per buona parte della Pannonia. Vollero nello stesso tempo i Sarmati fare il medesimo giuoco nella Mesia superiore, ma quivi ritrovarono un forte ostacolo in Teodosio juniore, figlio di quel Teodosio generale, che già vedemmo inviato in Africa per la ribellione di Fermo. Con titolo di duca governava allora esso Teodosio juniore quella provincia, e benchè giovinetto di prima barba, e provveduto di poche truppe [Themist., Orat. XIV. Zosimus, lib. 4, c. 16.], pure parte con astuzie militari e parte con arditi combattimenti, e con riportarne vittoria, così ben si maneggiò, che que' Barbari giudicarono meglio di trattar di pace: ottenuta la quale, scornati se ne ritornarono al loro paese. Portati gli avvisi di questa guerra dalle lettere di Probo a Valentiniano Augusto, siccome poco fa accennai, non se ne fidò egli, e spedì colà Paterniano suo segretario per chiarirsene meglio [Ammian., lib. 30, c. 3.]. Essendo poi questi ritornato con più cattive nuove, allora Valentiniano tutto impazienza volea cavalcare alla volta dell'Illirico; ma i suoi ufficiali tanto dissero, con rappresentargli la stagion troppo avanzata, e il pericolo che Macriano re degli Alamanni, trovando sguernita di truppe la Gallia, potrebbe far dei malanni, che rimise alla primavera seguente il suo viaggio. Fu dunque presa la risoluzion di proporre la pace ad esso Macriano, con invitarlo a comparire alle rive del Reno. Venne egli in fatti pieno di albagia al vedersi ricercato di accordo, come s'egli avesse da dar la legge ai Romani. Comparve anche Valentiniano al congresso in barca con un magnifico seguito; ed in fine si stabilì fra loro la desiderata concordia. Mantenne poi Macriano fedelmente l'amicizia coi Romani; ma avendo dopo qualche tempo voluto entrar nel paese dei Franchi, e dargli disordinatamente il sacco, questa insolenza [191] gli costò ben caro, perchè, colto in un'imboscata da Mellobaude, chiamato re bellicoso di quella nazione da Ammiano, quivi lasciò la vita. Credesi oggidì che nell'anno presente accadesse in mirabil forma l'elezione [Hieronymus, in Chron.] di santo Ambrosio arcivescovo di Milano, alla cui consacrazione consentì volentieri Valentiniano che si era restituito a Treveri: intorno al qual fatto si può consultare la storia ecclesiastica.
Ne' primi mesi di quest'anno, ed anche nel maggio, noi troviam tuttavia Valente Augusto in Antiochia [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.], dove stato era durante il verno il suo soggiorno. Quivi fu scoperta una congiura tramata contra di lui. Alcuni pagani, e specialmente certi filosofi, dati allora alla magia e ad altre arti o imposture per iscoprir l'avvenire [Zosimus, lib. 4, c. 13. Ammianus, lib. 21, cap. 1 et seq.], si avvisarono di cercar con sacrilega curiosità chi avesse da succedere nell'imperio ad esso Valente, giacchè tolto gli avea la morte l'unico suo figliuolo. Zonara [Zonar., in Annalib.] descrive la forma del sortilegio fatto da essi, da cui si raccolsero queste tre lettere TH, E ed O. Cercando coloro a chi potesse convenir tal predizione, niuno cadde loro in mente più a proposito di un Teodoro, ch'era in questi tempi secondo notaio, o sia segretario di Valente, giovane di bell'aspetto, letterato prudente, nobilmente nato nelle Gallie, e soprattutto pagano: il che servì a quei tali di stimolo a maggiormente crederlo destinato dai falsi dii al trono. Gliene parlarono, gliel fecero credere; ed egli invanitosi cominciò a tener delle combriccole per questo co' suoi aderenti; e poi, siccome fu provato, furono fatti dei tentativi contro la vita di Valente. Ma scopertosi l'affare, e ricavata la verità del fatto, un seminario fu questo di terribili processi e condanne, non solamente di chi avea tenuta [192] mano, ma ancora di molti innocenti, perchè Valente non si sapea saziare di perseguitare e punire chiunque ancora era sospettato di attendere alla negromanzia e ai mezzi d'indovinar le cose future. Teodoro fu strangolato, o pure gli fu mozzato il capo. Degli altri uccisi abbiamo una lunga lista presso Ammiano e Zosimo, e fra questi si contarono dei primi uffiziali della corte [Liban., in Vita sua. Socrates, lib. 4, cap. 19. Sozomenus, lib. 6, c. 35.]. Altri furono banditi, e massimamente Eusebio ed Ipazio, già stati consoli nell'anno 359, e cognati del fu Costanzo Augusto, i quali da lì a poco tempo furono richiamati con onore. Scaricossi ancora lo sdegno implacabile di Valente contro de' filosofi gentili d'allora, siccome persone tutte in concetto di attendere alla magia e principali autori di quella cospirazione. Ebbe fra gli altri tagliata la testa Massimo [Eunap., in Vit. Sophist., c. 3.] il più rinomato di tutti, che tanta figura avea fatto a' tempi di Giuliano Apostata discepolo suo. Libanio sofista [Liban., in Vita sua.], benchè anch'egli attaccato alla negromanzia, la scappò netta, perchè nulla si potè provare contra di lui. Ed allora fu che si fece una gran perquisizione dei libri che trattavano di magia e d'incanti, di sortilegii e di strologia giudiciaria: perchè non si può dire quanto ubbriachi allora fossero i gentili di sì fatte sacrileghe imposture. Gran copia d'essi fu pubblicamente bruciata nella piazza d'Antiochia, e questo fu l'unico bene della rigorosa giustizia, o, per dir meglio, della crudeltà inaudita che Valente esercitò in tal occasione. Crudeltà, dico, la qual anche più detestabil sarebbe stata, se fosse vero ciò che scrivono Socrate e Sozomeno, cioè che egli fece morir molte persone, perchè portavano il nome di Teodoro, Teodosio, Teodulo, Teodoto e simili; ma se ne può dubitare. Certo è che Dio preservò il giovine Teodosio, da noi veduto duca della Mesia, avendolo [193] riserbato in vita per farne un'insigne imperadore, siccome a suo tempo vedremo. Nè già finì in quest'anno la carneficina suddetta, perchè durò il resto della vita di Valente. Ed ecco quanti mali può produrre (e n'abbiam veduto tanti altri esempli) la prosunzion degli uomini in voler indagare l'avvenire, paese riserbato alla cognizione del solo Dio. A queste tragiche scene un'altra ne aggiunse Valente Augusto. Tutte le apparenze sono che Para re dell'Armenia, dacchè implorò il patrocinio di esso imperadore contro de' Persiani, osservasse una fedeltà onorata verso di lui. Terenzio duca allora, per quanto sembra, difensor dell'Armenia, con più lettere lo andò screditando presso del medesimo Augusto [Ammian., lib. 30, cap. 1.], rappresentandolo per inumano verso de' suoi sudditi, e vicino ad accordarsi coi Persiani. Valente perciò il chiamò a Tarso città della Cilicia, dove, dopo di essersi fermato non poco tempo senza ottener licenza di passare alla corte, venne scoprendo i mali uffizii fatti contra di lui, e che si meditava di mettere in Armenia un altro re. Bastò questo, perchè egli con trecento de' suoi che l'aveano accompagnato se ne fuggisse, ed ebbe la fortuna di ritirarsi, al dispetto di chi il seguitò, salvo nei proprii Stati. Non lasciò egli per questo di star fedele verso i Romani; ma Valente, che non sel potea persuadere, diede segreta incumbenza a Traiano conte, comandante dell'armi romane in Armenia, di sbrigarsi di lui in qualche maniera. In fatti Traiano tanto seppe adescare l'incauto re con finte lusinghe, che il trasse un di seco a pranzo. Sul più bello del convito entrò un sicario che gli tolse la vita: assassinio infame commesso contro le leggi dell'ospitalità venerate dai Barbari stessi, e simile all'altro che abbiam veduto di sopra, di Gabinio re dei Quadi: tanto era decaduta la virtù nei petti romani.
Anno di | Cristo CCCLXXV. Indizione III. |
Damaso papa 10. | |
Valente imperadore 12. | |
Graziano imperadore 9. | |
Valentiniano juniore imp. 1. |
Dopo il consolato di Graziano Augusto per la terza volta e di Equizio.
Con questa formola si trova ne' fasti e nelle storie segnato l'anno presente, perchè niun fu disegnato per empiere la sedia curule, e vestir la trabea consolare. San Girolamo [Hieronymus, in Chronicon.] attribuisce la cagion di tale ommissione alla irruzion de' Sarmati nella Pannonia, quasichè le guerre dell'imperio romano impedissero la creazion de' consoli. Sembra ben più probabile che non passasse buona intelligenza fra i due fratelli Augusti nella nomina d'essi consoli, con iscorrere poi l'anno senza dichiararne alcuno. Probabilmente Euprassio continuò anche in quest'anno nella prefettura di Roma. La stanza di Valentiniano Augusto per tutto il verno dell'anno corrente fu in Treveri, dove anche troviamo una sua legge [Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.], data nel dì 9 di aprile. Lasciato poscia alla guardia delle Gallie Graziano Augusto suo figliuolo, egli ne' seguenti mesi eseguì la risoluzione presa di portarsi nell'Illirico per reprimere l'insolenza dei Quadi e Sarmati, che tuttavia malmenavano le contrade romane. Oltre ad un buon esercito, menò seco Giustina Augusta sua moglie e Valentiniano juniore, suo minor figliuolo, da essa a lui partorito, il quale si crede che fosse allora in età di quattro o cinque anni [Ammian., lib. 30, cap. 5.]. Per la strada se gli presentarono i deputati de' Sarmati per trattar di pace. Valentiniano li rimandò, con dire che giunto egli al Danubio, allora se ne palerebbe. Arrivato a Carnunto, città che vien creduta il luogo del moderno Haimburg, trenta miglia in circa di sotto da Vienna d'Austria, quivi [195] fermata la corte, si applicò alle disposizioni militari convenevoli per dare la mala pasqua ai Barbari suddetti; ma senza fare alcuna ricerca dell'assassinio fatto a Gabinio re de' Quadi. Mostrossi solamente voglioso di abbattere Probo prefetto del pretorio, il quale, se s'ha da credere ad Ammiano gentile, cioè ad un nemico dei cristiani, avea commesso di grandi estorsioni ed ingiustizie, per far colar l'oro nella borsa del principe, e sostener sè stesso in quell'illustre carica. E certamente fu creduto che se Valentiniano non si fosse affrettato a morire, non mancava la rovina di Probo. Durante il tempo di tre mesi che questo imperadore dimorò in Carnunto, egli fece tagliar la testa a Faustino, nipote di Giuvenzio prefetto del pretorio delle Gallie, accusato di aver ucciso un asino per far dei sortilegii; ed inoltre perchè avendogli per burla un certo Negrino dimandato di essere fatto segretario di corte, ridendo avea risposto: Fammi imperatore, se vuoi quest'uffizio. Per questa burla Faustino, Negrino ed altri perderono la vita; e di questo passo camminava la giustizia sotto Valentiniano, che non voleva essere da meno di Valente suo fratello.
Venuto il settembre, spinse egli innanzi Merobaude e Sebastiano conte con diverse brigate di armati addosso a' Quadi [Ammian., lib. 30, c. 5 et seq.]; ed egli stesso in persona col resto dell'armata passò dipoi il Danubio, e fece dare il sacco e il fuoco ad un buon tratto del nemico paese, essendosi ritirati alle montagne quei popoli. Senza far altra bravura che questa, se ne ritornò poi indietro, e dopo essersi fermato in Acinco per qualche tempo, si rimise in cammino alla volta di Sabaria con animo di svernare in quella città. Arrivato che fu alla volta di Bregizione, comparvero colà i deputati dei Quadi per chiedere perdono e pace. Furono ammessi all'udienza; e perchè si voleano scusare con pretendere fatte da persone particolari senza [196] assenso del comune le insolenze passate, a Valentiniano si accese la bile, di maniera che fremendo rimproverò forte a quella nazione, come ingrata, i benefizii ricevuti dai Romani. Calmossi dipoi, ma all'improvviso cominciò a vomitar sangue, e il prese un sudore mortale. Portato a letto, non si trovò se non tardi un cerusico che gli aprisse la vena; fatto anche il salasso, non ne uscì neppure una goccia. Sicchè di lì a poche ore terminò il corso di sua vita [Idacius, in Fastis. Hieronymus, in Chronic. Socrat., lib. 4, cap. 31.] nel dì 17 di novembre, in età d'anni cinquantacinque, e dodici d'imperio. Ammiano fa qui un compendio delle qualità buone e cattive di questo imperatore [Ammianus. Victor. Ansonius. Symmachus. Zosim. et alii.]. Altri ancora commendarono la di lui gravità, la castità, la perizia militare, il coraggio, la vigilanza per dar le cariche a persone degne, e castigar i dilitti, con altre belle doti, per le quali fu creduto ch'egli avrebbe potuto uguagliar la gloria di Traiano e di Aureliano, se egli non avesse avuto il contrappeso di varii difetti. Il principale fu l'eccessivo suo rigore, che passò ad essere crudeltà, e talvolta involse non meno i rei che gl'innocenti. Ne abbiamo accennato alcuni esempli, ed Ausonio stesso, in parlando a Graziano Augusto di lui figlio, confessa che sotto suo padre la corte era tutta piena di terrore, e in volto de' magistrati si leggeva una continua inquietudine e tristezza. Questo suo genio sanguinario bastante ben è a far parere un nulla tutte le altre sue virtù. Padri amorevoli e clementi, e non implacabili aguzzini o carnefici de' popoli, han da essere i principi che tendono alla vera gloria, e fan conto del Vangelo. Vi si aggiunse ancora l'avarizia; perchè sebben sui principii si guardò dall'aggiungere nuovi aggravii ai suoi sudditi, col tempo poi mutò registro, e, per attestato di Ammiano [Ammianus, lib. 30, cap. 8.] e di [197] Zosimo [Zosim., lib. 4, c. 3.], egli si acquistò l'odio d'ognuno per le eccessive imposte, che faceva anche esigere con tutto rigore, e si studiava per tutte le vie anche indecenti di ricavare ed accumulare danaro. Fu osservato che nello spazio di trenta anni addietro erano cresciute al doppio le gravezze dei sudditi del romano imperio. Sicchè, ben pesato il tutto, benchè sant'Ambrosio, Aurelio Vittore, Sozomeno ed altri esaltino la persona e il governo di Valentiniano, tuttavia nelle bilance di Dio e degli uomini non avrà mai credito un principe cristiano a cui manchi la clemenza e la carità verso de' suoi popoli. Fu poi portato il di lui corpo imbalsamato a Costantinopoli, per essere seppellito appresso gli altri Augusti cristiani.
Dacchè cessò di vivere questo imperadore, apprension non poca vi fu che qualche sedizione potesse insorgere nell'armata, e che taluno macchinasse di occupar il trono cesareo. Però Merobaude, uno dei primi generali, trovata maniera di allontanar Sebastiano conte, tenne consiglio con gli altri primarii uffiziali, e fu risoluto di proclamare Augusto Flavio Valentiniano juniore, secondogenito del defunto imperadore [Zosimus, lib. 4, c. 19. Ammianus, lib. 30, cap. 10.]. Era troppo lontano Graziano imperadore, suo fratello maggiore, perchè dimorante allora in Treveri, per poter impedire le novità temute; e sapendo gli uffiziali qual fosse la di lui bontà e rettitudine, si avvisarono di poter innalzare questo principe, stante il pericolo presente, senza incorrere nella di lui disgrazia, per aver ciò osato prima di ricercarne il di lui consenso. E così fu. Certamente Graziano se l'ebbe a male, e non men di lui Valente suo zio; ma non tardarono amendue ad approvar questo fatto; Valente, per non poter di meno, e Graziano per la sua buona indole e virtù, per cui non lasciò mai, finchè visse, di far conoscere il suo buon cuore verso di esso [198] fratello. Trovavasi il fanciullo Valentiniano allora, siccome accennammo, in età di circa cinque anni, lungi dall'armata ben cento miglia. Furono spediti corrieri a chiamarlo, e venuto che fu ad Acinco nella Pannonia con Giustina Augusta sua madre, il dichiararono Imperadore Augusto nel dì 22 di novembre. Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 19.] e Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] attribuiscono la di lui promozione principalmente a Merobaude e ad Equizio generali; il primo di essi storici, siccome ancora Eunapio [Eunap., Legat. Tom. I Hist. Byz.], lasciarono scritto che i due fratelli divisero fra loro l'Occidente, con aver Graziano ritenuta per sè la Gallia, la Spagna e la Bretagna, con assegnar al fratello l'Illirico, l'Italia e l'Africa. Ma questa divisione si tiene piuttosto fatta dopo l'anno di Cristo 379; ed il Gotofredo [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] osservò che stante l'essere Valentiniano II in età pupillare, e però incapace di reggere, Graziano Augusto continuò ancora da qui innanzi il governo di tutto l'Occidente. Abbiamo inoltre dalla Cronica Alessandrina [Chronicon Alexandr.] ch'esso Graziano, dopo la morte del padre, richiamò alla corte Severa sua madre già esiliata da Valentiniano seniore, che utilmente si servì dipoi co' suoi consigli. Parimente in questi tempi, per attestato di Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 18.], si fecero sentire degli orrendi tremuoti, che specialmente danneggiarono l'isola di Creta, la Morea e tutta la Grecia, a riserva dell'Attica. Per conto di Valente Augusto, le leggi del Codice Teodosiano [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.] ci assicurano essersi egli trattenuto in Antiochia sino al principio di giugno, e vi si truova anche nel dì 5 di dicembre. Andarono innanzi indietro [Ammianus, lib. 30, cap. 1.] varie ambasciate di esso Augusto e di Sapore re di Persia per intavolar la [199] pace; ma in fine nulla si conchiuse, e durò tuttavia la guerra aperta fra loro: laonde ognun di essi seguitò a far preparamenti per farsi giustizia coll'armi.
Anno di | Cristo CCCLXXVI. Indizione IV. |
Damaso papa 11. | |
Valente imperadore 13. | |
Graziano imperadore 10. | |
Valentiniano II imperadore 2. |
Consoli
Flavio Valente Augusto per la quarta volta e Flavio Valentiniano juniore Augusto.
Portò opinione il Panvinio [Panvin., in Fast.] che la prefettura di Roma fosse in quest'anno esercitata da Euprassio, e poi da Probiano. Il Codice teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], a cui si dee più fede, ci mostra ornati di quella dignità Rufino, e poi Gracco, il qual ultimo, per attestato di san Girolamo [Hieron., Epist. 7 ad Laetam. Prudentius, in Symmac.], bruciò e rovesciò gran copia d'idoli in Roma stessa, e professò dipoi la religione cristiana. In età di circa diecisette anni era Graziano Augusto allorchè l'imperador Valentiniano suo padre terminò il corso del suo vivere. Giovane ben fatto di corpo, ma più d'animo, perchè dotato d'un eccellente naturale, come confessano gli stessi storici pagani [Ammian., lib. 27. cap. 6. Victor, in Epitome. Themistius, Or. XV.]. Di buon'ora fu istruito nelle belle lettere, con aver per maestro un insigne letterato, cioè Ausonio, al quale, anche dopo aver ricevuta la porpora imperiale, professò sempre un particolar rispetto, e conferì varie cariche, alzandolo sino al consolato. Parlano gli autori d'allora [Rufinus, Hist., lib. 2, cap. 13. Ausonius, in Panegyric.] della moderazione nel cibo e nella bevanda di questo principe, della sua rigorosa castità, affabilità, e soprattutto della sua bontà e pietà [200] cristiana, per cui meritò gli elogii di santo Ambrosio e di Ausonio. Della sua delicatezza in questo proposito diede egli sui principii una luminosa pruova, col ricusar l'abito e il titolo di pontefice massimo [Zosimus, lib. 4, cap. 36.] che gli portarono i pagani. In somma arrivò a dire Ammiano, tuttochè storico gentile e poco amico dei cristiani, essersi unite in Graziano tante e sì belle doti, che avrebbe potuto aspirare alla gloria de' più rinomati Augusti, se breve non fosse stata la sua vita, e non avesse avuto ai fianchi de' ministri cattivi, da' quali non potè guardarsi la sua non per anche matura prudenza, e l'età sua troppo giovanile, per cui, dandosi ai divertimenti, lasciava lor fare quanto volevano. Una delle sue prime azioni fu quella di ascoltar le querele universali de' popoli, e massimamente del senato romano contro i ministri della crudeltà di suo padre [Ammianus, lib. 28, cap. 1.]. Erano questi Massimino, allora prefetto del pretorio delle Gallie, Simplicio e Doriferiano. Processati costoro, provarono anche essi, ma colpevoli, il supplizio che a tanti anche innocenti aveano fatto provare. E perciocchè il senato romano dovette far doglianze per tanti dell'ordine suo o uccisi o calpestati in maniere indebite da Valentiniano, in lor favore spedì Graziano un editto, che con gioia fu letto dal celebre Simmaco [Symmachus, lib. 10, epist. 2.], uno allora de' senatori. Siccome riportò plauso da ognuno la morte data a quei crudeli ministri, così fu detestata l'altra di Teodosio conte, governatore allora dell'Africa. Aveva questo valente uffiziale estinta già in quelle provincie la ribellion di Fermo [Orosius, lib. 7, cap. 33.], restituita la pace a tutto il paese, e continuava con gran saviezza il suo governo in quelle parti. Ma gl'invidiosi, gramigna che specialmente alligna in alcune corti, mirando con gelosia il di lui merito, seppero così [201] ben dipingerlo al giovinetto incauto Graziano, come persona pericolosa e capace di far delle novità, che andò in Africa l'ordine di levargli la vita, e questo venne eseguito. Fu di parere Socrate [Socrates, lib. 4 Hist., cap. 15.] che, ad istigazion di Valente Augusto, per cagione del nome di Teodosio da lui odiato, siccome dicemmo di sopra, a questo bravo generale fossero abbreviati i giorni del vivere. Valente non comandava nell'Africa, e pare che neppur passasse grande armonia fra lui e il nipote Graziano, oltre all'osservarsi già scorsi due anni dopo la di sopra accennata congiura di Teodoro. Comunque sia, dappoichè il giovane Teodosio suo figlio arrivò ad essere imperadore, il senato romano onorò con delle statue la memoria di esso suo padre, il quale, giacchè ricevette il battesimo prima di morire per ottener la remission dei peccati, è da credere che più gloriosamente fosse coronato in cielo. La di lui disgrazia intanto si tirò dietro quella del suddetto Teodosio suo figliuolo, il quale fu obbligato a dimettere il governo della Mesia, di cui era duca, e a ritirarsi in Ispagna patria sua. Nulladimeno non andò molto che Graziano, aperti gli occhi, e pentito, il richiamò per alzarlo all'imperio.
Probabilmente fu in quest'anno che Valente Augusto, seguitando a dimorare in Antiochia (non si sa per qual motivo), inviò il filosofo Temistio [Themist., Orat. XIII.] a Graziano suo nipote, abitante allora in Treveri nelle Gallie. Passò questo pagano filosofo per Roma, dove nel senato stesso egli pronunciò un'orazione sua, che contien lodi ancora di esso Graziano, rappresentando la di lui bontà e liberalità, e l'aver egli come annientati gli esattori crudeli delle imposte. Sappiamo infatti da Ausonio [Auson., in Panegyr.] che questo benigno Augusto avea rimesso ai popoli i debiti trascorsi, e fatta abbruciare ogni carta [202] dei medesimi con sua singolar gloria e benedizion della gente. In questi tempi cominciò a farsi nominare la fiera nazion degli Unni, Tartari abitanti verso la palude Meotide, oggidì il mar di Zabacca, che tanti guai, siccome vedremo, recarono di poi alle contrade dell'Europa. Di essi, cioè de' loro barbari costumi e paesi, parlano a lungo Ammiano [Ammian., lib. 31, cap. 2.], Giordano [Jordan., de Reb. Get., cap. 37.] ed altri antichi scrittori [Zosimus, lib. 4, cap. 20. Sozomenus, Agathius el alii.]. Costoro, invogliati di miglior abitazione, mossero prima la guerra agli Alani, abitanti lungo il fiume Tanai, e li soggiogarono. Poscia rivolsero le armi contra degli Ostrogoti con tal felicità, che Ermenirico re di essi Goti, e poscia il di lui successore vi perderono la vita. Il terrore di gente sì inumana, che non dava quartiere ad alcuno, si sparse per tutti que' paesi, e cagion fu che quanti Goti poterono salvarsi, non men Visigoti che Ostrogoti, crederono meglio di abbandonar le loro terre, e di ritirarsi buona parte di essi verso quelle dell'imperio romano; e non avendo potuto fermarsi nella Podolia, s'inoltrarono sino alla Moldavia. Di là spedirono deputati a Valente Augusto, pregandolo di volerli ricevere ne' suoi Stati, promettendo di servir nelle armate romane, e di vivere da fedeli suoi sudditi. Ulfila, vescovo loro, ch'era, o pur divenne poscia ariano, come vuol Sozomeno [Sozom., lib. 6 Histor., cap. 37.], fu il capo dell'ambasceria. Questi insegnò poi le lettere ai Goti, tradusse in lingua loro le divine Scritture, e trasse alla religion cristiana quei che fin qui aveano professata l'idolatria. Gran dibattimento fu nel consiglio di Valente, se si doveva ammettere o no questa foresteria negli Stati dell'imperio [Eunap., de Legat. Tom. I Histor. Byzant.]. Prese l'affermativa, parte perchè si figurò Valente di superiorizzare colle lor forze i suoi nipoti, e parte [203] perchè parve gran vantaggio il poter con questi Barbari provveder di reclute le armate romane; e forse non era male, purchè fossero state ben eseguite le precauzioni prese per dare loro ricetto. Cioè che si facessero prima passar di qua dal Danubio i lor figliuoli, i quali si trasportassero in Asia per servire di ostaggi della fedeltà de' padri; che ognun di essi Goti prima di passare avesse da consegnar l'armi in mano degli uffiziali romani. Quest'ultimo ordine fu per disattenzione ed iniquità di essi uffiziali malamente eseguito. Credesi che ne passassero in questi tempi circa ducento mila colle lor mogli e figliuoli [Idacius, in Fastis.], e questi si sparsero per la Tracia e lungo il Danubio. Altre nazioni gotiche [Zosim., lib. 4, cap. 20. Orosius. Hieronymus, in Chronic.], le quali restavano di là da quel fiume, veduto sì buon accoglimento fatto da Valente ai lor nazionali, spedirono anche esse per ottener la medesima grazia, ma n'ebbero la negativa, perchè troppo pericoloso si conobbe l'ammetterne di più. Tuttavia questo esempio produsse delle brutte conseguenze, perchè innumerabili altri Goti da lì a qualche tempo anch'essi passarono di qua dal Danubio al dispetto de' Romani, e con esso loro si unirono anche i Taifali, popolo infame per le sue impurità, di modo che si vide inondata in breve la Tracia colle vicine provincie da un'immensa folla di Barbari, amici di quattro giorni, e poi nemici perpetui, e distruggitori del romano imperio. Cominceremo a chiarircene nell'anno seguente.
Anno di | Cristo CCCLXXVII. Indizione V. |
Damaso papa 12. | |
Valente imperadore 14. | |
Graziano imperadore 11. | |
Valentiniano II imperad. 3. |
Consoli
Flavio Graziano Augusto per la quarta volta e Merobaude.
Per qualche tempo dell'anno presente continuò ad essere prefetto di Roma Gracco [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], ed ebbe poi per successore Probiano. Abbiamo veduto di sopra come una prodigiosa quantità di Goti avea ottenuta per sua stanza la Tracia e il lungo del Danubio. Necessaria cosa sarebbe anche stata che si fosse provveduto al loro bisogno di abitazione e di vitto [Ammianus, lib. 31, cap. 4.]. Mancò tal provvisione per la colpa di Lupicino conte della Tracia e di Massimo duca di quelle parti, i quali facevano mercatanzia di quella povera gente, obbligandola a comperar caro i viveri, e a vendersi schiavi per ottener del pane. Ecco dunque condotti alla disperazione i Goti [Hieronymus, in Chronic.], i quali, altro ripiego non conoscendo alla fame che di ricorrere all'armi, cominciarono a poco a poco ad ammutinarsi. Accortosene Lupicino, ritirò dalle ripe del Danubio le guarnigioni per costringerli colla forza a passar più oltre nel paese. Arrivò con essi a Marcianopoli nella Mesia, e quivi invitò seco a pranzo Fritigerno ed Alavivo capi dei medesimi, ma senza voler che alcun altro de' Goti entrasse nella città; e perchè alcuni v'entrarono, li fece uccidere. I Goti, anch'essi infuriati per questo, ammazzarono alquanti soldati romani. Fritigerno ebbe l'accortezza di salvarsi, col fingere di portarsi a pacificare i suoi. Si venne per questo alle mani fra i Goti e i Romani fuori di Marcianopoli, e gli ultimi ebbero una gran rotta. I Goti allora colle armi dei vinti [205] molto più vennero a farsi forti. In questo tempo una infinità d'altri Goti, ch'erano di là dal Danubio, senza aver potuto ottener la licenza di passar nel paese romano, trovate sguernite le rive del fiume, e però niun ostacolo ai loro passi, se ne vennero di qua, e andarono poscia ad unirsi con Fritigerno. Altri Goti che stanziavano in Andrinopoli fecero lo stesso, e con loro eziandio si unirono assaissimi altri Goti che erano schiavi; sicchè, divenuta formidabile l'armata de' medesimi, si mise a dare il sacco alla Tracia, e si vide infine a crescere ogni dì più il loro numero colla giunta di moltissimi Romani ridotti alla disperazione per la gravezza delle imposte. Dimorava tuttavia in Antiochia Valente Augusto, e ricevute queste amare nuove, e premendogli più i serpenti che egli s'era tirati in seno, che ogni altro affare, spedì Vittore suo generale al re di Persia Sapore, per conchiudere seco la pace. Fu essa in fatti conchiusa: non ne sappiam le condizioni; si può ben credere che furono svantaggiose per chi dovette comperarla.
Intanto Valente premurose lettere inviò al nipote Graziano Augusto, pregandolo di soccorso in così scabrosa congiuntura. Non mancò Graziano [Ammian., lib. 31, cap. 7.] di mettere in viaggio un buon corpo di gente sotto il comando di Ricomere capitan delle guardie, e di Frigerido duca. Ma per la strada molti di queste brigate desertando se ne tornarono alle lor case, e fu creduto per ordine segreto di Merobaude generale di esso Graziano, per paura che, sprovvedute le Gallie dell'occorrente milizia, i Germani, passato il Reno facessero qualche irruzione. Frigerido anch'egli, preso da vera o da falsa malattia, si fermò per istrada. Il solo Ricomere, colle truppe che gli restavano, arrivò ad unirsi con Profuturo e Traiano, generali spediti da Valente con alcune legioni nella Tracia per accudire ai bisogni. [206] Tenuto consiglio di guerra, determinaro questi uffiziali di andar osservando e stringendo i Goti, per dar loro alla coda, qualora andassero mutando il campo. Ma i Goti non erano di parere di lasciarsi divorare a poco a poco; e però, spediti qua e là avvisi ai loro nazionali, che tutti corsero ad attrupparsi e formarono un'armata prodigiosa, di lunga mano superiore alla romana, altra risoluzione non vollero prendere, che quella di una giornata campale. A questa in fatti si venne un dì nel luogo detto ai Salici fra Tomi e Salmuride nella picciola Tartaria. Durò la fiera battaglia dal mattino sino alla sera, senza dichiararsi la vittoria per alcuna delle parti; ma perchè i Romani erano troppo inferiori di numero ai Barbari, ogni lor perdita fu più sensibile che quella de' nemici. San Girolamo [Hieron., in Chron.] all'anno seguente, ed Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 33.], con iscrivere che i Romani rimasero sconfitti dai Goti, forse vollero indicare questo sanguinoso fatto d'armi. Non istimarono bene i generali romani di tentare ulteriormente la fortuna, e giacchè si avvicinava il verno, si ritirarono a' quartieri in Marcianopoli. Ingrossati poscia i Goti coll'arrivo di molti Unni ed Alani, corsi anch'essi all'odore della preda, non si potè più loro impedire che non facessero continue scorrerie e saccheggi per la Tracia. Osò Farnobio, uno de' lor capi, con gran seguito di Taifali di tener dietro a Frigerido generale di Graziano; ma questi camminando con gran circospenzione, allorchè se la vide bella, verso Berea gli assalì, e gli sconfisse colla morte dello stesso Farnobio. Non ne restava un di costoro vivo, se non avessero implorato il perdono, e si fossero renduti prigioneri. Frigerido mandò poi costoro in Italia a coltivar le terre poste fra Modena, Reggio e Parma. Con queste calamità ebbe fine l'anno presente.
Anno di | Cristo CCCLXXVIII. Indiz. VI. |
Damaso papa 13. | |
Graziano imperadore 12. | |
Valentiniano II imperad. 4. |
Consoli
Flavio Valente Augusto per la sesta volta e Flavio Valentiniano juniore Augusto per la seconda.
Giacchè niuna memoria ci resta di chi esercitasse nell'anno presente la prefettura di Roma, sia a noi lecito il conghietturare che in essa continuasse Probiano. Le leggi del Codice teodosiano [Gothofred., in Chronolog. Cod. Theodos.] ci fan conoscere Graziano Augusto tuttavia dimorante in Treveri nel dì 22 d'aprile di quest'anno. Poco però dovette stare a mettersi in marcia colle sue milizie per soccorrere Valente Augusto suo zio, addosso al quale facevano allora da padroni i Goti. Avvisati preventivamente gli Alamanni cognominati Lenziani [Ammian., lib. 31, cap. 10.], abitanti presso le Rezie, da un lor nazionale, militante nelle guardie di esso Augusto, della spedizion che si preparava verso l'Illirico, rotta la pace, neppur aspettarono la divisata partenza delle milizie romane, per far un'irruzione di qua dal Reno. Ciò fu loro ben facile nel mese di febbraio, per aver trovato il ponte formato dai ghiacci di quel fiume. Ma furono respinti dalle guarnigioni poste in que' siti. Avviatesi poi le soldatesche di Graziano alla volta del Levante, ecco di nuovo con forze di lunga mano maggiori comparir gli stessi Alamanni di qua dal Reno, e mettersi a saccheggiar le terre romane con terrore di tutto quel paese. Fece Graziano allora retrocedere dall'impreso viaggio le sue milizie, ed unitele colle altre rimaste nelle Gallie, spedì contro dei nemici quell'armata sotto il comando di Nannieno prudente suo generale, e di Mellobaude re o sia principe [208] valoroso de' Franchi, il quale non isdegnava di servire allora nella corte cesarea in grado di capitan delle guardie, nè altro sospirava che di venire ad un fatto d'armi. Vi si venne infatti, essendosi affrontati i due nemici eserciti ad Argentaria, creduta oggidì la città di Colmar nell'Alsazia. Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 33.] pretende (e par seco d'accordo Ammiano) che lo stesso Graziano v'intervenisse in persona, confidato nella potenza di Gesù Cristo, siccome buon principe cattolico ch'egli era. Sulle prime i Romani piegarono, sopraffatti dall'esorbitante numero de' nemici; ma poi, ripigliato coraggio, talmente menarono le mani, che gli Alamanni andarono in rotta, restandone trenta mila morti sul campo, se s'ha da credere alla Cronica di san Girolamo [Hieronymus, in Chronic.], a Cassiodoro [Cassiodorus, in Fast.] suo copiatore e al giovine Vittore [Aurelius Vict., in Epitome.]. Ma l'ordinario costume degli storici e de' vincitori si è di accrescere il pregio delle vittorie. Ammiano solamente scrive essersi creduto che non più di cinque mila di coloro si salvassero colla fuga, e che vi restò morto lo stesso Priario re di quella gente. Non bastò a Graziano questo felice successo; ma, passato all'improvviso il Reno colla sua armata, entrò nel paese nemico con intenzione di distruggere un popolo che non sapea mantener la fede, ed inquietava sì sovente il territorio romano. Altro scampo non trovarono quegli abitanti, che di ritirarsi ai siti più rapidi e scoscesi delle loro montagne colle proprie famiglie. Furono anche ivi perseguitati e bloccati, tanto che si trovarono costretti ad arrendersi ed arrolarsi ne' reggimenti romani, col non aver più osato que' Barbari durante l'assenza di Graziano di far alcun altro moto o tentativo. Io so che san Girolamo, a cui tenne dietro Cassiodoro, mettono questo fatto all'anno precedente, seguitati in ciò [209] dal Gotofredo [Gothofred., in Chronolog. Cod. Theod.], e dal Pagi [Pagius, Crit. Baron.]. Ma chi ben riflette a quanto di tali battaglie e vittorie narra Ammiano, e massimamente al vedere ch'esse accaddero poco prima che Graziano s'inviasse verso l'Illirico (il che egli eseguì nell'anno presente) troverà più fondati i conti dell'Hermant [Hermant, Vie de Saint Basil.] e del Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], che ne parlano sotto quest'anno. Fa qui Ammiano [Ammian., lib. 31, cap. 10.], benchè scrittor gentile, un elogio di Graziano con dire che sembra incredibile la prestezza con cui egli, assistito da Dio, fece questa impresa, giovine di primo pelo, di indole buona, eloquente, moderato, bellicoso e clemente; e che avrebbe potuto pareggiar la gloria dei più rinomati Augusti, se non avesse trascurato, come anche attesta Vittore [Aurelius Victor, in Epit.], il pubblico governo, perdendosi ne' serragli a tirar di arco alle bestie e che questo era il suo più favorito sollazzo. Continuò poscia Graziano il suo viaggio coll'esercito alla volta della Pannonia, per soccorrere Valente, a cui già aveva inviato Sebastiano conte per comandare la fanteria. Avendo egli tolto a Frigerido il comando dell'armi dell'Illirico per darlo a Mauro conte, creduto più animoso, se n'ebbe poscia a pentire, perchè costui in una battaglia coi Goti, data al passo de' Suchi, n'ebbe la peggio. Arrivò Graziano a Sirmio, e di là passato sino al luogo appellato Castra Martis, spedì Riomere suo generale all'Augusto zio, per avvisarlo del suo arrivo e pregarlo che lo aspettasse.
Quanto ad esso Valente, stette egli fermo in Antiochia ne' primi mesi dell'anno corrente, attendendo la primavera per muoversi, ancorchè gli venissero frequenti corrieri con avviso che i Goti desolavano tutta la Tracia [Zosimus, lib. 4, cap. 21.] e scorrevano sino alla Macedonia e Tessaglia, con essere giunte alcune loro masnade [210] infin sotto Costantinopoli, ed averne saccheggiati i borghi. Dopo aver egli spedita innanzi la cavalleria de' Saraceni, che bravamente fece sloggiare i nemici dai contorni di quella regale città [Eunap., de Legat.], anch'egli arrivò là nel dì 30 di maggio dell'anno presente [Idacius, in Fastis.]. Fu mal veduto dal popolo [Socrat., lib. 4, cap. 31.], che alla sua soverchia tardanza attribuiva i tanti danni e mali inferiti dai Barbari a quella provincia. Giunsero que' cittadini ne' giuochi del circo con una specie di ammutinamento a chiedergli delle armi, con esibirsi di andar eglino a combattere co' nemici. Se l'ebbe forte a male Valente. Levato il comando della fanteria a Trajano conte cattolico, lo diede al poco fa memorato conte Sebastiano, disponendo tutto la giustizia di Dio per punire il principe ariano e questo generale manicheo, amendue stati finora fieri persecutori di chi professava il cattolicismo. Per consiglio appunto di esso Sebastiano venne Valente dipoi all'infelice battaglia, di cui ragioneremo fra poco; e ciò contro il parere di Vittore generale cattolico, e di Arinteo altro suo generale. Poco si fermò Valente in Costantinopoli, e ne uscì nel dì 11 di giugno, minacciando fiera vendetta, se poteva ritornare, delle ingiurie che quel popolo gli avea dette o fatte in questa e in altre occasioni. Nel passare davanti alla cella di un santo romito, appellato Isacco [Sozom., lib. 4. cap. 40. Theodoret., lib. 4, c. 41. Theophan., Chronogr. Zonar., in Annalib.], questi il fermò con predirgli un funesto successo nella guerra contra de' Barbari, dacchè egli era in disgrazia di Dio, ai cui servi aveva fatta tanta guerra finora. Valente il fece imprigionare ordinando che fosse ben custodito sino al suo ritorno. Passò dipoi a Melantiade, luogo distante da Costantinopoli circa venti miglia, e di là inviò Sebastiano conte con un corpo scelto di gente a dar la caccia a' Goti. Riuscì infatti [211] a questo generale di sconfiggere alcune loro brigate, e di torre ad essi un grandissimo bottino; e, se crediamo a Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 23.], il suo parere fu di risparmiar la battaglia, e di andar pizzicando i Barbari in quella forma. Non volle ascoltarlo Valente, infatuato della speranza di una vittoria che non potea mancare alla bravura del poderoso suo esercito, e con tal idea passò ad Andrinopoli, dove arrivò anche Ricomere coll'ambasciata di Graziano. Era di sentimento il general Vittore, che si aspettasse la unione dell'Augusto nipote: lo desiderava anche Valente; ma gli adulatori, e fra gli altri lo stesso Sebastiano, mutate già le sue massime, sostennero non doversi permettere che Graziano entrasse a parte della vittoria. In somma fu risoluta la battaglia, e, benchè giugnesse una deputazion di Fritigerno, di cui era capo un prete ariano, per proporre qualche convenzione ed accordo, si rimandò senza farne caso.
Era il dì 9 d'agosto, giorno in cui Valente credendo di raccogliere una gloriosa vittoria, da' suoi peccati fu condotto alla perdizione. Avendo egli lasciato il bagaglio dell'armata presso di Andrinopoli con buona scorta [Idacius, in Fastis. Socrates, lib. 4, cap. 28. Ammianus, lib. 31, cap. 12.], e mandato il tesoro nella città, sul far del giorno s'inviò in traccia de' nemici. Dopo otto o pur dodici miglia di cammino, sul bollente mezzogiorno arrivò l'imperiale armata a scoprire il campo de' Barbari, cinto all'intorno dal numeroso loro carriaggio; e si diedero i capitani a formar le schiere. Lo astuto Fritigerno volendo guadagnar tempo, perchè Alateo e Safrace suoi capitani con un buon corpo di gente, che si aspettava, non eran giunti peranche, spedì ambasciatori a Valente per pregarlo di pace. La risposta fu, che se Fritigerno mandasse per ostaggi dei principali della sua nazione, si darebbe orecchio. Innanzi e indietro [212] andarono le parole, e intanto l'esercito romano in armi pel caldo e per la sete languiva. Mandò Fritigerno a dire che in persona sarebbe egli venuto a trattare, purchè se gli dessero de' buoni ostaggi. Ricomere spontaneamente si esibì di andarvi, e in fatti era già incamminato verso il campo nemico, quando Bacuro, capitano degli arcieri, senza aspettar gli ordini de' comandanti, attaccò la mischia; e poco stettero ad essere alle mani tutte le due armate. Terribile e sanguinoso fu il conflitto, di cui si legge la descrizione in Ammiano [Ammian., lib. 31, cap. 13. Socrates, lib. 4, cap. 36. Sozom., lib. 6, cap. 40. Liban., in Vita sua.]. A me basterà di dire che o venisse il difetto dal poco buon ordine de' Romani, come vuol taluno, trovandosi la cavalleria troppo lontana, o pure dal non aver essa cavalleria fatto il suo dovere con sostener la fanteria: certo è che l'armata romana restò intieramente sconfitta con sì fatta perdita, che almeno due terzi di essa vi perirono; e, dopo la battaglia di Canne, altra simil perdita non avea mai sofferto l'imperio romano. Fra gli altri primi offiziali che vi lasciarono la vita, si contarono Trajano, Sebastiano conte, Valeriano contestabile, Equizio mastro del palazzo, e trentacinque tribuni. Ma ciò che maggiormente rendè memorabile così funesta giornata fu l'infelice morte del medesimo imperadore Valente, che in due maniere vien raccontata. Vogliono alcuni [Hieron., in Chron. Victor, in Epit. Ammian., l. 31, c. 14.] che malamente ferito restasse morto nel campo della battaglia, e che spogliato poi dai Barbari senza conoscere il corpo suo, e confuso con gli altri, non se ne avesse più contezza. Gli altri (e questi sono i più) tengono [Rufinus, Zosimus, Orosius, Socrates, Sozomen. et alii.] ch'egli ferito cercò di salvarsi, ma non potendo reggersi a cavallo, e sorpreso anche dalla notte, si rifugiò in una casa contadinesca, alla quale sopraggiunti i Barbari attaccarono il fuoco, ed egli con gli altri del suo seguito [213] restò quivi bruciato. Un solo giovane, che ebbe la sorte di salvarsi con uscire per una finestra, per quanto portò la fama, questi fu che raccontò poi questo lagrimevol esempio della vanità delle umane grandezze; e quella certo di Valente Augusto con un soffio venne meno, con restar egli privo anche dell'onore della sepoltura. La morte sua, succeduta nell'anno cinquantesimo della sua età, fu dipoi dai cattolici riguardata come un giusto castigo della mano di Dio per le persecuzioni da lui fatte al cattolicismo affin di promuovere l'arianesimo; e gli stessi pagani, ancorchè non molestati per le loro superstizioni, non che i cristiani, la tennero per un pagamento da lui meritato per le tante crudeltà commesse. Ammiano [Ammian., lib. 31, cap. 1.], raccontando vari presagi della rovina di Valente, confessa avere avuto in uso il popolo d'Antiochia di dire: Che sia bruciato vivo Valente. Vien poi il medesimo storico rammentando tanto il buono che il cattivo di questo imperadore. Soprattutto fra i suoi pregi conta il non aver egli mai accresciuto le gabelle e gli aggravii del pubblico, ed essere stato rigoroso esattor della giustizia; nemico de' ladri e dei giudici che si lasciavano sovvertir dai doni: liberale e splendido per le fabbriche da lui fatte in varie città. Altre sue lodi si truovano in una orazion di Temistio [Themist., Or. XI.]. Ma, voltando carta, Ammiano sembra distruggere quanto ha detto di buono, con rappresentar Valente insaziabile nel radunar danaro; solito a deputar giudici onorati per le cause criminali, ma con volerne poi riserbate le decisioni all'arbitrio suo; selvatico, collerico e troppo inclinato a spargere il sangue de' sudditi col familiar suo pretesto di essere offesa o sprezzata la principesca sua maestà. Di più non ne dico, bastando sapere che non fu punto compianta la morte di lui: il che suol essere la pietra del paragone del merito o demerito dei regnanti.
[214] Terminata la sanguinosa battaglia coll'eccidio de' Romani, nel dì seguente i vittoriosi Goti, ben informati che in Andrinopoli erano ricoverati i tesori e i principali uffiziali della corte, volarono ad assediar quella città [Ammian., lib. 3, cap. 15. Socrat., l. 4, cap. 1.]. Ma, privi affatto di attrezzi militari, e non pratici della maniera di formar assedii, diedero ben dei feroci assalti, ma con loro gran perdita furono respinti, in guisa tale, che scorgendo l'impossibilità di quell'impresa, se ne partirono. Andarono poscia a mettere il campo in vicinanza della città di Perinto, ma senza osare di assalir quella città, intenti unicamente al saccheggio di quel fertile paese, con ammazzare o fare schiavi quanti infelici contadini cadevano nelle loro mani [Idacius, in Fastis.]. Di là facevano varie scorrerie sino a Costantinopoli; ma dalla cavalleria de' Saraceni, che era alla guardia di quella città, riportarono varie percosse; e però giudicarono meglio di spendere altrove il tempo e i passi. Diedersi dunque pel restante di quest'anno a scorrere e saccheggiare per la Tracia, Mesia e Tartaria minore senza trovare in luogo alcuno opposizione. Troppo erano sbigottiti, troppo avviliti i Romani. Ebbe perciò a dire uno dei principali Goti [Chrysost., ad Viduam.], che si maravigliava molto dell'imprudenza di essi Romani, perchè non solamente negavano di ceder loro quelle provincie, ma speravano ancora di vincere, quando poi si lasciavano scannare come tante pecore; e che quanto a lui era già stanco per non aver fatto altro che ucciderne. Parimente Eunapio [Eunap., de Legat.] attesta che in quei tempi, siccome i Goti tremavano all'udire il nome degli Unni, altrettanto facevano i Romani udendo il nome dei Goti: a tale stato avea la empietà e la imprudenza di Valente e dei suoi cattivi ministri ridotto il romano imperio in quelle parti. Nè già si fermò nella Tracia e nei [215] vicini paesi la rabbia ed avidità di quei Barbari; passò nell'Illirico stendendo coloro i saccheggi sino ai confini dell'Italia. Di questa favorevol congiuntura si prevalsero anche gli Alani i Quadi e Sarmati per venire di qua dal Danubio, e devastar quanto paese poterono: il flagello di tanti Barbari durò poi più anni coll'esterminio delle misere provincie romane. S. Girolamo [Hieron., in Epitaph. Nepotian., ad Heliod.] circa l'anno di Cristo 396 fece un lagrimevol ritratto di tante disavventure, con dire che correano già venti anni, dacchè i Goti, Sarmati, Quadi, Alani, Unni, Vandali e Marcomanni continuavano a saccheggiare e guastare la Scizia romana, la Tracia, la Macedonia, la Dardania, la Dacia, la Tessalia, l'Acaia, i due Epiri, la Dalmazia, e le due Pannonie. Si vedevano uccisi o condotti in ischiavitù fino i vescovi, non che gli altri del popolo; svergognate le nobili matrone e le sacre vergini, uccisi i preti e gli altri ministri dei santi altari; smantellate o divenute stalle di cavalli le chiese, e conculcate le sacre reliquie. In una parola, tutto era pieno di gemiti e grida, ed altro dappertutto non si vedeva se non un orrido aspetto di morte, andando in rovina l'imperio romano, ancorchè neppure per tante percosse della mano di Dio la superbia degli uomini si potesse piegare. Altrove attesta il medesimo santo [Idem, in Sophon., cap. 1.], che l'Illirico composto di varie provincie, la Tracia e la Dalmazia sua patria, erano restate paesi incolti, senza abitatori, senza bestie, e divenuti boschi e spinai. Altrettanto va deplorando i mali di allora s. Gregorio Nazianzeno [Gregorius Nazianzen., Orat. XIV.]. Era in pericolo di partecipar di somiglianti sciagure anche l'Asia [Ammianus, lib. 31, cap. 16. Zosimus, l. 4, c. 26.], dove si trovava dianzi gran copia di Goti, i quali, all'udire i fortunati avvenimenti dei lor nazionali in Europa, già cominciavano a macchinar sedizioni [216] nelle città d'Oriente. Ma, accortosene Giulio generale dell'armi in quelle parti, seppe così accortamente dar gli ordini opportuni a diverse di quelle città, che un determinato giorno li fece tutti tagliare a pezzi. Con questo racconto termina Ammiano Marcellino la sua storia, siccome ancora s. Girolamo la sua cronica, continuata dipoi da Prospero Aquitano.
Scappato per sua buona ventura dall'infausta battaglia di Andrinopoli Vittore generale di Valente, con quella poca cavalleria che restò illesa, traversò la Macedonia, ed arrivò a trovar Graziano Augusto, il quale, udite le triste nuove della suddetta battaglia e della morte dell'Augusto suo zio, se n'era tornato a Sirmio. Perchè ci abbandona qui Ammiano, cominciamo a penuriar di notizie, e niun preciso lume abbiamo di quello che operasse di poi esso Augusto. V'ha chi pretende [Pagius, Crit. Baron.] ch'egli tosto passasse a Costantinopoli, per prendere il possesso degli stati che in Oriente godeva l'estinto Valente; ma di ciò niun vestigio s'incontra altrove, e noi il troveremo anche nel gennaio del seguente anno in Sirmio [Gothofr.]. Quel che è certo, giacchè Valente non lasciò dopo di sè alcun figlio maschio, ma solamente due figliuole, appellate Carosa ed Anastasia, Graziano pacificamente venne riconosciuto per lor sovrano dalle provincie orientali, e massimamente dal popolo di Costantinopoli. Ma ritrovando egli sì sconvolti gli affari della Tracia e dell'Illirico a cagion del diluvio di tanti Barbari, e Barbari insuperbiti per la riportata gran vittoria, allora fu che richiamò alla corte Teodosio il giovane, il quale, dopo la morte indebitamente data a Teodosio suo padre governatore dell'Africa, si era ritirato ad una vita privata ed occulta nella Spagna sua patria. Conosceva Graziano il valore, la prudenza e le altre virtù di questo uffiziale, e che potea promettersi un buon servigio [217] da lui in sì scabrose contingenze, e però venuto ch'egli fu, gli diede il comando di una parte della sua armata. Se si ha da credere a Teodoreto [Theodor., lib. 5, cap. 5.] non perdè punto di tempo il generale Teodosio a marciare contra dei Barbari, cioè, per quanto pare, dei Sarmati, e diede loro una considerabile rotta, obbligando quei che sopravanzarono al filo delle spade [Pacatus, in Panegyr.] a salvarsi di là dal Danubio. Ne portò egli la nuova a Graziano, il quale a tutta prima durò fatica a crederla, finchè gli fu confermata da più persone la verità di quel fatto. Gran merito si fece presso di lui Teodosio con questa prima azione.
Anno di | Cristo CCCLXXIX. Indizione VII. |
Damaso papa 14. | |
Graziano imperadore 13 | |
Valentiniano II imperad. 5. | |
Teodosio imperadore 1. |
Consoli
Decimo Magno Ausonio e Quinto Clodio Ermogeniano Olibrio.
Ausonio, primo di questi due consoli, celebre scrittore dei presenti tempi, quel medesimo è che, nato nelle Gallie in Bordeaux di mediocre famiglia, avea avuto l'onore di essere maestro di Graziano Augusto. La gratitudine di questo principe, arrivato che fu al governo degli stati, non si restrinse solamente a farlo prefetto del pretorio delle Gallie; il volle anche rimunerare colla più cospicua dignità dell'imperio, creandolo console nell'anno presente. Si disputa tuttavia, se egli fosse cristiano o pagano [Scalig. Cave, Tillemont et alii.]. Alcuni suoi versi (se pure sono tutti di lui) cel rappresentano professore della fede di Cristo; il complesso nondimeno di tanti altri suoi versi pieni di paganesimo, e di sordide impurità, porge sospetto giusto ch'egli fosse un gentile. Certamente s'egli fu cristiano, dovette esser tale più di [218] nome che di fatti: tanto que' suoi poemi svergognano la professione di sì santa religione. L'altro console, cioè Olibrio, quello stesso è che abbiam veduto in addietro prefetto di Roma. Nell'anno presente, se non son fallati i testi del Codice Teodosiano [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.], essa prefettura fu appoggiata ad Ipazio. Passò l'Augusto Graziano il verno in Sirmio, e quivi riflettendo al miserabil sistema dei tempi correnti per la inondazione di tante nazioni barbariche nell'Illirico e nella Tracia, con essere nello stesso tempo minacciate anche le Gallie dagli Svevi ed Alamanni; conoscendo inoltre che non era possibile a lui solo il sostenere in tali circostanze il peso dell'occidentale e insieme dell'orientale imperio, trovandosi il fratello Valentiniano in età puerile, e che bisogno ci era di un braccio forte per rimediare ai presenti disordini e ai maggiori pericoli dell'avvenire, determinò di scegliere un collega nell'imperio [Themistius, Orat. XIV.]. Si fermarono i suoi sguardi e riflessi (giacchè trovar non dovette alcuno dei suoi parenti atto a sì gran soma) sopra Teodosio il giovane, da lui poco fa alzato al grado di generale, personaggio che negli anni addietro, ed ultimamente ancora, si era segnalato in varie imprese militari. Però chiamatolo a Sirmio nel dì 19 (Socrate scrive nel dì 16) di gennaio dell'anno presente, ancorchè trovasse in lui della ripugnanza non finta, il dichiarò imperadore Augusto [Pacatus, in Panegyr. Idacius, in Chronic. Zos. lib. 4, cap. 24. Chronicon Alexandrin. Prosper., in Chronic.], con approvazione e plauso di chiunque non penuriava di giudizio. Era Teodosio nato in Ispagna in Cauca città della Galizia, e non già in Italica patria di Traiano, come scrisse Marcellino conte; e quantunque non manchino scrittori che il fanno discendente da esso Traiano [Socrates, Hist. Eccl. Victor, in Epitome. Claudian. et alii.], pure gran pericolo vi ha che figlia dell'adulazione fosse la voce di [219] una tal parentela. Certo è bensì che nei pregi egli somigliò non poco a quel rinomato Augusto, e non già ne' vizii. Ebbe per padre, siccome dicemmo, quel Teodosio conte, valoroso generale, che per ordine dello sconsigliato Graziano Augusto fu ucciso in Africa. Onorio vien malamente appellato suo padre da Vittore [Victor, in Epitome.], il quale dà il nome di Termanzia alla di lui madre. Intorno a vari suoi fratelli e parenti hanno disputato gli eruditi [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], ma io non vo' fermare i lettori in sì spinose ricerche. Credesi che Teodosio, allorchè fu alzato al trono, si trovasse nel più bel fiore della sua età, cioè di circa trentatrè anni. Aveva per moglie Elia Flacilla, nominata per lo più dagli scrittori greci [Du-Cange, Hist. Byzant.] Placilla, ed anche Placidia, da alcuni creduta figliuola di quell'Antonio che vedremo console nell'anno 382. Delle rare qualità e virtù di questo novello Augusto, per le quali si meritò il nome di grande, ragioneremo altrove. Per ora basterà il dire ch'egli aveva ereditato dai suoi maggiori l'amore della religion cristiana, tuttochè per anche non avesse ricevuto il sacro battesimo, secondo l'uso od abuso di molti d'allora; ma che poco tarderemo a vederlo entrato pienamente nella greggia di Cristo, con divenir poi da lì innanzi il più luminoso de' suoi pregi la pietà e l'amor della vera religione.
Fu dunque di nuovo partito il romano imperio. Graziano ritenne per sè l'Italia, l'Africa, la Spagna, la Gallia e la Bretagna. Vuol Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 19.] che esso Graziano assegnasse a Valentiniano II suo fratello minore le due prime provincie coll'Illirico, e taluno pensa ciò fatto nell'anno presente; ma Graziano, attesa la tenera età di esso Valentiniano, almen come tutore, continuò anche da lì innanzi a comandare in tutte le suddette provincie di sua porzione. A Teodosio toccò Costantinopoli colla Tracia, e tutte le [220] Provincie dell'Oriente colle quali solea andar unito l'Egitto: Sozomeno [Sozom., Histor. Eccl., lib. 7, cap. 14.] vi aggiugne anche l'Illirico: per la qual asserzione gli vien data una mentita dal Gotofredo [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], perchè di ciò non parlano gli altri storici; e molto più perchè ci son pruove che Valentiniano iuniore signoreggiò in esso Illirico. Ma il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad ann. 380.] e il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] eruditamente ha dimostrato che l'Illirico fu in questi tempi diviso in occidentale ed orientale. Nel primo si contavano le due Pannonie, i due Norici e la Dalmazia. Nell'altro la Dacia, la Macedonia, i due Epiri, la Tessalia, l'Acaia e l'isola di Creta. Restò in potere di Graziano l'occidentale, e l'altro pervenne a Teodosio. Dopo avere in questa guisa regolati i pubblici affari, Graziano si mise in viaggio per ritornar nelle Gallie. Le leggi [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] del Codice Teodosiano cel fanno vedere in Aquileia sul principio di luglio, sul fine in Milano. Professava questo principe una particolar amicizia e confidenza con sant'Ambrosio arcivescovo dell'ultima città suddetta; e per le istanze di lui questo insigne pastore scrisse i suoi libri della Fede. All'incontro per le premure di sant'Ambrosio si può ben credere che esso Augusto pubblicasse in Milano nel dì 3 di agosto una legge [L. 5, de Haeret. Cod. Theodos.] riguardante gli eretici. Aveva egli nell'anno precedente, mentre dimorava in Sirmio, con suo editto permessa la libertà a tutte le sette degli eretici [Suidas, verbo Gratianus. Socrates, l. 5, cap. 2 et 4. Sozomenus, lib. 7, cap. 1.] a riserva degli Eunomiani, Manichei e Fotiniani, accomodandosi alla necessità de' tempi e per guadagnarsi gli animi degli Orientali, gente avvezza alle novità e alle eresie. Ora colla legge suddetta emanata in Milano egli proibì a tutti gli eretici di predicare i lor falsi dogmi, e di tener delle assemblee, e di [221] ribattezzare: il che massimamente si usava dai Donatisti. Se non prima, certamente dimorando Graziano in Milano, gli dovettero giugnere avvisi che gli Svevi e gli Alamanni faceano de' fieri movimenti, e già erano passati di qua dal Reno ai danni delle Gallie. Prese egli dunque il cammino frettolosamente per la Rezia alla volta di Treveri [Auson., in Panegyr.], dove una sua legge cel rappresenta già arrivato nel dì 14 di settembre. Abbiamo ben da Sozomeno [Sozom., ib., cap. 4.] che l'armi sue ripulsarono i Barbari della Germania, giunto ch'egli fu colà; ma non parlandone Ausonio nel suo panegirico, si può giustamente dubitar di tali imprese. Non può già restar dubbio intorno al tempo in cui esso Ausonio recitò il suo panegirico in rendimento di grazie a questo Augusto pel consolato suo, essendo ciò avvenuto dappoichè lo stesso Graziano si fu restituito a Treveri, e però non nel principio dell'anno presente, ma almen dopo l'agosto, e più probabilmente verso il fin di quest'anno. Nè si dee tralasciare che san Prospero, nella sua cronica [Prosper, in Chron.] intorno a questi tempi comincia a farci udire il nome de' popoli longobardi, conosciuti nondimeno fino ai suoi tempi da Cornelio Tacito; e questi son quegli stessi che due secoli dopo vennero a recar tanti affanni all'Italia. Scrive egli che questa nazione uscita dalle estremità dell'Oceano o della Scandinavia, cercando miglior nido, sotto la condotta di Ibor e Aione lor capi, vennero verso la Germania, e mossa guerra ai Vandali, li vinsero, piantandosi, come si può credere, nel loro paese.
Restò l'Augusto Teodosio, dopo la partenza di Graziano, nell'Illirico, attorniato bensì dagli splendori dell'eccelsa novella sua dignità, ma insieme in una immensa confusione di cose. Piene tutte le contrade dell'Illirico e della Tracia di [222] Barbari [Themist., Orat. XVI. Zosim., lib. 4, cap. 25.] orgogliosi, che in niun luogo trovavano resistenza; i popoli o trucidati, o avviliti dal terrore, o fatti schiavi; egli senza armata valevole a far fronte, e que' pochi combattenti romani che vi restavano chiusi nelle città e castella, senza osar di muovere un passo contra di quella gente fiera e vincitrice. Contuttociò Teodosio animosamente si applicò alla cura di tante piaghe, dichiarando suoi generali Ricomere e Majorano che con fedeltà e bravura secondarono le sue disposizioni. Venuto a Tessalonica ossia a Salonichi, nel giugno di quest'anno quivi ricevette gli omaggi di molte città che gli spedirono i lor deputati. Temistio sofista [Idem, Orat XIV.] specialmente fu uno degl'inviati dal senato e popolo di Costantinopoli, che non dimenticò di procurar privilegi e vantaggi per i senatori di quella regal città. Attese Teodosio in Tessalonica ad unir quanta gente potè atta alle armi, prendendo coloro ancora che lavoravano alle miniere, come avvezzi ad una vita dura e faticosa. Tutti gli addestrò in breve all'arte e disciplina militare, e restituì il coraggio a chi lo avea perduto. Poscia allorchè si vide assai forte, uscì in campagna, e cominciò a dar la caccia alle nazioni barbare. Prosperose furono in più incontri le armi di lui. Idacio [Idacius, in Fastis.] e Prospero [Prosper, in Chronic.] scrivono aver egli riportate molte vittorie de' Goti, Alani ed Unni, e che nel dì 17 di novembre le liete nuove ne furono portate a Costantinopoli [Sozom., lib. 4, cap. 25.]. Non ci resta scrittore che più precisa memoria di que' fatti ci somministri, fuorchè Zosimo [Zosim., ibid.], il quale parla di un solo di essi, molto vantaggioso ai Romani. Modare, nato di regal sangue in Tartaria, essendo passato al servigio de' Romani, tal credito si era acquistato colle sue azioni guerriere, che pervenne al grado di generale. Essendo egli andato un dì colle [223] truppe di suo comando a portarsi sopra una collina, fu avvertito dalle spie che un grossissimo corpo di Barbari era venuto ad accamparsi al piede di quella collina, e che tutti stavano a tavola in gozzoviglia, tracannando i vini rubati. Li lasciò egli ben bene aborracchiare e prendere sonno; ed allora coi suoi quietamente calò, e diede loro addosso. Tutti a man salva gli uccise, e dipoi prese le donne e i fanciulli con quattromila carrette, sulle quali in vece di letto posavano ed erano condotte in volta le loro famiglie. Dalle lettere di san Gregorio Nazianzeno [Gregor. Nazianz., Epist. CXXXV et seq.] par che si possa ricavare che il suddetto general Modare fosse cristiano e cattolico. Tra questi fortunati combattimenti, e l'aver Teodosio tratte alcune altre brigate di que' Barbari a chieder pace e a dargli ostaggi [Sozom., lib. 7, cap. 4.], o pure ad arrolarsi nell'esercito suo (che di questo ripiego si servì egli ancora per maggiormente sminuire il numero de' nemici) cangiarono faccia gli affari, e non passò il presente anno, che la Tracia respirò, e si vide tutta o quasi tutta libera dal peso di que' crudi masnadieri.
Anno di | Cristo CCCLXXX. Indizione VIII. |
Damaso papa 15. | |
Graziano imperadore 14. | |
Valentiniano II, imperad. 6. | |
Teodosio imperadore 2. |
Consoli
Flavio Graziano Augusto per la quinta volta, e Flavio Teodosio Augusto.
Le leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] ci danno prefetto di Roma nell'anno presente Paolino. Che questi non fosse quel Paolino, il quale fu poi vescovo santo di Nola, come si diede a credere il cardinal Baronio, forse sufficientemente l'ho io provato altrove [Anecdot. Latin., Tom. I, Disser. X.]. Passò Graziano Augusto il verno di quest'anno in Treveri, [224] e dopo il dì 13 di febbraio sen venne in Italia, trovandosi egli in Aquileia nel dì 14 di marzo, e in Milano nel dì 24 e 27 d'aprile. Il motivo di questo viaggio abbiamo ragion di credere che fosse la malattia mortale, da cui fu sorpreso Teodosio Augusto, mentre soggiornava in Tessalonica nei primi mesi dell'anno presente, secondochè si ricava da Sozomeno [Sozom., lib. 7, c. 4.], a cui in questo proposito pare dovuta più fede che a Socrate [Socrat., l. 5, cap. 6.], il quale cel rappresenta caduto infermo negli ultimi mesi. Benchè questo buon principe col cuore e colle opere si fosse mostrato fin qui cristiano, pure non avea per anche preso il sacro battesimo. Il pericolo che gli sovrastò per quel malore, servì a lui di stimolo per non differir maggiormente di chiedere, e con ansietà, il lavacro della regenerazione, affin di ottenere il perdono de' suoi peccati. Per buona fortuna di lui e della Chiesa cattolica si trovò vescovo di Tessalonica in questi tempi sant'Ascolio ossia Acolio, prelato di eminenti virtù. Anche per gl'interessi temporali grande obbligo a lui professava la sua città; imperciocchè, per attestato di sant'Ambrosio [Ambr., Epist. XXI et XXII.], nel tempo che tutto l'Illirico era inondato e desolato dai Barbari, egli non solamente preservò Tessalonica dai loro insulti, ma li cacciò ancora dalla Macedonia, non già colla forza delle armi, ma unicamente colle sue preghiere a Dio, da cui inviata la peste nel barbarico esercito, obbligò quella fiera gente a fuggirsene e a liberar il paese. Chiamato da Teodosio il santo vescovo, volle prima esso Augusto saper da lui qual fede egli professasse, e qual fosse la vera in mezzo a tante sette che tutte professavano la legge di Gesù Cristo. Il buon prelato gli disse di seguitar la dottrina insegnata dagli Apostoli, professata dalla Chiesa romana, capo di tutte, e stabilita nel concilio di Nicea, con asserirgli inoltre che [225] tutte le provincie dell'Illirico, anzi dell'intero Occidente, non altra fede tenevano che questa appellata la cattolica; al contrario delle province orientali divise in più sette. Allora il saggio Augusto protestò con allegria di voler dare il suo nome alla Chiesa cattolica; e però secondo i riti e la dottrina della medesima Chiesa ricevette il sacro battesimo, nè tardò a farlo conoscere all'imperio romano. Cioè, come si può conghietturare, ad istanza d'esso sant'Acolio, pubblicò in Tessalonica nel dì 28 di febbraio una celebre legge [L. 1, cunctos Popul. De Fide Catholica, Cod. Theodos.], con cui ordinò che tutti i popoli a lui ubbidienti dovessero seguitar la fede che la Chiesa romana avea ricevuto da san Pietro, ed era insegnata allora da papa Damaso e da Pietro vescovo d'Alessandria, con intimare l'infamia ed altre pene a chi la rigettasse, e con proibir le conventicole di qualsivoglia setta ereticale. Questo nobil editto riguardante nondimeno i soli eretici, e non già i pagani, seguitato poi da altre azioni di questo glorioso e piissimo Augusto, e dalla benedizione di Dio, produsse col tempo mirabili frutti per la pura religione di Cristo, siccome consta dalla storia ecclesiastica.
Ora le nuove della pericolosa malattia di esso Teodosio, la quale probabilmente fu lunga, fecero muovere dalle Gallie l'Augusto Graziano, temendo egli, che se in congiunture di tanto scompiglio fosse mancato di vita il collega, ne avrebbono trionfato i Barbari, e avrebbe potuto insorgere qualche tiranno in Oriente. Perchè dovettero poi di mano in mano venir nuove migliori della di lui salute, perciò si andò egli fermando in Italia; e noi il troviamo anche sul fine di giugno in Aquileja. Buona apparenza ancora c'è ch'egli passasse a Sirmio verso il principio di settembre, per abboccarsi con Teodosio, e conferir seco intorno ai presenti bisogni; perchè nel concilio d'Aquileia, tenuto nell'anno seguente, si legge ch'egli, [226] stando in Sirmio, avea dati gli ordini per quella sacra assemblea. Scrivendo poi san Prospero [Prosper, in Chron.], che mentre Teodosio si trovava infermo in Tessalonica, Graziano giudicò bene di far pace coi Goti; questo, se è vero, ci fan intendere la grave apprensione d'esso Augusto che fosse per mancare quel buon principe: laonde egli cercò di rimediare il meglio che potè alle perniciose conseguenze che per sì gran perdita si poteano temere. Idazio [Idacius, in Fastis.] scrive che Graziano riportò qualche vittoria nell'anno presente, ma senza dire se nell'Illirico, oppure nelle Gallie. Parla ancora d'altre conseguite da Teodosio, e con lui si accordano Marcellino conte [Marcellinus Comes, in Chronico.], Filostorgio [Philostorgius, lib. 9, c. 19.] e il Nazianzeno, ma senza che apparisca circostanza alcuna di sì favorevoli avvenimenti. Per lo contrario Zosimo, scrittore pagano [Zosimus, lib. 4, c. 31.], che per l'odio suo verso di Teodosio distruttore del gentilesimo, si studia di avvelenar, per quanto può, tutte le di lui azioni, racconta, che entrato l'esercito dei Goti nella Macedonia, Teodosio marciò contra di loro con quelle forze che potè adunare. Ma una notte i Goti, segretamente secondati dai lor disertori che si erano arrolati fra i Romani, passato il fiume, penetrarono nel campo dei Cristiani e a dirittura andarono dove era maggior copia di fuochi, immaginando che quivi fosse il quartiere dell'imperadore. Ebbe tempo Teodosio di montar a cavallo e di salvarsi. Fecero i suoi gagliarda resistenza ai Barbari con una strage grande d'essi, ma soperchiati in fine dall'esorbitante numero de' nemici, quivi lasciarono le lor vite. In questa occasione Zosimo fa il pedante addosso a Teodosio, tacciandolo di poca avvertenza per aver ammessi tanti Barbari nelle armate romane, pretendendo che costoro fossero segretamente congiurati per rivoltarsi, [227] allorchè si trovassero assai cresciuti di numero. Vero è che, accortosi Teodosio di questo pericolo, prese lo spediente di inviarne una gran parte di guarnigione in Egitto sotto il comando di Ormisda, che altrove vedemmo figliuolo di un Sapore re di Persia. Ma costoro, non volendo alcun freno di disciplina, viveano a discrezione, prendendo i viveri senza pagare; s'intendevano con gli altri Goti nemici; e colle loro insolenze guastavano tutto l'ordine delle armate romane. Aggiunge finalmente Zosimo, aver Teodosio con gran rigore esatti i pubblici tributi, con ridurre in camicia molti de' suoi sudditi, di maniera che non si udivano che lamenti dappertutto, augurandosi molti d'essere piuttosto sotto i Barbari, che vivere nelle terre romane. Così quel nemico del nome cristiano. Ma può dubitarsi della verità di questi fatti, giacchè il dirsi da lui, che dopo quella notturna vittoria i Barbari divennero padroni della Macedonia e Tessalia, resta smentito dall'autentica testimonianza di sant'Ambrosio [Ambr., Ep. XXII.], che scrive avere il santo vescovo Acolio più volte difeso colle sue preghiere a Dio da coloro la città di Tessalonica. Ed in essa città le leggi del Codice Teodosiano ci assicurano che Teodosio soggiornò per la maggior parte dell'anno presente. Venuto poi il novembre, egli passò a Costantinopoli, dove dice Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 33.] per irrisione, ch'egli entrò come trionfante, quasi che avesse riportato delle vittorie e non delle busse; e che poi si diede alle delizie. Opponsi alle dicerie di costui il giovine Aurelio Vittore [Aurel. Victor, in Epitome.], il qual si crede vivuto in questi medesimi tempi, scrivendo egli tutto il contrario. L'elogio ch'ei fa di Teodosio, lo vedremo a suo tempo. E già abbiam detto che altri storici attribuiscono a Teodosio delle vittorie in questo medesimo anno.
Entrò il buon imperadore in Costantinopoli [228] nel dì 24 di novembre (dovendosi leggere così nel testo d'Idazio [Idacius, in Fastis.]), dove fu ricevuto con gran festa. Una delle sue prime gloriose azioni fu di levar tutte le chiese agli Ariani, e di consegnarle a san Gregorio Nazianzeno [Gregorius Nazianz., Carm. 1. Marcellin., in Chronico.], che governava allora il corpo dei cattolici di quella metropoli, finchè fosse eletto un vescovo della vera credenza. Lo stesso Augusto in persona gli diede il possesso di quella cattedrale, occupata per quarant'anni dalla setta ariana; e ciò seguì senza tumulto alcuno, e con gran gioia di tutti i cattolici. Varie leggi pubblicate nell'anno presente da questo saggio e pio imperadore, si veggono registrate nel Codice Teodosiano. In una di esse proibì ai giudici le azioni criminali ne' quaranta giorni della quaresima. Con un'altra intimò delle pene alle donne che si rimaritavano entro il termine dello scorruccio, ridotto allora ad un anno, applicando i lor beni agli eredi naturali, e non al fisco. Altre sue leggi dichiararono che chiunque avrà ottenuto dalla camera imperiale beni caduchi, e rimasti senza possessori legittimi, debba comparire colla spia ossia col denunziatore, da cui sia venuta la scoperta, che que' beni fossero caduchi, per provarne la verità. Se l'avviso era falso, s'intimava la pena capitale. Nè già lasciava Teodosio di odiar le spie, come professione troppo odiosa e turbatrice della pubblica quiete: il perchè volle che simili denunziatori, se per tre volte avessero dati simili avvisi, fossero puniti coll'ultimo supplizio. Ad impedire ancora le accuse di lesa maestà, portate da alcuni anche contra persone innocenti per profittar del confisco de' beni, decretò che questi tali non potessero mai ottener somiglianti beni. Prendeva in addietro il fisco tutte le sostanze dei banditi e relegati. Teodosio volle che loro si lasciasse [229] la metà di essi beni, da essere compartita co' figliuoli. I beni poi de' condannati a morte (se pure non v'ha sbaglio in un'altra legge) volle che restassero intieramente ai lor figli o nipoti. Con altro editto comandò che non si potesse dar sentenza contra degli accusatori, se non si costituivano prigioni anch'essi. Nella qual congiuntura prescrisse de' buoni regolamenti in favore dei prigionieri, acciocchè non fossero maltrattati dai guardiani delle carceri, o detenuti più del dovere in quelle miserie. Per conto di chi avesse trovato un tesoro, vuole che tutto appartenga all'inventore, se l'ha scoperto nel proprio fondo. Ma se nel fondo altrui: un quarto ne vada al padrone del luogo. Altre sue leggi io tralascio, tutte tendenti al pubblico bene. Circa questi tempi pare che mancasse di vita Sapore re di Persia, quel medesimo che tanto da fare avea dato in addietro ai Romani [Agath., lib 4.]. A lui succedette Artaserse suo fratello, o piuttosto suo figliuolo, come si ha da Eutichio [Eutych., in Histor.].
Anno di | Cristo CCCLXXXI. Indiz. IX. |
Damaso papa 16. | |
Graziano imperadore 15. | |
Valentiniano II imperad. 7. | |
Teodosio imperadore 3. |
Consoli
Flavio Siagrio e Flavio Eucherio.
Abbiamo da Temistio che Eucherio, console fu zio paterno di Teodosio Augusto. Zosimo [Zosimus, lib. 5, cap. 2.] parla del medesimo, e sembra chiamarlo zio dell'imperatore Arcadio, e per conseguente fratello, e non zio del medesimo Teodosio. Ma Temistio parla chiaro, e Zosimo vorrà dire gran zio. Dello varie dignità sostenute da Siagrio primo console, è da vedere il Gotofredo [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. La prefettura di Roma nelle [230] leggi del Codice Teodosiano si trova amministrata da Valeriano. Per quanto poi si raccoglie dalle date di alcune di esse leggi, le quali è da dubitare se tutte sieno giuste, Graziano Augusto sul fine di marzo era in Milano, sul principio di maggio in Aquileia, verso il fin di settembre in Treveri, e in Aquileia sul fine dell'anno. Questi salti dalle Gallie in Italia e dall'Italia nelle Gallie non paiono molto verisimili. Confermò egli con suo rescritto [L. 6, de indulgent. crimin. Cod. Theod.] ad Antidio, vicario di Roma, il lodevol uso introdotto da Valentiniano suo padre di far grazia ai rei per la solennità della Pasqua, ma con eccettuare i colpevoli di enormi delitti pregiudiciali alla quiete del pubblico. Uno de' motivi probabilmente, per i quali Graziano con Valentiniano suo fratello si portò ad Aquileja fu un riguardevol concilio tenuto ivi nel settembre di quest'anno, essendo vescovo di quella città san Valeriano, uno de' più insigni prelati dell'Occidente. V'intervenne ancora sant'Ambrosio vescovo di Milano, con farvi la prima figura. Trovavasi intanto Teodosio Augusto in Costantinopoli in molte angustie, perchè un nuvolo di Goti era ritornato nella Tracia. Avendo egli fatto nell'anno addietro istanza di soccorsi all'imperadore Graziano, questi gl'inviò un corpo di gente [Zosimus, lib. 4, cap. 33.] sotto il comando di Bautone e di Arbogaste, di nazione Franchi, uffiziali, militanti al di lui servigio, amendue chiamati da Zosimo disinteressati, valorosi e ben pratici del mestier della guerra. Ma di Arbogaste vedremo a suo tempo un gran tradimento. Arrivati che furono essi nella Macedonia, se non falla esso Zosimo, i Goti giudicarono meglio di ritirarsi di là, e di ritornarsene nella misera Tracia, per rodere quel poco che vi restava di bene. Perchè trovarono sì smunto quel paese, nè poteano metter piede nelle città e castella forti, cominciarono in fine a trattar di pace: del che [231] parleremo all'anno seguente. Già vedemmo negli anni addietro, chi fosse Atanarico re de' Goti, il quale piuttosto veniva appellato giudice di quella nazione, uomo superbo, che nell'anno 369 per far pace con Valente Augusto l'obbligò a portarsi in mezzo al Danubio, col pretesto di un giuramento da lui fatto di non mettere mai piede nelle terre dei Romani. Da che piombò sopra i Goti il gran flagello degli Unni, ebbe quel Barbaro il sapere o la fortuna di conservare i suoi Stati, o almen parte di essi sino al precedente anno, in cui finalmente restò detronizzato, e costretto a cercar altro cielo [Marcellinus, in Chronic.]. Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 34.] pretende che egli fosse cacciato da Fritigerno, Aleteo e Safrace, capi della stessa nazione, che danzavano di qua dal Danubio sulle provincie romane. Nel racconto di Zosimo v'ha delle frottole, dando egli il nome di Alamanni a questi capi, facendoli venir dalla Germania verso la Pannonia, ed abbattere prima di ogni altra impresa Atanarico, perchè il videro costante nella pace fatta con Teodosio: cose tutte prive di sussistenza. Quel solo che abbiam di certo, si è che questo principe barbaro, spinto da qualche fiero temporale, pensò a rifugiarsi sotto le ali di Teodosio, senza far caso del giuramento poco fa accennato [Socrat., lib. 5, cap. 10.], e di sottomettere a lui sè stesso e i suoi Stati. Temistio, filosofo ed oratore, che nei primi mesi di questo anno recitò nel palazzo di Costantinopoli alla presenza di Teodosio la sua orazione XV, con esaltare le virtù di esso Augusto, adduce [Themist., Orat. XV.] appunto la venuta di questo barbaro fiero e superbo a mettersi senz'armi e senza condizioni in mano di Teodosio, per pruova del gran concetto di bontà e fedeltà in cui era esso imperadore.
Venne dunque Atanarico a [232] Costantinopoli [Zosim., lib. 4, c. 34.], e vi entrò nel dì 11 di gennaio [Idacius, in Fastis.], incontrato dallo stesso Teodosio fuori della città, ed accolto con tutte le dimostrazioni di stima e di amicizia. Ma probabilmente gli affanni da lui patiti il fecero da lì a poco cadere infermo, di modo che nel dì 25 di esso mese terminò i suoi giorni di morte naturale, come s'ha vari autori [Marcellinus, in Chron. Orosius, lib. 7, c. 34.], e non già violenta, come ha il testo di Prospero [Prosper, in Chronic.], che dee essere corrotto, dovendosi quivi leggere occidit colla seconda breve, in vece di occiditur. Se altrimenti fosse stato, Zosimo, sì facile a sparlare di Teodosio, non avrebbe certamente lasciato nella penna un tal fatto, cioè trascurata questa occasione per morderlo. Anzi da lui abbiamo ch'esso Augusto fece seppellire quel barbaro re con tal magnificenza, che ne restarono ammirati tutti i Goti del suo seguito, e crebbe in loro l'affezione e stima verso di un sì amorevol regnante con riuscir fedelissimi da lì innanzi nel suo servigio. Fa poi menzione il suddetto Zosimo [Zosimus, ut supra.] di una vittoria riportata da Teodosio contro gli Sciti e Carpadoci, barbari settentrionali, ch'erano corsi anch'essi di qua dal Danubio, al vedere sì fortunati ed arricchiti i Goti. Rimasero essi sconfitti in una battaglia da Teodosio, ed obbligati a ripassare il fiume. Di più non ne sappiamo; siccome nè pure di alcun'altra militare impresa d'esso imperadore spettante all'anno presente, si truova vestigio nelle antiche istorie. Ma s'egli nulla di più operò contra de' Barbari assassini del romano imperio, somma gloria almeno conseguì colla protezion della vera Chiesa e col suo zelo per estirpar l'eresie. Ardente era il suo desiderio di mettere una volta fine, se mai era possibile, a tante dissensioni intorno ai dogmi della religion cristiana, cioè di estinguire tutte le eresie che laceravano [233] allora specialmente le provincie di Oriente [Socrates, lib. 5, c. 8. Theodor., lib. 5, cap. 7. Labbe Concil.]. Il perchè raunò dalle contrade di sua giurisdizione in Costantinopoli un concilio di centocinquanta vescovi, i quali nel maggio di quest'anno confermarono la dottrina del concilio Niceno, stabilirono la divinità dello Spirito Santo, ed accordarono al vescovo di Costantinopoli un privilegio di preminenza. Non fu esso concilio a tutta prima riguardato come generale; tale bensì tenuto fu, dacchè Damaso papa e i vescovi di Occidente l'ebbero confermato. Eletto fu circa questi tempi vescovo di Costantinopoli san Gregorio Nazianzeno, uno dei più illustri scrittori della Chiesa di Dio; ma poco tenne quella sedia per la gara ed invidia di molti altri vescovi; imperciocchè, veggendosi egli mal veduto da essi e da una parte del popolo, ottenuto il congedo dall'imperadore, si ritirò nella Cappadocia patria sua. Non fu men gloriosa per Teodosio una legge [L. 6, de Haeret., Cod. Theod.] da lui pubblicata prima del suddetto concilio del dì 10 di gennaio, con cui proibì a qualunque setta d'eretici, e particolarmente ai Fotiniani, Ariani ed Eunomiani, il tenere alcuna assemblea nella città; ed inoltre comandò loro di consegnare ai vescovi cattolici tutte le chiese da essi occupate. L'incumbenza di eseguir questo editto fu data a Sapore, uno de' più illustri generali di Teodosio [Theod., lib. 5, cap. 2.], il quale fedelmente soddisfece alla pia intenzione del principe con gioia indicibile di tutti i cattolici; nè mancarono i vescovi d'Occidente di rendere per tanto suo zelo pubbliche azioni di grazie a Teodosio nei loro concilii. Con altra legge data nel dì 2 di maggio il piissimo imperadore levò la cittadinanza romana, e il poter far testamento a chi dei cristiani fosse divenuto pagano, intimando la stessa pena alle varie sette de' Manichei. Volle dipoi vietata agli Eunomiani ed Ariani il [234] fabbricar nuove chiese entro e fuori della città. In somma si vede spedito da Dio questo piissimo imperadore per restituire il suo lustro al cattolicismo in Oriente; ed ancorchè non cessassero per questo gli eretici di diverse sette in quelle parti, perchè i saggi imperadori non amavano, di convertir col terror della mannaie alla vera fede i traviati; pure quanto venne esaltata la Chiesa cattolica, altrettanto calò l'albagia e potenza delle diverse eresie.
Anno di | Cristo CCCLXXXII. Indizione X. |
Damaso papa 17. | |
Graziano imperadore 16. | |
Valentiniano II, imperad. 8. | |
Teodosio imperadore 4. |
Consoli
Antonio ed Afranio Siagrio.
Antonio, primo console orientale, vien fondatamente creduto, dal padre Pagi, e da altri, padre di Flacilla, ossia Placilla, moglie di Teodosio Augusto. Quanto a Siagrio, console occidentale, egli è riputato personaggio diverso da Siagrio, stato console nell'anno precedente, perchè nei più dei Fasti antichi e nelle leggi si vede enunziato console, senza esprimere per la seconda volta. Dal padre Sirmondo e dal Gotofredo fu con buone ragioni creduto quell'Afranio Siagrio console, di cui in più di un'epistola parla Sidonio Apollinare: perciò col Relando ho anch'io tenuto che gli si possa dare il nome di Afranio. In due luoghi del Codice Teodosiano comparisce Severo prefetto di Roma, se pur non vi ha errore, perchè in altre leggi di questo medesimo anno Severo (se pure è lo stesso) si truova nominato prefetto del pretorio. Per la maggior parte dell'anno presente, siccome si ricava dalle date di varie leggi [Gothofr., Chronolog. Cod. Theodos.], Graziano Augusto dimorò in Italia, ora in Milano, ed ora in Brescia, Verona e Padova. Una d'esse leggi cel fa vedere in Viminacio, città [235] della Mesia sul Danubio, di là da Belgrado nel dì 5 di luglio. Ma trovandosi nel dì 20 di giugno in Padova, non si può facilmente immaginar questo salto in un paese di tanta distanza. Però par giusta la conghiettura del Gotofredo, ch'essa legge fosse non già data, ma solamente pubblicata in Viminacio. Ora il soggiorno d'esso Graziano in Italia abbastanza compruova, che quantunque si creda assegnata essa Italia coll'Africa e coll'Illirico occidentale a Valentiniano II suo fratello, pure Graziano seguitava, a cagion della di lui tenera età, a ritenerne il governo. Fra le leggi spettanti a questo anno di esso Augusto Graziano, una ne abbiamo, con cui ordina a Severo prefetto di fare una rivista de' poveri che fioccavano alla ricca e limosiniera città di Roma, con separare i robusti ed atti a lavorare, e di dar questi per ischiavi, se sono di condizion servile, a chi gli ha scoperti, oppure, se liberi, di obbligargli al lavoro delle campagne. Anche nel codice di Giustiniano si truovano leggi per rimediare a questi truffatori delle limosine destinate ai veri ed inabili poveri. S. Ambrosio [Ambrosius, lib. 2, c. 6 de Officiis.] si duole anch'egli di questo abuso, e forse da lui venne il consiglio per provvedervi. Almeno è probabile che ad istanza sua Graziano con un'altra legge ordinasse [L. si vendicari 13, de poenis Cod. Theodos.], che quando i delinquenti fossero condannati a morte o ad altre severe pene, si aspettasse trenta giorni ad eseguirle. Dovea essere succeduto che qualche innocente avesse patita la morte, e che dopo alcun tempo si fosse scoperta la di lui innocenza. Ma quell'azione di Graziano, che fece più strepito nell'anno presente, fu l'ordine da lui dato, che si levasse dalla sala del senato romano la statua e l'altare della Vittoria, sopra il quale si facevano i giuramenti, ed i pagani soleano offerire dei sagrifizii. Inoltre fece occupar dal fisco tutte le rendite destinate al mantenimento di quei sacrifizii e dei pontefici [236] gentili [Ambr., Epist. XI et XII.]: abolì ancora ogni privilegio conceduto dai predecessori a tutti i ministri degl'idoli, per la gola dei quali anche alcuni Cristiani deboli aveano rinunziato alla lor fede per farsi pagani. Fin qui le vergini vestali di rito gentile aveano pacificamente esercitato in Roma il loro mestiere. Graziano non le cassò già, ma tolse loro tutti i privilegi e le esenzioni, e comandò che si applicassero al fisco tutti gli stabili che per testamento fossero lasciati a quelle false vergini ed anche ai templi e ministri degl'idoli. Gran rumore e lamenti ne fecero i senatori, buona parte tuttavia pagani; e però Simmaco, celebre personaggio ed uno di essi, fu delegato in compagnia di altri, per portare a Graziano a nome del corpo del senato un memoriale pieno di doglianze per questo cotanto loro dispiacevole editto. Ma i senatori cristiani, che non erano pochi, fecero una protesta in contrario, ch'essi non acconsentivano alle istanze dei pagani, e formarono un'altra supplica in contrario, dichiarando che non interverrebbono più al senato, qualora vi si rimettesse quell'obbrobrio. Inviato quest'altro memoriale da papa Damaso a sant'Ambrosio, cagion fu che Graziano stesse saldo nel suo proposito, nè volesse dar orecchio al ricorso de' gentili. A ciò dovette anche contribuire la pia eloquenza di esso sant'Ambrosio, che godeva una singolar confidenza presso di questo imperadore. Qui nondimeno non finì la faccenda, siccome vedremo.
Durante tutto quest'anno si fermò l'Augusto Teodosio in Costantinopoli, dove pubblicò varie leggi [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.]. Con una di esse regolò il vario vestire dei senatori e degli altri ministri della giustizia, senza obbligare essi senatori a portar la toga, se non nel senato e davanti ai magistrati, allorchè vi comparissero per proprie loro liti. Confermò con un'altra le pene intimate contra dei Manichei, accrescendo queste per altre classi di eretici, [237] poco da noi conosciuti. Pubblicò ancora dei regolamenti, acciocchè le case dei privati in Costantinopoli potessero partecipar dell'acqua, introdotta in quella città dieci anni prima da Valente Augusto con un sontuoso acquidotto [Socrat., lib. 4, c. 8.]. Fu in questo anno che riuscì all'imperador Teodosio di estinguere il fiero incendio della guerra dei Goti, non già colla forza, ma colla prudenza e coi maneggi. Cioè fece lor proporre condizioni di pace dal generale Saturnino [Temist., Orat. XVI.], e queste accettate da essi, nel dì 3 di ottobre, per attestato di Idazio [Idacius, in Fastis.] vennero i capi dei Goti col re loro (forse Fritigerno) a sottomettersi con tutta la nazione a Teodosio, e a giurar fedeltà al romano imperio [Marcell. Comes, in Chronico.]. Loro perciò furono assegnate terre da coltivare nella Tracia e nella Mesia, con facoltà di possederle come sue proprie, e senza pagar tributo. Molti di essi Barbari furono arrolati nelle armate cesaree, e tutti ottennero la cittadinanza di Roma. I politici che da lì a molti anni videro i mali effetti di questa pace, fecero i dottori sulla condotta di Teodosio, biasimandola a più non posso come pericolosa e pregiudiziale all'imperio. Tali furono Idazio [Idacius, in Chronico.], Sinesio [Synesius, de Regn.], e principalmente Zosimo [Zosimus, lib. 4, c. 33.]. Ma per ben giudicare delle risoluzioni dei principi ed anche dei privati, convien mettersi sul punto medesimo in cui furono prese; e si troverà bene spesso che non vi mancò prudenza allora e buon consiglio, benchè l'avvenire non corrispondesse alle speranze. Siccome osserva Temistio [Themistius, ut supra.], che si trovava allora sul fatto, difficilissimo era in questi tempi, anzi pericoloso il volere snidar tanti Barbari, penetrati nel cuor dell'imperio. L'esempio fresco di Valente ognun l'avea davanti gli occhi. Nella Tracia e negli altri [238] circonvicini paesi s'erano perduti i loro abitori: bene era il ripopolarli. Divenendo quei Goti sudditi dell'imperio, se ne poteva sperare buon uso, e forza, e fedeltà come in tanti altri simili casi era avvenuto. La necessità in fine è una dura maestra, obbligando a far ciò che la prudenza ricuserebbe. Se poi coll'andar degli anni amari frutti produsse questo aggiustamento, disgrazia fu dei successori, ma non già stolidità di Teodosio, come con temeraria penna scrisse Zosimo pagano. Quel solo che sarebbe stato da desiderare, era che tanta copia di Barbari fosse stata dispersa per le moltissime provincie romane, senza lasciarla unita nella Tracia e nelle contrade adiacenti; ma è da credere che i Goti, gente anch'essa accorta, non volesse lasciarsi sbandare per paura di essere un dì sagrificati tutti con facilità ad arbitrio dei Romani.
Anno di | Cristo CCCLXXXIII. Indiz. XI. |
Damaso papa 18. | |
Valentiniano II imp. 9. | |
Teodosio imperadore 5. | |
Arcadio imperadore 1. |
Consoli
Flavio Merobaude per la seconda volta, e Flavio Saturnino.
Questo nome di Flavio che dopo Costantino il Grande cominciò ad esser cotanto in uso anche fra i generali ed altri nobili, si può credere che fosse loro conceduto per grazia, e a titolo di onore dagli Augusti, i quali se ne pregiavano molto. Abbiamo da Temistio [Themist., Orat. XVI.] che Teodosio, perchè in quest'anno si aveano a celebrare i quinquennali del suo imperio, secondo il rito dovea procedere console: passo su cui il padre Pagi fondò il suo sistema, molte volte nondimeno fallace, de' quinquennali, decennali, ec. Ma per premiar Saturnino suo generale, benemerito della pace stabilita coi Goti, conferì a lui il consolato, siccome ancora [239] Graziano promosse alla stessa dignità Merobaude altro suo generale. Di grandi obbligazioni aveva il suddetto Temistio al medesimo Saturnino, e però in tal occasione, cioè probabilmente ne' primi giorni del suo consolato, recitò un'orazione in ringraziamento a Teodosio presente, e in lode non men di esso Augusto che dello stesso Saturnino e de' primi uffiziali della corte. Vi parla ancora di Arcadio primogenito di Teodosio, ma con apparenza ch'egli finora non fosse decorato del titolo di Augusto. In questo anno nondimeno [Idacius, in Chronico. Marcellin., in Chronic. Prosper., in Chronic. Chronicon Alexand.] e nel dì 16 oppure 18 di gennaio, Teodosio dichiarò Imperadore Augusto suo figliuolo, cioè Flavio Arcadio, il quale potea esser allora in età di sei anni. È stato osservato che Temistio si adoperò forte per ottener l'educazione di questo principe e nella suddetta orazione sestadecima sembra che ne fosse anche intenzionato da Teodosio. Ma essendo Temistio filosofo di profession pagana, non si attentò già il cattolico saggio imperadore di dare un sì pericoloso maestro al fanciullo Augusto, e però scelse per aio di lui Arsenio, personaggio di somma pietà ed abilità, come consta dalla sua vita [Coteler., Monum. Graec. Tom. II.]. Chi fosse nell'anno presente prefetto di Roma, a noi resta tuttavia ignoto. Il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] con varie conghietture ne ha fatta diligente ricerca, ma senza poter fissar il piede. Certamente fu un personaggio di vaglia, come vedremmo fra poco. Essendo nell'anno seguente succeduto Simmaco in questa dignità ad Avenzio, non è improbabile che questi la esercitasse nel presente. Anche per tutto quest'anno l'Augusto Teodosio continuò il suo soggiorno in Costantinopoli; e perchè incessanti erano le sue premure per la pace ed union della Chiesa lacerata da tante eresie, e soprattutto dagli Ariani in Oriente, intimò ancora in quest'anno un gran [240] concilio in Costantinopoli, che tenuto fu nel mese di giugno, e dietro al quale pubblicò dipoi in questo medesimo anno varie costituzioni [Cod. Theod., lib. 16. Tit. 5, de Haeretic.] contra di tutte le sette degli eretici, vietando loro sotto varie pene il raunarsi, il girar per le città e per la campagna, il crear sacerdoti, e far qualunque atto in pubblico, o privato, che potesse pregiudicar alla religione cattolica. Leggonsi tali editti nel Codice Teodosiano. Si godeva intanto una mirabil pace ne' paesi sottoposti ad esso Augusto, dappoichè si erano quietati i Goti, e ne godeva anche lo stesso imperadore Teodosio, quando gli giunsero le funestissime nuove della tragedia di Graziano Augusto, della quale io passo ora a descriverne le particolarità.
Le leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.] ci mostrano dove questo imperadore dimorò per i primi sei mesi dell'anno presente, cioè ora in Milano, ed ora in Verona e Padova, con pubblicar varii editti. In uno di essi rivocò tutti i privilegii dei particolari, come di troppo pregiudizio al corpo, di cui son membri. Con un altro diede ordini rigorosi per la estirpazione de' ladri, de' quali, Simmaco in più sue lettere si lagna, dicendo essere cresciuto cotanto il lor numero ne' contorni di Roma, ch'egli non osava più di passare alle sue terre di campagna. Rinnovò le pene contro degli apostati, e intimò la pena del taglione contro gli accusatori provati calunniosi. Ordinò parimente che non si dovessero attendere gli ordini portati dai tribuni, segretarii, e conti, come ricevuti dalla bocca del principe, ma che dovesse solamente ubbidire agli scritti e sottoscritti da lui; legge difficile in pratica, e suggetta a varie eccezioni. Ricavasi da Simmaco [Symmachus, in Retat.] che una terribil carestia si provò in Roma nell'anno presente; e racconta egli con dispiacere come un atto di grande inumanità l'essere stati allora cacciati di Roma i non cittadini. [241] A questo proposito v'ha chi produce quanto scrive sant'Ambrosio [Ambros., lib 3 de Off., cap. 7.]. Cioè che fatta la proposizione dal popolo romano di mandar fuori essi forestieri, il prefetto di Roma d'allora, che era un venerabil vecchio, fece raunar tutti i nobili e facoltosi della città e tenne loro un ragionamento così sensato e patetico, per impedire quell'atto di crudeltà, che tutti si indussero ad una volontaria contribuzion di denaro con cui si mantenne l'abbondanza, e si fece sussistere ancora chi non era cittadino di Roma. Ma paiono ben diverse le carestie e i fatti di Simmaco e quei di sant'Ambrosio; nè finora si è potuto accertare chi fosse quel saggio vecchio prefetto di Roma. Racconta il santo arcivescovo altrove [Idem, Relat. Symmach.], che mentre era afflitta Roma dalla fame accennata da Simmaco, nelle Gallie, nella Pannonia, Rezia e Liguria si godeva una felice abbondanza di viveri.
Ma una calamità, senza paragone più deplorabile di questa, saltò fuori nell'anno presente, la quale si tirò dietro la desolazione d'assaissimo paese, e le lagrime d'infiniti popoli; e questa fu la ribellione di Massimo. Costui, nominato nelle medaglie [Mediobarbus, Numism. Imperator.] ed iscrizioni Magno Massimo, ed anche in un'iscrizione e presso Sulpicio Severo, Magno Clemente Massimo, non bene si sa onde traesse l'origine. Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 33.] il fa Spagnuolo di nazione, col qual supposto si accorda l'essersi egli vantato di aver qualche parentela con Teodosio Augusto nativo di Spagna. Altri l'hanno spacciato per Britanno di patria. Ma siccome osservò l'Usserio [Usserius, de Britan. Eccl.], Pacato [Pacatus, in Panegyr. Theodos.], scrittore contemporaneo, afferma bensì che trovandosi egli nella Bretagna, accese questo fuoco, ma che esule e forestiero egli dimorava in quell'isola, e fuggito dal suo paese; nè si sapeva chi fosse suo padre, ed avea [242] servito in vilissimo uffizio di famiglio nella casa di Teodosio molto prima della di lui esaltazione al trono. Zosimo pretende che costui cresciuto di posto accompagnasse in varie spedizioni militari il medesimo Teodosio; e che stando nella Bretagna, non potesse digerire di non aver potuto fin qui conseguir per sè dignità alcuna riguardevole, quando Teodosio era giunto ad essere imperadore. Osservata dipoi l'avversione di quelle milizie a Graziano, perchè questi facea più conto degli Alani e d'altri soldati barbari e stranieri arrolati nelle sue armate [Zosim., lib. 4, cap. 33. Victor, in Epitome.], che de' Romani, seppe così ben fomentare questo lor odio, che nell'anno presente gl'indusse a ribellarsi e a dichiarar lui imperadore, con dargli la porpora e il diadema. Per altro abbiamo da Sulpizio Severo [Sulpic. Sever., Vit. S. Martini, cap. 23.] e da Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 34.], ch'egli fu come forzato in una spedizione da quelle soldatesche ad accettar suo malgrado il titolo e manto imperiale; ed egli stesso protestò di poi a san Martino, che non la sua volontà, ma l'altrui violenza lo avea condotto a questo impegno. Inoltre vien egli dipinto da esso Sulpizio Severo per uomo di genio feroce, ma senza apparire che egli fosse crudele; anzi egli si gloriava di non aver fatto morire alcuno de' suoi nemici, fuorchè nelle battaglie. Orosio poi cel descrive per uomo valoroso, dabbene e meritevole dell'imperio, se non l'avesse conseguito colla perfidia, mancando al giuramento di fedeltà ch'egli avea fatto al suo legittimo principe. Non mancano scrittori [Gregor. Turonensis, lib. 1, cap. 43.] che credono cominciata prima di questo anno la di lui ribellione, con aggiugnere ch'egli dipoi riportò delle vittorie contra de' Pitti e Scotti; ma oltre all'asserzione di s. Prospero [Prosper, in Chronic.], concorre la ragione a persuaderci che solamente nell'anno presente [243] egli si rivoltasse, perchè Graziano Augusto, che si tratteneva in Italia nel mese di giugno di quest'anno, al primo sentore di questa pericolosa novità, volò nelle Gallie; nè tornava il conto a Massimo di perdere il tempo a cercar dei nemici stranieri quando i suoi interessi esigevano ch'egli pensasse all'offeso Graziano, il quale più di tutti gli doveva importare.
Siccome Massimo era uomo attivo, non perdè punto di tempo a tirar dalla sua quanti soldati romani si trovavano nella Bretagna; ed, aggiuntavi molta gioventù scapestrata di quelle parti, ne formò una buona armata. Sapendo poi che Graziano dimorava in questi tempi in Italia, pensò tosto che sarebbe anche agevole l'impadronirsi delle Gallie. Imbarcate dunque le sue milizie, speditamente con esse arrivò alla sboccatura del fiume Reno [Zosim., lib. 4, c. 35.]; sollevò con bugie, lusinghe e promesse l'una dietro l'altra alcune di quelle provincie [Gildas, de excidio Britan.]; e poscia si diede a segreti maneggi, per guadagnar ancora le guarnigioni e milizie del paese; e in parte gli venne fatto. Socrate [Socrates, l. 5, cap. 11.] e Sozomeno [Sozom, lib. 7, c. 13.] pretendono che Graziano fosse in questi tempi occupato in far guerra agli Alamanni; del che niun altro vestigio abbiamo. Fuor di dubbio è ch'egli non tardò a prendere il cammino verso le Gallie, dove non trovò già d'essere stato prevenuto dal tiranno. Ammassate dunque le milizie che gli restavano fedeli, e dato il comando della sua armata a Merobaude [Zosimus, lib. 4, cap. 35. Victor, in Epitome. Pacatus, in Panegyr. Prosper, in Chronic.], con avere ai fianchi Balione, uffiziale di sperimentato valore e fedeltà, andò a presentar la battaglia a Massimo. S. Prospero scrive che il conflitto seguì in vicinanza di Parigi; ma Zosimo non parla se non di scaramucce fatte per lo spazio di cinque giorni. Fosse nondimeno o non fosse giornata campale, convengono [244] gli storici in dire che Graziano si trovò tradito. La cavalleria de' Mori ed altri corpi di sua gente, abbandonatolo, si gettarono nel partito contrario. S. Prospero pretende che Merobaude, suo generale e console, fosse nel presente anno il traditore. Ma il cardinale Baronio [Baron., Annal. Eccl.], il Valesio [Valesius, Rer. Franc., lib. 2.] e il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Emper.] fondatamente tengono che sia guasto qui il testo della sua Cronica, sapendo noi da Pacato panegirista [Pacatus, in Panegyr.], ch'esso Merobaude combattè bravamente per Graziano, e che Massimo, per l'odio che gli portava, il ridusse a darsi da sè stesso la morte. Immaginò il Valesio che in vece di Merobaude avesse scritto san Prospero [Prosper, in Chronic.] Mellobaude, cioè quel re de' Franchi, che vedemmo servire di capitan delle guardie a Graziano. Potrebbe essere; ma questa in fine non è che una conghiettura. Certamente il fellone che tolse la vita all'infelice imperador Graziano, fu uno dei suoi principali uffiziali che governava le provincie della Gallia, ed era uffizial di guerra, come si ricava da sant'Ambrogio [Ambros., in Psalm. 61, num. 23 et seq.]. Però questi sembra essere stato Andragazio generale della cavalleria di esso Graziano. Imperocchè, trovandosi Graziano derelitto dai suoi, con trecento soli cavalli se ne fuggì a Lione con disegno di ricoverarsi in Italia. Da Zosimo [Zosimus, cap. 35.] abbiamo che gli fu spedito dietro con una mano di scelti cavalli esso Andragazio, il quale seguitandolo sino alla Mesia superiore, e raggiuntolo nel passare il ponte di Singiduno, gli levò la vita. Ma s'ingannò senza fallo Zosimo, confondendo Lugduno con Singiduno. Gli altri storici [Prosper, in Chronic., Rufinus, Marcellin.] attestano che Graziano fu ucciso in Lione. E sant'Ambrogio, autore più di tutti informato di questi affari, siccome accaduti quasi sotto i suoi [245] occhi, racconta essere stato invitato Graziano ad un convito dall'uffizial traditore, rivestito della porpora, e poi privato di vita dopo la tavola, verisimilmente nel passare il ponte di quella città. Se poi questi fosse Andragazio, o altro perfido uffiziale, non abbiam bastanti lumi per accertarlo. Nè in confronto dell'autorità di sant'Ambrosio meritano fede Socrate [Socrates, lib. 5, c. 11.] e Sozomeno [Sozom., lib. 7, c. 13.], là dove scrivono che Andragazio arrivato a Lione, ed entrato in una lettiga, fece credere a Graziano ch'egli conduceva seco l'imperadrice Leta; e però essendo andato ad incontrarla Graziano, Andragazio, saltato fuori da essa lettiga, il fece prendere e da lì a poco gli diede la morte.
Il giorno, in cui accadde questa tragedia, fu il 25 di agosto, come abbiamo da Marcellino conte [Marcellinus, in Chronic.]: o pur di luglio, come taluno ha creduto; nel qual tempo l'infelice Augusto era giunto all'età di venticinque anni. Aveva egli sposata in prime nozze Costanza figliuola postuma di Costanzo Augusto. Pare che si ricavi da s. Ambrosio [Ambros., de Fid., lib. 1, cap. 20.], ch'essa gli partorisse qualche figliuolo; ma per testimonianza di Teodoreto, se pur ne ebbe, niun di essi era vivente alla di lui morte. Perchè mancò di vita questa principessa, si rimaritò Graziano non molto prima di queste sciagure con Leta, alla qual poi, rimasta vedova, siccome ancora a Passamena di lei madre, fece Teodosio un assegno decoroso per vivere da pari loro. Zosimo [Zosimus, lib. 5, c. 39.] parla delle copiose lor limosine ai poveri di Roma, allorchè Alarico nell'anno di Cristo 408 tenne assediata quella città. Abbiamo anche dal medesimo storico [Idem, l. 4, c. 36.], che avendo esso Graziano sul principio del suo governo ricusato il titolo e la veste di pontefice massimo, portatagli dai pagani, uno dei loro sacerdoti disse: Se il principe non vuol [246] esser chiamato pontefice, in breve egli sarà fatto pontefice massimo; alludendo forse alla sua morte, accaduta sul ponte di Lione, siccome accennai. Ma questo sarà un motto arguto, inventato solamente e nato dopo il fatto per accreditar la superstizion gentilesca; e Zosimo poi è un Etnico che ciò scrive. Che dolore provasse per la morte di questo amabil principe cristiano il santo arcivescovo di Milano Ambrosio, suo grande amico e confidente, non si può abbastanza esprimere. In più luoghi delle sue opere tocca egli con tenerezza questo punto; andò anche per le istanze di Valentiniano II, imperatore [Ambr., in Ps. 61 et Epist. XXIV.], a trovar Massimo, affin di ottenere le ceneri dell'ucciso Augusto. Intanto Massimo si protestava sempre innocente della morte di lui, e diceva di non aver dato l'ordine di sua morte, mostrando di piangere quando udiva rammentare il di lui nome. Ma qual fosse la di lui sincerità, diedelo ben a divedere, perchè a sant'Ambrosio negò le di lui ceneri, per paura, diceva egli, che quella traslazione non rinnovasse il dolore dei soldati. Della bontà fors'anche eccessiva di esso principe esaltata da Rufino nella sua storia [Rufinus, lib. 2, c. 13.], e di altri suoi bei pregi mentovati da sant'Ambrogio, io non parlerò di vantaggio. Ma non si dee già tacere che dopo la di lui morte non mancò gente, la quale lacerò la memoria di questo buon principe, con imputargli infino dei reati contro la virtù della pudicizia, quando noi siamo assicurati da esso sant'Ambrosio, esser egli stato puro non men di animo che di corpo, nè aver mai conosciuta altra donna che le congiunte con lui in matrimonio. Peggio, per testimonianza di Fozio, parlò di lui Filostorgio [Philostorg., lib. 10, c. 5.], spacciando varie calunnie, e massimamente col paragonarlo a Nerone. Ma non è da maravigliarsi, se questo scrittore ariano, o sia eunomiano sparli [247] di un imperadore che con tanto zelo professava il cattolicismo, e tenne in freno, per quanto potè, l'arianismo. Se in questi tempi, o pure più tardi, Massimo obbligasse Merobaude console ad uccidersi e facesse strangolare il conte Balione, amendue perchè stati fedeli a Graziano, nol saprei dire. Certo è che Pacato [Pacat., in Panegyr.] lasciò memoria della lor morte; Ambrosio [Ambr., Epist. XXIV.] fece un rimprovero a Massimo, per aver privato di vita esso Balione. Noi troviamo nell'anno 384 [L. 43, de Appellat. Cod. Theodos.] un Merobaude duca di Egitto: forse fu figliuolo del console suddetto. Una iscrizione recata dal Fabretti [Fabretus, Inscript., pag. 576.], che ci fa veder Merobaude console per la terza volta con Teodosio Augusto nell'anno 388, non sembra che possa mai sussistere, perchè con esso Augusto fu console allora Cinegio.
La morte di Graziano Augusto quella fu che maggiormente facilitò a Massimo tiranno il tirar tutte le Gallie alla sua divozione. Già vedemmo che le provincie della Bretagna gli prestavano ubbidienza. Perchè le Spagne usavano di riconoscere per lor signore chi dominava nelle Gallie, però anch'esse vennero in potere di Massimo. Verisimilmente non differì egli di crear Cesare, e poi Augusto, Flavio Vittore suo figliuolo, di cui si veggono iscrizioni e medaglie. Abitava da molto tempo in Milano Valentiniano II Augusto, fratello minore di Graziano, di età in questi tempi di dodici in tredici anni. Siccome in addietro egli era stato incapace di governo, così Graziano aveva anche regolati gli affari dell'Italia; e perchè nè pur ora si stendevano le sue forze a poter reggere popoli, l'imperadrice Giustina sua madre prese in parte le redini, dappoichè s'intese la peripezia di Graziano; e Teodosio Augusto dipoi ebbe anch'egli [Orosius, l. 7, c. 35.] qualche [248] mano nel governo degli Stati dipendenti da esso Valentiniano. Restò sulle prime così sbalordita Giustina per gl'incredibili e rapidi progressi di Massimo, che paventò di perdere anche l'Italia. Avvegnachè si fosse scoperta ariana di credenza, e per conseguente nemica del cattolico arcivescovo sant'Ambrosio, pure conoscendo quanto in sì pericoloso stato di cose potesse giovare a lei e al figliuolo l'autorità, il credito e la prudenza di questo insigne prelato, fattolo chiamare, gli mise in mano il giovanetto principe, e ardentemente gliel raccomandò. Ambrosio il ricevette, ed abbracciò. Quindi si diedero a consultare i mezzi per frenare quel minaccioso torrente. Il primo passo fu quello d'implorare i soccorsi dell'imperadore Teodosio, il quale, per attestato di Pacato [Pacatus, in Panegyr.], avea guerra, e riportava delle vittorie nell'estremità dell'Oriente, senza che si sappia contra di chi, se per avventura non furono i Saraceni, che lo stesso panegirista dice vinti da lui. Non mancò Teodosio, secondo l'asserzion di Temistio [Themist., Orat. XVIII.], di far subito un gran preparamento, per vendicar la morte di Graziano, e salvare dagl'insulti del tiranno il pupillo Augusto Valentiniano. Anche in Italia si dovettero allestir quante milizie si potè. Alla seguente primavera, essendo troppo inoltrata la stagione di quest'anno, Teodosio era per muoversi. Non so io dire, se questo armamento quel fosse che fece desistere Massimo dal procedere innanzi contra del giovane Valentiniano, e in vece di guerra promuovere proposizioni di pace; o pure se Probo, prefetto del pretorio, già fuggito dalle Gallie, e divenuto primo ministro della corte di Valentiniano, e sant'Ambrosio, e gli altri consiglieri di esso imperadore, trovandosi senza forze, giudicassero meglio di ricorrer essi ai maneggi di pace. Temistio [Idem, ibid.] fu di parere che l'apprensione dell'armi di Teodosio [249] portasse Massimo ad anteporre la pace alla guerra; e Rufino [Rufinus, lib. 2, c. 15.] anch'egli attesta essere stato Massimo il primo a proporre essa pace, ma con pensiero di non mantenerla (verisimilmente per assodarsi intanto negli usurpati dominii), e che Valentiniano atterrito dalla potenza di questo nemico, accettò di buon grado il proposto partito, con pensiero anch'egli di romperlo subito che si trovasse in forze. Noi all'incontro sappiamo che dalla parte di esso Valentiniano fu deputato sant'Ambrosio per passar nelle Gallie affin di maneggiare qualche concordia [Ambros., Epist. XXIV.]. Andò l'intrepido arcivescovo, e trovò a Magonza Vittore conte, il quale veniva spedito da Massimo per trattare dello stesso negozio in Italia. Introdotto nel consiglio udì la pretensione di Massimo, cioè che Valentiniano come più giovane doveva venire in persona a trovarlo, con sicurezza di ogni amorevole accoglimento. Ambrosio lo scusò col rigore del verno durante il quale non poteva un fanciullo colla madre vedova passare i freddi e pericoli delle Alpi; e neppur s'impegnò di farli venire, con dire di non aver egli commessione alcuna di questo, ma solamente di trattar la pace. Gli convenne aspettar buona parte del verno, finchè tornasse Vittore colle risposte d'Italia; nel qual tempo non volle comunicar nei sacri misteri con esso Massimo [Paulin., in Vita S. Ambrosii.], dicendo ch'egli era tenuto a far prima pubblica penitenza del sangue sparso del suo principe, e principe innocente. Lo stesso fece a tutta prima anche san Martino vescovo di Tours, [Sulpicius Sever., in Vita S. Martini, c. 23.] ma poi si ridusse a comunicar seco, probabilmente perchè gli fece credere il tiranno di non aver avuta parte nella morte di Graziano.
Anno di | Cristo CCCLXXXIV. Indiz. XII. |
Damaso papa 19. | |
Valentiniano II imperad. 10. | |
Teodosio imperadore 6. | |
Arcadio imperadore 2. |
Consoli
Flavio Ricomere e Clearco.
Ricomere, primo nella dignità consolare, è quel medesimo valente generale, che da Graziano Augusto era stato spedito in aiuto a Teodosio, e si trova anche appellato Ricimere. L'altro console Clearco era forse nell'anno presente anche prefetto della città di Costantinopoli [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. Simmaco, celebre personaggio, si trova prefetto di Roma in quest'anno. Di tal sua dignità egli parla in alcune sue lettere. Egli anche fu che in questo anno inviò Agostino, poi santo vescovo, per maestro di retorica a Milano. Nel dì 11 di dicembre terminò i giorni del viver suo Damaso pontefice romano [Prosper, in Chronic.], riferito poi nel catalogo de' santi a cagion delle sue opere gloriose, massimamente concernenti la difesa della dottrina della Chiesa cattolica. Pochi giorni stette a succedergli nella cattedra di san Pietro, Siricio, di nazione romano. Così il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], contro l'autorità del cardinal Baronio e del padre Papebrochio, i quali differiscono all'anno seguente la elezion di Siricio. Del loro parere sono anch'io, per quel che dirò all'anno stesso. Già abbiam veduto che Clearco fu in quest'anno prefetto di Costantinopoli, parendo che la data di una legge di Teodosio lo intitoli così; ma non possiamo fidarci di quella data, da che abbiamo indizii che Temistio [Themist., Orat. XVII et XVIII.], famoso filosofo pagano ed oratore di questi tempi, fu promosso a quella carica nell'anno presente, e recitò di poi un'orazione in lode di Teodosio. Il non dir egli parola [251] della nascita di Onorio, secondogenito di esso Augusto, nè dell'ambasciata dei Persiani fa abbastanza conoscere che quel panegirico fu recitato prima del settembre di quest'anno. Imperciocchè Flacilla, o sia Placilla Augusta, nel dì 9 di settembre partorì all'Augusto consorte Flavio Onorio [Idacius, in Fastis. Chronicon Alexandrin. Socrat., lib. 5, cap. 12.], nato nella porpora, come diceano i Greci, perchè venuto alla luce dappoichè il padre era imperadore, laddove Arcadio primogenito, e già dichiarato Augusto, nella privata fortuna del padre era stato partorito. Ad esso Onorio fu immantinente conferito il titolo di nobilissimo. Già il defunto Artaserse re della Persia avea avuto per successore il suo figliuolo Sapore III. Abbiamo da Idazio [Idacius, ib.] ch'egli nell'anno presente inviò una solenne ambasciata a Teodosio Augusto per trattar di pace fra i due imperii. Pacato [Pacatus, in Panegyr.] ne parla anche egli, con indicare i presenti da lui inviati in tale occasione a Costantinopoli, cioè di perle, stoffe di seta, ed animali propri per tirare il cocchio trionfale, e verisimilmente elefanti domesticati. Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 34.] e il giovane Vittore [Victor, in Epit.] scrivono che Teodosio strinse, mercè di un trattato di pace, buona amicizia coi Persiani; ma non è ben certo se questa pace ora succedesse, o se fosse piuttosto una tregua, perchè vedremo nell'anno 389 un'altra ambasceria de' Persiani per questo effetto; e per altro conto restano in molta oscurità gli affari de' Romani con quella nazione. Certo è che guerra non fu gran tempo dappoi fra le suddette due potenze.
Vegniamo ora a Massimo tiranno. Tanto si trattenne nella di lui corte santo Ambrosio, e tal fu la sua destrezza, che finalmente conchiuse la pace fra lui e Valentiniano Augusto. Per quel che apparisce [252] dalle conseguenze, consiste il massiccio della capitolazione in questi due punti: cioè Valentiniano riconosceva Massimo per legittimo imperador delle Gallie, Spagne e Bretagna, e vicendevolmente Massimo accordava che Valentiniano resterebbe pacifico possessore e signore dell'Italia, dell'Illirico occidentale e dell'Africa. Pretese esso Massimo col tempo di essere stato burlato con varie promesse, che poi furono senza effetto, da Ambrosio e da Bautone conte, compagno, secondo le apparenze, di quella ambasciata: ma il santo arcivescovo sostenne poscia di nulla avergli promesso, e discolpò ancora Bautone. Nel ritornarsene egli a Milano, trovò a Valenza del Delfinato altri ambasciatori spediti a Massimo per iscusar Valentiniano, se non potea passar nelle Gallie, come il borioso tiranno tuttavia pretendeva. Poco nondimeno teneva per questa pace sicuro sè stesso Massimo, ogni qualvolta anche Teodosio dal canto suo non acconsentisse. Però, per testimonianza di Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 37.], spedì altri suoi ambasciatori ad esso Teodosio, nè trovò in lui gran difficoltà ad approvar quell'accordo e a permettere che l'immagine del tiranno si mettesse con quelle degli altri due Augusti. Anzi dovendo partire Cinegio pel governo dell'Africa, Teodosio gli diede ordine di portare colà l'immagine del medesimo per farla vedere a que' popoli in segno della contratta amicizia. Ma se crediamo ad esso Zosimo, anch'egli si accomodò a questa concordia in apparenza, meditando nello stesso tempo di fargli guerra subito che gliel permettessero i propri interessi, o piuttosto che gliene desse occasione il perfido usurpatore, siccome in fatti avvenne. In questa maniera Massimo giunse a restar pacifico padrone di tanti Stati. Ci ha conservata sant'Ambrosio [Ambr., Epist. XXIV.] la memoria di un altro fatto, senza apparire se spettante a questo o pure all'anno seguente. Certamente [253] esso accadde dopo la conchiusion della pace suddetta. Cioè gli Alamanni Giutunghi vennero a bottinar nella Rezia, perchè seppero ch'era stata regalata da Dio di un buon raccolto. Bautone conte, poco fa da noi mentovato, ebbe maniera di muovere contra di loro gli Unni e gli Alani, i quali entrati nel paese di essi Alamanni, vi diedero un gran sacco sino ai confini delle Gallie. Gravi doglianze fece per questa irruzione Massimo, perchè l'apprese suscitata da Valentiniano, per nuocere anche a lui in guisa che esso Valentiniano, affine di togliere i pretesti di qualche rottura, a forza di danaro fece tornar que' Barbari alle lor case.
Da una lettera di Simmaco [Symmach., lib. 10, epist. 61.] parimente ricaviamo che nell'Illirico accadde guerra contra de' Sarmati, i quali doveano aver passato il Danubio per saccheggiare il paese romano. Quel generale, sotto il cui comando era o la Pannonia, o la Mesia superiore, diede a coloro una tal rotta, che moltissimi ne uccise, ed altri fatti prigioni inviò a Roma: perlochè meritò un grand'elogio da Valentiniano. Noi troviamo questo giovinetto imperadore nell'anno presente quasi sempre in Milano [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.], a riserva di una scorsa da lui fatta ad Aquileia. Aveva egli disegnato console per l'anno prossimo Vettio Agorio Pretestato, celebre personaggio allora, ma pagano, e che esercitava ora la carica di prefetto del pretorio d'Italia, di cui si veggono vari elogi presso gli scrittori gentili, e nelle antiche iscrizioni. Ma prima ch'egli arrivasse a vestir la trabea consolare la morte il rapì con incredibil doglia del senato e popolo romano. Ne parla molto Simmaco nelle sue lettere, ed anche san Girolamo che si trovava allora in Roma. Perchè costui aveva impetrato da Valentiniano un decreto poco favorevole ai Cristiani, ciò fece coraggio a Simmaco prefetto di Roma, e agli altri senatori romani della fazion pagana ed idolatrica, [254] senza saputa, o almeno senza consenso de' senatori cristiani, di fare un tentativo maggiore, cioè di formare un decreto, per chiedere a Valentiniano Augusto che fosse rimesso nella sala del senato l'altare della Vittoria, già tolto per ordine di Graziano Augusto. Ne formò la supplica ossia la relazione Simmaco, adducendo quante ragioni (ben tutte frivole) egli seppe trovare; e questa fu spedita alla corte con forte speranza, che trattandosi di un regnante sì giovane, e però non atto a discernere la falsità di quei motivi, il negozio verrebbe fatto. Penetrata questa notizia all'orecchio di santo Ambrosio [Ambros., in Symmachum, et alii.], con tutta sollecitudine stese egli una contrasupplica, in cui sì forti ragioni intrepidamente espose del non doversi accordare quella infame dimanda, che Valentiniano stette saldo in sostener l'operato dall'Augusto suo fratello, sicchè andarono falliti i disegni del paganesimo. Fu di poi ampiamente confutata dal santo arcivescovo la relazione di Simmaco, e noi tuttavia abbiamo questi pezzi fra le opere di esso Simmaco e di sant'Ambrosio. Immemorabile era l'uso che i nuovi consoli facessero dei regali agli amici e ad altre assaissime persone, e che i questori e pretori solennizzassero la loro entrata in quei posti con dei giuochi pubblici, nel che conveniva impiegare gran copia d'oro. La vanità di molti aveva anche introdotti altri intollerabili abusi e spese eccessive, colle quali stoltamente si venivano ad impoverir le persone nobili, per comperar del fumo. Simmaco ne promosse la riforma, e la ottenne da Valentiniano; e pur egli, per attestato di Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium.], due mila libbre d'oro di peso impiegò per la pretura di un suo figliuolo. Teodosio anch'esso in quest'anno pubblicò una prammatica per lo stesso fine, siccome fece altre leggi in favore della religione cristiana, che si possono leggere nel Codice Teodosiano. [255] Crede in oltre il Gotofredo che a questi tempi appartenga una di lui legge, con cui proibisce il matrimonio fra i cugini germani sotto rigorose pene.
Anno di | Cristo CCCLXXXV. Indiz. XIII. |
Siricio papa 1. | |
Valentiniano II imperad. 11. | |
Teodosio imperadore 7. | |
Arcadio imperadore 3. |
Consoli
Flavio Arcadio Augusto, e Bautone.
Abbiam già veduto che questo Bautone conte, uomo di gran valore e fedeltà, era uno de' generali di Valentiniano juniore Augusto, e però fu console per l'Occidente. Agostino, maestro in questi tempi di retorica in Milano, recitò nelle calende di gennaio un panegirico che non è giunto ai dì nostri, in onore di lui esistente in quella città, dove tuttavia era la corte. Chi fosse in quest'anno prefetto di Roma, non si è potuto chiarire in addietro. Raccogliesi dalle lettere di Simmaco [Symmachus, lib. 10, epist. 25, 36, 47.] ch'egli disgustato per molti affanni da lui patiti nell'esercizio di questa dignità nell'anno antecedente, fece istanze alla corte per esserne scaricato; ma senza apparire s'egli fosse esaudito. Tuttavia tengo io per fermo che in luogo suo venisse surrogato per l'anno presente Severo Piniano. Che questo nobilissimo romano fosse prefetto di Roma, ne ho addotto le pruove altrove [Anecdot. Latin. Tom. I, Dissert. VI, et inter opera s. Paulini Edit. Veronens.], cioè le parole di Palladio e di Eraclide. E che la di lui prefettura cadesse appunto in quest'anno, chiaramente si raccoglie da una lettera di Valentiniano Augusto, indirizzata a lui nel dì 23 di febbraio dell'anno corrente, riferita dal Cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad hunc annum.], in cui si rallegra per la elezione di Siricio papa, accaduta poco tempo prima. M'induco [256] medesimamente a credere, in vigor di essa lettera che Siricio papa fosse eletto (non senza contraddizione del tuttavia vivente Ursino, o sia Ursicino, che avea fatta guerra anche a papa Damaso) non già, come vuole il padre Pagi, nel dì 22 di dicembre dell'anno precedente, ma bensì nel gennaio del presente, come tenne il suddetto cardinal Baronio. Non vo' io trattener qui i lettori coll'esaminar le ragioni del Pagi. A me solo basterà di dire che l'epitaffio di papa Siricio, su cui egli fonda tutto il suo raziocinio, non è certo se sia fattura di quei tempi. Noi possiam con ragione tenerlo per composto da qualche miserabil poeta de' tempi susseguenti, giacchè esso è un componimento di versi mancanti di prosodia. Ne' tempi correnti fiorivano mirabilmente in Roma le lettere, nè si può mai credere che ad un sì ignorante poeta fosse data la commissione di ornar il sepolcro di un romano pontefice con versi che gridano misericordia.
Per la maggior parte di quest'anno noi troviamo, siccome poco fa accennai, Valentiniano Augusto colla sua corte in Milano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], dove son date alquante sue leggi. Altre ve n'ha pubblicate in Aquileia, e forse una in Verona. Teodosio Augusto, per quanto risulta dalle leggi di lui, sembra non essersi punto mosso da Costantinopoli. Diede questo buon imperadore nei tempi correnti una pruova luminosa della sua singolar bontà. Aveano varie persone tenuto delle assemblee contra di lui, producendo varii augurii, sogni ed altri creduti indovinamenti dell'avvenire [Liban., Orat. XIV. Themist., Orat. XIX.]. Scoperto l'affare, ad un rigoroso processo si diede subito principio, non solamente contro i delinquenti, ma contro quelli ancora che aveano saputo e non rivelato il fatto. Sotto altri imperadori nè pur uno d'essi avrebbe scappata la morte. Così non fu sotto il [257] cattolico Teodosio. Sulle prime egli dichiarò di non voler mischiato in tal processo chiunque reo solamente era di non aver rivelato i manipolatori della congiura, o per aver parlato poco rispettosamente di lui. Pubblicò dipoi nell'anno 393 una legge, con cui proibiva il procedere giudizialmente contro chiunque avesse sparlato del principe. Continuarono i processi contra de' veri congiurati; e perchè pareva che il buon Augusto ne fosse scontento, uno de' magistrati un dì gli disse, che la principal cura degli uffiziali della giustizia doveva esser quella di assicurar la vita del principe: Sì, rispose egli, ma più ancora vorrei che aveste cura della mia riputazione. La sentenza di morte fu pronunziata contra di costoro, ma allorchè i carnefici erano sul punto di eseguirla, si spiccò dal palazzo una voce che si sparse immediatamente per tutta la città, che l'imperadore faceva lor grazia. E così fu. Non solamente donò egli loro la vita, ma anche la libertà di dimorare in quel paese che più loro piacesse; e volle che Arcadio Augusto suo figlio anch'egli segnasse la grazia, per avvezzarlo di buon'ora agli atti di clemenza. Temistio aggiugne che a questo perdono consentì sopra gli altri l'imperadrice Flacilla ossia Placilla, con cui egli soleva consigliarsi in affari di tal natura. Ma Iddio appunto nell'anno presente chiamò a sè questa piissima Augusta, le cui rare doti e virtù, e specialmente la pietà, e un continuo zelo per la religion cattolica, si veggono esaltate non men dagli scrittori cristiani, cioè da s. Gregorio Nisseno [Gregor. Nyssenus, in funer. Plac.], da s. Ambrosio, da Teodoreto, e Sozomeno [Ambros. Theodor. Sozomenus. Themistius.], ma ancora dal pagano Temistio. Meritò ella, in una parola, che la chiesa greca la registrasse nel catalogo de' santi. Figliuoli di essa e di Teodosio furono Arcadio allora Augusto, ed Onorio che col tempo fu anch'egli imperadore. Una lor figlia, appellata Pulcheria mancò di vita circa [258] questi tempi, e se ne vede l'orazion funebre fra le opere del suddetto Nisseno.
Viveva in questi medesimi tempi un'altra imperadrice, ma di professione e costumi affatto contrarii, e questa era Giustina madre del giovanetto Valentiniano Augusto. Dopo la morte del vecchio Valentiniano suo consorte, cavatasi la maschera, ella si scoprì ariana; e, dimorando col figliuolo in Milano, città il cui popolo era tutto zelante per la dottrina e chiesa cattolica, si mise in testa di voler pure promuover ivi gl'interessi dell'empia sua setta. Per essere il figliuolo di età immatura, grande era la di lei autorità, e suo gran consigliere le stava sempre ai fianchi Ausenzio [Ambros., Epist. XX.], che s'intitolava vescovo, venuto già dalla picciola Tartaria, dopo aver ivi commesso di gravissime iniquità. Voleva pure costui in quella città una chiesa per servigio dei suoi pochi ariani, consistenti in alcuni uffiziali di corte, e in quei non molti Goti che militavano nelle guardie; ma ritrovò contrario a' suoi disegni l'arcivescovo Ambrosio, la cui costanza episcopale non si lasciava intimorire neppur dalle minacce de' più crudeli supplizii [Ambros., in Psalm. 36.]. Questi gli fece fronte, ed insieme il popolo tutto, pronto a perdere piuttosto la vita, che a dar luogo alla eresia. Si seppe già risoluto in corte che fosse ceduta agli ariani la basilica Porziana, oggidì chiamata di s. Vittore, ch'era allora fuori della città, e che il santo arcivescovo per questo era stato chiamato. Il popolo anch'esso corse a furia colà; e perchè un uffizial di corte mandato con dei soldati per dissiparli vi trovò del duro, fu pregato lo stesso Ambrosio di pacificar quel rumore, con promessa di non dimandar la suddetta basilica. Ma nel dì seguente, giorno 4 di aprile, vennero uffiziali a chiedergli la basilica nuova, da lui fabbricata entro la città, appellata oggidì di san Nazario. Le risposte del santo furono magnanime e risolute, di non poter dare ciò ch'era [259] di Dio, e su cui l'imperadore non aveva autorità. Ne' giorni santi seguenti si rinforzò la persecuzione, per occupar pure una delle basiliche; ma il santo arcivescovo e il popolo resisterono fino al giovedì santo, in cui cessò quella tempesta, senza che si spargesse il sangue di alcuno. Di più non rapporto io, perchè s'ha da prendere questo bel pezzo dalla storia ecclesiastica e dalla vita dell'incomparabile arcivescovo sant'Ambrosio, la cui saviezza, coraggio e zelo in tal congiuntura son tuttavia da ammirare [Paulin., in Vit. Sancti Ambros.]. Dopo questo inutile sforzo non cessò l'infuriata Giustina di tendergli insidie e di procurarne l'esilio; ma Iddio anche miracolosamente difese sempre il suo buon servo, non essendo già cessata in quest'anno la guerra contra di lui e della fede cattolica.
Anno di | Cristo CCCLXXXVI. Indiz. XIV. |
Siricio papa 2. | |
Valentiniano II imperad. 12. | |
Teodosio imperadore 8. | |
Arcadio imperadore 4. |
Consoli
Flavio Onorio Nobilissimo fanciullo, ed Evodio.
Le leggi del codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] ci fan vedere nel dì 11 di giugno prefetto di Roma Sallustio, e poscia di nuovo nel dì 6 luglio in quella dignità Piniano sopra da noi mentovato, e possessor di essa anche nell'anno precedente. Seguitò in questo anno Valentiniano Augusto a dimorare in Milano, e Teodosio Augusto per lo più stette in Costantinopoli. Quanto al primo di questi regnanti, altro non ci suggerisce la storia intorno alle azioni di lui per conto dell'anno presente, se non che egli inviò ordine al suddetto Sallustio prefetto di Roma di rifabbricare la basilica di san Paolo nella via che conduce ad Ostia; ciò apparendo da una sua lettera pubblicata [260] dal cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad hunc Annum.]. Ma l'Augusta Giustina sua madre non tralasciava intanto di abusarsi del di lui nome ed autorità per esaltare la fazion degli ariani suoi favoriti, e distruggere, se fosse stato possibile, la cattolica chiesa di Dio. Ottenne ella dunque che l'Augusto giovane suo figliuolo formasse un'empia legge in favor degli ariani [Rufinus, lib. 2, cap. 15 et 16. Theodoret., lib. 5, cap. 3. Ambrosius, Epist. XXXI. Gaudentius, in Sermon.]. Benevolo, segretario, oppure notaio o archivista della corte incaricato di stenderla, amò piuttosto di rinunziar la sua carica e ritirarsi ad una vita privata, che di contaminar la sua penna con quel sacrilego editto. L'iniquo vescovo degli ariani Ausenzio quegli poi fu che lo compose. Nel dì 21 di gennaio di quest'anno si vide pubblicata quella legge, con cui si concedeva un'intiera libertà agli ariani di tener le loro assemblee dovunque volessero, con rigorose pene contra dei cattolici che a ciò si opponessero. In vigore di tal proclama andarono ordini a cadauna delle città di rilasciare ad essi eretici almeno una chiesa, con pena della testa a chi resistesse. Fu perciò intimato in Milano a santo Ambrosio di cedere agli ariani la basilica Porziana coi vasi sacri. Con petto forte il santo arcivescovo ricusò di ubbidire. Per questa ripugnanza un tribuno gli portò l'ordine di uscir dalla città, ed egli costantemente protestò di non poter abbandonar quel gregge che Dio avea raccomandato alla sua custodia. Vennero minacce di farlo morire, ed egli nulla più desiderava che di sofferire il martirio. Minore non era lo zelo del popolo suo, il quale per paura che il sacro pastore se n'andasse, o per amore o per forza, corse alla basilica suddetta, e per più giorni e notti stette ivi dentro in guardia. Colà inviò la corte una man di soldati per impedire alla gente di entrarvi; ma eglino stessi s'accordavano coi cattolici. [261] Fu allora che sant'Ambrosio, affinchè non si annojasse il buon popolo in quella specie di prigionia, introdusse l'uso di cantar inni, salmi ed antifone, come già si usava nelle chiese d'Oriente: tanto che anch'esso influì dipoi alla conversione di sant'Agostino. D'ordine dell'imperadore fu intimato a sant'Ambrosio di comparire a palazzo per disputar della fede con Ausenzio davanti ai giudici da eleggersi dall'una e dall'altra parte. Ma Ambrosio con lettera a Valentiniano fece intendere i giusti motivi suoi di non ubbidire. In somma i cattolici conservarono la basilica, e il santo Arcivescovo a dispetto d'altre calunnie ed insidie a lui tese dalla furibonda imperadrice ariana, stette saldo [Paulin., in Vit. s. Ambrosii.], e con lui si unirono dipoi anche i miracoli nella scoperta de' sacri corpi de' santi Gervasio e Protasio, che accrebbero la confusion degli ariani, e fecero cessar la persecuzione di Giustina. Chi di più ne desidera, dee far ricorso alla storia ecclesiastica [Rufinus. l. 2, cap. 16. Theodor., l. 5, c. 14.]. Il bello fu che Massimo il tiranno, udita questa persecuzion de' cattolici, se ne prevalse, per guadagnarsi l'aura di principe zelante della vera religione, con iscrivere a Valentiniano, ed esortarlo a desistere dal far guerra alla Chiesa vera di Dio, e di seguitar la fede de' suoi maggiori; e v'ha chi aggiugne di avergli anche minacciata guerra per questo.
Nell'anno presente ebbe l'imperadore Teodosio guerra coi popoli Grutongi, cioè con una nazion barbarica sconosciuta dianzi, e venuta a dare il sacco alla Tracia, senza dubbio dalla Tartaria. Ma probabilmente non erano se non alcuna di quelle tribù di Goti, delle quali Ammiano molto prima di questi tempi fece menzione. Zosimo parla di una irruzione qualche anno prima. Ma si può giustamente attener qui all'asserzione di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chronico.], corroborata [262] da Idacio [Idacius, in Chron.] e da Claudiano [Claudianus, in Consul. IV Honorii.], attribuendola ognun d'essi all'anno presente. Vuole esso Zosimo [Zosimus, l. 4, cap. 38.] che la gloria di avere sconfitti questi Barbari sia tutta dovuta a Promoto generale di Teodosio, il quale, stando alla guardia delle rive del Danubio, e vedendo sì gran gente invogliata di passar quel fiume, tese loro una trappola, inviando spie doppie, cioè persone pratiche della loro lingua, che si vantarono di far loro prendere il general romano con tutti i suoi a man salva. Da questa lusinghevol promessa allettati i Barbari, imbarcarono una notte in gran copia di piccoli legni la più robusta gioventù con un altro corpo che tenea dietro ai primi, e in tempo di notte si misero a valicare il Danubio. Promoto che avea preparata una flotta numerosa di navi più grosse, fattala scendere, si mise nella concertata notte con esse alla riva opposta, aspettando i nemici. Vennero, ed egli con furore gli assalì. Parte di coloro perdè la vita nell'acqua, parte provò il taglio delle spade, e fra questi perì Odoteo re o principe loro. I più restarono prigioni e specialmente i rimasti nell'altra riva, addosso i quali passò dipoi l'armata dei Romani con prenderli quasi tutti, e le lor mogli, fanciulli e bagaglie. Certo è che Teodosio col figliuolo Arcadio si trovò in persona a questa guerra. Zosimo almen confessa che egli era poco lungi di là, nè è da credere che si facesse tal impresa senza saputa ed ordine suo. Promoto gli presentò poi quella gran moltitudine di prigioni e di spoglie; ma Teodosio non solamente li fece tutti mettere in libertà, ma anche dispensò loro non pochi regali, acciocchè si arrolassero fra le sue milizie, siccome in fatti avvenne. Abbiamo da Idacio [Idacius, in Fastis.] che i due Augusti entrarono trionfanti in Costantinopoli per tal vittoria nel dì 12 di ottobre. Tal [263] conto poi fece di questi Teodosio [Zosimus, lib. 4, cap. 40.], che essendo una parte d'essi di quartiere a Tomi della picciola Tartaria, ed avendo voluto far delle insolenze in quella città, perlocchè Geronzio comandante ivi delle milizie romane li mise tutti a fil di spada: vi mancò poco che invece di ricompensa non levasse la vita ad esso Geronzio. La salvò egli con donar tutti i suoi beni agli eunuchi di corte, la potenza de' quali era anche allora esorbitante. Ma il racconto è di Zosimo, cioè di un nemico di tutti i principi cristiani. A questo anno ancora pare che s'abbiano a riferir le seconde nozze di Teodosio Augusto con Galla figliuola di Valentiniano I imperadore e di Giustina, e per conseguenza sorella di Valentiniano juniore [Idacius, in Fastis.], giacchè ne parlano circa questi tempi Filostorgio [Philostorg., lib. 10, cap. 7.] e Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chronico.]. Zosimo rapporta questo maritaggio all'anno seguente, e forse anche più tardi. Fu dipoi Galla la madre di Galla Placidia, principessa, di cui avremo da parlar non poco nel decorso della presente storia. Potrebbe essere che avvenisse ancora in quest'anno ciò che racconta Libanio [Liban., in Vit. sua.] (giacchè non sussiste, come pensò il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], ch'egli fosse morto alcuni anni prima), cioè che uno dei primi senatori, senza sapersi se di Costantinopoli o di Antiochia, prestando fede ai sogni che gli promettevano le maggiori grandezze, e contando questi suoi delirii a diverse persone, fu processato, e con lui diversi degli ascoltatori, fra' quali poco vi mancò che lo stesso Libanio non fosse compreso. Ma per la bontà di Teodosio non andò innanzi il rigore della giustizia. Pochi furono i tormentati, due solamente gli esiliati, e niuno vi perdè la vita.
Anno di | Cristo CCCLXXXVII. Indiz. XV. |
Siricio papa 3. | |
Valentiniano II imperad. 13. | |
Teodosio imperadore 9. | |
Arcadio imperadore 5. |
Consoli
Flavio Valentiniano Augusto per la terza volta, ed Eutropio.
Il prefetto di Roma anche per tutto il corrente anno si può credere che fosse Piniano, giacchè nel codice Teodosiano abbiamo una legge a lui indirizzata nel gennaio. Furono per attestato di Marcellino conte [Marcellin. Comes.] e d'Idazio [Idacius, in Fastis.] celebrati in Costantinopoli nel dì 16 d'esso gennaio i quinquennali di Arcadio Augusto con gran magnificenza e giuochi pubblici; e secondo Libiano pare che tal festa desse occasione ad una sedizion fiera che si svegliò nella città d'Antiochia. Perchè occorrevano gravi spese, allorchè si celebravano somiglianti feste, massimamente per regalar le milizie, Teodosio intimò una gravosa imposta ai popoli del suo dominio, e per cagion d'essa inferocito quello di Antiochia si alzò a rumore. Gran disputa è stata fra gli eruditi intorno all'anno di questa sollevazione che fece grande strepito in Oriente, perchè gli stessi antichi si truovano discorsi fra loro nell'assegnarne il tempo. Teodoreto e Sozomeno sembrano riferirla ad alcuni anni appresso; ed altri prima, ed altri dopo la guerra di Massimo tiranno, di cui parleremo. Però il cardinal Baronio, il Petavio e il Valesio la mettono nell'anno 388 seguente; ma il Gotofredo, il Pagi e il Tillemont, fondati specialmente sull'autorità di Libanio [Liban., Orat. XXIII.] testimonio oculare di questa turbolenza, la tengono succeduta nell'anno presente. Non tratterrò io i lettori con sì fatte liti, e, non volendo discordare dagli ultimi, ne fo menzione in quest'anno, con dire che [265] leggendosi in Antiochia l'editto di quella contribuzione, la quale se fu per cavar moneta da celebrare i quinquennali suddetti, si doveva intimare molto prima del gennaio dell'anno presente, parve essa così eccessiva, che fu accolta con lamenti e lagrime da quel popolo. Passò la feccia di quella plebe dalle querele ad un tumulto, ed ingrossatosi a poco a poco il loro numero colla giunta d'altri malcontenti, la prima scarica del loro furore fu addosso ad un bagno pubblico. Tentarono di poi questi sediziosi di sfogare la loro rabbia contra del governatore; ma questo fu difeso dalle guardie; sicchè tutta la matta lor furia si volse alle statue di Teodosio, di Flacilla Augusta, dei due lor figliuoli Arcadio ed Onorio, e di Teodosio padre del medesimo imperadore [Zosim., l. 4, c. 41. Sozomen., l. 7, c. 23. Theod. Chrysostom.]. Con delle funi le rovesciarono a terra, le spezzarono, le strascinarono per la città con grida e scherni quanti mai seppero. Attaccarono anche il fuoco ad una casa de' principali della città, ed avrebbono fatto altrettanto ad altre, se non fossero giunti gli arcieri del governatore, i quali col solo ferire un paio di que' fanatici, misero il terrore negli altri, di maniera che in breve si calmò tutto quel popolare tumulto. Furono ben presi e fatti giustiziar dal governatore i primari autori della sedizione, e infino i loro innocenti figliuoli; ma perciocchè in casi tali facilmente non riputati colpevoli tutti gli abitanti d'una città, gli uni per aver fatto il male, e gli altri per non essersi opposti, si sparse un'incredibile costernazione fra tutti que' cittadini, aspettando essi ad ogni momento (e ne corse anche la fama) che arrivassero le milizie imperiali a dare il sacco alla città, e ad empierla di sangue. Perciò si vide in poco tempo spopolata quella capitale, fuggendo chi alle città vicine, chi alla campagna, chi alle montagne colle loro mogli e figliuoli, e con quel meglio che poteano portar seco. San Giovanni Grisostomo, [266] quel mirabile sacro orator della Grecia, che si trovò presente a scena sì dolorosa, in più luoghi delle sue omelie fa un patetico ritratto del miserabile stato in cui si trovò allora Antiochia: dal che nondimeno seppe Iddio ricavare buon frutto, perchè quell'emendazion di vizii e costumi ch'esso santo con tutte le sue esortazioni e minaccie non poteva ottenere, l'ottenne il terror dell'umana giustizia in questa sì deplorabile congiuntura. Tutto fu allora compunzione e divozione; cessarono i teatri, gli spettacoli, le danze, le ubbriachezze; ognun correva alla chiesa, alle prediche; ognun si rivolse alle preghiere, affinchè Iddio ispirasse al cuor del regnante la clemenza.
Se vogliam credere a Libanio [Liban., Orat. XIV.] e a Zosimo [Zosim., lib. 4, cap. 41.], fu deputato dalla città esso Libanio, e un Illario, persone di gran credito, per portarsi alla corte ad implorar la misericordia del principe. Ma abbiamo un testimonio di maggior autorità, cioè il suddetto Grisostomo, il quale in varie sue omelie ci assicura essere bensì stati deputati alcuni della città per sì fatta spedizione, ma che uditosi dipoi ch'essi per alcuni accidenti s'erano fermati per istrada, Flaviano vescovo d'Antiochia, uomo di rara santità, benchè vecchio, benchè in malo stato di sanità, e in stagion rigida, tuttavia prese l'assunto di passare in Costantinopoli, per disarmare, s'era possibile, l'ira di Teodosio. Si accordan gli antichi scrittori, cioè i santi Ambrosio e Grisostomo, Vittore, Teodoreto, Sozomeno, Libanio e Zosimo, in dire che essendo suggetto Teodosio ne' primi empiti della collera a prendere delle risoluzioni violente, ebbe in animo e minacciò di voler rovinare Antiochia dai fondamenti, e levar la vita ad un gran numero di quegli abitanti, irritato soprattutto dall'ingratitudine d'essi, perchè più che ad altra città, aveva egli compartito più benefizii e favori ad essa. Ma siccome i principi ed uomini saggi non mai eseguiscono [267] i primi consigli della bollente collera, ma dan luogo a più mature riflessioni; così egli senza precipitar ne' gastighi, ordinò che si levassero al popolo d'Antiochia tutt'i privilegi, tutti i luoghi de' lor cari divertimenti, e massimamente il titolo di metropoli [Theodor., l. 5, c. 19. Libanius, Orat. XV. Chrysost., Hom. 17.], con sottometterla a Laodicea; e poscia spedì colà due suoi uffiziali, cioè Ellebico generale dell'armi in Oriente, e Cesario suo maggiordomo, per processare chiunque si trovasse colpevole. Le prigioni si trovarono ben tosto piene, pronunziate le condanne, preparate le mannaie. Ma eccoti venire alla città i santi romiti di que' contorni, e massimamente san Macedonio il più illustre degli altri, i quali uniti coi sacerdoti di essa città (un d'essi era allora il Grisostomo) animosamente si affacciarono ai giudici, ricordando loro l'ira di Dio, e protestando come sconvenevol azione ad un principe, il volere estinguere le immagini vive di Dio a cagione di molte immagini e statue, che si sarebbero fra poco ristabilite. Tanto in somma dissero, che fermarono l'esecuzion delle condanne con indurre i giudici ad informar prima di tutto l'imperadore, ed aspettarne dei nuovi ordini. Cesario stesso passò per le poste con tutta diligenza alla corte, e diede le notizie occorrenti. Ma intanto il venerabil aspetto, le lagrime e le ragioni del vescovo san Flaviano avevano fatto breccia nel cuore di Teodosio, cuore non di macigno, ma inclinato alla clemenza, in guisa che non parlava più che di perdono. L'ultima mano la diede Cesario colla sua venuta, fiancheggiato ancora dalle umilissime lettere scritte ad esso imperadore da san Macedonio e dagli altri santi romiti, e dalla città di Seleucia, a' quali si aggiunse anche il senato e popolo implorando tutti misericordia. Concedette infatti Teodosio un intero perdono alla città d'Antiochia, la ristabilì negli antichi suoi privilegi e diritti, e cassò tutte le condanne con immortal sua gloria ed [268] inesplicabil allegrezza di quel popolo, compiuta poi all'arrivo del santo lor vescovo Flaviano.
Ma questo rumore dell'Oriente, che si suppone accaduto nel presente anno, un nulla fu rispetto all'altro che indubitatamente in questi tempi accadde in Occidente. Imperocchè cominciarono a traspirare delle cattive intenzioni in Massimo tiranno, di rompere la pace con Valentiniano Augusto, e d'invadere l'Italia. Forse per ispiare i di lui andamenti fu risoluto nel consiglio d'esso Augusto di rispedire al tiranno quel medesimo arcivescovo Ambrosio che vedemmo nell'anno precedente così perseguitato dalla medesima corte, perchè il credito, l'eloquenza e l'onoratezza sua non avevano pari. Non si ritirò il santo pastore da questa impresa, e il suo viaggio si dee credere impreso dopo la pasqua dell'anno presente, accaduta nel dì 25 di aprile; perciocchè in quel santo giorno egli conferì il battesimo ad Agostino, poi santo, vescovo e dottor della Chiesa; e non già nell'anno seguente, come han creduto molti, ma nel presente, come han provato varii eruditi, ed ho anch'io confermato altrove [Anecdot. Latin. Tom. I, Dissert. 15.]. Passò dunque sant'Ambrosio a Treveri, mostrando di non aver altra commessione che quella di domandare il corpo dell'ucciso Graziano Augusto [Ambr., Epist. XXIV.]: il che sarebbe un pegno della buona armonia che dovea continuar fra loro. Trovò Massimo dei pretesti per non rilasciargli quel corpo, ossia le di lui ossa. E perchè egli pretese che Ambrosio e Bautone l'avessero ingannato, con avergli promesso molto e nulla attenuto, sant'Ambrosio discolpò sè stesso e il compagno. Ma vedendo che nulla restava da sperare, domandò ed ottenne il suo congedo; e dacchè fu in luogo libero, spedì innanzi a Valentiniano una lettera, con cui il ragguagliava di quanto era succeduto, conchiudendo che l'esortava di star ben in guardia contra di un uomo, [269] il quale sotto le apparenze della pace si preparava alla guerra. Non s'ingannò sant'Ambrosio. Abbiamo da Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 42.] che Valentiniano, in questa incertezza di cose, spedì un'altra ambasciata a Massimo, per chiarirsi pure se si poteva delle di lui intenzioni; e l'ambasciatore fu Donnino, uomo soriano, di sua gran confidenza e di non minor lealtà. Tali carezze, così bei regali a lui fece Massimo, che il buon uomo si figurò non esserci persona sì amica di Valentiniano come quel tiranno. Anzi avendogli Massimo esibito un corpo delle sue soldatesche, affinchè servissero a Valentiano contra de' Barbari che minacciavano la Pannonia, il mal accorto Donnino, le accettò, e con esse se ne ritornò in Italia. Bel servigio ch'egli fece a Massimo, perchè il tiranno che dianzi conosceva quanto fosse difficile e pericoloso il mettersi a passar con un'arma a le strade e i passi stretti dell'Alpi, dopo aver in questa maniera addormentato Donnino, e mandata innanzi una buona scorta delle sue genti, a tutto un tempo gli tenne dietro col grosso dell'esercito suo, e con tal segretezza, che si vide calato in Italia, prima che giugnesse avviso della mossa delle sue armi. Se sussiste la data di una legge del codice Teodosiano [L. 4, de Principib. agent. Cod. Theodos.], Valentiniano Augusto era tuttavia in Milano nel dì 8 di settembre dell'anno corrente. Zosimo cel rappresenta in Aquileia, allorchè inviò Donnino nelle Gallie.
Ora un sì inaspettato turbine dell'armi del tiranno e la poca forza delle proprie, colla giunta della voce precorsa, che le mire di Massimo principalmente tendevano a prendere vivo Valentiniano, fecero pensare unicamente il giovane Augusto alla fuga [Sozom., l. 7, c. 14. Socrat., l. 5, cap. 11. Theodor., lib. 5, cap. 14.]. Pertanto imbarcatosi in una nave coll'imperadrice Giustina sua madre, che più che mai cominciò a provare il flagello di Dio per li suoi [270] peccati, e con Probo prefetto del pretorio, fece vela per l'Adriatico alla volta di Tessalonica; dove giunto, di là spedì a Teodosio Augusto la serie delle sue disavventure con implorar l'assistenza del di lui braccio in così grave bisogno. Abbiamo da Teodoreto, avergli Teodosio risposto non essere da stupire dello stato infelice dei di lui affari e dei prosperosi del tiranno, da che Valentiniano avea impugnata la vera fede, e il tiranno l'avea protetta. Per attestato di Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 43.] e di Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chronico.], venne poi esso Teodosio in persona a fare una visita al cognato Augusto e alla suocera, e s'impegnò di adoperar tutte le sue forze per ristabilirli ne' loro stati, sì per la gratitudine ch'egli professava a Graziano suo benefattore, come per essere marito di Galla, sorella di esso Valentiniano. Scrive lo stesso Zosimo che Galla venne colla madre a Tessalonica, e che ora solamente Teodosio, preso dalla di lei bellezza, la ricercò ed ottenne per moglie dalla madre. Ma Marcellino conte e Filostorgio scrivono, essersi effettuate tali nozze nell'anno precedente. Ordinò ancora Teodosio, che fosse fatto un trattamento onorevole all'Augusto cognato e a tutta la sua corte. Tenuto poscia consiglio, fu presa la risoluzione di spedire ambasciatori a Massimo, prima di venire all'armi, per esortarlo a restituir gli stati occupati a Valentiniano, e per minacciar guerra in caso di rifiuto, giacchè l'imminente verno non permetteva di far per ora di più. Sozomeno e Socrate scrivono, all'incontro, che preventivamente Massimo inviò ambasciatori a Teodosio, per giustificare (cosa impossibile) le novelle sue usurpazioni contro la fede dei trattati. Certo è che nè Massimo si sentì voglia di lasciar la preda addentata, nè Teodosio di fare un menomo accordo con lui. E qui ci vien meno la storia, tacendo essa quanto operasse il tiranno, dacchè coll'esercito suo calò in Italia ed obbligò Valentiniano alla fuga. [271] Abbiam nondimeno bastevol fondamento di credere, anzi chiare pruove ch'egli si impadronisse di Roma e dell'Italia tutta, e che infin l'Africa solita a prestare ubbidienza a quel principe che comandava in Roma, anch'essa ai di lui voleri senza contrasto si sottomettesse. Sant'Ambrosio [Ambros., Epist. XXXIX. Class. I. edit. noviss.] in una lettera a Faustino dopo l'anno 388, scrive che venendo esso Faustino a Milano, potè vedere Claterna, posta di là da Bologna, e poi Bologna stessa, Modena, Reggio, Brescello e Piacenza, città con assai castella dianzi floridissime, ma divenute nobili cadaveri, perchè mezzo diroccate allora, e prive quasi affatto di abitatori. Con ragionevol conghiettura il cardinal Baronio stimò che la desolazion di queste città e terre sia da attribuire alla fierezza di Massimo, o perchè i popoli facessero resistenza al di lui arrivo, o perchè i cittadini con abbandonarle e ritirarsi alle montagne, gli fecero conoscere di non voler lui per padrone. Del che abbiamo anche un barlume nel panegirico di Teodosio, rammentando Pacato [Pacatus, in Panegyr., cap. 24.] le mortali piaghe (alta vulnera) che il tiranno avea fatto all'Italia. Che venissero alla di lui divozion Bologna e Verona, s'ha dalle iscrizioni [Malvasia, Marm. Felsin. Thesaur. Insc., pag. 465.] a lui poste in quelle città. E che anche Roma al giogo di lui si sottomettesse, chiaramente apparisce da sant'Ambrosio [Ambros., Epist. LXI. Class. I.], là dove scrive a Teodosio Augusto sul fine dell'anno seguente, che Massimo tiranno, avendo ne' mesi addietro inteso come in Roma era stata bruciata una sinagoga degli Ebrei, avea spedito colà un editto, affinchè fosse rifatta. Quum audisset Romae Synagogam incensam, Edictum Romam miserat, quasi vindex disciplinae publicae. Aggiungasi a ciò l'aver Simmaco, senatore di Roma e letterato celebre, ma pagano, composto un [272] nuovo panegirico in lode di Massimo [Socrates, l. 5, cap. 14.], e recitatolo alla di lui presenza, probabilmente nell'anno seguente, e forse in Aquileja. Per questa infedeltà e arditezza fu egli poi processato come reo di lesa maestà dai ministri di Teodosio, oppur di Valentiniano; e se non si salvava in una chiesa de' Cristiani, correa pericolo della sua testa. Veggonsi inoltre delle iscrizioni comprovanti il dominio di Massimo in Roma. Dicendo poi Pacato [Pacatus in Panegyr., c. 38.] che l'Africa restò esausta di danari per le contribuzioni ad essa imposte dal tiranno, abbastanza intendiamo che colà ancora si stese la di lui signoria. Aquileia intanto, città forte, dovette resistere a Massimo, e possiam conghietturare che assediata da lui si sostenesse fino all'anno seguente.
Anno di | Cristo CCCLXXXVIII. Indiz. I. |
Siricio papa 4. | |
Valentiniano II imperad. 14. | |
Teodosio imperadore 10. | |
Arcadio imperadore 6. |
Consoli
Flavio Teodosio Augusto per la seconda volta, e Cinegio.
Questi furono i consoli dell'Oriente; imperciocchè per conto dell'Italia e delle altre provincie sottoposte a Massimo tiranno, sembra infallibile che altri consoli furono eletti. Trovasi presso il Fabretti [Fabrettus, Inscript., p. 270.] un'iscrizione esistente in Roma, e posta nel dì 17 di gennaio CONS. MAGNO MAXIMO AVGVSTO. Sicchè lo stesso Massimo prese il consolato in Occidente per l'anno presente. Un'altra iscrizione [Thesaurus Novus Inscription., p. 393.], da me rapportata, secondo le apparenze pare che sia da riferire al medesimo tiranno; e su tal rapporto essa fu in onore di lui alzata da Fabio Tiziano console ordinario e prefetto di [273] Roma. Questi possiam dubitare che procedesse console non già nell'anno precedente, dappoichè Roma venne in poter di Massimo, ma bensì nel presente in compagnia d'esso tiranno, e ch'egli nello stesso tempo esercitasse la carica di prefetto di Roma. Quanto a Cinegio, console orientale e prefetto del pretorio nel medesimo tempo in Oriente, abbiamo da Idazio [Idacius, in Fastis.] ch'egli non più di due mesi e mezzo godè di questa illustre dignità perchè rapito dalla morte. E merita ben questo insigne personaggio cristiano che qui si faccia menzione del suo zelo contro l'idolatria. L'inviò Teodosio Augusto in Egitto, secondo Zosimo, nell'anno in cui seguì il trattato di pace fra lui, Valentiniano e Massimo tiranno, cioè nel 384, benchè non manchino dispute intorno a questo punto di cronologia, come si può vedere presso il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.]. Ebbe ordine Cinegio dal piissimo Augusto di abbattere per quanto potesse il paganesimo, vietando i sagrifizii e tutte le superstizioni dei gentili e chiudendo i loro templi. Confessa il suddetto Zosimo pagano [Zosimus, lib. 4, cap 37.], che egli eseguì mirabilmente tal commissione, e, per quanto sembra, non solo nell'Egitto, ma per tutte le provincie, dove si stendeva la sua giurisdizione. Imperciocchè abbiamo da Idazio [Idacius, in Fastis.], ch'egli scorrendo per esse, le liberò dalla corruttela de' secoli precedenti, e penetrò sino nell'Egitto con ispezzar gl'idoli della gentilità. Perciò in gran credito era Cinegio, specialmente in Costantinopoli, di maniera tale che, essendo egli venuto a morte in essa città, col pianto universale di quel popolo fu condotto alla sepoltura nella basilica degli Apostoli nel dì 19 di marzo dell'anno presente, e nel seguente fu poi trasportato in Ispagna da Acanzia sua moglie, perchè verisimilmente era spagnuolo di nascita. Noi abbiamo un'orazione di Libanio solista, intitolata [274] dei Templi, e data alla luce da Jacopo Gotofredo, senza ben apparire in qual anno quel gentile oratore la componesse. In essa si lamenta egli che persone vestite di nero (e vorrà dire i monaci) ne rovesciavano le statue e gli altari, e ne demolivano anche i tetti e le mura tanto nelle città che nei villaggi, ancorchè leggi non vi fossero del principe che autorizzassero questa licenza. Vuol perciò persuadere a Teodosio che non permetta un sì fatto abuso, quasi che il culto degli idoli fosse legittimo, e da tollerarsi da un regnante cristiano. Ma Libanio non avrà recitata quell'orazione al piissimo Teodosio, e questi certo, per quanto abbiam veduto di Cinegio, non era disposto a consolar le premure dei gentili, e maggiormente di ciò verremo accertati andando innanzi.
Attese con gran diligenza l'Augusto Teodosio nel verno di quest'anno a fare i preparamenti per la guerra risoluta contra di Massimo tiranno. Prese al suo servizio non pochi Barbari, come Goti, Unni ed Alani, e con ciò venne l'armata sua ad essere composta di varie nazioni, ma con essersi poi provata, secondo la testimonianza di Pacato [Pacatus, in Panegyr.], verso di Teodosio una mirabil ubbidienza e fedeltà di tutti quei Barbari, senza che ne seguissero tumulti, saccheggi, ed altri somiglianti disordini contro la militar disciplina. Siccome fra poco dirò, Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 46.], differentemente parla di questo. Promoto fu creato generale della cavalleria, e Timasio della fanteria. Filostorgio [Philost., lib. 10, cap 8.] nomina anche fra i di lui generali Abrogaste e Ricimere, uffiziali già veterani nella milizia. Al defunto Cinegio succedette nella carica di prefetto del pretorio d'Oriente Taziano, personaggio di singolar valore e perizia nel mestier della guerra, il quale, se non falla Zosimo, si trovava allora in Aquileia, e fu chiamato di là a Costantinopoli: segno che allora non dovea per [275] anche quella città essere caduta in mano di Massimo. Ma la principale speranza di vincere in questa contesa, la riponeva il cattolico imperador Teodosio nell'assistenza di Dio, amatore e protettore del giusto, e nelle orazioni dei suoi buoni servi. Uno di essi principalmente fu Giovanni [Pallad., in Laus, cap. 43. Rufinus, lib. 2, cap. 32. Theod., lib. 5, cap. 24.] solitario celebre di Licopoli, che era in concetto di gran santità, e a cui per li suoi messi fece il buon Augusto ricorso per intendere la volontà di Dio. Con ispirito profetico questo santo anacoreta gli diede sicurezza della vittoria: il che accrebbe in Teodosio il coraggio, senza più mettersi in apprensione del pericolo a cui si esponeva. In effetto, procedeva egli contra di un nemico che avrebbe potuto fargli dubitare del buon successo delle sue armi stante la superiorità delle forze, perchè veramente Massimo si trovava con un maggior nerbo di milizie, e milizie valorose. Stava inoltre aspettando, per così dire, in casa propria gli sforzi di Teodosio con abbondante provvision d'armi e di viveri, dopo aver presa Aquileja ed Emona, e con aver Andragazio suo bravo generale fatto fortificar tutti i passi e luoghi delle Alpi Giulie, per le quali dall'Illirico s'entra nella Italia. Ma a chi Dio vuol male non basta gente nè armatura alcuna. Massimo seco portava il reato della morte del suo sovrano, dell'usurpazione degli stati altrui, e dell'avere, contro la fede dei giuramenti, rotta la pace stabilita con Valentiniano. Aggiungasi che le lagrime dei popoli delle Gallie peroravano continuamente contro di lui nel tribunale di Dio. Chi bramasse di raccogliere quante estorsioni e tirannie avesse esercitato in quelle parti questo mal uomo, non ha che da leggere il panegirico composto da Pacato [Pacatus, in Panegyr., cap. 25 et seq.] in onore di Teodosio. Con insoffribili imposte, con immense confiscazioni aveva egli spolpate quelle provincie; a moltissimi, ed anche del sesso debole, [276] avea tolta la vita; tutto ivi era terrore, tutto gemiti e mestizia. Era anch'egli ricorso ad un santo profeta [Sulpic. Sever., Vit. S. Martini, cap. 23.], cioè al celebre vescovo di Tours, Martino, per saper quanto si potesse promettere della disegnata impresa d'Italia. Ma il santo prelato gli predisse, che se pure intenzion sua era di assalire Valentiniano, il vincerebbe; ma anch'egli da lì a non molto resterebbe vinto. Prestò fede Massimo alla prima parte; forse in suo cuore si rise dell'altra.
Dopo aver dunque l'Augusto Teodosio dato buon sesto agli affari d'Oriente, e pubblicate ne' primi sei mesi varie leggi [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], specialmente contro gli eretici, mentre dimorava in Tessalonica e Stubi, città della Macedonia, dove stava adunando la sua armata; e dopo aver anche lasciato al governo di Costantinopoli e di Arcadio Augusto suo figliuolo, che non aveva allora più di undici anni, un consiglio di scelti ministri, era per muoversi verso l'Italia [Zosimus, lib. 3, cap. 45.], quando si scoprì aver Massimo subornato, colla promessa di grossi regali, alquanti di que' Barbari che militavano nell'esercito di esso Teodosio, acciocchè il tradissero. Sparsasi tal voce, coloro, a' quali rimordeva la coscienza, presa la fuga, corsero ad intanarsi nelle paludi e ne' boschi della Macedonia. Si andò pertanto alla caccia di costoro, e la maggior parte di essi restò colta ed uccisa, o perì per gli stenti. Seguita a narrare il medesimo Zosimo che Teodosio spedì per mare con una buona flotta l'Augusta Giustina col figlio Valentiniano e colla figlia, senza dire qual fosse, alla volta di Roma, persuadendosi che il popolo romano, siccome d'animo contrario, loro farebbe un buon accoglimento. Ma di questo fatto si può dubitare, perchè probabilmente Valentiniano tenne dietro a Teodosio; e Massimo aveva una gran flotta in mare, condotta da Andragazio generale. Similmente [277] si può mettere in dubbio l'aggiugnersi da esso Zosimo, che anche dopo la morte di Massimo, Giustina continuò ad assistere co' suoi consigli al figliuolo Augusto. Imperocchè, per attestato di Rufino [Rufinus, lib. 2, cap. 17.], autore di questi tempi, essa finì i suoi giorni probabilmente nell'anno presente; e Prospero Tirone [Tiro Prosper., in Chronic.] mette la sua morte prima di aver veduto il figliuolo ristabilito sul trono, avendo voluto Iddio punita anche in vita con tante peripezie l'empietà di questa imperadrice ariana, dopo la persecuzione da lei fatta alla Chiesa cattolica. Un colpo ancora della mano di Dio fu creduto che Massimo staccasse da sè la possente sua flotta, condotta dal suddetto Andragazio, la quale avrebbe potuto recargli aiuto, o almeno servirgli di scampo, occorrendo il bisogno di fuggire. Dopo Zosimo [Zosim., lib. 4, c. 46.], scrive Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 35.], che non sapendosi qual via volesse tener Teodosio, e parendo più probabile quella del mare, da che egli faceva il suo armamento in Tessalonica, Andragazio fu spedito a custodire il mare, per dove egli poteva passare, con disegno fors'anche di sorprenderlo, prima che si movesse. Ora l'imperador Teodosio, dacchè ebbe messa in marcia l'armata sua, divisa in tre corpi, per dar più terrore al nemico, con somma diligenza continuò il cammino, sperando di arrivare all'improvviso addosso alle genti di Massimo, giacchè si sapeva aver egli inoltrato un grosso distaccamento sino al fiume Savo ed alla città di Siscia [Pacatus, in Panegyr.]. Inaspettatamente arrivò colà l'esercito Teodosiano, e benchè si trovasse stanca la cavalleria pel lungo viaggio, pure diede di sproni e passò co' cavalli a nuoto il fiume. Il giugnere su la opposta riva, e lo sbaragliare il nemico, lo stesso fu. Moltissimi di essi perirono svenati, altri nel fiume trovarono la lor morte.
[278] Un'altra armata di Massimo s'era postata a Petovione sopra il fiume Dravo sotto il comando di Marcellino di lui fratello. Non tardò Teodosio a portarsi colà, e a dar la seconda battaglia, la quale fu qualche tempo dubbiosa, ma in fine terminata presto colla rotta e strage di quei di Massimo. Una parte nondimeno de' vinti, calate le bandiere, messasi ginocchioni, dimandò quartiere. Teodosio non solamente loro perdonò, ma gli aggregò tutti al vittorioso esercito suo, il quale continuato il viaggio arrivò ad Emona, città dianzi occupata dopo un lungo assedio da Massimo. O sia che ivi il tiranno non avesse lasciata guarnigione bastante a difenderla, o che si unisse coi cittadini, racconta Pacato, che tutti quegli abitanti con incredibil festa spalancate le porte, andarono magnificamente ad incontrar Teodosio e a dargli le chiavi della città. Fra gli altri vantaggi che il corso di queste vittorie recò a Teodosio, due furono i principali, cioè l'uno di poter passare le aspre Alpi Giulie, senza trovar opposizione; l'altro, che scarseggiando egli, anzi mancando di vettovaglia per sostener la sua armata, vennero alle mani sue varii magazzini preparati dal nemico per uso proprio, permettendo Iddio che in pro di Teodosio tornasse ciò che servir dovea contro di lui. Intanto Massimo pieno di confusione, e come impazzito al mirar così brutti principii, non sapea qual consiglio prendere; e perchè la vergogna il riteneva dal fuggire, andò a chiudersi da sè stesso in Aquileia, come s'egli avesse pensato non già a difendere la propria vita, ma a prepararsi al gastigo de' gravi suoi peccati, coll'imprigionarsi in quella città [Orosius, lib. 7, cap. 45.]. Con delle marcie sforzate, e con parte della sua armata arrivò improvvisamente alle mura di quella città Teodosio, e ne formò l'assedio, ma assedio di corta durata [Pacatus, in Panegyr.]. Imperocchè o sia, come lasciò scritto [279] Zosimo [Zosim., lib. 4, cap. 46.], che con pochi combattenti si fosse ivi ristretto Massimo (il che non par molto credibile), o che con qualche vigoroso assalto, o altro mezzo umano superasse quelle mura: fuor di dubbio è che da lì a non molto vi entrò l'armata di Teodosio, e furono messe le mani addosso al tiranno [Philost., l. 20, cap. 8. Prosper, in Chronico. Marcellin. Comes, in Chronico.]. Spogliato Massimo di tutti gli ornamenti imperiali, tratto fu colle mani legate davanti a Teodosio, che il rimproverò forte per la sua tirannia, e principalmente per la voce da lui sparsa di aver usurpato l'imperio con intelligenza e consentimento del medesimo Teodosio: il che Massimo confessò di aver finto, per tirar le milizie nel suo partito. Desideravano, anzi si aspettavano tutti che Teodosio pria di farlo morire, il suggettasse ai più orridi tormenti; ma egli altra pena non gli decretò, se non il taglio della testa: la qual sentenza ebbe l'esecuzione tre miglia fuori d'Aquileia, nel dì 28 di luglio dell'anno presente, come vuole Idazio [Idacius, in Fastis.], o piuttosto, secondo Socrate [Socrat., l. 5, cap. 14.], nel dì 27 agosto.
Alla morte del tiranno tenne dietro immediatamente il ritorno di tutte le città dell'Italia, delle Gallie e dell'altre usurpate provincie, all'ubbidienza di Teodosio e di Valentiniano. Restava in esse Gallie Vittore figliuolo di Massimo in età fanciullesca, che già dicemmo dichiarato Augusto dal padre [Victor, in Epitome. Idac., in Fastis. Zosim., lib. 4, cap 47.]. Fu spedito colà da Teodosio con tutta diligenza il generale Arbogaste, che lo spogliò del diadema e della vita. Andragazio generale di Massimo, che si trovava in questi tempi colla sua flotta nel mare Jonio, e che, secondo l'asserzione di Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 45.], sembra aver avuta, probabilmente dall'armata navale di Teodosio, una rotta, [280] udita ch'ebbe la nuova del meritato fine di Massimo, giacchè non isperava perdono per esser stato l'uccisor di Graziano, [Claud., in Consul. IV Honorii.] e datosi in preda alla disperazione, si precipitò in mare, per risparmiare ad altri la briga di farlo morire. Così colla morte di costui e dei due suddetti illegittimi Augusti terminò questa gran tragedia. Imperciocchè per conto degli altri tutti, essi trovarono non un rigoroso giudice, ma un amorevol padre in Teodosio, con aver egli conceduto il perdono a tutti, senza volere spargimento di sangue, e senza permettere prigionie, esilii e confische, lasciando con ciò un memorabile esempio di clemenza, dove altri ne avrebbono lasciato uno di crudeltà sotto nome di giustizia. E questa forse fu l'azione la più gloriosa di quante mai facesse questo insigne imperadore, e che sarebbe a desiderare impressa nella mente e nel cuore di tutti i regnanti cristiani in somiglianti funeste occasioni. Quel solo che fece Teodosio, fu di cassare con due editti [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], l'uno del dì 22 di settembre in Aquileia, e l'altro del dì 10 di ottobre in Milano, tutti gli atti di Massimo e le elezioni da lui fatte di ministri ed uffiziali, riducendo le cose al loro primiero stato. Ma non lasciò di richiamar dall'esilio le figlie di Massimo, e fece anche dar dei danari alla madre tuttavia vivente del suddetto tiranno. Quello oltre a ciò che parve più mirabile e degno d'encomio in questo regnante fu l'onoratezza [Ambros., Epist. LXI, Class. I.], con cui egli procedette verso di Valentiniano juniore, da cui narrano alcuni degli scrittori antichi [Zosimus, lib. 4, cap. 47.], ch'egli fu accompagnato nelle imprese suddette. Avrebbe potuto altro principe di coscienza larga pretender paesi di conquista i ritolti da lui a Massimo, o almeno appropriarsene una parte per compenso delle spese fatte nella guerra. Teodosio, siccome principe magnanimo, tutto volle [281] restituito al cognato Valentiniano, solamente riserbandosi parte del governo d'essi stati, finchè Valentiniano si trovasse in età abile a governar da sè stesso. Abbiamo poi da Socrate [Socrat., l. 5, cap. 13.] e da Sozomeno [Sozom., lib. 7, cap. 13.], che mentre esso Teodosio stava occupato nella suddetta guerra contra di Massimo, si sparse in Costantinopoli una falsa voce ch'egli era rimasto sconfitto, e già si trovava vicino a cader nelle mani del nemico. Gli ariani allora che covavano in lor cuore non poca amarezza contra di lui per le chiese lor tolte e date ai cattolici, attaccarono il fuoco alla casa di Nettario, vescovo cattolico di quella città, la qual tutta restò consumata. Vennero poi nuove felici di Teodosio e gli eretici malfattori ebbero ricorso alla clemenza di Arcadio Augusto, il quale non solamente ad essi niun nocumento fece, ma impetrò loro ancora il perdono dal padre. Pare che l'Augusto Teodosio si fermasse in Milano per tutto il verno seguente.
Anno di | Cristo CCCLXXXIX. Indiz. II. |
Siricio papa 5. | |
Valentiniano II imperad. 15. | |
Teodosio imperadore 11. | |
Arcadio imperadore 7. |
Consoli
Flavio Timasio e Flavio Promoto.
Già vedemmo generali dell'armata di Teodosio Timasio e Promoto; essi, in ricompensa del loro buono servigio, ottennero la dignità consolare in questo anno. Dalle leggi del codice Teodosiano [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.] si ricava che Albino esercitò la prefettura di Roma. Le medesime ancora ci fan vedere Teodosio e Valentiniano Augusti per tutto maggio in Milano. Con una d'esse, data nel dì 23 di gennaio, Teodosio dichiarò di voler ben accettare le eredità e i legati a lui lasciati in testamenti solenni, ma non già se in [282] semplici codicilli o in lettere, o in dichiarazioni di fideicommissarii, volendo che lasciti tali pervenissero agli eredi. Questo atto di disinteresse e generosità del principe, siccome quello che precludeva l'adito a molti, i quali, come si può sospettare, cercavano di acquistarsi la grazia del regnante, procurandogli con delle falsità la roba altrui, vien sommamente commendato da Simmaco [Symmachus, lib. 2, Epist. XIII.]. Proibì ancora esso Augusto agli eretici eunomiani il far testamento, volendo che i lor beni pervenissero al fisco. Sembra che o sul fine del precedente anno, o sul principio di questo un nuovo tentativo facessero i non mai quieti senatori romani della fazion gentile presso l'Augusto Teodosio, per ottener la permissione che si rimettesse nel senato l'altare della Vittoria. Verisimilmente Simmaco, siccome primo fra essi, ne fu promotore, com'era stato in addietro. Si sa che questo eloquente personaggio fece e recitò circa questi tempi un panegirico in lode di Teodosio [Symmachus, ibid. et Epist. XXXI. Prosper., lib. 4, cap. 38. Socr., lib. 5, cap. 14.], dove destramente ancora lasciò intendere il desiderio del ristabilimento di quella superstizione. Ma sant'Ambrosio, a cui non furono ignote sì fatte mene del paganesimo, parlò forte a Teodosio di questo affare, in guisa che il tenne saldo nella negativa. Anzi, perchè Simmaco era in norma, come reo di lesa maestà, per aver fatto nell'anno addietro un altro ben diverso panegirico in lode di Massimo tiranno, e vi si aggiunse questa nuova sua temerità, Teodosio spedì ordine di spogliarlo d'ogni sua dignità, e di mandarlo in esilio cento miglia lungi da Roma. Allora fu che Simmaco, per timore di peggio, scappò in una chiesa dei Cristiani. Si adoperarono poi molti per impetrargli il perdono; e perchè Teodosio non mai tanto era disposto a far grazia, che quando pareva più in collera, non solamente gli perdonò, ma [283] l'ebbe anche caro da lì innanzi, e vedremo in breve che il promosse fino al consolato: il perchè esso Simmaco in più lettere esalta così benigno e buon regnante. Verso il fine di maggio volle Teodosio passare a Roma, per vedere quell'inclita città e farsi vedere dal popolo romano [Idacius, in Fastis.]. Seco menò il picciolo suo figlio Onorio ed insieme con lui Valentiniano Augusto. L'entrata sua in Roma fu nel dì 13 di giugno, e seguì colla magnificenza di un trionfo, ancorchè i vecchi romani non usassero mai di trionfare dopo le vittorie riportate nelle guerre civili. Perchè Rufino [Rufin., lib. 11, cap. 17.] scrive aver egli fatto il suo ingresso in quella dominante con un illustre trionfo, senza nominar Valentiniano; e perchè Pacato [Pacatus, in Panegyr.] parla solamente nel suo panegirico ad esso Teodosio, il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] pretende che il solo Teodosio trionfasse, nè in ciò avesse parte alcuna Valentiniano. Ma il tacere di quegli scrittori non è già un argomento bastante, per asserire escluso da quell'onore Valentiniano; e tanto meno da che abbiano la chiara testimonianza di Socrate [Socrat., lib. 5, cap. 14.] e Sozomeno [Sozom., lib. 7, cap. 14.], che amendue essi Augusti trionfarono. Azione troppo sconvenevole al buon Teodosio sarebbe stata il non voler compagno in quell'onore l'imperador, collega ed imperadore, più particolar signore di Roma che lo stesso Teodosio. Altrimenti converrebbe credere che non sussistesse il dirsi da Zosimo, aver Teodosio restituito Valentiniano in possesso dei suoi stati: il che niuno negherà; e le leggi concordemente da essi pubblicate in Roma stessa assai pruovano che amendue andavano concordi nell'autorità e nel dominio. Abbiamo da Idazio che in tal congiuntura Teodosio rallegrò il popolo romano con un congiario, cioè con un [284] ricco donativo. Ed allora fu che Latino Pacato Drepanio o sia Drepanio Pacato, nato nelle Gallie, recitò nel senato quel suo panegirico in onore di Teodosio, che è giunto fino ai giorni nostri.
A questi tempi attribuisce Prudenzio nel suo poema [Prudentius, in Symmachum.] la conversione di moltissimi pagani, tanto dell'ordine senatorio ed equestre, quanto del popolo romano, alla religion di Cristo. Certo è che Roma anche prima era piena di cristiani, e fra essi gran copia si contava di senatori: ma specialmente la nobiltà continuava nell'attaccamento all'idolatria. L'esempio dell'imperator Teodosio, il suo zelo, le sue esortazioni furono ora un'efficace predica a quelle reliquie del gentilesimo per abbracciar la fede di Gesù Cristo; di maniera che da lì innanzi si videro molte principali case di Roma adorare il Crocifisso, abbandonati i templi degl'idoli, e frequentate le chiese dei Cristiani, con gloria immortale di Teodosio; il che si ricava ancora da san Girolamo [Hieron., Epist. V, et in Juvinianum.], autore di questi tempi, che descrive come affatto abbattuto il paganesimo in Roma, ancorchè non lasciassero molti di persistere ostinatamente nell'antica superstizione. Attese ancora lo zelante Augusto a purgare quella gran città da varii disordini ed abusi. Uno particolarmente vien osservato da Socrate [Socrates, lib. 5, cap. 18.] e dall'autore della Miscella [Miscell., lib. 8.]. Nel sito de' pubblici forni e mulini v'era gran quantità di case, divenute ricettacolo di ladri e di femmine di mala vita, che attrappolavano con facilità la gente concorrente per necessità colà, ritenendo inoltre come prigioni specialmente i forestieri, per farli voltar le macine poste sotterra, senza che se ne accorgesse il pubblico, e vendendo poi le cattive donne la loro mercatanzia. Informato di questa infamia Teodosio, vi provvide in buona forma. Trovò parimente un detestabil abuso nella [285] condanna delle donne convinte di adulterio. La pena destinata al loro fallo era quella di far crescere i lor dilitti, perchè venivano relegate nei pubblici postriboli. Teodosio fece diroccar quelle case, e pubblicò altre pene contra delle adultere. Inoltre per le istanze di papa Siricio, che aveva scoperto in Roma una gran quantità di eretici manichei, ordinò che fossero cacciati tutti costoro fuori della città, pubblicando gravissime pene contra di loro. Diminuì parimente il numero delle ferie, acciocchè il corso della giustizia non patisse pregiudizio. In somma gran bene, per quanto potè, fece a quella città con riportarne la benedizione di tutti. Verso il principio poi di settembre si rimise in viaggio per tornarsene a Milano. Le leggi del codice Teodosiano [Gothofred., Chron. Cod. Theod.] cel fanno vedere nel dì 3 di esso mese in Valenza (nome scorretto), poscia nel foro di Flaminio, città una volta confinante a Foligno, e sul fine di novembre in Milano, dove soggiornò dipoi nel verno seguente, ed ordinò che i vescovi e chierici eretici fossero cacciati dalle città e dai borghi. Ricavasi da Gregorio Turonese [Gregor. Turonensis, l. 2, c. 9.] che circa questi tempi i popoli franchi avevano fatta qualche irruzion nelle Gallie. Probabilmente per cagion de' loro movimenti o passati o temuti, giudicò Teodosio necessaria in quelle parti la persona di Valentiniano Augusto. Ha perciò creduto taluno che questo principe passasse colà negli ultimi mesi dell'anno presente; ma di ciò possiam dubitare; anzi neppur sappiamo s'egli vi andasse nell'anno seguente. Generale dell'armi era in que' tempi nelle Gallie Arbogaste. Socrate [Socr., l. 5, c. 18. Miscella, I, 13.] scrive che Teodosio partendosi da Roma, ivi lasciò Valentiniano. Circa questi tempi racconta san Prospero [Prosper, in Chron.] che i Longobardi, i quali cominciavano ad acquistarsi nome presso i Romani, essendo mancati di vita i [286] loro duci, crearono il primo re della lor nazione, cioè Agelmondo figliuolo d'Ajone.
Anno di | Cristo CCCXC. Indizione III. |
Siricio papa 6. | |
Valentiniano II imper. 16. | |
Teodosio imperadore 12. | |
Arcadio imperadore 8. |
Consoli
Flavio Valentiniano Augusto per la quarta volta, e Neoterio.
Continuò ancora per l'anno presente Albino ad essere prefetto di Roma, ciò apparendo dalle leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] promulgate da Valentiniano Augusto. Dove dimorasse questo principe, e cosa egli operasse non ce ne dà lume alcuno la storia antica. Noi veggiamo che Teodosio Augusto governava in questi tempi come dispoticamente l'Italia, pubblicando nondimeno le leggi a nome ancora di esso Valentiniano. Consta poi dalle suddette leggi che Teodosio si fermò in Milano sino al principio di luglio. Il troviamo poi in Verona sul fine di agosto e sul principio di settembre, e di nuovo in Milano nel dì 26 di novembre, con aver passato anche il verno susseguente in essa città. Con una delle sue leggi si studiò egli di estirpare da Roma la infamia di quel peccato di carnalità che è contrario all'ordine della natura, imponendo la pena di essere bruciato vivo a chi ne fosse convinto. Con un'altra [L. 1 de Monach. Cod. Theodos.] data in Verona ordinò che i monaci dovessero starsene ritirati nelle solitudini, e non più capitar nelle città, acciocchè eseguissero in tal maniera la lor professione, che è di vivere fuori del secolo e nel silenzio. Furono i giudici che lo indussero a far questa legge, perchè quei buoni servi del Signore venivano nelle città per intercedere il perdono ai condannati alle pene, ed impedivano l'esercizio della giustizia sì necessaria al buon [287] governo, con esser giunto l'uso della lor compassione ed intercessione ad alcuni disordini ed abusi, con levare per forza essi condannati dalle mani de' giustizieri. Ma Teodosio, conosciuto poi meglio il soverchio rigore di questo editto, nell'anno 392 lo ritrattò, concedendo ad essi monaci la libertà di entrar nelle città, allorchè intervenissero motivi di necessità, o di carità del prossimo. Pubblicò egli ancora un editto nel dì 21 di giugno intorno alle diaconesse; ordinando che non venissero ammesse a quel grado, se non quelle che fossero giunte all'età di sessant'anni. Avendo esse dei figliuoli, non potevano lasciare i lor beni nè alle chiese, nè agli ecclesiastici nè ai poveri. Ancor questa legge fu poscia rivocata da lui.
Un funesto avvenimento dell'anno presente diede molto da discorrere e sarà sempre memorabile ne' secoli avvenire. Trovavasi in Tessalonica Boterico comandante dell'armi di Teodosio nell'Illirico [Sozom., l. 5, c. 17. Theodor., l. 5, c. 17. Rufinus, l. 2, c. 18.]. Perchè egli fece mettere in prigione un pubblico auriga ossia cocchiere, reo d'enorme delitto, il popolo di quella città, nel dì che si facea nel circo una solenne corsa di cavalli, dimandò con istanza la liberazione di costui, e, non avendola potuta ottenere, sì furiosamente si sollevò, che a colpi di pietre uccise quel primario uffiziale: e Teodoreto aggiunge che più d'uno de' cesarei ministri vi perì. Giunta a Milano la nuova di tal misfatto, Teodosio altamente sdegnato ne determinò un esemplare gastigo. Teneva allora un concilio numeroso di vescovi sant'Ambrosio in essa città di Milano contro gli errori dell'eresiarca Gioviniano, e per altri bisogni della Chiesa. Si mossero quei santi vescovi, e più degli altri Ambrosio, per placar l'ira del principe, il quale vinto dalle loro ragioni e preghiere si piegò alla misericordia [Paulin., Vit. Sancti Ambros.]. Ma lasciatosi poi svolgere dagli uffiziali [288] della corte, e massimamente da Rufino suo maggiordomo, mandò segretamente l'ordine del gastigo, senza che sant'Ambrosio lo penetrasse. Non s'accordano gli scrittori in raccontar quella tragica scena. Rufino pretende che raunato il popolo nel circo, i soldati ne fecero un fiero scempio. Paolino, nella vita di sant'Ambrosio, scrive che per tre ore si fece strage degli abitanti di quella città. Teodoreto e Sozomeno con poco divario ne parlano. Chi fa giungere il numero dei morti a sette mila persone [Miscell., l. 13.]. Teofane [Theoph. 2 in Chronogr.] e Zonara [Zonar., in Annal.], aprendo troppo la bocca, dicono quindici mila. Quel che è certo, fece orrore ad ognuno un castigo sì indiscreto, sì ingiusto, perchè vi perì gran quantità di passeggieri e forestieri e d'altre persone innocenti. Allorchè si seppe in Milano questa orrida ed inaudita carneficina ed inumanità, sant'Ambrosio e i vescovi adunati nel concilio la riguardarono con gemiti e sospiri come un delitto enormissimo. Ritiratosi in villa il santo arcivescovo, allorchè Teodosio tornò da non so qual viaggio, gli scrisse una lettera [Ambros., ep. LXI, Class. I.] piena di modestia e d'amore, ma insieme con forza ed autorità, rappresentandogli il commesso gravissimo eccesso, esortandolo a farne pubblica penitenza coll'esempio di Davide, e protestando che senza di questa esso Ambrosio non offerirebbe il divino sacrifizio, se Teodosio avesse intenzione di assistervi. Non dovette far breccia questa lettera nel cuore del per altro piissimo Augusto, scrivendo Paolino [Paul., Vit. Sancti Ambros.] e Teodoreto [Theod., lib. 5, cap. 17.], che arrivato esso imperadore a Milano, e volendo, secondo il suo solito, andare alla chiesa, trovò sant'Ambrosio sul limitar della porta, che con ecclesiastica libertà gli ricordò il grave suo reato, e il pubblico scandalo dato con tanta crudeltà al popolo cristiano, e che [289] così macchiato del sangue di tanti innocenti, non gli era lecito di entrare nel tempio di Dio. E perchè Teodosio rispose che anche Davidde avea peccato, prese la parola Ambrosio con dire: Giacchè, signore, avete imitato Davidde peccante, imitatelo anche penitente. Tale impressione fecero queste parole nel cuor di Teodosio, che si arrendè, accettò la pubblica penitenza, come era allora in uso nella Chiesa di Dio; pubblicamente pianse il suo peccato, pregando il popolo per lui; e finalmente riconciliato con Dio, ed assoluto dalla scomunica, fu ammesso ai divini uffizii [Rufin., l. 3, c. 18. Sozomenus, l. 7, c. 25. Augustinus, de Civit. Dei, lib. 5, cap. 26.]. A questo fatto aggiugne Teodoreto altre particolarità, che non c'è obbligo di crederle, perchè non s'accordano col racconto d'altri. Quel ch'è fuor di dubbio, non si può abbastanza ammirar la generosa libertà del santo arcivescovo nell'opporsi al delinquente imperadore, e l'eroica umiliazione dell'imperadore stesso. Gloriosa fu la prima, più gloriosa anche l'altra, di maniera che sant'Agostino [August., ibidem.], Paolino [Paulin., Vit. Sancti Ambros.], Rufino [Rufinus, lib. 3, cap. 18.], Sozomeno [Sozom., lib. 7, cap. 25.], Teodoreto [Theod., lib. 5, cap. 17.], Facondo Ermianense [Facundus, lib. 12, cap. 5.], Incmaro ed altri antichi e moderni scrittori, non si saziano di esaltare perciò l'incomparabile pietà di questi due illustri personaggi, e di proporre per esempio ai regnanti cristiani e ai sacri pastori la magnifica azione dell'uno e dell'altro.
Eppure s'è trovato a dì nostri un Crouzas protestante, il quale nella novella sua logica, gran rumore ha fatto contro l'arditezza, anzi contro la temerità di questo santo arcivescovo, per aver egli osato impedire l'ingresso nel sacro tempio al maggior di tutti i monarchi. Dovea certo delirare costui, allorchè fece una sì indecente scappata contra di uno [290] dei più insigni vescovi della Chiesa di Dio, e trovò sconvenevole ciò che ogni altra persona, provveduta di senno e conoscente della forza della religion cristiana, giudicò allora e sempre giudicherà sommamente lodevole. Lasciano forse i re e monarchi d'essere degni e bisognosi di correzione, e di cader anche nelle scomuniche, allorchè prorompono in enormi misfatti, con iscandalo universale dei loro sudditi? Quel solo che debbono in casi tali attendere i ministri di Dio, si è di ben consigliarsi colla prudenza, per non contravvenire ai suoi dettami, cioè, come lo stesso sant'Ambrosio osservò [Ambros., in Psalm. 37.], di non far temerariamente degli affronti ai principi per delitti lievi o meritevoli di compatimento; ma per i grandi peccati un vescovo può e dee, come ambasciatore di Dio coll'esempio di Natan e d'altri santi uomini, avvertirli de' loro eccessi, e ricordar loro l'obbligo di farne penitenza. Ed appunto in que' tempi la penitenza pubblica fra i Cristiani era in gran vigore. Similmente ha il prudente prelato da riflettere, se principi tali sieno o no capaci di correzione, affinchè essa correzione, in vece di guarirli, non li renda peggiori, ed essi non aggiungano qualche nuovo grave delitto ai precedenti; poichè in tal caso altro non occorre che pregar Dio che gli emendi e conduca al pentimento. Ora se l'enorme fallo dell'Augusto Teodosio meritasse correzione dal prelato, a cui come cristiano era soggetto anche quel principe coronato, ognun sel vede. E per isperarne buon frutto, non mancarono punto i lumi della prudenza. Nulla dico del gran credito, in cui era anche presso di Teodosio sant'Ambrosio per la nobiltà de' suoi natali, per l'eminente sacro suo grado, e più per la straordinaria sua virtù e pietà. Basta solamente riflettere che sant'Ambrosio assai conosceva qual buon fondo di massime cristiane, di clemenza e di timor di Dio si trovasse nel cuor di Teodosio, e [291] che per conseguente non s'aveano da temere stravaganze da sì saggio e sì ben costumato principe, ma bensì da sperar quella emendazione e penitenza ch'egli in fatti gloriosamente accettò e fece. Abbiamo dallo stesso arcivescovo [Ambros., Orat. de obitu Theodosii.] che da lì innanzi non passò giorno, in cui il piissimo Teodosio non si ricordasse e dolesse del gravissimo errore da lui commesso nella strage suddetta del popolo di Tessalonica: tanta era la di lui conoscenza dei doveri del principe, e principe cristiano [Theodor., l. 5, c. 17.]. Formò ancora una legge che le sentenze di morte non si dovessero eseguire se non trenta giorni dopo la lor pubblicazione. È stato creduto che di lui non di Graziano Augusto sia una simil legge da noi rammentata all'anno 382, ma il padre Pagi lo nega. Però da sregolata testa viene la trabocchevol censura fatta da Crouzas contra di una delle più gloriose azioni di sant'Ambrosio: azione per cui gli si professò sempre obbligato, finchè visse Teodosio, ed accrebbe verso di lui il suo amore. Finiamo l'anno presente con dire che per attestato di Marcellino conte [Marcellinus Comes, in Chron.] un obelisco magnifico fu alzato nel circo di Costantinopoli [Du-Cange, Hist. Byzant.] siccome ancora una colonna davanti al tempio di santa Sofia, su cui fu posta la statua di Teodosio tutta di argento, pesante settemila e quattrocento libbre. Questa poi, secondo Zonara [Zonar., in Annal.], fu levata di là da Giustiniano nell'anno diecisettesimo del suo regno, non per mal animo verso Teodosio, ma per amore a quel metallo. Aggiunge lo stesso Marcellino conte che fra Arcadio Augusto e Galla imperadrice sua matrigna insorsero in quest'anno dei dissapori, per i quali essa uscì, oppur fu cacciata di palazzo. Il natural buono e pacifico di Arcadio non lascia credere molto verisimilmente un tal fatto.
Anno di | Cristo CCCXCI. Indizione IV. |
Siricio papa 7. | |
Valentiniano II imperad. 17. | |
Teodosio imperadore 13. | |
Arcadio imperadore 9. |
Consoli
Taziano e Quinto Aurelio Simmaco.
Taziano, e non già Tiziano, fu il console orientale di quest'anno, Taziano, dico, il quale nel medesimo tempo esercitava la carica di prefetto del pretorio in Oriente. Simmaco quello stesso è di cui si è parlato più volte di sopra, già prefetto di Roma, gran promotore del paganesimo, e celebre fra i letterati per le sue lettere e per la sua eloquenza alquanto selvatica. Dalle leggi [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] del codice Teodosiano risulta che nel febbraio del presente anno era tuttavia prefetto di Roma Albino. Trovasi poi nel dì 14 di luglio ornato di quel titolo Alipio, il quale in una iscrizione rapportata dal Grutero [Gruter., pag. 286.], si vede nominato Faltonio Probo Alipio. Abbiamo leggi date col nome d'amendue gl'imperadori in Milano nel mese di marzo, poscia altre date ne' susseguenti mesi in Concordia, Vicenza ed Aquileia. Pretende il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che la pubblicata in Concordia, città d'Italia, sia da riferire a Valentiniano juniore, il quale per conseguente dovea essere tuttavia in Italia, senza essere passato nelle Gallie, per osservarsi la medesima indirizzata a Flaviano prefetto del pretorio d'Italia e dell'Illirico, giurisdizione d'esso Valentiniano. Noi potremmo tenere per certa cotal opinione, se fosse indubitato che Teodosio non si mischiasse per questi tempi nel governo ancora dell'Italia; del che pure ci dà indizio la sua lunga permanenza in Milano. Noi, per altro, niuna notizia abbiamo delle particolari azioni di Valentiniano spettanti a questo anno, [293] se non che le leggi suddette paiono indicare ch'egli stette in Italia finchè vi dimorò Teodosio, giacchè abbiamo la suddetta legge data in Aquileja nel dì 14 di luglio, che deve appartenere a lui, poichè un'altra data in Costantinopoli nel dì 18 d'esso mese (la quale si dee riferire a Teodosio) ci fa veder questo Augusto già uscito d'Italia, e pervenuto colà. Ma o la data d'essa ultima legge è fallata, o pur fallò Socrate in iscrivendo [Socrates, lib. 5, cap. 18.] che Teodosio entrò col figlio suo Onorio in Costantinopoli solamente nel dì 10 di novembre dell'anno presente. Racconta Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 48.], essersi esso Teodosio nel suo ritorno fermato in Tessalonica, capitale della Tessalia e d'altre provincie, perchè trovò quelle contrade maltrattate dai Barbari sbandati nelle precedenti guerre, i quali, ricovrandosi ne' boschi e nelle paludi, e prevalendosi della lontananza di Teodosio, commettevano continuamente saccheggi ed assassinii. Andò arditamente in persona (se pur è credibile) lo stesso Augusto a spiare dove era il ricovero di quei masnadieri; e, trovatolo, mosse a quella volta i soldati, per man de' quali si fece un gran macello di que' ribaldi. Generale di tale spedizione fu specialmente Promoto, che in questa medesima occasione lasciò la vita in un'imboscata a lui tesa dai Barbari. Pretende Zosimo che Rufino mastro degli uffizii, ossia maggiordomo di Teodosio, già molto potente nella corte, per particolari suoi disgusti il facesse ammazzare, tenendo segreta intelligenza co' Barbari. Ma parlando Claudiano di questa morte ne' suoi poemi contro di Rufino, senza attribuirgli un sì fatto tradimento, si può dubitare dell'asserzion di Zosimo. Secondo il medesimo Claudiano [Claud., Panegyr. Stilic., et in Rufin., lib. 1.], Stilicone vendicò poi la morte di Promoto suo amico con perseguitare i Bastarni uccisori del [294] medesimo, e ridurli insieme coi Goti, Unni ed altri Barbari che infestavano la Tracia, in una stretta valle, dove tutti gli avrebbe potuti tagliare a pezzi, se il traditor Rufino non avesse condotto Teodosio a far pace con essi.
L'anno fu questo in cui principalmente i due cattolici Augusti, fecero risplendere il loro zelo in favore della religion cristiana e della vera Chiesa di Dio. Abbiamo tre loro editti [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], pubblicati contro degli eretici ed apostati; e similmente due altri contra degli ostinati pagani, vietando loro, sotto varie pene, ogni culto degl'idoli, ogni sagrifizio, e l'entrar negli antichi templi del gentilesimo, per adorarvi i falsi dii. Ma particolarmente stese Teodosio questi divieti e pene all'Egitto, per le istanze di Teofilo zelantissimo vescovo di Alessandria. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.], all'anno 389 scrive che il gran tempio di Serapide, anticamente eretto in quella città, fu allora abbattuto, e l'opinione di lui fu seguitata dal cardinal Baronio, dal Petavio e dal Tillemont. Ma il Gotofredo e il padre Pagi (forse con più ragione) ne riferiscono la demolizione all'anno presente, in vigor delle suddette leggi. Ammiano Marcellino [Ammian., Marcell., l. 22.] parla di quel tempio, come di una maraviglia del mondo, ed alcuni pretesero [Theod., lib. 5, cap. 22.] che fosse il più grande e bello che esistesse sopra la terra. Una particolar descrizione ce ne lasciò Rufino storico di questi tempi, tale rappresentandone la magnificenza e ricchezza, che sembra ben fondato il giudizio di chi ne fece il grande elogio. Incredibil era il concorso dei divoti pagani a questo santuario della loro superstizione, e di qui ancora veniva grande utilità e vantaggio alla stessa città di Alessandria. Socrate [Socrates, l. 5, cap. 16.], Sozomeno [Sozom., lib. 7, cap. 15.], Rufino [Rufinus, lib. 3.], [295] Teodoreto [Theod., lib. 5, cap. 22.] ed altri, raccontano a lungo l'occasione, in cui quel nido famoso del gentilesimo fu diroccato. Me ne sbrigherò io in poche parole. Avendo il buon vescovo Teofilo ottenuto da Teodosio un cadente tempio di Bacco per farne una chiesa, vi scoprì delle grotte piene di ridicolose ed infami superstizioni dei gentili, che fors'anche servivano all'impudicizia e alle ladrerie dei sacerdoti pagani. Perchè fece condurre per la città queste obbrobriose reliquie, i pagani, massimamente filosofi, scoppiarono in una sollevazione contro dei cristiani; ne ferirono e ne uccisero molti; e dipoi si afforzarono nel tempio, poco fa mentovato, di Serapide, da cui sboccando di tanto in tanto, recavano gravi danni al popolo cristiano. Informato di questa turbolenza Teodosio, siccome principe clemente, non volle già gastigar le persone secondo il loro demerito, ma solamente che fossero loro tolti tutti i templi, perchè occasioni più volte ad essi di sedizioni. Essendo fuggiti i pagani per paura del gastigo, allora Teofilo fece demolire quel superbo edifizio. Poscia tutti i busti di Serapide sparsi per la città, e l'altre statue degli dii bugiardi, ed ogni altro tempio de' gentili furono atterrati; nè solamente in Alessandria, ma anche in altre città dell'Egitto e dell'Asia, con trionfar la Croce, ed annientarsi sempre più l'imperio dell'idolatria e dei demonii.
Anno di | Cristo CCCXCII. Indizione V. |
Siricio papa 8. | |
Teodosio imperadore 14. | |
Arcadio imperadore 10. |
Consoli
Flavio Arcadio Augusto per la seconda volta, e Rufino.
Orientali furono amendue i consoli. Il secondo, cioè Rufino, è quel mal uomo che andava crescendo di autorità e potenza [296] nella corte di Teodosio Augusto. Videsi in questo anno una nuova deplorabil tragedia nella persona di Valentiniano II Augusto. Era giunto questo principe all'età di vent'anni, e dopo la partenza di Teodosio dall'Italia avendo ripigliato il governo totale dei suoi stati, se n'era passato nella Gallia per vegliare agli andamenti de' Barbari e dar buon sesto a quegli affari. Noi abbiamo le mirabili qualità e belle doti di questo giovane principe, a noi descritte con pennello maestro da sant'Ambrosio [Ambros., Oration. de obitu Valentiniani.], cioè da quel sacro eloquentissimo pastore, che amava e teneva lui come in luogo di figlio, e da lui ancora teneramente era amato. Dacchè mancò di vita Giustina sua madre, seguace dell'arianesimo, e dacchè egli cominciò a conversare col cattolico imperador Teodosio, si assodò egli maggiormente nella vera fede e dottrina, e crebbe sempre più nella divozion verso Dio, e nella correzione dei suoi giovanili difetti. Dianzi si dilettava dei giuochi del circo, e dei combattimenti delle fiere [Philostorg., l. 11, cap. 1.]: rinunziò a tutti questi spassi. Dava negli occhi di ognuno la sua amorevolezza, la sua modestia, e la cura gelosa della purità, tuttochè non fosse ammogliato; tenendo egli in servitù il suo corpo e i suoi sensi, più che non facevano i padroni i loro schiavi. Non si può dire quanto foss'egli inclinato alla clemenza, quanto alieno dal caricar di nuove imposte i suoi popoli, quanto abborrisse gli accusatori [Sozom., l. 7, c. 22.]. Soprattutto professava amor per la giustizia, applicato agli affari, e protettor dichiarato della religion cattolica; e siccome egli amava grandemente i suoi sudditi, così dai sudditi suoi era universalmente amato e riverito [Orosius, l. 7, c. 35.]. Mentr'egli dunque dimorava nelle Gallie in Vienna del Delfinato, lungi dai consigli di sant'Ambrosio, s'avvisarono i senatori romani [297] della fazion pagana, che questo fosse il tempo propizio per rinnovar le batterie affin di ottener il ristabilimento del sacrilegio altare della Vittoria, ma ritrovarono un principe, a cui premeva più di piacere a Dio che agli uomini, e ne riportarono la negativa. Per attestato di sant'Ambrosio [Ambr., Epist. LXII, Class. I.], poco tempo prima della sua morte accadde questo illustre segnale del suo attaccamento alla religione di Cristo. Insorsero intanto rumori di guerra dalla parte dei Barbari, che essendo alle mani fra loro, minacciavano anche l'Alpi, per le quali è divisa l'Italia dall'Illirico. Mosso da questi sospetti sant'Ambrosio [Ambr., in Oration. de obitu Valentiniani.] avea risoluto di passar nelle Gallie, per trattarne con Valentiniano; ma inteso poi che lo stesso Augusto pensava di passar egli in Italia, non si mosse. Allorchè Valentiniano seppe avere il santo arcivescovo mutata risoluzione, gli spedì uno dei suoi uffiziali, di quei che erano chiamati silenziarii, per pregarlo di non omettere diligenza per venirlo a trovare, stante il suo desiderio di ricevere dalle mani di lui il sacro battesimo (perchè non era se non catecumeno), sì grande era l'amore e la stima sua verso quell'insigne prelato. Dopo avere scritto e spedito a sant'Ambrosio, tale era la di lui impazienza di vederlo, che due dì dopo dimandava se era ancor giunto. E ciò avvenne nell'ultimo giorno di sua vita, come s'egli avesse un chiaro presentimento della disavventura che gli accadde.
Conviene ora avvertire che dappoichè l'Augusto Valentiniano fu ito nelle Gallie, per far ivi da padrone, ritrovò un uffiziale che si mise a fare il padrone sopra di lui. Questi era Arbogaste, conte, generale dell'armi in quelle provincie, lo stesso che avea tolto di vita Vittore figlio di Massimo tiranno, e rimesse le Gallie alla ubbidienza d'esso Valentiniano. Costui non si sa bene, se fosse di nazione Franco od Alamanno, nè se nato [298] nelle Gallie, concordando nondimeno i più [Zosim., lib. 4, cap. 53. Philostorg. Claud. et alii.] in riguardarlo di nascita, o almen di origine, Barbaro, e in dire che gran credito si era acquistato colla sua bravura e perizia nell'arte militare, ed anche nel disinteresse. Più a lui che al principe si mostravano attaccati ed ubbidienti i soldati. Suida [Suidas verbo Arbogastes.] anch'egli ne lasciò un elogio tratto da Eunapio e da Zosimo, autori, che per essere pagani, volentieri lodarono Arbogaste della loro setta. Ma Socrate [Socrat., l. 5, c. 25.], Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 35.] e Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chronic.] cel dipingono qual era in fatti, cioè uomo ruvido, altero, barbaro e capace di ogni misfatto. Tal predominio prese egli nella corte [Sozom., l. 7, c. 22.], che Valentiniano tardò poco a vedersi divenuto un imperadore di stucco. Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2, cap. 8.] cita qui uno storico più degno degli altri di fede, perchè probabilmente vivuto nelle Gallie, e in questi tempi, appellato Sulpicio Alessandro; il quale attesta aver Arbogaste tenuto Valentiniano come prigione in Vienna, a guisa di un privato; aver date le cariche militari non ai Romani, ma bensì ai barbari Franchi, e le civili a persone unicamente dipendenti da lui; aver egli ridotta a tal suggezione la corte, che niuno degli uffiziali osava di far cosa ordinatagli da Valentiniano in voce o in iscritto, senza che questa fosse prima approvata da Arbogaste [Zosim., lib. 4, cap. 53.]. Ora trovandosi l'infelice giovane Augusto in sì duro crogiuolo, altamente se ne lagnava e andava scrivendo lettere a Teodosio Augusto, con avvisarlo degli strapazzi a lui fatti, e con iscongiurarlo di venire in diligenza a liberarlo: se no, ch'egli verrebbe a trovarlo. Una di queste lettere spedita senza precauzione dovette [299] essere intercetta da Arbogaste, e scoprirgli il cuore e i desiderii del principe. Penetrato dipoi ch'egli meditava di far il viaggio d'Italia, allora fu che per paura di vedersi più efficacemente accusato presso di Teodosio, concepì il nero disegno di torgli la vita. Certamente santo Ambrosio accenna che il disegno di Valentiniano di venire in Italia cagion fu della sua rovina. Zosimo [Zosim., lib. 4, c. 53.] e Filostorgio [Philostorg., lib. 11, cap. 1.] due altre particolarità aggiungono, che si dovettero spacciare dipoi, senza saper noi se vere o false. Cioè che un dì Valentiniano, non potendo più sofferire la schiavitù in cui si trovava, assiso sul trono fece chiamare Arbogaste, e guatatolo con torva occhiata gli presentò una polizza, portante che il privava della carica di generale. Gli rispose con fiera altura costui che quella carica non gliel'aveva egli data, nè togliere gliela poteva; e stracciata la carta e gittatala per terra, se ne andò. O allora, o in altra occasione accadde ancora, secondo Filostorgio, che Valentiniano per parole offensive dettegli da Arbogaste, sì fattamente s'accese di collera, che volle dar di mano alla spada di una guardia per ucciderlo. La guardia il trattenne; e benchè egli dipoi cercasse di addolcir questo trasporto, con dire che per l'impazienza di vedersi così maltrattato e vilipeso, aveva voluto uccidere sè stesso, pure Arbogaste n'ebbe assai per conoscere di qual animo fosse il principe verso di lui.
Non fu dunque da lì innanzi un segreto questa dissensione tra Valentiniano ed Arbogaste [Ambros., Oration. de obitu Valentiniani.]. E perchè questi ne dava la colpa ad alcune persone innocenti di corte, quasi che ascendessero il fuoco, Valentiniano si protestava pronto di eleggere piuttosto la morte, che a sofferir di vederle in pericolo per sua cagione. Nè già mancò chi s'interpose per riconciliarli insieme, e vi si accomodava [300] con sincerità il giovane Augusto. Anzi fra gli altri motivi di chiamar santo Ambrosio nelle Gallie, vi era ancor quello di voler lui per mallevadore della progettata concordia. E lo stesso santo arcivescovo acerbamente si afflisse dipoi [Paulin., in Vit. s. Ambrosii.], per aver tardato ad andare, perchè avendo anche Arbogaste molta stima di lui, avrebbe sperato di acconciar quegli affari, e di risparmiare all'infelice principe il colpo che l'atterrò, mentre esso Ambrosio era in cammino. Ma finiamola con dire che Arbogaste, fors'anche per aver intesa la venuta di un prelato di tanto credito, natagli apprensione, che tal maneggio fosse per suo danno, s'affrettò a levar la vita a questo amabil Augusto. Venuto il dì 15 di maggio dell'anno presente, secondo la chiara testimonianza di sant'Epifanio [Epiphan., de Mensuris, num. 20.], Zosimo e Filostorgio dicono che egli, mentre si divertiva sulla riva del Rodano, fu ucciso da Arbogaste, o pure dai di lui sicarii. Ma la corrente degli scrittori, cioè Orosio, esso Epifanio, Marcellino conte, Socrate ed altri, scrivono che egli fu una notte strangolato per ordine di Arbogaste; e per far poi credere che egli da sè stesso si fosse per disperazione levata la vita, la mattina si trovò appeso il di lui corpo ad un trave. San Prospero, Rufino e Sozomeno pare che prestassero fede a questa ingiuriosa voce, la quale è distrutta dall'autorità di sant'Ambrosio, con aver egli sostenuto nell'orazion funebre di esso principe, da lui poscia recitata in Milano, che, stante la premura mostrata d'essere battezzato, l'anima di lui era in salvo. Di questo così esecrando misfatto niun processo fu fatto dipoi per la prepotenza di Arbogaste. Procurò egli bensì, per abbagliar la gente, di comparir doglioso della sua morte, di fargli un solenne funerale nel dì seguente della pentecoste, e di permettere che il suo corpo fosse trasportato a Milano. Confessa [301] sant'Ambrosio [Ambros., Orat. de obitu Valentiniani.] che i gemiti e le lagrime dei popoli in tal congiuntura furono incessanti, parendo a cadauno d'aver perduto piuttosto il lor padre che un imperadore, e che fino i Barbari, e chi parea dianzi suo nemico, non poterono risparmiare il pianto all'udire il miserabil fine di sì buon principe. Giusta e Grata di lui sorelle, o sia che accompagnassero il di lui corpo, o pure che si trovassero in Milano, non potevano darsi pace per sì gran perdita; ed, assistendo alla sepoltura, che dopo due mesi gli fu data in quella città presso il corpo di Graziano Augusto, ascoltarono quei motivi di consolazione, che seppe loro somministrare nell'orazione funebre il santo arcivescovo di Milano.
Si può credere che dopo l'orrida suddetta tragedia il perfido generale Arbogaste avrebbe volentieri occupato il trono imperiale: ma o perchè non volle con questo salto dichiararsi colpevole della morte del suo sovrano, oppure, perchè essendo di nascita barbaro, giudicò pericoloso il prendere lo scettro dei Romani [Philost., l. 11, c. 2. Orosius, l. 7, c. 35.]: certo è ch'egli scelse persona che portasse il nome d'imperadore, e ne lasciasse a lui tutta l'autorità. Gran confidenza passava tra lui ed Eugenio, uomo che di maestro di grammatica e di retorica, s'era alzato al grado di segretario o d'archivista nella corte di Valentiniano [Socrates, l. 5, cap. 25. Zos., l. 4, c. 54.]. Se di lui parla Simmaco in due sue lettere [Symmach., l. 2, ep. LX et LXI.], dove gli dà il titolo di chiarissimo, potrebbe essere stato anche più eminente il di lui grado: e Filostorgio [Philost., lib. 11, c. 2.] sembra dire che fu maggiordomo. Era amicissimo del general Ricomere, ma più di Arbogaste, e però opinion fu che fra lui ed esso Arbogaste si formasse il concerto della morte di Valentiniano, avendogli l'indegno conte promesso di crearlo imperadore. Così fu fatto. Arbogaste imboccò [302] le milizie, acciocchè il volessero e dichiarassero Augusto; e però Eugenio salì sul trono, nè tardarono le provincie della Gallia a riconoscerlo per loro signore. Quanto all'Italia abbiam pruove nell'anno seguente, che anch'essa venne alla di lui ubbidienza. Ma per conto dell'Africa e dell'Illirico, non v'ha apparenza che accettassero la signoria del tiranno, tuttochè costui avesse in animo, anzi sperasse gagliardamente l'acquisto di tutto l'imperio romano [Sozom., l. 7, c. 22.], perchè i pagani cominciarono ad empiergli la testa di vane promesse di vincere Teodosio, tripudiando essi al vedere che Arbogaste, adoratore anch'egli de' falsi dii, si dava a conoscere arbitro degli affari sotto il nuovo tiranno. Portata intanto a Costantinopoli la nuova dell'assassinio di Valentiniano; ne provò Teodosio una somma afflizione ed inquietudine [Zosimus, l. 4, cap. 55.], e Gallia Augusta, sorella dell'ucciso principe, coi suoi pianti e lamenti mise sossopra quella real corte [Rufinus, l. 2, cap. 31.]. Andava il saggio principe ondeggiando fra i pensieri di pace e di guerra, quando gli arrivò un'ambasceria spedita da Eugenio per intendere s'egli il voleva o no per collega nell'imperio. Il capo di tal deputazione era un Rufino ateniese, accompagnato da alcuni vescovi della Gallia, i quali ebbero tanta sfrontatezza di difendere come innocente Arbogaste davanti ad esso Augusto. Dopo la dimora di qualche tempo furono essi rispediti, non si sa con quale risposta; ma ben si sa con ricchi regali, e probabilmente senza quel frutto che desideravano. Già vedemmo che Rufino fu console nell'anno presente, e come egli aveva fatto levar di vita il valoroso generale Promoto. Vi restava Taziano prefetto del pretorio d'Oriente, personaggio che gli faceva ombra, non men che Procolo di lui figliuolo, prefetto della città di Costantinopoli. Si accinse Rufino ad atterrarli amendue, e gli riuscì il disegno. Secondo [303] le apparenze fece saltar fuori contra di loro delle accuse di avanie e rubamenti da lor tutti ne' loro uffizii. Fu spogliato Taziano della dignità di prefetto del pretorio, e in questa ebbe per successore lo stesso Rufino, cominciandosi a veder leggi di Teodosio date sul fine d'agosto, e indirizzate a lui con questo titolo. Procolo figlio d'esso Taziano sul principio della tempesta se ne era fuggito, nè si sapea dove fosse. Lasciossi infinocchiar cotanto suo padre dalle promesse di Rufino, che il fece venire; ma continuò il processo contra di loro in maniera tale che esso Taziano fu relegato nel suo paese, e condannato a morte il figliuolo. La sentenza contra dell'ultimo fu eseguita nel dì 6 di decembre [Chronicon Alexandrinum.]; perchè Teodosio spedì ben l'ordine della grazia, ma colui che lo portava, passando d'intelligenza con Rufino, andò sì lentamente che non arrivò a tempo di farla valere. Furono per ordine di Teodosio cassati molti atti di Taziano e di Procolo; quantunque Claudiano [Claud., in Rufin., lib. 1.] da lì a qualche anno mettesse fra i reati dell'iniquissimo Rufino questa persecuzione fatta a Taziano e a suo figlio, pure assai fondamento s'ha per credere che i lor vizi fossero meritevoli delle suddette condanne [Rufinus, l. 10, c. 2.]. Certamente Taziano (checchè in sua lode ne dica Zosimo storico gentile) gran persecutor dei Cattolici, era stato sotto Valente Augusto; e sant'Asterio [Asterius, Homil. in fest. Kal.] riguardò la di lui peripezia per un gastigo di Dio. In quest'anno il piissimo imperador Teodosio pubblicò una nuova celebre costituzione [L. 12, de Paganis, Cod. Theod.] contra tutte le superstizioni del paganesimo, vietando con rigorose pene ogni culto degl'idoli, ogni sacrifizio ed ogni impostura dell'aruspicina. Altre leggi di lui spettanti all'anno presente abbiamo, o contro gli eretici, o per sollievo dei popoli, o per tener in [304] disciplina i soldati, o per estirpare i ladri, con altri regolamenti tutti degni di lode.
Anno di | Cristo CCCXCIII. Indizione VI. |
Siricio papa 9. | |
Teodosio imperadore 15. | |
Arcadio imperadore 11. | |
Onorio imperadore 1. |
Consoli
Flavio Teodosio Augusto per la terza volta, e Abondanzio.
Questi furono i consoli dell'Oriente, perciocchè per conto dell'Occidente Eugenio tiranno prese il consolato, e ne abbiamo i riscontri in qualche iscrizione; una avendone rapportata anch'io [Thesaur. novus Inscript., p. 394.]. Solo procedette console Eugenio, per lasciar l'altro luogo all'Augusto Teodosio, che non gli avea per anche dichiarata la guerra. A chi fosse in quest'anno appoggiata la prefettura di Roma, a noi resta ignoto. Sulpicio Alessandro storico, conosciuto dal solo Gregorio Turonense, e da lui citato [Gregor. Turonensis, l. 2, c. 8.], racconta che passava qualche nemicizia fra Arbogaste generale dell'armi del tiranno Eugenio, e Junnone e Marcomiro principi della nazion dei Franchi. Per vindicarsi di loro, Arbogaste passò colla sua armata a Colonia e poi nel furore del verno dell'anno presente valicato il Reno, andò a dare il guasto al paese d'essi Franchi, nè vi trovò opposizione alcuna, essendo fuggiti gli abitanti. Paolino nella vita di sant'Ambrosio [Paulin., in Vit. s. Ambrosii.] scrive aver egli fatta guerra ai Franchi, benchè fosse anche egli della lor nazione, e dacchè ebbe sconfitto molti di essi, aver poi stabilita pace col resto di loro. Anche il suddetto Sulpicio storico attesta che Eugenio tiranno con tutte le sue forze si lasciò vedere sul Reno, per rinnovar la pace e la lega antica coi re dei Franchi e degli Alamanni. Aspettavasi ormai Eugenio la guerra dalla parte di [305] Teodosio: e però in quest'anno attese ad ingrossar la sua armata, non solamente con truppe romane, ma ancora con arrolar quanti Franchi ed Alamanni vollero militar sotto le sue bandiere. Arbogaste era il general comandante di tutti. Già l'Italia ubbidiva ad Eugenio, e i pagani, accortisi del loro vantaggio, al vedere esso Arbogaste pagano arbitro dell'imperio, e lo stesso Eugenio poco buon cristiano, corsero a dimandargli il ristabilimento dell'altare della Vittoria, e la restituzione delle rendite tolte ai loro templi e sacerdoti. Veramente Eugenio, per attestato di sant'Ambrosio [Ambros., Epist. LXI, Class. I.] e di Paolino [Paulin., in Vit. s. Ambrosii.], diede loro più di una negativa; tante nondimeno furono le lor batterie, che infine permise quanto chiedevano per l'altare della Vittoria; ma per conto dell'entrate in vece di renderle ai templi, le dispensò ad Arbogaste, a Flaviano prefetto del pretorio, e ad altri nobili romani, ma romani gentili. Venuta poi la primavera sen venne il tiranno con tutto il suo sforzo in Italia per osservare gli andamenti del temuto Teodosio. Sul principio dell'usurpazione sua egli avea scritto a sant'Ambrosio per tirar dalla sua un prelato di tanta conseguenza e stima. Sant'Ambrosio non gli diede risposta; solamente poi gli scrisse per raccomandargli varie persone, e, udendosi poi imminente la di lui calata in Italia, si ritirò da Milano a Bologna, indi a Faenza, e finalmente a Firenze per non comunicare con chi alla tirannia avea congiunta la protezione del paganesimo. Da Firenze poi scrisse a lui una lettera piena di generosità e prudenza per giustificar la sua ritirata.
Teodosio Augusto in questo mentre faceva tutte le necessarie disposizioni per procedere contra del tiranno, senza però trascurare di far del bene al pubblico. Le leggi da lui pubblicate in quest'anno [Gothofred., in Chronol. Cod. Theodos.] tutte si veggono date in Costantinopoli. [306] Con alcune d'esse promosse la militar disciplina levando varii abusi, e soprattutto ordinando che i soldati non potessero pretendere nè dimandare a chi gli alloggiava nè legna, nè olio, nè materazzi, nè di farsi pagare in denaro i naturali loro dovuti. Allorchè i regnanti del mondo si preparavano a far guerra, uso loro ordinariamente è di mettere delle nuove imposte addosso ai miseri popoli. L'ottimo imperadore Teodosio, che cercava nelle imprese la benedizione di Dio, lungi dal voler imporre nuovi aggravi ai suoi sudditi in occasion di questo armamento contra di Eugenio, con sua legge nel dì 12 di giugno, abolì ancora un aggravio dianzi imposto dal decaduto Taziano, e fece restituire tutti que' beni che quell'uffiziale indebitamente avea confiscato a varie persone, o esiliate, o fatte morire: sopra di che il cardinal Baronio lasciò scritte varie eccellenti riflessioni. Ma ciò che incomparabilmente diede a conoscere l'impareggiabil bontà di questo imperatore, fu la celebre legge [L. unica, Si quis Imperatori maledixerit, Cod. Theodos.] emanata nel dì 9 d'agosto. In altri tempi sotto gli Augusti pagani delitto capitale fu riputato lo sparlare del principe, e il diffamare il suo nome con parole insolenti ed oltraggiose. Il buon Teodosio ordina con quell'editto ai giudici, che niuno di questi tali mormoratori sia suggetto alla pena ordinaria portata dalle leggi, aggiungendo quelle belle parole: Perchè se la lor maldicenza proviene da leggerezza indiscreta, noi dobbiamo sprezzarla; se da cieca pazzia, abbiamo da averne compassione, e se poi da cattiva volontà, a noi conviene il perdonar. Pertanto solamente ordina che sia riferito a lui quanto ne dicessero le persone per esaminare se occorresse farne ricerca, esigendo la prudenza che non si trascurino certe insolenze che tendessero a sedizioni e a turbar la quiete dello Stato. [307] L'anno fu questo, in cui Teodosio [Philost., l. 11, c. 1. Sozomenus, l. 8, c. 24. Claud. Marcellin. Comes, in Chronico.] dichiarò Augusto il suo secondogenito Flavio Onorio, ch'era in età di dieci anni. Si è disputato fra gli eruditi, se tal dichiarazione accadesse nel gennaio, oppure nel novembre dell'anno presente, nè si è potuto finora adeguatamente decidere la quistione [Chron. Alexandrinum.]. Fu medesimamente nel presente anno dato compimento in Costantinopoli ad un'insigne piazza, che portò in nome di Teodosio: intorno a che è da vedere quanto lasciò scritto nella sua Costantinopoli cristiana il Du-Cange [Du-Cange, Hist. Byzant.]. In essa città anche nel seguente anno fu alzata una statua di Teodosio a cavallo sopra la colonna di Tauro istoriata, e tale statua si pretende che fosse d'argento.
Anno di | Cristo CCCXCIV. Indiz. VII. |
Siricio papa 10. | |
Teodosio imperadore 16. | |
Arcadio imperadore 12. | |
Onorio imperadore 2. |
Consoli
Flavio Arcadio Augusto per la terza volta, e Flavio Onorio Augusto per la seconda.
Non più era un segreto la guerra fra Teodosio e il tiranno Eugenio, avendo cadaun dalla sua parte fatto dei mirabili preparamenti per questa danza. I gentili, dopo aver trovato così facile alle lor preghiere l'usurpatore [Rufin., lib. 2, cap. 33.], e cominciato spezialmente in Roma a far gli empi lor sagrifizii, quegli erano che più degli altri l'animavano ai combattimenti, perchè cercando nelle viscere delle lor vittime, vi trovavano a misura dei lor desiderii certa la vittoria di Eugenio. Sopra gli altri Flaviano prefetto del pretorio (poichè per conto del prefetto di Roma noi non sappiamo chi fosse nel presente anno), che [308] si attribuiva una gran perizia nel folle mestier dell'aruspicina [Sozom., lib. 7, cap. 22.], spacciava per immancabile la rovina di Teodosio. Queste vane speranze, o, per dir meglio, sicurezze, date ad Eugenio, non servirono poco per incoraggirlo a portarsi non già a conseguir vittorie, ma a ricevere il gastigo dovuto alle sue iniquità. E, per testimonianza di s. Agostino [August., de Civitat. Dei, lib. 5, cap. 26.], avendo occupato l'Alpi Giulie, per le quali dall'Illirico si viene in Italia, e fatte ivi molte fortificazioni, fu osservato che furono ivi poste alcune statue d'oro, o indorate, di Giove armato di fulmini, e consecrate con varie superstizioni contra di Teodosio. Teodoreto [Teodor., lib. 5, cap. 24.] anch'egli notò che l'immagine di Ercole si mirava nella principal insegna di Eugenio: cotanto il doveano aver ammaliato le vane promesse dei gentili. Ma ben diverso fu in questa sì importante congiuntura il contegno di Teodosio. Certamente non trascurò egli i mezzi umani per ottenere un felice esito alla meditata impresa, perchè, oltre alle milizie romane, si procacciò un gran rinforzo di soldatesche ausiliarie, venute dall'Armenia, Iberia ed Arabia [Claud., de Consult. III Honor. Socrates, Sozomenus.]. Moltissimi Barbari ancora abitanti di là del Danubio corsero volontieri al suo soldo per isperanza di far buon bottino. Giordano storico scrive [Jordan., de Reb. Getic., cap. 28.] che venti mila Goti si unirono al di lui esercito. Il solo Gildone, conte, governatore dell'Africa, non ostante gli ordini a lui spediti da Teodosio, trovò delle scuse per non venire; e neppur volle inviare un fantaccino o una nave, riserbandosi di seguitar poi chi restasse vincitore; politica che fu col tempo annoverata fra i suoi reati. Con sì forte armamento si potea promettere buona messe d'allori l'Augusto Teodosio: tuttavia le sue più ferme speranze erano risposte nell'aiuto e nella protezione del Dio degli eserciti, e nella giustizia della sua causa. [309] Aveva egli per tempo inviate persone a consultar s. Giovanni, solitario dell'Egitto, mentovato di sopra, personaggio tenuto, con ragione, in concetto di profeta del Signore [Rufinus, lib. 2, c. 32. Sozomenus, Theodor.]. Mandò a dirgli quell'uomo santo, che quella guerra gli costerebbe assai sangue, ma ch'egli ne uscirebbe vittorioso, con altre predizioni che si verificarono coi fatti. Oltre a ciò, per attestato di Rufino, si andò sempre il piissimo Augusto preparando a questa impresa con digiuni, orazioni e penitenze, e con frequentare i sepolcri de' martiri e degli apostoli, affin di ottenere, per intercessione dei santi, l'assistenza del braccio di Dio nei pericoli, ai quali andava ad esporsi.
Venuta dunque la primavera, mise egli in marcia la potente sua armata alla volta d'Italia, e mentre anch'egli era in procinto di tenerle dietro [Zosim., lib. 4.], Galla Augusta sua moglie nello sgravarsi d'un figlio che morì, anch'essa finì di vivere. Lasciò in Costantinopoli i suoi due figli Arcadio ed Onorio Augusti sotto la direzione di Rufino prefetto del pretorio, come costa da Claudiano, autore più autentico qui che Zosimo e Marcellino conte, i quali scrivono aver egli condotto seco il fanciullo Onorio. Una sua legge cel fa vedere in Andrinopoli nel dì 15 di giugno. L'esercito suo con gran diligenza marciava innanzi. Essendo morto ne' mesi addietro Ricomero, a cui Teodosio pensava di darne il comando, elesse dipoi in suo luogo Timasio per generale delle milizie romane, e seco unì Stilicone, persona assai accreditata, di cui avremo a parlare non poco nel proseguimento della storia. Generali delle soldatesche ausiliarie e barbariche erano Gaina, Saule e Bacuro, nativi dell'Armenia, ma uffiziali di gran valore e sperienza nell'arte militare. Con tal sollecitudine l'imperiale armata continuò il cammino, che contro l'espettazione d'ognuno si vide giunta all'Alpi Giulie; e il giugnervi, e forzar que' passi, benchè tanto premuniti per ordine di [310] Eugenio, fu una cosa stessa. Quel Giove che quivi stava con tanti fulmini pronto ad incenerir l'armi temerarie dei Cristiani, si trovò un tronco insensato contra di un principe che veniva assistito dal vero Dio [August., de Civit. Dei, lib. 5, cap. 26. Rufin., lib. 2, cap. 33.]. Se ne fuggirono tutti quei superstiziosi pagani che aveano fatto credere all'incauto Eugenio tante maraviglie dalla parte dei lor falsi dii. Flaviano prefetto del pretorio svergognato allora in mirar così fallita l'arte sua d'aruspice, e d'avere ingannato colle sue ciarle il tiranno, secondo quel che scrive Rufino, conobbe di meritare la morte: parole che han fatto conghietturare ch'egli o si uccidesse da sè stesso, o disperatamente combattendo cercasse di finir la vita fra le spade nemiche, non volendo sopravvivere a tanta vergogna. Se questo non è certo, almen sappiamo [Paulin., Vit. s. Ambros.] che costui ed Arbogaste, pagano anch'esso, nel partirsi da Milano, aveano minacciato, tornati che fossero colla vittoria, di far diventare una stalla da cavalli la chiesa cattedrale di Milano, e di costringere gli ecclesiastici a militare; e ciò perchè il clero in Milano non voleva comunicar ne' divini uffizii col tiranno Eugenio, nè ricevere obblazioni da lui, perchè il teneva per iscomunicato, o per la morte di Valentiniano juniore, o pel favore da lui dato all'idolatria.
Al calare dalle montagne trovò l'Augusto Teodosio la pianura tutta coperta dalla fanteria e cavalleria d'Eugenio [Sozom., lib. 7, cap. 24. Claudian., de Consul. IV. Honorii.], non avendo costui, oppure il suo generale, voluto dividere le sue forze, per non cader nell'errore che portò seco la rovina di Massimo tiranno. Pertanto si venne ad una battaglia presso il fiume Freddo [Socrat., lib. 5, c. 28.], probabilmente nel contado di Gorizia. Ebbe Teodosio l'avvertenza di dar la vanguardia alle milizie barbariche ed ausiliarie, sì per loro onore, come anche per riserbar a sè stesso il corpo di battaglia [311] composto di truppe romane, giacchè la perdita di quei Barbari era anche una specie di vittoria pel romano imperio. Ma costoro, benchè con gran coraggio e forza menassero le mani, non poterono star saldi davanti al valore di Arbogaste; in guisa che di essi fu fatta grande strage, e il resto si salvò colla fuga: il che fu permesso da Dio, non già per dare a Teodosio, come osserva Rufino [Rufinus, lib. 3, cap. 33.], questa mortificazione, ma affinchè non si dicesse essere stati i Barbari coloro che l'aveano fatto vincere. Teodosio, mirando da una collina questo brutto aspetto dell'oste sua, prostrato a terra alla presenza d'ognuno, implorò l'aiuto di Dio, difensor delle buone cause. Animati da questa speranza i suoi uffiziali, non tardarono più a dar di sproni ai cavalli colle loro schiere, e di entrar nella sanguinosa mischia, rovesciando le squadre e gli squadroni opposti, e coprendo di nemici svenati la campagna. Fece delle maraviglie in questo conflitto Bacuro, ma si espose talmente, che vi lasciò la vita. Per attestato di Zosimo [Zosimus, lib. 4, cap. 57.], la sera divise il menar delle mani. Ma il dirsi da lui, che durante il fatto d'armi avvenne un'ecclissi del sole con tale oscurità, che parea di notte, non si sa credere vero dagli eruditi, quando sussista il racconto di Socrate [Socrates, lib. 5, cap. 25.], che la battaglia suddetta accadesse nel dì 6 di settembre, poichè, secondo i calcoli astronomici niun'ecclissi occorse allora. Grande fu la perdita dal canto di Eugenio, ma senza comparazion maggiore quella di Teodosio [Theod., lib. 5, c. 24. Orosius, l. 7, c. 37.]; e però nel consiglio di guerra, tenuto nella notte, il parere dei generali fu di ritirarsi nel dì seguente, per riparar con delle nuove leve di gente il danno sofferto. Non era di questo sentimento il buon imperadore, perchè non sapea levarsi di cuore la confidenza già messa in Dio: laonde prese tempo a risolvere nel giorno seguente. Entrato poi in un [312] oratorio trovato in quelle montagne, senza prendere cibo o riposo, quivi inginocchiato sulla terra nuda spese molte ore della notte ad implorare il soccorso di Gesù Cristo. Sul far del giorno addormentatosi suo malgrado, gli apparvero due persone vestite di bianco, le quali dissero d'essere i santi Apostoli Giovanni evangelista e Filippo, che l'assicurarono della vittoria. Fatto poi giorno, avendo anche un soldato avuta una simil visione, si sparse immantinente questa nuova pel campo, e passò all'orecchio di Teodosio, il quale propalò allora ciò che a lui stesso era accaduto in sogno: il che mirabilmente incoraggì la sua armata.
Prese dunque l'armi, ed ordinate le schiere, calò coll'esercito suo dalla montagna per assalire il campo nemico, quando si osservò che un grosso corpo di nemici, spedito da Eugenio e da Arbogaste, aveva occupato dei siti al di dietro per dargli alle spalle, quando fosse alle mani con gli altri. Il primo favore del cielo fu che il conte Arbitrione, comandante di quell'imboscata, co' suoi prese il partito di Teodosio, liberando lui dal pericolo ed accrescendo le forze della di lui armata. Secondo Sozomeno, era già cominciata la battaglia, quando quel generale mandò ad offrirsegli, e fu accettato con vantaggiose condizioni. Teodosio a piedi si mise alla testa delle sue schiere, ed attaccò il terribil conflitto. Apparve allora visibilmente il braccio di Dio in favor dell'ottimo Augusto; perciocchè all'improvviso si levò un furiosissimo vento, che direttamente soffiava in faccia ai soldati di Eugenio con tal impeto e tal polvere negli occhi, che non sapeano dove si fossero, non poteano tener gli scudi, e le lor frecce andavano tutte a voto: laddove poco o nulla d'incomodo provando l'armata di Teodosio per quella furiosa tempesta, i lor dardi e saette felicemente colpivano tutte nei corpi dei nemici. Di questo miracoloso avvenimento non è permesso di dubitare ad alcuno, dacchè ne siamo accertati da [313] tanti autentici scrittori, i quali ne aveano parlato con più e più soldati di quei che si trovarono in quella terribil giornata, cioè dai santi Ambrosio [Ambros., in Psalm. 36.] ed Agostino [August., de Civit. Dei, lib. 5, cap. 26.], da Rufino, Paolo Orosio, Paolino, Socrate, Sozomeno e Teodoreto. Quel che è più, abbiam lo stesso confermato da Claudiano [Claud., in Consul. IV Honorii.], celebre poeta, e poeta pagano di questi tempi, che in lodando Onorio Augusto, attesta con alcuni bei versi il medesimo prodigio, attribuendo poi ridicolosamente al destino d'esso Onorio, fanciullo allora di dieci o undici anni, ciò che era dovuto alla fede e pietà di Teodosio suo padre. Ma Zosimo [Zosim., lib. 4, cap. 43.] più di Claudiano fece qui comparire il suo cuor pagano, perchè non solamente tacque l'evidente miracolo che diede la vittoria a Teodosio, ma eziandio sminuì a tutto suo potere la dignità della stessa vittoria, con dire, che persuaso Eugenio d'essere restato vincitore nella passata battaglia, si perdè a regalar i soldati e a far una buona cena, dopo la quale si diedero saporitamente tutti a dormire. Teodosio sull'alba piombò loro addosso e trovatili addormentati, ne fece macello; di questo passo arrivò anche al padiglion di Eugenio, il quale in fuggendo fu preso. Così quello scrittore pagano, è sempre rivolto a screditare i principi cristiani e le loro azioni. Ma noi, seguendo tanti altri sopraccitati storici, abbiamo, che sopraffatti i soldati d'esso Eugenio da quell'improvviso temporale, conoscendo che Dio combatteva contra di loro, parte si raccomandarono alle gambe, e parte, calate le insegne, e chiedendo ginocchioni il perdono, l'ottennero da Teodosio [Theod., lib. 5, cap. 28.] con patto che gli menassero prontamente preso il tiranno. Volarono essi al luogo dove Eugenio stava attendendo l'esito del conflitto; ed egli credendo che portassero la grato nuova della vittoria, dimandò tosto [314] se gli conducevano legato Teodosio, come avea loro ordinato di fare. Restò ben confuso e sbalordito al risponder essi, che non menavano già Teodosio a lui, ma bensì venivano per menar lui a Teodosio, perchè così comandava il padrone dell'universo. Condotto costui ai piedi del vittorioso Augusto, e rimproverato da esso per le commesse iniquità e per la vana sua confidenza nel suo Ercole, mentre voleva pure pregarlo di lasciargli la vita, gliela levarono i soldati, spiccandogli la testa dal busto, che portata dipoi sopra una picca pel campo, servì a ridurre molti dei suoi, tuttavia pertinaci, ad implorare il perdono. Arbogaste, cagion di tutti questi mali, non osando sperare grazia alcuna, si rifugiò nelle più scoscese balze di quei monti, credendosi di potere schivare il gastigo di Dio; ma risaputo che veniva cercato dappertutto, per non cader nelle mani dello sdegnato Augusto, due giorni dopo la battaglia col suo proprio stocco si levò la vita.
E tale fu il fine di questi scellerati, affrettato con prodigii dalla stessa giustizia di Dio, e ben dovuto a traditori del loro sovrano, che colla loro usurpazione tanti incomodi e danni aveano recato al romano imperio. Teodosio Augusto, senza punto insuperbire per sì segnalata vittoria, perchè tutta la riconosceva da Iddio misericordioso verso di lui, e il suo maggior piacere in averla conseguita era quello di veder confuso il paganesimo, e tante predizioni e speranze precedenti de' gentili; si studiò di esercitar anch'egli da lì innanzi la misericordia dal canto suo verso dei vinti. Non solamente si stese il suo perdono a chiunque avea prese l'armi contra di lui [August., de Civit. Dei, lib. 5, c. 16. Orosius, lib. 7, cap. 35.], ma eziandio fece partecipe della sua grazia i figliuoli d'Eugenio e di Arbogaste, che s'erano ritirati in chiesa, benchè pagani, valendosi egli di tal occasione per far loro abbracciare la religion cristiana. In vece di privarli [315] dei loro beni, diede loro anche delle cariche e dignità onorevoli, e gli amò con affetto veramente cristiano. Ad un figlio parimente di Flaviano, non ostante il demerito del padre, lasciò parte de' suoi beni [Symmachus, lib. 4, epist. VII.]: e poscia Onorio Augusto interamente il ristabilì negli onori. Era intanto ritornato sant'Ambrosio a Milano, tenendo per fermo che Teodosio uscirebbe di quella guerra colla vittoria. A lui appunto scrisse [Ambros., Epist. LXI. Class. I.] tosto il buon Augusto, acciocchè si rendesse pubbliche grazie a Dio di questo felice successo. E perciocchè molti in Milano per paura del gastigo erano scappati nelle chiese, il santo arcivescovo [Paul., Vit. s. Ambros.] non solamente in lor favore scrisse lettere a Teodosio, ma impaziente di ottener loro il perdono, si portò in persona ad Aquileia ad intercedere per loro. Non gli fu difficile l'ottenerlo, e il piissimo Augusto gli s'inginocchiò davanti, com'è credibile, per dimandargli la sua benedizione, secondo il rito d'allora, protestando di riconoscere il fortunato fine di guerra sì pericolosa dai meriti e dalle orazioni di sì santo prelato. Da Aquileia passò dipoi l'Augusto Teodosio a Milano, giungendo colà un giorno solo dopo l'arrivo di sant'Ambrosio. Quivi si diede a mettere in buon sesto i pubblici e i privati affari, perchè, per attestato di Rufino, cominciava a declinare la sua sanità, ed egli stesso già prevedeva di dover in breve dar fine a' suoi giorni. Per questo chiamò in fretta da Costantinopoli Onorio suo secondogenito. Paolino scrive [Idem., ib.] ch'egli fece venire a Milano i figliuoli, e che ricevuti nella chiesa, li consegnò a quell'insigne prelato; dal che ha argomentato il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], che anche Arcadio Augusto venisse a Milano, e sembra ciò detto da qualche altro autore. Può essere che Placida sua figliuola accompagnasse il [316] fratello Onorio; comunque sia, questa pretesa venuta di Arcadio non è ben fondata. Rufino storico e Claudiano parlano in contrario. Fuor di dubbio è bensì che arrivato a Milano il figlio Onorio (già dichiarato imperadore due anni prima) [Zosimus, lib. 4, cap. 34.], Teodosio a lui diede per sua porzion di dominio l'Italia, le Gallie, le Spagne, la Bretagna, tutta l'Africa e l'Illirico occidentale. Deputò ancora per tutore di lui Stilicone generale dell'armi. Abbiamo parimente da Zosimo ch'egli fece venire a Milano que' senatori romani che tuttavia restavano attaccati all'idolatria, esortandoli tutti a non più rifiutare la vera religion di Gesù Cristo, e protestando di non voler più permettere le gravi spese che il pubblico facea per gli empii sacrifizi del gentilesimo. Ebbe un bel dire, scrivendo il pagano Zosimo che niuno ne restò convertito; ma intanto cessarono i sagrifizii, andarono in disuso le cerimonie del gentilesimo, e furono scacciati i sacerdoti e le sacerdotesse degli idoli. Zosimo attribuisce a ciò il miserabile stato, in cui ai suoi dì era ridotto il romano imperio, scioccamente persuaso che solamente da suoi falsi dii si potesse tenere in piedi sì gran macchina, anzi durare per sempre.
Anno di | Cristo CCCXCV. Indiz. VIII. |
Siricio papa 11. | |
Arcadio imperad. 13 ed 1. | |
Onorio imperadore 3 e 1. |
Consoli
Anicio Ermogeniano Olibrio e Anicio Probino.
Erano fratelli questi due consoli, amendue occidentali, amendue della nobilissima e potente famiglia Anicia. Da Claudiano [Claud., de Consulatu Olybrii.] si ricava che avendo il senato romano fatta una deputazione ad Aquileia per inchinare e riconoscere in suo signore il vittorioso Teodosio, il [317] pregò allora di disegnar consoli per quest'anno i due suddetti fratelli. Ci fan le leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] vedere più di un prefetto di Roma nell'anno presente, cioè Basilio, poscia Andromaco, e finalmente Fiorentino. Funestissimi furono i primi giorni di quest'anno a tutto l'imperio romano, perchè gravemente s'infermò quell'Augusto che l'avea rimesso nello splendore e nella maestà primiera. Un'idropisia cagionatagli dalle fatiche della guerra contro d'Eugenio, avendolo già preso, il venne conducendo al fine della sua vita. Giacchè egli avea disposto degli stati in favor dei figliuoli, unicamente pensò al bene dei suoi popoli, comandando ad essi suoi figli di confermare il perdono, da lui dato ai ribelli, e di darlo a chi non lo avesse anche ricevuto; e similmente di abolire un'imposta pubblica [Ambros., de obitu Theodosii. Socrates, Sozomenus, et alii.]. Ordini che furono dipoi puntualmente eseguiti. Mancò egli di vita, per quanto si crede, nel dì 17 di gennaio, in età di poco più di cinquant'anni; e sant'Ambrosio, nel solenne funerale fattogli quaranta giorni appresso, recitò, alle presenza d'Onorio Augusto e dell'esercito, la sua funebre orazione, in cui espresse la sua ferma credenza, che un sì pio e sì buono imperadore fosse volato a ricevere in cielo la ricompensa delle sue opere e delle tante sue virtù, senza però lasciar di pregare per lui, acciocchè Dio il ricevesse nel perfetto riposo de' santi. Fu poi portato il di lui corpo imbalsamato a Costantinopoli, dove nel mese di novembre [Chron. Alexandr. Marcellin. Comes, in Chron.] gli venne data sepoltura nel mausoleo degl'imperadori cristiani nella basilica degli Apostoli. Noi certo abbiam potuto dalle cose fin qui dette abbastanza comprendere che insigne personaggio, che glorioso imperadore fosse Teodosio, e che ben giusto motivo ebbero i secoli [318] susseguenti di dargli il titolo di grande: tante furono le sue belle doti, tale il complesso delle sue virtù. Gli elogi che di lui si trovano presso i santi Padri [Ambros., Augustin., Paulinus Nolanus, Synesius, Rufin., Orosius, Theodor. et alii.] e storici cristiani d'allora, empirebbono più carte; ma la di lui maggior gloria risulta dalla confessione stessa degli scrittori pagani di quei tempi, i quali, quantunque poco amore portassero a questo cristianissimo Augusto, tutti nondimeno andarono d'accordo in riconoscere in lui un principe mirabile ed ornato d'incomparabili qualità. E questi furono specialmente Temistio, Libanio, Pacato, Aurelio Vittore il giovane, Simmaco e Nazario. Il solo Zosimo, nato per dir solamente male de' regnanti cristiani, il men che può accenna i di lui pregi, e gli appone ancora dei difetti che si trovano poi smentiti da tanti altri autori e dalla sperienza stessa.
Potrà bastare al lettore ch'io riferisca qui ciò che in compendio lasciò scritto di esso Teodosio il giovane Vittore [Aurel. Victor, in Epitome.] storico pagano. Fu, dice egli, Teodosio, sì per gli costumi, che per la corporatura, somigliante a Traiano, siccome apparisce dagli scritti de' vecchi e dalle pitture. Miravasi in lui la stessa capigliatura, il medesimo volto, se non che pel pelo levato dalle guance, e nella grandezza degli occhi, v'era qualche diversità; e forse non si mira tanta grazia e bel colore nella di lui faccia, nè ugual maestà nel suo andare. Ma per conto della penetrazione e vivacità della mente in nulla cedeva egli all'altro, nè si truova detta cosa di quello che a questo ancora non convenga. Nell'animo suo come in suo trono abitava la clemenza e la misericordia, come se fosse persona privata; praticava egli con tutti, distinguendosi pel solo abito dagli altri; con civiltà accoglieva ognuno, ma specialmente gli uomini dabbene. Gli davano forte nel genio le persone che andavano alla buona e senza [319] doppiezza: ed egli stimava assaissimo i letterati, purchè al loro sapere corrispondesse la bontà della vita. La grandezza sua non gli fece mai punto obbliare chi era stato ben veduto da lui nella vita privata; a questi dava cariche, danari, e compartiva altre grazie; ma riponeva la sua gratitudine più verso coloro che nelle sue disavventure gli aveano prestato aiuto. Se nel buono egli pareggiò Traiano, non l'imitò già nelle qualità cattive. Detestava egli le di lui ubbriachezze ed impudicizie, con aver sempre custodita gelosamente la castità e una sobrietà continua. Proibì ancora con una legge l'eccesso delle cantatrici e d'altre impudiche persone ai conviti; e tanto era il suo amore per la continenza, che fu il primo a vietar i matrimonii fra cugini germani. Soprattutto abborriva la vanità ed ambizione di Traiano in muovere delle guerre per avidità di guadagnarsi un trionfo e la gloria di conquistatore. Ancorchè egli fosse principe prode nel mestiere dell'armi, non cercò mai di guerreggiare, e solamente entrò in quelle guerre che trovò già svegliate, o che non si poterono schivare. Certo è ch'egli mediocramente sapeva di lettere; ma non lasciava per questo di cercar con premura d'intendere le gesta de' precedenti Augusti e personaggi famosi lodando poi le ben fatte, e detestando la superbia, la crudeltà, e massimamente la perfidia ed ingratitudine dei cattivi e dei nemici della libertà. Essendo suggetto alla collera, prendeva facilmente fuoco sulle prime contra delle azione biasimevoli, e prorompeva anche in ordini rigorosi; ma con egual facilità si lasciava piegare da lì a poco, ritrattava il già ordinato, pel suo buon naturale praticando ciò che un filosofo aveva insegnato ad Augusto, cioè che qualor si sentiva adirato ed era per venire a qualche aspra risoluzione, recitasse prima ad una ad una le lettere dell'alfabeto greco, per dar tempo di sfumare alla collera. Quel che più di [320] raro si osservò in questo gran principe, fu l'essere cresciuta sempre più la sua bontà, umiltà ed amorevolezza, quanto più crebbe la sua potenza, e molto più dopo le vittorie sue nelle guerre civili: laddove in altri si era veduto crescere il fasto, l'orgoglio ed anche la crudeltà. Le diligenze sue grandi sempre furono per mantenere l'abbondanza de' viveri: la sua liberalità e bontà, incredibile, con giugner egli infino a restituir di sua borsa ai particolari grosse somme d'oro e di argento loro tolte e consumate dai tiranni: e nel rendere i beni indebitamente occupati, non li dava già, come usarono anche i principi buoni, disfatti e nudi, ma li voleva rimessi nel loro essere di prima. In casa sua poi e nel suo particolare fu osservato aver egli rispettato sempre un suo zio paterno (probabilmente Eucherio), come se fosse suo padre; aver tenuti i figliuoli d'un suo fratello (cioè d'Onorio) e di una sua sorella, come se fossero suoi figli proprii, con praticar lo stesso amore verso cadauno de' suoi parenti. Nella sua tavola compariva la pulizia e la giovialità, ma non mai il lusso; sempre fu veduto d'accordo colle mogli; sempre compiacente verso de' figliuoli. Con gravità ed insieme con affabilità parlava a ciascuno, serbando nondimeno la misura convenevole, secondo il grado maggiore o minore delle persone.
Tale è il ritratto che ci lasciò di questo insigne Augusto Aurelio Vittore il giovane. Ma nulla dice questo istorico pagano della primaria virtù di Teodosio, cioè della pietà cristiana, per cui sempre fu e sempre sarà benedetta la sua memoria nella Chiesa di Dio. Da questo buon fondo procedette l'abborrimento suo ad ogni azione peccaminosa, la sua divozion verso Dio, l'eroica sua umiliazione davanti ai ministri dell'Altissimo, e il continuo suo zelo per estirpar le eresie e le pertinaci reliquie del gentilesimo. Se non gli riuscì di far tutto, perchè egli, siccome principe saggio, niuno [321] volea violentare in materia di religione: certamente mise tai fondamenti, che a poco a poco l'eresia ed ogni superstizione pagana andarono mancando. Moltissimi furono i templi dei gentili ch'egli fece distruggere; per ordine suo le chiese occupate dagli eretici tornarono in poter dei cattolici; ed egli stesso ne fabbricò delle nuove. Giovanni Malala [Joannes Malala, in Chronic.] parla di questo, siccome ancora della città di Teodosiopoli da lui edificata. Anche Libanio [Libanius, Oration. de Templ.] fa menzione delle città da lui fortificate, e di diverse altre fabbriche, per assicurar le contrade romane dagli sforzi delle genti barbare. Ma non avrebbe fine sì presto il ragionamento, se volessimo riandar ad una ad una tutte le belle prerogative di questo glorioso imperadore. Ragion vuole nondimeno che si ricordi al lettore un pregio che suole accompagnare il regno di quei monarchi, a' quali si dà il titolo di grandi. Cioè che a' suoi tempi mirabilmente fiorirono anche i letterati, non men fra i Cristiani che fra i pagani. Per conto degli ultimi in molto credito furono Quinto Aurelio Simmaco oratore, senatore, console e spasimato gentile, di cui restano le lettere; Rufo Festa Avieno; Temistio filosofo ed oratore; Eunapio, che ci lasciò le vite de' sofisti; Pappo e Teone matematici; Libanio sofista; e forse Vegezio, per tacer d'altri. Fu nondimeno più gloriosa la Chiesa di Dio per tanti scrittori che l'adornarono in questi tempi, cioè per san Basilio e san Gregorio Nisseno fratelli; san Gregorio Nazianzeno e san Cesario fratelli; sant'Ambrosio; santo Epifanio; sant'Efrem; sant'Anfilocchio; s. Filastrio, e tanti altri, de' quali parla la storia ecclesiastica e letteraria, oltre ad altri che prolungarono la lor vita anche sotto i figliuoli di Teodosio.
Questi figliuoli furono, come già s'è veduto, Arcadio ed Onorio, amendue prima d'ora creati imperadori Augusti, il primo dell'Oriente, l'altro dell'Occidente. [322] Ed ereditarono ben essi gli stati, ma non già il valore, l'ingegno e l'attività del padre. Quanto ad Arcadio, non mancò in vero Teodosio di provvederlo di buoni maestri; ma questi non ebbero la possanza di dargli ciò che la natura gli avea negato. Ch'egli fosse di un natural dolce, buono e pacifico, alieno dalla crudeltà, e competentemente zelante per la fede cattolica, si può argomentar dalle azioni sue; ma, per testimonianza di Filostorgio [Philost., lib. 11, cap. 3.], egli era malfatto di corpo, di picciola statura, d'una complession dilicata, con occhi melensi; e la sua bontà andava all'eccesso, di maniera che per la dappocaggine ed inabilità sua si lasciava signoreggiar da altri [Zosimus, lib. 5, cap. 14.], e la sua gran bontà veniva proverbiata da molti come stupidità, anzi stolidezza. Perciò Rufino, prefetto del pretorio, era divenuto in quella corte l'arbitro di tutto, e a man salva commetteva quante iniquità gli cadevano in mente. Per conto poi d'Onorio, neppur egli superava in abilità il fratello. Si sa che la continenza, virtù quanto rara nei principi, tanto più commendabile in essi, fu in lui eminente, siccome ancora la purità della fede [Orosius, lib. 7, cap. 37.] e l'amore della Chiesa cattolica, buon successore essendo egli stato in questo della pietà paterna. Ma neppur egli era gran testa, e neppur in cuor di lui seme alcun si ravvisava di valor guerriero. Procopio [Procop., de Bello Vandalic., l. 1, c. 2.] cel dipigne per principe non cattivo, ma insieme neghittoso, senza spirito, e fatto apposta per lasciar perire l'imperio d'Occidente a' giorni suoi. Per questa sua debolezza, e massimamente per la sua fanciullesca età, aveva egli bisogno di chi il sostenesse nel governo; e chi fu scelto per questo impiego, cioè Stilicone, non si doveva mettere gran pena per insegnargli a comandare, perchè a lui premeva di continuare il comando, sotto nome d'un così debole [323] Augusto, il più lungamente si potesse. Sicchè in Occidente si potea dire che Stilicone era imperadore di fatto, e Rufino in Oriente poco meno dell'altro. Ma non durò molto la fortuna di Rufino, ed in questo medesimo primo anno dell'imperio d'Arcadio noi andiamo a mirar quel gran colosso in precipizio.
Bastevolmente si ricava da Claudiano [Claud., in Rufin.], aver la Guascogna, provincia delle Gallie, prodotto questo mostro d'ambizione. Grande e robusto di corpo, vivace di spirito, e gran parlatore, ci vien egli dipinto da Filostorgio [Philost., lib. 11, c. 3.]. Simmaco [Symmachus, lib. 3, epist. 81 et seq.] suo amico, parlando di lui mentre era vivo, loda il di lui pronto ingegno, l'eloquenza e la leggiadria nel burlare. Morto poi che fu egli, Simmaco tenne ben un linguaggio diverso. Claudiano cel fa vedere il più scellerato uomo del mondo, pieno di ambizione, avarizia, perfidia e crudeltà. Eunapio, Zosimo, Suida, s. Girolamo ed altri attestano la di lui insaziabile avarizia e l'esorbitante ambizione. Teodosio Augusto, benchè signore di buon discernimento, pure a guisa di tanti altri principi, a' quali piacciono forte i cervelli pronti, e gl'indoratori delle parole [Zosim., lib. 5, c. 1.], fu preso dalla vivacità e dal bel parlare di costui; e però l'ammise alla sua maggior confidenza, l'alzò agli onori più cospicui, cioè fino a farlo console, e poi prefetto del pretorio, e finalmente primario ministro di suo figliuolo Arcadio Augusto. Per altro egli era cristiano, e forse questa qualità il rendè più odioso agli scrittori pagani, che ne dissero quanto male poterono dopo la di lui caduta. Abbiamo da Zosimo [Zosim., ibidem.] e da Suida [Suidas, Verbo Rufinus.] che tanto Stilicone in Occidente quanto Rufino in Oriente andavano d'accordo in vendere la giustizia e le cariche, e rovinar le più ricche famiglie, per profittar delle loro spoglie; ma erano poi discordi [324] fra loro, perchè gareggiavano insieme nell'ambizion del comando; e Stilicone particolarmente pretendeva di dover governare non men l'Occidente che l'Oriente, allegando la disposizion fatta dall'Augusto Teodosio. Il principio della rovina di Rufino fu il seguente: Avea Stilicone ottenuta in moglie Serena, figliuola di Onorio, fratello del gran Teodosio. Pensò Rufino a fare un passo più alto con proporre ad Arcadio Augusto in moglie una sua figliuola: che non fu poi preteso ch'egli per tal via meditasse di arrivare al trono. Traspirò il suo disegno, e cagion fu che s'aumentasse nel popolo l'avversione alla di lui insolenza e superbia, che ogni dì più prendea vigore. Fu interrotto questo maneggio per aver dovuto Rufino fare un viaggio ad Antiochia affin di soddisfare alle querele di Eucherio, zio o grande zio di Arcadio contra di Luciano governator dell'Oriente. Era questo Luciano figlio di Fiorenzo, già prefetto del pretorio delle Gallie: era creatura del medesimo Rufino, a cui per ottenere quel posto, avea ceduto molte sue terre; e il suo governo veniva lodato da tutti. Non d'altro era colpevole presso d'Eucherio, che per aver ricusato di far per lui una cosa ingiustamente dimandata. L'iniquo Rufino, più pensando ad aggiustar Eucherio che ad ogni altro riguardo, arrivato ad Antiochia, fece prendere Luciano, e batterlo in maniera, che sotto i colpi l'infelice lasciò la vita: crudeltà, per cui restò irritato forte quel popolo; e Rufino, se volle placarlo, diede ordine che si fabbricasse in quella città un portico, il qual poi riuscì il più vago edifizio di quella città.
Intanto Eutropio eunuco di corte, la cui potenza andremo vedendo crescere oltre misura, profittando della lontananza di Rufino, invaghì l'Augusto Arcadio di Eudosia creduta da alcuni figlia di uno dei figliuoli di Promoto, da noi veduto generale di Teodosio, ma da Filostorgio [Philost., lib. 11, c. 5.] asserita figliuola del conte Bautone [325] Franco di nazione, e celebre generale nei tempi addietro. Allorchè Rufino, tornato a Costantinopoli, si credea che il preparamento fatto per le nozze di Arcadio fosse per sua figliuola, eccoti all'improvviso sposata da lui essa Eudosia nel dì 27 di aprile di quest'anno [Chron. Alexandr.]. Questa donna Cristiana e cattolica al certo, ma superba e fiera, noi la vedremo giungere col tempo a far da padrona non solamente sopra i sudditi, ma anche sopra il marito. E quindi poi vennero molte vergognose ingiustizie da lei commesse, fra le quali la più atroce è da dire la persecuzione da lei mossa contro il più bel lume della Grecia, cioè contro di s. Giovanni Grisostomo, che l'avea pur dinanzi lodata come madre delle chiese, nudrice de' monaci e sostegno de' poveri. Decaduto dunque Rufino dalle concepute sue speranze, e temendo dall'un canto l'ascendente dell'eunuco Eutropio, e dall'altro l'armi di Stilicone suo avversario, fu comunemente creduto [Orosius, lib. 7, cap. 37. Claud., in Rufin.] ch'egli movesse gli Unni e i Goti a prendere l'armi contra del romano imperio, avvisandosi di potere in quella turbolenza far meglio i fatti propri, ed occupar anche il soglio imperiale. Non sarebbe impossibile che i suoi malevoli avessero accresciuti dipoi i suoi reati, con ispacciar lui autore di questa pretesa tela, cagione, per quanto fu detto, della sua total rovina. Comunque sia, mossi gli Unni, fecero un'irruzione nell'Armenia, e diedero il sacco a varie Provincie d'Oriente [Socrat., lib. 6, cap. 1. Sozom., lib. 8, c. 1.], con ispandere il terrore sino alla Palestina, dove dimorava allora s. Girolamo [Hier., Epis. III.]. Nello stesso tempo i Goti, esistenti nella Tracia e nelle vicine provincie di qua dal Danubio, sotto il comando di vari lor capi, uno dei quali ero Alarico, di cui avremo a favellar non poco, con intelligenza di Rufino [Marcell. Comes, in Chron. Zosim., lib. 5, cap. 5.], si scatenarono contra le provincie romane [326] dell'Europa, saccheggiando la Tracia, la Mesia, la Pannonia. Di là entrarono nella Macedonia e nella Grecia, depredando tutto, giacchè (se pur fu vero) avea Rufino date segrete commissioni ad Antioco e Geronzio, suoi confidenti e governatori di quelle parti, di non far loro ostacolo alcuno. Arrivarono poi le loro scorrerie sino alle porte di Costantinopoli; ed allora fu che Rufino uscì dalla città vestito alla gotica, sotto pretesto di andare a trattar di pace, e fu ben accolto da essi; il che accrebbe i sospetti del progettato tradimento.
Giunti questi funesti avvisi nelle Gallie, Stilicone, dopo aver confermata la pace coi Franchi ed Alamanni, coll'apparenza vistosa d'andare in soccorso d'Arcadio, ma con pensiero in fatti di abbattere Rufino, si mosse verso l'Illirico [Claud., in Rufin.], menando seco la maggior parte delle milizie che si trovavano nelle Gallie e nell'Italia, cioè quelle ancora che aveano seguitato Teodosio ed Eugenio nelle precedenti guerre. Avvertiti i Barbari [Rufin., lib. 2.] di tante armi volte contra di loro, si unirono tutti nella Tessalia, e Stilicone giunto in quelle parti, tali forze avea, che avrebbe potuto desertarli [Claud., de Laudib. Stilicon.]; ma eccoli venirgli un ordine di Arcadio, procurato do Rufino, di rimandargli tutta l'armata che avea servito a Teodosio suo padre. Ubbidì Stilicone, e gliela inviò insieme colla metà del tesoro di Teodosio. Ne costituì generale Gaina, di nazione Goto, e con lui segretamente manipolò la rovina dell'odiato Rufino, del qual disegno era complice e promotore anche l'eunuco Eutropio. Arrivò questa armata al luogo di Hebdomon fuori di Costantinopoli [Philostor., lib. 11, c. 5. Marcellin. Comes, in Chron. Zosim. Claudian.], e colà si portò per vederla l'Augusto Arcadio. Seco ero Rufino pomposamente vestito, il quale già avea fatto de' maneggi segreti con vari uffiziali per [327] farsi proclamar Augusto. Vero o non vero che ciò fosse, fuor di dubbio è che quei soldati, dopo aver inchinato Arcadio, attorniarono Rufino, e sotto gli occhi del medesimo Augusto (e però non senza vitupero) il tagliarono a pezzi nel dì 27 di novembre [Chron. Alexandr.]. La sua testa conficcata sopra di una picca fu portata a spasso per Costantinopoli. Allora saltarono fuori infinite accuse contra di lui; furono confiscati i suoi beni, e fatta festa dappertutto per la di lui sciagura. Sua moglie e una figliuola rifugiatesi in chiesa, ebbero dipoi la permissione di ritirarsi a Gerusalemme, dove terminarono in pace i lor giorni. Claudiano compose dipoi due suoi poemi contra di questo ambizioso ministro, degno certamente di quel fine, purchè sussistano i reati a lui apposti, e massimamente se fu vero che da lui procedesse la funestissima mossa dei Barbari. Sappiamo appunto che i Goti, non avendo più opposizione alcuna, portarono la desolazion per tutta la Grecia, distruggendo soprattutto le reliquie del paganesimo [Eunap., de Vitis Sophistarum. Phil. Zosim. Claudian.], giacchè eglino professavano la religion di Cristo, ma contaminata dagli errori dell'arianismo. Veggonsi poi nel Codice Teodosiano varie leggi pubblicate in quest'anno contra degli eretici e de' pagani da Arcadio, il qual sempre soggiornò in Costantinopoli [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. Altre ancora ne abbiamo spettanti all'imperadore Onorio, tutte scritte in Milano, a riserva d'una che ha la data di Brescia. Confermò egli tutti i privilegi alle Chiese cattoliche, sollevò la Campania, da un gran tributo; e con una costituzion generale accordò il perdono a chiunque avea preso l'armi in favore del tiranno Eugenio, e principalmente a Flaviano il giovane, figlio dell'altro che fu prefetto del pretorio, e partigiano spasimato di quell'usurpatore. L'anno è questo in cui santo [328] Agostino fu ordinato vescovo d'Ippona [Prosper, in Chron. Cassiodorus, in Chronico.], oggidì Bona in Africa.
Anno di | Cristo CCCXCVI. Indizione IX. |
Siricio papa 12. | |
Arcadio imperad. 14 e 2. | |
Onorio imperadore 4 e 2. |
Consoli
Flavio Arcadio Augusto per la quarta volta, e Flavio Onorio Augusto per la terza.
Se Onorio Augusto dimorante in Milano prese il terzo consolato con quella solennità che Claudiano [Claud., de Consul. IV Honor.] descrive nel quarto suo, un mirabil concorso di gente da Roma e dalle provincie d'Occidente dovette vedersi in quella città nel primo di gennaio, e una straordinaria pompa. Continuò ancora per quest'anno Fiorentino ad esercitar la carica di prefetto di Roma, del che ci accertano le leggi del codice Teodosiano. Merita ben poi d'essere osservato ciò che scrive Simmaco [Symmachus, lib. 4, epist. 61.] (verisimilmente in quest'anno): cioè che un console surrogato, o sia sostituito, mentre nel giorno natalizio di Roma, o sia nel dì 21 di aprile, con gran pompa era condotto in essa Roma sopra un carro trionfale, ne cadde, e si ruppe una gamba: accidente che dai superstiziosi Romani fu preso per presagio di disgrazie in avvenire. Per tanti anni addietro non si trova menzione o vestigio di consoli sostituiti, che cotanto furono in uso sotto gl'imperadori pagani, se non che nelle Iscrizioni talun comparisce console ordinario: indizio che non erano cessati i sostituiti. E noi sappiamo di certo che san Paolino vescovo di Nola era stato console surrogato alcuni anni prima d'ora, come credo di aver dimostrato altrove [Anecdot. Latin., Dissert. IX ad s. Paulin.]. Nell'anno presente, per attestato dell'altro Paolino [Paulin., Vit. Sancti Ambros.], che scrisse la vita di santo [329] Ambrosio, accadde, che mentre interveniva il popolo ad un magnifico combattimento di fiere mandate dall'Africa per celebrare il consolato di Onorio Augusto Stilicone conte, ad istanza di Eusebio prefetto del pretorio d'Italia, spedì dei soldati a prendere un certo Cresconio, reo di gravi delitti, che s'era ritirato in chiesa, ed avea abbracciato il sacro altare. Godevano anche allora le chiese il privilegio dell'immunità. Sant'Ambrosio che li si trovava in quel tempo con alcuni pochi ecclesiastici, cercò ben di difenderlo, ma non potè; del che sommamente egli s'afflisse, e pianse non poco davanti al medesimo altare. Ritornati poi che furono all'anfiteatro gli uffiziali che aveano condotto via Cresconio, e postati al luogo loro, avvenne che alcuni liompardi sbucati nella platea, con un salto arrivarono sopra le sbarre, e lasciarono malamente graffiati e feriti que' medesimi uffiziali: il che osservato da Stilicone, cagion fu che egli, fatta penitenza del fallo, soddisfacesse al santo arcivescovo, nè gastigasse dipoi il delinquente.
Era ben riuscito a questo generale di atterrar nell'anno precedente il suo emulo Rufino, figurandosi forse di poter mettere le mani anche nel governo dell'orientale imperio a tenore delle sue pretensioni. Ma insorse nella corte d'Arcadio un competitore anche più potente dell'altro, cioè l'eunuco Eutropio, che tosto fece argine ai disegni di Stilicone. Intanto i masnadieri goti seguitavano a devastare la Grecia. Ancorchè questa fosse della giurisdizion di Arcadio, non lasciò Stilicone di voler passare con assai forze sopra una flotta di navi, che approdò nel Peloponneso, o sia nella Morea. Zosimo [Zosim., lib. 5, cap. 7.] scrive ciò fatto nell'anno precedente, ma, secondo Claudiano, ciò sembra avvenuto nel presente; e forse non sussiste ch'egli si fosse ritirato da quelle contrade. Gran copia di que' Barbari furono in vari incontri tagliati [330] a pezzi, ed avrebbe Stilicone potuto farli perir tutti, se non si fosse perduto nelle delizie e nei divertimenti di buffoni e di donne poco oneste, concedendo nel medesimo tempo man larga ai suoi soldati di radere quelle poche sostanze che i Barbari aveano lasciate indietro. Grande ombra intanto e gelosia prese la corte di Costantinopoli di questi andamenti di Stilicone, e più ne prese Eutropio, siccome ben conoscente degli ambiziosi disegni di questo generale, e però si pensò quivi al riparo. S'erano ritirati i Goti nell'Epiro, e lo distruggevano. Arcadio, per consiglio de' suoi, maneggiò e conchiuse con loro un trattato di pace, ed accettò da lì a non molto Alarico per generale dell'armi sue: con che cessò la paura del barbarico potere. Un passo più forte fece dipoi (non so dir se in questo, o nell'anno seguente) con dichiarare Stilicone perturbatore delle giurisdizioni altrui, e nemico pubblico e con occupar tutti i beni, cioè le terre ed il palazzo ch'egli godeva in Oriente. Sicchè Stilicone altro non avendo fatto che aumentare alla Grecia i malanni cagionati dai Goti, fu obbligato a ritornarsene in Italia. Tali atti per conseguente introdussero della diffidenza e del mal animo fra i due fratelli Augusti, benchè il maggior fuoco consistesse nel vicendevol odio dei due principali ministri e favoriti, cioè di Stilicone e di Eutropio. Claudiano [Claud., de Laud. Stiliconis.] lascia intendere che si giocò dipoi ancora d'occulte insidie contro la vita di Stilicone, e per corrompere i generali di Onorio, essendosi intercette lettere che scoprirono gl'intrighi segreti. Intanto uno de' principali studi dell'eunuco Eutropio era quello di levarsi d'attorno le persone di credito, e chiunque potea fargli ombra, ed intorbidar la felicità del suo comando [Idem, in Eutropium, lib. 1.]. Forse circa questi tempi egli trovò le maniere per far cacciare in esilio Timasio, valoroso general dell'armate, ed Abondanzio già [331] stato console [Zosim., lib. 5, cap. 11.], con inventar cabale e false accuse, e trovar persone infami che tenevano mano a tutte le sue iniquità. Sotto un principe debole possono tutto i ministri cattivi. Molte leggi abbiamo dei due Augusti in quest'anno [Gothofred., Chron. Cod. Theod.], la maggior parte nondimeno di Arcadio, date in Costantinopoli. Alcune d'esse contro degli eretici, altre perchè non sia fatto aggravio ai giudici, altre perchè i magistrati spediscano prontamente le cause criminali, acciocchè non marciscano nelle prigioni i poveri carcerati.
Anno di | Cristo CCCXCVII. Indiz. X. |
Siricio papa 13. | |
Arcadio imperad. 15 e 3. | |
Onorio imperadore 5 e 3. |
Consoli
Flavio Cesario e Nonio Attico.
Console per l'Oriente fu Cesario. Viene appellato dal padre Pagi [Pagius, Critic. Baron.] prefetto della città di Costantinopoli; ma chiaramente risulta dalle leggi del codice Teodosiano, ch'egli era prefetto del pretorio d'Oriente. Perchè in Roma una iscrizione si trova, dedicata alla madre degli dii da Clodio Ermogeniano Cesario, uomo chiarissimo, il Reinesio [Reines., Ep. LXIX.] si avvisò che tali fossero i nomi di questo console; nel che fu seguitato dal Relando [Reland., in Fast.]. Ma Cesario console di questo anno dimorava in Oriente, e nulla avea che fare in Roma, e conseguentemente non si può dire spettante a lui quel marmo. Attico fu console per l'Occidente. Quali ho io posto i nomi di questi consoli, tali si trovano in due iscrizioni da me date alla luce [Thes. novus Inscript., pag. 394.]. Gran perdita fece nell'anno presente la Chiesa di Dio e di Milano per la morte dell'incomparabil arcivescovo di quella città, cioè di santo Ambrosio, accaduta nel dì 4 d'aprile, in [332] cui correva allora il sabato santo. Le sue rare virtù, gloriose azioni e miracoli, si leggono nella di lui vita, scritta da Paolino suo diacono [Paulin., Vit. Sancti Ambros.], dall'Herman e dal Tillemont. V'ha chi riferisce all'anno seguente la di lui morte: ma le ragioni addotte dal padre Pagi, sufficienti sono a stabilirla nel presente. Seguitava l'Augusto Onorio a tener la sua corte in essa città di Milano, come consta da varie sue leggi [Gothofr., Chron. Cod. Theodos.] di quest'anno pubblicate ivi, contandosene una sola data in Padova nel mese di settembre. Noi troviamo in esse stabiliti i privilegi e le esenzioni delle persone ecclesiastiche, e nominatamente del romano pontefice; saggi regolamenti per la quiete e maestà della città di Roma; e per mantenere in essa l'abbondanza del grano. Insorse in quest'anno un pericoloso turbine contra di esso Augusto nell'Africa. Il grado di conte e generale delle milizie di quelle provincie era da molto tempo esercitato da Gildone, personaggio africano, e fratello di quel medesimo Fermo che noi vedemmo ribellato all'imperio l'anno 375. Perchè egli aveva ben servito ai Romani contra d'esso suo fratello, fu promosso agli onori, ed arrivò ad ottenere l'importantissimo comando suddetto. Ma costui, se non falla Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chronic.], era pagano, e certamente i suoi costumi tale il davano a divedere. Secondo Claudiano [Claud., de Bello Gildonis.], l'avarizia, la crudeltà e la lussuria più stomacosa, tuttochè egli si trovasse in età avanzata, davano negli occhi di ognuno, e faceano gemere que' popoli che per dieci o dodici anni ebbero sulle spalle questo cattivo uffiziale. Sant'Agostino [August., Ep. LXXXVII. et in Joh. Homil. V.] attesta anche egli che le di lui scelleraggini erano famose dappertutto. A compierle vi mancava la perfidia ed infedeltà verso il sovrano, ed egli a questo anche pervenne. [333] Allorchè seguì la ribellione di Eugenio, già dicemmo che Teodosio Augusto con tutti gli ordini a lui inviati di venire in soccorso suo, non fu punto ubbidito, perchè il malvagio uomo avea risoluto di aspettare la decision della guerra, per seguitar poi chi restava vittorioso. Ebbe la fortuna che Teodosio sopravvisse poco, perchè certo ne avrebbe ricevuto da lui il meritato castigo.
Ora costui, dopo la morte di esso Teodosio, durante qualche tempo riconobbe per suo signore Onorio Augusto, alla cui giurisdizione apparteneva l'Africa tutta. Quindi cominciò delle novità. Eutropio, padrone della corte di Arcadio, e nemico di Stilicone, non cessava [Claud., in Eutrop. Zosim., lib. 5, cap. 11.] di attizzar il fuoco fra i due fratelli Augusti, e conoscendo che arnese cattivo fosse Gildone, si diede a lusingarlo con sì buon successo, che il trasse ad abbandonare Onorio, e a sottomettere l'Africa ad Arcadio [Orosius, lib. 7, cap. 36.]. Fu nondimeno creduto che le mire di Gildone tendessero a rendersi signore assoluto delle provincie africane, senza dipendere da alcuno dei fratelli Augusti: cosa da lui riputata facile, stante la poco buona intelligenza che passava fra loro; oltre di che, li riputava egli come due fanciulli, da non prendersi punto soggezione di essi. Non prese già costui il titolo di re, come avea fatto Fermo suo fratello; ma non perciò lasciava di farla da re colle opere [Claud., de Bello Gildonis.], e teneva in piedi una possente armata di fanti e cavalli, mantenuta ed arricchita colle spoglie de' più facoltosi di quelle contrade. Da' suoi fedeli avvertito Onorio di tali andamenti del perfido Gildone, spedì al senato di Roma le memorie e pruove dei di lui delitti [Symmachus, lib. 4, epist. 4.], per le quali fu egli dichiarato nemico [334] pubblico, e pubblicata la guerra contro di lui. Ma Gildone l'avea già cominciata contro la stessa Roma col non permettere che vi si conducesse grano per mare: cosa che accrebbe la carestia in quella gran città, tribolata dalla fame per altre precedenti disgrazie. Convenne dunque ricorrere al rimedio di formare una flotta ricca di molte vele, per menarne dalla Francia e dalla Spagna. In questo medesimo tempo Stilicone [Claud., in Eutrop.] si applicò con tutta diligenza a fare i preparamenti opportuni di gente, navi e danari per liberar l'Africa da questo tiranno. Il senato romano intanto non mancò d'inviar ambasciatori ad Arcadio, per pregarlo di lasciar l'Africa a chi ne era legittimo padrone, e di non mischiarsi nella protezion di Gildone, procurando insieme di rimettere la buona armonia fra lui e l'Augusto suo fratello. Per la maggior parte di quest'anno si fermò esso Arcadio in Costantinopoli, e solamente nella state andò a villeggiare ad Ancira capitale della Gallizia [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.]. Molte leggi di lui si veggono contro chi entrasse per danaro nelle cariche della corte; editto che non si sa intendere come uscisse, quando vi dominava Eutropio, accusato da Claudiano, da Zosimo e da altri per venditore de' governi e degl'impieghi. Decretò la pena della vita contro i pubblicani ch'esigessero più delle tasse prefisse alle pubbliche imposte. Volle ancora che per riparar le strade, i ponti, gli acquidotti e le mura delle città, si servissero i governatori dei materiali di diversi templi di gentili ch'erano stati demoliti: con che la distruzione dell'idolatria anche per questo conto tornò in utilità del pubblico.
Anno di | Cristo CCCXCVIII. Indiz. XI. |
Anastasio papa 1. | |
Arcadio imperadore 16 e 4. | |
Onorio imperadore 6 e 4. |
Consoli
Flavio Onorio Augusto per la quarta volta, e Flavio Eutichiano.
L'imperadore Onorio procedette console in Milano per la quarta volta. Flavio Eutichiano (che così si trova egli nominato in una inscrizione [Thesaur. novus Inscrip., pag. 194.]) fece la solennità del suo consolato in Costantinopoli, siccome console orientale. Era nel medesimo tempo prefetto del pretorio di Oriente, perchè non sussiste, come fu d'avviso il Tillemont, che quella prefettura fosse allora appoggiata a Cesario [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. Le leggi di Arcadio Augusto pertinenti all'anno presente quasi tutte son date in Costantinopoli, una in Nicea di Bitinia ed un'altra in Minizo della Galizia. Ordinò esso Augusto che fosse lecito ai Giudei di prendere i loro patriarchi per arbitrii nelle lor liti civili, e che i giudici dovessero eseguire i laudi proferiti da essi: il che con altra legge promulgata in quest'anno fu medesimamente conceduto ai vescovi della Chiesa cattolica. Contra degli eretici eunomiani e montanisti uscirono rigorosissime pene, ed altre ancora contro gli uffiziali militari che permettevano ai soldati di pascolare i lor cavalli nelle praterie dei particolari. Ma più delle altre leggi strepito fece una data nel dì 27 di luglio, di cui parla anche Socrate [Socrat., l. 6, cap. 5.], come procurata e voluta da Eutropio, ministro onnipotente nella corte di Arcadio. In questo anno fu essa pubblicata, e non già nel 396, come stimò il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], citando Sozomeno [Sozom., lib. 8, cap. 7.], perchè tanto questo storico, quanto Socrate attestano che non molto dappoi [336] la vendetta di Dio cadde sopra il medesimo Eutropio. Questa legge fu che a niuno ricercato dalla giustizia fosse lecito il rifugiarsi nelle chiese, e che questi tali avessero da estrarsi di là per forza, e dovessero anche più severamente essere puniti per sì fatto ricorso. Troppi nemici si andava ogni dì facendo colla sua prepotenza ed avidità l'iniquo Eutropio, ed egli non voleva che alcuno fosse salvo dalle sue mani. È sembrato e sembra a molte savie persone, essere cosa ingiusta che le chiese di Dio servano di asilo e protezione ai malfattori che turbano la quiete del pubblico, ma giusta, per lo contrario, che sieno il rifugio dei miserabili. Certamente pare che non possa neppur piacere a Dio l'impunità dei gravi misfatti con malizia commessi, perchè troppo incomodo e danno proviene ai comuni dal sofferire nel loro seno certe erbe cattive, e si dee aver più carità ad un popolo intero che ad un particolare scellerato. E quando pur anche sia convenevole ammettere un asilo per cadauna città e terra, di cui godano varii delinquenti, non si dovrebbe permettere tanta moltiplicità d'altri asili, quanta è dappertutto la copia delle chiese e degli oratorii. Permise Iddio che non istesse molto lo stesso Eutropio a provar egli stesso l'ingiustizia di questa esorbitante legge; e ciò avvenne nel seguente anno. Varie appendici ancora conteneva il medesimo editto, e fra le altre cose era proibito ai debitori di qualunque fatta il godere della immunità de' sacri luoghi; e qualora gli ecclesiastici alla prima chiamata non li consegnavano alle mani della giustizia, erano costretti gli economi delle chiese a pagar quei debiti col danaro delle chiese medesime. Ma perchè questo ed altri capi della legge suddetta oltrepassavano le misure del giusto, della carità e del decoro della casa di Dio, fu poi da altre susseguenti riformata e corretta.
Noi lasciammo Stilicone conte, e generalissimo dell'Augusto Onorio, tutto [337] affaccendato nell'armamento per procedere contra di Gildone conte, usurpatore dell'Africa; quando la fortuna gli presentò un buon regalo [Zosim., lib. 5, cap. 11. Orosius, lib. 7, cap. 36. Claud., de Laud. Stilic.]. Avea Gildone un fratello, appellato Masceldel o Mascezel, di professione cristiano, il quale, tra perchè vide in pericolo più volte la vita sua per le barbarie del fratello, e perchè non volle aver parte alla ribellione da lui meditata, se ne fuggì in Italia alla corte imperiale. Restarono due suoi figliuoli in Africa uffiziali di milizie; Gildone per vendetta amendue li fece uccidere: il che fu una lettera di maggiore raccomandazione per Mascezel appresso di Stilicone. Destinato questo Africano per capitan generale dell'armata allestita contra di suo fratello, fece vela con una possente flotta da Pisa, non ancor venuta la primavera di quest'anno. Abbiamo da Orosio che in passando Mascezel in vicinanza dell'isola della Capraia, dove, abitava allora un gran numero di santi romiti, si fece sbarcare colà, e siccome egli ero cristiano, così tanto fece colle sue preghiere, che indusse alcuni di que' buoni servi di Dio ad andar seco in quella spedizione. La lor compagnia, le preghiere, i digiuni, ch'egli con lor faceva, e il cantar egli de' salmi con essi, furono quell'armi, nelle quali egli maggiormente ripose la speranza della vittoria. Sbarcò l'esercito romano nell'Africa, e si accampò nella Numidia fra Tebaste e Metredera; ma poco tardò ad accorgersi della sua debolezza in confronto di quello che dalle molte nazioni africane aveva ammassato Gildone [Claud., de Laud. Stiliconis.]. Scrivono ch'egli menò in campo settanta mila combattenti, con deridere per conseguente il poco numero de' Romani, e con vantarsi di farli tutti calpestare dalla sua cavalleria [Paulin., Vit. s. Ambros.]. In fatti Mascezel, ben pesate le strabocchevoli forze nemiche, ad altro [338] non pensava che a ritirarsi, quando una notte, per attestato di Paolino nella vita di san Ambrosio, gli apparve in sogno questo santo arcivescovo con un bastone in mano. Si gittò a' suoi piedi Mascezel, ed il santo col bastone tre volte picchiò in terra dicendo: Qui, qui, qui, e disparve. Prese da tal visione il generale gran fidanza della vittoria in quel medesimo sito, e fra tre dì; e però stette saldo. Dopo aver dunque passata la notte precedente al terzo giorno [Orosius, lib. 7, cap. 36. Marcell. Comes, in Chronic.] in pregar Dio e salmeggiare, ed essersi munito col sacramento celeste, fatto giorno, mise in armi le sue genti per ben ricevere i nemici che si appressavano. Forse era sul fine di marzo. Alle prime schiere di Gildone, nelle quali s'incontrò, parlò di pace; ma perchè da uno degl'alfieri avversarii gli fu riposto con insolenza, gli diede un colpo di spada nel braccio, per cui la di lui bandiera si abbassò. Coloro che erano più addietro, mirando quel segno, ed avvisandosi che i primi si fossero renduti, calarono anche essi a gara le loro insegne, a si arrenderono a Mascezel. Probabilmente erano milizie romane costoro. I Barbari, veggendosi così abbandonati dai primi, presi dalla paura, dopo qualche leggiero combattimento, voltarono tutti le spalle [Claud., de Laud. Stiliconis.]. Ebbe Gildone tempo da fuggire in una nave, ma sorpreso da burrasca, fu suo malgrado spinto al porto vicino ad Ippona, dove gli vennero messe le mani addosso. Esposto agli scherni del popolo, fu poi cacciato in prigione, dove fra pochi giorni si trovò strangolato, per quanto si disse, di propria mano, senza che suo fratello Mascezel, ch'era lungi di là, venisse a sapere il gastigo datogli da Dio, se non dopo il fatto [Idacius, in Chron.]. In questa miracolosa maniera si dissipò quel temporale, e tornò l'Africa alla quieta primiera. [339] Zosimo [Zosimus, lib. 5, cap. 12.] in due parole scrive che Gildone rimasto in una campale giornata sconfitto dal fratello, per non cadere in mano di lui, s'impiccò per la gola. Ma Paolo Orosio, che pochi anni dopo fu in Africa, ed informossi ben del fatto, e Paolino scrittore contemporaneo della vita di sant'Ambrosio, e Marcellino conte, ci assicurano che la faccenda passò come abbiam detto, sicchè in Roma nello stesso tempo fu portata la nuova dello sbarco de' nemici, e della presa di Gildone. I beni di costui, ch'erano immensi, e di assaissimi complici suoi, rimasero preda del fisco. La moglie e la sorella di lui si ritirarono a Costantinopoli, dove Salvina di lui figlia era maritata con un cugino germano di Arcadio Augusto, chiamato Nebridio. Queste donne si veggono lodate dipoi da san Girolamo [Hieron., in Epist.] e da Palladio [Pallad., in Dialog.] per la loro pietà. Tornossene Mascezel vittorioso a Milano, dove fu accolto con assai carezze, e caricato di speranze da Stilicone. Ma o sia ch'egli pretendesse troppo, e che Stilicone, uomo tutto di mondo, nulla volesse dargli, abbiamo da Zosimo che Stilicone se ne sbrigò in una barbarica forma; perchè un dì cavalcando in sua compagnia con altri molti, Mascezel, nel passare sopra il ponte di un fiume, egli fu, per ordine di Stilicone, rovesciato nell'acqua, dove miseramente perì. Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 36.] aggiugne essersi egli insuperbito forte dopo la vittoria suddetta, e che più non curando la compagnia dei servi del Signore, osò anche violare il rispetto dovuto alle chiese, con estrarne per forza persone colà rifugiate, probabilmente complici di Gildone, ed aver egli perciò irritata la giustizia di Dio. Ma non lasciò per questo di dar negli occhi di ognuno la perfidia ed ingratitudine di Stilicone.
Sempre più intento questo ministro, [340] siccome arbitro della corte di Onorio, a stabilir la propria fortuna e possanza, non era ancor giunto esso Augusto all'età di quattordici anni [Claud., de Laudib. Stilicon. Zosim., lib. 5, cap. 12.], quando gli fece prender per moglie Naria figliuola sua, e di Serena cugina del medesimo Onorio, ancorchè neppur essa fosse in età nubile. Allorchè fu portata a Milano la nuova della disfatta di Gildone, si facevano tuttavia le allegrezze per tali nozze, nozze celebrate da Claudiano con un poema, e colla predizione di molti re che ne doveano nascere. Ma Claudiano era poeta, e non profeta: del che meglio si accorgeremo andando innanzi. Nel dì 26 di novembre dell'anno presente [Anast., Bibliothec. Baronius, Pagius, Papebrochius, etc.] terminò Siricio romano pontefice la sua gloriosa vita, con avere meritato per le sue molte virtù d'essere annoverato fra i santi. Della durazion del suo pontificato già parlammo di sopra in riferir la sua elezione. Ebbe per successore nella sedia di san Pietro Anastasio di nazione Romano. Non abbiamo lumi sufficienti dalla storia per intendere meglio ciò che circa questi tempi Claudiano [Claud., de Laudib. Stilicon.] accenna delle azioni di Onorio Augusto e di Stilicone suocero suo, dicendo ch'erano occupati a ricevere le sommissioni degli Alamanni, Svevi e Sicambri. V'ha una legge [L. Quoniam de Censitor. Cod. Theodos.] di questo imperadore, data nel dì 5 d'aprile dell'anno seguente, dove si parla di Barbari di diverse nazioni passati ad abitar nel paese romano. Questi tali venivano chiamati nelle Gallie Leti; e le terre che loro si davano da coltivare portavano il nome di letiche, con obbligo imposto ad essi di servire, occorrendo, nell'armate dell'imperadore, e per conseguente erano specie di benefizii o feudi. Gran dubbio ho io che i Liti o Lidi più volte nominati nei Capitolari di Carlo Magno, e che, secondo le prove da me addotte altrove [Antiquit. Italic. Tom. I, Dissert. XV.], non erano [341] servi, ma uomini liberi, potessero essere gli stessi che Leti di questi tempi, avendo potuto durare il lor nome sino al secolo nono. Essendo mancato di vita nel settembre del precedente anno Nettario arcivescovo di Costantinopoli [Marcellinus Comes, in Chronic. Socrati, lib. 6, cap. 2.], san Giovanni Grisostomo fu nel dì 26 di febbraio dell'anno presente posto in quella cattedra con applauso di tutto il popolo. Questa fu una delle più lodevoli azioni che mai si facesse Eutropio, da noi veduto direttor supremo della corte di Arcadio Augusto. Imperciocchè egli fu quegli che fece venir da Antiochia questo santo e mirabil ingegno, e procurò che in lui cadesse l'elezione per l'arcivescovato di Costantinopoli. Felice sarebbe stato costui [Chrysost., Orat. in Eutrop.] se avesse saputo profittare dell'amicizia di questo incomparabile dottor della Chiesa di Dio, il quale non mancò di fargli conoscere la vanità delle speranze umane, fondate sopra illustri dignità e sopra molte ricchezze; ma egli, ubbriaco della sua grandezza e cieco nella fortuna presente, si dovette ridere di lui, con giungere poi nel seguente anno a disingannarsi, ma senza che punto gli giovasse un tal disinganno. Teofane [Theoph., in Chronogr.] osserva che Libanio sofista pagano, interrogato prima di morire, chi dovesse a lui succedere nella scuola, rispose: Io direi Giovanni (appellato dipoi Grisostomo) se non ce l'avessero rubato i Cristiani; tanto era fin d'allora stimato il suo ingegno, prezzata la sua eloquenza.
Anno di | Cristo CCCXCIX. Indizione XII. |
Anastasio papa 2. | |
Arcadio imperadore 17 e 5. | |
Onorio imperadore 7 e 5. |
Consoli
Eutropio e Flavio Mallio Teodoro.
Questo Teodoro, console cristiano per l'Occidente, è celebre per le lodi a lui date da Claudiano nel suo Panegirico [Claud., de Consul. Theod.], in occasione di questo consolato, aveva anche sant'Agostino a lui dedicato nell'anno 386 il suo libro della Vita beata. Fra lui e Simmaco senatore passava stretta amicizia. Dopo aver egli sostenuto varie illustri cariche, e specialmente quella di prefetto del pretorio d'Italia, giunse nell'anno presente al colmo degli onori, perchè fatto degno della trabea consolare. Eutropio, console per l'Oriente, quel medesimo eunuco è di cui tante volte abbiam parlato, già divenuto maggiordomo ed arbitro della corte dell'imperadore Arcadio, la cui ambizione non mai paga, per attestato di Filostorgio [Philostorg., lib. 11, cap. 4.] e di Claudiano [Claud., in Eutrop., lib. 2.], portò quell'Augusto a dargli anche il titolo di patrizio e di padre dell'imperadore, e finalmente a disegnarlo consolo per l'anno presente. Al dir di Claudiano, Stilicone non permise che questo mezzo uomo fosse riconosciuto per console nell'Occidente. Perciò si trovano inscrizioni, dove il solo Teodoro è nominato console. Una legge dell'imperadore Onorio nel Codice Teodosiano [Gothofred., in Chronol. Cod. Theodos.] ci fa vedere in quest'anno prefetto di Roma Flaviano. Le altre leggi del medesimo Augusto cel rappresentano ora in Milano, ed ora in Ravenna, Brescia, Verona, Padova ed Altino. In esse veggiamo ordinato [L. 4, de itiner. munien. Cod. Theodos.], che pel risarcimento delle pubbliche strade ognun sia tenuto a concorrere, non volendo che [343] alcuno, e neppure gli uffiziali della corte, e neppur le terre proprie dello stesso principe godessero per questo riguardo esenzione alcuna. Cagione eziandio di gravissimi lamenti nella Gallia erano le protezioni dei grandi, e i privilegi e le esenzioni concedute a non pochi, i quali perciò non pagavano i tributi, vegnendo con ciò le persone deboli ad essere aggravate tanto per la parte de' paesi pubblici a loro spettante, quanto per quella che non pagavano le persone forti: disordine non ignoto ad altri paesi e ad altri tempi. Con suo editto [L. 26, omni amoto de Annona et Tribut. Cod. Theodos.] ordinò Onorio che niuno per questo conto potesse allegar esenzioni, e che qualsivoglia suddito fosse astretto al pagamento di tutte le pubbliche imposte a rata de' suoi beni. Ma questa legge in pratica si trovò simile alle tele de' ragni che fermano i piccioli insetti, ma non già i grossi augelli; e col tempo fece perdere le Gallie al romano imperio. Confermò per lo contrario l'Augusto Onorio i lor privilegii alle chiese, e pubblicò nuovi ordini contro l'esecrabil setta dei Manichei. Altre leggi ancora abbiamo tanto di esso Onorio, quanto di Arcadio suo fratello intorno ai pagani. In una Arcadio ordina che si demoliscano i templi de' gentili che si trovino alla campagna, acciocchè si levi il nido, alla superstizione [Vide lib. 16, tit. 10, Cod. Theod.]. Opinione d'uomini dotti è stata che il nome di pagani fosse dato agl'idolatri, appunto perchè, non potendo esercitar nella città i lor sacrifizii e riti superstiziosi, si riducessero a farli alla campagna. Con altra legge Onorio Augusto proibisce i sacrifizii e i riti profani, ma non vuol che si distruggano gli ornamenti delle pubbliche fabbriche. Poscia permette ai pagani le adunanze, conviti ed allegrie loro solite, purchè non intervenga sacrifizio nè superstizione alcuna già condannata. Per altro abbiamo da Idacio [Idacius, in Fast.], da Prospero [344] Tirone [Prosper Tiro, in Chron.] e da sant'Agostino [August., de Civit. Dei, lib. 8, cap. 33.], che in questi medesimi tempi si fece un grande abbattimento di templi de' gentili, intorno a che molto hanno detto il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], il Pagi [Pagius, Crit. Baron.] e il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.]. A me basta di averne dato un cenno.
Godè ben l'Occidente per l'anno presente un'invidiabil pace, ma non già l'Oriente, dove Gaina, goto ed ariano, mosse delle gravi tempeste. Costui, che era stato il principal arnese per abbattere Rufino ed innalzar Eutropio, ancorchè fosse ricompensato col grado di generale della fanteria e cavalleria, pure da smoderata ambizione invasato, riputava troppo inferiore al suo merito un tal guiderdone [Zosimus, lib. 5, cap. 13.]. Soprattutto mirava egli con isdegno ed invidia Eutropio, nel cui seno colavano tanti onori e tante ricchezze, e però concepì il disegno di atterrar quest'altro idolo maestoso della corte [Socrat., lib. 6, cap. 6. Sozom., lib. 8, cap. 4.], per desiderio ed anche speranza di fondare sopra la di lui rovina l'accrescimento della propria autorità e fortuna. Ad effettuar questo disegno gli si presentò un efficace strumento, cioè Tribigildo conte, goto anch'esso di nazione, parente suo, che comandava allora ad un corpo di Ostrogoti nella Frigia, ed era disgustato con Eutropio. Con costui segretamente s'intese Gaina per quello che si avea da fare; e fu ben servito. Appena ritornato Tribigildo nella Frigia, uniti i suoi Goti, e cominciata la ribellione, si diede a saccheggiar quel paese con tal crudeltà, che fin le donne e i fanciulli non erano salvi dalle loro spade, empiendo con ciò di terrore tutta l'Asia romana. Pare, secondo Zosimo [Zosim., lib. 5, cap. 17.], che questo temporale avesse principio nell'autunno del precedente anno, perchè Gaina non potea sofferire che [345] l'odiato Eutropio fosse anche stato disegnato console. Ma Claudiano [Claud., in Eutrop.] lasciò scritto essere stata la primavera il tempo, in cui esso Tribigildo alzò bandiera contra dell'Augusto Arcadio. Indarno Eutropio impiegò regali per quetare l'orgoglioso ribello. Veduto fallito questo ripiego, spedì poi Leone suo confidente con un corpo di milizie contra del ribello, ordinando nello stesso tempo a Gaina di custodir la Tracia e il mare, acciocchè a Tribigildo non nascesse voglia di voltarsi a Costantinopoli. V'ha chi pretende [Philostorg., lib. 5, cap. 8.] che lo stesso Gaina invitasse Tribigildo a venire, e che se costui veniva, la città di Costantinopoli col nemico in seno era spedita. Non osò tanto il ribello, ed amò piuttosto di volgersi a dare il sacco alla Pisidia. Intanto ebbe ordine Gaina di passar in Asia colle milizie. Passò, ma invece di procedere contra del palese nemico segreto suo amico, spedì Leone alla difesa della Panfilia. Per tutti i mestieri era buono questo Leone, fuorchè per quello della guerra, e però all'accorto Tribigildo che finse di fuggire, e l'addormentò, non riuscì poi difficile il tornargli improvvisamente addosso, e a mettere in rotta tulle le di lui brigate. Nel fuggire esso Leone s'intricò in una palude, ed ivi lasciò la vita: colpo che maggiormente accrebbe la paura, per non dir la costernazione nella corte d'Arcadio. Lo stesso iniquo Gaina non cessava di dipingere il male più grande di quel ch'era, arrivando insino a suggerire che altro rimedio non restava che di guadagnar colle buone Tribigildo, accordandogli le sue dimande, la principal delle quali era che gli si desse in mano Eutropio, come cagion di tutti i mali. Di qui scrive Zosimo [Zosim., lib. 5, cap. 17.] che venisse il precipizio di quel potente ministro.
Furono altri di parere che da altra mano fosse dato il crollo [Chrysost., in Psalm. 44, et in Eutrop. Philostorg., lib. 11, cap. 8.]. Indubitata [346] cosa è che Eutropio per la sua insoffribil boria, per l'insaziabil avidità, e perchè menava pel naso come un bufalo il debole imperadore, s'era tirato addosso l'odio e l'ira d'ognuno. Dio, che voleva in fine pagarlo per tanti torti da lui fatti alle chiese e ad ogni sorta di persone, permise che il forsennato superbo perdesse anche il rispetto ad Eudossia imperadrice, maltrattandola di parole, e giugnendo fino a minacciare di cacciarla di corte. Eudossia, donna risentita, e a questo affronto bollente di collera, corse tosto a prendere le due sue figliuole, cioè Flacilla nata nell'anno 397, e Pulcheria nata nel gennaio dell'anno presente [Marcellin. Comes, in Chronic. Chron. Alexandr.], e con esse andò a gittarsi a' piedi di Arcadio Augusto, domandando con alte grida e lagrime giustizia. A questo assalto Arcadio una volta si ricordò ch'egli era il principe. O sia che questo solo motivo il mettesse in collera contro di Eutropio, o che vi si aggiugnesse il desiderio di placare il ribello Tribigildo, massimamente in tempo che s'intese la morte di Sapore re di Persia ucciso dai suoi sudditi, e che veniva minacciata guerra da Isdegarde suo successore al romano imperio: fuor di dubbio è che fatto immantinente chiamar Eutropio, lo spogliò di tutte le sue cariche, e di tutti gli immensi beni malamente da lui acquistati, e il cacciò di palazzo [Chrysost., Orat. in Eutrop. et in Psalm. 44. Zosimus, lib. 5, cap. 18. Sozomenus, Claudian.]. Grande scena fu quella: sparì in un momento la grandezza immaginaria di questo castrone, e tanti suoi adoratori e adulatori l'abbandonarono, divenendo anche i più d'essi suoi schernitori e nemici. In istato sì abbietto mirandosi allora il non più baldanzoso Eutropio, e temendo del furore e dell'odio universale del popolo, altro scampo non seppe trovare che di rifugiarsi nella chiesa, e di correre ad abbracciare l'altare: avendo permesso Iddio che costui, dopo aver nell'anno [347] addietro pubblicata la legge che vietava ai luoghi sacri di servire di asilo ai miserabili, riconoscesse il suo fallo, col bisogno di salvarsi in uno di que' medesimi templi. Intanto ognuno gridava contra di lui nelle piazze e nei teatri, e nella corte gli stessi soldati ad alta voce dimandavano la di lui morte; Gaina anch'egli facea premura, acciocchè costui fosse bandito o punito con pena più convenevole a tanti suoi misfatti. Però Arcadio inviò una mano di soldati per estrarlo di chiesa. Loro animosamente s'oppose il santo arcivescovo Giovanni Grisostomo, in maniera che coloro irritati presero lo stesso sacro pastore, e il menarono con grande insolenza a palazzo, dove tanto perorò, che Arcadio restò non solamente persuaso di doversi permettere quell'asilo ad Eutropio, ma eziandio colle lagrime e con vive ragioni studiò di ammollir lo sdegno dei soldati inviperiti contra di lui [Chrysost. Zosimus. Suidas, in Lexico.]. Pochi giorni nondimeno passarono che Eutropio uscito di chiesa per fuggire, o trattone per forza, o ceduto con patto che fosse salva la di lui vita, fu relegato nell'isola di Cipri, ed ordinato che si levasse il suo nome dai Fasti consolari e dalle leggi, si abbattessero le sue statue, e si abolisse ogni altra sua memoria. Abbiamo una legge di Arcadio [L. 12, de Poenis, Cod. Theodos.], data nel dì 17 di gennaio dell'anno presente, dove si legge la di lui condanna: il che fece credere al Gotofredo [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.] e al padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], che questa scena accadesse prima di quel giorno in questo medesimo anno. Ma, siccome osservò il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], troppo forti ragioni abbiamo per giudicar fallata quella data quanto al mese, specialmente perchè Eudossia avendo partorita Pulcheria nel dì 19 di gennaio, non avrebbe potuto presentarla al marito Augusto, come vuol Filostorgio. Per conseguente sembra più [348] verisimile che la di lui caduta s'abbia da riferire ad alcuni mesi dappoi, e forse dopo l'agosto. Non si sa quanto tempo durasse la relegazione di Eutropio in Cipri. Abbiamo bensì da Zosimo [Zosimus, lib. 5, cap. 18.] e da Filostorgio [Philost., lib. 11, cap. 6.], aver fatto tante istanze Gaina contra di lui, e suscitati accusatori, che in fine fu ricondotto da Cipri a Costantinopoli, e processato. Finalmente con uno di que' ripieghi che i politici san trovare per non mantenere i giuramenti, cioè dicendo che la promessa di salvargli la vita era solamente per Costantinopoli, il mandarono a Calcedone, dove gli fu mozzato il capo. Ed ecco qual fu il fine di un Eutropio eunuco, e già schiavo di Arenteo, giunto dal più basso e vile stato alla maggior grandezza, da un'estrema povertà ad incredibili ricchezze e ad una straordinaria potenza. Di rado le gran fortune, che non han la base sulla virtù, vanno esenti da somiglianti gravi peripezie.
Anno di | Cristo CD. Indizione XIII. |
Anastasio papa 3. | |
Arcadio imperadore 18 e 6. | |
Onorio imperadore 8 e 6. |
Consoli
Flavio Stilicone ed Aureliano.
Chi fosse Stilicone console occidentale [Claud., de laud. Stiliconis, et in IV Consul. Honor.], non ha bisogno il lettore ch'io gliel ricordi. Quanto ad Aureliano console orientale, egli era prefetto del pretorio d'Oriente nell'anno precedente. Ho io altrove [Thesaur. Novus Inscript., pag. 394.] rapportata una iscrizione posta a Lucio Mario Massimo Perpetuo Aureliano console, immaginando che potesse parlarsi quivi di questo Aureliano. Meglio esaminandola ora, ritrovo che non può convenire a lui, essendo iscrizione spettante a Roma pagana, senza nondimeno [349] sapere qual altro sito le si possa assegnare ne' Fasti consolari. Veggasi nulladimeno all'anno 223. Continuò Flaviano ad esercitar la prefettura di Roma. Poche leggi [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.] di Arcadio Augusto si trovano sotto quest'anno, perchè egli ebbe altro da pensare in casa sua, siccome fra poco diremo: molte sì di Onorio imperadore, date le più in Milano, e l'altre in Ravenna, Altino, Brescia ed Aquileia, ma non senza qualche errore e confusione. Aspra è ben quella [L. 12, de Veter., Cod. Theodos.] emanata nel dì 30 di gennaio, in cui ordina che sieno arrolati nella milizia i Leti, Gentili, Alamanni e Sarmati, ed altri non avanzati in età, non troppo piccioli, non infermi, e i figliuoli de' veterani e i licenziati dalla milizia prima del tempo, e i passati dalla milizia al clero e all'impiego di seppellire i morti, pretendendo che questi non per motivo di religione, ma per poltroneria abbiano abbandonate l'armi. La ragione di questo rigoroso ordine ce la somministra la storia [Jordan., de Reb. Getic., c. 29.]. Abbiam fatta qualche menzione di sopra di Alarico, principe fra le nazioni dei Goti, non della famiglia Amala, ch'era la più nobile di tutte, ma di quella de' Balti (nome in lor lingua significante ardito), e nato verso le bocche del Danubio. Non era già costui pagano, come cel rappresenta il pagano poeta Claudiano [Claud., de IV Consulatu Honor.], perchè, per attestato di Orosio [Orosius, lib. 7, c. 37.] e di sant'Agostino, egli professava la religion cristiana, ma contaminata dal fermento ariano, come la maggior parte de' Goti praticava da molti anni addietro. Uomo feroce, e del mestier della guerra intendentissimo, il quale pieno di spiriti ambiziosi, anche molti anni prima di venir a gastigare i peccati dei Romani, si vantava che nulla egli crederebbe mai di aver fatto o vinto, se non prendeva la stessa città di Roma. Ciò si raccoglie da un poema di [350] Claudiano [Claud., de Bello Getico.], composto molto prima ch'egli eseguisse questo suo disegno; e lo attesta anche Prudenzio [Prudentius, in Symmach.], parendo eziandio ch'egli tenesse d'esserne stato accertato da qualche oracolo. Nell'anno 396, siccome dicemmo, Arcadio per quetare i Goti che aveano fatta una terribile irruzione nella Grecia sotto il comando di esso Alarico, lo avea creato generale delle milizie nell'Illirico orientale; ed egli perciò abitava in quelle parti, cioè o nella Dacia, o nella Mesia inferiore, o pur nella Grecia e Macedonia. Giordano istorico [Jordan., ut supra.] pretende che rincrescendo a que' Goti, chiamati dipoi Visigoti, che sparsi per la Tracia e per l'Illirico dipendevano dallo stesso Alarico, di starsene oziosi, ed apprendendo per cosa pericolosa alla lor nazione lo impoltronirsi, crearono circa questi tempi per loro re il medesimo Alarico. Il disegno d'essi era di conquistar qualche regno, perchè loro parea una disgrazia lo starsene ne' paesi altrui mal veduti, e con pochissime comodità, quasi servi de' Romani. Chiaramente scrivono san Prospero [Prosper., in Chronico.] e il suddetto Giordano, che nel consolato di Stilicone e di Aureliano i Goti sotto il comando di Alarico e di Radagaiso entrarono nell'Italia. Che mali facessero (e certamente far ne dovettero) in queste parti, la storia nol dice. Abbiamo dal Natale VIII recitato da san Paolino vescovo di Nola [Paulin. Nolanus, Natal. VIII.] nel gennaio dell'anno seguente, che gran rumore faceva in Italia la guerra dei Goti, e che n'era sbigottito ognuno. Credesi ancora che dessero il guasto al territorio di Aquileia, e non apparisce che o spontaneamente o per forza ritornassero per ora indietro. Non sussiste già il dirsi dal suddetto Giordano che in questa prima visita i Goti andarono ad assediar Ravenna, dove s'era ritirato l'imperadore Onorio; [351] perchè siamo assicurati dalle leggi del Codice Teodosiano, che Onorio nel verno venturo e per tutto l'anno seguente si fermò in Milano.
Neppure ad Arcadio Augusto mancarono guai in Oriente durante questo anno. Pareva che dopo essere rimasta libera la di lui corte da quel mal arnese d'Eutropio, avessero da prendere miglior piega gli affari: ma si trattava di un imperadore buono da nulla, e intanto la caduta di Eutropio servì all'imperadrice Eudossia, tenuta bassa fin qui dal prepotente eunuco per innalzarsi, e sotto l'ombra di aiutar nel governo l'imbrogliato consorte [Zosim., lib. 5, cap. 23.], per tirare a sè quasi tutta l'autorità del comando. Donna superba e stizzosa; donna che voleva partire coi ministri ed uffiziali iniqui il profitta delle loro ingiustizie; donna infine che sapea dominar sopra il marito, ma ch'era anch'essa dominata da una man di dame e da una frotta d'eunuchi, che gareggiavano insieme a chi potea far peggio per arricchirsi, con vendere le grazie, con usurpare i beni altrui, e commettere tali iniquità, che le mormorazioni e i pubblici lamenti erano divenuti uno sfogo incessante de' popoli afflitti. Per attestato della Cronica Alessandrina [Chronicon Alexandrinum.], solamente nel dì 9 di gennaio dell'anno presente a lei fu dato dal marito il titolo di Augusta. Ed essa poi nel dì 3 di aprile partorì la terza figliuola, a cui fu posto il nome di Arcadia. Da una lettera di Onorio Augusto si ricava che questa ambiziosa donna mandò la sua immagine per le provincie, come soleano fare i novelli Augusti: del che si dolse esso Onorio, come di una novità che avea dato da mormorare a tutti. A questi mali provenienti dalla debolezza del regnante se ne aggiunsero de' più strepitosi per la perfidia di Gaina, che eletto generale dell'armi romane, per difesa del romano imperio, altro non [352] facea che segretamente macchinarne la rovina, conservando nel medesimo tempo le apparenze della fedeltà e zelo nel pubblico bene, e pensando che non si accorgesse la corte delle sue intenzioni e furberie. Pertanto egli maneggiò un accomodamento fra Tribigildo ed Arcadio: il che fatto, sì l'uno che l'altro colle loro armate s'inviarono alla volta di Costantinopoli, saccheggiando d'accordo il paese per dove passavano. Tribigildo voltò a sinistra, andando a Lampsaco nell'Ellesponto, e Gaina a dirittura passò a Calcedone in faccia di Costantinopoli, dove cominciò a scoprire i suoi perversi disegni. Per li movimenti di questi due barbari uffiziali si trovava in un gran labirinto Arcadio e il suo consiglio, perchè scorgevano il mal animo di Gaina, ed armata non v'era da potergli opporre. Spedì esso Augusto persone per dimandare a Gaina che pensieri erano i suoi [Socrates, lib. 6, c. 6.]. Rispose costui di voler nelle mani i tre principali ministri della corte, cioè Aureliano console di quest'anno, Saturnino stato console nell'anno 383, e Giovanni segretario il più confidente che si avesse Arcadio. Ci fa qui intendere il maligno Zosimo [Zos., lib. 5, cap. 18.] che dovea passare anche gran confidenza fra questo Giovanni e l'imperadrice Eudossia, perchè i più credeano che egli, e non già Arcadio, fosse padre di Teodosio II, principe che vedremo venire alla luce nell'anno seguente. Secondo Socrate, Gaina dimandò per ostaggi i suddetti ministri, mostrando probabilmente di non fidarsi dell'imperadore. Ma Zosimo con più ragione pretende che li volle per farli morire, perchè dovea loro attribuire i disordini presenti, o i mali uffizii fatti contra di lui. Tale era lo spavento di quel consiglio d'Arcadio, che s'indusse a sagrificare quegli onorati personaggi alla brutalità di Gaina; ed essi generosamente si esposero ad ogni rischio [353] per la salute pubblica. Vuol Zosimo che la consegna di questi ministri si facesse dappoichè seguì l'abbocamento di Arcadio con Gaina. Socrate e Sozomeno [Sozom., lib. 8, cap. 4.] la mettono prima. Certo è che san Giovanni Grisostomo [Chrysost., Tom. 5, Hom. LXXII.], siccome apparisce da una sua omilia, fece quanto potè per salvare almeno la vita a così illustri ministri; e in fatti Gaina volle ben che provassero l'orror della morte con farli condurre al patibolo; ma mentre il carnefice avea alzato il braccio per troncar loro il capo, fu fermato da un ordine d'esso Gaina, il quale si contentò di mandarli in esilio nell'Epiro; ma questi nel viaggio o per danari, o per altra loro industria, ebbero la sorte di fuggire, e di comparir poi a Costantinopoli contro l'espettazione d'ognuno.
O prima o dopo di questo tragico avvenimento, il tiranno Gaina più che mai insolentendo, fece istanza che Arcadio Augusto, se gli premeva d'aver pace, passasse a Calcedone per trattarne a bocca con lui. D'uopo fu il povero imperadore inghiottisse ancora questo boccone e andasse a trovarlo. Nell'insigne chiesa di Santa Eufemia presso a quella città si abboccarono insieme, e vicendevolmente giurata buona amicizia tra loro, si convenne che Gaina deporrebbe l'armi, e tanto egli che Tribigildo andrebbono a Costantinopoli. Secondo Socrate [Socrat., lib. 6, cap. 6.], allora fu, e non prima come dicemmo di sopra, che Gaina fu dichiarato generale della fanteria e cavalleria romana, oltre al comando suo sopra un gran corpo de' Goti a lui ubbidienti. Di Tribigildo altro di più non sappiamo, se non per relazion di Filostorgio [Philostor., lib. 11, cap. 8.] ch'egli passato nella Tracia da lì a poco tempo perì. Quanto a Gaina non ebbe difficoltà di passare a Costantinopoli, orgoglioso per aver data la legge al regnante, ed ivi colla medesima altura pretese che si desse una chiesa ai [354] suoi Goti ariani [Theod., lib. 5, cap. 32.]; ma l'arcivescovo san Giovanni, imitando la costanza di santo Ambrosio, talmente gli fece fronte, che restarono vani tutti i di lui sforzi. Pare che tutti questi sconcerti succedessero nel mese di maggio. Ma poco durò la pace fatta con chi era di cuor doppio, e non istudiava se non cabale ed inganni. Perchè in Modena il nome di Gaino è in uso per dinotare i furbi ed ingannatori sotto la parola, ho io talvolta sospettato che da quel furfante Goto fosse proceduto questo titolo; ma sempre mi è paruto più probabile ch'esso venga da Gano, famoso ne' romanzi per le sue ribalderie, e finto ai tempi di Carlo Magno. Ora il malvagio Gaina generale dell'armi andò a poco a poco empiendo la città di Costantinopoli de' suoi Goti, e mandando fuori quanti più potè di soldati romani, ed anche delle guardie del palazzo sotto varii pretesti [Socrat., Sozomenus, Philost., ut sup.]. Era il suo disegno di mettere a sacco in una notte le botteghe degli orefici oppur dei banchieri, e di attaccare il fuoco al palazzo imperiale. Zosimo [Zosim., lib. 5, cap. 18.] scrive ch'egli mirava ad impadronirsi della città e ad usurpare il trono. Se ne avvidero quegli artisti, e stettero ben in guardia. Per conto del palazzo, andarono bensì per più notti i suoi satelliti per incendiarlo; ma sempre vi trovarono una buona guardia di soldati, benchè non ve ne dovesse essere, con aver poi tenuto per fermo il popolo che quei fossero soldati fatti comparire da Dio per difesa del piissimo imperadore Arcadio. Se ne volle chiarire lo stesso Gaina, e trovò che tale era la verità, con immaginarsi poi che Arcadio avesse fatto venire segretamente delle milizie per valersene contra di lui, le quali stessero durante il giorno nascose.
Fu cagion l'apprensione conceputa per questo fatto, che il misleale Gaina si ritirasse fuori di Costantinopoli nel dì 10 di luglio, allegando qualche indisposizione [355] di corpo e bisogno di riposo, con fermarsi circa sette miglia lungi dalla città. Aveva egli lasciato in Costantinopoli la maggior parte de' suoi Goti con ordine di prender l'armi contra de' cittadini a un determinato tempo, di cui preventivamente doveano dare a lui un segnale, affin di accorrere anch'egli con altra gente a rinforzarli. Ma o sia, come vuol Zosimo [Zosimus, lib. 5, cap. 19.], ch'egli scoprisse il disegno col venire prima del segno, oppure, come fu scritto da Socrate e da Sozomeno, che i Goti, volendo asportar fuori della città una quantità d'armi, le guardie delle porte si opponessero, perlochè restarono uccisi: certo è che il popolo di Costantinopoli si levò a rumore, e, dato di piglio all'armi, sbarrarono le strade; e giacchè Arcadio nel dì 12 di luglio dichiarò nemico pubblico Gaina [Chronic. Alexandr. Marcellinus Comes, in Chron. Socrates, Sozom.], tutti si diedero a mettere a fil di spada quanti Goti s'incontravano. Gaina, non avendo potuto entrare, fu forzato a ritirarsi. Il resto de' Goti, non tagliati a pezzi, e consistente in sette mila persone, si rifugiò in una chiesa, e quivi si afforzò. Ma il popolo, scopertone il tetto, e di là precipitando travi accesi contra di loro, gli estinse tutti, ed insieme bruciò la chiesa: il che dai Cristiani più pii, se crediamo a Zosimo, fu riputato fatto peccaminoso. Con ciò rimase libera e quieta la città, ma non finirono le scene per questo. Gaina da nemico aperto cominciò a far quanto male potè alla Tracia, senza che alcuno uscisse di Costantinopoli per opporsegli, o per trattare d'accordo: tanto facea paura ad ognuno il di lui umore barbarico, il solo san Giovanni Grisostomo andò animosamente a trovarlo [Theod., lib. 5, cap. 32.], e ne fu bene accolto contro l'espettazione d'ognuno. Ciò ch'egli operasse, nol sappiamo, se non che Zosimo scrive aver Gaina dopo la total desolazione di quelle campagne (giacchè non potea entrare [356] nelle città, tutte ben difese dagli abitanti) rivolto i passi verso il Chersoneso, con disegno di passar lo stretto, e continuare i saccheggi nell'Asia [Zosim., lib. 5, cap. 20 et seq.]. Ma eletto generale della flotta imperiale Fravita, Goto bensì di nazione e pagano, ma uomo di onore, ed applaudito per molte cariche sostenute in addietro, andò per opporsi ai tentativi del non mai stanco Gaina. Ed allorchè costui, dopo aver fatto tumultuariamente fabbricar molte rozze navi da trasporto, si volle arrischiare a valicar lo stretto, gli fu addosso Fravita colle sue navi ben corredate, e gli diede una sì fiera percossa, aiutato anche dal vento, che molte migliaia di Goti perirono in mare. Disperato per questa gran perdita Gaina, voltò cammino con quella gente che gli restava, per tornarsene nella Tracia; e perchè Fravita non volle azzardarsi a perseguitarlo, gli fu fatto un reato per questo. Ma dovette saper ben egli difendere sè stesso, e ce ne accorgeremo all'anno seguente, in cui il vedremo alzato alla dignità di console. Fuggendo poi Gaina, se dee valere l'asserzion di Socrate [Socrat., lib. 6, cap. 6.] e di Sozomeno [Sozom., lib. 8, cap. 4.], fu inseguito dalle soldatesche romane, sconfitto ed ucciso. Ma Zosimo racconta ch'egli arrivò a passare il Danubio con quei pochi Goti che potè salvare, sperando di menare il resto di sua vita nel paese che era una volta dei Goti. Ulda, o Uldino, re degli Unni, padrone allora di quella contrada, non amando di avere in casa sua un sì pericoloso arnese, gli si voltò contro, ed uccisolo, mandò poi per regalo la di lui testa ad Arcadio. Dalla Cronica Alessandrina [Chronic. Alexandr.] abbiamo che nel dì 3 di gennaio dell'anno seguente essa testa fu portata in trionfo per Costantinopoli. Tal fine ebbe questa tragedia, e tal ricompensa la strabocchevole ambizione di quel furfante di Gaina.
Anno di | Cristo CDI. Indizione XIV. |
Innocenzo papa 1. | |
Arcadio imperad. 19 e 7. | |
Onorio imperad. 9 e 7. |
Consoli
Vincenzo e Fravita.
Il primo, cioè Vincenzo, console occidentale, era stato in addietro prefetto del pretorio delle Gallie, e si trova commendato assaissimo per le sue virtù da Sulpicio Severo [Sulp. Sever., Dial. 1, cap. 27.], autore di questi tempi. Fravita console orientale è quel medesimo che abbiamo veduto di sopra vittorioso della flotta di Gaina, e che fedelmente seguitò a servire ad Arcadio Augusto. Prefetto di Roma abbiamo per l'anno presente Andromaco. Ora noi siam giunti al principio del secolo quinto dell'era cristiana, secolo che ci somministra funeste rivoluzioni di cose, specialmente in Italia, diverse troppo da quelle che fin qui abbiamo accennato. Inclinava già alla vecchiaia il romano imperio, e, a guisa de' corpi umani, avea, coll'andare degli anni contratte varie infermità, che finalmente il condussero all'estrema miseria. Tanta vastità di dominio, che si stendeva per tutta l'Italia, Gallia e Spagna, per i vasti paesi dell'Illirico e della Grecia e Tracia, e per assaissime provincie dell'Asia e per l'Egitto, e per tutte le coste dell'Africa bagnate dal Mediterraneo, colla maggior parte ancora della gran Bretagna, tratto immenso di terre, delle quali oggidì si formano tanti diversi regni e principati: grandezza, dissi, di mole sì vasta s'era mirabilmente sostenuta finora per le forze sì di terra che di mare, che stavano pronte sempre alla difesa, e per la saggia condotta di alcuni valorosi imperadori. Certamente, siccome s'è veduto, non mancarono già nei precedenti anni guerre straniere di somma importanza, fiere irruzioni di Barbari, e tiranni insorti nel cuore del medesimo imperio; ma il valore de' Romani, [358] la fedeltà dei popoli e la militar disciplina mantenuta tuttavia in vigore, seppero dissipar cotante procelle, e conservare non men le provincie che la dignità del romano imperio. Contuttociò fu d'avviso Diocleziano che un sol capo a tanta estension di dominio bastar non potesse; e però introdusse la pluralità degli Augusti e dei Cesari, immaginando che queste diverse teste procedendo con unione d'animi (cosa difficilissima fra gli ambiziosi mortali) avesse da tener più saldo e difeso l'imperio, benchè diviso fra essi, volendo principalmente che le leggi fatte da un imperadore portassero in fronte anche il nome degli altri Augusti, affinchè un solo paresse il cuore e la mente di tutti nel pubblico governo. Per questa ragione, secondo l'introdotto costume, Teodosio il grande, per quanto ci ha mostrato la storia, con dividere fra i suoi due figliuoli, cioè Arcadio ed Onorio Augusti la sua monarchia, avea creduto di maggiormente assicurar la sussistenza di questo gran colosso.
Ma per disavventura del pubblico, a riserva della bontà del cuore e dei costumi, null'altro possedeano questi due principi di quel che si richiede a chi dee reggere popoli; e in fatti erano essi nati per lasciarsi governar da altri. Miravano poi cresciuti dappertutto gli abusi; malcontenti i sudditi per le soverchie gravezze; sminuite le milizie romane; le flotte trascurate. Il peggio nondimeno consisteva nella baldanza de' popoli settentrionali, a soggiogare i quali non era mai giunta la potenza romana. Costoro da gran tempo non ad altro più pensavano che ad atterrar questa potenza. Nati sotto climi poco favoriti dalla natura, e poveri ne' lor paesi, guatavano continuamente con occhio invidioso le felici romane provincie, ed erano vogliosi di conquistarle, non già per aggiugnerle alle antiche lor signorie, ma per passar dai lor tugurii ad abitar nelle case agiate, e sotto il piacevol cielo de' popoli meridionali. Questo bel disegno non potè loro [359] riuscire nei tempi addietro, perchè, ripulsati o sbaragliati, qui lasciarono la vita, o furono costretti a ritornarsene alle lor gelate abitazioni. Il secolo, in cui entriamo, quel fu in cui parve che si scatenasse tutto il settentrione contra del romano imperio, con giugnere in fine a smembrarlo, anzi ad annientarlo in Occidente. Si può ben credere che non poco influisse in queste disavventure dell'imperio occidentale l'aver Valente e Teodosio Augusti (così portando la necessità dei loro interessi) lasciati annidar tanti Goti ed altre barbare nazioni nella Tracia e in altre provincie dell'Illirico. Assaissimo nocque del pari l'avere gl'imperadori da gran tempo in addietro cominciato a servirsi ne' loro eserciti di truppe barbariche e di generali eziandio di quelle nazioni. Perciocchè que' Barbari, adocchiata la fertilità e felicità di queste provincie, ed impratichiti del paese e della forza o debolezza de' regnanti, non lasciavano di animare la lor gente a cangiar cielo, e a venire a stabilirsi in queste più fortunate contrade. Già abbiam veduto in Italia Alarico re de' Goti con Radagaiso, e con un potente esercito, ma senza sapere s'egli per tutto quest'anno continuasse a divorar le sostanze degli Italiani, o pur se fosse obbligato dalle armi romane a retrocedere. Certa cosa è che Onorio Augusto pacificamente se ne stette in Milano, dove si veggono pubblicate alcune leggi [Gothofred., in Chronol. Cod. Theodos.]; e quando non sia errore nella data d'una in Altino, città florida allora della Venezia, par bene che i progressi di que' Barbari non dovessero esser molti, e che anzi i medesimi se ne fossero tornati addietro.
Tra l'altre cose [L. 3, de indulg. debit., Cod. Theodos.] l'imperadore Onorio condonò ai popoli i debiti ch'essi aveano coll'erario cesareo fino all'anno 386; sospese l'esazione degli altri da esso anno 386 sino all'anno 395, ordinando solamente che si pagassero senza dilazione i debiti contratti dopo esso anno [360] 395. Comandò ancora che si continuasse il risarcimento delle mura di Roma, con aggiungervi delle nuove fortificazioni, perchè dei brutti nuvoli erano per l'aria. Venne a morte nel dì 14 di dicembre, dell'anno presente Anastasio papa, che viene onorato col titolo di santo negli antichi cataloghi [Anastas. Bibliothec. Baronius, Papebroch. Pagius.], dovendosi nondimeno osservare che tal denominazione non significava già in que' tempi rigorosamente quello che oggidì la Chiesa intende colla canonizzazione de' buoni servi di Dio, fatta con tanti esami delle virtù e de' miracoli loro. Davasi allora il titolo di santo anche ai vescovi viventi, come tuttavia ancora si dà ai romani pontefici. E però noi troviamo appellati santi tutti i papi de' primi secoli, così i vescovi di Milano, Ravenna, Aquileia, Verona, ec., ma senza che questo titolo sia una concludente pruova di tal santità, che uguagli la decretata negli ultimi secoli in canonizzare i servi del Signore. Secondo i conti del padre Pagi, a' quali mi attengo anch'io senza voler entrare in disputa di sì fatta cronologia, nel dì 21 d'esso mese fu creato papa Innocenzo, primo di questo nome. Nulladimeno s. Prospero [Prosper, in Chron.] e Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chron.] riferiscono all'anno seguente la di lui elezione. Abbiamo dal medesimo Marcellino che nel dì 11 di aprile Eudossia Augusta partorì in Costantinopoli ad Arcadio imperadore un figlio maschio, a cui fu posto il nome di Teodosio, secondo di questo nome. Socrate [Socrates, lib. 6, cap. 6.] e l'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] il dicono nato nel dì 10 di esso mese: divario di poca conseguenza, e probabilmente originato dall'essere egli venuto alla luce in tempo di notte. V'ha ancora chi il pretende nato nel mese di gennaio. Incredibile fu la gioia della corte e del popolo a Costantinopoli, e se ne spedì la lieta nuova a tutte le città, [361] con aggiugnervi grazie e con dispensar danari. Pubblicò Arcadio una legge nel dì 19 di gennaio dell'anno presente [L. 17, de honor. proscr., Cod. Theodos.], con cui proibì il dimandare al principe i beni confiscati finchè non fossero passati due anni dopo il confisco, volendo esso Augusto quel tempo per poter moderare la severità delle sentenze emanate contra dei colpevoli, e rendere ad essi, se gliene veniva il talento, ciò che il rigore della giustizia loro avea tolto. Buona calma intanto si continuò a godere nell'imperio orientale.
Anno di | Cristo CDII. Indizione XV. |
Innocenzo papa 2. | |
Arcadio imperad. 20 e 8. | |
Onorio imperadore 10 e 8. | |
Teodosio II imperadore 1. |
Consoli
Flavio Arcadio Augusto per la quinta volta, e Flavio Onorio Augusto per la quinta.
Chi fosse in quest'anno prefetto di Roma non apparisce dalle antiche memorie. Trovasi nondimeno una iscrizione [Gruter., Inscription., pag. 165.] posta in Roma ai due Augusti da Flavio Macrobio Longiniano prefetto di Roma, che sembra appartenere a questi tempi, e perciò indicare chi esercitasse la prefettura suddetta. Per attestato della Cronica Alessandrina e di Socrate storico, nel dì 10 di gennaio dell'anno presente l'infante Teodosio II fu creato Augusto da Arcadio imperadore suo padre. O sia che Alarico re dei Goti fosse dianzi partito dall'Italia, e ci tornasse nell'anno presente, oppure ch'egli continuasse qui il suo soggiorno anche nell'anno addietro: certa cosa è che in questi tempi, dopo aver preso varie città e terre oltre il Po [Claud., de Bello Getic., et de Consul. IV. Honor.], si spinse nel cuore di quella che oggidì si chiama Lombardia, con un formidabil esercito de' suoi Goti, senza che apparisca [362] più congiunto con esso lui Radagaiso re degli Unni. Erasi l'imperadore Onorio ritirato non meno per precauzione, che per essere più vicino ai bisogni dello Stato, nella città di Ravenna, città allora per la sua situazione fortissima, perchè circondata dal Po e da profonde paludi; e città che divenne da lì innanzi per alcuni anni la sede e reggia degli Augusti. Ma i felici avanzamenti dei Barbari avevano talmente costernati gli animi degli Italiani, che, per attestato di Claudiano, autore contemporaneo, i benestanti ad altro non pensavano che a ritirarsi colle lor cose più preziose in Sicilia, oppure in Corsica e Sardegna. Per questo medesimo spavento, quasichè Ravenna non fosse creduta bastante asilo, Onorio Augusto se ne partì, con incamminarsi verso la Gallia. Ma Stilicone tanto perorò, che fece fermar la corte in Asti, città allora della Liguria, che doveva essere ben forte, dacchè s'indusse l'intimorito Onorio a lasciarvisi serrar dentro, in caso che Alarico vi avesse posto l'assedio. Prima di questo fiero turbine aveano i movimenti de' Barbari data occasione ai popoli della Rezia (parte de' quali oggidì sono i Grigioni) di sollevarsi, laonde fu costretto Stilicone ad inviar colà alcune legioni romane per tenerli in freno o ricondurli all'ubbidienza. E il trovarsi appunto quelle truppe occupate fuori di Italia, avea accresciuto l'animo ad Alarico per più insolentire, e per continuar i progressi dell'armi sue. Merita qui certo lode la risoluzion presa in questi pericolosi frangenti da Stilicone. Sul principio dell'anno, e nel cuor del verno, con poco seguito egli passò il lago di Como, e per mezzo delle nevi e de' ghiacci s'inoltrò fino nella Rezia. L'arrivo di sì famoso generale, e poscia le minacce accompagnate da amorevoli persuasioni, non solamente calmarono la rivolta dei Reti, ma gl'indussero ancora ad unirsi colle milizie romane per la salvezza dell'imperadore e dell'Italia. Aveva inoltre Stilicone richiamate alcune legioni che [363] lungo il Reno stanziavano, ed una infino dalla Bretagna; e fu mirabile il vedere che i feroci popoli transrenani, tuttochè osservassero sguerniti di presidii i confini romani, pure si stettero quieti in quella occasione, nè inferirono molestia alcuna alle provincie dell'imperio.
Unita che ebbe Stilicone una poderosa armata, la mise in marcia verso l'Italia, ed egli, precedendola con alcuni squadroni di cavalleria, arditamente valicò a nuoto i fiumi, passò per mezzo ai nemici, ed inaspettato pervenne ad Asti con incredibil consolazione dell'imperadore Onorio, quivi rinchiuso, e di tutta la sua corte. Giunsero dipoi le legioni e truppe ausiliarie raccolte, e fu conchiuso di dar battaglia al nemico. Aveva Alarico baldanzosamente passato il Po, con arrivare ad un fiume chiamato Urba, che vien creduto il Borbo d'oggidì, e che passa non lungi da Asti. Immaginò per ciò Claudiano che avendo gli oracoli predetto ch'esso Alarico giugnerebbe ad Urbem, cioè a Roma, si verificasse il vaticinio con restar egli deluso, dacchè arrivò a questo fiumicello. Militava nell'esercito di Stilicone una grossa mano di Alani, gente barbara e sospetta in quella congiuntura. Il condottier di costoro, appellato Saule (non so se con vero nome) da Paolo Orosio, e chiamato uomo pagano, quegli fu che consigliò di attaccar la zuffa nel santo giorno di Pasqua, perchè in essa i Goti, ch'erano cristiani, benchè macchiati dell'eresia ariana, sarebbono colti alla sprovvista: consiglio detestato allora dai buoni cattolici, e massimamente dal suddetto Orosio. Claudiano all'incontro attribuisce tal risoluzione a Stilicone stesso, personaggio che in altre occasioni si scoprì poco buon cristiano, e favorì molto i pagani, fra' quali è da contare lo stesso poeta Claudiano. Comunque sia, cominciò il conflitto, e i Goti, prese l'armi, sì fattamente caricarono sopra la vanguardia degli Alani, che ne uccisero il capo, e rovesciarono il resto. Allora la cavalleria [364] romana s'inoltrò, e la fanteria anch'essa menò le mani. Durò lungo tempo il contrasto con ispargimento di gran sangue dall'una parte e dall'altra; ma finalmente furono costretti i Goti alla ritirata e alla fuga, con lasciar in poter de' Romani il loro bagaglio, consistente in immense ricchezze, e con restarvi prigionieri i figliuoli dello stesso Alarico colle nuore, e liberata gran copia di Cristiani, fatti in addietro schiavi da quei Barbari. Il luogo della battaglia fu presso Pollenza, ossia Potenza, città allora situata vicino al fiume Tanaro, di cui oggidì neppure appariscono le vestigia nel Monferrato. Il cardinal Baronio, il Petavio, il Tillemont ed altri rapportano questa vittoria all'anno 403; il Sigonio e il padre Pagi al presente; Prospero e Cassiodoro chiaramente l'asseriscono accaduta nel consolato V di Arcadio e di Onorio, Augusti, cioè in questo anno. Più grave ancora è la discordia degli storici in raccontare quel fatto d'armi; perciocchè Giordano storico [Jordan., de Reb. Getic.], che corrottamente vien chiamato Giornande, e Cassiodoro [Cassiodorus, in Chron.] scrivono che in questo conflitto non già i Romani, ma i Goti restarono vittoriosi. Giordano prende ivi degli altri abbagli. Per noi basta il vederci assicurati da Claudiano [Claud., de Bello Getic.], da san Prudenzio [Prud., lib. 2 contra Symmach.] e da Prospero [Prosper, in Chronico.], autori contemporanei, e di lunga mano più degni di fede, che furono messi in rotta i Goti. Paolo Orosio, allorchè scrive di questo fatto d'armi, riprovato da lui a cagione del giorno santo, aggiugne che in breve il giudizio di Dio dimostrò, et quid favor ejus posset, et quid ultio exigeret. Pugnantes vicimus, victores victi sumus. Quando non si voglia credere che i Romani vinsero bensì presso Pollenza, ma che nella ritirata di Alarico ebbero qualche grave percossa (del che [365] niuno degli antichi fa parola), quell'in breve si dovrà stendere fino all'anno 410, in cui Dio permise i funestissimi progressi di que' medesimi Barbari, siccome, andando innanzi, vedremo. Terminata la battaglia, Alarico, restando tuttavia un grosso esercito al suo comando, non si fidò di retrocedere, per paura di essere colto al passaggio dei fiumi, e però si gittò sull'Apennino, parendo disposto di marciare da quella parte verso la sospirata Roma. Nol permise l'accorto Stilicone, perchè fattegli fare proposizioni d'accordo, si convenne con dargli speranza di ricuperare i figliuoli e le nuore, ch'egli si avvierebbe pacificamente fuori d'Italia per la Venezia. Colà pertanto s'incamminò, ma dacchè ebbe passato il Po, ossia ch'egli si pentisse della convenzione fatta, o che Stilicone gli mancasse di parola, perchè più non temeva che il Barbaro ripassasse quel fiume reale, si venne di nuovo alle mani, e il conflitto terminò colla peggio de' Goti. Non so se fu allora, o pure dipoi, che Stilicone seppe guadagnar con regali una parte di essi, e loro fece prendere l'armi contra degli altri; laonde nelle vicinanze di Verona seguì qualche sanguinoso combattimento, che ridusse Alarico alla disperazione. E poco mancò ch'egli non restasse preso; ma il colpo fallì per la troppa fretta degli Alani, ausiliarii dei Romani. Fermossi il Barbaro nell'Alpi, cercando se avesse potuto condurre il resto dell'armata sua nella Rezia e nella Gallia; ma Stilicone, preveduto il di lui pensiero, vi prese riparo. Intanto per le malattie seguitò maggiormente ad infievolirsi l'esercito di Alarico, e per la fame a sbandarsi le squadre intere, di modo che infine fu egli forzato a mettersi in salvo colla fuga, lasciando in pace l'Italia. Fu questa volta ancora incolpato Stilicone di avere sconsigliatamente lasciato fuggire Alarico; ma è ben facile in casi tali il formar dei giudizii ingiusti, per chi giudica in lontananza di tempo e senza essere sul fatto.
Anno di | Cristo CDIII. Indizione I. |
Innocenzo papa 3. | |
Arcadio imperadore 21 e 9. | |
Onorio imperadore 11 e 9. | |
Teodosio II imperadore 2. |
Consoli
Teodosio Augusto e Flavio Rumorido.
Uscito da sì gravi pericoli Onorio Augusto, si era restituito a Ravenna, nella qual città si veggono date molte leggi di lui, tutte spettanti a quest'anno, e che comprovano appartenere all'anno precedente il fatto d'armi di Pollenza. Perciocchè alcune di esse compariscono scritte in Ravenna nel febbraio, marzo e maggio, nei quali mesi Onorio certamente non fu in Ravenna, ma bensì in Asti, allorchè Alarico portò la guerra nella Liguria, e fu sconfitto. Incresceva ai Romani questa residenza dell'imperadore, avvezzi ad aver sotto gli occhi il principe e lo splendore della sua corte, senza l'incomodo di far viaggi lunghi per trovarlo. Perciò gli spedirono una solenne ambasceria, pregandolo di consolare col suo ritorno a Roma i lor desiderii, e di andare a ricevere il trionfo che gli aveano preparato. E perciocchè intesero che i Milanesi aveano fatta una simile deputazione, per tirar esso Augusto alla loro città, si raccoglie da una lettera di Simmaco, che nel mese di giugno determinarono di spedirgli degli altri ambasciatori colla stessa richiesta. Di questa congiuntura si servirono alcuni senatori tuttavia pagani per chiedere ad Onorio la licenza di celebrare i giuochi secolari. San Prudenzio, valente poeta cristiano, fioriva allora in Ispagna sua patria. Prese egli a scrivere contro la relazione di Simmaco prefetto di Roma, composta già nell'anno 384, per rimettere in piedi l'ara della Vittoria, e confutata in que' tempi da Sant'Ambrosio; e può parere strano come Prudenzio ne parli, come se Simmaco avesse allora presentata quella supplica ad Onorio. Ora Prudenzio [367] con parole chiare attesta la vittoria riportata da' Romani presso Pollenza colla rotta di Alarico, ed indirizza quell'apologia ad Onorio Augusto, che tuttavia dimorava in Ravenna, pregando di non permettere più le superstizioni dei pagani, e specialmente di proibire i sanguinosi spettacoli de' gladiatori, contrari alla legge di Cristo, e già vietati da Costantino il grande. Può servire ancora il medesimo poema assai lungo ed erudito di san Prudenzio a farci intendere seguita la suddetta battaglia di Pollenza nell'anno antecedente, e non già nel presente. Ora l'Augusto Onorio prese, prima che terminasse l'anno, la risoluzion di passare a Roma, per ivi celebrare i decennali del suo imperio dopo la morte del padre: al qual fine fu disegnato console per l'anno seguente. Descrive Claudiano [Claud., de IV Consulatu Honor.] il suo viaggio per l'Umbria, e la magnifica solennità con cui egli entrò in Roma, avendo al suo lato nel cocchio il suocero Stilicone, con immenso giubilo del popolo romano. Partorì nell'anno presente [Chron. Alexandr. Marcell. Comes, in Chronico.] a dì 10 o 11 di febbraio Eudossia Augusta ad Arcadio imperadore la quarta figliuola, a cui fu posto il nome di Marina. Furono poi grandi rumori in Costantinopoli per la prepotenza di questa imperadrice. Divenuta padrona del marito e dell'Oriente, perchè disgustata di san Giovanni Grisostomo, impareggiabile e zelantissimo vescovo di quella gran città, pontò cotanto, che il fece deporre e mandare in esilio; dal che seguirono perniciosi tumulti. Ne fa menzione anche Zosimo [Zosim., lib. 5, cap. 23.], e taglia i panni addosso ai monaci d'allora, mischiati in quei torbidi, con dire ch'essi avendo già tirata in lor dominio una gran quantità di beni, e col pretesto di sovvenir con quelle rendite i poveri, aveano, per così dire, ridotto ognuno alla povertà; iperbole che scredita [368] il di lui racconto; ma che non lascia di farci intendere, come i monaci, appena nati nel secolo precedente, s'erano moltiplicati per le ville, e non trascuravano il mestier di far sua la roba altrui.
Anno di | Cristo CDIV. Indizione II. |
Innocenzo papa 4. | |
Arcadio imperadore 22 e 10. | |
Onorio imperadore 12 e 10. | |
Teodosio II imperadore 3. |
Consoli
Onorio Augusto per la sesta volta, e Aristeneto.
Tutta fu in festa la città di Roma pel consolato e per i decennali dell'Augusto Onorio, che furono celebrati con suntuosi spettacoli. Ma non già coi giuochi secolari, nè colle zuffe de' gladiatori, come avrebbono desiderato que' Romani che tuttavia stavano ostinati nel gentilesimo. Il cardinal Baronio, che di tal permissione aveva accusato Onorio Augusto, vien giustamente ripreso dal Pagi. Ma nè il Pagi nè Jacopo Gotofredo ebbero già buon fondamento di credere e chiamare ingannato il Baronio, allorchè scrisse all'anno 325 che Costantino il grande, con una legge data in Berito, aveva proibito per tutto l'imperio romano i giuochi sanguinosi de' gladiatori. Siccome io altrove ho dimostrato [Thesaur. Novus Inscription., pag. 179.], non può negarsi quell'universale divieto di Costantino. Ma era sì radicato l'abuso, n'erano si incapricciati i popoli, che dopo la morte di quell'invitto imperadore tornarono, malgrado de' suoi successori, a praticarlo, con estorquere eziandio la permissione di essi da alcuni Augusti. Ma in fine, per attestato di Teodoreto [Teodor., Hist., lib. 5, cap. 24.], Onorio con sua legge vietò ed abolì per sempre quell'abbominevole spettacolo che costava tanto sangue e tante vite d'uomini per dare un divertimento al pazzo popolo. In quest'anno [369] poi Onorio pubblicò una legge [L. 16, tit. 8. Cod. Theod.], in cui, se crediamo al padre Pagi suddetto, Judaeos et Samaritanos omni militia privavit. Ma non credo io tale il senso di quella legge, quando pure il Pagi l'intenda per la vera milizia. Proibisce ivi l'imperadore ai Giudei, l'aver luogo nella milizia, cioè negli uffizii di coloro che agenti degli affari del principe erano nominati, perchè il nome di milizia abbracciava tutti gli uffizii della corte. Bollivano tuttavia in Oriente le persecuzioni contra di san Giovanni Grisostomo, quel mirabil oratore della Grecia cristiana, e tanto papa Innocenzo I, quanto l'imperadore Onorio si affaticarono in aiuto di lui. Ma era gran tempo che non passava buona armonia tra esso Onorio ed Arcadio Augusto di lui fratello; e però inutili furono le loro raccomandazioni. Per altro sì quel santo patriarca, quanto Teofilo patriarca di Alessandria, a lui opposto, riconobbero in tal congiuntura l'autorità primaria del romano pontefice, al quale il primo si appellò, e l'altro inviò per questa discordia i suoi legati. Fermossi in Roma l'imperadore Onorio parecchi mesi. Prima che terminasse l'anno, è più che verisimile ch'egli si restituisse a Ravenna, perchè quivi si trovano date alcune sue leggi nel principio di febbraio del susseguente anno. I motivi che l'indussero a ritirarsi colà, è da credere che fossero i preparamenti che si udivano farsi dai Barbari per una nuova irruzione in Italia. Alarico sembrava quieto, perchè guadagnato da Stilicone; ma Radagaiso, condottiere, ossia re degli Unni, ossia de' Goti, Scita, cioè Tartaro di nazione, forse mal soddisfatto del disonore inferito ai popoli settentrionali nella rotta data dai Romani ad esso Alarico, pensò a farne vendetta. Più probabilmente ancora, secondochè era [370] allora in uso dei Barbari, anch'egli divorava co' desiderii la città di Roma. In essa città, a lor credere, erano le montagne d'oro, ivi stavano raunate da più secoli le ricchezze della terra. Perciò costui mise insieme una formidabil armata, composta di Unni, Goti, Sarmati e di altre nazioni situate di là dal Danubio. Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 37.] e Marcellino [Marcellinus Comes, in Chron.] la fanno ascendere a più di dugento mila combattenti; Zosimo storico [Zosimus, lib. 5, cap. 26.] fino a quattrocento mila: numero verisimilmente eccessivo. Probabile è che in questo medesimo anno costui si appressasse all'Italia, e forse ancora v'entrò, per quanto pare che accenni Prospero Tirone [Prosper Tiro, in Chron.]. Grande spavento, fiera costernazione si sparse per tutta l'Italia. Pertanto l'Augusto Onorio, veggendo imminente quest'altra tempesta, giudicò più sicuro il soggiorno di Ravenna, città pel suo sito fortissima, e maggiormente ancora per esser più alla portata di dar gli ordini e di provvedere ai bisogni. Mancò di vita in quest'anno Eudossia imperadrice, moglie di Arcadio Augusto, chiamata al tribunale di Dio a rendere conto, qual nuova Erodiade, della fiera persecuzione ch'ella avea mossa contro il santo ed incomparabil patriarca di Costantinopoli Giovanni Grisostomo. Il Breviario Romano, che nelle lezioni di questo santo mette la morte d'essa Augusta quattro dì dopo quella del Grisostomo nell'anno di Cristo 407, merita in quel sito di essere corretto. Sì Zosimo [Zosim., ibid., cap. 28] che Sozomeno, Filostorgio ed altri scrittori riferiscono a quest'anno una fiera irruzion degl'Isauri per quasi tutte le provincie romane dell'Oriente. Il generale Arbazacio, spedito contro di costoro, ne fece gran macello, ma, vinto dai loro regali, non proseguì l'impresa.
Anno di | Cristo CDV. Indizione III. |
Innocenzo papa 5. | |
Arcadio imperad. 23 e 11. | |
Onorio imperadore 13 e 11. | |
Teodosio II imperadore 4. |
Consoli
Flavio Stilicone per la seconda volta ed Antemio.
Stando l'imperadore Onorio in Ravenna, pubblicò editti [Gothofr., Chron. Cod. Theodos.] rigorosi contra de' Donatisti, più pertinaci ed insolenti che mai in Africa, comandando l'unione fra essi ed i cattolici: rimedio che riuscì poi salutevole per quella cristianità. Era entrato, o pure entrò in quest'anno Radagaiso in Italia con quel diluvio di Barbari che ho detto di sopra, con saccheggi e crudeltà inudite, scorrendo dappertutto senza opposizione alcuna. L'imperadore Onorio andò raunando quante soldatesche potè; prese ancora al suo soldo molte squadre di Goti, Alani ed Unni, condotti da Uldino e Saro lor capitani. Ma Stilicone maestro di guerra non volle già avventurarsi a battaglia o resistenza alcuna in campagna aperta. Andò solamente costeggiando i movimenti di sì sterminata oste, finchè la medesima si diede a valicar l'Apennino con pensiero di continuare il cammino alla volta di Roma, città che piena di spavento si tenne ancora come perduta. E in Roma appunto questa terribil congiuntura diede motivo ai pagani, che tuttavia ivi restavano, di attribuire tutti questi mali alla religion cristiana, e all'avere abbandonato gli antichi dii, e di prorompere perciò in orride bestemmie, con proporre eziandio di rimettere in piedi gli empii lor sagrifizii e riti. Anzi costoro in lor cuore si rallegravano, perchè Radagaiso, pagano anch'egli, avesse da venire a visitarli, sperando con ciò di veder risorgere la tanto depressa loro superstizione. Ma non era ancora giunto il tempo che Dio avea destinato di [372] punire Roma, capitale del romano imperio bensì, ma anche di tutti i vizii, e in cui per anche l'idolatria ostinatamente si nascondea, e la superbia apertamente regnava. Secondochè osservarono Paolo Orosio e sant'Agostino, colla venuta di Alarico, e poi di Radagaiso, Dio mostrò in lontananza a quella città il gastigo acciocchè si emendasse e facesse penitenza; ma indarno lo mostrò. Nè volle permettere che questo re pagano giugnesse a punire i Romani, perchè la sua crudeltà avrebbe potuto portarvi un universale eccidio, e ridurla in una massa di pietre. Fu infatti, secondo tutte le apparenze, miracoloso il fine di questa tragedia, per cui la costernazione s'era sparsa per tutta l'Italia. Appena Radagaiso fu giunto di là dell'Apennino, che Stilicone colle truppe romane ed ausiliarie cominciò a tagliargli le strade, a togliergli il soccorso dei viveri, ed a ristringerlo. Il ridusse la mano di Dio nelle montagne di Fiesole presso Firenze, e quella innumerabil moltitudine di Barbari si vide serrata fra quelle angustie ed oppressa dalla fame, e con perdere il coraggio e il consiglio, si diede per vinta. Attesta il suddetto Orosio che non vi fu bisogno di metter mano alle spade e di venire a battaglia, e che i Romani mangiando e bevendo e giocando terminarono questa guerra. Radagaiso senza saputa de' suoi tentò di salvarsi solo colla fuga, ma caduto in mano de' Romani, fu da lì a poco levato di vita. Restò schiava la maggior parte dei suoi, che a guisa di vili pecore erano sì per poco venduti, che con uno scudo d'oro se ne comperava un branco. E questo fine ebbero i passi e le minaccie di quest'altro re barbaro con ammirazione di tutti. Ma ben diversamente Zosimo, storico [Zosimus, lib. 5, cap. 26.] greco de' medesimi tempi, racconta quel fatto. Se a lui crediamo, Stilicone, con poderoso esercito di trenta legioni romane e colle truppe ausiliarie, all'improvviso assalì que' Barbari, e passò a fil di [373] spada l'immensa lor moltitudine, a riserva di pochi che rimasero schiavi: del che egli riportò le lodi ed acclamazioni di tutta l'Italia.
Si dee anche aggiugnere una particolarità degna di memoria, che Paolino, scrittore contemporaneo della vita di sant'Ambrosio, ci ha conservata [Paulin., Vit. S. Ambros.]. Aveva il santo arcivescovo promesso di visitar spesso i Fiorentini suoi cari. Ora nel tempo che Radagaiso (son parole da me volgarizzate di Paolino) assediava la stessa città di Firenze, trovandosi quei cittadini come disperati, il santo prelato (che nell'anno 397 avea terminati i suoi giorni) apparve in sogno ad uno di essi, e gli promise nel dì seguente la liberazione: cosa che da lui riferita ai cittadini, li riempiè di coraggio. In fatti nel giorno appresso, arrivato che fu Stilicone, allora conte, coll'esercito suo, si riportò vittoria de' nemici. Questa notizia l'ho io avuta da Pansofia piissima donna. Tali parole suppliranno a quanto manca nel racconto di Paolo Orosio. Fa menzione eziandio sant'Agostino [S. August., lib. 5 de Civit. Dei, cap. 23.] di quel gran fatto, con iscrivere che Radagaiso in un sol giorno con tanta prestezza fu sconfitto, che senz'essere non dirò morto, ma neppur ferito uno de' Romani, restò il di lui esercito, che era di più di centomila persone, abbattuto, ed egli poco dopo preso co' figliuoli e tagliato a pezzi. Dice ancora in uno de' suoi sermoni [Idem, Serm. 29 in Lucam.], che Radagaiso fu vinto coll'aiuto di Dio in maravigliosa maniera. Prospero [Prosper, in Chron.] notò che il grande esercito di Radagaiso era diviso in tre parti, e però più facile riuscì il superarlo. Non ci maraviglieremmo di questa diversità di relazioni, se non fossimo anche oggidì avvezzi a udir delle battaglie descritte con troppo gran divario da chi le riferisce. Vien rapportata dal cardinal Baronio, dal Petativo, dal Gotofredo e da altri non pochi questa [374] insigne vittoria all'anno susseguente 406, nel quale veramente Marcellino conte istorico la mette. Ma, secondochè osservarono il Sigonio e il Pagi, si ha essa da riferire all'anno presente, in cui vien raccontata da Prospero nella sua Cronaca e da Isidoro in quella de' Goti. E di questa verità ci assicura san Paolino vescovo di Nola, che recitando a dì 14 di gennaio dell'anno 406 il suo poema XIII in onore di san Felice, che io diedi alla luce [Anecdot. Latin. Tom. I.], scrive, restituita la pace, e sconfitti i Goti che già vicini minacciavano Roma stessa. Ecco le sue parole:
Candida pax laetum grata vice temporis annum
Post hyemes actas tranquillo lamine ducit, ec.
Aggiugne che i santi aveano impetrata da Dio la conservazione dell'imperio romano.
Instantesque Getas ipsis jam faucibus Urbis.
Pellere, et exitium, seu vincula vertere in ipsos,
Qui minitabantur romanis ultima regnis.
Finalmente che s'era in ciò mirata la potenza di Cristo:
.... mactatis pariter cum Rege profano
Hostibus.
Dalle quali parole, conformi ancora a quelle di Prospero nella Cronica, intendiamo non sussistere l'asserzion di Orosio che ci rappresentò seguita quella vittoria senza verun combattimento e senza strage de' Barbari. Il Sigonio [Sigonius, de Regno Occident., lib. 10.] saggiamente immaginò che la battaglia seguisse sotto Fiorenza, e che, ritiratosi Radagaiso con gli avanzi dell'esercito nei monti di Fiesole, fosse poi dalla fame forzato a rendersi. Fiorivano specialmente in questi tempi san Girolamo in Palestina, sant'Agostino in Africa, san Prudenzio poeta in Ispagna, e san Giovanni Grisostomo esiliato nell'Armenia, oltre ad altri santi e scrittori. Ma era infestata la Chiesa di Dio dai Donatisti eretici nell'Africa, [375] e da Pelagio e Celestio e da Vigilanzio, altri eretici in Italia e nelle Gallie.
Anno di | Cristo CDVI. Indizione IV. |
Innocenzo papa 6. | |
Arcadio imperad. 24 e 12. | |
Onorio imperad. 14 e 12. | |
Teodosio II imperadore 5. |
Consoli
Arcadio Augusto per la sesta volta ed Anicio Probo.
Per la memorabil vittoria riportata contra dei Goti fu innalzato in quest'anno un arco trionfale in Roma con istatue agl'imperadori allora viventi, cioè ad Arcadio, Onorio e Teodosio II, figliuolo d'esso Arcadio, siccome si raccoglie da un'iscrizione presso il Grutero [Gruter., pag. 287, n. 1.], la quale, quantunque mancante, pare nondimeno che riguardi il tempo di quella felice avventura. A Stilicone ancora in riconoscimento del valore fu innalzata una statua di rame ed argento nella stessa città dal popolo romano, per cura di Flavio Pisidio Romolo prefetto di Roma. Ne rapporta il suddetto Grutero l'iscrizione [Idem, pag. 412, n. 4.]. Seguitò intanto l'imperadore Onorio a soggiornare in Ravenna, e quivi pubblicò una legge riferita nel Codice Teodosiano [L. 8, cod. Theod. tit. 11, lib. 10.], in cui ordinava a Longiniano prefetto del pretorio di esaminare se i commissari inviati ne' cinque anni addietro per le provincie, affine di regolar le pubbliche imposte, aveano soddisfatto al loro dovere; e di gastigare, se erano stati negligenti, e molto più se avessero fatte delle estorsioni ai popoli. Convien poi dire che non fossero cessati i pubblici timori e malanni, perchè in questo anno medesimo a nome di tutti tre gli Augusti uscì fuori un editto nel mese di aprile, col quale comandavano di prendere l'armi per amore della patria, non solamente alle persone libere atte alle [376] medesime, ma eziandio agli schiavi, ai quali vien promessa la libertà se si arroleranno, giacchè alla sola gente libera era tuttavia permessa la milizia. Nella legge seguente ancora si promette un buon soldo a chiunque verrà ad arrolarsi. Queste leggi han fatto credere al Baronio e al Gotofredo che tante premure di Onorio per aumentare le armate procedessero dall'irruzione di Radagaiso, la cui guerra perciò essi riferiscono al presente anno. Ma altre cagioni mossero Onorio Augusto a procurar l'accrescimento delle sue truppe. Per attestato di Zosimo storico [Zosimus, lib. 5, cap. 26 et seq.], Stilicone, prima eziandio che Radagaiso entrasse in Italia, menava delle trame segrete con Alarico re de' Goti, che s'era ritirato verso il Danubio per essere fiancheggiato da lui, giacchè nudriva il disegno di assalire l'Illirico e levarlo ad Arcadio, tra il quale ed Onorio suo fratello sempre furonvi gare e gelosie, e non mai buona amicizia. Durava tuttavia questo trattato di Stilicone, dappoichè terminata fu la scena di Radagaiso. Oltre a ciò, in questo medesimo anno bolliva un gran moto ne' Vandali, Svevi ed Alani, e s'udiva preparato da loro un potentissimo esercito, con timore che questo nuovo torrente venisse a scaricarsi anch'esso sopra la misera Italia. Ma avendo i suddetti Barbari presente la mala fortuna di Alarico e di Radagaiso in queste contrade, rivolsero la rabbia loro contro le Gallie, e passati dal Danubio al Reno, opponendosi indarno i Franchi al loro passaggio, entrarono in quelle provincie, e quivi fissarono il piede. Nè loro fu difficile, perchè Stilicone, come dicemmo, per l'antecedente guerra d'Italia, avea ritirate tutte quelle legioni, che la saviezza de' Romani teneva sempre ai confini tra la Gallia e la Germania. Testimonii di questa invasione fatta dai Barbari nelle Gallie in quest'anno, abbiamo Prospero Tirone, Paolo Orosio e Cassiodoro. Però, senza ricorrere alla guerra di Radagaiso, la storia ci somministra [377] assai lumi per intendere onde nascesse il bisogno di nuove e maggiori forze ad Onorio a fine di rimediare, per quanto si poteva, ai disordini ed alle rovine del vacillante imperio. Se crediamo ad un antico scrittore citato da Adriano Valesio [Valesius, Hist. Franc., lib. 2, cap. 9.], Godigisclo re de' Vandali fu assalito nel suo viaggio alla volta delle Gallie dai Franchi, popoli allora della Germania, e nel combattimento lasciò la vita con circa venti mila de' suoi. Accorsi poscia gli Alani, salvarono il resto di quella gente; ed uniti poscia insieme, al dispetto de' Franchi, passarono il Reno, e sul fine di quest'anno entrarono nelle Gallie. Gunderico allora divenne re dei Vandali. Certo è, per attestato ancora di san Girolamo [Hieron., in Epist. ad Ageroch.], che costoro presero dipoi e distrussero Magonza, metropoli allora della Germania prima, e dopo lungo assedio s'impadronirono di Vormazia, e la spianarono. Ridussero eziandio in loro potere Argentina, Rems, Amiens, Arras ed altre città di quella provincia. E di qui ebbe principio una catena d'altre maggiori disavventure del romano imperio, siccome andremo vedendo.
Anno di | Cristo CDVII. Indiz. V. |
Innocenzo papa 7. | |
Arcadio imperadore 25 e 13. | |
Onorio imperadore 15 e 13. | |
Teodosio II imperadore 6. |
Consoli
Onorio Augusto per la settima volta, e Teodosio Augusto per la seconda.
Una legge del Codice Teodosiano ci avvisa essere stato prefetto di Roma in quest'anno Epifanio. Zosimo storico [Zosimus, lib. 6, cap. 2.] quegli è che narra, come Stilicone con istrana politica, in vece di pensare a reprimere i Barbari entrati nelle Gallie, facea de' gran preparamenti in quest'anno per assalire e torre ad Arcadio Augusto l'Illirico, ch'egli meditava di unire [378] all'imperio occidentale di Onorio. Se l'intendeva egli segretamente con Alarico, e costui doveva anch'esso accorrere colle sue forze alla meditata impresa. Ma rimase sturbato l'affare, perchè corse voce che Alarico avea terminato con la vita ogni pensiero di guerra: e gran tempo ci volle per accertarsi della sussistenza di tal nuova, che in fine si scoprì falsa. Accadde inoltre che vennero avvisi ad Onorio come s'era sollevato l'esercito romano nella Bretagna, con avere eletto imperadore Marco, il quale in breve restò ucciso, e poscia Graziano, anche esso da lì a pochi mesi estinto; e finalmente Costantino, il quale tuttochè fosse persona di niun merito, pure perchè portava quel glorioso nome, fu creduto a proposito per sostenere quell'eccelsa dignità. O sia che l'esercito britannico giudicasse necessario un Augusto presente in quelle parti, e in tempi tanto disastrosi per l'entrata dei Barbari nelle Gallie, che minacciavano anche la stessa Bretagna, senza speranza di soccorso dalla parte di Roma; oppure che niuna paura e soggezione si mettessero di Onorio, imperadore lontano e dappoco; giunsero coloro a questa risoluzione, che fece sventare i disegni di Stilicone contra l'imperio orientale di Arcadio. Nè si fermò nella Bretagna sola questo temporale. Il tiranno Costantino, raunate quante navi e forze potè delle milizie romane e della gioventù della Bretagna, passò nelle Gallie, prese la città di Bologna, tirò a sè le truppe romane, ch'erano sparse per esse Gallie, e stese il suo dominio fino alle Alpi che dividono l'Italia dalla Gallia. Probabilmente faceva egli valere per pretesto della sua venuta la necessità di opporsi ai Barbari; ma intanto egli ad altro non pensava che ad assoggettarsi le Gallie stesse, lasciando che i Barbari proseguissero le stragi, i saccheggi e le conquiste nella Belgica e nell'Aquitania, provincie allora le più belle e ricche di quelle parti.
Mosso da sì funesti avvisi Onorio [379] imperadore, si trasferì da Ravenna a Roma, per trattar ivi col suocero Stilicone dei mezzi opportuni a fin di reprimere il tiranno, ed arrestar i progressi de' Barbari. Se nondimeno vogliam qui fidarsi del mentovato Zosimo, Onorio molto prima era giunto a Roma, dove ricevette le nuove de' rumori della Bretagna e Gallia, richiamato a sè Stilicone, il quale in Ravenna stava preparando l'armata navale colla mira di passar nell'Illirico. Non credette Stilicone utile a' suoi interessi disegni, tuttochè fosse maestro dell'una e dell'altra milizia, o sia generalissimo dell'imperadore, d'assumer egli quell'impresa. Fu perciò risoluto di spedire nella Gallia Saro [Zosimus, lib. 6, cap. 2.], ch'era bensì Barbaro e Goto di nascita, ma uomo di gran valore, e che fedelmente in addietro avea servito nelle armate romane. Giunto costui nelle Gallie con quelle truppe che potè condur seco, si azzuffò con Giustino (chiamato Giustiniano da Zosimo) generale di Costantino tiranno; l'uccise, e con esso lui la maggior parte delle soldatesche ch'egli conduceva. Essendo venuto Nevigaste, altro generale di Costantino, a trovarlo per trattar di pace, Saro la fece da barbaro, perchè gli levò, contro la fede datagli, la vita. Erasi ritirato Costantino in Valenza, città ora del Delfinato. Saro quivi l'assediò; ma dopo sette giorni, udito che venivano a trovarlo due altri generali di Costantino, cioè Ebominco di nazione Franco, e Geronzio oriondo della Bretagna, con forze di lunga mano superiori alle sue, sciolse l'assedio con ritirarsi verso l'Italia. Ebbe anche fatica a salvarsi, perchè inseguito dai nemici; e al passaggio dell'Alpi gli convenne cedere tutto il bottino fatto in quella guerra ai Bacaudi, rustici che erano da gran tempo sollevati contra gli esattori dei tributi romani. Di questo buon successo si prevalse Costantino per ben munire i passi che dall'Italia conducono nelle Gallie. Non si sa se prima o dopo quest'impresa Costantino [380] volgesse le sue armi contra dei Barbari entrati nelle Gallie suddette. Attesta Zosimo ch'egli diede loro una gran rotta, e che se gli avesse perseguitati, non ne restava alcuno in vita, e però essi ebbero tempo di rimettersi, e coll'unione d'altri Barbari tornarono ad esser forti al pari di Costantino. Ma Zosimo s'inganna in iscrivendo che Costantino mise presidii al Reno, acciocchè costoro non avessero libera l'entrata nelle Gallie, essendo certo che già v'erano entrati, e non ne uscirono per questo. Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 40.] notò che Costantino si lasciò più volte ingannare dai Barbari con dei falsi accordi, perlochè riuscì piuttosto nocivo che utile all'imperio. Spedì egli poscia due volte Costante suo figliuolo, che dianzi era monaco, in Ispagna, dove fece prigionieri i parenti di Teodosio il Grande padre del medesimo Onorio Augusto e trasse dalla sua gli eserciti romani che erano in quelle parti. Ma disgustato Geronzio suo generale, accrebbe i guai, perchè si rivoltò contra di lui, e se l'intese coi Barbari, con essere dipoi cagione che molti popoli delle Gallie e della Bretagna si ribellarono all'imperio romano, e si misero in libertà, senza ubbidir più nè ad Onorio nè a Costantino. Ho recitato in un fiato tutti questi avvenimenti sotto il presente anno, quantunque alcuni d'essi appartengano anche ai susseguenti. Onorio in questo mentre dimorando in Roma non era tanto occupato dai pensieri della guerra che non pensasse al rimedio dei disordini della Chiesa. Però pubblicò varie leggi che si leggono nel Codice Teodosiano, contro i pagani e contro gli eretici donatisti, manichei, frigiani e priscillianisti. Mancò di vita a dì 14 di settembre in quest'anno quel grande ornamento della Grecia, ed incomparabile sacro oratore della Chiesa di Dio, san Giovanni Grisostomo, essendo morto dopo tanti travagli nell'esilio, dove la persecuzion de' suoi emuli l'aveva spinto.
Anno di | Cristo CDVIII. Indiz. VI. |
Innocenzo papa 8. | |
Onorio imperadore 16 e 14. | |
Teodosio imperadore 7 e 1. |
Consoli
Anicio Basso e Flavio Filippo.
Noi troviamo in una legge del Codice Teodosiano prefetto di Roma nel presente anno Ilario. Zosimo [Zos., lib. 5, c. 41.] parla di Pompeiano, come prefetto d'essa città in questi tempi. Diede fine a' suoi giorni Arcadio imperadore d'Oriente nel dì primo di maggio di questo anno, per attestato di Socrate [Socrates, lib. 6, cap. 23.] e d'altri storici. Da alcuni nondimeno è differita la sua morte fino al settembre. Ma non veggendosi legge alcuna di lui, che passi oltre l'aprile, più probabile si rende la prima opinione. Era egli in età d'anni trentuno, e però universale fu la credenza de' Cristiani che Dio troncasse così presto il filo della sua vita, in pena dell'ingiusta persecuzione fatta ad uno dei più insigni padri della Chiesa cattolica, cioè a san Giovanni Grisostomo. Le dissensioni passate fra lui e l'imperadore Onorio suo fratello in addietro gli fecero temere che non fosse ben sicuro nella succession dell'imperio l'unico suo figliuolo ed erede Teodosio II, alcuni anni prima dichiarato imperadore, perchè fanciullo che appena aveva compiuto l'anno ottavo di sua vita. Prese dunque una risoluzion, che parve strana a molti, ma che col tempo riuscì utilissima, cioè di raccomandarlo nel suo testamento alla protezion d'Isdegarde re di Persia, pagano, con pregarlo di assumere la tutela del figliuolo. Trovò Isdegarde, principe di grande animo, per quanto narra Procopio [Procop., de Bell. Pers., lib. 1, cap. 2.], degna di tutta la sua corrispondenza la confidenza a lui mostrata da Arcadio; e però non mancò di sostenere gl'interessi del giovinetto Augusto, [382] con far sapere la sua mente e protezione all'imperadore Onorio: il che bastò a farlo stare in dovere da lì innanzi. Inviò ancora a Costantinopoli, per aio di Teodosio, Antemio, personaggio egregio pel sapere e per i costumi, e mantenne da lì innanzi una buona pace col greco imperio, non senza vantaggio della cristiana religione, che sulle prime per tal via s'introdusse e dilatò nella Persia. Ma da lì a pochi anni Isdegarde, ad istigazione de' magi, mosse una fiera persecuzione ai medesimi Cristiani del suo paese, con riportarne in tal congiuntura assaissimi di essi la corona del martirio. Era già passata al paese de' più Maria imperadrice, moglie di Onorio imperadore [Theoph., in Hist. ad Ann. Alexandr. 406.], e figliuola di Stilicone e di Serena, nata da Onorio fratello di Teodosio il Grande. Se si ha da prestar fede a Zosimo [Zosim., lib. 6, cap. 28.], Onorio desiderò d'aver per moglie Termanzia, altra figliuola di esso Stilicone e di Serena. Pareva che non acconsentisse a tali nozze Stilicone; ma Serena fece premura per effettuarle, quantunque la fanciulla per la sua puerile età non fosse atta al matrimonio; ed in fatti si celebrarono le nozze, senza che noi sappiamo se v'intervenisse dispensa alcuna per parte d'Innocenzo papa. Verisimilmente ancor qui Stilicone attese a fare il suo giuoco. Avea data la prima figliuola sì tenera d'età ad Onorio, che non giunse mai a toccarla, ed ella si morì vergine. Lo stesso fu fatto di quest'altra, sperando forse Stilicone che accadendo la morte di Onorio senza figliuoli, Eucherio suo figliuolo potesse succedergli nell'imperio. Nè Zosimo tacque una voce che allora correa, cioè aver Serena, per mezzo d'una strega, concio in maniera Onorio, che non fosse abile alle funzioni matrimoniali. Anche Filostorgio [Philostorg., lib. 12, cap. 2.] storico riferisce questa non so se vera o falsa diceria.
In questi giorni, per testimonianza [383] del suddetto Zosimo, Alarico re o sia condottiere de' Goti, con grosso esercito passò dalla Pannonia nel Norico, ed arrivò fino ad Emona, città poco distante da Giulio Carnico. Di là inviò legati ad Onorio Augusto, soggiornante allora in Ravenna, a titolo di crediti da lui pretesi, con essersi fermato nell'Epiro a requisizione di esso Stilicone, allorchè segretamente meditavano di muover guerra ad Arcadio per occupare l'Illirico. Richiedeva eziandio che gli fossero pagate le spese occorse nel venire a condurre l'esercito sino nel Norico. Stilicone, lasciati i legati in Ravenna, volò a Roma per trattare coll'imperadore e col senato di questa dimanda, che probabilmente fu accompagnata dalle minacce. La maggior parte de' senatori inclinava alla guerra contro il Barbaro, come partito più glorioso. Stilicone con pochi sosteneva quel della pace, e cavò fuori le lettere di Onorio, per le quali appariva essersi Alarico d'ordine di lui trattenuto nell'Epiro per far la guerra ad Arcadio, la quale non s'era poi intrapresa per ordini in contrario venuti dallo stesso Onorio. Il senato, mostrandosi persuaso di queste ragioni, ma più per timore di Stilicone, gli accordò, per aver pace, il pagamento di quattro mila libbre d'oro, non so se di peso o pure di 84 denari d'oro l'una [Zosim., lib. 5, cap. 29.]: nè vi fu se non Lampadio, nobil senatore, che altamente disse: Questa non è una pace, ma un patto di servitù per noi. Dopo le quali libere parole si ritirò in chiesa, apprendendo l'ira di Stilicone. E di qui ebbe principio la disavventura e caduta del medesimo Stilicone, avendo tutti declamato contra di lui, come fautore de' Barbari in pregiudizio dell'imperio. Determinò Onorio di poi di passar a Ravenna, per dar la mostra all'esercito ivi preparato. Stilicone, a cui non doveano essere ignoti i lamenti de' Romani, e i mali uffizii che faceano contra di lui, si studiò d'impedire quel viaggio, avendo insino fatto [384] svegliare un tumulto in Ravenna da Saro, capitano de' Barbari che erano al soldo de' Romani, per intimidire Onorio. Ma non per questo ristette l'imperadore, e sen venne fino a Bologna. Quivi nacque fra lui e Stilicone una controversia. Già era venuta la nuova della morte seguita dell'imperadore Arcadio, e Stilicone disegnava di passar in persona a Costantinopoli per dare assetto agli affari del fanciullo Teodosio Augusto. Anche Onorio si lasciò intendere d'aver disegnato il medesimo viaggio per procurar la sicurezza del nipote. Stilicone impontò; e mostrata la necessità che vi era della presenza d'Onorio in Italia per provvedere ai bisogni della Gallia occupata da Costantino e per tenere d'occhio il barbaro ed infido Alarico vicino all'Italia con sì copioso esercito, tanto disse, che Onorio depose quel pensiero, ed egli s'allestì per prendere il cammino alla volta dell'Oriente.
Ma passato che fu Onorio da Bologna a Pavia, non si vide che Stilicone eseguisse punto quello che avea promesso. Questo servì a' suoi emuli per maggiormente screditarlo presso l'imperadore con aggiugnere, per lo contrario, che se Stilicone passava in Oriente, era per levar di vita il fanciullo Augusto, e mettere la corona dell'imperio orientale in capo ad Eucherio suo figliuolo. Fra gli altri Olimpio [Zosim., lib. 6, cap. 32.], uno degli uffiziali palatini, quegli fu che principalmente, durante il viaggio d'Onorio a Pavia, venne creduto che non d'altro gli parlasse che de' cattivi disegni di Stilicone, non senza ingratitudine verso di lui che l'avea cotanto esaltato nella corte. Lo narra anche Olimpiodoro storico presso di Fozio [Olympiod., apud Photium, pag. 180.]. Giunto che fu Onorio in Pavia, si fece vedere all'esercito ivi preparato per passare contra Costantino tiranno nelle Gallie. Ma eccoli sollevarsi quelle milizie, istigate, se è vero ciò che ne riferisce Zosimo, dal suddetto Olimpio, con [385] tagliare furiosamente a pezzi tutti gli uffiziali o di corte o della milizia, creduti partigiani o complici di Stilicone. Fra questi furono Limenio, già prefetto del pretorio nella Gallia; Cariobaude dianzi generale dell'armata in essa Gallia, che s'erano salvati dalle mani del tiranno Costantino [Sozom., lib. 9, cap. 4. Orosius, lib. 7, cap. 38.]; Vincenzo generale della cavalleria, e Salvio conte della scuola dei domestici; ed altri non pochi magistrati, senza perdonare neppure a Longiniano prefetto del pretorio d'Italia. Durò gran fatica Onorio a frenare il pazzo e crudel moto di costoro, e si trovò egli stesso in grave pericolo. All'avviso di questa sedizione spaventato Stilicone, che trovavasi allora in Bologna, non sapeva a qual risoluzione appigliarsi. Saro, capitano di que' Barbari [Zosim., lib. 5, c. 34. Philostorg., lib. 12, c. 3.] che militavano al soldo dell'imperadore, una notte uccise tutti gli Unni che stavano alla guardia di lui, in maniera che egli stimò bene di scapparsene a Ravenna. Olimpio intanto avendo guadagnato affatto l'animo d'Onorio Augusto, l'indusse a scrivere allo esercito di Ravenna, che si assicurassero della persona di Stilicone. Il che inteso da lui, si ritirò la notte in chiesa. Fatto giorno, i soldati entrati in essa chiesa, alla presenza del vescovo con giuramento attestarono, altro ordine non essere stato loro dato, che di metterlo sotto buona guardia, salva la di lui vita. Ma uscito che fu della franchigia, l'uffiziale che aveva esibito il primo ordine, ne sfoderò un altro di ammazzarlo a cagione dei suoi misfatti. Si misero in procinto i Barbari e famigliari suoi di liberarlo; ma egli avendo comandato loro di desistere, coraggiosamente si lasciò uccidere da Eracliano, che da lì a non molto fu ricompensato colla prefettura dell'Africa. E tal fine ebbe a dì 25 d'agosto Stilicone, per tanti anni arbitro dell'imperio e degli eserciti romani, e glorioso per le vittorie da lui riportate. Mille delitti gli furono apposti dopo morte. I più rilevanti [386] erano che egli con ambiziosi disegni aspirasse all'imperio d'Oriente, ed anche d'Occidente, o per sè o per suo figliuolo, meditando perciò e manipolando la morte degli Augusti; e che trattenesse in danno dell'imperio romano segrete amicizie e trame con Alarico e con gli altri Barbari a fine di profittarne per le sue segrete mire. Noi sappiamo che quantunque cristiano (almeno in apparenza) egli era odiato da' Cristiani, forse perchè favoriva non poco i pagani. Fu creduto che lo stesso Eucherio suo figliuolo professasse tutte le loro superstizioni, con aver anche promesso, se giugneva all'imperio, di riaprire i lor templi. Per questo probabilmente Zosimo ed Olimpiodoro, storici pagani, assai favorevolmente parlano di lui, e sparlano forte di Olimpio, uomo cattolico, che tanto si adoperò per la sua rovina. Tuttavia Rutilio [Rutilius, in Itiner., lib. 1.], poeta anch'esso pagano di que' tempi, anch'egli si mostra persuaso delle cabale e dei disegni ambiziosi di Stilicone. Ma egli è ben facile che fra tanti delitti a lui apposti, più d'uno se ne contasse che non avea sussistenza. E certamente allorchè s'ode Paolo Orosio, Marcellino conte, Prospero ed altri scrittori attribuire a lui la chiamata de' Vandali, Alani e Svevi, per invadere le Gallie, non par facile d'accordo questa partita coll'altre che si contano de' disegni della sua ambizione in favore del figliuolo. Se si fosse lasciato luogo a Stilicone di far le sue difese, avrebbe forse giustificato molte sue azioni, che al volgo pareano malfatte e condotte dalla malizia, ma poterono essere necessità per bene dello Stato. E tanti uffiziali insigni trucidati in Pavia, si può egli credere che tutti fossero colpevoli e degni di morte? Per altro non è da maravigliarsi se Onorio Augusto si lasciasse indurre a decretar la morte di un suocero che l'avea fin allora mantenuto sul trono contra tanti sforzi de' Barbari. Egli era un buon principe, ma non di grande [387] animo. È una pensione di questi tali l'essere o il diventar facilmente sospettosi e crudeli. Si aggiunse inoltre la grave spinta che gli diedero gli emuli e nimici di Stilicone, i quali mai non mancano a chi siede in alto, e per lungo tempo vi siede.
Dopo la morte di Stilicone furono confiscati tutti i suoi beni, e quegli ancora de' suoi creduti partigiani, uccisi nella sedizion di Pavia, o pure fuggiti e banditi. Egli, dichiarato nemico pubblico e traditore; atterrate tutte le statue, e cancellate tutte le memorie di lui. Termanzia, sua figliuola, già sposata ad Onorio Augusto, fu rimandata vergine a casa, e consegnata a Serena sua madre. Se crediamo alla Cronica d'Alessandria [Chronicon Alexandrinum.], questa infelice fanciulla finì anch'ella di vivere nell'anno 415. Furono inoltre levati via dai lidi e dai porti le guardie che Stilicone vi tenea, perchè impedivano il commercio, con aggiugnere ancor questo agli altri suoi delitti, pretendendosi ciò fatto, affinchè niuno degli Orientali potesse sbarcare in Italia. Si raccolgono tali notizie dalle leggi pubblicate in quest'anno e riferite nel Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.]. Ed altre ivi pure si leggono contro i pagani e donatisti d'Africa, i quali pretendeano fatte da Stilicone, e non già dall'imperadore Onorio, alcune leggi contra di loro. Escluse egli dal palazzo chiunque non era cattolico e non seguitava la religione del principe. E per cattivarsi l'animo de' popoli, abolì un'imposta di grano e di danaro, che dianzi si pagava per i terreni. Olimpio, autore della rovina di Stilicone, creato dipoi maggiordomo della corte cesarea, seppe ben profittarne, con rendersi egli padrone dello spirito di Onorio, e regolar da lì innanzi tutti i negozii del principe, e dispensar le cariche ai suoi partigiani. Scrive Zosimo [Zosimus, lib. 5, cap. 35.] che per ordine suo furono carcerati varii familiari del morto Stilicone, e fra gli altri Deuterio [388] mastro di camera dell'imperadore, e Pietro tribuno della scuola de' notai. Messi ai tormenti, perchè rivelassero se Stilicone avesse affettato l'imperio, niuno si trovò che somministrasse lumi di questo preteso tradimento. Inoltre fu deputato Eliocrate, fiscale in Roma, per unire al fisco i beni di tutti coloro che avessero ottenuto dei magistrati al tempo di Stilicone. Tutto in somma era in confusione e tempesta. E a questi malanni s'aggiunse che i soldati romani, per pescare anche essi nel torbido della repubblica, dovunque trovarono nelle città mogli e figliuoli de' Barbari collegati e al soldo dell'imperio, gli uccisero, e saccheggiarono i loro beni: il che fu cagione che irritati quei Barbari, più di trentamila d'essi andarono ad unirsi con Alarico.
Seguitava tuttavia a stare esso Alarico alle porte d'Italia, osservando le tragedie romane, senza nondimeno voler guerra coll'imperadore, e senza violar la tregua stabilita vivente Stilicone. Inviò ambasciatori ad Onorio, esibendo la pace, purchè gli fosse pagata una gran somma di danaro. Non è ben certo se gli fosse sborsata la già promessa quand'era vivo Stilicone. Sembra nondimeno che Olimpiodoro presso Fozio [Photius, pag. 181.] asserisca già seguito quel pagamento. Esibì ancora Alarico di dare ostaggi ad Onorio per la continuazion della pace, e di ritirarsi poi dal Norico nella Pannonia. Nulla volle farne l'imperadore, e rimandò carichi di sole parole i legati. Vien egli qui accusato da Zosimo storico [Zosim., lib. 5, cap. 36.], perchè con qualche sborso di danaro non istudiasse di differir la guerra per mettersi in miglior stato di difesa; e se pur voleva la guerra, perchè non fu sollecito ad unir le legioni romane, con formare un esercito capace di contrastar gli avanzamenti di Alarico. Il biasima ancora, perchè non desse il comando dell'armata a Saro, bravo capitan de' Barbari, [389] e già provato, come di sopra dicemmo; ed in sua vece eleggesse per condottiere della cavalleria Turpillione, e della fanteria Varane (forse quello stesso che fu dipoi console nell'anno 410), e Vigilanzio dei domestici, ossia delle guardie del corpo, personaggi fatti apposta per accrescere l'ardire ai Barbari, e il terrore ai Romani. Ma Onorio non si dovette fidare di Saro, perchè barbaro e pagano. Forse troppo si fidò di Olimpio, divenuto suo favorito, ne' consigli del quale aveva egli riposta la sua speranza. Ora Alarico, preso il pretesto di vedersi negate le paghe, e per vendetta ancora di Stilicone, per quanto scrive Olimpiodoro, cominciò la guerra. E perchè meditava di gran cose, ordinò con sue lettere ad Ataulfo, fratello di sua moglie, che dalla Pannonia menasse quanti Unni e Goti potesse. Poi, senza aspettarlo, diede la marcia alla sua armata, ridendosi dei praparamenti di Onorio. Si lasciò indietro Aquileia, Concordia ed Altino, e, senza trovare opposizione alcuna, passò il Po a Cremona, e per Bologna venne a Rimini, e di là pel Piceno alla volta di Roma, saccheggiando quante terre e castella trovò per via. Poco mancò che non cadesse nelle mani dei suoi Eucherio figliuolo di Stilicone, nel mentre che per ordine di Onorio era condotto a Roma da Arsacio e Terenzio eunuchi. Dopo la morte del padre era questi fuggito a Roma, e protetto dai Barbari collegati ed amici di Stilicone, si nascose e salvò in una chiesa. Scoperto infine, ne fu per forza tratto, e probabilmente per riverenza alla franchigia gli fu promessa la vita. Forse fu di poi condotto a Ravenna, dove dimorava l'imperadore, il quale non si sa perchè in questi torbidi il rimandò a Roma, dove o per comandamento di lui, o perchè s'appressavano colà le genti di Alarico, ebbe un fine eguale a quello del padre.
Giunse Alarico sotto Roma, e la strinse d'assedio. Allora fu che nel senato si sollevarono sospetti contra di Serena già moglie di Stilicone, quasichè ad istigazione [390] sua i Barbari fossero venuti contro ad essa città. E bastarono tali sospetti al senato per decretar la morte di questa infelice, probabilmente innocente di simile attentato. Ad un tale decreto consentì anche Placida sorella dell'imperadore, ancorchè Serena fosse sua parente dal lato di padre. La sentenza fu eseguita, e Zosimo pagano [Zosim., lib. 5, cap. 40.] si figurò costei punita dagli dii della gentilità per aver tolta a Rea madre degli dii una collana di gran valore; ma ella potea ben avere senza questo falso misfatto degli altri delitti, per i quali Iddio volle gastigarla quaggiù. Si credevano i Romani che tolta di mezzo Serena, dovessero i Barbari andarsene con Dio. Ma si chiarirono ben presto dei loro vani supposti. Più che mai Alarico seguitò ad angustiare la città, e ad affamarla con impedire l'introduzion dei viveri sì pel fiume, come per terra, e crebbe talmente la fame, che si tirò dietro una fiera mortalità di popolo. Allora il senato determinò di spedir deputati a trattare d'accordo col generale degli assedianti, perchè erano tuttavia in dubbio se si trovasse ivi Alarico in persona. Data questa incumbenza a Basilio, già presidente della Spagna, spagnuolo di nascita, e a Giovanni, già preposto de' notai palatini [Chronicon Alexandrinum.], presentatisi costoro ad Alarico, proposero la concordia; e per sostenere il decoro, si lasciarono scappare una bravata, con dire che il popolo romano era anche pronto per una battaglia. Alarico sogghignando rispose: Anche il fieno folto si taglia più facilmente che il raro: colle quali parole mise a riso tutti gli astanti. Proruppe poscia il Barbaro in dimande degne di un par suo, cioè che non leverebbe mai l'assedio, se non gli davano tutto l'oro e l'argento e le suppellettili preziose della città, e la libertà di tutti gli schiavi barbari. Ma e che resterebbe a noi? rispose uno dei legati. Le vite, replicò il superbo Alarico. Qui fu chiesta dai legati la licenza di tornar nella città [391] per trattare con gli assediati, i quali inteso che quivi era Alarico, e che faceva dimande cotanto esorbitanti, si videro disperati. Accadde, che venuti o chiamati apposta in Roma alcuni della Toscana, riferirono d'essersi salvata dai pericoli la città di Narni coll'avere sacrificato agli dii del gentilesimo. Non vi volle di più, perchè alcuni dei senatori tuttavia pagani proponessero come cosa necessaria alla liberazion di Roma quegli empii sagrifizii. Il fatto vien narrato da Sozomeno [Socrat., lib. 9, cap. 6.] ed anche da Zosimo [Zosimus, lib. 5, cap. 41.], che vi aggiugne una particolarità, unicamente fabbricata dal suo cuore maligno, perchè pagano: cioè, che Innocenzo papa, consultato sopra di ciò, serrasse gli occhi, e li lasciasse fare. Ma il fatto grida in contrario: poichè, per attestato dello stesso Zosimo, niuno de' tanti senatori cristiani volle intervenire a così abbominevol azione: anzi pare che in effetto desistessero per questo dal farla, e verisimilmente perchè il pontefice vi si oppose. Ma quand'anche avessero sagrificato, come sembra supporre Sozomeno, s'accorsero in breve della vanità di quest'empio rifugio. E nota il medesimo Sozomeno che i più giudiziosi riguardavano questa guerra e calamità per un giusto gastigo di Dio, che voleva punire i tanti peccati di Roma immersa nell'ozio e nel lusso, e tanti ostinati tuttavia nelle superstizioni del paganesimo. Lo stesso Alarico dicea di esser mosso da una voce interna che gli andava dicendo di affrettarsi per l'espugnazion di Roma. Finalmente convenne rimandare ambasciatori ad Alarico, e capitolare che i Romani gli pagassero cinquemila libbre d'oro, trentamila d'argento, quattromila giubbe di seta, tremila pelli tinte in grana, e tremila libbre di pepe. Ma perchè l'erario [392] era esausto, nè i particolari potevano supplire così in un subito allo sborso di tanto oro ed argento, si mise mano ai templi de' gentili, con asportarne le statue d'oro e d'argento, e tutti gli ornamenti preziosi delle altre: il che viene detestato da Zosimo gentile, e specialmente per la statua della Fortezza, a cagione della cui perdita i pagani credettero che dovessero succedere infinite traversie da lì innanzi a Roma. Pagato il danaro, furono spediti all'imperatore Onorio legati, pregandolo di consentire alla pace, anzi alla lega con Alarico: al qual fine aveva anche il Barbaro voluto per ostaggi molti figliuoli de' nobili romani. Furono da lì innanzi lasciati entrare i viveri in Roma, e l'esercito nemico si ritirò, col quale s'andarono ad unire circa quarantamila schiavi barbari, che di giorno in giorno fuggivano di Roma.
Intanto il tiranno Costantino avea fissata la residenza sua in Arles, e veggendo gli affari dell'imperadore Onorio in pessimo stato [Orosius, lib. 7, cap. 40.], dichiarò Augusto suo figliuolo Costante, a cui dianzi avea conferito il titolo di Cesare [Sozom., lib. 9, cap. 11.]. Inoltre giudicò bene d'inviar ad Onorio un'ambasceria, che giunta a Ravenna, gli dimandò perdono a nome di Costantino [Zosimus, lib. 5, cap. 43.], con allegare per iscusa la violenza a lui fatta dall'esercito. Onorio, perchè non potea di meno, e sulla speranza di salvare la vita a Vereniano e Didimio suoi parenti, condotti prigionieri di Spagna a Costantino, con trovarsi poi burlato perchè questi già erano stati trucidati, non solamente fece vista di accettare la scusa, ma gl'inviò ancora la porpora imperatoria, riconoscendolo per collega nell'imperio. Probabilmente ciò avvenne nell'anno presente.
Anno di | Cristo CDIX. Indizione VII. |
Innocenzo papa 9. | |
Onorio imperad. 17 e 15. | |
Teodosio II imperad. 8 e 2. |
Consoli
Onorio Augusto per l'ottava volta, e Teodosio Augusto per la terza.
Bonosiano vien chiamato il prefetto di Roma dell'anno corrente in una legge del Codice Teodosiano. Quanto si è di sopra narrato della morte di Stilicone e dell'assedio di Roma vien riferito dal cardinal Baronio, da Jacopo Gotofredo e da altri nell'anno presente. E sembra certo difficile che essendo stato ucciso Stilicone verso il fine del precedente agosto, Alarico, che ne dovette ricevere l'avviso stando fuori d'Italia, potesse far tanto viaggio, operar tante cose ne' quattro mesi che restavano di quell'anno. Contuttociò chiaramente narrando Zosimo istorico [Zosimus, lib. 5, cap. 42.], che dopo tali avvenimenti Onorio entrò console per l'ottava volta, e Teodosio II Augusto per la terza; il che accadde nel principio di quest'anno; più sicuro è l'appoggiarsi a lui scrittore contemporaneo, come ha fatto il padre Pagi, che ai moderni. E tanto più perchè, per attestato del suddetto Zosimo, essendo stati inviati dai Romani, dopo la liberazion della città, ambasciatori a Ravenna, Onorio Augusto nel licenziarli levò a Teodoro la dignità di prefetto del pretorio, e la conferì a Ceciliano, uno di essi legati. Ora nel Codice Teodosiano si trovano due leggi date in Ravenna nel gennaio del presente anno, ed indirizzate a Teodoro prefetto tuttavia del pretorio, al quale poi si vide sostituito nel medesimo grado Ceciliano suddetto, con essere a lui indirizzate altre leggi date nello stesso gennaio [Cod. Theod., lib. 9, III 3, lib. 7.]. Una specialmente è degna d'essere avvertita perchè testimonio dell'insigne carità d'Onorio, ordinando egli sotto gravi pene, che ogni domenica i [394] giudici facciano la visita dei carcerati, per sapere se sieno ben trattati; e che ai poveri sia somministrato il vitto; e che sopra ciò vegli lo zelo dei vescovi. S'era anche introdotta dai due Valentiniani ed altri imperadori cristiani la piissima consuetudine di liberar tutti i prigioni in onore del santo giorno di Pasqua, a riserva dei rei di enormi delitti. (Veggasi il codice Teodosiano de Indulgentia Criminum). Il qual rito si osserva tuttavia in assaissimi luoghi della cristianità, e massimamente in Modena. Furono dunque nel principio di quest'anno inviati dal senato romano ambasciatori ad Onorio Augusto, Ceciliano Attalo e Massimiano, per pregarlo di approvar la pace, di cui s'era trattato con Alarico. Uomo timido, e però irresoluto, era l'imperadore. Non volle dar ostaggi nè acconsentir a varii capi della capitolazione. Zosimo ne incolpa Olimpio che imbrogliava tutto. Furono rimandati senza conclusione alcuna; Ceciliano creato prefetto del pretorio, Attalo, sopraintendente al fisco. Ma per difesa di Roma Onorio spedì a quella volta seimila bravi Dalmatini sotto il comando di Valente. Parve a questo condottiero vergognosa cosa il guidar quegli armati per vie disusate, come di nascosto; ma quando meno sel pensava, li condusse in bocca ad Alarico, il quale gli aspettava, e tutti li fece prigionieri, a riserva di un centinaio, e dello stesso Valente, ch'ebbero la fortuna di salvarsi. Attalo fiscale giunto a Roma, avendo osservato che Eliocrate con troppa piacevolezza si portava nel cercare i partigiani di Stilicone, e in confiscare i lor beni, il mandò a Ravenna, dove per questo gran delitto corse pericolo di perdere la vita, se non si rifugiava in una chiesa. Massimiano, il terzo dei suddetti ambasciatori, caduto nel ritornare a Roma in mano de' Barbari, fu ricuperato da Mariniano suo padre con trentamila pezze d'oro.
Cresceva intanto la confusion nel senato e popolo romano tra per le irresolutezze [395] dell'imperadore, e per aver tuttavia vicino a sè Alarico minaccioso, e con forze da eseguir le minacce. Però inviarono ad Onorio altri ambasciatori, tra i quali fu lo stesso Innocenzo papa; ed Alarico diede lor buona scorta, affinchè andassero sicuri. Dispose Dio in questa maniera le cose per sottrarre il buon pontefice alla terribil tragedia che dipoi succedette in Roma, perciocchè egli si fermò da lì innanzi in Ravenna coll'imperadore. Calò intanto in Italia Ataulfo cognato di Alarico, conducendo una mediocre armata. Onorio fatti raunar quanti soldati potè, gl'inviò a contrastargli il passo; e si venne anche ad un fatto di armi, in cui circa mille cinquecento Goti restarono sul campo, e solamente diciassette Romani, se pure è da credere. Il rimanente de' Barbari passò e andò ad unirsi con Alarico [Zosimus, lib. 5, cap. 48.]. E fino a questa ora Olimpio avea comandato a bacchetta nella corte d'Onorio. Seppero gli eunuchi tanto intronar le orecchie di esso imperadore, rappresentandogli questo primo ministro come origine di tutti i presenti malanni, che lo indussero a deporlo. Sotto un principe di testa debole, quando nascono torbidi, nulla è più facile che il veder di simili scene. Olimpio temendo di peggio, scappò in Dalmazia. Tornato, non so quando, a Roma, e ristabilito in qualche uffizio, Costanzo cognato dell'imperadore, secondochè narra Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium, pag. 180.], dopo avergli fatto tagliar le orecchie, il fece anche uscir di vita a forza di bastonate, incolpandolo di tanti disordini per cagion di lui occorsi all'imperio romano. Giovio, probabilmente pagano di cuore, in suo luogo occupò il ministero. Era prefetto del pretorio; ebbe anche il titolo di patrizio. Attalo fu allora creato prefetto di Roma; e seguirono altre mutazioni nella corte di questo buon Augusto, che tutte per la debolezza del suo governo tornarono in suo pregiudizio. E perciocchè per le segrete istigazioni [396] del suddetto Giovio, ammutinati in Ravenna i soldati, più non vollero per lor capitani Turpillione e Vigilanzio, nè a palazzo Terenzio ed Arsacio mastri di camera, Onorio li cacciò in esilio, e i due primi furono uccisi nel viaggio. Fu costituito generale delle truppe romane esistenti nella Pannonia, Norico, Rezia e Dalmazia, Generido, Barbaro bensì, ma persona di gran valore e disinteressato. Costui, perchè era pagano, e per una legge d'Onorio, era vietato ai pagani ogni carica militare, non volle assumere il comando; e con ciò obbligò l'imperadore ad abolir quella, con lasciare a tutti la libertà della religione, e l'abilità alle dignità e alla milizia. Egregiamente da lì innanzi Generido corrispose all'espettazione che si avea della sua fedeltà e valore, con aver ben difese e conservate le provincie a lui confidate. Altre leggi diede in quest'anno Onorio, nelle quali specialmente provvide con piissima sapienza, che non fossero oppressi gli accusati, che non venissero maltrattati i carcerati. Meritano ben d'essere lette quelle leggi nel Codice Teodosiano. Inoltre ordinò che fossero cacciati da Roma e dalle altre città tutti i professori della strologia giudiciaria, appellati allora matematici, che al dispetto di altre precedenti leggi seguitavano ad esercitare la lor fallacissima arte.
Ad istanza di Giovio, primo ministro di Onorio, secondochè scrive Zosimo [Zosim., lib. 5, cap. 48.], o pure papa Innocenzo, come vuol Sozomeno [Sozom., lib. 9, cap. 7.], Alarico venne fino a Rimini per trattare di pace. Richiedeva questo Barbaro che l'imperadore gli pagasse ogni anno una certa somma d'oro e di grano per mantener le sue genti; che il dichiarasse generale dell'una e dell'altra milizia; che per abitazione delle sue soldatesche gli assegnasse le due Venezie, il Norico e la Dalmazia. Ma l'imperadore non senza ragione troppo abborriva l'avere per generale, e soggiornante nel cuor d'Italia [397] un barbaro, un infedele, qual era Alarico. Però scrisse a Giovio, il quale era andato a Rimini per questo trattato, che per lo danaro e grano si accorderebbe, ma che non poteva patire di dar carica alcuna a costui. Giovio ebbe l'imprudenza di far leggere in pubblico la lettera dell'imperadore: cosa che alterò forte il Barbaro, di maniera che infuriato si mosse subito per ritornare contra di Roma. Ma pentito nel viaggio mandò varii vescovi ad Onorio per indurlo pure alla pace, con far proporre condizioni più moderate, contentandosi di stare nel Norico, e di una discreta paga e contribuzione di grano. Neppur questo ebbe effetto, perchè Giovio, per levarsi di dosso il sospetto ch'egli se l'intendesse con Alarico, tornato che fu a Ravenna, giurò egli e fece giurare (se prudentemente, nol so) ad Onorio e a tutta la sua corte, di non far mai pace alcuna con Alarico; e perciò inutili riuscirono tutte le proposizioni di accomodamento. Maggiormente dunque indispettito Alarico, tornò coll'esercito sotto Roma, minacciando al senato e al popolo l'ultimo eccidio, se non si accordavano con esso lui contra di Onorio, principe, a cui pareva che nulla premesse la salute di quella gran città. Resisterono un pezzo i Romani, ma poichè Alarico si fu impadronito di Porto, senza più lasciar entrare viveri in Roma, affamati furono costretti ad accordarsi [Zosimus, lib. 6, cap. 6. Sozomenus, lib. 9, cap. 8.]. L'accordo fu che Attalo prefetto della città, ed amico de' pagani, venne dichiarato imperadore, siccome persona amata dai Goti, perchè battezzata da Sigesario, vescovo della lor nazione e setta. Veggonsi presso il Mezzabarba [Mediob., Numismat. Imperat.] le medaglie battute in suo onore, dove è chiamato Prisco Attalo. Non tardò costui a creare Lampadio prefetto del pretorio, e Marciano prefetto della città. Dichiarò ancora Alarico generale delle sue armate, e Ataulfo conte della cavalleria domestica. Entrato [398] colla porpora in senato, diede un bel saggio della sua vanità con una diceria piena di arroganza, in cui si vantava di voler sottomettere tutto il mondo. Quindi unitamente con Alarico mosse l'esercito contra di Onorio Augusto, che seguitava a dimorare in Ravenna. E senza voler badare ad Alarico che lo consigliava d'inviare in Africa un buon corpo di truppe per levare il comando di quelle provincie ad Eracliano, gli bastò di spedire colà un certo Costantino con pochi soldati, scioccamente lusingandosi che al comparire delle sue lettere, tanto Eracliano, quanto l'esercito d'Africa abbasserebbono la testa, e seguirebbono il partito suo.
Giunta che fu l'armata di Attalo e di Alarico a Rimini, Onorio pieno di spavento inviò per suo legato colà Giovio, suo primo ministro, per trattare di concordia, con esibire ad Attalo di accettarlo suo compagno nell'imperio, ma costui, gonfio per la sua dignità, pretese che Onorio si eleggesse un'isola, per menar ivi da privato il resto dei suoi giorni. Il peggio fu che lo stesso Giovio (se pure non fu occulto artifizio) s'accordò con Attalo per deprimere Onorio, giugnendo infino a proporre di tagliar qualche membro all'infelice Augusto. E tali erano gli uffiziali che quel buon principe eleggeva, e a' quali commetteva i più importanti affari dello Stato. Andò più volte innanzi e indietro Giovio, e finalmente restò presso d'Attalo, che il dichiarò patrizio, facendo costui nello stesso tempo credere ad Onorio che per suo bene operava così. S'era già preparato Onorio per ritirarsi presso il nipote Teodosio, quando all'improvviso gli venne un soccorso di quattromila soldati dall'Oriente, che il rincorò e svegliò in guisa, che fidata ad essi la guardia di Ravenna, quivi determinò di star saldo fino ad intendere l'esito degli affari dell'Africa. Già tutto era in pronto per istrignere Ravenna con vigoroso assedio; ma rimase sturbato da altri avvenimenti il disegno. Alarico non [399] ristette di operar colla forza, che le città dell'Emilia e della Liguria accettassero Attalo per imperadore. La sola Bologna fece resistenza e soffrì l'assedio. Quello che maggiormente disgustò Alarico, fu la nuova venuta dall'Africa, che Eracliano, conte, cioè governatore di quelle contrade, avea fatto trucidare Costantino colà inviato a nome di Attalo, e poste guarnigioni in tutte le città marittime, non lasciava più andar grani ed altri viveri alla volta di Roma: il che cagionò fra poco una fiera carestia e fame nel numeroso popolo di essa città. Concepì perciò Alarico un grave sdegno contra di Attalo, che aveva voluto operar di sua testa in negozio di tanto rilievo. Si aggiunsero i mali uffizii che presso di lui continuamente faceva Giovio per abbattere questo imperador di teatro, e forse con buon fine per facilitar la pace con Onorio, levando di mezzo costui che non serviva se non d'impedimento. Perciò Alarico, per quanto scrive Zosimo, fuori di Rimini il depose, con ispogliarlo del diadema e della porpora, e ridurlo a vita privata con Ampelio suo figliuolo. Il ritenne nondimeno presso di sè, per impetrargli il perdono, se seguiva la pace con Onorio, di cui pare che si trattasse seriamente fra l'imperadore ed Alarico. Fu poi un'altra volta esaltato, e da lì a non molto deposto questo efimero Augusto.
Occorse eziandio che Saro, altre volte nominato di sopra, condottiere di trecento bellicosi Barbari, il quale non s'era in que' torbidi dichiarato nè per Onorio nè per Alarico [Sozom., lib. 9, cap. 9.], ma non avea cara la lor concordia per suoi particolari fini, all'improvviso assalì le soldatesche condotte da Ataulfo cognato di Alarico, o pur le guardie del medesimo Alarico, e molte ne tagliò a pezzi; dopo di che andò ad abbracciare il partito di Onorio. Se volessimo qui prestar fede a Filostorgio [Philostor., lib. 12 Hist.], gli diede anche una rotta; ma [400] questo non s'accorda con gli altri storici d'allora. Fece nascere il fatto di Saro dei gravi sospetti in cuore di Alarico, dubitando egli che sotto il color della pace, che si trattava sempre e mai non si conchiudeva, gli fossero tese insidie. E però fumando di rabbia, se ne tornò sotto Roma, e di nuovo l'assediò. Si sostennero i Romani contra le di lui armi; ma non già contro la fame, la quale crebbe a tal segno, che migliaia di persone ne perirono, e si trovarono madri che levarono la vita ai figliuoli per salvare con quel cibo la propria. Ma finalmente bisognò soccombere. Alarico vittorioso entrò di notte nella città, in quella città, che per tanti secoli, non vinta da alcuno, avea data la legge a sì gran parte del mondo. Il Sigonio, il cardinal Baronio, il Gotofredo, il Tillemont ed altri furono di parere che questa orrida tragedia succedesse nell'anno 410. Ma il padre Pagi con vari argomenti pruova che nel presente anno a dì 24 d'agosto Roma venne nelle mani dei Barbari, e sant'Isidoro chiaramente mette questo fatto sotto l'era 447, che corrisponde all'anno corrente. Prospero Tirone ne parla sotto il consolato di Varane, che fu nell'anno seguente. Se nondimeno si verificasse che Tertullo disegnato console da Attalo in questo anno, nel principio poi del susseguente avesse assunto il consolato in Roma, converrebbe mutar opinione. Cassiodoro in fatti e Vittorio mettono consoli all'anno 410 Tertullo e Varane. Orosio chiama questo Tertullo console di apparenza, e pare che neghi ch'egli poi giugnesse mai ad esercitare il consolato. Strana cosa è intanto, che resti dubbioso il tempo di sì gran tragedia. Non si può senza lagrime rammentare la crudeltà esercitata dai Goti in questa occasione. Per tre giorni diedero il sacco a quante ricchezze e mobili preziosi Roma avea lungamente raunato in sè colle spoglie e coi tributi di tanti popoli. Furono tormentati senza compassione alcuna i nobili e benestanti, [401] perchè rivelassero i tesori creduti nascosi. Non si perdonò all'onore delle matrone e delle vergini, e neppur delle consecrate a Dio. Furono anche mietute a migliaia entro e fuori di Roma le vite del popolo in tal copia, che non v'era gente bastante a dar loro sepoltura. Restò inoltre ridotta in cenere dalle fiamme buona parte di essa città. Ma Iddio in punire con sì terribil flagello le reliquie ostinate del paganesimo in Roma, e la superbia e tanti vizii di quella città, fece nondimeno conoscere la sua misericordia e potenza agli stessi gentili. Perciocchè i Goti erano cristiani, benchè professori dell'eresia di Ario; ed Alarico loro ordinò di rispettare nel saccheggio i luoghi sacri, e specialmente le basiliche de' santi apostoli Pietro e Paolo: comando che fu religiosamente osservato da que' Barbari, e ne profittarono gli stessi pagani che colà si rifugiarono, con aver anche i Barbari portato rispetto ai sacri vasi delle basiliche suddette. Ma sopra ciò è da vedere l'insigne opera di sant'Agostino De Civitate Dei, scritta dopo la presa di Roma, per difendere la religione di Cristo dalle bestemmie vomitate in tal congiuntura dai gentili, quasichè all'avere aboliti gl'idoli e introdotta la legge sacrosanta di Gesù Cristo si dovessero attribuire tante calamità che in que' tempi diluviarono sopra Roma e sopra l'imperio romano. Pretende parimente il celebre monsignor Bossuet, vescovo di Meaux [Bossuet, Expos. de l'Apocal.], che si compiessero in questa rovina di Roma le profezie di san Giovanni nell'Apocalisse, avendo Iddio voluto dare con ciò l'ultimo colpo all'idolatria, e vendicare il sangue di tanti santi svenati dalla crudeltà de' pagani.
A tanti malanni se ne aggiunsero in questo anno altri fuora d'Italia, perciocchè gli Alani, Vandali e Svevi entrarono di settembre, ossia di ottobre, nell'Illirico, per attestato di Prospero [Prosper, in Chronic.] e [402] d'Idacio [Idacius, in Chronic.] storici, empiendo quelle provincie di stragi e saccheggi. E giacchè troppo era lacerato in Italia ed impotente a fare resistenza l'imperio romano, si scatenarono tutte le altre nazioni barbare, e penetrando anche esse nelle Gallie, devastarono le provincie di Lione, di Narbona, di Aquitania e d'altri paesi. San Girolamo in una sua lettera [Hieron., Epist. ad Ageruchiam.] nomina i Quadi, Vandali, Sarmati, gli Alani, i Gepidi, gli Eruli, i Sassoni, i Borgognoni, gli Alamanni e gli Unni. Parte ancora di questi Barbari, essendo aperti i passi de' Pirenei, tenne dietro ai Vandali, allorchè marciarono in Ispagna, e con esso loro si unì a conquistare e distruggere quelle provincie. Ossia poi che i Vandali fossero i più, o che le altre nazioni barbariche si suggettassero ai re vandali, noi troviamo varii autori che sotto il nome di Vandali comprendono tutti i Barbari che s'impadronirono della Spagna. Ritorniamo a Roma. Dopo avere i Barbari per tre giorni saccheggiata l'infelice città, e commesse in essa tutte le crudeltà possibili (non si sa il perchè, ma forse mossi da Dio), ne uscirono, e se ne andarono nella loro malora. Così lasciò scritto Paolo Orosio [Orosius, lib. 2, cap. 19.]. Se a Marcellino conte prestiam fede [Marcell. Comes, in Chron. apud Sirmondum.], dopo sei dì seguì la loro ritirata. E Socrate aggiugne che ciò accadde per paura dei soccorsi che Teodosio II Augusto inviava ad Onorio suo zio: del che nondimeno niun vestigio si trova presso gli altri autori. Alarico che, secondo Zosimo, molto tempo prima tenea sotto buona guardia Placidia sorella d'Onorio, seco la condusse in forma onesta e decente al suo grado, forse fin d'allora con pensiero di darla per moglie ad Ataulfo suo cognato, siccome poscia seguì. Passò il barbarico esercito pieno di ricchezze per le provincie della Campania, Lucania e dei Bruzii, con commettere anch'ivi tutte le [403] più orrende inumanità. Sappiamo da santo Agostino [August., de Civit. Dei, lib. 1, cap. 10.] che la città di Nola vi fu devastata, e fatto prigione san Paolino vescovo di quella, che non avea voluto fuggire. Continuò Alarico il viaggio fino a Reggio di Calabria con pensiero di passare in Sicilia, e di là in Africa, sperando di facilmente impadronirsi di quel paese. Ma Dio, che per gli occulti suoi giudizii s'era servito di questo barbaro per gastigare i peccati de' Romani, non istette molto a metter fine alle sue crudeltà. Si fermò costui non poco all'assedio di Reggio, ed essendosi imbarcata una parte della sua armata per passare in Sicilia, fiera tempesta sopravvenuta li fece perir tutti su gli occhi dello stesso re barbaro. E così terminò quest'anno sì funesto e vergognoso al nome romano. Ma io non vo' lasciar di aggiugnere qui una notizia degna della curiosità di tutti, di cui siam debitori ad Olimpiodoro storico greco e pagano di quei tempi, giacchè Fozio [Olympiod., apud Photium, pag. 198.] ci ha conservati alcuni pezzi o estratti della di lui storia, da cui si raccoglie qual fosse anche allora lo stato della gran città di Roma. Scrive egli adunque che in cadauno dei grandi palagi di essa città si trovava tutto ciò che ogni mediocre città può avere, cioè ippodromo per la corsa de' cavalli, piazza, tempio, fontane e vari bagni. Il perchè Olimpiodoro compose per essa un verso, così tradotto in latino:
Est urbs una domus: mille urbes continent una urbs.
Aggiugne che le terme pubbliche, ossia i bagni, erano di straordinaria grandezza, fra le quali quelle di Antonino aveano millesecento sedili di marmo pulito, e quelle di Diocleziano quasi il doppio. Che le mura di Roma, secondo le misure prese da Ammone geometra, allorchè i Goti la prima volta l'assediarono, giravano lo spazio di ventun miglia. Scrive eziandio che molte famiglie romane aveano di rendita annua de' loro beni quattro [404] milioni d'oro, senza il frumento, vino, ed altri naturali che avrebbono dato un terzo della suddetta somma d'oro, se si fossero venduti. Altre famiglie aveano un milione e mezzo, ed altre un milione di rendita. Che Probo figliuolo di Alipio nella pretura ai tempi di Giovanni tiranno (cioè l'anno di Cristo 424) spese un milione e dugentomila nummi d'oro (erano questi, per quanto credo, soldi d'oro, presso a poco corrispondenti al nostro scudo, ossia ducato, ossia fiorino d'oro). E che Simmaco oratore, il qual era contato fra i senatori di mediocre patrimonio, mentre Simmaco suo figliuolo esercitò la pretura (il che seguì prima che Roma fosse presa da Alarico), avea speso due milioni d'oro per la sua solenne entrata. E che dipoi Massimo, uno de' più ricchi e felici, per la pretura del figliuolo, aveva speso quattro milioni d'oro; perciocchè i pretori per sette giorni davano al popolo un grandioso divertimento di giuochi e spettacoli. Ma finalmente Dio venne a visitare il lusso dei Romani; e il peggio è che neppur dopo sì grave gastigo si emendarono dei lor vizii e peccati.
Anno di | Cristo CDX. Indizione VIII. |
Innocenzo papa 10. | |
Onorio imperadore 18 e 16. | |
Teodosio II imperad. 9 e 3. |
Consoli
Flavio Varane e Tertullo.
In quest'anno ancora si può credere che continuasse nella prefettura di Roma Bonosiano, perchè ornato di questa dignità il troviamo anche nell'anno seguente. Ma durante il gran temporale finora descritto che mai faceva l'imperadore Onorio? Se ne stava in Ravenna senza impugnare spada, senza muoversi da sedere; nè si sa ch'egli unisse esercito o facesse altri maneggi per opporsi ai Barbari, quasi che non vi fosse legione alcuna de' Romani. In tempi tali c'era bisogno d'un valoroso e saggio imperadore; che [405] non sarebbono succeduti tanti disordini. Tale certo non si può dire che fosse Onorio. Anzi Cedreno [Cedren, Hist. tom. I, pag. 336.] e Zonara [Zonaras, in Annal. tom. 1, pag. 40.], storici greci, a' quali precedette Procopio [Procop., de Bello Vandal., lib. 1, cap. 2.], cel rappresentano per uno stolido, raccontando inoltre, che portatagli da un uomo tutto affannato la nuova che Roma era stata presa dai Goti, egli battendo le mani con ischiamazzo rispose: Come può esser questo, se Roma poco fa era qui? Intendeva egli di una gallina che gli era molto cara, a cui avea posto il nome di Roma. Eh signore, ripigliò allora il messo sospirando, io non parlo di un uccello, parlo della città di Roma. Verisimilmente questa fu una finzione de' Greci che sempre hanno portata antipatia ai Latini. Tuttavia non senza fondamento fu screditata dai Greci la persona di Onorio. Grande era la pietà di questo principe, grande il suo amore per la religione cattolica. Abbiamo anche delle bellissime leggi pubblicate da lui. Ma questo non basta per sostenere il peso di un vasto imperio, e per ben governare e difendere i suoi popoli. Ci vuol anche mente e coraggio; e di queste due qualità non era assai provveduto Onorio, e per questo lo sprezzarono tanto i Barbari quanto i suoi proprii sudditi, i quali proruppero in tante ribellioni. Sarebbe egli stato un buon monaco, e per disavventura sua ed altrui fu un cattivo imperadore. Venuto intanto a sua notizia che gli Africani s'erano portati con tutta fedeltà, ricusando di sottomettersi ad Attalo imperadore immaginario, in ricompensa del buon servigio rimise a quei popoli tutto quel che dovevano all'erario cesareo fino all'Indizione V, cioè fino all'anno 408. La lettera [Cod. Theodos. tom. 4, pag. 199.] è indirizzata a Macrobio proconsole d'Africa, che forse potrebbe essere stato l'autore dei Saturnali. E perciocchè i donatisti, eretici in quelle parti, per le disgrazie che opprimevano l'imperio romano, si erano [406] dati più che mai ad insolentire, egli con rigorose nuove leggi represse la loro baldanza; e di più, ad istanza dei vescovi cattolici d'Africa, tutti ansiosi della pace fra que' Cristiani, ordinò che si facesse una pubblica e solenne conferenza fra essi cattolici e i donatisti, con inviare a tal fine colà Marcellino tribuno e notaio, acciocchè vi assistesse in suo nome. Fu in fatti tenuta questa celebre conferenza nell'anno seguente.
In questo tempo il barbaro re Alarico, dopo aver consumato del tempo nell'assedio della città di Reggio in Calabria, fu colpito da Dio con una morte subitanea. Sant'Isidoro [Isidorus, in Histor. Goth. apud Labbeum] ciò riferisce all'anno 448 dell'era spagnuola, che corrisponde al presente dell'era nostra. Il seppellirono i suoi nell'alveo del fiume Baseno, avendone prima fatte ritirar le acque per altro alveo scavato apposta dagli schiavi, e fattele poscia ritornar nel primo. Ed acciocchè niuno ne sapesse il sito, uccisero tutti quei miseri schiavi. Molte ricchezze inchiusero nel suo sepolcro, e ciò secondo il costume de' Barbari; e presero quella precauzione, affinchè la cupidigia di quel tesoro e l'odio dei Romani non concorressero a violarne il sepolcro. In luogo di Alarico fu riconosciuto per re dai Goti Ataulfo di lui cognato. Dove poi si stesse, e che operasse in questo e nell'anno appresso questo novello re dei Barbari, è assai scuro nella storia. Giordano storico scrive [Jord., de Rebus Getic., cap. 31.] ch'egli tornò di nuovo a Roma, e a guisa delle locuste ne corrose quello che vi era rimasto di buono, e che nella stessa forma spogliò l'Italia delle private ricchezze, senza che Onorio gli potesse resistere. Aggiugne che da Roma condusse via Placidia sorella di esso imperadore, e giunto al Foro di Livio, ossia a Forlì (l'autore della Miscella scrive al Foro di Cornelio, cioè ad Imola), quivi la prese per moglie, dopo di che divenne [407] amico di Onorio, e sostenne i di lui interessi. Ma di questo secondo spoglio di Roma non ne parlando alcuno degli scrittori contemporanei o vicini, difficilmente si può qui prestar fede a Giordano, che fu più di un secolo lontano da questi fatti. Vacilla eziandio la sua autorità nell'asserire seguito allora il matrimonio di Ataulfo con Placidia, essendovi altri scrittori che lo asseriscono celebrato ben più tardi. Ben credibile è il resto del racconto di Giordano. Certamente passò Ataulfo per l'Italia andando verso la Gallia; e perchè conduceva un esercito di gente brutale, sfrenata e masnadiera, non è da maravigliare se dovunque passarono lasciarono funesta memoria della loro rapacità e violenza. Sembra nondimeno ch'egli non valicasse l'Alpi se non nell'anno seguente. Per conto poi del suo buon animo verso d'Onorio, non se ne ha a dubitare per quel che vedremo. Era Ataulfo di cuore più generoso e meglio composto che il fiero Alarico. Cominciò di buon'ora ad aspirar alle nozze con Galla Placidia; e questa saggia principessa gli dovette ben far conoscere che senza l'approvazione dell'imperador suo fratello ella non consentirebbe giammai a prenderlo per marito, ed essere perciò necessario che si studiasse di camminar con buona armonia verso di lui. Perciò la storia non racconta mali trattamenti fatti da Ataulfo al dominio dell'imperio romano, perchè egli non ne dovette fare. Aveva, come dicemmo, Costantino tiranno della Gallia ricercata ed ottenuta l'amicizia di Onorio Augusto, ed era anche stato riconosciuto Augusto da lui, perchè gli fece credere di voler passare in Italia per liberarlo dal furore dei Barbari. In quest'anno in fatti egli calò in Italia [Olympiod. apud Photium, pag. 182. Sozom., lib. 9, cap. 12.] con molte forze: per l'Alpi Cozzie verso Susa, e giunse fino a Verona; e già si preparava per passare il Po e venire a Ravenna per trattare con Onorio, quando un accidente gli fece mutar pensiero. Dappoichè [408] Giovio primo ministro d'Onorio si ritirò da lui per seguitare il partito di Attalo, succedette nel suo grado Eusebio mastro di camera dello stesso imperadore. Durò poco la sua fortuna perchè un dì Allovico generale delle truppe cesaree il fece sì fieramente bastonare, che il misero sotto a quei colpi lasciò la vita. Questa indegnità, cioè questo nuovo esempio, accrebbe il poco concetto, in cui era Onorio, al vedere ch'egli non ne fece risentimento alcuno. Tuttavia ne impresse ben viva in suo cuore la memoria. Fu dipoi scoperto, o almen fatto credere a lui in occasione della calata in Italia di Costantino tiranno, che questo generale se l'intendeva seco, meditando amendue di levare al vero imperadore quel poco che gli restava in Italia. Allora fu che Onorio si svegliò, nè passò molto, che cavalcando a spasso per la città, mentre Allovico, secondo il costume, gli andava innanzi, diede ordine che costui fosse ucciso, e l'ordine fu ben tosto eseguito. Scese allora da cavallo Onorio, e inginocchiatosi pubblicamente rendè grazie a Dio, perchè lo avesse liberato da un insidiator manifesto. Udita ch'ebbe Costantino la morte di costui, di galoppo se ne tornò indietro, e ripassate l'Alpi, si ridusse di nuovo ad Arles, verificando con questa fuga le reità addossate ad Allovico.
Anno di | Cristo CDXI. Indizione IX. |
Innocenzo papa 11. | |
Onorio imperadore 19 e 17. | |
Teodosio II imper. 10 e 4. |
Console
Teodosio Augusto per la quarta volta senza collega.
Per quest'anno ancora continuò Bonosiano ad esercitar la carica di prefetto di Roma, ciò apparendo dalle leggi del Codice Teodosiano. Credevasi Costantino tiranno di avere stabilito il suo dominio anche in Ispagna, allorchè inviò colà Costante suo figliuolo, dichiarato poscia da [409] lui Augusto. Ma avvenne che Geronzio, il più bravo de' generali ch'egli avesse, uomo per altro perfido e cattivo, rivoltò contra di lui l'armi nella medesima Spagna, e tirati nel suo sentimento quanti soldati romani si trovarono in quelle parti, creò col consenso loro imperadore un certo Massimo, che Olimpiodoro chiama suo figliuolo [Olympiodorus, apud Photium.], ma da Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 42.], autore più degno di fede, perchè spagnuolo ed allora vivente, non vien riconosciuto per tale. Frigerido storico presso Gregorio Turonese [Gregor. Turon., Hist., lib. 2, cap. 8.], il chiama uno de' clienti di Geronzio: il che s'accorda con Sozomeno [Sozom., lib. 9, cap. 13.] là dove scrive che costui era familiare di Geronzio, uomo per altro di bassa nascita e senza ambizione, che allora militava nelle guardie del corpo dell'imperadore. Pare eziandio che supponga dichiarato Augusto questo Massimo solamente, dappoichè Geronzio giunto nella Gallia ebbe atterrato Costante. Comunque sia, certo è che Geronzio, lasciato questo fantasma in Tarragona, giacchè quella provincia restava illesa dai Barbari, co' quali, secondo Olimpiodoro, egli avea fatto un trattato di pace; e raunate quante milizie romane potè, ed aggiunte ancora molte dei Barbari che erano nella Gallia, si mosse contra di Costante e di Costantino con isperanza di sottoporre le Gallie al suo imperadore. Giunto pertanto a Vienna del Delfinato, trovò ch'era ivi alla difesa Costante figliuolo del tiranno. Ebbe la maniera di aver la città, e di far tagliare la testa al difensore. Dopo di che si rivolse contra del di lui padre Costantino, il quale s'era rinserrato e fortificato in Arles. Sozomeno scrive che appena fu udita da esso Costantino la ribellion di Geronzio e di Massimo, che spedì di là del Reno Edobico suo capitano a chieder soccorso ai Franchi e agli Alemanni, e con questa speranza [410] s'accinse a sostener bravamente l'assedio posto da Geronzio a quella città.
Erano in tale stato gli affari della Gallia, quando Iddio, che mortifica e vivifica, accordò alla pietà d'Onorio Augusto ciò che mancava a questo buon principe, con provvederlo di un braccio gagliardo ed atto a sostenere il vacillante imperio, voglio dire di un nuovo generale d'armata. Questi fu Costanzo, personaggio non barbaro, ma suddito de' Romani, nato nell'Illirico, come asserisce Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Phothium, pag. 183 et 193.], in Panese o sia Naisso, città della Dacia novella. Lo avea la natura formato degno di comandare ad altri, grande di corpo, con fronte larga, occhi grandi e vivaci, i quali chinandosi sul collo del cavallo, egli movea di qua e di là con velocità per osservare tutto quel che passava. All'aspetto era talmente serio, che sembrava melanconico e scuro; ma nella mensa e nei conviti si facea conoscere assai gaio ed ameno, e scherzava egregiamente fin coi buffoni. Valoroso di sua persona e con senno capace di trattar grandi affari e di comandare un'armata; fra gli altri suoi costumi, niente era avido dell'oro; virtù nulladimeno, di cui parve che si dimenticasse, dappoichè arrivò al non più oltre della fortuna. Aveva egli da giovinetto servito negli eserciti romani a' tempi di Teodosio il Grande, e per varii gradi era giunto ad avere il titolo di conte, allorchè Onorio l'elesse per generale dell'armata che dovea passare in Francia contro al tiranno Costantino. Per compagno e luogotenente gli fu dato Ulfila, il cui nome ci fa abbastanza intendere, ch'egli era o Goto o pure Unno di nazione. E siccome osservò Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 42.], la condotta di questo uffiziale, cioè di Costanzo, fece conoscere quanto più utile era all'imperio l'aver de' generali romani che dei barbari, come s'era lungamente praticato in [411] addietro. Passò nella Gallia, e alla comparsa sua nelle vicinanze d'Arles, città allora assediata da Geronzio, tra l'essersi risvegliato nell'esercito romano di esso Geronzio l'amore e la venerazione verso il legittimo lor signore ed imperadore, e mercè del credito, e probabilmente dei segreti maneggi di Costanzo, i soldati di Geronzio, per altro mal soddisfatti del suo imperioso e severo procedere, per la maggior parte l'abbandonarono, e vennero sotto le bandiere del medesimo Costanzo conte. Non perdè tempo Geronzio a scappare, e con pochi si ritirò in Ispagna. Ma quivi i soldati spagnuoli, conceputo dello sprezzo per lui a cagion di questa fuga, determinarono di ammazzarlo. In fatti l'assediarono una notte in casa sua, ma bravamente si difese coll'aiuto de' suoi servi sino alla mattina, in cui fuggendo avrebbe forse anch'egli potuto salvare la vita, ma per amore di Nonnechia sua moglie nol fece. Toltagli poi ogni speranza di salute, perchè i soldati aveano attaccato il fuoco alla casa, ucciso prima un Alano suo servo fedele, e la moglie, che istantemente il pregarono di non lasciarli in vita, poscia con un pugnale ch'egli si spinse nel cuore, finì anch'egli di vivere: se pure, come Onorio racconta, non furono i soldati che risparmiarono a lui la fatica di uccidersi. Sozomeno [Sozom., lib. 9, cap. 13.], che racconta questo fatto, loda la moglie di costui, come donna d'animo virile, perchè cristiana, aggiugnendo ch'ella ebbe un fine degno della sua religione, con aver per quel suo coraggio lasciata una sempiterna memoria di sè stessa ai posteri; senza badare che presso i gentili erano ben in pregio simili bravure, ma secondo la religion di Cristo un tal furore non si può scusar da peccato. La caduta di Geronzio si tirò dietro quella del suo imperadore Massimo, che, abbandonato da' soldati della Gallia, fu spogliato della porpora e degradato, con essergli nondimeno donata la vita, perchè essendo uomo umile e modesto, [412] parve che non si avesse più da temere di lui. Olimpiodoro all'incontro narra che costui dopo la morte di Geronzio se ne fuggì presso i barbari suoi collegati. Questo avenne solamente l'anno seguente, secondochè narra s. Prospero nella sua Cronica. Truovasi poi, per attestato di Prospero Tirone (o sia d'altro autore), che circa l'anno 419 Massimo colla forza si fece signore delle Spagne, e che nel 422 preso, fu trionfalmente condotto a Ravenna e mostrato al popolo nei tricennali d'Onorio Augusto. Marcellino conte, e Giordano storici scrivono lo stesso. Perciò Adriano Valesio e il Pagi sono stati d'avviso che il medesimo Massimo rinnovasse la ribellione in Ispagna, e che in fine si rifugiasse tra i Barbari: opinione che si rende quasi certissima dalle parole d'Orosio, là dove scrive, prima di dar fine alla sua Cronica, parlando del deposto Massimo: Costui di presente bandito vive mendico fra i Barbari in Ispagna. Qualche partito di malcontenti dovette di nuovo mettere in teatro questo imperadore da scena, ma ebbe corta durata. Nel Codice Teodosiano [Cod. Theod., lib. 15, tit. 14.] esistono varii editti di Onorio contra di costui.
Ma non può già sussistere il dirsi da Prospero suddetto che questo prese la signoria delle Spagne. Di qualche provincia sì, ma non già di tutte quelle provincie. Già vedemmo che v'erano entrati i Vandali, Alani e Svevi, e questi in buona parte della Spagna seguitavano a signoreggiare, cioè ad esercitare quanti atti poteano di crudeltà. Idacio, vescovo in Ispagna circa questi medesimi tempi, ci lasciò autentica memoria delle barbariche loro azioni; perciocchè fecero strage de' popoli, e saccheggiarono quante città e castella non ebbero forze da resistere alle lor armi. A questi mali tenne dietro una spaventosa carestia, per cui si trovarono madri sì disumanate che uccisero la lor prole per cibarsene. Succedette anche la peste che desolò le intere [413] popolazioni. Anche Olimpiodoro, presso Fozio, fa menzione dell'orrenda fame che afflisse la Spagna. E non erano già minori in quel tempo i peccati degli Spagnuoli di quei dei Galli e degl'Italiani, per cavare dalla mano di Dio i flagelli. Basta leggere Salviano nei suoi libri del governo di Dio. Contuttociò non fu pigra la misericordia dell'Altissimo a recar sollievo alle tribulazioni della provincia ispana, coll'ispirare in quest'anno pensieri di pace a que' Barbari. Conoscendo essi in fine ch'era meglio il darsi alla coltura delle campagne che vivere di rapina, si accordarono con que' pochi abitanti del paese, a' quali era riuscito di salvarsi dalle loro spade e dal furor della fame [Isidorus, in Chron. Goth.]. I Vandali, re de' quali era Gonderico, e gli Svevi con Ermerico re loro, occuparono la Galizia, in cui si comprendeva allora la Castiglia vecchia; gli Alani presero la Lusitania, oggidì il Portogallo, e la provincia di Cartagena, ed altri Vandali, chiamati Silengi, la Betica, dove è Siviglia: essendosi poi creduto che l'Andaluzia d'oggidì prendesse il nome da costoro, e sia corrotto quel nome da Vandalicia. Sicchè la Spagna tarragonese è da credere che tuttavia stesse salda nella divozione e fedeltà verso il romano imperio. In questi tempi ancora non andarono esenti da gravi flagelli l'Egitto, la Palestina, la Soria e la Fenicia per le incursioni de' Saraceni, o sia degli Arabi, attestandolo san Girolamo [Hieronymus, in Epist. ad Marcellio.]. Dopo avere il generale d'Onorio, Costanzo conte, nelle Gallie sbrigato l'affare di Geronzio, si pose anch'egli all'assedio di Arles, entro la qual città era tuttavia inchiuso il tiranno Costantino. Costui per la speranza de' soccorsi che aspettava dai popoli oltrarenani, si sostenne per ben quattro mesi; quando eccoti in fatti avvicinarsi questo soccorso condotto da Edobico generale d'esso Costantino, e con tali forze, che fu in pensiero il generale d'Onorio di ritirarsi [414] in Italia. La necessità il costrinse a fermarsi, perchè Edobico era giunto non molto lungi, e potea troppo incomodarlo nella ritirata. Prese dunque risoluzione di venire ad una giornata campale, e passato il Rodano, accortamente si postò colla fanteria per ricevere in fronte i nemici, e comandò che Ulfila, altro generale, si mettesse colla cavalleria in un'imboscata, per assalirli alla coda. Così fu fatto, e lo stratagemma con tanta felicità riuscì, che l'esercito nemico atterrito si mise in fuga, con restarne assaissimi estinti sul campo, e molt'altri, impetrato quartiere, rimasero prigionieri. Edobico, generale di queste truppe, mercè delle buone gambe del suo cavallo si mise in salvo, e ricoverossi in casa di certo Ecdicio, obbligato a lui per molti benefizii, e però creduto suo ottimo amico. La ricompensa che n'ebbe, fu di perder ivi la testa, che fu da Ecdicio portata ai generali d'Onorio per la speranza di un gran premio. Questi il ringraziarono molto, ed avendo egli poi voluto fermarsi nel campo, gli fu detto all'orecchio che l'armata romana non sentiva piacere di conversare con persona solita a trattar sì bene gli ospiti suoi amici.
Dopo questa vittoria rinforzato maggiormente l'assedio, Costantino veggendosi perduto, deposte le insegne imperiali, si ritirò in chiesa, e si fece ordinar prete dal vescovo di quella città, avvisandosi con questo ripiego di salvare la vita. Gli assediati allora capitolarono la resa, ed ottennero il perdono. Costantino e Giuliano suo figlio tolti di chiesa furono inviati con buona scorta all'imperadore a Ravenna, ma non vi giunsero, perchè Onorio ricordevole che Costantino avea tempo fa tolta la vita agl'innocenti parenti d'esso Augusto [Friger., apud Gregor. Turonens., lib. 2, cap. 8. Hist. Franc.], mandò ordine, giunti che furono al Mincio, che venissero decapitati, senza farsi scrupolo che da' suoi generali fosse loro stata [415] promessa con giuramento la sicurezza della vita, allorchè si renderono gli Arelatensi. Le teste di costoro, se crediamo ad Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium, pag. 183 et 186.], furono portate a Cartagine, ed ivi esposte al pubblico sopra un palo, dove, dic'egli, erano ancor quelle di Massimo ed Eugenio tiranni, uccisi al tempo di Teodosio. Ma non sarebbe gran cosa che quel testo fosse scorretto, e che s'avesse a leggere Roma o altra città. Pareva che dopo la vittoria suddetta avesse da rimettersi la pace nelle Gallie; ed appunto lasciò scritto Sozomeno che tutte quelle provincie ritornarono all'ubbidienza d'Onorio Augusto, e furono da lì innanzi governate dagli uffiziali di lui. Ma, per quanto andremo vedendo, seguitarono a signoreggiar nelle Gallie molti Barbari ed alcuni tiranni. Sappiamo inoltre da Frigerido storico, citato da Gregorio Turonense, che durante lo stesso assedio d'Arles, venne nuova a Costanzo generale d'Onorio dalla Gallia occidentale, come Giovino, personaggio nobilissimo di que' paesi, aveva assunto il titolo di Augusto e gli ornamenti imperiali, e marciava con un poderoso esercito di Borgognoni, Alamanni, Franchi ed Alani, per soccorrere gli assediati; il che diede motivo a Costanzo di accordare un'onesta capitolazione ai cittadini d'Arles, acciocchè gli aprissero le porte. Non so poi dire se in questo, o pure nel seguente anno accadesse ciò che narra il suddetto Frigerido, cioè, che Decimo Rustico e molti nobili della provincia d'Auvergne, seguaci di esso Giovino tiranno, furono presi dai generali d'Onorio, e crudelmente fatti morire. Presso il Mezzabarba esistono medaglie battute col nome di questo nuovo tiranno [Mediob., Numismat. Imperat.]. Onorio imperadore intanto seguitava a stare in Ravenna, ed in quest'anno fece solennizzare in Roma l'anno ventesimo del suo imperio.
Anno di | Cristo CDXII. Indizione X. |
Innocenzo papa 12. | |
Onorio imperadore 20 e 18. | |
Teodosio II imperad. 11 e 5. |
Consoli
Onorio Augusto per la nona volta, e Teodosio Augusto per la quinta.
Palmato si truova in una legge del Codice Teodosiano prefetto di Roma per questi tempi. Cosa operasse Ataulfo re de' Goti e successor di Alarico nell'anno addietro, restando in Italia, niuno degli antichi storici l'ha registrato. Solamente Giordano, siccome dicemmo, scrive [Jordan., de Rebus Getic., cap. 31.] che saccheggiò l'Italia, e s'accordò con Onorio; ma per varii capi non sussiste il suo racconto. Si può non senza fondamento credere che il trattenessero dall'inferocire le insinuazioni di Galla Placidia sua prigioniera, alle cui nozze costui aspirava, e a qualche trattato di accomodamento con Onorio imperadore. Ma non essendo questo riuscito, Ataulfo, o per paura d'essere colto in mezzo, se Costanzo generale d'Onorio fosse tornato coll'esercito in Italia, o piuttosto perchè invitato da Giovino tiranno, oppure con disegno di seco unirsi, determinò di passar nelle Gallie. Attalo era con lui, cioè quel medesimo che sotto Alarico due volte comparve imperadore, ed altrettante fu deposto. Costui, siccome gran faccendiere, proposta l'unione con Giovino, gli dava ad intendere che coi suoi maneggi gli bastava l'animo di farlo padrone almeno della metà delle Gallie. In effetto colà s'inviò Ataulfo [Prosper, in Chron.], e passate senza opposizione alcuna le Alpi, andò a saccheggiar il resto di quello che gli altri Barbari per avventura aveano lasciato alle provincie galliche. Attalo si portò a trattar con Giovino, credendosi di far gran cose [Olymp., apud Photium, pag. 183.], ma scoprì che costui non avea gradito l'arrivo di Ataulfo [417] nelle Gallie, e d'esser egli poco accetto per aver consigliata ad Ataulfo quella risoluzione. Perciò nacquero tosto dissapori fra Giovino ed Ataulfo. Erasi partito da Onorio il barbaro Saro, uom valoroso, altre volte di sopra nominato, per isdegno, a cagione di non avere l'imperadore gastigato chi avea ucciso Belleride, familiare d'esso Saro. Costui con circa venti persone meditava di passare al servizio di Giovino. Lo seppe Ataulfo suo nimico, e con diecimila de' suoi Goti il raggiunse in cammino. Fatta Saro una gagliarda difesa, in fine fu preso vivo, e poco dopo tolta gli fu la vita. Crebbe maggiormente il mal animo di Ataulfo contra di Giovino, perchè, pretendendo il re barbaro di divenir suo collega nell'imperio, Giovino all'incontro in vece di lui dichiarò Augusto Sebastiano suo fratello. Adoperossi inoltre per guastare l'union di costoro Dardano prefetto del pretorio delle Gallie, e personaggio lodato assaissimo dai santi Agostino e Girolamo, ma dipinto da Apollinar Sidonio per uomo carico di vizii, che non s'era voluto sottomettere a Giovino. Pertanto di più non vi volle perchè Ataulfo, irritato da un tale sprezzo, mandasse ad offerir la pace ad Onorio, con promettergli le teste di que' tiranni, e la restituzione di Placidia, esigendo solamente in contraccambio non so quale quantità di vettovaglie. Tornati i suoi ambasciatori con gli articoli della concordia accettati e giurati da Onorio, Ataulfo s'accinse dal suo canto all'esecuzione delle promesse. Gli cadde fra poco nelle mani Sebastiano, e ne inviò la testa a Ravenna. Ritirossi Giovino a Valenza, città allora assai forte, nel Delfinato d'oggidì, la quale assediata da Ataulfo, restò in fine presa per forza. Fu consegnato Giovino a Dardano, acciocchè l'inviasse ad Onorio; ma Dardano per maggior sicurezza gli tolse la vita in Narbona. La testa ancora di costui fu mandata all'imperadore, e poi (se crediamo ad Olimpiodoro) spedita a Cartagine con quelli di Sebastiano. [418] Idacio [Idacius, in Chron.] pretende che costoro fossero presi dai generali d'Onorio, probabilmente perchè s'erano uniti anch'essi con Ataulfo alla distruzion dei tiranni. Ho io poi raccontata tutta in un fiato sotto il presente anno la tragedia di costoro; ma forse la lor caduta e morte si dee differire all'anno susseguente, in cui la riferiscono le Croniche attribuite a Prospero Tirone. Ma non si può già ricavar questo con sicurezza da quella d'Idacio, come pretende il Pagi.
Leggonsi nel Codice Teodosiano [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.] molte leggi date in quest'anno da Onorio imperadore, tutte in Ravenna, dove egli soggiornava. Era seguita nell'anno precedente in Africa la famosa conferenza tra i cattolici e donatisti colla decisione di Marcellino tribuno, assistente alla medesima di ordine di Onorio, in favore de' primi. Gli ostinati donatisti non si vollero per questo rendere, anzi maggiormente infuriarono, e seguitarono a commettere degli omicidii: il che obbligò l'imperadore a pubblicare in quest'anno delle leggi più che mai rigorose contra di loro. Ordinò che fossero tolte loro le chiese, e date ai cattolici; che i laici della lor setta fossero puniti con pene pecuniarie; che non potessero far adunanze. Con altre leggi poi concedette molte esenzioni ai beni degli ecclesiastici, e determinò che le accuse contra le persone de' medesimi fossero giudicate dai vescovi alla presenza di molti testimonii. E perchè dall'Africa venivano frequenti doglianze delle avanie e concussioni che vi commettevano gli uffiziali cesarei, deputati tanto a raccogliere i tributi quanto a far pagare i debiti degli anni addietro, e a cercare i desertori e vagabondi, Onorio con saggi editti si studiò di rimediare a sì fatti disordini. Premeva ancora a questo piissimo principe che si rimettesse in vigore la tanto afflitta città di Roma; e però diede varii privilegi ai corporati, cioè alla società di coloro che [419] conducevano colà grani ed altri viveri, acciocchè non penuriasse il popolo di vettovaglia. Roma in fatti dopo le calamità sofferte dai Goti non istette molto a ripopolarsi, di maniera che Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 40.] pochi anni dopo scrivendo la sua storia, attestò, per relazione degli stessi Romani, che non si conosceva più il danno inferito a quell'augusta città dai Barbari, a riserva di qualche luogo già devastato dalle fiamme. Ed Albino prefetto di Roma nell'anno 414 (secondochè narra Olimpiodoro) [Olympiod., apud Photium, pag. 188.] scrisse che non bastava al popolo d'essa città la porzione del grano pubblico assegnatogli dalla pia liberalità dell'imperadore: tanto era cresciuta la moltitudine degli abitanti.
Anno di | Cristo CDXIII. Indizione XI. |
Innocenzo papa 13. | |
Onorio imperad. 21 e 19. | |
Teodosio II imperad. 12 e 6. |
Consoli
Lucio ed Eracliano.
Eracliano, quel medesimo che di sua mano uccise già Stilicone, e per guiderdone ebbe da Onorio Augusto il governo dell'Africa col titolo di conte, fu creato dal medesimo imperadore console di quest'anno, in compagnia di Lucio, avendo voluto Onorio premiare il merito ch'egli s'era acquistato in isventare negli anni addietro i disegni del falso imperadore Attalo, con impedirgli l'entrata nell'Africa. Ma costui, persona di scellerati costumi, dei quali ci lasciò una orrida dipintura san Girolamo [Hieron., Epist. VIII ad Demetriad.], senza sapersi se in lui fosse maggiore la superbia o la crudeltà, l'avarizia o la gola, gonfiatosi maggiormente per quest'onore, e mosso non meno dagli esempi dei tiranni della Gallia, che dalla poca stima del regnante Onorio: anche egli si sottrasse [420] dalla di lui ubbidienza; e meditò non solo di farsi padrone dell'Africa [Orosius, lib. 7, cap. 42.], ma eziandio di levar la corona di testa al suo benefattore Augusto. Congiurossi pertanto con Sabino, suo domestico e consigliere, uomo accortissimo, capace di eseguir de' grandi attentati, e di seguito non minore in Africa, con dargli per moglie una sua figliuola, affine di più strettamente invischiarlo ne' suoi interessi. Trattenne costui per qualche tempo con vari pretesti la spedizion de' grani a Roma, pensando di valersi delle navi pel disegno da lui conceputo. In quest'anno poi unita una gran flotta con quanti armati potè, spiegò le vele verso Roma, non già coll'apparenza di andare a prendere il possesso del consolato, ma colla chiara disposizione di farsene padrone. Paolo Orosio scrive essere allora corsa fama ch'egli seco menasse tremila e dugento navi: numero che eccede la credenza nostra, perchè, siccome il medesimo autore osserva, neppure Serse, e nemmeno Alessandro od altro monarca giunse mai a formare una flotta sì strepitosa. All'incontro Marcellino conte [Marcell., in Chronico.] più discretamente narra che costui venne con settecento navi, e tremila soldati, numero nondimeno di gente che dee parere anch'esso troppo scarso per chi meditava sì grande impresa. Giunto Eracliano ai lidi dell'Italia, se gli fece incontro Marino conte, uffiziale di Onorio, con quante truppe potè, e gli mise tale spavento, che giudicò meglio di darsi alla fuga, e se ne tornò con una sola nave in Africa. Ma se vogliam credere allo storico Idacio [Idacius, in Chron., apud Sirmondum.], seguì tra Eracliano e Marino un fatto d'armi ad Otricoli, dove restarono morte cinquantamila persone sul campo: racconto spropositato; perchè se ciò sussistesse, converrebbe supporre venute alle mani almen centomila persone in tal occasione: il che non può mai accordarsi colle circostanze d'allora. [421] Nulladimeno può ben Idacio farci conghietturare che Eracliano conducesse in Italia più di tremila persone, e che solamente fuggisse perchè la peggio gli toccò in qualche conflitto. Giunto costui in Africa sconfitto e screditato, non tardarono a tenergli dietro ordini pressanti dell'imperadore di ucciderlo dovunque si trovasse. E colto in fatti nel tempio della Memoria, fu quivi trucidato. Onorio Augusto a' dì cinque di luglio del presente anno scrisse ai popoli dell'Africa, con dichiarare Eracliano nemico pubblico, condannando lui e i suoi complici a perdere la testa, col confisco di tutti i loro beni [L. 15, tit. 14, Cod. Theod.]. E con altra legge del dì tre d'agosto, indirizzata ad Adriano prefetto del pretorio, ordinò che si abolisse il nome ed ogni memoria di lui. Donò eziandio, secondochè s'ha da Olimpiodoro, tutti i di lui beni a Costanzo conte, suo generale, che se ne servì per le spese del suo consolato nell'anno seguente, ma senza essersi trovati que' monti d'oro che la fama decantava. Sabino, genero d'Eracliano, fuggito a Costantinopoli, fu preso e dato in mano agli ufficiali d'Onorio, e probabilmente si seppe così ben difendere, che n'ebbe solamente la pena dell'esilio.
Intanto nelle Gallie si sconciò presto la buona intelligenza che passò nell'anno addietro fra il suddetto Costanzo conte e Ataulfo re de' Goti. S'era obbligato questo re di restituire Placidia all'imperadore suo fratello; e Costanzo, che desiderava e sperava di ottenerla in moglie, ne andava facendo varie istanze [Olympiod., apud Photium, pag. 185.]. Ma Ataulfo, che aspirava anch'egli alle medesime nozze, non cessava di tergiversare, allegando che Onorio non gli avea consegnato il grano già accordato nella capitolazione; e che, ottenuto questo, la renderebbe. Restati dunque amareggiati gli amici, Ataulfo voltò le sue armi contro di Narbona, e se ne impadronì [422] nel tempo della vendemmia [Idacius, in Chron.]. Per attestato di san Girolamo [Hieron., Epist. XI ad Ageruch.], fu presa anche Tolosa, e il Tillemont sospetta che da Ataulfo. Ma molto prima pare scritta la lettera del santo vecchio, dove conta con tante altre sciagure della Gallia ancor questa. Certo è bensì (e ne fa testimonianza Olimpiodoro) che Ataulfo tentò di sorprendere con inganno la città di Marsiglia; ma non gli venne fatto per la vigilanza e bravura di Bonifazio conte, che coll'armi gli si oppose, con obbligarlo alla fuga, e regalarlo ancora di una ferita. Questo Bonifazio conte verisimilmente è quello stesso ch'ebbe dipoi il governo dell'Africa, e s'incontra nelle lettere di sant'Agostino. Sappiamo ancora da Prospero Tirane [Prosper Tiro, in Chron.] che l'Aquitania in questo anno venne in potere de' Goti; e da Paolino penitente [Paul. Poenit., in Eucharist.], che la città di Bordeaux ricevette come amico Ataulfo; ma non andò molto che provò miseramente la crudeltà di que' Barbari, con rimanerne tutta incendiata. Così in questi tempi ebbe principio nella Gallia meridionale il regno de' Goti, di modo che quelle provincie per alcuni secoli dipoi portarono il nome di Gotia. Similmente nella parte settentrionale della Gallia presso il Reno i Borgognoni sotto il re loro Guntario, o Gondecario, stabilirono il loro regno. Erano costoro popoli della Germania: divennero in breve cristiani, e si domesticarono sì fattamente, che i Romani di que' paesi volentieri se ne stavano sotto il loro governo. La Borgogna d'oggidì è una picciola parte di quel regno, perchè costoro a poco a poco stesero il loro dominio fino a Lione, al Delfinato, e ad altre città di que' contorni, come avvertì il Valesio [Hadrian. Valesius Notit. Galliar.]. Dappoichè Marino conte ebbe nel presente anno sì valorosamente ripulsato da' contorni di Roma il ribello Eracliano, in [423] ricompensa del merito ch'egli s'era acquistato, fu spedito dall'imperadore Onorio in Africa con ampia autorità di punire e confiscare. Costui barbaramente si prevalse del suo potere, colla morte non solo di molti delinquenti, ma anche di non pochi innocenti, perchè con troppa facilità porgea l'orecchio a chiunque portava accuse in segreto. Grande strepito soprattutto fece in quelle parti l'aver egli tolta la vita a Marcellino tribuno e notaio, cioè a quel medesimo che aveva assistito alla celebre conferenza tra i cattolici e donatisti, uomo di rara virtù e di santa vita. Creduto parziale dei cattolici, trovarono maniera gli eretici di farlo credere reo di non so qual delitto al suddetto Marino, il quale senz'altro gli fece mettere le mani addosso ed imprigionarlo. Udita questa nuova, santo Agostino [August., Epist. CLXI, olim CCLIX.] scrisse caldamente a Ceciliano governatore allora dell'Africa, con raccomandargli l'innocente Marcellino, e n'ebbe per risposta che si studierebbe di salvarlo. Ma nel dì 13 di settembre Marino gli fece tagliar la testa in Cartagine. Per aver egli incontrata la morte per odio ed istigazione degli eretici, il cardinal Baronio l'inserì qual martire nel Martirologio romano a dì 6 d'aprile. Per le premure d'esso Marcellino, sant'Agostino scrisse la bell'opera della Città di Dio, e la dedicò al medesimo. Tante doglianze per questa iniquità di Marino fecero dipoi i cattolici africani [Orosius, lib. 7, cap. 42.], che Onorio Augusto il richiamò in Italia, e di tutte le cariche lo spogliò. Poscia nell'anno seguente con suo editto [Cod. Theod., lib. 55, de Haeretic.] confermò tutti gli atti seguiti sotto la sua assistenza fra i cattolici e donatisti. Appartiene ancora a quest'anno una legge di Onorio, in cui per quattro anni esentò le provincie d'Italia da varie imposte, mosso, come si può credere, da' saccheggi che avea patito il paese pel passaggio dei Barbari.
Anno di | Cristo CDXIV. Indiz. XII. |
Innocenzo papa 14. | |
Onorio imperad. 22 e 20. | |
Teodosio II imper. 13 e 7. |
Consoli
Flavio Costanzo e Flavio Costante.
Se non v'ha errore nelle leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theodos.], la prefettura di Roma fu nell'anno presente esercitata da Eutichiano, poscia da Albino, poscia da Epifanio. Di Albino prefetto di Roma fa anche Olimpiodoro menzione. Costanzo conte, generale d'Onorio Augusto, entrò console quest'anno in Occidente; e Costante, generale di Teodosio Augusto in Oriente, fu l'altro. Secondo Olimpiodoro, sembra che Costanzo venuto a Ravenna, quivi nel primo dì dell'anno assumesse gli abiti consolari. Poscia, così richiedendo i bisogni dell'imperio, se ne tornò nella Gallia, dove fece nuove istanze ad Ataulfo re de' Goti, perchè restituisse Galla Placidia. Ma Ataulfo sfoderava ogni dì nuove scuse e pretesti per non renderla. Finalmente coll'interposizione di un buon sensale, appellato Candidiano, riuscì ad Ataulfo d'indurre quella principessa a riceverlo per consorte. A tal fine, per quanto scrive Filostorgio [Philost., lib. 7, cap. 4.], egli ripudiò la prima moglie, che era Sarmata di nazione. Racconta Giordano storico che seguirono le nozze in Forlì (quando non avesse cambiato Frejus di Provenza in Forlì d'Italia), oppure in Imola. Certamente è un errore, perchè Ataulfo non la sposò prima dell'anno presente, nè era per questi tempi in Italia. Quel che più importa, Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium, p. 184.] più autentico storico, perchè contemporaneo, attesta celebrate quelle nozze nella Gallia nella città di Narbona, correndo il gennaio del presente anno. Altrettanto abbiamo da Idacio [Idacius, in Chronic. apud Sirmond.]. Seguì [425] dunque con tutta magnificenza quel nobile sposalizio in casa di un certo Ingenio, primario cittadino di Narbona, e fu dato il primo luogo a Placidia che vi comparve in abito da reina. Ataulfo vestito anch'egli alla romana fece suntuosi doni alla principessa, e fra gli altri fu singolar quello di cinquanta paggi, ciascun dei quali portava nell'una mano un bacile pieno d'oro, e nell'altra un altro simile ripieno di pietre preziose d'inestimabile valore. Al ladro è facile pulire la sposa. Furono quei regali ricchezze tutte asportate dai Goti dal sacco di Roma. Cantossi in tal funzione secondo l'usanza l'epitalamio, ed il primo ad intonarlo fu Attalo, che d'imperadore de' Romani era divenuto cortigiano dei re goti. Terminò poi la solennità con giuochi, grande allegrezza e tripudio di quanti Romani e Barbari si trovarono allora in Narbona. Leggesi presso Jacopo Spon [Spon, Miscell. erudit. Antiq., p. 157.] una iscrizione di sant'Egidio nella Linguadoca, posta ad Ataulfo Flavio potentissimo re, ec., e alla Cesarea Placidia anima sua, ec. Ma è da stupire che un uomo dotto come Spon, ed anche il celebre Du-Cange, ricevessero per monumento legittimo dell'antichità una iscrizione sì affettata e ridicola, e che combatte ancora contro la storia d'allora. Non c'è apparenza alcuna che Onorio imperadore acconsentisse a tali nozze; perciocchè in questo medesimo anno, secondo la Cronica di s. Prospero, per consiglio dei Goti e colle loro spalle Attalo ripigliò nella Gallia la porpora, e la fece da imperadore al dispetto d'esso Onorio; ma con una assai trista figura, perchè non avea nè potere, nè danari, nè soldati, e con sì bell'aspetto di signoria non era che un servo dei Goti. Paolino penitente, di cui resta un poema eucaristico, ricco cittadino di Bordeaux, e nipote del famoso Ausonio, scrive che da questo immaginario imperadore ottenne la carica di conte della tesoreria segreta; tesoreria per confessione di lui fallita, [426] e di nome solo. A quest'anno nel Codice di Giustiniano è riferita una legge di Onorio imperadore [L. 2, de his qui ad Eccl. confugiunt. Cod. Justinian.], in cui stabilisce l'immunità delle chiese, ordinando che non si possa levare dai sacri templi chi colà si rifugia, ed intimando la pena di lesa maestà a chi contravvenisse. Forse quella legge appartiene all'anno 409, in cui Giovio fu prefetto del pretorio in Italia. Altri editti del medesimo Augusto spettanti all'anno presente esistono nel Codice Teodosiano [Gothofr., Chronol. Cod. Theodos.], specialmente per sollevare da tanti aggravii e dalle iniquità de' pubblici uffiziali i popoli dell'Africa. Perchè non era facile a quella gente il portar le loro doglianze alla corte, a cagione del mare, perciò i ministri della giustizia e del fisco a man salva vi faceano non poche estorsioni ed avanie: al che il buon Augusto andò provvedendo il meglio che potè. In Costantinopoli mancò di vita Antioco persiano, che fin allora con grande lode era stato curatore del giovine Teodosio Augusto a nome d'Isdegarde re della Persia. Allora Teodosio dichiarò Augusta Pulcheria sua sorella, giovane piissima, e dotata d'insigni virtù, che saggiamente aiutò da lì innanzi il fratello nel governo dell'imperio, e dedicò a Dio la sua virginità. Delle sue mirabili qualità e virtù è da leggere Sozomeno [Sozom., lib. 9, cap. 1.].
Nella Gallia mal sofferì Costanzo conte, generale d'Onorio, il maritaggio di Galla Placidia con Ataulfo, perchè a quelle nozze anch'egli da gran tempo aspirava. Ma non potendo di più, attese a liberare dal barbaro re e da' suoi Goti quanto paese egli potè. Impedì che non potessero aver navi nè commercio coi paesi forestieri, ed intanto con segreti trattati procurò di spignere Ataulfo in Ispagna, facendogli sperare colà a nome dell'imperadore la cession di qualche provincia per sua residenza. Nè mancava [427] già Galla Placidia di consigliar al marito la pace con suo fratello, di manierachè Ataulfo prese la risoluzione di passar in Ispagna, con pensiero di quivi combattere contro i Vandali, Alani e Svevi in favore d'Onorio Augusto. Scrive Paolo Orosio [Orosius, l. 7, c. 43.], autore che in questi tempi compilava la sua istoria ad istanza di sant'Agostino, che Costanzo dimorando in Arles, scacciò Ataulfo da Narbona, e il costrinse a ritirarsi in Ispagna: parole che sembrano indicare usata la forza dell'armi per isloggiarlo di là. Ma probabilmente il solo avergli difficultati i viveri e le speranze a lui date, furono le cagioni principali di mutar quartiere. Narra inoltre lo stesso Orosio di avere inteso da san Girolamo, che un cittadino di Narbona, persona riguardevole ed amicissimo dello stesso Ataulfo, raccontava che questo re sulle prime altro non meditava che di annientare l'imperio romano e di stabilire il gotico; ma che dipoi avendo conosciuto che la sfrenata barbarie della sua nazione non voleva nè briglia nè leggi, siccome personaggio d'animo e d'ingegno grande, determinò di acquistar più gloria con adoperar le forze della sua gente per rimettere in auge ed accrescere lo stesso romano imperio, e con divenire ristorator del medesimo, giacchè non avea potuto esserne distruttore. Per questo non volle più guerra co' Romani, e trattò coll'imperadore Onorio di pace; al che contribuivano non poco le esortazioni di Placidia, principessa provveduta d'ingegno, e creduta di pietà non volgare. Il perchè abbiamo abbastanza per intendere che Ataulfo spontaneamente, piuttostochè per forza d'armi, elesse di trasferirsi in Ispagna. Che poi Costanzo conte in altre maniere attendesse al bene dell'imperio, si può raccogliere da un'iscrizione d'Albenga da me data alla luce [Thesaur. Novus Inscript., pag. 697, n. 3.]. Si ricava da essa che Costanzo ristorò e fortificò di mura una città (verisimilmente Albenga [428] stessa) con porte, piazza e porto. Nè può questo applicarsi a Costanzo Augusto figliuolo di Costantino il Grande; ma sì bene a Costanzo conte di cui abbiam finora favellato, avendo egli ritolta parte della Gallia a vari tiranni.
Anno di | Cristo CDXV. Indizione XIII. |
Innocenzo papa 15. | |
Onorio imperad. 23 e 21. | |
Teodosio II imp. 14 e 8. |
Consoli
Onorio Augusto per la decima volta e Teodosio Augusto per la sesta.
Abbiamo dalle leggi del Codice Teodosiano prefetto in Roma in quest'anno Gracco. Passato che fu Ataulfo re de' Goti in Ispagna, s'impadronì di Barcellona, ed ivi poi stabilì la sua residenza [Olimpiod., apud Photium, pag. 187.]. Gli partorì in quella città Galla Placidia un figliuolo, a cui fu posto il nome di Teodosio: del che sommamente si rallegrò esso Ataulfo, e prese più amore alla repubblica romana. Ma all'allegrezza succedette da lì a non molto la tristezza, essendo mancato di vita questo loro germoglio, che con gran duolo de' genitori fu seppellito entro una cassa d'argento in una delle chiese di Barcellona. Ma peggio avvenne poco appresso, perchè lo stesso Ataulfo fu anch'egli tolto dal mondo, mentre nella scuderia visitava, secondo il costume, i suoi cavalli da un suo domestico, appellato Dubbio. Costui, perchè il suo vecchio padrone, re di una parte de' Goti, era stato ammazzato da Ataulfo, non gliela perdonò mai più, finchè ne fece nella forma suddetta la vendetta. Giordano [Jordan., de Rebus Getic., c. 31.] chiama il di lui uccisore Vernulfo, aggiugnendo, che costui irritato, perchè il re metteva in burla la sua corta statura, gli cacciò la spada nella pancia. E se a tale storico prestiam fede, già Ataulfo s'era inoltrato nella Spagna, ed avea cominciato a combattere [429] coi Vandali ed Alani in favore dell'imperio romano. Filostorgio [Philost., lib. 12. c. 4.] attribuisce la di lui morte a varie crudeltà da lui commesse in collera. Prima di morire, Ataulfo raccomandò a suo fratello, di cui non sappiamo il nome, che restituisse all'imperadore Onorio la sorella Placidia, e procurasse, in qualunque modo che potesse, di stabilir pace e lega coll'imperio romano. Si figurava egli che questo suo fratello gli avesse a succedere nel regno; ma s'ingannò. Singerico, fratello di quel Saro che disopra vedemmo trucidato per ordine dello stesso Ataulfo, non in vigore della legge o della parentela, ma colla violenza fu creato re [Olymp., apud Photium, pag. 187.]. Nè tardò costui a far la vendetta del fratello, perchè strappati dalle braccia di Sigesaro vescovo (non so se dei Goti stessi, oppure di Barcellona) i figliuoli di Ataulfo, a lui nati dal primo matrimonio, crudelmente li fece ammazzare. Oltre a ciò, in onta del re defunto fece camminar la stessa regina Placidia a piedi davanti al suo cavallo, mischiata con altri prigionieri per lo spazio di dodici miglia. Ma questo Barbaro in capo a sette dì fu anche egli scannato, ed ebbe per successore Vallia. Ambrosio Morales [Morales, Hist. Hisp. lib. 2.], e dopo lui il Baronio [Baron., Annal. Eccl.] rappresentano un epitafio posto al re Ataulfo in Barcellona, dove si dice seppellito con sei figliuoli, uccisi dalla sua gente. Eccolo di nuovo.
Bellipotens valida natvs de gente gothorvm.
Hic cvm sex natis rex ataulphe jaces.
Avsvs es hispanas primus descendere in oras
Qvem comitabantvr millia mvlta virum.
Gens tva tvnc natos, et invidiosa peremit.
Qvem post amplexa est barcino magna gemens.
Se antica, o de' secoli susseguenti, sia quest'iscrizione, alcuno ha dubitato, e ne dubito più d'essi anch'io, parendo che non convenga assai colla storia quel terzo esametro verso:
Avsvs es hispanas primus descendere in oras
[430] Ma certo egli fu il primo de' re Goti che fissassero la sua residenza in Ispagna. Potrebbe ben servire ad assicurarci che fosse composto allora esso epitafio l'autorità di Flavio Destro, storico di que' tempi, perch'egli scrive che era fattura sua. Ma oggidì è conchiuso fra i letterati, tinti alquanto di critica, e liberi dalle passioni spagnuole, che la storia pubblicata sotto nome di Flavio Destro, e commentata dal Bivario, è una solenne impostura di questi ultimi tempi, e ne sappiamo anche l'autore, o gli autori, che con altre simili merci hanno sporcata la storia e il martirologio della Spagna e del Portogallo. Secondo la Cronica Alessandrina, giunse a Costantinopoli la nuova della morte d'Ataulfo nel dì 24 di settembre dell'anno presente, e se ne fece festa.
In quest'anno Onorio Augusto pubblicò una legge [L. 20, tit. 10, lib. 16. Cod. Theod.] severissima contra dei pagani, con istenderla non solamente per tutta l'Africa, ma per tutto ancora il romano imperio. In essa comandò egli che dovessero uscir di Cartagine e da tutte le città metropolitane i sacerdoti del paganesimo. Unì al fisco tutti i loro luoghi sacri e le entrate che da loro dianzi s'impiegavano in sagrifizii e conviti, a riserva di quanto era già stato donato alle chiese de' Cristiani. Si era in altre leggi mostrato questo imperadore assai favorevole ai Giudei. Anche nel presente anno loro concedette il poter tenere schiavi cristiani [Lib. 16, tit. 9, l. 3. Cod. Theodos.], purchè loro lasciassero la libertà della religione, nè li seducessero. Editto disdicevole ad un imperador cristiano, e concessione riprovata molto prima da Costantino il Grande. E perciocchè essi Giudei gli rappresentarono che parecchi della loro setta abbracciavano la fede cristiana, non con animo vero, ma solamente per ischivar le pene de' lor delitti e i tributi imposti ai Giudei, Onorio permise a costoro di ripigliare la lor setta, credendo egli che non tornasse il [431] conto neppure alla religion cristiana l'aver in seno questi finti cristiani. Sono ben diverse in questo proposito le leggi de' nostri tempi. All'incontro Teodosio Augusto con altri editti represse l'insolenza d'essi Giudei. E sappiamo dalla Cronica Alessandrina che nel presente anno terminò i suoi giorni Termanzia figliuola di Stilicone, e moglie d'Onorio imperadore, ma ripudiata da lui. Succedettero ancora in quest'anno dei fieri tumulti nella città d'Alessandria, per i quali di colà furono scacciati i Giudei. Socrate storico [Socrates, lib. 7, c. 15 Hist. Eccl.] incolpa forte di tali scandali Cirillo vescovo di quella città, e i monaci di Nitria; ma sopra ciò è da vedere il cardinale Baronio.
Anno di | Cristo CDXVI. Indizione XIV. |
Innocenzo papa 16. | |
Onorio imperad. 24 e 22. | |
Teodosio II imperad. 15 e 9. |
Consoli
Teodosio Augusto per la settima volta, e Giunio Quarto Palladio.
Probiano prefetto di Roma nel presente anno si mira nelle leggi del Codice Teodosiano. Aveano i Goti nella Spagna eletto Vallia per loro re, con intenzione ch'egli facesse la guerra contro ai Romani. Ed egli in fatti s'accinse all'impresa, e meditando di far delle conquiste ne' paesi dell'Africa [Orosius, lib. 7, cap. 43.], fece imbarcare un numeroso corpo de' suoi Goti, bene armati, per farli passare colà. Ma Iddio permise che costoro assaliti da fiera burrasca con tutte le navi perissero dodici miglia lungi dallo stretto di Gibilterra. Questo sinistro avvenimento, e il ricordarsi Vallia come miseramente fosse terminata un'altra simile spedizione, allorchè Alarico volea passare in Sicilia, gli mise il cervello a partito, e determinò di cercar piuttosto la pace dall'imperadore Onorio, con promettergli la restituzione di Galla Placidia, ed obbligar la nazione de' Goti [432] a far guerra in favore dell'imperio romano agli altri Barbari che aveano fissato il piede in Ispagna, cioè ai Vandali, Alani e Svevi. Cosa curiosa, e, per quanto osservò Paolo Orosio, quasi incredibile avvenne, cioè che anche gli altri re barbari, che non erano d'accordo coi Goti, esibirono lo stesso ad Onorio, con fargli sapere: Strignete pure, o Augusto, la pace con tutti, e da tutti ricevete gli ostaggi; che noi, senza che vi moviate, combatteremo insieme. Nostre saranno le morti, per voi sarà la vittoria; e un immortal guadagno verrà alla romana repubblica, se noi pugnando l'un contra l'altro tutti periremo. Onorio accettò l'esibizione di Vallia, e, secondochè scrive Filostorgio [Philost., lib. 12, cap. 4.], concedette ai Goti una parte della Gallia, cioè la seconda Aquitania, o sia la Guascogna, con terreni da coltivare. Ma questa concessione più fondatamente si dee riferire all'anno 418. Giordano storico [Jordan., cap. 32, de Reb. Getic.] non so qual fede meriti qui, perchè confonde molti punti di storia; tuttavia ascoltiamolo, allorchè narra che Costante conte, generale dell'imperadore, con un fiorito esercito si mosse contra di esso re Vallia, con disegno di ricuperar Placidia o colle buone o colle brusche; ma che essendogli venuto incontro il re Goto con un'armata non inferiore, seguirono varie ambascerie, per le quali finalmente si conchiuse la pace. Onorio mandò a Vallia una gran quantità di frumento già promesso, e non mai dato ad Ataulfo, cioè, per attestato di Olimpiodoro [Olimpiodorus, apud Photium, pag. 190.], seicentomila misure. Ed allora il Goto rimise Galla Placidia con tutta onorevolezza in mano di Eupiuzio Magistriano, uffiziale cesareo, spedito a lui per la pace, il quale la ricondusse o la rimandò al fratello Augusto. Poscia esso ne attese a mantener la parola data ad Onorio, con far la guerra valorosamente agli altri Barbari usurpatori della Spagna. Bisogna che fra i patti [433] della pace tra l'imperadore e i Goti, uno ancora se ne contasse, cioè che i Goti abbandonassero Attalo imperador da commedia di que' tempi, oppure che il consegnassero nelle mani d'esso Onorio. Da Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 42.] sappiamo che costui passò coi Goti in Ispagna, e di là si partì, probabilmente perchè scorgendo i maneggi di pace coll'imperadore, sospettò di restar vittima dell'accordo. Si pose dunque in nave, ma nel mare fu preso, e condotto a Costanzo generale cesareo, al quale era stato conferito il titolo di patrizio; e questi ordinò che fosse condotto a Ravenna. Gli fece Onorio solamente tagliar la mano destra, oppure, come vuol Filostorgio [Philost., lib. 12, cap. 5.], non altro che il pollice e l'indice della destra, acciocchè non potesse più scrivere. Anzi questo autore attesta essere stato costui consegnato dai Goti stessi all'imperadore; ed è verisimile, con patto segreto di salvargli la vita. Secondo lui, solamente nell'anno seguente gli furono tagliate le dita. Prospero [Prosper, in Chron.] riferisce all'anno precedente la presa d'Attalo; ma nella Cronica Alessandrina abbiamo che nel dì 28 di giugno e nel dì 6 di luglio del presente anno furono fatte feste e giuochi pubblici in Costantinopoli per la presa d'Attalo. Potrebbe essere che l'arrivo di costui a Ravenna accadesse nel fine di questo o nel principio del susseguente anno. Erano poi succeduti, duranti le guerre e i passaggi de' Barbari, nel romano imperio dei disordini incredibili contra le leggi; ed è probabile che i giudici ed uffiziali imperiali ne profittassero con formare de' fieri processi contro chiunque vi avea contravvenuto. Ma l'imperadore Onorio con una legge [L. 14, tit. 14, lib. 15. Cod. Theodos.], indirizzata a Costanzo conte e patrizio, abolì tutti i reati di chiunque avesse in quei tempi sì sconcertati rapito ed occupato l'altrui, riserbando solamente ai padroni [434] di ricuperare il suo, se tale poteano provarlo. Bolliva intanto l'eresia di Pelagio e Celestio, specialmente in Africa, dove s'erano raunati i vescovi ne' concilii di Cartagine e di Milevi, oggidì Mela, in occasion di costoro che si studiavano di seminar dappertutto il loro veleno. Innocenzo papa, scrivendo in quest'anno ai padri d'essi concilii, condannò le opinioni di costoro, e ne scomunicò gli autori: il che gli accrebbe gloria in tutta la Chiesa di Dio.
Anno di | Cristo CDXVII. Indizione XV. |
Zosimo papa 1. | |
Onorio imperad. 25 e 23. | |
Teodosio II imperad. 16 e 10. |
Consoli
Onorio Augusto per l'undecima volta, e Flavio Costanzo per la seconda.
Aveva l'imperadore Onorio già conferito a Costanzo conte suo generale lo splendido titolo di Patrizio, e volendo maggiormente premiare in quest'anno il suo fedele servigio, oltre all'averlo creato console per la seconda volta, e presolo per collega nel consolato suo undecimo, gli avea destinata per moglie Galla Placidia sua sorella. A tali nozze non inchinava punto Placidia, per quanto scrive Olimpiodoro [Olympiod., apud Photium, pag. 191.], autore di questi tempi, e non si sa se per superbia, o per qual altro motivo. Onorio, o dubitando o sapendo che dai consigli dei familiari e servitori di questa principessa procedeva la di lei avversione e renitenza a questo matrimonio, se la prese contra loro. Ma finalmente la volle vincer egli, e nel dì primo di gennaio, in cui amendue faceano la solennità dell'ingresso nel consolato, presala per mano, la forzò a darla a Costanzo; ed ella, benchè di mala voglia, il prese per marito. Si celebrarono tali nozze con gran pompa e splendidezza. Partorì poi Placidia a Costanzo, probabilmente prima che terminasse l'anno, una figliuola ch'ebbe il [435] nome di Giusta Grata Onoria. D'essa è fatta menzione in un'iscrizione rapportata già dal Grutero [Gruter., Inscription., pag. 1048, n. 1.], e poscia da me più corretta nel mio Tesoro nuovo. Volle eziandio in quest'anno l'Augusto Onorio consolare colla sua presenza i Romani. La Cronica di Prospero [Prosper, in Chron. apud Labbeum.] rende testimonianza ch'egli trionfalmente entrò in quella città, e che davanti al suo cocchio fece marciare a piedi Attalo, già immaginario imperadore. Filostorgio aggiugne che esso Augusto giunto colà, al mirare la città tornata così popolata, se ne rallegrò assaissimo, e colla mano e colla voce fece animo e plauso a chi riedificava le case e i palagi rovinati dai Barbari. Poscia essendo salito sul tribunale, volle che Attalo salisse anch'egli fino al secondo gradino, acciocchè tutto il popolo s'accertasse co' suoi occhi della di lui depressione. Dopo di che fattegli tagliar le due dita, con cui si scrive, il mandò in esilio nell'isola di Lipara, vicina alla Sicilia, con ordine di somministrargli tutto il bisognevole pel suo sostentamento. Se ciò fosse un atto di sua clemenza, o pure un concerto fatto coi Goti, allorchè gliel diedero in mano, è tuttavia oscuro. Poco si dovette fermare in Roma Onorio; perciocchè nel gennaio, maggio e dicembre, stando in Ravenna, dove certo egli si restituì dopo la visita fatta ai Romani, abbiamo leggi da lui pubblicate e inserite nel Codice Teodosiano [Gothofred., Chronol. Cod. Theod.]. Fra esse una provvede all'annona di Roma. Un'altra vieta sotto pena di morte il comperare per ischiavo un uomo libero, e il turbare nel possesso della libertà i manomessi. In un'altra vuole che le terre incolte sieno esenti dagli aggravii. A dì 12 del mese di marzo, siccome pruova il Pagi, mancò di vita Innocenzo I papa, pontefice di gloriosa memoria per le sue virtù e pel suo zelo nella custodia della religione cattolica e della disciplina ecclesiastica. Ebbe per [436] successore Zosimo, pontefice non assai avveduto, come il suo predecessore, perchè si lasciò sulle prime sorprendere dalle finte suppliche di Pelagio e Celestio eretici, ch'egli buonamente credette innocenti. Ma nel seguente anno, conosciute meglio queste volpi, proferì la sentenza condannatoria de' loro errori. Seguitava intanto nelle Spagne Vallia re de' Goti, dappoichè ebbe conclusa la pace con Onorio, a guerreggiare contra degli altri Barbari, occupatori di quelle provincie. Idacio [Idacius, in Chron. apud Sirmondum.] scrive, e dopo lui santo Isidoro [Isid., in Hist. Goth. apud Labbeum.], ch'egli fece di coloro grande strage. Tutti i Vandali, chiamati Silingi, che si aveano fabbricato un buon nido nella provincia della Betica, dove è Siviglia, dal filo delle sciable gotiche rimasero estinti. Gli Alani, dianzi sì potenti, furono anch'eglino disfatti dai Goti, ed ucciso il re loro Atace Quei che restarono in vita, si sottoposero a Gunderico re de' Vandali, che regnava nella Galizia, con rimanere abolito il nome del regno loro. È testimonio ancora di queste vittorie Paolo Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 43.], il quale nell'anno presente diede fine alla sua storia, scritta da lui in Ispagna, e dedicata a sant'Agostino. Ma forse buona parte di queste prodezze fatte dai Goti si dee riferire al susseguente anno.
Anno di | Cristo CDXVIII. Indizione I. |
Bonifacio I papa 1. | |
Onorio imperad. 26 e 24. | |
Teodosio II imperad. 17 e 11. |
Consoli
Onorio Augusto per la dodicesima volta, e Teodosio Augusto per l'ottava.
Ricuperate ch'ebbe Vallia molte Provincie della Spagna dalle mani dei Barbari, sembra assai verisimile che le cedesse agli uffiziali dell'imperadore Onorio; perciocchè, secondochè scrive [437] Idacio [Idacius, in Chronic. Prosper, in Chronic.], fu esso Vallia richiamato da Costanzo patrizio nelle Gallie, e d'ordine dell'imperadore quivi assegnata a lui e alla sua nazione, per abitarvi, la seconda Aquitania, dove è Bordeaux, con alcuni paesi circonvicini, cioè da Tolosa fino all'Oceano. Allora la Linguadoca cominciò ad essere appellata Gotia. Giordano storico [Jordan., cap. 33 de Rebus Getic.] chiaramente scrive che Vallia consegnò ai ministri dell'imperadore le provincie conquistate, e venne ad abitare a Tolosa. Ma poco egli godè di questi suoi vantaggi, perchè venne rapito dalla morte nel presente anno, con essere a lui succeduto nel regno gotico Teodorico, o sia Teoderico. Nella Cronica di Prospero questi avvenimenti son riferiti al susseguente anno. Nel presente Zosimo papa fulminò, siccome accennai, la sentenza contro gli errori di Pelagio e di Celestio, e dipoi fece istanza ad Onorio Augusto, dimorante in Ravenna, acciocchè per ordine suo costoro coi lor seguaci fossero cacciati da Roma e dall'altre città, e riconosciuti per eretici. Dobbiamo alla diligenza del cardinal Baronio l'editto allora pubblicato dall'imperadore, e indirizzato a Palladio prefetto del pretorio d'Italia. In vigore di questo anche gli altri prefetti del pretorio, cioè Agricola della Gallia e Monasio dell'Oriente, ordinarono le medesime pene contra quegli eresiarchi. Nel qual tempo anche i vescovi africani in un concilio plenario, inerendo alla sentenza della sede apostolica, concordemente condannarono i suddetti eretici. Terminò il corso di sua vita in quest'anno a dì 26 di dicembre il medesimo Zosimo papa, e dopo due giorni di sede vacante fu eletto nella chiesa di Marcello dalla miglior parte del clero, alla presenza di nove vescovi, per suo successore Bonifazio, vecchio prete romano, figliuolo di Giocondo, ma non senza tumulto e scisma. Imperciocchè un'altra parte del clero e del popolo, stando Eulalio arcidiacono nella chiesa [438] lateranense, quivi l'elessero papa: dal che seguirono molti sconcerti nell'anno appresso. Al presente appartiene ciò che narra Prospero Tirone [Prosper, in Chronic. apud Labb.], o sia qualche altro Prospero, cioè che Faramondo cominciò a regnare sopra i Franchi. Questo è, per quanto dicono, il primo re di quella nazione a noi noto, ma esso sta appoggiato all'autorità di uno scrittore non abbastanza autentico. Nè Gregorio Turonese, nè Fredegario conobbero alcun re de' Franchi di questo nome. Ammiano [Ammian., lib. 16.] sotto l'anno 556 fa menzione dei re de' Franchi, ma senza dire qual nome avessero. Contuttociò è stato creduto dagli eruditi francesi sufficiente questa notizia, per cominciare da questo Faramondo il catalogo di essi re franchi; e tanto più perchè fa menzione di lui anche l'autore de Gestis Francorum, il quale si crede che vivesse circa l'anno di Cristo 700. Ma quell'autore racconta sul principio tante favole della venuta de' Franchi da Troja, e dà per avolo a Faramondo Priamo, e per padre Marcomiro, che non fa punto di credito all'asserzione sua intorno a Faramondo. Potrebbe anch'essere che nella Cronichetta di quel Prospero fosse stata incastrata ed aggiunta ne' secoli susseguenti la notizia d'esso Faramondo, da chi prese per buona moneta le favole inventate dell'origine de' Franchi. In fatti manca essa in qualche testo. Quello che è certo, questa bellicosa nazione, conosciuta anche ne' precedenti due secoli, signoreggiava allora quel paese che è di là dal Reno nella Germania, cominciando da Magonza fino all'Oceano, collimando, per quanto si crede, colla Sassonia e Svevia. Ermoldo Nigello [Ermold. Nigellus, lib. 4, in Rer. Italicar., p. 2, tom. 2.], il cui poema composto a' tempi di Lodovico Pio Augusto, fu da me pubblicato, scrive, essere stata a' suoi dì opinione che i Franchi tirassero la loro origine dalla Dania, o sia [439] dal mar Baltico. Sopra di che è da leggere un'erudita dissertazione del celebre Leibnizio.
Anno di | Cristo CDXIX. Indizione II. |
Bonifacio I papa 2. | |
Onorio imperadore 27 e 25. | |
Teodosio II imp. 18 e 12. |
Consoli
Monasio e Plenta.
Era insorto scisma, siccome di sopra accennai, nella Chiesa romana per l'elezione dei due competitori Bonifacio ed Eulalio. Quasi tutto il clero e popolo aderiva a Bonifacio; ma Eulalio avea dalla sua Simmaco prefetto di Roma, il quale avendo scritto in suo favore a Ravenna, fu cagione che l'imperadore gli ordinasse con un rescritto cacciar Bonifacio dalla città, e di confermare Eulalio. Mandò anche Onorio a Roma Afrodisio vicario, tribuno, per tener il popolo a freno. Simmaco allora spedì alla chiesa di san Paolo fuori di Roma, dove s'era ritirato Bonifacio, a chiamarlo, per comunicargli l'ordine imperiale. Il messo fu maltrattato dal popolo che stava per Bonifacio. Onde Simmaco sdegnato per questo affronto, pubblicò tosto il comandamento dell'imperadore in favore d Eulalio, e mise le guardie alle porte della città, affinchè Bonifacio non entrasse, con dare susseguentemente avviso all'imperadore dell'operato, e con dipingere Bonifacio come uomo turbolento e sedizioso. Perciò Eulalio liberamente passò alla basilica Vaticana, e quivi alla papale celebrò la messa. Ma informato meglio l'imperadore dagli elettori di Bonifacio, chiamò amendue le parti a Ravenna, e per procedere saviamente, adunò un concilio di vescovi che ne giudicassero. Tuttavia perchè il negozio andò più a lungo di quel che si credeva, e sopravvenne la Pasqua, l'imperadore, per consiglio dei vescovi raunati nel concilio, mandò Achilleo, vescovo di Spoleti, a Roma per le funzioni di que' santi giorni, con ordinare a [440] Bonifacio e ad Eulalio, che niun d'essi si accostasse a Roma, finattantochè non fosse decisa la lor controversia. Chiamò ancora molti altri vescovi più lontani, acciocchè fosse in ordine un concilio più numeroso del primo, da tenersi a Spoleti. Anche Placidia scrisse per questo ad Aurelio vescovo di Cartagine. Ma Eulalio, per la sua superbia, sprezzati gli ordini imperiali, prima del vescovo di Spoleti volò a Roma di bel mezzogiorno, accolto dai suoi parziali con festa, ma non senza un gran tumulto, perchè se gli oppose la parte che teneva per Bonifacio, e in tal mischia molti furono maltrattati e feriti. Allora Simmaco, che dal cardinal Baronio vien tassato per sospetto e parziale in tal controversia, ma che nel progresso non si diede a conoscere per tale, immediatamente notificò tutto il succeduto all'imperadore Onorio ed a Costanzo di lui cognato, i quali adirati per tale insolenza, rescrissero tosto a Simmaco, che cacciasse Eulalio, e il confinasse nel territorio di Capoa, con riconoscere Bonifacio per legittimo papa. Eseguì Simmaco puntualmente l'ordine, e replicò alla corte con biasimare la temerità di Eulalio. E da lui stesso sappiamo che Bonifacio fu ricevuto con sommo giubilo e concordia di tutto il popolo. Tutto questo affare apparisce dalle lettere di Simmaco [Symmachus, in Auctuar. Epist.], e dai rescritti imperiali, rapportati dal cardinal Baronio. Poscia Eulalio per misericordia fu creato vescovo di Nepi, per quanto scrive Anastasio, ossia l'antichissimo autore del Pontificale romano. E mancò poi di vita un anno dopo la morte di papa Bonifacio.
In quest'anno a dì 2 di luglio Galla Placidia, moglie di Costanzo conte e patrizio, gli partorì in Ravenna un figliuolo, a cui fu posto il nome di Flavio Placido Valentiniano, che poscia divenne imperadore [Olympiod., apud Photium, pag. 192.]. Credono alcuni che Placidio, e non Placido, fosse chiamato dal nome della madre. Se non è fallato il [441] testo di Apollinare Sidonio nel panegirico di Avito, ivi egli è chiamato Placido. Onorio suo zio, per le gagliarde istanze della sorella, gli diede da lì a non molto il titolo di nobilissimo, ch'era il primo grado d'onore per chi era destinato all'imperio. Avvenne in questo medesimo anno che i Barbari occupatori di alcune provincie della Spagna, dacchè non erano più infestati dai Goti, vennero alle mani fra loro [Idacius, in Chron. apud Sirmond.]. Gli Svevi, che aveano per loro re Emerico, soccombendo, furono assediati dai Vandali, dei quali era allora re Gunderico, ne' monti Nervasi, che son creduti quei della Biscaglia. Racconta eziandio Prospero Tirone [Prosper, in Chron. apud Labb.], che nell'anno presente Massimo per forza ottenne il dominio delle Spagne, cioè quel medesimo che da Geronzio negli anni addietro fu creato imperadore, e fuggì poi ramingo e screditato appresso i Barbari dimoranti in Ispagna. Ma l'autor d'essa Cronica di troppo apre la bocca, certo essendo che parte della Spagna riconosceva allora per suo signore Onorio Augusto, ed un'altra parte era in potere de' Vandali e Svevi. Può esser che costui in qualche angolo di que' paesi facesse questa nuova scena. Tuttochè poi più fulmini si fossero scagliati contra l'eresia di Pelagio, questa più che mai ostinata resisteva e si dilatava. E specialmente verso questi tempi insorse in difesa d'essa Giuliano vescovo di Eclano, città vicina allora a Benevento, la cui sedia fu poi trasferita a Frigento. L'infaticabil santo Agostino contra di costui e contra di tutta la setta seguitò a comporre varii libri; e i vescovi africani raunati nel concilio di Cartagine soddisfecero alle parti del loro zelo in condannarla ed estirparla. A questo medesimo fine Onorio imperadore, probabilmente mosso dal romano pontefice, unì la sua autorità, con inviare a dì 9 giugno di questo anno ad Aurelio vescovo di Cartagine la costituzione da lui pubblicata nel precedente [442] anno contra di Pelagio e Celestio. Abbiamo ancora un editto [Sirmond., Append. al Cod. Theodos.], con cui il medesimo imperadore slargò fino a quaranta passi fuori della chiesa l'asilo, ossia l'immunità, per chi si ricoverava nei luoghi sacri. E perciocchè talvolta accadeva che delle persone innocenti o perseguitate da' prepotenti, erano imprigionate, con torsi loro i mezzi di potersi difendere, il piissimo imperadore ordinò nel medesimo editto che i vescovi avrebbono un'intera libertà di visitar le prigioni, per informarsi non meno del trattamento che si faceva a' poveri carcerati, che de' loro affari, per sollecitar poscia i giudici in loro favore. Sarebbe da desiderare che questa legge, rapportata dal Sirmondo, e simile ad un'altra del medesimo Augusto dell'anno 409, non fosse abolita, o che la pietà de' principi in altra maniera provvedesse al bisogno dei carcerati, con ricordarsi delle regole importantissime della carità cristiana.
Anno di | Cristo CDXX. Indizione III. |
Bonifacio I papa 3. | |
Onorio imperadore 28 e 26. | |
Teodosio II imp. 19 e 13. |
Consoli
Teodosio Augusto per la nona volta, e Flavio Costanzo per la terza.
Erano, come dissi, assediati gli Svevi nei monti Nervasi della Spagna dai Vandali. Probabilmente costoro mandarono per aver soccorso da Asterio conte delle Spagne; perciocchè Idacio racconta [Idacius, in Chronico apud Sirmond.] che i Vandali, all'udire che si avvicinava con grandi forze questo uffiziale dell'imperadore, levarono tosto l'assedio, ed abbandonata la Galizia, s'inviarono verso la provincie della Betica, con avere nel passaggio per Braga commessi alcuni omicidii. Dovea forse la Betica essere allora scarsa di presidii, e però se ne impadronirono. In Costantinopoli, secondo [443] che riferisce la Cronica Alessandrina [Chron. Alexandrinum.], Teodosio Augusto era già pervenuto ad età competente per ammogliarsi. Pulcheria Augusta sua sorella, donna di gran senno, cercò dappertutto moglie che fosse degna di sì gran principe; e udito ch'egli non curava nè ricchezze nè nobiltà, premendogli solamente le virtù e la bellezza, gliene scelse finalmente una di suo genio; e questa fu Atenaide, figliuola di Eraclito filosofo, giovane di rara beltà, e addottrinata in molte scienze. A lei il padre in morendo avea lasciato solamente cento nummi in sua parte, con dire che a lei bastava per dote il sapere accompagnato dalla bellezza; e tutto il resto della sua eredità pervenne a due maschi, parimente suoi figliuoli. Mancato di vita il padre, Atenaide pretendendosi indebitamente, perchè senza sua colpa, diseredata ed aggravata, dimandò ai fratelli la sua legittima; e la risposta fu che eglino la cacciarono di casa. Ricoverossi ella per questo presso d'una sua zia materna, la quale seco la menò a Costantinopoli, per chiedere giustizia all'imperadore, e presentolla prima d'ogni altra cosa all'Augusta Pulcheria, implorando la di lei protezione. Pulcheria, adocchiato il graziosissimo aspetto di questa giovane, ed inteso ch'era vergine, e vergine dotata di gran prudenza e di molta letteratura, la fece restare in corte. Raccontò poi questa avventura a Teodosio suo fratello, senza tacere le singolari prerogative di corpo e d'animo che si univano in questa donzella. Di più non vi volle perchè Teodosio s'invogliasse di vederla. Fattala dunque di concerto venire nella camera di Pulcheria, il giovane imperadore in compagnia di Paolino suo compagno ed amico, che fu poi maestro degli uffizii, ossia maggiordomo maggiore, stando dietro ad una portiera la guatò ben bene, e in guisa tale, che straordinariamente gli piacque, e massimamente perchè Paolino proruppe in atti di ammirazione. Questa è quella ch'io cerco, disse allora Teodosio [444] in suo cuore; ed indottala ad abbracciar le religion cristiana, perchè era nata ed allevata nel paganesimo, la prese poi nell'anno seguente a dì 7 di giugno per moglie, avendole fatto mettere nel battesimo il nome d'Eudocia. Onorio Augusto in quest'anno a dì 8 di maggio in Ravenna fece una costituzione, indirizzata a Palladio prefetto del pretorio [L. 3, lib. 9, tit. 25. Cod. Theod.], per rinnovar le leggi già fatte contra chi rapisse vergini consacrate a Dio, o in altra guisa insidiasse o pregiudicasse alla lor castità. Nella stessa legge presso il Sirmondo [Sirmondus, Append. ad Cod. Theod.] vien proibito agli ecclesiastici di tenere in casa persona di differente sesso, a riserva della madre, delle sorelle e figliuole, e della moglie, tenuta prima del sacerdozio. Giunto san Girolamo, celebre dottor della Chiesa, all'età di novanta anni, diede fine nel presente alla sua vita ed alle sue penitenze e gran fatiche in pro della Chiesa cattolica.
Anno di | Cristo CDXXI. Indizione IV. |
Bonifacio I papa 4. | |
Onorio imperad. 29 e 27. | |
Teodosio II imp. 20 e 14. | |
Costanzo imperadore 1. |
Consoli
Eustazio e Agricola.
Non si quietò mai Galla Placidia, finchè non gli riuscì d'indurre il fratello Onorio Augusto a prendere per suo collega nell'imperio Costanzo di lei marito. Però tali e tante furono le batterie ed istanze sue, che in quest'anno Onorio il dichiarò Augusto a dì 8 di febbraio, per quanto s'ha da Teofane [Theoph., in Chron.]. L'autore della Storia Miscella scrive [Histor. Miscell., lib. 14, tom. 1 Rer. Italic.] che Onorio conoscendo essere appoggiata la propria difesa tanto in guerra che in pace al [445] valore e all'ingegno di Costanzo suo cognato, incitato anche dall'approvazione di tutti, il prese per suo collega. Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium, pag. 195.], all'incontro, scrittore di quei tempi, asserisce che Onorio contra sua voglia il creò Augusto. Ma avendo i Greci sentita male questa elezione, può sospettarsi che il greco scrittore parlasse del medesimo tenore. Con tal congiuntura anche Galla Placidia di lui moglie ebbe il titolo e gli onori d'Augusta. Certo è che l'imperadore d'Oriente Teodosio, il quale probabilmente venendo a mancare Onorio senza figliuoli, sperava un dì riunire al suo l'imperio d'Occidente, disapprovò questa promozione; e però non volle ammettere il messo che gliene portò la nuova. Parimente attesta Filostorgio [Philostorg., lib. 12. Hist. Eccl.] che essendo state mandate, secondo il rito d'allora le immagini di Costanzo Augusto a Costantinopoli, Teodosio non le volle ricevere, e che per questo affronto Costanzo si preparava per muovergli guerra, quando Iddio il chiamò a sè dopo sei mesi e venticinque giorni di imperio, cioè a dì 2 di settembre dell'anno presente. Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium, pag. 195.] pretende che per l'afflizione di vedersi rifiutato in Oriente, e pentito d'essere stato alzato a grado sì sublime, perchè non poteva aver come prima i suoi divertimenti, egli cadesse malato. Ma Costanzo, uomo d'animo grande, non era sì meschino di senno e di cuore, da ammalarsi per questo. Una doglia di costa il portò all'altro mondo. Fama fu che in sogno udì dirsi: I sei son terminati, e il settimo incomincia: parole poscia interpretate dei mesi del suo imperio. Aggiugne il suddetto storico, che dopo la morte di Costanzo, molti vennero da tutte le parti a Ravenna a chiedere giustizia, pretendendosi spogliati indebitamente da lui de' loro beni, senza poterla nondimeno ottenere a cagione della troppa bontà, anzi della soverchia familiarità che [446] passava tra Onorio e Placidia Augusta sua sorella, motivi che affogarono e renderono inutili tutte le doglianze di costoro. Ma se non merita fede questo istorico pagano, allorchè dopo aver fatto sì bell'elogio di Costanzo, cel vuole dipignere per uomo di debolissimo cuore; molto men la merita allorchè soggiugne, che, rimasta vedova Placidia, le mostrò tanto affetto l'Augusto Onorio, con baciarla anche spesso in volto, che corse sospetto d'una scandalosa amicizia fra loro. Queste senza dubbio son ciarle di uno scrittore gentile, nemico de' regnanti cristiani, o ciarle dei Greci, sempre mal affetti ai Latini. La virtù che maggiormente risplendè in Onorio, fu la pietà; e non ne era priva la stessa Galla Placidia.
Il Browero [Browerus, Annal. Trever., lib. 5, num. 34] rapporta un epitafio, che per attestato di lui si conserva in Treveri nella basilica di san Paolino, posto a Flavio Costanzo, uomo consolare, conte, e generale dell'una e dell'altra milizia, patrizio, e due volte console. Ma questa iscrizione, quando sia legittima, potè ben essere fatta vivente Costanzo, ma non già servire a lui di memoria sepolcrale. Costanzo tre volte era stato console, e, quel che è più, Augusto. Negli epitafii degl'imperadori non si soleano mettere le dignità sostenute prima di arrivare all'imperio. Nè Costanzo terminò la vita in Treveri. Racconta Olimpiodoro [Olympiodorus, apud Photium, pag. 194.] che mentre esso Costanzo regnava con Onorio, venne a Ravenna un certo Libanio, mago ed incantatore solenne, che professava di poter far cose grandi contro ai Barbari senza adoperar armi e soldati; e diede anche un saggio di queste promesse. Pervenutone l'avviso a Placidia Augusta, mossa ella o da zelo di religione da paura di costui, minacciò fino di separarsi dal marito Costanzo, se non levava questo mal uomo dal mondo: il che fu fatto. Dobbiamo al cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad ann. 420.] l'editto indirizzato in questo [447] anno, e non già nel precedente, da esso Costanzo Augusto a Volusiano prefetto di Roma, con ordine di cacciar via da essa città Celestio, il pestifero collega di Pelagio, con tutti i suoi seguaci. Attesta eziandio s. Prospero [Prosper, lib. 3, cap. 38, de Praedict.], che ai tempi di Costanzo e dell'Augusta Placidia, per cura di Orso tribuno, fu atterrato in Cartagine il tempio della dea celeste, sotto il qual nome disputano tuttavia gli eruditi, qual falsa divinità fosse onorata dai Pagani, potendosi nondimeno credere con Apuleio che fosse Giunone. Era quell'idolo e tempio il più famoso dell'Africa. Aurelio vescovo di Cartagine lo avea mutato in una chiesa; ma i gentili spargevano dappertutto, che quivi infallibilmente avea da risorgere la loro superstizione; laonde, per togliere ad essi così vana speranza, il tempio fu interamente demolito. Salviano [Salvianus, lib. 8, de Gubern.] attesta che neppur molti de' Cristiani più riguardevoli dell'Africa sapeano trattenersi dall'adorare la celeste dea del loro paese. Leggesi ancora nel Codice Teodosiano una legge pubblicata in quest'anno da Onorio e Costanzo Augusti, in cui è ordinato che se un marito ripudia la moglie per qualche grave delitto, provato ne' pubblici tribunali, guadagni la di lei dote, e ripigli la donazione a lei fatta, e possa dipoi passare ad altre nozze. Lo stesso vien conceduto alle mogli provanti il delitto del marito, ma senza potersi rimaritare, se non dopo cinque anni. Fu stabilito con più ragione dalla Chiesa in vari tempi, e specialmente nel concilio di Trento, una diversa pratica: sopra di che si può vedere il trattato del Juenin de Sacramentis. In quest'anno Claudio Rutilio Numaziano, personaggio di gran merito e nobilità, ma pagano, ch'era stato prefetto di Roma, tornando nella Gallia sua patria, compose il suo Itinerario, opera degna di grande stima. Giunto a Piombino, narra che gli venne la nuova, come a Volusiano, suo singolare amico, era stata [448] conferita la prefettura di Roma, la qual cade nel presente anno, secondochè si ricava dal soprammentovato editto contro dei Pelagiani.
Anno di | Cristo CDXXII. Indizione V. |
Celestino papa 1. | |
Onorio imperadore 30 e 28. | |
Teodosio II imperad. 21 e 15. |
Consoli
Onorio Augusto per la tredicesima volta, e Teodosio Augusto per la decima.
Solennizzò Onorio imperadore in Ravenna l'anno trentesimo del suo imperio. Abbiamo da Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chronico ap. Sirmondum.] che l'allegria di quella festa fu accresciuta dall'essere stati condotti a Ravenna incatenati Massimo e Giovino presi in Ispagna, i quali dappoichè ebbero servito di spettacolo al popolo, dati in mano alla giustizia riceverono colla morte il premio della lor ribellione. Massimo è quel medesimo che nell'anno 411 fu creato imperadore da Geronzio nella Spagna, e fuggito dipoi fra i Barbari, tornò nell'anno 419 in iscena, coll'occupar la signoria di qualche provincia della Spagna, e dovette poi essere preso dai Romani. Giovino è probabile che fosse il generale di questo chimerico imperadore. Ma queste allegrie furono troppo contrappesate da altri malanni che accaddero al romano imperio. Cassiodoro [Cassiodorus, in Chron.] notò che nel presente anno fu spedito un esercito in Ispagna contra de' Vandali, che si erano impossessati della Betica. Generale di quest'armata fu Castino; e sappiamo da Idacio [Idacius, in Chron. apud Sirm.] ch'egli menava seco un poderoso rinforzo di Goti ausiliarii. Assalì egli i Vandali, gli assediò, e li ridusse talmente alle strette, che già pensavano ad arrendersi. Ma l'imprudente generale avendo voluto cimentarsi ad un fatto di [449] armi con gente disperata, fu rotto da essi Vandali, perchè ingannato dai disleali Goti, e si ridusse fuggitivo a Tarragona. Prospero Tirone fuor di sito racconta che ventimila Romani nella battaglia coi Vandali in Ispagna restarono morti sul campo. Un altro inescusabil fallo commise il superbo Castino; perciocchè, secondo l'altra Cronica di Prospero [Prosper, in Chronic. apud Labb.], ingiuriosamente ricusò di aver per compagno nell'impresa suddetta Bonifacio conte, persona di sommo credito e sperienza nell'arte della guerra: il che fu cagione che Bonifacio indispettito passasse poco appresso in Africa, dove comandava alla milizia, e vi suscitasse quei malanni che fra poco vedremo. Forse la spedizione contro i Vandali, se Castino si fosse servito dell'aiuto di questo valoroso campione, sarebbe succeduta diversamente. Onorio Augusto pubblicò in quest'anno una legge per mettere freno alle ingiustizie de' creditori, con proibir loro di cedere essi crediti a persone potenti, vietando ancora ogni azione contro i padroni per debiti fatti dai servi e fattori. Inoltre con altra legge regolò le imposte che pagavano i terreni nell'Africa proconsolare, e nella Bisacena, dopo aver fatto visitare da persone di molta probità le terre di quei paesi capaci o incapaci di tali aggravii. Ancorchè Prospero e Marcellino, seguitati dal cardinale Baronio, differiscano all'anno seguente la morte di Bonifacio papa primo di questo nome, pure il padre Pagi [Pag., Crit. Baron.] pretende ch'egli mancasse di vita nel presente a dì 4 di settembre. E con ragione, perchè tutti gli antichi cataloghi de' romani pontefici gli danno anni tre, mesi otto e giorni sette di pontificato; e contando questi dal dì 29 di dicembre dell'anno 418, in cui fu intronizzato, cade la sua morte nel settembre del presente. Nel libro pontificale d'Anastasio in vece di otto mesi è scritto [450] quattro mesi, che sembrano presi dal tempo in cui, ripudiato Eulalio, fu confermata ossia riconosciuta legittima la di lui elezione dal concilio dei vescovi e da Onorio imperadore. In suo luogo a dì 10 di settembre fu eletto Celestino, figliuolo di Prisco. Seguì nel presente anno tra Teodosio II Augusto e il re di Persia la pace, ossia una tregua di cento anni. E ad esso imperadore Eudocia Augusta partorì una figliuola, a cui fu posto il nome di Eudossia.
Anno di | Cristo CDXXIII. Indizione VI. |
Celestino papa 2. | |
Teodosio II imperad. 22 e 16. |
Consoli
Asclepiodoto e Flavio Avito Mariniano.
Olimpiodoro, che poco fa ci rappresentò contra ogni verisimile un tale affetto fra Onorio imperadore e la sorella Placidia Augusta, che si mormorava di loro, ci vien ora dicendo [Olymp. apud Photium, p. 195.] che non istette molto a convertirsi quell'amore in odio. Imperciocchè Placidia badava troppo ai consigli d'Elpidia sua balia, e di Leonteo suo mastro di casa, e vi era in Ravenna una fazione che teneva per lei, composta dei Goti servitori dianzi di Ataulfo suo primo marito, e di altri già aderenti a Costanzo marito in seconde nozze: e però bene spesso seguivano sedizioni e ferite in Ravenna fra quei della sua parte e quei dell'imperador suo fratello. Andò tanto innanzi questa discordia, che Onorio cacciò via Placidia co' suoi figliuoli, ed ella si imbarcò per rifuggirsi in Costantinopoli presso l'imperador Teodosio suo nipote. Cassiodoro [Cassiodorus, in Chron.] e l'autore della Miscella [Miscell. Tom. I Rer. Italic.] scrivono ch'essa insieme con Onorio e Valentiniano suoi figliuoli fu mandata dal fratello in Oriente per sospetto ch'essa invitasse i nemici contra di lui. S'ha da scrivere nel testo di [451] Cassiodoro e della Miscella Onoria (e non già Onorio) figliuola nata da lei prima di Valentiniano. Prospero Tirone [Prosper, in Chron. apud Labb.] è di parere che Placidia fosse esiliata dal fratello, perchè gli tendeva delle insidie. Il volgo si prende facilmente l'autorità d'interpretare i segreti dei principi, e spaccia le sue immaginazioni per buona moneta. Certo è che Placidia fu cacciata, e se ne andò co' figliuoli a Costantinopoli, dove fu amorevolmente accolta. Olimpiodoro attesta che il solo Bonifacio conte le fu fedele, e dall'Africa, ov'era o governatore o general delle milizie, per quanto potè le andò mandando aiuto di danari, e fece dipoi ogni possibile sforzo perchè essa e il figliuolo ricuperassero l'imperio. Ma poco tempo goderono gli emuli di Placidia del loro trionfo, perchè in questo medesimo anno nel dì 15 agosto Onorio imperadore pagò l'inevitabil tributo dei mortali, con essere mancato di vita per male d'idropisia in Ravenna. Principe che nella pietà non fu inferiore a Teodosio il Grande suo padre, ma principe dappoco, che in tanti torbidi dell'imperio, e insulti a lui fatti, mai non cinse spada, nè una volta sola comparve in campo, benchè nel fiore della gioventù, e nato di un padre così guerriero. Perciò la debolezza del suo governo diede animo ai Barbari di calpestare e lacerare l'imperio romano, a' suoi medesimi cortigiani di sprezzarlo, e a' suoi uffiziali di ribellarsi contra di lui; e tanto più perchè egli non sapeva scegliere buoni ministri, e si lasciava aggirare or da questo or da quello. Il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl. ad ann. 423.] fa la di lui apologia, dicendo ch'egli colla pietà e colle orazioni vinse tanti tiranni e nemici; ed essere meglio che un imperadore sia dotato di religione che valoroso nell'armi. Egli è certo da desiderare che tutti gl'imperadori e principi cattolici sieno eccellenti nella pietà. Tuttavia, quando arrivano sconvolgimenti interni e ribellioni negli stati, [452] sono ben proprie dei pontefici e prelati le orazioni a Dio; ma un principe dovrebbe fare di più, essendo allora gran disavventura per i sudditi l'avere chi loro comanda, timido e debole di consiglio. E se l'imperio romano patisse sotto il governo d'Onorio, l'abbiam già veduto. In somma alcuni si fan religiosi che starebbono meglio principi; e alcuni principi ci sono che starebbono meglio monaci. Certo Roma, non mai presa se non sotto di lui e saccheggiata dai Barbari, lasciò una gran macchia alla fama di questo per altro buon principe ed imperadore piissimo. Teofane e l'autore della Miscella dicono ch'egli morì in Roma, e fu seppellito in un mausoleo presso il corpo di san Pietro; ma per quel che concerne il luogo di sua morte non meritano fede. Idacio e Prospero Tirone l'asseriscono defunto in Ravenna, nè si può credere altrimenti, perchè vi son leggi pubblicate da lui in quella città a dì 9 d'agosto, ed essendo egli morto sei giorni dopo, in sì poco tempo non è verisimile ch'egli idropico si facesse portare a Roma. Fra le suddette leggi si trova un insigne regolamento da osservarsi ne' processi criminali, indirizzato ai pretori, ai tribuni del popolo e al senato di Roma.
Non avendo questo imperadore lasciata dopo di sè prole alcuna, rimase l'imperio d'Occidente per ora senza principe. Fu spedito tosto l'avviso a Costantinopoli della morte d'Onorio [Socrat., Hist. Eccl., lib. 8, cap. 23.], e Teodosio la tenne per qualche tempo occulta al popolo, finchè avesse spedito un corpo di truppa a Salona, città della Dalmazia, acciocchè fosse pronto, caso che succedesse novità alcuna in queste parti che non s'accordasse colle idee del medesimo Teodosio. Divulgata in fine la nuova d'essa morte, se ne fece duolo, per testimonianza di Teofane [Theoph., in Chron.], in Costantinopoli per sette giorni, con tener chiuse le botteghe e le porte ancora della città. Ma [453] mentre vanno innanzi e indietro lettere alla corte dell'imperadore greco, un certo Giovanni, primicerio dei notai, circa il fine di quest'anno, si fece proclamare imperadore in Ravenna. Contribuì, credo io, a questa scena il timore ch'ebbero i popoli italiani di cadere sotto il dominio de' Greci Augusti troppo lontani. Perchè poi nell'anno precedente una legge d'Onorio si vede indirizzata a Giovanni prefetto del pretorio d'Italia, perciò il cardinale Baronio si figurò che fosse il medesimo che prendesse nel presente le redini dell'imperio di Occidente. Ma Socrate e Teofane non gli danno altro titolo che di primicerio de' cancellieri dell'imperadore. Leggesi presso il Mezzabarba la di lui medaglia, non saprei dire se legittima; ed è degno di osservazione ciò che di lui scrisse Procopio [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 3.], e dipoi Suida [Suidas, in verbo Johannes.]; cioè ch'egli era dotato non men di clemenza che di rara prudenza, e premurosamente batteva le vie della virtù, con aggiugnere che questi tenne il principato con molta moderazione, nè diede orecchio alle spie, nè ingiustamente fece uccidere alcuno; neppure impose aggravii, nè tolse per forza i suoi beni a chi che fosse. Dal suddetto Procopio egli è nominato solamente persona militare. Spedì Giovanni i suoi ambasciatori a Teodosio con umili parole a pregarlo di volergli confermare la dignità imperiale; ma Teodosio li fece mettere in prigione, e, secondo Filostorgio, li cacciò in esilio, e quindi si diede a preparar la forza per deporre questo usurpator dell'imperio. Da una costituzione di Valentiniano III Augusto apparisce [L. 47, lib. 16, tit. 1, Cod. Theodos.] che Giovanni, per guadagnarsi l'affetto dei gentili, cominciò ad annullare i privilegi conceduti dagli altri imperadori alle chiese e agli ecclesiastici, con rimettere le cause loro al foro de' laici. Renato Profuturo Frigerido, storico di quei tempi, a noi solamente noto per la diligenza di [454] Gregorio Turonense [Gregor. Turonensis, lib. 2. cap. 8, Hist. Franch.], che ne rapporta alcuni passi, racconta che gli ambasciatori di Giovanni tiranno, sprezzati da Teodosio Augusto, se ne ritornarono in Italia, rilasciati dalla prigione (se pur sussiste che fossero carcerati), e gli riferirono in qual disposizione fosse Teodosio verso di lui. Allora Giovanni spedì nella Pannonia con una gran somma d'oro Aezio suo maggiordomo a ricercare l'aiuto degli Unni, siccome persona conoscente ed amica de' medesimi, perchè tempo fa era stato ostaggio presso di loro, con ordinargli che subito che l'armi di Teodosio fossero entrate in Italia, quei Barbari venissero contra d'esso alla schiena, ed egli gli assalirebbe di fronte. Celebre noi vedremo divenir nella storia questo Aezio, e sappiamo da esso Frigerido ch'egli ebbe per padre Gaudenzio di nazione scita, ossia tartaro, uno dei primi del suo paese, il quale venuto al servigio degl'imperadori, cominciò la sua milizia nelle guardie del corpo, e salito fino al grado di generale della cavalleria, fu poi ucciso nella Gallia dai suoi soldati. La madre fu italiana, nobile e ricca. Aezio lor figliuolo militò prima fra' soldati del pretorio; per tre anni dimorò ostaggio presso d'Alarico; poi presso gli Unni divenne genero di Carpilione; e finalmente di conte delle guardie del corpo giunse ad essere maggiordomo del tiranno Giovanni. Era costui di mezzana statura, ma di bella presenza, d'animo allegro, forte di corpo, bravo a cavallo, perito in saettare e maneggiar la lancia, egualmente accorto nell'arti della guerra e della pace. A questi pregi s'aggiugneva l'esser egli affatto disinteressato, e il non lasciarsi smuovere dal sentiero della virtù, mostrandosi sempre paziente nelle ingiurie, amante della fatica, intrepido nei pericoli, e avvezzo a sofferir la fame, la sete e le vigilie. Tale è il suo ritratto a noi lasciato da Frigerido. Andando innanzi vedremo [455] se le opere corrispondano a così bei colori. Noi troviamo che i Francesi parlarono bene di Aezio, ma non così gli Italiani. In quest'anno il santo pontefice Celestino cacciò d'Italia l'eresiarca Celestio e i pelagiani suoi seguaci, fra i quali Giuliano indegno vescovo di Eclano, che ritiratosi nella Cilicia presso Teodoro vescovo Mopsuesteno, personaggio anch'esso infetto d'opinioni ereticali, scrisse poi contra sant'Agostino in favor di Pelagio. Teodoreto, celebre scrittor della Chiesa, fu creato nel presente anno vescovo di Ciro, città della Siria. Eudocia, moglie di Teodosio imperadore, solamente in questo anno cominciò a godere il titolo d'Augusta. E Teodosio Augusto pubblicò varie leggi contra de' pagani e Giudei che si leggono nel Codice ch'egli stesso fece dipoi compilare.
Anno di | Cristo CDXXIV. Indizione VII. |
Celestino papa 3. | |
Teodosio II imper. 23 e 17. |
Consoli
Castino e Vittore.
Castino, che procedette console nell'anno presente, è quel medesimo che di sopra vedemmo rotto dai Vandali nella Betica. Onorio Augusto nell'anno precedente lo avea disegnato console pel presente; ed egli senza scrupolo esercitò il consolato sotto il tiranno Giovanni, se pure lo stesso Giovanni quegli non fu che gli compartì questo onore, in ricompensa d'aver serrati gli occhi alla sua assunzione all'imperio, e non fattogli contrasto alcuno, ancorchè egli fosse generale delle milizie romane. Certamente Prospero scrive [Prosper, in Chron. apud Labb.] che Giovanni occupò, per quanto si credette, l'imperio a cagione della connivenza di Castino. E restano leggi di Teodosio, date in questo anno, con ivi memorarsi il solo Vittore console: segno che Teodosio era in collera contro di Castino, nè il volea riconoscere per console. Dal medesimo Prospero [456] storico sappiamo ancora che Giovanni tiranno suddetto fece in questo anno una spedizione in Africa, lusingandosi di poter tirar quelle provincie sotto il suo dominio. Ma Bonifazio conte, che quivi comandava, e che proteggeva gli affari di Placidia e di Valentiniano suo figliuolo, tal opposizione gli fece, che andò a monte tutto il di lui disegno. Intanto Teodosio Augusto, messa insieme una poderosa armata, la spedì a Tessalonica, ossia a Salonichi, insieme con Placidia sua zia, ch'egli allora solamente riconobbe per Augusta, e con Valentiniano di lei figliuolo, ch'era in età di cinque anni, a cui parimente diede il titolo di nobilissimo. Generali di quest'armata furono dichiarati Ardaburio [Olympiodorus, apud Photium, p. 198.], che dianzi nella guerra contro i Persiani avea fatto delle insigni prodezze, e con esso lui Aspare suo figliuolo. Fu loro aggiunto ancora Candidiano, che in progresso di tempo creato conte si scoprì gran fautore di Nestorio eretico. Giunti che furono costoro a Salonichi, quivi, per attestato di Olimpiodoro e di Procopio [Procop., lib. 1, cap. 3, de Bell. Vand.], conferì Teodosio al cugino Valentiniano il nome e la dignità di Cesare, avendo a tal fine inviato colà Elione maestro degli uffizii, ossia suo maestro di casa. E fin d'allora, per quanto scrive Marcellino conte [Marcell., in Chronico.], fu decretato il matrimonio d'esso Valentiniano con Eudossia figliuola di Teodosio. Divisa poi l'armata, Ardaburio colla fanteria posta nelle navi fece vela alla volta di Ravenna; ma infelicemente, perchè una fortuna di mare sconvolse tutta la flotta, ed egli, secondochè scrive Filostorgio [Philost., Hist. Eccl. lib. 12, cap. 13.], con due galere portato al lido, fu preso dalle genti del tiranno, e condotto prigione a Ravenna. Forse ancora la tempesta il colse nel venire da Salonichi per l'Adriatico, e il trasportò verso Ravenna, perchè, siccome dirò più abbasso, anche Placidia Augusta corse [457] in quella navigazione gran pericolo per fortuna di mare, e ne attribuì la liberazione a san Giovanni Evangelista, a cui si votò. Aspare all'incontro figliuolo di Ardaburio, colla cavalleria passò per la Pannonia e pel resto dell'Illirico, ed arrivato a Salona città della Dalmazia, la prese per forza. Quindi con tanta sollecitudine continuò il viaggio con Placidia e Valentiniano, che arrivato all'improvviso sopra Aquileia, città allora una delle più grandi ed illustri dell'Italia, se ne impadronì. Ma giunta colà la nuova della disgrazia e prigionia di Ardaburio, tanto Aspare che Placidia, per attestato di Olimpiodoro, rimasero costernati e tutti pieni d'affanno; se non che da lì a qualche tempo arrivato Candidiano, glorioso per l'acquisto di varie città, li rallegrò, e fece ritornar loro in petto il coraggio.
Anno di | Cristo CDXXV. Indizione VIII. |
Celestino papa 4. | |
Teodosio II imper. 24 e 18. | |
Valentiniano III imperad. 1. |
Consoli
Teodosio Augusto per l'undecima volta e Valentiniano Cesare.
Una legge del Codice Teodosiano ci fa vedere in quest'anno Fausto prefetto di Roma. Quanto era avvenuto di sinistro ad Ardaburio, generale di Teodosio Augusto, avea messo in grande agitazione l'animo d'esso imperadore, sì perchè avea male incominciata l'impresa, sì perchè temeva che il tiranno Giovanni facesse qualche brutto giuoco ad Ardaburio: di maniera che egli determinò di passare in persona in Italia contra del medesimo tiranno, il quale, per attestato d'una iscrizione da me data alla luce [Thesaur. novus Inscript., pag. 403.], si vede che avea preso il consolato probabilmente nell'anno presente. Socrate [Socrates, Hist. Eccl., lib. 7, cap. 23.] ci è testimonio che esso Augusto venne fino a Salonichi; ma ivi fu colto da una malattia che l'obbligò in fine a [458] ritornarsene a Costantinopoli. Seguita a scrivere Socrate che Aspare generale di esso Augusto, considerando dall'un canto la prigionia del padre, e sapendo dall'altro che era in marcia una possente armata di Barbari, condotta da Aezio in aiuto del tiranno, non sapea qual partito prendere. Ma che prevalsero presso Dio le preghiere di Teodosio principe piissimo; imperciocchè un angelo in forma di pastore condusse Aspare, ch'era alla testa d'un buon corpo di gente, per una palude vicina a Ravenna, per la quale non si sa che alcuno mai passasse. Arrivò questa truppa fino alle porte di Ravenna, che si trovarono aperte, ed entrata fece prigione il tiranno Giovanni. Portata poi questa felice nuova a Teodosio, mentre stava col popolo nel circo per vedere la corsa dei cavalli, il pio Augusto si rivolse al popolo con dire: Lasciamo un poco questi spettacoli, e andiamo alla chiesa a ringraziar Dio, la cui destra ha atterrato il tiranno. Tutti abbandonarono il circo, e salmeggiando tennero dietro all'imperadore fino alla chiesa, dove si fermarono tutto quel dì, impiegandolo in rendimento di grazie all'Altissimo. Ma Filostorgio [Philostorg., Hist. Eccl., lib. 12, cap. 13.] storico, di credenza ariano ed eunomiano, in questa avventura non riconobbe miracolo alcuno, narrando nella seguente maniera la presa del tiranno. Dappoichè venne alle sue mani Ardaburio, il trattò con molta civiltà e cortesia, lusingandosi di tirarlo nel suo partito; e probabilmente l'astuto prigioniere fece vista di volersi accordare con lui. Fu dunque data ad Ardaburio la città per carcere; laonde ebbe tutta la comodità che volle per trattar coi capitani del tiranno, e per ascoltar varie loro doglianze, ed anzi per iscoprire in loro inclinazione a tradirlo. Se ne prevalse egli, e disposte le cose, fece con lettere segretamente intendere ad Aspare suo figliuolo che venisse prontamente, perchè teneva la [459] vittoria in pugno. Aspare non perdè tempo, e giunto colla cavalleria a Ravenna, per quanto si può giudicare, nell'aprile dell'anno presente, dopo una breve zuffa fece prigione il tiranno per tradimento dei medesimi di lui uffiziali. Anche Marcellino conte lasciò scritto che Giovanni piuttosto per inganno di Ardaburio e di Aspare, che per loro bravura, precipitò.
Fu condotto fra le catene Giovanni ad Aquileia, dove s'era fermata Placidia col figliuolo Valentiniano; e quivi dopo essergli stata troncata la mano destra, lasciò anche la testa sopra un patibolo. Idazio [Idacius., in Chron. apud Sirmond.] scrive ch'egli fu ucciso in Ravenna, ma più fede merita Filostorgio che dà la sua morte in Aquileia, siccome scrittore più informato di que' fatti. E tanto più perchè Procopio [Procop., lib. 1, cap. 3 de Bell. Vand.] attesta il medesimo, con giugnere che Giovanni fu menato nel circo di Aquileia sopra un asinello, e dopo molti strapazzi e dileggi a lui fatti dagli istrioni, fu ucciso. Pagò la misera città di Ravenna in tal occasione anch'ella il fio dell'amore ed aderenza che avea mostrato al tiranno, perchè l'esercito vincitore crudelmente la saccheggiò, siccome abbiamo da Prospero Tirone [Prosper, in Chronico apud Labb.] e dall'autore della Storia Miscella [Hist. Miscell., lib. 14.]. Stando tuttavia Valentiniano Cesare in Aquileia, pubblicò a dì 17 di luglio una legge contra dei manichei, eretici e scismatici, che si trovavano allora nella città di Roma, dove bisogna supporre che durassero tuttavia alcuni seguaci d'Eulalio, i quali non voleano riconoscere per vero papa Celestino. È indrizzata quella legge a Fausto prefetto di Roma [L. 62 et seq. lib. 16, tit. 5, Cod. Theodos.]: il che ci fa intendere che già quella città avea riconosciuto per suo signore Valentiniano dopo la morte di Giovanni tiranno. Con due altre leggi, parimente date nel presente agosto, esso Valentiniano, col consenso, come si può credere, dell'Augusto [460] Teodosio, intimò varie pene contro gli eretici e scismatici, esistenti nell'Africa ed in ogni altra città del romano imperio. Egli è da credere che le premure del santo pontefice Celestino e di santo Agostino impetrassero tali rescritti in favore della dottrina ed unità della Chiesa cattolica. Ci è parimente una legge [L. 47, tit. 2, ibid.] data in Aquileia dal medesimo a' dì 7 di ottobre, in cui esso Cesare conferma tutti i privilegi conceduti dagli antecessori alle chiese, che Giovanni tiranno s'era dianzi studiato di annientare. Intanto Aezio, forse nulla sapendo di quanto era accaduto in Ravenna, con un esercito di sessantamila Unni, tre dì dopo la morte di Giovanni tiranno pervenne presso ad Aquileia, e, secondochè narra Filostorgio [Philost., lib. 2, cap. 14.], venne alle mani coll'esercito di Aspare, e nel conflitto rimasero morti non pochi dall'una e dall'altra parte. Ma inteso poi che Giovanni perduto avea imperio e vita, intavolò un trattato di pace o di lega con Placidia e Valentiniano, da' quali ricevette la dignità di conte. Quindi gli riuscì, mercè dello sborso di buona somma d'oro, d'indurre i Barbari a ritornarsene pacificamente alle loro case: il che fu puntualmente eseguito con essersi dati ostaggi dall'una e dall'altra parte. E qui termina la sua storia Filostorgio, di nazione cappadoce, uomo dotto, ma fiero eretico eunomiano, che si meritò il titolo d'ateista, e degno che Fozio chiamasse la di lui fatica piuttosto un encomio degli eretici che una storia. Anche Prospero nella sua Cronica [Prosper, in Chron. apud Labb.] notò che fu perdonato ad Aezio, perchè per cura di lui gli Unni, chiamati dal tiranno Giovanni, se ne ritornarono al loro paese. Ma Castino console di quest'anno fu cacciato in esilio, perchè si credea ch'egli avesse tenuto mano a Giovanni nell'usurpare l'imperio. Fra le epistole di sant'Agostino [In Appendice tom. 2, Operum s. Augustini.] una se ne [461] legge a lui scritta da Bonifazio conte nell'Africa, in cui gli fa sapere che s'era rifugiato presso di lui Castino già console, quel medesimo che negli anni addietro avea mostrato sì mal animo e sprezzo contra d'esso Bonifazio; ma che egli pago dell'umilazion di costui, pensò dipoi ad aiutarlo. Gli risponde sant'Agostino che Castino con giuramento avea protestato di essere innocente delle colpe a lui apposte, e il raccomanda alla clemenza di Bonifazio. Ma queste lettere, benchè antichissime, troppo diverse dallo stile di sant'Agostino, son ripudiate dai critici, e specialmente dai padri benedettini di san Mauro. Il Sigonio [Sigonius, de imper. Occident.], fidatosi delle medesime, scrisse che Castino, mossa poi guerra in Africa, fu rotto in una battaglia da Bonifacio conte, e costretto a fuggirsene. Ma di questo conflitto nulla parlano gli scrittori di quei tempi.
Venne dipoi Placidia con Valentiniano Cesare a Ravenna, e di là passò a Roma, dove da lì a non molto arrivò anche Elione maestro e patrizio, spedito dall'imperador Teodosio [Olympiodorus, apud Photium, pag. 198.], che portò a Valentiniano la veste imperatoria, e il dichiarò Augusto sotto la tutela di Galla Placidia Augusta sua madre. Egli non avea allora che sette anni. Qui diede fine alla sua storia anche Olimpiodoro scrittor pagano, di cui restano solamente alcuni pezzi, a noi conservati nella sua Biblioteca da Fozio. Marcellino conte [Marcell. Comes, in Chron.] scrive che in Ravenna succedette la dichiarazione di Valentiniano, terzo fra gl'imperadori di questo nome. Ma il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad ann. 425.] sostiene ch'egli s'ingannò, asserendo Filostorgio, Olimpiodoro, Prospero e Idazio, che questa solennità si fece in Roma. Poteva egli aggiugnere anche la testimonianza di Teofane [Theophanes, in Chronogr.], che scrive portata la porpora imperiale a Valentiniano dimorante in quella augusta città. [462] Non è però che non possa restar qualche dubbio su questo. Perciochè esso Pagi ha ben letto nella versione latina di Filostorgio, che in Roma Valentiniano ricevette la dignità imperiale; ma nel testo greco di quest'autore non v'ha menzione di Roma. E il testo d'Olimpiodoro non è chiaro, potendosi interpretare così: Ucciso poi che fu il tiranno Giovanni, Placidia col figliuolo Cesare passò a Ravenna. Ed Elione maestro e patrizio, che avea occupata Roma, col concorso colà di tutti ornò colla veste imperiale Valentiniano che avea solamente sette anni. Ed oltre a Marcellino conte, anche Giordano storico [Jordan., de Reg. Success.] del secolo susseguente asserisce che tal funzione fu fatta in Ravenna; e lo stesso si ha da Freculfo nella sua Cronica [Frecul., in Chron.]. Sappiam per altro di certo che Valentiniano, prima che terminasse il presente anno, passò a Roma; e dalla Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr. ad hunc ann.] abbiamo che il giorno della sua assunzione all'imperio fu il dì 23 d'ottobre del presente anno. Che se fosse certa la data di una legge sopra mentovata nel Codice Teodosiano [L. ultima, lib. 6, tit. de Episc.] con queste note: VIII Idus Octobris Aquilejae D. N. Teodosio XI et Valentiniano Caesare Coss.; cioè in quest'anno, molto più probabile sarebbe che in Ravenna fosse stata a lui portata la veste imperatoria, perchè in sì poco tempo forse egli non avrebbe potuto fare il viaggio da Aquileia a Roma. Merita qui d'essere rammentata una legge [L. 3. lib. 14, tit. 9, Cod. Theodos.] in quest'anno pubblicata da Teodosio Augusto, in cui ristaurò e ridusse in miglior forma le scuole pubbliche di Costantinopoli, con vietare che niuno potesse leggere in esse, se non era prima approvato per idoneo, e che non si potesse insegnare in altre scuole che nelle capitoline, cioè in luogo fabbricato da Costantino il grande ad imitazione del Campidoglio di Roma, perchè servisse [463] a tale affetto. Deputò in tali scuole tre oratori e dieci grammatici latini; cinque sofisti e dieci grammatici greci; un filosofo e due legisti. Le università dei nostri tempi si scorgono ben più considerabili di quelle d'allora. Da lì a poco con altra legge [L. 3, lib. tit. 21, Cod. Theodos.] esso imperadore dichiarò conti del primo ordine Elladio e Siriano grammatici greci, Teofilo grammatico latino, Martino e Massimo sofisti, e Leonzio legista, ordinando che da lì innanzi que' lettori che avessero faticato lo spazio di venti anni continui nella lettura, per premio avessero il medesimo onore. Così fanno i saggi principi che sanno la vera via della gloria, e cercano soprattutto il bene de' lor sudditi. Con un'altra legge esso Teodosio Augusto proibì i giuochi teatrali circensi nei giorni festivi de' Cristiani. Idazio [Idacius, in Chron. apud Sirmond.] sotto questo anno nota che i Vandali saccheggiarono Majorica e Minorica. Poscia spianarono dai fondamenti Cartagena e Siviglia, commettendo altri orridi disordini per la Spagna. Ma soggiugnendo egli che invasero anche la Mauritania provincia dell'Africa, si può dubitare che più tardi succedessero tante loro insolenze; e massimamente raccontando egli all'anno 427, che Gunderico re dei Vandali prese Siviglia.
Anno di | Cristo CDXXVI. Indizione IX. |
Celestino papa 5. | |
Teodosio II imperad. 25 e 19. | |
Valentiniano III imperad. 2. |
Consoli
Teodosio Augusto per la dodicesima volta e Valentiniano Augusto per la seconda.
Dalle leggi del Codice Teodosiano apparisce che Albino fu prefetto di Roma, e che nel gennaio del presente anno Valentiniano Augusto dimorò in Roma, dove indrizzò tre editti al senato romano, [464] ed uno [L. 14, lib. 6, tit. 2, Cod. Theodos.] al suddetto Albino prefetto della città. Da uno di essi veniamo a conoscere che il senato di Roma sì per cattivarsi il nuovo sovrano, come ancora per solennizzare la poco fa compartita a lui dignità imperiale, gli avea promesso un dono gratuito. Ma Valentiniano anch'egli compatendo lo stato della città, che avea patito non poco anche ultimamente sotto Giovanni tiranno, gli fa remissione di parte di questo dono promesso, e l'altra parte vuol che s'impieghi in benefizio di Roma stessa: il che dovette essere ricevuto con plauso grande dal popolo. L'ordine di questa sua munificenza fu letto in senato da Teodosio primicerio de' notai. Poscia con Placidia Augusta sua madre se ne tornò a Ravenna, e quivi era nel principio di marzo, allorchè inviò un suo editto a Basso prefetto del pretorio. Con altre leggi egli diede favore a que' Giudei che abbracciassero la fede cattolica, ed intimò varie pene agli apostati d'essa religione santissima. Pose dunque Galla Placidia Augusta col figliuolo Valentiniano imperadore, che era tuttavia fanciullo, la sua sedia in Ravenna, con tener essa le redini del governo. Ma qui bisogna udire Procopio [Procop., de Bell. Vand., lib. 1, cap. 3.] che un brutto ritratto ci lasciò non meno di essa Augusta che di suo figliuolo. Scrive egli adunque che Placidia nudrì Valentiniano nell'effemminatezza e nei piaceri: dal che avvenne ch'egli fin dalla fanciullezza contrasse tutti i vizii. Dilettavasi della conversazione degli stregoni e de' professori della strologia giudiciaria. E quantunque egli poi prendesse moglie oltremodo bella, pure menava una vita scandalosissima, perdendosi nell'amore delle mogli altrui. Furono poi cagione questi vizii che andarono alla peggio gl'interessi dell'imperio romano, perchè egli non solamente nulla riacquistò del perduto, ma perdette anche l'Africa e poi la vita. Non è sì [465] facilmente da prestar fede in questo a Procopio, scrittore greco, e però disposto a dir male de' regnanti latini; e certamente la perdita dell'Africa, siccome vedremo, non si può attribuire a Valentiniano, ch'era allora fanciullo, ma sì bene a sua madre, a cui mancò l'accortezza per difendersi dagl'inganni de' cattivi. Avevano, per quanto scrive Prospero [Prosper, in Chronico apud Labb.], i Goti nell'anno precedente rotta la pace ai Romani, prevalendosi anch'eglino delle turbolenze insorte in Italia per cagione del tiranno Giovanni. Perciò con gran forza intrapresero l'assedio di Arles, nobil città della Gallia. Ma sentendo che si accostava Aezio generale di Valentiniano con una poderosa armata, non senza loro danno batterono la ritirata. Non è ben chiaro se Aezio data la battaglia facesse a forza d'armi sloggiare quegli assedianti. Pare bensì che Prospero Tirone [Prosper Tiro apud eumdem.] riferisca al presente anno questa liberazione di Arles. E sant'Isidoro [Isidorus, in Chronic. Goth.] nota, che Teodorico re de' medesimi Goti, prima dell'assedio di Arles, avea preso varie città de' Romani confinanti all'Aquitania, assegnata a quella nazione per loro stanza. In questi pericolosi tempi di Arles, Patroclo vescovo di quella città restò tagliato a pezzi da un certo tribuno barbaro; e Prospero, che narra il fatto sotto il presente anno, aggiugne che si credette commessa questa scelleraggine per segreto comandamento di Felice generale di Valentiniano, al quale attribuiva eziandio la morte data a Tito Diacono, uomo santo in Roma, mentr'egli distribuiva le limosine ai poveri. Viene nondimeno accusato questo Patroclo vescovo da Prospero Tirone, d'aver con infame mercato venduti i sacerdozii, iniquità non per anche introdotta nella chiesa. Egli ebbe per successore Onorato abbate Lirinense, uomo di santa vita. Teodosio piissimo Augusto in quest'anno pubblicò una legge contra de' pagani, [466] con proibire sotto pena di morte i lor sagrifizii, e con ordinare che il restante de' loro templi fosse atterrato, o pure convertito in uso della religione cristiana.
Anno di | Cristo CDXXVII. Indizione X. |
Celestino papa 6. | |
Teodosio II imperad. 26 e 20. | |
Valentiniano III imperad. 3. |
Consoli
Jerio ed Ardaburio.
Insolentivano ogni dì più i Vandali nella Spagna, perchè non v'era armata di Romani, che li tenesse in freno. Abbiamo da Idacio [Idacius, in Chron. apud. Sirmondum.], che in quest'anno Gunderico re loro, avendo presa Siviglia, e gonfiatosi per così prosperi avvenimenti, stese le mani contro la chiesa cattedrale di quella città, volendola verisimilmente spogliare de' suoi tesori, ma per giusto giudizio di Dio terminò la vita indemoniato. Gli succedette Gaiserico, ossia Giserico o Genserico, suo fratello, il quale, per quanto alcuni assicurano, era dianzi cattolico, e passò poi all'eresia degli ariani. All'incontro Teoderico re de' Goti, dappoichè fu ributtato dall'assedio sopra narrato di Arles, veggendo che l'esercito romano era poderoso, e di aver che fare con Aezio valentissimo generale di Valentiniano, diede mano ad un trattato di pace coi Romani, di cui fa menzione Apollinare Sidonio [Sidon., in Panegyr. Aviti.], e che forse fu conchiusa nell'anno presente. Fra le capitolazioni d'essa pace abbiam motivo da credere che Teoderico s'impegnasse di muovere le armi contra de' Vandali che malmenavano la Spagna. Perciocchè Giordano storico [Jordan., de Reb. Getic, cap. 32.] scrive che Vallia re de' Goti (doveva scrivere Teoderico) intendendo come i Vandali, usciti dai confini della Gallizia, mettevano a sacco le Provincie della Spagna, allorchè Jerio ed Ardaburio erano consoli, cioè in questo anno, contra dei medesimi mosse l'esercito [467] suo. Racconta ancora Marcellino conte [Marcell., in Chron. apud Sirmond.] che in questi tempi la Pannonia, occupata per cinquanta anni addietro dagli Unni, fu ricuperata dai Romani. Giordano [Jordan., de Reb. Getic., cap. 32.] anch'egli attesta che sotto il medesimo consolato furono gli Unni cacciati fuori della Pannonia dai Romani e dai Goti. Col nome di Goti intende egli i Goti che fra poco vedremo chiamati Ostrogoti, ossia Goti orientali, a differenza degli altri che in questi tempi sotto il re Teoderico regnavano nella Aquitania, e son riconosciuti dagli antichi col nome di Visigoti, ossia di Goti occidentali. Ma niuno di questi autori accenna dove passassero gli Unni, dappoichè ebbero abbandonata la Pannonia, se non che li vedremo fra poco comparire ai danni dell'imperio d'Occidente. Due dei più valenti generali d'armate dell'imperio suddetto, che non aveano pari, erano in questi tempi Aezio e Bonifacio conte. Di Aezio s'è parlato di sopra, ed ora solamente convien aggiugnere che egli talmente s'acquistò non tanto il perdono, quanto anche la grazia di Placidia Augusta, ch'essa cominciò tosto a servirsi del di lui braccio e consiglio, con averlo inviato nella Gallia contra dei Goti. Egli, fatta la pace con quei Barbari, se ne dovette tornare alla corte dimorante in Ravenna, dove ordì un tradimento che fece perdere l'Africa all'imperador Valentiniano. Bonifacio conte, per quanto scrive Olimpiodoro [Olympiod. apud Photium.], era un eroe che talora con poche e talora con molte truppe avea combattuto coi Barbari nell'Africa con aver anche cacciato da quelle provincie varie loro nazioni. Fra suoi bei pregi si contava l'amore della giustizia, ed era uomo temperante, e sprezzator del danaro. Ma specialmente sant'Agostino, tra cui ed esso Bonifacio passava una singolar domestichezza, ne parla con vari elogi nelle sue lettere. Egli era stato, siccome vedemmo, sempre fedele a Galla [468] Placidia e al figliuolo Valentiniano; loro anche avea prestato soccorso di danaro, dappoichè dovettero ritirarsi in Oriente; e finalmente avea sostenuta l'Africa nella lor divozione contra gli sforzi di Giovanni tiranno. Morto costui, e dichiarato Augusto Valentiniano, abbiamo da una lettera del suddetto santo [August., Epist. CCXX, n. 4.] ch'egli fu chiamato alla corte, e da Placidia, che gli si protestava tanto obbligata, non solamente gli fu o dato o confermato il governo dell'Africa, ma conferite ancora altre dignità. Tuttavia, per quanto scrive Procopio [Procop., de Bell. Vand., lib. 1, cap. 3.], vennero accolte le prosperità di Bonifacio conte con assai invidia da Aezio, il quale andò celando il suo mal talento sotto l'apparente velo d'una stretta amicizia.
Ma dacchè Bonifacio fu passato in Africa, Aezio, che stava agli orecchi dell'imperadrice, cominciò a sparlare di lui, e a far credere alla stessa Augusta che l'ambizioso Bonifacio meditava di farsi signore dell'Africa, e di sottrarla all'imperio di Valentiniano. E la maniera facile di chiarirsene (diss'egli) l'abbiamo in pronto. Basta scrivergli che venga in Italia: che egli non ubbidirà nè verrà. Cadde nel laccio l'incauta principessa, e si appigliò al suo parere. Aezio intanto avea scritto confidentemente a Bonifacio, che la madre dell'imperatore tramava delle insidie contra di lui, e manipolava la di lui rovina: del che si sarebbe accorto, se senza motivo alcuno egli fosse richiamato in Italia. Altro non ci volle che questo, perchè Bonifazio troppo credulo, allorchè giunsero gli ordini imperiali di venire in Italia, rispondesse a chi li portò, di non poter ubbidire, senza dir parola di quanto gli aveva significato Aezio. Allora Placidia tenne Aezio per ministro fedelissimo, e sospettò dei tradimenti nell'altro. Intanto Bonifacio, nè osando di andare a Roma, nè sperando dopo questa disubbidienza di salvarsi, chiamò [469] a consulta i suoi pensieri per trovar qualche scampo in sì brutto frangente; e non vedendo altro ripiego, precipitò in una risoluzione che riuscì poi funestissima a lui e all'imperio romano. Cioè spedì in Ispagna i suoi migliori amici, acciocchè trattassero con Genserico re de' Vandali una lega, e lo impegnassero a passar colle sue forze in Africa per difesa d'esso Bonifacio, con partire fra loro quelle provincie. Così fu fatto, e i Vandali a man baciate accettarono la proposizion della lega, e la giurarono. Sotto quest'anno Teofane [Theoph., in Chronogr.] riferisce due insigni vittorie riportate contro de' Persiani, i quali dopo la morte d'Isdegarde re loro, essendogli succeduto Vararane di lui figliuolo, aveano mossa la guerra all'imperio romano d'Oriente. Ardaburio fu generale di Teodosio, e segnalossi in varie imprese. Ma il padre Pagi pretende che tali vittorie appartengano all'anno di Cristo 420. La Cronica Alessandrina ne parla all'anno 421. E Marcellino conte aggiugne che nel 422 seguì la pace coi Persiani. Socrate [Socrat., lib. 7, cap. 18.], autore contemporaneo, quegli è che più diffusamente narra una tal guerra, senza specificarne il tempo. Ma allorchè scrive che centomila Saraceni per timor de' Romani si affogarono nell'Eufrate, ha più del romanzo che della storia. Per queste fortunate prodezze furono recitati vari panegirici in onore dì Teodosio Augusto, e la stessa Atenaide, ossia Eudocia, sua moglie, compose in lode di lui un poema. Intanto Galla Placidia Augusta, persuasa che Bonifacio conte governatore dell'Africa non si potesse se non colla forza mettere in dovere, per testimonianza di san Prospero [Prosper, in Chron. apud Labb.], dichiaratolo nemico pubblico, spedì colà un'armata per mare, di cui erano capitani Mavorzio, Gallione (ossia Galbione) e Sinoce. Fu assediato Bonifacio, non si sa in qual città; ma non durò molto lo assedio: perchè i due primi capitani furono [470] uccisi da Sinoce a tradimento, e costui poscia accordatosi con Bonifacio, essendosi scoperta da lì a poco la sua perfidia, d'ordine di esso Bonifacio fu anch'egli levato dal mondo. Abbiamo da una lettera scritta in questi tempi da santo Agostino [August., Epist. CCXX.] al medesimo Bonifacio, che i Barbari africani, animati da questo sconvolgimento di cose, fecero guerra alle provincie romane dell'Africa stessa, uccidendo, saccheggiando, devastando dovunque arrivavano, senza che Bonifacio, che pur avrebbe potuto reprimerli colle forze che avea, se ne mettesse pensiero, perchè pensava più alla difesa propria che all'offesa altrui. Se ne lagna il santo vescovo, e da lui sappiamo ancora che Bonifacio era passato alle seconde nozze con una ricchissima donna, ariana di professione, ma che per isposarlo aveva abbracciata la religion cattolica: e che, ciò non ostante, gli ariani aveano una gran possanza in casa d'esso Bonifacio. Anzi correa voce ch'egli, non contento della moglie, tenesse presso di sè alcune concubine.
Anno di | Cristo CDXXVIII. Indizione XI. |
Celestino papa 7. | |
Teodosio II imper. 27 e 21. | |
Valentiniano III imperad. 4. |
Consoli
Flavio Felice e Tauro.
Una iscrizione da me data alla luce [Thesaur. Novus Inscript., p. 403.] fa conoscere che il primo console era appellato Flavio Costanzo Felice. Vedesi continuata la guerra in Africa contra di Bonifacio conte. Generale dell'armata cesarea era Segisvalto, per quanto scrive Prospero [Prosper, in Chron. apud Labb.], goto di nazione, ariano di credenza, ma senza che si sappia ciò ch'egli operasse. Nasce qui un gruppo difficile di cronologia intorno al passaggio de' Vandali in Africa, colà invitati nella sua disperazione da esso Bonifacio [471] conte. Nell'anno precedente il sopra mentovato Prospero notò questo avvenimento; altrettanto scrisse Cassiodoro [Cassiod., in Chron.]; e furono in ciò seguitati dal Sigonio. La Cronica Alessandrina, il cardinal Baronio ed altri scrissero che in quest'anno avvenne la trasmigrazione di quei Barbari nell'Africa. Ma il padre Pagi sostiene che solamente nell'anno 429 susseguente succedette la lor mossa; perciocchè Idacio [Idacius, in Chron. apud Sirmond.] nella Cronica nell'anno 2444 di Abramo, che comincia nel primo di ottobre del presente anno, lasciò scritto che Genserico re de' Vandali, abbandonata la Spagna, passò in Africa nel mese di maggio, il quale viene a cadere nell'anno susseguente. Anche sant'Isidoro [Isidorus, in Chron. Vandal.] attesta che Genserico nell'era 467 succedette a Gunderico re de' Vandali, e fece il passaggio nell'Africa. Quell'anno corrisponde al 429 dell'epoca volgare. Finalmente varie leggi si leggono di Valentiniano Augusto, indirizzate prima del maggio dell'anno susseguente a Celere proconsole dell'Africa, nelle quali non apparisce vestigio alcuno delle calamità dell'Africa. Ma può ben restar qualche dubbio intorno a questa cronologia, confessando il Pagi molti altri falli d'Idacio, o per colpa sua, o per difetto de' copisti. Nè le allegate leggi bastano a decidere questo punto, perciocchè da che furono entrati i Vandali, conquistarono sol poca parte dell'Africa. E siccome nella legge trentesima terza de Susceptoribus, data nell'anno 430, si parla delle provincie Proconsolare e Bisacena dell'Africa, senza che si dica parola della guerra dei Vandali, i quai pure lo stesso Pagi concede passati nell'Africa nel 429; così nulla si può dedurre dalle leggi date in esso anno 429 da Valentiniano. Comunque sia, mi fo io lecito di rammentar qui il funestissimo ingresso di que' Barbari nelle provincie africane, alle quali erano stati iniquamente invitati da Bonifacio [472] conte. Genserico re loro, per quanto abbiam da Procopio [Procop., de Bell. Vand., lib. 1, cap. 3.], fu principe di gran prodezza nell'armi, e di mirabile diligenza nelle sue azioni. E, secondochè scrive Giordano storico [Jordan., cap. 33, de Reb. Get.], era di statura mezzana, zoppo per una caduta dal suo cavallo, cupo nei suoi pensieri, di poche parole, sprezzatore della lussuria, inclinato all'ira, avido di conquiste, sollecito al maggior segno in muovere le sue genti, ed accorto per seminar dissensioni e promuover odii, dove gli tornava il conto. Signoreggiava costui insieme colla nazione nella Betica, ed era padron di Siviglia [Idacius, in Chronic.]. Nel mentre che egli si disponeva alla partenza verso l'Africa, intese che Ermigario Svevo metteva a sacco le vicine provincie, e senza perdere tempo mossosi contra di lui, il raggiunse nella Lusitania non lungi da Merida, dove uccise non pochi dei di lui seguaci, ed Ermigario stesso fuggendo si annegò nel fiume Ana. Dopo questa vittoria Genserico, che avea raunata gran quantità di navi, per lo stretto di Gibilterra traghettò la sua gente nell'Africa, e sulle prime s'impadronì della Mauritania. Era l'Africa, per attestato di Salviano [Salvian., lib. 7 de Gubern.], il più ricco paese che s'avesse l'imperio romano, perchè fin a questi tempi era stato esente dai malanni, che a cagion dei Barbari settentrionali aveano sofferto l'Italia, la Gallia e la Spagna. Ma non andò molto che divenne il teatro della povertà e delle miserie per l'ingresso de' Vandali. Nè solamente Genserico seco trasse i suoi nazionali, ma con esso lui s'unirono assaissimi Alani, Goti, ed altri di altre barbare nazioni, come racconta Possidio scrittore contemporaneo [Possid., in Vita sancti Augustini, cap. 28.], tutti isperanziti d'inestimabil bottino, di maniera che riuscì formidabile la sua armata, e a lui facile il far quei progressi che diremo. In quest'anno [473] Prospero [Prosper, in Chron.] e Cassiodoro [Cassiodorus, in Chronic.] scrivono che quella parte della Gallia ch'è vicina al Reno, dov'erano passati, e s'erano annidati i Franchi, fu colla strage di molti di loro ricuperata al romano imperio per la bravura d'Aezio. E Teodosio piissimo imperadore pubblicò in questo medesimo anno un insigne editto [L. 65, lib. 16, tit. 8, Codic. Theodos.] contra di tutti gli eretici, nominandoli ad uno ad uno. Ma per disgrazia della Chiesa cattolica Nestorio nello stesso tempo fu creato vescovo di Costantinopoli, e cominciò tosto a propalare le perverse opinioni sue.
Anno di | Cristo CDXXIX. Indiz. XII. |
Celestino papa 8. | |
Teodosio II imper. 28 e 22. | |
Valentiniano III imperad. 5. |
Consoli
Fiorenzo e Dionisio.
O sia che i Vandali passassero solamente nel maggio del presente anno in Africa, come con buone ragioni pretende il padre Pagi, oppure nel precedente, certo è che crebbero le calamità in quelle parti, e massimamente nelle due Mauritanie, sopra le quali si caricò sulle prime il loro furore. Possidio [Possid., in Vita S. Augustini.] è un buon testimonio delle immense crudeltà da loro commesse. Saccheggi, incendii, stragi dappertutto, senza perdonare nè a sesso, nè ad età, nè a persone religiose, nè ai sacri templi. Fa parimente Vittor Vitense [Vict. Vitensis, Praet. lib. 1, de Persec. Vandal.] una lagrimevol menzione de' tanti mali prodotti dalla barbarie di que' tempi in quelle floride provincie. Salviano [Salvian., de Gubern., lib. 7.] anch'egli, non già vescovo, ma prete di Marsilia, raccontando la terribile scena dell'irruzione de Vandali nell'Africa, riconosce in ciò i giusti giudizii di Dio per punire gli enormi peccati dei popoli [474] africani, inumani, impudici, dati all'ubbriachezza, alle frodi, alla perfidia, alla idolatria e ad ogni altro vizio, di maniera che meno malvagi erano i Barbari di que' tempi in lor paragone. La nazione gotica (dic'egli) è perfida, ma pudica. Gli Alani sono impudichi, ma men perfidi. I Franchi son bugiardi, ma amanti dell'ospitalità. I Sassoni fieri per la lor crudeltà, ma per la lor castità venerandi; perciocchè tutte queste nazioni hanno qualche male particolare, ma hanno eziandio qualche cosa di bene. Negli Africani non si sa trovar se non del male. Ora qui è da ascoltare Procopio, il quale vien dicendo [Procop., de Bell. Vandal., lib. 1, cap. 3.] che molti amici di Bonifacio in Roma, considerati i costumi di lui per l'addietro incorrotti, non sapeano nè capire nè credere ch'egli per cupidigia di regnare si fosse ribellato al suo sovrano. Ne parlarono a Placidia Augusta, e per ordine di lei passarono a Cartagine per discoprire il netto della cosa. Bonifacio fece lor vedere le lettere d'Aezio, persuaso dalle quali aveva pensato non a venire in Italia, ma a cercar di salvarsi comunque avesse potuto. Con queste notizie se ne tornarono i suoi amici a Ravenna, e il riferirono a Placidia, la quale rimase stupefatta a così impensato avviso; ma non pensò di farne risentimento nè vendetta contra di Aezio, perchè egli avea le armi in mano, era vittorioso, e l'imperio romano indebolito non potea far senza di un sì valoroso capitano. Altro dunque non fece, se non rivelare anch'essa agli amici suddetti di Bonifacio la trama ordita da Aezio, e pregarli che inducessero Bonifacio a ritornarsene sul buon cammino, e a non permettere che l'imperio romano fosse maltrattato e lacerato dai Barbari, impegnando con giuramento la sua parola di rimetterlo in sua grazia. Andarono essi, e tanto dissero e fecero, che Bonifacio si pentì delle risoluzioni già prese e ripigliò la fedeltà verso il suo legittimo [475] signore, ma troppo tardi, siccome vedremo. Se queste cose succedessero nel presente o nel susseguente anno non è ben chiaro. Due belle leggi fra l'altre di Valentiniano Augusto appartengono a quest'anno. Nella prima [L. digna vox, Cod. Justinian. de Legib.], indirizzata a Volusiano prefetto del pretorio dice: Essere un parlare conveniente alla maestà del regnante, allorchè professa d'essere anch'egli legato dalle leggi, e che dall'autorità del diritto dipende l'autorità principesca. Essere in fatti cosa più grande dell'imperio, il sottomettere il principato alle leggi. E perciò egli notifica a tutti col presente editto quel tanto che non vuole sia lecito neppure a sè stesso. Nell'altra legge [L. 68, lib. II, tit. 30 Cod. Theodos.], indirizzata a Celere proconsole dell'Africa, protesta che, salva la riverenza dovuta alla sua maestà, egli non isdegna di litigar coi privati nel medesimo foro, e di essere giudicato colle stesse leggi. Tali editti fecero e fan tuttavia sommo onore a Valentiniano; ma egli col tempo se ne dimenticò, e gli costò la vita. Sebbene tai leggi son da attribuire a qualche suo saggio ministro, e non già a lui, che era tuttavia di tenera età.
Anno di | Cristo CDXXX. Indizione XIII. |
Celestino papa 9. | |
Teodosio II imp. 29 e 23. | |
Valentiniano III imperad. 6. |
Consoli
Teodosio Augusto per la tredicesima volta e Valentiniano Augusto per la terza.
Dappoichè furono passati in Africa i Vandali, pare, secondo sant'Isidoro [Isidorus, in Chron. Svevor.], che gli Svevi sotto il re loro Ermerico, non avendo più ostacolo, s'impadronissero della Gallizia. Ma non l'ebbero tutta, e seguì ancora un accordo co' popoli di quella parte, che non si lasciò mettere il [476] giogo. Perciocchè scrive Idacio [Idacius, in Chronic.] sotto il presente anno, che essendo entrati gli Svevi nelle parti di mezzo della Gallizia, e mettendole a sacco, la plebe, che s'era ritirata nelle castella più forti, fece strage di una parte di essi, ed un'altra parte rimase prigioniera nelle lor mani, di modo che quei Barbari furono costretti a stabilir la pace con gli abitanti, sì se vollero riavere i lor prigioni. Racconta inoltre lo stesso Idacio che nelle Gallie venne fatto ad Aezio di trucidare un corpo di Goti, che ostilmente erano venuti fin presso ad Arles, con far prigione Arnolfo capo di essi. Aveano ben costoro pace coi Romani, ma non sapeano astenersi dal bottinare sopra i confinanti, quando se la vedeano bella. E colla medesima fortuna sconfisse i Giutunghi e Nori, ma senza dire in qual parte. Per quanto abbiam veduto altrove, e s'ha da Ammiano Marcellino [Ammian. Marcellin., lib. 17, c. 6.], erano i Giutunghi popoli dell'Alemagna. Desippo storico dice [Dexippus, in Eclog. Legat.] che i Giutunghi erano popoli della Scitia ossia Tartaria, forse perch'erano venuti di là. Certamente stavano non lungi dalla Rezia ai tempi di sant'Ambrosio, che ne parla in una sua lettera [Ambros., Epist. XXVIII, Class. I.]. I Nori si dee credere che fossero i popoli del Norico, che in questi tempi si ribellarono. E chiaramente lo attesta Apollinare Sidonio [Sidonius, in Panegyr. Aviti.] nel panegirico di Avito imperadore, con aggiugnere che Aezio in tali guerre nulla operò senza la compagnia di Avito, persona allora privata. E perciocchè Felice, di cui si è fatta menzione di sopra, generale delle armate di Valentiniano, fu innalzato alla dignità di patrizio, Aezio gli succedette nel generalato, per testimonianza di san Prospero [Prosper, in Chron.]. Già dicemmo pentito Bonifacio conte in Africa d'aver preso l'armi contra del suo sovrano, e di aver chiamato colà i Vandali dalla Spagna. A indurlo alla pace e [477] riconciliazione con Galla Placidia Augusta, probabilmente fu inviato in Africa Dario conte, di cui parla sant'Agostino in una sua lettera al medesimo [August., Epist. CCXXIX et CCXXX.]. E Dario stesso, in iscrivendo al santo vescovo, dice che se non ha estinto, ha almen differito i danni della guerra. Sappiamo inoltre che in questi tempi Segisvolto, generale di Valentiniano in essa Africa, mandò da Cartagine ad Ippona a sant'Agostino [August., Collat. cum maxim. num. 1.] Massimino vescovo ariano, per conferire con esso lui; il che ci fa argomentare che questo generale comandava tanto in Cartagine che in Ippona. E questo non si può intendere accaduto se non dopo la pace fatta con Bonifacio, che signoreggiava in quelle contrade, nè era stato vinto dall'armi dell'imperadore.
Tornato dunque in sè stesso Bonifacio e bramando di rimediare al male fatto, per attestato di Procopio [Procop., de Bell. Vand., lib. 1, cap. 3.], si studiò d'indurre i Vandali a ritornarsene in Ispagna, con adoperare quante preghiere potè, e promettendo loro magnifiche ricompense. Ma un pazzo gitta un sasso nel pozzo, e cento savii nol possono cavare. Si risero in fatti di lui que' Barbari, parendo loro di essere burlati; e in fine dalle dolci si venne alle brusche, con essere seguito un fatto d'armi, nel quale restò sconfitto l'infelice Bonifazio. Si ritirò egli in Ippone Regio ossia Ippona, oggidì Bona città marittima e fortissima della Numidia, dove era vescovo santo Agostino suo singolare amico [Possidius, Vita S. Augustin., cap. 28.]. Colà ancora si rifugiarono come in luogo sicuro molti altri vescovi. Perciò i Vandali col re loro Genserico verso il fine di maggio, o sul principio di giugno del presente anno, passarono all'assedio di quella città, che sostenne lunghissimo tempo gli assalti e il furore di que' Barbari. Ed appunto nel terzo mese di quell'assedio infermatosi il gran lume dell'Africa e della Chiesa di Dio, cioè il suddetto sant'Agostino, [478] diede fine ai suoi giorni nel dì 28 d'agosto di questo anno, e non già del precedente, come scrisse Marcellino conte, raccogliendosi la verità dell'anno da san Prospero [Prosper, in Chron. Notis, Histor. Pelagian., lib. 2, c. 9.] e dalle lettere di Capreolo vescovo di Cartagine al concilio efesino, e da Liberato diacono nel suo Breviario. Finirono ancora di vivere in quest'anno Aurelio insigne vescovo di Cartagine, ed Alipio vescovo di Tagaste, primate della Numidia, celebre amico di sant'Agostino. Il vedere quei santi prelati le incredibili calamità delle lor contrade, e senza rimedio, non v'ha dubbio che dovette influire nella lor malattia e morte; e sant'Agostino fra gli altri in quel frangente pregava Dio, che o liberasse la città dai Barbari o se altra era la sua sovrana volontà, desse fortezza ai suoi servi, per uniformarsi al divino volere, oppure che levasse lui da questo secolo. Un gran fuoco s'era intanto acceso in Oriente per l'eresia di Nestorio, empio vescovo di Costantinopoli. Cirillo santo e zelante vescovo alessandrino quegli fu che più degli altri imbracciò lo scudo in difesa della Chiesa e della sentenza cattolica. Ma tanto egli quanto Nestorio ricorsero alla Sede apostolica romana, maestra di tutte le chiese. Perciò Celestino, pontefice di gran pietà e valore, raunò un concilio di vescovi in Roma, ed in esso condannò gli errori di Nestorio. Sopra ciò è da vedere gli Annali Ecclesiastici del cardinal Baronio e la Critica del padre Pagi. Nulladimeno perchè Nestorio era pertinace, nè gli mancava gente che il favoriva, e fra gli altri si contava Teodoreto celebre vescovo e scrittore di que' tempi, il piissimo imperador Teodosio intimò un concilio universale da tenersi nell'anno susseguente in Efeso, per mettere fine a tali controversie ed orrori. In questo medesimo anno, secondochè abbiamo da Prospero [Prosper, in Chron.], da Marcellino conte [Marcellin. Comes, in Chronico.] e da [479] Idaci