Title: Scritti di Giuseppe Mazzini, Politica ed Economia, Vol. II
Author: Giuseppe Mazzini
Release date: July 5, 2009 [eBook #29325]
Language: Italian
Credits: Produced by Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online
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VOLUME SECONDO
PENSIERO ED AZIONE.
CASA EDITRICE SONZOGNO—MILANO
VIA PASQUIROLO, 14.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Milano.—STAB. GRAFICO MATARELLI. Via Passarella, 13-15.
Come abbiamo accennato nella prefazione al vol. I, riassumiamo qui la vita politica e i fatti salienti dell'apostolato di G. Mazzini dal 1853 al dì della sua morte, a complemento delle note autobiografiche nello stesso primo volume raccolte ed a commento degli scritti politici ed economici in questo contenuti.
De' concetti filosofici del Mazzini, de' suoi pensamenti intorno all'arte, non che della sua vita privata, parleremo nelle prefazioni ai volumi Filosofia, Letteratura, Epistolario, man mano che verranno pubblicati.
E se i brevi e rapidi cenni, che le proporzioni della presente edizione ci consentono, son troppo inferiori al soggetto e non danno che una pallida idea dell'azione indefessa, magnanima del grande Italiano, nella cui formula Dio e il Popolo è la fede dell'avvenire, nondimeno crediamo che possano bastare per mostrare ai lettori come quella fede si esplicò nel suo pensiero; come il Dio ch'egli portava in petto, talismano contro ogni debolezza, ogni vigliaccheria, nulla avesse di comune cogli Dei invocati a giustificazione d'ogni nequizia, d'ogni reazione. Come quel Dio inspirò e sollevò in alto colui che con lo sguardo fisso nel progresso dell'umanità ne interrogò la legge.
Chi desidera più particolareggiate e copiose notizie su questo importante periodo dell'apostolato mazziniano, consulti i proemi premessi dal Saffi agli ultimi nove volumi delle opere complete, e gli scritti contemporanei, fra i quali citiamo a titolo d'onore quelli della signora J. W. Mario e dell'Anelli, a cui abbiamo largamente attinto.
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Quando la Russia nel 1853 manifestò l'intenzione di risolvere la questione d'Oriente a modo suo, pigliandosi Costantinopoli, l'Inghilterra, risoluta di attraversarne i disegni, iniziò le trattative per un'alleanza con la Francia in difesa dell'Impero Turco, facendo conto eziandio sul concorso dell'Austria. E il degenere nipote di Napoleone Bonaparte di buon grado accoglieva quelle proposte, nella speranza di acquistare popolarità in Francia col prestigio della gloria militare, e predominio morale in Europa.
Il Mazzini vide quel disegno funesto alla causa della libertà, e specialmente all'Italia coll'accrescer potenza alla nemica Austria[1], e pubblicò varî scritti indirizzati alla nazione inglese, nei quali indicava l'onta d'un'alleanza con l'uomo del 2 dicembre, l'errore massimo di porre fede nell'Austria, e la necessità di non trasfondere sangue nuovo nelle vene di uno Stato che rappresentava il dispotismo, la ferocia, l'immobilità. Affermava essere invece degno della libera Inghilterra il fare appello, in nome del santo principio della nazionalità, alla Polonia, [6] alla Germania, all'Ungheria, all'Italia e a tutti gli elementi rumeni, serbi, bulgari, albanesi, per sottrarli all'influenza russa ed inalzare intorno all'Impero moscovita una barriera vivente di giovani nazioni associate[2].
Ma sebbene queste idee del Mazzini fossero divise dai più eminenti uomini di stato inglesi, come Gladstone, Stansfeld, Forster, Roebuck ed altri, pure quell'alleanza assolutamente torta e immorale[3] fu conchiusa in nome del sempre invocato equilibrio europeo. E di quell'alleanza, per opera del Cavour, entrava a far parte il Piemonte, che spediva in Crimea 15 000 valorosi soldati, mentre questi associati al resto dell'esercito ed a tutto il popolo[4] avrebbero potuto costringere l'Austria ad abbandonare il Po.
Il risultato di quella guerra, che costò tante nobili vite, è noto; e l'Europa ne risente ancora i tristi effetti[5]. Il Piemonte ottenne la soddisfazione di presentare al Congresso di Parigi il famoso memorandum cavouriano al quale gli scrittori di parte attribuirono tanta importanza. Ma l'effetto del prendere in tal guisa un posto umile e tollerato intorno al tappeto verde della diplomazia imperante, fu di legare da quel tempo in poi il Cavour alla vacillante e personale politica di Napoleone: nulla più faceva senza il beneplacito suo, pronto a soffocare qualunque tentativo d'iniziativa nazionale[6] quando piacesse all'imperatore da cui pendevano le sorti d'Italia[7]. E per il Cavour quelle sorti—è bene notarlo subito—si confinavano in un'ingrandimento dello Stato piemontese; chè all'Unità d'Italia egli non credette fino a quando gli eventi, da lui non preveduti, lo costrinsero a riconoscerla inevitabile[8].
E mentre il primo ministro piemontese limitava il suo lavoro a preparare con ajuti stranieri l'annessione della Lombardia e, tutt'al più, del Veneto, Mazzini invece trattava in Lugano col Garibaldi intorno ad una spedizione in Sicilia, dov'era già fondato, fino dal 1850, un Comitato nazionale col duplice intento di sradicare dall'Isola ogni idea d'autonomia e di costringere i governanti o ad abbandonare il meschino concetto cavouriano d'un Piemonte ingrandito, o a rovinare con esso.
Quella spedizione non ebbe luogo allora, bensì sei anni dopo, e gloriosamente, mercè appunto la lunga, costante, efficace preparazione degli animi alla santa causa dell'unità e indipendenza nazionale.
Intanto per le brighe di Napoleone e de' suoi devoti si divulgava nella penisola l'idea di dare a Luciano Murat il regno di Napoli; idea non favoreggiata solamente dal governo piemontese[9], ma per un momento anche da uomini come Saliceti, Lizabe Ruffoni, Montanelli, i quali, dopo la caduta della Repubblica romana esuli in Francia, troppo presto disperavano della causa dell'unità.
Contro quell'intendimento antiunitario ed antinazionale protestavano bensì i più insigni patrioti d'Italia; e Poerio, Spaventa, Mauro, Bianchi e Settembrini rispondevano dalle prigioni «preferir di morire in carcere piuttosto che stender le loro mani a quell'avventuriere straniero»[10]. Il Mazzini, appena ne ebbe sentore, scriveva fiere parole dirette specialmente all'esercito, e opportunamente ricordava il voto dato da Murat a favore della spedizione francese del 1849.
Di quel vano tentativo del Bonaparte, per spegnere ogni speranza di unità, non si parlò più: sparve come tanti altri disegni architettati dal nipote nella solitudine per emulare le gesta dello zio.
E sebbene in quel tempo—per opera specialmente di Giorgio Pallavicino, monarchico unitario, cittadino integro e forte, che per la dura scuola dell'esperienza dovette ricredersi e morire convertito al culto della fede repubblicana[11]—molti si fossero distaccati dal Mazzini per avvicinarsi al governo costituito, quegli si dette con tutta l'anima a tenere alta la bandiera dell'unità nazionale, osteggiata allora, come sempre, dalla monarchia che sognava in accordi federativi fra principi regnanti quattro o cinque Italie, come egli dice nelle stupende lettere a Daniele Manin e a Giorgio Pallavicino[12]. Nè contento di sole esortazioni, preparava, organizzava moti, fra i quali, degni di glorioso ricordo, la spedizione di Sapri e la sollevazione di Genova.
Come tutti i tentativi generosi, per l'una o l'altra circostanza non riusciti, sollevarono contro gl'iniziatori ed in ispecie contro l'anima dirigente, il Mazzini, un'ondata di recriminazioni, accuse e calunnie; ma non valsero a scuotere chi ben sapeva essere il bene premio di sacrificio e l'audace iniziativa indispensabile per scuotere e mantenere vive le inerti aspirazioni[13].
Fallita la sollevazione di Genova, non per colpa del popolo, che si mostrò, come sempre, pronto ed animoso, ma per colpa dei capi che dovevano dirigerla, il gran Proscritto cercato ovunque a morte dalla polizia sarda, ajutata da cagnotti còrsi e francesi[14], potè a stento mettersi in salvo. Fu bensì con altri patrioti condannato in contumacia alla pena di morte; ricompensa decretata dai giudici della monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele, non diversa da quella venti anni prima assegnatagli dai giudici del padre Carlo Alberto.
Tornò a Londra e riprese con lo stesso ardore il suo lavoro di cospirazione ed organizzazione per muovere le popolazioni centrali e meridionali all'azione unitaria, protestando in pari tempo, in nome della dignità nazionale, contro la politica governativa che spingeva il Piemonte ad allearsi con Napoleone III, fra tutti i regnanti il più pericoloso ed abjetto. E l'uomo del 2 dicembre, spinto agli estremi, impose al ministero di chiedere al governo inglese l'estradizione del Mazzini, del Ledru Rollin, del Kossuth e di Simon Bernard, sotto lo specioso pretesto che fossero complici nell'attentato di Felice Orsini.
L'Inghilterra, gelosa delle sue tradizioni di libertà, protestò sdegnosa, e lord Palmerston, che aveva presentato un progetto di legge per ottenere la facoltà di limitare quelle libertà ed applicare lo sfratto quando si trattava di sudditi esteri, dovette lasciare il potere. Anche il Belgio e la Svizzera resistettero alle pretese imperiali: soltanto il conte di Cavour si piegò, per compiacere il futuro alleato, a proporre e a fare approvare alcune disposizioni limitanti la libertà della stampa e ad imaginare, coll'ajuto delle compiacenti autorità di pubblica sicurezza, un complotto contro la vita sua e quella di Vittorio Emanuele[15]. All'ingiustissima accusa il Mazzini rispose da par suo con la lettera al Cavour, riportata in questo volume, nella quale rampogna altresì i meschini concetti, le arti subdole di un governo, che non aveva fiducia nel popolo, e tutto aspettava dall'ajuto straniero.
Premio a tanta condiscendenza fu il triste patto di Plombières.
Appena il Mazzini ne ebbe notizia, fieramente e italianamente scrisse contro; perchè mentre confidava, e non a torto, che l'Italia avrebbe potuto far da sè, temeva le mire interessate dell'infido alleato; e il 15 novembre 1858, quasi vaticinando Villafranca, scriveva:
«Il re, circondato, assediato, tormentato dalle mille influenze, che le tradizioni monarchiche, la diplomazia, la paura d'inimicarsi altri governi, gli stenderanno intorno, porgerà orecchio alle prime proposte di pace—pace all'Adige o a Campoformio non monta—che gli assicurino un ingrandimento territoriale e un addentellato a più larga conquista nell'avvenire»[16].
Molti esuli del partito d'azione avevano pubblicamente dichiarato che se la guerra fosse stata iniziata e condotta da Napoleone, non vi avrebbero preso parte; ma quando videro muover prima l'Austria e gli Stati d'Italia insorgere in nome della libertà, abbandonarono tosto il primo proposito, chè in cima ai loro pensieri tenevano quello dell'unità della patria. «E Giuseppe Mazzini diè mano—come uomo di stato nel più alto senso della parola, ed esperto misuratore dei rapporti possibili fra il suo Ideale e la realtà—a promuovere, con ogni poter suo, nell'elemento italiano del moto, caratteri recisamente nazionali ed unitarî»[17].
Giunto in Toscana, rincorò i patrioti, che erano indignati e stupiti per l'inattesa tregua di Villafranca, con la singolare efficacia della sua parola, e formulò un nuovo piano d'insurrezione in questo semplice motto: al centro mirando al sud; invasione cioè dell'Umbria e dello Stato Romano per muovere quindi verso il regno delle Due Sicilie. E sebbene egli e gli altri suoi compagni d'azione avessero lealmente dichiarato di tacer di repubblica se la monarchia piemontese si fosse dichiarata alla sua volta unitaria e si fosse attivamente accinta all'opera, furono, ciò non ostante, cercati, perseguitati dalla polizia come traditori e peggio. Al Saffi, giunto a Torino, fu intimato di ripassare entro ventiquattr'ore la frontiera. Sicchè alcuni si affrettarono a riprendere la via dell'esilio, altri si nascosero, mentre altri ancora, o meno cauti o più fidenti, venivano chiusi in carcere[18].
Indignato il Mazzini dello sleale ed iniquo trattamento, da Firenze, ove rimase nascosto per circa tre mesi, in casa Dolfi, scrisse al re, [9] cui egli giudicava migliore de' suoi ministri, la nota lettera qui riportata.
Al pari di quella indirizzata a Pio IX, lo scritto produsse una profonda impressione e fu argomento di chiose ed interpretazioni le più erronee. Come il Mazzini si rivolse al papa, quando questi aveva in mano l'iniziativa, per mostrare al popolo come dal successor di san Pietro non v'era da aspettarsi opera di vera libertà e rigenerazione, così, a sua volta, quando la sorte si volse propizia al re, volle che la lezione si ripetesse, sapendo quanto eran discosti gl'interessi dinastici da quelli del popolo. Trattò con Vittorio Emanuele per mostrare, colla evidenza del fatto, che ogni speranza di generosa ardita iniziativa si infrangeva dinanzi alle preoccupazioni, ai timori, alle tradizioni della politica dinastica.
Qui giova riprodurre, dalla lettera accennata, il brano seguente:
«L'unità è voto e palpito di tutta Italia. Una patria, una bandiera nazionale, un solo patto, un seggio fra le Nazioni d'Europa, Roma a metropoli: è questo il simbolo d'ogni italiano. Voi parlaste d'indipendenza. L'Italia si scosse e vi diede 50.000 volontarî... Ma era la metà del problema. Parlatele di libertà e d'unità: essa ve ne darà 500.000... Ma voi non siete più vostro. Fatto, a Villafranca, vassallo della Francia imperiale, v'è forza chiedere, per le vostre risposte all'Italia, inspirazioni a Parigi. Sire! sire! in nome dell'onore, in nome dell'orgoglio italiano, rompete l'esoso patto! Non temete che la storia dica di voi: ei fece traffico del credulo entusiasmo degl'Italiani per impinguare i proprî dominî?... I padri nostri assumevano la dittatura per salvare la Patria dalla minaccia dello straniero. Abbiatela, purchè siate liberatore. Dimenticate per poco il re, per non essere che il primo cittadino, il primo apostolo armato della Nazione. Siate grande come l'intento che vi ho posto davanti, sublime come il dovere, audace come la fede. Vogliate e ditelo. Avrete tutti, e noi primi con voi.»
Ma fra tutti gli scritti pubblicati dal Mazzini con l'animo amareggiato dalla triste pace di Villafranca, bellissimo per elevatezza di concetto, per nobiltà di forma, per una ineffabile malinconia che vi spira o quello Ai giovani, la cui lettura ai giovani d'Italia vivamente raccomandiamo, chè fra l'immensa congerie dei libri pubblicati in quest'ultima metà del secolo, raramente troveranno altre pagine capaci come quelle di elevar l'animo a nobili sensi.
Sulla fine di quell'anno il Mazzini tornò in Inghilterra, «ma non cessò dal lavoro per le delusioni sofferte, inculcando con lettere ai patrioti dell'interno e con pubblici scritti al Paese ed al re il dovere comune, protestando contro la piega servile, che subordinava il diritto, l'indipendenza e la dignità dell'Italia alla politica del secondo Impero, e ponendo in rilievo le condizioni dell'opinione europea, favorevole ad una condotta indipendente e civile da parte degli Italiani. Voci al deserto! Pur nondimeno perseverava: e, ne' primi mesi del 1860, mentre, ripresa la pubblicazione del periodico Pensiero e Azione, insisteva, scrivendo, sul da farsi, s'adoprava nello stesso tempo ad apprestare elementi e mezzi di nuovi moti a primavera, dirigendo le sue mire alla Sicilia... Al quale intento cooperarono, arditamente attivi, Rosalino Pilo, Francesco Crispi[19], La Masa, Corao ed altri [10] patrioti siciliani, devoti alla Patria, visitando segretamente, a rischio del capo, la serva terra nativa, ordinandovi le prime bande, e dirigendo il moto che determinò la spedizione di Marsala»[20].
Il 5 maggio il Garibaldi, fin allora raggirato dalle arti della diplomazia sarda[21], ruppe gl'indugî, salpando da Quarto con la prode schiera dei Mille, e il 27 entrava trionfante in Palermo, nella nativa città di Rosalino Pilo, sei giorni dopo che quell'eroe era caduto, colpito in fronte da una palla borbonica.
Appena fu liberata la Sicilia, il Mazzini, insieme col Bertani ed altri, diè mano a preparare, secondo il suo antico concetto, mezzi e uomini per una spedizione che, attraverso l'Umbria e lo Stato Romano, si ricongiungesse al Garibaldi in Napoli; e fu tosto messa insieme una brigata di duemila volontarî della quale ebbe il comando G. Nicotera. Ma inaspettatamente dal Governo di Piemonte—che temeva dei volontarî e che era geloso e sospettoso del prestigio acquistato dal Garibaldi[22] —venne ordine d'impedire alla brigata di Castelpucci l'invasione dell'Umbria e dello Stato Pontificio. Il Nicotera, ad evitare una guerra civile, ubbidì, pur fieramente protestando contro lo sleale ed inatteso divieto e dichiarando—gli eventi non giustificarono la promessa—che non avrebbe più combattuto sott'altra bandiera, all'infuori di quella repubblicana.
L'ingresso dell'eroico duce in Napoli persuadeva finalmente il Cavour che l'unità d'Italia era ormai inevitabile, e che perciò la Monarchia doveva fare qualche cosa per controbilanciare l'influenza di Garibaldi, e per riacquistare la forza morale necessaria a signoreggiare la rivoluzione[23]. Ed allora fu deliberata l'occupazione delle Marche e dell'Umbria con l'esercito regio guidato dal Cialdini, e nello stesso tempo vennero mandati a Napoli abili faccendieri i quali, impazienti di ottenere la dedizione immediata di Napoli e temendo che ad ottenere ciò fosse d'ostacolo la presenza del Mazzini, non rifuggirono dall'eccitare contro di lui i bassi fondi della città, che gli gridarono morte sotto le finestre del suo alloggio. Alla lettera del prodittatore Pallavicino—cuore generoso raggirato nel comune inganno—che lo esortava a partire da Napoli, facendo appello al suo patriotismo, egli, rifiutando, rispose con l'anima piena d'amarezza:
«Il più grande dei sacrificî ch'io potessi mai compiere, l'ho compiuto quando, interrompendo per amore all'unità ed alla concordia civile l'apostolato della mia fede, dichiarai ch'io accettava, non per [11] riverenza a ministri o monarchici, ma alla maggioranza—illusa o no poco monta—del popolo italiano, la monarchia, presto a cooperare con essa, purchè fosse fondatrice dell'unità.»
E nello scritto intitolato Nè apostati nè ribelli, non solo ribatte la calunnia che i repubblicani abbiano cercato di attraversare i disegni del Garibaldi, ma rivendica al partito d'insurrezione tutte le iniziative d'unità nazionale.
Consegnato a Vittorio Emanuele il regno delle Due Sicilie e ottenutone in compenso la più nera ingratitudine[24], il Garibaldi salpò povero e solo da Napoli per Caprera, dopo aver fissato col Mazzini di fondare il giornale quotidiano l'Italia del Popolo e di promuovere una sottoscrizione a favore di Venezia e di Roma.
Ed anche il gran Genovese partì da Napoli con l'anima in pianto, e riprese la via dell'esilio; ma, sempre tenace ne' suoi generosi propositi, tutto si dette a ordinare il lavoro che doveva redimer Roma e Venezia; ed a vantaggio delle due oppresse provincie usò d'ogni onesto accorgimento, non escluso quello dell'azione parlamentare; tanto che il Saffi ed altri di parte repubblicana, da lui non dissuasi, si risolsero d'accettare il mandato di rappresentanti della Nazione in Parlamento Egli però non ci volle entrare mai, sebbene per tre volte consecutive eletto, sui primi del '66, dai cittadini di Messina con plauso e commozione del non immemore popolo d'Italia. Il quale avvenimento giova ricordare ad onore dell'eroica città, che protestava con quel nome contro la subdola e servile politica d'allora, ed a severa rampogna verso la maggioranza parlamentare, che per ben due volte annullò quella elezione, invocando, senza rossore, la sentenza della Corte d'appello di Genova del 20 ottobre 1858.
Il programma del Mazzini per la redenzione del Veneto e dello Stato Romano era riassunto in queste parole: A Roma per la via di Venezia; chè egli per l'azione nelle provincie venete contro l'Austria faceva molto assegnamento sull'Ungheria, sulla Polonia e sulle altre popolazioni slave gementi tutte e frementi sotto il bastone austriaco[25]. E mentre con siffatto intendimento attendeva a preparare armi e danaro, cercava anche di mantener viva la protesta morale contro la occupazione francese in Roma; nè solo in Italia, ma in Inghilterra e nella Francia stessa. D'onde le Petizioni—proposte e scritte da lui medesimo—al Parlamento Italiano, alla Camera dei Comuni inglesi, e la Rimostranza a Luigi Napoleone[26].
Il 28 giugno dell'anno 1862 giunse improvvisa la notizia da Palermo che il Garibaldi, accompagnato dal figlio Menotti, dal Guastalla, Missori ed altri, era colà sbarcato, accolto con grande onore e con grande esultanza [12] del popolo e che, avendo fatto suo il grido uscito dalla folla plaudente «O Roma o morte» preparava una spedizione contro lo Stato Pontificio, fidando ancora nel tacito assenso del governo del re non ostante il recentissimo tradimento di Sarnico[27].
Appena ebbe di ciò avviso il Mazzini, benchè dissentisse dal Garibaldi circa il programma militare, dichiarò che non era più tempo di discussioni, ma d'ajutare quel moto con tutte le forze! E lasciata Londra, s'avviò in Italia. Ma era appena giunto a Lugano, che ebbe notizia del luttuoso e codardo fratricidio d'Aspromonte, e, pochi giorni dopo, dell'efferato assassinio di Fantina[28].
Era colmo e traboccava il vaso delle nequizie governative: con gente capace di simili azioni nè accordo nè tolleranza potevano più a lungo perdurare, e G. Mazzini nella sua lealtà denunciò a' governanti ed al popolo la tregua fin allora subita con la seguente dichiarazione:
«La palla di moschetto regio che feriva Garibaldi ha lacerato l'ultima linea del patto che s'era stretto, or sono due anni, tra i repubblicani e la monarchia... Noi ci separiamo oggi per sempre da una monarchia che combatte in Sarnico per l'Austria, in Aspromonte pel papa».
A questo breve ma triste periodo della nostra storia, pieno di forti propositi, di generosi ardimenti da parte del popolo; di titubanze, di raggiri, di colpe da parte del Governo, si riferiscono gli scritti compresi nel presente volume: Una dichiarazione, I Monarchici e noi, la Lettera a Campanella e l'altra agli Editori del Dovere.
Quando poi il Governo firmò la indegna Convenzione di settembre, con la quale rinunziava a Roma, il Mazzini protestò contro quell'atto con diversi scritti: La Convenzione, La Convenzione e Torino, Ai giovani delle Romagne e delle Marche, Roma è dell'Italia, Ai miei fratelli delle Romagne, dal primo dei quali togliamo il brano seguente, profezia di ciò che avvenne tre anni dopo alla gloriosa e sventurata spedizione nell'Agro Romano:
«La Convenzione, se il Governo mantiene i patti, decreta Roma abbandonata fra due anni a una lotta feroce senza pro: l'Italia legata ad assistervi immobile: Aspromonte in permanenza: decreta—se il Governo non li mantiene—il disonore della Nazione; la guerra della Francia per violazioni di trattati liberamente sanciti; l'incredulità dell'Europa in ogni promessa dell'Italia.»
Il Mazzini aveva sperato che i deputati dell'estrema sinistra, indignati d'un atto che era violazione della legge fondamentale e dell'onore della Nazione, si sarebbero ritirati come Trasea da un Senato irreparabilmente servile e corrotto; ma fu disingannato; chè anzi il loro capo, Francesco Crispi, improvvisamente convertito, inalberava, in una lettera al Mazzini, una nuova bandiera col motto: la monarchia ci unisce, la repubblica ci divide. Il Mazzini a sua volta rispose con la stupenda lettera, inserita anche in questo volume, la quale segna la completa rottura fra il partito mazziniano e la maggior parte della sinistra parlamentare.
«Nel 1866 la rottura dell'alleanza austro-prussiana e la guerra germanica offersero alla nazione ed alla monarchia la grande, l'invocata [13] opportunità per l'acquisto del Veneto.» Sotto diverso reggimento, fidandosi nella iniziativa e nelle forze popolari, non trattenuta da tutela imperiale, «l'Italia avrebbe potuto coronarsi di gloria, vincendo, con armi sue, per terra e per mare, e integrando i suoi nazionali confini»[29].
Pur troppo così non fu. L'esito di quella guerra, che ci diede per le mani di Napoleone il Veneto, s'associa ai ricordi più tristi ed umilianti per il paese: Lissa e Custoza segnano la condanna inesorabile di chi non seppe meglio usare dell'italica forza e valore. La storia dovrà ripetere la desolante esclamazione di Nino Bixio: Quello che io so è che noi siamo disonorati!
Il Mazzini, che era venuto in Italia a spingere i suoi fra i volontarî di Garibaldi e a prestare tutta l'opera sua per rinfocolare i santi entusiasmi; dopo gli inesplicabili disastri, l'armistizio, l'ordine al Garibaldi di ritirarsi dalle forti posizioni conquistate nel Trentino, nulla più potendo, ritornava in Lugano. E quando ebbe notizia d'un'amnistia a lui accordata, la rifiutò sdegnosamente dicendo che non gli dava il core di rivedere l'Italia il giorno stesso in cui essa accettava tranquilla il disonore e la colpa.
Ottenuto il Veneto nel modo inglorioso dianzi accennato, l'objetto del pensiero nazionale si fissava nella liberazione di Roma; ma mentre da un lato il partito d'azione, capitanato dal Mazzini e dal Garibaldi, si rivolgeva al patriotismo delle popolazioni tuttora soggette al dominio teocratico, dall'altro lato il partito del Governo, sempre soggetto alle istruzioni dell'Eliseo, inculcava doversi rinunziare ad ogni tentativo armato ed aspettare Roma dalla maturità dei tempi e dalla benevolenza del Bonaparte[30].
Non a questo fatalismo inerte si rassegnavano i conscienti palpiti popolari, ed appena il Garibaldi ebbe pronunziato di nuovo il grido: Andiamo a Roma! la gioventù italiana rispose balda e fidente: Siamo con voi! E il Governo, coerente alla propria politica, ai patti che aveva escogitato nella sua alta sapienza diplomatica, volontariamente si accinse ad inseguire ed arrestare i giovani generosi, che accorrevano a far sacrifizio della propria vita per la redenzione di Roma e ad assistere coll'arme al piede, fida sentinella del Bonaparte, all'ecatombe di Mentana.
Come risulta limpidamente dal proemio del Saffi[31], in quella sventurata campagna del '67, i seguaci del Mazzini furono, per suo consiglio, fra i primi a seguire il Garibaldi; e questo giova notarlo, perchè lo stesso Garibaldi, ingannato da maligni insinuatori, credette allora e per molto tempo appresso che dell'infelice esito di quella spedizione fossero responsabili i mazziniani.
Vero è che il Mazzini avrebbe voluto vedere il popolo d'Italia entrare in Roma a riprendere e continuare le gloriose tradizioni del '49, come dice anche in un suo scritto Ai Romani[32], pubblicato fino dal 1866; ma appunto per questo egli aveva bisogno di spingere ad arrolarsi nell'esercito garibaldino gli uomini del suo partito, i quali, dopo la vittoria, avrebbero potuto risollevare l'antica bandiera repubblicana[33].
E a buona ragione premeva sventolare quella bandiera gloriosa, perchè la monarchia s'era macchiata della maggior colpa, rinunziando a Roma; ond'egli scriveva: «Ho esaurito con la monarchia tutte le prove, tutte le concessioni, tutta l'obbedienza possibile. Dispero d'essa, non dispero dell'Italia.» Pur ritenendo il momento non propizio, la bandiera errata, secondò nondimeno con ogni forza a sua disposizione la iniziativa del Garibaldi; la secondò pur prevedendone l'esito, perchè in quella occasione, come in ogni altra, tutto subordinò e sacrificò alla costituzione della patria unità.
Ben pochi sono i nomi dei grandi pensatori ed apostoli la cui fede seppe trionfare di una lunga vita nella quale costanti delusioni, persecuzioni e calunnie non vennero temperate da periodi di soddisfazioni e di successo. Fra quei pochissimi si scriverà il nome di G. Mazzini; di lui che ebbe sempre la terra promessa, a cui avea condotto il popolo italiano, dinanzi agli occhi, ed esule e ramingo ne fu sempre proscritto. Irradiato da presciente fede, tetragono al dolore, il forte animo non vacillò, nè per un istante cedette alle patrie vergogne o alla ingratitudine ed alle false accuse che ebbe sempre in compenso della magnanima sua opera; non vacillò nemmeno quando ai dolori morali, per la fiacchezza del corpo logoro da tanti patimenti, s'aggiunsero quelli fisici, che lo trassero dopo lunghe sofferenze, stoicamente sopportate, al sepolcro.
D'ogni breve periodo di sollievo profittava per continuare il suo già quarantenne apostolato, e così, per esempio, scriveva agli amici di Bologna: «Miglioro. E in verità il nuovo guanto di sfida che il papato e lo straniero, protettore del papato, ci mandano coi cadaveri di Monti e Tognetti, l'ira italiana ed il terrore di scendere nel sepolcro coll'imagine della mia patria disonorata, inchiodata nell'anima, operano, credo, a guisa di tonici sul corpo infiacchito.»
«Ma in quel tempo, narra il Saffi[34], i nuclei dell'alleanza repubblicana stendevano, intrecciavano le loro fila di regione in regione, avevano aderenti nella bassa ufficialità dell'esercito, patrocinatori segreti nell'opposizione parlamentare; e i loro atti di propaganda correvano per ogni terra d'Italia, erano diffusi nelle officine, penetravano nelle caserme.»
E il Governo impaurito di quella propaganda, ferocemente insaniva, ordinando sequestri, sciogliendo associazioni e cacciando in prigione i migliori patrioti; nè di ciò pago, faceva spargere calunnie di accoltellatori assoldati dal partito mazziniano a dare di piglio negli averi e nel sangue dei cittadini; e costringeva, d'accordo col Bonaparte, il Governo federale a cacciare gli esuli raccolti nel Canton Ticino[35].
Alla volgare calunnia rispose il Mazzini nobilmente, serenamente, come chi si sente l'animo integro, con lo scritto Ai nemici, al quale mandiamo il lettore[36].
Furono quelli dal '67 al '70 tristissimi anni, chiamati con ragione dal Garibaldi tempi borgiani, i quali forse soltanto nei presenti trovano riscontro; per la qual cosa mai come allora suonò santa e potente al cuore della patria la voce del Mazzini, quasi voce della Nemesi italiana, che in mezzo alle corruzioni, alle viltà, agli arbitrî, allo sperpero del pubblico denaro si levasse vendicatrice dell'onor nazionale[37].
Nello scritto L'iniziativa, pubblicato nel maggio 1870[38], il Mazzini riassume con un'abile sintesi le misere condizioni politiche, morali ed economiche nelle quali dibattevasi la Patria per opera di un Governo senza fede e senza ideali, e prova alla stregua dei fatti che dal popolo solo può sorgere una vera iniziativa nazionale.
«Fra quelle congiunture, fermo nell'idea che l'Italia dovesse procedere e predisporre, anzichè seguire, le combinazioni del tempo, e impaziente d'inalzare la bandiera, che sola poteva, per suo avviso, rigenerarne la vita, cedette ad ingannevoli proposte d'azione in Sicilia; e perchè il moto porgesse malleveria non dubbia di tendere, non a separazione, ma ad unità, deliberò di recarsi a capitanarlo. Nè valsero a rimuoverlo dal suo proposito gli avvertimenti degli amici, convinti della vanità del tentativo. Mosse pertanto, nel luglio del 1870, alla volta dell'Isola, com'uomo che si consacra all'ultimo sacrificio per la sua fede. Ne seguì, come tutti sanno, la sua cattura sulla nave che l'avea condotto nelle acque di Palermo e la reclusione a Gaeta»[39].
Seppe in carcere della fucilazione del Barsanti e ne provò un profondo dolore, una nuova scossa quel corpo affranto, il quale ormai reggeva a tante lotte per la sola vigoria dello spirito, che ebbe in lui una perenne giovinezza[40]; e ne sono mirabile testimonianza gli ultimi scritti dettati poco prima di morire[41].
Seppe pure in carcere della presa di Roma; ma tale avvenimento non poteva dargli allegrezza, chè nella Città Eterna, non il popolo entrava altero e cosciente de' proprî destini, ad iniziarvi la terza civiltà; ma la monarchia, quasi riluttante e supplichevole in atto, a continuarvi la pedestre politica d'ipocrisie e di volgari espedienti[42]; e nello scritto Ai miei fratelli repubblicani dopo la prigionia di Gaeta[43] raccomandò in Roma e per Roma l'apostolato dell'Alleanza repubblicana.
Uscito di carcere per atto d'amnistia, correva a Staglieno a sfogare la suprema angoscia dell'animo invitto sul sepolcro materno; quindi, mesto e sdegnoso di dover la propria libertà ad un reale decreto, riprendeva ancora una volta la triste via dell'esilio.
«Cessato l'arringo dell'azione armata—continua il Saffi—dinanzi all'unità materialmente compiuta, sentì più che mai profondo il bisogno di volgere quell'avanzo di vita, che la natura fosse per concedergli, all'arringo dell'azione pacifica, cercando preparare nella mente e nella virtù della nuova generazione, l'unità morale della patria risorta. Al quale effetto egli volse l'animo a due principali intenti: l'ordinamento cioè delle società operaje d'Italia a nazionale fratellanza, e la fondazione, nella capitale, d'un periodico: La Roma del Popolo, inteso a riassumere, sotto forma d'apostolato civile, la tradizione della scuola repubblicana unitaria, discesa dalla Giovine Italia, interpretandone al Paese le dottrine religiose, politiche o sociali»[44].
Sono frequenti in quel tempo gli scritti di G. Mazzini che apparvero [16] nella Roma del Popolo—come può vedersi in fine del presente volume—indirizzati ad associazioni operaje, alle quali specialmente e continuamente raccomanda di non separare la questione economica da quella politica, e di stare in guardia contro esotiche dottrine tendenti o ad abolire ogni legittimo principio d'autorità o a distruggere nella patria, nella famiglia, nella proprietà individuale i cardini su cui si svolge oggi ogni progresso di civile consorzio.
«Nè mai forse come in quell'estremo periodo del viver suo—continua il Saffi—la parola del Grande Italiano penetrò così addentro nella mente, non che dei suoi discepoli, ma di coloro stessi tra i suoi compagni di Patria, che avevano per lo innanzi ignorato o frainteso i veri intendimenti delle sue dottrine.»
Ed a queste dottrine facendo, com'era suo costume, seguire l'applicazione pratica, fece sì che in Roma convenissero i rappresentanti dei varî sodalizî operaî della Penisola a stringere un patto di fratellanza, che doveva organizzare tutto il ceto artigiano in un gran corpo od ordine nazionale[45]. In quel Congresso fu proclamato mezzo efficace all'emancipazione economica delle classi operaje, la costituzione delle cooperative di consumo e di produzione, le quali, da quel tempo in poi, crebbero continuamente di numero e d'importanza, tanto nei piccoli come nei vasti centri, avviamento lento ma sicuro verso quell'ultimo assetto sociale da lui vagheggiato: la riunione, cioè, del capitale e del lavoro nelle stesse mani[46].
Ma questa propaganda morale e sociale, a cui consacrò le rimanenti forze dell'anima sua, gli fruttò, come di consueto, accuse, calunnie, amarezze infinite, e, come di consueto, ei continuò impavido nella lotta: e con lo scritto intitolato Il Comune e l'Assemblea[47] pubblicato il 3 maggio 1871 nella Roma del Popolo, egli respinse il consiglio di coloro che lo esortavano a tacere di questione religiosa e sociale per non suscitare discordie nel partito. Lo respinse perchè, oltre ad essere il Mazzini sinceramente e profondamente convinto, giudicava che tacendo o mentendo, non si ottengono mai unioni efficaci e durevoli[48].
«Al cadere dell'anno 1870—scrive il Saffi[49]—quasi presago della sua fine, volle rivedere i suoi amici inglesi a Londra, serbando l'antica consuetudine di celebrare con essi a domestico ritrovo l'ora del passaggio dell'anno che muore all'anno che nasce. Mosse nel cuore dell'inverno da Lugano, in compagnia del suo giovane amico Giuseppe Nathan, passando il Gottardo, mal riparato dal freddo e dalla neve; onde gli si aggravò la tosse, che da tempo lo affaticava. Fatta breve dimora in Londra, si ricondusse nei primi giorni del '71 a Pisa, per dar mano più da vicino alla collaborazione della Roma del Popolo; poi di nuovo a Lugano nell'autunno di quell'anno, e vi si trattenne fino al febbrajo. Ma in principio di quel mese, non curando la rigida stagione, volle tornare a Pisa; e quel viaggio, molestato com'era dalla bronchite, l'uccise.»
dicembre 1849.
Il moto italiano assumeva più sempre di giorno in giorno il carattere nazionale che ne costituisce l'intima vita. Il grido Viva l'Italia suonava nell'estrema Sicilia; fremeva in ogni manifestazione di scontento locale: conchiudeva, come il delenda Carthago di Catone, ogni discorso politico. Altrove, le moltitudini s'agitavano, insofferenti di miseria o d'ineguaglianza, in cerca d'un nuovo assetto di cose, sociale o politico: in Italia, vanto unico e speranza potente di grandi cose future, sorgevano o anelavano sorgere per una idea: cercavan la patria, guardavano all'Alpi. La libertà, fine agli altri popoli, era mezzo per noi. Non che gl'Italiani, com'altri s'illuse a crederlo o finse, fossero noncuranti dei loro diritti o imbevuti di credenze monarchiche—tranne in qualche angolo di Napoli o di Torino, non credo sia popolo che per tradizioni, coscienza d'eguaglianza civile, colpe di principi e istinti di missione futura, sia democratico, quindi repubblicano più del popolo nostro—ma sentivano troppo altamente di sè per non sapere che l'Italia fatta nazione sarebbe libera, e avrebbero sagrificato per un tempo la libertà a qualunque, papa, principe o peggio, avesse voluto guidarli e farli nazione. Ostacolo, non il più potente, ma il più dichiarato e visibile, all'affratellamento di quanti popolano questa sacra terra d'Italia, era l'Austria. E guerra all'Austria invocavano innanzi tutto, e quel tanto di libertà ch'essi andavano strappando ai loro padroni giovava quasi esclusivamente a far più forte e unanime e solenne quel grido. Fin dall'aprile 1846, l'indirizzo ai legati pontificî raccolti in Forlì, dopo aver compendiato le giuste lagnanze delle provincie, conchiudeva che le questioni col malgoverno locale erano, per gli uomini delle Romagne, secondarie, che principale era la questione italiana, e che il più grave peccato della corte papale era quello d'essere ligia dell'Austria. In Ancona, nell'agosto 1846, l'annunzio dell'amnistia pontificia raccoglieva le moltitudini sotto le finestre dell'agente austriaco e la gioja si traduceva naturalmente nel grido: Via gli stranieri! In Genova, quando nel [20] novembre 1847 il re si recava a visitare quella città e quaranta mila persone gli passavano, plaudenti ad una speranza, davanti, la bandiera strappata nel 1746 da Genova insorta agli Austriaci s'inalzava, tra quelle migliaja, programma eloquente dei loro voti. Così per ogni dove e da tutti. Metternich intendeva le tendenze nazionali del moto: Sotto la bandiera delle riforme amministrative—ei diceva al conte Dietrichstein in un dispaccio del 2 agosto 1847—i faziosi... cercano consumare un'opera, che non potrebbe rimanersi circoscritta nei limiti dello Stato della Chiesa, nè in quelli d'alcuno degli Stati che nel loro insieme compongono la penisola italiana. Le sètte tendono a confondere questi Stati in un solo corpo politico o per lo meno in una confederazione di Stati posta sotto la condotta d'un potere centrale supremo. Ed era vero: se non che tutta Italia era sètta.
Era un momento sublime: il fremito che annunziava il levarsi di una nazione, il tocco dell'ora che dovea porre nel mondo di Dio una nuova vita collettiva, un apostolato di ventisei milioni d'uomini, oggi muti, che avrebbero parlato alle nazioni sorelle la parola di pace, di fratellanza e di verità. Se nell'anima di quei che reggevano fosse stata una sola favilla di vita italiana, avrebbero, commossi, dimenticato dinastia, corona, potere, per farsi primi soldati della santa crociata, e detto a sè stessi: Più vale un'ora di comunione in un grande pensiero con un popolo che risorge, che non la solitudine d'un trono minacciato dagli uni e sprezzato dagli altri per tutta una esistenza. Ma per decreto di provvidenza che vuol sostituire l'èra dei popoli a quella dei re, i principi non sono oggimai nè possono esser da tanto; e si giovarono di quella generosa ma incauta tendenza all'oblio e al sagrificio della libertà, al desiderio d'indipendenza che poc'anzi accennammo, per tradir l'una e l'altra e ricacciarci, deludendo il più bel voto di popolo che mai si fosse, dov'oggi siamo.
Era sorta tra la fucilazione dei fratelli Bandiera e la morte di Gregorio XVI, una gente, educata, comunque ciarlasse di cristianesimo e di religione, metà dal materialismo scettico del secolo XVIII, e metà dall'eclettismo francese, che sotto nome di moderati—come se tra l'essere e il non essere, tra la nazione futura e i governi che ne contendono lo sviluppo, potesse mai esistere via di mezzo—s'era proposta a problema da sciogliere la conciliazione degli inconciliabili, libertà e principato, nazionalità e smembramento, forza e direzione mal certa. Nessuna sètta d'uomini potrebb'esser da tanto: essi men ch'altri. Erano scrittori dotati d'ingegno, ma senza scintilla di genio, forniti quanto basta d'erudizione italiana raccolta, senza scorta vivificatrice di sintesi, nel gabinetto e fra i morti, ma senza intelletto del lavoro unificatore sotterraneamente compito nei tre ultimi secoli, senza coscienza di missione italiana, senza facoltà di comunione col popolo ch'essi credevano corrotto ed era migliore di loro, e dal quale li tenevano disgiunti abitudini di vita, diffidenze tradizionali e istinti non cancellati d'aristocrazia letterata o patrizia. E per questa loro segregazione morale e intellettuale dal popolo, unico elemento progressivo ed arbitro oggimai della vita della nazione, erano diseredati d'ogni scienza e d'ogni fede dell'avvenire. Il loro concetto storico errava, con lievi rimutamenti, tra il guelfismo e il ghibellinismo; il concetto politico, checchè facessero per ammantarlo di veste italiana, non oltrepassava i termini della scuola che, discesa in Francia da Montesquieu ai Mounier, ai Malouet, ai Lally Tollendal e siffatti dell'Assemblea nazionale, s'ordinò a sistema tra gli uomini che diressero l'opinione in Francia nei quindici anni che seguirono il ritorno di Luigi XVIII: erano monarchici con una infusione di libertà, tanta [21] e non più che facesse tollerabile la monarchia e, senza stendersi sino alla moltitudine a suscitar l'idea di diritti che aborrivano e di doveri che non sospettavano, attribuisse loro facoltà di stampare le loro opinioni e un seggio in qualche consulta. In sostanza non avevano credenza alcuna: la loro non era fede nel principio regio come quando il dogma del diritto divino immedesimato in certe famiglie o l'affetto cavalleresco posto in certe persone collocava il monarca tra Dio e la donna del core—mon Dieu, mon roi et ma dame:—era accettazione passiva, inerte, senza riverenza e senza amore, d'un fatto ch'essi si trovavano innanzi e che non s'attentavano d'esaminare: era codardia morale, paura del popolo al cui moto ascendente disegnavano argine la monarchia, paura del contrasto inevitabile fra i due elementi ch'essi non si sentivano capaci di reggere, paura che l'Italia fosse impotente a rivendicarsi con forze popolari anche quella meschina parte d'indipendenza dallo straniero ch'essi pure, teneri, per unica dote, dell'onore italiano, volevano. Scrivevano con affettazione di gravità, con piglio d'acuti e profondi discernitori, consigli ricopiati da tempi di sviluppo normale, da uomini ravvolti in guerre parlamentarie e cittadini di nazioni fatte, a un popolo che da un lato aveva nulla, dall'altro avea vita, unità, indipendenza, libertà, tutto da conquistare: il popolo rispondeva alle loro voci eunuche col ruggito e col balzo del leone, cacciando i gesuiti, esigendo guardie civiche e pubblicità di consulte, strappando costituzioni ai principi, quand'essi raccomandavano silenzio, vie legali e assenza di dimostrazioni perchè il core paterno dei padroni non s'addolorasse. S'intitolavano pratici, positivi, e meritavano il nome d'arcadi della politica. Questi erano i duci della fazione, nè ho bisogno di nominarli; ed oggi taluni fra loro, per desiderio di potere o vanità ferita dalla solitudine che s'è creata d'intorno ad essi, stanno a capo della reazione monarchica contro ai popoli. Ma intorno ad essi, salito appena al papato Pio IX, s'aggrupparono, tra per influenza della loro parola e del prestigio esercitato dai primi atti di quel pontefice, tra per precipitoso sconforto dei molti tentativi falliti e speranza d'agevolare all'Italia le vie del meglio, molti giovani migliori d'assai di que' capi e che s'erano pressochè tutti educati al culto dell'idea nazionale nelle nostre fratellanze, anime candidissime e santamente devote alla patria, ma troppo arrendevoli e non abbastanza temprate dalla natura o dai patimenti alla severa energica fede nel vero immutabile, stanche anzi tempo d'una lotta inevitabile, ma dolorosissima, o frantendenti il bisogno che domina tutti noi d'una autorità in riverenza all'autorità ch'esisteva e sembrava allora rifarsi. E più giù s'accalcava, lieta di presentire menomati i sagrificî e gli ostacoli, la moltitudine degli adoratori del calcolo, dei mediocri d'intelletto e di cuore, dei tiepidi respinti dal vangelo ai quali il nostro grido di guerra turbava i sonni e il programma dei moderati prometteva gli onori del patriotismo a patto che scrivessero qualche articolo pacifico di gazzetta o armeggiassero innocentemente col Lloyd sulle vie ferrate o supplicassero al principe che si degnasse mostrarsi meno tiranno. E più giù ancora, peste di ogni parte, brulicava, s'affaccendava la genìa dei raggiratori politici, uomini di tutti mestieri, arpìe che insozzano ciò che toccano, ed esperti in ogni paese a giurare, sgiurare, inalzare a cielo, calunniare, ardire o strisciare a seconda del vento che spira e per qualunque dia loro speranza d'agitazione senza gravi pericoli d'una microscopica importanza o d'un impieguccio patente o segreto: razza più rara, per favore di Dio, in Italia che non altrove; pur troppo più numerosa, per forza d'educazione gesuitica, tirannesca, materialista, [22] che non si vorrebbe in un popolo grande nel passato e chiamato a esser grande nell'avvenire.
Dai primi esciva una voce che ci diceva: «La nostra prima questione è l'indipendenza, la prima nostra contesa è coll'Austria, potenza gigantesca per elementi proprî e leghe coi governi d'Europa; or voi non avete eserciti o li avete, se minacciate i vostri principi, nemici a voi. Il popolo nostro è corrotto, ignorante, disavvezzo dall'armi, indifferente, svogliato; e con un popolo siffatto non si fa guerra di nazione nè repubblica fondata sulla virtù. Bisogna prima educarlo a forti fatti e a morale di cittadini. Il progresso è lento e va a gradi. Prima l'indipendenza, poi la libertà educatrice, costituzionale monarchica, poi la repubblica. Le faccende dei popoli si governano a opportunità; e chi vuol tutto ha nulla. Non v'ostinate a ricopiare il passato e un passato di Francia. L'Italia deve aver moto proprio e proprie norme a quel moto. I principi vostri non vi sono avversi se non perchè li avete assaliti. Affratellatevi con essi; spronateli a collegarsi in leghe commerciali, doganali, industriali; poi verranno le militari, e avrete eserciti pronti e fedeli. E i governi esteri comincieranno a conoscervi e l'Austria imparerà a temervi. Forse conquisteremo pacificamente, e con sagrificî pecuniarî, l'indipendenza; dove no, i nostri principi, riconciliati con noi, ce la daranno coll'armi. Allora penseremo alla libertà.»
I secondi—gl'illusi buoni—inneggiavano a Pio IX, anima d'onesto curato e di pessimo principe, chiamandolo rigeneratore d'Italia, d'Europa e del mondo: predicavano concordia, oblio del passato, fratellanza universale tra principi e popoli, tra il lupo e l'agnello: inalzavano commossi un cantico d'amore sopra una terra venduta, tradita da principi e papi per cinque secoli e che beveva ancora sangue di martiri trucidati pochi dì prima.
Gli ultimi—i faccendieri—correvano, s'agitavano, si frammettevano, commentavano il testo, ronzavano strane nuove d'intenzioni regie, di promesse, d'accordi coll'estero, ripetevano parole non dette, spacciavan medaglie: al popolo spargevano cose pazze dei principi: a noi tendevano con mistero la mano, susurrando: Lasciate fare; ogni cosa a suo tempo; or bisogna giovarci degli uomini che tengono cannoni ed eserciti, poi, li rovescieremo. Io non ne ricordo un solo che non m'abbia detto o scritto: Io sono, in teoria, repubblicano come voi siete; e che intanto non calunniasse come meglio poteva la parte nostra e le nostre intenzioni.
Noi eravamo repubblicani per antica fede fondata su ciò che abbiam detto più volte e che ridiremo; ma innanzi tutto, per ciò che tocca l'Italia, perchè eravamo unitarî, perchè volevamo che la patria nostra fosse nazione. La fede ci faceva pazienti: il trionfo del principio nel quale eravamo e siamo credenti è sì certo, che l'affrettarsi non monta. Per decreto di provvidenza, splendidissimo nella progressione storica dell'umanità, l'Europa corre a democrazia: la forma logica della democrazia è la repubblica: la repubblica è dunque nei fati dell'avvenire. Ma la questione dell'indipendenza e della unificazione nazionale voleva decisione immediata e pratica. Or come raggiungerla? I principi non volevano: il papa nè voleva, nè poteva. Rimaneva il popolo. E noi gridavamo come i nostri padri: popolo! popolo! e accettavamo tutte le conseguenze e le forme logiche del principio contenuto in quel grido.
Non è vero che il progresso si manifesti per gradi; s'opera a gradi; e in Italia il pensiero nazionale s'è elaborato nel silenzio di tre secoli di servaggio comune e per quasi trent'anni d'apostolato assiduo [23] coronato sovente dal martirio dei migliori fra noi. Preparato per lavoro latente il terreno, un principio si rivela generalmente coll'insurrezione, in un moto collettivo, spontaneo, anormale di moltitudini, in una subitanea trasformazione dell'autorità: conquistato il principio, la serie delle sue deduzioni ed applicazioni si svolve con moto normale, lento, progressivo, continuo. Non è vero che libertà e indipendenza possano disgiungersi o rivendicarsi ad una ad una: l'indipendenza, che non è se non la libertà conquistata sullo straniero, esige, a non riescire menzogna, l'opera collettiva d'uomini che abbiano coscienza della propria dignità, potenza di sagrificio e virtù d'entusiasmo che non appartengono se non a liberi cittadini; e nelle rare contese d'indipendenza sostenute senza intervento apparente di questione politica, i popoli desumevano la loro forza dalla unità nazionale già conquistata. Non è vero che le virtù più severe repubblicane si richiedano a fondare repubblica; idea siffatta non è se non vecchio errore che ha falsato in quasi tutte le menti la teorica governativa; le istituzioni politiche devono rappresentare l'elemento educatore dello Stato, e perciò appunto si fondano le repubbliche onde germoglino e s'educhino nel petto dei cittadini le virtù repubblicane che l'educazione monarchica non può dare. Non è vero che a ricuperare l'indipendenza basti una forza cieca di cannoni e d'eserciti: alle battaglie della libertà nazionale si richiedono forze materiali e una idea che presieda all'ordinamento loro e ne diriga le mosse; la bandiera che s'inalza di mezzo ad esse dev'essere il simbolo di quell'idea; e quella bandiera—i fatti lo hanno innegabilmente provato—vale metà del successo. E del resto, il collegamento franco, ardito, durevole, nella guerra d'indipendenza tra sei principi, alcuni di razza austriaca, quasi tutti di razza straniera, tutti gelosi e diffidenti l'uno dell'altro e tremanti, per misfatti commessi e coscienza del crescente moto europeo, del popolo e senz'altro rifugio contr'esso che l'Austria, è ben altra utopia che la nostra. Voi dunque non potete sperare di fondar nazione se non con un uomo o con un principio: avete l'uomo? avete fra i vostri principi il Napoleone della libertà, l'eroe che sappia pensare e operare, amare sovra ogni altro e combattere, l'erede del pensiero di Dante, il precursore del pensiero del popolo? Fate ch'ei sorga e si sveli; e dove no, lasciateci evocare il principio e non trascinate l'Italia dietro a illusioni pregne di lagrime e sangue.
Noi dicevamo queste cose—non pubblicamente, ma nei colloqui privati e nelle corrispondenze—a uomini fidatissimi di quei primi. Ai secondi, agli amici che ci abbandonavano, guardavamo mestamente pensando: Voi ci tornerete, consumata la prova; ma Dio non voglia che riesca tale da sfrondarvi l'anima e la fede nei destini italiani! Dagli ultimi, dai faccendieri—ci ritraevamo per non insozzarci. Amici o nemici, eravamo e volevamo serbarci nobilmente leali. Le nazioni—noi lo dicemmo più volte—non si rigenerano colla menzogna.
A quell'ultima nostra interrogazione, i moderati rispondevano additandoci Carlo Alberto.
Io non parlo del re: checchè tentino gli adulatori e i politici ipocriti i quali fanno oggi dell'entusiasmo postumo per Carlo Alberto un'arme d'opposizione al successo re regnante—checchè or senta il popolo santamente illuso che simboleggia in quel nome il pensiero della guerra per l'indipendenza—il giudizio dei posteri peserà severo sulla memoria dell'uomo del 1821, del 1833 e della capitolazione di Milano. Ma la natura, la tempra dell'individuo era tale da escludere ogni speranza d'impresa unificatrice italiana. Mancavano a Carlo [24] Alberto il genio, l'amore, la fede. Del primo, ch'è una intera vita logicamente, risolutamente, fecondamente devota a una grande idea, la carriera di Carlo Alberto non offre vestigio: il secondo gli era conteso dalla continua diffidenza, educata anche dai ricordi d'un tristo passato, degli uomini e delle cose; gli vietava l'ultima l'indole sua incerta, tentennante, oscillante perennemente tra il bene e il male, tra il fare e il non fare, tra l'osare e il ritrarsi. Un pensiero, non di virtù, ma d'ambizione italiana, pur di quell'ambizione che può fruttare ai popoli, gli aveva, balenando, solcato l'anima nella sua giovinezza; ed ei s'era ritratto atterrito, e la memoria di quel lampo degli anni primi gli si riaffacciava a ora a ora, lo tormentava insistente, più come richiamo d'antica ferita che come elemento e incitamento di vita. Tra il rischio di perdere, non riuscendo, la corona della piccola monarchia e la paura della libertà che il popolo, dopo aver combattuto per lui, avrebbe voluto rivendicarsi, ei procedeva con quel fantasma sugli occhi quasi barcollando, senza energia per affrontare quei pericoli, senza potere o voler intendere che ad essere re d'Italia era mestieri dimenticare prima d'essere il re di Piemonte. Despota per istinti radicatissimi, liberale per amor proprio e per presentimento dell'avvenire, egli alternava fra le influenze gesuitiche e quelle degli uomini del progresso. Uno squilibrio fatale tra il pensiero e l'azione, tra il concetto e le facoltà di eseguirlo, trapelava in tutti i suoi atti. I più, tra quei che lavoravano a prefiggerlo duce all'impresa, lo confessavano tale. Taluni fra i suoi famigliari susurravano che egli era minacciato d'insania. Era l'Amleto della monarchia.
Con uomo siffatto, non poteva di certo compirsi l'impresa italiana.
Metternich, ingegno non potente ma logico, aveva giudicato da lungo lui e gli altri: però, nel dispaccio citato, ei diceva: La monarchia italiana non entra nei disegni dei faziosi.... una ragione pratica deve stornarli dall'idea d'una Italia monarchica; il re possibile di questa monarchia non esiste al di là nè al di qua delle Alpi. Essi camminano verso la repubblica...—
I moderati, ingegni nè potenti nè logici, intendevano essi pure che, s'anche avesse voluto, Carlo Alberto non avrebbe potuto e non era da tanto, ma transigevano coll'intento, e all'Italia invocata sostituivano il concettino d'una Italia del nord. Era fra tutti concetti il pessimo che mente umana potesse ideare.
Il regno dell'Italia settentrionale sotto il re di Piemonte avrebbe potuto essere un semplice fatto creato dalla vittoria, accettato dalla riconoscenza, subìto dagli altri principi per impossibilità di distruggerlo; ma gittato in via di programma anteriore ai primordî del fatto, era il pomo della discordia, là dove la più alta concordia era necessaria. Era un guanto di sfida cacciato, colla negazione dell'unità, agli unitarî—un sopruso, sostituendo alla volontà nazionale la volontà della parte monarchica, ai repubblicani—una ferita alla Lombardia che volea confondersi nell'Italia, non sagrificare la propria individualità a un'altra provincia italiana—una minaccia all'aristocrazia torinese che paventava il contatto assorbente della democrazia milanese—un ingrandimento sospetto alla Francia perchè dato a una potenza monarchica avversa da lunghi anni alle tendenze e ai moti francesi—un pretesto somministrato ai principi d'Italia per distaccarsi dalla crociata verso la quale i popoli li spingevano—una semenza di gelosia messa nel core del papa—un aggelamento d'entusiasmo in tutti coloro che volevano bensì porre l'opera, e occorrendo, la vita in una impresa nazionale, ma non in una speculazione d'egoismo dinastico. Creava una serie di nuovi ostacoli, non ne rimoveva [25] alcuno. Creava inoltre una serie di necessità logiche che avrebbero signoreggiato la guerra. E la signoreggiarono e la spensero nel danno e nella vergogna.
Pur nondimeno, era tanta la sete di guerra all'Austria, che il malaugurato programma, predicato in tutte guise lecito e illecite, fu accolto senza esame dai più. Tutti speravano nella iniziativa regia. Tutti spronavano Carlo Alberto e gli gridavano: fate a ogni patto.
Carlo Alberto non avrebbe mai fatto, se l'insurrezione del popolo milanese non veniva a porlo nel bivio di perdere la corona, di vedersi una repubblica allato, o combattere.
Il libro di Carlo Cattaneo[50], uomo che onora la parte nostra, mi libera dall'obbligo d'additare le immediate ragioni della gloriosissima insurrezione lombarda, estranea in tutto alle mene e alle fallite promesse dei moderati che s'agitavano fra Torino e Milano. È libro che per estrema importanza di fatti e considerazioni vuole esser letto da tutti, che nessuno ha confutato e che nessuno confuterà. Ma in quel libro, l'opinione or ora espressa è accennata, per mancanza di documenti, soltanto di volo. «Pare certo che in un manifesto a tutte le corti d'Europa il re attestasse che, invadendo il Lombardo-Veneto, egli intendeva solo d'impedire che vi sorgesse una repubblica» (p. 96). Ed ora i documenti governativi[51] esibiti dal ministero al parlamento inglese intorno agli affari d'Italia pongono il fatto oltre ogni dubbio e rivelano come, ad onta di tutta la garrulità moderata, il governo piemontese mirasse, prima dell'impresa e poi, alla questione politica ben più che alla italiana. La guerra contro l'Austria era in sostanza e sempre sarà, se diretta da capi monarchici, guerra contro l'italiana democrazia.
L'insurrezione di Milano e Venezia sorse, invocata da tutti i buoni d'Italia, dal fremito d'un popolo irritato d'una servitù imposta per trentaquattro anni al Lombardo-Veneto da un governo straniero aborrito e sprezzato. Fu, quanto al tempo, determinata dalle provocazioni feroci degli Austriaci che desideravano spegnere una sommossa nel sangue e non credevano in una rivoluzione. Fu agevolata dall'apostolato e dall'influenza, meritamente conquistata fra il popolo, d'un nucleo di giovani appartenenti quasi tutti alla classe media e tutti repubblicani, da uno infuori, che allora nondimeno si dicea tale. Fu decisa—e questo è vanto solenne, non abbastanza avvertito, della gioventù lombarda—quando era già pubblicata in Milano la abolizione della censura con altre concessioni: il Lombardo-Veneto voleva, non miglioramenti, ma indipendenza. Cominciò non preveduta, non voluta dagli uomini del municipio o altri che maneggiavano con Carlo Alberto: la gioventù si battea da tre giorni; quando essi disperavano della vittoria, deploravano si fossero abbandonate le vie legali, parlavano a stampa dell'improvvisa assenza dell'autorità politica, proponevano armistizî di quindici giorni. Seguì, sostenuta dal valore d'uomini, popolani i più, che combattevano al grido di Viva la repubblica![52] e diretta da quattro uomini raccolti a consiglio di [26] guerra e di parte repubblicana. Trionfò sola, costando al nemico quattro mila morti fra i quali 395 cannonieri. Son fatti questi incontrovertibili e conquistati oggimai alla storia.
La battaglia del popolo cominciò il 18 marzo.
Il governo piemontese era inquietissimo per le nuove venute di Francia e per l'inusitato fermento che si manifestava crescente ogni giorno nel popolo dello Stato. Del terrore nato per le cose francesi parlano due dispacci, il primo spedito il 2 marzo a lord Palmerston da Abercromby in Torino (p. 122), il secondo firmato de Saint-Marsan, parimenti il 2 marzo, e comunicato a lord Palmerston dal conte Revel l'11 (p. 142). Il fermento interno imponeva al re, il 4 marzo, la pubblicazione delle basi dello Statuto e si sfogava in Genova, il 7, con una sommossa, nella quale il popolo minacciava voler seguire l'esempio di Francia.
La nuova dell'insurrezione lombarda si diffuse il 19 in Torino. L'entusiasmo fu indescrivibile. Il consiglio dei ministri raccolto ordinò si formasse un corpo d'osservazione sulla frontiera, centri Novara, Mortara, Voghera. Le voci corse erano di moto apertamente repubblicano, e un dispaccio del 20 spedito da Abercromby a lord Palmerston da Torino (p. 174-75), accenna a siffatte voci siccome ad una delle cagioni che determinavano le decisioni ministeriali. Intanto, si spediva ordine che si vietasse il passo ai volontarî che da Genova e dal Piemonte s'affrettavano a Milano; e fu vietato. Ottanta armati lombardi furono disarmati sul lago Maggiore[53].
Il 20, le nuove in Torino correvano incerte e lievemente sfavorevoli all'insurrezione. Le porte, dicevasi, erano tenute tuttavia dagli Austriaci, e il popolo andava perdendo terreno per difetto d'armi e di munizioni. Durava il fermento in Torino. Un assembramento di popolo chiedeva armi al ministero dell'interno ed era respinto. Il conte Arese, giunto da Milano a chieder soccorsi all'insurrezione, non riesciva a vedere il re; era freddamente accolto dai ministri, e ripartiva lo stesso giorno, scorato, deluso. Vedi un dispaccio di Torino spedito il 21 dall'Abercromby a Palmerston (p. 182-83).
Il 21, le nuove correvano migliori. E dal conte Enrico Martini, viaggiator faccendiere dei moderati, fu affacciata agli uomini del municipio milanese e del consiglio di guerra la prima proposta d'ajuto regio a patti di dedizione assoluta e della formazione d'un governo provvisorio che ne stendesse profferta: vergogna eterna di cortigiani che nati d'Italia trafficavano per una corona sul sangue dei generosi ai quali era bello il morir per la patria, mentre il Martini diceva al Cattaneo: Sa ella che non accade tutti i giorni di poter prestare servigi di questa fatta ad un re?[54] Ad un re? L'ultimo degli operaî, che lietamente combattevano tra le barricate per la bandiera d'Italia e senza chiedersi a quali uomini gioverebbe poi la vittoria, valea più assai innanzi a Dio e varrà innanzi all'Italia avvenire che non dieci re.
Il 22, la vittoria coronava l'eroica lotta. Espugnata porta Tosa da Luciano Manara, caduto più tardi martire della causa repubblicana in Roma, occupata dagli insorti porta Ticinese, liberata dagli accorrenti della campagna porta Comasina, separate e minacciate di distruzione immediata le soldatesche nemiche, Radetzky, la sera, non si ritraeva, fuggiva.
E allora—la sera del 23—certa la vittoria e quando l'isolamento avrebbe inevitabilmente rapito Milano alla monarchia sarda per darla all'Italia—mentre i volontarî di Genova o di Piemonte irrompevano sulle terre lombarde e le popolazioni sdegnate dell'inerzia regia minacciavano peggio all'interno—il re, che aveva, il 22, accertato, per mezzo del suo ministro, il conte di Buol, ambasciatore d'Austria in Torino, ch'ei desiderava secondarlo in tutto ciò che potesse confermare le relazioni di amicizia e di buon vicinato esistenti fra i due Stati[55], firmò il manifesto di guerra.
Le prime truppe piemontesi entrarono in Milano il 26 marzo.
Il 23 marzo, alle undici della sera, il signor Abercromby in Torino riceveva un dispaccio segnato L. N. Pareto; e vi si leggeva: «........ Il signor Abercromby è informato come il sottosegnato dei gravi eventi or ora occorsi in Lombardia: Milano in piena rivoluzione e bentosto in potere degli abitanti che, col loro coraggio e la loro fermezza, hanno saputo resistere alle truppe disciplinate di S. M. Imperiale, l'insurrezione nelle campagne e città vicine, finalmente tutto il paese che costeggia le frontiere di S. M. Sarda in incendio.—Questa situazione, come il signor Abercromby può bene intendere, riagisce sulla condizione degli spiriti nelle provincie appartenenti a S. M. il re di Sardegna. La simpatia eccitata dalla difesa di Milano, lo spirito di nazionalità, che, malgrado le artificiali limitazioni di diversi Stati, si manifesta potentissima, ogni cosa concorre a mantenere nelle provincie e nella capitale una tale agitazione da far temere che da un istante all'altro possa escirne una rivoluzione che porrebbe il trono in grave pericolo, però che non può dissimularsi che dopo gli eventi di Francia, il pericolo della proclamazione d'una repubblica in Lombardia non possa essere vicino: diffatti, sembra da ragguagli positivi, che un certo numero di Svizzeri ha molto contribuito col suo intervento alla riescita del sollevamento di Milano.—Se s'aggiungano a questo i moti di Parma e di Modena, come pure quei del ducato di Piacenza sul quale non può ricusarsi a S. M. il re di Sardegna il diritto di vegliare come sopra un territorio che deve un giorno, per diritto di reversibilità, spettargli; se s'aggiunga una grave e seria irritazione eccitata in Piemonte e nella Liguria dalla conclusione d'un trattato fra S. M. Imperiale ed i duchi di Parma e Piacenza, e di Modena, trattato che sotto apparenza d'ajuti da prestarsi a quei piccoli Stati li ha veramente assorbiti nella monarchia austriaca spingendo le sue frontiere militari dal Po, dove dovrebbero finire, sino al Mediterraneo e rompendo così l'equilibrio che esisteva tra le diverse potenze d'Italia, è naturale il pensare che la situazione del Piemonte è tale che da un momento all'altro, all'annunzio che la repubblica è stata proclamata in Lombardia, un simile moto scoppierebbe pure negli Stati di S. M. Sarda o che almeno un qualche grave commovimento porrebbe a pericolo il trono di S. M.—In questo stato di cose, il re... si crede costretto a prendere misure che impediscano al moto attuale di Lombardia di diventare moto repubblicano, ed evitino al Piemonte e al rimanente d'Italia le catastrofi che potrebbero aver luogo se una tale forma di governo venisse ad essere proclamata[56]».
L'Abercromby si recava, a mezzanotte, a visitare il conte Balbo e [28] ne otteneva più minuti particolari: «Egli ed i suoi colleghi, giudicando dalle varie relazioni officiali ad essi trasmesse dal direttore di polizia sul pericolo imminente d'una rivoluzione repubblicana in paese, dove il governo differisse ancora di porgere ajuto ai Lombardi, e vedendo l'impossibilità di raffrenare più oltre il grande e generale concitamento esistente negli Stati di S. M. Sarda, avevano deciso ecc.[57]».
Il marchese di Normanby scriveva, il 28, da Parigi a lord Palmerston ragguaglio d'un colloquio da lui tenuto col marchese di Brignole ambasciatore sardo in Francia. Il Brignole gli ripeteva, fondandosi sopra un dispaccio di Torino, le ragioni pur ora esposte; e insisteva sul fatto «che Carlo Alberto aveva respinto con un rifiuto la prima deputazione venutagli da Milano, quando la città era tuttavia in mano agli Austriaci; aggiungendo che la seconda deputazione aveva dichiarato al re che s'ei non s'affrettava a porgere ajuto, il grido Repubblica sarebbe sorto» e che il re non aveva incominciato le ostilità se non per mantenere l'ordine in un territorio lasciato per forza d'eventi senza padrone[58].
In altro dispaccio del 25 marzo l'Abercromby esponeva più diffusamente a lord Palmerston la condizione delle cose in Piemonte al tempo della decisione—le intenzioni pacifiche del gabinetto Balbo-Pareto—l'insurrezione lombarda—l'immensa azione esercitata dal popolo che minacciava rivolta in Piemonte e assalto agli Austriaci a dispetto dell'autorità governativa—e l'imminente pericolo alla monarchia di Savoja che avea forzato i ministri alle ostilità[59].
E non basta. Nelle istruzioni che il ministro degli esteri mandava da Torino al marchese Ricci, inviato sardo in Vienna, era detto: «.... Era da temersi che le numerose associazioni politiche esistenti in Lombardia e la prossimità della Svizzera facessero proclamare un governo repubblicano. Questa forma sarebbe stata fatale alla nazione italiana, al nostro governo, all'augusta dinastia di Savoja; era d'uopo adottare un pronto a decisivo partito: il governo e il re non hanno esitato, e sono profondamente convinti d'avere operato a prezzo dei pericoli ai quali s'espongono, per la salvezza degli altri Stati monarchici[60]».
E l'idea era così radicata in quegli animi, che il 30 aprile, quando la guerra era inoltrata, nè v'era più bisogno di dissimulare, ma solamente di vincere, il Pareto tornava a dichiarare all'Abercromby che se l'esercito piemontese avesse indugiato a valicare il Ticino, sarebbe stato impossibile d'impedire che Genova si ribellasse e si separasse dai dominî di S. M. Sarda[61].
Con siffatti auspicî, con intenzioni siffatte, la monarchia di Piemonte e i moderati movevano alla conquista dell'indipendenza. La nazione ingannata plaudiva ad essi, a Carlo Alberto, al duca di Toscana, al re di Napoli, al papa. Tanta piena d'amore inondava in que' rapidi beati momenti l'anime degli Italiani, che avrebbero abbracciato, purchè avessero una coccarda tricolore sul petto, i pessimi tra i loro nemici.
Nella genesi dei fatti, la logica è inesorabile; nè possono falsarla utopie di moderati o calcoli di politici obliqui. Nella politica come in ogni altra cosa, un principio trascina seco inevitabile un metodo, una serie di conseguenze, una progressione d'applicazioni prevedibili da qualunque ha senno. Ad ogni teorica corrisponde una pratica. E reciprocamente, se il principio generatore d'un fatto è falsato, tradito nelle applicazioni, quel fatto è irrevocabilmente condannato a sparire, a perire senza sviluppo, programma inadempito, pagina isolata nella tradizione d'un popolo, profetica d'avvenire ma sterile di conseguenze immediate. Per aver posto in oblìo questo vero, il moto italiano del 1848 dovea perire e perì.
Il moto italiano era moto nazionale anzi tutto, moto di popolo che tende a definire, a rappresentare, a costituire la propria vita collettiva, dovea sostenersi e vincere con guerra di popolo, con guerra potente di tutte le forze nazionali da un punto all'altro d'Italia. Quanto tendeva a far convergere all'intento la più alta cifra possibile di quelle forze, favoriva il moto: quanto tendeva a scemarla, doveva riescirgli fatale.
Il gretto pensiero dinastico contraddiceva al pensiero generatore del moto. La guerra regia aveva diverso fine, quindi norme diverse non corrispondenti al fine, che l'insurrezione s'era proposto. Dovea spegnere la guerra nazionale, la guerra di popolo, e con essa il trionfo dell'insurrezione.
I poveri ingegni che, avversi alla parte nostra, pur sentendosi impotenti a confutarci sul nostro terreno, hanno sistematicamente adottato un travisamento perenne delle nostre idee e confondono repubblica ed anarchia, pensiero sociale e comunismo, bisogno d'una fede concorde attiva e negazione d'ogni credenza, hanno sovente mostrato di intendere la guerra di popolo come guerra disordinata, scomposta, d'elementi e di fazioni irregolari, senza concetto regolatore, senza uniformità d'ordini e di materiali, finchè son giunti ad affermare che noi vogliamo guerra senza cannoni e fucili: cose ridicole ma non nostre; e i pochi fatti esciti, a guisa di prologo del dramma futuro, dal principio repubblicano, l'hanno mostrato. I pochi uomini raccolti in due città d'Italia intorno alla bandiera repubblicana hanno fatto guerra più ostinata e più savia che non i molti legati a una bandiera di monarchia.
Per guerra di popolo noi intendiamo una guerra santificata da un intento nazionale, nella quale si ponga in moto la massima cifra possibile delle forze spettanti al paese, adoprandole a seconda della loro natura e delle loro attitudini—nella quale gli elementi regolari e gl'irregolari, distribuiti in terreno adatto alle fazioni degli uni e degli [30] altri, avvicendino la loro azione—nella quale si dica al popolo: la causa che qui si combatte è la tua; tuo sarà il premio della vittoria: tuoi devono essere gli sforzi per ottenerla; e un principio, una grande idea altamente bandita, e lealmente applicata da uomini puri, potenti di genio ed amati, desti, solleciti, susciti a insolita vita, a furore, tutte le facoltà di lotta e di sagrificio che sì facilmente si rivelano e s'addormentano nel core delle moltitudini:—nella quale nè privilegio di nascita o di favore, nè anzianità senza merito presieda alla formazione dell'esercito, ma il diritto d'elezione possibilmente applicato, l'insegnamento morale alternato col militare o i premî proposti dai compagni, approvati dai capi e dati dalla nazione, facciano sentire al soldato ch'ei non è macchina, ma parte di popolo e apostolo armato d'una causa santa—nella quale non s'avvezzino gli animi a riporre esclusivamente salute in un esercito, in un uomo, in una capitale, ma s'educhino a creare centro di resistenza per ogni dove, a vedere tutta intera la causa della patria dovunque un nucleo di prodi inalza una bandiera di vittoria o di morte—nella quale, maturato e tenuto in serbo un prudente disegno pel caso di gravi rovesci, le fazioni procedono audaci, rapide, imprevedute, calcolate più che non s'usa sugli elementi e sugli effetti morali, non inceppate da riguardi a diplomazie o da vecchie tradizioni regolatrici di circostanze normali—nella quale si guardi più ai popoli che ai governi, più ad allargare il cerchio dell'insurrezione che a paventare i moti del nemico, e più a ferire il nemico nel core che non a risparmiare un sagrificio al paese.
E a questa guerra—sola capace di salvare l'indipendenza e fondar nazione—la guerra regia doveva, per necessità ineluttabile di tradizioni e d'intento, contrapporre le abitudini freddamente gerarchiche dei soldati del privilegio—il mero calcolo degli elementi materiali e la noncuranza d'ogni elemento morale, d'ogni entusiasmo, d'ogni fede che trasmuta il milite in eroe di vittoria e martirio—il disprezzo o il sospetto dei volontarî—l'importanza esclusiva data alla capitale—l'esercito quale era ordinato dal despotismo, co' suoi molti uffiziali tristissimi, co' suoi capi inetti pressochè tutti e taluni avversi alla guerra e peggio—la diffidenza d'ogni azione, d'ogni concitamento di popolo, che avrebbe sviluppato più sempre tendenze democratiche e coscienza di diritti fatali al regnante—l'avversione a ogni consigliere che potesse, per influenza popolare, impor patti o doveri—la riverenza alla diplomazia straniera, ai patti, ai trattati, alle pretese governative risalenti all'epoca infausta del 1815, e quando anche inceppassero operazioni che avrebbero potuto riescir decisive—la ripugnanza a soccorrere Venezia repubblicana—il rifiuto d'ogni sussidio dal di fuori che potesse accrescere simpatie alla parte avversa alla monarchia—la vecchia tattica e la paura d'ogni fazione insolita, ardita—l'idea insistente, dominatrice, di salvarsi, in caso di rovescio, il Piemonte ed il trono—e segnatamente un germe, mortale all'entusiasmo, di divisione tra i combattenti per la stessa causa, un meschino progetto d'egoismo politico sostituito alla grande idea nazionale[62]. Nè io parlo, come ognun vede, di tradimento; e [31] s'anche io vi credessi, non consuonerebbe all'indole mia gittarne l'accusa sopra una tomba. Accenno cagioni più che sufficienti di rovina a una insurrezione di popolo; e ricordo agli Italiani che operarono due volte in brevissimo giro di tempo e oprerebbero fatalmente una terza e sempre ogni qual volta sorgesse una gente sì cieca e ostinata da volere ritentare la prova.
Operarono potenti fin dai primi giorni della guerra, sì che bisognava esser ciechi a non discoprirle e insensati a non piangerne. E ciechi e insensati eran fatti dall'egoismo, dallo spirito di parte, dalla servilità cortigianesca, dalle tradizioni aristocratiche e dalla paura della repubblica, gli uomini del governo provvisorio di Milano e i moderati di Piemonte e di Lombardia. Ben lo videro i repubblicani; e l'averlo detto, quantunque, come or ora vedremo, sommessamente, era colpa da non perdonarsi. Quindi le accuse villane e le stolte minaccie e le calunnie ch'essi allora sprezzarono e ch'oggi, compita la prova e giacente, mercè gli accusatori, l'Italia, corre debito di confutare.
Io scrivo cenni e non storia; però non m'assumo in queste pagine di seguire attraverso gli errori governativi e le fazioni della guerra regia l'influenza dissolvente, rovinosa di quelle cagioni. Ma il libro di Cattaneo; i documenti contenuti in un opuscolo pubblicato nel 1848 in Venezia da Mattia Montecchi, segretario del generale Ferrari, e in uno scritto recente del generale Allemandi; la relazione degli ultimi casi di Milano stesa da due membri del comitato di difesa; gli atti officiali contenuti nel giornale Il 22 marzo, e le relazioni stesse dettate a difesa dagli avversarî raffrontati colla ineluttabile ragione dei fatti; racchiudono tutta intera la dolorosissima storia—e a rischiararla più sempre gioverà il rapido esame della campagna, scritta da uno dei nostri uomini di guerra, Carlo Pisacane[63]. A me importava di chiarire le intenzioni e le necessità[64] che spinsero Carlo Alberto sulla terra lombarda; e importa or di chiarire qual via tenessero i repubblicani fra quelle vicende: punti finora non trattati o sfiorati appena.
L'insurrezione lombarda era vittoriosa su tutti i punti quando le truppe regie inoltrarono sul territorio; e si stendeva sino al Tirolo. [32] I volontarî vi s'avviarono, dando la caccia al nemico. I passi che di là conducono alle valli dell'Adda e dell'Oglio erano occupati dai nostri. L'insurrezione del Veneto s'era compita con miracolosa rapidità e poneva in mano dei montanari della Carnia e del Cadore i passi che guidano dall'Austria in Italia. Nostre erano Palma ed Osopo. Il mare e le Alpi, come scrive Cattaneo, erano chiusi al nemico. E lo erano per sempre, se all'Alpi ed al mare, al Tirolo e a Venezia, non alle fortezze e al Piemonte, avesse saputo o voluto, come a punti strategici d'operazione, guardare la guerra regia.
L'entusiasmo nelle popolazioni era grande, quanto lo sconforto nel nemico. Una sottoscrizione aperta in Milano il 1º d'aprile per sovvenire alle spese correnti governative aveva prodotto, il 3, la somma di lire austriache 749 686; un imprestito di 24 milioni di lire proposto dal governo provvisorio trovava, allora, presti ad offrirsi, e senz'utili, i capitalisti[65]. Gli uomini correvano a dare il nome ai corpi franchi o alle guardie nazionali; le donne gareggiavano, superavano quasi in entusiasmo i giovani dell'altro sesso: preparavano cartuccie, sollecitavan di casa in casa sovvenzioni al governo, soccorrevano negli ospedali ai feriti[66]. Gli Austriaci si ritraevano per ogni dove impauriti, disordinati, tormentati dai volontarî, mancanti di viveri. I soldati italiani disertavano le loro file: in Cremona, il reggimento Alberto, il terzo battaglione Ceccopieri, e tre squadroni di lancieri, in Brescia parte del Haugwitz[67], altri altrove. Una fregata austriaca stanziata in Napoli[68], due brick da guerra che incrociavano nell'Adriatico[69] inalzavano bandiera italiana e si davano alla repubblica veneta. All'Austria non rimanevano in Italia—ed è cifra desunta da relazioni officiali—che 50 000 uomini[70], rotti, sconfortati, spossati.
E fuori di Lombardia, per tutto dove suona lingua del sì, era fermento, fremito di crociata. L'insurrezione di Milano avea suonato la campana a stormo dell'insurrezione italiana. Alle prime nuove del moto in Modena, s'affrettavano 2000 guardie civiche da Bologna, 1200 e 300 uomini della linea da Livorno, e guardie civiche e studenti armati da Pisa, e civici e volontarî da Firenze[71]; e pochi dì dopo, a evitare l'estrema rovina[72], il gran duca era costrette egli pure a intimar guerra all'Austriaco. In Roma, date alle fiamme dal popolo, dai civici e dai carabinieri commisti le insegne dell'Austria, e sostituita sulla residenza dell'ambasciata la leggenda: palazzo della dieta italiana[73], s'adunavano, benedetti da sacerdoti, volontarî, s'aprivano sottoscrizioni ad armarli e avviarli: il 24 marzo, molti avevano già lasciato la città[74], e al finir del mese, 10 000 Romani e 7000 Toscani [33] erano al Po, presti a varcarlo dalla parte di Lagoscuro[75]. A Napoli, arse parimente le insegne aborrite, erano già aperte il 26 marzo le liste dei volontarî; era dall'universale concitamento forzato a cedere il re[76]. Di Genova e del Piemonte non parlo: i volontarî di Genova—e lo ricordo con orgoglio, non di municipio, ma d'affetto per la terra ove dorme mio padre e nacque mia madre—segnarono primi in faccia al nemico comune il patto di fratellanza italiana cogli uomini di Lombardia.
E fuori d'Italia, la buona novella, diffusa colla rapidità del pensiero, ringiovaniva gl'incanutiti nell'esilio, benediceva di nuova vita le anime morenti nel dubbio, cancellava i lunghi dolori e i ricordi delle ripetute delusioni e le antiveggenze che dovevano pur troppo verificarsi. Un solo pensiero balenava dal guardo, dall'accento commosso, a noi tutti: abbiamo una patria! abbiamo una patria! potremo operare per essa!—e traversavamo, accorrendo, colla fronte alta, insuperbendo nell'anima d'orgoglio italiano, le terre che avevam corse raminghi e sprezzati e sulle quali suonava allora un grido di sorpresa e di plauso alla nostra Italia. Ah! Dio perdoni i calunniatori dell'anime nostre in quei momenti di religione nazionale e d'amore. Essi, i moderati, ricevevano in Genova colle bajonette appuntate e facevano scortare disarmati al campo, a guisa di malfattori, gli operaî italiani che da Parigi e da Londra, capitanati dal generale Antonini, accorrevan a combattere la battaglia dell'indipendenza. Ci accusavano di congiure. Noi non congiuravamo che per dimenticare. Io rammento la parola: Infelici! non possono amare! che santa Teresa proferiva pensando ai dannati.
Ma tutto quel fremito, tutto quell'entusiasmo che sommoveva a grandi cose l'Italia, parlava di popolo e non di principe, di nazione e non di misere speculazioni dinastiche. Urtarlo di fronte era cosa impossibile. E comunque il Martini prima, il Passalacqua poi, avessero profferto gli ajuti regî soltanto a patti di dedizione—comunque i più tra gli uomini componenti il governo provvisorio di Milano fossero proclivi e alcuni vincolati a quei patti—nessuno osò per allora stipulare patentemente il prezzo dell'incerta vittoria. Il leone ruggiva ancora: bisognava prima ammansarlo.
In un indirizzo a Carlo Alberto, il governo provvisorio di Milano aveva, fin dal 23 marzo, invocando gli ajuti, lasciato intravvedere al re e alla diplomazia quali fossero le sue intenzioni[77]. Ma le sue dichiarazioni pubbliche posero un programma che differiva sino al giorno della vittoria la decisione della questione politica e la fidava per quel giorno al senno del popolo. Liberi tutti, parleranno tutti.—A CAUSA VINTA, LA NAZIONE DECIDERÀ—così nei proclami del 29 marzo, dell'8 aprile ecc., e queste dichiarazioni fatte ai Lombardi, ai Veneti, a Genova, al papa, erano pur fatte il 27 marzo alla Francia: In siffatta condizione di cose, noi ci astenemmo da ogni questione politica, noi abbiamo SOLENNEMENTE e RIPETUTAMENTE dichiarato che, dopo la lotta, alla nazione spetterebbe decidere intorno ai proprii destini (Vedi Documenti, pag. 354).
E Carlo Alberto annunziava, nel proclama del 23 marzo, che le armi piemontesi venivano a porgere nelle ulteriori prove ai popoli della Lombardia e della Venezia quell'ajuto che il fratello aspetta dal fratello, dall'amico l'amico: annunziava poco dopo in Lodi, che le sue armi, abbreviando la lotta, «ricondurrebbero fra i Lombardi quella sicurezza che permetterebbe ad essi d'attendere con animo sereno e tranquillo a riordinare il loro interno reggimento».
Era partito onesto; e i repubblicani lo accettarono, e vi s'attennero lealmente: traditi; poi, al solito, calunniati.
Se di mezzo alle barricate del marzo fosse sorta, piantata dalla mano del popolo, la bandiera repubblicana—se gli uomini che diressero l'insurrezione, assumendosi una grande iniziativa rivoluzionaria, si fossero collocati a interpreti del pensiero che fremeva nel core delle moltitudini—l'indipendenza d'Italia era salva. Tutti sanno—e noi meglio ch'altri sappiamo—come gli ajuti svizzeri negati dal governo federale al RE fossero profferti dai cantoni all'insurrezione repubblicana. Nè il governo francese, diffidentissimo allora delle intenzioni di Carlo Alberto e incerto della sua via, avrebbe potuto sottrarsi all'entusiasmo popolare e alla necessità della politica repubblicana. E in Italia, non guardando pure a soccorsi stranieri, le forze e l'ira unanime contro l'Austria eran tali da assicurare ai nostri, sotto la guida d'uomini che sapessero e volessero, vittoria non difficile e decisiva. Forse, il terrore di quel nome fatale e l'impossibilità d'avversare all'impeto della crociata italiana avrebbero cacciato alcuni fra i nostri prìncipi sulla via del dissenso e provocato allora le fughe che vennero dopo. Nuova arra di salute per noi, dacchè non avremmo avuto traditori nel campo. Ma fors'anche i tempi erano tuttavia immaturi per l'unità repubblicana, tanto importante quanto l'indipendenza, dacchè indipendenza senza unità non può stare, e l'arti o le influenze straniere farebbero in pochi anni l'Italia divisa campo di mortali guerre civili. Perchè l'Italia del Popolo avesse probabilità consentita d'esistenza, Roma dovea mostrarsi degna d'esserne la metropoli.
Comunque, la bandiera non era sorta: popolo e monarchia stavano uniti a fronte dello straniero sulle terre lombarde; il popolo avea accettato il programma di neutralità del governo provvisorio fra tutte parti politiche, e i repubblicani decisero di rinunciare ad ogni iniziativa politica, di aspettare pazienti che la volontà del popolo, vinta la guerra, si palesasse, e di consacrare ogni loro sforzo alla conquista dell'indipendenza.
Ed anche questo ci fu turpemente conteso dagli uomini del provvisorio e dai moderati, faccendieri del pensiero dinastico.
La vita errante, anzi che no tempestosa, che i credenti nella fede repubblicana durano da parecchî anni, ci contende di poter documentare con lettere, date, giornali, i fatti ai quali accenniamo. Ma io affermo la verità d'ogni sillaba mia sull'onore. Gli accusatori vivono: neghino se possono ed osano. Duolmi ch'io debba frammettere in questi cenni il mio nome; ma dacchè fui scelto—meritamente o no poco monta—da amici e nemici a rappresentare in parte il pensiero repubblicano, debbo all'onore della bandiera ciò che per me non farei. Trattai con silenzio sdegnoso, che volea dire disprezzo, le false accuse di aver nociuto per ostinazione di fini politici all'esito della guerra, che ci s'avventarono addosso da tutte parti, quand'io aveva stanza in Milano. Avrebbero detto allora ch'io scendeva a discolpe [35] per paura o desiderio di rimovere il turbine che s'addensava. Ma importa oggi che gl'Italiani sappiano il vero intorno agli uomini che li chiamano all'opra.
I fatti son questi.
Noi non avevamo fiducia che il governo provvisorio, giudicato collettivamente, potesse mai riescire eguale all'impresa. Ma dacchè avevamo, per amor di concordia, accettato il programma di neutralità fra i due principî politici, non potevamo spingere uomini dichiaratamente repubblicani al potere e cacciare il guanto ai sospetti e alle irritazioni della parte avversa alla nostra. Però, gl'influenti fra noi si strinsero intorno ai membri di quel governo, sperando da un lato che i consigli giovassero, dall'altro che il paese vedendoci uniti non rimetterebbe del suo entusiasmo—e finalmente, che il nostro frequente contatto suggerirebbe, per pudore non foss'altro, a quegli uomini di mantenersi sulla via solennemente adottata. Le prime mie parole in Milano furono di conforto al governo; le seconde, chiestemi da persona fautrice di monarchia, furono una preghiera a Brescia perchè in certe sue vertenze con Milano sagrificasse ogni diritto locale all'unione e al concentramento fatto allora indispensabile dalla guerra.
Noi non avevamo fiducia in Carlo Alberto o nei suoi consiglieri. Ma Carlo Alberto era in Lombardia e capitanava l'impresa che più di tutte ci stava a core! Noi non potevamo fare che il fatto non fosse; bisognava dunque giovar quel fatto tanto che n'escisse l'intento. Dietro al re stava un esercito italiano e prode; e dietro all'esercito un popolo, il piemontese, di natura lenta forse ma virile e tenace, popolo cancellato nella capitale da una guasta aristocrazia, ma vivo e vergine nelle provincie e depositario di molta parte dei fati italiani. Esercito e popolo ci eran fratelli; e il vociferare, come molti fecero, di propaganda anti-piemontese da parte nostra era calunnia pazza e ridicola. Bensì, perchè le varie famiglie italiane imparassero a stimarsi, amarsi e confondersi fraternamente davvero sul campo—perchè al popolo rimanesse colla coscienza di sagrificî compiuti, coscienza de' proprî diritti—e da ultimo perchè diffidavamo dei capi e antivedevamo, quand'altri urlava vittoria prima della battaglia, possibile, probabile forse, una rotta—volevamo che il paese s'armasse per potersi in ogni caso difendere: volevamo che a fianco delle forze regolari alleate si mantenesse, si rinvigorisse, rappresentante armato di questo popolo, l'elemento dei volontarî: volevamo che l'esercito lombardo si formasse rapidamente, su buone norme e con buoni uffiziali.
Il governo provvisorio voleva appunto il contrario.
Ignari di guerra e d'altro; fermissimi in credere che l'esercito regio bastasse a ogni cosa; vincolati, i più almeno, al patto della fusione monarchica e pensando stoltamente ch'unica via per condurre il disegno a buon porto fosse, che il re vincesse solo e il popolo fosse ridotto a scegliere tra gli Austriaci e lui; poco leali e quindi poco credenti nell'altrui lealtà, proclivi al raggiro politico perchè poveri di concetto, d'amore e d'ingegno—gli influenti tra i membri posero ogni studio nel preparare l'opinione alla monarchia piemontese e nel suscitare nemici alla parte nostra: nessuno nelle cose della guerra, nessuno nell'armare, nell'ordinare, nel mantenere infiammato e militante il paese; i pochi buoni tra loro non partecipavano al disegno, partecipavano al fare e al non fare per debolezza di tempra o per vincoli d'amistà individuale.
La condotta dei repubblicani fu semplice e chiara.
Un'associazione democratica, pubblica e con basi di statuti comunicati [36] al governo, fu impiantata dai giovani delle barricate nei giorni che seguirono la vittoria del popolo, e prima ch'io giungessi in Milano: avendo il governo annunziato[78] ch'ei convocherebbe nel più breve termine possibile una rappresentanza nazionale, affinchè un voto libero, che fosse la vera espressione del poter popolare, potesse decidere i futuri destini della patria, era naturale e giovevole che l'elemento repubblicano manifestasse con un atto legale la propria esistenza. Ma compito una volta questo dovere e adottata la linea di condotta accennata più sopra, l'associazione, messa da banda ogni questione politica, non s'occupò, nelle rare e pubbliche adunanze tenute, che di proposte di guerra. Io non v'intervenni, prima del 12 maggio, che una volta sola per atto d'adesione a' miei fratelli di fede e vi proposi che si spronasse e s'appoggiasse il governo.
La Voce del Popolo, giornale diretto dai più influenti tra i repubblicani, s'uniformava. Scriveva consigli eccellenti di guerra e finanze. Cercava infonder vita di popolo nel governo. La questione politica v'era toccata rare volte e di volo: la parola repubblica studiosamente evitata[79].
Se non che il governo era pur troppo, nato appena, incadaverito; nè galvanismo di consigli repubblicani poteva infondergli vita.
Il governo, stretto fin prima del nascere ad un patto di servitù, diffidava di noi, diffidava del popolo, dei volontarî, di sè stesso e d'ogni cosa, fuorchè del magnanimo principe. E il magnanimo principe campeggiava nei proclami, nei discorsi, nei bollettini grandiloqui, sì che ogni uomo s'avvezzasse a non vedere che in lui e nell'esercito che lo seguiva l'àncora di salute. Magnificava, in quel primo periodo, ogni scaramuccia che si combattesse intorno al Mincio fatale in battaglia quasi napoleonica; e stando a' suoi computi, gli Austriaci avrebbero dovuto essere, sul mezzo della campagna e quando appunto cominciavano a farsi minacciosi davvero, spenti pressochè tutti.
Il moto di tutta Italia verso i piani lombardi e le lagune della Venezia riusciva pei politici della fusione tardo ed inutile. La vittoria era certa, infallibile. I nostri consigli s'ascoltavano cortesemente, si provocavan talora: non s'eseguivano mai. Il popolo s'addormentava nella fiducia.
E v'era peggio. Mentre da noi si diceva: soccorrete ai volontarî; animateli: cacciateli all'Alpi, la perdita dei volontarî, repubblicani i più, era giurata: giurata fin dagli ultimi giorni di marzo quando Teodoro Lecchi fu assunto al comando del futuro esercito. Erano lasciati senz'armi, senza vestiario, senza danaro; fortemente accusati ogni qual volta la necessità li traeva a provvedersi da sè; sospinti al Tirolo, ai passi dell'Alpi, poi impediti dal combattere, forzati ad abbandonare quei luoghi e le insurrezioni nascenti: finalmente richiamati, feriti, essi i vincitori delle cinque giornate, nel più vivo del core, e disciolti[80]. Mentre da noi s'insisteva sulla rapida formazione d'un esercito lombardo e s'indicavan le norme; s'indugiava, s'inceppava [37] l'armamento, si sbandavano le migliaja di soldati italiani che abbandonavano il vessillo d'Austria, si commetteva l'istruzione degli accorrenti a ufficiali piemontesi fuor di servigio, taluni cacciati per colpe dai ranghi. Ricordo che alle mie richieste insistenti perchè a render più sempre nazionale la guerra e a prefiggere al giovane esercito uomini già esperti delle guerre d'insurrezione, si chiamassero i nostri esuli ufficiali in Grecia, in Ispagna, ed altrove, m'ebbi risposta che non si sapeva ove fossero. Non mi stancai, e ottenni, dacch'io lo sapeva, facoltà di chiamarli e firma, a convalidare il mio invito, del segretario Correnti. Ma quando giunsero, il ministro Collegno, allegando mutate le circostanze, da pochi in fuori, li ricusò[81]. E mentre da noi s'offrivano, ad affratellare colla nostra guerra il libero pensiero europeo e creare un senso d'emulazione nei nostri giovani, legioni di volontarî francesi e svizzeri, giungevano divieti dal campo, e il governo, obbedendo, rompeva le pratiche imprese in Berna e nel cantone di Vaud. Ma—e non era Garibaldi, reduce da Montevideo, accolto freddamente e con piglio quasi di scherno al campo monarchico, e rimandato a Torino a vedere se e come il ministero di guerra potesse giovarsi dell'opera sua?
Intanto, mentre queste cose accadevano in Milano, la guerra regia, rifiutate l'Alpi, si confinava oziosamente tra le fortezze. Intanto l'esercito austriaco, raggranellato, riconfortato, vettovagliato, aspettava, riceveva rinforzi. Il Tirolo era vietato a Carlo Alberto dalla diplomazia del 1815: la difesa del Veneto vietata in parte da segrete mene di governi stranieri e da speranze di lontani accordi coll'Austria, in parte e più assai dall'aborrimento, rivelato senza pudore, al vessillo repubblicano[82]. I principi italiani coglievano, a ritrarsi o raffreddare gli spiriti, pretesto dalle mire ambiziose che i fautori dell'Italia del nord manifestavano imprudentemente, sconciamente, per ogni dove. Pio IX vietava ai Romani passassero il Po. Il Cardinal Soglia corrispondeva in cifra con Innspruck. Corboli-Bussi si recava al campo del re esortatore di defezione[83] e cospiratore. I fati d'Italia erano segnati.
Sorgevano momenti ne' quali sembrava che il governo si destasse al senso della condizione delle cose de' proprî doveri, e allora—come chi per istinto sente dov'è l'energia—ricorreva ai repubblicani; ma tradiva le sue promesse e ricadeva nel sonno il dì dopo. Un messo segreto dal campo, una parola di faccendiere cortigiano, bastavano a mutare le intenzioni. Il povero popolo, già avviluppato in mille modi dai raggiratori, traeva forse da quel contatto inefficace tra noi e il governo nuova illusione di securità. E citerò un solo esempio.
La nuova della caduta d'Udine avea colpito gli animi di terrore. Fui chiamato a mezzanotte al governo, e trovai convocati parecchî altri influenti repubblicani. Bisognava, dicevano i governanti, suscitare il paese, avviarlo a sforzi tremendi, chiamarlo a salvarsi con forze proprie—e chiedevano additassimo il come. Scrissi sopra un brano di carta parecchie tra le cose ch'io credeva opportune a raggiunger l'intento, ma dichiarando che riescirebbero inefficaci tutte se il governo ne assumesse l'esecuzione. «Dio solo, dissi, può spegnere e risuscitare. Il vostro governo è screditato, e meritatamente. Il vostro governo ha oprato sinora a sopir l'entusiasmo, a creare colla menzogna una fiducia fatale. E voi non potete sorgere a un tratto predicatori di crociata e guerra di popolo senza diffondere nelle moltitudini il grido funesto di tradimento. A cose nuove uomini nuovi. Io non vi chiedo dimissioni che oggi parrebbero fuga. Scegliete tre uomini, monarchici o repubblicani non monta, che sappiano e vogliano e siano, se non amati, non disprezzati dal popolo. Commettete ad essi, sotto pretesto delle soverchie vostre faccende o d'altro, ogni cura, ogni autorità per le cose di guerra. Da essi emanino domani gli atti ch'io vi propongo. Intorno ad essi noi tutti ci stringeremo e staremo mallevadori del popolo». Tra le cose che si proponevano era la leva della totalità delle cinque classi quando al governo pareva soverchia la leva delle prime tre, e ne indugiava la convocazione al finire d'agosto, perchè i contadini potessero attendere pacificamente al ricolto. E rispondevano la bestemmia che i contadini erano austriaci d'animo e di tendenze: i poveri contadini delle prime due classi tumultuavano intanto contro i chirurghi che ne respingevano alcuni siccome inetti al servizio. Io insisteva perchè almeno si rifacesse una chiamata ai volontarî e mi poneva mallevadore, certo che l'esempio sarebbe seguito in ogni città per la formazione d'una legione di mille volontarî in Milano, purchè mi fosse concesso d'affiggere un invito e sottoscrivere prima il mio nome. E partiva applaudito e con promessa d'assenso.
Due giorni dopo, l'assenso all'arruolamento dei volontarî era rivocato. E quanto al comitato di guerra, fu trasformato in comitato di difesa pel Veneto e subito dopo in commissione di soccorsi al Veneto composta di membri del governo, e finalmente in nulla. Il segretario faccendiere di Carlo Alberto, Castagneto, aveva detto: «Che al re non piaceva di trovarsi un esercito di nemici alle spalle».
D'esempî siffatti, io potrei citarne, se lo spazio concedesse, parecchî.
Così si consumò il primo periodo della guerra. Nel secondo, il governo mutò di tattica. I moderati cominciavano, credo, ad antiveder la rovina; e a stabilire non foss'altro pel futuro incertissimo un precedente, diventavano frenetici di fusione monarchica. Farneticavano per le piazze promettendo a Milano che sarebbe capitale del nuovo regno; infanatichivano, con ogni sorta di menzogne, le moltitudini ignare contro ai repubblicani collegati coll'Austria e provocatori di [39] leve[84]: tormentavano il governo provvisorio, perchè non s'affrettava abbastanza. E i membri del governo, creduli o increduli alle stolte loro promesse, ridicevano, per mezzo dei loro agenti, al popolo—a quel popolo ch'essi avevano fino a quel giorno intorpidito, addormentato nella fiducia—che i pericoli diventavano gravi, che a difendere il paese mancavano gli uomini, mancava il danaro, mancava ogni cosa; ma che, al solo patto d'una prova di fiducia nel re, al solo patto della fusione, verrebbero milioni da Genova, migliaja d'armati dal Piemonte, benedizioni dal cielo, e senza leve, senza gravi sagrifici, la Lombardia vedrebbe compiuta l'impresa: coi repubblicani ch'essi avevan fermo in animo di tradire mutavano l'amicizia menzognera in freddezza, e affettavano sospetti di congiure che non avevano. Congiure a che? Se rovesciando quel meschino fantasma che s'intitolava governo, le sorti della guerra avessero potuto mutarsi, i repubblicani l'avrebbero rovesciato in due ore.
Sul cominciare di quel secondo periodo, quando la violazione del programma governativo era già decisa, e mentre io era già assalito, pel mio tacermi, di calunnie e minaccie da tutte parti, mi giunse inviato dal campo, e messaggiero di strane proposte, un antico amico, patriota caldo e leale. Parlava a nome del Castagneto già nominato, segretario del re, e proponeva: Ch'io mi facessi patrocinatore della fusione monarchica, m'adoprassi a trarre alla parte regia i republicani, e m'avessi in ricambio influenza democratica quanta più volessi negli articoli della costituzione che si darebbe; colloquio col re e non so che altro.
Primo nostro intento e sospiro antico dell'anime nostre era—ed è—l'indipendenza dallo straniero: secondo, l'unità della patria, senza la quale l'indipendenza è menzogna: terzo, la repubblica—e intorno a questa, indifferenti a ciò che riguarda noi individui, e certi, quanto al paese, dell'avvenire, noi non avevamo bisogno d'essere intolleranti. A chi dunque m'avesse assicurato l'indipendenza, e agevolato l'unità dell'Italia, io avrei sagrificato, non la fede, ch'era impossibile, ma il lavoro attivo pel trionfo rapido della fede: a me la solitudine e la facoltà, che nessuno avrebbe potuto mai tormi, di versare in un libro, da stamparsi quando che fosse, quel tanto d'idee ch'io credessi utili al mio paese, bastava, e per amor dell'indipendenza, i repubblicani non avevano aspettato, a tacer di repubblica, gli inviti d'un re. Ma la questione era allora tutta di guerra. E fatale all'esito della guerra noi ritenevamo il concetto federalistico, troppo ambizioso pei nostri principi e per la diplomazia, troppo poco per le popolazioni d'Italia, dell'Italia del nord. L'entusiasmo popolare era, mercè quel concetto, già spento; e i governi erano ostili e i mezzi che il paese somministrava condannati all'inerzia e le probabilità della guerra cresciute pur troppo a' danni nostri. A volgerlo in favor nostro, a ricreare lo spirito che vince ogni ostacolo, era solo [40] una via: far guerra, non di principi, ma di nazione. E per questo, bisognava un uomo che osasse e si vincolasse a non retrocedere per egoismo e codardia nell'impresa. Voleva Carlo Alberto esser l'uomo? Ei doveva dimenticare la povera sua corona sabauda e farsi davvero spada d'Italia: doveva, poichè i governi tutti gli eran nemici, rompere dichiaratamente, irrevocabilmente, con essi e raccogliersi intorno, congiunti, ravvivati in un grande pensiero, i buoni, quanti erano tra l'Alpi e gli estremi confini della Sicilia, in Italia. Così avremmo saputo ch'ei parlava o voleva operare da senno, e noi avremmo potuto tentare ogni nostro modo per sommovere a pro del suo intento tutti gli elementi rivoluzionarî italiani. Dove no, meglio era lasciarci in pace. Noi potevamo e dovevamo sagrificare per un tempo alla salute d'Italia anche la nostra bandiera; ma nè potevamo nè dovevamo sagrificarla—e con essa quel tanto d'influenza sulle sorti del paese che la nostra costanza in una fede ci dava—ad un re che non volendo avventurar cosa alcuna del suo, nè affratellarsi col pensiero italiano, nè cangiare in meglio le condizioni della guerra, avrebbe potuto ritrarsi dall'arena a suo piacimento e dirci: Voi, credenti, accettavate transigere.
Queste cose a un dipresso io risposi a quell'inviato. Richiesto del come il re potesse farsi mallevadore delle sue intenzioni a pro della unità del paese, risposi: Firmando alcune linee, che le rivelino; e richiesto s'io scriverei quelle linee, presi la penna e le scrissi. Erano, con mutazioni di forma ch'or non ricordo, le stesse ch'io, con intento, inserii più dopo nel programma dell'Italia del Popolo pubblicato in Milano; e le trascrivo:
Io sento maturi i tempi per l'unità della patria: intendo, o italiani il fremito che affatica l'anime vostre. Su, sorgete! io precedo. Ecco: io vi do, pegno della mia fede, spettacolo ignoto al mondo d'un re sacerdote dell'epoca nuova, apostolo armato dell'idea-popolo, edificatore del tempio della nazione. Io lacero nel nome di Dio e dell'Italia i vecchi patti che vi tengono smembrati e grondano del vostro sangue: io vi chiamo a rovesciare le barriere che anch'oggi vi tengon divisi e ad accentrarvi in legione di fratelli liberi emancipati intorno a me, vostro duce, pronto a cadere o vincer con voi.
L'amico partì. Pochi dì dopo mi fu fatto leggere un biglietto del Castagneto, che diceva: Vedo pur troppo che da questo lato non v'è da far nulla. Quando mai può un'idea generosa, potente d'amore e d'avvenire per una nazione, allignare nel cuore d'un re?
Noi seguimmo a tacer di politica[85] e a giovare come meglio potevamo, d'opera e di consiglio, la guerra. Ma la guerra non era più italiana, non era lombarda; era piemontese e d'una fazione. Ministero, organizzazione, amministrazione, tutto era in mano d'uomini devoti ad essa. Il governo non aveva missione da quella infuori di ricevere i bollettini dal campo e magnificarli e preparare il funesto decreto del 12 maggio.
Ed escì. Il programma di neutralità fu violato, quando pei sinistri eventi, che facevano presagire la catastrofe non lontana, importava più che mai attenervisi, per non gittar nuovi semi di discordia nel campo, per non togliere apertamente il suo carattere nazionale alla [41] guerra, e per lasciar non foss'altro eredità d'un principio alla insurrezione futura. Noi perorammo, scongiurammo il governo, ma inutilmente. Volevan servire.
E allora—allora soltanto—noi sentimmo necessità di protestare in faccia all'Italia. Quei che erano a quei giorni in Milano sanno che il farlo non era senza pericolo. E dovrebb'essere nuovo indizio a tutti, avversi o propizî, che noi non avevamo lungamente taciuto se non per amor di patria e per non rompere quella concordia, che, anche apparente, poteva giovare alla guerra.
Il dì seguente al decreto, pubblicammo il documento seguente:
AL GOVERNO PROVVISORIO CENTRALE
DELLA LOMBARDIA.
«Signori,
«Quando, compiti i prodigi delle cinque giornate, sublimi di vittoria e di fiducia nei risultati della vittoria, il popolo, solo sovrano su questa terra redenta col suo sangue, v'accettò capi, esso vi commetteva un doppio mandato: provvedere all'intera emancipazione del paese; e preparargli un terreno libero sul quale l'espressione del suo voto intorno ai futuri destini potesse sorgere spontanea, illuminata dalla discussione fraterna, accettata da tutti i partiti, solennemente legale, in faccia all'Europa, pura di basse speranze e di bassi timori, degna dell'Italia e di noi.
«E i popoli d'Italia, che tutti si sapevano fratelli a noi, tutti mandavano, come concedevano le distanze e le circostanze particolari, uomini loro a combattere la santa guerra, vi confermavano tacitamente lo stesso mandato. Sentivano che qui, su questa terra lombarda dove moto e trionfo erano cose di popolo, si agitavano le sorti di tutta Italia: che qui in una importantissima parte d'Italia, da parecchî milioni d'uomini generosi, doveva compiersi, con voto libero e meditato, un esperimento forse decisivo sulle vere tendenze, sugli istinti, sui desiderî che fermentano in core alle moltitudini, e ne decideranno la nuova vita.
«Voi intendeste allora, signori, quel mandato, o mostraste d'intenderlo. E poichè non trovavate in voi potenza o diritto d'iniziativa, dichiaraste solennemente più volte che l'iniziativa spettava tutta intera al popolo, e che il popolo solo, emancipato il territorio e finita la guerra, avrebbe discusso e deciso, raccolto in assemblea costituente, intorno alle forme che dovrebbero reggerne la vita politica.
«E dichiarandolo, voi di certo non intendevate, cosa impossibile, ingiusta, che un popolo intero si rimanesse muto, per un tempo indefinito, sulle questioni più gravi e più vitali per lui: voi non potevate ragionevolmente pretendere ch'ei combattesse senza sapere il perchè; ch'ei conquistasse vittoria senza interrogarsi quali sarebbero i frutti della vittoria, ch'ei si facesse soldato della libertà cominciando dal rinnegarla e dal contendersi ogni diritto di pacifica e fraterna parola.
«Le opinioni a poco a poco si rivelarono. Era cosa buona, era la educazione preparatoria, che voi non davate al popolo, offertagli dai migliori fra' suoi fratelli perchè il giorno dell'assemblea avesse il suo voto illuminato e pensato; era prova data all'attenta Europa [42] che le popolazioni lombarde non s'erano mosse per solo e cieco spirito di riazione, ma perchè sentono i tempi maturi per entrare con coscienza di diritti e doveri nel grande consorzio delle nazioni. Voi non dovevate atterrirvi, ma rallegrarvene; e solamente avevate debito di usare di tutta la vostra influenza perchè il campo fosse aperto a tutti egualmente, perchè la discussione si mantenesse scevra di raggiri e d'intolleranze, nei termini d'una pacifica e fraterna polemica.
«Voi sapete, o signori, quale fra le diverse opinioni fosse prima ad uscire da quei limiti consentiti di discussione. Voi sapete che mentre la opinione alla quale si onorano di appartenere i segnati qui sotto si manteneva tranquilla e pacata sull'arena della persuasione—mentre insisteva essa sola sul terreno legale assicurato da voi e v'appoggiava in ogni occasione e con ogni sforzo—mentre esagerava, a proprio danno, la virtù di moderazione, altri più impaziente, perchè men sicuro di giusti argomenti, infervorava nella questione tanto da mutare quasi in lotta la discussione, in minaccia la parola amica. A voi toccava, amati siccome eravate, inframmettere una parola conciliatrice; e non lo faceste. Più dopo, uomini d'alcune provincie, traviati a partiti illegali, pericolosi, tentarono apertamente lo smembramento dell'unità collettiva dello Stato, parlarono di dedizioni immediate senza il consenso dei loro fratelli, aprirono il varco, violando la debita soggezione al vostro governo centrale, all'anarchia del paese; iniziarono liste, le presentarono rivestite del prestigio d'autorità secondarie a popolani illusi, agli ignari abitatori delle campagne; raccolsero in un subito firme, le raccolsero in più luoghi con arti subdole, con abuso di nomi. Questi abusi, questi artificî vi furono noti, o signori! voi riceveste lagnanze e prove; alcuni tra noi ricordano parole vostre in proposito, e le ridiranno, s'altro non giova, alla storia. Era obbligo vostro santissimo punire quei tentativi, illuminare colla vostra parola pubblica le illuse popolazioni; ridire ad esse, ridire a tutti il vostro programma e le ragioni che militavano a mantenerlo, diffonderlo con tutti i mezzi che stavano in mano vostra per ogni dove; invocare l'amore al paese e il senso diritto de' vostri concittadini. Voi nol faceste, e mentre l'agitazione prodotta da mene siffatte nel popolo inconscio domandava a sedarsi una vostra parola, e molti fra gli onesti d'ogni partito vi traducevano questa dimanda, voi ricusaste; voi vi ravvolgeste in un silenzio funestissimo, inesplicabile; voi lasciaste procedere, immobili, quella condizione di cose; ed oggi voi l'invocate, esagerandola, a scolparvi della violazione al programma accettato dalla nazione; oggi, mentre l'amore al paese e il senso diritto de' Lombardi cominciano a diminuire, per opera propria, i pericoli—oggi che da talune delle città traviate cominciano a giungervi, non provocate da voi, prove di ritorno a più giusto sentire e proteste di adesione all'antico programma—il vostro decreto del 12 lo sacrifica, sanziona quei procedimenti funesti e chiama i cittadini non preparati a decidere in un subito le sorti del paese con un metodo illegale, illiberale, indecoroso, architettato al trionfo esclusivo d'un'opinione sull'altra.
«Il metodo dei registri è illegale, perchè viola per autorità vostra il programma ch'era condizione della vostra esistenza politica in faccia al paese; perchè invola la più vitale, la più decisiva fra le questioni all'Assemblea costituente.
«Illiberale perchè sopprime la discussione, base indispensabile al voto; cancella un diritto inalienabile del cittadino, e sostituisce all'espressione [43] pubblica e motivata della coscienza del paese il mutismo e la servilità dell'impero.
«Indecoroso perchè affrettato; perchè tende a trasmutare ciò che potrebbe esser prova d'affetto sentito e di maturato convincimento in dedizione di codardi impauriti; perchè la guerra pendente e la presenza d'un esercito che rappresenta una opinione rapisce alla decisione ogni dignità; perchè in faccia all'Italia e all'Europa noi appariremo a torto in sembianza d'uomini condotti da interessi immediati e paure, e i generosi che ci sono fratelli e che ci salutarono, combattendo, fratelli, appariranno a torto conquistatori.
«Architettato al trionfo esclusivo d'un'opinione sull'altra, perchè coglie a imporsi il momento in cui quell'opinione ha preparato in tutti i modi e con tutti gli artificî il terreno; e perchè voi non vi limitate neppure a chiedere al popolo se intende o no procedere immediatamente a una decisione, ma escludete dai vostri registri una delle soluzioni al problema, e ne sopprimete qualunque espressione.
«Signori, voi avete violato il vostro mandato.
«Noi crediamo debito nostro dolorosissimo il dirvelo: dolorosissimo non per ciò che spetta alle future sorti d'Italia; le sorti d'Italia stanno in più alta sfera che non è quella in che i governi provvisorî s'aggirano; ma perchè noi v'abbiamo lungamente difesi ed amati: e perchè, noi lo crediamo, il decreto del 12 maggio turberà lungamente la pace della vostra coscienza.
«Signori; le conseguenze immediate di quel decreto potrebbero riescire sommamente pericolose alla pace domestica e alla libertà del paese. Voi somministrate con esso un pretesto all'intervento straniero che tutti lamenteremo. Voi, rompendo la vostra neutralità per farvi a un tratto settatori d'un'opinione esclusiva, cacciate un guanto di sfida imprudente alle opinioni sagrificate.
«Dio ajuti l'Italia e rimova il pericolo, che voi le suscitate, degli stranieri! Quanto a noi, amiamo la patria comune più che noi stessi. Noi non raccoglieremo quel guanto. Noi non resisteremo pei nostri diritti perchè la resistenza sarebbe cominciamento di guerra civile, e la guerra civile, colpevole sempre, lo sarebbe doppiamente oggi che lo straniero invade tuttora le nostre contrade. Ma i nostri concittadini ci terranno, noi lo sappiamo, conto del sacrificio.
«A noi basta per ora, o signori, protestare solennemente in faccia all'Italia e all'Europa e a quiete della nostra coscienza. Il buon senso della nazione e l'avvenire faranno il resto».
Così, la parte repubblicana, ingannata con false promesse, aggirata per lunga pezza dal contegno gesuiticamente amichevole del governo provvisorio, poi perseguitata d'accuse villane, di stolte minaccie e di perfide insinuazioni diffuse tra il popolo, e tradita a un tratto nelle sue più care speranze da un decreto che alla libera, solenne, pacifica discussione d'una Costituente dopo la vittoria sostituiva una muta votazione su registri e, pendente la spada di Damocle sulla testa ai votanti, rispondeva parole di dignitosa e severa mestizia ai violatori della pubblica fede, pur dichiarando di non volere, per amore di quella concordia che essi soli avevano, tacendo, serbata sino al 12 maggio, raccogliere il guanto—la plebe dei moderati, irritata, arse in Genova quella protesta. Noi potevamo rispondere, in modo non dissimile da Cremuzio Cordo: ardete anche i buoni tutti d'Italia in quel rogo, perch'essi sanno la verità che noi diciamo a memoria.
Pochi dì dopo, pubblicavamo il programma dell'Italia del Popolo. [44] Ed anche allora, il nostro era linguaggio di conciliazione. «La nostra è missione di pace. Fratelli tra fratelli, noi concediamo e rivendichiamo il diritto di libera parola, senza la quale non è fratellanza possibile. Chi vorrebbe, chi potrebbe contenderlo? Non è santo, in Italia, il pensiero? Non prorompe dal conflitto delle opinioni la verità? Ov'è chi già la possieda infallibile, intera? Ah, se i fratelli potessero mai impor silenzio ai fratelli, se un diverso convincimento intorno ai modi di far questa nostra patria una, libera, grande, potesse mai farci nemici gli uni degli altri, i presentimenti d'un'Italia futura sarebbero menzogna e ironia. Il problema dei nostri fati è problema di educazione. Educhiamo. Noi rinunziammo, da quando albeggiò sulla nostra terra la libertà di parola, al lavoro segreto, alle vie, sante nel passato, d'insurrezione. Pieghiamo noi tutti riverenti il capo davanti al giudizio sovrano, legalmente manifestato, del popolo. Accettiamo i fatti che, consentiti dal popolo, si producono successivi fra il presente e l'ideale che splende, come una stella dell'anima, davanti a noi. Ma chi fra' nostri oserebbe dirci: rinnegate quell'ideale? Lasciate, in nome di Dio, in nome dell'inviolabilità del pensiero, che questa nostra bandiera, bandiera, voi tutti lo dite, dei dì che verranno, sventoli sorretta da mani pure, nella sfera dell'idea, quasi presagio aleggiante intorno alla culla d'un popolo che sorge a nazione! Noi sappiamo che dov'anche moveste in oggi per altre vie, voi verrete un giorno a raccoglierla sui nostri sepolcri. Ma la raccoglierete illuminati, mercè nostra, sul suo potente significato, sul valore delle sacre parole Dio e il popolo che vi splendono sopra: la raccoglierete, non per subito impulso di concitate passioni o di riazioni contro le tirannidi spente, ma come legato de' nostri padri, purificato, discusso dagli studî, e dalla meditata esperienza dei vostri fratelli. E intanto noi ci abbracceremo sul terreno comune che le circostanze c'insegnano: l'emancipazione della patria, l'indipendenza dello straniero che la minaccia. Studieremo insieme i modi più attivi, più efficaci di guerra contro l'Austriaco; susciteremo insieme il nostro popolo all'opera; indicheremo ai governi la via da tenersi per vincere; moveremo su quella con essi. Primo nostro pensiero sarà la guerra; secondo, l'unità della patria; terzo, la forma, l'istituzione che deve assicurarne la libertà e la missione. Ora i nostri lettori sanno chi siamo e l'inspirazione che ci dirigerà nel nostro lavoro. Spetta ad essi il giudizio: ai giovani, consacrati dall'amore e dall'intelletto, sacerdoti del progresso italiano, l'ajutarci fraternamente all'impresa. Noi seguiremo, avvenga che può, come le leggi future e gli eventi concederanno. E s'anche, fraintesi dagli uni, tiepidamente soccorsi dagli altri, cadessimo a mezzo la via, noi diremo, sereni e assicurati dalla pura coscienza: perisca il nostro nome; si sperda la memoria del molto affetto, dei molti dolori patiti, e del poco che noi facemmo; ma rimanga, santo, immortale, il pensiero, e Dio gli susciti migliori e più avventurosi apostoli negli anni futuri».
Siffatte erano le nostre parole. E nondimeno, noi fummo per ogni dove accusati d'avere, sostituendo un'idea politica alla questione di indipendenza, nociuto alla guerra e seminato dissidî tra le forze che dovevano combatterla unite! E tanto fu diffusa e ripetuta la falsa accusa, ch'oggi ancora serpeggia all'estero e in patria per opera di uomini illusi o tristi. I repubblicani dovevano combattere e discussero. La storia intanto dei fatti documentati dice e dirà: che i repubblicani furono i primi a combattere, gli ultimi a discutere. Dirà che i repubblicani [45] combattevano sulle barricate mentre i moderati congiuravano con Torino—che repubblicani erano pressochè tutti coloro i quali, inseguendo gli Austriaci fuor di Milano, o uscendo da Como, si spingevano fino al Tirolo, mentre il governo provvisorio moveva i primi passi a render possibile più tardi la dedizione—repubblicani i volontarî che l'undici aprile s'impossessavano della polveriera di Peschiera—repubblicani i più tra gli uomini che pugnarono per Treviso, e sostennero per diciotto ore, il 23 maggio, in Vicenza l'urto di diciottomila uomini e di quaranta cannoni—repubblicani gli studenti che riuniti in corpo chiedevano, scongiuravano d'essere condotti al nemico—repubblicani gli uomini che sul finire del maggio formarono il così detto battaglione lombardo, e mossero a difesa del Veneto abbandonato, tradito dalla guerra regia. Dirà che repubblicano e fondatore della Società democratica era Giuseppe Sirtori, salito più tardi a meritata fama di guerra in Venezia—repubblicano il Maestri, membro del comitato di difesa negli ultimi giorni della guerra—repubblicano, egli e chi lo seguiva, il Garibaldi che lasciò ultimo senza codardie di patti o armistizî il suolo lombardo. E dirà che di guerra furono tutte le proposte escite dalla fratellanza repubblicana; per la guerra unicamente e contro l'inerzia del governo tutte le agitazioni che dopo il 12 maggio si rivelarono in piazza San Fedele. Il protagonista, dell'unica manifestazione che assumesse per un istante colore politico—quella del 29 maggio—l'Urbino, era giunto da poco di Francia, ignoto ai repubblicani, non veduto fuorchè una sola volta da me.
Il 29 maggio furono chiusi, esaurita la votazione, i registri. Come se ad ogni trionfo dei moderati dovesse corrispondere una sciagura nazionale, il fiore della gioventù toscana cadeva in quel giorno, sagrificato, per inscienza di guerra o peggio[86], sui ridutti di Montanara e di Curtatone.
L'8 giugno fu pubblicata la cifra dei voti. Il 13, due giorni dopo caduta Vicenza, una deputazione recava, duce il Casati, al campo del re l'atto solenne della fusione. La vittoria era della fazione; l'intento della guerra regia era finalmente raggiunto: svanita per allora ogni possibilità di repubblica e un precedente, come lo chiamano i diplomatici, conquistato alla dinastia di Savoja. I regî a quel tempo diffidavano già di vincere, e un precedente, un titolo da tenersi in serbo a giovarsene nei futuri rivolgimenti e nei futuri congressi, era per molti fra loro la somma speranza. Quindi la fusione affrettata, in onta alle promesse e all'utile della causa, nella Lombardia; e peggio nella santa eroica Venezia, dove il 6 agosto, segnate già da due giorni le basi della turpe cessione all'Austria, giungevano a prender possesso, [46] in nome di re Carlo Alberto, della città i due commissarî Colli e Cibrario. Ah! duri l'esilio per noi, duri per voi, fratelli miei, l'oppressione, anzi che debba un'altra volta vedersi profanato per siffatte oscene miserie il grande concetto italiano e dato ai traffichi di un'ambizione dinastica l'entusiasmo e il sangue dei prodi! Perchè, come nelle lagrime si santifica la virtù, così nei patimenti inflitti dalla tirannide si purificano le nazioni; ma per arti di menzogna e calcoli d'egoismo non si sollevano popoli alla libertà: si sfibrano nell'inerzia della diffidenza e si condannano a tale una lenta agonia d'ogni facoltà potente e d'ogni palpito generoso da far lungamente piangere le madri in terra e gli angioli in cielo.
Ed era agonia!—noi più miseri di tutti gli altri che senza illusioni interrogavamo i segni crescenti del male e numeravamo i battiti del polso alla grande morente, nè potevamo sclamare: la libertà d'Italia perisce, senza ch'altri ci gridasse terrificatori e alleati dell'Austria!
Fin dall'aprile, per odio ai volontarî e obbedienza alla diplomazia, l'impresa del Tirolo s'era abbandonata. Il Friuli era perduto e aperto al nemico. E perduta era la provincia veneta, dove Padova, Vicenza, Treviso, Rovigo, l'una dopo l'altra cadevano senza che un soldato del re movesse a soccorrerle: ai regi importava, non di salvare il Veneto, ma di strappare, col terrore della rovina e con false speranze di redenzione, a Venezia il voto del 5 luglio. Promesse date a governi stranieri contendevano ogni operazione—e poteva riescir decisiva—contro Trieste. La flotta sarda, in virtù d'obblighi reiteratamente e inesplicabilmente contratti, si rimaneva inattiva: l'11 giugno, ad ajutare in Venezia i raggiratori della fusione, s'era annunciato che in un coi Veneti i legni sardi avrebbero tentato una impresa; ma, raggiunto l'intento, l'ordine di mossa si rivocava. Gli Austriaci, rinforzati a lor senno, maturavano gli estremi disegni. Poco dopo il decreto del 12 maggio, il re di Napoli aveva richiamato le sue truppe. Le dichiarazioni del papa a Durando avevano reso pressochè inutili gli ajuti romani. L'atto di fusione aveva, rivelando nuovi pericoli ai governi italiani dall'ambizione della casa di Savoja, tolta ogni speranza di cooperazione da parte loro; aveva, col fantasma d'una costituente sardo-lombarda, irritati più sempre i timori, gli odî e maneggi segreti dell'aristocrazia torinese. Le tristi necessità, che accennammo più sopra, della guerra regia avevano creato il vuoto e l'isolamento intorno al campo di Carlo Alberto.
E a isolarsi in Europa, a privarsi d'ogni speranza di soccorso dall'estero, sommavano le necessità della regia diplomazia: tortuosa del resto come fu sempre la politica di casa Savoja, e incerta e tentennante come il pensiero del re.
La storia diplomatica di quel periodo è tuttavia arcana e rimarrà tale per qualche tempo. Vivono, e pressochè tutti in potere, gli uomini che la maneggiarono; e importa ad essi sottrarne i documenti alle povere aggirate popolazioni. Però, anche la collezione inglese, citata più volte, è visibilmente manchevole nella parte che più rileva. Ma le linee principali trapelano di sotto al velo e giova, a compimento di questo lavoro, accennarle.
La guerra fra i due principî era generale in Europa: l'entusiasmo suscitato dai moti italiani, e segnatamente dall'insurrezione lombarda e dai prodigi delle cinque giornate, era immenso; e l'Italia poteva, sapendo e volendo, trarne quanta forza era necessaria a controbilanciare ogni forza di riazione nemica. Ma per questo bisognava, checchè temessero i meschini politici moderati, dar carattere apertamente, audacemente nazionale, a quei moti, tanto da spaventare i nemici e offrire [47] un elemento potente d'ajuto agli amici. Gli uni e gli altri presentivano maturi i tempi, e cominciavano a credere che l'Italia sarebbe; ma l'Italia, non il regno del nord. Ricordo le confortatrici parole a me rivolte nelle sue stanze, due giorni prima ch'io rimpatriassi, da Lamartine in presenza, fra gli altri, d'Alfred de Vigny e di quel Forbin Janson ch'io doveva più tardi ritrovarmi davanti predicatore di restaurazione papale e cospiratoruccio raggiratore in Roma. «L'ora ha battuto per voi—diceva il ministro—ed io ne sono siffattamente convinto, che le prime parole da me commesse al signor d'Harcourt pel papa a cui l'ho spedito sono queste: Santo padre, voi sapete che dovete essere presidente della repubblica italiana». Il d'Harcourt aveva ben altro che dire al papa per conto della fazione che avvolgeva Lamartine nelle sue spire mentr'ei s'illudeva di padroneggiarla. Nè io dava importanza più che di sintomo alle parole di Lamartine, uomo d'impulsi e di nobili istinti, ma fiacco di fede, senza energia di disegno determinato, e senza conoscenza vera degli uomini e delle cose. Bensì, egli era l'eco d'una tendenza prepotente, in quei momenti di concitamento, sulle menti francesi; e una bandiera di nazione risorta, un programma, se non risolutamente repubblicano, come quello almeno della costituente italiana, avrebbe, in Francia, fatto forza ad ogni più esitante governo. Da cose grandi nascono cose grandi. Il concetto pigmeo dei moderati agghiacciò gli animi per ogni dove e comandò politica diversa alla Francia. Il popolo italiano era alleato più che forte a salvare la repubblica da ogni pericolo di guerra straniera; un regno del nord, in mano di principi mal fidi e avversi per lunga tradizione ai repubblicani di Francia, aggiungeva un elemento pericoloso alla lega dei re. La nazione da quel giorno ammutiva e lasciava libero il suo governo di commettere i fati della repubblica all'ignoto avvenire e non aver politica alcuna per l'estero. L'Inghilterra, comechè l'idea d'una Italia possa ingelosirne il governo, non era tale da contrastare a una solenne manifestazione nazionale: politica perpetua inglese è quella di creare ostacoli al sorgere d'ogni fatto che introduca un nuovo elemento nell'assetto europeo, e di riconoscere prima quel fatto, sorto che sia e potentemente iniziato. E le due cagioni che rendevano meno avversa l'Inghilterra alla formazione del nuovo regno—l'impianto d'una barriera alla Francia conquistatrice e la necessità creata all'Austria di cercare un compenso nelle provincie turche e costituirsi ostacolo alle mire russe—militavano con più vigore per l'ipotesi nazionale. L'Austria sentiva il nembo, e non intravvedeva possibilità di difesa. Se domani—scriveva a Londra a lord Palmerston il barone Hummelauer[87]—se domani i Francesi varcassero l'Alpi e scendessero in Lombardia, noi non moveremmo a incontrarli. Noi rimarremmo a principio nella posizione di Verona e sull'Adige; e se i Francesi venissero in cerca di noi, noi retrocederemmo verso le nostre Alpi e l'Isonzo; ma non accetteremmo battaglia. Noi non ci opporremo all'ingresso e alla marcia dei Francesi in Italia. Quei che ve li avranno chiamati potranno a lor posta sperimentare anche una volta la loro dominazione. Nessuno verrà a cercarci dietro le nostre Alpi; e rimarremo spettatori delle lotte che avranno sviluppo in Italia.
Io non dico che si dovesse o non si dovesse chiamare gli eserciti francesi in Italia. Io credeva allora e scrissi più volte sull'Italia del Popolo—comechè a noi repubblicani venisse dalla stessa gentaglia, che ci chiamava alleati dell'Austria, gettata continuamente in viso [48] l'accusa di volere far decidere le nostre liti dallo straniero—che noi Italiani avevamo, purchè uniti e volenti, forze nostre a dovizia per emanciparci: e lo credo anch'oggi. Ma dico che a sciogliere il nodo bisognava o giovarsi degli ajuti stranieri o chiamar sul campo tutte le forze vive della nazione; e dico che gli ajuti di Francia in quei giorni erano, per chi li avesse voluti, certi, immancabili. I moderati respinsero gli uni e non vollero, anzi addormentarono e soffocarono l'altre. Era stoltezza e tradimento ad un tempo. A noi, che di certo sentivamo italianamente quant'essi e volevamo liberarci con armi nostre suscitando a crociata il paese, pareva utile e giusto che la fratellanza dei popoli ricevesse pure consecrazione sui campi delle prime nostre battaglie e s'accettasse con riconoscenza l'offerta d'una numerosa legione di volontarî francesi, che avrebbe coi primi fatti bastato a cimentar l'alleanza morale tra le due nazioni e a mostrar da lungi come probabile l'ajuto governativo. Ma che sperare da uomini, ai quali non era rossore il condannare—per terrore d'un rimprovero da Pietroburgo—all'ozio increscioso d'una caserma in Milano Mickiewicz e i suoi Polacchi sino al giorno in cui la determinazione di sottrarli a Venezia, che per mio suggerimento li aveva accettati, fe' sì che fossero chiamati al campo?
Carlo Alberto e i suoi non volevano gli ajuti di Francia, non per orgoglio nazionale nè per coscienza di secura vittoria, ma come non volevano gli Svizzeri e i volontarî, per paura dell'idea, della bandiera repubblicana. Un timido indirizzo fatto sul cominciar della guerra, e senza chiedere ajuti, al governo di Francia, meritò rimproveri severi dai regî al governo provvisorio. E le istruzioni date agli agenti sardi imponevano di chiudere possibilmente ogni via all'intervento francese. L'esercito francese—diceva orgogliosamente, il 12 maggio, Pareto alla Camera torinese—non entrerà se non chiamato da noi; e siccome noi non lo chiameremo, non entrerà. E si minacciava sul finir di luglio resistenza aperta a ogni tentativo d'intervento che venisse di Francia. A tenersi intanto diplomaticamente amico il governo francese e a carpire promessa d'approvazione al regno del nord quando sarebbe giunto il tempo di farlo accettare dalle potenze europee, i moderati assumevano segretamente l'obbligo di cedere la Savoja. Di questo ho certezza. E la Savoja era eliminata da una carta del futuro regno fatta disegnare a quel tempo in Torino a norma segreta d'alcuni fra gli agenti sardi, e un esemplare della quale sta in nostre mani. Mercè quel pattuito mercato, Lamartine dimenticava le sue prime aspirazioni repubblicane; e mentre il segretario degli esteri, Bastide, dichiarava a me e a qualunque altro volesse udirlo che la Francia era inesorabilmente ostile alle mire ambiziose di Carlo Alberto, l'inviato francese in Torino, signor Bixio, perorava indefesso per la fusione e mi spediva a Milano, per tentar di convincermi, il suo segretario. Di siffatte vergogne diplomatiche e del continuo oblio del principio scritto sulla sua bandiera, la Francia paga oggi il fio col decadimento del suo nome all'estero e coll'anarchia che la rode.
Dei maneggi politici che i faccendieri del re millantavano coll'Inghilterra, i documenti non hanno indizio. Ma l'Austria, forse da principio, sinceramente atterrita com'era dalle proprie condizioni interne ed esterne, più dopo con intenzione visibile di guadagnar tempo, tentò più volte il gabinetto inglese perchè si facesse mediatore e paciere fra l'insurrezione e l'impero.
Fin dal 5 aprile, Ficquelmont annunziava da Vienna al conte Dietrichstein, ambasciatore austriaco in Londra, l'invio d'un commissario imperiale in Italia incaricato di negoziare per una riconciliazione [49] sulle più larghe basi possibili[88], e pregava perchè lord Palmerston appoggiasse le sue proposte. Non so se il commissario giungesse in Italia o con chi favellasse; ma le larghe basi non eccedevano allora i limiti dell'indipendenza amministrativa. Se non che da un altro dispaccio spedito lo stesso giorno al Ficquelmont dal barone di Brenner, incaricato d'Austria in Monaco[89], appare un primo indizio o tentativo o desiderio di non foss'altro scambievoli cortesie fra i due nemici per iniziativa di Torino: e merita attenzione. Era una comunicazione scritta delle intenzioni di S. M. Sarda risguardanti le relazioni pacifiche da mantenersi sul mare; ma i modi della comunicazione e parecchî accessorî, e l'interpretazione data al buon ufficio dall'Austria, moverebbero sospetto d'altro. Il marchese Pallavicini, incaricato della comunicazione, s'indirizzava al Severine, ministro di Russia in Monaco, perchè manifestasse come intermediario all'Austria il desiderio della corte di Torino, e gli ottenesse un colloquio col Brenner. L'abboccamento aveva luogo il 5—non già, come parea naturale, nella residenza del Severine dacchè non bisognava risvegliar l'attenzione degli sfaccendati curiosi in Monaco—ma in casa d'un Voillier, consigliere della legazione di Russia; e fu scelta come il luogo più adatto perchè situato in una parte più remota, poco osservata della città: il Pallavicini insisteva perchè non si ritardasse di un'ora. La nota fu trasmessa da quest'ultimo al Brenner, coll'aggiunta da leggersi nel dispaccio, «che con quella comunicazione il governo sardo desiderava allontanare per quanto era in esso le conseguenze funeste che il conflitto nel quale il Piemonte si trovava sventuratamente impegnato coll'Austria, potrebbe avere per gli interessi del commercio marittimo ne' due paesi»—forse con altre aggiunte da non leggersi nel dispaccio: e la nota stessa consegnata dal Pallavicini, mandata al Ficquelmont, e da lui, per copia, al Dietrichstein in Londra, non è da trovarsi fra i documenti. Comunque, i due conversavano sulle faccende correnti, e il Brenner nota che il marchese «non sembrava affatto rassicurato sull'ultime conseguenze dell'impresa nella quale re Carlo Alberto s'era indotto ad entrare», ma credendo che «in caso di collisione fra i due eserciti il vantaggio rimarrebbe al maresciallo Radetzky, ei pareva fondare le sue speranze sulle interne difficoltà dell'impero». Non ho creduto—scrive il Brenner al suo padrone—dovere respingere una iniziativa che potrebbe forse, nelle intenzioni del governo sardo, aver valore d'un primo tentativo per condurre un accordo col gabinetto imperiale. Il Pallavicini, pare, fu poi redarguito dal suo governo per avere oltrepassato i termini del mandato. Tutto quel maneggio a ogni modo ha sembianza di congiura più assai che non di franca e leale comunicazione governativa. E se si raffronti colla dichiarazione, non provocata, del Ficquelmont a lord Palmerston «che se l'Austria riescisse a respingere i Piemontesi sul loro territorio.... noi possiamo porgere anticipatamente all'Inghilterra che noi non seguiremmo al di là delle nostre provincie il successo ottenuto[90]»—cresce il sospetto nell'animo. Certezza siffatta data innanzi tratto a un fiacco nemico poteva riescire—e riescì forse—fatale.
D'allora in poi, le richieste di buoni uffici e i progetti di pace e le comunicazioni austriache al gabinetto inglese spesseggiavano nei Documenti.
Un primo progetto, steso da chi non si nomina nella collezione—e credo sia Colloredo—fu discusso l'11 maggio nel consiglio dei ministri in Vienna e mandato il 12 da Ponsonby a Palmerston. È l'unico savio che potesse escire da Vienna; e cominciando dal confessare la onnipotenza dell'idea nazionale in Italia[91], propone che, accettata la mediazione dell'Inghilterra e del papa, e sancito un armistizio in virtù del quale gli Austriaci terrebbero la linea dell'Adige, si convochino i consigli comunali del Lombardo-Veneto e si chieda se vogliano entrare nella confederazione italiana, della quale l'Austria si farebbe promovitrice, sotto la sovranità di quest'ultima con un arciduca a vicerè, rappresentanza nazionale, costituzione e codice proprio—o se preferiscano indipendenza assoluta con compensi finanziarî e commerciali da stabilirsi. Dichiarando prima il grande principio della nazionalità italiana e ponendosi a un tratto quasi fondatrice d'una confederazione italica a patto che questa dichiarasse stretta e permanente neutralità europea, e l'Europa se ne facesse, come per la Svizzera, mallevadrice, l'Austria serbava, secondo l'estensore del progetto, una possibilità di successo nella votazione, costituiva a ogni modo la propria influenza sulla confederazione, staccava l'Italia dalla temuta influenza francese e la condannava alla debolezza inerente ad ogni paese, per volontà di potenze, neutrale. Ed era infatti sola via di salute e di nuova attitudine in Europa per l'Austria, alla quale lo scrittore dimostrava sin d'allora l'impotenza della vittoria con parole che meritano d'essere qui registrate, come confessione preziosa strappata dall'ingegno e dall'esame dei fatti ad uomo non nostro. «Vinceste anche—egli dice—che ne risulterebbe per l'Austria? Il possedimento di provincie impoverite, che per lunghi anni non darebbero le spese dell'occupazione militare indispensabile per contenerle; l'indebolimento della monarchia in tutte le questioni concernenti la Francia e la Russia, per la necessità di mantenere un esercito di 100 000 uomini nel regno Lombardo-Veneto, e guardare contro gli assalti dei nemici esterni ed interni le provincie del Tirolo, del Litorale e della Carniola. E quindi, politicamente, finanziariamente, militarmente, e sovra tutto moralmente, diminuzione delle forze reali, intralcio d'interessi e lotta, talora celata, talora aperta, ma incessante, contro una nazione di più di 20 000 000 d'uomini riuniti dalla stessa lingua, dalla stessa religione dalle stesse speranze».
Il progetto, per ciò appunto ch'era l'unico ragionevole da proporsi, non andò oltre la discussione. Altri, meno plausibili, furono successivamente comunicati al gabinetto inglese dall'Austria, il 12 maggio, il 23 maggio, il 9 giugno[92]: tutti fondati sulla separazione del Lombardo [51] e del Veneto: il primo da emanciparsi, or con un vicerè ereditario—e proponevano il secondo fratello del duca di Modena—indipendente dal governo viennese, pur sotto l'alta signoria dell'imperatore, or con un luogotenente dell'imperatore e con un ministero italiano, ma risiedente in Vienna—il secondo, dotato di più o meno libere leggi, ma sempre provincia dell'Austria: la difesa del Tirolo e la tutela delle comunicazioni tra Vienna e Trieste esigevano la servitù di Venezia. L'emancipazione della Lombardia doveva intanto comprarsi col tributo annuo di quattro milioni di fiorini all'impero, col pagamento annuo d'una rendita di circa dieci milioni di fiorini, trasportata sul monte Lombardo-Veneto, come parte nostra del debito pubblico dell'impero, e coll'obbligo di combattere colle nostre truppe le battaglie dell'Austria. Senza il Veneto e col nemico in Verona e sulla linea dell'Adige, la Lombardia avrebbe, nel primo momento favorevole ai re, trovato illusorî codesti patti. Pur non vedo che fossero mai seriamente proposti; e diresti che tanta espansione d'intenzioni pacifiche dall'Austria al ministero inglese non avesse intento, passati i primi terrori, da quello in fuori di allettare, senza compromettersi con comunicazioni dirette, il Piemonte. Soltanto il 13 giugno un armistizio fu proposto da Wessemberg al conte Casati, con basi di pace risguardanti il solo Lombardo; ma non tendeva che a dare un po' di tempo ai rinforzi; e il 18 un dispaccio di Ponsomby avvertiva Palmerston che Radetzky, al quale era stato commesso dal Wessemberg non di conchiudere ma di proporre armistizio, dissentiva, ripromettendosi meglio dall'armi[93].
E a questo somma la storia, nota fin qui, della diplomazia di quel tempo: volpina al solito per parte dell'Austria, nulla per parte del Piemonte, se non in quanto appajono qua e là indizî d'un mistero che forse il tempo sciorrà. Il solo incidente che conforti l'animo e splenda, come gemma nel fango, di mezzo a questa abbietta prosa di cancellerie, è il subito generoso commoversi della popolazione lombarda ogni qual volta serpeggiavano rumori d'abbandono di Venezia e di pace all'Adige. Balzava e ruggiva, come lione addormentato al quale un ferro rovente marchi a un tratto la fronte. Guerra per tutti, libertà per tutti o per nessuno, era in que' momenti il grido universale, e proferito con tale energia da far retrocedere ogni governo provvisorio o regio che avesse in animo di patteggiare. L'idea nazionale si ridestava potente come ai primi giorni dell'insurrezione. Quei giornalisti francesi che menarono, non ha molto, romore di parecchî fra i dispacci citati, e rimproverarono i Lombardi perchè non afferrassero allora l'áncora di salute d'una pace all'Adige, provarono a un tempo la loro profonda ignoranza della politica austriaca e il silenzio d'ogni senso generoso nell'anima loro. Quel rifiuto vale più assai per l'avvenire del nostro popolo che non dieci regni costituzionali da fondarsi a beneplacito dell'Austria tra l'Adige e il Po.
Non so se la pace all'Adige entrasse mai positivamente nei disegni del re o—dacchè, com'oggi in Torino son due governi, così erano allora nel campo—d'altri per lui. Ma credo certo che quel fantasma, evocato sin da principio astutamente dall'Austria, operasse quasi fascino sull'animo suo, e contribuisse alle lentezze e al mal esito della guerra. A qualunque guardi, con occhio quanto più vuolsi indulgente, all'insieme e alle fazioni di quella malaugurata campagna—all'abbandono deliberato d'ogni impresa in Tirolo e agli sbocchi dell'Alpi—al [52] sagrificio del Veneto—alla decisione di non muover guerra a Trieste e sul mare—alla negligenza d'ogni tentativo per sommover l'Illirico e per collegare la causa d'Italia coll'altre cause nazionali che s'agitavano nell'impero—all'inazione sistematica dell'esercito prima della resa di Peschiera, unico trionfo dei regi, e dopo, fino a quasi la metà del luglio—e ai modi più che cavallereschi e cortesi usati in tutte occasioni coll'Austria—parrà non foss'altro probabile che Carlo Alberto tendesse, anche inconscio, a serbarsi per ogni rovescio aperto il rifugio d'un trattato che, senza infliggergli la vergogna d'abbandonare un terreno già conquistato, gli avrebbe pur procacciato un ingrandimento di territorio nella Lombardia. Tristissima e inevitabile conseguenza anche questa d'una guerra d'indipendenza affidata ad un re. Guerre siffatte, quando non trovino uomini apostolicamente credenti a guidarle, vogliono almeno duci che abbiano tutto da conquistare nella vittoria, tutto da perdere nella disfatta. Carlo Alberto non poteva riuscire a vittoria assoluta senza giovarsi d'un elemento—l'elemento popolare—che gli minacciava da lungi il trono; e cadendo, era certo, come ho detto poc'anzi, di serbarsi la sua corona.
Se non che per ridurre il popolo ad accettare una pace all'Adige non era forse che un'unica via: porgli il pugnale del nemico alla gola, conchiuderla coll'Austriaco alle porte di Milano. E giunto una volta alle porte di Milano, l'Austriaco avrebbe, schernendo, lacerato ogni patto segreto in viso al patteggiatore.
Intanto, la guerra era irremissibilmente perduta; e il decreto della fusione non fece che affrettar la catastrofe. Il popolo incominciò poco dopo a destarsi dal sonno delle illusioni e a sentire l'inganno.
Gli avevano detto che, segnato il contratto, Genova avrebbe dato danaro, e il Piemonte soldati—e il governo invece andava or più che mai stimolandolo a sagrificî, e assumendo per la prima volta linguaggio inquieto. Gli avevano parlato di capitale, e di altro che il Piemonte, commosso dall'atto fraterno, gli avrebbe consentito con entusiasmo—e ascoltava invece discussioni esose d'ostilità e di mal celata diffidenza nella Camera torinese. Gli avevano promesso che, sicuri una volta del premio, Carlo Alberto e l'esercito avrebbero operato prodigî—e Carlo Alberto e l'esercito si stavano, dopo resa Peschiera, inerti, immobili sino al 13 luglio. E le moltitudini cominciarono ad agitarsi, siccome persona inferma che si desta in accesso di febbre, a tender l'orecchio sospettoso ai romori che venivan dal campo, alle accuse che i chiaroveggenti movevano da molto tempo al governo, al gemito dei traditi del Veneto, e all'hurrah del croato che si spingeva a corsa non molestata fino ad Asola e a Castel Goffredo. Quasi ogni sera, la piazza san Fedele, dov'era il palazzo del governo, s'empieva di popolo chiedente nuove del campo, e quasi ogni sera il Casati ripeteva dalle finestre le solite frasi «non dubitassero: si vincerebbe: la prossima resa di Verona ridarebbe le città cadute del Veneto: la bandiera tricolore sventolerebbe presto sulle mura di Mantova per opera del magnanimo re e del prode esercito piemontese». Poi, si schermivano dall'agitazione crescente con decreti di leve, armamenti, ed imprestiti e con turpi vessazioni di polizia: dannose queste e semenza d'irritazione; buoni i primi, ma tardi, e mercè la pessima costituzione del ministero di guerra, inefficaci: mancavano armi, ufficiali, uniformi, e i primi battaglioni che s'affrettarono al campo sembravano, per difetto di tutto quel materiale che costituisce ai proprî occhî e agli altrui il soldato, un'accozzaglia di gente cacciata in guerra perchè il popolo non tumultuasse. Il popolo che in quella nudità d'ogni forma guerresca, in [53] quelle vesti e giberne di tela—coperti di tela si mandavano perfino i destinati alle nevi del Tonale e dello Stelvio—ravvisava una dimostrazione innegabile della inerzia colpevole di tre mesi, tumultuava più forte. E allora, alle cento cagioni che avevano oprato a spegnere l'entusiasmo e le forze popolari dell'insurrezione, s'aggiunge la diffidenza di tutto e di tutti, e la parola tradimento, fatale a ogni impresa, serpeggiò tra le moltitudini. A me fu più volte proposto, e da forze ordinate, di rovesciare il governo e tentar con altri uomini qualche via di salute. Ed era facile impresa; ma a qual pro? Un subito mutamento di governo in Milano avrebbe acceso la guerra civile e messo una macchia, agli occhi dei moltissimi illusi tuttavia nel resto d'Italia, sulla bandiera repubblicana senza salvare il paese. La fusione pronunciata dava diritto al re di spedir truppe a protegger l'ordine e il suo governo. Noi ci saremmo trovati a fronte bajonette di fratelli. L'Austriaco, che s'addensava vigilante, avrebbe profittato dello smembramento delle forze e delle nostre discordie. E coll'oscillazione inevitabile delle provincie, sparivano, nei momenti di maggior bisogno, danaro, credito, armi e materiale di azione al governo che si sarebbe inalzato. Ricusai dunque sempre e impedii.
Per noi i fati della guerra erano da lungo segnati. Sapevamo che l'esercito regio sarebbe rotto e il paese lasciato indifeso; e stanno nell'Italia del Popolo articoli che pronunziavano, senza grande sforzo di genio, le cose che accaddero, nè potevano per forza umana impedirsi. Bensì vagheggiavamo un'ultima speranza; ed era: che da Milano, assalita dall'armi austriache, risorgesse per impeto di popolo concitato la guerra lombarda. Milano era ed è città di prodigi. Gli estremi pericoli, la disperazione d'ogni altro ajuto per la probabile ritirata delle forze regie al di là delle proprio frontiere e il tuonare del cannone austriaco alle porte, avrebbero forse rifatto gigante il popolo delle barricate di marzo. Liberi d'ogni impaccio di governo inetto che sarebbe stato, da taluno fra' suoi membri infuori, primo alla fuga, liberi d'ogni terrore di tradimento, liberi sovra tutto della taccia aborrita di suscitare colla nostra azione risse civili, i repubblicani, che erano negli ultimi tempi risaliti in influenza tra le moltitudini, avrebbero ordinato e condotto una tremenda battaglia di popolo nella città. Per battaglia siffatta abbondavano l'armi, le munizioni ed i viveri. E l'esercito austriaco avea nemiche alle spalle le popolazioni, e forze nostre tenevano tutta l'alta Lombardia, l'eroica Brescia, Bergamo, la Valtellina; e Venezia durava, e le Romagne fremevano, emancipate d'ogni illusione principesca, sull'altra riva del Po. Una resistenza ostinata in Milano poteva far riarder l'incendio. E a prepararla si dirigevano tutti i nostri pensieri, e i legami che stendevamo per le provincie, tra i corpi lombardi e noi, argomento di continue paure e calunnie a chi s'ostinava a sconoscerci. Ma tutto questo disegno si fondava sopra una condizione: Che Milano fosse lasciata a sè stessa. E questa condizione ci fu anch'essa rapita. Il re che aveva perduto il Lombardo-Veneto, dichiarò, fatalmente, che avrebbe difeso Milano.
Lo stesso giorno in cui l'esercito piemontese, vittima dell'inscienza dei capi e di peggio, dopo miracoli di valore inutilmente operati, duce il Sonnaz, intorno al posto di Volta, entrava in una rotta che dal Mincio non s'arrestava se non al Ticino, quel Fava, mezzo-letterato, mezzo-poliziotto, che citammo più sopra in nota, urlava imperterrito per le vie di Milano vittoria del re magnanimo e migliaja di prigionieri e trofeo di non so quante bandiere; ond'io, ch'era informato del vero, ebbi a inviare un amico agli uomini del governo, non più veduti da me dopo il 12 maggio, per supplicarli che non provocassero, ingannandolo sino agli estremi, il popolo a ferocia di riazione; se non che erano ingannati, i [54] più almeno, dall'ambasciata sarda. Le nuove funeste si diffusero nella giornata; e il governo atterrito e fatto, allora per la prima volta, consapevole della propria impotenza, ricordò a un tratto ch'erano in Milano uomini i quali amavano davvero il paese, comechè repubblicani e in sospetto, due mesi addietro, d'alleati dell'Austria.
Il concentramento del potere per la difesa era necessità universalmente sentita. Richiesti di nomi, indicammo Maestri, Restelli e Fanti: repubblicano il primo d'antica data; non repubblicano fino allora il secondo, e noto a noi per aver lavorato, ma per errore di buona fede, alla fusione in Venezia: più soldato il terzo che uomo di concetto politico: tanto a noi premeva esclusivamente la difesa della città e nulla il trionfo della parte nostra. Erano onesti, vogliosi del bene e capaci. Superata coll'insistenza l'opposizione del governo al Fanti, al quale il generale Zucchi ricusava come a più fresco di grado, ubbidienza, i tre si costituirono, il 28 luglio, comitato di difesa. Il governo rimase inoperoso, nullo, nelle proprie sale.
Di mezzo ad errori, conseguenze in parte quasi inevitabili della condizione anomala creata dalla fusione—e il primo era quello di non esser solo all'impresa ma d'aver frammisti nelle discussioni ministri e generali del re—il comitato operò con attività singolare e fece in tre giorni più assai che non avea fatto il governo in tre mesi. I suoi provvedimenti stanno registrati nel libro di Cattaneo e in uno scritto abbastanza noto steso da Maestri e Restelli[94]; nè a me spetta, in questi rapidi cenni, ridirli. Ma il popolo s'era ridesto a vita sublime; correva minaccioso le vie esigendo che ricomparissero per ogni dove le bandiere tricolori quasi disfida al vegnente nemico; apprestava armi e difese: sentiva l'alito della sua battaglia e lo salutava con una gioja santamente feroce. Milano in quei giorni era la più eloquente risposta che dar si potesse a tutte stolide accuse, la più irresistibile condanna della guerra regia e dei metodi tenuti dai moderati. A noi balzava il core per lietezza insolita e risorgenti speranze. Rinasceva col popolo la potenza d'amore e d'oblio che avea santificato i primi giorni dell'insurrezione.
Illusi e giovenilmente incauti dopo quasi vent'anni di delusioni e d'esilio! Gl'Italiani avevano peccato contro l'eterno vero e contro la unità nazionale; e noi dimenticavamo che a ogni colpa tien dietro inevitabile l'espiazione.
La notte dal 2 al 3 agosto, Fanti e Restelli si recavano a Lodi par chiedere a Carlo Alberto quali fossero le sue intenzioni: nol videro, ma ebbero dichiarazione dal generale Bava «che il re moverebbe a difender Milano». Vidi Fanti al ritorno e presentii la rovina. Ei dovrebbe or ricordarsi ch'io lo scongiurava di preparare i disegni della difesa come se l'esercito piemontese venisse per girsene. Egli, militare—i fatti posteriori lo hanno pur troppo chiarito—più ch'altro, e affascinato dai quaranta mila difensori soldati, sorrideva del mio scetticismo.
Il 3, comparve, munito di regio decreto che lo instituiva commissario militare, un generale Olivieri, il quale con altri due, il marchese Montezemolo e il marchese Strigelli, s'assumeva, in nome della fusione, ogni potestà esecutiva. Io vidi i tre, intesi le loro parole alla moltitudine raccolta sotto il palazzo, rividi Fanti, corsi le vie di Milano, studiai gli aspetti e i discorsi; e disperai. Il popolo si credeva salvo; era dunque irrevocabilmente perduto. Lasciai la città, Dio solo sa con che core, e raggiunsi in Bergamo la colonna di Garibaldi.
Il dì dopo, Carlo Alberto entrava in Milano.
Com'egli recasse la capitolazione con sè e nondimeno promettesse difesa, e ordinasse incendî d'edificî che potevano giovare al nemico—come il 4 ei giurasse per sè, pe' suoi figli, e pe' suoi soldati, a una deputazione della guardia nazionale, e il 5, mentre tutta Milano era un fremito di battaglia, egli e i suoi dichiarassero a un tratto la capitolazione un fatto compito—come, all'udirlo, la popolazione ardesse d'immenso furore; e le minaccie al re, le scene del palazzo Greppi; le nuove promesse parlate e scritte di Carlo Alberto ch'egli, commosso dall'unanime volere del popolo, combatterebbe fino alla morte; e quasi a un tempo, la fuga segreta e codarda, con tali particolari da infamare in perpetuo la monarchia—sono cose da vedersi documentate nella relazione del comitato di difesa e nel tremendo capitolo, intitolato La consegna, del libro di Cattaneo. Poco importa appurare se il re tradisse o non tradisse, o da quando avesse data il tradimento, suo o d'altri: poco importa la lapide d'infamia che la storia potrebbe scrivere ad uno o ad altro individuo. Esce ben altro da quei ricordi. E chi non legge in quelle pagine della passione d'un popolo che fu grande, era grande e vuole esser grande, l'impotenza assoluta della monarchia, la morte di tutte illusioni dinastiche, aristocratiche e moderate, non ha intelletto nè core, nè amor vero d'Italia, nè speranza mai d'avvenire.
Una piccola bandiera di compagnia, colle parole dio e il popolo, s'inalzava per alcune ore in Monza, di fronte a quell'immenso spettacolo di monarchia fuggente e di popolo abbandonato, tra i prodi che nella legione Garibaldi seguivano Giacomo Medici—ed io, trascelto dall'affetto di quei giovani, la portava. Era la bandiera della nuova vita sorgente tra le rovine d'un periodo storico; e sei mesi dopo splendeva di bella luce, quasi programma dell'avvenire italiano dall'alto del Campidoglio.
Caduta Milano, era caduta la Lombardia. Frutto anch'esso delle abitudini tradizionali monarchiche e dei canoni della guerra regia, durava inviscerato negli animi—e, per prova più recente, tuttavia dura—il pregiudizio che nei fatti della capitale concentra i fatti dell'intero paese. La capitale è dovunque splende sorretta da cittadini devoti alla libera vita o alla bella morte e più energicamente difesa, la bandiera della nazione. Ma allora, questa verità non era sentita, e d'altra parte, la provincia era tuttavia indebolita dalle fresche scissioni della fusione, e gli uomini che avrebbero potuto perpetuare la guerra nella parte montagnosa della Lombardia e guardare a Venezia siccome a capitale dei paesi lombardo-veneti, Durando, Griffini ed altri, erano generali del re, stretti ad un patto ignominioso di resa, e, dati i luoghi forti in mano al nemico, maneggiarono in modo da spegnere ogni possibilità di resistenza e condurre, taluni con fogli di via segnati da penna austriaca, i volontarî del marzo in Piemonte. Garibaldi solo resse quanto umanamente potevasi: poi cesse, ultimo e senza transazione, alla piena.
La meschina storia dei moderati sardo-lombardi non finì colla resa. Come lombrico troncato in due, seguirono ad agitarsi impotenti e senza speranza di vita: la coda—il governo provvisorio trasformato in consulta—verso il Lombardo-Veneto; la testa, il gabinetto torinese e gli uomini della confederazione principesca, verso il centro d'Italia, dove il pensiero nazionale, cacciato dal nord, s'era ridotto e rinvigoriva. Non potendo tentar di giovare, si diedero deliberatamente a nuocere; non potendo fare, lavorarono a disfare l'altrui. Operarono ed operano dissolvendo. Ma non entra nel mio disegno seguirne i [56] raggiri e le mosse. L'azione funesta che taluni fra loro, riconciliati apparentemente e pentiti, tentarono esercitare in Venezia—le mene che, affascinando parecchî uomini nostri, contribuirono potentemente al mal esito del tentativo che da Val d'Intelvi doveva riaccendere l'insurrezione in tutta l'alta Lombardia—le menzognere speranze che introdussero il dissolvimento nell'emigrazione lombarda—i progetti d'invasione in Toscana—l'opposizione, coronata di successo pur troppo, alla unificazione del centro—e da ultimo la rotta infamissima di Novara—potrebbero formare, e formeranno forse un dì o l'altro, una pagina addizionale a questi miei cenni, come i documenti, che si preparano per la stampa nella Svizzera italiana, faranno commento a più cose accennate qui appena di volo. Per ora basta così; e l'animo affaticato di ravvolgersi per entro a codesto fango ha bisogno di riconfortarsi levandosi a contemplar l'avvenire. Oggi ancora i superstiti fra i moderati, smembrati in più frazioni a seconda dei concettucci e delle ambizioncelle locali, lavorano fra le tenebre, gli uni a sedurre, se valessero, la povera Lombardia a nuove illusioni, a nuove trame monarchico-piemontesi, gli altri a suscitar congiure innocue in Toscana a favore d'uomini che combattono in Piemonte le libere tendenze delle popolazioni, altri ancora a giovarsi dell'aborrimento comune al governo sacerdotale per proporre—vera profanazione del concetto escito da Roma—uno smembramento alle provincie romane e—servendo, forse inavvedutamente, alle mire dell'Austria—una fusione collo Stato del duca di Modena! Ma siffatte mene, basta svelarle perchè non riescano—e se gl'Italiani, dopo la guerra regia del 1848, dopo la rotta di Novara, dopo la provata impotenza e peggio dei capi della fazione da un lato—dopo i miracoli di valore e costanza popolare operati in Roma e Venezia dall'altro—tentennassero ancora nella scelta fra le due bandiere—sarebbero veramente indegni di libertà.
No; gl'insegnamenti scritti negli ultimi due anni con lagrime di madri e sangue di prodi non possono andar perduti. La prova è compita. Gli uomini d'intelletto traviato o perverso, che hanno voluto applicare alla nascente Italia una dottrina sperimentata venti o trenta anni addietro e trovata inefficace anche in Francia, possono per breve tempo ancora creare modificazioni ministeriali, ordire raggiri, sedurre, ingannandoli, pochi uomini inesperti d'ogni politica o paurosi; ma non terranno più mai, con qualunque nome s'ammantino, le redini del moto italiano. Mancavano ad essi, fin da quando usurpavano la direzione del moto, i diritti che danno all'altrui fiducia le forti radicate credenze: si dichiaravano uomini d'opportunità, di transazioni a tempo, di menzogne che diceano utili. Mancano oggi anche i pretesti che potevano, anni sono, desumersi ai loro metodi dalle condizioni europee.
Le condizioni europee sono da due anni visibilmente, innegabilmente mutate. La questione ferveva un tempo fra il dispotismo e la monarchia temperata; freme in oggi fra la monarchia e il principato. Grido repubblicano sarà, da dove che sorga, il primo grido rivoluzionario. Alla rivoluzione italiana, se intende a farsi forte d'alleanza col moto europeo, è dunque forza d'essere repubblicana. Tutte le utopie moderate non daranno un solo amico nè scemeranno un nemico alla causa italiana.
In Italia, caduto Pio IX, caduto Carlo Alberto, e dopo la parola escita da Roma, non esiste più nè può esistere, giova ripeterlo, che un solo partito: il partito nazionale.
E la fede politica di questo partito nazionale si compendia nei pochi seguenti principî:
L'Italia vuole esser nazione: per sè e per altrui: per diritto e dovere; [57] diritto di vita collettiva, d'educazione collettiva—dovere verso l'umanità, nella quale essa ha una missione da compiere, verità da promulgare, idee da diffondere.
L'Italia vuole essere nazione una: una, non d'unità napoleonica, non d'esagerato concentramento amministrativo che cancelli a beneficio d'una metropoli e d'un governo la libertà delle membra; ma di unità di patto, d'assemblea interprete del patto, di relazioni internazionali, di eserciti, di codici, d'educazione, armonizzata coll'esistenza di regioni circoscritte da caratteristiche locali e tradizionali e colla vita di grandi e forti comuni, partecipanti quanto più è possibile coll'elezione al potere e dotati di tutte le forze necessarie a raggiunger l'intento dell'associazione e il cui difetto li rende oggidì impotenti o necessariamente servi al governo centrale. L'autonomia degli Stati attuali è un errore storico. Gli Stati non sorsero per vitalità propria e spontanei, ma per arbitrio di signoria straniera e domestica. La confederazione fra Stati siffatti spegnerebbe ogni potenza di missione italiana in Europa, educherebbe gli animi a funeste rivalità, conforterebbe ambizioni; e tra queste e le influenze inevitabili di governi stranieri diversi si cancellerebbe presto o tardi la concordia e la libertà.
L'Italia vuole essere nazione di liberi ed eguali: nazione di fratelli associati a malleveria di progresso comune. Santo è per essa il pensiero: santo il lavoro: santa la proprietà che il lavoro crea: santo e misurato dai doveri compiuti il diritto al libero sviluppo dalle facoltà e delle forze, del senno e del core.
Il problema italiano, come quello dell'umanità, è problema d'educazione morale. L'Italia vuole che tutti i suoi figli diventino progressivamente migliori. Essa venera la virtù e il genio, non la ricchezza, o la forza: vuole educatori e non padroni: il culto del vero, non della menzogna o del caso. Essa crede in Dio e nel popolo: non nel papa e nei re.
E perchè popolo sia, è necessario che conquisti, coll'azione e col sagrificio, coscienza de' suoi doveri e de' suoi diritti. La indipendenza, cioè la distruzione degli ostacoli interni ed esterni che s'attraversano all'ordinamento della vita nazionale, deve dunque raggiungersi, non solamente pel popolo, ma dal popolo. Battaglia di tutti, vittoria per tutti.
L'insurrezione è la battaglia per conquistare la rivoluzione, cioè la nazione. L'insurrezione deve dunque essere nazionale: sorgere dappertutto colla stessa bandiera, colla stessa fede, collo stesso intento. Dovunque sorga, essa deve sorgere in nome di tutta Italia, nè arrestarsi finchè non sia compita l'emancipazione di tutta Italia.
L'insurrezione finisce quando la rivoluzione comincia. La prima è guerra, la seconda manifestazione pacifica. L'insurrezione e la rivoluzione devono dunque governarsi con leggi e norme diverse. A un potere concentrato in pochi uomini scelti dal popolo insorto per opinione di virtù, d'ingegno, di provata energia, spetta sciogliere il mandato dell'insurrezione e vincer la lotta: al solo popolo, ai soli eletti da lui, spetta il governo della rivoluzione. Tutto è provvisorio nel primo periodo: affrancato il paese dal mare all'Alpi, la costituente nazionale raccolta in Roma, metropoli e città sacra della nazione, dirà all'Italia e all'Europa il pensiero del popolo. E Dio benedirà il suo lavoro.
Al partito nazionale appartengono quanti accettano queste basi. Al di fuori non sono nè possono essere che fazioni: brulicano senza vera vita; possono guastare e corrompere, non creare.
Creare. Creare un popolo! È tempo, o giovani, d'intendere quanto grande e santa e religiosa sia l'opera che Dio v'affida. Nè può compiersi per vie torte di raggiri cortigianeschi o menzogne di dottrine [58] foggiate a tempo o patti disegnati a rompersi dai contraenti appena s'affacci occasione propizia; ma soltanto per lungo esercizio e insegnamento vivo alle moltitudini di virtù severe, per sudori d'anima e sagrifizî di sangue, colla predicazione insistente della verità, coll'audacia della fede, coll'entusiasmo solenne, perenne, irremovibile e più forte d'ogni sventura, che alberga nel petto ad uomini ai quali unico padrone è Dio, unico mezzo è il popolo, unica via è la linea diritta, unico intento l'avvenire d'Italia. Siate tali e non temete d'ostacoli. Ma cacciate i trafficatori di consulte o di portafogli dal tempio. Respingete inesorabili i Machiavellucci d'anticamera, i diplomatici in aspettativa che s'insinuano nelle vostre file a susurrarvi progetti di corti amiche, di principi emancipatori; che possono essi darvi oggimai se non illusioni ridicole e fomite a smembrare l'unità del partito nazionale e germi di corruttela? Essi tennero or son due anni tutte le forze e l'anima della nazione fra le loro mani, un re che i milioni salutavano conquistatore d'indipendenza, un papa che i milioni veneravano iniziatore di libertà—e v'hanno dato l'armistizio di Salasco e la disfatta di Novara: rovina e vergogna: oggi, fantocci nelle mani d'altri cortigiani, d'altri diplomatici più avveduti, per lunga pratica d'inganni e tristizie, che non son essi, non possono nemmeno rievocar quei fantasmi, e son ridotti a librarsi fra un duca di Modena e il principe che firmò la pace coll'Austria. E s'avvicina tale un conflitto fra i due principî in Europa, che farà di principini, cospiratori segreti monarchici e concettucci di fusioni pigmee, quello che l'uragano fa delle margheritine del prato.
La guerra regia ha dato un grave insegnamento ai Lombardi, e imposto un obbligo severo al Piemonte.
I Lombardi sanno ora che il segreto dell'emancipazione è per essi un problema di direzione. Se essi non avessero, per cieca devozione a un'apparenza di forza, messo i traditori nel proprio campo—s'essi avessero fidato più nell'Italia che non nel re di Piemonte—se avessero conferito il mandato di guerra, anzichè a una congrega di cortigiani, ad uomini come quelli che avean diretto l'insurrezione—vincevano. Le giornate di marzo possono e devono rifarsi quando che sia. Ricordino essi allora l'insegnamento.
I Piemontesi hanno l'obbligo di provare all'Italia e all'Europa che essi sono Italiani e non servi d'una famiglia di re, ch'essi mossero alle battaglie nei piani lombardi, non come cieco stromento di voglie ambiziose d'un uomo o di pochi raggiratori, ma come apostoli armati del più bel concetto che Dio possa spirare nei petti umani: la creazione d'un popolo, la libertà della patria. Hanno l'obbligo di provare ch'essi non furono nè codardi nè ingannatori, ma ingannati essi pure e vinti per colpe altrui. Hanno l'obbligo di lacerar quel trattato che li accusa impotenti, di restituire all'esercito l'antica fama immeritamente perduta, di cancellare nel sangue nemico la vergogna della disfatta, e dire ai loro fratelli dubbiosi: noi siam la spada d'Italia. Sia la loro bandiera quella di ventisei milioni di liberi: sia la loro parola di riscossa: Roma e Milano, unità e indipendenza; sia il loro esercito la prima legione dell'esercito nazionale. Ben altra gloria è codesta che non quella d'essere frammento regio senza base e senza avvenire, continuamente oscillante mercè regnatori deboli o tristi, fra la minaccia dell'Austria e il giogo de' gesuiti.
Compiano la Lombardia e il Piemonte il debito loro. Roma e l'Italia non falliranno all'impresa.
(La repubblica romana fu proclamata dall'Assemblea eletta dal suffragio universale il 9 febbrajo 1849. Il 24, i membri detti della Montagna nella Costituente Francese scrissero un indirizzo di congratulazione fraterna e promessa d'ajuto alla Costituente romana. A quell'indirizzo io, per mandato dell'Assemblea, risposi col seguente.)
Cittadini!
Il vostro indirizzo ci è giunto in un momento solenne, alla vigilia della battaglia[95]. E noi v'attingeremo nuove forze, nuovi incoraggiamenti per la santa lotta che sta per aprirsi. La Francia ha fatto grandi cose nel mondo: voi avete patito, sperato, combattuto per la umanità, e ogni voce che venga da voi ci impone doveri che, coll'ajuto di Dio, noi sapremo compiere.
Voi intendeste, cittadini, quanto ha di nobile, di grande, di provvidenziale questa bandiera di rinnovamento ondeggiante sulla città che racchiude il Campidoglio e il Vaticano: il Diritto eterno fatto forte d'una nuova consecrazione: un terzo mondo sorgente, nel nome di Dio e del Popolo, sulle rovine di due mondi spenti: un'Italia, che sarà sorella alla Francia, rompente il coperchio della sua sepoltura per chiedere, in nome d'una missione da compirsi, il diritto di cittadinanza nella federazione dei popoli. Voi intendeste che i nostri cuori sono puri d'odio e d'intolleranza, che noi stiamo compiendo un'opera d'amore e di miglioramento umano; e che, rivendicando i nostri diritti senza violar la credenza, separando, come noi lo abbiam fatto, il papa dal principe, abbiamo assunto l'obbligo di non contaminare quest'opera col contatto delle basse passioni e delle codarde vendette che una stampa corrotta o ingannata s'ostina a rimproverarci. Quest'obbligo, noi lo atterremo: parole come le vostre ci compensano di molte calunnie, ci rassicurano contro molte insidie coperte. Noi sappiamo che voi illuminerete i vostri concittadini sul carattere della nostra rivoluzione, e che manterrete per noi quel diritto alla vita nazionale che voi primi avete proclamato e conquistato.
Non v'è che un sole in cielo per tutta la terra: non v'è che uno scopo, una legge, una sola credenza, associazione, progresso, per tutti quei che la popolano. Come voi, noi combattiamo pel mondo intero, noi siamo tutti fratelli, noi rimarremo tali checchè si faccia.
Fidate in noi: noi fidiamo in voi. Se mai nella crisi che stiamo per attraversare, le forze ci mancassero, noi ricorderemo le vostre promesse; vi grideremo: Fratelli, l'ora è giunta, sorgete, e vedremo i vostri volontarî ad accorrere. Insieme combattemmo sotto l'Impero: insieme combatteremo un'altra volta a pro di quanto v'ha di più sacro per gli uomini: Dio, Patria, Libertà, Repubblica, Santa Alleanza dei Popoli.
(Il 29 marzo ebbe luogo l'elezione del Triumvirato, del quale io feci parte e che pubblicò il seguente programma.)
Cittadini!
Da cinque giorni noi siamo rivestiti d'un sacro mandato dall'Assemblea. Abbiamo maturamente interrogato le condizioni del paese, quelle della patria comune, l'Italia, i desiderî dei buoni, e la nostra coscienza; ed è tempo che il popolo oda una voce da noi; è tempo che per noi si dica con quali norme generali noi intendiamo soddisfare al mandato.
Provvedere alla salute della repubblica; tutelarla dai pericoli interni ed esterni; rappresentarla degnamente nella guerra dell'indipendenza: questo è il mandato affidatoci.
E questo mandato significa per noi non solamente venerazione a una forma, a un nome, ma al principio rappresentato da quel nome, da quella forma governativa; e quel principio è per noi un principio d'amore, di maggiore incivilimento, di progresso fraterno con tutti e per tutti, di miglioramento morale, intellettuale, economico per la universalità dei cittadini. La bandiera repubblicana inalzata in Roma dai rappresentanti del popolo non esprime il trionfo d'una frazione di cittadini sopra un'altra; esprime un trionfo comune, una vittoria riportata da molti, consentita dalla immensa maggiorità, del principio del bene su quello del male, del diritto comune sull'arbitrio dei pochi, della santa eguaglianza che Dio decretava a tutte le anime, sul privilegio e sul dispotismo. Noi non possiamo essere repubblicani senza essere e dimostrarci migliori dei poteri rovesciati per sempre.
Libertà e Virtù, Repubblica e Fratellanza devono essere inseparabilmente congiunte. E noi dobbiamo darne l'esempio all'Europa. La repubblica in Roma è un programma italiano: una speranza, un avvenire pei ventisei milioni d'uomini fratelli nostri. Si tratta di provare all'Italia e all'Europa che il nostro grido Dio e il Popolo non è una menzogna—che l'opera nostra è in sommo grado religiosa, educatrice, morale—che false sono le accuse d'intolleranza, d'anarchia, di sommovimento avventate alla santa bandiera, e che noi procediamo, mercè il principio repubblicano, concordi come una famiglia di buoni, sotto il guardo di Dio e dietro alle inspirazioni dei migliori per Genio e Virtù, alla conquista dell'ordine vero, Legge e Forza associate.
Così intendiamo il nostro mandato. Così speriamo che tutti i cittadini lo intenderanno a poco a poco con noi. Noi non siamo governo di un partito; ma governo della nazione. La nazione è repubblicana. La nazione abbraccia quanti in oggi professano sinceri la fede repubblicana, compiange ed educa quanti non ne intendono la santità; schiaccia nella sua onnipotenza di sovranità quanti tentassero violarla con ribellione aperta o mene segrete provocatrici di risse civili.
Nè intolleranza, nè debolezza. La repubblica è conciliatrice ed energica. Il governo della repubblica è forte; quindi non teme; ha missione di conservare intatti i diritti e libero il compimento dei doveri d'ognuno: quindi non s'inebria di una vana e colpevole securità. La nazione ha vinto; vinto per sempre. Il suo governo deve avere la calma generosa e serena e non deve conoscere gli abusi della vittoria. Inesorabile quanto al principio, tollerante e imparziale cogli individui: nè codardo nè provocatore: tale dev'essere un governo per esser degno dell'instituzione repubblicana.
Economia negli impieghi; moralità nella scelta degli impiegati; capacità, accertata dovunque si può per concorso, messa a capo di ogni ufficio, nella sfera amministrativa.
Ordine e severità di verificazione e censura nella sfera finanziaria, limitazione di spese, guerra a ogni prodigalità, attribuzione d'ogni denaro del paese all'utile del paese, esigenza inviolabile d'ogni sacrificio ovunque le necessità del paese la impongano.
Non guerra di classi, non ostilità alle ricchezze acquistate, non violazioni improvvide o ingiuste di proprietà; ma tendenza continua al miglioramento materiale dei meno favoriti dalla fortuna, e volontà ferma di ristabilire il credito dello Stato, e freno a qualunque egoismo colpevole di monopolio, d'artificio, o di resistenza passiva, dissolvente o procacciante alterarlo.
Poche e caute leggi; ma vigilanza decisa sull'esecuzione.
Forza e disciplina d'esercito regolare sacro alla difesa del paese, sacro alla guerra della nazione per l'indipendenza e per la libertà dell'Italia.
Sono queste le basi generali del nostro programma: programma che riceverà da noi sviluppo più o meno rapido a seconda dei casi, ma che, intenzionalmente, noi non violeremo giammai.
Recenti nel potere, circondati d'abusi spettanti al governo caduto, arrestati a ogni passo dagli effetti dell'inerzia e delle incertezze altrui, noi abbiamo bisogno di tolleranza da tutti; bisogno sovra ogni cosa che nessuno ci giudichi fuorchè sulle opere nostre. Amici a quanti vogliono il bene della patria comune, puri di core se non potenti di mente, collocati nelle circostanze più gravi che sieno mai toccate ad un popolo e al suo governo, noi abbiamo bisogno del concorso attivo di tutti, del lavoro concorde, pacifico, fraterno di tutti. E speriamo d'averlo. Il paese non deve nè può retrocedere: non deve nè vuole cadere nell'anarchia. Ci secondino i buoni; Dio, che ha decretato Roma risorta e l'Italia nazione, ci seconderà.
5 aprile 1849.
Considerando che dovere e tutela di una bene ordinata repubblica è il provvedere al progressivo miglioramento delle classi più disagiate;
Considerando che tra i primi miglioramenti è quello di emancipare molte famiglie dai danni di abitazioni troppo ristrette e insalubri;
Considerando che mentre la repubblica studierà modo di destinare locali, tanto in Roma, che nelle provincie, ad uso delle famiglie indigenti, è opera intanto di moralità repubblicana cancellare le vestigia dell'iniquità, consacrando a beneficenza quanto la passata tirannide destinava a tormento, l'Assemblea Costituente, proponenti i Triumviri, decreta:
1.º L'edificio, che già serviva al Santo Ufficio, resta fin d'ora destinato ad abitazione di famiglie o individui che vi saranno alloggiati contro tenui pigioni mensili e posticipate.
2.º È instituita una commissione, composta di tre rappresentanti del popolo e due ingegneri civili, per provvedere sollecitamente alla esecuzione del presente decreto:
a) Ricevendo le instanze delle famiglie e degli individui di Roma, che chiedessero alloggio nel suddetto locale, e secondando di preferenza le domande di chi saprà comprovare maggiori bisogni.
b) Facendo eseguire nel locale quei lavori d'innovazione, che troverà necessarî per renderlo adatto alla nuova destinazione.
c) Fissando mano mano a coloro, di cui saranno secondate le instanze, i locali di abitazione, determinando la pigione che dovranno pagare gli alloggiati, e mettendoli in fatti nel possesso del rispettivo alloggio.
d) Formulando un regolamento per l'interna disciplina del locale, per la regolare gestione amministrativa, e per la conservazione del medesimo.
3.º Non potranno aver luogo in nessun tempo e in nessun modo i subaffitti delle accennate abitazioni.
4.º La commissione, incominciando dal giorno 9 corrente, siederà nel locale suddetto per dare immediato adempimento al proprio mandato.
14 aprile 1849.
Considerando che a rendere più prezioso il lavoro agricolo, sollevare una classe numerosa benemerita e mal retribuita, affezionarla alla patria ed al buono ordinamento della grande riforma, promoverne la moralità e il benessere materiale, migliorare in una parola ugualmente il suolo e gli uomini colla emancipazione dell'uno e degli altri, non v'è spediente più congruo e urgente di quello di ripartire una grande porzione della vasta possidenza rustica, posta o da porsi sotto amministrazione demaniale, dividendola in piccole porzioni enfiteutiche da assegnarsi ciascuna, sotto un discreto censo annuo a favore dello Stato, in ogni tempo redimibile, a una o a poche famiglie dei più poveri coltivatori, con quelle regole e condizioni che si stabiliranno per la più pronta, ed insieme più giusta e stabile esecuzione d'un disegno così salutare, è decretato:
Art. 1.º Una grande quantità de' beni rustici provenienti dalle corporazioni religiose, o altre mani-morte di qualsivoglia specie, che in tutto il territorio della repubblica sono o saranno posti sotto amministrazione del Demanio, verranno nel più breve termine ripartiti in tante porzioni sufficienti alla coltivazione di una o più famiglie del popolo sfornite d'altri mezzi, che le riceveranno in enfiteusi libera e perpetua col solo peso di un discreto canone verso l'amministrazione suddetta, il quale sarà essenzialmente e in ogni tempo redimibile dall'enfiteuta.
Art. 2.º Un regolamento particolare specificherà distintamente il modo di procedere all'attuazione di questa salutare provvidenza.
Art. 3.º Sui fondi urbani altresì, della stessa provenienza e qualità, verranno prese analoghe misure ad oggetto di rendere più comodo e meno dispendioso l'alloggio del povero.
Art. 4.º Rimangono ferme le disposizioni annunciate sulla congrua [63] dotazione del culto, del ministero pastorale dei parrochi e degli stabilimenti di pubblico interesse, sia coi beni in natura, sia col prodotto delle corrisponsioni enfiteutiche, sia con altri mezzi del pubblico, del provinciale e del municipale patrimonio.
I ministri delle finanze e dell'interno sono incaricati, ciascuno rispettivamente, della esecuzione della presente legge.
15 aprile 1849.
Considerando:
Che intento continuo delle instituzioni repubblicane dev'essere un miglioramento progressivo nelle condizioni economiche dei più;
Che il prezzo alto del sale reca offesa all'agricoltura, alla pastorizia, alla pesca, alla mezzana e piccola industria, ai commerci e alla salute del povero;
Che il modo attuale di percezione dell'imposta sul sale concentra ingiustamente nelle mani di un solo affittuario tutti i beneficî che il libero commercio di quella derrata procaccierebbe alla mezzana e piccola industria;
Che ogni affitto delle rendite pubbliche, costituendo uno Stato nello Stato, equivale ad uno smembramento della sovranità, e accenna a una incapacità del governo d'amministrare da per sè stesso gli interessi sociali;
Il Triumvirato decreta:
Art. 1.º È abolito l'appalto dei sali noto col nome di Amministrazione cointeressata.
Art. 2.º La tassa sul sale di ogni genere è fissata ad un bajocco per ogni libbra romana.
Art. 3.º Il Triumvirato provvederà, all'uopo mediante requisizione del materiale e delle scorte, ad assicurare che non venga interrotto il servizio pubblico.
Art. 4.º Il Triumvirato provvederà pure a che l'esazione del dazio non sia d'impedimento alla libera produzione ed al libero commercio del sale.
Le ragioni dell'attuale amministrazione saranno prese in considerazione pei compensi che fossero riconosciuti di diritto dietro regolare e generale liquidazione, da operarsi da una commissione nominata dai rappresentanti del popolo.
Il presente decreto avrà esecuzione dopo 24 ore dalla sua pubblicazione in ogni punto della repubblica.
I ministri dell'interno e delle finanze sono incaricati, per ciò che li riguarda, dell'esecuzione del presente decreto.
15 aprile 1849.
Romani!
Un intervento straniero minaccia il territorio della repubblica. Un nucleo di soldati francesi s'è presentato davanti a Civitavecchia.
Qualunque ne sia l'intenzione, la salvezza del principio liberamente consentito dal popolo, il diritto delle nazioni, l'onore del nome romano, comandano alla repubblica di resistere.
La repubblica resisterà. È necessario che il popolo provi alla Francia e al mondo che non è popolo di fanciulli, ma popolo d'uomini e d'uomini che un tempo diedero leggi e incivilimento all'Europa. È necessario che nessuno possa dire: i Romani vollero, ma non seppero essere liberi. È necessario che la nazione francese impari, dalla nostra resistenza, dalle nostre dichiarazioni, dal nostro contegno, la ferma nostra decisione di non soggiacere più mai al governo aborrito che rovesciammo.
Il popolo lo proverà. Chi pensa altrimenti disonora il popolo e tradisce la patria.
L'Assemblea è in permanenza. Il Triumvirato adempirà, checchè avvenga, al proprio mandato.
Ordine, calma solenne, energia concentrata. Il governo vigila inesorabile su qualunque tentasse di travolgere il paese nell'anarchia o d'operare a danno della repubblica.
Cittadini, ordinatevi, stringetevi intorno a noi; Dio e il Popolo, la legge e la forza trionferanno.
25 aprile 1849.
(Stesi a un tempo la protesta che l'Assemblea costituente mandò lo stesso giorno al generale Oudinot.)
L'Assemblea romana, commossa dalla minaccia d'invasione del territorio della repubblica, conscia che questa invasione, non provocata dalla condotta della repubblica verso l'estero, non preceduta da comunicazione alcuna da parte del governo francese, eccitatrice di anarchia in un paese che tranquillo e ordinato riposa nella coscienza dei proprî diritti e nella concordia dei cittadini, viola a un tempo il diritto delle genti, gli obblighi assunti dalla nazione francese nella sua costituzione e i vincoli di fratellanza che dovrebbero naturalmente annodare le due repubbliche, protesta in nome di Dio e del Popolo contro l'inattesa invasione, dichiara il suo fermo proposito di resistere e rende mallevadrice la Francia di tutte le conseguenze.
Considerando che i voti religiosi non costituiscono se non una relazione morale tra la coscienza e Dio;
Considerando che la società civile non può, quanto a sè stessa, intervenire coi suoi mezzi d'azione estrinseci e materiali nella sfera dei doveri spirituali;
Considerando che la vita e le facoltà dell'uomo appartengono di diritto alla società e al paese in cui la provvidenza lo ha posto;
Considerando che la società non può riconoscere promesse irrevocabili che le involano e restringono in certi limiti la volontà e l'azione dell'uomo;
Il Triumvirato decreta:
La società non riconosce perpetuità di voti particolari ai differenti ordini religiosi così detti regolari.
È in facoltà d'ogni individuo, facente parte di un ordine religioso regolare qualunque, di sciogliersi da quelle regole all'osservanza delle quali s'era obbligato con voto entrando in religione.
Lo Stato protegge contro ogni opposizione o violenza le persone che intendessero profittare del presente decreto.
Lo Stato accoglierà con gratitudine tra le file delle sue milizie [65] quei religiosi che vorranno colle armi difendere la patria, per la quale finora hanno inalzato preghiere a Dio.
Il presente decreto verrà letto da un commissario governativo a tutti i religiosi riuniti in piena comunità nei rispettivi conventi.
27 aprile 1849.
(Il decreto del 15 aprile aveva promesso di ripartire gran parte delle terre incolte appartenenti a corporazioni religiose od a mani-morte e divenute, per decisione dell'Assemblea del 21 febbrajo, proprietà della Repubblica. Il decreto seguente provvedeva alla esecuzione.)
Il Triumvirato decreta:
Art. 1.º Ogni famiglia povera, composta almeno di tre individui, avrà a coltivazione una quantità di terra capace del lavoro di un pajo di buoi, corrispondente ad un buon rubbio romano, cioè due quadrati censuarî, pari a metri quadrati ventimila.
Art. 2.º I vigneti saranno dati a coltura all'individuo senza che sia richiesta la famiglia, e verranno divisi in ragione della metà della indicata misura.
27 aprile 1849.
Credendo nelle generose virtù dei Romani come nel loro valore;
Conscî che, sebbene deciso a difendere fino agli estremi contro ogni invasione l'indipendenza della sua terra, il popolo di Roma non rende mallevadore il popolo di Francia degli errori e delle colpe del suo governo;
Fidando illimitatamente nel popolo e nella santità del principio repubblicano;
Il Triumvirato decreta:
Gli stranieri, e segnatamente i Francesi dimoranti pacificamente in Roma, sono posti sotto la salvaguardia della nazione.
Sarà considerato come reo di leso onore romano qualunque proponesse far loro oltraggio o molestia.
Il governo invigilerà a che nessun d'essi trasgredisca i doveri dell'ospitalità.
28 aprile 1849.
Romani!
Un corpo d'esercito napoletano, trapassate le frontiere, accenna muovere alla volta di Roma.
Suo intento è ristabilire il papa padrone assoluto nel temporale. Sue armi sono la persecuzione, la ferocia, il saccheggio. S'asconde tra le sue file il re, al quale l'Europa ha decretato il nome di Bombardatore dei proprî sudditi. E gli stanno intorno i più inesorabili fra i cospiratori di Gaeta.
Romani! Noi abbiamo vinto i primi assalitori; noi vinceremo i secondi.
Il sangue dei migliori tra i patrioti napoletani, il sangue dei nostri fratelli della Sicilia, pesano sulla testa del re traditore. Dio, che accieca i perversi, e dà forza ai difensori del diritto, vi sceglie, o Romani, a vendicatori.
Sia fatta la volontà della patria e di Dio!
In nome dei diritti che spettano ad ogni paese, in nome dei doveri che spettano a Roma verso l'Italia e l'Europa—in nome delle madri italiane che hanno maledetto a quel re, e delle madri romane che benediranno ai difensori dei loro figli—in nome della nostra libertà, del nostro onore, della nostra coscienza—in nome di Dio e del Popolo—resisteremo. Resisteremo, milizia e popolo, capitale e provincia. Sia Roma inviolabile come l'eterna giustizia. Noi abbiamo imparato che basta per vincere il non temer di morire. Viva la Repubblica!
2 maggio 1849.
Popoli della Repubblica!
Le truppe napoletane hanno invaso il vostro terreno, e marciano su Roma.
Cominci la guerra del popolo.
Roma farà il suo dovere. Le provincie facciano il loro.
Il momento è giunto per uno sforzo supremo. Per quanti credono nella dignità dell'anima loro immortale, nell'inviolabilità dei loro diritti, nella santità dei giuramenti, nella giustizia della repubblica, nell'indipendenza dei popoli, nell'onore italiano, è debito in oggi l'agire. Per quanti hanno a cuore la propria libertà, le proprie case, la famiglia, la donna dell'amor suo, la terra nativa, la vita, l'agire è necessità. Vita, libertà, averi, diritti, ogni cosa, cittadini, v'è minacciata, ogni cosa vi sarà tolta.
Il re di Napoli inalza per noi la bandiera del dispotismo, della tirannide illimitata. I primi suoi passi sono segnati di sangue.
A caratteri di sangue sono scritte le liste di proscrizione.
Voi avete per troppo lungo tempo parlato, mentre gli altri spiavano e registravano. Non v'illudete. Oggi la scelta sia per voi tra il patibolo, la miseria, l'esilio o il combattere e vincere. Popoli della repubblica, ogni incertezza, ogni esitazione sarebbe viltà, e viltà senza frutto.
Sorgete dunque e operate; l'ora che decide è suonata. Schiavitù, quale non l'aveste giammai, o libertà degna delle antiche glorie, lunga securità, ammirazione di tutta l'Europa. Sorgete ed armatevi. Sia guerra universale, inesorabile, rabbiosa, poich'essi la vogliono. E sarà breve.
Mentre Roma assalirà il nemico di fronte, recingetelo, molestatelo ai fianchi, alle spalle.
Roma sia il nucleo dell'esercito nazionale del quale voi formerete le squadre.
Resistete dovunque potete. Dovunque la difesa locale non è concessa, i buoni escano in armi: ogni cinquanta uomini formino una banda; ogni dieci una squadra nazionale; ogni uomo di non dubbia fede, che raccoglie i dieci, i cinquanta, sia capo. La repubblica darà [67] premio e riconoscenza. Ogni preside diriga i centri d'insurrezione, inciti, ordini, rilasci brevetti di capibanda o di capisquadra. La repubblica terrà conto dei nomi, e retribuirà in danari, terreni ed onori. Il brevetto serva come foglio di via, che i comuni, soccorrendo, vidimeranno.
E tutte le bande, tutte le squadre, tormentino, fuggendone l'urto, il nemico; gli rapiscano i sonni, i viveri, gli sbandati, la fiducia; gli stendano intorno una rete di ferro che si restringa, lo comprima ne' suoi moti e lo spenga.
L'insurrezione diventi per poco la vita normale, il palpito, il respiro d'ogni patriota. I tiepidi siano puniti d'infamia, i traditori di morte.
Come fu grande in pace, sorga la repubblica terribile in guerra. Impari l'Europa che vogliamo e possiamo vivere. Dio e il Popolo benedicano l'armi nostre.
3 maggio 1849.
Romani!
Disordini rari ma gravi, cominciamenti di devastazione, atti offensivi alla proprietà, minacciano la calma maestosa, colla quale Roma ha santificato la sua vittoria. Per l'onore di Roma, pel trionfo del santo principio che noi difendiamo, bisogna che questi disordini cessino.
Ogni cosa dev'essere grande in Roma: l'energia del combattimento, e il contegno del popolo dopo la vittoria.
Le armi degli uomini che vivono, ricordevoli dei padri, fra queste eterne memorie, non possono appuntarsi a petti inermi o proteggere atti arbitrarî. Il riposo di Roma dev'essere come quello del leone: riposo solenne com'è terribile il suo ruggito.
Romani! I vostri Triumviri hanno preso solenne impegno di mostrare all'Europa che voi siete migliori di quei che vi assalgono:—che ogni accusa scagliatavi contro è calunnia:—che il principio repubblicano ha qui spento quei semi d'anarchia fomentati dal governo passato, e che il ripristinamento del passato potrebbe solo rieducare:—che voi siete non solamente prodi, ma buoni:—che forza e legge sono tra voi l'anima della repubblica.
A questi patti i vostri Triumviri rimarranno orgogliosi alla vostra testa; a questi patti combatteranno, occorrendo, tra le barricate cittadine con voi. Rimangano inviolabili come l'amore che lega governo e popolo, irrevocabili come il proposito comune a governo e popolo di mantenere illesa e pura d'ogni benchè menoma macchia la bandiera della repubblica.
Le persone sono inviolabili. Il governo solo ha diritto e dovere di punizione.
Le proprietà sono inviolabili. Ogni pietra di Roma è sacra. Il governo solo ha diritto e dovere di modificare l'inviolabilità delle proprietà quando il bene del paese lo esiga.
A nessuno è concesso procedere ad arresti o perquisizioni domiciliari senza la direzione o assistenza d'un capo-posto militare.
Gli stranieri sono specialmente protetti dalla repubblica. Tutti i cittadini sono moralmente mallevadori della verità della protezione.
La commissione militare instituita giudica rapidamente, come i casi [68] eccezionali e la salute del popolo esigono, tutti i fatti di sedizione di riazione, d'anarchia, di violazione di leggi.
La guardia nazionale, come ha provato esser pronta a combattere valorosamente per la salvezza della repubblica, proverà esser pronta a mantenerne intatto, in faccia all'Europa, l'onore. Ad essa segnatamente è fidata la custodia dell'ordine, e l'esecuzione delle norme qui sopra esposte.
4 maggio 1849.
Considerando che tra il popolo francese e Roma, non è, nè può essere stato di guerra;
Che Roma difende per diritto e dovere la propria inviolabilità; ma deprecando, siccome colpa contro la comune credenza, ogni offesa fra le due repubbliche;
Che il popolo romano non rende mallevadore dei fatti d'un governo ingannato i soldati che, combattendo, ubbidirono;
Il Triumvirato decreta:
Art. 1.º I Francesi, fatti prigionieri nella giornata del 30 aprile, sono liberi, e verranno inviati al campo francese.
Art. 2.º Il popolo romano saluterà di plauso e dimostrazione fraterna, a mezzo giorno, i prodi soldati della repubblica sorella.
7 maggio 1849.
Soldati della repubblica francese!
Per la seconda volta voi siete spinti, come nemici, sotto le mura di Roma, della città repubblicana che fu culla un tempo di libertà e di valore nell'armi.
È fratricidio quello che vi comandano i vostri capi.
E quel fratricidio, se potesse mai consumarsi, sarebbe colpa mortale alla libertà della Francia. I popoli sono mallevadori l'uno per l'altro. La repubblica, spenta fra noi, porrebbe una macchia incancellabile sulla vostra bandiera, rapirebbe alla Francia un alleato in Europa, sarebbe un nuovo passo inoltrato sulla via della ristorazione monarchica, verso la quale un governo ingannatore o ingannato spinge la bella e grande vostra patria.
Roma dunque combatterà come ha combattuto. Essa sa di combattere per la sua libertà e per la vostra.
Soldati della repubblica francese, mentre voi movete ad assalto contro la nostra bandiera tricolore, i Russi, gli uomini del 1815, movono contro l'Ungheria e sognano di Francia.
Poche miglia da voi, un corpo napoletano, vinto pochi giorni addietro da noi, tiene sollevata una bandiera di dispotismo e d'intolleranza. Poche leghe da voi, sulla vostra sinistra, una città repubblicana, Livorno, resiste, mentre noi vi parliamo, all'invasione austriaca. Là è il vostro posto.
Dite ai vostri capi d'attenervi ciò che vi dissero. Ricordate loro che vi promisero, in Marsiglia e in Tolone, di farvi combattere contro i Croati. Ricordate loro che il soldato francese porta sulla punta della bajonetta l'onore e la libertà della Francia.
Soldati francesi! Soldati della libertà! Non movete contro uomini che vi sono fratelli. Le nostre battaglie sono le vostre. Possano le due bandiere tricolori intrecciarsi e movere unite all'emancipazione dei popoli e alla distruzione della tirannide! Dio, la Francia e l'Italia benediranno all'armi vostre.
Viva la repubblica francese! Viva la repubblica romana!
10 maggio 1849.
Lettera al signor Lesseps
inviato plenipotenziario della repubblica francese.
Signore,
Voi ci chiedete alcune note sulle condizioni presenti della repubblica romana. Le avrete da me, dettato con quella sincerità che fu, in venti anni di vita politica, mia norma inviolabile. Noi non abbiamo bisogno di nascondere o mascherar cosa alcuna. Fummo, in questi ultimi tempi, segno di strane calunnie in Europa: ma noi dicemmo sempre agli uomini che udivano le calunnie: Venite e osservate. Voi siete ora, signore, fra noi; siete mandato a verificare la realtà delle accuse: fatelo. La vostra missione può compirsi con libertà illimitata. La salutammo noi tutti con gioja, perchè essa non può che giustificarci.
La Francia non intende, senza dubbio, contenderci il diritto di governarci come a noi piace, il diritto di trarre, per così dire, dalle viscere del paese il pensiero regolatore della sua vita e porlo a base delle nostre instituzioni. La Francia non può che dirci: «Riconoscendo la vostra indipendenza, io debbo accertare ch'essa esce dal voto libero e spontaneo della maggioranza. Collegata coi governi d'Europa e desiderosa di pace, se fosse vero che una minoranza soggioga tra voi le tendenze nazionali—se fosse vero che la forma attuale del vostro governo non è se non il pensiero capriccioso d'una fazione sostituito al pensiero comune, io non potrei vedere con indifferenza la pace d'Europa messa continuamente a rischio dalle passioni e dall'anarchia inseparabili ad ogni governo di fazione».
Noi concediamo questo diritto alla Francia, perchè crediamo alla solidarietà delle nazioni pel bene. Ma affermiamo a un tempo che se fu mai governo escito dal voto della maggioranza, quel governo è il nostro.
La repubblica s'impiantò fra noi per volontà d'un'Assemblea escita dal suffragio universale; fu accettata con entusiasmo per ogni dove; in nessun luogo fu combattuta. E notate, signore, che rare volte l'opposizione fu così facile e poco pericolosa; direi anzi così provocata, non dagli atti, ma dalle circostanze singolarmente sfavorevoli nelle quali la repubblica si trovò collocata nei primi suoi giorni.
Il paese esciva da una lunga anarchia di poteri inseparabile dall'interno ordinamento del governo caduto. Le agitazioni inevitabili in ogni grande trasformazione e a un tempo fomentate dalla crisi della questione italiana e dagli sforzi di parte retrograda, lo avevano cacciato in un eccitamento febbrile che apriva il campo ad ogni ardito tentativo, ad ogni cosa che suscitasse interessi e passioni. Non avevamo esercito, non forza capace di reprimere; e in conseguenza degli [70] abusi anteriori, le nostre finanze erano impoverite, esaurite. La questione religiosa, maneggiata da uomini capaci e interessati a trarne tutto il partito possibile, era facile pretesto a torbidi con un popolo dotato di splendidi istinti e di aspirazioni generose, ma intellettualmente poco educato. E nondimeno, proclamato appena il principio repubblicano, un primo fatto innegabile sottentrò a quelle condizioni pericolose: l'ordine. La storia del governo papale offre sommosse frequenti, periodiche: la storia della repubblica non ne ha una sola. L'uccisione di Rossi, fatto deplorabile ma isolato, eccesso individuale rifiutato, condannato universalmente, provocato forse da una condotta imprudente, d'origine a ogni modo ignota, fu seguito dall'ordine più mirabile[96].
La crisi finanziaria intanto saliva. Raggiri colpevoli riuscirono a far cadere di tanto il credito della carta della repubblica, da non potersi scontare se non al 41 o al 42 per %. Il contegno dei governi d'Italia e d'Europa si fece sempre più ostile. Difficoltà materiali e isolamento politico non valsero a turbare la calma di questo popolo. Era in esso una fede incrollabile nel futuro che doveva escire dal nuovo principio.
Ed oggi, di mezzo alla crisi, di fronte all'invasione francese, austriaca, napoletana, il nostro credito si rafforza; la nostra carta non soggiace che allo sconto del 12 per %; il nostro esercito ingrossa di giorno in giorno; e le popolazioni s'apprestano a farci riserva. Voi vedete Roma, signore, e sapete l'eroica lotta or sostenuta da Bologna. Io scrivo solo, di notte, in seno a una città profondamente tranquilla. Le milizie che custodivano Roma l'abbandonarono jersera per compire una impresa; e innanzi all'arrivo d'altre milizie, che non ebbe luogo se non a mezzanotte, le nostre porte, le nostre mura, le nostre barricate erano, in conseguenza d'un semplice avviso trasmesso, guardate, senza romore o millanteria, dal popolo in armi. Vive in core a questo popolo una profonda determinazione: il decadimento della potestà temporale attribuita al papa; l'odio del governo pretesco sotto qualunque forma, anche temperatissima, esso tenti di riproporsi; l'odio, io dico, non agli uomini, ma al governo. Verso gli individui il nostro popolo, dall'impianto della repubblica fino ad oggi, s'è mostrato, la Dio mercè, generoso; ma la sola idea del governo clericale del re pontefice lo fa fremere. Combatterà energicamente ogni disegno di ristorazione: si travolgerà nello scisma anzichè subirlo.
In conseguenza d'oscure minaccie, ma segnatamente del difetto d'abitudini politiche, un certo numero di elettori non avea contribuito alla formazione dell'Assemblea. E quel fatto sembrava indebolire l'espressione del voto generale. Un secondo fatto decisivo, vitale, rispose poc'anzi ai dubbî possibili. Poco tempo innanzi alla costituzione del Triumvirato, si rieleggevano i municipî. L'universalità degli elettori si accostò all'urne. Dovunque e sempre l'elemento municipale rappresentò l'elemento conservatore dello Stato. Taluni paventavano che tra noi s'insinuasse in esso uno spirito di retrogressione. Or bene, sotto il rugghio della tempesta, iniziato già l'intervento, mentre le apparenze [71] accennavano a una vita di giorni per la repubblica, esciva dai municipî l'adesione più spontanea, più unanime alla forma scelta. Agli indirizzi dei Circoli e dei Comandi della guardia nazionale s'unirono nella prima metà di questo mese i municipî tutti, da due o tre infuori. Io ebbi l'onore di trasmettervene la lista, o signore.
Essi dichiararono devozione esplicita alla repubblica e convincimento che i due poteri sono incompatibili in un solo individuo. È questo, concedetemi di ripeterlo, un fatto decisivo; una seconda prova legale confermante la prima e fondamento irrecusabile al nostro diritto.
Quando le due questioni—repubblica e abolizione della potestà temporale—furono poste all'Assemblea, alcuni fra i membri, più timidi dei loro colleghi, stimarono che l'inaugurazione della forma repubblicana fosse prematura e di fronte agli ordini attuali d'Europa pericolosa: non un solo votò contro il decadimento del papa re, destra e sinistra si confusero in un solo pensiero.
A popolo siffatto oserebbe un governo libero comandare, senza delitto e contradizione, il ritorno al passato? Quel ritorno, pensateci bene, signore, equivarrebbe a un ripristinamento dell'antico disordine, delle società segrete consacrate alla lotta, dell'anarchia nel core d'Italia, della vendetta innestata in un popolo che oggi non chiede se non d'obliare. Quel ritorno sarebbe una fiamma di guerra permanente in Europa, un programma di partiti estremi sostituito al governo repubblicano ordinato ch'oggi rappresentiamo. Può voler questo la Francia? Lo può il suo governo? Lo può un nipote di Napoleone? La persistenza in un disegno ostile di fronte alla doppia invasione napoletana ed austriaca ricorderebbe lo smembramento della Polonia. E pensate inoltre, signore, che disegno siffatto non potrebbe compirsi fuorchè risollevando la bandiera che il popolo rovesciò sopra un cumulo di cadaveri e sulle rovine delle nostre città.
Riceverete fra poco, signore, una seconda mia lettera sulla questione...
16 maggio 1849.
(Lettera che accompagnava il rifiuto delle tre proposte di Lesseps:
I. Gli Stati romani chiedono protezione fraterna dalla repubblica francese:
II. Le popolazioni romane hanno diritto di pronunziarsi liberamente sulla forma del loro governo:
III. Roma accoglierà l'esercito francese come esercito di fratelli, ecc.)
Signore,
Abbiamo l'onore di trasmettervi la decisione dell'Assemblea concernente il progetto da voi comunicato alla sua commissione. L'Assemblea non ha creduto di poter accettarlo. Essa c'incarica d'esprimervi a un tempo le ragioni dell'unanime suo voto e il rincrescimento ch'essa ne prova.
Ed è pure con profonda mestizia, naturale a uomini che amano la Francia e pongono tuttavia fede in essa, che noi compiamo con voi, signore, la missione affidataci.
Quando dopo la decisione della vostra Assemblea che invitava il governo a far sì, senza indugio, che la spedizione d'Italia non si sviasse più oltre dal fine assegnatole, noi sapemmo del vostro arrivo, ci balzò [72] il core per gioja. Credemmo nella immediata riconciliazione, in un solo principio proclamato da voi e da noi, tra due popoli, ai quali tendenze naturalmente amichevoli, ricordi, interessi comuni e condizione politica comandano stima e amore. Pensammo che, scelto a verificare la condizione delle cose e colpito dall'accordo assoluto che annoda in un solo pensiero quasi tutti gli elementi del nostro Stato, voi avreste coi vostri ragguagli distrutto il solo ostacolo possibile ai nostri voti, il solo dubbio che potesse ancora indugiare la Francia nel compimento del nobile pensiero espresso dalla decisione della vostra Assemblea.
Concordia, pace interna, determinazione ponderata, entusiasmo, generosità di condotta, voto spontaneo e formale dei municipî, della guardia nazionale, delle truppe, del popolo, del governo e dell'Assemblea sovrana in favore del sistema d'instituzioni esistente, tutto questo v'è riuscito evidente; voi lo diceste, non ne dubitiamo, alla Francia; e speravamo quindi a buon dritto che, parlando in nome della Francia, voi avreste con noi proferite parole diverse da quelle che formano il vostro progetto.
L'Assemblea ha notato il modo col quale la parola repubblica romana è studiosamente evitata nel primo vostro articolo; e ha indovinato in quel silenzio una intenzione sfavorevole ad essa.
Parve all'Assemblea che, dalla maggiore importanza in fuori data dal vostro nome e dalla vostra autorità al progetto, non fosse quasi in esso più che non in alcuni atti del generale prima della giornata del 30 aprile. Accertata una volta in modo innegabile l'opinione del popolo, perchè insistere ad affrontarla coll'occupazione di Roma? Roma non ha bisogno di protezione: nessuno combatte nella sua cerchia; e se un nemico si presentasse appiè delle mura, Roma saprebbe resistergli con forze proprie. Roma può in oggi proteggersi sulla frontiera toscana e in Bologna! L'Assemblea ha dunque intravveduto egualmente nel vostro terzo articolo un pensiero politico, inaccettabile da essa oggi, tanto più che il decreto dell'Assemblea francese sembra risolutamente avverso a una occupazione non provocata, non richiesta dalle circostanze.
Noi non vi nasconderemo, signore, come la funesta coincidenza di una relazione risguardante la cinta di difesa contribuisse alla decisione dell'Assemblea. Un nucleo di soldati francesi varcava, in questo stesso giorno e violando lo spirito della tregua, il Tevere presso a San Paolo, stringendo sempre più in tal modo il cerchio delle operazioni militari intorno alla capitale. E non è questo, signore, un atto isolato. La diffidenza del popolo, già suscitata dal pensiero di veder la propria città occupata da truppe straniere, s'è intanto accresciuta, e sarebbe difficile, forse impossibile, una transazione su cose che l'Assemblea considera da canto suo come pegno vitale d'indipendenza e di dignità.
Per queste e altre ragioni, il progetto fu, comunque a malincuore, giudicato inammissibile dall'Assemblea. Noi avremo l'onore di trasmettervi domani, signore, conformemente alle sue intenzioni, una proposta inferiore di certo alle nostre giuste speranze, ma che avrebbe non foss'altro il vantaggio d'allontanare ogni pericolo di collisione tra due repubbliche fondate su diritti identici e congiunte da simili aspirazioni.
Accettate, signore, ecc.
19 maggio 1849.
Romani!
Parecchî fra voi, in un moto di zelo irriflessivo, promosso da sentori di nuovi pericoli, hanno jeri posto mano, disegnando farne arnesi di barricate, sopra alcuni confessionali appartenenti alle chiese.
L'atto sarebbe grave e punibile, se noi non conoscessimo le vostre intenzioni.
Voi avete creduto, con quella dimostrazione, dar nuova testimonianza che ogni cosa è oggimai possibile in Roma, fuorchè il ripristinamento del governo sacerdotale caduto. Avete voluto esprimere il pensiero che non è, nè può essere vera religione, dove non è patria libera; e che oggi la causa della religione vera, la causa dell'anime nostre libere, immortali, si concentra tutta sulle barricate cittadine.
Ma i nemici della nostra santa repubblica vegliano in ogni parte dell'Europa a interpretar male i vostri atti, e ad accusare il popolo d'irreverenza e d'irreligione. Tradirebbe la patria chi fornisse motivo a siffatte accuse.
Romani! La città vostra è grande e inviolabile fra tutte le città d'Europa, perchè fu culla e conservatrice di religione. Dio protegge e proteggerà la repubblica, perchè il santo suo nome non è mai scompagnato dalla parola popolo, e perchè da noi si combatte per la sua legge d'amore e di libertà, mentre altrove si combatte per interessi e ambizioni, che profanano e ruinano ogni credenza. In quelle chiese, santuario della religione dei nostri padri, s'inalzeranno, mentre combatteremo, preghiere al Dio dei redenti.
Da quei confessionali, d'onde pur troppo uscirono talvolta, violazioni del mandato di Cristo, insinuazioni di corruttela e di servitù, esce pure, non lo dimenticate, la parola consolatrice alle vecchie madri dei combattenti per la repubblica.
Fratelli nostri nella causa benedetta da Dio e dal Popolo! I vostri triumviri esigono da voi una prova di fiducia che risponda alle accuse, conseguenza d'un atto imprudente. Riconsegnate voi stessi alle chiese i confessionali che jeri toglieste. Le barricate cittadine avranno difesa dai nostri petti[97].
20 maggio 1849.
Popoli della repubblica!
L'austriaco inoltra—Bologna è caduta: caduta dopo otto giorni sublimi di battaglia e di sagrificî: caduta com'altri trionfa. Sia l'ultimo suo grido di guerra e vendetta per tutti noi: chi ha core italiano lo raccolga come un santo legato. Roma vi chiede, cittadini, uno sforzo supremo; e lo chiede certa d'ottenerlo, perchè il sangue versato dai suoi nella giornata del 30 gliene concede il diritto.
Colle adesioni al nostro programma, mandate quando cominciavano i dì del pericolo, voi avete dato bella e solenne testimonianza di fede [74] concorde all'Italia e all'Europa. Noi vi chiamiamo a un'altra testimonianza, quella dei fatti. Sia pronto ogni uomo a segnare col proprio sangue la fede. Sorga ogni città, ogni borgo, ogni luogo, vindice di Bologna! Suoni ogni campana, il tocco dell'agonia che il popolo intima all'invasore straniero! Accendete sui vostri monti, di giogo in giogo, simbolo della fratellanza nell'ira, i fuochi che diedero, nel dicembre 1847, il programma della nostra rivoluzione! Sventoli per ogni dove, sulle torri, sui campanili, la rossa bandiera! Di terra in terra, di casolare in casolare, corra un fremito di battaglia! Sappiano il nemico, l'Italia, l'Europa, che qui, nel core della penisola, stanno tre milioni d'uomini legati in sacramento di tremenda difesa, decisi irrevocabilmente a combattere sin all'estremo, a sotterrarsi, anzichè cedere, sotto le rovine della patria! E, viva Dio, nessuna potenza umana potrà vietarci di vincere. Tre milioni di popolo sono onnipotenti quando dicono: Noi vogliamo.
Italiani figli di Roma! Militi della repubblica! Questa è un'ora solenne preparata da secoli; uno di quei momenti storici che decretano la vita o la morte d'un popolo.
Grandi e potenti per sempre o segnati per sempre del marchio di servitù; riconosciuti liberi e fratelli dalle nazioni o condannati alla nullità degli obbedienti al capriccio altrui: padroni di voi medesimi, delle vostre case, dei vostri altari, delle vostre tombe, o cosa e ludibrio d'ogni tiranno: raccomandati alla immortalità della gloria o della vergogna: sarete ciò che vorrete. Il giudizio di Dio e dell'Umanità pende dalla vostra scelta.
Siate grandi. Decretate la vittoria. Il popolo la conquistava agli Spagnuoli, ai Greci, agli Svizzeri: la conquisti all'Italia. I presidi, i commissarî straordinari organizzino l'insurrezione: si colleghino di provincia in provincia: traducano l'inspirazione di Roma: assumano dagli estremi pericoli poteri eccezionali, rimedî estremi. Il capo che cede, che s'allontana prima d'aver combattuto, che capitola, che tentenna, sia reo dichiarato. La terra, che accoglie il nemico senza resistenza, sia politicamente cancellata dal novero delle terre della repubblica. Chi non combatte in un modo o nell'altro l'invasore straniero, s'abbia l'infamia; chi, non fosse che per un istante, parteggia per esso, perda la patria per sempre o la vita. Sia punito chi abbandona al nemico materiali da guerra: punito chi non s'adopera a togliergli viveri, alloggio, quiete: punito chi, potendo, non s'allontana dal terreno ch'esso calpesta. Si stenda intorno all'esercito, che inalza bandiera non nostra, un cerchio di fuoco o il deserto. La repubblica, mite e generosa finora, sorga terribile nella minaccia.
Roma starà.
21 maggio 1849.
Al signor Lesseps.
Signore,
Ebbi l'onore di trasmettervi, nella nota del 16, alcuni dati sull'accordo unanime che accompagnò l'instaurazione della nostra repubblica. Oggi, è necessario parlarvi della questione attuale com'è posta nel fatto, se non nel diritto, tra il governo francese e il nostro. Vorrete, speriamo, concederci il franco discorso richiesto egualmente dall'urgenza della situazione e dalle simpatie internazionali che devono animare tutte le relazioni tra la Francia e l'Italia. Tutta la nostra [75] diplomazia sta nel vero; e nel carattere dato, o signore, alla vostra missione abbiamo pegno che quanto diremo sarà interpretato nel miglior modo possibile. Permettetemi di risalire per pochi istanti alla sorgente della situazione attuale.
Dopo conferenze e accordi ch'ebbero luogo, senza che il governo della repubblica romana fosse chiamato a prendervi parte, fu, qualche tempo addietro, deciso dalle potenze cattoliche europee: 1.º Che una modificazione politica era necessaria nel governo e nelle instituzioni dello Stato romano; 2.º che questa modificazione avrebbe a base il ritorno di Pio IX, non solo come papa—a questo non porremmo ostacolo alcuno—ma come principe e sovrano temporale; 3.º che se per raggiungere intento siffatto, un intervento concertato fosse giudicato indispensabile, l'intervento avrebbe luogo.
Ci è caro ammettere che, mentre solo e unico fine d'alcuni tra i contraenti era un sogno di ripristinamento generale, un ritorno assoluto ai trattati del 1815, il governo francese non fosse trascinato a quei patti se non in conseguenza d'informazioni erronee che gli dipingevano lo Stato romano in preda all'anarchia e signoreggiato col terrore da una minoranza audace.
Sappiamo inoltre che, nella modificazione proposta, il governo francese intendeva farsi rappresentante di una più o meno liberale influenza opposta al programma dispotico dell'Austria e di Napoli. Pur nondimeno, sotto forma tirannica o costituzionale, senza o con pegni d'una libertà qualunque alle popolazioni romane, il pensiero predominante su tutti i negoziati ai quali alludiamo, fu sempre un ritorno verso il passato, una transazione tra il popolo romano e Pio IX, considerato come sovrano temporale. Sotto l'inspirazione di quel pensiero fu, sarebbe inutile dissimularlo, ideata, eseguita l'invasione francese. Fu suo doppio intento cacciare, da un lato, la spada della Francia sulla bilancia dei negoziati che dovevano iniziarsi in Roma e assicurare, dall'altro, la popolazione romana contro ogni eccesso retrogrado, ma ponendo pur sempre a condizione fondamentale la ricostituzione d'una monarchia costituzionale in favore del papa. Intento siffatto è provato per noi, non solamente da ragguagli esatti che abbiamo sui negoziati anteriori, ma dai bandi del generale Oudinot, dalle formali dichiarazioni d'inviati che vennero l'un dopo l'altro al Triumvirato, dal silenzio ostinatamente serbato quando tentammo più volte trattare la questione politica e cercammo ottenere una dichiarazione formale del fatto accertato nella nostra nota del 16, che cioè le instituzioni colle quali oggi si regge il popolo romano sono libera e spontanea espressione del voto inviolabile delle popolazioni legalmente interrogate. E il voto stesso dell'Assemblea francese convalida implicitamente il fatto che noi affermiamo. Di fronte a condizione siffatta, di fronte alla minaccia d'una transazione inaccettabile e di negoziati che non hanno ragione alcuna nello stato delle nostre popolazioni, la parte che ci spettava non era dubbia. Resistere; era per noi un dovere verso il nostro paese, verso la Francia, verso l'Europa.
Noi dovevamo, per adempiere a un mandato lealmente dato e lealmente accettato, mantenere, per quanto era in noi, l'inviolabilità del nostro paese, del suo territorio e delle sue instituzioni unanimemente acclamate da tutti i poteri, da tutti gli elementi dello Stato.
Dovevamo conquistare il tempo necessario per richiamarci dalla Francia ingannata alla Francia meglio informata, ed evitare alla repubblica sorella il rimorso d'essersi fatta, cedendo senza esami a suggerimenti stranieri, complice d'una violenza che non ha paragone se non nel primo smembramento della Polonia.
E dovevamo all'Europa una testimonianza, quale almeno poteva escire da noi, a pro del principio fondamentale d'ogni vita internazionale, l'indipendenza di ciascun popolo in ciò che riguarda la sua interna amministrazione. Resistendo con entusiasmo ai tentativi della monarchia napoletana e dell'eterna nostra nemica l'Austria, resistendo con profondo dolore alle armi francesi, noi andiamo alteri di poter dire a noi stessi che abbiamo benemeritato non solamente di voi, ma dei popoli europei.
Voi sapete, signore, gli eventi che tennero dietro all'intervento francese. Il nostro territorio fu invaso dalle truppe del re di Napoli; e quattromila soldati spagnuoli salparono, probabilmente il 17, per assalire le nostre coste. Gli Austriaci, superata la resistenza eroica di Bologna, inoltrarono nella Romagna e minacciano Ancona. Noi abbiamo respinto dal nostro territorio le forze del re di Napoli. Faremmo lo stesso—è fede nostra—delle forze austriache, se il contegno delle forze francesi non c'impedisse d'agire.
Noi parliamo dolenti. Ma è necessario che la Francia sappia finalmente le vere conseguenze della spedizione di Civitavecchia, ideata, se stiamo a ciò che s'afferma, a proteggerci.
Noi diciamo, signore, che fra tutti gli interventi promossi a danno nostro, l'intervento francese è quello che ci riescì più fatale. Possiamo batterci contro i soldati del re di Napoli e contro gli Austriaci: vorremmo non batterci contro i Francesi. Noi siamo a riguardo loro in condizioni non di guerra, ma di semplice difesa. Sarà tale il nostro contegno ovunque ci troveremo innanzi la Francia. Ma quel contegno, non giova dissimularlo, ha per noi tutti i danni d'una guerra senza alcuno de' suoi vantaggi possibili.
La spedizione francese ha reso indispensabile per noi un concentramento di forze che lasciò la nostra frontiera aperta all'invasione austriaca, e disarmate Bologna e le città della Romagna. Gli Austriaci ne profittarono. Dopo otto giorni di lotta sostenuta eroicamente dalla popolazione, fu forza a Bologna di cedere.
Avevamo comprato in Francia armi per nostra difesa; queste armi, 10 000 fucili almeno, furono sequestrate fra Civitavecchia e Marsiglia: esse sono in mano vostra. Togliendoci quell'armi, ci avete tolti 10 000 soldati, perchè ogni uomo armato sarebbe un soldato contro gli Austriaci.
Le vostre forze stanno sotto le nostre mura, a un tiro di fucile, disposte come per un assedio. Esse rimangono ostinate, minacciose a quel modo, senza fine dichiarato, senza programma, costringendoci a mantenere la città in uno stato di difesa che aggrava le nostre finanze, e togliendo alle nostre truppe ogni possibilità di movere a salvare le nostre terre dall'occupazione e dalla devastazione austriaca. Circolazione, approvvigionamenti, corrieri, ogni cosa è inceppata. Gli animi concitati potrebbero, se il nostro popolo fosse men buono e meno devoto, trascendere ad atti funesti. Quell'attitudine dei vostri soldati non genera anarchia o riazione, perchè nè l'una cosa nè l'altra è possibile in Roma; ma produce irritazione contro la Francia; ed è grave sciagura per noi che ponevamo finora amore e speranza in essa.
Noi siamo assediati, signore, assediati dalla Francia in nome d'una missione di protezione, mentre, a distanza di poche leghe, il re di Napoli trascina con sè i nostri ostaggi, mentre gli Austriaci scannano i nostri fratelli.
Voi avete, signore, presentato proposte. Quelle proposte furono dichiarate inaccettabili dall'Assemblea, e sarebbe inutile per noi il discuterle. Voi ne aggiungete oggi una. La Francia, voi dite, proteggerà contro ogni invasione straniera tutte le parti del territorio romano occupate dalle sue truppe. Or quella quarta proposta non muta menomamente [77] le nostre condizioni. La parte di territorio occupato da voi è già protetta, nel fatto, contro ogni altra invasione; ma se guardiamo al presente, quella parte è di men che lieve importanza, e se guardiamo al futuro, non abbiamo noi dunque modo di proteggere il nostro suolo fuorchè abbandonandolo tutto a voi?
Non è quello il nodo della questione: la questione sta tutta nell'occupazione di Roma. Ed è condizione da voi posta a capo di tutte le vostre proposte.
Or noi abbiamo l'onore di dirvi, signore, che quella condizione è impossibile: il popolo non vi consentirebbe giammai. Se l'occupazione di Roma non ha per fine che di proteggerla, il popolo vi si mostrerà riconoscente, ma vi dirà che, capace di proteggere Roma con forze proprie, si terrebbe disonorato davanti a voi se dichiarasse sè stesso impotente e indispensabile alla difesa l'ajuto d'alcuni reggimenti francesi. Se l'occupazione di Roma ha invece, Dio nol voglia, un pensiero politico, il popolo che ha liberamente scelto le proprie instituzioni, non può rassegnarsi a subirla. Roma è la sua capitale, il suo Palladio, la sua città sacra. Esso intende che, oltre il principio violato e l'onore tradito, ogni occupazione trascinerebbe una guerra civile. E ogni insistenza gli aumenta i sospetti e l'antiveggenza, ammesse una volta che fossero le truppe straniere, di mutamenti inevitabili funesti alla sua libertà, negli uomini e nelle instituzioni.
Il popolo ha innanzi l'esempio di Civitavecchia; e sa che di mezzo alle bajonette straniere, l'indipendenza dell'Assemblea e del governo non sarebbe più che una vana parola.
Su quel punto, signore, credetelo a noi, la sua volontà è irrevocabile. Non soggiacerà se non dopo aver seminato de' suoi cadaveri le barricate. Vogliono, possono i soldati di Francia trucidare un popolo di fratelli che affermano voler proteggere, perch'esso rifiuta di cedere all'armi loro la sua capitale?
La Francia non ha, negli Stati romani, che tre parti da scegliere:
Dichiararsi per noi, contro noi o neutrale.
Dichiararsi per noi significa riconoscere formalmente la nostra repubblica e combattere a fianco nostro, colle nostre truppe, gli Austriaci.
Dichiararsi contro noi, cioè schiacciare senza cagione la libertà, la vita nazionale d'un popolo d'amici e combattere a fianco degli Austriaci.
La Francia non può far questo. Essa non vuole avventurarsi a una guerra europea per difenderci come alleata. Rimanga dunque neutrale nella lotta che noi sosterremo. Noi avevamo, poco tempo addietro, ben altre speranze; oggi non le domandiamo che questo.
L'occupazione di Civitavecchia è fatto compiuto; sia. La Francia crede che, nella condizione di cose presenti, non le conviene di tenersi lontana dal campo della battaglia, e pensa che, vincitori o vinti, noi possiamo aver bisogno della sua protezione o della sua azione moderatrice. Noi nol crediamo, ma non intendiamo di ribellarci per questo contr'essa. Serbi dunque Civitavecchia. Estenda, se il numero delle sue truppe lo esiga, i proprî accantonamenti ai luoghi salubri che stanno sul raggio da Civitavecchia a Viterbo. E aspetti immobile l'esito finale della nostra guerra. Noi offriremo ad essa tutte le agevolezze possibili, tutte testimonianze di leale amicizia. I suoi ufficiali entreranno in Roma visitatori; i suoi soldati avranno, occorrendo, ajuto e conforti da noi, ma sia la sua neutralità sincera e senza mistero; dichiarata in termini espliciti. Lasci a noi libertà di giovarci senza tema di tutte quante le nostre forze. Ci renda l'armi [78] da noi comprate. Non chiuda co' suoi legni i nostri porti agli uomini che dall'altre parti d'Italia volessero accorrere a dividere i nostri pericoli. S'allontani anzi tutto dalle nostre mura. Cessi anche l'apparenza d'ostilità fra due popoli chiamati, noi non possiamo dubitarne, negli anni avvenire a congiungersi in una stessa fede internazionale come sono oggi congiunti nell'adozione d'una stessa forma governativa.
Accettate, signore, ecc.
25 maggio 1849.
Considerando che debito di Roma, per la sua tradizione nel passato e per la sua missione nell'avvenire, è ampliare possibilmente la propria vita e la propria libertà a quanti soffrono, combattono e sperano per la causa delle nazioni e dell'umanità;
Considerando che per patimenti, energia di sacrificî e immortalità di speranze, la Polonia è sorella all'Italia e sacra fra tutte le nazioni;
Considerando che gli esuli polacchi rappresentano in oggi la Polonia futura;
Il Triumvirato decreta:
1.º È formata sul territorio della repubblica una legione polacca, che combatterà sotto i segni di Roma per l'indipendenza italiana.
2.º La legione inalzerà il vessillo nazionale polacco colla sciarpa tricolore italiana. Il comando si farà in lingua polacca. L'uniforme dei legionari sarà di colore blu scuro, collare e mostre di rosso amaranto e colle parti metalliche bianche.
3.º La legione ascenderà a duemila uomini o più.
Il governo della repubblica somministrerà, occorrendo, i mezzi pel trasporto degli arrolati. Gli Slavi, che militassero sotto la repubblica, saranno incorporati nella legione.
4.º La legione elegge i proprî ufficiali. Il capo militare della legione presenterà le nomine fatte. Il governo sceglie tra quelli. Il capo militare non può essere che Polacco, scelto con suffragio universale dai suoi.
5.º Il soldo della legione sarà eguale a quello dell'esercito romano. I feriti o mutilati difendendo la repubblica hanno tutti i diritti che spettano ai feriti e mutilati cittadini dello Stato.
6.º La legione si obbliga per un anno, prolungando a sua posta di anno in anno sino a sei il suo esercizio militare.
Dove la guerra dell'indipendenza polacca ricominciasse, e la legione potesse consacrarsi utilmente alla salute della propria patria, sarà libera, e potrà lasciare, annunziandolo prima al governo, il territorio della repubblica.
29 maggio 1849.
(Risposta alla dichiarazione di Lesseps che il 29 maggio riproduceva con lievi varianti le proposte accennate nel documento, n. XVI.)
Signore,
Ricevemmo la dichiarazione che indirizzaste a noi il 29 maggio. Avendo l'Assemblea, alla quale copia della dichiarazione fu pure [79] trasmessa, riconfermata l'autorità già accordataci per ogni negoziato, è debito nostro rispondervi; e lo facciamo solleciti. Se indugiammo a rispondere alla vostra nota del 26, vogliate considerare ch'essa non conteneva proposte in nome della Francia, nè discuteva le nostre.
Abbiamo esaminato accuratamente il vostro progetto; ed ecco quali modificazioni vi proponiamo. Esse riguardano più assai la forma che non la sostanza.
Noi potremmo svolgere lungamente le cagioni dei mutamenti che proponiamo; mutamenti, vogliate crederlo, signore, richiesti, non solamente dal mandato trasmessoci dall'Assemblea, ma dal voto esplicito del nostro popolo contro il quale nessuna convenzione sarebbe possibile; ma il tempo stringe e ci è forza rinunziare ai particolari. E preferiamo inoltre affidarci, per supplire a questa omissione, alla vostra lealtà e al favore con cui sovente guardaste alla nostra causa e a' suoi fati. La nostra, signore, non è nè può essere diplomazia; è una chiamata di popolo a popolo, libera e cordiale, senza minaccia come senza pensiero segreto. Più d'ogni altra nazione, la Francia è capace d'ascoltarla e d'intenderla.
La condizione anormale di cose esistente fra la repubblica francese e noi riescirebbe, prolungandosi, segnatamente dopo la dichiarazione della vostra Assemblea e le recenti manifestazioni del popolo francese a nostro riguardo, inconcepibile. E la proposta che tende a far sì che cessi v'è inviata da noi, signore, con tutta la potenza di convincimento e di desiderio che vive in noi. Abbiatela sacra, però che essa compendia la fede incrollabile ai fervidi desiderî d'un popolo, piccolo per numero ma prode e leale, che ricorda i suoi padri e ciò che compirono sulla terra e che, combattendo oggi per una causa sacra, quella dell'indipendenza e della libertà, è irrevocabilmente deciso a imitarli. Questo popolo, signore, ha diritto d'essere compreso dalla Francia e di trovare in essa un appoggio, non una potenza ostile; ha diritto di aver dalla Francia non protezione, ma fratellanza. Ogni domanda di protezione proferita da esso sarebbe interpretata dall'Europa come un grido di disperazione, come una dichiarazione d'impotenza e lo farebbe indegno di quell'amistà della Francia sulla quale ei facea calcolo prima dei fatti recenti. Quel grido di disperazione non può suonargli sul labbro. Non esiste impotenza per un popolo che sa morire; e mal s'addirebbe a generoso sentire da parte d'una grande e altera nazione di sconoscere il nobile impulso che muove il popolo di Roma.
Bisogna, signore, che questa condizione di cose cessi. La fratellanza non è oggi fra noi se non parola vuota di senso pratico: diventi una realtà. Sia lecito ai nostri corrieri, alle nostre armi, alle nostre truppe di circolare liberamente a nostra difesa su tutte quante le nostre terre. Non sian i Romani condannati come oggi sono a guardare con sospetto uomini ch'erano avvezzi a considerare siccome amici. Ci sia schiusa la via di difenderci con tutti i nostri mezzi dagli Austriaci che bombardano le nostre città. Non rimangano più dubbie le buone e leali intenzioni della Francia. Non sia più possibile all'Europa di dire ch'essa, la Francia, ci sottrae le difese per imporci poi una protezione, mercè la quale si serberebbe inviolato da altri il nostro territorio, ma colla perdita di quanto abbiamo più caro, del nostro onore e della nostra libertà.
Fate questo, signore. Svaniranno le difficoltà che or ci separano: gli affetti, oggi illanguiditi, potranno rivivere; e la Francia riconquisterà il diritto di consigliarci che l'attitudine ostile assunta le toglie.
Gli accantonamenti che ci sembrano più opportuni per ora si stenderebbero sulla linea da Frascati a Velletri.
Accettate, signore, ecc.
30 maggio 1849.
Ecco ora le proposte:
I. I Romani, fidenti oggi come sempre nell'appoggio fraterno della repubblica francese, reclamano la cessazione d'ogni ostilità reale o apparente e lo stabilimento delle relazioni che devono esprimere quell'appoggio fraterno.
II. I Romani hanno pegno di libero esercizio dei loro diritti politici nell'art. 5 della costituzione francese.
III. L'esercito francese sarà considerato dai Romani come un esercito amico e accolto siccome tale. In accordo col governo della repubblica romana, esso stanzierà in accantonamenti convenevoli così per la difesa del paese come per la salubrità. L'esercito francese rimarrà estraneo all'amministrazione del paese.
Roma è sacra pe' suoi amici come pe' suoi nemici. Essa non fa parte degli accantonamenti scelti dalle truppe francesi. Il prode suo popolo è la sua migliore difesa.
IV. La repubblica francese difenderà da ogni invasione straniera il territorio occupato dalle sue truppe.
(Accettata, con mutamenti di forma, la proposta contenuta nel documento che precede dal plenipotenziario Lesseps, il generale Oudinot, allegando istruzioni segrete, ricusò di ratificare gli accordi, ruppe la tregua, intimò gli assalti, dichiarando che non assalirebbe prima del lunedì; poi assalì nella notte dal sabato alla domenica.)
Romani!
Al delitto d'assalire con truppe repubblicane una repubblica amica, il generale Oudinot aggiunge l'infamia del tradimento. Egli viola la promessa scritta, ch'è in mano nostra, di non assalire prima di lunedì.
Levatevi, Romani! Alle mura, alle porte, alle barricate! Proviamo al nemico che neppure col tradimento si vince Roma.
Sorga l'intera città nell'energia di un solo pensiero. Combatta ogni uomo; abbia ogni uomo fede nella vittoria. Ricordatevi tutti dei vostri padri e siate grandi.
Trionfi il diritto e una eterna vergogna s'aggravi sull'alleato dell'Austria.
Viva la repubblica!
3 giugno 1849.
Romani!
Voi avete oggi sostenuto l'onore di Roma, l'onore d'Italia. Per oltre a quattordici ore avete combattuto come vecchî soldati. Sorpresi a un tratto dal tradimento, dalla violazione d'una formale e segnata promessa, voi avete conteso palmo a palmo il terreno, riconquistato posizioni un istante perdute, respinto le più valorose truppe d'Europa [81] e salutato d'un sorriso la morte. Dio vi benedica, custodi della gloria dei vostri padri, come noi, alteri d'aver indovinato l'elemento di grandezza ch'è in voi, vi benediciamo in nome d'Italia.
Romani, questa giornata è giornata d'eroi, una pagina storica.
Vi dicevamo jeri: siate grandi; oggi diciamo: voi siete grandi. Durate; siate costanti. Al popolo di Roma possono dimandarsi miracoli. E noi diciamo con piena fiducia ad esso, alle guardie nazionali, alla gioventù di tutte le classi: Roma è inviolabile; custodite questa notte le sue mura: esse racchiudono l'avvenire della nazione. Vigilate, mentre quei che hanno combattuto quattordici ore riposano, alle porte, alle barricate. L'angelo della patria vigila con voi, e l'angelo della patria è l'angelo della nazione.
Viva la repubblica!
3 giugno 1849.
Romane! Figlie del popolo!
I vostri mariti, i vostri figli, i vostri fratelli combattono il nemico della patria alle mura: voi avete diritto all'amore e alla protezione del paese. Il nemico, che si ritrasse l'altro jeri atterrito davanti agli uomini vostri, ha minacciato oggi colle bombe le vostre case. Voi siete donne romane, non potete impaurirvi ad una minaccia impotente, perchè le nostre truppe terranno il nemico lontano; combatteranno, occorrendo, coi vostri cari alle barricate; ma Roma deve protezione alle vecchie madri, ai fanciulli dei suoi difensori. Il Triumvirato decreta in conseguenza:
Che le famiglie popolane, le cui case fossero minacciate dalle bombe o dal cannone, durante l'assedio a cominciar da domani, e occorrendo anche prima, avranno alloggio per cura del governo in case, palazzi o conventi fuori d'ogni pericolo:
Che i rappresentanti del popolo in ogni rione riceveranno le domande, ne verificheranno la giustizia, e rilasceranno una carta d'ammissione ai locali, la lista dei quali verrà consegnata ad essi, colle dovute istruzioni, dal ministero dell'interno.
I Triumviri affidano alla virtù e al patriotismo delle popolane romane la custodia vigilante e l'ordine necessario a preservare da ogni guasto le abitazioni assegnate ad esse da Roma.
5 giugno 1849.
(Le linee seguenti rispondevano a un'ultima intimazione del generala Oudinot, quando i Francesi erano già sul primo bastione a sinistra della porta San Pancrazio.)
Abbiamo l'onore di rimettervi la risposta dell'Assemblea alla vostra comunicazione del 12.
Noi non tradiamo mai le nostre promesse. Abbiamo promesso difendere, in esecuzione degli ordini dell'Assemblea e del popolo romano, la bandiera della repubblica, l'onore del paese e la santità della capitale del mondo cristiano, e manterremo la nostra promessa.
Gradite, generale, l'assicurazione della nostra distinta considerazione.
13 giugno 1849.
(Risposta a una lettera indirizzata dal signor de Corcelles, inviato straordinario della repubblica francese, al signor de Gerando, cancelliere dell'ambasciata francese in Roma. La lettera tentava scusare la contraddizione patente fra gli accordi di Lesseps e l'assalto dato a Roma dal generale Oudinot.)
Signore,
La lettera che il signor de Corcelles vi scrive con data del 13, e che m'è da voi cortesemente comunicata, non invalida affatto, dovete ammetterlo, la risposta data dall'Assemblea costituente romana alla intimazione del generale Oudinot. Poco monta la data di uno o di altro dispaccio francese; poco monta che il signor Lesseps fosse o no richiamato al momento della firma apposta da lui alla convenzione del 31 maggio.
Una sola parola risponde a ogni cosa: l'Assemblea ignorava; essa non ebbe mai comunicazione officiale di quei dispacci.
La questione diplomatica è dunque, per noi, posta in questi termini:
Il signor Lesseps era ministro plenipotenziario della Francia in Roma. Egli era tale per noi il 31 maggio come prima d'allora. Nulla ci aveva avvertiti d'una modificazione o d'un annullamento de' suoi poteri. Trattavamo noi dunque con lui in piena buona fede come se trattassimo colla Francia: e questa nostra buona fede ci valse, nella notte dal 28 al 29 maggio, l'occupazione di Monte Mario. Addentrati in una discussione assolutamente pacifica col signor Lesseps, ansiosi d'evitare quanto avrebbe potuto trascinare gli spiriti su direzione avversa ai nostri voti e non sapendo indurci a credere che la missione protettrice della Francia comincerebbe coll'assedio di Roma, guardavamo ogni incidenza senza commoverci. A ogni movimento delle vostre truppe, a ogni operazione tendente a restringere la cinta militare e a ravvicinarsi gradatamente a posizioni che noi avremmo potuto difendere, il signor Lesseps s'affrettava a dirci che i Francesi non operavano a quel modo se non per quetare la concitazione febbrile delle truppe affaticate dalla lunga inerzia; in nome dei due paesi, in nome dell'umanità, ei ci supplicava d'evitare ogni conflitto, d'aver fede in lui, di non paventare conseguenza alcuna da quei fatti anormali. E noi cedevamo volonterosi. Oggi, io sono costretto, per quanto a me spetta, a pentirmi di quella arrendevolezza; non già ch'io tema per Roma, ma perchè petti di prodi difendono ciò che buone posizioni avrebbero potuto difendere. Il 31 maggio, alle otto di sera, furono firmati gli accordi tra il signor Lesseps e noi. Ei li portò seco al campo affermandoci ch'ei considerava la firma del generale Oudinot come semplice formalità intorno alla quale non poteva esistere dubbio. Eravamo tutti coll'animo lieto. Le cose stavano per ripigliare, tra la Francia e noi, la loro naturale tendenza.
La notte, parmi, ci giunse il dispaccio del generale Oudinot contenente rifiuto d'adesione agli accordi e l'affermazione che il signor Lesseps, firmandoli, aveva oltrepassati i poteri affidatigli.
Un secondo dispaccio, con data del 1.º giugno, a tre ore e mezzo dopo mezzodì, e firmato dal generale, ci dichiarava «che i fatti avevano giustificato la sua determinazione e che in due dispacci del [83] ministro di guerra e degli affari esteri, in data 28 e 29 maggio, il governo francese gli annunziava il termine della missione del signor Lesseps.»
Ventiquattro ore ci erano concesse per accettare l'ultimatum del 29 maggio.
V'è noto come lo stesso giorno il signor Lesseps c'indirizzasse una comunicazione nella quale è detto: «Mantengo l'accordo firmato jeri. Parto per Parigi onde ottenergli ratifica. Quell'accordo fu conchiuso in virtù d'istruzioni che mi davano facoltà di consacrarmi esclusivamente ai negoziati e alle relazioni da stabilirsi colle autorità e le popolazioni romane.»
Lo stesso giorno, in ora più inoltrata, il generale Oudinot ci dichiarava che ricomincerebbe le ostilità, ma che «su richiesta del cancelliere dell'ambasciata francese... l'assalto sarebbe differito fino a lunedì mattina, almeno».
Fummo assaliti la domenica, e la conseguenza di questa violazione di fede era per noi l'occupazione di Villa Panfili e la sorpresa operata su due compagnie, la cui cifra entra senza dubbio nel bollettino della giornata del 3. Quei duecento uomini, còlti nel sonno, sono ora, insieme ai 24 prigionieri fatti nella giornata, in Bastia nella Corsica.
Dopo ciò, che importa a noi, vogliate dirmelo, signore, il dispaccio del 26 maggio citato la prima volta nella lettera del signor de Corcelles? Che importano al governo romano i dispacci citati dal generale Oudinot? Noi non vedemmo mai quei dispacci; ci è ignoto ciò che contengono; nessuna comunicazione officiale c'informò della loro esistenza. Da un lato abbiamo le informazioni del generale Oudinot; dall'altro quelle del ministro plenipotenziario; le une contradicono le altre. Esca la Francia da viluppo siffatto e salvi l'onore se può. Posta fra un ministro plenipotenziario e il generale d'una divisione d'esercito, la nostra Assemblea ha stimato di conformarsi alla tradizione dei fatti stabiliti dal plenipotenziario. Io consento in ciò ch'essa fece e vi ricordo, signore, che oggi soltanto, decimo giorno dell'assedio, la presenza del signor de Corcelles nel campo, con attribuzioni di ministro straordinario, ci è fatta indirettamente nota.
Meditate, signore, le date delle note ufficiali, paragonatele colla data dell'occupazione di Monte Mario o d'altre operazioni dell'esercito francese; poi diteci se, esaminando freddamente la questione diplomatica, l'Europa non dovrà dire: «Il governo francese non ha voluto se non deludere il governo romano. Il generale Oudinot s'è giovato della buona fede degli uomini che lo compongono per restringere il cerchio dell'assedio, per occupare posizioni favorevoli, per agevolarsi la possibilità d'impossessarsi della città. O il dispaccio del 26 non esiste o non fu comunicato in tempo al signor Lesseps.»
Il dispaccio del 29 maggio era difatti noto nel campo francese nella mattina del 1.º giugno; quello del 26 poteva dunque essere in mano al generalo Oudinot fin dal 29 maggio. Se il generale non lo esibì fin d'allora per sospendere negoziati e poteri del negoziatore, sorge il pensiero ch'ei volesse trarre partito da quei negoziati, che inceppavano la vigilanza e le forze del popolo romano, per impadronirsi a poco a poco, senza incontrare resistenza, dalle posizioni migliori; certo com'egli era di porre fine quando giovasse, rivelando il dispaccio del 26, agli accordi e di rompere, pronta ogni cosa per assalire, la tregua.
Concedete, signore, ch'io vi dica colla libertà che si addice a un uomo leale e d'indole non servile: la condotta del governo romano non s'allontanò mai d'una linea, nelle trattative ch'ebbero luogo, dalle [84] vie dell'onore. Il governo francese potrebbe difficilmente affermarlo di sè. Ciò non tocca, la Dio mercè, menomamente la Francia; prode e generosa nazione, essa è, come noi, vittima d'un basso indegno raggiro.
Oggi, i vostri cannoni tuonano contro le nostre mura, le vostre bombe scendono sulla città sacra; la Francia ebbe questa notte la gloria d'uccidere una povera fanciulla del Trastevere che dormiva a fianco della sorella.
I nostri giovani ufficiali, i nostri militari improvvisati, i nostri popolani, cadono sotto i vostri projettili gridando: Viva la repubblica! I prodi soldati di Francia cadono, senza grido, senza mormorare accento, come uomini disonorati. Io son certo che non havvi un solo cuore tra voi che non dica internamente a sè stesso ciò che uno dei vostri disertori ci diceva oggi: Non so qual voce segreta ci dice che combattiamo de' fratelli.
E perchè questo conflitto fraterno? Io nol so; voi nol sapete. La Francia non ha qui bandiera; essa combatte uomini che l'amano e che, pochi giorni addietro, fidavano in essa. Essa cerca l'incendio di una città che non l'ha menomamente offesa, senza programma politico, senza fine determinato, senza diritto da esercitare, senza dovere da compiere. Essa gioca, per mezzo de' suoi generali, la partita dell'Austria e senza il tristo coraggio di confessarlo. Essa trascina il suo stendardo nel fango dei conciliaboli di Gaeta e retrocedendo davanti a una schietta dichiarazione di ripristinamento sacerdotale. Il signor de Corcelles non s'avventura più a parlare d'anarchia, di fazioni; ma scrive, come chi è turbato nell'anima, queste parole, senza senso: «La Francia ha per fine la libertà del capo riverito della Chiesa, la libertà degli Stati romani e la pace del mondo!»
Noi sappiamo almeno perchè combattiamo, e perchè lo sappiamo, siam forti. Se la Francia rappresentasse qui tra noi un principio, una di quelle idee che fanno grandi le nazioni e la fecero grande in passato, il valore de' suoi figli non si romperebbe contro il petto dei nostri giovani militi.
È trista pagina davvero, signore, quella che sta ora scrivendosi dai vostri generali nella storia di Francia; è un colpo mortale vibrato al Papato che voi pretendete proteggere e che affogate nel sangue; è un abisso incolmabile scavato fra due nazioni chiamate a movere insieme pel bene di tutti e che si stendevano, vogliose d'intendersi, la mano da secoli; è una violazione profonda della morale che dovrebbe governare le relazioni tra popolo e popolo, della comune credenza che dovrebbe guidarli, della santa causa della libertà che vive in quella credenza, dell'avvenire non dell'Italia—i patimenti sono per essa un battesimo di progresso—ma della Francia, che non può serbarsi in prima fila tra le nazioni se non colle maschie virtù della fede e dell'intelletto della libertà.
15 giugno 1849.
(Dopo il decreto dell'Assemblea che ingiungeva cessasse la resistenza.)
Romani!
Il Triumvirato s'è volontariamente disciolto. L'Assemblea costituente vi comunicherà i nomi dei nostri successori.
L'Assemblea, commossa, dopo il successo ottenuto jeri dal nemico, dal desiderio di sottrarre Roma agli estremi pericoli, e d'impedire che si mietessero senza frutto per la difesa altre vite preziose, decretava la cessazione della resistenza. Gli uomini, che avevano retto mentre durava la lotta, mal potevano seguire a reggere nei nuovi tempi che si preparano. Il mandato ad essi affidato cessava di fatto, ed essi si affrettarono a rassegnarlo nelle mani dell'Assemblea.
Romani! Fratelli! Voi avete segnata una pagina che rimarrà nella storia documento della potenza d'energia che dormiva in voi e dei vostri fati futuri, che nessuna forza potrà rapirvi. Voi avete dato battesimo di gloria e consacrazione di sangue generoso alla nuova vita che albeggia all'Italia, vita collettiva, vita di popolo che vuole essere e che sarà. Voi avete, raccolti sotto il vessillo repubblicano, redento l'onore della patria comune contaminata altrove dagli atti dei tristi, e scaduta per impotenza monarchica. I vostri Triumviri, tornando semplici cittadini fra voi, traggono con sè conforto supremo nella coscienza di pure intenzioni, e l'onore d'avere il loro nome associato ai vostri fortissimi fatti.
Una nube sorge oggi tra il vostro avvenire e voi. È nube d'un'ora. Durate costanti nella coscienza del vostro diritto e nella fede per la quale morirono apostoli armati, molti dei migliori fra voi. Dio, che ha raccolto il loro sangue, sta mallevadore per voi. Dio vuole che Roma sia libera e grande; e sarà. La vostra non è disfatta: è vittoria dei martiri ai quali il sepolcro è scala di cielo. Quando il cielo splenderà raggiante di resurrezione per voi; quando, tra brev'ora, il prezzo del sacrificio, che incontraste lietamente per l'onore, vi sarà pagato; possiate allora ricordarvi degli uomini che vissero per mesi della vostra vita, soffrono oggi dei vostri dolori, e combatteranno, occorrendo, domani, misti nei vostri ranghi, le nuove vostre battaglie. Viva la repubblica romana!
30 giugno 1849.
Romani!
La forza brutale ha sottomesso la vostra città; ma non mutato o scemato i vostri diritti. La repubblica romana vive eterna, inviolabile, nel suffragio dei liberi che la proclamarono, nell'adesione spontanea di tutti gli elementi dello Stato, nella fede dei popoli che hanno ammirato la lunga nostra difesa, nel sangue dei martiri che caddero sotto le nostra mura per essa. Tradiscano a posta loro gl'invasori le loro solenni promesse. Dio non tradisce le sue. Durate costanti e fedeli al voto dell'anima vostra nella prova alla quale Ei vuole che per poco voi soggiaciate; e non diffidate dell'avvenire. Brevi sono i sogni della violenza, e infallibile il trionfo d'un popolo che spera, combatte e soffre per la Giustizia o per la santissima Libertà.
Voi daste luminosa testimonianza di coraggio militare; sappiate darla di coraggio civile.
Per quanto avete di sacro, cittadini, serbatevi incontaminati di stolte paure e di basso egoismo. Duri visibile agli occhî del mondo la separazione tra voi e gl'invasori. Sia Roma il loro campo, non la loro città. E segnate del nome di traditore di Roma chi trapassa, transigendo colla propria coscienza, nel campo nemico. Le necessità europee non consentono che Roma sia conquista di Francesi o d'altri. [86] Mantenete all'occupazione il suo carattere di conquista; isolate il nemico; l'Europa leverà una voce potente per voi. E intanto nessuno può contendervi la pacifica espressione del vostro voto. Organizzate pubblicamente espressione siffatta. Dai municipî esca ripetuta con fermezza tranquilla d'accento la dichiarazione ch'essi aderiscono volontarî alla forma repubblicana e all'abolizione del governo temporale del Papa; e che riterranno illegale qualunque governo s'impianti senza l'approvazione liberamente data dal popolo; poi, occorrendo, si sciolgano. Da ogni rione, da ogni città di provincia escano liste segnate da migliaja di nomi che attestino la stessa fede e invochino lo stesso diritto. Per le vie, nei teatri, in ogni luogo di convegno, sorga un grido: Fuori il governo dei preti! Libero voto! e dopo quell'unico grido, ritraetevi. All'inalzare dello stemma pontificio governativo, quanti giurarono alla repubblica s'allontanino dai loro ufficî. Non si imprigionano le migliaja; non si costringono gli uomini ad avvilirsi. E voi v'avvilireste, o Romani, v'avvilireste per sempre, se dopo aver gridato una volta all'Europa che volevate esser liberi e combattuto e perduto i migliori fra i vostri per esser tali, assumeste condizione di schiavi e pattuiste fin dal primo giorno colla disfatta.
I vostri padri, o Romani, furon grandi, non tanto perchè sapevano vincere, quanto perchè non disperavano nei rovesci.
In nome di Dio e del Popolo, siate grandi come i vostri padri. Oggi, come allora, e più che allora, avete un mondo, il mondo italiano, in custodia.
La vostra Assemblea non è spenta, è dispersa. I vostri Triumviri, sospesa per forza di cose la loro pubblica azione, vegliano a scegliere, a norma della vostra condotta, il momento opportuno per riconvocarla.
5 luglio 1849.
Giuseppe Mazzini.
(Gli scritti che seguono sono, in certo modo, epilogo al dramma di Roma, e conchiudono il periodo che abbraccia il 1848 e il 1849. Li pubblicai dalla Svizzera.)
LETTERA AL MINISTERO FRANCESE.
Ai signori Toqueville e Falloux, ministri di Francia.
Signori!
Se voi, ne' vostri discorsi del 6 e del 7 agosto, non aveste calunniato che me, tacerei: non ho provato mai nella vita se non indifferenza per la calunnia e supremo disprezzo pei calunniatori. Ma voi faceste segno delle vostre calunnie una intera rivoluzione, santa nel suo diritto, pura d'eccessi nel suo sviluppo: un intero popolo, buono, valoroso e notabile per affetto all'ordine e abitudini di disciplina, tramandate ad esso dagli antichi suoi padri. Uomini consacrati da lunghi studî alla serena imparzialità filosofica, avete non per tanto, pe' vostri fini, ripetuto impassibili all'Assemblea le volgari accuse d'anarchia, di terrore e di setta, gittate per più mesi, pascolo a un pubblico ignaro, da gazzettieri pagati perchè si spianasse la via all'iniqua impresa contro la romana repubblica. Avete freddamente, col labbro atteggiato al sorriso dell'ironia, avventato il fango della nazione su quei che morirono per la patria nascente. Importa che, per onore della razza umana, qualcuno protesti. Importa che non per voi nè per una maggioranza parlamentaria diseredata, per opera d'egoismo e paura, d'ogni senso morale, ma per quei che gemono tra voi, come noi gemiamo, la libertà perduta, e per la Francia dei dì che verranno, sorga una voce d'onesto a dirvi, o signori, che la vostra eloquenza è mero artificio, la vostra fede una ipocrisia; che per tutta quanta la serie delle vostre asserzioni voi non avete dato se non menzogne alla Francia e all'Europa; che s'havvi nel mondo cosa più vile del carnefice e dell'opera sua, è l'insulto al cadavere, la percossa alla pallida faccia di Carlotta Corday. Io dunque scrivo e protesto in nome di Roma. Io so d'uomini i quali dovrebbero, per onor della Francia, assumersi la parte ch'oggi io m'assumo: sono gli impiegati della vostra cancelleria in Roma[98], che arrossivano davanti a me [88] degli atti del loro governo e plaudivano riconoscenti alle nostre cure protettrici e alla condotta ammirabile del nostro popolo, ma paventavano la perdita dell'ufficio. E so d'altri—ma questi son nostri,—ai quali basterebbe l'animo per protestare, da Roma, e sfidando le vendette sacerdotali, contro le vostre menzogne: ma la vostra antiveggente amministrazione ha chiuso ad essi, sopprimendo ogni giornale, dal vostro infuori, ogni via di pubblicità.
Non era più in Roma sovrano. Il papa s'era fatto disertore a Gaeta. Una commissione governativa instituita da lui avea ricusato d'assumer l'ufficio. Due deputazioni, inviate successivamente da Roma a supplicar Pio IX, perchè tornasse, s'erano vedute respinte. E condizione siffatta di cose trascinava inevitabili l'anarchia e la guerra civile. Urgeva un rimedio.
Il 9 febbrajo, a un'ora del mattino, si proclamavano il decadimento del potere temporale del papa, e conseguenza logica, la repubblica. Da chi? Dall'Assemblea costituente degli Stati romani. D'onde esciva la Costituente? Dal voto universale. Ebbe luogo, non dirò terrore, ma agitazione, influenza illegalmente esercitata nelle elezioni? No; tutto si fece pacificamente, tranquillamente, senza corruttele e senza minaccia. La minorità fu considerevole? Su cento cinquantaquattro membri presenti, undici, per motivi d'opportunità, si dichiararono avversi alla repubblica, soli cinque al decadimento. Quanti fra quei ch'oggi voi chiamate sprezzando stranieri, quanti Italiani nati al di là del confine romano, avevano seggio in quell'Assemblea? Due forse; Garibaldi e il generale Ferrari; e Garibaldi era partito per Rieti. Noi, Saliceti, Cernuschi, Cannonieri, Dall'Ongaro e io, fummo eletti più tardi.
E come accolsero le popolazioni il doppio decreto dell'Assemblea? Insorse, per tutta quanta l'estensione del territorio romano, un solo tentativo di resistenza, un solo indizio di parere discorde, una sola voce che protestasse in favore della potestà decaduta? Non una. Alcuni carabinieri, collocati sulla frontiera napoletana, si fecero disertori; forse temevano, a torto, tristi conseguenze degli imprigionamenti eseguiti sotto Gregorio. Ma fu fatto isolato. Città, campagne, salutarono con gioja sentita l'èra repubblicana. I vecchî municipî, eletti sotto il governo papale, mandarono la loro adesione come la mandarono più dopo i nuovi eletti per voto universale l'undici marzo. Rimaneva a Pio IX qualche individuo amico, non uno al governo del papa.
E dopo la giornata del 30, quando il governo repubblicano, imminente la quadruplice invasione, e concentrate le truppe in Roma, non serbava influenza se non morale sulla provincia—fra i terrori della crisi finanziaria e gli sforzi dei pochi retrogradi—l'elemento conservatore dello Stato rinnovò spontaneo l'adesione alla forma repubblicana. Bologna, Ancona, Perugia, Civitavecchia, Ferrara, Ascoli, Cesena, Fano, Faenza, Forlì, Foligno, Macerata, Narni, Pesaro, Orvieto, Ravenna, Rieti, Viterbo, Spoleto, Urbino, Terni, duecento sessantatrè municipî mandarono a Roma indirizzi, dichiarando in nome dei popoli che l'abolizione del potere temporale e la repubblica erano condizioni di vita allo Stato.
L'Assemblea costituente, numerosa di 150 membri e se non per intelletto, per core almeno, parte eletta della nazione, sedeva permanente, fino al giorno in cui la forza brutale, violando doveri e promesse [89] di Francia, veniva a discioglierla. Essa dettava o approvava quanto fu fatto dal 9 febbrajo sino al 2 luglio.
E chi governava in suo nome? furono elementi indigeni o forestieri?
Prima un Comitato esecutivo: due romani, Armellini e Montecchi; un napoletano, Saliceti; poi, il Triumvirato: proporzione identica di elementi. Ma inferiormente al potere, quanti applicano e vivificano il concetto primo, quanti amministrando, sciogliendo le questioni individuali, operando ad ogni ora, esprimono e modificano il paese, furono romani. Il presidente del Consiglio sotto il comitato esecutivo, Muzzarelli;—il ministro di grazia e giustizia, Lazzarini;—quello degli esteri, Rusconi;—i ministri dell'interno, Saffi e Mayr;—delle finanze, Guiccioli e Manzoni;—dei lavori pubblici, Sterbini e Montecchi;—della guerra, Campello e Calandrelli, appartenevano tutti agli Stati romani. La sicurezza pubblica fu successivamente affidata a Mariani, Meucci, Meloni, Galvagni, romani. Un romano, Sturbinetti, tenne la pubblica istruzione; un romano, la direzione del debito pubblico;—quella dei lavori statistici,—la presidenza della Corte suprema,—il segretariato del governo,—la direzione degli ospedali,—la zecca. A una commissione composta di sette membri, Sturbinetti, Piacentini, Salvati, Meucci, Allocatelli, Spada, Castellani, romani tutti, fu commessa la sovraintendenza sulle domande d'impieghi. Non un preside, non un solo impiegato in provincia, che non fosse suddito nato dello Stato. In tutta la serie degli impiegati superiori, io non trovo dal primo all'ultimo giorno della repubblica che due soli stranieri, Avezzana, ministro di guerra, e Brambilla, membro della commissione di finanze; e romani erano i due colleghi di quest'ultimo, Costabili e Valentini.
E l'esercito?
Il piccolo esercito repubblicano, concentrato ai tempi dell'assedio in Roma contava: il primo reggimento di linea, colonnello de Pasqualis:—il secondo, colonnello Caucci-Molara;—il terzo, colonnello Marchetti, romani tutti ufficiali e soldati;—due reggimenti leggieri, il primo comandato da Masi, lo stesso che il signor de Corcelles, nel suo dispaccio del 12 giugno, tenta far credere forestiero; il secondo condotto da Pasi; ed ambi romani.—la legione romana—i bersaglieri comandati da Mellara, morto per molte ferite, romani—i pochi reduci romani—il battaglione Bignami, romano—il reggimento dell'Unione, romano—i carabinieri, romani—i dragoni, romani—il Genio, romano—l'artiglieria, romana.
E romani erano non solamente i capi nominati finora, ma i due Galletti, Bartolucci, i colonnelli Pinna, Amedei, Berti Pichat, il generale in capo Roselli, i capi dell'intendenza Gaggiotti e Salvati, i principali impiegati nel ministero dell'armi.
Quali dunque erano gli stranieri?
Garibaldi e la sua legione: 800 uomini.
Arcioni e la sua legione degli emigrati: 300 uomini.
Manara—morto per la libertà—e i suoi bersaglieri lombardi, 500 uomini.
I Polacchi: 200.
La legione straniera: 100 uomini.
Il pugno di prodi che, duce Medici, difese il Vascello.
Otto, forse, uffiziali di stato maggiore.
Duemila uomini al più; no, la cifra fu minore d'assai: il corpo d'Arcioni racchiudeva un terzo almeno di elementi esciti dalla provincia romana:—il nucleo di cavalleria appartenente alla legione Garibaldi [90] e comandato dal bolognese Masina, morto sul campo, si componeva pressochè tutto d'indigeni: l'infanteria Garibaldi spettava per metà quasi al paese.
Da 1400 a 1500 uomini; a questo si limita la cifra degli stranieri accorsi alla difesa di Roma: da 1400 a 1500 uomini sopra un insieme di 14 000; perchè—giova che l'Italia lo sappia—soli 14 000 uomini, giovine esercito senza esperienza, senza tradizione, sorto per così dire di mezzo alla pugna, tennero fronte per due mesi a 30 000 soldati di Francia.
Tutto ciò v'era noto; poteva almeno, dunque doveva esservi noto, o signori; e nondimeno voi gittaste sfrontatamente all'Assemblea la cifra di 20 000 stranieri siccome prova che quello da voi soffocato per poco nel sangue non era il pensiero di Roma; e su quella parola, su quella cifra inventata, s'aggomitola metà della vostra argomentazione! Stranieri! Io chiedo perdono alla mia patria d'avere, insistendo sull'orme vostre, innestato in queste pagine l'esosa parola. Come? Stranieri in Roma i Lombardi, i Toscani, i nati d'Italia! E l'accusa move da voi, da voi Francesi, da voi che a risollevare il vecchio trono papale, v'appoggiate sulle bajonette austriache e spagnuole!
La gioventù di tutte le nostre provincie mandava, un anno addietro, i suoi migliori, come a convegno d'onore, sui campi lombardi; ma io non ricordo che Radetzky li chiamasse mai, nei suoi proclami, stranieri. La negazione assoluta della nazionalità italiana era serbata al governo del nipote dell'uomo che proferiva a Sant'Elena quelle parole: per unità di letteratura, di costumi, di lingua, l'Italia è destinata a formare una sola nazione.
L'accusa di violenza, di terrore eretto in sistema, gittata contro il governo repubblicano, è accusa oggimai smentita solennemente dai fatti della difesa. Non si comanda col terrore l'entusiasmo a tutto un popolo armato[99]; e voi siete, signori, nel bivio di calunniare il valore dell'armi francesi o di confutarvi da per voi stessi—di dichiarare che pochi faziosi, costretti a comprimere una popolazione di 160 000 anime, valsero per due mesi a combattere, a vincer sovente l'esercito vostro, o di confessare, a salvarvi dalla taccia d'imbecillità e codardia, che governo, popolo, guardia nazionale ed esercito, erano in Roma affratellati in un solo pensiero di libertà e di guerra ai nemici della repubblica. Pur giova parlarne, tanto almeno che voi non possiate ripetere la stolta accusa senza ch'altri possa dirvi: la vostra menzogna è premeditata.
Lasciate da banda l'assassinio tante volte ipocritamente citato di Rossi. La repubblica decretata il 9 febbrajo 1849 non deve scolparsi d'un fatto accaduto il 16 novembre 1848, quando la parte principesca, la parte dei moderati settatori di Carlo Alberto, teneva il campo e cacciava o condannava ad assoluto silenzio gli uomini di fede repubblicana; nè alcuno in Italia accusa le vostre rivoluzioni di procedere dall'assassinio perchè il duca di Berry cadea di pugnale e cinque o sei tentativi di regicidio si succedevano nel volger di due anni in [91] Parigi. Attenetevi ai fatti generali che contrassegnano in ogni tempo e in ogni luogo i sistemi che s'appoggiano sulla violenza. Potete, signori, citare, pei cinque mesi a un dipresso di governo repubblicano, una sola condanna a morte per cagione politica? un solo esilio intimato per sospetto politico? un solo tribunale eccezionale instituito in Roma per giudicare colpe politiche? un solo giornale sospeso per ordine governativo? un solo decreto diretto a vincolare la libertà della stampa anteriore all'assedio? Citate. Citate le leggi ordinatrici del terrore: citate i bandi feroci; citate le vittime—o rassegnatevi al marchio dei mentitori.
«La bandiera repubblicana inalzata in Roma dai deputati del popolo»—noi dicevamo in una delle nostre dichiarazioni—«non rappresenta il trionfo d'una frazione di cittadini sopra un'altra: rappresenta un trionfo comune, una vittoria riportata da molti, consentita dalla immensa maggiorità del principio del bene su quello del male, del diritto comune sull'arbitrio dei pochi, della santa eguaglianza che Dio decretava a tutte l'anime sul privilegio e sul dispotismo. Noi non possiamo essere repubblicani senza essere e dimostrarci migliori dei poteri rovesciati... Noi non siamo governo d'un partito, ma governo della nazione... Nè intolleranza, nè debolezza. La repubblica è conciliatrice ed energica. Il governo della repubblica è forte; quindi non teme.» In queste linee stava il programma repubblicano; nè fu mai violato, siccome i vostri, o ministri di Francia, dagli uomini che amministrarono tra noi la repubblica.
Ed eravamo forti: forti dell'amore dei buoni—e i tristi fra noi son pochissimi—forti del consenso dei cittadini ben altrimenti che voi non siete, signori. Noi non avevamo per mantenerci bisogno di porre lo stato d'assedio alla capitale: di sciogliere guardie nazionali; di riempir le prigioni; di cacciarvi, misti agli altri, i rappresentanti del popolo; di condannare a deportazione centinaja d'uomini di lavoro; di ricingerci, a comprimer gli altri, di cannoni e soldati. La nostra capitale era lieta, festosa sotto il peso dei sacrifici che ogni mutamento di stato impone, tranquilla, serena, quando la presenza del vostro esercito sotto le mura provocava alle audacie i malcontenti, se malcontenti fossero mai stati in Roma. La nostra guardia nazionale dava oltre a 7000 uomini al servizio attivo per entro la città e sulle mura. Le nostre prigioni erano pressochè vuote d'accusati politici: due o tre individui fondatamente sospetti di contatto col vostro campo: due o tre cardinali côlti in delitto flagrante di cospirazione, e un ufficiale, Zamboni, reo di diserzione, stavano soli sotto processo quando il signor de Corcelles si recò a visitar le prigioni; i cinque o sei detenuti, Freddi, Alai, e siffatti, da lui trovati in Castel Sant'Angiolo, v'erano per ordine di Pio IX e per trame contro il suo governo. Gli uomini più avversi alla repubblica, un Mamiani, un Pantaleoni, passeggiavano liberi le vie di Roma: al popolo, che ne sospettava, noi ricordavamo che la repubblica, migliore del principato, teneva inviolabili le opinioni quando non si traducevano in fatti pericolosi; e il popolo, generoso per indole e per coscienza di forza, intendeva e rispettava; nè cominciarono per taluno fra quegli uomini i pericoli se non quando noi non potevamo più interporre la nostra parola e lo spettacolo della vostra forza brutale irritava a riazione la moltitudine. Parecchî fra i nostri cannoni rimasero sovente, per impossibilità di custodia a tutto quanto il cerchio della città, accessibili a ogni uomo senza un solo soldato che li guardasse. E fu tal giorno—il 16 maggio quando le nostre truppe mossero alla volta di Velletri contro l'esercito del re di Napoli—in cui dalle cinque fino alla mezzanotte la [92] città rimase sprovveduta d'ogni milizia e affidata al popolo unicamente. La truppe francesi erano a poca distanza dalle nostre mura. Noi facemmo ritrarre dalle porte del palazzo le poche guardie, richieste altrove. L'amore del popolo ci custodiva. E nè allora nè mai—tra i disagi d'una crisi finanziaria inevitabile, in mezzo a privazioni materiali inseparabili dal semi-blocco che le vostre forze ci stendevano intorno, sotto le vostre bombe come sotto l'influenza di corruttela che i vostri agenti e quei di Gaeta s'affaccendavano a esercitare—non un tentativo d'insurrezione fu operato da quei che il signor Drouyn de Lhuys chiama sfrontatamente gli onesti, non una voce di popolano sorse a dirci: scendete. Fazione! Terrore! Ah! se l'anima vostra, ministri di Francia, serbasse un'ombra pur di pudore, voi, guardandovi attorno o pensando alle paure e alle violenze tra le quali vi reggete in Parigi, avreste fuggito studiosamente quelle parole per temenza ch'altri vi leggesse la vostra condanna.
E se l'Assemblea davanti alla quale parlaste non fosse irreparabilmente guasta e inaccessibile ad ogni amore di verità—se invece di trascinarsi servilmente sull'orme del potere qual ch'ei si sia, i membri che sostengono col voto la vostra politica esterna, avessero, e sia pure avverso al nostro, un sistema nella mente, un concetto di credenza nel core—cento voci si sarebbero levate a tumulto in udirvi e v'avrebbero gridato: «Tacete. Non disonorate le nostre tendenze coll'aperta menzogna. Che! il vostro primo decreto in Roma instituisce pei fatti politici tribunali militari, scioglie circoli, governo, assemblea—il 5 luglio vietate ogni anche pacifico assembramento, intimate castighi esemplari, a proteggere le persone aventi relazioni amichevoli colle vostre truppe—il 6, sciogliete la guardia civica—il 7, ordinate il disarmamento totale dei cittadini—il 14, sopprimete tutti i giornali—il 18, fulminate minaccie contro ogni radunanza d'oltre a cinque persone;—tutti i vostri atti in mezzo a una popolazione che ci affermate favorevole a voi, e che ci vengono officialmente nel vostro giornale, son quelli appunto che noi, sulla vostra parola, credevamo ordinatori di terrore in Roma sotto il governo repubblicano e dei quali or non troviamo vestigio nella collezione de' suoi decreti; e voi persistete imprudentemente a gittargli contro un'accusa che ricade su voi, e a vantarvi restauratori della libertà nella pace e nell'ordine!»
E quei fatti durano tuttavia; durano dopo due mesi dal vostro trionfo. E le prigioni sono piene zeppe di uomini, i più, rei non d'altro che d'avere obbedito a chi reggeva, segnati dal dito d'alcune spie alle vendette sacerdotali. Oltre a cinquanta preti stanno in Castel Sant'Angiolo, colpevoli d'avere prestato i loro servigi alle ambulanze repubblicane. In Roma, condanne feroci, condanne di lavori forzosi a vita, feriscono vilmente ufficiali subalterni di pubblica sicurezza[100]. In Terni, in Bologna, in Ancona, in Rimini, si fucilano giovani, perchè detentori di un'arme. Non è forse oggi, nello stato romano, una famiglia su cinque che non conti uno dei suoi membri fuggiasco o prigione. Gli uomini della parte che intitolavasi moderata, gli uomini ai quali voi affermate d'esservi diretti ponendo piede in Roma, sono, per opera vostra, in esilio. Esuli sono Mamiani, Galeotti, il padre Ventura. Il vostro è lavoro di distruzione: lavoro eguale a quello che la monarchia compiva in Ispagna nel 1823. Aveste almeno il coraggio brutale della monarchia! Ma, mandatarî infedeli d'una idea che non è la vostra, [93] avversi nel segreto alla bandiera nel nome della quale pubblicamente giurate, cospiratori anzichè ministri, voi siete condannati a ravvolgervi ipocritamente, premeditatamente, nella menzogna.
Menzogna nelle asserzioni fondamentali; menzogna nei particolari; menzogna in voi, menzogna nei vostri agenti; menzogna, arrossisco in dirlo per la Francia che avete cacciata sì in fondo, negli ultimi a smarrire la tradizione dell'onore, nei capi del vostro esercito. Avete vinto colla menzogna, e tentate giustificarvi colla menzogna. Mentiva il generale Oudinot, quando egli, per illudere le popolazioni e spianarsi, trafficando sul nostro amore per la Francia, la via di Roma, serbava fino al 15 luglio intrecciate in Civitavecchia la bandiera francese e la nostra bandiera tricolore ch'ei sapeva di dover rovesciare. Mentiva impudentemente affermando in un suo proclama che la maggior parte dell'esercito romano s'era affratellato col francese, quando tutto lo stato maggiore diede, protestando, la sua dimissione, quando soli 800 uomini—oggi anch'essi disciolti—accettarono le condizioni di servizio proposte. Mentiva vilmente quando, dopo avere solennemente promesso in iscritto di non assalire la città prima del lunedì[101] 4 giugno, assalì nella notte dal sabato alla domenica. Mentiva a noi, trascinato da una debolezza colpevole, pur temperata dalla speranza di porre rimedio al male, l'inviato Lesseps, quand'egli ci rassicurava con promesse continue d'accordo e ci scongiurava a non attribuire importanza alle mosse francesi dettate, com'ei diceva, unicamente dal bisogno di porgere sfogo alla insofferenza di riposo nella soldatesca—e intanto, i vostri si prevalevano bassamente della nostra buona fede a studiare non molestati il terreno, a collocarsi, a fortificarsi, a occupare improvvisamente, pendente un armistizio, il punto strategico di Monte Mario. Mentiva il signor de Corcelles quando, contro la dichiarazione del municipio romano, quella dei consoli esteri e la testimonianza di tutta una città, affermava che Roma non era stata bombardata mai: le bombe piovvero, per molte notti e segnatamente dal 23 al 24 e dal 29 al 30, frequentissime e dannosissime, sul Corso, a piazza di Spagna, al Babbuino, sul palazzo Colonna, sullo spedale di Santo Spirito, su quello dei Pellegrini, per ogni dove. Mentite voi, signor Tocqueville, quando, fidando nell'ignoranza della vostra maggiorità, millantaste fatto unico nella storia la scelta del punto verso porta San Pancrazio per assalire la città quasi a maggior salvezza della popolazione e delle abitazioni. Roma, che presenta a porta San Paolo e a porta San Giovanni un'aperta campagna, vede appunto a porta San Pancrazio accumularsi popolo e case; porta San Pancrazio fu scelta perchè si mantenessero con rischio minore le comunicazioni con Civitavecchia, e perchè, mentre dagli altri punti era forza scendere a una temuta battaglia di popolo e di barricate, da quella di San Pancrazio il Gianicolo, signoreggiando Roma, offriva il destro di vincerla con guerra, non d'uomini, ma di bombe e cannoni. Mentiste tutti, o signori, da colui ch'è primo tra voi sino all'ultimo de' vostri agenti, a noi, all'Assemblea, alla Francia e all'Europa, quando deste [94] ripetutamente, dal primo giorno della nefanda impresa sino a jeri, promesse di protezione, di fratellanza, di libertà che avevate fermo in animo di tradire.
Stretti in concerto con Gaeta, colla Spagna e coll'Austriaco, deliberati di rovesciare ogni segno di libertà repubblicana in Roma, e dopo avere lungamente cospirato tanto da illudervi a credere che la riazione retrograda avrebbe tra noi secondato le vostre mire, voi mendicaste i sussidî all'Assemblea, ingannandola—e risulta irrepugnabilmente dalle discussioni posteriori—sull'intento della spedizione. E ingannaste la commissione incaricata d'interrogarvi, i soldati ai quali persuadeste in Tolone che li guidavate a battersi contro gli Austriaci; gli abitanti di Civitavecchia fra i quali scendeste, come ladro mascherato, con due proclami, uno dei quali distruggeva l'altro; poi, quando la giornata del 30 commosse gli animi a sdegno, di bel nuovo l'Assemblea, mandando Lesseps a eseguire il decreto del 7 e scrivendo lo stesso giorno al generale Oudinot che tenesse fermo e avrebbe rinforzi; poi il vostro inviato medesimo, dandogli istruzioni che lo autorizzavano a fare secondo il concetto dell'Assemblea e ingiungendogli nondimeno di mantenersi in accordo con Rayneval che aveva istruzioni direttamente contrarie; poi noi; poi tutti—oggi forse ingannate il Papa, al quale prometteste ridare, senza condizioni, l'autorità e che ora, non sapendo come farvi perdonare dalla Francia d'averla disonorata, vorreste ridurre a proconsole costituzionale dipendente dalla vostra politica. Pur nondimeno non avete saputo architettare così bene le vostre menzogne che non esca dalle vostre stesse parole diritto perenne in noi di rivolta e condanna assoluta di nullità per quanto avete operato, per quanto opererete, senza consultar legalmente la volontà del popolo da voi manomesso.
Il preambolo della vostra Costituzione, nell'art. 5, vi grida: La Francia rispetta le nazionalità straniere.... Essa non impiega mai le sue forze contro la libertà d'alcun popolo. E strozzati da quell'articolo che vorreste, ma non osate ancor lacerare, mancanti a un tempo di coscienza della virtù e dell'energia della colpa, avete balbettato parole che l'Europa ha raccolto e ch'oggi sono tortura all'anima vostra.
Odillon Barrot, l'uomo che aveva, il 31 gennajo 1848, affermato il diritto assoluto d'ogni Stato italiano alla libertà e all'indipendenza[102]—dichiarava alla commissione dell'assemblea che il pensiero del governo non era di far concorrere la Francia alla distruzione della repubblica in Roma... e ch'esso opererebbe libero d'ogni solidarietà con altre potenze. E quando il relatore della commissione riferiva il 16 aprile all'Assemblea queste dichiarazioni, il presidente del Consiglio diceva: Io non rinnego una sola delle parole da me pronunziate davanti alla commissione e riferite a quest'Assemblea. E insisteva: Noi non andremo in Italia per imporre un governo, nè quello della repubblica, nè altro... Noi non vogliamo usare delle forze della Francia per difendere in Roma una o altra forma di governo: no! L'intento nostro è quello d'essere presenti agli eventi che possono compiersi nel doppio interesse della nostra influenza e della libertà che può correre rischio.
La dichiarazione del corpo d'occupazione francese al preside di Civitavecchia, in data del 24 aprile, affermava che il governo francese rispetterebbe il voto della maggiorità delle popolazioni romane... e non imporrebbe mai ad esse forma alcuna di governo.
Il 26, il generale Oudinot ripeteva che lo scopo dei Francesi non era quello d'esercitare una influenza opprimente nè d'imporre ai Romani un governo contrario al loro voto.
Il 7 maggio, il presidente del Consiglio dichiarava all'Assemblea che quei proclami, lavoro del ministro degli esteri, racchiudevano tutto quanto il concetto della spedizione.
Noi non dovevamo marciar su Roma—diceva il relatore della commissione—che per proteggerla contro un intervento straniero e contro gli eccessi d'una controrivoluzione.... come protettori—e citava l'espressione usata dal presidente del Consiglio in seno alla commissione—o com'arbitri richiesti.
L'Assemblea non voleva—ripeteva lo stesso giorno Odillon Barrot—che sotto la pressione diretta dell'Austria l'influenza contro-rivoluzionaria conquistasse Roma.
E il ministro degli esteri confermava: lo scopo della spedizione—ei diceva—era quello d'assicurare alle popolazioni romane le condizioni d'un buon governo, d'una buona libertà, condizioni che sarebbero state compromesse dalla riazione o dall'intervento straniero. E negava che si fosse dato ordine al generale Oudinot d'assalire la repubblica romana; negava che il generale avesse intimato al governo romano d'abbandonare il potere.
Allora interveniva il voto solenne dell'Assemblea: l'Assemblea nazionale invita il governo a far senza indugio gli atti necessari perchè la spedizione d'Italia non sia più oltre sviata dallo scopo assegnatole.
E d'allora in poi, ministri di Francia, ad ogni istante, attraverso i passi che movevate verso il vostro intento segreto—nelle parole da voi prescritte al vostro inviato, la cui scelta doveva essere all'Assemblea prova delle vostre liberali intenzioni—in tutte le conferenze con noi tenute dai vostri agenti—nei progetti d'accordo[103] architettati fra il signor Lesseps o il generale Oudinot, il 16 e il 18 maggio—nel linguaggio del signor de Corcelles: La Francia non ha che uno scopo; la libertà del pontefice, la libertà degli Stati romani e la pace del mondo (lettera del 13 giugno)—sempre il vostro governo, esplicitamente o implicitamente, accennò, come a sorgente d'ogni diritto, alla volontà delle nostre popolazioni e promise il libero voto.
A voi solo, signor Falloux, spetta il tristissimo onore d'aver primo, [96] nel vostro discorso del 7 agosto, dichiarato all'Europa che la Francia avea fino a quel giorno mentito. La vittima era allora stesa a terra e col pugnale alla gola.
Pur le vostre tarde dichiarazioni del vero intento della spedizione, non cancellano, signori, le ripetute promesse del vostro governo. Il popolo di Roma ha diritto di gridarvi: Attenetelo! E noi che vi conosciamo d'antico, noi consapevoli dei vostri disegni e della necessità che si chiariscano interi perchè i buoni tuttora illusi v'abbandonino e cerchino salute altrove, abbiamo debito di gridarvi e vi grideremo, checchè facciate, ogni giorno: «Attenetele! quale pretesto può rimanervi a non attenerle? Roma è libera in oggi d'ogni straniero, d'ogni fazioso. Gli uni son morti sotto le palle delle vostre carabine di Vincennes, sul campo: gli altri errano nell'esilio. Gli onesti sono riconfortati, riordinati: essi sanno che tutti i gabinetti, anche il gabinetto repubblicano di Francia, sono pronti a operare in loro difesa, e il popolo sa quanti pericoli importi nell'avvenire l'espressione del suo intimo voto. Osate or dunque, rifate la prova. Date al popolo il suo libero voto. Ritraetevi: fate che l'armi dei vostri alleati, compita in provincia la missione assegnatavi nella capitale, si ritraggano anch'esse; e chiamate per mezzo d'un governo provvisorio, i cittadini a dichiarare l'animo intorno al potere temporale del papa e alle instituzioni che devono reggere la nazione. Noi lontani, profughi per opera vostra, accettiamo l'esperimento. Accettatelo voi pure—o, anche una volta, rassegnatevi al marchio dei mentitori.»
Voi nol farete; non potete farlo: voi sapete che dall'esperimento escirebbe oggi ancora la vostra condanna, e la rovina de' vostri disegni. Tendenti a rovesciare la repubblica in Francia e vogliosi d'educare i vostri soldati a far fuoco sulla sua bandiera, voi non potete sottomettervi al rischio di vederla, per voto di popolo, rialzata fra noi. Deboli sino alla viltà nella vostra diplomazia e nondimeno trafitti di vergogna per la parte che recitate in Europa e inquieti sull'opinione dei vostri concittadini, voi credeste conciliare paura, intento e apparenza di forza, cacciandovi, a far prova di azione, sopra una piccola nascente repubblica, ed oggi v'illudete a credere che alcuni ordini del giorno datati da Roma accarezzino l'orgoglio e le tendenze guerresche del vostro popolo. Il vostro presidente abbisogna dei voti della parte cattolica; e voi tutti avete, pei vostri concetti, bisogno che il principio dall'autorità per arbitrio di privilegio possa, quando che sia, richiamarsi all'esempio d'una instituzione religiosa. Però rimarrete. Rimarrete quanto potrete, sapendo che la forza straniera può sola impedire una seconda rivoluzione. Rimarrete esosi agli uni ed agli altri, trascinandovi di raggiro in raggiro, di protocollo in protocollo, impotenti a reprimere la riazione pretesca da un lato o il malcontento popolare dall'altro, peggiorando, non modificando la situazione, intricando più sempre la questione diplomatica, lasciando nei termini ove si sta la politica e suscitando la religiosa. L'Europa saprà che voi siete non solamente tristi ma inetti, e che avete trascinato il bel nome di Francia e l'onore dell'armi vostre nel fango per fallire a un tempo al vostro programma pubblico ed al segreto, per procacciarvi le maledizioni dei popoli senza ottenere riconciliazione e fiducia dai loro oppressori.
Perchè il nome e l'onore di Francia sono nel fango; non solamente per l'iniquo fatto, ma pel modo del fatto; non solamente per la violazione sfacciata del programma di non intervento e d'indipendenza internazionale scritto sulla bandiera della nazione e ripetuto da tutti i ministri del suo governo—non solamente per la codarda oppressione esercitata dall'armi francesi unite colle napoletane, colle austriache, colle spagnuole, a danno d'uno Stato, pressochè inerme, di popolazione grandemente inferiore al più piccolo dei quattro Stati invadenti—non solamente per tutte le promesse di libertà, di pace, d'ordine, ad una ad una tradite—ma pei menomi particolari dell'impresa. Io non so d'alcun periodo nella storia moderna, tranne forse quello dello smembramento della Polonia, nel quale in così breve tempo si siano accumulate tante turpezze sul nome d'una nazione che mormora la parola di libertà. Come se la coscienza della colpa facesse smarrire a chi la commette ogni senso di dignità e la corruttela dei promotori si trasfondesse fatalmente negli inferiori, l'immoralità ha contrassegnato quasi ogni atto dal primo giorno dell'occupazione fino al giorno in cui scrivo. E mentre un ministro scendeva sì basso da inserire nella copia[104] delle istruzioni date al signor Lesseps, comunicata recentemente al consiglio di Stato, un'espressione che ne muta il senso, io vedeva e ordinava s'imprigionassero due uffiziali venuti in qualità di parlamentari e i quali, abusando della nostra generosa fiducia, staccavano i piani dei nostri lavori nella città; mentre il generale Oudinot disarmava e costituiva prigionieri in Civitavecchia, senza che alcuna ostilità avesse avuto luogo e quando le due bandiere stavano congiunte per opera dei Francesi sull'albero della libertà, i cacciatori Mellara, un uffiziale superiore francese s'avviliva più tardi a strappare colle proprie mani, nella chiesa e in mezzo alle esequie, la coccarda italiana di sul petto al cadavere del loro colonnello. Ah! noi potremmo perdonarvi, ministri di Francia, il male incalcolabile che non provocati ci avete fatto, i nostri dolori, i nostri fratelli caduti o dispersi, l'indugio stesso recato alla nostra futura emancipazione: ma una cosa non potremo mai perdonarvi: l'avere per lunghi anni disonorato il nome della nazione, alla quale tutti noi guardavamo come alla nazione emancipatrice: l'avere colla menzogna, col materialismo delle promozioni e coll'esempio dei capi corrotto i soldati di Francia a farsi carnefici dei loro fratelli in nome del papa ch'essi disprezzano e a fianco dell'Austria che aborrono; l'avere ridotto per essi a simbolo senza significato, a idolo materiale da seguirsi ciecamente dovunque conduca, una bandiera che porta i segni d'un'idea, d'una fede; l'aver seminato l'odio lento e difficile a spegnersi tra due popoli che ogni cosa spingeva ad amarsi, tra i figli di padri ch'ebbero insieme su tutti i campi d'Europa il sacramento della gloria e dei patimenti; l'aver dato una mentita brutale al santo presentimento della fratellanza dei popoli e dato ai nemici del progresso e dell'umanità la gioja feroce di veder la Francia, scesa alla parte di sgherro esecutore dei loro concetti, ferire la nazionalità italiana di fronte e l'Ungheria a tergo per beneplacito dell'Austria e dello Tsar.
Uomini senza core e senza credenza, ultimi allievi d'una scuola che incominciando dal predicare l'atea dottrina dell'arte per l'arte ha conchiuso nella formula del potere pel potere, voi avete da molto smarrito ogni intelletto di storia, ogni presentimento dell'avvenire. La vostra mente è immiserita dall'egoismo e dal terrore d'un moto europeo che nessuna potenza umana può arrestare, che consentito e diretto potea svolgersi pacificamente e che la vostra colpevole resistenza muterà forse pur troppo in elemento di guerra tremenda. Voi eravate oggimai incapaci d'intender coll'anima la grandezza del risorgimento italiano albeggiante da Roma, dalla Roma del Popolo. Ma quali erano le vostre speranze quando decretaste la guerra fraterna? Spegnere, ferendola al core, la rivoluzione nazionale? E non dovevate avvedervi che ogni resistenza opposta all'armi vostre da Roma, e il solo fatto del vostro movervi a lega con tre governi per comprimerne i moti, avrebbero dato consecrazione incancellabile al dogma della nostra unità e fatto religione di quella parola Roma a tutta quanta l'Italia? Rifare un trono al papa? Al papa colle bajonette? Al papa un trono costituzionale? Ogni trono può rifarsi per un tempo colle bajonette, non quello del capo dei credenti. E la più semplice logica v'insegnava che il papa non può essere se non monarca assoluto. Due mesi dal giorno in cui scrivo v'insegneranno che avete, in tutti i sensi, fallito all'intento.
Voi volevate, lo dite almeno, impedire che rinascessero negli Stati romani gli antichi abusi; e gli antichi abusi rinasceranno inevitabili l'un dopo l'altro, tanto più fieri quanto più cancellati per cinque mesi dal governo repubblicano e minacciati nell'avvenire. Voi non potete mutare le abitudini, le tendenze, i bisogni all'aristocrazia del clero; non potete cancellare l'aborrimento che il popolo nutre per essa; e non potete appoggiarvi sopra una parte moderata, intermedia, che in Roma non esiste. Potrete dettare provvedimenti; ma l'inesecuzione delle leggi fu sempre, è, e sarà la piaga mortale negli Stati romani. E questa inesecuzione, dipendente dalla natura degli elementi che costituiscono il potere escludente la severa responsabilità, crescerà di tanto quanto più per opera vostra all'agitazione legale e pubblica si sostituirà di bel nuovo la guerra extra-legale delle associazioni segrete, e Dio nol voglia—alla condanna delle leggi il pugnale del popolano irritato e disperato di giusta difesa. La miseria, la fatale rovina delle finanze e l'anarchia, inseparabile dal disprezzo in che si tengono i reggitori, aspreggieranno la contesa fra i diversi elementi che compongon lo Stato. Intanto avete il vecchio governo ripristinato senza condizioni; le commissioni per ispiare, retroagendo, i fatti politici; e gli uomini, non di Pio IX, ma di papa Gregorio, padroni in Roma e nella provincia.
Voi volevate mantenere, accrescere l'influenza francese in Italia; e l'avete perduta: perduta coi popoli, ai quali avete iniquamente e ingratamente rapito libertà e indipendenza: perduta cogli oppressori dei popoli per ciò appunto che li avete liberati, scendendo ad allearvi con essi, dai timori che inspiravate: perduta coi satelliti del papato, perchè la condizione vostra in faccia alla Francia vi costringe a nojarli con suggerimenti di concessioni, ch'essi non ammettono nè possono ammettere senza scavarsi, rinnegando il principio che li sostiene, la sepoltura. L'influenza vostra in Italia consisteva nelle speranze che i popoli s'ostinavano a nudrire sul conto vostro e nella spada di Damocle [99] che tenevate sospesa sul capo dei principi. Or siete sprezzati dagli uni, e aborriti come ingannatori perpetui dagli altri. Il nome francese è segno di scherno da un punto all'altro d'Italia e lo sarà finchè fatti decisivi, innegabili, non dicano al mondo che la Francia è ridesta alla coscienza della propria missione.
Voi volevate da ultimo riedificare trono e ridar lustro al papato: e io vi dirò a che riescite. Voi avete suscitato la questione religiosa e dato l'ultimo colpo a una instituzione cadente. Voi avete voluto salvare il re e avete ucciso il papa, struggendone il prestigio morale coll'ajuto dell'armi, avvilendolo davanti all'Italia, sola arbitra vera della questione religiosa, coll'appoggio straniero, e cacciando fra lui e le moltitudini un torrente di sangue. Il papato affoga in quel sangue. Unico modo a salvarlo per un tempo ancora, unico modo per sottrarlo alla pressione straniera che gli è rovina, era quello di strapparlo dalla sfera delle influenze politiche alla più pura e indipendente dell'anime. Voi avete or chiusa per sempre quell'ultima via di salute. Il papato è spento; Roma e l'Italia non perdoneranno mai al papa l'avere, come nel medio evo, invocato le bajonette straniere a trafiggere petti italiani.
Voi cominciate, signori, a intendere queste cose in oggi. Il vostro gabinetto cela segreti di sconforto, d'illusioni sfumate, di politica oscillante fra Parigi e Gaeta, che un prossimo avvenire rivelerà. Voi sentite le vendette di Roma.
La repubblica romana è caduta; ma il suo diritto vive immortale, fantasma che sorgerà sovente a turbarvi i sogni. E sarà nostra cura evocarlo. La questione politica è intatta. L'Assemblea costituente romana, dichiarando ch'essa intendeva cedere unicamente alla forza, senza accordi e transazioni colpevoli, vi rapiva ogni base d'azione legale. Noi non abbiamo capitolato. Il diritto di Roma esiste potente come al giorno in cui fu decretata la forma repubblicana. La disfatta non ha potuto mutarlo. Il voto delle popolazioni legalmente e liberamente espresso rimane condizione di vita normale, alla quale nessuno può omai più sottrarsi.
Voi non osaste negare quel diritto, mendicaste solamente pretesti ad attenuarne o renderne dubbia l'espressione nel passato. E la disfatta di quella che voi chiamate, imposturando, fazione, rimovendo, anche nell'opinione di quei che vi prestano fede, ogni ostacolo alla libertà delle popolazioni, ha reso il diritto del voto più sacro e più urgente.
Per noi, per quelli che con noi sentono, il diritto di Roma ha ben altre radici e ben altre speranze che non le locali. Le radici del diritto di Roma abbracciano nelle loro diramazioni tutta quanta l'Italia: le speranze di Roma sono le speranze della nazione italiana, che nè il vostro nè l'altrui divieto può far sì che non sorga.
Dio decretava quel sorgere dal giorno in cui, superate ad una ad una tutte le delusioni monarchiche, espiati col martirio gli errori di leghe e federazioni che una bastarda dottrina cercava impiantare fra noi, l'istinto italiano inalzò sull'antico Campidoglio la bandiera unificatrice, e dichiarò che Dio e il Popolo sarebbero soli padroni in Italia!
Roma è il centro, il core d'Italia, il palladio della missione italiana.
E la città che cova forse tra le sue mura il segreto della vita religiosa avvenire, può sostenere pazientemente il breve indugio che l'armi vostre hanno inaspettatamente frapposto allo svolgersi de' suoi fati.
Voi siete ministri di Francia, signori: io non sono che un esule. Voi avete potenza, oro, eserciti e moltitudini d'uomini pendenti dal vostro cenno; io non ho conforti se non in pochi affetti, e in quest'alito d'aura che mi parla di patria dall'Alpi e che voi forse, inesorabili nella persecuzione come chi teme, v'adoprerete a rapirmi. Pur non vorrei mutar la mia sorte con voi. Io porto con me nell'esilio la calma serena d'una pura coscienza. Posso levare tranquillo il mio occhio sull'altrui volto senza temenza d'incontrar chi mi dica Tu hai deliberatamente mentito. Ho combattuto e combatterò senza posa e senza paura dovunque io mi sia, i tristi oppressori della mia patria: la menzogna, qualunque sembianza essa vesta; e i poteri che, come il vostro, s'appoggiano a mantenere o ricreare il regno del privilegio, sulla corruttela, sulla forza cieca e sulla negazione del progresso nei popoli: ma ho combattuto con armi leali; nè mai mi sono trascinato nel fango della calunnia, o avvilito ad avventare la parola assassino contro chi m'era ignoto ed era forse migliore di me.
Dio salvi a voi, signori, il morir nell'esilio; perchè voi non avreste a confortarvi coscienza siffatta.
Settembre 1849.
La questione di Roma è stata nuovamente oggetto di lunga discussione nell'Assemblea francese. Per tre sedute, la parte ch'oggi tiene il potere ha esaurito quanto ha d'ingegno, di sofismi e d'ipocrisia per giustificare la nefanda impresa e scolparsi davanti alla Francia e all'Europa. Per tre sedute, gli uomini che stanno al governo o tendono ad occuparlo—i dottrinarî e i legittimisti—hanno tentato, come la moglie di Macbeth, ogni artificio per cancellare dalle loro mani la macchia di sangue, dalla loro fronte la macchia di disonore, che la guerra fratricida v'ha posto; e senza riescirvi. La serva maggiorità lo sentiva, l'irritazione di chi intende il suo torto e trema d'udire la verità fremeva nelle interruzioni e in ogni sillaba che veniva dalla diritta. Ogni tattica di pudore fu dimenticata. S'udirono sdegni contro chi gittava—ed era un illustre poeta—l'anatema alle ferocie di Radetzky e d'Haynau; un lungo remore di biasimo accolse chi, parlando di confisca e d'inquisizione, diceva: è necessario che lo spirito di vita dell'Evangelio penetri e rompa la lettera morta di tutte queste instituzioni diventate barbare; e l'oratore del cattolicismo balbettò parole di scusa agli assassinî, che si consumano dall'Austria nell'Ungheria, chiamandoli rappresaglie. Le menti erano travolte come da un insistente rimorso. Lo spettro di Roma, come quello di Banquo, le funestava. Come Garnier de l'Aube a Robespierre, gli uomini della sinistra avrebbero potuto gridare ai falsi repubblicani: Il sangue di Roma v'affoga.
Noi pubblichiamo tradotta letteralmente dal Monitore l'intera discussione[105] e lo facciamo per due ragioni: perchè gl'Italiani v'imparino come, smarrita la fede in un principio e sostituito alla religione del vero il culto dell'egoismo, si cada in fondo d'ogni sozzura, e perchè i nostri nemici vedano che, diversi da essi, noi non temiamo pubblicità d'avverse dottrine. In Roma, quando reggevano i repubblicani, la stampa era libera: oggi il silenzio assoluto v'è imposto alla parte nostra. Una circolare del ministro Dufaure vieta con minaccie severe l'introduzione in Francia dell'Italia del Popolo, e i suoi doganieri, aggiungendo il furto al divieto illegale, confiscano copie avviate agli Stati Uniti d'America; noi diciamo ai nostri: Eccovi le argomentazioni degli uomini che v'hanno tolto la libertà; leggete e sia maturo il vostro giudizio.
Non so s'io m'illuda; ma credo che per ciò che riguarda coraggio di verità o schiettezza d'affermazioni, la questione fra noi e gli uomini [102] del governo francese sia, per gli onesti d'Europa, decisa. Noi possiamo peccare d'utopia, d'audacia, d'ogni cosa fuorchè di menzogna o di gesuitismo; e gli uomini che hanno rovesciato la nostra repubblica hanno tanto cumulo di menzogne, chiarite da tali prove documentate, sulla loro coscienza, che nessuno oggimai può esiger da noi nuove confutazioni di vecchie imposture ripetute sfacciatamente dai ministri o dai loro seguaci nell'ultima discussione. Le nostre mani, le mani di quei che ressero la repubblica in Roma, sono pure di colpe e di sangue. La repubblica, proclamata per libero e universale suffragio dai cittadini, riconfermata di mezzo ai pericoli dell'invasione da pressochè tutti i municipî, si mantenne senza terrore di giudizî o di proscrizioni, tollerante e leale al di dentro come prode e leale coi nemici che l'assalirono dal di fuori: le proscrizioni non cominciarono se non col trionfo dell'armi francesi. All'Assemblea francese, al popolo di Roma furono fatte dal governo di Francia, dai suoi inviati, dai capi dell'esercito, solenni promesse; e furono tutte tradite. La condizione di Roma in oggi è pretta tirannide. Son fatti questi innegabilmente provati dalle dichiarazioni del signor Lesseps, dagli atti officiali della repubblica, da mille testimonianze onorevoli italiane e straniere, dalle confessioni strappate di bocca a' nostri stessi nemici—e conquistati d'ora innanzi alla storia.
Io lascio dunque senza commento al giudizio di chi vorrà leggerlo il discorso del signor Thuriot de la Rosière, e la lunga serie d'affermazioni sfrontate colle quali intende a provare che in Roma, clero, capitalisti, proprietarî di mobili ed immobili, artisti, stranieri, diplomatici, guardia civica, truppe di linea, tutti insomma erano schiavi ed avversi al Triumvirato: chi dunque, dal 30 aprile al 2 luglio, difese Roma? Ei sa di storia contemporanea come d'antica e non merita ch'altri spenda parole a combatterlo. E lascio le menzogne gittate qua e là nel lungo intralciatissimo discorso del signor Odillon Barrot sulla parte adempiuta dai Francesi in Roma—la protettrice clemenza estesa dal governo di Francia ai nemici, anzi, come afferma il signor Thuriot, a me stesso che scrivo—il vanto, a fronte di Cernuschi, d'Achilli, dei preti che diedero le loro cure ai feriti, dell'esule napoletano Caputo, del dottor Ripari e d'altri infiniti, d'avere posto divieto a qualunque imprigionamento—le ampliazioni già ottenute dal ministero all'amnistia pontificia, quando forse due giorni prima ch'ei pronunziasse il discorso erano cacciati dal territorio romano anche i cinque che nell'Assemblea votarono contro il decadimento, anche gli uomini i quali, come il Calderari dei carabinieri, erano nella milizia più invisi al popolo perchè sospetti di congiure retrograde—e siffatte. La lista dei decreti pubblicati via via dal giornale officiale di Roma è risposta che basta a tutte parole possibili sulla parte sostenuta dalla Francia in Roma; alle falsità che riguardano la condizione degli spiriti nello Stato risponde il fatto che, sperperata, imprigionata, esiliata la parte più energica della popolazione, sciolto l'esercito, disarmato il paese, non s'osa interrogare il voto dei cittadini, e son necessarî a impedire l'insurrezione 6000 Spagnuoli, 20 000 Austriaci e 40 000 Francesi.
Dalla discussione tenuta nell'Assemblea emergono irrevocabili parecchî fatti che giova registrare a insegnamento e a conforto:
Che la spedizione francese contro Roma fu ideata ed eseguita coll'intento di restaurare senza limitazione alcuna di diritto la sovranità temporale del papa: è confessione oggi di tutti, da Thiers a Odillon Barrot;
Che l'intento dei negoziati, o meglio—per dichiarazione esplicita del signor O. Barrot a nome de' suoi colleghi e del presidente—delle rispettose timide istanze del governo francese, è quello d'ottenere dal papa concessione d'una consulta che voti l'imposta, consulta nominata dai consigli municipali e risultante dal principio elettivo al terzo grado;
Che la lettera del presidente è nulla, capriccio d'inetto o, come direbbe il signor Barrot, codarda millanteria;
Che, quantunque—sono parole del signor Barrot—la separazione dei due poteri, temporale e spirituale, sia per tutta Europa necessaria alla libertà di coscienza, alla vera e durevole libertà, non può nè deve ammettersi per Roma, e che tre milioni d'uomini italiani sono condannati a starsi eccezione di servitù e negazione di progresso fra le nazioni;
Che il cattolicismo, per bocca del suo oratore, capo della setta in Francia, ritiene irreconciliabile il papato e la libertà, e non può accettare restrizione alcuna di consulta e voto d'imposta all'autorità del governo pretesco;
Che la politica del governo francese non posa oggimai più su principio alcuno desunto dalla morale e non merita quindi più fede da popoli o da governi.
E per questo io dissi a insegnamento e a conforto: a insegnamento perchè nessuno dimentichi, che, qualunque sia il nome scritto in fronte ai decreti di Francia, gli uomini ch'oggi vi reggono, Barrot, Tocqueville, Thiers, Dufaure e i simili ad essi, son gli uomini della monarchia, i predicatori del sistema misto costituzionale:—a conforto, perchè un governo senza principio, senza fede in una morale comune, è condannato a travolgersi rapidamente di crisi in crisi, e cadere.
Senza principio nè fede; ed è tempo, a fronte d'un popolo brutalmente oppresso e d'un altro disonorato, di dirlo senza riguardi. Spettacolo più schifoso di quello offerto in oggi dai falsi repubblicani che maneggiano le cose francesi, non credo possa trovarsi nella storia dell'ultimo mezzo secolo. Uomini che per quindici anni guerreggiarono con tutt'armi contro l'elemento del clero; e che sostennero nei loro libri e nelle loro assemblee come cardine dell'edifizio civile l'emancipazione dalla potestà spirituale; che lavorarono instancabili, quantunque ammantandosi d'ipocrisia, da Luigi XVIII fino al 1830, e più dopo qualunque volta intravvedevano al termine della guerra un portafoglio di ministero, a dissolvere, a cancellare ogni fede nell'altare e nel trono; son oggi collegati coi dispersi superstiti del partito che vinsero per vietare ai popoli di desumere le conseguenze della vittoria. Eredi bastardi di Voltaire e di Volney, ultimo rampollo del materialismo del XVIII secolo, e diseredati d'ogni concetto di dovere e d'avvenire religioso dell'Umanità, sommavano pochi anni addietro la loro dottrina internazionale nella esosa parola: ciascuno per sè; il sangue francese non deve scorrere che per la Francia—la loro dottrina di politica interna nella formula negativa: la legge è atea; oggi federati, pur disprezzandoli in core, cogli ultimi fautori del diritto divino che alla volta loro li sprezzano, inneggiano congiunti al papa e imposturano parole di venerazione al cattolicismo, gli uni col piglio ignaziano di Mefistofele, gli altri con amarezza d'intolleranza domenicana, taluno per nullità d'ingegno servile a tutto ciò ch'è fatto o lo sembra. Cospiratori, per impazienza di potere, com'oggi sappiamo sotto Carlo X, taluni d'essi membri di società segrete repubblicane, [104] pur protestando con calore, in pubblico, riverenza alla carta monarchico-costituzionale, tremanti e adulatori davanti al popolo quando sorge nell'onnipotenza rivoluzionaria, poi feudalmente insolenti quando il leone s'acqueta, cospirano oggi contro l'instituzione repubblicana alla quale tutti—anche il signor Montalembert—giurarono fede. Persecutori, per irritazione di rimorso, dei loro antichi compagni; persecutori, per terrore del vero, di quei che non mutarono mai credenza o linguaggio; essi mutarono tante volte che non è sillaba nei loro discorsi dell'oggi alla quale non potesse trovarsi confutazione in quei d'un anno o di mesi addietro—e cito a pie' di pagina un esempio per saggio[106].
Son questi i nemici di Roma repubblicana. Ah! ben è vero: la libertà, come disse un dei loro, non suscita più nel core degli uomini in Francia quel culto di sagrificio serenamente incontrato, quel santo giovanile entusiasmo puro di sdegni e vendette, nudrito di fiducia e speranza, che fremeva anni sono sotto l'alito dell'amore. Ma chi n'è in colpa? Non i rari fatti consumati dalle insurrezioni su taluno fra gli oppressori, che noi deploriamo, ma che voi, veneratori di Carlotta Corday, non avete diritto d'anatemizzare: a quei fatti noi possiamo contrapporre carnificine regie recenti, e centinaja di vittime scannate ad arbitrio. Non qualche assurdo esclusivo sistema di sovversione violenta, mormorato da qualche individuo e rifiutato universalmente da noi, che si sperderebbe nel soddisfacimento dei veri bisogni del popolo. Se quel culto si contamina talora di meschine passioni—se quell'entusiasmo sembra infiacchirsi nello sconforto—spetta a voi tutti la colpa. Mallevadori delle tristi conseguenze che possono escire da condizioni siffatte son gli uomini, che, da ormai vent'anni, hanno fatto scuola della delusione; son gli uomini che, amati un giorno per apostolato di libere dottrine dai giovani, li hanno freddamente traditi; son gli uomini che avean detto al popolo: la libertà è il diritto d'ogni creatura umana al proprio sviluppo, il mezzo di miglioramento progressivo alle moltitudini, e dicono oggi cogli atti loro: la libertà è l'aristocrazia dell'egoismo potente sostituita a quella del sangue: la libertà è il monopolio e il privilegio dei forti capitali: la libertà è la via schiusa agli uffici e al dominio per un piccolo numero d'ingegni scettici e raggiratori. Non cercate altrove cagioni al dubbio e alle diffidenze.
Saggio della immoralità alla quale io accenno sono i discorsi ministeriali sulla questione romana. Alla parte del diritto nessuno allude. L'inviolabilità della vita d'un popolo, la missione repubblicana scritta nello parole: libertà, eguaglianza, fratellanza della bandiera di Francia, non entrano elementi del problema da sciogliersi. Bisognava davanti al fatto di Roma, argomenta il presidente del Consiglio, rimanersi inerti, ed era disonore—riconoscer sorella la repubblica romana, e correr pericolo di guerra europea—o intervenire a suo danno, e questo scegliemmo. Se noi non facevamo, l'Austria faceva. Così, perchè il ferro dell'assassino minaccia un onesto e voi non avete il coraggio d'interporvi a difenderlo, v'affrettate a vibrar primi il colpo. Rallegratevi, o signori: il pugnale infitto nel core di Roma [105] è vostro: ciò che palpita sotto le pieghe della bandiera tricolore di Francia è una vittima, e voi potete ricevere le felicitazioni di Welden e del re di Napoli: giungeste primi.
E argomentazione siffatta riscote gli applausi della diritta. E quando taluno rammenta i patti e le promesse dell'intervento, il ministro risponde con piglio di Brenno: Guai a chi è vinto! A che parlate di patti e promesse? La guerra li infranse. La guerra! ma non fondaste tutti i vostri discorsi anteriori sull'oppressione esercitata da una mano di faziosi sulle popolazioni romane? non vi diceste liberatori? non si facevano più sacre le vostre promesse quando appunto, cacciati quei pochi, cominciava per voi possibilità di compirle?
La Francia ha fatto in Roma quello che l'Austria avrebbe potuto fare: ha ristabilito il papa nella pienezza del suo potere temporale assoluto; stolta e nulla è dunque la difesa che poggia sui pericoli che noi correvamo dall'Austria. Ma erano pericoli insuperabili?
Ho certezza morale—e non sarebbe difficile accumulare gli indizî—che l'intervento fu concertato a Gaeta fra i quattro governi invasori. Ma or non importa appurarlo. Che avremmo noi fatto se all'Austria, e non alla Francia, fosse stato conferito l'incarico di rovesciare la repubblica romana? Giova, per gl'Italiani, accennarlo.
L'esercito romano sommava dai 14 ai 15 mila combattenti. La divisione lombarda, forte d'8 000 uomini, era pronta all'imbarco alla nostra volta: gli ostacoli veri, come ognun sa, non vennero che dai legni da guerra francesi e dall'impossibilità, dove si fossero superati, di scendere a Civitavecchia. Stava in Marsiglia un nucleo di legione straniera assoldata da noi, forte d'800 volontarî, francesi i più. In Marsiglia erano pure, comperati in Francia da noi, cinque o seimila fucili che il governo francese trattenne. Altri 4000 erano giunti in Civitavecchia, ed erano per Roma 4000 soldati. Altri ajuti s'aspettavano dalla Corsica e dalla Svizzera. In sul finire d'aprile, le forze repubblicane dovevano ascendere a 29 o 30 000 uomini.
Gli Austriaci giunsero sotto le mura d'Ancona con soli 12 000 uomini, e la lunga loro linea d'operazione rimase, per difetto di forze, sprovveduta, indifesa. Disegno premeditato nostro era quello di fare una dimostrazione a Tolentino, quindi movere con rapida marcia e rovesciando ogni ostacolo per la via di Fano, e presentarsi riconcentrati alle spalle del nemico nelle Romagne. Operazione siffatta, consumata da un ventotto mila uomini, doveva infallantemente o cacciare gli Austriaci a fuga precipitosa o distruggere intero quel corpo d'esercito.
O gli Austriaci dunque—e questo è il vero—sentendosi ancora deboli, ritardavano l'invasione, e ci davano campo di trovarci alla metà del maggio largamente provveduti di materiale da guerra, e forti d'un 45 000 uomini:—o invadevano, e la repubblica iniziava la difesa del suo territorio con una prima e certa vittoria. Chi può calcolare le conseguenze morali d'una vittoria sull'armi austriache, cacciata come guanto di sfida tra popolazioni frementi di lungo odio contro l'Austria, e facili all'entusiasmo, chiarite or prodi e vogliose di battersi? A noi sorrideva nell'animo la speranza di stendere una mano all'eroica Venezia e ricominciare, poi che la guerra regia s'era spenta in Novara, in nome di Dio e del Popolo, la guerra sacra dell'indipendenza italiana. Comunque, l'impresa fidata all'Austria, ricinta di nemici com'era, e costretta a serbare la più gran parte delle sue forze fra il Piemonte, la Toscana e la Lombardia, era più che dubbia nell'esito; e il parlarne come d'impresa infallibile ad uomini che [106] privi di tutte le forze accennate, e alle quali chiuse il varco Civitavecchia francese, combatterono la giornata del 30 aprile, e costrinsero in città non forte, trentamila Francesi a un mese d'assedio, aggiunge il ridicolo alla coscienza della menzogna.
Ma vi sono fronti, come dice Giorgio Sand, alle quali non è più dato arrossire.
La questione, per ciò che spetta all'invasione, ai motivi e ai particolari del fatto, è, ripetiamolo, questione oggimai decisa; e noi possiamo da questo fango di menzogne, di contraddizioni e d'ipocrisie, levarci a contemplarla in più alta sfera. Gl'inetti eredi della dottrina si trascineranno come potranno di difficoltà in difficoltà, di vergogna in vergogna, tentando sempre e inutilmente di transigere tra i due principî rappresentati in Roma dal Papa e dal Popolo, finchè piaccia alla Francia o all'Italia di tollerarli. Ma lo scioglimento della questione non è nelle loro mani.
Lo scioglimento della questione spetta all'umanità. Umanità e Papato: son questi i due termini estremi d'una controversia, inerente all'educazione progressiva e provvidenziale dello spirito umano, e che s'agita apertamente in Europa da ormai quattro secoli. Chi muta quei nomi in Libertà e Autorità fraintende ad arte, o per grettezza di mente, i termini del problema, falsa gli elementi della decisione, e assegna all'umanità un carattere d'opposizione che tende a negarne la stessa essenza.
Unico il signor Montalembert intravvide, nell'Assemblea di Francia, l'altezza della contesa: sdegnò i particolari, e assalì di fronte, con coraggio degno di miglior causa, la parte repubblicana: inferiore anch'egli al soggetto, in virtù appunto dell'errore, ch'io noto. Pur tanto giova trattar le questioni nella sfera dei principî, che dal suo discorso scese più luce a rischiarare la vera condizione delle cose e degli animi, che non da tutti i discorsi ministeriali dall'assedio di Roma in poi. E noi rendiamo grazie, come Italiani e come repubblicani, al Montalembert. Egli ci ha dato il programma della parte cattolica; e questo programma è una solenne conferma delle nostre credenze. Le transazioni ideate dagli uomini della dottrina son nulle, impossibili. Il sint ut sunt è anch'oggi il simbolo del cattolicismo. La libertà è inconciliabile col papato. L'autorità assoluta della chiesa cattolica incarnata nel papa deve rimanersi qual era ai tempi di Gregorio XVI, libera d'inspirarsi alla propria coscienza senza vincoli, senza patti, senza istituzioni che possono menomarla. Così parla l'oratore della parte cattolica; e perchè quant'ei parla sia il vero dell'avvenire come è del presente, non gli manca che di cancellare una cosa sola: la coscienza del genere umano.
E la coscienza del genere umano, superiore al papa e a ben altro; la coscienza del genere umano, che ha costituito per molti secoli, col proprio consenso, la potenza e il diritto del papa; protesta in oggi, in nome, non della Libertà ma dell'Autorità, contro l'instituzione in nome della quale il signor Montalembert vorrebbe sopprimere il libero sviluppo della vita romana.
Noi non siamo continuatori di Voltaire e del secolo XVIII. Essi distrussero, negarono; e perchè distrussero, noi cerchiamo fondare; perchè negarono, noi affermiamo. L'umanità, oggi come sempre, è profondamente, inevitabilmente religiosa; e perchè religiosa, move guerra al papato, forma, fantasma di religione, non religione.
L'accusa d'irreligione, di pura e semplice negazione d'ogni autorità gittata alla democrazia, è indegna oggimai di chiunque guardi con [107] occhio imparziale alle sue più pure e potenti manifestazioni. Noi tutti combattiamo per conquistare al mondo un'autorità; noi tutti invochiamo il termine d'un periodo di crisi nel quale dei due criterî di verità, coscienza dell'umanità e coscienza dell'individuo, che la provvidenza ci ha dati, ci rimane solo il secondo. Chiediamo un patto, una fede comune, un interprete alla legge di Dio. Ma perchè questo patto sia religioso ed abbia mallevadrici dell'osservanza l'anime nostre, è necessario che la nostra coscienza lo accetti liberamente: perchè quest'autorità possa dirigere la nostra vita, è necessario che essa abbia fede in sè, che il mondo abbia fede in essa, che essa sia verbo d'unità, di progresso continuo, di scoprimento incessante del vero[107]. E diciamo che non uno di questi essenziali caratteri fa sacro in oggi e fecondo il papato. Il grido di libertà che s'inalza in mezzo ai popoli è grido d'emancipazione da un'autorità incadaverita, inciampo alla nuova. Ogni grande rivoluzione è segno di morte a un potere esaurito, e iniziativa d'un altro che intenda la vita e ne consacri tutte le manifestazioni a progresso coordinato e pacifico.
Perchè nessuno, nell'assemblea di Francia, pose in questi termini la questione al signor Montalembert? Perchè non una voce si levò a gridargli: «Voi poggiate sul vuoto; voi discutete intorno a ciò ch'era e non è. Il papato, signore, è morto; morto nel sangue: morto nel fango: morto per aver tradito la propria missione di protezione del debole contro il potente che opprime: morto per avere da oltre a tre secoli e mezzo fornicato coi principi: morto per avere crocefisso una seconda volta Gesù, in nome dell'egoismo, davanti all'aule di tutti governi tristi, scettici o ipocriti: morto per aver proferito una parola di fede senza credere in essa: morto per aver negato la libertà umana e la dignità dell'anime nostre immortali: morto per aver condannato la scienza in Galileo, la filosofia in Giordano Bruno, l'aspirazione religiosa in Giovanni Huss e Girolamo di Praga, la vita politica coll'anatema al diritto dei popoli; la vita civile col gesuitismo, coi terrori dell'inquisizione, coll'esempio della corruttela; la vita della famiglia colla confessione fatta spionaggio e colla divisione seminata spesso tra padre e figlio, fratello e fratello, consorte e marito: morto pei principî del trattato di Vestfalia: morto pei popoli, dal 1378, con Gregorio XI, e col cominciar dello scisma: morto per l'Italia dal 1530, quando Clemente VII e Carlo V, il Papato e l'Impero, segnarono un patto nefando e trafissero la morente libertà italiana in Firenze, come oggi i vostri tentarono trafiggere la libertà nascente d'Italia in Roma: morto perchè il popolo è sorto; perchè Pio IX fugge; perchè le moltitudini gli maledicono; perchè gli uomini che in nome di Voltaire fecero guerra al prete per quindici anni, lo difendono in oggi coll'ipocrisia; perchè voi, signore, ed i vostri, lo difendete coll'intolleranza e colle armi, e dichiarate che il papato non può vivere allato della libertà! Voi chiedete a Vittore Hugo, d'additarvi una idea che abbia ottenuto un culto di diciotto secoli? È quella, signore, che voi giudicate irreconciliabile col papato e che dura da quando il soffio di Dio trasse dal nulla l'umanità; l'idea che ha sottratto al vostro cattolicismo metà del mondo cristiano, l'idea che vi ha strappato Lamennais e il fiore degli intelletti europei, l'idea di Gesù, la pura, la bella, la santa libertà, che voi invocavate pochi anni addietro per la Polonia, che l'Italia invoca oggi, sotto forma e mallevadoria di nazione [108] per sè e che non può, quando voi non crediate parte di religione il costituire un popolo-paria nel seno dell'umanità, esser buona cosa per una contrada e triste per l'altra. Ah! è grave condanna al papato, o signore, grave conferma alle nostre credenze questa contraddizione che le vostre parole confessano tra l'eterno elemento d'ogni vita umana e l'instituzione che dovrebbe, anzichè cancellarlo, benedirgli e promoverlo.
È questa contraddizione somma per noi alla negazione, non solamente, del diritto ingenito nelle popolazioni romane, ma della Nazione.
Un anno addietro, i ministri di Francia salutavano come immancabile e prospero evento lo sviluppo dell'italiana nazionalità. Lamartine dichiarava con certezza di non essere smentito mai dai fatti possibili, che, con intervento di Francia o senza, l'Italia sarebbe libera; l'Assemblea costituente invitava la potestà esecutiva a serbare norma alla sua condotta il voto unanime dei rappresentanti; emancipazione d'Italia. Oggi adoratori dei fatto e della cieca forza che soggioga per un giorno l'idea, rappresentanti e ministri dimenticano, cancellano la nazione e trattano la questione siccome puramente locale. Or, la Nazione e Roma sono una sola cosa per noi. Credono essi spento per sempre il palpito di ventisei milioni d'uomini che hanno imparato a insorgere, a vincere, a morire in nome dell'Italia futura? E se credono nell'Italia futura, credono che la nazione possa vivere un giorno libera e progressiva col dogma dell'autorità assolata impiantato nella sua metropoli?
L'Italia futura, la nazione una, è fatto inevitabile in un tempo che non è lontano. Questa fede italiana annunziata, da Dante in poi, nella vita e negli scritti dei nostri grandi del pensiero, trasmessa da generazione a generazione dalle aspirazioni della nostra letteratura, trasmessa di padre in figlio, negli ultimi trenta anni, in seno alle nostre fratellanze segrete, e nudrita di sangue e di lagrime, noi non la sagrificheremo, signori, ai vostri meschini concetti di transazione o perchè a voi piaccia far poesia sulle rovine d'una instituzione che fu sublime, e anteporre al futuro il passato. Papi, imperatori, oppressori domestici e gelose potenze straniere hanno fatto a gara per sotterrar dal nascere questa fede; e non valse. Il lento lavoro d'unificazione non s'arrestò mai in Italia per gli ultimi tre secoli: se un papa volle, quando il papato era già esoso alla miglior parte della nazione, che il suo nome rimanesse ricordo d'affetto fidato al genio di Michelangelo e alla tradizione italiana, gli fu forza cacciare il grido di fuori i barbari!—e quando l'entusiasmo di tutta quella gioventù, che voi calunniate come anarchica e demagogica, salutò d'un lungo grido d'illusi applausi il papa in nome del quale gli stranieri stanno oggi in Roma, quel papa avea proferito con amore la sacra parola Italia; e l'applauso gli fu sottratto, e il popolo si ritrasse fremendo da lui quand'ei si rivelò avverso alla guerra d'emancipazione. Oggi quel lavoro procede colle leggi del moto uniformemente accelerato; dalle menti educate al pensiero è sceso al core d'Italia, alle moltitudini; e voi presumereste arrestarlo? presumereste convincerci che noi sacrificammo la nostra vita ad un sogno, ad una illusione colpevole, perchè un vecchio senza genio, senz'amore, senza forti credenze, senza il coraggio del martirio, e pochi uomini, corrotti, immorali, irreligiosi, segnati a dito dal popolo, come Richelieu, col nome di triumviri rossi, balbettano un anatema?
Ed io—è l'unica volta ch'io parlo quasi con rimorso di me—io, [109] signor Montalembert, che non ho mai firmato dichiarazioni o accettato amnistie, perch'io non voleva porre una menzogna nella mia vita e perch'essi hanno bisogno della nostra amnistia, non noi della loro,—io che esule ormai da vent'anni ho dato tutte le gioje della vita, e ciò che più monta, le gioje de' miei più cari al culto d'un'unica idea, d'Italia iniziatrice, di patria libera ed una—io che v'ho amato leggendo le vostre pagine premesse al Pellegrino polacco, e vi compiango oggi persecutore dei miei fratelli e nemico al bene della mia nazione—io dovrei cancellare la mia coscienza e calpestare questa mia fede di venticinque anni, sostegno mio contro al dubbio e allo sconforto attraverso delusioni e sciagure ch'io non vi desidero, perchè i corruttori della Chiesa non possono conciliare i loro appetiti di dominio principesco colla libertà dell'Italia e coi progressi del mondo? Ah! ricordo una madre italiana che dolevasi di non avere due figli da dare alla patria, e un'altra che a me, vacillante un momento per dolori taciuti a tutti fuorchè ad essa, scriveva additando il versetto 12 e seguenti al capo VI dell'epistola di Paolo agli Efesi. La prima di quelle madri avea perduto il figlio, per opera dei vostri, sotto le mura di Roma: alla seconda, due erano sottratti dall'esilio, e un terzo da morte volontaria in una prigione. La voce di quelle due madri, signore, confuta per me molti studiati discorsi. La religione del sacrificio è ben altramente vera che non la religione sostenuta da voi colle bajonette. Perisca dunque il papato, e viva l'Italia! Se la Chiesa, disse il padre Ventura, non cammina coi popoli, i popoli cammineranno senza la Chiesa, fuor della Chiesa, contro la Chiesa. Contro la Chiesa! no: noi cammineremo dalla Chiesa del passato alla Chiesa dell'avvenire, dalla Chiesa cadavere alla Chiesa di vita, alla Chiesa dei liberi e degli eguali, dove regge chi più serve i fratelli, dove il seggio della fede non si puntella colla violenza. V'è spazio che basta per Chiesa siffatta fra il Vaticano e il Campidoglio.
E questo grido dell'anima mia, questo convincimento che nulla può svellere, è grido, o signore, è convincimento di tutta la gioventù italiana che ha palpitato di sdegno leggendo il vostro discorso, che palpiterà d'affetto leggendo il mio. Voi potreste spegnere il mio, non il suo grido. Voi potete cancellar molte vite, ma non la vita. La Vita d'una nazione è cosa di Dio. Tutti i vostri sforzi romperanno contro il decreto della provvidenza. L'Italia sarà.
E il giorno in cui l'Italia sarà, che avverrà del papato?
Anche cadendo, Roma ha reso servigio alla Francia. Essa ha creato al governo ch'oggi l'opprime il più grave ostacolo che potesse mai suscitarglisi: ha logorato la parte della dottrina; ha strappato il segreto alla parte ch'oggi invade il potere: 1815 e diritto divino.
La Francia provveda, e s'affretti. Due morti sono pei popoli: l'assassinio per conquista e il suicidio del disonore. La Francia è minacciata in oggi di questa seconda.
E non di meno la Francia non deve, non può perire. Un popolo che affida all'umanità l'ultima parola di un'epoca deve concorrere alla rivelazione della prima d'un'altra. L'Europa ha bisogno della Francia, del suo braccio e del suo consiglio. E l'avrà.
Una voce di poeta che amammo giovani e che lamentavamo muta da lungo tra le nostre file, la voce di Vittore Hugo, s'è riscossa al grido di Roma, della città madre al genio e alla poesia. E in nome di Roma, noi lo ringraziamo pel marchio stampato in fronte ai nostri oppressori. Una voce d'amico, esule come noi siamo, ha scritto belle e forti parole a scolpare la Francia, la vera Francia, del delitto [110] commesso contro la nostra nascente nazionalità[108]; e a lui con affetto riconoscente diciamo: non temete, fratello; lasciate al vostro esilio e al nostro cuore le discolpe della vera Francia. Le anime nostre sono tranquille e serene come dopo una vittoria. Noi amiamo come combattiamo, ora e sempre. E il nostro amore è il vostro amore, le nostre battaglie sono le vostre battaglie. La falsa parola d'ordine, gettata fra noi da uomini disertori dalla bella vostra bandiera, non dividerà i soldati dello stesso campo. Noi gemiamo e speriamo per voi come per noi. E quando voi ci vedete segregati in Roma, in Italia, da uomini che parlano la lingua di Francia, ma non ne rappresentano l'idea, la missione, dite: essi vogliono serbarsi puri all'abbraccio della Francia redenta;—quando udite la nostra parola escire concitata ed amara contro fatti ed uomini che disonorano la Francia, dite: essi s'irritano, come per la loro, per la nostra patria; ma non dimenticano in cuore un solo dei fatti e degli uomini che la redimono.
28 ottobre 1849.
«Jusqu'à présent je ne suis qu'un simple volontaire; mais... je me mettrai avec satisfaction sous vos ordres si vous me jugez utile à la cause sacrée que j'embrasse avec ardeur, et à laquelle je rêve depuis dix ans—(Napoléon, lettre au gén. Sercognani, Terni. 28 février, 1831.)
«Moi aussi, banni de ma patrie, je gémis souvent sur la loi d'exil qui frappe ma famille; mais cependant lorsq'on voit qu'aujourd'hui, tout ce qui a l'âme noble est chassé de la terre natale ou persécuté par le pouvoir, alors on est fier d'être dans les rangs des opprimés et des proscrits.»—(Napoléon Louis C. Bonaparte, adresse aux réfugiés polonais, Arnenberg, 17 août 1833.)
«Nos armes ont renversé à Rome cette démagogie turbulente qui, dans toute la peninsule italienne, avait compromis la cause de la vraie liberté, et nos braves soldats ont eu l'insigne honneur de remettre Pie IX sur le trône de St-Pierre.»—(Message du président de la République, 12 novembre 1850.)
Signore.
Quando vostro fratello scriveva da Terni le parole che stanno in capo al mio scritto, voi eravate al suo fianco. La causa sacra per la quale egli e voi eravate presti a combattere, era la stessa ch'oggi chiamate demagogia. Il governo agli ordini del quale voi ambivate sottomettervi era, come il nostro, governo d'insurrezione; decretava, come il nostro, l'abolizione del potere temporale del papa. Non sorse in voi un ricordo di quei giorni, mentre scrivevate le linee calunniatrici di Roma nel vostro Messaggio? Non vedeste levarsi, come un rimorso, la pallida faccia del fratello vostro tra voi e quella bandiera di popolo sotto la quale voi militavate vent'anni addietro, semplice volontario con lui, e alla quale oggi voi, presidente di Francia, insultate? Io era allora prigione in una fortezza, in Savona, dove un papa fu confinato da vostro zio: e giurava a me stesso che nè terrore di persecuzione nè seduzione d'egoismo m'avrebbero sviato mai d'un sol passo dalla bandiera che voi pure abbracciavate con ardore. Ho speso intorno a quella promessa le forze, le gioje e le speranze individuali della mia vita; ma posso guardare con occhio sicuro attraverso quei vent'anni passati senza che un solo ricordo venga a cozzare coll'oggi, senza che una sola imagine di congiunto o d'amico si levi a dirmi: tu hai falsato il giuramento dell'anima tua; tu hai travolto nel fango e calpestato con orma violenta il Dio de' tuoi anni più puri!
E quando nel 1833, sopra una terra repubblicana, confortavate l'esilio col nobile orgoglio d'aver compagni i migliori di tutte contrade perseguitati dai loro governi, voi stringevate una seconda volta il patto di fratellanza cogli uomini ai quali oggi il vostro Messaggio vorrebbe porre in fronte il marchio di demagoghi. Repubblicani erano e chiamati demagoghi dai loro oppressori i cinquecento Polacchi ai quali voi mandavate le amiche parole: repubblicani e ribelli al papa gli esuli d'Italia ch'erravano tra le valli svizzere, adocchiati, com'oggi dalle vostre, dalle spie di Luigi Filippo. Non ripensaste al vostro linguaggio di diciassette anni addietro, mentre osavate chiamare libertà vera quella di ch'oggi godono, mercè vostra, gli abitanti delle terre romane? Non vi sentiste il rossore salire alla fronte mentre dicevate onore cospicuo l'atto che condannò all'esilio migliaja d'uomini salutati dal loro popolo liberatori? Io era, quando voi parlavate in Arnenberg, tra quei proscritti nelle cui file eravate allora altero di connumerarvi; ed anch'oggi son tale e perseguitato, come i miei fratelli di Polonia e Germania, di note confidenziali dai vostri satelliti interpreti del Messaggio. Ma posso levar serena la fronte davanti agli uomini senza temere che un solo de' miei antichi compagni d'esilio mi dica: tu hai tradito il patto stretto nella sventura; tu hai aggiunto il tuo al nome dei proscrittori.
In nome degli esuli di Roma e di tutta Italia, io vi ringrazio, signore, delle parole scritte su noi nel vostro Messaggio. Per esse noi sentiamo insuperbirci, conforto supremo, nell'anima la coscienza di combattere per una causa che non ci costringe a contraddirci e a mentire. La nostra parola d'oggi è quella dei primi giorni della nostra carriera politica: voi date forzatamente una mentita a vent'anni della vostra vita. Noi, militi della fede repubblicana, non invochiamo a vincere se non il libero suffragio del popolo: voi, amministratore d'una repubblica, mutilate il suffragio in patria, lo cancellate coll'armi al di fuori. Noi a mantenere il nostro governo in Roma non avevamo bisogno d'esilî, di proscrizioni, ma d'una bandiera e d'un grido al popolo, perchè in nome di Dio la proteggesse siccome sua: voi a mantenere in Roma il governo che affermate voluto dalla maggioranza, dichiarate aver bisogno che si prolunghi il soggiorno dell'armi francesi; a mantenerlo in Francia, avete bisogno di continue destituzioni, di numerosi imprigionamenti, di sciogliere in cento località le milizie cittadine, di perpetuare in più dipartimenti lo stato d'assedio, d'introdurre limitazioni alla stampa, alle associazioni, alla universale rappresentanza. Noi ristampiamo le sedute della vostra Assemblea, le parole del vostro Messaggio: voi ponete per quanto è in voi divieto sulle nostre difese; la vostra polizia contende la frontiera all'Italia del popolo; la vostra Assemblea non osa leggere le nostre proteste. Noi accusiamo: voi calunniate. Giudichino gli uomini onesti d'Europa da qual parte stia il Vero e la coscienza del Dritto. Giudichino dove stia la fazione.
Alle parole del vostro Messaggio, il Comitato nazionale italiano ha contrapposto la protesta che precede queste mie pagine[109]. La vostra maggioranza, signore, ha cercato soffocarla tacendone. Dai popoli [113] ai quali voi tenete la spada di Brenno alla gola, essa non accetta che petizioni. I selvaggi delle foreste d'America sospendevano le torture per rispettare nel prigioniere il diritto di conchiudere il suo inno di morte, e d'oltraggio ai tormentatori: i vostri non hanno il coraggio di dire: lasciamo passare il grido delle nostre vittime. Essi votano la rovina d'un popolo nel silenzio: la mort sans phrases.
E nondimeno, voi non soffocherete quel grido, signore. Finchè rimarrà un angolo dell'Europa capace di contenere una stamperia pubblica o segreta—finchè vivrà un uomo, forte d'amore e di sdegno, incapace di dimenticare, perchè caduta, la patria e incapace di tacere la verità all'oppressore, perchè potente—quel grido sorgerà a turbare i vostri sonni presidenziali. Quell'angolo di terreno esiste ancora, signore; e quell'uomo anch'egli: io oggi, un altro qualunque de' miei compagni domani. Io v'ho promesso che evocherei di tempo in tempo lo spettro di Roma a ricordarvi, a ricordare alla Francia il delitto che fu commesso e tuttavia dura—e manterrò la parola. I nostri padri credevano che, ridesto al passo dell'assassino, l'assassinato sporgesse fuor del terreno rigida e sanguinosa la mano per accusarlo agli uomini e a Dio. Io sarò per voi, pei vostri, quella mano, signore. Scriverò Roma sulla punta delle mie cinque dita, e le solleverò a dirvi: voi avete sull'anima l'assassinio d'un popolo amico, d'un popolo che amava la Francia, d'un popolo pel quale voi, convinto che la sua causa era sacra, volevate combattere vent'anni addietro.
Ed è sacra, signore: sacra pei luoghi, che furono culla d'incivilimento all'Europa; sacra per le memorie dell'antica libertà repubblicana che costituiscono per noi tradizione di quello ch'è per altri popoli recente e combattuta conquista: sacra pei caratteri del nostro progresso che non escì mai dall'elemento monarchico o aristocratico, ma sempre, per virtù provvidenziale, dall'iniziativa del popolo: sacra per oltre a tre secoli di patimenti durati sotto occupatori stranieri e papi corrotti e corrompitori e principi inetti o tiranni e caste sacerdotali intolleranti, cupide, avverse a ogni libertà di pensiero, senza che siasi spenta la potente scintilla di vita animatrice della nostra razza; sacra per la lunga serie di martiri che in ogni angolo d'Italia hanno segnato la fede col sangue: sacra per l'indomita, instancabile costanza dei tentativi: sacra per la clemenza usata nella vittoria, per l'assenza di dottrine ingiustamente sovvertitrici, per la concordia di tutti i cittadini in un solo volere: sacra per Roma e per gli eroici fatti di Milano, di Venezia, di Brescia, di Bologna e della Sicilia: sacra per la Francia segnatamente, alla quale noi demmo largo tributo del nostro sangue, e dalla quale avemmo sempre promesse, tradite sempre e fatali; poi per opera vostra, signore, compenso quasi alle migliaja di vite italiane spese per accrescere onore alla bandiera di vostro zio, il sacrificio d'alcune migliaja di soldati francesi caduti nell'impresa di spegnere il primo alito della nostra libertà nascente!
Voi avete, signore, sacrificato quei soldati di Francia, falsato le vostre promesse, tradito l'obbligo che v'imponeva la Costituzione, assalito chi non v'offendeva, rovesciato un governo pacifico, messo la bandiera francese allato di quella dell'Austria e dell'oppressore di Napoli, ucciso il fiore dei nostri giovani ufficiali colle vostre palle coniche, dato per bersaglio ai vostri cacciatori d'Africa le camiciuole rosse ch'essi, i nostri, avevano valorosamente indossato quasi a dirvi: eccoci, e condannato migliaja di famiglie alla miseria, alla persecuzione, al lamento su' spenti e sugli esuli, per rovesciare—son parole del vostro Messaggio—quella irrequieta demagogia che in tutta la penisola italiana aveva posta a pericolo la causa della vera libertà. [114] Aveva! La causa della vera libertà è dunque salva oggi in Italia. Le vostre armi rovesciarono il solo ostacolo che l'attraversava. E lasciando da banda il dominio austriaco, dimenticando Napoli e la Sicilia, le leggi organiche pubblicate o da pubblicarsi dal papa costituiscono la libertà vera. La repubblica è per voi dunque sinonimo di demagogia. E la storia dei tempi registrerà che un'Assemblea repubblicana udiva con approvazione quelle vostre parole. Ma io non debbo discuter con voi di repubblica o monarchia. Il buon senso ha insegnato e insegnerà più sempre alla mia nazione che libertà non può esistere per essa se non fondata sulla repubblica e che il grido di Roma ha in sè l'avvenire italiano. Pur noi non imponemmo repubblica; l'avemmo, lieti e plaudenti, dal popolo, da una Assemblea Costituente. Libertà vera per noi fu allora ed è tuttavia quella ch'esce ordinata dal libero suffragio della nazione. Perchè non la interrogate? Una irrequieta audace fazione toglieva allora senno e libertà di giudizio al popolo? Ma quella fazione oggi è spenta o lontana. Io vi scrivo dall'esilio. L'esilio, la prigione o la sepoltura hanno tutti i miei compagni. Perchè non restituite al popolo il libero voto? Perchè, dopo diciotto mesi, siete costretto a conchiudere le vostre parole dichiarando che il soggiorno del vostro esercito è tuttavia necessario al mantenimento dell'ordine in Roma?
Voi potete, signore, ravvolgervi a vostro senno di menzogna e sofismi: potete trovare un'Assemblea repubblicana che applauda per breve tempo alle vostre parole; ma il giudizio dell'Europa sta irrevocabilmente per noi. Tra noi e voi la contesa è ridotta a termini troppo semplici per ammetter dubbio. Il principio repubblicano è sancito per noi dal decreto non revocato dalla nostra Assemblea: vive nel dritto, legittimo per lo meno quanto il vostro governo; e noi possiamo chiedere alla Francia e all'Europa di restituirci Roma qual era prima del luglio 1849. E nondimeno stiam paghi a chiedervi—tanto siam certi dell'animo delle moltitudini—di rifare onestamente la prova. Noi siamo più assai potenti di voi, signore. A voi, perchè trionfi la libertà vera, bisogna un esercito; a noi basta una urna. Noi vi cacciamo a guanto di sfida ciò che gli agenti vostri promettevano prima della vittoria: sgombrate e rendeteci il voto; e voi non osate raccoglier quel guanto!
Io ho già confutato vittoriosamente altrove l'obliqua accusa data ai repubblicani d'Italia d'aver posto a pericolo, per soverchia esigenza, non la libertà che i principi non pensavano a dare: ma la causa dell'indipendenza che molti sognavano—e si pentono amaramente del sogno—potersi dividere dalla causa della libertà. Cessato il clamore d'una stampa comprata dai nostri padroni, i documenti hanno provato che i repubblicani, convinti che nè da un papa, nè da un principe, nè da un accordo fra i principi potea venir salute all'Italia, cessero nondimeno al voto della maggioranza del paese che inchinava all'esperimento; tacquero, non rinnegarono, le loro dottrine, e s'astennero da ogni maneggio politico negli anni 1846 e 47:—che nel 1848, insorta l'Italia a scacciar lo straniero, accettarono il programma proposto dal principato «che, solamente finita la guerra, il paese fosse chiamato a decretare i proprî fatti politici» e non s'occuparono che di guerra:—che, violato dalla parte regia il programma, essi protestarono virilmente, ma aborrirono dall'armi civili e non tentarono resistenza:—che perduta per ignoranza, per rifiuto degli ajuti popolari e per tradimento la guerra, rinnegata da principi e papa la causa della nazione, essi raccolsero il vessillo abbandonato e lo [115] inalzarono in nome di Dio e del Popolo sulle mura di Venezia e di Roma a riconquistare, se non la vittoria, l'onore d'Italia contro gli Austriaci e contro l'armi vostre, signore:—che riescirono a riconquistarlo. Ma dacchè tra voi e me non può essere intelletto comune di libertà, io non debbo dir qui quale concetto ne avessero i repubblicani, ma solamente seguirvi sul vostro terreno, e ricordare alla Francia qual sia la libertà vera per voi.
Il 26 aprile 1849, la libertà che voi venivate a tutelare fra noi era, signore, la libertà fondata sulla sovranità del paese.—Il nostro scopo—dichiarava in un proclama dettato da voi il generale Oudinot—non è quello d'esercitare una influenza che opprima, nè di imporvi un governo che sarebbe opposto al vostro voto... Noi giustificheremo il titolo di fratelli. Noi rispetteremo le vostre persone e i vostri beni... noi ci porremo di concerto colle autorità esistenti, perchè la nostra occupazione non mova inciampo di sorta alcuna.
Il giorno in cui, caduta Roma, voi scrivevate la lettera a tutti nota all'ufficiale Edgard Ney, la libertà che voi promettevate alle popolazioni dello Stato romano non era più quella del voto; era la libertà che scende come beneficio dall'autorità regia non contrastata, non limitata; e consisteva in un governo fondato e avviato su norme liberali, in una amministrazione laicale, in una legislazione desunta dal codice Napoleone, in un'amnistia generale o quasi. Era programma meschino, illegale, di conquistatore. E Roma, s'anche la parola vostra avesse potuto ridursi in atto, avrebbe sprezzato dono e donatore ad un tempo. Pure, la vera libertà di che oggi parlate è la libertà forse del vostro secondo programma?
Quando—e sia sollecito per l'onore della specie umana quel giorno—avremo una politica religiosa e la parola del vero suonerà franca e spontanea tra popoli e capi di popoli, gli uomini non vorranno credere che da un preside di repubblica potesse escir mai linguaggio così sfacciatamente menzognero come quello del Messaggio, e che un'Assemblea d'eletti dal popolo di Francia l'ascoltasse paziente. Libertà, in Roma, signore! Ma quale? libertà di stampa? d'associazione? di parola? di voto? d'insegnamento? di persona? protetta da milizia cittadina? da rappresentanze inamovibili fuorchè dal popolo? perchè nol diceste? perchè non vel chiesero? Fu ignoranza, codardia, indifferenza? Fu da parte vostra un insulto cacciato alla vittima?
La libertà di Roma, signore—io ricapitolerò cose note per la Francia che dimentica facilmente—la libertà di Roma è lo scioglimento della guardia civica, mantenuto in onta al decreto del 6 luglio che diceva nell'articolo secondo: essa sarà immediatamente riordinata secondo le sue basi primitive:—il divieto d'ogni circolo e d'ogni associazione politica:—il sequestro delle armi che lascia l'onesto indifeso dal ladro e dal masnadiere:—la soppressione di tutti i giornali dai governativi in fuori:—la commissione instituita, in onta alle vostre promesse, il 23 agosto 1849 per rintracciare e punire gli attentati commessi contro la religione e i suoi ministri sotto il governo della repubblica:—le vessazioni contro i forestieri, le denunzie di locandieri, le condizioni al soggiorno in Roma riordinate dalla notificazione del 31 agosto:—la disposizione del 3 settembre colla quale ogni stamperia deve, sotto pena di gravi multe e di prigione, consegnare al governo l'elenco preciso e progressivo de' suoi tipi e de' suoi operaî:—la commissione di censura instituita per tutti gli impiegati della repubblica, la destituzione pressochè generale e da settecento famiglie cacciate nella miseria:—la dispersione dell'esercito e l'esilio di quasi tutti gli uffiziali:—la sospensione di tutti i maestri [116] d'ogni categoria pronunziata il 17 ottobre:—il richiamo degli uffici di polizia e della sbirraglia di tutti gli uomini della reazione e del fecciume dei sicarî di Gregorio XVI:—il ristabilimento dell'inquisizione e del vicariato. La libertà di Roma è, signore, la carta monetata ridotta del 35 per 100—la tassa di barriera ripristinata—le multe di bollo portate al decuplo—la restituzione dei beni alle mani morte—l'incarimento del sale—il rinnovamento della tassa sul macinato—l'aumento del 15 per 100 sulle imposte—la miseria visibilmente crescente in ogni angolo e in ogni ordine dello Stato. La libertà di Roma è un'amnistia che esclude i membri del governo provvisorio, il triumvirato, i componenti i ministeri, i rappresentanti del popolo, i presidi delle provincie, i capi dei corpi militari, gli amnistiati del 1848 colpevoli d'una parte qualunque alla rivoluzione e ch'ebbe per conseguenza immediata una nuova emigrazione—un motu-proprio che, cancellando quello del 1848, riordina il despotismo temperato da una Consulta di Stato eletta dal papa su terne presentate dai consigli provinciali senza intervento dei comuni, accresciuta di membri nominati a capriccio da lui, e condannata al silenzio se non quando al governo piace richiederla di consiglio—una instituzione di consigli provinciali i cui membri sono scelti su terne dei municipî dal papa purchè abbiano età di trent'anni, domicilio di dieci anni nella provincia, beni del valore almeno di seimila scudi e condotta religiosa e politica riconosciuta buona, e le riunioni dei quali possono essere sospese o sciolte ad arbitrio governativo—poi, una persecuzione d'ogni giorno, d'ogni ora: piene zeppe le carceri nuove, quelle del Castello, del Santo Officio, della Galera di Termini, d'uomini strappati per sospetto alle loro famiglie e lasciati a giacersi fra i ladri e gli accoltellatori senza processo finchè piaccia al governo o alla morte di liberarli; i non imprigionati, ma invisi per opinione repubblicana, additati ai soprusi, agl'insulti alle ferite dei birri arbitri oggimai dello Stato; e, conseguenza inevitabile di condizioni siffatte, l'aumento dei delitti, le vie mal sicure, i paesetti di campagna invasi e derubati da malfattori.
Questa, signore, è la libertà vera di Roma, frutto delle vostre armi e documentata dal Giornale Officiale del governo per voi restaurato. Cancellate, in nome della Francia, la linea del Messaggio che chiama l'invasione fatto glorioso e arrossite pel nome che il caso v'ha dato. Il nipote di Napoleone può esser tiranno, ma don dovrebb'esserlo bassamente. Uccidete, finchè l'altrui fiacchezza ve lo consente; ma non sollevate il lenzuolo dei morti colle vostre mani a farvene manto di gloria.
Gloria! I pochi vostri adulatori possono, a mercare i guadagni del favore d'un giorno, susurrarvi quella parola all'orecchio: ma essa v'è contesa per sempre. Da quando i popoli si sono ridesti, gloria e virtù sono sinonimi.
Principe Luigi Napoleone! un nome in oggi è piccola cosa. L'onda collettiva delle moltitudini spinte a nuovi fati da Dio sommerge, salendo, nomi e individui. E nondimeno, voi, giunto per meriti non vostri al potere quando ancora l'onda non ha raggiunto il vertice della piramide e i popoli cacciano, prima d'abbandonarlo per sempre, un guardo di riverenza tradizionale al passato, la storia poneva innanzi una bianca pagina, e voi potevate riempirla. Capo d'una forte e grande nazione, erede d'un nome, ultimo potente in Europa, e ammaestrato dalla sciagura, voi dovevate leggere nelle parole che vostro zio proferiva morente in Sant'Elena, nel grido recente di Parigi e negli insegnamenti [117] dell'esilio, la vostra missione. Voi potevate, compiendola, confondere tra i posteri più remoti su quel nome che v'era trasmesso l'aureola delle cento battaglie e la luce pura confortatrice della libertà: Napoleone e Washington. Bastava per questo un affetto di virtù, un pensiero di amore; e se l'amore e la virtù non allignavano nell'anima vostra, bastava un savio calcolo dell'intelletto, un guardo che s'addentrasse nel passato e spiasse il futuro. Voi non potevate, quand'anche aveste sentito a fremervi dentro il suo genio, ricominciare Napoleone: se l'èra dei popoli non fosse stata che sogno, egli era tale da non morir che sul trono. Voi non potevate che trasformare il concetto: ricordarvi che s'egli sorgeva per propria potenza, e sugli ultimi stanchi giorni d'una repubblica, voi sorgevate per elezione di popolo in una repubblica nascente e pregna di fati: ricordarvi che se Napoleone aveva, conscio o inconscio, preparato colla eguaglianza civile, coll'armi e colle leggi europee il terreno alla novella unità, era—e i popoli ve ne avvertivano col sorgere spontaneo per ogni dove—impresa compita: ricordarvi che avevate incontrato e salutato fratelli nell'esilio Polacchi, Italiani, Alemanni rappresentanti la stessa fede; e dire: io inizio, in nome del Popolo, l'epoca nuova: porto, io proscritto di jeri, sul seggio di preside della repubblica, il pensiero de' miei fratelli, e dichiaro: la Francia non vuole ch'esistano da oggi innanzi proscritti. La vita è sacra: sacra nel pensiero, sacra nei popoli. Si riveli, s'espanda, si dia forme proprie come nella creazione di Dio. La spada della Francia conquistatrice giace per sempre nella tomba di Napoleone; ma il popolo ha dato un'altra spada alla Francia e questa spada proteggitrice si stenderà dovunque sorga vita vera in un popolo, tra quella vita nascente e chi s'attentasse di soffocarla.
Non eravate da tanto. Impotente a ripetere la parte di Napoleone, voi avete travestito i suoi concetti gigantescamente ambiziosi in sogni d'un'ambizioncella tremante, pigmea: in disegni di rivoluzioni consolari o imperiali ideate la sera, svanite al mattino davanti all'agitarsi d'una commissione di permanenza o a un'aspra minacciosa parola di un soldato geloso. Incapace di trasformarne il pensiero e senza idee vostre, senza amore nell'anima, e buja d'intelletto dell'avvenire la mente, voi, d'incertezza in incertezza, di codardia in codardia, siete sceso a ricopiare la parte immorale, dissolvente, atea di Luigi Filippo. Vi circondano, inspiratori, dominatori or l'uno or l'altro, gli uomini di Luigi Filippo. Vi pende sul capo, inevitabile, fatale, la sentenza di Luigi Filippo.
Colla spedizione di Roma voi intendeste a propiziarvi a un tempo la parte cattolica, l'esercito e l'Austria; la parte cattolica piegando il ginocchio davanti al papa nel quale voi non credete: l'esercito accarezzandone l'orgoglio e gli spiriti irrequieti: l'Austria alla quale la paura v'ha fatto complice, ajutandola a soffocare nel centro d'Italia l'elemento temuto e insegnando a tutte le popolazioni italiane ch'esse non devono illudersi a sperare cosa alcuna da voi. Colle leggi repressive, imitate da quelle dell'ultimo regno, intendeste a conciliarvi gli abbienti tremanti del socialismo perchè lo giudicano nelle esagerazioni che falsano quella santa tendenza. Col programma di neutralità ch'oggi, prima di avere ritirate le vostre truppe da Roma, sostituite al programma d'azione della Francia, voi sperate rendervi favorevoli gli uomini della pace. Diseredato d'iniziativa, voi, ponendo in luogo della politica dei principî che poggia sul Vero, sul giusto, sull'onore e sull'elemento dotato di maggiore vitalità nel futuro, la trista, meschina, impossibile politica degli interessi e di concessioni che cozzano [118] l'una coll'altra, v'illudeste ad essere quel ch'oggi chiamano uomo di Stato. Ma quel misto di scetticismo e d'orgoglio, d'analisi cadaverica e d'ignoranza della vita che sorse con quel nome quando in Europa mancarono le forti credenze e si ruppe ogni vincolo d'unità, andò digradando da Machiavelli, storico e giudice, fino a Talleyrand, copista meschino e briccone. Luigi Filippo è morto in esilio. Metternich vive in esilio. Ora, uomo di Stato è colui che pensa e pratica il bene. Proscritto anch'oggi, ei riescirà senza fallo domani.
La parte cattolica vi sa ipocrita incredulo: ipocrita anch'essa e senza fede, essa ha accettato, promettendo, l'ajuto vostro: ma i suoi odî vanno oltre la tomba, le sue speranze stanno nei governi dispotici, ed essa vi gitterà l'anatema il primo giorno in cui essa crederà non aver bisogno di voi.
L'esercito sa in oggi che voi lo spingeste all'assassinio di Roma perchè non osavate combattere l'Austria invadente nè lasciarla sola; e arrossirà della macchia di disonore che voi avete messa sulle sue bandiere e della parte di gendarmeria pretesca alla quale voi lo condannate. I soldati di Francia intenderanno che lo stendardo dato ad essi dalla nazione è simbolo d'un principio o cencio senza senso e valore—ch'essi tengono in deposito l'onor della Francia—che dovunque il principio repubblicano, vita e speranza della Francia, è violato per opera loro, essi tradiscono la nazione—che il giuramento del milite nel XIX secolo non è giuramento di medio evo, giuramento d'uomo servo a un signore, ma giuramento di libero a chi rappresenta—e fino a quando la rappresenta—la missione della sua patria.
L'Austria sa il perchè scendeste in campo con essa, e non si giova, sprezzando, di voi che per logorare ogni influenza morale francese in Italia e togliere un alleato alla vostra illusa nazione.
I proprietarî, i detentori della ricchezza di Francia, imparano rapidamente le vere idee degli uomini che studiano i segni della inevitabile trasformazione sociale e cercano le vie per le quali possa pacificamente compirsi. Essi s'avvedranno che in questi uomini, oggi ancora fraintesi, è riposta mallevadorìa più potente che non quella delle vostre leggi repressive e seminatrici di guerra implacabile contro gli agitatori violenti e i sofisti sovvertitori d'ogni ordine.
Gli uomini della pace v'abbandoneranno come abbandonarono Luigi Filippo, appena un nucleo d'arditi scenderà nelle vie delle città francesi a provare che non v'è pace senza giustizia.
Per tutti questi elementi voi non siete che una transizione ad altro. Essi vi hanno conosciuto debole, e nessuno lega a quelli del debole i proprî fati.
E la Francia, la Francia-popolo, la vera Francia, che noi amiamo e non confondiamo, signore, con voi e coi vostri, la Francia che geme e freme sotto un obbrobrio non meritato, sentirà un dì o l'altro, ma di certo entro un breve cerchio di tempo, il rimprovero che pesa sulla sua fronte, e d'un de' suoi moti di lione lo scoterà via da sè. La Francia intenderà che la noncuranza colla quale essa concede ai governi che la dirigono di cancellare o falsare il principio europeo pel quale essa ha sparso sudori e sangue, non è una stanchezza momentanea dell'oggi, ma dura da lunghi anni e accumula sulla sua bandiera diffidenze e reazioni ormai gravi; che vigilano nell'Europa dei popoli, contro l'amore ch'essa inspirava, la rovina della libertà spagnuola nel 1823, le promesse fallite all'Italia nel 1831, l'isolamento colpevole del 1848, l'abbandono della Polonia, l'indifferenza davanti all'invasione russa nell'Ungheria, lo scredito che sparge per ogni dove [119] sull'idea repubblicana la repubblica-menzogna immedesimata con essa, e il delitto di Roma; che la sua potenza d'iniziativa perisce; che a farla rivivere è urgente ridestarsi; e si desterà.
In quel giorno, signore, abbandonato, schernito, maledetto da quei ch'oggi s'avviliscono più di menzogne e di lodi davanti a voi, andrete, vittima espiatrice di Roma, a morire in esilio.
Il culto dei nomi, esaurito nell'ultima formula, svanirà per la Francia e per l'Europa. Il Popolo sarà papa in Roma, presidente in Parigi.
Principe Luigi Napoleone! Il 14 gennajo 1848 io scrivevo al ministro Guizot: «Voi siete travolto oggimai dagli eventi che non potete più prevenire nè dirigere. Voi siete ancora molto potente, signor ministro; ma noi saremo in ultimo più potenti di voi.» Il ministro crollava, sorridendo, il capo. Ma dov'era egli in febbrajo?
Dicembre 1850.
Quando voi, capo di repubblica nel 1848, e caro a noi tutti pei ricordi della gran difesa e per dignità di condotta negli anni d'esilio, gittaste, rompendo a un tratto il lungo silenzio, la bandiera—non dirò della repubblica—ma della nazione, ai piedi d'un re, io vi compiansi e mi dolsi per l'Italia, tacendo.
Mi dolsi per l'Italia, che perdeva in voi un'altra gemma della sua corona d'illustri, quando appunto la condizione delle cose additava più urgente il bisogno d'averli tutti congiunti in un solo pensiero di azione: compiansi voi, che, abbandonando la logica, piana, diritta via dei principî per frammettervi agli uomini d'opportunità, e accettando concessioni e transazioni colla coscienza, che illudono e indugiano da otto anni l'Italia, smarrireste, per legge fatale, l'intelletto delle circostanze europee, dimezzereste fra le ambagi d'una dubbia politica le libere facoltà della mente, e scendereste, dal seggio d'apostolo della causa patria, alla parte di strumento inconscio dei diplomatici, ingannatori sempre, e dei faccendieri di corte: ma tacqui, sperando che l'esame attento dei fatti vi ricondurrebbe sollecito a miglior partito, e che dall'aver detto alla monarchia: Fate, e saremo con voi, trarreste vigore novello per gridare al paese: La nazione salvi la nazione: noi abbiamo offerto alla monarchia di guidarci, e la monarchia, paurosa e impotente, ricusa.
Più dopo, io vi vidi, in onta a fatti che dovevano togliervi ogni speranza, persistere sulla torta via: parlare in nome dei repubblicani, dai quali non avevate avuto mandato, e sopprimere la fede repubblicana: parlare in nome d'un partito nazionale non fondato da voi e i cui martiri muojono, da un quarto di secolo, col grido di viva l'Italia! e sopprimere la coscienza e il diritto della nazione. Vi vidi affaccendato a fondare, in onta della moralità, base necessaria d'ogni progresso, la fusione, l'abdicazione di tutti i partiti in un solo, il peggiore, sopra un equivoco, sulla parola unificazione sostituita alla parola unità, senza avvedervi, senza leggere nella storia delle imprese passate, che uomini i quali si collegano, pur movendo a diversi fini, possono forse insorgere, ma a patto di uccidere, colle liti civili, l'insurrezione il dì dopo. Vi vidi, a fronte di trattati che promettono all'Austria l'interezza dei suoi possedimenti, ostinarvi a seguire inspirazioni straniere; a fronte d'un memorandum[110] che insegna ai governi [121] il come si possa con miglioramenti locali indugiare, se non vincere, il proposito degli uomini che cercano la patria comune, dichiarare che la monarchia piemontese moveva guidatrice all'impresa; poi, quasi pentito, gridare al partito: Agitate, agitatevi, come se la parola di O'Connel potesse adattarsi a terra non libera, sulla quale ogni agitazione è delitto severamente punito; e, impaurito dei consiglieri, nuovamente ritrarvi: spettacolo tristissimo a quanti più v'ammiravano e a me primo. E nondimeno avrei, tanto mi pesa l'accarezzar con l'esempio il mal abito delle polemiche, continuato a tacermi. Ma una delle ultime vostre lettere avventa, sotto colore d'insegnamento morale, tale un'accusa al partito, che il non respingerla parrebbe indifferenza o consenso. Però vi scrivo.
In quella lettera voi dichiarate che il partito non riescirà nell'impresa patria, se prima non si separa solennemente dalla teoria del pugnale.
Quella lettera fu stampata all'estero: stampata nel Times, giornale ch'oggi, iniziato al maneggio diplomatico, accenna alla necessità di alcune riforme locali nel centro e nel mezzogiorno d'Italia, ma che fu sempre ed è tuttavia avverso alla nostra causa nazionale, che predicò in ogni tempo l'alleanza dell'Inghilterra coll'Austria, s'avventò sistematicamente rabbioso contro ogni insurrezione italiana, calunniò sfacciatamente gli uomini del partito, inveì feroce contro i nobili tentativi dei popolani lombardi, e ci dichiarò a più riprese corrotti, inetti, incapaci di libertà, accennando soltanto ultimamente, per suggerimento dei suoi padroni, a un indizio di miglioramento innegabile nel Piemonte; come se Roma, Milano, la vostra Venezia e dieci altri punti in Italia, non ci avessero, nel 1848 e nel 1849, dichiarato agli onesti di tutta Europa, razza non inferiore ad alcuna in attitudine a governi liberi non guasti da licenza e anarchia.
In giornale siffatto, voi, per senso di dignità personale e di rispetto alla vostra nazione, non dovreste mai scrivere. Ma come non v'avvedeste a ogni modo che, inserendovi quella lettera, voi, sottraendovi ad ogni accusa e decretando a voi solo una patente di moralità, prestavate al nemico un'arme potente contro il partito, contro il paese?
Quando il turpe maneggio governativo, al quale voi porgete oggi inconscio l'autorità del vostro nome, avrà raggiunto il suo fine, o dispererà di raggiungerlo—quando i padroni del Times, ch'oggi tentano di sviarci, colle illusioni delle riforme locali, dall'unica meta, la libera Unità Nazionale, crederanno giunto il momento di por fine al mal gioco e di mutare linguaggio—essi commenteranno la vostra lettera, e ne dedurranno che noi abbiamo statuito, mezzo alla nostra emancipazione, la teoria del pugnale; che il partito o frazione importante del partito l'accettava, che voi, capo di repubblica un giorno e nome autorevole, v'eravate sentito in obbligo di protestare contro la teoria; ma che il partito—e questo lo dedurranno dal primo fatto isolato d'ira o vendetta individuale che si commetterà in un angolo della penisola—non avendo accettato il vostro consiglio, noi siamo un popolo feroce, irreparabilmente guasto, e indegno delle simpatie dell'Europa.
E quasi a convalidare anzi tratto accusa siffatta e lasciar che altri creda in una potenza segretamente ordinata a uccidere chi dissenta, voi parlate a più riprese di coraggio che v'è necessario per dettar quella lettera. Coraggio! Voi sapevate, scrivendo, che tuonando contro il pugnale raccogliereste, senz'ombra di rischio da anima viva, lode di moralissimo tra gli educatori d'Italia, da quanti, seduti all'ombra [122] della loro bandiera patria e assicurati nell'esercizio dei loro diritti da una ben ordinata giustizia nazionale, giudicano, freddamente severi, i palpiti irregolari, convulsi, d'un popolo oppresso, ineducato, senza speranza fuorchè in una lotta di sangue, senza tribunale che ristabilisca equilibrio tra esso e chi lo perseguita.
Da taluni mi fu detto che, denunziando la teoria del pugnale, voi accennavate obliquamente, senza nominarmi, a me e agli uomini affratellati con me in un pensiero d'azione. Non vi credo d'animo basso; e respingo il sospetto. Pur, come mai gli affetti dovuti a chi combatte da oltre 25 anni per la causa italiana non vi suggerirono che altri potrebbe interpretare le vostre parole a quel modo? Come non ricordaste che i governi e i giornali dei moderati piemontesi e lombardi, e il Times, depositario dei vostri pensieri, tentarono a gara di diffondere contro me la codarda accusa, dopo il 6 febbraio 1853? Come non vi venne in mente che, inalzandovi contro la teoria del pugnale, soccorrevate, scortesemente immemore, alle calunnie delle spie, dei creduli e dei nemici senza coscienza, che m'apposero sentenze di morte, tribunali segreti e tendenze a vendette illegali?
E non di meno, non è in nome mio—a me oggimai poco importa di ciò che l'opinione altrui, quando non mova da coloro che io amo e che m'amano, sentenziò a mio danno o a mio pro—ma in nome di tutto un partito, ch'io vi chiedo solennemente: quand'è che fu sancita in Italia la teorica del pugnale? chi la stese? chi l'appoggia coi fatti, o colla parola?
Se per teorica del pugnale intendete il linguaggio di chi grida a una gente schiava, senza patria, senza bandiera che ne ombreggi la culla e la sepoltura: «Sorgete: morite o spegnete: voi non siete uomini, ma arnesi adoprati a beneplacito dello straniero; non siete popolo, ma razza diseredata di servi sprezzati quanto più guaîte; non siete Italiani, ma Israeliti, Paria, Iloti d'Europa; non avete nome, non battesimo di nazione, ma siete numero, vi rappresenta una cifra, e Francesco I descriveva con essa sfrontatamente le migliori anime nostre gementi, tormentate, schiacciate nelle segrete di Spielberg; primo, unico vostro debito è farvi uomini, cittadini; ogni educazione comincia da quello; nessun progresso può iniziarsi se non da chi è: sorgete dunque e siate; sorgete tremendi a quanti v'attraversano, in nome della forza brutale, le vie che la Provvidenza v'insegna: sorgete sublimemente feroci. Se i vostri oppressori vi hanno disarmato, create l'armi a combatterli: vi siano istrumenti di guerra i ferri delle vostre croci, i chiodi delle vostre officine, i ciottoli delle vostre vie, i pugnali che la lima può darvi. Conquistate colle insidie, colle sorprese, l'armi colle quali lo straniero vi toglie onore, sostanze, libertà, diritto e vita. Dalla daga dei Vespri, al sasso di Balilla, al coltello di Palafox, benedetta sia nelle vostre mani ogni cosa che può distruggere il nemico ed emanciparvi.»—Quel linguaggio è il mio, e dovrebbe essere il vostro. L'arme che uccise Marinovich, nel vostro arsenale, iniziò l'insurrezione della quale accettaste la direzione in Venezia; e fu arme di guerra non regolare, come quella che trafisse in Roma, tre mesi prima della Repubblica, il ministro Rossi.
Ma se per teorica del pugnale intendete il linguaggio di chi dicesse ai nostri concittadini: «Perite, non iniziando l'insurrezione, ma pel solo intento di ferire, e perchè non volete, non potete insorgere: ferite nell'ombra: ferite isolatamente individui, la vita o la morte dei quali non è nè salute nè ostacolo alla Patria; sostituite la vendetta, che disonora, alla congiura che emancipa: fatevi tribunale, [123] prima di essere cittadini, prima di poter concedere alla vittima pentimento o discolpe:»—Chi tenne questo linguaggio? chi stese in Italia l'atroce teorica? È debito vostro il dirlo o ritrattare l'accusa.
Quel linguaggio fu susurrato segretamente una sola volta, nel 1849, da qualche tristo, a pochi traviati in Ancona: e noi, repubblicani, rispondemmo ponendo Ancona in istato d'assedio, e reprimendo con vigore, mentre appunto le fazioni fremevano più che mai concitate intorno a noi per l'invasione francese, quei fatti insensatamente feroci. La repubblica uscì da Roma pura di terrore e vendette, senza aver segnato, tra i pericoli dell'assedio, una sola condanna di morte.
D'allora in poi, ravvolta nuovamente l'Italia nella tenebra della servitù, pochi fatti isolati di ferimenti uscirono, risposta disperata a lunghe inaudite persecuzioni, dall'inspirazione individuale, da furore d'uomini ai quali le commissioni militari torturavano forse o fucilavano un padre o un fratello. E a voi era lecito biasimarli, deplorarli inutili, pericolosi, o indegni d'un partito che tende a creare un Popolo: non addossarli all'intero partito, e additarli all'Europa come applicazioni pratiche d'una teorica che non esiste. Errano tuttavia, tra' vivi, uomini usciti imbecilli dalle prigioni di Modena per infusione di belladonna ministrata nelle bevande a sconvolgere loro la mente e farsi accusatori d'amici: un Cervieri, popolano lombardo.—e cito un solo nome ad esempio—ebbe in Mantova venti colpi di bastone al giorno, per una settimana: sul danaro che i congiunti mandavano al colonnello Calvi, perch'ei prima di morire strangolato pagasse un suo debito a un prigioniero, gli Austriaci, rifiutando pagare il debito, ritennero le spese della fune e del boja: e se un figlio, un fratello di Cervieri, di Calvi o di quegli infelici, avesse, fatto furente, dato di piglio ad un'arme, e trafitto in piazza il primo tra i persecutori in cui si fosse abbattuto, direste voi frutto di teorica quella uccisione?
In questo—nell'insana, incessante, efferata persecuzione contro il pensiero, contro i menomi atti sospetti, contro le sostanze, contro la vita di quanti sono rei o creduti rei d'affetti al paese—nel bastone fatto legge di mezza Italia—nell'insolenza perenne di padroni stranieri—nell'irritazione febbrile generata dai precetti e da uno spionaggio sfrontato—negli odî educati dalle denunzie pagate—nelle prepotenze consumate sotto l'egida d'un governo aborrito come il papale, da tirannucci subalterni, noti a ogni individuo delle nostre non vaste città—nell'assenza d'ogni educazione popolare—nel disprezzo forzato d'ogni instituzione esistente—nell'impossibilità di trovar giustizia contro i sorprusi degli oppressori—nello spregio della vita, conseguenza inevitabile d'ogni incertezza del domani—in una condizione di cose, che non poggia se non sull'arbitrio del potente—nella colpevole indifferenza dell'Europa governativa a un pensiero di Patria comune, ad una immensa aspirazione nudrita e inesorabilmente repressa da mezzo secolo—vive la teorica del pugnale.
Il partito, collettivamente, ha respinto sempre e respinge la tentazione tremenda che i nostri padroni ci porgono: se pochi individui, organi di non altro che della propria inspirazione, soccombono, è fatto e conseguenza delle cagioni che accenno, e che non cesserà se non col cessare di quelle. Bisognava dirlo. Bisognava ricordare all'Europa come, sopra ogni punto d'Italia, il nostro popolo fu sublime—ogni qual volta ebbe un lampo di viver libero—di perdono e di oblio. Bisognava ricordarle, ciò che pur jeri un ministro inglese dichiarava, contradicendosi, a proposito di Roma, davanti ai [124] Comuni[111] che le nostre città non furono mai sì bene governate e così pure di delitti e violenze, come quando una bandiera di Patria sventolò sulle loro torri. Bisognava ritessere il quadro delle nostre misere condizioni, e gridare: il governo austriaco, che s'ostina, contro il voto unanime della popolazione, a conservare ciò che non è suo; il governo di Francia, che tolse a Roma ogni via di miglioramento; il protestante governo inglese che dichiarò nei suoi dispacci di volere il ritorno del papa; i governi tutti d'Europa, che vietano all'Italia di essere nazione stanno mallevadori davanti agli uomini e a Dio pei pugnali che lampeggiano, tra l'ombra, sulle nostre terre. Essi cospirano tutti a contrastare il nostro libero sviluppo, a mantenere sul nostro suolo una grande Ingiustizia: incolpino sè stessi s'esce talora, di mezzo a una gente schiava, ineducata, abbandonata da tutti, una protesta anormale, violenta.
Era questa, parmi, la parte vostra. Gridare ad uomini che agonizzano ingiustamente sotto il coltello del boja: «non usate il coltello che vi vien tra le mani» è tutt'uno col gridare a chi muore in una atmosfera appestata: corra regolare il sangue nelle vostre vene; guarite: è lo stesso errore che quello dei valentuomini i quali aspettano per iniziare l'instituzione repubblicana, che i nati e educati sotto il dispotismo monarchico, abbiano virtù di repubblicani.
La teorica del pugnale non ha mai esistito in Italia; il fatto del pugnale sparirà quando l'Italia avrà vita propria, diritti riconosciuti e giustizia.
Oggi io non approvo, deploro, ma non mi dà il core di maledire. Quando un uomo, Vandoni, accerchia d'artificî in Milano il suo vecchio amico, per far ch'egli accetti da lui un biglietto dell'Imprestito Nazionale, poi corre a denunciarlo alla polizia dello straniero—se un popolano si leva il dì dopo e trafigge il Giuda a mezzo il giorno sulla pubblica via—io non mi sento coraggio di gettar la pietra a quel popolano, che s'assume di rappresentare la giustizia sociale aborrita alla tirannide.
Io aborro anche da una sola goccia di sangue, quando non richiesta imperiosamente pel trionfo e per la consecrazione d'un santo principio. Credo colpa la pena di morte applicata dalla Società che può difendersi, e vagheggio, primo decreto della repubblica trionfante l'abolizione del patibolo. Gemo sulle vendette individuali, anche se contro gl'iniqui, anche se manchi, ove si compiono, ogni rappresentanza di giustizia legale. Ricusai, affrontando la taccia di debole, di apporre in Roma la mia firma a una condanna nel capo pronunziata da un tribunale di guerra contro un soldato colpevole. Non temo dunque dagli onesti, interpretazione sinistra alle mie parole, se aggiungo che sono, nella vita e nella storia delle nazioni, momenti eccezionali ai quali il giudicio normale umano non può adattarsi, e che non ammettono inspirazioni fuorchè dalla coscienza e da Dio.
Santa è nelle mani di Giuditta la spada che troncò la vita ad Oloferne; santo il pugnale che Armodio incoronava di rose; santo il pugnale di Bruto; santo lo stile del siciliano che iniziò i vespri; santo il dardo di Tell. Quando, dove ogni giustizia è morta e un tiranno nega e cancella col terrore la coscienza d'una nazione e Dio che la volle libera, un uomo, puro d'odio e d'ogni bassa passione e [125] per sola religione di Patria e dell'eterno diritto incarnato in lui, si leva di faccia al tiranno e gli grida: tu tormenti i milioni dei miei fratelli: tu contendi loro ciò che Dio decretava per essi: tu spegni i corpi e corrompi le anime: per te la mia patria agonizza ogni giorno, in te fa capo tutto un edifizio di servitù, di disonore e di colpe: io rovescio quell'edifizio, spegnendoti—io riconosco, in quella manifestazione di tremenda eguaglianza tra il padrone dei milioni e un solo individuo, il dito di Dio. I più sentono in core come io sento: io lo dico.
Io dunque non gitterei, come voi, Manin, l'anatema su quei feritori: non direi loro, con ingiustizia patente: siete codardi; non direi al Partito, che non incuora quei fatti: fallirete allo scopo se non fate che cessino—ma direi: «perchè ferite, o miseri? che sperate? se mai l'uomo ha diritto sulla vita dell'uomo, io so che la spia, il traditore, l'italiano, che accetta, per danaro, dall'oppressore straniero la infame missione di torturare o consegnare al patibolo i suoi fratelli intolleranti della servitù della Patria, son tristi e degni di morte; ma importa spegnerli? e potete spegnerli tutti? E potete esser giudici voi soli di ciò che s'agiti nella coscienza delle vostre vittime? Sapete voi se non saranno pentiti e migliori domani? e a ogni modo, volete esser tristi come essi sono? A vincere, noi dobbiamo esser migliori; a meritar la vittoria, noi dobbiamo cancellare dal nostro core ira, ferocia, vendetta. Noi siamo gli apostoli della Patria futura: vogliamo fondar la Nazione. In quella sacra idea, e nel dovere di far che trionfi, sta la sorgente dei nostri diritti. Or potete fondar la Nazione, conquistar la Patria a quel modo?
«A voi è mestieri di spegnere, non pochi satelliti dei vostri tiranni, ma la tirannide. E finchè vivrà—finchè avrete corruttori in seggio, bajonette straniere e patiboli, avrete corrotti, schiavi traditori per codardia, e tormentatori e carnefici; e ripulluleranno pur sempre, perchè il vostro pugnale lampeggia raro ed incerto e la bajonetta degli oppressori splende sugli occhî loro continua, inesorabile, onnipotente. Concentrate adunque la vostra energia in un pensiero d'insurrezione collettiva, che liberi a un tratto il vostro suolo dalle cagioni che creano i vili ed i tristi. Volgete, intesi fra voi, contro gl'invasori stranieri quei ferri, che oggi adoprate, assumendovi una tremenda missione di giudici, senza esame e senza difesa, contro uomini, che non sono se non arnesi della tirannide che vi sta sopra. Liberi, non avrete da temere o da punire traditori o giudici iniqui. Il diritto di conquistarvi una Patria è diritto che Dio vi dà: quello che vi date da per voi contro gl'individui, agenti ciechi del dispotismo, si libra tra la giustizia e il delitto.»
Se non che, a me, quegli uomini concederebbero il diritto di tener loro questo linguaggio, però che io grido insorgete e addito la via unica, semplice, razionale, e m'adopro, per quanto io so, perchè possano insorgere, e accetto e invoco la cooperazione fraterna di tutti, e chiamo gl'Italiani ad unirsi tutti in opre concordi ed attive intorno a un programma che nessuno, senza intolleranza o tradimento alla Patria comune, può rifiutare: La nazione salvi la nazione: La nazione decida, libera ed una, dei suoi destini. Ma voi?
Ponetevi la mano sul core, e rispondetemi: se un di quegli uomini sui quali voi chiamate l'anatema, sorgesse a dirvi: «Voi ci avete, Daniele Manin, predicato, con altri, l'odio alla dominazione straniera, l'idea nazionale, l'aborrimento agl'Italiani che rinnegano la nostra fede. Voi, con altri, avete messo nell'anima nostra la febbre [126] di Patria. Perchè, cogli altri, non ci guidate alla conquista di quell'ideale? Perchè ci lasciate soli? Perchè, invece di volgervi a noi, fratelli vostri, vi volgete alla diplomazia, alle corti straniere, a una monarchia che non vuole e non può salvarci? Noi siamo milioni; v'abbiamo, nel 1848 e nel 1849, provato che siamo capaci di emancipare il nostro terreno: siamo oggi più forti d'allora, e ve lo provano i fatti stessi che biasimate: perchè non ci ajutate nell'opera del riscatto comune che di certo preferiremmo? perchè voi cogli altri, che salutammo, e siam pronti a salutare oggi ancora nostri capi, non v'unite a chi lavora per noi? Voi non amate i nostri pugnali, perchè non ci date fucili? Voi lo potete: voi e dieci altri nomi cari a tutti, unendovi a dire, palesemente, arditamente: è giunta l'ora! unendovi a chiedere ai facoltosi una parte del loro oro per noi che poniamo il nostro sangue sulla bilancia, riescireste, convincereste, indurreste a sacrificî quei che oggi, nell'anarchia del partito, tentennano irresoluti. Perchè nol fate? Perchè ci trascinate d'illusione in illusione, finchè scenda sull'anime nostre la disperazione? volete che i potenti d'Europa scendano a scannarsi per noi? volete che l'emancipazione d'Italia si compia con forze straniere? No; venite apertamente, francamente con noi. Aggiungete la vostra mente alle nostre braccia. Allora soltanto avrete diritto di consigliarci.»—Che potreste voi rispondere a linguaggio siffatto?
Londra 8 giugno.
Io non vi rimprovero i subiti amori per casa Savoja. Se a voi, fautore di repubblica jeri, piace il giogo d'un re, sia: meglio è dirlo che tacerlo. Se alle nobili tradizioni, repubblicane tutte, del nostro popolo, voi anteponete le tradizioni d'una famiglia, la cui storia si libra perennemente fra le invasioni di due potenze straniere—se alla libera, logica ed una espressione della coscienza nazionale parvi preferibile il complesso, artificiale viluppo, che chiamano monarchia costituzionale, un popolo imperfettamente rappresentato, una aristocrazia creata—dacchè aristocrazia propriamente detta non esiste in Italia—a incepparne sistematicamente la volontà, un sovrano che non governa, ma oscilla fatalmente fra i due—giudichi il paese il vigore del vostro intelletto: voi avete il diritto di predicare il concetto politico inglese, che volete trapiantare in Italia. Io non parteggio per casa alcuna: la mia casa è il Paese: il mio amore è riposto nella Patria comune; la mia fede vive negli sforzi, nel sangue, nella suprema energia del suo Popolo; la mia nozione del dritto posa sulla vita progressiva della nazione guidata dai migliori per senno e virtù; ma non m'irrito se altri dissente, e non credo che la discussione nuoccia alla mia fede repubblicana. Veglia, arbitro su tutti noi, il Paese. Io fido in esso.
Ciò che io vi rimprovero è il modo e il tempo di quel programma; è il mutare in formula di agitazione politica, prima del moto, un concetto che non può essere se non la conclusione del moto stesso; è l'oblìo assoluto, fatale dell'altra, della prima metà del programma, l'insurrezione; è l'irritare, l'allontanare più sempre dal terreno comune, indicato ripetutamente da noi, la parte repubblicana, comandandole dittatoriamente di gittare, ai piedi della frazione monarchica, la propria bandiera; è il sedurre a speranze addormentatrici in disegni [127] segreti del governo piemontese, la gioventù fremente delle nostre terre, quando non esiste disegno alcuno, se non quello d'accattarsi popolarità e prepararsi le vie per padroneggiare e sviare un moto nazionale possibile; è il dire: la rivoluzione è vicina, come se l'Italia dovesse riceverla compiuta da un motu-proprio di gabinetto, invece di dire: fate la rivoluzione e siate; è il gridare: Roma non mova, invece di gridare: mova ogni angolo del paese; è il dichiarare che l'unificazione nazionale ha progredito d'un passo, perchè un ministro di casa Savoja ha tentato insegnare ai nostri padroni come s'eviti l'insurrezione unificatrice; è il travolgere—concedetemi l'acerba, ma giusta parola—nel ridicolo voi stesso, e, se poteste, il Partito, proclamando dall'esilio, e prima che un sol uomo sia desto a combatter tra noi, unificatore d'Italia un re, che non tenta, nè vuole, nè può unificare, i cui cortigiani rifiutano le vostre parole, e i cui ministri perseguitano, imprigionano e trasportano in America quei che si adoprano a mover guerra allo straniero, dismembratore della nostra Patria.
A chi giova la prematura, incauta proclamazione?
Al monarca che oggi servite?
No. La corona d'un popolo che sorge non s'ha in dono; si vince. Volerla, prima di meritarla, è perderla. Se Carlo Alberto, invece d'attendarsi nel quadrilatero, correva, per impedire i rinforzi, ai monti; se, invece d'arrestarsi davanti ai pali della confederazione Germanica accampava in Tirolo; se invece di volere che Venezia, la vostra Venezia, Manin, scontasse la colpa della sua bandiera repubblicana, ei s'affrettava a difenderla e a cingere i passi delle Alpi Friulane e Cadoriche; s'ei non patteggiava col governo inglese la inviolabilità di Trieste; se, invece di rifiutare gli ajuti d'un popolo prode e voglioso, invece di sciogliere i volontarî, ei chiamava la libera guerra dei cittadini a fiancheggiare la battaglia dell'armi regolari; s'ei voleva, insomma o sapeva vincere, nessun partito valeva a contendergli la corona d'Italia.
La malaugurata fusione, affrettata appunto quando l'impresa volgeva in peggio, perdè lui e il paese ad un tempo. Dite al vostro re d'assalire e di vincere; quella è l'unica via per la quale ei possa sperare di cingersi la corona che voi gli decretate, mentr'egli, in virtù dei trattati, siede allato degli stranieri, occupatori di due terzi d'Italia.
O giova al paese?
Il paese, Manin, vive anch'oggi inerte, immemore dei suoi doveri, tra il capestro e il bastone. Bisogna insegnargli la fede in sè, colla fede in esso, l'unità dei voleri, colla concordia degli uomini, ch'egli a torto o a ragione saluta suoi capi, l'energia delle decisioni, colla insistenza d'una parola vera, ardita, immutabile. Bisogna additargli uno scopo determinato, i mezzi logici che ad esso conducono, i doveri che deve compire a raggiungerlo. Bisogna rapirgli inesorabilmente tutte le illusioni che lo disviano, poi rialzarlo colla conoscenza delle forze onnipotenti ch'esso possiede e dimentica. Bisogna, sopra ogni cosa, dargli coscienza di sè, della propria dignità, del diritto eterno che vive in esso, della tradizione de' suoi padri, dell'alta missione alla quale è chiamato nell'avvenire. Voi gli dite: Agita le tue catene, e scegliti un re.
A fronte di quei che gli dicono: Rompi le tue catene e sii re di te stesso, voi gli fate intravedere, nel nome di Vittorio Emanuele, un'arcana potenza che deve emanciparlo ed unificarlo; gl'insegnate, con un consiglio codardo, a disperare di vincere la gente straniera che occupa la sua Roma; lo dichiarate, da un lato, colla negazione del [128] dogma repubblicano, incapace di guidarsi da sè; dall'altro, avviato già pienamente, mercè le cure del re piemontese e dei gabinetti stranieri, alla meta. Così, o Manin, non si destano: s'addormentano i popoli. L'Italia aspettava ben altro linguaggio da voi.
È tempo di dire all'Italia, e senza riguardi, la verità. Gli uomini i quali sagrificano, e ripetutamente, le loro convinzioni a un calcolo d'opportunità momentanea—gli uomini che, a sciogliere il problema italiano, guardano all'estero e non nelle viscere del paese—gli uomini che, dopo aver maledetto alle delusioni del 1848, chiamano l'Italia a rifar quella via di vergogna e sciagura—gli uomini che, dopo aver veduto il popolo vincere su dieci punti d'Italia, e l'esercito regolare, mal guidato e tradito, soccombere, insegnano al popolo che non può vincere, se non mercè quell'esercito—gli uomini che credono l'opera di alcune dichiarazioni sospette e d'alcune adulazioni mentite, bastevole a conquistare ad un tempo esercito e governo che lo dirige—gli uomini che susurrano possibile, prezzo d'apostasia, l'iniziativa della monarchia piemontese—gli uomini che, dopo tanto millantar di vulcani e ruine presso ad esplodere, non gridano unanimi al paese: vergognati e sorgi—tradiscono, consci o inconsci, per difetto di core o di senno, la causa della Nazione. Qualunque sia il nome che portano, la nazione deve rifiutarne i consigli.
Quell'esercito, pel quale voi siete presti a dimenticar la Nazione intera, lo avremo: è esercito italiano, prode, memore, e sente con noi l'aborrimento dello straniero; ma non lo avremo, fuorchè levandoci e invocandone, armati, l'armi. Quel re, al quale in oggi piaggiate, come piaggiaste, per poi maledirlo, al padre di lui, lo avrete—e piaccia a Dio che non abbiate a pentirvene—purchè vogliate: è giovine, coraggioso; l'onta di Novara e l'insulto austriaco devono da quando a quando balenargli sugli occhî, ed è possibile ch'egli un giorno, commosso a forti pensieri, cacci da sè i codardi uomini di gabinetto, che lo circondano, e si faccia, di piemontese, italiano; ma non prima che voi sorgiate, non prima che voi gli abbiate offerto, in azione, un più potente alleato che non è la diplomazia, non prima che il grido di un popolo sommosso gli abbia tuonato all'orecchio: scendi o inalzati con noi. I re seguono talora, non iniziano mai. Chi tenta indugiar la Nazione dietro al fantasma d'un'iniziativa monarchica, o inganna, o ha smarrito il senno.
Le tradizioni del governo piemontese son regie. La monarchia è vincolata, da vecchî e nuovi trattati, alle altre monarchie, e alle norme generali d'ordine e assetto territoriale europeo, prestabilite da lungo. Può il governo piemontese rompere a un tratto, non provocato, non costretto dalla prepotenza di fatti, spettanti ad un ordine nuovo, quei vincoli e quei trattati? Tutta la politica degli uomini del gabinetto sardo poggia sulla speranza di conquistarsi la simpatia e, occorrendo, l'appoggio dei gabinetti inglese e francese; può il gabinetto sardo provocarsi contro l'ira dei due alleati, i quali, col linguaggio officiale e segreto, gl'intimano una politica di resistenza, e non altro? Ogni idea di mutamenti territoriali fu solennemente, unanimemente respinta, nelle Conferenze di Parigi: il diritto italiano vivente, fremente nei Lombardo-Veneti, non ottenne dai plenipotenziarî sardi neanche una sommessa, indiretta allusione: riconoscendo la legalità dello statu-quo, essi s'accontentano d'accennare a una teorica possibile di non intervento, che vietasse all'Austria d'allargarsi oltre agli attuali confini[112]; [129] e pretendereste che re Vittorio Emanuele scendesse un giorno subitamente in campo, varcasse spontaneo il Ticino e la Magra, intimasse ai re delle varie parti d'Italia di scendere; intimasse, affrontando scomuniche e l'armi dell'Impero alleato, al Papa di rassegnare la potestà temporale, e, fatto incitatore d'insurrezione, sovvertitore dell'equilibrio territoriale e del diritto comune governativo europeo, cacciasse il guanto a tutta quanta la lega dei re? Voi, re, nol fareste. Io, re, scenderei dal trono, mi rifarei cittadino, e il dì dopo, libero d'ogni vincolo coll'Europa monarchica, griderei a soldati e a cittadini: seguitemi all'impresa. Sperate l'una o l'altra decisione da re Vittorio Emanuele?
Voi dunque, ai quali par fede che una nazione non possa farsi e vivere senza re, non potete avere il re che chiedete, se non aprendogli la via con una insurrezione di popolo. L'Insurrezione è, per voi come per noi, l'unica soluzione possibile del problema italiano. Per voi, come per noi, l'iniziativa dell'impresa spetta al nostro popolo: il monarca unificatore non può che seguire; l'esercito piemontese non può che rispondere alla chiamata de' suoi fratelli. Perchè dunque non vi unite con noi a procacciare, a promovere, a persuadere l'insurrezione? Perchè, invece di decretare, voi esule, a una terra schiava un re alleato in oggi degli alleati dell'Austria, non vi adoprate con noi a scuotere i giacenti, a rinfrancare gl'incerti, a raccogliere gli ajuti per chi vuol movere, a diffondere concordi la parola che suscita, a cominciar contro l'Austria quella guerra, che può sola presentare al re vostro opportunità di snudare la spada e rivelare all'aperto le generose intenzioni, susurrate oggi misteriosamente all'orecchio dei creduli, dai faccendieri di corte?
Invertendo l'ordine logico dei fatti, che devono e possono costituire lo sviluppo della nostra rigenerazione, voi, che pur vi dite pratici e positivi, nuocete al popolo, smembrando il Partito Nazionale che deve guidarlo, disertando l'unico terreno comune, sul quale tutte le forze potevano e possono tuttora raccogliersi; nuocete al re, facendolo apparire davanti all'Europa provocatore segreto d'agitazioni ostili ai governi; aizzandogli contro le ammonizioni e le minaccie di quegli stessi gabinetti che, disposti a salutare un fatto potente compiuto, desiderano pur non di meno impedire che sorga, costringendolo, quand'ei non abbia energia o ipocrisia sovrumana, a legarsi verso i governi europei con nuove promesse di pace, d'ordine, d'immobilità, se non forse di repressione. Siete a un tempo amici imprudenti, tiepidi e malsicuri patrioti.
Perchè dunque ostinarvi su quella via? Perchè, uomini che amano anch'essi sinceramente il paese, non si stringono in un accordo comune di pensieri e d'azioni onde persuadere all'Italia che il momento per levarsi è venuto, e ajutarla ad afferrarlo con celerità di mosse e imponenza di forze?
S'arretrano essi forse impauriti davanti all'esclusivismo repubblicano?
No: voi non proferirete quella parola, Manin; voi men ch'altri potreste proferirla senza arrossire. La storia dei tentativi fatti da me, perchè tutti ci unissimo sopra un terreno, che non è il mio, ad ajutare le tendenze generose d'un popolo, che è migliore di noi letterati, v'è nota. Ma, lasciando la banda gli sforzi inutili d'un individuo, il grido unanime dei repubblicani d'Italia, convalidato da fatti innegabili, sorgerebbe a smentire l'accusa.
La Nazione salvi la Nazione: la Nazione, libera ed una, decida dei suoi propri fati—è programma esclusivo? Può intendersi, senza [130] quella formola, l'esistenza d'un Partito Nazionale? Non possono, non devono, all'ombra di quella bandiera, abbracciarsi quanti cercano la Patria comune, a qualunque frazione appartengano? Non rimane l'avvenire aperto a ciascuno?
Noi, repubblicani oggi siccome jeri, non vogliamo imporre repubblica, e confessiamo arbitro supremo il paese: voi, repubblicani jeri, volete in oggi imporre la monarchia: chi è l'esclusivo tra noi?
Giugno 30.
In una vostra lettera, s'io non erro, del 28 maggio, voi decretavate Vittorio Emanuele re unificatore d'Italia.
Nella vostra del 26 giugno, voi professate d'insegnare, per mezzo della stampa inglese, agl'Italiani di Napoli, il modo d'ottenere che Ferdinando ridiventi monarca costituzionale delle Due Sicilie. Se migliaja, anzi milioni d'uomini, schiavi d'una tirannide illimitata, possano quetamente intendersi a praticare universalmente un rimedio più che difficile e rare volte tentato là dove vivono libertà e diritti custoditi da corpi deliberanti—se, dove potesse raggiungersi armonia di voleri siffattamente miracolosa, non valga meglio scendere in piazza ed emanciparsi a un tratto dall'esoso governo—è questione che gli uomini del regno sciorranno, se giunge ad essi il vostro consiglio. Io scrivo a chiedervi, a chiedere agli amici vostri, come si concilii la unità d'Italia sotto Vittorio Emanuele col ristabilimento d'una monarchia costituzionale in Napoli. L'Italia ha lungamente deplorato, Manin, il vostro silenzio; temo che voi dovrete deplorare tra non molto l'ora, in cui i suggerimenti di falsi o d'incauti amici v'indussero a romperlo.
Che cosa è che volete? In chi credete? qual via pratica di risurrezione additate voi all'Italia? Qual è il principio, il metodo che vi guida? Ogni uomo che s'arroga il diritto di consigliare un Popolo, ha debito di dirlo chiaro. Voi accarezzate il linguaggio reciso, laconico, dittatoriale, dell'uomo che si sente capo, e domanda d'esser seguito; non potreste avere aperto, logico, definito il pensiero? Volete l'unità d'Italia sotto un solo monarca, o volete sette principi che, di fronte a minaccie interne o straniere, giurino oggi e sgiurino domani costituzioni? Volete un'insurrezione nazionale che ci conquisti colla forza delle armi la Patria comune, o volete riforme locali, che ci diano una dose omeopatica di libertà, concessioni che ci addormentino, amnistie che ci disonorino? Quando chiedete al Popolo agitazione, intendete agitazione di petizioni, dimostrazioni pacifiche, come quelle che precedettero nel 1848 le cinque giornate, e che oggi sarebbero accolte dalla mitraglia, o le sommosse parziali, che annunziano e talora affrettano l'insurrezione? Quando dite che la rivoluzione è forse vicina, accennate a un levarsi di moltitudini o ad una mossa spontanea del monarca unificatore? Quando scongiurate che Roma non mova, insegnate codardia all'insurrezione o fidate in arcani disegni dell'uomo del 2 dicembre?
A voi, ai vostri, incombe rispondere; e nol farete. Nol farete, atteggiandovi a sprezzatori di richieste che chiamerete imprudenti, a diplomatici che non possono, senza grave danno, rivelare il loro segreto. Ma il vero è che non potete rispondere. Voi non avete segreto; non avete programma; non avete principio che vi guidi. Voi non vivete di vita italiana, ma d'inspirazioni straniere. Voi cercate l'Italia, [131] non nelle aspirazioni e nella potenza, provata pochi anni addietro, delle sue moltitudini, ma nei suggerimenti, nelle instigazioni di gabinetti, che ci hanno sempre traditi. Io ne conosco gli agenti, e potrei nominarli.
I governi europei tremano dell'Italia. Questa povera Italia, Cristo delle nazioni pei patimenti, ha pure fidata a sè dalla Provvidenza la parola della grande universale risurrezione; e lo sanno. Sanno che il giorno in cui, inspirata da un momento di fede suprema, essa oserà proferirla, la sepoltura, nella quale son posti a giacere i popoli, si aprirà in un subito a dar varco alla nuova vita. Sanno che noi teniamo in pugno la questione delle nazionalità, il nuovo assetto d'Europa. Sanno che un grido potente di redenzione non può sorgere da questa terra, che ha dato due volte la parola d'Unità alle razze europee, senza suscitare Ungheria, Polonia, Germania, Francia, Grecia, e Slavi meridionali. E quando, frutto dei casi europei, delle nuove delusioni, della rinfierita tirannide, ed opera del partito al quale io mi onoro d'appartenere, sorse il fermento confessato dai memorandum, dai discorsi ministeriali e dalla stampa europea, essi, i governi, s'affrettarono impauriti a cercare, poichè non potevano spegnerlo, il come sviarlo, e s'appigliarono al vecchio artificio del 1831 e del 1848, dividere in due correnti la piena che minaccia sommergerli, smembrare in due campi il campo della nazione, incitar gli uni, i più lenti, sì che, non movendo mai, accennino pur sempre di movere, frenar gli altri, i più fervidi, colle speranze di eventi prossimi e d'una unione generale di forze, che non verrà mai, se non da un audace fatto compiuto. A questo concetto, sorgente in oggi di quanto s'opra o si mormora nelle sfere governative, era necessaria una bandiera, un'autorità di nome italiano, noto e caro all'Italia, che impiantasse il dualismo nelle nostre file: e scelsero voi. Voi siete, inconscio, il Gioberti del 1856.
Tornate a noi, Manin; tornate al campo della nazione; tornate agli uomini che difendevano l'onore d'Italia in Roma, mentre voi lo difendevate in Venezia; tornate al Popolo, al Popolo che combatte e muore, al popolo che non tradisce, al Popolo delle cinque giornate, al Popolo dei grandi fatti di Sicilia, di Bologna, di Brescia, della città che v'ha dato vita. Siete in tempo. Lacerate tutte le vostre lettere, e serbate unicamente il se no, no della prima: un anno d'ambagi, di codarde dubbiezze, e d'inadempite speranze, ha ormai cancellato quel se. Vi rassegnaste a un'ultima prova; dichiaratela or consumata, e venite a noi. Dite agli Italiani: accoglietemi: io non ho più fede che in voi. V'accoglieranno plaudenti; e risponderanno, credete a me, all'accordo unanime degli uomini di tutte le frazioni, con fatti, che saranno ai bei fatti del 1848, ciò che l'incendio è alle annunziatrici scintille.
L'Italia versa oggi in uno di quei momenti supremi nei quali il Partito deve decidere tra il fare ed essere domani, o soggiacere a un decennio di schiavitù. Nella guerra delle nazioni oppresse, le circostanze geografico-politiche, in consenso noto degli animi dall'Alpi al mare, e l'opinione europea, hanno decretato che l'iniziativa spetta all'Italia: bisogna accettarla, o abdicare e aspettar salute dalla lentissima, incerta modificazione delle cose europee.
Da un lato, le insurrezioni antivedute, prenunziate inevitabili dall'opinione, sono appoggiate dall'opinione; la nostra proromperebbe come incarnazione, rappresentanza materiale d'una idea, d'un principio, che ha già ricevuto la cittadinanza europea. Le confessioni della diplomazia, l'attenzione rivolta da tutti i governi alle cose nostre [132] l'agitazione seminata dagli uomini della monarchia piemontese, le previsioni della stampa di tutti i paesi, l'ordinamento spontaneo, o provocato dagli uomini di parte nostra tra il popolo delle città tutte quante, dentro e fuori d'Italia, hanno a gara preparato il terreno a chi vorrà impossessarsene. Ogni fatto, splendido d'ardire e di volontà, compito in nome della Nazione e delle Nazioni, apparirà come segnale inaspettato, invocato dagli oppressi di tutti i paesi. Dieci bandiere di popoli risponderanno, sorgendo a guerra, a quel fatto.
Dall'altro, non giova dissimularlo, l'opinione delusa rovescierebbe su noi giudicio severo; il terreno conquistato dalle prove del 1848 e del 1849 sarebbe perduto. Il core dell'Europa batteva, concitato di speranza e di fede, per la Polonia molti anni dopo l'insurrezione del 1830; l'inerzia sistematicamente adottata, per calcoli d'opportunità menzognere, dagli uomini di quella nazione nel 1848 e negli anni che vennero dietro, ha spento quel palpito d'affetto; e l'opinione, ch'io so mal fondata, pure universalmente diffusa, che la Polonia sia morta, russa, impotente, fu una delle principali cagioni che trattennero il popolo inglese dal comandare al proprio governo di mutare le tendenze dell'ultima guerra. Lo stesso avverrebbe di noi, s'or tradissimo le speranze vive per ogni dove. Abbiamo tanto snudato le nostre piaghe all'Europa, abbiamo svelato con tanta insistenza la storia dei nostri dolori e a un tempo stesso del nostro fremito e delle nostre minaccie, che non dovremmo lagnarci fuorchè di noi, se l'Europa, stanca e vedendoci pur sempre fallire al momento opportuno, gittasse su noi la condanna: sono millantatori codardi; meritano pietà, non favore ed ajuto.
Bisogna fare, o scadere.
E fare e riescire si può, se—lasciate da banda le vie oblique, rinunziando, non a giovarsi della diplomazia, ma ad accettarne le inspirazioni, rassegnando alla nazione emancipata i programmi dell'avvenire, accettando, fin dove importa, la cooperazione d'ogni elemento, ma non sottomettendo la propria azione ad alcuno—gli uomini che amano il paese più che sè stessi, vogliano unirsi tutti ad azione incessante, ardita, virile, nelle norme seguenti:
Vogliamo una Patria, vogliamo la Nazione; vogliamo che una Italia sia. Possiamo accettare, a giovarcene, non chiedere, riforme o miglioramenti amministrativi e civili. Sappia l'Europa che venticinque milioni d'uomini, figli d'una terra che ha dato all'Europa incivilimento e unità morale, non chiedono elemosina di condizioni più miti, ma chiedono d'essere ammessi, Nazione, tra le Nazioni.
La libertà e l'unità d'Italia non possono conquistarsi che colle nostre forze, col nostro sangue, colla battaglia di tutti per tutti. I nostri più potenti alleati devono essere i popoli oppressi come noi siamo. Li avremo a seconda dell'energia che riveleremo sorgendo. I forti son certi di essere seguiti.
Qualunque sia l'intenzione, qualunque il disegno della monarchia piemontese, l'iniziativa del moto spetta necessariamente al popolo. L'insurrezione popolare può sola preparare freno e rimedio ai disegni, se tristi; sola porgere opportunità al loro sviluppo, se buoni.
Qualunque sia quindi l'opinione in proposito di ogni italiano che ami davvero l'Italia, egli deve rivolgere tutti i suoi sforzi a promovere l'iniziativa insurrezionale.
L'Italia è matura per sorgere e vincere, più assai che non era nel 1848, quando eravamo incerti del popolo, oggi deliberatamente nostro in tutte provincie, in tutte città. Non bisogna consecrarsi a lavori [133] già fatti. Non bisogna smarrir tempo e cure in vasti preordinati disegni, scoperti, traditi sempre, prima di tradursi in fatti: bisogna chiamare gli audaci all'azione aperta, coll'azione aperta:
Spirar fiducia negli irresoluti, provando ad essi col fatto, che sorgere, trascinarsi dietro le moltitudini e vincere, è cosa possibile; provare, come il filosofo antico, la possibilità del moto, movendo:
Diffondere per ogni dove il fermento, l'aspettazione, l'ansia del segnale; e concentrare il lavoro pratico, definito, sopra un punto dato d'onde abbia a sorgere quel segnale, è questo il segreto della vittoria per noi.
Ogni provincia, ogni città importante d'Italia può essere quel punto; ogni provincia, ogni città d'Italia deve lavorare ed essere quel punto. Ogni terra d'Italia ha in deposito il Diritto e il Dovere della Nazione; ogni terra d'Italia può assumersi l'iniziativa del moto, e formare l'antiguardo del grande esercito nazionale.
La prima che sorge deve sorgere in nome di tutte: tutte devono senza indugio seguirne il segnale:
Fuori gli stranieri; giù le tirannidi quali esse siano: la Nazione è una e sovrana; in essa sola vive eterno, incancellabile, il diritto di prescriver forma ai proprî destini: chi non accetta programma siffatto non appartiene al Partito Nazionale; è uomo di setta o di fazione; chi lo accetta, lo dica, lo diffonda a un nucleo d'uomini intorno a sè, raccolga sollecito danaro e materiale da guerra quanto più può, e comunichi direttamente, o attraverso il nucleo che gli è vicino, col centro della sua provincia o città.
Un Governo d'Insurrezione, uscito e approvato dall'insurrezione stessa, ne regga le parti. Quei che scendono in campo ad appoggiare il moto iniziato, siano accolti, quali essi siano, come alleati e fratelli, non come padroni.
Fatti e non parole; sagrifici e non frasi pompose di retori o discussioni interminabili su programmi; cartuccie e non libri; ogni cosa è concessa a un Popolo schiavo fuorchè il cader nel ridicolo; e noi, schiavi di stranieri, di papi, di preti, di re, di gendarmi, di tutti e di tutto, ciarlando sempre di sorgere, e non sorgendo mai, vi camminiamo a passi veloci.
Venite a noi, Manin; date il nome vostro a norme siffatte; la Nazione dimenticherà le vostre lettere, per non ricordar che Venezia. E se no, no. La Nazione, temo, dimenticherà che foste capo, grande talora, d'un Popolo di prodi, per ricordarsi soltanto dell'uomo, che, acclamato capo d'una Repubblica, sagrificava ripetutamente alla monarchia il principio giurato, vietava alla futura Capitale d'Italia di cacciar lo straniero, e decretava ad un tempo, il Borbone re costituzionale di Napoli, e Vittorio Emanuele monarca unificatore d'Italia.
2 luglio.
Giuseppe Mazzini.
Signore,
Io onoro il vostro passato; non intendo il vostro presente. Ammiro e ammirerò sempre in voi uno di quei nostri martiri che primi, mentre la patria dormiva e l'idea Nazionale era sogno di pochi, rappresentaste nobilmente allo Spielberg l'antica protesta del Diritto Italiano contro la forza brutale; ma mi geme l'animo in vedervi, or che la Patria si è desta, or che l'Idea Nazionale è fremito di tutto un popolo, trascinarvi miseramente dietro a un fantasma di forza, rinegare, pur balbettandone il nome, la coscienza della Nazione, e protestare, con una ostinazione che non ha scusa, il Dritto Italiano a' piedi d'un re tentennante che guarda altrove e di pochi ministri inetti, diseredati di ogni grande concetto, che si giovano di voi a logorare d'illusione in illusione la fede operosa di quei che vorrebbero far salva davvero l'Italia.
Ricordo gli anni nei quali noi, giovanotti allora, tendevamo, palpitanti di riverenza e d'amore, l'orecchio a ogni voce che movea dal luogo ove sorgevano le vostre prigioni, come s'essa dovesse recarci un messaggio di fede. Lo Spielberg era per noi il Golgota dell'Italia e voi eravate gli apostoli perseguitati, confessori d'una religione nazionale nascente, destinata a ritemprare una gente caduta in fondo per idolatria d'interessi, e risollevarla all'adorazione dei principî, del Vero eterno, del Dritto immortale. Ah! dovea tanta espansione d'affetti, tanto entusiasmo d'anime pure e fidenti, condurci a vedere il nostro Pellico morire della morte dell'anima prima che di quella del corpo, e a udir voi, Giorgio Pallavicino, gridare all'Italia l'atea parola: prostrati a un re, adora l'idolo dell'interesse dinastico, o rimanti schiava!
Io non so chi suoni quel noi frequente nelle vostre pagine del 15 ottobre[113]. Parlate, accettate, in nome degli uomini che si dicono di parte regia? È il vostro ultimatum una risposta collettiva alle nostre conciliatrici proposte? Sale dell'anonimo ex-prigioniero di Stato, al quale io accennava pochi dì innanzi, fino all'aule nelle quali, in nome d'Italia, si patteggia coll'impianto d'una dinastia straniera nel Sud? Veggo, in cima allo scritto vostro, le parole: Partito Nazionale Italiano. Quelle parole, usurpate a noi, come s'usurpa una parola d'ordine a cacciare scompiglio in un campo, e poste oggi in capo a scritti, che sembra abbiano assunto di travolgere nel ridicolo la causa italiana, furono usate nel senso regio, prima che da altri, da Daniele Manin. Assente egli al vostro dilemma? l'altero se no no, che suonava naturalmente: liberi con voi o senza voi, si tramuterebbe oggi dunque nella [135] formola servile: liberi per opera vostra o schiavi? Gioverebbe saperlo. Gioverebbe sapere se, mentre gli stranieri s'agitano per noi col grido l'Italia per gl'Italiani, gli uomini della Monarchia piemontese hanno core di presentare ai loro fratelli il programma: o nostri o dell'Austria. Se mai ciò fosse—se mai le imprudenti parole: noi respingiamo la bandiera neutra, giudicando la conciliazione impossibile, fossero le parole, non d'uno o di pochi individui, ma d'un intero Partito—quel Partito diventerebbe immediatamente setta, fazione. Chiunque ha core in Italia e senso di dignità si leverebbe per dirgli: «O non sorgeremo o sorgeremo per essere liberi e padroni di noi; possiamo donarci, non soggiacere a condizioni prescritte.» E a noi, uomini non di re ma della Nazione, non rimarrebbe che spiegare esclusivamente la vecchia nostra bandiera, e dirvi: Noi accettiamo l'arbitrio del paese, non quello d'una frazione: se respingete ogni conciliazione, se rovesciate l'altare della sovranità nazionale, noi ci riconcentreremo alla nostra fede individuale e grideremo Repubblica.
No; non è. Voi non siete interprete d'un partito. Le aspirazioni degli uomini di parte monarchica non vanno tant'oltre. Essi non si arretrerebbero di certo davanti a una violazione della libertà nazionale; taluno fra i vostri lo diceva, ingenuamente immorale, poc'anzi: «vinciamo; poi imporremo»[114]. Ma non osano. Il pensiero della unità nazionale è troppo grande per essi: sanno che la corona d'Italia schiaccerebbe le auguste fronti dei nostri principi. Gli illusi patrioti li tentarono tutti, ad uno ad uno, nell'ultimo mezzo secolo, respinti da tutti; il più tristo rispose alla proposta col patibolo di Ciro Menotti: il più debole, Carlo Alberto, colla diserzione al campo nemico. Non si crea una nazione se non da chi l'ama: bisogna venerarne il concetto, incarnarlo in sè, consecrargli la vita, fremere, vegliar le notti, affrontar l'insulto, patire, fare per esso: i re non amano; hanno talora un'ambizione volgare, un interesse—voi stesso lo dite—a guida; e non possono levarsi all'ideale della creazione d'un Popolo. Poveri d'intelletto, corrotti dai godimenti del presente, immiseriti dall'adulazione servile che li circonda, non hanno nè possono avere intuizione dell'avvenire. Legati da vincoli di trattati, di parentela, di tradizioni dinastiche, tra la minaccia della diplomazia collettiva e quella dei popoli, ai quali ogni passo salito rivela un nuovo orizzonte di verità fatale alla monarchia, tremanti dell'una e degli altri, essi non porranno mai a rischio la loro piccola corona dell'oggi per la speranza di conquistarne una maggiore domani. E gli uomini di parte monarchica conoscono i loro padroni, nè s'attentano, nei loro disegni, di là dai confini voluti. Quei disegni non hanno varcato mai, non varcano in oggi, una timida, lontana, incerta speranza di un limitato ingrandimento territoriale, e non da conquistarsi coll'audace iniziativa dell'armi, ma da procacciarsi, quando noi popolo sorgessimo, dalle potenze occidentali, in ricompensa di pericoli più gravi rimossi, e patteggiando con Murat, coll'uomo del 2 dicembre, con qualunque possa ajutarli all'intento.
La parola Unità è bandita, nei conciliaboli, come sovvertitrice dell'ordine europeo, derisa come utopia ineseguibile d'uomini insani e pericolosi. Lo avversarla è patto giurato di gabinetto, e prezzo d'una promessa di protezione straniera all'inviolabilità dei dominî attuali. Il grido che voi proponete apparirebbe suggerimento, provocazione [136] piemontese ai gabinetti proteggitori: essi minaccerebbero ritrarsi; però, i vostri, che non osano, nè sanno, nè possono combattere senza quell'ajuto, rifiutano l'intento, l'una Italia che voi proponete. Essi—da alcuni individui in fuori—parlano dell'Alta Italia, non d'altro. E quel regno sognato non abbraccia neppure tutto il Lombardo-Veneto: i loro progetti, se mai potessero verificarsi, sommano a sprecare onore, sostanze, vite italiane, per fondar quattro Italie, una francese, una austriaca, una papale, una sarda; e le quattro ne trascinano inevitabilmente una quinta, la siciliana, dacchè l'Inghilterra non consentirà mai la Sicilia a un prefetto di Francia. O voi ignorate queste intenzioni e siete cieco, passeggiate coi bambini nel limbo: o voi lo sapete—e allora, perchè illudete i vostri concittadini? perchè li persuadete a sperare in intenzioni che il governo liberatore non ha? perchè v'intitolate Partito Nazionale? perchè dite noi?
Voi non lo ignorate. Voi sapete che l'Idea dell'Unità Italiana, senza la quale la Patria è nome vuoto di senso, non entra nei disegni della monarchia piemontese. Voi volete—sono vostre parole—allettare, sforzare all'uopo il monarca. Possibile! È la causa d'Italia caduta così in fondo, che noi dobbiamo, non accogliere, ma mendicare un padrone? Che? far dipendere da un egoismo allettato la creazione di un Popolo? sforzare un re ad esser grande? voi lo sforzerete a tradirci. Il monarca allettato si ritrarrà davanti al primo ostacolo grave che lo minaccerà sulla via; e quando noi vorremo costringerlo a inoltrare, ci tradirà. Così fece Pio IX; così il re di Napoli; così, per colpa propria o di chicchessia, la monarchia piemontese nel 1848. Non ci costringete perdio, a rimescolar quella storia di vergogna e di sangue.
Se Dio potesse mai oggi mandare nel core d'un re il grande pensiero di farsi liberatore e unificatore della propria Nazione—se il POPOLO non fosse, per decreto di Provvidenza e logico sviluppo di sintesi storica, l'unico re possibile dell'avvenire—quel re porrebbe da un lato, disposto a perderla, la povera sua corona, e snudando la spada e cacciandola attraverso la rete di vecchî iniqui trattati, che gli contendono libertà d'opere, griderebbe ai milioni che lo circondano: ecco: io non sono monarca, ma primo soldato e primo cittadino d'Italia. Noi dobbiamo cancellare insieme un'onta di secoli, insieme conquistare il Diritto di reggerci liberi a unità di Nazione. Serratevi intorno a me, però ch'io mi sento deciso a vincere o cadere con voi. Quel re, vincendo, non avrebbe forse il misero vanto di fondar dinastia; pur di certo ei sarebbe, monarca, preside o dittatore, l'Eletto del Popolo. Ma un re sforzato? un re allettato dall'offerta d'una più ricca corona?
Da un re sforzato voi avreste, presto o tardi, il 15 maggio.
Da un re allettato avreste promesse splendide in sulle prime; poi, per forza di cose, titubanza, come di chi procede, non per impulso proprio, ma per altrui—scelta di capi avversi o ineguali all'impresa, comandati dalle tradizioni aristocratiche di ogni monarchia—limitazione dei disegni di guerra fin dove imporrebbero le monarchie sperate amiche o non nemiche—sospetto d'ogni elemento non interamente dipendente dall'inspirazione monarchica—rifiuto di tutti gli ajuti che tendono a dar, coll'azione, coscienza al popolo della propria forza e dei proprî diritti—prostrazione d'ogni entusiasmo nelle moltitudini, che sole assicurano vittoria ad ogni guerra nazionale—isolamento dell'elemento regolare, inferiore per cifra al nemico—indietreggiamento e tendenza ad accogliere patti disonorevoli e contrarî al primo programma—malcontento del popolo rieccitato—inganni a sopirlo—capitolazioni vergognose—e Novara.
È legge di cose, e voi non potete sfuggirla. Sforzando o allettando, voi preparate al paese la terza rovina, la seconda Novara.
Io vi predissi la prima; ed or vi predirei la seconda: ma non oserete. Voi siete, o monarchici, diseredati d'iniziativa. Nessuno agirà primo in Italia se noi non agiamo. E se, a Dio piacendo e all'Italia, operiamo, respingeremo la vostra esclusiva, tirannica, intollerante bandiera.
La respingeremo, perchè prefiggere anzi tratto un capo a una Insurrezione Nazionale, e darne le sorti al caso, è tutt'uno. I capi delle insurrezioni escono dalle insurrezioni medesime; e allora soltanto possono incarnarne in sè il concetto e l'audacia.
La respingeremo, perchè prefiggere a una Insurrezione Nazionale un re, è lo stesso che condannarla a tutte le tradizioni, necessità, esitazioni, transazioni, inerenti a una guerra regia, fatali inevitabilmente al successo. Dando la condotta d'una insurrezione al principio monarchico, voi affidate lo sviluppo d'una rivoluzione al principio dell'ordine stabilito: e quanto al re guidatore, voi lo ponete nel bivio o di segnare egli stesso gli ultimi fati della dinastia, o di tradire. Non è un solo tra voi che non abbia scritto o detto, l'avvenire dell'Italia libera essere la Repubblica.
La respingeremo, perchè da Vittorio Emanuele non abbiamo pegno alcuno di genio, di devozione all'Italia, di audacia pari all'impresa, di ferrea costanza e di preconcetto disegno. Sappiamo ch'egli trovò lo Statuto legge del regno, che lo accettò, e che non potrebbe, se anche ei volesse, ritorlo. Sappiamo che i ministri, nei quali ei fida, rifiutano, come utopia non verificabile, l'Unità dell'Italia, ne perseguitano i promotori, e accettano, taluni almeno, la vergognosa, funesta influenza imperiale di Francia, al mezzodì dell'Italia.
La respingeremo perchè tutti i municipalismi, che voi Pallavicino enumerate nel vostro scritto presti a confondersi nella grande libera espressione della Volontà Nazionale, riarderebbero, minacciosi, il giorno in cui volessimo cancellarli sotto il dominio imposto d'un re, domandato ad una o ad altra provincia.
La respingeremo, perchè siamo Repubblicani, e se accettiamo, più riverenti che voi non siete al paese, il voto della Nazione, quando anche avverso alle nostre credenze, non vogliamo soggiacere all'arbitrio d'una frazione impercettibile del Partito.
E la respingeremo, perchè è parola—non di codardi: avete provato che voi nol siete—ma codarda, il dire ad un popolo, che deve e vuole farsi libero: da un individuo pende la tua salute; devi acclamarlo o non insorgere. Un popolo, che accettasse questa formola salvatrice, non merita d'essere libero, e nol sarà.
A questo popolo, grande anche nella sventura—a questo popolo, che gl'istinti europei additano come depositario dei fati delle nazioni oppresse—è tempo, parmi, di tenere linguaggio diverso e più degno. Questo popolo balzò gigante dal fango d'un doppio servaggio, sei anni addietro, commosso da una parola di Nazione e di Libertà, che noi gli avevamo proferita, santificata dal sangue dei nostri martiri. Non chiese un re, ma una Patria; non mendicò, a patto di concessioni servili, promessa di battaglioni ordinati, ma disse a sè stesso: sono italiani e li avrò. Grande a un tratto per un senso di dovere comune, per un lampo di fede che avea solcato subitamente la tenebra in cui giacea, s'inebriò della vista d'una bandiera, sulla quale non era scudo di Savoja, nè altro, fuorchè l'iride dei bei tre colori, si levò a battaglia e vinse, e trascinò dietro a sè i battaglioni ordinati. Poi, prevalsero funesti consigli. Voci d'uomini, taluni tristi, altri [138] illusi, e inetti tutti, e incapaci d'intendere qual tesoro di forze si chiuda in un popolo e in un principio, gli susurrarono di re, di centomila soldati, di liberatori allettati o sforzati. E il moto diventò, di nazionale, dinastico; e all'impeto d'amore sovrumano, che avea convertito una gente schiava e divisa in un popolo di fratelli, sottentrò la diffidenza; poi la discordia e lo sconforto e l'isolamento e l'inganno e la rotta dei battaglioni ordinati; e la tenebra si raddensò sull'Italia: e il popolo ridiscese nella sua prigione ad espiarvi la colpa d'essersi lasciato sedurre ad abbandonare il principio, che gli aveva dato forza e virtù. Allora, i delusi profughi giuravano, giuravano a noi, ch'erano rinsaviti per sempre, che nessuna illusione, nessun sofisma li avrebbe mai più sviati d'un passo dalla bandiera della Nazione. Ora, immemori, incorreggibili, copisti meschini d'un passato che dovrebbe farli arrossire, ridicono al popolo, ridesto al fremito e conscio che l'espiazione è compita, gli errori, i sofismi e le codardie d'otto anni addietro. Io ricordo ogni linea di quella tristissima storia, e grido agli Italiani: «Badate! Guai se porgete orecchio a quei detti! Ricordate il 15 maggio; ricordate Milano; ricordate Novara. I consigli ch'oggi vi danno, sono gli stessi che v'hanno perduti pochi anni addietro; gli uomini che osano darveli sono gli stessi che vi travolsero allora. Non siate, per Dio, popolo di fanciulli! Quegli uomini vi parlano di battaglioni che non hanno, di cannoni che non s'allontaneranno d'un palmo dalle fortezze o dagli arsenali ove giaciono, di re collegati con chi rifiuta l'Unità della vostra terra. Di fantasma in fantasma, di sogno in sogno, servi ciechi e inconsapevoli di un inganno tessuto a frenarvi, essi vi trascinano fin dove comincia il disonore, ch'è la morte dei popoli. E se anche la monarchia, ch'essi presumono imporvi, potesse mai—e nol può—scendere sull'arena prima, essa si varrebbe del vostro moto per ottenere, colla minaccia di peggio, una zona del vostro terreno, e abbandonerebbe, voi tutti quanti non siete compresi in quella zona, alle vendette d'un nemico irritato. Essi vi dicono, come a gente spregevole che non può vivere senza padrone: gridatevi un re o non sorgete; io vi dico: sorgete liberi padroni di voi: darvi senza patti è parte di schiavi. Sorgete in nome dell'eterno Diritto: abbiate, incarnate in voi, la coscienza di quel Diritto: senza quella, non isperate d'essere liberi mai. Voi siete giganti di forza, purchè vogliate esserlo di volontà. Ma se volete essere Nazione—se volete dai popoli d'Europa che studiano i vostri moti, non pietà, ma onore e ajuto fraterno, v'è d'uopo rompere oggimai quel cerchio di menzogne, di piccoli calcoli, d'espedienti immorali o fallaci, che le piccole menti, i politici della giornata, e le scimmie di Machiavelli, v'hanno steso attorno; v'è d'uopo riconsacrarvi a dignità, a riverenza pei santi nomi d'Italia e di Roma, colla memoria della grandezza passata, colla fede nella grandezza avvenire; v'è d'uopo di purificare la Bandiera Nazionale di tutto questo fango d'anticamere e cancellerie, che gli adoratori degli idoli v'hanno cacciato sopra. Voi non dovete adorare altro Dio che Dio, e il Popolo sulla terra. Posate, finchè non v'è dato di sorgere come leoni. Sorgete, venuta l'ora, potenti e subiti come le nostre tempeste. Colpite siccome fulmine. Decisi, volenti, avrete dalla Nazione i battaglioni e i cannoni, che oggi mendichereste invano da un re.»
A voi, Giorgio Pallavicino, ed ai vostri, io dirò: se invece d'ostinarvi a fondare un Partito Nazionale senza la Nazione, e ad evangelizzare una guerra regia senza re e senza esercito, dacchè l'insurrezione sola può darveli, vi adopraste colla tacita opera concorde, colla parola, e [139] col sacrificio di parte dei vostri mezzi, a spianare le vie difficili alla Insurrezione—se, invece di gettare nel nostro campo una nuova semenza di discordia e di riazione coll'intolleranza, abbracciaste con noi la bandiera, non d'un governo locale, ma della Patria comune, e ve ne faceste apostolo instancabile tra i vostri amici—se voi, Manin, Cattaneo, Montanelli, Ulloa, Sirtori, Tommaseo, Garibaldi, e altri uomini cari pel passato all'Italia, firmaste con noi, pegno d'unità di voleri e di riverenza collettiva alla Sovranità del Popolo Italiano, una chiamata simile a questa che io ho scritto qui sopra—voi sareste di certo più giovevoli alla vostra Patria che non siete oggi, stampando foglietti in nome d'un Partito invisibile, che manda il Papa a Gerusalemme e commette la Dittatura a una ipotesi di liberatore. E noi potremmo salutare i vostri anni cadenti colla stessa amorevole riverenza, che avviava i nostri pensieri allo Spielberg, quando voi eravate protesta vivente, fra i ceppi, per l'Italia contro le tirannidi che l'opprimono, senz'altra fede che nel Dio di Giustizia e nella Nazione predestinata a risorgere. Io, se mi è dato di vedere il giorno di resurrezione, ricorderò al popolo quella protesta, perchè sperda fin la memoria degli errori nei quali, per una funesta illusione, vi lasciaste più dopo travolgere.
Ottobre, 25.
Giuseppe Mazzini
Un giorno in Roma, nel 1849, mentr'io era ancora semplice rappresentante del popolo e senza parte nella suprema direzione delle cose, saliva a vedermi un giovane ufficiale napoletano. Era Carlo Pisacane. Mi si presentava senza commendatizie; m'era ignoto di nome e, bench'io ricordassi di averlo alla sfuggita veduto un anno prima fra quel turbinìo d'esuli che la dedizione regia rovesciava da Milano e da tutti i punti di Lombardia sul Canton Ticino, io non sapeva nè gli studî teorici e pratici, nè la ferita di palla austriaca che lo aveva tenuto per trenta giorni inchiodato in un letto, nè i principî politici serbati inconcussi attraverso l'esilio e la povertà, nè altro di lui. Ma bastò un'ora di colloquio perchè l'anime nostre s'affratellassero, e perch'io indovinassi in lui il tipo di ciò che dovrebb'essere il militare italiano, l'uomo nel quale la scienza, raccolta con lunghi studî ed amore, non aveva addormentato, creando il pedante, la potenza di intuizione e il genio, sì raro a trovarsi, dell'insurrezione. Da quel giorno in poi fummo amici e concordi nell'opere a pro del Paese.
La fronte e gli occhî di Carlo Pisacane parlavano a prima giunta per lui; la fronte rivelava l'ingegno, gli occhî scintillavano di energia, temperata di dolcezza e d'affetto. Traspariva dalla espressione del volto, dai moti rapidi, non risentiti, dal gesto nè avventato nè incerto, dall'insieme della persona, l'indole franca, leale, secura. Il sorriso frequente, singolarmente sereno, tradiva una onesta coscienza di sè e l'animo consapevole di una fede da non violarsi nè in vita nè in morte.
Era la Fede Italiana: la fede nella Patria avvenire, nell'Unità repubblicana d'Italia e nel Popolo per fondarla.
Fede, io dico, e non opinione: l'opinione nazionale è oggi universale in Italia: la fede rara tuttavia, fuorchè tra i popolani delle nostre città, nei quali riposano le migliori speranze d'Italia. L'opinione commossa dalle ingiustizie e dalle pazze ferocie che tuttodì si commettono dai nostri padroni in Italia, dal desiderio di sicurezza personale e di più largo sviluppo all'industria e ai guadagni, dalle condizioni migliori in che versano le nazioni più libere, crede che una Italia dovrebbe essere; la fede—convinta che noi tutti siam posti quaggiù per compiere quando che sia un intento comune; che l'associazione di tutte le nostre facoltà e forze per raggiungerlo è nostro dovere; che il dito di Dio ha segnato nei caratteri geografici, nelle lingue, nelle tradizioni delle diverse terre, la distinzione dei gruppi nei quali deve partirsi l'associazione universale—sa che una Italia sarà. L'opinione, vagante nella sfera del pensiero e presta a salutare e seguir l'azione da dove che venga, non sente il bisogno d'iniziarla e, rifuggendo dai pericoli che l'accompagnano, fa velo all'intelletto e trasforma volentieri le difficoltà in impossibilità: la fede anela alla azione, martirio o vittoria: sa che bisogna educare il Popolo a fare, [141] e fare con esso. L'opinione diplomatizza, si prostra, sprezzando nel suo segreto, a qualunque potere le faccia sperare un milionesimo di libertà; insozzerebbe dello stemma turco la santa bandiera, se il sultano s'arrendesse a dire: innesterò sul mio dispotismo una frazioncella di miglioramento; la fede intende che non si rigenerano i Popoli con la menzogna; intende che le Nazioni non siano se non hanno coscienza del loro diritto, e chiama coll'esempio il Popolo a conquistarsi patria ed emancipazione col proprio sacrificio e col proprio sangue. L'opinione, piegando a seconda di tutti eventi, accoglie, come grado a salire, le costituzioni strappate ai principi nel 1821; rinnega la fratellanza Italiana coi Governi provvisorî del 1831; sostituisce alla bandiera nazionale la bandiera bianca dei moti di Rimini nel 1843; fantastica le tre, le quattro, le cinque Italie, coi Balbo, Azeglio, Durando; l'Italia del Nord con Gioberti, l'Italia Muratista, Papale, Piemontese con Cavour e gli eunuchi politici che gli fan codazzo:—la fede, logica, diritta, leale, non riconosce se non una Italia, una Sovranità, quella della Nazione, una guerra di tutti, in nome del diritto e dei principî che chiamano i Popoli ad esser padroni di sè, per procacciare vittoria e vita normale a tutti. L'opinione cede cogli anni, sfibrata dalle delusioni e dai patimenti inseparabili da ogni grande impresa; la fede si ritempra nei santi dolori, e splende, come il sole sulle nevi dell'Alpi, sulle fronti incanutite nell'apostolato e nei tentativi d'azione. L'opinione sta alla fede politica, come la filosofia alla religione. E religione, quali pur fossero le altre di lui credenze, era l'amor patrio di Pisacane: occupava in esso tutte le facoltà della vita, non illanguidiva per anni o per sventura, non s'addormentava nello sconforto, egoismo ammantato d'orgoglio, che oggi pur troppo sottrae tante anime, un dì generose, alla lotta. L'ultimo giorno in cui ci abbracciammo, gli lampeggiava sul volto quel sorriso di fede ignara del tempo, che mi strinse a lui nel primo nostro colloquio a Roma. Gli uomini dei quali io parlo tradiscono ne' stanchi lineamenti e ne' moti snervati il guasto che si è fatto, consumando il bollore del sangue giovanile nell'anima loro; li diresti reliquie galvanizzate di una vita spenta, fantasmi di un tempo che fu.
Erano giorni quelli nei quali gli affetti sgorgavano singolarmente rapidi e schietti fra i seguaci della bandiera. Non v'era menzogna tra noi; il vero sfavillava, sereno e limpido, dal simbolo che aveva sostituito Dio al papa, il Popolo all'aristocrazia di un clero incredulo, inetto, corrotto; e nella luce di quel vero l'anime buone si ravvisavano, imparavano a conoscersi ed amarsi più facilmente. Fra noi non era diplomazia. Quando il nome d'Italia suonava sulle nostre labbra, volea dire Italia davvero; non una Italia del Centro o del Nord. Quando dicevamo libertà, intendevamo libertà vera e per tutti, non una libertà di pochi, e salvi i diritti d'una dinastia e de' suoi faccendieri. Roma era convegno d'uomini viventi la vita piena, attiva, volente, che Dio ci assegnava creandoci, e che noi stessi dovevamo serbarci, non di liberti, di servi emancipati, che ne affidano la tutela ad un re e a un pugno di milizie assoldate da lui; tra i giorni sospettosi, dubbiosi, trepidi, di Milano dopo l'ingresso di Carlo Alberto e i giorni di Roma repubblicana, correva lo stesso divario che fra un'alba dei cieli sereni d'Italia e le fredde nebbie di Londra. Luciano Manara di monarchico si tramutava in repubblicano, e mi chiamava fratello; uomini imbevuti fino allora delle calunnie che ci chiamavano alleati dell'Austria, dopo un giorno trascorso in Roma, si ricredevano e venivano, accolti con amore, a dichiararcelo lietamente. Da poche vanità incorreggibili in fuori, vivevamo tutti nella patria e nell'avvenire, [142] non nei proprî meschini rancori, nelle povere ambizioncelle di un'ora, o nei gretti sistemi architettati nel gabinetto. Era vita collettiva d'un Popolo trasformato dal subito apparirgli del vero tradotto in fatti, e d'uomini scelti liberamente a capi, che avevano fiducia in quel Popolo.
C'intendemmo rapidamente con Pisacane, e mi occupai di metterlo in luogo dov'ei potesse rivelare le potenti facoltà che gli fremevano dentro, e giovare alla causa d'Italia.
Gli uomini che circostanze straordinarie e necessità imprevedute avevano chiamato al sommo delle cose, avevano potuto far poco per un avvenire imminente: forse la coscienza d'un diritto moralmente innegabile e la purezza delle intenzioni li allettavano a sperare che non verrebbero assaliti mai. Il dicastero di guerra era singolarmente negletto: non ordini, non armi, non allestimento di un esercito nazionale. Io, Pisacane ed alcuni altri sentivamo il turbine che si addensava tacitamente da lungi. Sapevamo che la bandiera repubblicana non poteva sventolare dal Campidoglio senza diventare più o meno rapidamente bandiera d'Italia: come potevano gli eterni nemici della libertà delle Nazioni lasciarla in pace? E d'altra parte, a che la libertà in Roma, se non significava libertà dell'Italia intera? Il turpe spettacolo d'una forte provincia italiana, libera e in armi per dieci anni, tra il gemito di venti milioni di fratelli e l'insulto dello straniero, e nondimeno inerte e inutile, anzi dannosa per lunghe inadempite speranze, all'Italia, era privilegio serbato ai monarchici di Piemonte; i repubblicani da Roma guardavano alle Alpi. D'offesa o difesa, a seconda dei casi, la guerra era dunque inevitabile a ogni modo per noi. Il 19 marzo 1849 io proponeva all'Assemblea Romana di costituire una Commissione di guerra, composta di cinque individui, che si occupasse, dando conto ogni dieci giorni dei suoi lavori, d'apprestare armi, armati, ordinamenti e studî guerreschi. Richiesto di consiglio quanto a quei che dovessero comporla, indicai fra gli altri Pisacane. Ed egli fu l'anima della Commissione e l'inspiratore de' suoi lavori. Se le di lui cure attive non avessero apprestato i materiali alla difesa, i generosi propositi di Roma sarebbero forse stati strozzati in sul nascere.
Il piccolo esercito romano era male ordinato: gli ufficî degli elementi diversi che lo componevano erano mal definiti; le paghe non erano eguali per tutti i corpi; non esisteva, se non di nome, stato-maggiore. E questo piccolo esercito era disseminato in piccoli distaccamenti attraverso lo Stato. Un lungo cordone, steso parallelamente alla frontiera napoletana, ne assorbiva la maggior parte. L'idea di proteggere uno Stato con una forza smembrata in piccoli nuclei posti a difesa d'ogni punto esposto ad assalto era militarmente falsa. Gli Stati si difendono non sul confine, bensì col concentramento delle forze ordinate sui punti strategici interni. Ma il sistema contrario era suggerito e appoggiato da tutte le paure locali: ogni paesetto della frontiera fantasticava difesa, purchè avesse un gomitolo di milizia regolare collocato sul proprio terreno: ed io solo ricordo la tempesta di opposizioni, lagnanze e deputazioni provinciali, che mi fu forza affrontare quand'io e i miei colleghi decretammo il riconcentramento di tutte le truppe sui due campi di Bologna e di Terni. Quel riconcentramento, avversato da presidi, deputati e cittadini delle terre poste lungo il confine, sostenuto con ostinazione pari al convincimento da Pisacane e da me, fu cagione che noi potessimo, al primo apparire dei Francesi, raccogliere in Roma le forze.
L'unità dell'esercito, l'abolizione in esso di ogni privilegio e disuguaglianza, [143] il miglioramento degli elementi direttivi, il concentramento su punti che gli assicurassero in un momento dato l'iniziativa, furono opera in gran parte di Pisacane. E quei che sentono quanto l'onore raccolto nel 1849 dalle armi italiane in Roma debba fruttare nell'avvenire all'unità della patria comune, gli serberanno lunga ed amorosa riconoscenza.
Ricordo le ore notturne che passavamo sulla carta d'Italia, parlando dell'ultimo fine che la Repubblica Romana doveva proporsi; della guerra della nazione; dei modi coi quali avremmo potuto iniziarla; dei disegni che avrebbero dovuto presiedere al vibrarsi dei primi colpi. Parevami che in lui il concetto della guerra insurrezionale vivesse limpido, logico, rapido più che in qualunque altro da me interrogato; e gli studî da lui pubblicati intorno alla malaugurata campagna del 1848 lo riveleranno a chi vorrà leggerli attentamente. Ma quando, ad esplorare l'animo suo, io gli chiedeva chi guiderebbe militarmente, ei m'additava, senza pensiero di sè, un suo commilitone, allora colonnello, nel quale infatti ebbi campo a riconoscere doti singolari, e concetto altamente strategico della guerra nazionale, oscurato in oggi miseramente da progetti colpevoli di monarchismo straniero. Pisacane aveva, come dissi più sopra, giusta coscienza di sè, non ombra di ambizione o di vanità.
Il 29 marzo 1849, dopo la rotta di Novara, fummo eletti triumviri, io, Saffi e Armellini. Ci affrettammo a porre in atto le principali tra le idee maturate coll'amico. Un decreto del 16 aprile dichiarava che l'esercito romano raggiungerebbe la cifra di 45 000 uomini ed 80 cannoni, più due batterie di montagna. Se ci fosse stato dato tempo sino al finire di maggio, Carlo Pisacane sarebbe forse caduto, ma col sorriso della vittoria sul volto, appiè dell'Alpi Lombarde, non a Padula per mano di fratelli, e senza conforto di vicina speranza per la patria giacente.
Gli eterni nemici della Nazionalità Italiana sentivano intanto il pericolo, e determinarono di prevenirlo. La morte della Repubblica Romana fu decretata nei conciliaboli di Gaeta. Importava che il principio repubblicano apparisse disonorato in Europa; e la Francia, allora repubblicana di nome, fu scelta a vibrare il primo colpo. La Francia accettò. Il 24 aprile fummo assaliti dalle armi francesi codardamente e sotto colore di proteggerci contro l'invasione austriaca, in Civitavecchia. La subita occupazione di Civitavecchia ci tolse 4000 fucili, che avevamo comprato a denaro dal Governo di Francia, un battaglione di bersaglieri, ingannato prima, poi disarmato, e tra sei mila soldati lombardi che s'apprestavano a ricongiungersi sotto le nostre aquile, e ai quali il naviglio francese vietava il mare. Nondimeno l'onore della Nazione, la necessità di provare con fatti che il Paese, fatto segno di sozze calunnie da tutta la diplomazia straniera, voleva davvero ed unanime le libere instituzioni proclamate in febbrajo, l'immensa forza che una splendida difesa in Roma doveva procacciare alla futura Unità Nazionale, comandavano resistenza ad ogni costo; e decidevamo resistere. Pisacane fu scelto a capo dello stato maggiore; nessuno de' suoi colleghi certo mi smentirà, s'io qui dico che, condannati pur troppo a pentirci di parecchie scelte suggerite da circostanze insuperabili o dalla poca conoscenza degli elementi individuali coi quali ci trovavamo per la prima volta a contatto, sceglieremmo oggi di nuovo l'aulico, s'ei vivesse, a quello o a più alto incarico, senza timore d'illuderci.
Per me egli non era solamente il capo dello stato maggiore, esecutore rapido e diligente delle intenzioni del generale in capo e [144] delle nostre; era l'ufficiale nato per la guerra d'insurrezione, dotato di quella potenza d'iniziativa che trova la vittoria dove il nemico, fidando nella scienza tradizionale, non prevede l'assalto, ed al quale io potevo affacciare i più arditi consigli, securo ch'ei non li avrebbe respinti unicamente perchè in apparenza contrarî alle così dette regole dell'arte bellica. E da lui solo ebbi approvazione ed appoggio—mentr'altri, in nome di quelle regole, protestava—in due di quelle determinazioni che sembrano gravi di pericoli agli ingegni timidi e pedanteschi, e trascinano, se non riescono, biasimo universale sulla testa di chi le prende. La prima fu quella di vuotar Roma d'ogni milizia per inviarle tutte contro l'esercito Napoletano accampato in Velletri e dintorni; la seconda, quella di convertire, verso la fine dell'assedio, la difesa regolare in una giornata campale.
I Francesi stavano, quando il nostro piccolo esercito mosse alla volta di Velletri, appiè delle mura. V'era armistizio, ma a tempo indeterminato; ed io sapeva che Oudinot era tale da romperlo e ordinare l'assalto, qualunque volta ei vedesse l'occasione propizia a impadronirsi di Roma. Togliendo a Roma ogni difesa di milizia regolare, io avventurava dunque i fati della città; e ricordo ancora i giusti terrori e i rimproveri di parecchî tra i membri dell'Assemblea, i quali, vedendo reggimento dopo reggimento avviarsi fuori della cinta, correvano sospettosi a chiedermi ragione degli ordini dati. Ma d'altro lato, i Napoletani erano giunti senza ostacolo ad Albano e Velletri, e minacciavano Roma; ed io sapeva che le istruzioni date al generale francese gli commettevano di vietare l'ingresso in Roma ad ogni altro straniero. L'assalire dei Napoletani trascinava quindi inevitabile la subita rottura dell'incerta tregua; e, stretta fra due nemici operanti ad un tratto, Roma era inevitabilmente perduta. Bisognava dunque scegliere tra un pericolo, al quale potevamo in ogni modo opporre una difesa di popolo, ed una certezza di rovina. Bisognava liberarsi per sempre dai Napoletani per poter poi concentrare tutte le forze a sostenere l'urto dell'altro nemico. E bisognava, ad accertare la rotta dei Napoletani, cacciar loro addosso quante forze avevamo: il dimezzarle non avrebbe raggiunto lo scopo, nè salvato Roma. Forte dell'approvazione di Pisacane, m'avventurai. E il disegno riescì; riusciva ben altrimenti se l'incauto ardire del corpo di battaglia, guidato dal generale Garibaldi, non mutava in un assalto a Velletri le istruzioni date, che erano quelle di raggiungere con una contromarcia Cisterna, e troncare le comunicazioni e la via della fuga al nemico.
Più dopo, quando i Francesi stavano per aprir la breccia, e le cose alloramai disperate di Francia e l'inerte silenzio di tutta Italia non lasciavano alcuna via di salute visibile, pensai si dovesse convertire l'assedio in una battaglia. La disfatta avrebbe senz'altro accelerato il cadere di Roma; ma una decisiva vittoria ci avrebbe ridato due mesi forse di vita; e ad ogni modo il fatto splendido per sè e audacissimo, in chi era ridotto agli estremi, avrebbe coronato Roma di nuovo lustro, prezioso, come dissi e sentivo profondamente, per l'avvenire davanti all'Italia. Apersi il mio pensiero a Pisacane ed ei lo accolse lodandolo, e lo tradusse in un disegno pratico che gli dava, s'altri non lo rimutava poco prima dell'esecuzione, tutte le possibili probabilità di trionfo. Il disegno fu descritto da Pisacane medesimo in una Relazione storica, ch'egli inserì, nel 1849, in un fascicolo dell'Italia del Popolo, pubblicato in Losanna; e lo ricopio, perchè rivela singolarmente, parmi, la tempra dell'ingegno militare di Pisacane.
«I monti delle Cave della Creta sono risentite ondulazioni di terreno, comprese fra la strada di Tiradiavoli, che parte da Porta San [145] Pancrazio, costeggia Villa Pamfili e, svolgendo verso destra, conduce al canale di Pio V, e l'altra che, movendo da Porta Cavalleggieri, rasenta le mura Vaticane, passa per la Madonna del Riposo, e curvandosi a sinistra, si unisce alla precedente.
«Queste due strade formano quasi un triangolo mistilineo, la cui base si estende lungo la cinta di Roma, compresa fra le due parti nominate; e su questa base è un terreno intricato da casette e giardini, facilissimo a difendersi palmo a palmo. Il rimanente del terreno, compreso nell'area del triangolo, è sgombro affatto, e vantaggioso a ogni truppa che marciasse all'assalto di Villa Pamfili.
«L'esercito Romano fu diviso in 5 brigate.
«La prima doveva uscire da Porta Cavalleggieri, prendere per punto di direzione il Canale di Pio V, e portarsi a ridosso di Villa Pamfili, cercando penetrarvi.
«Tre brigate l'avrebbero seguita a giusta distanza; ma, giunte alla svolta, propriamente all'altura dell'angolo di Villa Pamfili, dovevano far alto e porsi per massa in battaglia, parallelamente e di fronte alla strada dei Tiradiavoli, dalla quale erano separati dai monti della Creta; quindi, cominciando il movimento dalla diritta, marciare in iscaglioni per assalire la detta Villa, non dovendo percorrere che uno spazio di circa 1200 metri. L'artiglieria doveva prendere posizione sopra una delle più vantaggiose elevazioni; e la quinta brigata, marciando lungo la base del triangolo, avrebbe occupato tutte le casette e giardini sgombri affatto dal nemico, assicurando la sinistra della linea. Guadagnata Villa Pamfili, era girata la prima parallela, e per conseguenza tutti i lavori sarebbero stati presi da rovescio, e con tale manovra si poteva anche accollare al fiume il campo nemico.
«La marcia doveva principiare due ore prima del giorno... Tutto era pronto e non restava che spedire gli ordini.»
Del come l'operazione fosse strozzata in sul nascere, non importa qui favellare: chi vuole può rintracciarlo nel lavoro sopra citato, Fascicolo VI dell'Italia del Popolo.
Roma cadde; infamia eterna all'assalitore; ai Governi che, intitolandosi pure Italiani, non protestarono allora, nè protestano oggi, contro l'oltraggio straniero; e agli ipocriti per codardia, che inalzano un guaito di servi contro chi tenta frapporsi tra l'oppressore e gli oppressi, mentre taciono davanti all'assassinio, che ancor dura, d'un popolo. Roselli, generale in capo dell'armi repubblicane e uomo degno di tempi migliori, diede, protestando, la sua dimissione e quella di pressochè tutti gli ufficiali del piccolo esercito; Pisacane la diede con essi, e ripigliò le vie dell'esilio.
Ci ricongiungemmo a Losanna dove io lo vedeva ogni giorno, sereno, sorridente nella povertà, com'io l'aveva veduto in mezzo ai pericoli. Fondai allora l'Italia del Popolo, raccolta periodica di scritti politici; ed egli v'inserì uno scritto sulla Guerra Italiana; alcuni Pensieri, notevolissimi, sulla Scienza della guerra; una eccellente Relazione storica delle operazioni militari eseguite dalla Repubblica Romana; una serie di Osservazioni sulla Relazione scritta dal generale Bava della Campagna di Lombardia:—lavori che dovrebbero raccogliersi in un volume[115]. Poi, spronato dalla necessità d'una occupazione utile, impossibile nella Svizzera, partì per Londra, dove visse [146] otto mesi, ajutandosi di qualche lezione di lingua; quindi ripartì per l'Italia, dove io lo rividi nel 1857.
In questa sua vita errante, egli aveva un conforto. La maledizione del vae soli non si adempiva per lui. Unico raggio ai giorni di chi cerca patria e non l'ha, gli era compagno un amore nato fino dal 1830; infelice, pur costante per diciassette anni; ricambiato apertamente e con rara e lieta fedeltà dopo quel tempo e sino agli ultimi giorni. Dal 1847 in poi, la donna del suo core lo seguiva e gli accarezzava della suprema carezza l'incerta vita. È storia d'amore questa che rivelerebbe, s'io la raccontassi, come all'indomita energia, di ch'ei fece prova, s'accoppiassero in Pisacane una potenza singolare d'affetto e un sentire delicato, raro a trovarsi, e che onorerebbe ad un tempo l'anima sua. Ma non mi sento il diritto di sollevar quel velo che parmi debba quasi sempre lasciarsi sospeso tra i più e il santuario delle vita individuale. Dirò soltanto che quell'amore, mercè le nobili aspirazioni della donna, non infiacchì mai l'anima dell'amico, non si trovò mai a contrasto coll'adempimento de' suoi doveri, e gli accrebbe forza a lietamente compirli. Fu l'amore delle epoche di credenza, l'amore che ritempra l'animo a grandi cose, e tradizionale, più che altrove, in Italia, prima che noi ci facessimo, come nell'ultimo mezzo secolo, imitatori servili—salve le eccezioni—delle idee e delle foggie straniere.
Da Genova, dov'ei rimase per due anni celatamente, poi tollerato, ei mantenne corrispondenza con me; corrispondenza liberamente fraterna, come dovrebbe correre fra uomini che sentono la propria dignità, e onorano anzi tutto il Vero, ma intendono la suprema necessità d'unità del Partito, e non si allontanano, per dissidî o vanità individuali, dal terreno comune, conquistato coll'opera di tutti. E noi dissentivamo su parecchî punti; sulle idee religiose, ch'ei non guardava—errore comune ai più—se non attraverso le credenze consunte e perciò tiranniche e corrotte dell'oggi; sul così detto socialismo, che riducevasi a una mera questione di parole, dacchè i sistemi esclusivi, assurdi, immorali delle sètte francesi erano ad uno ad uno da lui respinti; e sulla vasta idea sociale, fatta oggimai inseparabile in tutte le menti d'Europa dal moto politico, io andava forse più in là di lui; sopra una o due cose delle minori, spettanti all'ordinamento della futura milizia; e talora sul modo d'intendere l'obbligo che abbiamo tutti di serbar fede al Vero[116].
Ma il differire di tempo in tempo sui modi d'antiveder l'avvenire, non ci toglieva d'esser intesi sulle condizioni presenti e sulla scelta dei rimedî. Pisacane sapeva che tra le sue opinioni e le mie sarebbe sempre giudice supremo l'arbitrio della Nazione, alla cui Sovranità io avrei sempre piegato riverente il capo: io sapeva che ogni qualvolta avessi potuto additargli una via di libertà o d'onore al Paese, l'avrei trovato pronto a cacciarvisi. Però duravamo amici, benchè talora [147] discordi. Se tutti sentissero a un modo come, sopra una terra oppressa e disonorata, davanti all'insulto perenne di chi ci nega Patria, libertà, dignità d'uomini e vita e bandiera ed ogni cosa ch'è santa e cara, il richiamarsi a piccole gare e lagnanze individuali, per giustificare l'isolamento e la inerzia, sia colpa a un tempo e meschinità, noi saremmo compatti come Legione, e concordemente operosi e potenti e liberi forse a quest'ora.
Pisacane credeva, com'io credo, nel dovere e nella potenza educatrice dell'Azione; credeva che dalle vittorie popolari del 1848-49 in poi non fosse più concesso, senza sofisma o innata viltà, ciarlare dei tempi immaturi, di popolo da educarsi. Quel popolo, ch'altri giudica senza curar di conoscerlo, ei lo aveva studiato e lo studiava dappresso, convivendo famigliarmente con esso e ajutandone l'ordinamento; e lo sapeva capace d'emancipare la propria terra, se guidato da capi che vogliano e sappiano. Credeva con me che una splendida vittoria basterebbe a risuscitarlo da un capo all'altro d'Italia; e non sentiva così bassamente della nostra terra da dichiararla diseredata d'iniziativa, e commetterne i fati a una vittoria straniera: vergogna senza nome, che alligna tuttavia in molto anime, e le accusa di servilità e di mentito o tiepido amore alla Patria. Pisacane non dimenticava che le insurrezioni d'Europa aveano, nel 1848, seguìto, non preceduto l'insurrezione della Sicilia; avea veduto i vecchî soldati Austriaci fuggire davanti ai giovani volontarî Lombardi, e le temute insegne francesi dar volta davanti ai militi improvvisati della Repubblica appiè delle mura di Roma. Ei raccoglieva insieme a me dall'attenzione di tutta Europa, or volta su noi, dai vincoli che inanellano tutte le cause nazionali, dai terrori, dalle cure gelose dei Governi risolutamente avversi, e dalle speranze ipocritamente date dai Governi codardamente ambiziosi, che qui, sul nostro terreno, premio del martirio generosamente affrontato per lunghi anni dai nostri migliori, sta oggimai la potenza iniziatrice delle battaglie nazionali. E ripeteva spesso a ogni modo con me che, o le nostre moltitudini non erano preparate alla lotta suprema, e bisognava educarle con forti fatti, o lo erano, e bisognava guidarle. A questo dilemma non abbiamo mai, nè egli nè io, trovato risposta chiara da quei che dissentono; ben egli ed io abbiamo incontrato sovente diserzioni mute e doloroso abbandono dove meno l'aspettavamo. Se non che vi sono uomini ai quali è impossibile tradire il proprio dovere perchè altri tradisce il suo: ed egli era tale. Però studiando, scrivendo, e vivendo con povertà lieta su qualche lezione di matematica, fissava l'occhio voglioso su qualunque angolo della Penisola rivelasse indizio di vita; tendeva intento l'orecchio, presto a seguirla, ad ogni chiamata.
E la chiamata venne da quella parte d'Italia dov'egli avea imparato a patire, a fare, ad amare: venne dalle insanie feroci di un Governo che un conservatore inglese definì una negazione di Dio; dalle torture dei migliori del Regno; dal cupo malcontento di tutti; da una serie di dimostrazioni, piccole in sè, pure indicanti una crescente tendenza al fare: dal tremendo appello d'Agesilao Milano; dal linguaggio dei moderati stessi, ai quali è da parecchî anni fatto famigliare il mal vezzo di bandire all'Europa il fremito del Paese per ottenere un brano di tiepida frase in un memorandum o in un discorso ministeriale, a patto di frammettersi con ogni sorta d'ostacoli agli audaci che s'affidano in quel fremito ed operano; venne dai nostri pure; or dirò in quali termini.
I nostri dissero: venite e faremo. Posero condizioni, alcune delle quali ci parvero inattendibili; altre esigevano mezzi ch'io sperava raccogliere [148] e non raccolsi. Ma, al di sopra di ogni particolare, stava avverato per noi che i nostri—forti d'ardire, d'attività, d'elementi mal collocati tra un Governo insospettito e potente e la genìa moderata, avversa a ogni moto e ad ogni generoso concetto—avevano bisogno d'una scintilla che suscitasse a fermento le vaste moltitudini; e ci richiedevano d'applicarla, indicando il come. Esaminata la proposta, Pisacane l'approvò, e me ne scrisse, sollecitandomi, s'io pure approvassi, a recarmi ov'esso era. Esaminai, approvai: parvemi che le numerose difficoltà potessero vincersi; e, traversando Parigi e Lione, mi affrettai a recarmi in Genova.
Nessuno s'aspetta ch'io dica i concerti presi, i provvedimenti, gli ostacoli superati. Il fatto ha provato, credo, che anche sotto gli occhî di un Governo ostile, volendo si può; e noi volevamo, e volevano davvero gli uomini che ci secondavano. E quanto ai modi tenuti, ai preparativi fatti, perchè una prima vittoria fosse veramente la scintilla che dà moto all'incendio, è debito assoluto il silenzio. Ben devo alcune parole all'energia singolare di Pisacane e alla condotta dei nostri in Napoli. Delle accuse gittate contro a chi tenta da chi non fa, dopo fallito un disegno, nè io devo occuparmi, nè Pisacane, s'ei vivesse, si occuperebbe. Ma le accuse gittate alla spensierata, da chi non sa, contro quei che non fecero, son poscia invocate dai nemici come prova che il Paese, rimasto inerte, non vuole o non può, e giova ribatterle e togliere ai raggiratori il pretesto di cui si valgono a infondere lo scetticismo negli animi.
La spedizione in Ponza doveva aver luogo il 10 giugno. Un incidente, di quelli che niuno può prevedere o combattere, s'attraversò e distrusse tutto il nostro lavoro lo stesso giorno in cui doveva tradursi in atto. Avevamo intanto, poche ore prima, certi com'eravamo di mantener la promessa, avvertito i nostri del Regno che il battello partiva. Mancavano i mezzi per sollecite spiegazioni, e, più assai della perdita del materiale ed altro, temevamo gli effetti morali della delusione e i pericoli che il subito attivo prepararsi a seguire poteva moltiplicare sugli amici di Napoli. Partiva a quella volta un legno a vapore la stessa sera, e Pisacane determinò di portare egli stesso ai nostri la spiegazione dell'indugio e d'accertarsi a un tempo della realtà degli elementi sui quali si fondavano le nostre speranze. In due ore ei decise; fece tutti i preparativi opportuni, abbracciò la donna del suo cuore, che si mostrò in tutto degna di lui, e partì. Era determinazione per lui più grave dell'altra; era l'esporsi a tortura e a morte solitaria, senza difesa, non coll'armi in pugno e lottando. E nondimeno, chi lo vide in quelle ore avrebbe detto ch'ei s'avviava a diporto. Era tanta in lui la religione del Dovere, che la coscienza di compirlo bastava a infiorargli la via.
Partì, giunse, rimase tre giorni in Napoli e tornò dov'io era. Tornò lieto, convinto, anelante azione, e come chi sente, toccando la propria terra, raddoppiarsi in petto la vita. Gli balenava in volto una fede presaga di vittoria. I nostri non lo avevano ingannato; non gli avevano celato le gravi difficoltà che si attraversavano alla riscossa; avevano ripetuto che un indugio le avrebbe spianate. Ma, al di là delle objezioni pratiche, egli aveva veduto gli animi risoluti e vogliosi, il terreno disposto, il fremito dei popolani; ei sentiva che uno splendido fatto, un trionfo, sarebbero stati più assai potenti, che non protratti e pericolosi preparativi; e mi scongiurò di rifar la tela pel 25, giorno di partenza del Cagliari. Fui convinto, e diedi opera ai preparativi. Il tempo era breve, breve di tanto ch'io disperava quasi di condurli a termine. Ma il fervore dei nostri compagni di lavoro [149] era tale che si riescì. Il 25 ei partiva. Genova doveva seguire, farsi padrona di sè e de' suoi materiali da guerra, consecrarsi ad afforzar l'impresa in Napoli, operare come riserva e chiamare coll'esempio alla crociata italiana il Nord e parte del Centro. Io rimasi a dirigere il moto. Genova, che nessuno oggimai può rapire alla causa della Nazione, avrebbe fatto e, al sorgere d'una generosa chiamata, checchè provveda il governo, farà.
Il tentativo riescì quale l'avevamo ideato. La nostra parte era fatta; perchè Napoli non fece la sua?
Io accennai altrove, e lo ridico oggi più esplicitamente, provocato dalle menzogne degli avversi a noi, e dalle ingiuste accuse gittate contro ai nostri da uomini buoni, ma precipitosi nei giudizî e incauti nel proferirli; se Napoli non rispose, è dovuto alla frazione così detta dei moderati.
Gli uomini che oggi s'adoprano a smembrare il nostro campo e impedire il moto, furono—prima del 1848, taluni anche dopo—cospiratori, su tutti i punti d'Italia, con noi. E questo aver cospirato con noi li addita tuttavia al Popolo come amatori caldi, attivi, volenti d'Italia, e rende impossibile una mossa imminente, senza che essi vengano a risaperlo. Il Popolo ricorda i loro lavori, gli imprigionamenti patiti, le persecuzioni governative; ignora il loro mutamento, e non sospetta la tattica perenne che essi adoperano in oggi.
E questa tattica, identica negli uomini del Governo Piemontese e nei moderati costituzionali delle altre parti d'Italia, ha invariabilmente tre stadî: promettere, agitare, illudere a sperare in cose giuste—dissuadere, ingigantire i pericoli e le triste conseguenze d'un moto inopportuno, e diffondere sfiduciamenti e paure, quando altri s'appresta a fare—affratellarsi, frammettersi apparentemente a chi fa, quando il fare sembra inevitabile, a strozzare in sul nascere o sviare lentamente il moto dalla via diritta. Tattica siffatta fu adoperata con successo dai moderati, dal 1848 in poi, dieci volte su dieci punti diversi; tanto che pare oggimai più idiota che credulo chi tuttavia s'abbandona a quelle arti. E tattica siffatta fu adoperata in Napoli, a tradire il concetto dei generosi.
All'annunzio della discesa su Sapri, fu deciso dai nostri d'agire in Napoli. Furono presi i concerti opportuni. Fu determinato il giorno. I capi-popolo aderivano tutti. Il momento era solenne; e, dimenticate tutte le gare, i nostri chiesero agli influenti fra i moderati cooperazione ad un fatto già iniziato da Pisacane e da' suoi compagni. Gli influenti fra i moderati non solamente risposero con un rifiuto alla generosa proposta, ma s'adoprarono a tutt'uomo a infiacchire, sviare, dividere i capi-popolo; e vi riuscirono; venne allora proposta una vasta manifestazione tra il pacifico e l'ostile, che suscitasse fermento nelle moltitudini. I moderati aderirono e s'assunsero l'ordinamento della dimostrazione; tradirono la promessa e non ne tentarono il compimento; poi, quando giunse l'infausta nuova della rotta di Padula, e indovinarono diffuso lo sconforto nei ranghi, si ritrassero subitamente. Più dopo s'avvilirono, protestando anonimi contro il fatto di chi moriva per tutti.
A queste mie affermazioni potrei dare appoggio di dichiarazioni scritte; ma or non giova; e potrei dir nomi; ma finchè vive la tirannide, non per essi, ma per la dignità dell'anime nostre, nol devo.
Io non ho dunque accusa pei nostri, per gli uomini veduti da Pisacane, se non quest'una, che in parte li onora: l'avere essi, uomini di pure, generose intenzioni, sperato soverchiamente nelle altrui. E lo dico, perchè alcune parole scritte da me nell'Italia del Popolo potrebbero [150] essere interpretate a loro danno, e me ne dorrebbe. Sia sprone ad essi, nella santa impresa iniziata col proprio sangue dall'amico, il dolore profondo che la delusione deve aver confitto nell'anima loro.
Non mi tratterrò sugli ultimi fatti; mancano tuttavia i particolari: nè io scrivo la vita di Carlo, ma soltanto alcuni ricordi del mio contatto con lui. Altri potrà forse dire un giorno le sue sensazioni scendendo sul suolo napoletano, i divisamenti che ne diressero i moti, l'arti inique del Governo che, annunziando la discesa di una banda di prigionieri rei di delitti comuni fuggiti da Ponza, gli sospinsero contro le popolazioni ignare dei villaggi che ei traversava; i due scontri, vittorioso l'uno, fatale l'altro, e le ultime sue parole. Io imagino gli ultimi suoi pensieri; cadde mentr'ei credeva incamminarsi a vittoria, cadde per mano di uomini che avrebbero dovuto secondarne l'impresa e abbracciarlo fratello e iniziatore di vita italiana ai giacenti; e nondimeno io sono certo che se egli avesse potuto, cadendo, mandarci un ultimo grido, questo grido ci avrebbe detto: rifate, tentate, tentate sempre fino al giorno in cui vincerete. Pisacane non era simile ai tanti che, dopo aver cacciato il guanto al nemico, si ritraggono per alcune disfatte, e dopo aver giurato che ora e sempre consacrerebbero anima e vita a fondare una Patria, tramutano il sempre in alcuni anni di sforzi, e tradiscono nell'inerte stanchezza giuramento e Patria ad un tempo, perchè non riescono a creare in quei pochi anni una Italia.
Perdendo Pisacane noi abbiamo fatto una perdita grave: perdemmo l'ufficiale che avrebbe un dì o l'altro guidati i nostri alle battaglie del Popolo: perdemmo il cittadino al quale noi avremmo potuto fidare quell'alto incarico, senz'ombra di timore che ei ne abusasse mai per ambizione o voluttà di basso egoismo: perdemmo l'uomo che, fra quanti io conobbi, identificava più in sè il pensiero e l'azione e le doti generalmente disgiunte, scienza e spontaneità d'intuizione guerresca, energia e riflessione pacata, calcolo ed entusiasmo. Guardava dall'alto le cose, e nondimeno ne afferrava i menomi particolari. Amava di amore intensamente devoto l'amica e la fanciulla che gli era figlia, ma non sacrificava a quei santi affetti un solo de' suoi doveri verso la Patria. Moveva ad una impresa che doveva costargli la vita, e dava lo stesso giorno l'ultima lezione di matematica ad un allievo.
E morì. Noi possiamo seguire ad amarlo; ma che cosa è l'amore a chi è morto alla terra, se scompagnato dalla religione del pensiero che costituiva la miglior parte della sua vita quaggiù? Basta a compiere il legato, ch'ei ci lasciava morendo, un tributo di lode, una sottoscrizione per la fanciulla che non lo rivedrà mai più sulla terra? Son essi, o Italiani, i vostri martiri, gladiatori al cui morire applaudono gli spettatori del Circo, se muojono composti in atto virile ed impavido? Non ha diritto la figlia di Pisacane di dirvi un giorno, quand'essa invocherà la carezza paterna, e saprà il come e perchè le fu tolta: se mio padre scendeva, mercè i vostri ajuti, con forze doppie sulla mia terra, forse ei sormontava gli ostacoli; e giungendo ad uno dei centri ove vivono luce d'intelletto educato e fiamma di libertà, trovava fratelli e vinceva? Rimprovero amaro è cotesto, o Italiani, perchè meritato; e viene a noi nel gemito non solamente della povera Silvia, ma dei mille orfani dell'amore dei tanti, che da oramai dieci anni morirono vittime della tirannide straniera e domestica, protestando per noi tutti contr'essa. Perchè sono orfani su questa terra che seppe sorgere e vincere nove anni addietro? Perchè [151] si muore d'intorno a noi, quando si potrebbe vivere col serto del trionfo sul capo? Perchè move il vento e bagna la pioggia le ossa di Pisacane, come fossero ossa di masnadiere, quando sta a noi di comporgli su terra libera una tomba sulla quale sventoli la sua bandiera? E come provvediamo noi a ch'egli sia almeno l'ultimo martire che cada nello sconforto e nel silenzio comune?
Perchè noi siamo a tale, che non possiamo oggimai evitare il martirio dei buoni se non coll'azione e colla vittoria. Un Paese sul quale pesa l'oltraggio e il patir d'ogni genere, non può dare per cinquanta anni al patibolo, o alla lenta morte delle carceri e dell'esilio, il fiore dei suoi patrioti, e a un tratto adagiarsi nella propria tomba ad aspettare muto ed inerte che gli squilli la tromba di risurrezione dall'Oriente o dall'Occidente. Un Popolo non può ricordarsi che pochi anni prima liberava con cinque giorni di lotta il proprio terreno, e non cadeva se non per errori evitabili, e rassegnarsi immoto al marchio della schiavitù, sol perchè a una genìa diplomatico-letterata, sfibrata e codarda, piace di dirgli: tu aspetterai salute da una serie di memorandi o dall'ambizione d'un despota. Un partito, al quale la parola di tanti, che non hanno se non parole, tesse ogni giorno la storia de' suoi dolori e delle sue vergogne, non può impedire che i più bollenti fra i suoi non prorompano nel grido di Foscolo: chè non si tenta? Morremo, ma frutterà almeno il nostro sangue un vendicatore; non può impedire che gli uomini, non nati a gemere o a servilmente tacere, tentino por fine al disonore o alla vita. Il sangue di quegli uomini sta su voi tutti, o Italiani, che potete e non fate; su voi che, caldi di amor patrio a parole, non v'affratellate in concordia di lavori e di sacrificî con quei che s'adoprano a creare alle moltitudini l'opportunità; su voi che, fatti pubblico ozioso di chi move, condannate freddamente i tentativi su piccola scala, senza far cosa alcuna che renda possibili i tentativi maggiori; su voi che profondete in capricci e sollazzi di schiavi inviliti ed immemori, l'oro che potrebbe procacciar salute al Paese: su voi che, teneri dei vostri impieghi o dei vostri riposi, date apparenza di dottrina al vostro egoismo e sviate, colle illusioni, colle torte teoriche di progresso pacifico, e colle accuse ai migliori, la gioventù nostra dal diritto sentiero.
E il sangue di Pisacane e d'Agesilao Milano, il sangue di quanti morirono col nome di Patria sul labbro per suscitarvi ad opre virili, da Milano e Pisacane risalendo fino ai Bandiera, grida a voi degnamente, Italiani di Napoli: sorgete e ribattete da uomini un'accusa che serpeggia crescente per tutta Europa. Siete voi, iniziatori un tempo della lotta italiana, caduti per sempre? Non freme più vita sulle vostre terre, fuorchè quella dei vostri vulcani? Da parecchi anni voi diffondete attraverso l'Europa un lamento che riesce ignobile, se non profetizza, dimostrandola legittima, l'insurrezione: voi snudate, popolo Giobbe d'Italia, le vostre piaghe dinanzi a tutte le Nazioni, e non temete ch'esso dicano: un popolo che soffre ciò ch'essi soffrono è un popolo degenerato; chi sopporta il bastone lo merita?
Io ho, per amore del vero, scolpato i nostri, gli uomini che presero concerti con noi, dell'accusa di codardia: i nostri, comunque numerosi, son pur sempre minorità. Ma chi può scolpare un popolo intiero? Il popolo Napoletano sopporta in oggi una di quelle tirannidi che non solamente tormentano, ma disonorano. L'esercito Napoletano serve ad un sistema che tramuta il soldato in birro e carnefice dei proprî fratelli. Napoli ha, più che ogni altra parte d'Italia, propizia al moto l'opinione europea: e nessun Governo, dall'Austriaco in fuori, [152] oserebbe combattere con armi aperte l'insurrezione. E dall'Austria l'assecura il resto d'Italia, presto a rispondere alla chiamata. Perchè non sorse, quando intese l'annunzio della discesa di Pisacane? Manca pur troppo finora ai nostri, non il coraggio, ma l'intelletto rapido, audace, dell'insurrezione. Se ciò che noi predichiamo da ormai dieci anni, che al levarsi di una bandiera di libertà, supremo dovere, suprema salute, è insorgere dove che sia, si facesse, Pisacane sarebbe in oggi capo della rivoluzione napoletana. Se una delle provincie collocate fra il punto di sbarco e la Capitale avesse, al primo giungere della nuova, romoreggiato armi e guerra, il concentramento di quei che oppressero Pisacane non s'operava. Mancò il tempo perchè si ricevessero istruzioni dal punto centrale? Che! non erano istruzioni viventi i generosi che venivano a sacrificarsi per voi? Aspettate, per farvi liberi, un cenno di Comitato?
Giovani del Regno! voi potete compiere una grande missione: e voi dovete compirla, dapprima, perchè in mano vostra sta la salute d'Italia; poi—non v'incresca la franca fraterna parola—perchè v'è mestieri redimervi dall'accusa che vi dice scaduti e indegni dei vostri padri. Sorgete dunque e smentite l'accusa. Siano vostra parola d'ordine al combattere i nomi di Milano e di Pisacane. La terra che produce tali uomini non è fatta per rimanersi schiava, segno al disprezzo dei padroni e al compianto dei Popoli.
Febbrajo 1858.
Giuseppe Mazzini.
Signore,
I tempi sovrastano minacciosi: la marea imperiale retrocede visibilmente. Voi lo sentite. Tutti i provvedimenti da voi adottati in Francia, dopo il 14 gennajo; le note e le intimazioni diplomatiche che voi, dal dì fatale, spargeste al di fuori, rivelano le ansie del terrore. Un senso d'intensa agonia—l'angoscia di Macbeth—vi rode l'animo, trapela da ogni vostro atto o parola. Il presentimento che summa dies et ineluctabile fatum pendon su voi, v'incalza insistente. Il Signore di Glamis, il Signore di Cawdor e il re[118],—il Pretendente, il Presidente e l'Usurpatore—son condannati. L'incanto è sciolto. La coscienza dell'Umanità s'è riscossa, e guatandovi con piglio severo, vi esamina, scruta i vostri atti, e vi chiede conto delle vostre promesse. Da questo momento la vostra sorte è decisa. La coscienza dell'umanità scorgerà in breve che voi non siete che una menzogna vivente; una deforme ripetizione di un Passato spento da lungo tempo e per sempre; una pallida ombra furtivamente emersa dalla tomba di Sant'Elena, e non coronata dalla gloria immortale e dalla solenne missione del potente ch'ivi riposa; una parodia di potere, atta a negare, a dissolvere, a schiacciare per breve tempo, inetta ad affermare, ad organizzare, a edificar cosa, in cui l'avvenire possa adagiarsi. L'umanità chiede realità, non fantasmi; evoluzioni del principio d'educazione, che Dio le assegna a legge di vita, non fatti bastardi, arbitrarî, anormali, che han la vita d'un'ora. A tai fatti essa guarda, sospesa per meraviglia, un istante; poi passa, intimando alla importuna apparizione il ritorno nel nulla. E voi, signore, vi affrettate a tal termine. Voi potete viver mesi, non anni.
Allorchè, illegalmente, occupaste il potere, voi prometteste, quasi ad ammenda, di voler ridurre in pace la Francia—la Francia irrequieta, perturbata e perturbatrice. È governo l'imprigionare, il deportare, il soffocar la parola? È strumento di educazione il gendarme? apostolo di moralità e di mutua fidanza la spia? Voi annunciaste al rozzo paesano di Francia, che nuovi tempi albeggiavano, col vostro impero, per lui; che le gravezze sotto cui geme, andrebbero [154] l'una dopo l'altra cessando. Ne sparve sol una? Potete voi additare un miglioramento qualsiasi della sua condizione, un solo elemento d'imposte rimosso? Potete spiegar come avvenga che il paesano oggidì si affratelli nella Marianna? Potete negare che lo storno dei fondi—già consacrati all'industria agricola—nei canali della speculazione aleatoria, aperti da voi, non abbia tolto al lavoratore di che procacciare strumenti al lavoro e migliorare la terra? Voi seduceste il traviato operajo, dichiarandovi l'Empereur du peuple, un Enrico IV sotto forma diversa, inteso ad assicurargli lavoro perenne, alte mercedi, e la poule au pot. Non è la poule au pot vivanda alquanto cara oggi in Francia? Non costan più caro ancora gli affitti delle case, e parecchî fra gli oggetti più necessarî alla vita? Apriste nuove strade; tracciaste, per fini strategici e repressivi, nuove linee di comunicazione; distruggeste e riedificaste. Ma la moltitudine delle classi operaje appartiene forse tutta alla beneficata categoria dei muratori? Potete voi, a schiuder sorgenti di lavoro e di guadagni al proletario, metter sossopra indefinitamente Parigi, e le principali città di provincia? Potranno questi transitorî espedienti far mai le veci della produzione regolare, progressiva, normalmente richiesta? È forse la domanda della produzione in condizioni soddisfacenti al presente? Non sono tre quinti degli ebanisti, dei falegnami e degli operaî meccanici, senza impiego in Parigi? Voi adombraste alla borghesia, facilmente soggetta a paure e a lusinghe, sogni e speranze di raddoppiata attività industriale, sorgenti feconde di nuovi profitti, eldoradi di stimolata esportazione e di operosità internazionale. Che avvenne di tutto ciò? La vitalità produttrice della Francia langue incagliata: le commissioni pel commercio diminuiscono: i capitali si celano. Voi avete, come il selvaggio, tagliato l'albero per coglierne le frutta; avete, intemperantemente e con mezzi artificiali, eccitato speculazioni sfrenate, immorali, che mentono larghe promesse solo a tradirle; avete, millantando progetti giganteschi, attratto da ogni parte della Francia a Parigi i risparmî de' piccoli capitalisti, deviandoli dalle fonti vere e permanenti della prosperità nazionale:—l'agricoltura, l'industria e il commercio. Questi risparmî furono ingojati e fatti sparire da qualche dozzina di speculatori privilegiati, sommersi in un lusso sfrenato e improduttivo, o copertamente trasferiti—potrei citar nomi della vostra famiglia—a salvamento in paesi stranieri. La metà de' progetti caddero, dimenticati, nel vuoto. Alcuni degli inventori viaggiano ora, per prudente riguardo, à l'étranger. Voi avete dinanzi una borghesia malcontenta; vi stringono le angustie dell'erario, stremato dei mezzi ordinarî, per 500 000 000 di franchi sprecati, nelle città principali di Francia, in pubblici lavori che non rendon profitto, pel deficit di 300 000 000 nel vostro ultimo bilancio, con la Ville de Paris carica di debiti, senz'altro rimedio da quello infuori di un nuovo prestito di 160 000 000 da aprirsi, non in nome vostro, chè non riuscirebbe, ma in nome del Consiglio di città; e, a pagarne l'usura, l'allargamento delle barriere, quindi dell'odiato octroi, sino alla cinta delle fortificazioni esterne. Il rimedio peserà gravissimo sulle classi operaje, provocandovi contro la banlieue, prima devota. I vostri artificî toccano il termine. D'ora innanzi, qualunque cosa facciate per ovviare alle difficoltà finanziarie del vostro regime, sarà un passo di più verso la fatale caduta. Viveste sin qui col prestigio del credito, ricorrendo ad una serie indefinita di prestiti. Or dove sono le sicurtà del credito avvenire? Roma e Napoleone saccheggiavano il mondo: voi non potete saccheggiar che la Francia; ai loro eserciti era dato vivere di conquista, ai vostri è vietato. Voi potete sognar conquiste; [155] ardirle, arrischiarle, non mai. I dittatori romani, e vostro zio guidavano di persona gli eserciti conquistatori: se in voi, quantunque vago di mostre soldatesche e di uniformi dorate, sia capacità di condurre pochi battaglioni in accordo di azione, m'è dubbio. Dichiaraste alla Francia di combattere, solo per amore di lei, l'anarchia: dichiaraste che la libertà—la vera, la sobria, l'ordinata libertà—troverebbe sotto il regime dell'impero le più desiderabili e certe guarentigie; che il bonapartismo era un'idea, una scorta al progresso, auspice un potere forte ed accentrato; che una aristocrazia di capacità intellettuali, devote al progresso—la sola aristocrazia veramente divina—promoverebbe, voi patrocinante, la vita civile della Nazione.
Potete voi mostrare un solo vestigio di libertà in un paese ora caduto, vostra mercè, non dirò al di sotto dell'Inghilterra, ma al di sotto del Belgio, della Svizzera, del Piemonte? in un paese nel quale centinaja d'uomini stanno oggi rinchiusi nel castello d'If, per essere deportati in Algeria o a Lambessa, senz'ombra di processo, senza aver pur veduto faccia di magistrato? Potete voi additarci, nella vostra Francia imperiale, un solo periodico, una sola rivista indipendente? un solo corpo morale che abbia facoltà di manifestare il pensiero, i voti, le aspirazioni del paese? un solo potere autorizzato ad iniziar leggi? un sol uomo, che i suoi concittadini possano eleggere alle vostre pseudo-assemblee, senza ch'ei s'obblighi prima, con giuramento, a sostenere il vostro dispotico governo? Potete citare un sol uomo d'intelletto, che avvalori, presente ai vostri consigli, il vostro odioso sistema?—No: a voi non è dato trovare alcun ministro, alcun fautore, fuori del circolo dei vostri complici immediati: da Thiers a Guizot, da Cousin a Villemain, da Michelet a Giovanni Reynaud, la Francia intellettuale rifugge dal vostro contatto corruttore. Sono vostri uomini un Veuillot, l'avvocato della Saint-Barthélemy e della Inquisizione; un Garnier di Cassagnac, il partigiano della schiavitù dei negri, ed altri sì fatti. A rinvenire un uomo che fosse degno di dare il nome allo scritto da voi indirizzato all'Inghilterra, vi fu forza ricorrere a tale, che apostatò dal legittimismo e dalla repubblica[119]. Vantaste, or non è molto, in faccia all'Europa, che il cuore della Francia era vostro; che lieta, felice, tranquilla, essa vi celebrava salvatore. Passarono pochi mesi: uno scoppio fu udito nella Rue Lepelletier: e con selvaggie, paurose ordinanze di repressione, con appelli, parte minacciosi, parte supplichevoli, all'Europa, collo spartimento militare del paese, con una spada al sommo del Ministero dell'interno, voi dichiarate ora, dopo sette anni d'illimitata signoria—concentrato un numeroso esercito, prive le schiere nazionali dei capi temuti—che non potete vivere nè governare, se la Francia non sia convertita in una vasta Bastiglia, l'Europa in una dipendenza della polizia imperiale. Per quanto schiacciata, la Francia non può trasformarsi in una Bastiglia; l'Europa non vuole ridursi per amor vostro a divenire ministra della polizia de' vostri Côrsi. Rassegnatevi quindi al vostro fato, e cadete.
Il vostro impero tornò in menzogna; e le menzogne non durano. Voi pervertiste la vita economica della Francia in una trista speculazione; [156] la vita religiosa in ipocrisia cattolica; la vita politica in negazione dispotica del diritto e della libertà; la vita sociale in bisogna di gendarmi e di spie; la vita intellettuale in una lacuna. Il vostro, o signore, non è governo:—governo è cosa sacra; significa rappresentanza, perfezionamento dell'anima di un popolo libero, per mezzo dei migliori e dei più capaci;—il vostro non è che il fatto insano, momentaneo, sconsacrato, di un individuo, d'un pugno di avventurieri, di pochi preti e d'un esercito di pretoriani, congiurati a soffocare pro tempore, nel loro proprio paese, anima, virtù, intelletto. E gli avventurieri assicurano già gli avanzi del loro bottino nei fondi americani od inglesi; i preti vi sopraffanno, presti ad abbandonarvi ove esitiate nel retrogrado corso; i pretoriani si affrettano alla prefettura, cercando che dica di Parigi il telegrafo, prima di abbattere il tumulto di Châlons[120]. Tristi sintomi questi. Non sentite—sinistro indizio d'imminente rovina—tremarvi sotto i piedi la terra?
Sì; l'impero si è chiarito menzogna. Voi lo formaste, o signore, ad imagine vostra. Nessun uomo in Europa, nell'ultimo mezzo secolo, da Talleyrand in fuori, ha mentito al pari di voi: e in ciò sta il segreto del vostro temporaneo potere. In questa nostra malferma e scettica età, le menzogne sono agevolmente credute; senonchè non approdano.
Voi, insieme con vostro fratello, chiamaste causa sacra, nel 1831[121], la insurrezione delle popolazioni romane contro il papa; dal 49 in poi voi infliggeste a quella causa l'insulto di demagogica.
In Arenemberg, nel 1833[122], diceste che, essendo ogni nobile anima cacciata in esilio dai Governi, o perseguitata, andavate superbo di appartenere alla tribù dei proscritti. Voi avete organizzato dappoi una universale, incessante persecuzione contr'essi.
Nel 1836, allorchè, dopo l'attentato di Strasburgo, Luigi Filippo vi bandì nell'America, vi dichiaraste conscio di esser reo verso lui, profondamente commosso dalla sua generosa clemenza, e vincolato a non più cospirargli contro[123]. Due anni dopo cospiravate dalla Svizzera. Quattro anni dopo approdaste a Boulogne.
Nel 1848, vi affrettaste a Parigi, «per seguire la bandiera della Repubblica, e darle prova di devozione»[124].
In quello stesso anno scriveste[125]:
«In presenza della sovranità nazionale non posso nè voglio reclamare cosa alcuna oltre i diritti di cittadino francese».
Scriveste, come candidato alla presidenza in novembre[126]: «Non deve esistere ambiguità fra me e voi. Io non sono uomo ambizioso che sogni impero... Educato in libere terre e ammaestrato dalla sventura, rimarrò sempre fedele ai doveri che la volontà dell'Assemblea e i vostri voti m'impongono. Ove io fossi eletto presidente, m'impegnerei sull'onore a cedere, dopo quattro anni, a chi mi succedesse, un potere fatto più forte e la libertà intatta».
Scriveste come presidente in dicembre[127]: «Il giuramento da me prestato prescrive la mia futura condotta..... Riguarderò nemici del paese tutti coloro che tentassero di mutare con mezzi illegali ciò che l'intera Francia ha decretato». Prima che queste parole fossero proferite, Cavaignac aveva divisato una spedizione a Roma, solo a tutelare la sicurezza personale del Papa. Voi biasimaste la proposta. «Non potrei—diceste—dare mai il mio voto ad una dimostrazione militare, nociva agli stessi interessi che è intesa a proteggere»[128]. Quattro mesi dopo le vostre truppe sbarcavano a Civitavecchia.
Dichiaraste nel 1849[129], in un proclama dettato al generale Oudinot, che «non era vostro intento di esercitare su Roma una influenza opprimente, nè d'imporle un governo contrario al volere del popolo». Tre mesi appresso, Roma, il suo governo, la volontà del popolo, erano inesorabilmente schiacciati. Indi a non molto, in agosto[130], prometteste ottenerle «generale amnistia, amministrazione secolare, leggi civili e liberale governo». Le vostre truppe sono ancora in Roma, e nulla fu ottenuto, nè chiesto.
Nel 1849 concludeste il vostro primo messaggio[131], dicendo: «Saprò meritare la fiducia della Nazione, conservando la costituzione che ho giurata».
Nel 1850[132], proferiste solennemente questo parole: «Se nella costituzione sono difetti e pericoli, è in potere di voi tutti il torli via. Io solo, vincolato dal mio giuramento, mi sento in dovere di tenermi strettamente nei limiti della medesima».
Nel 1851, pochi giorni prima del colpo di stato[133], voi diceste all'esercito: «Non dimanderò altro da voi che i miei diritti riconosciuti dalla costituzione».
E il 2 dicembre stesso, pendente ancora il risultato finale del disegno di usurpazione, proclamaste che: «Era vostro dovere il proteggere la repubblica»[134].
Indi sopravvennero la improvvisa violazione di ogni promessa giurata, l'ambiziosa volontà di un solo sostituita alla volontà legalmente espressa della nazione, il feroce appello alla forza brutale, gli ordini inesorabili a Saint-Arnaud; l'Assemblea parte dispersa, parte imprigionata, i generali arrestati; la Francia cosacca avventata contro la Francia repubblicana; Parigi data in preda ad una soldatesca compra, briaca, incitata, feroce; il fuoco di linea nei Boulevards contro una popolazione inerme, inoffensiva, il macello regolarmente praticato a mettere terrore negli animi dei futuri elettori; donne e fanciulli massacrati nelle loro case, fucilati i prigionieri, 2652 vittime[135]: [158] 88 rappresentanti del popolo proscritti, 100 000 uomini posti in prigione, deportati, confinati, senza pur mostra di giudizio: infine il trionfo, e il simulacro della elezione.
E sopra un tale sistema di menzogne, sopra edificio sì fatto di fango e di sangue, speraste inalzare una dinastia! Credeste che la idolatria transitoria, prestata al successo da tutti i poteri che or sono, potesse prevalere contro il marchio di Caino, che Dio e la eterna giustizia vi stampavano in fronte!
V'ha tal cosa, o signore, che sta sopra al successo: Dio;—tale che è più forte del fatto: il Diritto;—tale che è più alto e più durevole d'ogni idolatria: il Tempo. Potreste voi balzar di trono Iddio? Cancellare il diritto? Abolire il tempo? Perchè, sin che splenda lume di verità dall'alto alle menti, e la idea del diritto alberghi nel cuore dell'uomo e tempo sia dato agli eventi, nè vero o falso imperatore, nè zio privilegiato di genio, nè satanicamente astuto nipote, possono nel secolo XIX sostituire il proprio egoismo allo inoltrarsi provvidenziale dell'umanità; nè può un individuo, per quanto sostenuto da bajonette e da preti, farsi innanzi e dire: «io sono la mente irresponsabile, maggiore d'ogni esame, di 35 000 000 di uomini», senza condannarsi a cadere, esempio agli oppressori, insegnamento profondo agli oppressi. Dopo il passo del Rubicone è il vindice pugnale di Bruto: dopo le Tuileries, Sant'Elena: e, nell'intervallo, una breve, irrequieta, esosa vicenda di paure e di rimorsi: indi la storia, la coscienza universale del genere umano, che infama in eterno il tiranno. È legge; legge certa, ineluttabile. Voi avete trafficato sul vizio e sulla debolezza; fatto assegnamento sul terrore e sulla codardia: misurato, con l'occhio penetrante del gran Dissolvitore, la scorza delle corruttele, in che il materialismo del primo impero, quindici anni di gesuitica opposizione monarchica, l'egoismo posto sul trono durante il regno di Luigi Filippo, e i sogni anarchici di un socialismo settario, avvilupparono il core de' vostri concittadini, e diceste a voi stesso: son miei. Dimenticaste che, sotto la melmosa superficie, rimaneva non doma, non tocca, la nobile e solida madre-terra di Francia, la terra che diè vita a Giovanna d'Arco, e agli uomini giganti della Rivoluzione. Dimenticaste che l'Europa, anche l'Europa ufficiale, atea, adoratrice del fatto, s'inchinerebbe a voi sol quanto fosse richiesto dal progressivo pacifico incremento del fatto medesimo, mentre ora la forza di questo, per minaccie e pericoli, visibilmente declina. E dimenticaste che tra voi e l'Europa materialista stanno uomini che voi non potete nè piegare nè frangere, la cui vita è incarnazione di un principio, che agisce, da Maratona in poi, sulla razza europea, e i quali riusciranno da ultimo più forti di voi perchè non ruppero mai i loro giuramenti, e non combattono, come voi fate, per mire egoiste e malvagie ambizioni. Noi, uomini del diritto e della libertà, conquistammo l'Inquisizione e il grande Impero. Siatene certo, o signore, noi vinceremo voi pure.
Vi avremmo già vinto se stato non fosse per l'Inghilterra.
Voi siete ingrato all'Inghilterra, o signore. Senza l'Inghilterra, senza l'ajuto che, in un malaugurato momento, il Governo inglese vi porse, non sareste più da gran tempo. Voi dovete all'Inghilterra quella specie di adozione fra i poteri costituiti di Europa, che, solo, non avreste mai conquistata. L'alleanza inglese ha tenuto in freno sin qui l'Italia e la Francia. A voi piace oggi por ciò in oblìo. Alludete sovente [159] ai vantaggi procacciati dall'alleanza agli Inglesi, e ne parlate come di evento concepito e creato da voi. Ambo le asserzioni sono false. E dacchè molti Inglesi sono proni a lasciarsi ancora ingannare dall'audacia delle vostre parole, non sarà senza frutto ch'io qui, in nome della verità, suggelli la mia doppia protesta contr'esse.
L'alleanza anglo-francese non fu vostro concetto. Esso è concetto della Francia e dell'Inghilterra: a voi fu forza obbedirvi. Le relazioni amichevoli sorsero a grado a grado da naturale riazione contro le lunghe, mortali, storiche lotte, che toccarono il colmo sotto il primo impero; dal sentimento de' tristi effetti della contesa per ambedue le nazioni; e dallo spirito che agita provvidenzialmente il core della Umanità, sospingendola a universal fratellanza. Voi vi giovaste di relazioni sì fatte pe' vostri ambiziosi disegni, pervertendole per un tempo. Nel vostro segreto, l'Inghilterra v'è in odio. L'antagonismo alla sua grandezza è tradizione di famiglia per voi. E il sentimento còrso della vendetta cova profondo nella gretta anima vostra. E l'aver vissuto esule, povero, negletto in Inghilterra, lo rese più acerbo. Noi apprendiamo facilmente ad amare il rifugio della nostra vita raminga; ma le nature sensuali ed egoiste non sentono nel beneficio che un peso importuno. Nel 1836, dichiaraste innanzi ai Pari che «un principio, una causa, una sconfitta si personificavano in voi: Waterloo, la sconfitta; voi inteso a vendicarla». Odio alla perfida Albione, fu la parola consegnata da voi alle caserme dopo il colpo di stato: l'insolenza recente de' vostri colonnelli non è che l'eco di quella. Guerra all'Inghilterra era allora, com'oggi, il vostro sogno impotente, e ne farebbero, all'uopo, testimonianza le carte geografiche, strategicamente punteggiate, nel vostro cabinet de travail. Ma vi sentiste debole, isolato, biecamente guardato, però cedeste alla necessità, seguendo le crescenti popolari tendenze, voi non creaste l'alleanza: la firmaste con restrizione mentale.
L'alleanza anglo-francese, ripeto, è pensiero delle due nazioni: nè gl'Inglesi, ora troppo sovente ingiusti alla repubblica del 1848, dovrebbero dimenticarlo. Il moto di febbrajo fu salutato con favore, non certamente dall'Inghilterra officiale, ma dalla maggioranza del popolo inglese. Nè mai fu saluto con tanta gioja e gratitudine accolto come il saluto dell'Inghilterra dai repubblicani del 1848. La tradizione diplomatica fra le due nazioni non fu un solo istante interrotta. Lord Normanby—mantenuto officiosamente nella sua rappresentanza durante il primo periodo—fu accreditato officialmente dall'Inghilterra, appena l'Assemblea ebbe sanzionato la mutazione di Stato. L'ambasciatore di Russia, Kisseleff, offerse, sino dai primi giorni, patto di alleanza collo Tsar contro l'Inghilterra, chiamata da questi la comune nemica, e la giovine Repubblica rifiutò l'offerta. Un noto generale, Changarnier, ora in esilio, fece indi a poco proposta di scendere a guisa di pirata in Inghilterra, minacciando distruzione a Londra e ai depositi della ricchezza inglese. Dichiarava bastargli, ad eseguire il disegno, un dato numero di soldati, di navi e di battelli a vapore. La proposta fu sdegnosamente respinta, e il generale rimandato al suo comando militare, da cui s'era, per quell'insano proposito, improvvisamente allontanato. Mercè tali disposizioni, una qualsiasi opportunità, un primo segno di buon volere del Governo inglese avrebbe senz'altro dato nascimento ad un'alleanza assai più sincera, più morale e feconda di quella alla quale l'Inghilterra fu indotta da voi.
Voi vi cacciaste di mezzo fra i due popoli, e su ciò ch'era buono e sacro innestaste disegni egoisti e ambiziosi. Di una solenne riconciliazione, che, sotto il vessillo della libertà, sarebbe stata come benedizione dall'alto sul genere umano, faceste un tristo e sterile connubio [160] tra la libertà e la tirannide, tra la vita e la morte. L'Inghilterra non fu per voi che strumento a brame dinastiche: l'alleanza ponte fra voi e le Potenze diffidenti d'Europa.
Le vostre prime pratiche furono volte alla Russia. Naturali tendenze, logica di despota, e non so che ricordi delle conferenze del Kremlino, vi spronavano a quella parte. La Russia non accolse le offerte. Lo Tsar sentiva di non poter fare a fidanza colla vostra parola. I vostri agenti, quasi a legittimarvi con nozze regali, avevano tentato indarno tutte le corti germaniche, in cerca di una sposa per voi. L'Europa dinastica v'era chiusa; la leva della rivoluzione vietata; suicidio l'agitarla contro le Potenze. Però pensaste all'Inghilterra. Vi occorreva tal cosa, che vi additasse ad un tratto partecipe del sodalizio de' poteri legittimi; vi occorreva una conferenza diplomatica, un trattato di pace, al quale apporre, insieme con essi, la vostra firma. Strada alla pace era la guerra; e voi la provocaste. L'Inghilterra v'entrò, renitente, al vostro fianco, ma con animo perfettamente sincero, e mosse il primo passo con fermo proposito di trarne qualche pratico e permanente effetto. Ma volendo voi evitare il risvegliarsi delle nazionali insurrezioni, e fare, ad un tempo, le prime parti nella guerra, sacrificaste per ciò la questione strategica al vostro intento politico. A Riga e a Odessa preferiste la Crimea. Non era ivi pericolo di un moto polacco: e le vostre forze di terra, in un assedio lungamente protratto, doveano, per loro naturale superiorità, risplendere su quelle dei vostri alleati. Oltrechè, concentrata la guerra ad oppugnare un avamposto lungi dalle parti vitali dell'impero nemico, v'era lasciata possibilità di negoziazioni amichevoli collo Tsar pel futuro, ed argomento a dirgli quando che fosse: l'Inghilterra, posta davvero alla prova, v'avrebbe colpito nel core: io vi salvai. Così, mercè vostra, e per la condiscendenza colpevole del Governo britannico, la guerra, traviata dal suo naturale indirizzo, si ridusse ad un brillante duello au prémier sang, senz'altro risultamento, da quello in fuori che voi avevate prefisso alla giostra. Quando, al chiudersi del primo periodo, l'Inghilterra cominciò a intendere la necessità di una lotta seria, e l'importanza europea della contesa, e lo Tsar consentì a differire la esecuzione lungamente vagheggiata de' suoi disegni in Oriente, voi vi affrettaste a soddisfarlo a qualunque patto, e senza salde guarentigie per l'avvenire; e, come avevate trascinata la Gran Bretagna, contro suo grado, all'esperimento dell'armi, così la forzaste ad accettare, riluttante invano, l'inganno di una pace precaria. Fu convocato a Parigi un congresso, il vostro fine raggiunto, la questione d'Oriente prorogata, non sciolta: e la Polonia giace avvolta tuttavia nel suo sudario; la Turchia si dissolve fra civili discordie, conscia della propria impotenza; nè alcuna barriera fu inalzata a rattenere la Russia da novelle invasioni. Lo Tsar ristaura rapidamente, in silenzio, le forze militari dell'impero: la guerra balena da lontano: ma il vostro nome apparve, fra nomi di sovrani da lungo tempo regnanti, appiè di un Protocollo di Pace; e voi potreste, favorendovi i casi, susurrare allo Tsar «Io vi salvai!» e combattere l'antica alleata al suo fianco.
I vantaggi dell'alleanza furono tutti côlti da voi, non uno dall'Inghilterra. Avete, ricoverando il vostro usurpato dispotico potere sotto le pieghe della sua libera nazionale bandiera, seminato diffidenza e rancore contro di lei nel cuore delle oppresse nazioni. Le avete alienato le simpatie delle razze Slave, Elleniche e Rumene della Turchia, abbandonate al loro fato. Riusciste a distorre i suoi uomini di stato da quella ch'esser dovrebbe loro politica nazionale—la libertà civile, [161] religiosa e politica per tutta Europa. Or non dovreste esser pago? Non dovreste prudentemente astenervi dal millantar pretese alla sua gratitudine e alle sue simpatie?
Sdegno discutere con voi intorno a ciò che esigete dall'Inghilterra rispetto ai proscritti. Io sono esule e vostro nemico; nè mi abbasso a ragionare su quanto io riguardo mio diritto e dovere, con un potere tirannico. Potendo, lo abbatto. Le mie parole potrebbero essere fraintese come volte a difendermi, ed io rifuggo dal possibile orrore. Qualunque legge sia fatta a nostro riguardo, m'è eguale; giusta, l'accetto; ingiusta, mi assumo di violarla, che che ne avvenga. Il nostro è stato di guerra. Noi nol scegliemmo: ci fu e ci è tuttora imposto. La tirannide ci ha tolto la patria; non vi è potere che ci protegga; non sono per noi passaporti, non leggi alle quali appellarci, nè giustizia sulla terra, se non quando possiamo imporla noi stessi. In tutto il Continente, solo perchè repubblicani, o sostenitori della nostra bandiera nazionale, noi siamo dichiarati sospetti, e come tali imprigionati, confinati, privi di ogni possibilità di sicuro stato, perseguitati, trattati come paria, cacciati come iloti. Accetto per la mia parte le conseguenze della mia condizione, e non ho, io esule, da render conto delle mie opinioni ad un uomo, ora imperatore e oppressore, una volta esule anch'egli. Ma certo, ogni individuo nato in quest'isola avrebbe diritto di rispondere alle vostre querele e alle vostre pretese a un dipresso con queste parole:
«Voi foste, o signore, esule in Inghilterra. Da questa terra cospiraste senza tregua contro un re costituzionale, a cui avevate sull'onore promesso di non cospirare mai più; ed operaste da ultimo una discesa armata sulle coste di Francia. Noi non vi facemmo attenzione. Perchè muteremmo noi le nostre leggi a sorvegliare e perseguitare uomini che tentano alla lor volta di rovesciare il vostro usurpato potere? Perchè dovremmo noi per amor vostro abbandonare le tradizioni antiche di una libertà individuale che fu benedizione al nostro paese, adottando misure che implicherebbero, se realmente attuate, un intero sistema di spionaggio, atti di polizia segreta e interpretazioni arbitrarie? Perchè abbandoneremmo il nostro chiaro, preciso, onesto metodo di definizioni legali, per aver ricorso a quelle formole indefinite di eccitazione e di instigazione, che nel vostro paese promossero i procès de tendance, così sovente vituperati da voi mentre eravate cospiratore non coronato? Perchè, insomma, dovremmo noi in alcun modo proteggervi? E da che nasce che abbisognate di protezione? Forse che la nostra Regina vi chiede soccorso contro insidiatori ed assassinî? Voi eleggeste di porvi al di sopra e al di fuori della legge: dovrà per ciò l'Inghilterra far leggi speciali a pro vostro? Voi saliste al potere attraverso cadaveri: sta forse in noi lo impedire che la memoria vivente delle vittime evochi vendicatori? Voi spediste e spedite tuttora migliaja di uomini, non sottoposti a giudizio, a languire e morire nei paduli di Cajenna; possiam noi cacciar l'odio e gli effetti dell'odio dai petti dei loro amici e parenti? Eleggeste sopprimere la libertà in ogni sua forma:—stampa, adunanze, associazioni, parola: avete ermeticamente chiusa ogni uscita al potente spiro di una nazione che ama eccezionalmente la vita esterna: possiamo noi fare che la forza compressa non iscoppii per qualche adito imprevisto, irregolare? Voi, repubblicano ancora, mandaste un esercito a bombardare, far serva, uccidere, schiacciare Roma repubblicana: quell'esercito d'ingiusti invasori è là tuttavia: possiamo noi spegnere la vendetta di Roma? Dobbiamo noi convertire la nostra libera isola in un uffizio di polizia, per sicurtà di quanti amano diventare [162] tiranni? pel re di Napoli, pel Papa, per lo Tsar, per voi o per Soulouque? Non balenan pugnali dove il voto può esprimere il pensiero dell'uomo; non si avventano bombe a carrozze di presidenti o di re, in America, nella Svizzera, in Inghilterra, nel Belgio, in Piemonte. Non ci vengono richieste di leggi contro le cospirazioni da quei paesi, ma solo da voi. Non è da ciò manifesto che «v'ha del marcio nello Stato[136]» di Francia? E dobbiamo noi gratificarvi di privilegi a mantenere la «putredine?» I cospiratori, voi dite, vivono in Inghilterra: d'Inghilterra giungono quelli che attentano alla vostra vita. Chi li spinge qua, se non voi? In quale altra terra sarebbe loro dato di vivere? Da quale altra movere a voi? Ogni anno, ogni sei mesi, i vostri gendarmi ci apportano, sotto scorta, quanti sono malcontenti, o tenuti per tali; possiamo noi addossarci l'incarico di strettamente sorvegliarli in segreto, di circondare ciascun di loro di gendarmi e di spie? Possiamo noi impedire che taluni, quali che siano le loro intenzioni, non ritornino in Francia?
«È forse da imputarsi a noi se Kelch e Deron—pure ammettendo che quanto asserite nel vostro manifesto sia vero—ritrovan la via di Parigi? Dovrem noi rispondere di Mazzini se di tanto in tanto gli è a grado di traversare la vostra Francia, sebben guardata, spiata e organizzata a guisa di un campo? Voi disponete ora di 3 milioni di franchi—2 di più che non a' tempi di Luigi Filippo—apertamente destinati allo spionaggio: noi non spendiamo un obolo per tale ufficio. Or non potete difendervi da voi stesso, senza vessare, calunniare e minacciare vicini pacifici, che non ci han nulla che fare?—Voi citate apologie del tirannicidio, stampate in Inghilterra; e che per ciò? Dovrem noi escludere dalle nostre scuole l'antica storia di Roma e di Grecia? Abolire la traduzione del Guglielmo Tell di Schiller, proibire, per decreto, la ristampa di Milton? La stampa è libera tra noi: in Francia è schiava; voi imbrigliate ogni manifestazione del pensiero ne' sudditi. Noi non vi chiediamo però di vietare l'apologia del macello degli Ugonotti, nè la ristampa del legato di vostro zio a Cantillon. Siatene certo, o signore, il tirannicidio non è conseguenza di poche pagine di ragioni teoriche, ma dell'odioso fatto della tirannide. Togliete questo di mezzo, e sarà rimosso il pericolo contro il quale invano cercate soccorso da fuori. Voi non potete esigere da noi che, mentre il fatto esiste, ci assumiamo di prevenire le conseguenze fatali che possono derivarne.»
Tale, o signore, è la risposta che l'Inghilterra ha virtualmente data, e darà sempre, io spero, colla voce del suo popolo, alle vostre illiberali, ingiuste richieste. Per queste richieste frattanto, e per le indirette minaccie congiunte con esse, voi scendeste un grado più basso nella vostra rovinosa carriera. Avete disperso il solo prestigio che vi circondava tuttora, l'approvazione e l'amicizia di una libera gente. Voi vi trovate ora, o signore, che che ne dica la diplomazia adulatrice e bugiarda, solo in Europa.
E l'Europa vi guarda, come Banquo guardava le fatidiche sorelle, apparecchiata a chiedervi:—«È vita in voi? o siete cosa ch'uom possa interrogare?»[137]
Ed ogni interrogazione tornerà sinistra alla vostra artificiale, accattata grandezza; voi sbigottiste le menti degli uomini colla improvvisa audacia, coll'apparenza del compiuto successo. Cessato lo sbigottimento, la vostra causa è perduta. Voi non potete sostenere esame.
L'Europa cercherà le origini del vostro potere, e troverà la risposta nella pagina di storia che segue:
REPUBBLICA FRANCESE.
Decreto.
L'Assemblea Nazionale, straordinariamente convocata alla mairie del decimo circondario,
Visto il sessantesimo ottavo articolo della Costituzione,
Considerando che l'Assemblea è impedita dalla violenza di adempire i suoi ufficî,
Decreta:
Luigi Napoleone Bonaparte è destituito dalle funzioni di Presidente della Repubblica.
I cittadini sono tenuti a ricusargli obbedienza.
I giudici dell'Alta Corte di Giustizia sono chiamati immediatamente a radunarsi e pronunciare giudizio sul Presidente e sui suoi complici.
Firmato
duecentoventi membri dell'assemblea.
Parigi, 2 dicembre 1851.
ALTA CORTE DI GIUSTIZIA.
In virtù dell'articolo sessantesimo ottavo della Costituzione, l'Alta Corte di Giustizia dichiara:
Luigi Napoleone Bonaparte è chiamato in giudizio come reo d'alto tradimento,
L'Alto Giurì Nazionale è chiamato a pronunziare speditamente giudizio.
Parigi, 2 dicembre 1851.
L'Europa chiederà per quali mezzi manteneste il potere usurpato. La risposta sarà: col terrore e colla corruzione, cancellando ad un tratto ogni libertà di parola e d'azione, costituendo unica potenza nello Stato l'esercito, cacciando dal paese, senza giudizio, tutti gli [164] uomini d'influenza pericolosa per voi, seminando sistematicamente il dissenso fra la borghesia e la blouse, spaventando la prima col fantasma del socialismo, e corrompendo la seconda con egoismo e promesse di felicità materiale.
L'Europa vi chiederà conto delle vostre disposizioni e tendenze a suo riguardo, e la risposta sarà: «Quell'uomo è l'assassino di Roma: ei vi mantiene, senz'ombra di diritto, un esercito, quasi avamposto ad incarnare un giorno disegni di ambiziose invasioni; ei cospira celatamente a pro d'una insurrezione Muratiana in Napoli; s'intromette senza tregua ad impedire il pacifico progresso della libertà nel Piemonte, nel Belgio, nella Svizzera; e, impiantando lo Tsarismo nel centro di Europa, prepara i germi di una immensa e pericolosa reazione nel cuore dei popoli.»
L'Europa investigherà la vostra condizione attuale e la risposta sarà: «finanziariamente ei precipita a rovina; moralmente, agli ultimi saturnali d'una condannata tirannide; politicamente, all'isolamento assoluto, e alle pazze disperate imprese di chi è costretto a distruggere ogni libertà intorno alla Francia, o a cadere.»
Cadete, or dunque, e la giustizia si adempia! La Francia, che or va ridestandosi, pronuncierà da qui a non molto il suo decreto, e l'Europa lo approverà. Questo io vi dico, io, voce di Roma che assassinaste.
I tempi sovrastano minacciosi: la marea imperiale retrocede visibilmente. Voi lo sentite.
Cesare—il quale, credendo che non vi fossero più Romani, avea cancellato il nome della repubblica,—quando si avvide, al lampo di una daga, che v'era ancora un Romano, si avvolse nel manto, piegò la testa davanti ai fati, e morì in silenzio. Per l'onore del nome che portate, fatevi imitatore di Cesare.
Piegate il capo davanti «all'invisibile daga» della pubblica opinione, colla quale la Francia ridesta e l'Europa condannano a rovina il vostro usurpato potere, e morite, come Orsini moriva, con calma e rassegnazione.
Londra, aprile 1858.
Giuseppe Mazzini.
Signore,
Io vi sapeva, da lungo, tenero della monarchia piemontese, più assai che della Patria comune; adoratore materialista del fatto, più assai che d'ogni santo eterno principio; uomo d'ingegno astuto più che potente, fautore di partiti obliqui, e avverso, per indole di patriziato e tendenze ingenite, alla libertà; non vi credeva calunniatore. Or voi vi siete chiarito tale. Avete, nel vostro discorso del 16 aprile, calunniato deliberatamente e per tristo fine, un intero Partito, devoto, per confessione vostra, all'indipendenza e all'unità nazionale. A questo partito, che conta fra' suoi da Jacopo Ruffini a Carlo Pisacane, centinaja di martiri, davanti alla memoria dei quali voi dovreste prostrarvi:—a questo Partito che salvò, senza un solo atto d'oppressione o terrore, l'onore d'Italia in Roma e Venezia, quando la vostra monarchia sotterrava nel fango in Novara la bandiera tradita poco prima a Milano; a questo Partito—alla cui straordinaria vitalità, confessata oggi da voi in onta ai vostri che lo dichiarano ad ogni ora morto e sepolto, il Piemonte deve le libertà di che gode, e voi dovete le occasioni di farvi patrocinatore ozioso, ingannevole d'Italia nelle conferenze governative—voi avete avventato, in occasione solenne, e da luogo ove ogni sillaba di ministro rivendica pubblicità europea, una di quelle accuse che la credulità umana raccoglie e magnifica, ad argomento di sospetto perenne e di persecuzione. Avete, su gente contro la quale vi fanno potente prigioni, proscrizioni, birri, e soldati, e alla quale i sequestri dei vostri agenti rapiscono ogni libertà di difesa, cercato di stampare un marchio d'infamia. Avete, da osceni libelli di poliziotti stranieri, dissotterrata a nostro danno l'accusa della teoria del pugnale, ignota all'Italia. Avete, sapendo che la menzogna poteva fruttarvi un aumento di voti, dichiarato alla Camera che la legge liberticida proposta aveva per intento di proteggere i giorni di Vittorio Emanuele, minacciati da noi. E questa accusa voi, due volte mentendo, l'avete gittata contro noi per mero artificio politico, ad allontanare possibilmente da voi la taccia di sommesso conceditore all'impero di Francia. Perciò, s'io prima non vi amava, ora vi sprezzo. Eravate fin ora solamente nemico: or siete bassamente, indecorosamente nemico.
Non per voi dunque, che accusate per tattica, ma pei molti creduli che raccolgono senza esame le accuse, io mi giovo del vostro nome per indirizzare ed altri, e sarà l'ultima volta, una franca dichiarazione che ponga fine fra gli onesti—i tristi che vi fanno coda calunnieranno per sempre—ai sospetti oltraggiosi e agli stolti terrori. Se a voi, nemico accusatore, fosse sembrato, come a me sembra, obbligo elementare di moralità e parte d'avversario generoso appurare, [166] attraverso i miei scritti e le azioni mie, la mia fede l'avreste prima d'ora raccolta dalla mia condotta in Roma e dalle lettere ch'io indirizzai due anni addietro a Manin[138]. Ma quanti serbano, avversi o no, desiderio o pudore d'imparzialità a mio riguardo, devono, non foss'altro, essersi a quest'ora avveduti che nè la natura, nè la fede, nè l'alterezza dell'animo mi consentono di mascherar le opinioni. Ho taciuto talora: non mai mentito: perchè mentirei e per chi? Per quel tanto di vita individuale che m'avanza dalle sciagure e dagli anni, non temo nè spero, se non da chi mi ama. E il trionfo della bandiera che io seguo m'appare, in un tempo incerto, non lungo, infallibile; nè sento quindi la tentazione d'agevolarlo coll'arti gesuitiche della menzogna.
Credo, nella sfera dei principî, ogni giudizio di morte—se applicato dalla società o dall'individuo non monta—delitto; se n'avessi potere, stimerei debito mio abolirne la facoltà. Non ch'io creda, come altri, la vita sacra e inviolabile: la santità della vita non comincia coi moti organici o coll'agitarsi d'una esistenza fisiologica che abbiamo comune cogli animali; bensì coi doveri compiti, coll'intelletto della missione della vita stessa; e finchè sarà santa la guerra per la libertà della Patria, o la protezione armata del debole contro il tiranno potente che lo calpesta, o la difesa a ogni patto del fratello su cui pende il ferro dell'assassino, l'inviolabilità assoluta della vita è menzogna. Ma noi tutti, società e individui, abbiamo, dalla missione della madre fino a quella del legislatore, un primo e sommo dovere: educare, sviluppare per quanto è in noi, tentarlo almeno, i germi di progresso che Dio ha messo nel core di ogni uomo. E non s'educa spegnendo. Inoltre, l'infallibilità non è retaggio di giudizî umani; e per uomini, non ciarlatori di moralità, ma morali, il solo pensiero che un innocente può essere quando che sia gettato al carnefice col marchio del colpevole in fronte, dovrebbe bastare a rovesciare per sempre la feroce instituzione del patibolo.
Credo dunque l'abolizione della pena di morte dovere assoluto di ogni popolo libero. E perchè io credo in questo dovere, quando in Roma la Commissione militare m'affacciò, per ottenerne conferma, una sentenza di morte contro un milite dichiarato reo di ladroneccio domestico, respinsi il foglio e salvai la vita a quel misero. A voi, ministri di monarchia, che attingete ai legislatori dei tempi dispotico-feudali, o a De Maistre, teoriche crudeli di espiazione o di vendetta sociale, firmare, fra un trionfo parlamentare e la cena, una condanna nel capo, pare atto normale governativo; a me, repubblicano, pareva ch'io non avrei mai più riposato sonni tranquilli, se avessi, mentre i mezzi di difesa sociale abbondavano, rapito per sempre ad una famiglia ogni speranza di gioja, a un mio simile la possibilità di ravvedersi quaggiù.
E quello ch'io credo della società, lo credo dell'individuo; tanto più quanto più mancano all'intelletto solitario d'un uomo gli elementi che la società possiede abbondanti per accertare i gradi di colpa di chi è segno al giudizio, e l'efficacia del colpo che vuol vibrarsi. I due primi, che nel 1848 annunziarono al popolo di Milano che il patto di dedizione era firmato, che Carlo Alberto, mentre giurava di voler sotterrar sè e i suoi figli sotto le rovine della città, apprestava celatamente [167] la fuga, furono spenti da chi li giudicava agenti prezzolati dell'Austria, ed erano patrioti ed avevano parlato il vero. I traviati che nel 1849, instigati dall'ambizione delusa di un tristo, uccidevano in Ancona gli uomini noti per appartenere alla parte dispotica, credevano salvar la repubblica, e la minavano coll'anarchia, la deturpavano davanti all'Europa, e schiudevano la via alle infinite calunnie che oggi trovano, o signore, un'ultima eco sulle vostre labbra. I miseri che, oppressi, angariati, irritati in mille modi dai satelliti del papato e dallo straniero, e abbandonati, illusi, delusi perennemente dai vostri fautori, sfogano l'ira trucidando birri e spie, non alleviano d'un atomo i proprî mali, non giovano menomamente la causa della Nazione, alla quale solo un ardito sforzo collettivo può dar salute. E gli sconsigliati che dissanguavano, nel 1793, sistematicamente la Francia, ordinando, suprema riazione delle loro stesse paure, il terrore contro i sospetti, non impedivano, affrettavano la caduta della Repubblica; non salvavano il paese dalla tirannide gloriosa di Napoleone, nè dalle due monarchie Borboniche, nè dal volgare dispotismo dell'oggi; somministravano bensì pretesto, vivo tuttavia contro l'avvenire repubblicano, alle diffidenze borghesi e alle ripugnanze dei poveri ingannati coltivatori del suolo francese. Però, io abomino egualmente—e non lo tacqui mai scrivendo o parlando—il terrore eretto a sistema, ogni teoria di pugnale, e i giudizî di morte, e l'idea, fondamento anche oggi a tutte le vostre legislazioni, che a noi, società o individui non monta, spetti mai un ministero di vendetta, d'espiazione o castigo. Noi non abbiamo che un diritto di difesa, e il dovere di tentare la riforma, il miglioramento, l'educazione del colpevole. Ogni sistema penale che non mova da questo principio è reliquia di barbarie più o meno mascherata e fatale.
E queste credenze ch'io ho predicate sempre ad amici e nemici, e mantenute in Roma tra i fautori nostri dei partiti estremi e gli uomini che cospiravano, pur mandandomi dichiarazioni solenni che non cospiravano, coll'invasore straniero, ed oggi siedono nella vostra Camera;—queste credenze che movono in me da una fede religiosa ignota a voi ed ai vostri, sono non solamente mie, ma di quei che promossero con me la diffusione della Giovine Italia, e promovono oggi il Partito d'Azione. Veggo tra i vostri sostenitori e tra quei ch'or gridano, commossi in visita, contro l'inventata teoria del pugnale, uomini che s'avvolgevano faccendieri, prima del 1848, fra le mene della Carboneria. E l'uso del pugnale vendicatore era sancito dai giuramenti e da giudizî solenni nella Carboneria. Ma la Giovine Italia, che voi tentate infamare col nome di setta, e che prima osò piantare apertamente, con libri e giornali, la bandiera dell'unità repubblicana d'Italia in faccia a' suoi oppressori, bandiva il pugnale, e non condannava lo spergiuro fuorchè all'abominio dei suoi fratelli. L'Associazione non ebbe condanne mai, se non d'esclusione. Mutammo nome, non instituti nè fede. A voi non riuscirebbe trovare una sola delle nostre pubblicazioni, dal 1831 sino al mese in cui scrivo, contenenti dottrine dissimili da questa mia. Ond'è che, quando non vi giovi, con credulità d'idiota, accogliere siccome storia accuse come quella di Rodez[139] smentite da' tribunali, e le novelle delle quali s'ingemmano tratto tratto le gazzette cattoliche, voi, deplorando che per noi si torcesse nel 1849 la nostra dottrina alla santificazione del pugnale, avete detto, sciente, il falso: siete peggio che stolido, o calunniatore.
Stolto e calunniatore foste di certo ad un tempo, quando, a carpire un voto di concessione obbrobriosa, dichiaraste alla facile Camera che si minacciava per noi la vita di Vittorio Emanuele. Se la vita di Vittorio Emanuele fosse minacciata davvero, non la proteggerebbero le vostre leggi. Ad uomini della tempra di Pianori, di Milano, di Orsini, poco importa di giudizî o giudici: uccidono, o muojono. Ma la vita di Vittorio Emanuele è protetta, prima dallo Statuto, poi dalla nessuna utilità del reato. Anche mutilata e spesso tradita da voi, la libertà del Piemonte è tutela che basta ai giorni del re. Dove la verità può farsi via nella parola; dove, anche a patto di sacrificî, l'esercizio de' proprî doveri è possibile, il regicidio è delitto ed insania. Ci credete scellerati ed insani? A che mai gioverebbe, ed a chi, la morte di Vittorio Emanuele? Egli regna, ma non governa. L'indole indifferente, non tirannica, può procacciargli biasimo forse da chi ricorda quali solenni doveri ei potrebbe e non cura compiere; non odio mai. Io lo credo—malgrado i difetti della sua natura—migliore dei suoi Ministri. Per chi lo uccidesse, avremmo noi tutti il ribrezzo che s'ha per l'assassino.
Le nostre teoriche, bensì, le credenze che propugniamo, mal s'adattano alle condizioni anormali nelle quali si producono fatti simili a quei di Bruto, di Tell, di Pianori e d'Orsini. A che parlar di doveri, quando la Libertà, senza la quale l'idea del Dovere non ha più base, è cancellata dalla violenza, e tutte le vie a compierli sono chiuse? A che ripetere oziosamente: la vita è sacra, dove la definizione della Vita, ch'è moto, sviluppo, progresso, è falsata, soppressa? A che contendere all'individuo il diritto di rivendicare le condizioni prime di ogni vita, per sè e pe' suoi fratelli, quando tribunali non sono: quando ogni potenza collettiva è negata; quando è vietata ogni interpretazione sociale della legge? Ciò che rende illegale, immorale, colpevole nell'individuo il richiamarsi alle forze proprie per combattere ciò ch'ei crede ingiustizia, è l'esistenza d'un terzo elemento, d'un terzo potere, d'un arbitro tra l'ingiusto e lui: dove questo elemento intermedio non esiste; dove la coscienza di tutti non ha più voce, direte all'oppresso: dacchè non esiste tribunale a cui tu possa richiamarti, soggiaci; l'ingiusto ha vinto?—La coscienza dell'individuo che sente il proprio diritto, e trova in sè il coraggio per tentare di riconquistarlo ad ogni patto, vi risponderà sempre, d'epoca in epoca: dacchè la società è impotente a tutelarsi e tutelarmi contro l'oppressore, i suoi diritti, i diritti dell'umanità conculcata, vivono in me, e me li assumo.—O legge, o guerra; e vinca chi può. Dove ogni vincolo è spezzato tra la legge e gli uomini d'uno Stato, ogni forza è santa che s'adopera, per qualunque via, a riconnettere gli uni coll'altra. Dove è rotto l'equilibrio fra la potenza d'un solo e la potenza di tutti, ogni individuo ha diritto e missione di cancellare, potendo, la cagione del vizio mortale, e ristabilir l'equilibrio. Davanti alla sovranità collettiva il cittadino tratta riverente la propria causa; davanti al tiranno sorge il tirannicida.
È fatto, non teoria: legge di logica inesorabile, non sistema d'ingegni irrequieti e sovvertitori. E se questa logica delle cose non balenasse tratto tratto subita, onnipotente attraverso la tenebra che la tirannide stende fra l'uomo e Dio, la tirannide, come gli ultimi imperatori di Roma, farebbe sè stessa Dio. Il lampo del ferro tirannicida rompe quella tenebra e rivela alle attonite, incodardite migliaja, che il tiranno davanti a cui piegano non è Dio, ma un idolo di delitto e menzogna. L'uomo che vibra quel ferro è una incarnata, tremenda negazione della tirannide; ei dice, spegnendo e morendo all'umanità: [169] «Quel violatore della vita universale pensava d'essere superiore alla legge; ei non era che fuor della legge. Ei s'illudeva a credere d'aver sotterrato giustizia e coscienza, perchè alcune migliaja di pretoriani e molte di vili gli si assiepavano intorno, difensori e schiavi: egli stimavasi forte perchè s'era ricinto di patiboli e spie; io ho provato a lui e all'umanità che la punta di un ferro di libero vale tutto quel corredo di forza, e basta a sperdere i satelliti e ridestare a vita gli schiavi».
E perchè questo è il senso segreto del tirannicidio, gli uomini, come salutano il nembo purificatore d'un'atmosfera corrotta, salutano e saluteranno il tirannicida—comunque accumuliate, voi, signore, ed i vostri, sofismi a infamarlo e leggi a punirlo—siccome il rivendicatore dell'eterno diritto; e ripeteranno pur sempre commossi la vecchia canzone d'Armodio; e cercheranno tra gli antichi marmi, a spiarle riverenti, le sembianze di Bruto; e scriveranno, quasi mallevadori della giustizia del fatto, i loro nomi sui muri della cappella di Guglielmo Tell; e tramanderanno, rispettando, ai posteri i nomi di Milano e d'Orsini: tra le lettere che formano quei nomi s'affaccia per essi la tentata vendetta di Napoli e Roma.
La vita è sacra, voi dite. Ma la vita degli uomini che muojono di languore nelle isole, convertite in ergastoli pei migliori, delle spiaggie napoletane; la vita degli uomini che muojono di miasmi pestilenziali a Cayenne, senza colpa, senza giudizio, senz'altra cagione che il terrore sospettoso di un despota; la vita delle madri, delle sorelle che muojono di dolore per quei miseri in Francia e in Italia, non è sacra essa pure? E la vita d'un popolo—la coscienza dei suoi diritti, delle sue speranze, del suo avvenire, della missione che gli è data da compiere—non è sacra per voi? Voi avete per l'assassino del viandante il carnefice; perchè serbate l'inviolabilità alla vita dell'assassino d'una nazione? voi spegnereste, con qualunque arme vi trovaste dinanzi, l'uomo che minacciasse rovina, tentando l'incendio d'una polveriera, a mezza città; perchè non volete che altri spenga l'uomo artefice di rovina continua a cento città; persecutore di milioni, tiranno del corpo e dell'anima d'una gente intera? Sofisti ed eterni contraddittori di voi medesimi! Voi vi assumete il sacerdozio della santità della vita ogni qual volta vi sta davanti un reo coronato e dimenticate che i vostri gendarmi, i vostri doganieri, hanno da voi l'autorità di far fuoco sul masnadiere, sul contrabbandiere che fugge.
La vita è sacra! E la guerra? Non la intimate voi, quando l'onore e l'utile del paese o della monarchia, alla quale servite, vi sembra richiederlo? Non cacciaste due mila vite di soldati nostri a spegnersi sui campi della Crimea in battaglie non nostre, sol perchè intravedeste in quel sacrificio una probabilità d'accrescere in Europa lustro alla monarchia piemontese? Non insegnano i vostri libri di guerra l'arte delle sorprese? Non si addestrano i vostri bersaglieri a strisciarsi rapidi, inosservati, tra le lunghe erbe dei prati, a meglio colpire di palla il nemico? Non mirano sovente i vostri disegni a trascinare, ingannandolo, il soldato che combattete, nelle imboscate? Non v'impadronite delle batterie, piombando notturnamente e con ogni artificio di silenzio sovr'esse, e trafiggendo con arme corta—la baionetta—gli artiglieri sui loro cannoni? Non decreterebbe il vostro Lamarmora una lode al soldato che, spegnendo all'impensata una sentinella, gli avesse dato adito a impadronirsi di una fortezza nemica? Noi bandiamo guerra prima, risponderete, assaliamo poi. Che! fra il tiranno e l'oppresso non è guerra naturale, continua? Guerra [170] bandita fin da quando il primo Martire di una Patria calpestata, del Diritto violato, gettò il guanto dell'eterna sfida dal patibolo all'oppressore? Noi bandimmo guerra all'invasore francese e all'austriaco dalle barricate del 1848, dalla prima resistenza di Roma nel 1849. Traditi o sopraffatti dal numero, i soldati della Nazione furono costretti a ritirarsi. Ma l'occupazione del Lombardo-Veneto e della sacra terra Romana dura tuttavia; e se v'è tra noi chi trovi in sè tanta energia da sprezzare numero e certezza di morte, e continuar solo la guerra nel modo più efficace a conquistare indipendenza e libera vita al paese, Dio, che vede se il di lui animo è puro d'ogni bassa passione, lo giudichi: io non mi sento da tanto; io so ch'ei salva, spegnendo il tiranno, migliaja di vittime dalla prigione, dall'esilio, dal palco; e so ch'ei rivendica a un popolo intero la vita, ben altramente solenne, dell'anima, la Libertà, ch'è la vita di Dio. Voi coniate nuove leggi e decreti e tribunali a proteggere i giorni del potente che opprime; è parte vostra: ma non atteggiatevi a moralisti severi, ad apostoli d'un principio. Finch'io vedrò le vostre leggi architettarsi a proteggere la vita di un usurpatore, che rompeva, senza bandirla, guerra al suo popolo e alle libertà dell'Europa, e invadeva su migliaia di cadaveri il trono, non mai in benefizio del popolo trucidato:—finch'io vi vedrò inerti e muti davanti ad ogni delitto coronato di successo, e senza ardire che basti a dire una sola volta in nova anni all'invasore di Roma: in nome del diritto Italiano, ritratti da quella terra che non è tua—io vi crederò ipocriti, e nulla più.
Ho accennato or ora all'efficacia del fatto, e all'assenza di ogni basso affetto nell'animo di chi lo compie; e son gli estremi senza i quali, anche per me, il tirannicidio è delitto o follia. È delitto, se tentato per senso, non dirò di vendetta, ma d'espiazione: delitto, se tentato dove altre vie sono aperte all'emancipazione: colpa e follia se tentato contro chi non trascina la tirannide nel sepolcro con sè. Bonaparte, esule una seconda volta, dovrebbe passeggiare impunemente fra noi. La libertà, non di voto, ma anche sol di parola, dovrebbe proteggere da tentativi siffatti, non dirò ogni monarchia costituzionale, ma ogni temperata tirannide. E dove, per inettezza o impotenza di popolo, è certo che al tiranno caduto sottentrerebbe un altro tiranno, a che pro l'ucciderlo? Ma quando, per circostanze evidenti, l'esistenza della tirannide è concentrata in quella d'un solo,—quando quel solo è deliberatamente, pazzamente, ferocemente tiranno,—quando il popolo che, dominato da un fascino di terrore, gli giace davanti, ha provato aver nondimeno coscienza di libertà; chi, per puro amore della Patria comune, rompe d'un colpo quel fascino, risparmiando al paese una lunga vicenda di tentativi e di vittime, e alla crescente generazione l'educazione corrompitrice del dispotismo, combatte e non assassina. Voi potete, s'ei non riesce, oltraggiarlo; ma i posteri gli porranno sul capo la corona del Martire. S'ei riesce, lo saluterete, voi pure, Liberatore ed Eroe.
Liberatore ed eroe. Non siete voi gli uomini che chiamarono in ogni tempo gloriose le insurrezioni trionfanti, e magnanimi i popoli che le compievano, e che perseguitan oggi coi nomi di demagoghi e settarî gli animosi che tentano rifarle e soccombono? Non diceva il Gioberti, vostro, belle, sublimi e portentose le parole Dio e il Popolo che splendono sulla nostra bandiera? Non ci salutava egli, quando eravamo potenti del favore di tutta la gioventù, precursori della nuova legge e primi apostoli del rinnovato Evangelo[140], per poi versare l'insulto [171] sui nostri nomi, quando la gioventù, traviata da false lusinghe, ci abbandonava? Non udii io, nel 1848, parecchî tra gli oratori a voi propizî, ch'oggi dichiarano—perchè credono il principato rifatto potente—essere la guerra regia unica speranza d'Italia, dichiarare a me ed agli amici miei—perchè credevano, caduta Milano, condannato ad impotenza il principato—che, pentiti dell'errore commesso, fidavano esclusivamente alla guerra del popolo l'emancipazione italiana? Non cospiravano meco dieci anni addietro, in nome di una fede rigeneratrice, gli uomini che, nella vostra Camera, citano Machiavelli a provare che la politica non conosce principî, ma solamente calcoli d'utile a tempo, e che son buone le alleanze coi tristi purchè potenti? Non recitano ogni giorno i gazzettieri di parte vostra lodi al Bonaparte imperante in seggio, che abominavano quando non era che pretendente? Non siete voi, signore, presto a cedere, con vero tradimento al paese, il mezzogiorno d'Italia a Murat, purchè l'impero v'assicuri compenso d'una zona di terreno al di là della vostra frontiera? Partito d'opportunisti, voi non avete diritto d'invocar principî. Adoratori del fatto, voi non potete assumere veste di sacerdoti di moralità. La missione educatrice d'ogni Governo v'è ignota. La vostra scienza vive sul fenomeno, sull'incidente dell'oggi; non avete ideale. Le vostre alleanze non sono coi liberi, sono coi forti; non posano che su nozioni d'un utile materiale immediato. Taluni fra' vostri scrittori proponevano, prima del 1848, altri più recenti ripetono, che si dovrebbe sottrarre il Lombardo-Veneto all'Austria, dandole a compenso le terre Moldo-Valacche, come se quelle terre non avessero gli stessi diritti che noi abbiamo. Materialisti col nome di Dio sulle labbra, nemici in core e veneratori a parole del Papa, tendenti per cupidigia d'ingrandimento a rompere i trattati del 1815, sui quali v'appoggiate per contendere ai popoli il diritto d'insorgere, voi siete gli eredi di quella politica europea, che iniziava in Navarino lo smembramento dell'impero turco, e invadeva ultimamente, in nome dell'integrità dell'impero stesso, la Grecia, perchè tentava riconquistarsi provincie sue. Obbedito dunque alle intimazioni del Bonaparte; ma non vi vantate di obbedire, proponendo leggi restrittive della libertà, a un senso morale che tutta la vostra dottrina rifiuta: non accusate noi di disegni tristi ed assurdi ad un tempo, dei quali in cuor vostro non ci credete capaci.
La moralità politica non vive oggi se non negli uomini di parte nostra: in noi che diciamo ciò che pensiamo e pensiamo ciò che diciamo; in noi che, fondando tutta la nostra scienza politica sopra una fede di dovere e sulla nozione, come la mente e il core la inspirano, del Diritto e del Giusto, possiamo rallentare a seconda dei casi l'opera nostra, non disviarla mai, o mutarle natura; in noi che, credenti nell'unità del Pensiero e dell'Azione, non accettiamo l'immorale dissenso fra la teorica e la pratica, che campeggia ogni tanto nei discorsi dei vostri; in noi che non diciamo: la tirannide è delitto verso gli uomini e Dio, per poi stringere alleanze col tiranno, purchè forte d'eserciti pretoriani; in noi che non mutammo coi tempi, ma cerchiamo, colla parola e coi fatti, mutare progressivamente i tempi, a seconda dell'ideale che abbiamo nell'anima; in noi che non siamo nè piemontesi nè lombardi, nè siculi, nè vincolati ad una dinastia, nè patrocinatori d'interessi o d'ambizioni locali, ma italiani, e legati ad una fede di [172] unità nazionale da conquistarsi colle forze vive dell'intero popolo e a pro del popolo intero; in noi che, vivendo poveramente, non aspirando nè a conforti nè ad onori, non temendo nè sperando da chicchessia, sprezzando noje, accuse e persecuzioni, non seguendo che un intento attraverso la vita, abbiamo diritto di esser creduti, e—che che facciate—siamo creduti. La straordinaria vitalità del partito —che a voi, signore, piace di chiamare mazziniano, ed è il partito repubblicano, il partito della Sovranità Nazionale—è dovuta a questo concetto di moralità che noi, da ormai trent'anni, rappresentiamo. Voi potete, imposturando terrori che non sentite, affratellandovi la destra della vostra Camera colla guerra alla nostra stampa, affratellandovi la tiepida incerta sinistra con lo spauracchio d'un Ministero deliberatamente retrogrado, carpir voti di fiducia e concessioni codarde; ma non potete togliere a noi gli affetti della crescente generazione, a me la coscienza di ottener fede quando io dico: spegnere una vita—di contadino o di re poco monta—in virtù di teoriche d'espiazione, di vendetta o gastigo, è delitto: spegnere il tiranno, se dalla sua morte dipenda l'emancipazione di un popolo, la salute dei milioni, è fatto di guerra, e—se l'uccisore è puro d'altro pensiero e pone la vita in ricambio—virtù. Qualunque diversa opinione mi si apponga, è calunnia.
Ho detto che salutereste liberatore ed eroe l'uomo dal cui pugnale escisse, come dal dardo di Tell, l'insurrezione trionfante d'un popolo. E dico che salutereste glorioso fra tutti i popoli quel popolo che, sprovveduto d'altre armi, trovasse modo d'emanciparsi dall'oppressore straniero con soli pugnali. I vostri poeti inneggiarono in ogni tempo ai pugnali che liberarono col Vespro la Sicilia dagli invasori Francesi. I vostri scrittori politici, Balbo fra gli altri, proposero venti volte all'Italia l'esempio della Guerra d'Indipendenza spagnuola; e fu, come la intimava il grido energico di Palafox, guerra a coltello. Tra voi e me non corre differenza se non quest'una: ch'io dico: santa è ogni guerra contro lo straniero, e onoro chi la tenta s'anche soccombe; voi dite: santa è ogni guerra che vince, e insultate ai caduti. Voi gittate l'oltraggio sugli arditi popolani Milanesi del 6 febbrajo: li avreste detti magnanimi e salvatori del paese, se avessero vinto. Voi di certo non credeste che un popolo servo dello straniero e capace di liberarsi non debba farlo, sol perchè l'armi rimaste in sue mani non raggiungono una data lunghezza; voi credete morale l'uso d'un'arme da fuoco sparata di dietro da una barricata, o di una granata avventata in una insurrezione nazionale da un tetto di casa, e gridate immorale l'uso d'un pugnale brandito sul petto al soldato straniero da chi avventura nel tentativo la vita. Voi non credete, in guerra, colpa le sorprese o infamia le mire: voi non offrireste duello al masnadiere che v'occupasse la casa, ma fareste arme d'ogni cosa a liberarvene speditamente e col menomo vostro pericolo. A voi riesce mal gradita l'insurrezione iniziata da popolani. Come piegare davanti al prestigio monarchico moltitudini che hanno raggiunto coscienza di emanciparsi da sè? Dietro a tentativi come quello del 6 febbrajo, voi intravedete il fantasma, che vi turba i sonni, della sovranità popolare; dietro a un Vespro, la dittatura indipendente degli uomini che lo diressero: quindi l'ire. Non millantate moralità. Se i popolani d'Italia vibrassero i loro coltelli al grido di Viva il re Sardo! e vincessero, voi li abbraccereste fratelli. E se vincessero anche senza [173] quel grido, voi li abbraccereste il dì dopo, per cercare d'impossessarvene e sviarne e tradirne i nobili istinti a benefizio d'un concettuccio ambizioso della monarchia.
Ma intorno al pugnale adoprato com'arme di guerra dal popolo, a cacciar dalla terra, ch'è sua, il ladrone straniero, non occorre ch'io spenda parole. Se gl'Italiani, determinati una volta a conquistarsi libertà e patria coll'insurrezione, si ritraessero, per dubbiezze intorno ai palmi e pollici delle loro armi, sarebbero, più che stolti, ridicoli. Se la bestemmia d'un popolo tormentato potesse, concentrata miracolosamente a veleno, spegnere in un subito e senza tempo a difesa quanti violano le nostre Alpi per avidità di potenza e d'oro, quanti contaminano di sozza tirannide e di pianti materni e di sangue di onesti le contrade che Dio ci diede, la bestemmia sarebbe santificata agli uomini e a Dio.
Ben giova ch'io noti come voi, dopo avere raccolto dai cadaveri di Orsini e di Pieri argomento a un artificio oratorio contro me e contro gli uomini del Partito d'Azione Italiano, abbiate dalle sciagure, alle quali i vostri volontariamente soggiacquero in Lombardia, tratto argomento, confondendo uomini e date, a calunniare le intenzioni dei repubblicani di Francia. Parlo del rifiuto dato alle domande d'ajuto contro l'Austria, indirizzate dal vostro Governo al Governo francese; rifiuto dal quale voi e il vostro collega Lamarmora avete desunto che: le repubbliche ebbero sempre una politica egoista, e che voi dovete allearvi all'impero.
Ogni membro della vostra Camera, che—pur corrivo ad accettare come verità di fatto le vostre dichiarazioni—avesse semplicemente serbato lume di logica, avrebbe potuto sorgere e dirvi: «La repubblica francese ricusò combattere le vostre battaglie; non volle scendere in campo per l'indipendenza italiana. Luigi Napoleone scese in campo contro l'indipendenza italiana; distrusse le libere instituzioni che s'erano impiantate sulla base del suffragio universale in Roma; i suoi soldati mantengono tuttora negli Stati Romani il dispotismo papale. Come potete biasimar la repubblica e lodar l'impero? Tra chi non compie il proprio dovere e chi viola patentemente il vostro diritto, perchè insultate al primo e adulate al secondo?»
Altri avrebbe potuto ridere della vostra scienza storica, e in risposta al vostro: mi si citi un sol fatto delle repubbliche di Grecia e di Roma—son le sole che ricordate—per cui si possa dire che esse portarono civiltà, chiedervi dove sarebbe la civiltà d'Europa se i repubblicani greci non avessero vinta la battaglia di Maratona e respinto l'elemento orientale, negativo d'ogni progresso;—come si sarebbe costituito un equilibrio qualunque di civiltà fra il mondo latino e il germanico, senza l'opera livellatrice delle conquiste di Roma repubblicana:—poi, se il programma delle nostre lotte contro il dominatore teutonico non sia stato dato in Pontida dai repubblicani lombardi:—se alle tendenze improntate dalle nostre repubbliche del medio evo non si debba il senso d'eguaglianza civile che, tra le oppressioni politiche d'ogni genere, ci colloca anch'oggi, in fatto di convivenza sociale, innanzi a parecchie nazioni d'Europa;—se non escissero dalle conquiste dei repubblicani veneti la civiltà delle spiaggie illiriche e i vincoli che ad esse ci stringono; chi arrestasse la fatale invasione del Maomettismo se non un figlio della repubblicana Polonia, Sobieski; a chi, se non ai repubblicani francesi della [174] fine dell'ultimo secolo sian dovuti i due terzi delle instituzioni di libertà e d'eguaglianza civile esistenti oggi in Europa.
Altri finalmente avrebbe potuto levarsi e dirvi: «La vostra affermazione, signore, è la vostra condanna. Voi potete dimenticare, ma noi non dimentichiamo, che voi, sostituendo al sacro pensiero nazionale la gretta ambizione d'una dinastia; alla Italia Una dall'Alpi al mare, il meschino concettuccio d'una Italia del Nord; all'emancipazione d'una razza intera, la tentata preponderanza di una frazione di quella, perdeste la nostra causa ed isteriliste i frutti d'un moto che aveva l'Europa con sè. In nome d'Italia, noi avevamo costretto i nostri principi a lasciar scendere le loro milizie sul campo delle sorti future della Nazione: parlando in nome del Piemonte, voi porgeste al Papa, al re di Napoli, al duca di Toscana l'ottimo fra i pretesti per retrocedere e ridiventare tiranni. La Francia repubblicana era presta ad appoggiare colle armi il popolo italiano; ma perchè una repubblica avrebbe dato il sangue de' suoi per fortificare i dominî territoriali di un re poco amante di libertà, odiatore di ogni instituzione repubblicana, non tenero della Francia, e pericoloso ad essa il giorno in cui egli avesse voluto, ristabiliti gli accordi coll'Austria, movere a' danni dell'imprudente soccorritrice? Voi non chiedeste mai per l'Italia. E a chi chiedeva per la monarchia di Piemonte non aveva la repubblica francese diritto di rispondere queste parole:—ove si tratti di soccorrere l'Italia, siam presti: possiamo anche combattere a fianco delle legioni piemontesi: ma rompere guerra per sostener gl'interessi del re di Sardegna, intrecciare la bandiera della Francia a quella di casa Savoja, la repubblica non può farlo—?»
Io vi dico invece: Signore, voi mentite alla storia; e parmi impossibile che contro le asserzioni vostre e dei vostri nessun deputato si sia richiamato ai documenti officiali.
Io non sono tenero, da molti anni in qua, delle cose francesi. So che la politica estera del Governo repubblicano di Francia nel 1848 non fu, per difetto d'omogeneità tra i membri che lo componevano, quale i tempi e la missione del principio repubblicano in Europa chiedevano. Le tendenze rappresentate da Ledru-Rollin nel primo Governo, poi nella Commissione esecutiva—tendenze che, per rispetto non foss'altro all'esilio determinato per Ledru-Rollin da un nobile tentativo a favore di Roma, voi, signore, non avreste dovuto mai calunniare—non erano secondate abbastanza da' suoi colleghi. Ma io affermo che la repubblica francese voleva ajutare coll'armi la emancipazione d'Italia, e affermo che il Governo Sardo non volle. È questione di fatto e non altro per me. Io credeva allora—e pubblicai la mia opinione sull'Italia del Popolo in Milano—che l'Italia, a patto di suscitare e porre in azione tutte le forze vive della nazione; a patto di non fidare la direzione della guerra a chi per inettezza o mal animo doveva fatalmente tradirla; a patto di combattere le battaglie d'Italia in Tirolo, sull'Alpi venete, a Trieste, non intorno alle quattro fortezze: a patto di combattere per l'unità, non per l'ingrandimento della monarchia sarda, poteva emanciparsi da sè. Lo credo tutt'ora. Ma voi, signore—e dicendo voi accenno al sistema che rappresentate, al Governo in nome del quale gittate l'accusa ai repubblicani di Francia—voi che, per terrore dell'elemento popolare, rifiutaste gli ajuti che la nazione poteva darvi all'impresa, voi che tradiste doppiamente il paese rifiutando quei che la Francia v'offriva, non dovreste oggi tornare sopra un argomento intorno al quale la menzogna sola può esservi puntello e difesa.
L'8 maggio, la Francia, per bocca di Lamartine, diceva: Se nazionalità conculcate, diritti calpestati, indipendenze legittime ed oppresse sorgessero, si costituissero con forze proprie, entrassero nella famiglia democratica dei popoli, e ci chiamassero a difesa dei loro diritti, ad ajutare la fondazione d'instituzioni conformi alle nostre, la Francia è pronta. La Francia repubblicana non è solamente la patria, ma il soldato democratico dell'avvenire.
Il 22 maggio, la Commissione esecutiva, parlando della questione italiana, ripeteva più esplicita:
Se i popoli d'Italia fossero troppo deboli—se questa indipendenza, questo diritto di rinascimento della nazionalità Italiana, che tutte le pagine della storia attestano, fossero assaliti, la Francia è presta; appiedi dell'Alpi, armata. Essa dichiara altamente ad amici e nemici, che al primo segnale varcherà le Alpi e stenderà agli Italiani una mano liberatrice. Fin dai primi giorni, noi abbiamo fatto comunicare alle potenze italiane la ferma volontà d'intervenire alla prima chiamata che ci si facesse; e conformemente a quella dichiarazione, abbiamo riunito appiè dell'Alpi, dapprima un esercito di 30 mila uomini, poi un altro che può, nello spazio di pochi giorni, sommare a 60 mila. E v'è tuttavia. Noi abbiamo aspettato una chiamata dall'Italia, e sappiatelo, malgrado il nostro rispetto per l'Assemblea Nazionale, se quel grido avesse traversato l'Alpi, noi non avremmo aspettato, ma avremmo creduto compiere anzi tratto la vostra volontà, movendo a soccorrere l'Italia.
La Commissione esecutiva parlava all'Assemblea Nazionale, e l'Assemblea Nazionale rispondeva il 24 con un decreto, nel quale ingiungeva alla Commissione di mantenere, a norma della sua condotta, il voto unanime dell'Assemblea, l'emancipazione dell'Italia.
Qual era intanto il vostro linguaggio?
Io non noterò come il 13 marzo il vostro ambasciatore in Parigi non avesse ancora col Governo della repubblica relazioni officiali. Non dirò i rimproveri fatti al Governo provvisorio lombardo per un timido indirizzo alla Francia. Non parlerò delle istruzioni date agli agenti vostri perchè esagerassero in Parigi le diffidenze italiane, e spegnessero, calunniando colla stampa, ogni simpatia coi Lombardi. Ma il 6 aprile protestavate formalmente contro l'assembrarsi dall'esercito alle Alpi.—«Non posso intendere»—scriveva il vostro ambasciatore Brignole—«quali siano i motivi che hanno potuto spingere a credere la sicurezza e la gloria della repubblica esigere l'avvicinarsi dei suoi soldati alla frontiera delle Alpi. Non è quella una frontiera amica?... Perchè parlare di guerra, d'entrare in campagna?... L'agglomerazione di un corpo considerevole presso ai dominî del re potrebbe suscitare inconvenienti gravissimi». Ed il 7 aprile insisteva in nome vostro l'ambasciatore: «È necessario che la Francia intenda ben questo: se mai l'esercito della repubblica varcasse l'Alpi senz'essere chiamato... l'influenza della Francia e delle idee francesi in Italia sarebbe per lungo tempo perduta. Non si vuole l'appoggio militare della Francia, se non il giorno in cui una strepitosa disfatta avrà provato che l'Italia sola è impotente a cacciar l'Austria al di là dell'Alpi... Ove la Francia intervenga prima dell'ora segnata dallo spavento pubblico, si griderà da un punto all'altro d'Italia: la Francia, della quale non avevamo bisogno, viene unicamente per dare sfogo alle tendenze che l'animano e che minacciano di trasarginare: essa non viene per conto nostro, ma per proprio conto. Essa aveva detto, nel suo programma, che rinunziava ad ogni conquista; e mentiva. Essa intende sostituirsi all'Austria... [176] E si desterà in tutti i cuori un odio implacabile, un odio italiano...».
E poco dopo l'ambasciatore diceva: «Io sono espressamente incaricato dal mio Governo d'esprimervi il suo desiderio che le truppe francesi siano tenute lontane dalla frontiera».
Il 22 maggio, il ministro Parete gridava alla Camera Torinese: «L'esercito Francese non entrerà se non chiamato da noi: e siccome noi non lo chiameremo, non entrerà».
E il 30 maggio, l'agente del Governo Provvisorio Lombardo, udendo che un buon numero di volontarî francesi s'ordinava per movere alla volta d'Italia e rassegnarsi al comando supremo—che era il vostro—della vostra guerra, s'affrettava ad interporre proteste: «La formazione di legioni di volontarî per la guerra lombarda potrebbe cagionare disturbi.... Il Governo di Lombardia non vede con piacere l'organizzazione di corpi ausiliarî siffatti»[141].
Tale fu, fin verso il finire di luglio, il linguaggio tenuto al Governo Francese dai vostri. Nè credo che, da quando il trattato di Vestfalia inaugurò quel congegno di menzogne e d'inezie che nominano diplomazia, si tenesse mai da un Governo linguaggio più imprudente e più stolto. Alla Francia, della quale si pronunciava potersi un dì o l'altro richiedere l'ajuto, il Governo Sardo diceva: «Non vi stimiamo leali: diffidiamo altamente di voi. Non vogliamo gli ajuti che ci profferite, oggi che le vostre armi congiunte alle nostre vincerebbero senz'altro la guerra; ma, se un giorno cadremo, allora, cadendo, vi chiameremo. Non potremo più allora secondarvi. I danni, i pericoli della guerra saranno tutti vostri. Nondimeno, dopo avere ricambiato le vostre offerte con orgoglio e disprezzo, v'invocheremo, giacendo, a fare per noi, senza vostro pro, ciò che noi non potemmo; e se non vorrete, vi accuseremo di tradimento al principio, aborrito da noi, che rappresentate.» E all'Italia, pur predicando: fate, da voi, temete gli ajuti di Francia, il Governo liberatore diceva: «tenete le baionette di Francia in serbo pel giorno nel quale dovrete invocarle nel terrore e nella vergogna della disfatta: rifiutatele oggi che potete averle onorevolmente alleate; le accetterete quando avrete perduto ogni diritto a moderarle e giovarvene senza pericolo. Sdegnate, irritate col sospetto lo straniero che vi si offre fratello, e che voi, forti e rispettati, potete contener nei limiti della fratellanza; ma preparatevi fin d'ora a chiamarlo supplici, quando nulla gl'impedirà d'esservi padrone; quando, trovandovi inermi ed impotenti, ei potrà rivendicare, senza ostacolo da parte vostra, i diritti del benefattore insolente, e sarà tanto più allettato ad esercitarli quanto più ei ricorderà d'essere stato offeso da ingiusti sospetti da voi.» Son queste le avvedutezze politiche della monarchia piemontese.
Dopo gl'infausti moti del giugno, la Repubblica perdeva intanto, per terrore d'una anarchia che avrebbe potuto e non seppe padroneggiare, coscienza di sè; si sviava affidandosi a una dittatura militare, a tendenze illiberali di resistenza. Il 24, Cavaignac, uomo d'anguste vedute, per difetto d'ingegno e per abitudini soldatesche, repubblicano solamente di nome, assumeva il potere. Allora la Francia, che [177] aveva sinceramente desiderato combattere con noi per lacerare gli aborriti trattati di Vienna, cominciava a riconcentrarsi nell'egoismo di paese, e desiderava astenersi da imprese più di principio che non d'interesse. Pur, se voi volevate, cedeva: cedeva, vincolata dalle solenni profferte anteriori e dall'ingenito orgoglio. Non volevate. Al vostro Governo pareva meglio fin d'allora perder la guerra con un titolo monarchico in portafoglio per le contingenze future, che non vincerla con l'aiuto di soldati repubblicani e a rischio di risuscitare nel nostro popolo le idee che gli avevano procacciato l'ardire della vittoria sulle barricate. Quel titolo, quel documento, l'atto della fusione, era fin dal 13 giugno nelle mani di Carlo Alberto. Che importava dell'Italia al re e agli uomini della Monarchia? Non l'amavano come l'amiamo noi; e non avevano genio nè audacia per tentare di conquistarne il dominio.
Il giugno e il luglio passarono fra positive sconfitte e bandi di vittorie ideali, senza che si fiatasse sillaba d'intervento. Il ministro Pareto parlava, se ben ricordo, sul finire del luglio, di resistere apertamente ai Francesi, ove si attentassero di varcare le Alpi. Il 31 bensì, sotto il fremito delle popolazioni, che incominciavano a indovinare la disfatta e a sentirsi tradite, si mutava linguaggio, e si annunziava officialmente ai Lombardi che il Ministero piemontese chiedeva formalmente l'intervento di Francia. Non era vero. S'era, tra per deludere il popolo e sviarlo dall'ordinarsi a difesa, tra per contrabilanciare presso il Governo francese l'influenza dei lombardi Guerrieri, Trivulzi e Mora, accorsi in Parigi a sollecitare ajuti, spedito da Torino Alberto Ricci; ma non richiedeva, impediva; e ne abbiamo la prova in un documento indirizzato in quel torno al Cavaignac da Felice Foresti, Tommaso Gar, Aleardi, colonnello Frapolli, Giulio Carcano, segretario del Governo provvisorio, ed altri. Anche su quegli estremi, e benchè a malincuore, Cavaignac si dichiarava pronto a operare purchè le domande lombarde venissero appoggiate dal Governo piemontese, sulle cui terre bisognava por piede. Ma il 2 agosto, quando gli Austriaci erano a qualche lega da Milano, il vostro ambasciatore era muto: muto il 3, il 4, il 5 e il 6. Non fu che sul mattino del 7 agosto, due giorni dopo la dedizione di Milano, quando non un solo milite piemontese rimaneva sul territorio lombardo, che il Brignole richiese intervento. Era derisione o stoltezza? E fu stoltezza o impudenza di chi sa che la maggioranza della Camera accetta ciecamente ogni affermazione ministeriale, quella che v'indusse a muovere accuse ai repubblicani francesi? Le date v'uccidono, e lo sapevate. Che importa il dispaccio spedito il 23 luglio dal marchese Brignole, sul quale la vostra stampa ha menato tanto romore? Opporrete, voi ministro, ai documenti ufficiali il ragguaglio essenzialmente incerto d'una discussione segreta del Comitato degli affari esteri? E se anche il ragguaglio fosse esattamente conforme al vero, come poteva darvi diritto di assalire, per compiacere all'Impero, quei che, nel vostro discorso del 16, voi chiamate gli amici i più spinti della rivoluzione, i Ledru-Rollin e i Bastide? Il nome di Ledru-Rollin non è nel dispaccio, e Bastide dichiara, a detta dell'ambasciatore, non curarsi della Savoja o di Nizza; la Francia dovere, lietamente o no, concedere ajuto, se chiesto. Ben risplende in quel dispaccio l'arte solita di voi e dei vostri di attribuire senza cagione alcuna agli uomini che vi sono avversi i disegni men buoni. Ricordo Balbo, che, mentre io fondava la più unitaria di tutte le nostre associazioni politiche, stampava che io voleva ricostituire le repubblichette del medio evo. Così il vostro Brignole accusa il Bastide, perchè avverso a un [178] ingrandimento territoriale di casa Savoja, di voler favorire la divisione dell'Alta Italia in piccoli Stati. Al patrizio Brignole non si affacciava la semplice idea che un repubblicano potesse vagheggiare nell'animo la Italia Una fatta repubblica.
Voi rifiutaste gli ajuti della Repubblica Francese, quand'essa li offriva. Li invocaste, quando, disfatti, impotenti—e lo provò più tardi Novara—a rifar la guerra, e mutato già, in Francia, l'andamento delle cose, sapevate che avreste rifiuto: e lo accertaste più sempre, aggiungendo alla domanda, per tutelare le istituzioni contro i pericoli di una propaganda politica[142], condizioni indecorose, inaccettabili dalla Francia. Questo è ciò che la storia dirà. E dirà, come, respinti anche i semplici volontarî francesi, disarmati siccome masnadieri i militi della Legione Antonini appena scesero sul vostro suolo, ricusaste pure il soccorso offertovi da un colonnello del Canton di Vaud, di 2000 carabinieri svizzeri. Più assai che non gli Austriaci, il vostro Governo temeva l'apparire in Italia di soldati repubblicani.
Le linee dunque del vostro discorso del 16 aprile, nelle quali, senza citar date, anzi travolgendole,—dacchè il nome di Ledru-Rollin come membro del Governo indurrebbe a credere che la domanda di cooperazione fosse anteriore all'agosto,—gittate l'oltraggio ai repubblicani, sono a un tempo, o signore, una menzogna, una calunnia e un indegno artificio, che i vostri Deputati, se curassero d'appurare la storia dei tempi, avrebbero dovuto respingere. Il sangue d'un popolo italiano, tradito nel 1848 dalla monarchia, vi comandava di non tornare su quell'argomento. Bastavano per arra di servilità al nuovo vostro alleato la Legge Deforesta, l'oscena caccia data agli esuli italiani sul vostro terreno, e le persecuzioni alla libera stampa.
Questa vostra nuova alleanza col Bonaparte, alla quale la vostra stampa spianava da qualche tempo la via e che voi avete arditamente confessata negli ultimi vostri discorsi alla Camera e più nei vostri atti, dovrebbe, parmi, aprir gli occhî agli uomini che in buona fede sognano tuttavia iniziatrice della emancipazione italiana la monarchia del Piemonte. E dovrebbe aprirli sul valore del vostro senno politico. Fra i Governi costituzionali e i dispotici, tra l'Inghilterra e l'Impero, voi scegliete di stringervi alla tirannide dell'Impero, e vi stringete ad essa quando appunto essa accenna a rovina.
Non so se gli uomini ai quali alludo si avvedano che l'alleanza col Bonaparte vale inevitabilmente da parte vostra: accettazione dell'assassinio di Roma:—negazione d'ogni unità o unificazione italiana:—negazione di libertà per qualunque parte d'Italia rovesciasse, sotto i vostri auspicî, il suo governo:—patto nefando di promovere la dedizione del sud a un prefetto dell'Impero, Murat, purchè il Bonaparte cooperi a che i dominî del re vostro s'impinguino dei Ducati; dico dei Ducati e non d'altro, perchè le segrete millanterie sul Lombardo-Veneto non sono per voi che artificio di chi chiede il più per ottenere il meno più agevolmente. Nessuno può ragionevolmente supporre che il Bonaparte, senza altro sostegno oggimai che i pretoriani e il clero cattolico, getti disfida mortale a quest'ultimo, assalendo il papato: nessuno, ch'ei possa mai offendere irreconciliabilmente [179] l'orgoglio francese, lasciando che un suo prefetto conceda a Napoli libertà contese alla Francia: nessuno ch'ei, più corrivo di Lamartine, v'ajuti a fondare nel nord dell'Italia un vasto e potente Regno, minaccioso il dì dopo pei dominî ch'egli avrebbe impiantato nel sud. Gli uomini che hanno votato con voi contro la offesa dignità del paese, contro l'indipendenza dei giurati e della stampa, non per sola paura, ma per conquistare alla causa italiana gli ajuti del Bonaparte, hanno tradito, ad un'ora, Italia, logica e senno elementare politico.
Bonaparte tende a impiantare, scimmiottando Napoleone su scala pigmea, la dinastia di Murat in Napoli. Odiatore cupo dell'Inghilterra d'antico, riconcitato ad odio novello dalla civile condotta del popolo che ci porge asilo, e certo di averlo dichiaratamente avverso ai suoi disegni sul mezzogiorno d'Italia, ei cerca prepararsi una diversione contro l'Inghilterra, stringendo un patto segreto con la Russia e suscitando guerra in Oriente; un'altra contro l'Austria, spingendovi, quand'ei faccia, a dimostrazioni che ne tengano a freno gli eserciti. Voi, noncurante d'onore o di patria comune, avete accettato, in qualità di cooperatore, il disegno, perchè ei vi ha promesso di ajutarvi ad ampliare di zona più o meno angusta i dominî di casa Savoja. È questo il segreto della vostra politica d'oggi. Voi lo negherete, come, giovandovi della dimissione di un vostro collega, negaste la verità di un'altra mia accusa, proferita, non contro voi individualmente, ma contro il vostro governo: io lo affermo. Gli uomini che giudicheranno spassionatamente fra voi e me, sanno che i segreti di Stato possono scoprirsi, non documentarsi, e studieranno le prove del vero che io affermo nei menomi atti dello Tsar di Russia, di quello di Francia e di voi.
Ministro di re costituzionale e promotore, per debito al principio che rappresentate, d'interessi dinastici, voi cercate le vostre alleanze esclusivamente fra i despoti. Italiano, e millantatore di concetti emancipatori, voi tradite deliberatamente l'Italia, ripetendo la parte di Lodovico il Moro; chiamando la tirannide straniera al di qua dell'Alpi, e dando assenso a un nuovo dominio e ad una potente influenza, difficile a sradicarsi, dove un Governo aborrito da tutti e logorato da lungo tempo nell'opinione sta per cadere. Uomo di Stato e pensatore politico, voi create al Governo inglese la necessità di accostarsi all'Austria e condannate all'isolamento il Piemonte, il giorno, inevitabile e non lontano, in cui sotto il colpo ardito di un vendicatore, o sotto l'ira oggi visibilmente ridesta della Francia, l'Impero mal sorto cadrà. Inaugurereste, se mai poteste riuscire, la più tremenda guerra civile che mai si sia veduta in Italia. Intanto voi mutilate, per compiacere al despota straniero, le libertà dello Stato: inacerbite, con la persecuzione sistematica ai suoi giornali, i giusti rancori di Genova, e stampate sulla fronte all'unico popolo italiano, che rappresenti in faccia all'Europa il germe del nostro avvenire, la vergogna di un'alleanza con l'uomo che uccise la libertà della propria patria, e fece mietere in Roma il fiore dei nostri giovani. Questi sono, mercè la vostra politica, i risultati di dieci anni di libera vita pel Piemonte, considerato come provincia e, un tempo, come speranza d'Italia!
Dieci anni di libera vita! Dieci anni di libera parola e di opere libere, coi mezzi, colle forze di un popolo di quasi cinque milioni, razza lenta forse, ma virile e tenace; con un esercito prode, e consacrato [180] dalle prime battaglie per l'indipendenza della Nazione; con un naviglio come il ligure; con la Lombardia e con la Svizzera sulle frontiere; con l'amore, coi voti, col palpito di tutta Italia per voi; con una posizione strategica che non concede intervento sul vostro terreno senza guerra tra l'invasore e le potenze gelose d'equilibrio europeo—e nulla, nulla fuorchè una politica di repressione al di dentro e la vergogna d'una alleanza col parricida di Roma al di fuori! Ah, se voi, ministri di casa Savoja, aveste avuto, non dico scintilla di genio, ma scintilla d'affetto per questa nostra povera Italia, che non avreste potuto fare! Basta per questo intendere che voi, rimasti soli salvi tra le rovine del 1848, eravate chiamati a rappresentare la fede, non di Carlo Alberto—la fede di Carlo Alberto suona ironia—ma dell'Italia; che la fede dell'Italia, repubblicana o monarchica poco monta, è fede, non di miglioramenti progressivi sotto i padroni attuali, ma d'Unità Nazionale, di libertà, di vita propria per migliorare da sè, non a beneplacito altrui: che Unità e Libertà Nazionale non si fondano se non per insurrezione di popolo, per modo collettivo, operoso degli elementi interni, col sangue e col sacrificio degli abitatori del suolo; che legge suprema d'ogni Governo stabilito e di ogni diplomazia, quantunque propizia, è piegare, più o meno rapidamente, davanti al grande fatto d'un popolo che si leva potente e volente, impedirgli di levarsi, finchè può e quanto può; che quindi la vostra politica dovea fondare le sue speranza unicamente sul popolo d'Italia, e sul levarsi simultaneo o speditamente successivo dei popoli che hanno comuni con esso diritti, bisogni, speranze. Bastava intendere che era vostra missione di rappresentare sopra tutto, nei menomi vostri atti, in ogni vostra parola, la moralità della Nazione nascente, vergine d'ogni fallo passato e d'ogni corruttela presente, fidanzata unicamente ai principî che la devono reggere, tanto che Governi e popoli sentissero che una nuova vita chiedeva ammissione fra le vite nazionali d'Europa, che un nuovo elemento di progresso morale chiedeva aggiungersi a quelli che già fermentano in seno all'Umanità. Allora avreste assunto all'interno contegno tale, che, senza metterci a pericolo fuorchè di qualche nota segreta, avrebbe fatto dire a tutta Italia: il Piemonte non è uno Stato definito, limitato, vivente di vita propria; è l'Italia in germe; è la vita Italiana, concentrata a tempo a' piedi delle nostre Alpi: avreste mantenuto una politica d'isolamento guardingo, altero, come di chi presente il futuro e si tiene in serbo per esso, nè accetta contaminarlo di concessioni ad un presente che sa condannato. Avreste detto a quanti esuli ha l'Italia: qui è terra vostra; qui godrete, purchè v'informiate alle leggi, d'ogni diritto di cittadino. Avreste, come si protestava ogni anno nella Francia costituzionale in favore della Polonia, interposto ogni anno protesta pacifica ma solenne contro l'occupazione straniera di Roma. Avreste studiosamente evitato ogni contatto con l'Austria, evitato ogni guerra, ogni lega, ogni protocollo, che dovesse trascinar seco la necessità di porre il nome vostro accanto a quello dell'oppressore del Lombardo-Veneto. Le vostre alleanze sarebbero state coi popoli liberi, con la Svizzera, col Belgio, coll'America, coll'Inghilterra. L'opera segreta dei vostri agenti avrebbe tentato ogni modo per gettare semi di fratellanza futura, e cooperazione pel momento decisivo, cogli Ungheresi, cogli Slavi del Sud, coi Rumeni, coi Greci, con quanti popoli lavorano a svincolare la propria indipendenza nazionale dallo strato sovrapposto d'oppressione straniera. Non avreste accettato di proteggere coll'armi l'integrità impossibile e ingiusta d'un Impero che è l'Austria d'Oriente. Non avreste temperato il vostro linguaggio [181] nelle conferenze, quasi a insegnare ai Governi come possa evitarsi la rivoluzione d'Italia, ma vi sareste limitato ad alzare la voce, in suo nome, narrandone i guaî e accennando alla futura Nazione come al solo inevitabile rimedio. Avreste in somma afferrato ogni opportunità, non per mendicare miglioramenti che sapete di non ottenere, ma per farvi rappresentante del Diritto Italiano; per fare intendere a tutti, amici e nemici, che voi potete obbedire alle circostanze, posar sulle armi e durar pacifici per entro alle vostre frontiere, ma che quelle armi sono italiane, e da consecrarsi, appena sorga un momento propizio, all'Italia. E pel resto, avreste dovuto lasciare far noi; noi che, certi una volta delle vostre intenzioni, avremmo studiato le vie per non porvi a rischio prima del tempo; noi che vi abbiamo più volte offerto, non di rinnegare la nostra fede repubblicana—questo non potevate nè dovevate pretendere—ma d'affratellarci con voi sotto bandiera comune, quella della sovranità nazionale. E a voi, s'anche amavate più la casa di Savoja che non l'Italia, quella profferta dovea sorridere. Voi non potete, senza stoltezza, credere in una serie di principi: noi ci accostiamo rapidamente a tempi, nei quali ogni monarchia sparirà. I vostri affetti devono concentrarsi sul regnante d'oggi. Or la potenza che vi danno le forze che portate sul campo, e l'abitudine inveterata nei popoli di essere e mostrarsi grati anche a scapito della propria salute, v'assicuravano che, serbando a quel re il vanto di aver contribuito con le armi a liberare il paese, voi gli serbavate, se non la corona, la presidenza almeno d'Italia.
Diseredato egualmente di genio e d'amore, voi sceglieste altra via; via funesta egualmente alla nazione e alla dinastia, e indecorosa per voi. Maneggiarvi astuto fra la rivoluzione e i Governi, tanto da reprimere o indugiare la prima, pur parendo promoverla, e accarezzare i secondi finchè durano, pur preparandovi a giovarvi della loro caduta: recitare agli uni la parte di futuro liberatore dalla tirannide, agli altri quella di salvatore dall'anarchia e dalla temuta insurrezione popolare: tenervi amica la Diplomazia, tanto da potere un giorno, ove mai sorgesse il momento di mutare governativamente l'assetto europeo, affacciarle la pergamena della fusione, e tenervi amici creduli i popoli, tanto da poter dir loro quando il gemito dei patimenti si tramuterà in fremito di battaglia—io era dei vostri: cospirare con animo di non far mai, e affliggere di persecuzioni e calunnie qualunque cospiri per fare: impedire le aspirazioni del partito nazionale in Piemonte e confortarle al di fuori: tentare di mantenervi accetto ad un tempo ai tristissimi Governi attuali e ai popoli: è parte, non d'uomo di Stato che intravede l'avvenire e dirige verso quello la vita del paese che regge, ma di politico della giornata, che accetta il presente qual ch'ei si sia, e cerca soltanto apprestarsi a far monopolio dell'avvenire ove, per fatto altrui, sorga propizio: e parte, non d'un Richelieu—profanerei, citandoli, i nomi di Washington e Bolivar—ma d'un ultimo allievo di Mazarino. Ed è la vostra. La politica d'altalena, tradizionale nella casa Savoja, ha trovato in voi l'ottimo degl'interpreti. Ma la dubbia, tentennante, immorale politica dei vostri principi si librava nel passato tra Francia ed Austria, tra Governi e Governi; poteva quindi, giovandosi or dell'uno or dell'altro, carpire ad alleanze o disfatte una frazione di territorio ad arrotondarne i regî dominî; voi siete collocato in oggi tra Governi destinati a cadere e un popolo chiamato a sorgere e farsi Nazione. Il giorno fatale vi troverà senza alleati, e travolgerà nell'onda popolare la vostra politica e la dinastia.
Non so se i vostri s'illudano, ma voi di certo non v'illudete. L'Italia, checchè avvenga, non può farsi Piemonte. Il centro dell'organismo nazionale non può trasferirsi all'estremità. Il core d'Italia è in Roma, non in Torino. Un monarca piemontese non conquisterà Napoli mai: Napoli si darà alla Nazione, non mai a un principe d'altra provincia italiana. Il principio regio non può rovesciare il papato, e aggiungere ai proprî i dominî del papa. Un ministro di re non potrà mai lacerare i trattati, rompere i vincoli che lo legano all'equilibrio attuale d'Europa, e invadere il terreno tenuto a conquista dall'Austria. Voi, uomini della monarchia, non potete iniziare la lotta, non potete fare l'Italia. Il popolo solo lo può. E chi non vede, o non confessa il vero che io scrivo, è stolto, o cerca, ingannando i creduli, pretesti alla propria inerzia. Io dunque non vi accuso perchè non vi cacciate a imprese impossibili; non v'accuso perchè non liberate coll'armi il paese. V'accuso perchè, pur sapendo di non potere e di non volere fare l'Italia, andate millantando che la farete. V'accuso perchè spargete per ogni dove voci di disegni che non avete in animo di ridurre in atto, sviando così molti dal seguire partiti più logici e generosi. V'accuso perchè, congiurando col tiranno di Francia, e cedendo Napoli, per quanto è in voi, a un dominio straniero, persistete ad ammantarvi della veste di emancipatore. Vi accuso perchè, fomentando segretamente odî inutili all'Austria ed al papa, vi giovate dei mezzi che il Piemonte vi dà a impedire di far noi, che soli vogliamo davvero rovesciare l'una e l'altro. V'accuso d'aver fatto quanto era in voi per travisare all'estero il nostro problema e persuadere col vostro linguaggio segreto e pubblico che si tratta per noi di miglioramenti amministrativi e d'ordini civili men rei, da introdursi nei diversi Stati d'Italia, quando la prima, la vitale questione, l'unum necessarium per noi, è l'essere Nazione Una dall'Alpi al Mare. V'accuso di combattere noi colle armi sleali della calunnia, mentre in core siete convinto che noi possiamo essere ogni cosa fuorchè colpevoli; che adoriamo una santa idea; che possiamo essere ostinati, non ambiziosi; utopisti, non ingannatori; rivoluzionarî, non demagoghi o sovvertitori pazzi e feroci.
E v'accuso sopratutto di due gravissime colpe: d'avere impiantato un dualismo fatale di Piemonte e d'Italia dov'era, prima del 1848, concordia assoluta di voti e d'opere; e d'avere corrotto, per quanto è in voi, l'educazione del nostro giovane popolo, sostituendo una politica di artificî e menzogne alla severa, franca, leale politica di chi vuole risorgere.
Era vostra missione d'italianizzare il Piemonte e prepararlo a confondersi nella patria comune, della quale esso avrebbe potuto essere la prima provincia, come il re vostro avrebbe potuto esserne il primo cittadino. Voi, guardando al Piemonte come a Stato destinato a vivere di vita propria, lo avete educato a rinegare la madre comune; a considerare una libertà, figlia del moto nazionale del 1848, siccome conquista propria, a mutare i diritti di libera azione, che dovevano essergli arma ad emancipare i venti milioni di fratelli schiavi, in egoismo che calcola se il tentativo a pro dei fratelli non possa per avventura fruttargli la perdita d'un godimento. Avete inaugurato la politica dell'esempio, come se, a chi vive in ricchezza splendida, non incombesse debito alcuno verso il congiunto che geme nella miseria, fuorchè l'insegnargli il perchè della sua condizione diversa. Prima [183] di voi, si cospirava per l'unità d'Italia, in Piemonte, nell'esercito e nelle classi cittadinesche; una tradizione di martiri per la Nazione, da Garelli e Laneri a Tola e Gavotti, da Santa Rosa a Ruffini, s'inanellava colla lunga tradizione sulla quale poggia la Fede Italiana: oggi, si condannano tra voi alla galera uomini che, come Savi, promovono colla penna la causa dell'unità, e si caccia raminga da Genova la vedova di Pisacane, senza che un deputato alla vostra Camera levi una voce di generosa protesta.
Era vostra missione promovere l'educazione morale d'un popolo che s'affaccia, ingenuo, incauto, corrivo, benedetto oltre ogni altro d'istinti buoni, ma facile a traviarsi, alla vita nuova. E voi gli avete dato la scienza dei popoli incadaveriti, il machiavellismo dei secoli nei quali la coscienza è muta, il culto degli interessi, l'adorazione della forza e del delitto che riesce, l'artificio de' vecchi Stati, retti a monarchia costituzionale, l'ipocrisia che travolse la Francia ove or giace. Gli avete insegnato a mentire al proprio fine, ed allearsi con chi ha il suo disprezzo, a diffidare di quei che lavorano per esso. Lo avete sedotto a spendere sangue ed oro per mantenere l'integrità d'un impero nel quale, come nell'impero d'Austria, le popolazioni indigene s'agitano sotto l'arbitrio d'una minoranza conquistatrice, diversa per razza, lingua, religione, abitudini. L'avete educato alla tattica dei partiti scettici, che hanno per bandiera nome di uomini e non principî: a decidere delle questioni politiche, non dalla nozione del giusto e dell'ingiusto, ma dall'utile fugace di un giorno; a votare in favore di leggi che credete triste, per evitare il possibile ritorno di certi uomini al Ministero. Avete innestato sulla giovinezza di un popolo, che non può meritare la cittadinanza dell'Europa futura se non con una fede rappresentata in tutti i suoi atti, la dottrina materialistica dell'espediente, l'egoismo della paura, l'ateismo del calcolo, che uccide l'entusiasmo, solo operatore di grandi cose.
E tutto questo a qual pro?
Che otteneste voi, adulandone le tradizioni, dalla diplomazia? Avete in dieci anni di concessioni, di guerra fatta, per accarezzare i Governi, a noi, e di silenzio obbrobrioso sulla perenne occupazione di Roma, conquistato un solo palmo di terra italiana a libere instituzioni? strappato un solo miglioramento alle condizioni, non dirò politiche, ma amministrative, degli altri Stati? rotto i ceppi a un solo dei miseri che gemono nelle cento prigioni d'Italia? fortificato, ordinato, armato, educato il partito? No. La vostra politica non ha fruttato—lo confessate voi stesso nel vostro discorso del 16 aprile—un solo risultato materiale:—non ha fruttato—questo possiamo arditamente aggiungerlo noi—un solo grado di progresso morale alla causa della nostra Nazione.
S'è proclamato, voi dite, in faccia all'Europa che le condizioni d'Italia abbisognano d'energici rimedî. Signore! Il proclama che voi attribuite alla politica del marchese d'Azeglio e alla vostra, s'è scritto e si scrive, da oltre mezzo secolo, col sangue dei mille martiri, che dai Napoletani del 1799, a Pisacane ed Orsini, spesero la vita combattendo, o sul palco; e non uno è vostro: la spesero, i più, in nome della Fede Repubblicana, tutti in nome della grande Idea Nazionale. Voi, spronato, costretto dal loro sagrificio a balbettare qualche timido, incerto lagno sulle condizioni d'Italia, avete rimpicciolito il grido potente, che viene dai loro sepolcri, a sommessa e codarda preghiera; avete, all'immensa aspirazione nazionale, al sacro e veramente divino Diritto d'Italia, ch'essi rappresentarono in vita ed in morte, sostituito l'immorale, disonorevole massima che anche dai nostri tiranni [184] noi possiamo, quasi mendicata elemosina, ottener libertà. Se l'Europa guarda su noi con affetto e speranza, è dovuto, non alla vostra incerta politica, ma alle cinque giornate lombarde, al giuramento d'insorgere, dato e attenuto dai Siciliani, alla difesa di Venezia, ai caduti di Curtatone, alle prodezze di Bologna e d'Ancona, ai fatti di Roma. Se l'Europa ci crede capaci di libertà vera e non violatrice degli ordini eterni sociali, è dovuto a ciò che essa vide di noi, per alcuni mesi, in Roma e Venezia. Se l'Europa conosce i nostri dolori, le nostre guerre, e i nomi dei santi che consacrarono a vittoria la nostra causa, è dovuto a noi, al nostro apostolato di venticinque anni, alle continue nostre pubblicazioni. E s'essa porge attento l'orecchio ad ogni suono che muova dal vostro Piemonte, è perchè, malgrado vostro, il Piemonte è Italia: perch'essa crede, illusa, che compirete il debito vostro, e moverete, un dì o l'altro, alla conquista, non d'una povera zona dei Ducati o della Toscana, ma dell'Italia. Non v'illudete. Il giorno in cui l'Europa avrà scoperto, come noi l'abbiamo da un pezzo, il segreto della vostra politica, essa torcerà il guardo da voi, e non ricorderà i vostri nomi se non per accusarvi con me d'aver ritardato l'emancipazione d'Italia, troncando il Partito in due, e sviandolo in direzioni diverse.
L'unico vitale decisivo progresso compito negli ultimi dieci anni in Italia, è quello delle classi operaje; è la diffusione della fede nazionale fra i popolani delle nostre città; è il loro tacito ordinarsi all'azione. E quel progresso non è vostro: vi cresce ostile. La tradizione nazionale e gl'istinti repubblicani fremono in seno a quell'elemento, ch'è arbitro, checchè facciate, dell'avvenire.
Tra noi e voi, signore, corre un abisso. I nostri sono due programmi radicalmente diversi. Perchè, come noi facciamo, nol dite? Perchè persistere a ingannare l'Italia e l'Europa sul vostro intento?
Noi rappresentiamo l'Italia: voi rappresentate la vecchia, cupida e paurosa ambizione di Casa Savoja.
Noi vogliamo anzitutto l'unità Nazionale: voi non cercate se non un ingrandimento territoriale nel nord dell'Italia ai regî dominî; voi avversate l'Unità, perchè disperate di conquistarla e di dominarla.
Noi crediamo nell'iniziativa del popolo d'Italia: voi la temete, e vi studiate di allontanarla. Voi sperate l'accrescimento sognato, dalla diplomazia, dal favore dei Governi Europei. Ogni iniziativa v'è dunque contesa, e voi non potete porgere alla Nazione opportunità per sorgere e costituirsi.
Noi vogliamo che il paese, sorto una volta che sia, scelga libero la forma d'instituzioni che dovrà reggerlo: voi negate la sovranità nazionale, e fate della monarchia una prepotente condizione d'ogni ajuto all'impresa.
Noi cerchiamo i nostri ajuti fra i popoli che hanno con noi comunione d'intento, di dolori e di lotte: voi li cercate fra i nostri oppressori, fra i poteri deliberatamente, necessariamente avversi alla nostra Unità.
Noi consacriamo tempo, mezzi, anima, vita, a persistere in una guerra che, attraverso una serie inevitabile di sconfitte, educa il nostro popolo a combattere, radica in Europa l'Idea che l'Italia vuole davvero, e deve infallibilmente conchiudersi colla vittoria: voi consacrate tempo, mezzi e politica, ad attraversarci la via, a perseguitarci [185] dovunque potete scoprirci, a denunciarci alle polizie dei Governi assoluti, a dissuggellare le nostre lettere, a cercar di sopprimere, legalmente ed illegalmente, i nostri giornali.
Noi adoriamo una fede: la Fede Nazionale;—un principio: il Principio popolare repubblicano;—una politica: l'espressione ardita, continua, colla parola e coi fatti, del Diritto italiano: voi piegate il ginocchio davanti alla forza, ai trattati del 1815, al dispotismo, a ogni cosa che sia, purchè sorretta da squadre grosse. Non avete scorta di moralità nè di fede.
Noi vi accusiamo: voi ci calunniate.
Tra voi e noi, signore, l'Italia giudicherà. Io penso talora che voi avreste potuto, volendo, fare l'Italia, e che la politica del marchese d'Azeglio e la vostra non sommeranno che a disfare il Piemonte.
Giugno, 1858.
Giuseppe Mazzini.
Sire,
Potete, di mezzo al frastuono di lodi codarde e di adulazioni servili, che i cupidi faccendieri, gli ambiziosi d'un giorno e i nati ad essere cortigiani d'ogni potere v'inalzano intorno, discernere e intendere la parola d'un uomo libero che nè teme nè spera da Voi, nè ambisce fuorchè di vivere e di morire in pace colla propria coscienza? Siete tale da porger l'orecchio, fra le premature adesioni d'intere provincie e le note insidiosamente carezzevoli di tutta una Diplomazia, alla voce solitaria d'un individuo, che non ha merito se non quello d'amare d'immenso e disinteressato amore l'Italia, e dirvi: —da quella voce può forse venirmi il Vero?—Allora, uditemi: però che io, parlandovi, non posso dirvi che il vero, o ciò che l'intelletto ed il core mi fanno credere vero. Repubblicano di fede, ogni errore di re dovrebbe, s'io non guardassi che al mio Partito, sorridermi, come elemento di condanna alla monarchia. Ma perchè io amo, più del Partito, la Patria, e Voi potreste, volendo, efficacemente ajutarla a sorgere e vincere, io vi scrivo. Vi scrivo da terra italiana, dove la persecuzione d'un Governuccio, che ciarla di libertà e manomette ducalmente gli esuli che gl'insegnarono quella parola, e il traviamento d'un Popolo illuso e il freddo abbandono d'uomini, or potenti e che mi furono amici, dovrebbero farmi credere morto ogni senso di libera coscienza e di libero avvenire in Italia. Ma per entro le viscere di questa terra popolata un tempo di Grandi d'anima, e dove il guardo erra dal Sasso di Dante ai ricordi delle patrie difese erette da Michelangiolo, scorre un fremito di vita potente, che tre secoli di tirannide sacerdotale e straniera non hanno potuto spegnere, e che aspetta l'ora di rivelarsi: vita concentrata, energica, collettiva di Popolo che fu libero e repubblicano quando l'Europa giaceva nelle tenebre del feudalismo; che irruppe tratto tratto in getti vulcanici da Procida a Masaniello, dal moto genovese del 1746 alle Cinque Giornate lombarde; e che sommergerà un giorno, nella pienezza della sua onda, le povere, intisichite vite pigmee ch'oggi s'attentano di scimmiarla. In nome di questa Vita—vita d'un Popolo che non è, ma sarà, vita, non d'una o d'altra zona italiana, ma d'Italia, che ha centro in Roma e informa tutte le membra del Paese, da Trento a Capo Passaro—io oggi vi parlo. Voi non la conoscete, Sire, questa vita: se la conosceste, non avreste mendicato all'impresa ajuti stranieri. I cortigiani, che vi ricingono il trono, ve la celano ad arte: sanno che non potrebbero governarla. Gli ingegni mediocri, che vi furono o sono ministri, e che studiano il segreto della terza Vita della Nazione nelle pagine scritte da Machiavelli sul cadavere di lei, non possono rivelarvela. La Diplomazia, che ha posto assedio intorno all'anima vostra, la nega, perchè ne trema. Io la conosco, perchè, nato [187] di popolo, la esplorai nell'amore, nel dolore, nel sacrificio di ogni cosa più cara, e coll'anima pura d'ogni desiderio che riguardi me stesso.
Sire, Voi siete forte; forte, sol che Voi vogliate, di quella Vita; forte di tutta la potenza invincibile ch'è in un Popolo di ventisei milioni, concorde in un solo volere; forte più di qualunque altro principe che or vive in Europa, dacchè nessuno ha in oggi tanto affetto dalla propria Nazione, quanto Voi potreste suscitarne con una sola parola: Unità:—Voi non avete osato proferirla quella parola: però non sapete ciò che può essere, ciò che può darvi l'Italia. La forza latente che quella parola, risolutamente pronunziata, chiamerebbe in azione, v'è ignota.
L'Italia cerca Unità. Essa vuole costituirsi Nazione Una e Libera. Dio decretava questa Unità quando ci chiudeva tra l'Alpi eterne e l'eterno Mare. La storia scriveva Unità sulle mura di Roma; e il concetto unitario ne usciva così potente, che, varcando i limiti della Patria, unificava due volte l'Europa. Il lento lavoro dei secoli ha logorato di tanto le differenze che invasioni, colonie e conquiste aveano posto tra le famiglie seminate sulla nostra terra, che più d'ogni altro forse il nostro Popolo rappresenta quasi universalmente, comechè servo e smembrato, nelle usanze e nella convivenza sociale, il sentimento della eguaglianza. L'Unità d'Italia fu l'ideale dei nostri Grandi, da Dante a Machiavelli, da Machiavelli ad Alfieri. Nel nome della Unità muoiono da mezzo secolo, col sorriso sul volto, sui patiboli o coll'armi in pugno, da Messina a Venezia, da Mantova a Sapri, i nostri migliori. Nel nome dell'Unità noi iniziammo e mantenemmo, privi di mezzi e influenza, e perseguitati, e cento volte sconfitti, tale una crescente agitazione in Italia, da far della Questione Italiana una Questione Europea, e somministrare a Voi, Sire, ed ai vostri il terreno ch'oggi vi frutta lodi e potenza. L'Unità è voto e palpito di tutta Italia. Una Patria, una Bandiera Nazionale, un solo Patto, un Seggio fra le Nazioni d'Europa, Roma a Metropoli: è questo il simbolo d'ogni Italiano.
Voi parlaste d'Indipendenza. L'Italia si scosse e vi diede 50 000 volontarî. Ma era la metà del problema. Parlatele di Libertà e di Unità: essa ve ne darà 500 000.
Che cos'è l'indipendenza per Napoli, per la Sicilia, per la metà delle provincie Romane? Oltre a dodici milioni d'Italiani gemono sotto una tirannide domestica, eguale a quella esercitata sul Veneto dallo straniero. Il birro e il prete contendono ad essi ogni sviluppo di vita. Le galere, il bastone, il carnefice, sono sostegno ai Governi. Che importa ai miseri Perugini, che importa ai tormentati di Napoli e di Sicilia che la potenza dell'Austria non s'estenda oltre il Mincio? E Venezia? E Roma? Dov'è, senza Roma, l'Italia? Là stanno, come belva accasciata su cadavere di generoso, diecimila Francesi, stranieri anch'essi; e la tirannide papale non vive che di quell'ajuto. Voi v'alleaste con essi. La vostra Indipendenza non protegge il Santuario d'Italia. Ah, Sire! Non rimproverate l'Italia per non avervi dato di più: ammiratela per aver gettato a' vostri piedi, senz'ombra di patto, 50 000 vite di giovani, dietro un programma sì monco, sì meschino e ingannevole, come quello che Voi le affacciaste.
E badate. Malgrado le angustie e le contradizioni di quel programma, tanta era la fiducia in Voi, Sire, tanto l'impeto del lungo dolore e della lunga speranza, tanto il convincimento che il Piemonte non avrebbe voluto, una volta sguainata la spada, rimanersi a mezzo la via, che l'Italia era presta a ben altro. Se non che i vostri non vollero; [188] tremavan del Popolo; paventavano in esso la coscienza, crescente coll'azione, de'suoi diritti; in voi temevano che imparaste a conoscerlo. Sapete Voi, Sire, con quanto artificio, con quanta insistenza di predicazione codarda, s'ammorzò, per cinque mesi, ogni passione generosa, ogni fiamma d'entusiasmo, ogni nobile impulso di sacrificio in questo Popolo che si volea chiamare a rivivere? Come s'insegnò, da quei che parlavano in nome vostro, unica virtù la disciplina, l'inerzia, quasi le Nazioni s'educhino a forti fatti cogl'instituti gesuitici? Come fummo sistematicamente calunniati presso le moltitudini, noi che insegnavamo ad esse—in nome dell'Unità (Unità inevitabilmente regia, se il re la facesse)—la virtù della lotta, del sacrificio e del saper morire, pegno certo di vita? Come si profanò di scherno, quando non di sospetti feroci, dalle gazzette patrocinanti la vostra causa, l'ardita impresa degli uomini del febbrajo 1853, la protesta di Bentivegna, la sepoltura deserta di Pisacane? Sapete come fu dai vostri ricusata l'iniziativa che il popolo di Milano offriva di assumersi poco prima della guerra, quando gli Austriaci erano tuttavia pochi e potevano cogliersi alla sprovveduta? Sapete come alla Sicilia, ordinata a insorgere e irrequieta per gl'indugî durante la guerra, fu detto: no; attendete il cenno; e il cenno, per arcane ragioni, non andò mai? L'insurrezione del Sud, fervente la battaglia al Nord, fondava d'un getto l'unità del moto; fondava, in vostro nome, l'Unità dell'Italia: e nessuno, tra i maneggiatori che vi s'agitavano intorno, voleva o s'attentava di voler l'Unità. Intanto questo povero Popolo s'addottrinava a non credere in sè, a perdere ogni virtù iniziatrice, ad aspettar salute, non dal proprio furore, ma solamente dai battaglioni ordinati, dalle artiglierie e dai Generali in capo. E ne vedemmo gli effetti. Ma se, dall'inerzia di molti e dalle titubanze di tutti, Voi desumeste, Sire, che questo Popolo non ha in serbo altra vita da quella infuori che rivelava negli ultimi mesi, mostrereste di non conoscerne la natura nè la storia, e d'aver dimenticato i fatti d'undici e di dieci anni addietro. Le manifestazioni della vita d'un popolo stanno in ragione dell'intento che gli si propone, e dell'audacia dei capi che lo dirigono.
Sire, non bisogna dimenticarlo: Voi non v'affratellaste col Popolo d'Italia, nè lo chiamaste ad affratellarsi con Voi. Sedotto dalla trista politica d'un ministro, che antepose l'arti di Lodovico il Moro alla parte di rigeneratore, Voi rifiutaste il braccio del nostro Popolo, e chiamaste, senza bisogno, in un'ora infausta, alleate ad una impresa liberatrice l'armi d'un tiranno straniero; senza bisogno, dico, perchè se voi dicevate ai Lombardo-Veneti d'insorgere subitamente, quando l'Austria era, in Italia, debole e improvvida, e vi tenevate apparecchiato a seguire, i Lombardo-Veneti riconquistavano senz'altro la terra loro fra l'Alpi e il mare, e a Voi non rimaneva, per vincer la guerra, che correre, sprezzando gli avanzi nemici appiattati nelle fortezze, sui gioghi del Tirolo e dell'Alto Veneto. In quell'ora, della quale Voi dovete ancora ammenda all'Italia, Voi perdeste i nove decimi delle forze che il Paese era presto a darvi: perdeste gli uomini—e son più molti che i faccendieri non curan di dirvi—i quali, come noi, non adorano ciecamente l'idolo della forza, e non sagrificano a una menzogna la loro coscienza; perdeste tutti coloro che, davanti all'immenso apparato di guerra regolare, dissero a sè stessi: non hanno bisogno di noi; perdeste il Popolo, che sentì la diffidenza e pensò: il re non ci vuole; perdeste la consacrazione del santo entusiasmo, dell'ire sante, delle sante audacie che creano la vittoria; perdeste l'ajuto onnipotente della Rivoluzione, senza la quale non si [189] fonda, in Italia, Unità. Però che, Sire, stringendo la malaugurata alleanza, Voi rapivate alla Causa d'Italia, l'aureola di virtù che la faceva cara agli uomini e a Dio, per affratellarla col vizio e coll'egoismo; la facevate scendere dall'altezza di un principio al fango d'un interesse e delle oblique ambizioni altrui; mettevate un'opera di libertà sotto la tutela del dispotismo; toglievate ogni sanzione di moralità all'impresa; stendevate la mano liberatrice alla contaminazione del tocco d'un uomo la cui mano gronda del miglior sangue di Roma e Parigi; e quanto a Voi, Sire, invece d'un alleato, vi davate un padrone.
No, Sire; non rimproverate di freddezza l'Italia; non diffidate di questa terra che, schiava e smembrata, ha saputo, colla costanza dei tentativi e colla pertinacia de' suoi Martiri, farsi centro di tutte le questioni d'Europa—che, ridesta per brev'ora, fu capace di sperperare in Lombardia, in cinque giorni, un esercito di 75 000 uomini; capace di resistere per due mesi, in Roma, con 14 000 uomini raccolti sotto una bandiera di Popolo, a 30 000 e più Francesi; capace di resistere, con armi di militi improvvisati, per diciotto mesi in Venezia, ad Austriaci, fame e colèra; capace di combattere come combattè, colle braccia dei popolani, a Brescia, a Bologna, a Palermo, a Messina. Voi non l'avete voluta mai.
Sire, volete averla? Averla splendida davvero di entusiasmo, di fede e d'azione? Averla con forze tali da far sì che ogni Diplomazia s'arresti impaurita, ogni disegno d'avversi si sperda davanti a essa?
Osate.
La prudenza è la virtù dei tempi e delle condizioni normali. L'audacia è il Genio dei forti, in circostanze difficili. I popoli la seguono perchè vi scorgono indizio di chi non li tradirà nel pericolo. La fede genera la fede. Maturi i tempi per una impresa, nella potenza della iniziativa sta il segreto della vittoria. S'anche oggi seguiamo noi tutti, ammaliati o tementi, le fortune di Francia e le sue volontà, è perchè, mezzo secolo addietro, un potente—Danton—ne compendiò l'iniziativa nella parola audacia; e una Assemblea si fece, davanti all'Europa in armi, incarnazione di quella parola. Da quel giorno ha data l'inviolabile Unità della Francia.
Sire! L'Italia vi sa prode in campo, e presto, per l'onore, a far getto della vostra vita. Sire, il giorno in cui sarete presto, per l'Unità Nazionale, a far getto della vostra corona, Voi cingerete la Corona d'Italia.
L'Italia vi sa prode in campo. Ma, comunque virtù sì fatta sia rara in un re, l'ultimo tra i vostri volontarî può farne mostra; e la vita è per lui sacra d'affetti di madre, di sorella, d'amica, che son la corona dell'anima sua. L'Italia ha bisogno or di sapervi prode nel consiglio; potente di quella volontà che fa via di ogni ostacolo: forte di quel coraggio morale che, intraveduto un dovere, un'alta impresa da compiere, ne fa sua stella, e la segue intrepido, irremovibile sulla via, senza arretrarsi davanti a lusinga o minaccia. Voi potete, io lo credo, mostrarvi tale, e per questo vi scrivo: pur, finora, Sire, non vi siete mostrato tale.
Sire, Voi accettaste la pace di Villafranca e rifiutaste—però che l'accettazione sottomessa all'arbitrio di Governi stranieri è rifiuto—il voto d'alcuni milioni d'Italiani, che, credendo darsi all'Unità, si davano a Voi.
Il primo atto cacciava l'Italia a' piedi d'un uomo straniero: il secondo cancella il Diritto Italiano a pro d'un principio straniero. E l'uomo e il principio sono ambi incarnazioni del Dispotismo.
Sire, troppi adulatori fanno a gara per isterilire i germi del bene che possono essere in Voi, perch'io non vi dica la verità. L'accettazione della pace di Villafranca sarebbe atto di codardo, se non fosse vostro.
La lode al padre, Sire, non può giungervi grave, quand'anche racchiuda un rimprovero per Voi: avete tempo per darle solenne e gloriosa risposta. Sire, vostro padre non avrebbe apposto il suo nome a quel Patto. Il padre vostro mancò egli pure, nella sua combattuta ed incerta vita, d'energia di proposito e di fede nel Popolo d'Italia. Ma quando, dopo la battaglia di Novara, ei vide ch'altro non gli rimaneva se non regnare vinto e sommosso, e segnar del suo nome patti umilianti, gettò sdegnoso la corona da sè e s'incamminò volonteroso sulle vie dell'esilio. Voi segnaste il patto umiliante, uscendo da tre, da quattro vittorie. Segnaste un patto che tradiva Venezia, l'Italia, le vostre promesse e gli uomini che, sulla fede di quelle, s'erano da ogni parte d'Italia affrettati a combattere intorno a Voi: un patto che v'era imposto dallo straniero; imposto da chi era sceso come vostro alleato e si faceva a un tratto insolente padrone; imposto, senza pur chiamarvi a discuterlo; imposto col tratto villano di chi vi tiene per nullo e incapace di ribellarvi. E perchè l'Europa potesse fraintendervi avido, più che d'onore, di preda, accettaste—offesa mortale all'Italia ed a Voi—che la Lombardia vi fosse trasmessa come feudo di seconda mano dal Signore straniero. Sire, un privato a' tempi nostri non soffrirebbe l'oltraggio. Io non so di qual tempra s'informino l'anime dei re; ma so che s'io fossi Voi non potrei dormire una notte, senza che l'imagine della povera, santa, eroica, tradita Venezia, mi apparisse, rimprovero tremendo, fra i sonni; nè potrei scorrere, il giorno, coll'occhio le file de' miei e vedervi i volontarî di Perugia e di Roma, senza che il rossore mi salisse su per le guancie.
Dell'accettazione condizionale, data al voto delle provincie del Centro, non parlo: è tristissima conseguenza del primo fatto. Voi non siete più vostro. Fatto, a Villafranca, vassallo della Francia imperiale, v'è forza chiedere, per le vostre risposte all'Italia, inspirazioni a Parigi.
Sire, Sire! In nome dell'onore, in nome dell'orgoglio Italiano, rompete l'esoso patto! Non temete che la Storia dica di Voi:—ei fece traffico del credulo entusiasmo degli Italiani per impinguare i proprî dominî?—
Sire! io nol credo. Io vi credo—e lo scrissi anni addietro, quando i vostri mi condannavano a morte, per aver tentato di promovere con armi liguri il tentativo d'un prode amico nel Sud—migliore dei vostri ministri e dei faccendieri politici che vi circondano. Credo che viva in Voi una scintilla d'amore e d'orgoglio Italiano. Ma s'è vero—se ciò ch'io sentii, leggendo alcune vostre recenti, semplici, spontanee parole di risposta a non so quale adulatrice deputazione, non è illusione di chi desidera—non avete energia che basti per vivere di vita vostra? Sperdete, perdio, lungi da Voi quel brulichio di pigmei consiglieri di codardia, come il leone sperde, scotendo i velli, gl'insetti che gli si affollano intorno. Perchè assumeste, sul cominciar della guerra, la Dittatura? Per accarezzare le voglie dispotiche dell'Alleato? Per imporre silenzio, con abbiette persecuzioncelle, ad uomini che, come me, osano dirvi la verità? I padri nostri assumevano la Dittatura per salvar la Patria dalla minaccia dello straniero. Abbiatela, purchè siate Liberatore. Ma cominciate dal liberar Voi medesimo dagli uomini che tradirono il concetto Italiano nelle mani del carnefice di Roma, e dalla turba impotente che incatena negli artificî diplomatici il pensiero dell'anima vostra.
Sire! La guerra Italiana non è finita; non è se non cominciata. Per Voi, le vittorie di Lombardia non debbono costituirne che la prima campagna.
A Voi spetta, per le date promesse, il far che riarda; all'Italia, il sostenerla e compirla.
Ma non è col guadagnar tempo che potete ottenere l'intento. I dieci, i venti, i trenta mila uomini che potrete aggiungere al vostro esercito, son nulla a petto di ciò che perdete, indugiando. L'Italia si sfibra nello scetticismo e nello sconforto: l'entusiasmo si spegne: la Diplomazia diffonde i germi del dissolvimento; le questioni si localizzano: il moto perde il suo carattere nazionale.
Voi avreste dovuto respingere sdegnosamente il patto di Villafranca: avreste dovuto dire a Luigi Napoleone: io non tradisco le mie promesse; e dire all'Italia: l'alleato straniero ci abbandona; io continuo solo la guerra, e chiedo al Paese la cifra d'uomini, sottratta da quell'abbandono, all'esercito.
Voi nol faceste, ma siete in tempo. Affratellatevi al Popolo: affratellatevi, senza tremarne, alla Rivoluzione. In essa troverete forza più che sufficiente all'impresa. I centoventimila uomini di milizie regolari, che il Piemonte e il Centro vi danno, sono nucleo che basta a determinare l'insurrezione generale d'Italia; Voi trarrete altri centoventimila uomini di milizie regolari, e tutto un Popolo in armi, ad afforzare ed agevolare le operazioni dell'esercito, a fiancheggiarne le mosse, a creare una perdita al nemico in ogni passo ch'ei mova; a rapirgli in un subito forza e coraggio.
Un esercito, e l'Insurrezione di tutto un Popolo: Voi potreste, Sire, aver questo in brev'ora; ma per averlo, è necessaria una cosa:
Osare.
Dite a Luigi Napoleone: «Io diffidai dell'Italia; accettai una pace non mia. Ma l'Italia non ha diffidato di me; ed io sento gli obblighi che quella fiducia m'impone. Io ritratto l'accettazione. Farò, libero d'ogni vincolo, ciò che Dio e la mia Patria m'inspireranno. A Voi non chiedo se non una cosa: l'astenervi da ogni intervento nelle cose nostre, e lasciar, come prometteste, l'Italia libera di compiere coll'opera propria l'impresa che iniziaste con me. E a quel patto, avrete me grato, l'Italia amica sempre alla Francia.»
Dite ai Governi d'Europa: «Voi avete cancellato il vecchio Diritto Europeo, i Trattati del 1815, in Polonia, nel Belgio, in Oriente, per ogni dove. L'esperienza degli ultimi quarant'anni vi ha dimostrato—e lo avete confessato più volte—che non v'è pace possibile in Europa, se non accettando il principio che ogni Popolo assetti da per sè le proprie faccende interne. Ci apprestiamo a farlo. In nome del Diritto Italiano, io vi chiedo di lasciarci liberi e soli. Contro l'Austria noi non chiediamo ajuto fuorchè alle nostre spade: fate soltanto che nessuno l'ajuti: statevi custodi del campo: e rendete tarda giustizia al Popolo dal quale vi venne gran parte dell'incivilimento che allieta le vostre contrade.»
Dite agli Italiani: «Voi mi salutaste primo soldato della vostra Indipendenza, ed io non tradirò la missione che m'affidaste. Non v'ha indipendenza per gli schiavi, nè forza possibile pei divisi: siate dunque Popolo libero ed uno; chiuda la vittoria la lunga serie dei vostri Martiri: dal 1848 voi provaste con fatti che i tempi sono maturi per questo. Sorgete or dunque: sorgete tutti. Rovesciate le barriere artificiali che vi disgiungono, com'io lacero ogni vecchio patto avverso alla vostra Unità. Liberatevi da quanti v'opprimono, e accentratevi dove vedrete, sotto la bandiera tricolore, splendere [192] la spada ch'io snudo. Se Dio m'ajuta e voi compite il debito vostro, io non la riporrò nella guaina che in Roma, dove i vostri rappresentanti detteranno il Patto di amore pei ventisei milioni che popolano la nostra Italia. Ma badate! Io vi chiedo, oltre quello che io qui raccolgo d'intorno a me, duecentomila uomini in armi: vi chiedo i mezzi necessarî a mantenerli in azione: vi chiedo illimitata fiducia; vi chiedo, per vincere, di esser presti, com'io sono, a morire. Schiavi o Grandi; non v'è via di mezzo per noi.»
Sire, gl'Italiani saranno grandi il giorno in cui Voi proferirete parole sì fatte: i Partiti saranno spenti fra noi. Due sole cose avranno vita e nome in Italia: il Popolo e Voi.
Sire! di che temete? Dell'Austria? Coll'Italia intera—però che il linguaggio ch'io vi propongo vi dà Napoli e la Sicilia—schierata sotto la vostra bandiera? Coll'Ungheria presta a insorgere ed affratellarsi?—Dell'Inghilterra? L'Inghilterra è con Voi, purchè Voi non siate con Luigi Napoleone.—Dell'alleato? L'alleato scese, collegandosi con Voi, in Italia, per tentare di riacquistarsi, patrocinando una nobil causa, un'aura popolare perduta: ei non può scendere oggi a combatterla: non può dire alla Francia: chiesi jeri l'oro e il sangue de' tuoi figli contro l'Austria a pro dell'Italia: oggi li chiedo a pro dell'Austria contro l'Italia.—L'alleato affrettò la pace perch'ei si sapeva minacciato ne' suoi dominî dall'invasione Germanica; e quella invasione pende, minaccia perenne, sul di lui capo. Ei poteva jeri fare, pe' suoi fini, la parte d'emancipatore; quella del tiranno gli è oggimai, al di fuori dei confini Francesi, vietata dalla Prussia, dalla Germania, dall'Inghilterra e dalle tendenze ch'or ricominciano in Francia a manifestarsi.
No; la prima guerra di Luigi Napoleone non sarà contro Voi, Sire; sarà tra lui, l'Inghilterra e Germania.
Ma, Sire; a che parlarvi di cose che vi sono, o dovrebbero esservi note più assai che a me?—Io vi chiamo, in nome d'Italia, ad una grande impresa: ad una di quelle imprese nelle quali il forte numera gli amici, non i nemici. Vi chiamo all'alleanza con 26 milioni d'Italiani, padroni, purchè uniti e guidati, dei proprî destini. Vi chiamo a porvi a capo d'una Rivoluzione Nazionale, che troverà, s'altri mai s'attentasse reprimerla, alleati nei Popoli quanti sono ai quali manca una libera Patria. Vi chiamo a una Iniziativa che può diventare Iniziativa Europea. Metà dell'Europa, Sire, trasalirà plaudente al sorger d'Italia, come trasalì, plaudente ed ajutatrice, al sorgere degli Stati Uniti, della Grecia, d'ogni guerra di Popolo che vuol farsi Nazione, d'ogni grande fatto provvidenziale: l'altra metà si ritrarrà sospettosa, ma trepida. La Diplomazia è come i fantasmi di mezzanotte: minacciosa, gigante, agli occhî di chi paventa, si dissolve in nebbia sottile davanti a chi le mova risolutamente incontro. Osate, Sire: allontanate da Voi qualunque tema, o vi suggerisca temenza. Circondatevi di pochi uomini la cui vita intera parli fermezza di principî, schietto amore d'Italia e potenza di volontà. Date pegno al Popolo di libertà; lasciate vita alla stampa, alle Associazioni pubbliche, alla pubblica parola: stampa, associazioni, convegni pubblici, vi creeranno intorno quel fermento, quell'entusiasmo, dal quale trarrete quante forze vorrete; la libertà non ha pericoli se non per chi ha in animo di tradirla.
Dimenticate per poco il re, per non essere che il primo cittadino, il primo apostolo armato della Nazione. Siate grande come l'intento che Dio vi ha posto davanti, sublime come il Dovere, audace come la Fede. Vogliate e ditelo. Avrete tutti, e noi primi, con Voi. Movete [193] innanzi, senza guardare a dritta o a manca, in nome dell'eterna Giustizia, in nome dell'eterno Diritto, alla santa Crociata d'Italia. E vincerete con essa.
E allora, Sire, quando di mezzo al plauso d'Europa, all'ebbrezza riconoscente dei vostri, e lieto della lietezza dei milioni, e beato della coscienza d'aver compito un'opera degna di Dio, chiederete alla Nazione quale posto ella assegni a chi pose vita e trono perch'essa fosse Libera ed Una—sia che vogliate trapassare ad eterna fama tra i posteri col nome di Preside a vita della Repubblica Italiana, sia che il pensiero regio dinastico trovi pur luogo nell'anima vostra—Dio e la Nazione vi benedicano!—Io, repubblicano, e presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, esclamerò nondimeno coi miei fratelli di Patria:—Preside o Re, Dio benedica a Voi, come alla Nazione per la quale osaste e vinceste.
Firenze, 20 settembre 1859.
Giuseppe Mazzini.
Io scrissi queste pagine, coll'anima in pianto, poco dopo la pace di Villafranca. D'allora in poi, la Provvidenza che vuole l'Italia Nazione, la costanza degli uomini del Partito d'Azione e la santa audacia di Giuseppe Garibaldi, hanno affrancato le nostre terre meridionali: l'armi capitanate dalla Monarchia Piemontese hanno vendicato Perugia. Ma l'Italia non è. Venezia è schiava. Un Governo che trae le sue inspirazioni dallo straniero ci contende Roma. Una terra Italiana è oggi, per opera di quel Governo, terra Francese. I materialisti pagani del XIX secolo, che sostituiscono il culto della forza e del calcolo all'adorazione dell'eterno Vero e dell'eterna Giustizia, tengono tuttora il campo, e imbastardiscono su torte vie, dietro tattiche immorali indegne d'un Popolo che sorge, l'intelletto de' giovani. Vorrebbero che questa Italia, iniziatrice perenne dell'Unità della Vita—questa Italia che ebbe Roma antica e il Papato, e la cui tradizione intellettuale si svolve da Gregorio VII a Dante, da Michelangiolo a Napoleone—si componesse in sembianza di cortigiana, servilmente adulatrice e ipocritamente idolatra. E non credo di dovere mutar sillaba di questo libretto.
Mi suonano, mentr'io scrivo, all'orecchio le grida di morte! che un pugno d'uomini, comprati dalla gente che s'intitola moderata, o pazzamente briachi, m'avventa contro. E penso alle calunnie che perseguitarono l'amico mio Rosalino Pilo, sei mesi prima che ei morisse per la libertà dalla Patria. Io lo rividi quand'egli esciva di carcere dove l'avevano tratto gli uomini della monarchia, accusandolo fautore dell'Austria. Sorrideva allora, come prima d'entrarvi, del sorriso mesto e amorevole che erra sul labbro ai Martiri del Pensiero.
Ciò ch'io scrissi è un riflesso di quel sorriso di fede, di dolore e d'amore. Gli uomini d'oggi non possono intenderlo; ma i giovani di domani lo intenderanno.
Napoli, 12 ottobre 1860.
Giuseppe Mazzini.
Predica verbum; insta opportune;
importune; argue, observa, impera.
Paul., ad Tim.
Voi cercate la Patria. Un istinto che Dio ha infuso nel vostro core, una voce che vi viene dalle sepolture dei vostri Grandi, un segno che la potente natura d'Italia ha messo sulla vostra fronte e nel vostro sguardo, vi dicono che siete fratelli, chiamati ad avere una sola Bandiera, un solo Patto, un solo Tempio, dall'alto del quale splenda, in caratteri visibili a tutte le genti, la Missione Italiana, la parte che Dio commise, pel bene dell'Umanità, alla nostra Nazione.
E per questo ogni uomo tra voi pronunzia ardito o mormora sommesso quel santo nome di Patria. Per questo i migliori fra voi muojono da mezzo secolo, martiri d'una Idea, sul patibolo, nelle segrete o nella lenta agonia dell'esilio, col sorriso di chi intravede l'avvenire sul volto, colla parola Italia sul labbro. Per questo le vostre moltitudini fremono di tempo in tempo d'un fremito che solleva il coperchio della tomba dove i papi e i re le han poste a giacere, poi ricadono spossate per ritentare dopo il silenzio d'un tempo.
La Patria è il sogno, il palpito, il desiderio segreto d'ogni anima che s'informa a vita sulle nostre terre. Come il bambino che s'agita cercando fra i sonni il seno materno, come quei fiori che si volgono nella notte nera verso la zona del Cielo dove apparirà sul mattino il sole fiammante, voi, nei sonni irrequieti della servitù, nella tenebra fredda e greve dell'isolamento, andate brancolando in cerca della Madre comune che ha nome Patria, e interrogate ansiosi l'orizzonte a scoprire da qual punto accenni sorgere il Sole della vostra Nazione.
Ma perchè cercate e non trovate la Patria? Perchè a voi soli il lungo martirio non frutta vittoria? E perchè la pietra del sepolcro, dove papi e re v'han messi a giacere, si leva soltanto di tempo in tempo a metà per ricadere più pesante sulle vostre teste? Quale strana fatalità s'aggrava su voi, poveri Israeliti delle Nazioni, perchè Dio vi neghi la Patria concessa da secoli a popoli che oprarono e patirono meno di voi?
La vita di Dio freme in seno alla vostra terra più che altrove potente. Imagini di bellezza e di forza s'avvicendano singolari su [196] questo suolo, dove il sole accende vulcani e che gli uomini salutano del nome di Giardino d'Europa. La natura sorride per voi d'un sorriso di donna. I languenti per morbo vengono dalle brume settentrionali a ribever la vita nell'aure balsamiche de' vostri prati, sotto l'azzurro profondo de' vostri cieli.
L'Alpi eterne vi guardano solenni dall'estremo della vostra contrada come per dirvi: siate grandi! E appiè di quell'Alpi, i fiori più belli che all'uomo sia dato vedere vi guardano, dovunque moviate, coi loro occhi innocenti, come per dirvi: siate buoni! E tra quell'Alpi e quei fiori errano, quasi murmure d'angeli, melodie che gli uomini chiamano Musica, e sono un'eco della lingua che si parla in cielo.
Splendide come le stelle dei vostri sereni furono l'opere del Genio tra voi: splendide di pensiero e d'azione, che voi soli sapeste congiungere in bella armonia.
L'Europa era—dalla vostra sorella, la Grecia, in fuori—semibarbara, quando le vostre aquile passeggiarono di trionfo in trionfo sovr'essa; e insegnaste ai popoli conquistati una sapienza di leggi che dura tuttavia riverita, i conforti della vita civile, e quella tendenza all'Unità che preparò un mondo a Gesù.
L'Europa giaceva ravvolta fra le tenebre del servaggio feudale, quando voi, sorti a seconda vita, affermaste nei vostri Comuni la libertà repubblicana dell'uomo e del cittadino, e diffondeste alle più lontane contrade i beneficî della civiltà, delle lettere e del commercio.
I vostri sacerdoti dell'Arte pellegrinarono di terra in terra, disseminando per ogni dove forme di bellezza immortale e insegnando come si svolva dal simbolo l'ideale.
E quando l'Europa ingrata vi pose in fondo, dividendosi le vostre spoglie, il genio Italiano, prima di velarsi per un tempo, gettò dalla sua croce, quasi pegno di ciò che un giorno potrebbe, un Nuovo mondo all'Europa.
Genio, forza, natura bella oltre ogni altra e feconda, concento d'aura e ineffabile sorriso di cieli, Dio tutto vi diede. Perchè non vi diede la Patria? Perchè, mentre ogni abitatore delle terre che inciviliste, interrogato del chi ei si sia, risponde alteramente: sono Francese, sono Inglese, sono Spagnuolo, voi non potete rispondere se non come espressione di desiderio: sono Italiano?
Perchè voi mancaste e mancate tuttora di fede: di fede in voi stessi, nel vostro Diritto, e nella vita collettiva e nella missione della Nazione: Dio visita in voi un'antica colpa dei Padri che finora non cancellaste.
I Padri vostri non ebbero coscienza di Patria. La vita fremente in ciascuno d'essi era tanta, che essi si diedero ad adorarne la potenza incarnata nell'individuo: dissero io, non noi. E disertarono l'altare del Dio di tutti per farsi idolatri, gli uni della loro Città, gli altri della loro Compagnia, altri dell'Arte che li inspirava, altri d'altro: dimentichi tutti della Madre comune.
E perchè ogni vita, comunque potente, incontra, se non si rinnovi al latte della Madre comune che ha nome Patria, la debolezza tra via, alla grandezza d'una città sorse contro nimica la grandezza d'un'altra, alla forza d'una mano di prodi quella d'altra mano di prodi, e all'ardito concetto dell'artefice l'impotenza dei mezzi a tradurlo in [197] atto, i vostri padri, invece di stringersi a concordia e cercar l'incremento della forza di ciascuno nella forza di tutti, pensarono di vincersi gli uni cogli altri procacciandosi l'ajuto dello straniero.
E gli uni chiamarono in ajuto d'oltr'alpe i figli della Germania ed altri i Franchi ed altri gl'Ispani. E taluni, che si dissero Vicarî di Dio sulla terra e furono veramente, negli ultimi seicento anni, Vicarî del Genio del Male, fecero scienza di quel peccato, e divisarono modo per cui due almeno di quei popoli stranieri si trovassero sempre a fronte l'uno dell'altro sulla nostra terra, tanto che nessuno potesse mai riunire in uno le membra sparte d'Italia, ed essi potessero tiranneggiare securi sovra una parte o sull'altra.
E per oltre a trecento anni, divisi in parti nomate di nomi non nostri, i fratelli scannarono i fratelli con lancie e spade straniere. Dio torse allora il suo sguardo da noi e decretò, espiazione al fratricidio, una servitù d'oltre a trecento anni per tutti.
Però che quelle genti straniere, stanche di combattersi, si partirono le terre nostre come i crocefissori le vestimenta di Cristo, e s'assisero dominatrici le une al mezzogiorno, l'altre al settentrione, ed altre sul core d'Italia. E i primi che segnarono il patto nefando furono un Imperatore di quella Casa maledetta in Europa che gli uomini chiamano d'Austria, e uno di quei Vicarî del Genio del Male dei quali fu detto poc'anzi. E lo segnarono sul cadavere d'una delle più generose nostre città, che ultima aveva serbato in Italia la sacra scintilla della libera vita.
Ma quella città aveva, duecento ventotto anni innanzi, condannato all'esilio e alle pene dei malfattori l'uomo il più potente che mai si fosse in Italia per intelletto ed amore, il quale fu il primo Apostolo dell'Unità della Patria e padre di quanti esularono più dopo per essa.
Ora voi durate anch'oggi nella colpa dei padri; e immemori dei trecento anni di guerra fraterna che inaffiarono il vostro terreno di sangue, immemori dei trecento anni di muto e codardo servaggio che li seguirono, immemori degli insegnamenti che vi diedero, da quel primo Potente in poi, i vostri Grandi di mente e i martiri che patirono per infondervi la coscienza della vostra forza, aspettate la Patria, in sembianza di mendicanti, dal beneplacito dello straniero. Però Dio vi contende la Patria, e vi condanna a trascinarvi di sogno in sogno, di delusione in delusione, poveri Israeliti delle Nazioni, finchè, rinsaviti, non sentiate la forza ch'è in voi, e non diciate, colla fronte levata al cielo e colle destre impalmate sulle sepolture di quei che morirono per insegnarvi a combattere e vincere: col nostro sangue, coll'armi nostre, o Signore: ecco, noi incrocicchiamo, fratelli e pentiti, in nome del Dovere e del Diritto Italiano, le spade, perchè tu benedica dall'alto le sante nostre battaglie.
Come sasso che, precipitato dall'alto, rotoli a valle, raccoglie scendendo ogni mota e sozzura che incontra sulla sua via e giunge al fondo doppio di lurida mole, così la colpa inespiata dei padri, trasmessa in voi di generazione in generazione, si è ingigantita di corruttela e s'è fatta delitto mortale.
Però che i vostri padri non avevano, quando chiamavano gli stranieri, coscienza di Patria comune: ma li chiamavano a sostenere cupidigie di dominazioni e disegni torbidi di tirannide sui vicini. Voi millantate intelletto ed amore di Patria, e chiamate, per codarda sfiducia e temenza di sacrifici, gli uomini dell'altre terre a edificarvela.
Essi erano increduli e ignari; voi siete consapevoli profanatori.
E i vostri padri, quando gli stranieri invocati calpestavano di soverchio gl'improvvidi invocatori o insolentivano sui loro averi o sui loro affetti, sentivano a rinsuperbirsi dentro l'orgoglio e le fiere passioni degl'Italiani, e davano loro ricordi di sangue, pei quali suonano tuttavia tremendi i nomi di Legnano, di Palermo, di Forlì. Ma voi sceglieste in questi ultimi tempi, fra i potenti stranieri, a simbolo delle vostre speranze di Patria, quello appunto dalle cui mani gronda il sangue dei migliori tra i vostri giovani di dieci anni addietro, spenti in Roma per l'armi sue, onde si riponesse in seggio quel Vicario del Genio del Male, il cui nome suona negazione di Patria e di Libertà.
E lo circondaste dell'entusiasmo con cui i buoni salutano in terra il Genio consecrato dalla Virtù; baciaste il lembo della sua veste usurpata e intrisa di sangue di prodi e pianto di madri, e lo adoraste siccome idolatri diseredati di Dio e d'ogni lume di Verità e di Giustizia.
Quel giorno, l'anime dei vostri martiri si velarono, per dolore e vergogna, coll'ali; e le catene che ricingono i languenti nelle prigioni per voi, solcarono di solco più grave le loro membra; e gli angioli piansero in cielo; e i popoli in terra vi sospettarono indegni per sempre d'assidervi, eguali, alla libera mensa delle Nazioni.
Però che quell'uomo, mandato in terra sì come castigo alla Francia e perchè i popoli si ravvedano d'ogni culto idolatra d'un nome nell'avvenire, è il peggiore fra quanti tormentano in oggi l'Europa. Il suo Genio è la conoscenza del male: la sua parola, menzogna: la sua forza, tradimento e disprezzo d'ogni cosa nella quale gli uomini ripongono fede ed amore. L'anima sua si libra, come pendolo nelle mani di Satana, fra il Calcolo e la Voluttà. L'opere sue sono di volpe e di jena.
E la sua tomba non avrà nome, ma solo due date: 1849-1851.
E le madri l'additeranno, passando, per lunghi anni ai loro bambini come la tomba dello Spergiuro.
E a voi che, dopo averlo maledetto in nome di Roma e di Parigi, lo acclamaste, in nome dei suoi cannoni e dei suoi fucilieri d'Africa, magnanimo e redentore, bisogneranno molte e molte opere sublimi di grandezza e di sacrificio, perchè l'Angelo dell'Espiazione cancelli dal libro della vostra vita quel ricordo di colpa e di disonore.
Non sia fraintesa, o fratelli, la mia parola da voi. Io so che da quando l'Uomo che più amò sulla Terra protese di sulla croce le braccia quasi a stringere in amplesso tutti i viventi e proferì la parola ignota ai secoli che lo precedettero: perchè tutti, o Padre, siam uno in te, Dio decretò che la voce straniero, come abitatore di terra diversa, passerebbe dalla favella degli uomini, e solo straniero sarebbe il malvagio.
Ma se voi guarderete attenti per entro le pagine della storia, vedrete che appunto in quel tempo cominciò a prepararsi visibile quel moto delle razze umane che dovea conchiudersi col loro riparto ordinato sulle varie terre d'Europa a seconda del disegno che il dito di Dio scolpiva, fin da quando la sottrasse alle acque, sulla sua superficie.
Allora, quasi sommossa dall'eco di quella grande parola, la terra sobbollì d'un immenso fermento. E come due Mari che si contendessero [199] il dominio dell'abisso, una metà del genere umano si rovesciò sull'altra metà.
E dall'estremo settentrione, dall'oriente, da tutti i punti, come sospinte da non so quale tempesta divina, tribù d'uomini strane e fino allora ignote apparvero ad una ad una, sospingendosi, accavallandosi a guisa d'onde gigantesche l'una sull'altra, avviate da un'arcana potenza alla volta della Città dai sette Colli, nella quale l'idea di Patria s'era incarnata da secoli.
E là s'urtavano, si mescevano, si confondevano, struggendo e struggendosi. Era come un rotearsi d'elementi diversi per entro un caos infinito; e gli uomini, impauriti, credevano imminente la fine del Mondo, ma era invece la nascita d'un nuovo Mondo, che s'elaborava in grembo a quel caos.
E dopo cento anni e più di quel rimescolamento di genti senza nome e senza missione visibile, come un tempo la piena dell'acqua che ricopriva il globo si concentrava, retrocedendo, in laghi, fiumi ed oceani, si videro emergere dal turbinìo delle moltitudini i Popoli, collocati a seconda delle loro tendenze e del disegno di Dio dentro a certi confini. E gli uni si chiamavano Ispani e gli altri Britanni ed altri Franchi, altri, Germani, altri Polacchi, Moscoviti o con altri nomi.
E sulla fronte a ciascuno splendeva un segno di missione speciale: un segno che sulla fronte al Britanno diceva: Industria e Colonie; sulla fronte al Polacco: Iniziazione Slava; sulla fronte al Moscovita: Incivilimento dell'Asia; sulla fronte al Germano: Pensiero; sulla fronte al Franco: Azione; e così di Popolo in Popolo.
E quel segno era la Patria: la Patria di ciascun Popolo; il battesimo, il simbolo della sua vita inviolabile fra le Nazioni.
E come, nella lingua che si parla in cielo e della quale noi adoriamo un'eco sotto il nome di Musica, molte note formano l'accordo—come di molte parole, ciascuna esprimente una idea, si compone progressivamente la formula Religiosa che rappresenta d'epoca in epoca il Verbo di Dio sulla Terra—così l'insieme di tutte quelle missioni compite in bella e santa armonia pel bene comune rappresenterà un giorno la Patria di tutti, la Patria delle Patrie, l'Umanità.
E solamente allora la parola straniero passerà dalla favella degli uomini; e l'uomo saluterà l'uomo, da qualunque parte gli si moverà incontro, col dolce nome di fratello.
Così Dio v'insegna attraverso la Storia, ch'è l'incarnazione successiva del suo disegno, che voi non conquisterete l'Umanità se non quando ciascun Popolo avrà conquistata la Patria.
Però che l'individuo non può sperare di tradurre in atto, da sè solo e colle sue fiacche forze, il vasto concetto della fratellanza di tutti; ma gli è necessario ajutarsi delle forze, del consiglio e dell'opera di quanti hanno con lui comuni lingua, tendenze, tradizione, affetti e agevolezza di consorzio civile.
E chi volesse tentare senza quell'ajuto l'impresa, somiglierebbe colui che volesse smovere l'inerzia d'un immenso ostacolo con una leva senza punto d'appoggio. La Patria è il punto d'appoggio della leva che si libra tra l'individuo e l'Umanità.
La Patria è una Missione, un Dovere comune. Or come mai potete sperare di conquistarvi la Patria, se chiamate altri a compiere quella Missione, ad eseguir quel Dovere?
La Patria è quella linea del disegno di Dio che Egli commise a voi perchè la svolgiate e la traduciate in fatti visibili. Come dunque potete meritare la Patria, invocando altri a svolgere quella parte di disegno per voi?
La Patria è la vostra vita collettiva, la vita che annoda in una tradizione di tendenze e d'affetti conformi tutte le generazioni che sorsero, oprarono e passarono sul vostro suolo:—la vita che si solleva in orgoglio nell'anima vostra davanti a un sasso staccato dal Campidoglio o alla pietra di Portoria in Genova, con maggiore impeto che non davanti alle piramidi Egizie o alla Colonna Vendôme in Parigi:—la vita che, quando errate su terre poste al di là dell'Oceano, v'annuvola l'occhio di lagrime se v'abbattete subitamente in una lapide sulla quale sia scritto un nome italiano.
Come mai potete illudervi a credere che la rivelazione di questa vita possa compirsi per opera d'uomini, nei quali è muta la voce di quella tradizione e di quei ricordi, e ai quali s'agita in seno il segreto d'un'altra Patria?
E la Patria è, prima d'ogni altra cosa, la coscienza della Patria.
Però che il terreno sul quale movono i vostri passi, e i confini che la Natura pose fra la vostra e le terre altrui, e la dolce favella che vi suona per entro, non sono che la forma visibile della Patria; ma se l'anima della Patria non palpita in quel santuario della vostra vita che ha nome Coscienza, quella forma rimane simile a cadavere, senza moto ed alito di creazione, e voi siete turba senza nome, non Nazione; gente, non Popolo. La parola Patria, scritta dalla mano dello straniero sulla vostra bandiera, è vuota di senso, com'era la parola Libertà, che taluni fra i vostri padri scrivevano sulle porte delle prigioni.
La Patria è la fede nella Patria. Quando ciascuno di voi avrà quella fede, e sarà presto a suggellarla col proprio sangue, allora solamente voi avrete la Patria, non prima.
La Fede è Pensiero ed Azione. E lo sarà un giorno per tutti; ma lo è fin d'oggi e segnatamente per voi.
Io vi dissi che quando, come membra del grande essere collettivo che chiamasi Umanità, i diversi Popoli emersero, ciascuno colla sua missione speciale, dal caos di mille anni addietro, Dio pose un segno sulla fronte al Germano che significa Pensiero, e sulla fronte al Franco un altro che significa Azione. Or sulla vostra Ei pose un doppio segno che significa Pensiero ed Azione congiunti.
E quel doppio segno, ch'è la vostra missione ed il vostro battesimo fra le Nazioni, era visibile sulla vostra fronte, mille anni innanzi che gli altri Popoli fossero.
Però che voi, soli fino ad oggi fra tutti, aveste da Dio privilegio di morire e rivivere, come gli uomini favoleggiarono della Fenice. E alla Grecia soltanto, sorella nata ad un tempo colla nostra Italia, fu dato riaffacciarsi, nell'ultimo mezzo secolo, alla seconda vita, quando appunto cominciava per l'Italia ad albeggiare la terza.
Così, mentre il Germano move sulla terra col guardo perduto nell'abisso dei cieli, e l'occhio del Franco si leva di rado in alto, ma trascorre irrequieto e penetrante di cosa in cosa sulla superficie terrestre, il Genio che ha in custodia i fati d'Italia trapassò sempre rapido dall'Ideale al Reale, cercando d'antico come potessero ricongiungersi terra e cielo.
Per virtù di quella Unità che annoda il cielo infinito, patria del [201] Pensiero, alla terra, patria dell'Azione, i padri dei vostri padri conquistarono il mondo cognito allora; ogni loro Legione era una missione armata; ogni vittoria era per essi decreto di Giove.
E, innanzi ad essi, i padri degli avi, che stanziavano fra Tevere e Po e si chiamavano Etruschi, edificavano le loro città giusta il concetto che si erano formati del cielo: ed ogni loro atto era incarnazione d'un pensiero di religione.
E dopo d'essi venne una generazione d'uomini-capi—capi per consenso e riverenza di popoli—i quali tentarono, per oltre a sei secoli, la santa impresa di dar sulla terra trionfo alla Legge di Dio sull'arbitrio degli uomini, al Pensiero ed alla Parola sulla forza cieca e brutale; e stettero per tutta Europa, in nome dell'Amore e della Giustizia, fra i Popoli e i padroni dei Popoli. E l'ultimo e il più grande fra loro fu il figlio d'un falegname per nome Ildebrando, frainteso anche oggi dai più. Poi, perchè il regno di Dio non può scendere sulla terra se non per l'opera libera e pur concorde di tutti, quegli uomini tradirono Popoli e Dio, e fornicando cogli oppressori delle Nazioni, diventarono e sono veramente i Vicarî del Genio del Male, da sterminarsi per sempre.
I vostri filosofi, i vostri sacerdoti del pensiero e dell'arte, non sì tosto avevano afferrato colla mente un concetto di Vero, che sentivano prepotente il bisogno di ridurlo a fatto, e furono, dagli antichi Pitagorici a Tomaso Campanella, da Dante Alighieri a Michelangiolo e Machiavelli, ordinatori di consorzî segreti, legislatori di città o predicatori d'instituti sociali. E si frammischiarono alle battaglie delle loro città, congiurarono contro le tirannidi, affrontarono prigioni, esilî, torture. Contemplarono e fecero.
E mentre altrove gli uomini ch'ebbero nome di riformatori di Religione assalivano gli oppressori dell'anima, rispettando gli oppressori dei corpi, ed erano Titani d'audacia contro la menzogna violatrice del Cielo, maledicendo aspramente ai figli del popolo che volevano cancellarla di sulla Terra, tra voi intesero che Spirito e Corpo si confondono nella Vita, ch'è una, e morirono sui roghi per aver tentato che la Verità di Dio trionfasse in atti visibili nella fratellanza civile. E cento anni addietro, le vostre donne in Firenze versavano ancora fiori, il ventitrè maggio d'ogni anno, sul terreno dove era morto tra le fiamme un santo frate che sollevava, or son tre secoli e mezzo, la bandiera dell'emancipazione religiosa e della Repubblica.
Or voi, abbandonando in questo la tradizione del vostro popolo, e perduta dietro a insegnamenti stranieri la memoria della missione d'Unità il cui compimento deve farvi Nazione, avete smembrato la vostra vita; e i più tra voi amano la Patria col solo pensiero, commettendo l'opere che devono fondarla all'usurpatore straniero e a quel misto d'impotenza e d'inganno che chiamano Diplomazia.
E la patria vi sfugge, e le speranze vi tornano di anno in anno in delusioni amarissime e vergognose, però che le parole dei principi, e sopratutto le promesse dello straniero, sono da tempo immemorabile simili ai pomi dell'Asfaltide, belli all'occhio e cenere al dente; e quando Dio disse all'uomo: tu ti ciberai del sudore della tua fronte, Egli intese non solamente del pane del corpo, ma del pane dell'anima, della Libertà e della Patria.
Voi state sul limitare della terza vita d'Italia.
La prima vita d'Italia si diffuse pel mondo come alito fecondatore, [202] colla sola potenza dell'Azione: la seconda, colla sola potenza del Pensiero e della Parola. Ed oggi la terza vita deve conquistare il mondo a nuova universale concordia colla potenza del Pensiero e dell'Azione, armonizzanti per opera dello Spirito di Giustizia e di Amore.
Però, se nella prima vita vi bastò la spada, e nella seconda la parola e l'esser presti a obbedire ad essa e morire per essa, voi non potete ora varcare il limitare della terza vita, se non usando la spada e testimoniando colla parola.
Dovete essere savî e forti: apostoli e militi.
Or la sapienza è il culto del Vero; e la forza è la fede nella potenza del Vero.
E perchè la sapienza scenda sul vostro intelletto e la fede benedica l'anima vostra, è necessario che invochiate l'una e l'altra con intenzioni sante e con un core puro d'ogni bassa passione.
La Virtù è la sorella del Genio. E quando il culto idolatra dell'io scaccia dall'anima la Virtù, che è lo spirito di sacrificio, l'anima rovina in basso com'aquila a cui manchi l'ala, e il Genio s'arresta a mezzo la via come stella cadente che illumina d'un solco di luce lo spazio e subitamente sparisce.
E però l'uomo il più potente per Genio nei nostri tempi mostrò al mondo attonito due vite in una: la prima, quand'ei rappresentava una Idea; vita di concetti giganteschi e miracoli di vittorie; la seconda, quand'egli, inebriato d'egoismo e di spregio, non rappresentava che sè stesso; vita di errori e disfatte. E dalle solitudini di Sant'Elena lo spirito di quel Potente manda a chi sa intenderla una voce che dice: la corona delle vittorie immortali non posa se non sulla tomba del forte, che, dimentico di sè stesso, combatte sino all'ultimo giorno pel santo Vero e pel Diritto dei Popoli.
Santificate dunque col sacrificio e coll'intrepida adorazione del Vero l'anime vostre, se volete vincere i molti nemici che s'attraversano tra voi e la terza vita d'Italia: l'Angelo della Vittoria aborre dal fango dell'egoismo e della menzogna. Portate la vostra credenza alteramente sulla bandiera, come i guerrieri dei secoli addietro portavano sullo scudo la loro insegna. Come il tuono tien dietro al lampo, così segua rapido ogni vostro pensiero l'azione. Dio è grande perchè pensa operando. Ingigantite nella fede: come il sonnambulo passeggia sicuro sull'orlo del tetto perch'ei crede movere sulla carreggiata, e s'ei si desta e misura l'abisso, impaurisce e precipita, così voi, se potenti di fede, supererete ostacoli davanti ai quali, se trepidi e tentennanti, cadrete. Non pensate a voi: vivete nel fine, nella coscienza del Dovere, nel santo orgoglio del Diritto. E la costanza coroni l'unità della vostra vita, come cupola il tempio. Siate uomini, e Dio sarà Dio, cioè Padre e Proteggitore per voi.
La vostra è la più grande fra tutte le missioni terrestri; siate grandi com'essa. Voi siete chiamati a un'opera emulatrice delle opere di Dio: la creazione d'un Popolo. E vi conviene accostarvi a Lui, quanto può la creatura finita, purificandovi, consacrandovi. I giovani guerrieri dei tempi di mezzo vegliavano la notte in armi, prostrati sul nudo marmo, nel digiuno e nella preghiera, prima d'iniziarsi nella cavalleria. Ed essi non giuravano che ad un signore, creatura mortale com'essi: voi giurate a Dio, alla Patria, all'Umanità. E la loro ricompensa per le belle imprese era la speranza che il loro nome passasse, suono fugace, a pochi posteri nella canzone d'un trovatore; ma voi aspetta la lunga benedizione delle generazioni che avranno Patria da voi, e la vostra memoria, fatta tradizione d'onore, s'incarnerà nella vita progressiva di tutta la vostra Nazione.
Ed io raccolsi, o giovani d'Italia, questi ricordi dalle sepolture degli uomini che morirono per voi, interrogate con fremito di riverenza e con un amore per voi tutti che nulla può spegnere. Però che, come pietre miliari che segnano la via al grande intento, o più veramente come le stelle che c'insegnano, splendendo nei cieli mentre la tenebra fascia la terra, la virtù della serena costanza nella sventura, apparvero sempre di tempo in tempo, fra gli errori dei padri, uomini puri d'ogni falsa scienza e d'ogni egoismo, i quali da Arnaldo e Crescenzio fino a Bentivegna e Carlo Pisacane, raccolsero nelle grandi anime loro la voce che la Patria manda invano da secoli a voi, e mantennero incontaminata la tradizione del Genio Italiano: e, con essi, i martiri del pensiero che soggiacquero, per calunnie, ingratitudine e oblio, alle torture dell'anima, gravi quanto quelle del corpo. E ogni qual volta il Popolo d'Italia, trasalendo sotto il suo lenzuolo di morte, protestò, dalla Lega Lombarda e dai Vespri fino alle Cinque Giornate, in nome della grandezza passata e della futura, fu visitato dallo spirito che visse negli uomini dei quali io parlo.
E i giovani d'Italia, che furono innanzi a voi, avevano, or corre quasi un terzo di secolo, raccolto quei ricordi con me. E con me avevano fatto giuramento solenne di non obliarli[143].
Ma poi, simile a nembo di locuste su campo fecondo, s'addensò sulla regione Subalpina una gente senza fede, senza tombe di martiri, senza tradizione fuorchè di tempi nei quali il servaggio si era abbarbicato alle menti, che fece suo studio e vanto deridere quei santi ricordi e l'entusiasmo dei giovani e la solennità dei giuramenti prestati. E si diffuse rapida su tutte le città d'Italia come lebbra su forma umana o crittogama sulle piante.
E fu veramente ed è tuttavia la crittogama o lebbra dell'anime.
Gente di mezzo intelletto, di mezza scienza e di nessun core. E gli uni si chiamarono Dottrinarî, ciò che significa uomini che millantano dottrina e non l'hanno: gli altri, moderati o fautori del giusto mezzo, cioè tentennanti sempre tra la virtù e il vizio, tra la verità e la menzogna; ed altri, pratici e aborrenti dalle teorie, cioè corpi senza anima e cadaveri galvanizzati; ed altri con altro nome. Ma tutti si riconoscevano, siccome appartenenti alla stessa gente, dal nome barbaro d'opportunisti, cioè diseredati d'iniziativa, eternamente passivi e presti a fare solamente quand'altri ha fatto.
E rinnegarono il culto puro di Dio per adorare idoli di loro fattura, come gli Ebrei nel deserto.
E gli uni si prostrarono davanti a un idolo che chiamarono Forza, gli altri davanti a un altro che chiamarono Tattica, ed altri davanti al pessimo fra tutti gl'idoli che ha nome Lucro.
E i primi escirono, strisciando siccome vermi che pullulano dal cadavere d'un Potente, dalla sepoltura di Napoleone; i secondi escirono dalla sepoltura profanata d'un nostro Grande frainteso, che, dopo aver patito tortura per la libertà della Patria, l'aveva veduta morire, e assiso sul suo cadavere s'era fatto storico delle cagioni della sua morte; gli altri escirono ed escono dal fango dove brulicano gli insetti senza nome, la cui vita non guarda al di là dell'ora che fugge.
E insegnarono che solo diritto è il fatto, e solo creatore del fatto l'arsenale dove s'accumulano strumenti di guerra; e le idee essere nulla, e i grossi battaglioni d'assoldati ogni cosa: dimenticando come il Potente dalla doppia vita, ch'ebbe ad arsenale l'Europa e ad esercito gli eserciti di tutte le genti d'Europa, giacesse cadavere di prigioniero in Sant'Elena, per avere, com'ei ripeteva morente, camminato a ritroso delle idee del secolo.
Insegnarono, bestemmiando, che la virtù è nome vano, che la moralità e la politica non sono sorelle, che il vero e l'errore sono egualmente buoni, a seconda dei casi; e architettarono le teorie dei delitti utili e della menzogna opportuna, ed altre siffatte, predicando gli uomini doversi adattare ai tempi, come se i tempi creassero gli uomini, e non questi i tempi.
Insegnarono che i popoli possono redimersi gridando or viva Cristo or viva Barabba, e che il bandir oggi l'infamia e il capestro a Giuda, e inneggiarlo magnanimo e augusto domani, e pianger pianto di tenerezza per papa o re, susurrando all'orecchio degli avversi: lasciate fare; forti, li rovescieremo; e accarezzare un dì i Popoli, e l'altro, gli oppressori dei Popoli, e prima la Polonia, poi il carnefice della Polonia, e invocare la libera Inghilterra un giorno per maledirla perfida Albione appena giovi ad accattare il favore della Francia, è scienza di Stato: non avvedendosi che a quel modo si perde in ultimo l'ajuto di principi e Popoli, come gente che; non avendo fede, non ne merita alcuna.
Insegnarono che alcuni popoli avendo, quando l'Europa intera era barbara o semibarbara, conquistato lentamente e faticosamente, prima un grado di civiltà, poi un altro ed un altro, tutti i popoli, comunque sorgenti a Nazione in seno ad una Europa incivilita, devono salire quella scala da capo, come se l'esperienza degli uni non dovesse fruttare agli altri, e le verità scoperte da un Popolo non fossero scoperte per tutti, e il faro acceso da una mano provvida tra le roccie marine non diffondesse lume e consiglio ad ogni navigatore che navighi per quella via.
Insegnarono che indipendenza può conquistarsi senza Unità e senza vita di liberi, come se lo schiavo in casa potesse mai esser libero dall'usurpazione altrui, come se l'animale aggiogato potesse accettare un padrone e respinger l'altro, come se importasse combattere per scegliere tra padrone e padrone.
E insegnarono le tre Italie, le quattro Italie, le cinque Italie, e il forte Regno del Nord, e la Confederazione con semi-libertà a Settentrione, e tirannide a Mezzogiorno, e autocrazia al Centro—che è il sacco del parricida—come se Dio avesse creato l'Italia a spicchî; e dimentichi che anche quel Grande frainteso, invocato da essi come maestro, additava, supremo rimedio a tutte le piaghe di Italia, l'Unità Nazionale.
E questa essi chiamarono scienza, ma io la chiamo impostura di falsi profeti e rintonaco di sepolcri.
E dacchè Cristo v'insegnava di scernere i veri e i falsi profeti dai frutti dell'opere loro, voi dovete guardare ai fatti che quelle loro dottrine hanno generato finora; e sono: la consegna di Milano, l'abbandono di Roma e la pace di Villafranca.
Ma poi che la costanza non è ancora virtù di popoli, e voi seduceva il fascino della novità, e quelle dottrine blandivano nei più l'inconscia tendenza ad accettare le vie che pajono più facili e richiedono minore potenza di sacrificio, io vidi gemendo tutta una generazione distaccarsi dalle tombe de' suoi martiri e plaudire insana ai falsi profeti e seguirne le torte vie.
Allora ogni idea di rettitudine e di dignità d'anima fu smarrita, e le menti s'abbujarono d'ogni sorta d'errori, tanto che s'udirono, senza nota di pubblica infamia, fra gli adepti degli idolatri, scribi di diarî e libercoli, taluni proporre che si comprasse indipendenza dall'Austria a prezzo della libertà d'altri Popoli, forti di sacri diritti come noi siamo; altri che si riscattasse Venezia a danaro; altri esultare ogni giorno all'annunzio che si commetterebbero le sorti d'Italia a un Convegno di despoti, ed altri prostituire l'umana parola fino a paragonare alle creazioni di Michelangelo l'uomo per il cui cenno caddero migliaja di libere vite in Roma e Parigi;—poi, quando un popolo spense, in modo non giusto, una vita di tristo, diventarono a un tratto ipocriti di virtù e di clemenza, dichiararono disonorata l'Italia e lamentarono, come se il mondo andasse sossopra.
E parve una danza di streghe dell'intelletto.
E al soffio gelato di quelle codarde dottrine, io vidi inaridirsi l'entusiasmo, incadaverire l'anime più generose, ed uomini, che avevano insieme a me consacrato metà della vita a suscitare i giovani alla vera fede, patteggiare, nell'altra metà, coi capi degli idolatri, ed erger cattedra a distruggere l'opera propria; ond'io sentii nell'anima solitaria quel dolore che labbro non può ridire.
E pochi tra voi protestarono, sterilmente dignitosi, col silenzio, ma i più cedettero, però che poche siano sulla nostra terra quelle anime che ritraggono della natura degli angeli, e poche quelle che rivelano natura pervertita di demoni, ma innumerevoli le anime dei fiacchi, che seguono la corrente ovunque essa mova e alternano di continuo fra il bene ed il male.
Or io vi dico:
In verità, in verità, così non si fonda Nazione; così si disfanno e si disonorano i Popoli.
Tornate ai consigli dei vostri Martiri. Prostratevi tre volte sulle loro tombe e tre volte supplicate, commossi di pentimento, perch'essi spirino in voi la forza della quale mancaste. Poi sorgete e, afferrato, come Cristo, il flagello, cacciate inesorabili fino all'ultimo i trafficatori di sofismi, di protocolli e d'accoglienze mutate in accettazioni, dal Tempio contaminato della coscienza italiana. E dei libri, diarî e libercoli di che essi appestarono la nostra contrada, fate cartuccie.
Voi non avrete d'ora innanzi, se vorrete davvero redimervi, altra via che la linea retta, altra scienza che la verità senza veli, altra tattica che il coraggio e l'ardire, altro Dio che il Dio della Giustizia e delle Battaglie.
Non vi sono cinque Italie, quattro Italie, tre Italie. Non vi è che una Italia. I tiranni stranieri e domestici l'hanno tenuta e la tengono tuttavia serva e smembrata, perchè i tiranni non hanno patria; ma qualunque tra voi intendesse a smembrarla redenta, o accettasse, senza lotta di sangue, ch'altri la smembrasse, sarebbe reo di matricidio e non meriterebbe perdono in terra nè in cielo.
La Patria è una come la Vita. La Patria è la Vita del Popolo.
Dio ve la diede; gli uomini non possono a modo loro rifarla. Gli uomini possono, tiranneggiando, impedirle per breve tempo ancora di sorgere; ma non possono far ch'essa sorga libera, oppur diversa da quel ch'essa è.
Dio che, creandola, sorrise sovr'essa, le assegnò per confine le due più sublimi cose ch'ei ponesse in Europa, simboli dell'eterna Forza [206] e dell'eterno Moto, l'Alpi ed il Mare. Sia tre volte maledetto da voi e da quanti verranno dopo voi qualunque presumesse di segnarle confini diversi.
Dalla cerchia immensa dell'Alpi, simile alla colonna di vertebre che costituisce l'unità della forma umana, scende una catena mirabile di continue giogaje, che si stende sin dove il mare la bagna e più oltre nella divelta Sicilia.
E il mare la recinge quasi d'abbraccio amoroso ovunque l'Alpi non la ricingono; quel mare che i padri dei padri chiamavano Mare nostro.
E come gemme cadute dal suo diadema stanno disseminate intorno ad essa, in quel mare, Corsica, Sardegna, Sicilia, ed altre minori isole, dove natura di suolo e ossatura di monti e lingua e palpito d'anime parlan d'Italia.
Per entro a quei confini tutte le genti passeggiarono l'una dopo l'altra conquistatrici e persecutrici feroci; e non valsero a spegnere quel nome santo d'Italia, nè l'intima energia della razza che prima la popolò; l'elemento Italico, più potente di tutte, logorò religioni, favelle, tendenze dei conquistatori, e sovrappose ad esse l'impronta della Vita Italiana.
Per entro a quei confini tremende guerre fraterne insanguinarono per secoli ogni palmo di terra. E mentre i pedanti scribi di diarî e libercoli edificavano poc'anzi, su quelle guerre, sistemi a dichiarare utopia l'unità della nostra vita, ecco i popoli sorgono e gridano: siamo fratelli, e anelano confondersi in uno, e si danno, colla foga imprudente del desiderio, ad un principe, solo perchè sperano ch'ei si faccia simbolo vivente di quella Unità.
In verità, colui che nega l'Unità della Patria non intende la Parola di Dio, nè quella degli uomini.
Voi dovete vivere e morire in quella Unità, però che in essa stanno per voi la Forza e la Pace, il segreto della vostra missione e la potenza per adempirla. Qualunque tra voi sorge a libertà, sappia ch'ei sorge per tutti. Incarni ciascuno in sè i dolori, le speranze, le memorie, il palpito d'avvenire di quanti respirano l'alito che si ricambia dall'Alpi al Mare e dal Mare alle Alpi. Fra l'Alpi e il Mare non sono che fratelli. E la maledizione di Caino aspetta qualunque dimentichi che, mentre un solo dei suoi fratelli geme nell'abjezione della servitù e non posa tranquillo e lieto d'amore sotto la sacra bandiera dei tre colori, ei non può aver Patria, nè merita averla.
Venite meco. Seguitemi dove comincia la vasta campagna che fu, or son tredici secoli, il convegno delle razze umane, perch'io vi ricordi dove batte il core d'Italia.
Là scesero Goti, Ostrogoti, Eruli, Longobardi, ed altri infiniti, barbari o quasi, a ricevere inconscî la consecrazione dell'Italica civiltà, prima di riporsi in viaggio per le diverse contrade d'Europa; e la polve che il viandante scote dai suoi calzari è polve di Popoli. Muta è la vasta campagna, e sull'ampia solitudine erra un silenzio che ingombra l'animo di tristezza, come a chi mova per camposanto. Ma chi, nudrito di forti pensieri, purificato dalla sventura, s'arresta nella solitudine a sera, poi che il sole ha mandato dalla lunga ondeggiante curva dell'orizzonte l'ultimo raggio sovr'essa, sente sotto i suoi piedi come un murmure indistinto di vita in fermento, come un brulichìo di generazioni che aspettano il fiat d'una parola potente, per nascere [207] e ripopolare quei luoghi che pajono fatti per un Concilio di Popoli. Ed io intesi quel fremito e mi prostrai, però che mi pareva un suono profetico dell'Avvenire.
Là, per la via che ricorda il nome d'uno dei forti uccisori di Cesare, e si stende fra tufi di vulcani spenti e reliquie d'Etruschi, tra Monterosi e la Storta, presso al lago, è Bracciano.
Sostate e spingete fin dove vale lo sguardo verso mezzogiorno, piegando al Mediterraneo. Di mezzo all'immenso, vi sorgerà davanti allo sguardo, come faro in oceano, un punto isolato, un segno di lontana grandezza. Piegate il ginocchio e adorate: là batte il core d'Italia: là posa, eternamente solenne, Roma.
E quel punto saliente è il Campidoglio del Mondo Cristiano. E a pochi passi sta il Campidoglio del Mondo Pagano. E quei due Mondi giacenti aspettano un terzo Mondo, più vasto e sublime dei due, che s'elabora tra le potenti rovine.
Ed è la Trinità della Storia, il cui Verbo è in Roma.
E i tiranni o i falsi profeti possono indugiare l'incarnazione del Verbo, ma nessuno può far che non sia.
Però che molte città perirono sulla terra e tutte possono alla lor volta perire; Roma, per disegno di Provvidenza indovinato dai popoli, è Città Eterna, come quella alla quale fu affidata la missione di diffondere al mondo la parola d'Unità. E la sua vita si riproduce ampliandosi.
E come alla Roma dei Cesari, che unificò coll'Azione gran parte d'Europa, sottentrò la Roma dei Papi che unificò col Pensiero l'Europa e l'America, così la Roma del Popolo, che sottentrerà all'altre due, unificherà nella fede del Pensiero e dell'Azione congiunti l'Europa, l'America e l'altre parti del mondo terrestre.
E col patto della Nuova Fede raggiante un dì sulle genti dal Panteon dell'Umanità, che s'inalzerà, dominatore sull'uno e sull'altro, tra il Campidoglio ed il Vaticano, sparirà nell'armonia della vita il lungo dissidio fra terra e cielo, corpo ed anima, materia e spirito, ragione e fede.
E queste cose avverranno quando voi intenderete che la Vita d'un popolo è religione—quando, interrogando unicamente la vostra coscienza e la tradizione, non dei sofisti, ma della vostra Nazione e delle altre, vi costituirete sacerdoti, non del solo Diritto, ma del Dovere, e senza transazioni codarde moverete guerra, non solamente alla potenza civile della Menzogna, ma alla Menzogna stessa che usurpa oggi in Roma il nome d'Autorità—quando raccoglierete il grido profetico che Roma ridesta mandava, or son dieci anni, all'Italia, e scriverete nel vostro core e sulla vostra bandiera: noi non abbiamo che un solo padrone nel cielo, ch'è Dio, e un solo interprete della sua legge in terra, ch'è il Popolo.
Intanto Roma è la vostra Metropoli. Voi non potete aver Patria se non in essa e con essa. Senza Roma non v'è Italia possibile. Là sta il Santuario della Nazione. Come i Crociati movevano al grido di Gerusalemme! voi dovete movere innanzi al grido di Roma, Roma! nè aver pace o tregua, se non quando la bandiera d'Italia sventoli nell'orgoglio della vittoria da ciascuno dei Sette Colli.
E qualunque s'attentasse parlarvi d'una Italia senza Roma a centro, o dettarvi leggi d'altrove, sarebbe simile a chi volesse ideare vita senza core; e leggi e potenza sparirebbero, al primo soffio di tempesta, dalle sue mani, come spariscono, cacciati non si sa dove dall'alito più leggiero, quei filamenti ch'errano talvolta, senza base e centro, per alcuni istanti nell'aria.
La Patria è la Vita del Popolo: io dico vita del popolo e non d'altrui. È necessario che quella vita si svolga liberamente e in tutte le sue facoltà, senza vincoli che la incatenino, senza ostacoli di condizioni che la isteriliscano e la condannino all'impotenza.
Adorate dunque la Libertà. A che gioverebbe aver Patria se l'individuo non dovesse trovare in essa e nella sua forza collettiva la tutela della propria libera vita? Come potreste servire la Patria e giovarle, se doveste vivere a beneplacito d'altri? È forse la prigione Patria del prigioniero?
Adorate la Libertà. Rivendicatela fin dal primo sorgere, e serbatela gelosamente intatta, siccome pegno della vittoria, nelle battaglie che dovete combattere per la Patria. Non vi fate mai d'altri. Abbiate capi i migliori tra voi, padroni non mai. Però che voi non potete darvi padroni, senza sagrificio del fine a cui tendete sorgendo. E quando voi direte: la patria dell'Italiano è tra l'Alpi e il Mare, i padroni vi diranno: no; la Patria è tra il Mincio e il Conca; quando griderete: a Roma! a Roma! i padroni vi grideranno: a Milano! o a Torino! E quando l'anima vostra fremerà guerra per tutti, i padroni e i servi dei padroni, che sempre abbondano e sono gli adoratori dell'Idolo Lucro, raccoglieranno Congressi di re stranieri per decidere, a seconda dei loro fini, sulle cose vostre; e v'impediranno la guerra.
Quei che vi dicono: voi dovete avere prima Indipendenza, poi Patria, poi Libertà, o sono stolti o pensano a tradirvi e a non darvi nè Libertà, nè Patria, nè Indipendenza. Però che l'Indipendenza è l'emancipazione dalla tirannide straniera, e la libertà è l'emancipazione dalla tirannide domestica; or, finchè, domestica o straniera, voi avete tirannide, come potete aver Patria? La Patria è la casa dell'Uomo, non dello schiavo.
E quei che vi persuadono, come mezzo d'ottener vittoria sollecita, Dittatura di re e capi d'esercito, o sono stolti, o pensano, fin dal cominciar dell'impresa, a tradirvi. Perchè, come può agevolarsi l'impresa di tutti affidandola a un solo non sottoposto a sindacato d'alcuno? I vostri padri creavano talora, nei sommi pericoli, Dittatori, ma li sceglievano tra cittadini addetti al foro, all'armi o all'aratro; e ponevano dietro ad essi il littore del Popolo colla scure in alto, e presto a colpire s'ei tradiva o abbandonava, prima d'aver vinto, impresa.
La libertà vi viene da Dio; e voi non potete alienarla senza violarne la Legge. Voi siete liberi perchè siete Uomini, e perchè dovete conto alla Patria e a Dio dell'opere vostre. Voi dunque affermerete la vostra Libertà, non, come i falsi profeti vi suggeriscono, in virtù di qualche vecchia pergamena che ne faccia menzione—ciò che una pergamena vi dà un'altra pergamena può torvelo—nè di concessioni di principi, che una lunga storia di tradimenti v'insegna revocarsi sempre il dì dopo, o l'altro,—ma in nome dell'irrevocabile Diritto umano. E vi leverete col grido: colla nostra Libertà per la Patria.
E se, dimenticando la buona vecchia tradizione Italiana e la storia degli ultimi cinquanta anni e le parole che Dio disse a Samuele profeta, volete pur darvi un re, sia almeno quel re il figlio, l'eletto della vostra Libertà e riceva, insieme al Patto che i vostri Delegati liberamente raccolti scriveranno in Roma per la Nazione, la sua [209] corona da voi, e il vostro linguaggio gl'insegni ad ogni ora ch'ei l'ebbe da voi e che potete e vorrete ritoglierla ogniqualvolta ei falserà quel Patto, o a voi piacerà governarvi in modo più affine al Vero e più favorevole ai fati della Patria vostra.
Gli antichi uomini dell'Arragona, quando l'Arragona era libera, dicevano al Re ch'essi eleggevano: noi che, singoli, vi siamo eguali, e uniti possiamo più di voi, vi facciamo re nostro, a patto che voi manteniate i nostri diritti e le nostre libertà. E se no, no.
E voi all'uomo che s'assume d'esservi re dovreste dire: a patto che voi poniate, senza indugio, esercito, tesori, opera e vita a servizio di tutta quanta l'Italia, e rompiate ogni vincolo che non sia col Popolo d'Italia, e domandiate tre volte perdono a Dio e all'Italia d'aver lasciato che si contaminasse la Patria dall'alleanza coll'uomo che versò, in nome della tirannide, il sangue di Roma. E se no, no.
Ma trascinandovi sommessi davanti a lui col turibolo dell'adulazione servile e chiamandolo Grande, Salvatore e Generosissimo, mentre non è secco ancora l'inchiostro che firmò la pace di Villafranca, e benedicendogli mentr'ei vi riceve in dedizione feudale dal tiranno straniero, e illudendovi a tradurre le accoglienze in accettazioni, voi non fate se non disonorare voi stessi e lui, e insegnargli che siete pur sempre schiavi, e incitarlo a tradire il debito suo.
Però che da tempo immemorabile i violatori del Dovere e delle promesse e dei diritti dei Popoli, escirono generati, più che da natura perversa, dalla codarda idolatria e servile adorazione dei popoli che tradivano la propria coscienza e la dignità dell'anima loro immortale.
V'hanno detto che l'unico vostro grido deve essere in oggi: fuori lo straniero! viva l'Indipendenza! Ma io vi dico che non otterrete Patria se non quando il vostro grido sarà: fuori la tirannide! viva l'Unità Nazionale! Quel grido di fuori lo straniero non è che un'eco misera del grido fuori il barbaro! che nei secoli addietro ogni papa o principe, a cui stava in animo d'occupare un qualche lembo della vostra terra, mandava, sorridendo celatamente di scherno, ai poveri popoli illusi. E fu trovato di sofisti idolatri, che intesero a sviarvi dal vero sogno e serbarvi, allettandovi dietro a un fantasma d'emancipazione, facile preda a ogni dominazione di principi e cortigiani.
V'hanno detto che voi siete servi dell'Austria e che prima di provvedere alle vostre sorti d'uomini e di cittadini, v'è d'uopo attendere a liberarvene. Ma io vi dico, ed altri vi ha detto, che voi siete servi dei vostri servi; servi del re che tiene le belle e forti regioni del Mezzogiorno: servi del Vicario del Genio del Male: servi di meschine trepide ambizioni dinastiche: servi di prelati, di cortigiani, faccendieri e sofisti, che immiseriscono le vostro guerre, incatenano colle vecchie tradizioni e colle gerarchie d'anticamera il genio dei vostri militi, intorpidiscono le vostre facoltà e ammorzano il vostro entusiasmo con polvere e fango di protocolli: servi di governucci diseredati egualmente di pensiero e di azione, i quali regolano il vostro moto nazionale colle forme d'una vecchia danza di corte, e, con un popolo fremente innanzi, dissertano sull'accogliere o sull'accettare, e sopra ogni sillaba venuta da Biarritz o da altro ricettacolo di Despota traditore, come i Greci del Basso-Impero dissertavano, morente la Patria, sulla luce che veniva o non veniva dall'ombelico.
Emancipatevi, in nome della Libertà, da tutti costoro—da quei [210] che mandano deputazioni a regnanti stranieri per chieder loro permesso di vivere liberi—da quei che smembrano la Causa d'Italia, restringendo ad una o ad altra zona della vostra terra i diritti trepidamente enunziati—da quei che spendono la vostra polvere da cannone, non contro il nemico, ma per celebrare i benefizî e le glorie d'una annessione ch'è favola—da quei che vi dicono: sperate nell'uomo di Villafranca, nello Tsar, nel Convegno futuro dei Principi, invece di dirvi: sperate in voi stessi, nelle vostre bajonette, nel diritto Italiano e nel Dio di Giustizia—da quei che dicono a chi parla d'insorgere: sostate sino al finir delle Conferenze in Zurigo o sino al cominciare delle Conferenze in Bruxelles—da quei che v'hanno detto: durate immobili, mentre si vendeva a Venezia o si scannava in Perugia—da quei che vi vietano, mentre ogni giorno che corre frutta proscrizione ai nostri e ordinamento di forza al nemico, di varcar la Cattolica—da quei che si dicono chiamati a governare una impresa di libertà, e, perchè non s'impaurisca il dispotismo straniero, vi vietano libertà di parola, di pubblici convegni, di stampa. Ruggite e sperdeteli. Non avrete allora da temer l'Austria.
Voi sperdeste l'Austria dieci anni addietro colla campana a stormo e colle barricate d'una provincia, e non si rifece potente—lo diceste tutti in quel tempo—se non per le colpe degli stessi sofisti e faccendieri di corte che oggi rigovernano le cose vostre. Perchè non la sperderebbero la campana a stormo e le barricate di tutta Italia?
Non è la forza, prima nel Diritto e nei fermi propositi, poscia nel numero? Or come dunque osano i sofisti dirvi che siete troppo deboli per pensare ad altro che a cacciar l'Austria, e limitano intanto il vostro numero e le vostre forze, confinandovi per entro al recinto di poche provincie e contendendovi la vasta, la forte, l'onnipotente Italia?
Libertà! Libertà! Siate liberi come l'aria delle vostre Alpi: liberi come le brezze dei vostri mari: liberi per seguir capi i quali osino e sappian guidarvi: liberi per combattere: liberi per suscitare, coll'armi e con tutti i mezzi che Dio vi ha profusi, l'Italia tutta ad insorgere: liberi d'infervorarvi a vicenda coi convegni fraterni e di chiamare lo spirito di Dio sulle turbe raccolte: liberi di vivere e morir per la patria, non per un frammento di Regno o per una Italia a mosaico, col marchio di servitù su Napoli, Palermo, Venezia e Roma.
D'onde vengono, ove vanno quegli uomini che hanno sembianza di prodi, e nondimeno portano come un segno di sconfitta sulla pallida fronte e movono verso il mar di Liguria, tristi come vittime consecrate? Perchè trasaliscono muti alle parole Eljen a' Magyar, mormorate sommessamente al loro orecchio, come da chi si sente involontariamente colpevole?
Sono figli della Drava e dei Carpati: Ungheresi ch'erano pochi mesi addietro nelle file nemiche.
Soldati e prodi, essi s'apprestavano al debito loro nella battaglia; ma quando si videro a fronte la bella bandiera dai tre colori, e udirono il grido all'armi! d'Italia, sentirono un brivido nell'ossa, come s'essi movessero a guerra fraterna, e calarono l'armi e s'arresero.
Ricordarono le libere pugne di dieci anni prima contro l'oppressore della loro terra, e che in quel tempo anche in Italia si combatteva quell'oppressore, ch'è oppressore di tutte le terre ove pone piede.
Ricordarono le glorie dei padri combattenti la minaccia dell'invasore [211] Ottomano, e Venezia che combatteva anch'essa le battaglie Cristiane quando le combattevano i padri. Ricordarono i vestigi dell'antica civiltà Italica diffusi per le loro terre, e i patti di fratellanza stretti nell'esilio fra uomini immedesimati nelle comuni sventure e nelle comuni speranze.
E ciascuno di loro disse all'altro: là, dove si combatte per l'emancipazione d'un Popolo, è sacra l'emancipazione di tutti: ogni uomo della libera Italia sarà un fratello per noi, e moveremo uniti in nome della loro e della nostra Nazione. E cessero l'armi per ripigliarle sotto più giusta bandiera il dì dopo.
Ed ora movono lentamente, tristamente, smarriti dell'anima, incerti nella fede, verso quelle terre d'Austria dove sognavano di non tornare che vincitori, a incontrarvi gli scherni e la persecuzione dell'oppressore.
Però che dov'essi credevano trovare un popolo di fratelli, e combattere uniti le battaglie della Patria, trovarono una gente aggirata da idolatri e sofisti, combattente senza saperlo, per un frammento di Regno, e reggitori di rivoluzioni tremanti davanti al cipiglio dello straniero e ministri commessi di corte che dissero loro: tornate; noi v'abbiamo ottenuto perdono dall'Austria.
Ed io mi sento il rossore su per le guancie, scrivendo; e voi tutti dovreste arrossire, leggendo.
Addio, poveri illusi figli della Drava e dei Carpati. Voi faceste atto solenne di fede; e veniste fra noi per insegnarci come l'Austria sia debole, e come quel fantasma di potenza, in nome del quale i traviatori del nostro moto ci chiedono di rinunziare alla libertà, all'unità, a tutto ch'è caro ad un popolo, sfumerà come neve tocca dal sole, quando tra noi una bandiera di popolo porterà scritto: per la nostra libertà e per la vostra. Ma gli uomini, ch'or reggono e traviano il nostro moto, non possono intendere la santità della vostra fede e non vogliono raccogliere l'insegnamento. Non ci maledite: gemete per voi e per noi. Il Popolo d'Italia è ora cieco, non vile.
Ma il Popolo d'Italia sorgerà, come Lazzaro, dal sepolcro d'inerzia ove giace, dopo brevi giorni di sonno. E fin dalla prima ora del risorgere, esso ricorderà il patto d'alleanza che voi gli offriste e i suoi forti si trasmetteranno di fila in fila la parola della battaglia: Roma—Pesth.
E a quel grido, da Pesth a Praga, da Praga a Zagreb, da Zagreb a Lemberg, da Lemberg a Cattaro, sorgeranno nemici all'Austria e diranno: noi pure, noi pure! E il nome del vecchio Impero sparirà nella tempesta d'un giorno.
Voi siete ventisei milioni d'uomini, circondati da una Europa di Popoli oppressi, che, come voi, cercano la Patria e come voi provarono d'esser potenti, desti una volta che siano, a rovesciare i loro padroni. Non entrerà mai dunque in voi coscienza dalla vostra forza? Non intenderete voi mai che il giorno in cui, invece di gemere e supplicare, in nome dei vostri patimenti e di non so quali diritti locali, una dramma di libertà, delibererete di sorgere e dire: in nome della natura umana e del Diritto Italiano, vogliamo Libertà e Patria per noi e per quanti s'affratelleranno in armi con noi, voi sarete iniziatori della Guerra delle Nazioni, e tanto forti da far tremare sulle loro sedi tutti i Potenti d'Europa?
Voi potete, il giorno in cui due uomini sopra ogni cento fra voi [212] vorranno star tre mesi sull'armi, due terzi all'aperto e l'altro terzo a guardia delle barricate cittadine, appoggiare le vostre richieste o la vostra chiamata all'Europa con un mezzo milione di combattenti. Non intenderete voi mai che un mezzo milione d'uomini, levati in armi per una idea santa di verità e di giustizia, può ciò che vuole? che la vittoria è sua senza i danni inseparabili da ogni vittoria cercata da forze minori? che le sorti d'Europa stanno raccolte per entro le pieghe della sua bandiera?
Non dite: l'Europa è più vasta della nostra contrada e può mettere in armi un maggior numero di combattenti, e li verserà contro noi. Due milioni d'armati in nome della tirannide non prevalgono contro un mezzo milione d'armati per la Libertà e per la Patria, accampati su terra loro, tra le sepolture dei loro martiri e i grandi ricordi dei loro padri. Ma in verità io vi dico che davanti allo spettacolo d'un Popolo fatto Principio e procedente col ferro nella destra e il Vangelo Eterno, libertà, vita, progresso, associazione, fratellanza delle Nazioni, nella sinistra, i due milioni d'Europa non moveranno contro voi, ma contro i despoti che s'attentassero d'assalirvi.
Quando, undici anni addietro, la Francia si riscosse dal lungo sonno in cui l'avean posta i padri dei sofisti idolatri ch'oggi pesano sui vostri moti, una lunga tremenda corrente elettrica corse Francoforte, Berlino, Pesth, Vienna, Milano, e pose a pericolo tutti i troni d'Europa, perchè i Popoli, ricordando la Francia del 1789 e commossi dalla potente parola che suonava attraverso la nuova riscossa, credettero che un principio sorgesse e salutarono con impeto la vita che doveva discenderne a tutti.
E quel che la Francia, sorgendo, produsse allora, voi, come ogni altro Popolo, potete, sorgendo, produrlo in oggi. Però che, non quel che i Popoli sono per numero o concentramento di forze, ma quel che i Popoli fanno è, per decreto di provvidenza, norma generatrice agli eventi; e mentre la Monarchia di Spagna co' suoi vasti dominî sui quali non era tramonto di sole, non lasciò segno nel mondo fuorchè di roghi e d'ossa di vittime, i piccoli Comuni d'Italia diffusero sull'Europa un solco immortale d'incivilimento e di libertà.
Porgete attento l'orecchio, e ditemi se non udite un cupo rumore che viene come di sotterra, un fremito come di marea che salga, un'eco indistinta come di lavoro che scavi le fondamenta delle Potenze terrestri.
Guardate in volto ai padroni del mondo e ai servi dei padroni del mondo, e ditemi se le pallide fronti e il guardo irrequieto dei primi e l'affaccendarsi convulso di qua, di là, di su, di giù per le vie dell'inferno che chiamano Diplomazia, non accennino a presentimento di rovina, a terrore d'ineluttabili fati.
Essi tremano nell'anima loro, come per freddo di morte imminente, perchè sentono il fremito di quella terza vita d'Italia, ch'io v'annunziava poc'anzi e che, quando si manifesti nel mondo, sperderà la turba di Fantasmi e Menzogne colla quale essi sviano i Popoli dalla vera via.
E contemplate, studiando, l'Europa al lume, non delle lanterne cieche degli angusti sistemi e delle false dottrine, ma della fiaccola ardente della verità; poi ditemi, se nel culto invadente della materia, nello scherno versato sulle vecchie credenze, nell'anelito a nuove tuttora ignote, nel pazzo e breve affollarsi dei molti intorno ad ogni più [213] strano concetto, nel silenzio paziente dei pochi, nel contrasto fra il martirio degli uni e l'indifferenza degli altri, nelle filosofie congegnate a mosaico, nell'inaspettato riapparire di vecchie Potenze che il mondo credeva spente per sempre, nel disfacimento visibile d'antichi Imperi che il mondo credeva immortali, nell'agitarsi sovra ogni terra dei milioni che lavoravano finora muti, inconscî, pei pochi, e nel dolore senza nome che invade l'anime giovani, e nelle gioje profetiche che illuminano subitamente l'anime stanche, non ravvisiate i segni della morte d'un Mondo e del faticoso accostarsi alla vita, d'un altro.
Io vi dico che, come quando morivano gli Dei Pagani e nasceva Cristo, l'Europa è oggi assetata d'una nuova vita e d'un nuovo Cielo e d'una nuova Terra; e ch'essa si verserà, come a santa Crociata, sull'orme del primo Popolo dal quale escirà, sopportata da forti fatti, una voce banditrice d'adorazione all'eterno Vero, all'eterna Giustizia, e d'anatema alla Potenza che opprime e alla Menzogna che mentisce o prostituisce la vita.
Siate voi quella voce e quell'esempio vivente. Voi lo potete. E l'Europa coronerà la vostra Patria d'una corona d'amore sulla quale Dio scriverà: guai a chi la tocca!
Ma finchè l'Europa vi vedrà agitati pur trepidi sempre, frementi pur prostrati davanti agli idoli, e apostoli o accettatori ipocriti di menzogna e chiedenti a principi o a convegni di stranieri la terra ch'è vostra, essa dirà: non è un popolo che si desta, ma un infermo che muta lato; e i dubbî piccoli fatti, che si compiranno nella vostra contrada, non saranno argomento se non di ciarle diplomatiche a raggiratori, o di speculazioni devote all'idolo Lucro in quell'antro di rapina che, con vocabolo gallico, chiamano Borsa.
Non dite: il nostro Popolo non è maturo pei sacrifici e per l'entusiasmo che si richiedono alla grande impresa. Il Popolo è di chi merita d'averlo con sè. E dopo i miracoli operati dal Popolo d'Italia per solo istinto di Patria, nel 1848 per ogni dove, e nel 1849 in Roma e Venezia, chi parla in siffatta guisa del Popolo d'Italia, in verità, è reo di bestemmia.
E allora, non era in esso, come or dissi, che istinto e non altro di Patria. Però che, da poche anime buone in fuori che s'erano accostate ad esso con amore, ma gli avevano, insieme a qualche parte di Vero, insegnato la triste e inerte rassegnazione, nessuno avea cercato educarlo e affratellarlo in comunione d'idee con chi gli sta sopra.
Ma d'allora in poi, mentre voi guardate freddi dall'alto di un falso sapere su ciò che chiamate tuttora, come se foste Pagani, il vulgo profano, molte anime buone, alle quali la tradizione dell'Umanità collettiva ha dato l'intuizione dell'avvenire, hanno stretto con amore le mani incallite degli uomini del lavoro e hanno parlato ad essi come fratelli, e gli uomini del lavoro le conoscono e le ricambiano d'amore e possono sviarsi per breve tempo da esse, ma ogni qual volta le troveranno sulla loro via, le seguiranno con profonda fiducia.
E poi che nel popolo delle vostre città la coscienza s'è aggiunta all'istinto di Patria, e Dio, che segnò le diverse epoche della Vita coll'emancipazione degli schiavi dapprima, poi con quella dei servi, vuole che sia battesimo dell'epoca nuova l'emancipazione dei poveri figli del lavoro, io vi dico, non per vezzo d'adulazione alle moltitudini, ma in puro spirito di verità, che oggi il popolo delle vostre [214] città è migliore di voi, che il mondo chiama letterati e filosofi, e di me che scrivo.
Però che voi ed io possiamo avere virtù, ch'è lotta e fatica, laddove nel Popolo, fanciullo dell'Umanità, vive e respira la spontaneità dell'innocenza, ch'è la virtù inconscia; e mentre in voi ed in me alloggiano forse orgoglio d'intelletto violato dalla tirannide e vaghezza di fama, il Popolo more ignoto sulle barricate cittadine, senza onore di tomba, senza orgoglio fuorchè della sua terra, senza speranza fuorchè pei figli ch'ei confida commettere a fati men duri.
E mentre voi ed io, guasti dai conforti dell'esistenza o da lunghi studî su morte pagine, andiamo calcolando sulle maggiori o minori probabilità di vittoria nelle battaglie pel Giusto e pel Vero, e tentennando e indugiando finchè il nemico s'avveda del colpo che vorremmo vibrargli, il Popolo, che non conosce libro fuorchè quello della Vita e accoglie in sè più gran parte della tradizione italiana che congiunge in uno il pensiero e l'azione, vibra il colpo subitamente e coglie sprovveduto il nemico.
E se il popolo delle vostre campagne è da meno, dipende da questo che, abbandonato interamente da voi e lontano anche da quel riflesso di pensiero che si diffonde più o meno a tutti dai grandi centri d'incivilimento, esso soggiace nei suoi villaggi alle inspirazioni del birro dei corpi e del birro dell'anime. E la vita misera oltre ogni dire lo fa più cauto nel sacrificio, però che, se per tradimento o fiacchezza di chi guida, il nemico ritorna potente là d'onde ei partì, non può far sì che gli uomini delle città non abbiano bisogno di pane, tetto, vestimenta e utensili, sorgenti perenni di lavoro, mentre struggendo, nei primi furori della vendetta, le messi e involando i buoi che trascinan l'aratro, il nemico isterilisce le sorgenti della vita all'uomo del contado e condanna lui e la sua famigliuola a morire. Ma con pochi decreti che gli promettano un miglioramento nelle sue tristissime condizioni, e con una energia d'azione che gli provi la vostra irrevocabile determinazione e la vostra forza, voi lo avrete pronto agli ajuti anch'esso e devoto alla causa comune.
Voi avete tutti un gran debito verso il Popolo, perchè il Popolo ha bisogno che gli si assicuri, con più equa retribuzione al lavoro, il pane del corpo, e, con una educazione nazionale, il pane dell'anima, e voi gli avete finora mostrato, scritta in capo a un brano di carta, una serie di diritti ch'ei non può esercitare, e di libertà delle quali ei non può valersi: e gli avete chiesto di morire per quel brano di carta.
E il Popolo ha bisogno di amore, e voi gli date diffidenza ed orgoglio; il Popolo ha bisogno d'azione, e voi gli date diplomazie e andirivieni di legulei; il Popolo ha bisogno di verità e di programmi semplici e chiari, e voi lo trascinate per ginepraî di transazioni e artificî politici ch'ei non intende, e lo chiamate a cacciar lo straniero dandogli lo straniero per alleato, a emanciparsi dal Vicario del Genio del Male prostrandovi a un tempo davanti a lui come a sorgente di verità spirituale, a liberarsi dalla tirannide vietandogli intanto convegni pubblici, insegnamento di giornali, oratori cari ad esso e libertà di parola. E gl'insegnate per anni ad agitarsi e fremere e prepararsi all'azione per poi dirgli: sta; noi non abbiamo bisogno di te, ma d'eserciti ordinati di principi e despoti. Poi vi lagnate d'esso e lo chiamate stolto e codardo, se gli accade d'esitare nel dubbio e nello sconforto il giorno in cui il tardo senso della sua onnipotenza vi costringe a invocarlo.
In verità voi raccogliete quello che seminaste colle vostre mani.
Ma parlate al Popolo di libertà e fate, non ch'ei la veda scritta su brani di pergamena, ma la senta nella vita d'ogni giorno e d'ogni ora; ditegli amore, e mescolatevi eguali ed amorevoli fra le sue turbe: ditegli fede, e mostrategli che l'avete in esso: ditegli progresso, e decretate, in nome e a spese della Nazione, l'educazione dei suoi figli: ditegli proprietà, e fate che scenda ad esso la proprietà del lavoro: ditegli verità, e non gli date mai ipocrisie, menzogne o reticenze gesuitiche: ditegli Patria, e mostrategliela, non a spicchî e frammenti, ma Una e vasta e potente: ditegli azione, e ponetevi a guida delle sue moltitudini col sorriso della vittoria sul volto e presti a combattere, per ottenerla, con esse: siategli apostoli, capi, fratelli; e voi trarrete dal Popolo miracoli di virtù e di potenza a petto dei quali i miracoli di dieci anni addietro saranno come deboli riflessi di luce a fronte della luce viva e raggiante, come incerte promesse a fronte delle opere che adempiono.
Chi vinse, il 29 maggio 1176, contro Federico Barbarossa in Legnano, la prima grande battaglia dell'indipendenza Italiana?—Il Popolo.
Chi sostenne per trent'anni l'urto di Federico II e del patriziato ghibellino, e ne logorò le forze davanti a Milano, Brescia, Parma, Piacenza, Bologna?—Il Popolo.
Chi franse in Sicilia la tirannide di Carlo d'Angiò, e compì nel marzo del 1282 i Vespri a danno dell'invasore Francese?—Il Popolo.
Chi fece libere, grandi e fiorenti le Repubbliche Toscane del XIV secolo?—Il Popolo.
Chi protestò in Napoli a mezzo del secolo XVII contro la tirannide di Filippo IV di Spagna e del Duca d'Arcos?—Il Popolo.
Chi vietò con resistenza instancabile che l'Inquisizione dominatrice su tutta l'Europa s'impiantasse nelle Due Sicilie?—Il Popolo.
Chi scacciò da Genova nel dicembre del 1746, di mezzo al sopore di tutta l'Italia, un esercito Austriaco?—Il Popolo.
Chi vinse le cinque memorande Giornate Lombarde nel 1848?—Il Popolo.
Chi difese due volte, nell'agosto del 1848 e nel maggio del 1849, Bologna contro gli assalti dell'Austria?—Il Popolo.
Chi salvò nel 1849, in Roma e Venezia, l'onore d'Italia prostrato dalla monarchia colla consegna di Milano e colla rotta di Novara?—Il Popolo.
Il Popolo senza nome, combattente senza premio di fama; l'Eroe collettivo, l'uomo-milione che non fallì mai alla chiamata ogni qual volta gli vennero innanzi, in nome della santa Libertà, uomini che incarnarono in sè l'azione e la fede.
Giovani Volontarî Italiani, benedette siano l'armi vostre! Benedette le Madri che s'incinsero in voi! Benedette le fanciulle del vostro amore, che compressero sotto un pensiero di patria i palpiti del core per salutare d'un sorriso di conforto la vostra partenza!
Però che in voi vivono le due virtù del Popolo, l'azione e la fede; e, come il Popolo, abbracciaste il sacrificio siccome un fratello, senza calcolo di premio o di rinomanza, fuorchè di tutti. Sante sono le vostre [216] bajonette, perchè portano sulla punta una idea: l'Unità della Patria; sante l'anime vostre, perchè portano in sè, come Dio in santuario, il più puro fra tutti gli affetti, l'affetto alla libertà della Patria.
Fra voi splendono, come ricordi d'una gloria mietuta, come bandiera d'onore di mezzo a un esercito, uomini che diedero combattendo, da Roma e Venezia, il programma dell'Italia futura. E su voi tutti splende la serena maestà dell'intrepido Capo, il cui nome è fascino d'entusiasmo alla gioventù d'Italia e di terrore al nemico. Ma sulla fronte a ciascuno di voi sta un segno che vi dice capaci d'emular quei ricordi e d'esser degni del Capo. In voi respira, volente, potente, la Patria. Il vostro campo è un Pontida Italiano. Voi siete un Poema vivente, che ricongiunge la coscienza dell'oggi colla tradizione di quasi sette secoli addietro.
Ma perchè sostate, o giovani Volontarî, sulla bella via? Perchè, come Poema troncato a mezzo dalla morte del Genio che lo dettava, l'impresa che iniziaste giace, colpita di subita inerzia, a mezzo il suo corso? È libera ed una l'Italia, o giovani? O segnaste voi pure, collo straniero, i patti di Villafranca?
Voi accorreste dove suonava il nome di Patria, col nome d'Italia sul labbro, coi colori Italiani sul petto.
Sono i limiti della Patria Sant'Arcangelo e il Mincio?
Non è terra d'Italia quella che si stende a mezzogiorno e a settentrione di quei confini?
Ciascuno di voi portò seco un giuramento solenne: dall'Alpi al Mare. Non è Venezia al di qua delle Alpi? Non bagna il nostro mare le spiaggie frementi della Sicilia?
E Roma? Roma dove vive l'unità della Patria? Roma che è core, tempio, palladio della Nazione? La cancellate voi dalla Carta d'Italia? O lo straniero che vi signoreggia è meno straniero perchè veste una assisa francese tinta in rosso dal sangue dei vostri?
A due passi dalle vostre vedette il bastone dei mercenarî Svizzeri e dei birri papali scende sul dorso d'uomini che vi sono fratelli. Più in là, in mezzo ai desolati dominî del Vicario del Genio del Male, sorge un Castello che chiude da dieci anni centinaja d'uomini, che vi prepararono, congiurando, combattendo, la via. Più in là stanno le prigioni di Roma. E più in là, nelle atroci segrete napoletane, negli scavi delle isole disseminate sui vostri confini meridionali, vivono, d'una vita di chi domani morrà, apostoli della vostra Causa, volontarî della stessa Bandiera, che vi precorsero nell'impresa. Volgete addietro lo sguardo; là tra le lagune agonizza di lenta, tremenda agonia la Roma dell'Adriatico, Venezia, che v'insegnò indipendenza fin da quando gli uomini del Nord cominciarono a correre le vostre contrade; Venezia che tenne ultima in alto, dieci anni addietro, il vessillo della libertà e dell'onore d'Italia; Venezia alla quale venti volte giuraste che i vostri fati non si scompagnerebbero mai da' suoi.
Giuraste ad essa, alla Patria, a Dio; e nelle parole di quel giuramento cingeste l'armi. Perchè sostate? Perchè tradite il debito cresciuto in voi colla forza, e obbedite come se foste assoldati dalla tirannide e non apostoli armati d'una Fede suprema, alla paura degli inetti che travolgono la Patria appiè d'un Convegno di re stranieri?
Il tempo rode le rivoluzioni dei Popoli: il tempo è lima che consuma l'entusiasmo dell'anime. Non v'avvedete voi che sul tempo calcolano i vostri padroni, perchè lo sconforto aggeli e isterilisca gli elementi di forza che vi stanno innanzi? Non v'avvedete che ogni mese, ogni giorno d'indugio scema d'un raggio la stella di vittoria [217] che splendeva sulle vostre colonne armate e affascinava a seguirvi le moltitudini?
Giovani Volontarî, perchè sostate? Voi siete un Esercito Liberatore o una Menzogna vivente: siete gli Araldi della Nazione o strumenti miseri e inconscî d'una angusta ambizione di principe, d'un disegno preordinato di dominazione straniera. Voi siete oggi custodi della vita e della morte del vostro Popolo. Chi oserà sorgere fra gli inermi, se voi, forti, armati, ordinati, non osate varcare una linea segnata dall'inchiostro d'un commesso di diplomazia e d'un faccendiere di corte?
Affrettatevi intorno ai Capi e dite loro: è Capo chi guida: guidateci. Noi ci sacrammo Cavalieri d'Italia, non di Toscana, Parma o Romagna. I fati della Patria pendono dai suoi figli in armi, non dai protocolli di Parigi o Zurigo. Ovunque gemono e fremono fratelli nostri, là sta il campo delle nostre battaglie. Movete, o moviamo.
E siano benedette l'armi vostre, giovani Volontarî Italiani! Benedette le madri che s'incinsero in voi! Benedette le fanciulle del vostro amore, che compressero sotto un pensiero di Patria i palpiti del core, per salutare d'un sorriso di conforto la vostra partenza!
Il cielo era senza stelle, cupo, d'un colore di piombo. La notte, scendendo, aveva disteso sull'azzurro profondo un velo denso e continuo, come lenzuolo di morte presto a calare sopra un cadavere.
Un soffio gelato passava di tempo in tempo senza rumore sulla vasta campagna. Le lunghe e folte erbe piegavano, mute anch'esse, sotto quel soffio. Io guardava; e mi venivano alla mente le pure splendide imagini dell'anima vergine e le dolci speranze de' miei anni giovanili, cadute ad una ad una sotto il soffio gelato delle delusioni e dello sconforto.
Era una tristezza nell'ora, nella terra e nel cielo e nell'immenso silenzio, profonda, inconsolabile, muta. La vita pareva sospesa e senza vigore per ridestarsi.
E scese lento, invadente, su tutto quanto il mio essere, come veste che s'adatti alle forme, un senso di stanchezza suprema, un queto tedio della vita e d'ogni cosa terrena, un illanguidimento senza nome e senza dolore, ma peggiore di tutti dolori: come una morte dell'anima.
E pensai ai lunghi anni vissuti, senza gioja e senza carezza, nella solitudine d'una idea, agli amici morti per la terra o morti per me, alle illusioni sparite per sempre, all'ingratitudine degli uomini, alla tomba di mia madre, alla quale io non avevo potuto accostarmi se non celatamente, la notte, come uomo che tenti delitto; finch'io sentii un bisogno di piangere, piangere, piangere, ma non poteva.
E m'assisi sopra una pietra del cammino, colla testa fra le mani, affranto nell'anima, e come chi tenta celare a sè stesso la via percorsa e la via da percorrere.
E mentr'io mi stava a quel modo, mi pareva di sentirmi la fronte lambita tratto tratto come da un alito, e l'orecchio lambito da suoni fiochi fiochi, come di voci lontane e che vengono di sotterra; e mi pareva di conoscere quelle voci.
E rizzandomi inquieto e guardando, mi sembrava che la campagna fosse seminata tutta di piccole croci; e accanto a ciascuna di quelle croci sorgeva biancastra una forma d'uomo e taluna di donna. Ed erano volti, alcuni noti, altri no; ma tutti come di fratelli e sorelle dell'anima mia.
E gli uni avevano sulla fronte o sul petto segni sanguigni, rotondi, come di ferita, altri come un nastro di sangue intorno al collo, altri altro segno di morte violenta e súbita, e taluna di quelle forme non aveva segno fuorchè d'un lento angoscioso dolore in ogni lineamento del volto; ed erano le più tristi a vedersi.
E tutte si guardavano mestamente quasi interrogandosi l'una coll'altra. Poi da una di quelle forme mosse un suono di voce che disse: sempre immemori?
Ed altre voci risposero con accento di profondo dolore: sempre!
E un suono di lungo gemito si diffuse per la vasta campagna. Quelle anime, che avevano sorriso sul patibolo e fra le torture, gemevano sull'oblio dei loro fratelli viventi.
Allora si levò una voce e disse: Morimmo per la Verità o per l'Errore? La volontà del nostro Padre ch'è nei cieli ci raccolse qui, perchè da noi esca il segnale della terza Vita della Nazione, quando i fratelli nostri avranno raccolto gl'insegnamenti che noi scrivemmo ad essi col nostro sangue. E i mesi passano, e gli anni passano, e nuove anime di martiri s'aggiungono ogni giorno alle nostre senza che l'ora d'emancipazione sorga per noi.
E un'altra voce disse, mentre il guardo accennava a molte di quelle forme: che manca ad essi? noi cademmo vittime volontarie dello straniero, per insegnar loro che chi vuole redimersi non deve sperare salute fuorchè dalle proprie braccia e dalle armi proprie. Perchè fidano anch'oggi a conciliaboli e decisioni di stranieri le proprie sorti?
E surse una terza voce: noi lasciammo le dolci sponde dell'Adriatico e ci recammo, come il Padre c'inspirava, a morire sulle terre dell'estrema Calabria, per insegnar loro che ogni uomo d'Italia è mallevadore per tutti, e che ogni zona del nostro terreno è zona della Patria comune. Perchè s'accampano oggi ciascuno sul lembo di terra che ha conquistato, e tutti non curanti dei fratelli che soffrono a pochi passi da loro?
E una quarta voce s'alzò: E noi morimmo per insegnar loro che la fede senza l'opere è un'inganno agli uomini e a Dio, e che l'azione è il migliore ammaestramento che possa darsi ad un Popolo. Perchè dunque lo spirito di vita si manifesta sulle migliaja, e i milioni rimangono inerti contemplatori?
E una quinta voce proferì sdegnosa: E noi affrontammo, deliberatamente solenni, la morte e l'infamia dai più, per insegnar loro che, fra la prepotenza della tirannide e la servitù incatenata dei molti, un sol ferro può ristabilir l'eguaglianza, se scintilli fra le mani di chi sprezzi davvero la vita e non conosca giudici fuorchè Dio e la propria coscienza. Perchè dunque si querelano sempre fanciullescamente della prepotenza d'un solo despota?
E una sesta forma, femminile, che non aveva segno di morte violenta, ma l'impronta d'un dolore di Niobe sullo scarno volto, fece come chi vuol movere parola, ma non potè, e soltanto accennò, con un guardo di rimprovero che pareva abbracciar terra e cielo, a quattro o cinque forme di giovani che le stavano intorno.
E dopo un silenzio, tutte quelle forme proruppero in un lamento: Dov'è la Patria promessa ai nostri figli da coloro che ci videro morire e giurarono vendicarci? Dov'è la tomba che dovea raccogliere l'ossa nostre su terra libera e sotto la bella bandiera per la quale ponemmo la vita? Perchè sfumarono le promesse dei vostri cari? A che dirci grandi se il nostro esempio non è raccolto? A che la parola d'amore gittata pomposamente alla nostra memoria, se il pensiero, il [219] voto, il palpito dell'anima nostra è obliato, profanato, travolto? Morimmo per la Verità o per l'Errore?
E un tremito prese tutte quelle ombre. Ed io mi coprii per vergogna e dolore la faccia.
Quando riguardai, non vidi più cosa alcuna fuorchè il cielo senza stelle e la vasta deserta campagna e le lunghe e folte erbe che piegavano al soffio gelato. Ma spesso, tra i sogni, vedo tuttavia riaffacciarmisi la dolente visione.
Dio dei Popoli oppressi! Dio dell'anime afflitte! Posa sui poveri sviati figli d'Italia uno sguardo di clemenza e d'amore. Il solco segnato da trecento anni di schiavitù e la lunga idolatra predicazione dei falsi profeti che usurpano in terra il tuo santo nome non si cancella in un giorno; e la loro mente è spesso ingombra d'errore. Ma in fondo del loro core vive, come lampa velata, il culto del tuo Vero, e della Patria alla quale tu li chiamasti: ed hanno molto patito per essa.
Tu, davanti al cui occhio l'Umanità intera appare come un Essere solo, volesti che il sacrificio d'un Giusto lavasse ogni fatalità di colpa e d'errore da tutte l'anime de' suoi fratelli. Pesa nella tua mano il sacrificio di tutti i Giusti che morirono per richiamarci a vita, e accoglilo siccome espiazione dei nostri traviamenti. Scenda sui poveri ingannati figli d'Italia il tuo Spirito di Verità! Manda, dove s'accolgono, l'Angiolo dei forti pensieri, e fa ch'essi diventino degni dei loro Martiri e non contristino l'anime sante coll'oblio o colla fiacchezza delle opere!
Per la parte che adempiemmo de' tuoi disegni nel passato—per la parola d'Unità che due volte diemmo alla terra—per l'intelletto della divina bellezza che i nostri profeti diffusero, inspirati da te, sulle genti—pei Santi che vissero e morirono sul nostro suolo nella tua fede—per la promessa che ci venne data da te, quando stendesti più splendido che non altrove su noi l'arco dei cieli e il sorriso infinito della tua Creazione—noi ti preghiamo, o Signore: levaci alla terza Vita! Infondi nelle nostre madri l'adorazione della Patria e l'amore all'anima, non alle sole membra, dei figli! Spira nei padri i virili concetti e l'ardita virtù che sola può far nostra la nostra terra! Benedici le spade dei nostri giovani, finch'essi possano scioglierti dalla tua Roma un cantico degno di te, il cantico dell'Italia redenta.
E salvaci, oh salvaci dalla morte dell'anima! Sperdi da noi, checchè avvenga nel tempo di prova che ancor ci avanza, l'ateismo della disperazione, il soffio gelato del dubbio. Come il ferro s'affina sotto i colpi che par minaccino di spezzarlo, così s'affinino i nostri cori sotto il martello della sventura. Come il forte licore diffonde il suo profumo all'intorno quand'è infranto il vaso che l'accoglieva, così si diffonda, tra le ferite dell'ingratitudine, da noi sui nostri fratelli l'amore, ch'è il profumo dell'anime.
E quando nel freddo della solitudine, ch'è il peggiore dei mali, saranno presso a spegnersi le sorgenti della tua vita, suscita, o Padre, a ravvivarle, il pensiero dei morti che amammo e che ci amano. E scenda a lambirci la fronte riarsa il bacio delle madri e delle sorelle perdute, e c'insegni i segreti dell'immortalità, tanto che vivi e morti siamo tutti uno in te nella fede e nella speranza.
E stetti sull'Alpi: sull'alto dei Monti che ti ricingono come diadema, o mia Patria, là dov'è eterno il candor delle nevi, eterna la purezza dell'aria, eterno il silenzio se non quando lo rompono lo scroscio della valanga e l'invisibile scorrere, eterno anch'esso, dell'acque che di là scendono a fecondare l'intera Europa; e l'uomo sente se stesso come più presso a Dio.
E le stelle si dileguavano ad una ad una come i fochi d'un campo che si prepara sull'alba alla mossa. E l'alba incoronava l'estremo orizzonte di una luce di vita nascente.
Correva sul vasto ripiano un alito come di creazione, pregno di freschezza e potenza di vita, che affondava sotto a' miei piedi la nebbia delle falde, come un puro e forte pensiero affonda le misere vanità, e le basse passioni tentatrici del core. Ed io sentiva l'anima stanca ringiovanirsi a quel soffio.
E pensai agli istinti profetici della vita immortale, che nè delusioni nè lunghi inconfortati dolori avevano mai potuto spegnere in me, al rinascere solenne di Roma dopo secoli di tenebra profonda e servaggio, alla giovine libertà Ellenica risuscitata dai Klephti delle montagne, quando il mondo la credeva spenta per sempre, al sorriso dei morenti sul palco per l'Unità della Patria, al tiremm innanz del povero Sciesa, quando, a due passi dal supplizio, gli offrivano vita, purchè invocasse perdono, e ai pochi ma rari affetti seminati, come fiori tra le nevi dell'Alpi, sul cammino della mesta mia vita, o all'anima femminile che Dio mi mandava, com'Angelo de' miei giorni cadenti, perch'io la amassi sovra ogni cosa terrena. E dissi a me stesso: No, la vita e il martirio non sono menzogna: l'amore consacra l'uno e l'altro all'eternità. Il dolore è santo; la disperazione è codarda.
E il Sole sorgeva; simbolo, eternamente rinascente, di vita, grande, maestoso, solenne: il Sole d'Italia sulle Alpi! Ed io affondava lo sguardo fin dove poteva, giù dove si stende il sorriso interminabile della bella mia Patria. E la luce si diffondeva come aureola promettitrice sovr'essa colla rapidità del mio sguardo. E la mia anima, sorvolando quel torrente di calore e di luce, nuotava con fede irresistibile e nella speranza e nell'antico orgoglio del nome d'Italia.
Tu sorgerai, o mia Patria! grande nel mondo come il sole sulle tue Alpi: santa del tuo lungo Martirio: bella del duplice tuo Passato e dell'infinito Avvenire. E il tuo sorgere sarà segnale al sorgere delle Nazioni; e rinnovellerà, onnipotente contro ogni nemico, la faccia dell'Europa. E questo avverrà, quando, cacciati gl'idolatri dal Tempio e disperse le nebbie delle false dottrine che t'indugiano sulla via, i tuoi figli non avranno altra via che la linea retta, altra scienza che la verità senza veli, altra tattica che il coraggio e l'ardire, altro Dio che il Dio della Giustizia e delle Battaglie.
Ed io so che parecchî fra voi, incadaveriti in ogni libera facoltà per troppo lungo soggiorno appiè dell'Idolo Forza, dell'Idolo Tattica, dell'Idolo Lucro, s'irriteranno delle mie parole e diranno raca! al fratello; e appiattati, siccome ladri in viottoli, in qualche angolo oscuro dei loro diarî e libercoli, schizzeranno contro me fango, bava e veleno. Ma essi non hanno potere sull'anima mia, nè contro le verità [221] ch'io parlo ai giovani e ai figli del Popolo, e che i giovani e i figli del Popolo ascolteranno quando che sia.
Però che Dio mi diede, chiamandomi a vita quaggiù, una inesauribile potenza d'amore ed una di spregio. E come Giovanni Huss di sul rogo, vedendo un uom del contado affaccendarsi per aggiungere legna a quella che già lo ardeva, esclamava: o semplicità santa! io diffondo la prima sulla testa di quei che m'oltraggiano per errore di mente debole: e la seconda, io la verso sulla testa degli idolatri che calunniano per basso livore d'invidia o per secondi fini. Nè guardo o curo più oltre.
Ma il Vero ch'io parlo, come m'è inspirato dalla tradizione d'Italia e dalla pura coscienza, è immortale; nè calunnia di codardi o malia di false dottrine o bastardure di corti può soffocarlo se non per poco.
E in nome di quel Vero oggi io grido:
Giovani d'Italia, sorgete!
Sorgete sui monti! Sorgete sul piano! Sorgete in ciascuna delle vostre città! Sorgete tutti e per ogni dove! Non vedete che il sorgere subito o universale è vittoria certa, senza i sacrificî della vittoria?
Sorgete tutti e per tutti! Non siete voi tutti figli d'una stessa Italia, in cerca d'una stessa Patria?
Non dite, voi che avete terreno libero ed armi: perchè non sorgono come noi gli uomini delle altre provincie? In verità, quella è parola di Caino, e se voi poteste proferirla, meritereste di perdere la libertà conquistata, e la perdereste.
Non v'è che una Italia, e, su quella, non provincie, ma zone di operazione e un esercito Italiano composto di quanti si concentrano in armi intorno alla bandiera della Nazione. Voi siete quell'esercito e dovete muovere senza riposo, ingrossando per via, alla conquista di quelle zone.
Non dite, voi che gemete tuttora nella servitù: perchè non vengono a scacciare i nostri tiranni gli uomini delle terre già libere? Se voi sorgeste, verrebbero, e scacciereste, uniti, più rapidamente i vostri padroni.
Figli delle terre affrancate, non troverà la Patria fra voi un Cesare della libertà che valichi il Rubicone? Figli delle terre schiave, non troverà la Patria fra voi un solo Procida che osi chiamare gli oppressi ai Vespri sugli oppressori?
Sorgete, oh sorgete! Sorgete oggi: domani avrete più gravi ostacoli. Perchè, se nei loro Conciliaboli i Principi potranno dire: là vi è quiete, sanciranno coi loro patti la durata di quella quiete, e voi avrete nemici tutti, mentr'oggi è in vostro potere dividerli.
Sorgete oggi! Il tempo è tutto per voi. Oggi ancora le moltitudini sperano e fremono: domani ricadranno incredule, sfibrate, pervertite dall'arti assidue dei vostri nemici.
Sorgete oggi! Un'ora di schiavitù rassegnatamente patita, quando la vittoria è possibile, merita un secolo di tirannide e d'obbrobrio al Popolo che la patisce. E chi può darvi condizioni migliori per vincere di quelle d'oggi? Le migliaja dei vostri fratelli in armi, le forze dei vostri padroni titubanti e smembrate, uno straniero spossato dalla disfatta, l'altro dalla vittoria e impotente a mutar di campo e di bandiera ad un tratto, e i consigli dell'Europa divisi, e le Nazioni deste al vostro destarsi, non vi dicono che il momento è venuto?
Uomini delle terre Napoletane! A che state? Sapete voi quale nome serpe per voi tra i Popoli dell'Europa attonita della vostra immobilità? [222] È il nome che l'uomo non ode senza ricorrere all'armi: il nome che stampa sulla fronte a un Popolo il marchio del disonore. In nome dell'onore d'Italia e del vostro, in nome del vostro passato, in nome degli esempî di fortezza che vennero da voi primi a tutta la nostra contrada, sorgete, e fondi il vostro sorgere la Patria d'un getto!
Figli dell'Isola che disse undici anni addietro ai suoi tiranni: noi sorgeremo il tal giorno, e attenne la sua parola, siete voi fatti simili a fanciulli pendenti dal labbro del pedagogo? L'ora della vostra Libertà non può venirvi per messaggio segreto di Firenze o Torino. L'ora della vostra Libertà scoccherà il giorno in cui, in una delle vostre città, cento generosi fra voi, congiunte le destre e l'armi, ripeteranno la parola dei padri: tradisce la Patria chi tarda. Morte pria che servire!
Tradisce la Patria chi tarda. Gittate, o giovani d'Italia, l'anatema a chi vi parla d'indugio, e sorgete. A che ammirate l'impeto sublime di Francia nel 1792 e i quattordici eserciti spinti alla sua frontiera? La Francia non contava allora più milioni d'uomini che non son oggi i milioni d'Italia. A che dir grandi i combattenti della Grecia risorta? Non potete esser grandi com'essi? I Greci erano un milione contro un nemico dieci volte più forte; ma s'armarono tutti, giurarono di sotterrarsi sotto le ruine delle loro città, anzichè piegare innanzi alla Mezza-luna, mantennero a Missolungi il loro giuramento, e vinsero. Fate com'essi: vincerete com'essi.
Su, sorgete! Non piegate alle lodi che vi vengono, per gl'indugi accettati, da quelli ai quali giova che voi indugiate: in verità io vi dico che quei lodatori sogghignano nel loro segreto, e vi scherniscono creduli e puerilmente arrendevoli. I cinque mesi d'inerzia durata dovrebbero pesarvi sulla fronte come cinque anni di vergogna non meritata. L'insurrezione d'Italia è iniziata: diffondetela, allargatene la base, afforzatela, per quanto vi è caro. Le insurrezioni che s'arrestano muojono. A voi bisogna andar oltre, o perire.
Sorgete, sorgete! Non corre sangue d'Italia nelle vostre vene? Fra la minaccia del nemico e i cenni del Brenno alleato, non sentite ribollirvi nel core vita e orgoglio di liberi? È terra nostra questa o d'altrui? Feudo o proprietà di cittadini padroni di sè? A che l'armi, su non le adoperate? A che il grido fremente di Viva l'Italia? Su per Perugia! I protocolli non vi pagheranno il sangue che vi fu versato. Su per Venezia! Dai conciliaboli regî non avrete che paci di Campoformio o di Villafranca. Su per quanti gemono dall'Alpi al Mare! Sorgete, come le tempeste dei vostri cieli, tremendi e rapidi! Sorgete, come le fiamme dei vostri vulcani, irresistibili, ardenti! Fate armi delle vostre ronche, delle vostre croci, d'ogni cosa che ha ferro! Sfidate la morte, e la morte vi sfuggirà. Abbiate un momento di vita volente, potente, Italiana davvero, come Iddio la creò; e la Patria è vostra.
E Dio benedica voi, le vostre spade, i vostri affetti e la vostra vita terrena, e l'anime vostre e le maledizioni stesse escite talora dal vostro labbro su me che scrivo col vivo sangue del core, e la cui voce, tremante per febbre d'amore e di desiderio, voi spesso scambiaste in voce d'agitatore volgare, irrequieto e importuno. Sperda l'oblio ogni ricordo di me, purchè sventoli, fra un Popolo di liberi, pura d'innesti, la bella, la santa, la cara Bandiera dai tre colori di Italia, sulla terra ove dorme mia Madre.
14 novembre 1859.
La diffidenza cieca, come la cieca fiducia, è morte alle grandi imprese. I maneggiatori politici del moto Italiano peccano in oggi della prima, e vi aggiungono l'ingratitudine; il Popolo d'Italia pecca della seconda.
Della necessità che il Popolo d'Italia non segua passivamente servile l'inspirazione che scende dalle sfere governative, ma senta la vita iniziatrice che ha in sè, e la svegli e provveda, più che non fa, con le opere proprie alle proprie sorti, ho parlato sovente e riparlerò. Parlo oggi per conto mio e de' miei amici repubblicani, della diffidenza sistematica che perseguita di calunnie e di stolti sospetti essi e me. Ne parlo, non perch'io creda debito nostro giustificarci o difenderci con gli uomini che diffondono quelle calunnie o affettano di nudrire quei sospetti: nei più tra essi calunnie e diffidenze non sono sincere, ma solamente basso calcolo politico e codarda guerra d'uomini meschini contro uomini che paventano, a torto, rivali possibili sul campo dov'essi mietono; però non li stimo. Ne parlo pei molti che credono senza appurare, o perdono così la speranza d'una concordia che nell'intimo core desiderano; pei molti che, ineducati a scegliere tra le cose messe loro innanzi, travedono pericoli ove non sono, e credono, ingannati non colpevoli, salvare il Paese vigilando sospettosi su noi ed allontanandoci da un campo che aprimmo noi primi in Italia. Davanti al Popolo non v'è dignità offesa che comandi il silenzio. Giovammo—e questo lo confessano gli stessi avversi—alla Causa del suo avvenire. Vogliamo giovarle ancora, tentarlo almeno, e per questo bisogna intenderci. Agli accusatori sistematici vorrei ricordare soltanto che le ingiuste diffidenze generano ingiuste ire, traviano l'opinione Europea su le cose nostre, scemano le forze della Nazione, e cacciano i germi di quel sistema che contaminò, sessantasette anni addietro, la Rivoluzione francese, e finì per affocarla nel sangue.
Da quali fatti movono i sospetti che oggi ancora si accumulano contro i repubblicani? Per quanto io cerchi, non ne trovo uno solo che non sia un'assurda calunnia smentita dieci volte da prove documentate.
Ebbe luogo, in un sol punto d'Italia, un solo tentativo di sommossa repubblicana? Fu trovata, fu letta, negli ultimi due anni, una sola linea scritta pubblicamente o privatamente, dagli uomini che più o meno rappresentano il principio del Partito, che accenni a Repubblica? [224] Fu mai promossa da noi, dal primo svolgersi del moto d'Italia, la questione di forma d'instituzioni politiche?
No: e mi smentisca co' fatti chi può. Prima della pace di Villafranca, parecchî tra noi protestarono contro il commettersi de' nostri fati alle armi straniere e ad armi dispotiche: sapevamo d'antico che nessuna Unità Nazionale s'era fondata a quel modo, e la subita pace, e lo smembramento di Nizza e Savoja vennero poi a giustificare l'antiveggenza. Dopo la pace di Villafranca, appena l'emancipazione Italiana rimase opera di menti e braccia Italiane, anche quei che non avevano fatto se non astenersi, senza badare alla bandiera che padroneggiava il moto, s'affrettarono a unirsi. Il programma monarchico di Garibaldi fu il loro. Le file di Garibaldi son piene di repubblicani. Essi pugnano, vincono, muojono lietamente sotto di lui. Nè prima nè dopo l'infausta pace escì dalle loro labbra altro grido che quello dell'Unità; di quella Unità alla quale i loro tentativi, i loro scritti, le loro associazioni, i loro martiri, avevano educato l'Italia. Ovunque fu pericolo onorato da corrersi per promoverla, là furono. La sola sfera nella quale i loro nomi non si trovano più che rari è quella degli impieghi lucrosi. Sdegnati, calunniati, respinsero le calunnie senza una parola che riconducesse l'antica questione sul campo. Perseguitati, oggi sorrisero, e il dì dopo giovarono, come fu loro dato, alla causa della Patria e dell'Unità. I più tra loro promossero, stimandola giovevole, l'annessione combattuta delle provincie del Centro. Taluni si tennero, in Toscana segnatamente, a contatto col Governo per rassicurarlo e appoggiarne più validamente le mosse, quando tendessero all'Unità. Io che scrivo dichiarai sull'onore e pubblicamente che se mai nuovi smembramenti di terra Italiana, o il rifiuto deliberato dell'Unità da parte dei reggitori ci riducesse, disperati da altre vie, alla nostra vecchia bandiera, noi lo annunzieremmo anzi tratto con la stampa agli avversi.
Può un Partito dar pegni più solenni di questi? Può spingersi più oltre, per amore della concordia, l'abnegazione? Può la riverenza alla sovranità dell'opinione Nazionale esigere altro da noi?
Il Popolo d'Italia, lasciato alle proprie aspirazioni, non traviato da calunnie, risponderebbe: non può. I raggiratori che strisciano intorno alla piramide del potere vorrebbero di più. Diseredati di fede e veneratori materialisti dell'opportunità e della forza, essi vorrebbero rapirci la nostra. Non basta ad essi che da noi si chini riverente il capo alla sovranità dell'opinione dei più; vorrebbero che, dichiarando di avere errato nel passato, noi ci dicessimo credenti nella fede monarchica. Vorrebbero che non fossimo accettatori, ma propugnatori della dottrina che in oggi domina. Non lo vogliamo, nè lo possiamo. La nostra è fede; possiamo tacerla per un tempo, rinunziare ad ogni tentativo d'attuarla; non rinnegarla e dirla falsa per l'avvenire.
Nè ribelli, nè apostati; in queste parole si compendia la nostra condizione dell'oggi. Non possiamo andare d'una linea più in là. Essere cittadini non significa per noi cessare d'esser uomini.
Cittadini onesti e leali accettiamo, purchè guidi all'Unità della Patria, la monarchia dal consenso dei più: non tentiamo di sostituire alla sua bandiera la bandiera repubblicana. Che volete di più? Abolire la coscienza? Siate allora inquisitori e tiranni: non vi fregiate del santo nome di libertà.
La libertà esige la coscienza della libertà. Volete servi, non liberi alleati all'impresa? Raccoglierete una menzogna di libertà e nuova servitù poco dopo. Preferireste averci cortigiani, ipocriti e gesuitanti, [225] all'averci cooperatori leali e salvo il pudore dell'anima, salva la dignità d'uomini in noi? Qual pegno avreste del nostro non tradirvi domani?
Movendo all'emancipazione delle Marche e dell'Umbria—emancipazione che voi dichiaravate inopportuna e pericolosa cinque giorni prima di compierla colle armi vostre—noi inalzavano la bandiera dei tre colori d'Italia, senza lo stemma Sabaudo. Con qual diritto avremmo noi, pochi iniziatori e semplici cittadini, detto alle popolazioni alle quali imprendevamo di portar libertà: noi vi ajutiamo a patto di padroneggiarvi? Non dovevamo aspettare che la volontà dei nostri fratelli, come altrove, si dichiarasse?
Non rimase la bandiera pura d'ogni stemma in Toscana, prima che il voto popolare dell'annessione si rivelasse? Inalzarono altra bandiera che l'Italiana gl'insorti della Sicilia, quando per sei settimane Rosalino Pilo e i compagni di lui tennero vivo, aspettando Garibaldi, il combattimento? Perchè voler noi, noi soli repubblicani, usurpatori della Sovranità del Popolo? Non bastava a voi la promessa che il nostro grido repubblicano avrebbe taciuto? che avremmo accettato il vostro vessillo dal primo libero Municipio che l'avrebbe—e non v'era dubbio—inalzato? Perchè pretendere che ci mostriamo in sembianza d'iniziatori monarchici? Perchè l'Italia impari a rigenerarsi convincendosi che non v'è partito entro i suoi confini capace di non vendere o calpestare la propria fede, e nondimeno capace di sacrificarne la realizzazione immediata all'opinione dei concittadini e all'Unità della Patria?
Scorrete le file dell'esercito di Garibaldi. Là, tra quei forti che numerano i giorni con le battaglie, voi trovate il repubblicano a fianco dell'uomo della monarchia. Nessuno diffida del compagno, nessuno sospetta ch'egli covi un pensiero d'insidia nell'anima. Perchè non è lo stesso nei ranghi della vita civile? Perchè non potremo parlare di Patria e Unità, senza che voi diciate: intendono parlare di Repubblica?
Nè apostati, nè ribelli. Noi, serbando fede al nostro ideale, ci serberemo il diritto di non apporre il nome nostro in calce d'inni monarchici; di non dire oggi ai nostri concittadini: vogliamo che siate Regî e non altro; di esprimere pacificamente, conquistata l'Unità della Patria, davanti al Paese le nostre credenze; d'astenerci dagli ufficî che altri si contenderanno; di ripigliare taluni fra noi la via dell'esilio. Oggi chiediamo di essere ammessi, senza calunnie, senza sospetti villani, senza interpretazioni maligne date ad ogni nostra parola, senza testimonianze d'ingratitudine—che a noi, securi nella coscienza, importano poco, ma che disonorano la Patria nostra—a lavorare noi pure per l'Unità, a combattere qualunque straniero o italiano la avversi, lasciando al Popolo ogni decisione sulla forma che deve incarnarla.
Ma il diritto di lavorare per l'Unità importa diritto di consiglio; e di questo intendiamo usare liberamente quant'altri, come uomini ai quali l'Italia è patria, e che hanno operato costantemente a fondarla.
Non vi è tra noi contesa sul fine dell'oggi; accettiamo tutti il voto della maggioranza; la contesa è sui mezzi di raggiungere sollecitamente l'Unità che tutti vogliamo. Su quel terreno comincia il dissenso. Chi pretende impedirci di esprimerlo è intollerante, esclusivo, settario: continua, con nomi diversi, il sistema dei padroni che i nostri sforzi hanno rovesciato.
Chiediamo libertà per dire, non che la Repubblica è il migliore [226] de' Governi, ma che noi, 25 milioni d'Italiani, dobbiamo essere in casa nostra padroni; che possiamo esser tali se tutti lo vogliamo; che la nostra libertà sta sulla punta delle nostre bajonette e nella ferma determinazione delle anime nostre, non nei consigli o nei cenni di Francia o delle Aule diplomatiche; che volerla far dipendere dal beneplacito di Luigi Napoleone, o d'altri che sia, è un prostituirla, un immiserirla anzi tratto, un metterci a rischio di perderla nuovamente, dichiarandocene immeritevoli.
Chiediamo libertà per dire che, tra il programma di Cavour e quello di Garibaldi, scegliamo il secondo: che senza Roma e Venezia non v'è Italia; che, eccettuata la guerra del 1859, provocata dall'Austria e sostenuta, a prezzo di Nizza e Savoja, dall'armi dell'Impero francese, eccettuata l'invasione delle provincie Romane, provocata da noi, dalla necessità che creammo noi, nessuna iniziativa d'emancipazione Italiana appartiene al programma Cavour; che Roma e Venezia rimarranno schiave dello straniero, se l'insurrezione e la guerra dei volontarî non le conquistano a libertà.
Chiediamo libertà per dire che non si fonda la Patria libera ed una annettendo una od altra provincia al Piemonte; ma confondendo Piemonte e tutte provincie dell'Italia in Roma, che n'è core e centro; che l'annessione immediata delle provincie conquistate a libera vita, ponendole sotto il dominio del programma di Cavour e sottraendole a quello di Garibaldi, arresta il moto, toglie le forze del Paese dalle mani di chi vuole usarne, per darle a chi vuol condannarle all'inerzia, e cancella per un tempo l'idea dominatrice.
Chiediamo questo e non altro. Confutateci, ma non calunniate. Non ripetete sempre, stoltamente o di mala fede, che noi lavoriamo ora per la Repubblica, quando taciamo di Repubblica da due anni. Non v'ostinate a giudicarci senza leggerci. Non ripetete, servi ciechi di ogni gazzetta ministeriale, affermazioni smentite cento volte dai fatti. Non aizzate contro noi perfidamente con la menzogna le passioni di un Popolo che deve a noi in gran parte quanto ei sente, quanto ha conquistato della propria Unità. La menzogna è l'arte dei tristi codardi. La credulità senza esame è abitudine d'idioti.
Quando, consumato l'atto antinazionale, che ha nome di Pace di Villafranca, il Popolo d'Italia sottentrò—colle manifestazioni, colle assemblee, coi plebisciti—iniziatore della Rivoluzione Nazionale, e diede opera a fondare la Patria, sentimmo, noi repubblicani, l'obbligo assoluto di contribuirvi con tutte le forze dell'animo e dell'azione. E poi che la maggioranza del Popolo d'Italia, obbedendo alle circostanze e al bisogno che tutti gli elementi si unissero al grande intento, dichiarò che la via più facile a raggiungerlo era l'unificazione monarchica, noi piegammo, dubbiosi dell'esito ma riverenti, la testa alla volontà del Paese, e dicemmo: tenteremo lealmente per la seconda volta l'esperimento. Colla mano sul core noi possiamo affermare che attenemmo la nostra promessa.
L'attenemmo, fra le amarezze d'una guerra continua di diffidenze, di sospetti sleali, di basse e ingrate calunnie, respinti da ogni consiglio, posposti agli uomini di parte retrograda, condannati come nemici, all'isolamento nello Stato; guardati come strumenti da utilizzarsi per vincere, da rompersi poi. L'attenemmo di fronte a gravi colpe; di fronte a una politica pertinacemente servile allo straniero, di fronte al turpe mercato della Savoja e di Nizza. L'attenemmo, spronando al voto unificatore le popolazioni del Centro, preparando e rendendo necessaria l'emancipazione delle Provincie romane, iniziando l'insurrezione della Sicilia, sommovendo le terre meridionali, e ajutando efficacemente il trionfo del plebiscito, che aggiunse dieci milioni d'uomini alla monarchia.
Era il Dovere Nazionale; e a questo, a questo solo, sacrificammo ogni cosa: aspirazioni, ideale, tradizioni del nostro passato, concetti ben altrimenti vasti e gloriosi che non quei della monarchia reggitrice.
Fare l'Italia; a questo avremmo sacrificato la fama e l'onore. Amavamo, amiamo la Patria, la Patria Una, fino al suicidio. Gli uomini che avevano per trent'anni lavorato in nome di una bandiera repubblicana diedero lietamente all'Europa, in nome d'Italia, lo spettacolo, nuovo nella storia delle parti politiche, d'uomini che combattono a pro di una bandiera avversa ad essi e persecutrice.
Per quella via seminata di dolori e di sacrifici, non ci serbammo che un solo diritto: combattere: agire a danno dell'invasore straniero: agire senza interruzione, perchè l'Unità Nazionale si compia; perchè la Patria, costituita e forte, esca rapidamente dai pericoli di una condizione provvisoria e mal secura, che minaccia le conquiste operate; perchè si cancelli dalla fronte di ventidue milioni di Italiani la vergogna della servitù di Venezia e di Roma, la vergogna di essere forti e non attentarsi di rivendicarle.
Era un solo diritto, ma su quello posava il patto.
Per quello noi riducemmo fin d'allora tutto il nostro pensiero alla breve formula: fare l'Italia Una con la monarchia, senza la monarchia, contro la monarchia, se essa si ribellasse a quel fine.
Per quello, io, presago nell'animo, dichiarai che, mentre il Governo non avrebbe, operando a quel fine, cosa alcuna da temere da parte nostra, noi ci terremmo liberi, ove esso lo abbandonasse, di seguire le inspirazioni, quali si fossero, della coscienza, avvertendone prima lealmente il Governo stesso.
E sciolgo oggi, per ciò che riguarda individualmente me, la promessa.
Quel diritto ci è tolto. Il Governo non opera a emancipare le terre schiave e compire l'Unità Nazionale: vieta a noi, con energia di nemico, il tentarlo. Ogni ragione del patto cessa dunque d'esistere. E credo debito mio dichiararlo.
Io mi sento, da oggi in poi, libero da ogni vincolo, fuorchè da quelli che m'imporranno l'utile del Paese e la mia coscienza.
Ciò poco monta all'Italia e al Governo. Gli anni, la salute malferma, l'influenza degli ordinamenti, segreti un tempo, cessata naturalmente per la semi-libertà del Paese, che può provvedere da sè ai proprî fati, e altri uomini ben altramente potenti ch'io non sono, sorti nelle file della Nazione, fanno di me un fiacco amico e un più fiacco nemico. La mia dichiarazione non ha quindi altro fine che quello di soddisfare all'anima mia. Sento il bisogno di portarla fino al sepolcro incontaminata, e mi dorrebbe che altri potesse dirmi: Vi credevamo alleato, e nol siete.
Di fronte a un dualismo così chiaramente definito dal Potere attuale, tra il tentativo dei nostri a danno dell'Austria, e la violenta repressione governativa—tra gli uomini coperti di cicatrici colte nelle battaglie dell'Unità Nazionale e gli uomini che li consegnano ai birri e li accusano d'alto tradimento per aver voluto combattere lo straniero e liberare i loro fratelli—tra le aspirazioni della parte migliore del Paese e le fucilate date per unica risposta in Brescia—tra il concetto emancipatore di Garibaldi e il Governo che lo nega, e, non osando imprigionare Garibaldi, lo oltraggia—corre debito, parmi, a ogni uomo che ami l'Italia di scegliere, e pubblicamente.
Prego gli avversarî onesti di non fraintendermi. Non si tratta ora per me di repubblica o monarchia; si tratta d'azione o d'inerzia, di Unità o smembramento, d'avere lo straniero in casa, o di averlo fuori.
Il nostro programma dell'oggi è tuttora quello del 1859. Si compendia in due parole: Venezia e Roma: il braccio d'Italia, il core d'Italia. Soltanto, allora speravamo ottenerle alleate colla monarchia; oggi, esaurita quella speranza, diciamo che cercheremo d'averle soli, por vie nostre, malgrado il Governo, e disposti a combatterlo, ov'esso si ostini in attraversarci la via.
Se gli uomini del Governo, non contenti dell'inadempimento del Dovere, vorranno impedire a noi di compirlo, faremo di conquistare in ogni modo la libertà: se violeranno il diritto delle Associazioni pubbliche a pro di Roma e Venezia, torneremo a stringere le nostre fratellanze segrete; cospireremo. Non rinnegammo il dovere Nazionale davanti all'Austria, non lo rinnegheremo davanti a uomini che han nome Rattazzi, Minghetti o Farini.
Vogliamo Roma e Venezia, perchè in Roma sta il segreto della nostra Unità, in Venezia il disfacimento dell'Impero d'Austria, e la nostra alleanza colle Nazioni sorelle, che assicureranno colla loro esistenza la nostra frontiera dell'Alpi.
Vogliamo Roma e Venezia, perchè in Roma soltanto possiamo avere leggi nuove che ci bisognano, e non un vecchio Statuto Piemontese, ma un Patto Nazionale; perchè in Venezia soltanto può cominciare la missione internazionale d'Italia.
Vogliamo sollecitamente Roma e Venezia, perchè l'interrompimento del nostro moto Nazionale e la condizione provvisoria nella quale versiamo, minacciano la nostra Unità; perchè l'Austria nel Veneto è la congiura perenne dei principi spodestati, la minaccia perenne di subita invasione nel core delle nostre terre; perchè la Francia in Roma è la congiura perenne dei satelliti del Papa e del Borbone di Napoli, la perpetuazione del brigantaggio nelle terre Meridionali; perchè Luigi Napoleone, avverso deliberatamente alla nostra Unità, cospira per trarre alimento dai crescenti malcontenti locali al suo disegno federativo, e il tempo gli giova; perchè ventidue milioni di uomini liberi non possono, senza incancellabile disonore, tollerare ciò che susciterebbe a guerra immediata ogni altra Nazione Europea, che lo straniero accampi tranquillo sul suolo che è loro; perchè ogni uomo imprigionato nel Veneto, ogni uomo scannato dai masnadieri Borbonici nel Napoletano, pesa come un delitto, e dovrebbe pesare come un rimorso, sull'anima della Nazione; perchè, se gli uomini del Governo sono incapaci di vergogna e rimorso, noi non lo siamo.
Sperammo che il Governo avrebbe compito il debito suo e che noi avremmo potuto seguirlo e ajutarlo.
E gli dicemmo:
Armate il Paese. Serbate com'è l'esercito a insegnamento, esempio e nervo di guerra. Abolite, pel futuro, la coscrizione, e ordinate la Nazione all'armi, giusta il metodo Svizzero. Avrete l'affetto del Popolo, che non ama esser svelto, senza necessità, da' suoi, e avrete presto, occorrendo, un milione di combattenti.
Affratellate al moto Nazionale il Popolo, allargando il suffragio, facendolo partecipe dell'armi cittadine, dei diritti politici, della vita d'Italia.
Dichiarate che in Roma i delegati di tutto il Paese saranno chiamati a definire, con un Patto Nazionale, le nuove aspirazioni italiane. Fate che l'agitazione per Roma assuma aspetto Europeo. Indirizzate ai Governi e ai Popoli un Manifesto, che chieda loro d'adoperarsi perchè il principio del non intervento sia, non menzogna, ma realtà. Chiedete a Garibaldi di recarsi, con tutti i poteri necessarî, nel Mezzogiorno, commettendogli di spegnervi il brigantaggio, e di risuscitare l'entusiasmo popolare, rendendo alla frontiera del Mincio i sessanta mila soldati ch'oggi proteggono quelle provincie.
Fondate concordia, non di parole, ma di fatti; giovandovi di quanti uomini hanno patito e combattuto per l'Unità dell'Italia, incoraggiando nelle Associazioni la pubblica normale espressione della volontà popolare, chiamando voi stessi a battere più concitati il polso, il core, ogni arteria della Nazione.
E allora, intimate guerra all'Austria sul Veneto. Là sta la salute d'Italia, l'iniziativa d'Italia. Là sta la guerra—battesimo pel Paese e per voi, che non combatteste fin ora, se non a fianco e sotto gli ordini dello straniero.
Queste cose furono dette, ripetute pubblicamente, privatamente, a ogni mutamento di Ministero, da Garibaldi, da me, da quanti amano di vero e vivo amore l'Italia.
Minacciava una sola di quelle proposte la monarchia? Circondata dall'entusiasmo e dalla fiducia del Popolo, padrona per iniziativa propria del solo campo sul quale noi possiamo esser potenti, la monarchia assicurava, accettandole, la propria vita per mezzo secolo.
Il Governo sprezzò i leali consigli. Mantenne il Popolo nella condizione d'elemento sospetto, esiliandolo, dopo il plebiscito, dall'arena politica: volle una Italia senza Patto Nazionale Italiano: mendicò per Roma l'elemosina di concessioni, funeste e disonorevoli, dall'occupatore, ed ebbe rifiuto: non osò levare una voce di generosa protesta davanti all'Europa: negò Garibaldi alle unanimi domande del Mezzogiorno: versò sino all'ultima stilla il calice delle amarezze sui Volontarî e sugli Esuli di Venezia: avversò le manifestazioni popolari per Roma: diede ostracismo nella pubblica vita a quanti non giurano nell'inerzia e nell'alleanza imperiale: dichiarò non doversi avere Roma senza il consenso di Luigi Napoleone: Venezia senza il permesso dei Gabinetti d'Europa: negò Rivoluzione e Nazione; e—coll'esempio di quattordici eserciti levati in un solo anno dalla Francia repubblicana, coll'esempio dei 650 000 uomini levati in pochi mesi da venti milioni di repubblicani d'America—non seppe in quasi tre anni raccogliere se non 250 000 soldati; ed oggi, audace soltanto contro i patrioti italiani, aizza l'esercito contro il popolo, imprigiona gli uomini che liberarono il Mezzogiorno, perchè tentano liberare le terre Venete; perseguita le Associazioni, e ammaestra Garibaldi che suo posto è la solitudine di Caprera.
Spetta al Paese di compiere il Dovere Nazionale che il Governo diserta. E gli uomini del Partito d'azione non falliranno di certo al debito loro.
Voi avete, dicono, un Governo regolare; rispettatelo: non v'assumete un diritto d'azione che impianterebbe un dualismo funesto.
Noi non abbiamo Governo nostro in Roma e Venezia, ma oppressi e stranieri oppressori. I nostri non scendevano l'Alpi per sommovere Torino o Firenze: tentavano salirle per sommovere Trento e Venezia: tendevano a continuare l'emancipazione della Nazione, a continuarla a pro vostro: cercavano un'altra Marsala. Non impiantavano un dualismo: movevano a distruggere quello che pur troppo esiste sulla terra Italiana. Vittoriosi, essi v'avrebbero posto ai piedi il frutto della vittoria: disfatti, voi li avreste sconfessati e perseguitati.
Che se il rispetto al Governo regolare inchiude per voi l'obbligo di sacrificare il Dovere Nazionale agli errori o alle colpe di chi sta in alto, l'obbligo di rinnegare la solidarietà italiana, perchè chi sta in alto la nega e dimentica—l'obbligo di lasciare la libertà dei fratelli all'iniziativa di chi dichiara colla parola e coi fatti non potersi fare iniziatore—l'obbligo di troncare a mezzo la Rivoluzione unificatrice, perchè chi sta in alto si sente fiacco o codardo; se l'esistenza fra voi d'un Governo qualunque, buono o tristo, attivo o inerte, negazione o affermazione del fine Nazionale, importa per gl'Italiani obbedienza passiva—rifatevi Austriaci. L'Austriaco era anch'esso Governo: poteva da un dì all'altro—e molti diplomatici stranieri tentavano persuadervelo—mutare sistema. D'onde nasceva per gl'Italiani il diritto di ribellarsi? Dal Dovere Nazionale. Il Governo Austriaco, come il Governo Borbonico in Napoli, lo negava. Il Paese sorgeva ad affermarlo: il Governo Legale, in virtù di quella affermazione, era in esso.
Il Dovere Nazionale è superiore a ogni formula governativa; esso costituisce la norma, sulla quale è giudicata la legalità o l'illegalità dei Governi.
Una menzogna di Governo non è Governo. Governo è la Vita della Nazione, interpretata, riassunta, diretta.
La vita della Nazione è l'Unità. Il Paese l'ha definita coi Plebisciti. Esiste un solo uomo in Italia dal quale possa affermarsi che i paesi [231] del Centro e del Mezzogiorno s'aggiunsero al Piemonte per altro fine che quello dell'Unità Nazionale?
Conquisti il Governo risolutamente quell'Unità; noi saremo con esso, lasciando al tempo e all'apostolato pacifico, ch'è diritto nostro inviolabile, la soluzione delle altre questioni. Qualunque volta il Governo tradisca il fine del Paese, il Dovere della Nazione, rivive in ogni uomo il debito di compirlo. E faremo per quanto è in noi di compirlo. Lo compiremo con nostre forze o costringeremo il Governo a compirlo.
È impossibile che la parte eletta del Paese, gli elementi nei quali più freme lo spirito dell'azione, i giovani, gli studenti, i volontarî, i figli del Popolo, si rassegnino lungamente a far del santo grido di Roma e Venezia una meschina ironia, una parola di delusione mormorata periodicamente su due sepolcri. È impossibile che i prodi di Magenta, Solferino e Palestro, si rassegnino lungamente a far la parte di protettori della frontiera per conto dell'Austria.
È impossibile che la Nazione si rassegni lungamente a un Governo i cui atti pajono calcolati a creare—e lo scrivo con profondo dolore—nell'Italia nascente tutti i mali che contaminano le monarchie morenti; antagonismo tra i popolani e le classi medie: antagonismo tra l'esercito e il Paese: antagonismo tra i governanti e il Popolo governato.
30 maggio 1862.
Giuseppe Mazzini.
Esiste un malinteso fra gli uomini della Democrazia e i socialisti; e questo malinteso produsse la scissura che rese possibile la dittatura bonapartista, e tiene tuttora divisa, in Europa, la classe media dalle classi operaje. Questo malinteso consiste nell'aver confuso, sì gli uni che gli altri, i sistemi socialisti col pensiero sociale, col principio d'associazione.
Gli uni credettero che il Socialismo consistesse in certe teorie assolute, presentate da alcuni pensatori; e siccome quasi sempre queste teorie movevano dal punto di vista governativo, e minacciavano colla loro uniformità regolamentare di sopprimere ogni personalità umana, quelli uni condannavano il socialismo in nome della libertà.
Gli altri credettero che l'antagonismo della Democrazia verso i loro sistemi provenisse dalla negazione del loro principio fondamentale, e condannarono quindi la Democrazia, in nome dell'Associazione.
Questo malinteso esiste tuttora per gli uomini esagerati, che sempre si trovano in ogni partito; ma è però affatto mancante di base.
Havvi un terreno comune abbastanza vasto, perchè vi possiamo stare tutti uniti.
Per noi non esiste rivoluzione, che sia puramente politica. Ogni rivoluzione deve essere sociale, nel senso che sia suo scopo la realizzazione di un progresso decisivo nelle condizioni morali, intellettuali ed economiche della Società. E la necessità di questo triplice progresso, essendo più urgente per le classi operaje, ad esse anzitutto devono essere rivolti i beneficî della rivoluzione.
E neppure può esservi una rivoluzione puramente sociale. La questione politica, cioè a dire, l'organizzazione del potere, in un senso favorevole al progresso morale, intellettuale ed economico del popolo, e tale che renda impossibile l'antagonismo alla causa del progresso, è una condizione necessaria alla rivoluzione sociale.
È necessaria all'operajo la sua dignità di cittadino, ed una garanzia per la stabilità delle sue conquiste nella via della libertà.
La parola d'ordine dei nostri tempi è l'Associazione, che deve estendersi a tutti.
Il diritto ai frutti del lavoro è lo scopo dell'avvenire; e noi dobbiamo adoperarci a rendere vicina l'ora della sua realizzazione. La riunione del capitale e dell'attività produttrice nelle stesse mani sarà un vantaggio immenso, non solo per gli operaî ma per l'intera Società, poichè aumenterà la solidarietà, la produzione ed il consumo.
Le associazioni volontarie, moltiplicate indefinitamente, oltre al riunire un capitale inalienabile, aumenteranno progressivamente e faranno concorrere al lavoro, libero e collettivo, un numero di operaî ogni giorno maggiore.
Ciò è quanto io intendo esprimere colle due parole, egualmente sacre, che non cesso di ripetere: LIBERTÀ—ASSOCIAZIONE. Forse che ciò non basta a farci unire nel lavoro come fratelli? Un solo passo nella realizzazione di questi due principî non ci schiuderebbe egli un'ampia via per discutere tranquillamente le questioni secondarie?
Ecco quanto, se lo potessi, ripeterei ogni giorno ai miei fratelli di Spagna. Ecco quanto dovete ripeter loro in mio nome: Libertà per tutti; progresso per tutti; associazione di tutti. Può egli esistere un vero democratico, che non s'inchini, nel fondo del suo cuore, davanti a questi tre termini eterni del problema della Umanità? La logica inflessibile non esige forse il lavoro associato di tutti, per conquistare, svolgere e consolidare il progresso e l'associazione?
Per quanto si voglia impedirlo, noi corriamo ad una crisi europea, simile a quella del 1848: sventurata la Spagna e sventurati noi tutti, se le severe lezioni che allora e negli anni seguenti abbiamo ricevute, non ci hanno insegnato ad unire le nostre forze per la prossima lotta! I vostri padri vinsero i Mori, non già dividendosi e questionando tra loro sull'importanza del Cristianesimo e dell'Indipendenza nazionale; li vinsero, perseverando uniti in una lotta eroica di 800 anni, e così ottennero finalmente il loro posto di popolo libero in Europa!
Riunitevi tutti adunque, o credenti nella Libertà e nell'Associazione, contro i Mori moderni, contro i nemici di queste due grandi idee, e sono certo che conquisterete il vostro posto fra gli Stati Uniti, liberi ed associati, d'Europa.
1862.Giuseppe Mazzini.
.... Odo che soldati Italiani s'incamminano alla frontiera. Nel Bergamasco, sui gioghi del Tonale e dello Stelvio, ai passi che guidano al nostro Trentino, occupato anch'oggi dagli Austriaci, scintillano addensate bajonette di bersaglieri, dei bersaglieri che pugnarono e vinsero—al grido di Viva Italia!—le battaglie destinate ad affrancare la Patria dall'Alpi all'Adriatico. Perchè questi moti? Hanno quei che imperano sull'Italia sorgente sentito finalmente il debito loro? Ha la guerra eroica che si combatte contro la prima potenza militare d'Europa da giovani, in campo senza base, senza unità di disegno, senz'ordini e quasi senz'armi, insegnato agli uomini della Monarchia ciò che può chi vuole davvero, e additato ad essi, schiusa senza gravi pericoli di disfatta, la via dell'onore e della salute d'Italia? Hanno quelli uomini che ci susurrano da tre anni all'orecchio: aspettate sei mesi e vedrete—scossi dal grido di quei combattenti, taluni dei quali versarono sangue per la nostra libertà a fianco dei nostri bersaglieri, e che suscitano oggi un entusiasmo promettitore in tutte le frazioni del Partito Nazionale d'Italia—indovinato che il momento è sorto; che, afferrandolo spontanei, possono forse ancora, riaffratellare le moltitudini a una instituzione cadente, che la guerra all'Austria, la guerra pei nostri fratelli Veneti, la guerra per le nostre Alpi, è oggi facile, opportuna, invocata, e collocherebbe d'un balzo l'Italia a capo della guerra delle Nazionalità conculcate? Dite, oh ditemi, saremo redenti? Cancelleremo con battaglie nostre tre anni di meschine incertezze e di concessioni alla Dea Paura? Saluteranno finalmente i poveri Veneti, nei bersaglieri italiani, i loro liberatori?
Il moto Polacco è moto iniziatore di quello d'una intera famiglia Europea; i vostri uomini di governo lo sanno. Il moto Polacco è, non solamente nazionale, ma Slavo. Un'anima sola, un solo pensiero, inspirano il Governo segreto dell'Insurrezione Polacca e la vasta Associazione Terra e Libertà Russa, Pietroburgo e Varsavia. Costringendo i Polacchi all'azione quattro mesi prima del tempo prefisso, scegliendo alla battaglia, ch'ei presentiva inevitabile, il tempo e l'ora, lo Tsar ha potuto scindere la manifestazione del disegno comune, non arrestare il lavoro che si stende rapidamente. E quel lavoro non si limita alla Polonia insorta, alla Russia cospiratrice: abbraccia i Polacchi della Posnania e della Galizia, i Cecki di Boemia e Moravia, gli Slavi Meridionali della Bosnia, dell'Erzegovina, del Montenegro, della Voyvodina serbo-austriaca, della Serbia. E la Serbia, ordinata, armata, presta all'azione, [235] avrebbe seguaci al suo moto quattro milioni di Bulgari. E il moto degli Slavi del Sud trascinerebbe in Tessalia e in Epiro gli Elleni, in Bessarabia e nel Banato i Rumani. E l'Ungheria, Magiara e Slava, non aspetta a levarsi se non un assalto all'Austria, da dove che venga, e l'insurrezione Serba alla propria frontiera. Sono due Imperi, l'Austriaco e il Turco, minati per ogni dove, ribelli in ogni elemento e pendenti da una iniziativa subita, ardita. Or questa iniziativa spetta all'Italia; all'Italia forte di ventidue milioni d'abitanti e verso la quale, per virtù dei fati che sono in essa, si rivolgono le speranze di tutti i Popoli oppressi. Poche navi nell'Adriatico, centomila uomini che movano di fianco al quadrilatero su Venezia, trentamila volontarî cacciati all'Alpi, Garibaldi in lettiga, come il cieco Ziska nelle battaglie degli Ussiti, tra essi, bastano a sommovere tutta quella moltitudine d'elementi, bastano a trasformare la carta d'Europa. La Polonia e l'Italia tengono i due poli d'un asse che si prolunga dal Baltico fino all'Adriatico. E questa nostra Patria, alla quale per essere grande fra tutte non manca se non coscienza delle proprie forze, può, volendo, strozzare in sul nascere, com'Ercole in culla, il serpente del dispotismo europeo. L'Austria lo sa: i vostri uomini di governo lo sanno. L'Austria ha fatto prova di tolleranza verso i Polacchi in Cracovia a impedire, a indugiare almeno il moto in Galizia, e a illuder gli insorti tanto che non escisse da essi una chiamata all'Ungheria e agli Slavi meridionali. I vostri uomini di governo hanno cospirato, a modo loro, e cospirano col principe Michele e coi capi del Montenegro; sanno da essi le condizioni alle quali accenno. Perchè non coglierebbero l'opportunità cacciata loro innanzi dal Partito d'Azione in Polonia? Perchè i battaglioni di fanteria e di bersaglieri ch'essi mandano affrettatamente in Valtellina, a Vestone, a Sarnico, altrove, non avrebbero incarico di piombare sopra un nemico minacciato all'interno su tutta la linea, e d'inalzare la bandiera dell'insurrezione Veneta, e di lavare a un tratto l'onta di Villafranca?
No; l'onta di Villafranca non sarà lavata, la Polonia non avrà gli ajuti del Governo Italiano, i Veneti rimarranno per non so quanto condannati a pascersi d'illusioni. I vostri giornali governativi rivelano senza vestigio di rossore il segreto di quelle mosse. L'armi italiane scintillano ai gioghi dell'Alpi per proteggerle contro noi, contro tentativi possibili, a pro dei poveri Veneti, degli uomini che liberarono il Mezzogiorno d'Italia. I vostri bersaglieri sono collocati di fronte agli Austriaci per difenderli da ogni assalto italiano, come i zuavi di Francia difendono in Roma il Papa. Dormite tranquilli, Croati: i soldati d'Italia guardano i passi per voi. I sogni di gloria degli uomini che li mandano non vanno al di là d'un secondo Aspromonte.
Ma perchè? Perchè, tremanti d'ogni straniero, taciti davanti al perenne insulto dell'occupazione di Roma, incapaci d'una deliberazione ardita a pro di Venezia e servi anche oggi, quando un Popolo di ventidue milioni è con essi, della timida, lenta, obliqua politica piemontese, sorgono audaci e rapidi nei propositi contro ogni supposta mossa di cittadini, e trovano coraggio d'azione ad ogni sospettare di spia che accenni a generose aspirazioni negli Italiani? Perchè questi uomini, che a fronte di due anni di guerra ordinata, alimentata da Roma Papale, non osano dire agli invasori francesi: sgombrate la base d'operazione del brigantaggio, diventano a un tratto energici per proteggere l'usurpata frontiera dell'Austria? Perchè, se sospettano [236] che i nostri fratelli dell'Alpi pensino a insorgere, si frappongono in armi fra essi e noi, quasi a dir loro: rimarrete soli e senza il menomo ajuto dai vostri? Vogliono Roma, o preferiscono che duri indefinitamente un mortale pericolo all'Unità? Vogliono Venezia libera o serva? Che importa ad essi s'altri si avventuri a tentare l'impresa che è da tre anni debito loro? Qual rischio corrono? Non son certi di cogliere per ora i frutti dell'altrui vittoria? Non hanno presta, nel caso dell'altrui disfatta, la discolpa—e ne userebbero largamente—delle persecuzioni sui vinti? Perchè, se intendono a fare l'Italia, non salutano in core, non si tengono presti a seguire, dove il successo la coroni, l'iniziativa di popolo, che sola può cominciare la lotta emancipatrice? Che mai sperano, se non dall'azione? Non vedono essi che nell'azione è oggi l'unico argomento potente a convalidare il Diritto? Non vedono l'Europa intera agitarsi a pro della Causa rappresentata dalle bande Polacche? Perchè antepongono il silenzio e l'inerzia alla generosa protesta in nome della quale soltanto essi potrebbero dire all'Europa: o riconoscimento del Diritto Italiano o rivoluzione? Sono essi inetti o tradiscono? Vogliono l'Unità d'Italia, che sola l'insurrezione può darci, o accarezzano tuttavia nel segreto il pensiero di confederazione, che il loro Cavour accettava da Luigi Napoleone in Plombières?
Sono inetti e tradiscono. Tradiscono, non dirò del tradimento volgare che inganna deliberatamente—perch'io non so le intenzioni e quindi non le accuso—ma del tradimento perenne, ineluttabile, egualmente funesto, di chi si assume un ufficio senza possedere uno solo degli elementi necessarî a compirlo. Vorrebbero Roma, vorrebbero Venezia—a chi non sorriderebbe l'acquisto della doppia gemma?—ma le vorrebbero dall'Austria, dalla Francia, dalla Diplomazia, da concessioni codarde e fatali al futuro, da mercati colpevoli verso altri Popoli, da interventi disonorevoli, da ogni Potenza, da ogni raggiro, fuorchè dall'Italia e dalla franca, leale, diretta, morale Politica, che dice: son mie; Dio le dava all'Italia: il Popolo Italiano compie i voleri di Dio. Hanno sognato d'avere Venezia allettando l'Austria a impossessarsi delle terre Moldo-Valacche, coi capi delle quali ricambiavano intanto proteste d'amicizia fraterna: sognano d'averla ajutando un giorno l'Austria nella conquista dell'egemonia Germanica, la Francia in quella delle provincie Renane; e, quanto a Roma, l'aspettano—Cavour lo dichiarava, applaudito alla Camera—dalla conversione del Papa e di tutto l'orbe cattolico. Erano pronti, per avere tre anni addietro Venezia, ad abbandonare ai disegni napoleonici il Centro; abbandonerebbero oggi, per aver Roma, il Mezzogiorno d'Italia. Fiacchi sino al ridicolo, mandarono elucubrazioni rettoriche al Papa, che l'alleato non consegnò. Condannati dall'assenza d'ogni concetto a rinascenti contraddizioni, proclamarono la vuota formula libera Chiesa in libero Stato con uno Statuto il cui primo articolo dichiara il Cattolicesimo religione officiale della Nazione: bandirono solennemente il Diritto del Paese a Roma, poi annunziarono che s'asterrebbero da ogni pratica per tradurre il diritto in fatto, e si tacquero. Da due anni il Papa ha praticamente dichiarato guerra al Regno d'Italia; da due anni escono da Roma, fatta convegno aperto di cospiratori protetti dalle bajonette francesi, bande armate di masnadieri a infestare le provincie meridionali; ed essi si limitano a una impotente difesa. Leggono nel preventivo Francese del 1864 mantenuta la cifra che rappresenta le spese dell'occupazione, e non trovano in sè coraggio che basti, non foss'altro, a protestare pubblicamente davanti all'Europa e chiederle l'onesta applicazione [237] del non-intervento; e—forti del favore dell'Inghilterra e dei Popoli quanti sono—non hanno core, dacchè guerra non osano, di dire almeno a tutti, Papa, Francia, Governi e Popoli: «Lo straniero occupa ad arbitrio la nostra Metropoli e una zona di frontiera della nostra terra; l'Europa è inerte; il Diritto è muto per noi; l'azione legale ci è contesa: noi lascieremo aperta la via ai rimedî anormali. Collocati fra l'usurpazione altrui e il diritto dei nostri, lascieremo ai nostri libertà d'azione contro l'ingiustizia dalla quale nessuno protegge l'Italia. Se alle invasioni delle masnade che vengono da Roma i cittadini risponderanno invadendo essi pure, non ci opporremo; se, a sottrarsi al continuo pericolo d'una irruzione dell'Austria, tenteranno sommovere il Veneto e conquistarsi la frontiera dell'Alpi, non ci opporremo; e nol potremmo senza pericolo. Date giustizia all'Italia, o rassegnatevi ad avervi un foco perenne di rivoluzione.» Quel linguaggio, appoggiato da quattrocento mila bajonette, ci darebbe Venezia e Roma in tre mesi.
Ma per tenere linguaggio sì fatto bisogna avere una fede, ed essi non hanno che opinioni mutabili, tiepide, incerte; bisogna credere nelle forze che sono in Italia, ed essi si credono deboli e s'affaccendano a dirlo agli stessi loro soldati: bisogna credere nella potenza del Diritto, ed essi non credono che nel raggiro, negli artificî della diplomazia; bisogna avere la scienza, l'intuizione che crea l'avvenire, ed essi non giurano se non nella scienza delle epoche morte; bisogna intendersi colle Nazioni vogliose di sorgere, ed essi cospiravano con Ottone e cospirano con Michele; bisogna osare, ed hanno paura; bisogna amare ed essere amati, ed essi non sono amati e non amano; bisogna fare una cosa sola del Governo e del Popolo, ed essi hanno creato e mantengono un dualismo sistematico fra l'uno e l'altro; bisogna desiderare, evocare, occorrendo, una iniziativa dalle viscere del Paese e giovarsene come di punto d'appoggio alla leva, ed essi, incapaci d'azione propria, aborrono, per timore del futuro, da ogni iniziativa popolare, aborrono dalla possibilità che il Popolo acquisti coscienza della propria forza, aborrono dal passato che grida loro: Marsala e Napoli; aborrono dall'avvenire che direbbe loro: Trento o Treviso: bisogna fare, promovere, inspirare, dirigere, progredire, ed essi non sanno altro segreto che di negare e reprimere. Hanno raggiunto l'ideale della repressione, quando, invece di velarsi il capo e gemere come per lutto nazionale, mandavano, otto mesi addietro, un brevetto di promozione all'uomo che versava, sulla via di Roma, il sangue di Garibaldi; raggiungevano, pochi dì sono, l'ideale della negazione, quando, per timore dell'Austria, negavano nome e qualità d'Italiani ai romani e ai veneti. Perchè meravigliare se mandano fanteria e bersaglieri contro ipotesi di tentativi emancipatori—se dicono ai Croati: dormite tranquilli; i soldati d'Italia guardano i passi per voi?
Negare e reprimere: è la formula dei Governi che cadono. I Popoli vogliono vivere, vivere della vita divina ch'è in essi e si chiama Progresso: i Popoli che sorgono a vita nuova, segnatamente. Una nazionalità è un fine, un ufficio, una missione, un Dovere collettivo accennato da Dio: bisogna raggiungere quel fine, compiere quel Dovere: ogni sosta sulla via segnata costa disonore, poi lagrime e sangue. Il Popolo ha l'istinto di questo Vero. Dove si sente guidato innanzi, dove trova sviluppo incessante, espansione di vita sulla via per la quale è chiamato, dove scopre negli atti una virtù iniziatrice, il Popolo saluta una Instituzione, un Governo. Si chiami Dittatura, Monarchia, Impero o Papato, il Popolo segue e protegge: seguiva i Papi [238] quand'essi promovevano, nei primi secoli, l'emancipazione degli schiavi, insegnavano che la Morale era suprema su tutti, padroni e sudditi, e opponevano la parola religiosa Dovere all'arbitrio, alle usurpazioni dei re: seguiva Richelieu e Luigi XI, quando la loro tirannide combatteva il feudalismo e mozzava nel capo la gerarchia dei baroni di Francia: seguiva Napoleone, quand'ei, nella prima metà della sua carriera, rappresentava colle bajonette una idea d'Eguaglianza, e lasciava dietro ogni mossa un Codice, imperfetto ma contenente il riconoscimento dei diritti civili negati dalla aristocrazia, da principi e papi. Dove cessa l'iniziativa del Progresso da compiersi—dove l'Instituzione non rappresenta più il moto, la vita—dove il Governo assume per proprio simbolo il segno d'una quantità negativa, per propria teorica una teorica di repressione, per proprio ufficio quello di conservare e impedire—il Popolo intende che una sintesi è consumata, che la vitalità d'un principio è esaurita, che una forma è irreparabilmente logora, e si volge altrove.
Allora comincia uno spettacolo che la Storia ci addita dieci volte negli ultimi settanta anni. Da un lato, diffidenza e speranza; dall'altro diffidenza e paura. Il Popolo pende, per un tempo, incerto, perchè dubbioso dell'avvenire, ignaro di chi lo guidi, avverso timidamente all'autorità che lo regge, sospettoso della futura. Quei che siedono al governo interpretano quella incertezza come noncuranza, impotenza o mancanza di coraggio, e s'illudono a persistere nel loro funesto sistema: i corrotti nell'anima fiutano il guasto e s'affrettano a cogliere i frutti dell'albero che domani forse rovinerà: i tiepidi, che son pur sempre i più numerosi, si ravvolgono, come chi presente tempesta, nel manto dell'io, s'astengono da ogni atto virile, da ogni affermazione di vita, e prolungano le illusioni e la crisi alla quale, dichiarandosi, imporrebbero fine rapidamente: i buoni, ma fiacchi, disperano: i buoni arditi, credenti e non curanti di conseguenze per sè, inalzano, incerti anch'essi da principio e arrendevoli ad ogni transazione onorevole, la bandiera dell'avvenire. Contro questa minoranza perturbatrice d'una illusione fatta abitudine, il Governo s'irrita, e tende a sopprimerla quasi eresia violatrice del dogma. Incomincia una guerra, sorda dapprima, di spionaggio, d'insidie, d'accuse calunniatrici, di tentativi di corruzione che trionfano su taluni, falliscono sugli altri, e li rendono più sempre convinti che l'Instituzione è guasta e condannata a perire; poi, d'aperta crescente persecuzione: persecuzione contro le facoltà più inviolabili, più indivisibili dall'umana natura, l'associazione, l'espressione libera del pensiero. La resistenza infierisce quella minoranza d'apostoli che, sgominata sopra un terreno, si riordina sopra un altro, muta forme d'opposizione, mina segretamente il punto che essa non può assalire di fronte, stanca con piccoli ma continui assalti il nemico e lo trascina più in là ch'esso, per tattica, non vorrebbe: di conservatore il Governo diventa finalmente retrogrado. Il Popolo intanto studia tacito i segni e le vicende di quella guerra, comincia a leggere sulla fronte di quei perseguitati il proprio segreto, afferra nel martirio affrontato nobilmente da pochi un pegno delle schiette sincere intenzioni di quei che piantano la bandiera sulla loro tomba, e accenna ad affratellarsi. Di fronte al primo pericolo i sostenitori dell'Instituzione minacciata si dividono in due campi; nell'uno, gli eclettici del Partito, quanti in fondo cominciano a dubitar del trionfo, tentano conciliazioni impossibili fra termini che s'escludono, si studiano di sopprimere l'ostilità d'alcuni fra gli elementi progressivi, aprendo loro un angusto varco al sacrario dell'Autorità, offrono transazioni impotenti a fondar la concordia, [239] dànno promesse di meglio che non possono mantenere: nell'altro, si ristringono i cupidi d'autorità senza limiti, gl'intolleranti per natura o educazione di corte, gli uomini che hanno il coraggio inferocito della paura, i pochi ingegni logici che deducono imperturbabili tutte le conseguenze del loro principio. Dal primo campo esce presto o tardi, inevitabile conseguenza del difetto di forte convincimento, uno spettacolo d'immoralità che sparge lo scredito sulla bandiera; dal secondo esce una perenne minaccia di crisi violenta, che accende le passioni dei combattenti e comincia a far sentire ai tiepidi i pericoli d'una condizione precaria e anormale. Il malcontento s'allarga alla base. Il Governo, pauroso e irritato dai nuovi pericoli, smarrisce anche quella apparenza di calma e di coscienza di forza che accennava ancora, nella mente del Popolo, a una Autorità esistente in esso, e da quel giorno è perduto; da quel giorno comincia per esso uno stadio fatale, sul quale anche una vittoria è rovina. Se il Potere s'afforza d'armi e accarezza il militarismo, diffonde sdegni e sospetti funesti negli ordini cittadineschi; se cerca appoggio in uno o altro Governo straniero, offende l'orgoglio nazionale e si confessa separato dalla vita della Nazione; se infierisce nella resistenza, è aborrito come tirannico; se accenna a concedere, sprezzato siccome debole. Un giorno, gli uomini del campo logico si avventurano a un tentativo imprudente, a una tarda illegale manifestazione di forza; gli uomini del campo eclettico si sperdono, come sempre usano, per vie diverse; le frazioni nelle quali le vanità individuali aveano diviso, nella sfera intellettuale, il campo d'azione, si raccolgono tutte di fronte all'assalto nemico. L'Europa ascolta un rumore come di cosa che rovina. È una Instituzione caduta, trapassata alla vita storica. Un'altra sorge in sua vece. Il Popolo ripiglia, emancipato, la propria via verso il fine.
È questa una pagina di storia ripetuta sovente negli ultimi due terzi di secolo in Francia, in Germania, nel Belgio, in Grecia, nella Spagna.
A quale linea della pagina siamo oggi in Italia?
Aprile, 1863.
Giuseppe Mazzini.
La guerra vigliacca e sleale, combattuta dagli uomini di parte monarchica contro gli uomini di fede repubblicana, ci conforterebbe sulla via, se guardassimo soltanto a noi e al trionfo della nostra bandiera. Un Partito che spende metà della sua polemica a dichiararmi morto per sempre e senz'ombra d'influenza in Italia, e l'altra a provare ch'io minaccio di porre l'Italia a soqquadro, e chiamare il Governo a vegliare e reprimere energicamente:—che, a farci avversi i soldati italiani, ci accusa di chiamarli sgherri, e manda a un tempo circolari segrete per impedire disegni nostri di seduzione sull'esercito;—che consacra periodicamente dieci colonne delle sue gazzette a dimostrare che noi aggiriamo Garibaldi e ne inspiriamo le mosse, e dieci a dichiarare che Garibaldi non è con noi, che noi ne usurpiamo il nome, ch'ei non divide alcuna delle nostre aspirazioni—si condanna deliberatamente ad essere ridicolo. Un Partito—partito governativo, e quindi potente d'influenza, di pubblicità, di prestigio su quanti adorano il fatto—che non trova contro noi individui, pochi, dicono, e di certo con pochi mezzi d'apostolato e d'azione, altr'arme che la calunnia;—che ripete a ogni tanto, contro ogni evidenza storica, che i repubblicani vogliono sangue e rapina;—che non discute, ma insulta;—che non cita mai ciò che si scrive da noi, ma insiste a confutare fatti e detti, provati non nostri;—che ammette falsarî nelle sue file; conia in Torino una circolare, v'appone il mio nome, la manda, perchè s'inserisca, a una gazzetta austriaca, tradisce stolidamente, per gioja insana della propria colpa, il segreto, annunziandola prima dell'inserzione, e la commenta oltraggiosamente, quasi fosse documento storico, il giorno dopo—è partito indegno del nome, e condannato a perire. Una Nazione non può lungamente acquetarsi ad essere guidata da gente immorale.
Ma davanti a questo avvicendarsi di basse calunnie anonime e di villanie; davanti a questa danza d'iloti briachi, che s'intitolano moderati, è impossibile non sentirsi, anche sprezzando, rattristato nell'anima. Quella stampa è pur sempre stampa italiana: italiani son gli uomini che la insozzano di contumelie, italiani gl'insultati da essi. Quelle tristi gazzette viaggiano all'estero, rappresentano agli occhî di molti la politica, le tendenze del Regno, somministrano una base ai giudizî stranieri su noi. «Che!»—dicono quegli uomini, i quali studiano attenti, come oracoli del futuro, i nostri detti, i menomi fatti del nostro sorgere—«volete essere rispettati, e non sapete rispettarvi fra voi? Vi dichiarate capaci di libertà, e la violate, fin dai primi passi, coll'odio? Volete giustizia, e vi presentate per meritarla colla veste dei calunniatori? Invocate progresso, e l'espressione d'ogni opinione diversa dalle vostre v'irrita sino al furore? Taluni fra i perseguitati [241] d'intolleranza da voi ci son noti da lungo: possiamo dividere o non dividere tutte le loro opinioni; ma li sappiamo onesti, profondamente convinti e devoti—senza fini individuali—a una idea. Confutateli, ma non li oltraggiate. L'inviolabilità del pensiero è madre della Libertà; sua primogenita è la tolleranza reciproca.» E cominciano a guardare, con un senso di suprema sfiducia, all'agitarsi di un Popolo che chiede Unità di Nazione, e tinge a danno dei proprî figli, la penna di fiele, e calunnia le intenzioni, e cancella—o lo tenta—la sacra indipendenza delle diverse credenze.
E tra noi? Ah! qual cumulo di rimorsi dovrebbe opprimere un giorno—se i coniatori di circolari potessero esserne capaci mai—l'anima di questi gazzettieri monarchici che diffondono l'immoralità della menzogna e dell'odio; versano nel core dei giovani, in un Popolo nascente alla Libertà, la diffidenza, lo scredito sul principale stromento d'educazione, la Stampa; e irritano colla persecuzione e coll'intolleranza le passioni vendicatrici e di ribellione contro l'ingiustizia, dove non bisognerebbe che seminar l'amore e la riverenza alla libera discussione! Pochi tra noi vi sanno inetti, più che settarî avveduti e calcolatori; d'anima volgare e meschinamente invida, più che profondamente malvagia; irritabili e collerici per natura di fiacchi; adoratori ciechi, per difetto di fede, d'ogni fatto che appaja potente, e servi ad ogni potere confortato di bajonette e d'erario. Sanno che schiamazzaste, prima del 1859, maledizioni, poi adulazioni schifose al Bonaparte; inni, finchè vinse, a Garibaldi, come anch'oggi al re-mito, a Cavour, a Ricasoli, a Rattazzi, a Minghetti, a chi no? Schiamazzereste a noi se vincessimo; però essi vi guardano sorridendo, e vi vedrebbero, stringendosi nelle spalle, mutar linguaggio e mendicare interpretazioni di progresso all'antico, il dì che fosse mutata l'instituzione. Ma gli altri? I non educati dalle lunghe delusioni e dallo studio severo delle umane cose a tollerare e compiangere? A giudizî ingiusti non opporranno giudizî ingiusti, alle calunnie ribellione d'accuse appassionate e violenti? V'odono a insinuare che uomini, la cui vita intera fu culto quasi esclusivo dell'Unità Nazionale, sono oggi affratellati con fautori di moti autonomisti locali o retrogradi: perchè non crederanno voi, lodatori dello sgoverno che minaccia strapparci le provincie meridionali, affiliati consapevoli al disegno di smembramento, persistente nel Bonaparte? Vi vedono imprigionare uomini che patirono per la patria, come Rosario Bagnasco, lunghi anni d'esilio e, a cercar d'infamarli, confonderli coi camorristi: perchè non infameranno voi come pagnottanti e venditori della vostra coscienza agli agî o alla vanità del potere? Così voi alimentate, imprudenti, una guerra ch'oggi è d'oltraggi, domani può essere di sangue; voi falsate il senso morale della Nazione; convertite in fiaccola seminatrice d'incendî la luce che dovrebbe escire, serena e fecondatrice, dall'esame dei diversi concetti; insegnate ai giovani l'intolleranza, e radicate nei cuori la funesta massima, che tutti i mezzi son buoni a spegnere gli avversarî! Dio tolga che un giorno non abbiate a pentirvene!
Or noi non v'abbiamo dato l'esempio. La nostra polemica contro voi può essere acerba, sdegnata, sospettosa talora; non fu mai deliberatamente calunniatrice. Noi non coniammo circolari, citiamo le vostre; citiamo documenti firmati da ministri vostri, citiamo lettere di Roverbella, ragguagli dati da agenti officiali stranieri, che vi provano presti ad abbandonare chi si dà a voi, presti a transigere sull'onore italiano collo straniero, presti a combattere, per ossequio a un despota potente o avversione innata all'azione popolare, chi ha fatto, per l'illusione di concordia, sacrificio d'ogni idea più cara, ma non può [242] sacrificarvi l'Unità della Patria. Noi vi rimproveriamo gli impotenti metodi di terrore spiegati nel Mezzodì dell'Italia; condanniamo le fucilazioni lasciate ad arbitrio di militari, cacciati a un tratto in paesi ove ignorano uomini e cose e devono commettere inevitabili errori, non le inventiamo: voi avventate, insistenti, contro noi l'accusa di sanguinarî, quando sapete che, da un unico vecchio e severamente biasimato esempio francese infuori, voi non potete citare un solo atto di feroce arbitrio, commesso da quei che reggono le repubbliche Svizzere, o ressero le brevi repubbliche di Roma e Venezia. Voi accusate sistematicamente le nostre intenzioni; noi registriamo fatti continui di guerra all'Associazione e alla Stampa, stati d'assedio, imprigionamenti di deputati, rifiuto di cittadinanza agl'italiani romani e veneti, paci disonorevoli, alleanza servile con chi occupa a forza quella che voi proclamaste a parole vostra Metropoli; Nizza, Savoja, Aspromonte. Stringete in una tutte le nostre polemiche: esse sommano a dirvi, che voi non adorate un principio, ma servite a una precaria opportunità: che, per documenti firmati da voi, voi non foste nè siete gli uomini dell'Unità Nazionale, ma sapete talora giovarvi, fin dove non si frappone il divieto straniero, dell'opera di quei che son tali: che non avete nè avrete mai virtù iniziatrice: che non siete pianta indigena in Italia, ma innesto: che non amate il Popolo e ne temete, e siete quindi e sarete trascinati fatalmente ad avversarne la Libertà: che non avete nè tradizione, nè vita vera nell'oggi. Confutateci, se potete; ci avrete vinti: perchè noi, dissimili dai vostri sostenitori, non cerchiamo altro terreno che questo.
Io conosco un Paese—ed è il solo—dove la Monarchia ha tuttora radici inviscerate colle tendenze, colle idee, colla vita storica della Nazione. È l'Inghilterra. Là, la Costituzione non escì improvvisata, strappata dalla paura, in un angolo del paese; crebbe spontanea per opera lenta di secoli, colla potenza collettiva, col naturale sviluppo degli elementi innestati dalla conquista sugli elementi anteriori. La Monarchia compì una missione, frapponendosi tra la tendenza a smembrare, innata nel feudalismo, e le tendenze unificatrici: diede il suo nome all'incremento progressivo delle forze nazionali. Una aristocrazia, forte di possedimenti, d'una tradizione d'uomini illustri, d'affetto orgoglioso all'indipendenza e alla grandezza del paese e—nel passato—d'una costante iniziativa in tutte le instituzioni di beneficenza, sta, con unità di concetto e di disciplina, tra la Monarchia e l'elemento democratico, moderatrice. Questa aristocrazia, indispensabile in ogni ordinamento di monarchia costituzionale, cede oggi terreno all'elemento finanziario industriale e sparirà un giorno, e con essa la Monarchia; ma or vive, rigogliosa tuttavia e venerata. La Monarchia è in Inghilterra immedesimata ancora colla vita del Regno. E perchè lo è e sa d'esserlo, non teme, non sospetta, non s'irrita, non vive, come in Italia, di repressione. Là, le instituzioni che dichiarano libero l'uomo non sono lettera morta: hanno mallevadori Governo e Popolo. La facoltà d'associazione è, politicamente, illimitata: il diritto delle pubbliche adunanze, protetto: l'espressione del pensiero, santa, inviolabile. Uno scrittore pubblicò per due anni una Rivista mensile, intitolata: Repubblica, senza che potesse sognarsi un sequestro. Altri perorano contro l'instituzione monarchica, contro l'ordinamento attuale della proprietà, contro il cristianesimo, con un uomo di polizia alla porta, incaricato di tutelare, occorrendo, a pro dell'oratore, l'ordine nella sala.
Un ministro, Lord Palmerston, propone, per compiacere a Luigi Napoleone, alcune modificazioni al diritto di libertà illimitata, che gli stranieri, gli esuli politici, possiedono in Inghilterra: 50 000 uomini [243] si raccolgono a convegno pubblico in Hyde-Park, per protestare contro le intenzioni ministeriali: il ministro ritira il dì dopo la proposta, e torna alla vita privata. Un altro ministro, Lord John Russell, rimproverato di trascurare le riforme elettorali credute necessarie, rimprovera alla sua volta di freddezza il Paese: perchè non agitate? ei dice; perchè non provocate adunanze pubbliche, che esprimano la volontà del Paese? La Monarchia non ha vigore d'iniziativa; ma segue, desidera, invoca l'iniziativa popolare. E per questo vive rispettata dal Paese, e sicura: ciò che da noi si chiama rivoluzione è ignoto in Inghilterra; ignoti sono i consorzî segreti, ignoti i tumulti di piazza: la piazza, quando è unanime, ha dominio legale. Gli avversarî politici discutono pacifici e rispettosi; nessuno sogna d'accusare il più accanito nemico del Governo d'essere alleato segretamente con una o altra cospirazione straniera, o con fazioni avverse all'Unità del Paese: nessuno conia circolari a suo danno.—Ma voi? Voi, immemori dell'anno 1830 e del 1848, immemori delle dieci rivoluzioni che punirono, nell'ultimo terzo di secolo, i governi ostili alle libertà popolari, ricopiate servilmente la politica dei dottrinarî francesi: tenete per nemico vostro ogni uomo che invochi sviluppo progressivo di libertà, e lo trattate siccome tale: avversate ogni manifestazione d'opinione pubblica: aborrite e perseguitate, quando non v'obbedisce ciecamente, il pensiero: ricusate voto e armi al Popolo per paura—ignota in Inghilterra—ch'esso ne usi contro di voi: tremate dei volontarî, che vi diedero mezza Italia, mentre l'Inghilterra addita con orgoglio centocinquantamila volontarî armati dalla monarchia; vi circondate di forze artificiali: restringete nel cerchio angusto d'un partito l'amministrazione del Paese: avete sospetti quanti fanno prova d'ingegno e d'animo indipendente: trascinate l'incerta esistenza nella sfera fattizia degli impiegati da voi, tra i responsi, calcolati a non turbarvi i sonni, dei vostri prefetti, e respingendo e cercando sopprimere ogni espressione della volontà del Paese, ogni avvertimento che vi venga da esso. Voi non dirigete, non governate: vi difendete. Accampate in Italia.
A voi, come a noi—più che a noi, dacchè all'espressione del nostro pensiero son posti limiti da non potersi facilmente varcare—sono aperte le vie di pubblicità. Perchè, senza oltraggi e calunnie, dimenticando gl'individui e non guardando che alle idee, non ne usate a confutarci, a convincerci? I sequestri, gl'impedimenti alle riunioni, le diffamazioni da trivio, possono darvi vittorie d'un giorno, vittorie di Pirro, ma confermano nella mente degli assennati ciò ch'io vi dico a ogni tanto: che siete e vi sentite deboli. Provateci che la monarchia compie da lungo in Italia una missione storica unificatrice: provateci che fu per secoli iniziatrice di progresso al Paese: provateci che i grandi periodi della nostra vita e della nostra potenza non furono di Popolo, ma ebbero moto e nome da Principi: provateci che la Monarchia non s'insinuò in Italia sotto il patronato straniero, ma vi crebbe spontanea per grandi servigi resi, per entusiasmo di popolo riconoscente; provateci che non aprì mai gli sbocchi dell'Alpi agli invasori stranieri, che non militò alternativamente per Francia, Austria o Spagna sui campi d'Italia; provateci che la Lega Lombarda, la difesa di Firenze, l'insurrezione di Masaniello, i Vespri di Sicilia, la cacciata degli Austriaci da Genova, le giornate di Milano, di Palermo, di Bologna, di Brescia, le nobili resistenze di Venezia e Roma, furono capitanate da Principi; provateci che la cessione di Milano e la pace di Villafranca non portano la firma d'un re. Avrete rivendicato all'instituzione il potente sostegno d'una tradizione; avrete rovesciato la metà dei nostri argomenti e distrutto la metà della nostra [244] forza. Ponete il vostro nome e date virtù di decreto all'utopia, che Giorgio Pallavicino ripete con gloriosa insistenza al deserto da ormai tre anni: armate il Paese: date 400 000 soldati all'esercito e 50 000 volontarî a Garibaldi; affidate, porgendo loro ajuti d'armi, danaro e autorità, a commissioni locali composte d'uomini noti per energia e devozione all'Unità Nazionale, la distruzione dei masnadieri meridionali: date prova di fiducia al Popolo chiamandolo al voto: provocate colle adunanze pubbliche, una espressione generale di volontà nel Paese: riconfermate il Diritto Italiano, dichiarando cittadini eguali e liberi quanti nascono e nacquero tra l'Alpi e il Mare: ripartite ai Comuni, perchè li vendano o li affidino ad associazioni industriali e agricole, i beni del clero; protestate prima solennemente, a Popoli e Governi d'Europa, contro l'occupazione francese in Roma; poi intimate; se per altra via non riuscite, lo sgombro: chiamate il Veneto a insorgere, e appoggiatene l'insurrezione colle armi. Avrete confutato l'altra metà dei nostri argomenti, e provato che è in voi un elemento di vera vita, una potenza d'iniziativa, capace di guidar la Nazione.
Fino a quel punto, tollerate ch'io vi dica: Voi non avete in Italia tradizione, nè virtù di vita nell'oggi—e vendicatevi come potete, coniando circolari, o tentando sotterrare coi sequestri la mia parola.
Venezia e Roma: voi non potete sotterrare le due città; non potete cancellarne il nome dal core degl'Italiani. Quelle due parole vi uccideranno. Di mese in mese, d'anno in anno, d'indugio in indugio, di promessa in promessa, voi finirete per convincere i Veneti e i Romani illusi, gl'Italiani tutti titubanti anch'oggi, tra la diffidenza crescente e una incerta servile speranza, che non è in voi risolvere il doppio problema. Quel giorno, cadrete.
Noi siamo convinti, e però siete caduti per noi. Checchè scriviate nei vostri diarî, checchè scriva un uomo[146], a cui la canizie e un passato onorevole dovrebbero vietare d'affermare alla leggera sul conto d'altrui, non è vero ch'io voglia la Repubblica a qualunque prezzo. Io mi sento troppo certo dell'avvenire, per affrettarlo a prezzo dell'Unità Nazionale e contro il volere riconosciuto del mio Paese. Per tre anni, finchè l'immensa maggioranza del Paese si dichiarava soddisfatta e fidava in voi, finchè era possibile illudersi a credere che intendereste la missione, la forza e la via di salute che la Nazione v'offriva; finchè l'esperimento potea dirsi non assolutamente compiuto, io tacqui religiosamente d'ogni questione che non fosse di azione per l'Unità della Patria: noi tutti, Partito d'Azione, ponemmo, qualunque fosse la bandiera, in mano vostra mezzi, uomini, voto, imprese, concessioni di tempo, consigli, quanto era in noi. Sacrificavamo, non a voi, ma alla pronta liberazione di Roma e Venezia. Oggi—dopo Aspromonte, dopo il rifiuto della cittadinanza Italiana ai Romani e ai Veneti, dopo il voto che sancisce in ogni ministro il diritto di sopprimere ad arbitrio la libera espressione del pensiero del Popolo, e poi che tutti i vostri uomini di stato, esauriti a cerchio, hanno rappresentato miseramente, l'un dopo l'altro, lo stesso sistema: impotenza per la questione nazionale: repressione per ciò che concerne la Libertà—s'illuda chi può. A me parrebbe d'essere, tacendo il vero a' miei concittadini, stolto a un tempo e colpevole.
La Nazione non avrà salute, Unità, Libertà, se non dal suo Popolo.
Giuseppe Mazzini.
Mi chiedi perchè taccio? Taccio perchè ho il dolore nell'anima e il rossore sulla fronte per la mia Patria. Taccio perchè, tra la codarda servilità degli uni e il difetto di spirito pratico e virtù di sacrificio negli altri, temo oggimai che la parola non giovi. Taccio perchè ogni qual volta mi sento spronato a prender la penna mi torna alla mente il grido del povero Savonarola, quando ei, predicando a un popolo inerte, indifferente, dileggiatore, prorompeva in parole rotte da singhiozzi: «Signore, stendi, stendi dunque la tua mano, la tua potenza! Io non posso più, non so più che mi dire, non mi resta più altro che piangere.»
Ricordi tu, vecchio e fedele amico, le visioni dell'Italia che splendevano sull'anime nostre quando tentavamo, trenta anni addietro, la spedizione di Savoja, e nei lunghi anni d'esilio che durammo insieme? L'Italia sorgeva—poco importava il quando—in nome dell'eterno Diritto, santificata dal martirio de' suoi migliori, a impadronirsi, continuando il passato, dell'iniziativa che la Francia aveva dal 1814 perduta; ad assumere una missione di Verità e di Giustizia in mezzo all'Europa incadaverita per opera del Papato e della Monarchia: sorgeva, non riconoscendo padroni da Dio e dal Popolo infuori, fidando in sè e nei Popoli che avrebbero—come fecero sempre a chi seppe chiamarli—risposto al suo grido, con un doppio programma di Nazionalità e di Libertà, suscitando a nuova rivelazione la vita fremente nel profondo delle genti aggiogate sotto l'Austria, smembrate fra esse e l'impero Turco, e dicendo ad esse: per noi e per voi. Governavano il periodo della sua insurrezione pochi uomini acclamati dal Popolo, mallevadori ad esso, fidenti in esso, senza vincoli di passato avverso al sorgere collettivo, senza vincoli di presente a corti, trattati o diplomazia, credenti, logici, arditi. E, compita la lotta, un'Assemblea eletta da tutti, interrogava la vita, i bisogni, le aspirazioni del nuovo Popolo e dettava da Roma, nuovo anch'esso, discusso da tutti, eguali per tutti, il Patto della Nazione; promulgava al mondo la morte del Papato e la libertà di coscienza; annunziava, in una dichiarazione di Principî, la fede degl'Italiani nel secolo XIX; armonizzava con una immensa libertà di Comune l'Unità morale e la politica Nazionale; schiudeva con un semplice equo sistema di tributi, cogli impulsi dati alla produzione, con ajuti alle Associazioni operaje, la via del meglio alla classe più numerosa e più povera; aboliva, proclamando libertà di commercio, dogane, monopolî, proibizioni; aboliva, ordinando il paese intero all'armi, la coscrizione; [246] aboliva, riordinando la legislazione penale sul concetto del miglioramento individuale e della difesa collettiva, il palco e il carnefice; inaugurava gratuito, universale, uniforme e desunto dall'idea religiosa Progresso, un sistema di Educazione Nazionale.
Quel sogno è per ora sfumato. Era necessario, perch'esso potesse trapassare nel dominio della realtà, che il nostro risorgere escisse dall'iniziativa popolare: l'iniziativa fu regia e straniera. E da quel fatto, colpa di tutti noi, le conseguenze dovevano sgorgare irrimediabili per un tempo, fatali. Per legge storica, derivazione della legge morale, ogni colpa deve espiarsi. La Francia espia da tredici anni, colla negazione di gran parte delle sue conquiste politiche anteriori, l'assassinio di Roma: noi espiamo la rassegnazione servile colla quale aspettammo a emanciparci da un padrone straniero che un altro scendesse, come nel medio evo, a combatterlo. La vita nuova della Nazione, segnata d'un marchio d'impotenza, mancò di sviluppo e di interprete: la monarchia non poteva dare che la propria, misera, locale, legata al passato, e lo fece: s'aggiogò ad una ad una le provincie italiane come se fossero territorio inerte, e diede a tutte come Patto un patto che non rappresenta se non la vita del passato e di una sola frazione d'Italia. Nel conflitto fra le due vite è il segreto di tutte le nostre piaghe, di tutti i nostri dolori: nè cesserà se non quando l'iniziativa trapasserà, come nelle nostre visioni, nel Popolo; se non quando il compimento di un grande Dovere, raggiunto con forze e battaglie proprie, avrà dato alla Nazione coscienza del proprio diritto e vigore per esercitarlo. Quel giorno avremo la libertà. Gli uomini, nostri un tempo, che oggi si affannano a conciliar le due vite, tentano un problema insolubile, che li guiderà nuovamente a noi o li travolgerà nell'apostasia. Gli uomini, nostri anche oggi ma traviati, che s'illudono a credere che la Nazione possa conquistare la vita nuova, prima di averla meritata col sagrificio, prima d'aver cancellato quell'onta dell'intervento straniero, pretendono essi pure l'impossibile. Non basta predicare al Paese il diritto: bisogna dargli volontà e potenza di conseguirlo; migliorarlo, sollevarlo dall'elemento di machiavellismo, di materialismo in cui vive; moralizzarlo coll'azione a pro di quella parte di paese che ha diritto essa pure a contribuire al patto d'Associazione e di Libertà, alla manifestazione della Vita d'Italia, e che, occupata dallo straniero, nol può.
Nè io dunque gemo o mi taccio perchè vedo tradite dagli inetti, che usurpano il nome di governanti, le nostre speranze di libertà e di interno progresso; accetto rassegnato il periodo d'espiazione. Ed esortandovi a proseguire, come fate, nel vostro apostolato educatore, perchè gl'Italiani intendano il significato e il valore delle libere instituzioni promesse e non date, v'esorto pure a non irritarvi degli indugi limitati che si frappongono. Ma v'è tal cosa che può perpetuar quegl'indugi e uccidere una Nazione in sul nascere: il disonore del pensare e sentir da codardi. Se una Nazione tollera ch'altri le pianti sulla fronte quel marchio, è perduta. Or l'Italia versa in questo pericolo. E per questo io gemo, per questo io mi sento talora spronato a disperato silenzio.
Io guardo a Venezia. Là, sta l'onore della Nazione, ed è confitto sulla croce, ludibrio ai Popoli e insulto perenne a noi, dalla potenza straniera che più d'ogni altra ha meritato, per tirannide, persecuzioni e morte dei nostri, l'aborrimento d'Italia. Cento mila soldati vegliano appiedi di quella croce: altri cento mila sono presti a raggiungerli.
Al di qua della frontiera artificiale che la pace, comandata da un [247] altro straniero alla monarchia, ci diede, io vedo un esercito regolare sommante nelle dichiarazioni governative a 380 000 uomini: una leva d'altri 50 000 che il Governo afferma poter chiamare immediatamente: una cifra di 130 000 guardie nazionali mobilizzabili a termini di una legge del 1861; e 30 000 volontarî che il Governo non può, dopo l'impresa meridionale, dubitare di vedere raccolti, al primo grido di guerra, intorno a Garibaldi. Sono 590 000 armati dei quali può volendo, disporre l'Italia. Dietro a quelli stanno da ventun milioni d'altri italiani, unanimi a desiderare l'emancipazione del Veneto e presti agli ajuti quando piaccia al Governo di rimovere, col suo cenno, dagli animi ogni dubbiezza sull'opportunità dell'impresa. Davanti ad essi si stende, campo di guerra, un terreno nostro, sul quale due milioni e mezzo di oppressi s'agitano irrequieti e più o meno audacemente ci presterebbero ajuto, non foss'altro—e per chi dubita di tutti e di tutto—d'informazioni, di mezzi e di quel fermento che inceppa la libertà, tanto essenziale, di moti al nemico. Tra il Veneto, il Trentino e l'Impero sta una serie di posizioni inaccessibili alla cavalleria e all'artiglieria e che, occupate in parte dall'esercito, in parte dall'insurrezione—facile a suscitarsi quando il Governo accenni volerlo—troncano le comunicazioni fra il nemico e la sua base di operazione. Al di là, popolazioni Serbe, Magiare, Romane, Ceke, malcontente e ricordevoli del 1848. E, scendendo dall'Alpi di fronte a Venezia lungo la costa orientale dell'Adriatico, una zona di Popoli italiani e slavi, amici naturali i primi, vogliosi gli altri di sbocchi indipendenti ai loro prodotti sul mare, avversi all'Austria e presti a secondare l'azione di chi offra loro patti sinceri e utili di alleanza. Diresti che Dio stesso, ordinando gli elementi a quel modo, additi all'Italia dovere e vittoria ad un tempo.
La monarchia sequestra, rivelando all'Austria il pericolo, l'armi invocate dai Veneti. La stampa governativa insulta ai Veneti dichiarando non esistere sul loro terreno elementi d'insurrezione.
E l'esercito? I 380 000 soldati d'Italia? Leggono i loro ufficiali che si torturano or nuovamente col bastone i fratelli dai quali li separa un fiume? Hanno culto di patria e senso d'onore, o intendono confermare per sempre coll'indifferente contegno la vergognosa pace di Villafranca? Sanno che l'Europa, guardando ai fatti passati o al linguaggio presente dei ministri d'Italia, ripete colla Francia ch'essi sono incapaci di combattere e vincere soli? Non freme in essi l'orgoglio del nome italiano? Non giurarono all'Unità? Non ebbero dai loro capi un programma che diceva: dall'Alpi all'Adriatico? Non hanno molti fra essi madri, padri, fratelli, sorelle sul Veneto? Non ricordano, i nati lombardi, le sacre promesse del 1848 a Venezia? E gli esciti dall'esercito dei volontarî, i compagni d'armi di Garibaldi, i difensori di Venezia e di Roma, son essi fatti macchine senz'anima e vita? Ha la nuova assisa soffocato ogni antico ricordo nel loro cuore? Non è l'assisa d'Italia? Non è simbolo d'una forza che mancava negli anni addietro, e che crea in chi la porta doveri proporzionati? Perchè non esce da quell'esercito, nei modi che non toccano la ribellione ma fanno palese il desiderio, una voce unanime che dica al re loro: Sire! non vogliate che una macchia contamini l'assisa Italiana! Guidateci sul Veneto! Lasciateci provare all'Europa che sappiamo combattere e vincere senza stranieri a fianco!
Noi abbiamo lo straniero in casa: abbiamo incontrastabilmente le forze per vincerlo. E il Paese tace. Il Paese si lagna dei mali, delle incertezze che accompagnano inseparabili ogni condizione provvisoria di cose: deplora il masnadierume: sa che l'assenza di frontiere secure [248] e il soggiorno dello straniero tra noi confortano quanti nemici abbiamo alle trame: mormora delle somme ingenti consecrate a un esercito inutile; e nondimeno, tace. Il Paese sa che non è in Europa una sola Nazione alla quale il soggiorno dello straniero armato per entro i proprî confini non ponesse un grido d'insurrezione sul labbro: sa che le Nazioni d'Europa stanno guardando ai primi passi dell'Italia sulla nuova via, per decidere se devono cercare in essa l'alleanza del forte o la soggezione del debole; e nondimeno tace e non osa, non dirò insorgere, ma parlare unanime colla stampa, colle petizioni, colle adunanze pubbliche, il proprio volere.
Da forse quarantamila Veneti or sono esuli tra noi: hanno la terra ove nacquero profanata dal bastone austriaco: ciascun d'essi dovrebb'essere centro d'apostolato incessante a pro di Venezia, centro d'ajuti raccolti a pro dell'impresa emancipatrice; e, da pochi infuori, tacciono, obliano. I rappresentanti d'Italia, gli uomini del Mezzogiorno segnatamente, giurarono all'Unità, come condizione dell'assenso dato dalle loro provincie alla monarchia; e tacciono: udirono il ministro a proferire le cifre d'armati accennate più sopra, e non una rimostranza, non una mozione, non una voce sorse dal Parlamento Italiano a dire: siam forti: compiamo dunque il Dovere: al Veneto, all'Alpi! Gli agitatori, gli arditi della Sinistra consacrano l'audacia a speculare su qualche rielezione, tacciono di Venezia. Gli uomini che rubarono a noi, vivente Manin, il se no, no, e ci dissero: dateci tempo perchè la monarchia raccolga 200 000 soldati, e vedrete, oggi, davanti ai 380 000, tacciono e sostituiscono la formola: «aspettiamo pazienti il quando ignoto indefinito di chi governa» alla formola altera delle Cortes Aragonesi. Dimenticano che il servile silenzio lascia crescere una taccia di viltà sulla loro monarchia, e che un Popolo perdona ogni cosa a un Potere fuorchè d'essere codardo.
Per questo io gemo temente dell'avvenire e chiedendo a me stesso: siam noi fatti per la libertà? Eccoti uomini che si dicono convinti di ciò ch'io non credo possibile, l'unione della monarchia collo sviluppo delle libere istituzioni, coll'Unità nazionale, coll'indipendenza, coll'onore d'Italia. Erranti o no, essi sono vincolati dal loro programma a tentare di convertire in fatto quella possibilità, a esaurire tutte le vie che potrebbero praticamente condurvi. Crederesti che s'affannassero intorno alla monarchia a indicarle i desiderî del Paese, a esprimerle liberamente i bisogni ai quali essa deve dare soddisfacimento, a spronarla, nelle sue colpevoli e pericolose esitazioni, sulle vie dell'onore, ad affratellarla colle aspirazioni dei più, a farla rispettata e temuta in Europa? Non uno di questi uomini che, interrogato, non ti dica: non avremo pace, sicurezza o capacità di progresso senza Roma e Venezia; non avremo Roma se non dopo Venezia; e tacciono tutti. Discutono intrepidi con Minghetti, Rattazzi o Ricasoli, giornalisti e lontani dal potere; tacciono con essi se diventati ministri; l'Autorità è sacra ai loro occhî: gli uomini che l'hanno possono, dunque sanno: bisogna lasciarli fare. Perchè non dicono loro: badate; noi ci assumemmo di provare al Paese che la monarchia si concilierebbe coi diritti e colle necessità dell'Italia; ma noi possiamo senza l'opera vostra?—No; tacciono tremanti, insolenti soltanto contro noi perchè non partecipi del potere: passeggiano le vie della libertà colla catena del servaggio al piede e sul collo; educano la giovine Nazione al progresso, insegnandole che il segreto del progresso sta nell'arbitrio di cinque o sei uomini scelti, non da essa, ma dal monarca: sopprimono, col tacere sistematico, l'elemento vitale d'ogni Governo, che è la trasmessione continua del pensiero dei governati a quei che governano: [249] spingono, senza avvedersene, il Paese sulla via che dice: Rivoluzione. Tal sia di loro. Ma gli uomini di parte nostra? Gli uomini che gemono com'io gemo pel disonore della Nazione? Gli uomini che, assumendo il nome di Partito d'Azione, dichiarano la trasformazione di Popolo in Nazione non esser compita e doversi, se non si vuol retrocedere, sollecitamente compire? Gli uni s'affannano a costituire comitati elettorali, inefficaci dove prima non si muti la legge in virtù della quale si compiono le elezioni: gli altri, smembrati a tre centri di direzione e a due punti objettivi, consumano forze che concentrate darebbero risultanze potenti e rapide. Taluni spendono l'obolo che dovrebbe esser sacro alla liberazione del suolo Italiano inalzando monumenti a Martiri i quali, se mai potessero favellar dalla fossa, respingerebbero quelle testimonianze e direbbero: emancipate prima dallo straniero la Patria per la quale morimmo. Centinaja, migliaja d'uomini giovani versano danaro in celebrazioni d'anniversarî gloriosi o pellegrinaggi al soggiorno di Garibaldi, dimentichi che, se sta bene celebrare le antiche glorie, meglio è l'imitarle; e che Garibaldi li amerebbe più assai se serbassero quel danaro all'impresa patria, scrivendogli: verremo a vedervi quando sarem fatti degni di voi. Che! Non avremmo noi mezzi sufficienti al bisogno, non trascineremmo noi Paese e Governo, non vinceremmo, forti di numero come siamo, la prova, se commossi davvero e tormentati dal pensiero che ventidue milioni d'uomini non possono senza infamia tollerare lo straniero in casa, e ricordevoli che nel massimo concentramento di forze sotto un'unica direzione e sopra un dato punto sta il segreto della vittoria, consacrassimo tutti, per mezz'anno, attività e sacrifizio al porro unum, Venezia—se per mezz'anno ciascuno s'assumesse di rappresentare nella propria sfera un grado d'apostolato, una cifra di mezzi—se il pensiero di Venezia soffocasse per un tempo ogni altro pensiero—se ogni scrittore ripetesse in cima ai suoi scritti per l'Austria la parola di Catone sopra Cartagine—se ogni adunanza a qualunque scopo raccolta s'iniziasse e si conchiudesse col grido di guerra all'Austria—se ogni madre patriota mormorasse Venezia a' suoi figli, ogni fanciulla buona alle amiche, ogni volontario ai militi che gli furono fratelli sul campo, e tutti al Governo?
Un Popolo può ciò che vuole. Ma un Popolo che, forte di mezzi, sopporta d'anno in anno, immobile, muto, che lo straniero gli vieti Unità, imprigioni, tormenti, bastoni i suoi fratelli, non merita libertà, e non l'avrà.
Ho detto forte e avrei potuto dire onnipotente di mezzi. Ricordi tu Roma? Ricordi quella pagina storica del 1849, che tanti fra i nostri, tanti fra i nati in Roma oggi dimenticano, ma che nessuno potrà cancellare? Là—coll'Italia incodardita dalla catastrofe di Milano e dalla rotta di Novara, con quattro Governi avversi, colla congiura pretesca a fronte, abbandonati da tutti e ridotti alle forze d'una sola città, con un erario vuotato dal Papa fuggiasco, con armi scarse e mediocri—noi semplici cittadini, senza prestigio di passato, senza credito fuorchè quello che la nostra condotta ci dava, governammo amati, impedimmo senza terrore ogni tentativo avverso, trovammo danaro bastante alla guerra e a nudrire i nostri quattordici mila militi, volgemmo in fuga l'esercito del re di Napoli, combattemmo lungamente l'Austriaco in Ancona, tenemmo fronte per due mesi ai soldati francesi che sommarono, prima del finir dell'assedio, a trentamila e più. Fu l'amore e la fiducia che ponemmo nel Popolo che ci fruttarono amore e fiducia da esso? Fu il nostro non ispendere [250] un obolo solo che non fosse direttamente utile alla difesa? Fu il sistema di Governo fondato, non sul reprimere, ma sul dirigere? Fu il fascino esercitato dalla bandiera? Lo diranno gl'Italiani della generazione che sorge. Io so che se, invece d'una città, l'Italia d'oggi, l'Italia dei ventidue milioni, avesse le sue forze concentrate in mano d'uomini che avessero quella fede nel Popolo, quel sistema economico, quel metodo di Governo, quella ferma, irrevocabile volontà di seguire quel programma, avvenga che può, e quella bandiera, le forze, nonchè dell'Austria, di tutta Europa non basterebbero a vietarle Venezia e Roma. Il contrasto fra quei giorni e le vergognose condizioni presenti m'addolora l'anima, m'avvelena i giorni cadenti e spiega a te, amico, il silenzio per lungo tempo serbato.
Ama il tuo
Giuseppe Mazzini.
Il 17 novembre, Voi, parlando alla Camera sulla Convenzione tra Luigi Bonaparte e il Governo d'Italia, dichiaravate che Vittorio Emanuele non può rovesciare il trono del Papa—che la Convenzione monarchica rinunzia a Roma—ch'essa è quindi violazione aperta dei Plebisciti, dai quali si poneva, condizione dell'annettersi alla Monarchia di Savoja, l'Unità della Patria. Voi compivate in quel giorno un dovere di cittadino.
Ma il 18, irritato dall'accusa d'illogico—scagliatavi machiavellicamente contro da chi violava, votando per la clausola ch'è suggello alla Convenzione, ben altro che logica—Voi dichiaraste che la vostra bandiera era: Italia Una e Vittorio Emanuele; e v'aggiungeste che chi solleva un'altra bandiera non vuole l'Unità dell'Italia.
Se a Voi giova, sul cader della vita, rinunziare a una bandiera per acclamare ad un'altra, io non mi assumerò, per molte ragioni, di riconvertirvi. Ma proferendo la seconda affermazione, Voi non solamente contradicevate, cosa in oggi frequente, al vostro passato—non solamente offendevate la maestà della vostra sorgente Nazione—ma dimenticavate, ingiusto e ingrato ad un tempo, che tra gli uomini morti e viventi, ai quali un giorno foste amico e collega di cospirazione, i migliori furono e sono unitarî e repubblicani. Bastino, tra gli estinti, Carlo Pisacane e Rosalino Pilo. Ma, tra i vivi, io la sollevo questa bandiera diversa. E tra voi, quanti siete novellamente convertiti e diplomatizzanti fra la coscienza e il linguaggio, chi osi scrivere che io non adoro l'Unità della Patria, e non l'ho predicata altamente fin da trentadue anni addietro, quando stranieri e italiani la deridevano siccome utopia, e voi tutti balbettavate di costituzioni regie e federazioni?
Io la sollevo; e mi giovo della dolorosa opportunità che m'offriste per ridirlo a tutti; non solamente perchè i principî l'additano unica malleveria di vero e libero progresso—perchè intorno ad essa si avvolgono i più splendidi ricordi del nostro passato, quando la vostra non ha tradizioni di gloria in Italia, nè origine indipendente, nè coscienza di moralità educatrice, nè intelletto della missione italiana—perchè è sola logica deduzione delle credenze e delle negazioni dei tempi, mentre la vostra vive d'una transazione artificiale tra elementi inconciliabili, sempre provata menzognera in Europa, fuorchè nel paese singolare ov'io scrivo, dagli ultimi sessant'anni—ma perchè cerco, proscritto tuttavia e dannato nel capo dalla monarchia vostra, l'Unità della Patria; perchè, mercè l'ingenito antagonismo dei [252] vostri padroni ad ogni sviluppo di vita popolare, e le vostre tattiche secondatrici, vedo rapidamente disfarsi quella unità di propositi e di speranze che spinse per ogni dove, fuorchè in Lombardia, ventidue milioni d'Italiani a congiungersi in uno; perchè, esaurita ogni via, tentata ogni concessione possibile, soffocata lungamente nel silenzio la fede dell'anima mia—tanto che nessuno potesse rimproverarmi di sostituire l'arbitrio d'una ragione individuale fallibile all'opinione dei più—ho raggiunto, costretto dai fatti, l'intimo convincimento che noi non avremo mai, dall'azione spontanea della Monarchia, Venezia, Roma e Unità. E mi stanno davanti, mentre io scrivo, i patti della Convenzione che segna l'abbandono di Roma, e le parole del vostro ministro che abbandonano Venezia:
L'Italia avrà Venezia quando l'Austria, persuasa non da noi—noi non siamo—ma dall'autore dei patti di Villafranca, ritirerà volontariamente i soldati ch'oggi v'accampano:
L'Italia avrà Roma quando il Papa, convinto ch'ei regna tiranno, e fatto amico della libertà, inviterà egli stesso i nostri ad entrarvi:
Così unifica la Monarchia.
Di fronte a queste codarde e assurde dichiarazioni, proferite da chi s'appoggia su 380 000 soldati, può averne in breve ora mezzo milione, e rappresenta legalmente 22 milioni d'uomini che anelano farsi Nazione, Voi avete evocato un momento dell'antico entusiasmo, per gridare con volto agitato, con accento commosso, un saluto di gladiatore morente alla Monarchia, e un anatema a quei tra i vostri fratelli che hanno serbata intatta quella che fu vostra fede. Io non meraviglio della vostra potenza di volontà; bensì vi compiango perchè abbiate creduto doverla spiegare per una causa nella quale, se interrogate l'intimo core, voi non credete.
Conosco troppo il vostro passato e vi so d'ingegno troppo arguto, per ammettere un solo istante che voi siate oggi monarchico di fede, monarchico teoricamente, monarchico come lo erano settant'anni addietro gli uomini della Vandea: s'io vi sapessi tale, pur combattendovi per dovere, mi dorrei d'esservi costretto. Ogni fede suscita in me, in questi tempi d'immorale e stolido scetticismo, rispetto. Ma gli uomini della Vandea credevano nel diritto divino: Voi no:—giuravano sui loro preti e ponevano la croce protettrice nella regia bandiera: Voi fate guerra ai preti e vorreste vedere in due campi separati, indipendenti l'uno dall'altro, la croce e la monarchia;—sorgevano a combattere e morire pei discendenti di san Luigi, senza badare a probabilità di successo, senza calcolo delle forze nemiche, come si muore per una idea: Voi non morreste, nè altri in Italia, per la sola Casa di Savoja, per la mistica trinità dell'elemento aristocratico, del democratico e del monarchico. Voi siete, come oggi barbaramente dicono, opportunista. Voi vedete oggi la monarchia forte, noi deboli: un esercito, che Voi credete monarchico, e ch'io credo, come tutti gli eserciti, semplicemente governativo; e un'Italia officiale, forte d'una vasta rete d'impiegati, devoti per amore di lucro, ed una moltitudine di seguaci ciechi, muti, servili, tra per abitudine d'obbedienza passiva, tra per paura, se mai dicessero di non credere che altri farà, d'essere chiamati a fare. Unitario sincero, ma educato a tendenze politiche ch'io potrei chiamare guicciardinesche, Voi porgete omaggio alla Forza o ad un sembiante di Forza. Voi trovate che la Monarchia potrebbe agevolmente, volendo, fare l'Italia; e l'accettate, siccome mezzo all'intento. Se domani ci vedeste forti, sareste nuovamente con noi.
Pur tuttavia l'opportunismo accenna inevitabilmente a limiti di tempo [253] e di condizioni transitorie, che un principio non cura. L'opportunismo genera un metodo proprio, diverso da quello che guida chi ha una fede. E questo metodo logico dovrebbe insegnarvi linguaggio più temperato e meno assoluto. La Monarchia potrebbe, non v'ha dubbio, volendo, fare l'Italia. Ma se la Monarchia non volesse? Se, antivedendo nella guerra all'Austria una serie di insurrezioni nazionali, come quelle del 1848, e conseguenze probabilmente fatali all'interesse dinastico, s'arretrasse deliberatamente dall'impresa Veneta? Se, impaurita di quel potente nome di Roma, e presentendo a ogni modo che, sciolta la questione Nazionale, gli Italiani verserebbero tutta la piena della giovine vita sulla questione di Libertà, scegliesse di tenersi lontana dal Campidoglio repubblicano e dalle mura segnate dai ricordi del 1849? Se, intendendo che non possono tentarsi le due imprese, senza suscitare l'entusiasmo e gli ajuti del Popolo a guerra che gli darebbe coscienza di sè e delle proprie forze, paventasse le esigenze inevitabili dell'avvenire e non vedesse rimedio al pericolo, fuorchè nell'afforzarsi unicamente dell'alleanza col dispotismo straniero? E se Luigi Napoleone, cupido di predominio sul Mediterraneo e su noi, e aborrente quindi dalla nostra Unità, preparasse, di concerto colla Monarchia—prezzo della protezione invocata—la triplice divisione d'Italia, architettata da lui già prima del 1859? Io non intendo di discutere con Voi la verità di queste ipotesi; dico che nessun italiano ha, dopo i fatti degli ultimi tre anni, diritto di affermarle impossibili e trascurarle: Voi, repubblicano un tempo, men ch'altri. E dico che la loro possibilità avrebbe dovuto bastarvi per adottare, anche non disertando il nuovo campo opportunista accettato, altra tattica che non la seguita, per non gittare anatemi al rimedio che potrebbe diventare necessario, e per non cacciare a' piedi del trono l'assurda immorale promessa di rimanergli fedele quand'anche. Ed è per dolore d'antico affetto, memore di ciò che faceste pel Paese, ch'io parlo. S'io non guardassi che al trionfo della mia fede, m'appagherei nel ricordar sorridendo, che i Monarchici del quand'anche furono in tutti i tempi artefici di rovina alla monarchia.
Parte vostra—e, parlando a Voi, parlo ai miei amici ed ex amici della Sinistra—era quella di piantarvi, poichè così volevate, nella Camera a guisa di scolte vigili e diffidenti; di piegare, poi che lo credevate opportuno, la bandiera ch'ebbe i vostri giuramenti, ma tenendovi su la mano, in atto di chi è deliberato a nuovamente spiegarla s'altri non attiene le sue promesse; di giovarvi delle leggi esistenti a sviluppo progressivo di quel tanto di diritto ch'esse affermano e che i governanti tradiscono, ma senza teorizzare sovr'esse, accettandole come modelli di perfezione; di buttare in viso ai ministri diversi ogni violazione del loro Statuto, ma senza mai venerarlo Arca di Libertà e affermare racchiuso in esso il germe di ogni progresso futuro, quando il suo primo articolo inaugura, religione dei sudditi, l'infallibile autorità di chi maledice al Progresso; di sollevare di tempo in tempo, sugli occhî dei gaudenti del Governo e della sua maggioranza, la santa bandiera che porta scritti con sangue di martiri i nomi di Venezia e di Roma; di guardare più al Paese bisognoso e capace di educazione, che non al recinto d'una Camera, dove l'educazione è impossibile; di protestare colla parola e minacciar col silenzio; di serbarvi compatti come un sol uomo; di parlar pochi, rare volte e solenni: poi d'afferrare uniti una delle molte opportunità offertevi dall'aperta violazione della legge fondamentale e dell'onore della Nazione, per dire ai vostri concittadini: Esaurimmo, e senza riescire, ogni tentativo per giovarvi coll'armi legali: e ritrarvi, come [254] Trasea, da un Senato irreparabilmente servile e corrotto. Così governandovi, voi non vi facevate di certo possibili a chi oggi governa, ma educavate il Paese, gli additavate dove cercare un giorno gli uomini suoi e salvavate la dignità dell'anima vostra.
Seguiste altra via. Vi atteggiaste a convertiti adoratori della Monarchia, prima che la Monarchia avesse compito il debito suo, e come se alla Monarchia importassero alcuni adoratori di più. Miraste con frequenti dichiarazioni a rassicurarla sul conto vostro, quando unica via, se pur una n'esiste, di trascinarla a bene è il mostrarle pendente la spada di Damocle. Non pagaste il debito vostro a Roma con una solenne rimostranza collettiva, ch'io vi proponeva, che prometteste, poi non osaste: non il debito vostro a Venezia quando, raggiunta la cifra di 380 000 soldati, viva tuttavia l'insurrezione polacca, vivo il conflitto Dano-Germanico, bisognava proporre apertamente al Gabinetto e al Paese la guerra. Non escì da voi collettivamente un solo atto d'energia nazionale. Ma sprecaste, smembraste la vostra forza e la vostra importanza, cinguettando individui e inutilmente su tutte minuzie, movendo interpellanze e dichiarandovi soddisfatti di spiegazioni che nulla spiegavano, o di promesse che sapevate non doversi attenere. Taluni fra voi cercarono, rosi da vanità di pigmei, di isolarsi da tutti, ciarlando sofismi balzani, cozzanti, francesi. Taluni si ritrassero con piglio nobilmente sdegnoso da un recinto che dissero prostituito, poi vi rientrarono senza che cosa alcuna vi fosse mutata. Erraste quasi tentone fra gli equivoci e il Vero, tra le formole artificiali d'un costituzionalismo bastardo e gli eterni principî d'una Rivoluzione Nazionale fermata a mezzo e che vuol compimento; finchè, dopo leggi eccezionali, stati d'assedio, imprigionamenti di deputati, scioglimenti arbitrarî d'associazioni, divieti frequenti d'adunanze pubbliche, persecuzioni sistematiche e preventive della stampa, violazioni giornaliere della libertà individuale—dopo un rifiuto di leggi comuni ai Veneti e ai Romani—dopo Aspromonte—caldo ancora il sangue dei cittadini trucidati in Torino—trovaste core, voi, Mordini, di votare l'abbandono di Roma; il conte Ricciardi d'esclamare comicamente: Io sono repubblicano, ma amo la monarchia: Voi di provare che la Convenzione rompe il Plebiscito e condanna l'Italia a rimanersi smembrata e acefala, e nondimeno conchiudere: La Monarchia ci unisce, la Repubblica ci divide. Così passano le glorie della Sinistra: i pochissimi che seppero rimanersi puri, mutano seggio o si allontanano dal cadavere.
Se non che l'origine prima dei traviamenti risale più in su, e doveva generare fatalmente le conseguenze che vennero dopo.
Il vizio della situazione dell'oggi ha origine—e l'Italia dovrebbe ora avvedersene—dall'annessione, dal cieco entusiasmo degli uni e dalla funesta debolezza degli altri, che falsarono, fin dal cominciamento del nostro moto, la posizione del problema italiano. E voi tutti, Dio vi perdoni, v'aveste parte.
Statuita dallo straniero e accettata dalla Monarchia Sarda la pace di Villafranca, l'iniziativa popolare protestò nobilmente nel Centro, e poco dopo nel Mezzogiorno, contro i disegni federalisti del Bonaparte; e decretò che l'Italia sarebbe. Allora due vie vi stavano innanzi. La prima guidava a fondar la Nazione; la seconda all'ampliamento della Monarchia Sarda, finchè tutto quanto il Paese si confondesse successivamente, annettendosi ad essa.
Annunziare come fine supremo e sorgente perenne di sovranità la Nazione—sommergere tutti, nomi antecedenti e fini locali, nel grande nome d'Italia—dichiarare la Vita Nuova che, preparata, fecondata [255] d'antico, assumeva di recente sostanza e corpo—chiamare ogni terra posta fra le Alpi e il Mare a connettersi, ad affratellarsi coll'altra, in una Patria comune di liberi e di eguali—far escire da una Costituente la formola di quella nuova vita, la legge del nuovo Patto, il Patto della Nazione—poi, dacchè i tempi volgevano a Monarchia, scrivere nell'ultimo articolo del Patto, che l'Italia si sceglieva un re, e quel re aveva nome Vittorio Emanuele.
O porre attività di vita, sovranità, diritto nel solo Piemonte; annettere ad esso, quasi terreno dell'unione e successivamente, ogni provincia Italiana; accettar quindi una tradizione locale, una Dinastia, una Legge anteriore alla Vita della Nazione, una serie predeterminata di vincoli diplomatici, un sistema, un metodo di governo prestabilito.
Tra queste due vie sceglieste—voi tutti, politici opportunisti—quest'ultima. Io perorai, scrivendo e parlando, a pro della prima; poi, quando vidi prorompere irresistibile la piena, e il povero Popolo d'Italia, travolto dietro agli uomini che avevano meritato negli anni anteriori affetto e fiducia da esso, versarsi all'urne col Sì sul cappello, e m'udii richiedere che cosa io preferissi tra la dedizione incondizionata e il separatismo, mi strinsi nelle spalle, e—fidando nei fati d'Italia, più potenti che non gli errori degli uomini—assentii e ajutai.
Sceglieste la seconda: in quel giorno decretaste, per quanto era in voi, l'abdicazione d'Italia; e poneste in seggio il sistema che or chiamate piemontesismo. Poco importa che, stretti dal pudore, inseriste non so quale menzione di Roma e dell'Unità nelle vostre formole. Scrivendo sulla vostra bandiera e nei vostri proclami eguali ed indivisibili, prima che l'Italia fosse compita, Vittorio Emanuele e la Patria—come se questa non potesse vivere senza quello—porgeste l'arme, che dovea trafiggervi, alla Monarchia. Oggi, la Monarchia risponde, in virtù della dedizione, a chi le chiede Venezia: quand'io vorrò e coll'ajuto, da ripagarsi, dello straniero. A chi le chiede Roma: com'io vorrò e coll'assenso del Papa. Strozzati dall'antecedente, e senza virtù che basti per chiedere perdono a Dio e all'Italia dell'equivoco adottato quattro anni addietro, voi, pari a quei miseri che gridavano, morendo per mano del carnefice regio: viva il re, gridate, pur protestando: Unità—che v'è tolta—e Vittorio Emanuele—che vi dice: protestate, purchè serviate; e servite. Se non che quei miseri credevano, e la loro era sublime follia: chi non crede è sublime d'ipocrisia o di paura.
Or voi potete a vostra posta combattere il piemontesismo. Il piemontesismo che è, non cosa d'individui o di terra, ma sistema e metodo essenzialmente monarchico, ha data da quella deviazione e durerà—sia Torino o Firenze l'alloggio—finchè, esaurite le conseguenze dell'iniziativa del 1859, una nuova iniziativa di Popolo non ricollochi sul vero terreno il problema e non ribattezzi il Paese alla coscienza del proprio Diritto.
L'Unità è suprema su tutte forme, monarchiche o repubblicane. Le forme sono buone, in quanto armonizzano col fine e gli giovano; tristi e da rompersi, nel caso contrario. Sovranità e vita sono nell'Italia che vuole esser Nazione; gli individui—re, presidenti o consoli poco monta—non sono che ministri scelti di quel concetto; fedeli al mandato, sono servi lodati dalla Nazione; traditori o dimentichi, meritano pena e che altri sottentri. L'Unità d'Italia è cosa di Dio; parte del disegno provvidenziale che vuole il Progresso dell'umanità, per mezzo di ciò che noi chiamiamo Nazionalità, ed è la divisione del lavoro tra i Popoli: è scritta nella nostra configurazione geografica, [256] nelle tendenze manifestate dalla Storia nostra, nella lingua che noi tutti scriviamo, nell'indole e nelle attitudini di quanti abitano la nostra terra: fu il Verbo dei più potenti fra i nostri intelletti, l'aspirazione visibile, da Roma in poi, del nostro Popolo nelle sue grandi e spontanee manifestazioni; la fede di centinaja, di migliaja di martiri, taluni monarchici, repubblicani i più. Ciascuno di noi la presentiva, per iniziativa regia o insurrezione di Popolo, presto o tardi inevitabile; ciascuno di noi sa che, per qualunque via, a seconda degli intelletti diversi, avremo Venezia e Roma. Chiunque, come Voi, presume d'aggiogare il fatto divino a uno o ad altro individuo, la Vita della Nazione alla povera esistenza d'un re, un principio eterno a una forma fenomenale e mutabile, bestemmia e disonora la Patria; rinnega Dio per farsi idolatra. Debito nostro e vostro è di conquistar l'Unità, con, senza o contro la Monarchia. Al di fuori di questa formola, adottata da noi anni sono, io non posso vedere che inetti o cortigiani insanabili.
Or Voi non siete nè l'uno nè l'altro: non siete che opportunista. Io so che solo, tra le quattro pareti della vostra camera, e guardandovi attorno a vedere che non vi siano onorevoli, Voi balbettate tre volte ogni sera, quasi giaculatoria d'espiazione, la nostra formola. Ma oggi, le circostanze non corrono favorevoli al recitarla in pubblico. La Monarchia è tuttora forte; potrebbe, come dissi, volendo; noi forse, volendo, non potremmo. Voi quindi, pubblicamente, siete monarchico. Pur nondimeno, ha la vostra coscienza prefisso un limite alla Monarchia, oltre il quale direte: non vuole? Potranno mai gli uomini, che un tempo vi stimarono fratello, incontrarvi, riaffratellato dai fatti, sulla loro via? Quante cessioni di terre italiane allo straniero esigerete per romper guerra? Quanto aumentare di servilità alle inspirazioni di Parigi? Quanti eserciti da farsi e disfarsi? Una legge che dichiari non solamente stranieri, ma sospetti, in Italia, i Romani e i Veneti? Otto, dieci violazioni dello Statuto? Tre, quattro Aspromonti? Quante città devono veder sangue di cittadini illegalmente versato dai gendarmi regî? Fin dove si estenderà la robusta vostra pazienza? Vogliate dircelo. Perchè se mai il: se no, no di Manin e dei Plebisciti dovesse ripetersi, eco sterile e perduta nell'aria, per un tempo indeterminato e senza sapersi a che mira—se il: perdio... badate... protesto... di Voi e dei miei ex amici, dovesse conchiudersi sempre e checchè si faccia col grido di: Viva, quand'anche, la Monarchia—io vi ricorderei un tipo lasciato ai posteri da Carlo Porta. Parmi che, comunque privilegiati, gli elettori del Regno mai possono aver decretato che i loro eletti debbano recitare nell'aula parlamentare la parte di Giovannin Bongée.
Tento sorridere, ma nol posso. L'anima mi s'abbevera di tristezza, pensando al povero Popolo d'Italia, buono ma ineducato—d'onde mai avrebbe esso potuto desumere educazione?—e, come tutti i Popoli ineducati, facile ai traviamenti, ai subiti sconforti, al dubbio su tutti e su tutto. Come insegniamo noi a questo Popolo—del quale usiamo, a modo d'arme democratica, il nome, lasciandolo senza voto, senz'armi, senza ajuti economici—la sua vita futura, la vita italiana, la vita della fede, dell'amore, dell'entusiasmo, del culto morale ai principî, al Giusto, al Vero, alla Libertà? Ove sono i suoi capi, gli uomini ch'esso s'era avvezzo a considerare, non solamente come apostoli d'insurrezione, ma come sacerdoti di rigenerazione morale, d'un santo concetto di sacrificio e costanza? Per venti, per trent'anni predicarono ad esso con noi che la salute d'Italia non scenderebbe nè da principi nè da papi, ma dalle forze associate del Paese, dalla coscienza [257] del Diritto, dalla religione del Dovere, dalla persistenza nell'Azione; oggi predicano inerzia, sommessione, fiducia illimitata nel principe, l'ateismo del lasciar fare a chi spetta.
Predicarono non dovere un Popolo, che vuol farsi Nazione, sperare dallo straniero; non dovere un popolo, che vuol farsi libero, affratellarsi colla tirannide: oggi additano, perno di emancipazione nazionale e di libertà, l'alleanza col monarca straniero che affogò nel sangue la libertà della propria. Giurarono solenni e gl'insegnarono a giurare all'instituzione repubblicana; oggi giurano acclamando all'instituzione monarchica; promisero che l'Unità darebbe al popolo miglioramenti economici, alleviamento alle piaghe che rodono i più; oggi sanciscono col voto e colla presenza un sistema che, aprendo le vie d'una male acquistata ricchezza ai pochissimi, aggrava di contribuzioni i consumatori più poveri, colloca in mano a speculatori stranieri le sorgenti del nostro sviluppo, inaugura la corruzione, coglie, a superare le angustie presenti, il frutto troncando l'albero; pugnarono, militi e veneratori di Garibaldi, per Venezia e Roma, dichiarando che senz'esse l'Italia non è; oggi oziano soddisfatti, beati di croci e pensioni, colonnelli e generali nell'esercito regio, senza una parola, senza un palpito visibile per Roma e Venezia, imprendendo a proteggere le frontiere dei dominî papali, proteggendo quelle dell'Austria, imprigionando i giovani che, per recare ajuto ai loro fratelli, tentano di violarle, non avendo più fede che l'obbedire e il tacere: parlarono, scrissero d'un Patto nazionale, discusso, votato liberamente da tutti, interprete del nuovo fatto italiano, suggello alla volontà della Patria; oggi invocano sacro, inviolabile, per l'Italia venuta dopo, un embrione di Statuto regio, dettato subitamente da un calcolo d'egoismo e da paura, sedici anni addietro, ad un re, per 4 milioni e mezzo d'Italiani del settentrione.
Oh! qual criterio morale, qual senso di verità, quale idea di dovere può formarsi, con siffatti esempî sugli occhî, questo Popolo infante? Chi potrà impedire ch'esso non cada nell'indifferenza, nella pratica dello scetticismo, in uno sconforto supremo d'uomini e cose? Chi salverà l'anima dell'Italia nascente dai vizî di diffidenza, d'egoismo e di ipocrisia che disonorano le Nazioni morenti?
Ingannammo noi tutti questo Popolo d'Italia, che avevamo giurato di redimere e far libero e grande: io, promettendo con voi, voi acquetandovi a veder violate le promesse. Ma io prometteva, illuso sulla generazione d'uomini cresciuta meco nel lavoro concorde delle sante congiure; e quando mi vidi illuso, lo dissi: piegai la fronte non potendo altro, davanti all'onda irruente, ma dichiarando ch'io m'inchinava afflitto al voto dei più, non a Governo o a monarca veruno: tentai giovare al Paese, senza riguardo a bandiera, ma sempre tenendo aperta la via per la nostra: non acclamai, non giurai ad altra: non proferii altro evviva, fuorchè quello dell'Italia Una, con, senza o contro; ed oggi, esauriti visibilmente i due primi stadî, posso senza contradizione risollevare l'antica bandiera e chiamare i giovani al terzo. Voi, ex amici miei, persistete, strozzati dalle conseguenze di una diserzione e contro l'evidenza, nel far durare, parlando o tacendo, l'inganno.
Questa religione dell'anima dell'Italia, questo problema morale, che è supremo per me, questo vincolo di Dovere, che ci chiama tutti ad essere Educatori dei primi passi della Nazione e sacerdoti dell'Avvenire, furono e sono, pur troppo, dimenticati da voi. Davanti a una santa missione, santa per la Patria nostra, santa per l'Europa che, diseredata oggimai d'ogni fede pur non potendo vivere senza, ha diritto [258] d'aspettarla da un Popolo dal quale ebbe due volte un vincolo d'Unità; io vi vedo, attonito, circondarvi di formole artificiali, scimiottare il vuoto frasario parlamentare d'uomini che hanno, da lungo, patria, unità, potenza non minacciate; spendere, inascoltati e inesauditi sempre, l'energia e l'ingegno in particolari, in minuzie, giovevoli soltanto dove le basi d'ogni vivere sociale, Indipendenza e Libertà, sono conquistate da secoli; armeggiare di tattiche intorno a fini secondarî, come se non aveste lo straniero in casa, un padrone in Parigi, la Menzogna incarnata nella nostra Metropoli. Lo sdegno e la vergogna, che dovrebbero far correre il vostro sangue a concitamento di febbre, non v'hanno fatto dimenticare una volta sola nei vostri discorsi il titolo d'onorevoli, dato periodicamente ai colleghi quand'anche non li crediate tali: non v'hanno strappato mai uno di quei gridi d'angoscia e di minaccia, che violano il cerimoniale parlamentario, ma sommovono e talora salvano una Nazione. Vergniaud, Isnard e Danton sarebbero per voi violatori del Regolamento. L'anima vostra, raffreddata subitamente dal contatto colla Monarchia, ha smesso i bollori plebei d'anni sono, ha chiuso con sette chiavi le sacre audacie delle antiche congiure, per assumere il gelato contegno dei parlamentari inglesi. Ma i parlamentari inglesi non sono oggi chiamati che a desumere lentamente, pacatamente, le conseguenze e le applicazioni pratiche di principî radicati da molte generazioni nel paese; e apparirebbero, credo, assai diversi, se avessero gli Austriaci in Edimburgo, i Francesi in Liverpool, il Papa in Dublino. La questione che v'è posta innanzi, è questione di vita o morte: è l'enigma della Sfinge: bisogna trovarne la soluzione o perire; perire, non voi, badate, chè non sarebbe gran fatto, ma l'Italia. Se voi l'amaste davvero, non recitereste, siccome fate, copisti inopportuni, la commedia dei quindici anni. Ricordereste che quella commedia, recitata allora da liberali tattici che, credenti in ben altro, conchiudevano i loro discorsi, come voi i vostri, col grido di viva la Carta, inoculò nell'anima della Francia quel gesuitismo politico, quella ipocrisia negatrice dei principî e del Vero che ha messo in trono la tirannide del Bonaparte.
Il Vero! L'Italia nascente non chiede se non quello, non può vivere senza quello. L'Italia nascente cerca in oggi il proprio fine, la norma della propria vita nell'avvenire, un criterio morale, un metodo di scelta fra il bene e il male, tra la verità e l'errore, senza il quale non può esistere per essa responsabilità, quindi non Libertà. Secoli di schiavitù, secoli di egoismo, unica base all'esistenza dello schiavo, secoli di corruzione, lentamente e dottamente instillata da un cattolicismo senza coscienza di missione, hanno guasto, pervertito, cancellato quasi l'istinto delle grandi e sante cose, che Dio pose in essa. E voi intendete a educarla, insegnandole che un principio, il principio della sua vita, dipende da un interesse, l'interesse dinastico. L'Italia nascente ha bisogno di fortificarsi acquistando conoscenza dei proprî doveri, della propria forza, della virtù del sacrificio, della certezza di trionfo che è nella logica: e voi le date una teorica d'interessi, d'opportunità, di finzioni; un machiavellismo male inteso e rifatto da allievi ai quali Machiavelli, redivivo, direbbe: io aveva dinanzi la sepoltura, voi, stolti, la culla d'un Popolo. L'Italia nascente ha bisogno d'uomini che incarnino in sè quel Vero nel quale essa deve immedesimarsi; che lo predichino ad alta voce, lo rappresentino negli atti, lo confessino, checchè avvenga, fino alla tomba: e voi le date l'esempio d'uomini che dicono e disdicono, giurano e sgiurano, troncano a spicchî la verità, protestano contro i suoi violatori, e transigono a un'ora con essi. Così preparate al giogo del primo [259] padrone straniero o domestico, che vorrà inforcarla di tirannide una Italia fiacca, irresoluta, sfiduciata di sè stessa e d'altrui, senza stimolo di onore e di gloria, senza religione di verità e senza coraggio di tradurla in opera.
Io non so se la Repubblica ci unirebbe—e dipenderebbe in parte dai primi uomini chiamati a dirigerla—so che la monarchia, tale quale oggi l'abbiamo, ci corrompe; e so che la corruzione è principio di dissolvimento supremo.—So—e Voi che viaggiaste recentemente nel Mezzogiorno lo sapete—che da tre anni al giorno in cui scrivo, pel mal governo sociale, politico, economico, amministrativo, la causa dell'Unità è andata perdendo terreno, e che le popolazioni minacciano d'attribuirle i danni che derivano da chi non ne cura e v'antepone l'interesse dinastico. E so che solo mezzo a salvarne l'idea e a compirla praticamente, è separarla da chi, non intendendola o non volendola, ne usurpa il nome;—additare, a raggiungerla, una nuova via—insegnare al Paese che unico mezzo è oggimai la rivoluzione, continuata dal Popolo—e gridare ai giovani, com'io grido: conquistate all'Italia Venezia affratellandovi ai Popoli che devono essi pure farsi Nazioni, sorgendo per essi e per voi, assalendo l'Austria nell'interno del Veneto e da ogni terra italiana; preparatevi a conquistare all'Italia Roma; ma in nome del Diritto Nazionale, colla fronte levata, per decretarvi, a beneficio di tutti i Popoli, la libertà di coscienza; conquistate a voi tutti col voto e per vantaggio di quanti son nati fra le Alpi e il Mare, il Patto Italiano, formola detta vita collettiva presente, e sorgente della vita collettiva dell'avvenire. Fatelo a ogni patto, con ogni mezzo, e rovesciando ogni ostacolo che s'attraversi. E se tra gli ostacoli incontrate la Monarchia, in nome di Dio e dell'Italia, non v'arretrate davanti al fantasma, e sorgete a Repubblica.
A Voi tocca di rivelarci, e senza indugio soverchio, una Monarchia che faccia suoi i voti, i bisogni, l'onore del Paese—che invece di rimandare a casa i soldati, li cacci sul Veneto—che non aspetti la conversione del Papa per darci Roma—che fidi nel Popolo, e lo chiami a parlare e ad agire—che non desuma le sue inspirazioni da Parigi—che rispetti la libertà delle Associazioni, delle adunanze, della Stampa, degli individui—che scelga i suoi ministri fra i migliori della parte più progressiva—che chiami i delegati di tutto il Paese a promulgare un Patto Nazionale. E la seguiremo noi tutti, lasciando al tempo di maturare all'Italia ordini egualmente buoni e più filosofici. Ma se nol potete, parlate più prudente o tacete. Altri potrà ammirare sublime la vostra costanza intorno a una illusione fondata sopra un equivoco. Io richiamerò alla vostra mente la vecchia sentenza, che dal sublime al ridicolo non corre se non un passo.
E parmi che Voi e i miei ex amici v'affrettiate a varcarlo.
Dicembre 1864.
Giuseppe Mazzini.
Al Direttore del «Dovere.»
In una lettera del deputato Crispi, inserita nel Diritto del 6 giugno, trovo le parole: «Mazzini, il quale ha solo l'arte di restare repubblicano offrendo i suoi servigi ai principi.»
Quelle parole sono indegne, ma non mi sorprendono. La caduta dell'anime segue, come quella dei gravi, le leggi del moto accelerato. Smarrita la fede che le guidava, precipitano, in balìa di subiti impulsi e dell'ira, d'abisso in abisso.
Nè mi curerei di rispondere a un oltraggio smentito da tutta una leale impavida vita. Se non che il dubbio sul quale speculano quelle parole, affacciato già da altri, può serpeggiar facilmente tra giovani buoni ma proni a uno scetticismo che le fraintese dottrine di Machiavelli hanno impiantato nell'anime. Scrivo dunque per essi quel tanto ch'è necessario a provar loro come qualcuno almeno possa, in un contatto regio, serbare inviolata, non dirò la fede, ma la dignità della fede repubblicana.
Nel novembre del 1863—mentr'io lavorava come meglio poteva per l'unica impresa possibile allora, e di necessità suprema oggi come allora—l'impresa Veneta—mi venne da persona che praticava col re un messaggio la cui sostanza era questa: «il re non intendere questo cospirare continuo e impiantare un dualismo tra il Governo e il Partito d'Azione in cose nelle quali si era, in sostanza, d'accordo: volere egli Venezia quanto me: aver egli fede nell'onesta lealtà del mio procedere: perchè non si verrebbe a un patto per l'intento comune?»
Io sono repubblicano; ma ho sempre creduto e credo che sarebbe colpa e follìa introdurre la questione repubblicana nell'impresa Veneta. La questione Veneta è Nazionale, non politica: questione di terra nostra da conquistarsi sullo straniero, sotto qualunque bandiera rappresenti l'Italia nel momento in cui l'impresa si tenterà. La guerra all'Austria ha bisogno di tutti gli elementi di forza esistenti nella Nazione: dell'esercito, come dell'insurrezione e dei volontarî. Ajutare rapidamente, potentemente, universalmente, senza suscitare questioni generatrici di discordia, una iniziativa Veneta, perchè il Veneto emancipato s'unisca all'Italia: è questo tutto il programma. Solamente, è necessario vincere, e vincere in modo che dia all'Italia coscienza di [261] sè. Quindi, indispensabili alcune condizioni all'impresa; non ajuti stranieri che c'imporrebbero soggezione e patti funesti: iniziativa di Popolo, per determinare il disegno pratico della guerra, e non lasciare alla pedanteria dei generali governativi facoltà di concentrarla, come nel 1848, per entro al Quadrilatero, dove saremmo forse battuti: l'elemento importantissimo dei volontarî schierato intorno a Garibaldi. Queste mie convinzioni erano tali da potersi esporre a popoli e principi; e le esposi.
Il 14 novembre io aveva ricevuto il messaggio: risposi il 15.
Risposi non potere nè volere stringere patto alcuno. Ricordai: «che più d'un anno addietro»—dopo Aspromonte—«io aveva dichiarato pubblicamente ch'io ripigliava tutta la mia indipendenza e non avrei più patti se non colle inspirazioni della mia coscienza e delle circostanze» e dissi: «credere debito mio verso me stesso e il Partito serbare inviolata quella mia indipendenza.» Dissi: «ch'io non potevo avere fiducia nella fermezza delle deliberazioni di chi seguiva le inspirazioni dell'Imperatore Francese e presentiva che, dove le intenzioni di Luigi Napoleone diventassero favorevoli all'Austria, un telegramma di Parigi agghiaccierebbe in un subito le tendenze bellicose governative. Una politica Nazionale non poteva soggiacere a variazioni sì fatte e a me conveniva quindi rimaner libero da ogni vincolo o patto.
«E d'altra parte, a che i patti? Era noto che io sentiva necessaria l'Unità di tutte le forze nazionali all'impresa: noto ch'io non pensava a inalzare la bandiera repubblicana sul Veneto: noto che noi tacendo, per coscienza e dignità, di V. E., e limitandoci al grido di Guerra all'Austria, Ajuto ai nostri Fratelli, avremmo lasciato il programma ai Veneti, i quali, volendo l'esercito, avrebbero senz'altro invocato la monarchia. Voleva il re, come noi, l'emancipazione del Veneto? Lasciasse fare e s'apprestasse a cogliere rapidamente l'opportunità che noi cercheremmo di suscitare. Il metodo naturalmente indicato dalle circostanze era: iniziativa insurrezionale nel Veneto: risposta da nuclei di volontarî italiani e manifestazioni del Paese; intervento governativo. Mandasse il re pe' suoi agenti una parola al Veneto che consonasse colle nostre: rallentasse verso noi l'azione governativa: non cordoni ostili, non sequestri d'armi; mentre dal nostro lato s'opererebbe con ogni prudenza possibile: provvedesse all'esercito e segnatamente agli apprestamenti navali: bandisse dall'animo ogni idea d'ajuto francese a noi o d'ajuto italiano alla Francia, se mai la Francia movesse guerra sul Reno: lasciasse Garibaldi capo libero indipendente dei volontarî, e intendesse che mal si compie una impresa nazionale con un ministero screditato nel paese e avverso deliberatamente a noi.»
Nè scenderò in particolari del contatto che seguì: ripugna all'indole mia di rivelare fuori del necessario, sensi e disegni altrui, poco importa di chi. Affermo soltanto—e se v'è chi possa smentirmi, lo faccia—che nessuna mia lettera ebbe una sola sillaba che sviasse dal contenuto di quella del 15 novembre. Non proferii parola intorno ai nostri elementi, ai lavori iniziati, alle nostre intenzioni. Spinsi l'indipendenza sino a rispondere con un rifiuto esplicito all'incerta ipotetica offerta d'ajuti pecuniarî all'intento; dissi che ajuti sì fatti costituirebbero tra chi li darebbe e me un vincolo ch'io non voleva accettare; e suggerii si volgessero a pro dei poveri Polacchi e Ungheresi.
Il 25 gennajo 1864, nojato dei continui tentennamenti e volendo pur essere leale, io dicevo: «che il linguaggio della Stampa Governativa, [262] le circolari ministeriali pronunciavano un voltafaccia codardo, fatale più assai alla monarchia che non alle nostre idee: che avremmo tentato e ritentato; ma che, se fossimo impediti davvero, tutta la mia attività si sarebbe inevitabilmente rivolta alla questione interna e all'apostolato repubblicano.» E ripetevo che: «dare ai Veneti una parola d'ordine a pro dell'azione—lasciare che nuclei di volontarî movessero a soccorrerla quando s'iniziasse—non opporsi a manifestazioni popolari invocatrici d'ajuto ai Veneti—dichiarare, come fece Carlo Alberto nel 1848 ai Governi Europei, il governo Italiano essere costretto a movere—era il da farsi.»
Quando nell'aprile ebbi notizia del sequestro dei fucili in Brescia e Milano, dichiarai «non voler essere mistificato da principi o da chicchessia: si restituissero immediatamente l'armi, o si sostituisse un numero eguale e, mallevadorìa del futuro, si togliesse all'ufficio Spaventa: dove no, terrei per chiarite le intenzioni avverse, e porrei fine ad ogni contatto.»
Il 24 maggio finalmente io scrivevo: «È chiaro che non possiamo intenderci... S'è cominciato per dichiarare che non poteva sollevarsi iniziativa dal di fuori: risposi, dichiarando che si trattava di iniziativa interna. Si disse allora che sarebbe stato necessario un moto anteriore in Galizia: risposi—che, comunque m'increscesse mutare a un tratto disegno e linguaggio coi nostri Alleati, mi vi adoprerei. Oggi si vuole anche l'Ungheria. Domani si vorrà la Boemia, l'Impero Austriaco assolutamente sfasciato prima d'assalirlo. Intanto, l'anno venturo avremo la Polonia morta, la Galizia impossibilitata ad agire, la questione Danese finita, l'Ungheria in braccio al partito conciliatore[150]. Questa non è politica italiana: è politica di paura, politica indegna d'un popolo di 22 milioni e d'un esercito di 300 000 uomini. È impossibile trattare di cose vitali, senza un limite di tempo determinato. Non deve farsi, mi si dice, se non a tempo opportuno. È appunto perch'io credo il momento opportuno, che io cerco si colga. Bisognava dirmi per quali ragioni non è opportuno; bisognava dirmi: s'intende agire nel tal tempo e non prima. Il dirmi oggi che non possono darsi armi all'interno per timore che agiscano, è un ricacciarmi nell'indefinito. Il dirmi che anche con una insurrezione interna s'impediranno gli ajuti; è un dirmi: il Governo è deciso a far le parti dell'Austria.
«..... Rinunzio quindi a un contatto inutile... Rimango libero, sciolto da ogni vincolo, fuorchè quello che ho colla mia coscienza, terreno sul quale cittadini e re sono eguali.»
Se linguaggio sì fatto valga offrire servigi ad un re, vedano gl'Italiani. Nauseato oggimai delle pazze accuse che l'immoralità dei nemici e degli ex amici m'avventa, io dichiaro esser questa l'ultima volta ch'io scendo, di fronte alla causa d'un Popolo, a parlare di me e a giustificare o spiegare la mia condotta.
12 giugno.
Giuseppe Mazzini.
Romani,
Non so a che, nelle nuove circostanze, voi vi apprestiate; ma so a che dovreste apprestarvi; e m'assumo di dirvelo: prima, per coscienza d'Italiano e di cittadino di Roma, dacchè a voi piacque, in tempi gloriosi alla vostra città, farmi tale: poi, perchè gli uomini di parte monarchica imposturarono come mia una stolta lettera nella quale v'è predicata pazienza e sono tacciati d'imprudenti i vostri bei fatti del 1849. Taluni fra voi possono aver creduto nella verità di quell'impostura, e m'importa sappiate che io, triumviro un giorno in Roma, incanutito oggi nella chioma ma non nell'anima, serbo incontaminata la Fede che noi annunziavamo allora uniti e volenti all'Italia dal Campidoglio.
Ignoro quale situazione impreveduta possano creare per voi le tattiche oblique del Governo del Regno e le trame degli agenti francesi con esso e col Papa; e spero che voi vi governerete in ogni modo da forti, a seconda dei casi. Ma io vi parlo come se la Convenzione Franco-Italiana dovesse essere unica norma alle vostre condizioni. E di fronte a quella Convenzione, che comanda al Governo Italiano di non promovere azione contro la potestà temporale del Papa, di non tollerare ch'altri la promova dalle terre Italiane, e di serbare capitale d'Italia Firenze, voi avete due solenni doveri da compiere: il primo verso Roma e voi tutti, che portate sulla fronte quel santo nome: il secondo verso l'Italia e l'Europa.
Voi dovete agire: levarvi contro la ciurmaglia accozzata dal rifiuto dei paesi stranieri e sperderla. Una accusa serpeggia—perchè celarvelo?—a vostro danno in Europa, e ha trovato sovente espressione nelle gazzette inglesi e francesi. La singolare pazienza colla quale voi avete, per diciassette lunghi anni, tollerato, senza una virile protesta, gli invasori stranieri nelle vostre mura, fu guardata come sommessione di Popolo che s'arretra davanti ai pericoli, e avvalorò la menzogna che Roma fosse, nel 1849, difesa da uomini appartenenti ad altre terre d'Italia. Io vi vidi in quel tempo, e però la dichiarai sempre, e la dichiaro menzogna. Le influenze che v'inspirarono quell'attitudine mi son note tutte, e non dimentico la singolare e difficile posizione in cui vi mantenne, chiamando ad alleata la Francia, la Monarchia Italiana. Ma se oggi, liberi da quell'equivoco, voi persisteste in soggiacere a quelle influenze addormentatrici—se non v'affrettaste a provare che, non la forza nemica, ma l'essere quella forza della Nazione che l'Italia chiamava alleata, e che combatteva in Solferino [264] e Magenta, fu ostacolo al vostro sorgere—voi confermate la pazza accusa. Or voi non dovete—non dirò mostrarvi codardi—ma poter essere sospettati di codardìa.
Ma sorgendo, quale deve essere il vostro grido? Quale programma dovete scegliere?
La risposta fu già data, diciassette anni addietro, da voi: non dovete scegliere; avete scelto.
Il 9 febbrajo 1849, liberi e legalmente rappresentati, dichiaraste unanimi, che il grido dal quale venne la grandezza dei vostri padri era il vostro; che il programma di Roma all'Italia futura si compendiava nella parola Repubblica. E quel programma, accettato con entusiasmo in quante terre dipendevano allora da Roma, fu segnato ogni giorno, in due mesi di lotta, col sangue dei vostri migliori, in Roma, in Bologna, in Ancona.
Il 2 luglio, un ostacolo—la forza brutale—si frappose tra voi e l'espressione della vostra volontà, del vostro Diritto. Quell'ostacolo sparisce in oggi. La vostra volontà ricomincia a manifestarsi qual era. L'eterno Diritto rivive. Voi siete, sorgendo, ciò che il 9 febbrajo eravate: repubblicani e padroni di voi medesimi.
Il 3 luglio, un giorno dopo l'ingresso delle truppe francesi, il Popolo di Roma levò una volta ancora la mano per affermare, di fronte al nemico, la propria fede: la Costituzione Repubblicana fu solennemente letta alla moltitudine dal Campidoglio. La bandiera straniera s'abbassò, come velo, tra quella mano, che mostrava il Patto, e l'Italia. Quel velo oggi si squarcia. La mano del Popolo di Roma riappare levata in alto.
È questo il solo programma che logica, onore, coscienza del passato e dovere verso l'avvenire v'additino. Riaffermate, prima d'ogni altra cosa, voi stessi, la vostra vita, la potenza che è in voi: farete poi ciò che Dio e la coscienza del Dovere Nazionale vi inspireranno. Siate; poi disporrete di voi.
E allora—quando il vostro voto non sarà il muto, immediato, cieco suffragio che inaugurò la tirannide di Bonaparte e consegnò Nizza alla Francia—quando potrà escire solenne, pensato, forte d'inspirazione collettiva, illuminato dal consiglio dei buoni e dalla libera discussione sulle vostre condizioni e su quelle d'Italia—deciderete se Roma debba darsi, come città secondaria, diseredata di vita propria, a una monarchia condannata, provata impotente a ogni forte fatto, che riceveva jeri, come elemosina dallo straniero, Venezia, e che scriverebbe sul Campidoglio Custoza e Lissa:—o se la Tradizione, gloriosa sopra ogni altra, del suo passato, e la missione ch'è in essa e dalla quale escì due volte l'unificazione materiale e morale del mondo, la chiamino a parte più degna e feconda pei giorni futuri della Nazione.
Intanto affermatevi; affermate Roma.—Chi vi dà consiglio diverso—chi vi sprona ad aggiogarvi senza maturo, collettivo e libero esame nel fatto esistente—disonora Roma senza giovare all'Italia.
Non m'accusate di contradizione coi consigli che io diedi ad altri in passato.
Quand'io, nel 1859 e nel 1860, consigliai il Mezzogiorno d'Italia ad annettersi, l'Unità materiale, avversata in tutti i disegni del Bonaparte, non esisteva: l'Italia intera consentiva—non monta se a torto o a ragione—nel concedere alla Monarchia il benefizio d'un esperimento a pro della possibilità d'un accordo fra essa e il Paese: nè le città alle quali io, riverente alla Sovranità popolare, parlava portavano il grande nome di Roma.
E nondimeno io suggeriva, anteriori a ogni plebiscito, le Assemblee, tanto che le annessioni si compissero a patti, e con certezza di libertà vera e d'onore alla Nazione futura. Non m'ascoltarono—ed oggi si pentono d'essersi dati alla cieca.
Ma io parlo ora a voi, uomini di Roma, in condizioni radicalmente mutate.
L'Unità materiale d'Italia è ormai irrevocabilmente fondata; nè le vostre decisioni o i vostri indugi possono farle correr pericolo. Quel ch'oggi importa non è che voi siate d'Italia il tale o tal altro giorno; importa che lo siate in modo degno di voi, e che promova i fati d'Italia e l'Unità morale, mancante tuttora e inaccessibile alla Monarchia.
L'esperimento è compiuto. Una lunga serie di fatti incontrovertibili ha provato, a quanti hanno senno e core, che la Monarchia non può essere se non servile al di fuori, strumento di resistenza al di dentro. L'Instituzione è moralmente condannata. Il Paese può trascinarsi per un tempo ancora tra le esitazioni dell'opportunismo; non è più monarchico.
E io parlo a voi, Romani di Roma, eccezione fra quante città s'inalzano sulle nostre terre. Roma non è città; Roma è una Idea. Roma è il sepolcro di due grandi religioni, che furono vita al mondo nel passato, e il Santuario d'una terza che albeggia e darà vita al mondo nell'avvenire. Roma è la missione d'Italia fra le Nazioni: la Parola, il Verbo del nostro Popolo: il Vangelo Eterno d'unificazione alle genti. Posso io dirle di annettersi, appendice subalterna a Firenze? Posso io suggerirle, senza delitto di profanazione, di consacrare del suo prestigio una Instituzione incadaverita; di coprire coll'immensa ombra della sua gloria le colpe, gli errori, la servilità allo straniero d'una Monarchia, che non ebbe una protesta per voi nel 1849, che non trovò una parola da proferirsi a pro vostro nei vostri diciassette anni di servitù; che disse per bocca de' suoi ministri: non andrò in Roma se non col beneplacito della Francia e del Papa?
No: Roma non deve annettersi a Firenze; dobbiamo noi tutti annetterci a Roma. Ma per questo abbiamo bisogno che Roma risorga quale era quando salvò l'onore d'Italia, perduto in Milano e Novara dalla Monarchia: abbiamo bisogno ch'essa si levi dal suo sepolcro, in nome, non del passato, ma della nuova vita dell'avvenire; abbiamo bisogno ch'essa splenda, per breve tempo isolata, siccome faro di Verità e di Progresso, alle incerte, desiose popolazioni d'Italia.
L'Unità materiale d'Italia è pressochè fondata: oggi, è necessario un simbolo che rappresenti l'Unità morale; e quell'Unità non può venirci che dalla fede repubblicana. Ciò che abbiamo è forma senz'anima: noi l'aspettiamo da Roma; ma Roma non può spirarla nell'inerte forma, se non a patto di serbarsi pura dalle sozzure presenti. Accettandole, Roma cade; e con essa cadono, per non so quanto, i grandi fatti d'Italia in Europa.
Addio—ora e sempre vostro
5 dicembre 1866.
Giuseppe Mazzini.
Scrivo a voi, non perchè io intenda—nè voi l'aspettate da me—difendermi dalle vostre accuse o spiegare la mia condotta: le vostre accuse mi onorano, e sulla mia condotta non vi riconosco diritto alcuno. Scrivo per dirvi e dire al Paese, che quelle recenti accuse, suggerite da voi alle vostre gazzette, vi chiariscono a un tempo immorali, codardi e stolti: immorali, perchè voi le sapete false e nondimeno le profferite; codardi, perchè, padroni d'ordini costituiti, di vasti mezzi finanziarî, d'un esercito che dite vostro e d'una stampa che è vostra, vi giovate a combatterci d'armi sleali, delatori segreti e calunniatori, dichiarandovi così da voi stessi impotenti ad altro; stolti, perchè vi illudete a credere che il Paese, ingannato da voi da lunghi anni ogni giorno, accetti credulo le vostre accuse, e ritenga me e gli amici miei uomini capaci di assoldare accoltellatori o fomentare saccheggi e violazione di proprietà.
Il Paese ricorda—da quando il Governo del padre del vostro re spargeva in Genova, nel 1832, voce nelle caserme di veleni destinati al presidio—che calunnie siffatte ricomparvero a ogni minaccia di moto, a ogni paura che la coscienza dei vostri falli vi suscitò dentro; chiarite poco dopo menzogne architettate ad aizzare i pregiudizî d'una o d'altra classe di cittadini contro i vostri avversarî. Il Paese—e per Paese non intendo le poche centinaja di raggiratori che servono oggi, lucrando, voi, e servirebbero noi domani se potessimo mai accettarli, ma i milioni di onesti cittadini che possono essere talora traviati, non corrotti e calunniatori—conosce voi e comincia a conoscere noi. Quei milioni hanno veduto voi escir dal potere impinguati di facoltà, e noi quanti siamo escirne più poveri; hanno udito di Manin maestro di scuola in esilio, del generale romano Roselli traente per anni, con tacita dignità, esistenza di povero popolano nella Liguria, della modesta vita di Carlo Cattaneo in Lugano, di Gustavo Modena rassegnato a vendere paste e cacio in Bruxelles, dei molti nostri periti nella miseria su terra straniera; e intendono che se noi, come tutti, possiamo avere errori nell'intelletto, non abbiamo basse avidità nè vizî da soddisfare a danno del paese o dell'altrui proprietà; hanno veduto voi pazzamente feroci contro il masnadierume nel Mezzogiorno e prodighi di domicilî coatti, di persecuzioni arbitrarie, di stati d'assedio nel Centro, e di repressioni sanguinose in Torino; noi, saliti al potere in Venezia e Roma, serbarci, di mezzo [267] al concitamento d'una guerra contro stranieri e soldati della monarchia napoletana, puri di proscrizioni e di intolleranza; e intendono, che noi possiamo essere uomini d'arditi e tenaci propositi, non di sangue e vendette, e che la nostra Repubblica non è nè può mai essere la francese del 1793; hanno udito d'una gloriosa tradizione di martiri repubblicani, morti tutti, dai grandi napoletani del 1799 sino a Carlo Pisacane e Rosalino Pilo, sul palco o in battaglia, col sorriso della coscienza incontaminata sul labbro e col raggio d'una speranza, che il sangue loro frutterebbe al futuro della Patria, sulla fronte serena; hanno udito del venerando e canuto Giuseppe Petroni—abbandonato da voi perchè amico mio e repubblicano—e del suo duplice e glorioso rifiuto, a me, che gli offrivo di agevolargli la fuga, perchè ei non voleva abbandonare i compagni di prigionìa; e ai satelliti del Papa, che gli offrono, dopo quindici anni di patimenti, libertà, perchè l'offrono a patti codardi; e hanno oggimai conchiuso che, mentre i men tristi fra voi sono uomini d'una opinione o d'un interesse dinastico e incapaci di martirio o di sagrificio, noi siamo uomini d'una fede, purificati da essa nell'anima e incapaci di delitti ch'essa rifiuta. Molti fra gli Italiani si affacciano oltre l'Alpi alla Svizzera repubblicana e vi trovano spettacolo di virtù semplici, di perenne concordia civile e di proprietà largamente diffusa e inviolata; viaggiano oltre il mare, agli Stati Uniti repubblicani, e vi trovano vita rigogliosa e crescente, lavoro universale e onorato, educazione pressochè universale, dignità di liberi in tutti, potenza, quando occorre, di sagrificio in armi e denaro, quale nessuna delle vostre monarchie può sognare; e si convincono che l'Instituzione Repubblicana significa onnipotenza di legge, ufficî dati al merito e alla virtù, eguaglianza d'anime promossa da eguaglianza d'educazione, governo iniziatore di progresso, ricchezza fondata sul lavoro, libero e vigilante consenso di cittadini in ogni cosa che li concerna, impossibilità quindi di rivoluzioni violente; mentre, volgendo gli occhî alle monarchie, vi trovano arbitrio, ufficî dati al privilegio d'oro o di nascita, ineguaglianza, corruzione scendente dall'alto, lavoro inceppato a ogni passo nella produzione e nella circolazione, ignoranza, accarezzata siccome strumento di servitù, nelle moltitudini, assenza d'armi e di voto nei più, e quindi rivoluzioni periodiche o frequenti tentativi d'insurrezione, fatali alla pace, all'industria, ai commerci, ma inevitabili dove diritti e doveri sono sistematicamente negati.
E finalmente, alcune migliaja tra gli uomini ai quali mentite, hanno letto ciò ch'io e parecchî dei miei amici repubblicani andiamo da ormai trentacinque anni scrivendo, e v'hanno raccolto che noi abbiamo sempre combattuto a viso aperto ogni terrore eretto a sistema, ogni vendetta del passato, ogni atto che sommova una classe di cittadini contro l'altra—che abbiamo virilmente respinto, affrontando per amore del Vero, il biasimo e l'ira di taluni fra i nostri più stretti amici, ogni sistema di comunismo, di spogliazione violenta, di violazione di patti accettati dalla Nazione, o di diritti individuali legittimamente acquistati—che abbiamo invariabilmente predicato ai nostri concittadini: voi non potete mutare in meglio le sorti del vostro Paese, se non a patto d'essere migliori, più virtuosi e più giusti di quelli che rovesciate.
Però, quando uno dei vostri ministri, al quale consiglierei d'imparare, prima di governarlo, la lingua del suo Paese, deplora, sgrammaticando, nel Parlamento «che uomini che ardiscono vituperare il nome della libertà, vantandosene campioni, possano dar luogo a iniqui tentativi, che se fossero stati seguiti dal premeditato effetto [268] avrebbero avuto conseguenze veramente da assassini;» poi, parlando d'armi scoperte, afferma: «è inutile dire che questi strumenti erano diretti contro galantuomini;» e finalmente attribuisce agli arresti virtù «d'aver dimostrato che la congiura era più che altro ordita contro l'esercito,» il Paese ride del ministro, delle insensate affermazioni, delle strane ipotesi e della patente contraddizione del congiurare contro un esercito che, a detta vostra, ci adoperiamo con ogni artificio a sedurre. Ma quando v'ode a infamare davanti all'Europa la Sicilia, come capace di spedire, viaggiatori commessi a sgozzare, duecento accoltellatori a una città del Settentrione italiano, e i repubblicani della nostra tempra come capaci d'assoldarli, il Paese torce nauseato il suo sguardo da voi, che non rifuggite, per combatterci, dal calunniare la Patria vostra, e desume intanto, dalla scelta delle vostre armi, che le altre vi sfuggono, che siete oggimai vittime votate alla Dea Paura, che siete e vi sentite perduti. Noi, per provarvi tristi, inetti e fatali all'Italia, non abbiamo bisogno d'arti siffatte.
Io—dacchè l'insistenza vostra ad attribuirmi ogni cosa che vi conturba mi riduce a parlar di me—vi sono e vi sarò, finch'io viva, nemico irreconciliabile: voi avete crocefisso al cospetto delle Nazioni l'onore della mia Patria e fatto, per quanto è in voi, retrocedere un avvenire che Dio le assegnava, e che bastò a me intravedere, perchè io gli consecrassi anima, vita e affetti, sentendomi largamente compensato d'ogni possibile sacrificio. Ma nè l'immenso amore che io porto all'Italia, nè lo sdegno profondo contro ognuno che la vituperi e cerchi di corromperla e traviarla, m'hanno fatto mai adottare armi sleali con voi, o scendere ad accuse ch'io non credessi fondate, o rifiutarvi quella libertà d'esperimenti, che voi con ipocrite promesse invocaste più volte negli anni addietro. Quando nel 1848 dichiaraste solennemente che la monarchia scendeva in campo contro l'Austria per compiere un dovere verso l'Italia e promettendo al paese di lasciarlo, a guerra vinta, arbitro delle proprie sorti—quando nel 1859 e nel 1866 diceste, per bocca dei vostri dittatori, a noi tutti: «la monarchia ha esercito, forze da lungo ordinate e tesori; essa può e vuole dare all'Italia ciò che cercate, Roma, l'Alpi, indipendenza al di fuori, libertà vera al di dentro, con sacrificî minori e certezza di successo che voi non avete»—io, incredulo a voi, ma riverente al Paese che vi credeva, e tratto da un ingenito amor di giustizia a concedervi modo di tentare l'adempimento delle vostre promesse, tacqui di repubblica, ajutai come per me si poteva le vostre guerre e le vostre annessioni nel Centro e nel Mezzodì, m'astenni da ogni lavoro segreto e da ogni cosa che voi poteste chiamar congiura; aspettai che il tempo chiarisse gl'intendimenti vostri, e vi promisi che se mi sentissi mai costretto a rifarmi nemico e ripigliare l'antica via, v'avvertirei. D'allora in poi, i fatti, fatti ripetuti, innegabili, coordinati a sistema, provarono a quanti vogliono intendere, che le promesse erano menzogne, che voi non sapevate, non potevate, non volevate darci Roma, nè le nostre frontiere, nè indipendenza, nè libertà, nè prosperità materiale, nè vita e dignità di Nazione. E, sul finire del 1866, io risollevai pubblicamente, con un manifesto stampato, quella bandiera repubblicana, che porta fra le sue pieghe i fati d'Italia; e in nome dei credenti in essa vi dissi: volete guerra? l'avrete. Chi è sleale tra noi? Noi, che aspettammo, pazienti, esaurite tutte le possibili vie d'accordo nel presente; e soltanto quando fu compito ogni esperimento e tradita ogni speranza, ci distaccammo apertamente da voi, o voi che trafficaste del sangue dei nostri martiri dai quali vi fu preparato il terreno, delle illusioni di tutto un popolo credulo [269] nelle vostre promesse, e del nostro silenzio, per impiantarvi, potenti e armati dominatori, sul collo d'Italia e dire ad essa: non siamo tuoi, ma d'una dinastia—a noi: siete assassini ed espilatori?
Reprimete, finchè avete modo, e tacete. Avete troppo mentito perchè altri vi presti fede. La coscienza irritata del Popolo italiano vi toglie oggimai il diritto della parola.
Voi avete avuto incitamento ad essere grandi e virtuosi, ciò che nessuno ebbe mai: un popolo forte, numeroso, capace d'ogni entusiasmo, che v'era ciecamente devoto e vi offriva ogni cosa sua perchè lo guidaste alla meta, e l'avete prostrato ai piedi dello straniero, privato d'armi e di voto, coperto di disonore davanti all'Europa. Avevate il prestigio d'un nome, Roma, sacro fra i popoli e pegno, pel ricordo storico di due epoche di civiltà date al mondo, del loro rispetto e del loro amore; e avete, pur giurando il contrario, annientato quel prestigio abbandonando Roma al fantasma papale, e tollerato, tacendo, che un ministro francese vi dicesse: non l'avrete mai. Avevate radicato financo nelle moltitudini dal lungo nostro apostolato e da sagrificî di sangue dei migliori fra noi, un culto all'Unità, che in una Nazione di venticinque milioni costituisce potenza gigantesca, vincolo sicuro d'amore e pegno di missione comune; e avete, sostando a mezzo e facendo, a furia di sgoverno, parere amaro anche quel misero incominciamento, ridato vita a uno spirito di federalismo che riescirebbe, se mai durasse, fatale alla Patria. Avevate, insegnamento a fondar durevole quell'Unità, una splendida tradizione storica che v'additava due soli e inseparabili elementi della vita Italiana, la Nazione e il Comune; e voi avete, col suffragio ristretto e colla tirannide governativa di prefetti, viceprefetti, delegati e carabinieri, soffocata ogni attività di Comuni e soffocato—negandogli un Patto e costringendolo in uno Statuto anteriore al fatto dell'Unità e dettato, in un momento di paura, dal re che tradì Milano—il pensiero della Nazione. Avevate una terra che fu granajo e maestra d'industria e commerci ai popoli e sarebbe, sotto un Governo Nazionale davvero, anello tra l'Europa e l'Oriente e deposito centrale delle merci d'Europa verso esso; avevate nei beni demaniali, nei possedimenti incamerati del clero, nella Sicilia, in Sardegna, nel Mezzodì, nei sei milioni d'ettari di terreno incolto, una immensa sorgente di ricchezza; e avete, con un sistema di contribuzioni ostile alla produzione, inceppata l'agricoltura, tormentato, insterilito il commercio coi dazî, colle dogane, col monopolio, ucciso il credito con una economia d'espedienti e colle condizioni provvisorie nelle quali v'ostinate a mantenere il paese; avete sprecato quelle ricchezze nel vortice della speculazione straniera e negli imprestiti rovinosi, che non sollevano, se non d'anno in anno, il presente e disseccano le sorgenti dell'avvenire. Avevate una linea, unica in Europa, di frontiere pressochè insuperabili, e l'avete spezzata abbandonando allo straniero, che tiene già Roma, Nizza e Savoja:—un Esercito di prodi, presto a tutelare quella frontiera, e l'avete avvilito, ricevendo com'elemosina dalla Francia imperiale quelle terre, che avreste potuto conquistarvi coll'opera sua, e tradito in tutte le sue speranze a Villafranca, nel Trentino, a Lissa, a Custoza;—un cominciamento della Nazione Armata nei volontarî che vi diedero il Mezzogiorno d'Italia e potevano procacciarvi il favore e l'entusiasmo di quanti popoli anelano a farsi Nazioni; e li avete spiati, ricinti d'insidie, perseguitati;—Garibaldi, e l'avete ingannato, combattuto, imprigionato, ferito. Onore, amore del paese, sicurezza, esercito, Roma, tutto giace per voi a' piedi dello straniero, sol perchè, sentendovi mal fermi sulla vostra terra, sperate d'averlo un giorno [270] alleato contro di noi. Ricordo le parole d'un principe della vostra dinastia, Vittorio Amedeo II, che, men servile degli altri, richiesto da Luigi XIV di Verrua e della Cittadella di Torino, gli dichiarò guerra esclamando: Sono stato da lungo trattato come vassallo: ora vogliono fare un paggio di me: è giunto il tempo di mostrar ciò ch'io sono. Ciò che voi siete, l'Italia lo sa. Voi avreste, come a Mentana, comandato ai vostri d'assistere, spettatori inerti, all'invasione di Luigi XIV e alla strage dei difensori italiani di Torino e Verrua.
Ma, perchè a voi piace di travolgervi nel fango imperiale, dobbiamo farlo noi? Perchè non vive nell'anima vostra scintilla d'amore e d'orgoglio italiano, avete sperato che noi dovessimo spegnerla nella nostra? Perchè voi potete contemplar sorridendo l'agonia dell'anima della Patria, vi siete illusi a credere che noi ci rassegneremmo a non tentare di farla rivivere?
Pensate che tutti debbano tradire la fede nel Dovere, perchè voi la tradite?
Io non logorerei quest'ultimo minacciato avanzo di vita per una semplice questione politica, per affrettare di pochi anni o di mesi l'impianto dell'Instituzione Repubblicana; la Repubblica è, in Italia, inevitabile tra non molto; e lascerei al tempo e ai vostri errori l'opera loro a pro nostro. Ma se una questione di libertà o di finanza può affidarsi al più o meno lento svolgersi delle idee progressive, una questione d'onore non può. Il disonore è la cancrena delle Nazioni; ne spegne, se non è combattuta a tempo, la vita. Un Popolo che si rassegna, potendo altro, all'insulto straniero, che avendo in sè forze per essere popolo libero e padrone dei proprî fati, si trascina in sembianza di liberto fin dov'altri vuole e non oltre, è un popolo perduto: abdica potenza e avvenire. Noi siamo oggi, mercè vostra, disonorati; e ogni giorno che passa aggiunge alla coscienza del disonore uno strato di corruzione ai molti, che quattro secoli di servaggio, l'educazione gesuitica, le influenze straniere, il materialismo inseparabile dalla servitù, il machiavellismo ch'è la politica dei popoli incadaveriti, hanno messo intorno all'anima della Nazione. Ponendo la macchia nera del disonore sulla giovine bandiera d'Italia, voi ci avete intimata la necessità dell'Azione. S'altri, che più lo dovrebbe sentire, nol sente, tal sia di lui. Noi lo sentiamo; ci apprestiamo quindi e ci appresteremo, checchè facciate, all'Azione. Ci ordineremo a quel fine, pubblicamente dove potremo, segretamente, dove le vostre leggi ci costringeranno al segreto. Provvederemo ad armarci, non come bassamente voi ci apponete, per accoltellare gli onesti, o conquistarci l'altrui, ma per non darci, stolidamente inermi, il giorno in cui chiameremo il popolo d'Italia a decidere tra voi e noi, ai vostri birri, ai vostri carabinieri, a quei fra i vostri soldati che, durando nella servitù e nell'inganno, non scenderanno nell'Azione con noi. E diremo e ridiremo a stampa pubblica o clandestina, a seconda delle vostre persecuzioni, le parole che l'amico mio Lamennais, santo dei nostri oggi troppo dimenticato, diceva, prima di morire, al popolo: «Sappiate questo. Quando l'eccesso del patire v'inspira la determinazione di ricuperare i diritti dei quali i vostri oppressori v'hanno spogliati, essi vi accusano perturbatori dell'ordine, e cercano infamarvi come ribelli. Ribelli a chi? Non v'è ribellione possibile se non contro il vero sovrano, contro il popolo: e come può il popolo esser ribelle al popolo? Ribelli son quelli che creano a sè stessi, in suo danno, privilegi iniqui, che coll'astuzia o colla forza riescono a imporgli la loro dominazione: e quando il popolo rovescia quella dominazione, non turba l'ordine, compie l'opera di Dio e la di Lui volontà sempre giusta.»
È con voi il popolo? Avete, oltre le vaste forze ordinate e il prestigio, potente sui più, della lunga esistenza, la maggioranza del Paese, dei governati, a pro vostro? Perchè ci temete? Perchè ci calunniate? Perchè v'arretrate irritati davanti all'apostolato delle nostre idee? Dateci libero quell'apostolato: libera da sequestri la stampa; libera, qualunque ne sia il programma politico, l'associazione; libera da ogni arbitrio, da ogni imprigionamento di precauzione, da ogni invasione di domicilio, da ogni violazione di corrispondenza, la nostra vita individuale; date a me che scrivo facoltà di viaggiar libero di città in città, raccogliere a convegno i vogliosi d'udirmi e spiegar loro le nostre dottrine repubblicane. Noi vi promettiamo solennemente di astenerci da ogni ordinamento segreto, da ogni preparativo di quella che voi chiamate ribellione, e non sarebbe se non un ridare al popolo, a compimento della nostra Rivoluzione Nazionale, l'iniziativa interrotta, soppressa da voi. Perchè non osate ciò che l'Inghilterra osa, l'ammissione dell'inviolabilità del Pensiero? Perchè confischerete voi questo scritto? Perchè fate argomento di delitto ai vostri soldati la lettura dei nostri giornali? Perchè chiedete alla Svizzera di cacciarmi? V'ha mai richiesti la Svizzera di cacciare un de' suoi per paura d'un apostolato monarchico?
No: voi nol farete; non lo potreste, volendo. Voi non siete Governo Nazionale. Non potete reggervi che colla forza. Fatelo, finchè la forza vi vale. Ma non vi lagnate se noi, opponendo all'apostolato l'apostolato, opporremo un giorno—in nome di Roma tradita, in nome dell'onore italiano violato, in nome dell'incompiuta Unità, della nostra Indipendenza gittata ai piedi dello straniero, del traffico delle nostre terre, dell'avvilimento versato sul nostro esercito, della rovina finanziaria del paese, della Vita Nazionale lasciata senza patto, senza espressione legale da voi—la forza alla forza.
Voi non siete Governo Nazionale in Italia; in questo sta la vostra condanna, il segreto delle nostre attuali condizioni, il nostro eterno diritto. La vita Italiana nacque e crebbe repubblicana, origine del Comune, fin da quando Roma non era; nacque e crebbe repubblicana e creatrice dell'idea Unità con Roma, anteriormente all'Impero; rinacque e crebbe repubblicana nel medio evo colle nostre città rivelando la Missione dell'Italia in Europa e diffondendo ai popoli vincoli di morale unità, religione, arte, industria e commercio. Repubblicani sono tutti i nostri grandi ricordi; repubblicani pressochè tutti i nostri potenti di intelletto e di cuore: repubblicane le tendenze, le abitudini del viver civile, le appena abbozzate instituzioni sociali. L'Italia ebbe patrizî, non patriziato; condottieri, signori, mercanti, che si inalzarono al di sopra dei cittadini coll'armi, coi tradimenti, colla ricchezza: non una aristocrazia simile a quella dell'altre terre europee, intesa, compatta, guidata da capi universalmente accettati, diretta da un solo disegno politico. La monarchia si impiantò, nel decadimento morale d'Italia, sotto gli auspicî e la protezione armata di invasori stranieri: smembrò, non unì, soffocò l'intelletto della Nazione sotto inspirazioni non italiane: fu serva, vassalla, scolta inoltrata di Parigi, di Madrid, di Vienna: ingrandì tentennando fra le diverse Potenze che scendevano a derubarci, trafficando codardamente sull'alterna vicenda della guerra straniera, non richiamandosi mai all'intima vita, alla forza latente della Nazione, e negandola per terrore. E, noi tempi più vicini a noi, la dinastia che servite perseguitò gli apostoli dell'Unità Nazionale e tentò spegnerne nel sangue la fede, finchè impaurita, costretta dall'onda dei moti popolari, trapassò dalla guerra all'inganno, e s'insignorì, promettendo, giurando e non attenendo [272] mai, d'un terreno non suo, d'un lavoro iniziato e quasi compìto da uomini repubblicani, per farne monopolio a pro dei proprî meschini interessi. Oggi l'Italia è fatta, per essa, prefettura dell'Impero di Francia. Io non vedo un uomo tra voi, che non attinga dalle tradizioni straniere le idee, i modi di governo, i metodi amministrativi; non ne ricordo un solo che abbia avuto, prima dei fatti compìti, concetto d'Unità o fede nel popolo d'Italia o amore schietto e profondo della missione ch'essa è chiamata a rappresentare nel mondo, o senso di Dovere o, non fosse altro, orgoglio di Patria. La vostra morale è quella d'un machiavellismo bastardo: la vostra economia è scienza d'espedienti suggeriti o ricopiati da mezzi ingegni stranieri: la vostra politica è politica di resistenza: la vostra religione è ateismo mascherato d'ipocrisia.
Però cadrete, cadrete rapidamente, e ve ne avvedete. Com'è vero Dio, l'Italia sarà tra non molto repubblicana. E voi dovete il breve periodo di misera affannata esistenza che vi avanza, non alle vostre calunnie, ma alle nostre titubanze, alle passioncelle individuali, che non sappiamo ancor soffocare nella santa coscienza del fine, ai sospetti, alle mal ferme determinazioni, ai piccoli vizî di mente o di anima, inerenti a schiavi, che ruppero jeri soltanto la loro catena.
Queste cose ho voluto dirvi, interprete dei vostri fati, perchè sappiate ciò ch'io penso e com'io disprezzi le vostre accuse. Avversai deliberatamente coi migliori tra' miei amici l'immaturo tentativo ch'or v'ha empito l'animo di terrori: ma non intendo che ciò mi valga di difesa con voi. Se crederò di poter giovare quando che sia a rovesciarvi, lo farò per debito d'Italiano e con lieta, serena coscienza.
Addio.
Maggio.
Giuseppe Mazzini.
Il 16 maggio 1791, in Francia, nella discussione sulla facoltà di rieleggere i deputati, Duport, uno dei migliori dell'Assemblea, dichiarava, insistendo, che la Rivoluzione era compita. Quell'idea, adottata per norma di legislazione dall'Assemblea, fu sorgente a quanto accadde più dopo. Resistenza a quei che s'adopravano a continuare l'opera iniziata, irritazione di questi, diffidenza reciproca, guerra di parti e terrore, tutto giaceva latente in quella errata imprudente parola e si svolse, per legge di logica, inevitabilmente. Una idea era a capo d'eventi, che s'attribuirono e s'attribuiscono ancora dagli ingegni educati nella scuola storica di Voltaire a piccole cagioni, a piccoli errori commessi, a piccole gare tra individuo e individuo.
Lo stesso errore si commette oggi e da più anni in Italia: genera le conseguenze di resistenza, di diffidenza e di irritazione visibili ad ogni uomo, e che s'attribuiscono dagli ingegni superficiali a mene d'individui irrequieti, a piccoli errori d'uno o d'altro ministro: genererà ben altro, se dura.
L'Italia officiale—Governo, Parlamento e Stampa governativa o parlamentare—dichiara che la Rivoluzione Italiana è compita: noi, viventi al di fuori di quella sfera, affermiamo il contrario. In questo dissenso sta il secreto della crisi perenne, che affatica e minaccia di perder l'Italia.
Quale è il carattere predominante nel moto d'Italia? Quale il fine immediato al quale tende quel moto?
Il carattere predominante nel nostro moto è anzi tutto di nazionalità. L'Italia vuole Libertà, Eguaglianza, prosperità materiale; e sa che saranno per essa conseguenze della Rivoluzione compita; ma non è sorta per quello. L'Italia è sorta per essere Nazione. Grande un tempo e iniziatrice nel mondo per opera di Roma, grande e iniziatrice più dopo per opera dell'ordinamento dato al Cristianesimo dal Papato, grande e iniziatrice una terza volta per virtù di popolo e delle sue città repubblicane, l'Italia, caduta da oltre tre secoli in impotenza [274] e nullità civile e politica davanti a sè stessa e all'Europa, serva spregiata di dominazioni o influenze Austriache, Francesi e Spagnuole, ma memore e presaga, raccolse dalle aspirazioni de' suoi Grandi di mente, dal martirio de' suoi Grandi d'azione, dal lento continuo moto d'assimilazione de' suoi popoli e dalla necessità d'essere forte, la sacra parola Unità, e si riscosse con un pensiero di vita collettiva nell'anima, col grido di Nazione sul labbro. Un nome, una bandiera, una esistenza riconosciuta e onorata dai popoli, una parte e non ultima nel lavoro europeo, una missione da compiere degna delle compite: fu questo il voto Italiano. Per questo l'Italia acclamò, illudendosi, a Pio IX: per questo essa gettò, ingannata, tutte le sue forze a' piedi della Monarchia. Speranze, errori, esperimenti, inquietudini, tentativi, aspirazioni, minaccie, tutto è, non giustificato, ma spiegato dal predominio di quel pensiero.
È la Rivoluzione Nazionale compita?
Una Rivoluzione Nazionale non è compita se non quando, libero da ogni straniero, il Paese ha indipendenza accertata da una linea di frontiere, che comprendono e proteggono tutti gli elementi che tendono a ordinarsi in unità di nazione:—se non quando sono egualmente accertate e fatte norma di legge le tradizioni, la fede comune e le tendenze, in virtù delle quali tutto il popolo compreso per entro a quelle frontiere sente dovere, diritto e volontà di costituirsi in associazione speciale e distinta dall'altre. Senza libere e secure frontiere, senza Patto Nazionale, non esiste Nazione.
Noi non abbiamo nè le une, nè l'altro.
La Francia imperiale, già dominatrice dell'Alpi frapposte, occupa e vieta all'Italia il suo centro Nazionale, Roma. L'Austria ha il Trentino e l'Istria. Da Nizza fino al Carnero, «che Italia chiude e i suoi termini bagna,» la frontiera italiana è schiusa a Governi stranieri.
E quanto all'interno, l'Italia presenta il fatto anormale, mostruoso, unico nella Storia, d'un popolo che sorge muto, che vuole esser Nazione e non dichiara l'insieme dei principî in virtù dei quali è chiamato ad assumerne il nome; che intende a vivere di vita una e comune, e non esprime, solennemente e universalmente interrogato, la legge della propria vita; che mira a costituirsi, senza Autorità costituente. La Monarchia alla quale dobbiamo la condizione delle nostre frontiere, ha detto all'Italia: La tua vita è la vita, come fu definita, prima che tu fossi, da un principe di una tua estrema provincia. Mercè lo Statuto sardo del 1848, l'Italia è un'appendice del Piemonte: ventidue milioni d'Italiani son dichiarati clienti di quattro.
La Rivoluzione Nazionale non è compita: e gli uomini della Monarchia che l'hanno, fermandola a mezzo, dichiarata tale, hanno sull'anima i mali presenti e preparano, ostinandosi, ben altrimenti gravi i futuri.
Una rivoluzione fermata a mezzo è una somma di forze che, usate come mezzo di propulsione, schiuderebbero, contro qualunque ostacolo, innanzi la via, ma, concentrate e rivolte in sè stesse, determinano esplosione e rovina: è una piena d'acque che, libero il corso, purificano e fecondano; arrestate da ostacoli artificiali, ristagnano, avvelenano, isteriliscono. Velato l'intento del moto nazionale, arrestate subitamente le forze che tendevano a raggiungerlo, dileguata anche quella menzogna di iniziativa che la Monarchia s'era assunta, e vietata al Paese quella che s'assumerebbe, noi abbiamo oggi in Italia un Governo senza concetto, senza missione, senza scopo, fuorchè quello di prolungare la propria esistenza e resistere agli elementi che lo minacciano:—un popolo deluso, diffidente, senza via, senza [275] fine determinato, agitato dagli impulsi d'una vita crescente e condannato all'inerzia:—forze impedite nella loro direzione naturale, che si sfogano in moti irregolari, sconnessi, sterili:—nuclei politici senza programma possibile, costretti quindi a concentrarsi intorno a bandiere d'individui e diventare fazioni:—elementi di ricchezza e di vita economica virtualmente potenti, ma inceppati nella loro azione dalla certezza d'una crisi inevitabile, dal senso che tutto è provvisorio all'intorno. In condizione siffatta, gli uomini possono mutare, le cose non possono.
L'immobilità non è vita: i popoli non furono creati per essa. Bisogna che la Rivoluzione retroceda o si compia. Retrocedere è ipotesi inammissibile: pochi in Italia lo desiderano e non oseranno tentarlo. È forza dunque inoltrare. Ed è forza per questo suscitare una iniziativa ch'oggi non è.
Come? Dove? Quale è l'elemento dal quale può sperarla il Paese?
Può il Paese sperare iniziativa dalla Monarchia?
A questione siffatta, la Monarchia stessa risponde. La sosta fatale della quale ho parlato finora è opera sua: sua, coi fatti, la dichiarazione che la Rivoluzione è compita e che non si tratta oggimai se non di miglioramenti e riforme. La Monarchia si giovò d'un interesse straniero, che le dava alleato un esercito, per tradurre in realtà l'antico disegno d'aggregare al Piemonte la Lombardia e far del piccolo regno un Regno del Nord; s'impossessò poi, sottraendolo alla Rivoluzione, di quanto l'iniziativa popolare conquistò o accennava a conquistare nel Centro e nel Sud: si rifece immobile appena quella iniziativa cessò; e, giovatasi della funesta interruzione per ordinarsi e afforzarsi, impedì colle bajonette ogni recente tentativo di risuscitarla. E non poteva, in virtù della propria natura, fare altrimenti.
Può la Monarchia, che diede Nizza alla Francia imperiale, ritorgliela? Può, dopo d'avere abbandonato il Trentino già invaso dalle sue truppe e dai volontarî e segnata la pace che lo esclude dai termini dell'Italia, assalir sola l'Austria e farne conquista? Può essa, isolandosi da tutte le monarchie sorelle che additano trattati e comandano pace, rivendicar coll'armi Trieste e l'Istria? Può sopratutto—dacchè non è da sperarsi che il Papa rassegni volontario la potestà temporale—rovesciare il Papato a dar Roma all'Italia? È tuttavia fra noi chi affermi cose siffatte e presuma d'essere creduto sincero?
Può l'iniziativa, che deve compire il moto nazionale d'Italia, escire dal Parlamento?
S'io non pensassi, scrivendo, che al Paese, non dovrei, credo, spender parola a rispondere. Le liste dei votanti nelle elezioni, la suprema indifferenza colla quale il Paese guarda ai procedimenti parlamentari, la disubbidienza sistematica, dove riesce possibile, alle leggi sancite da esso, attestata dalle cifre degli arretrati nel pagamento delle tasse, rispondono abbastanza per me. Il Paese non aspetta salute dal Parlamento, non ha riverenza per esso, non crede rappresentati in esso i suoi voti, le sue speranze, l'avvenire della Nazione.
Ma sono nel Parlamento, e durano ostinati a rotolarvi il sasso di Sisifo, uomini di mente e di cuore, che hanno giovato quand'erano affratellati col popolo alla Patria, che potrebbero, riaffratellandosi con esso, giovarle ancora e che, sotto il fascino di non so quale illusione, consumano tempo, nome, influenza, potenza d'ingegno, capacità [276] di forti generosi propositi e, quel che è peggio, parte di quella virtù morale, che scende da una pura diritta ardita coscienza, in una inefficace e talora ridicola guerricciola di pigmei, seminata di equivoci, di transazioni, simulazioni e dissimulazioni, indegne d'essi e della Causa alla quale un tempo giurarono. E ad essi ricordo che i Parlamenti furono, sono e saranno sempre impotenti a varcare spontanei il cerchio di Popilio che l'Instituzione, in nome della quale esistono e agiscono, descrive intorno ad essi—che se talvolta lo varcarono, non fu mai per inspirazione propria, ma per opera d'insurrezioni consumate al di fuori e alle quali obbedirono—che tanto può in essi l'influenza della prima origine, da aver fatto sì che anche in quei pochi casi guastassero, se non rinnovati, il concetto che accettavan dal popolo.
Il Parlamento d'Italia è Parlamento monarchico. I suoi membri giurano alla monarchia e accettano lo Statuto, che falsa il carattere nazionale del moto italiano. Ove anche il giuramento non avesse—e men dorrebbe—valore morale per essi, non possono dirlo, nè possono in Parlamento operare a violarlo. Il Parlamento non può avere in sè potenza maggiore d'iniziativa che non ne ha la monarchia, dalla quale discende e dipende. La monarchia non può compire la nostra Rivoluzione nazionale: non lo può quindi, per conseguenza logica, il Parlamento.
E il Parlamento lo sa: però ne tace e vorrebbe che il Paese la credesse compita.
Il Parlamento che siede, incurioso, svogliato o servile, in Firenze, non è Parlamento nazionale; e lo diresti un'assemblea di provincia. La Nazione gli è ignota: ignoto quanto tocca l'unità, l'indipendenza, l'onore, l'avvenire, la politica nazionale. L'Italia può essere condannata ad abdicare, nella sua vita internazionale, l'inspirazione naturale che la sprona verso gli Slavi e verso l'Oriente, e trascinata invece in alleanze col dispotismo che la decretano impotente e le chiudono l'avvenire: il suo Governo può trascurare, come non fossero, le sorgenti principali della vita nazionale interna, ordinamento del Paese a milizia, associazione operaja, incremento dell'agricoltura, miglioramento delle condizioni produttive in Sardegna e in Sicilia; il Parlamento è muto, senza pensiero che ad esso spetti occuparsi di cose siffatte.
Collo straniero in casa, colla sfida, la più insolente ch'io mi sappia dal guai ai vinti di Brenno in poi, cacciata due volte da due ministri di Francia a chi dichiarava pochi anni addietro Roma capitale d'Italia, il Parlamento, che si dice italiano, tace sistematicamente di Roma: non uno dei suoi membri s'attenta di proferire quel sacro nome: non uno fra quei che avventurarono la vita al grido di Roma o Morte osa—tanto è il senso d'abdicazione che spira in quell'aula data all'equivoco—gettarlo, sanguinoso rimprovero, in viso agli uomini del Governo e dir loro: Se voi potete o volete vivere disonorati, noi non possiamo nè vogliamo; e dacchè in questo recinto non può trovarsi vie di salute, scendiamo a cercarla nel popolo.
Le Assemblee—bisogna ripeterlo, non all'armento che vota a seconda del cenno governativo, ma ai pochi uomini ai quali io miro—operano a desumere e applicare conseguenze del principio in virtù del quale esistono, ma nè un passo più oltre, nè mai possono fondare, per virtù propria, un principio nuovo. Dove, creata già la Nazione e secura l'Indipendenza, non si tratti se non d'un semplice sviluppo di libertà conquistata, e di riforme amministrative o economiche, le Assemblee esistenti in nome di quella libertà giovano, e [277] possono, come in Inghilterra, compire lentamente una importante missione. Ma dove, come tra noi, si tratti di costituir la Nazione e—dacchè il principio esistente non esce dalla tradizione del Paese, è diseredato d'iniziativa e non porge via per raggiungere il fine—di proclamarne un altro, le Assemblee raccolte in nome del primo e condannato, non giovano. Unica Assemblea che valga è quella del popolo in armi.
Nessuno di noi s'arroga diritto d'imporre ad altrui la propria opinione; ma ciascuno ha diritto di chiedere agli uomini che pretendono rappresentare il Paese e possono giovargli o nuocergli a seconda delle opere loro: che cosa volete? Il fine dichiarato additerà il metodo, norma del giudizio da pronunziarsi sugli uomini. Senza dichiarazione siffatta, amici e nemici errano nel bujo e combattono senza conoscersi. L'anarchia morale, foriera dell'altra, invade il Paese.
Credete l'Instituzione attuale capace, non dirò ora di dare libertà vera, indipendenza dall'estero, educazione ed esempio di moralità, prosperità e grandezza al Paese, ma di compiere senza lungo indugio la Rivoluzione Nazionale, di darci Roma, il Trentino, Trieste, e un Patto ch'esca dal voto e dalle aspirazioni di tutto il popolo?
Se potete, colla mano sul core, affermare che lo credete, rimanete ove siete, ma agite, conquistate, trascinate, guidate: incarnate in voi il pensiero del Paese e decretate a un tempo la mossa dell'esercito, la chiamata dei volontarî e la convocazione d'una Assemblea Costituente in Roma. O diteci almeno quando lo farete. Il paese non può, per quanta fiducia voi meritiate, commettere le sue sorti all'eloquenza indefinita del vostro silenzio: il Paese non può accettare il pericolo di perire nel disonore, nella corruzione, nella rovina economica, perchè voi possiate incidere una inscrizione splendida d'Unità meditata e di Patto postumo sulla sua tomba.
Ma se non credete l'Instituzione capace di tanto, allora, al nome di Dio, ponete giù la medaglia e la profanazione dell'anima: lasciate quei banchi contaminati d'equivoci e d'ipocrisia, e scendete a rinverginarvi nel popolo, dicendogli: là non si compiono i tuoi fati: là Nazione vive in te, che aneli al Vero e hai potenza: levati e capi e soldati, siam tuoi. Distruggerete una illusione, che la vostra presenza in quell'aula alimenta tuttavia in alcuni, e uno scetticismo sugli uomini, che cresce fatale nei più.
Darete al Paese un insegnamento morale, da voi finora a torto dimenticato. Educherete i giovani, col senso dell'umana dignità, al culto della coscienza; e sottraendovi alla parte di minatori segreti per quella, più degna di voi, di leali guerrieri all'aperto, contribuirete a liberare l'Italia dal pericolo d'un gesuitismo politico che, cospirando in Francia col grido di viva il re alla caduta della monarchia, sommò a tornare in nulla due Rivoluzioni e agevolare la via al secondo Impero.
Intanto, sciolta com'è per noi la questione, l'Italia, pel compimento della propria Rivoluzione, che sola può rendere possibile una condizione normale di cose, non può aspettarsi iniziativa dalla monarchia e nol può dal Parlamento monarchico. Nol può che dal popolo. Bisogna ch'essa tragga dalle proprie viscere la forza che manca altrove.
Come può giungervi? E quali norme devono in questo supremo sforzo guidarla?
Dissi che l'iniziativa del moto, dal quale deve compiersi la Rivoluzione Nazionale, spetta al Paese.
E il Paese è maturo per essa.
Il Paese è universalmente malcontento: lo è nella gioventù educata, nelle classi operaje delle città, nella popolazione agricola, nella parte migliore della magistratura, nei piccoli proprietarî, negli uomini di commercio, nel popolo dell'esercito, nel clero cattolico. I giovani, da pochi infuori indifferenti per abitudini indegnamente dissipate, o guasti da non so quale pedantesco dottrinarismo di seconda mano, sentono nell'anima un alito dell'orgoglio italiano e intendono che la loro patria non sorge come dovrebbe. Gli operaî delle città—due o tre eccettuate, nelle quali l'arti governative e gli ajuti d'alcuni ricchi hanno sviato per poco le associazioni dal segno—amano il Paese d'affetto tanto puro e devoto, da confortare di speranza l'anima più solcata di delusioni e dolori che sia. Il macinato ha suscitato il malcontento degli agricoltori; le tasse, gravissime, crescenti, molteplici e un pessimo irritante metodo di percezione, lo alimentano nei piccoli proprietarî. La democrazia dell'esercito, lasciando anche da banda il pessimo trattamento e i soprusi dei capi, sente profonda—ed è sua lode—la vergogna che da Novara a Villafranca, da Villafranca a Custoza pesa sulla bandiera. Gli onesti fra i magistrati si ribellano agli arbitrî governativi e alla corruzione sfrontatamente invaditrice dell'alta sfera. Gli uomini di commercio aborrono dall'incertezza del dì dopo, che falsa i loro calcoli e inceppa le loro operazioni: essi intendono che, fino al giorno in cui il fine nazionale raggiunto darà sicurezza di condizioni normali, la crisi sarà perenne. E il clero, in parte retrogrado, è a ogni modo, nei migliori, avverso a un sistema rappresentato da una gente che non ha religione e l'affetta. Un senso crescente di sfiducia serpeggia tra gli impiegati e spira visibile nei consigli di chi regge. Il tentativo di un'ora in Piacenza ha suscitato a misure rivelatrici di profonda paura il Governo e a moti imprudenti, isolati, non preparati—getti vulcanici che indicano la condizione latente del terreno—cinque o sei località dello Stato. Non v'è uomo in Italia che, temendo o invocando, non presenta vicino, inevitabile, un mutamento di cose. E l'indifferenza stessa, colpa apparente nei cittadini, all'esercizio dei loro diritti e alle frequenti violazioni di quel tanto di libertà che le leggi concedono, accenna al muto convincimento che ben altro si appresta.
Son questi i sintomi che in ogni paese nel quale ebbe luogo una grande rivoluzione, la prenunziarono.
Perchè nondimeno il Paese dura inerte e incapace tuttora d'iniziativa?
Il Paese non ha coscienza delle proprie forze.
Il Paese vorrebbe cancellato il presente, ma sospetta, per preconcetti errori, dell'avvenire.
Quest'ultimo ostacolo esige un'opera di apostolato: il primo non si vince che coll'azione.
Pesano tuttavia sull'anima del Paese i ricordi e le abitudini d'oltre a tre secoli di servitù pazientemente durata. Splendidi lampi d'audacia e d'onnipotenza popolare hanno negli ultimi venticinque anni solcato la tenebra addensata da quella servitù su noi tutti: ma furono lampi, non fiamma perenne di faro, che sia guida ai fati della Nazione. Suscitati dal prestigio d'un capo militare che comandi ad [279] essi di vincere, i nostri giovani compiono miracoli di valore e vincono: lasciati a sè stessi, tentennano incerti e ridiventano timidi calcolatori d'ogni ostacolo positivo o possibile: giganti d'azione seguendo, mancano tuttavia dell'istinto che addita il momento e del coraggio che inizia. Capo ai Romani era Roma: Roma che doveva essere capo del mondo. I duci dell'armi si succedevano, apparivano e passavano, quasi viventi non di vita propria, ma della vita di Roma: ignoti ai soldati, i dittatori erano rappresentanza a tempo della Città che aveva detto ad essi: guidate e vincete; ma la loro potenza, la potenza invincibile dei militi che li seguivano, derivava da una fede in una potenza collettiva superiore a essi tutti, ma della quale ognun d'essi si sentiva parte. La magnifica parola religiosa dell'evangelista Giovanni: perchè tutti siamo uno in noi, come tu, Padre, sei in me e io sono in te s'era fatta realtà nella Patria Romana. Ogni uomo credeva nei fati di Roma: sentiva dentro sè una scintilla della grande anima di Roma; Roma s'era incarnata in ciascuno dei suoi figli, e ciascuno si sentiva forte della sua forza e mallevadore del suo avvenire. Per questo Roma diede spettacolo unico ai secoli d'una città conquistatrice del mondo. E questa fede, questa facoltà d'immedesimarsi nella Patria, come in un pensiero vivente destinato a svolgersi nell'indefinito dei tempi, questa potenza d'amore che abbracci in uno, passato, presente e futuro d'Italia, questa coscienza d'esser ministri a una Tradizione di grandezza iniziata da Dio e che deve, attraverso ogni ostacolo, continuare nella vittoria—questa fede, un raggio della quale fu dato, sullo spirare dell'ultimo secolo, alla Francia repubblicana e bastò a farla più forte di tutta l'Europa congiurata a' suoi danni, manca tuttavia agli Italiani. La coscienza della forza collettiva ch'è in essi e la fiducia ch'esercita sulle moltitudini una idea grande e vera, rappresentata in azione da un'ardita iniziativa—spente in Italia, fin dal XVII secolo, dal materialismo che fa centro dell'io—non sono finora rinate. Uomini che, guidati da un capo in cui s'era incarnato un momento di quella coscienza e di quella fiducia, videro dissolversi, senza combattere, tutto un esercito davanti ad essi, s'arretrano incerti, fra calcoli che dicono pratici, e nei quali non entra il pensiero, davanti a poche centinaja di birri o a poche migliaja di soldati, nell'anima dei quali freme appunto quel pensiero ch'essi, perchè sfugge ai sensi, trascurano. Altri—arrossisco scrivendolo—guardano anch'oggi, lieti d'una speranza che disonora, alle agitazioni e all'iniziativa possibile della Francia come ad áncora di salute. Guardava la Francia del 1792—quando, come voi, non aveva che venticinque milioni di popolo ed era minacciata da nemici interni ed esterni—all'Italia?
Non guardava; e fu grande e vinse per questo. Guardava in sè, nella bandiera della Nazione; pensava al dovere di reggerla incontaminata e di salvare, non foss'altro, l'onore. E il nostro onore, o Italiani, è macchiato: macchiato di fresca macchia ad ogni ora. Finchè Roma è in mano d'altrui, e soltanto perchè un imperatore straniero ha detto: voi non l'avrete, ciascuno di noi dovrebbe non osare di guardare in volto un cittadino di terra libera: quel cittadino non può stimarci. Se gli uomini che hanno in Italia il potere non hanno più anima per sentire questa tristissima verità, e possono discuter tranquilli una economia d'alcune migliaja di lire o la scelta d'un bibliotecario, tal sia di loro; ma la sentano i giovani e conquistino, a purificarlo, quel potere, che dovrebb'essere una santa missione, ed è oggi inutile impotente menzogna.
L'Italia è forte: essa può provvedere libera e secura alla propria [280] vita nazionale, senza calcolo d'interventi stranieri o di leghe monarchiche avverse. Essa non dovrebbe, nel compimento del Dovere, arretrarsi davanti ad alcuna minaccia: nessuno, a ogni modo, checchè essa muti ne' suoi ordini interni, le farà guerra. L'Impero di Francia è condannato e lo sa: gli è necessario concentrare le forze a prolungare di qualche anno o di qualche mese una incerta combattuta esistenza: l'iniziativa Italiana determinerebbe in Francia la crisi suprema. L'Impero d'Austria si dibatte fra le esigenze minacciose delle diverse nazionalità che lo compongono, e alle quali le concessioni forzate all'Ungheria hanno dato, aggiunta al diritto, opportunità. L'Italia, è d'uopo ripeterlo, ha due onnipotenti elementi di forza in pugno che l'assicurano, non solamente d'una assoluta indipendenza ne' suoi moti, ma del primato morale in Europa: l'Alleanza Slava e la questione d'Oriente. Un Governo Nazionale Italiano stringerebbe in un mese la prima, ajutando, attraverso l'Adriatico, gli Slavi meridionali a costituirsi, liberi d'ogni giogo, da Cattaro e Zara ad Agram: e susciterebbe la seconda, offrendosi amico, purchè si unissero in un disegno di Confederazione, ai tre elementi, Ellenico, Slavo, Romano, che dominano l'Impero Turco in Europa. Con armi siffatte, l'Italia può, nei limiti del Diritto e del Giusto, osar ciò che vuole.
E osare, in un paese dove le condizioni morali sono le accennate poc'anzi, è virtù di supremo calcolo. Balilla, quando avventava il sasso al soldato tedesco, Camillo Desmoulins, quando, in mezzo ad una moltitudine inerme, gridava: alla Bastiglia!—i 250 insorti olandesi, quando, muto, schiacciato il Paese, fuggiaschi essi medesimi e sbattuti indietro dalla tempesta, s'impadronivano della piccola fortezza di Brilla—erano, secondo ogni calcolo normale di guerra, stolti; e nondimeno iniziarono l'emancipazione delle loro terre. Il fanciullo genovese, gli altri citati e quanti iniziatori di grandi vittorie potrei citare, non avevano numerato le armi, studiato le posizioni, calcolato le forze nemiche; avevano tastato inconscî il polso al Paese, avevano sentito nell'anima giunto il momento, e osarono.
Oggi tra noi, popolo guasto pur troppo di materialismo, di scienza machiavellica e di culto tributato alle apparenze della forza, è necessario che il fatto iniziatore sorga di mezzo alle moltitudini d'una importante città, e suoni vittoria. Ma ho fermo nell'animo che quando quel primo fatto avrà luogo, sarà segnale a un ridestarsi italiano che pochi, amici o nemici, sospettano.
E a crear questo fatto basterebbe—anche di questo sono convinto—che quanti si professano in una città seguaci della bandiera s'unissero nella idea di crearlo; basterebbe che, deponendo ogni piccola gara, ogni dissenso sul guidare o seguire, ogni cieca adorazione o diffidenza di nomi, ogni pensiero di predicazione anticattolica, d'apostolato scritto, fra classi che non possono leggere, di riforme sociali impossibili coll'Instituzione che regge, d'ogni cosa che smembra le forze e svia gli intelletti dall'unico segno, concentrassero per brevi giorni tutte le potenze dell'anima intorno al disegno di riconquistar coll'Azione iniziativa all'Italia; non avessero innanzi agli occhî altra imagine che quella della Patria giacente nel disonore; non sentissero che la vergogna del mai profferito dal Brenno moderno; non avessero che un solo concetto, la necessità dell'osare; non avessero che una parola sul labbro: A Roma per la via che sola vi mena.
A combattere intanto le stolte diffidenze, nudrite tuttavia da molti sull'avvenire, giovi una dichiarazione, nella quale io credo potermi, senza presumere, fare interprete del Partito. La stampa repubblicana [281] fu finora troppo esclusivamente negativa, troppo paga a registrare le colpe della Monarchia, troppo corriva ad accogliere come prova di forza e d'estensione del Partito ogni manifestazione ch'abbia luogo in Francia, in Ginevra o altrove, senza avvertire alle idee che vi si esprimono. E quelle idee, profferite per avventatezza da uomini che non sanno e credono audacia l'atteggiarsi a distruttori d'ogni cosa, e da gente venduta celatamente ai Governi e addottrinata a spaventare con esagerazioni la borghesia, sono con arte d'indegna calunnia raccolte e additate ai poveri di spirito dalla stampa governativa come idee del campo repubblicano e indizio dell'avvenire, se trionfasse.
Per questo, e anzitutto per amore del Vero, è debito d'allontanare ogni pericolo d'inconsulta imitazione fra noi; è tempo che la stampa repubblicana assuma, più che oggi non ha, carattere severità, di sacerdozio morale; è tempo ch'essa abbia, non solamente il coraggio d'affrontare le ire e le persecuzioni monarchiche, ma quello assai più difficile d'affrontare gli sdegni dei traviati fra i nostri, e la temuta taccia di moderata dagli avventati che odiano e non sanno amare.
Guerra al capitale, abolizione della proprietà, ostilità alla borghesia, violazione d'obblighi assunti anteriormente dalla Nazione, crociata contro i preti cattolici, terrore e vendetta, son grida insane, immorali, di pochi selvaggi della politica, aborrite da quanti repubblicani hanno senno e core: nessuno ha mai osato, nè oserà mai tentare di tradurle in fatti; e chi lo tentasse, troverebbe in noi nemici più acerrimi che non nei monarchici.
I repubblicani sanno che il capitale rappresenta frutti accumulati di lavoro; che la proprietà è il segno della missione trasformatrice data all'uomo nel mondo materiale; che la borghesia scende dagli artigiani dei nostri comuni repubblicani, emancipò l'Italia dai signori feudali e arricchì il Paese e sè col lavoro; che, o non esiste Nazione, o le generazioni sono solidali per gli obblighi legalmente assunti sotto un diverso governo; che la coscienza è inviolabile e le credenze religiose, se false o consunte, non possono combattersi se non con tollerante e pacifico apostolato; che terrorismo, persecuzione e vendetta sono armi di codardi o colpevoli, fatali a chi le adopra e da lasciarsi ai governi fondati sull'arbitrio e sull'ingiustizia e cadenti.
Il concetto della Repubblica tende a combattere, a scemare progressivamente i privilegi politici o civili dati a una classe, il monopolio, l'immobilizzazione dei capitali, il concentramento soverchio della proprietà, l'ingiusto e fatale alla produzione accumularsi di tasse sulle classi date all'industria, l'immoralità di speculazione, piaga crescente e alimentata da una trista, corrotta politica governativa, l'egoismo inevitabile d'una legislazione affidata alla nascita o al censo e sottratta all'intervento delle classi che ad essa soggiacciono:—tende a far sì che le classi s'affratellino in eguaglianza di doveri e diritti, di protezione, di progresso, d'insegnamento:—che, per mezzo dell'Associazione e d'ajuti dati dalle instituzioni, i capitali, che fanno possibile il lavoro, si trovino nelle mani di chi deve compirlo:—che il lavoro generi la Proprietà e la diffonda quindi al maggior numero possibile di cittadini:—che l'economia e l'aumento della produzione presiedano d'ora in poi al maneggio delle Finanze:—tende a sopprimere l'immobilità in ogni Potere, a distribuire gli uffici a seconda della capacità e della virtù, a dare coll'elezione coscienza a ogni cittadino della missione ch'egli è chiamato a compire sulla terra ov'è nato, a far mallevadori tutti delle opere loro, a conquistare—coll'onestà delle convenzioni sulle terre, coll'interesse creato ai coltivatori nel suolo che fecondano, colla moderazione delle tasse, con un [282] sistema d'esazione sottratto agli arbitrî, coll'educazione data a tutte le classi, colla moralità dell'amministrazione, col compimento della Rivoluzione Nazionale—quel senso di securità pubblica, senza il quale ogni progresso è inceppato o precario.
Prima dell'azione o pendente l'azione, per un anno o per una settimana, come i fati vorranno, urge che questo, ch'io rapidamente accenno, sia soggetto d'ogni giorno alla nostra Stampa. I calunniatori devono pagarsi da noi col disprezzo. Ma il popolo, al quale molti ricordi della Repubblica francese suonano terrore e violenza, ha diritto a sapere da noi quali intenzioni ci guidino, e bisogna insistervi.
Ricapitolando il già detto:
La Rivoluzione Italiana non è compita: la monarchia l'ha fermata a mezzo!
Bisogna compirla o perire: perire di lenta morte nella rovina economica, o di violenta nell'anarchia: sperare che si stabiliscano, prima d'averla compita, condizioni di normale securità pel Paese, è follìa e i sintomi crescenti ogni giorno provano nella realtà ciò che la logica insegna al pensiero.
Roma; frontiere naturali; Patto Nazionale dettato da un'Assemblea Costituente: sono le prime condizioni del compimento:
Per uscire dall'inerzia e avviarsi al fine, è necessaria una iniziativa.
L'iniziativa non può escire dalla monarchia: non può escire dal Parlamento monarchico: non può dunque escir che dal popolo.
Il Paese è maturo per accogliere e secondare il sorgere di questa iniziativa popolare: il desiderio di un mutamento è universalmente diffuso in esso.
I due soli ostacoli che s'attraversino a quel desiderio, sono—incertezza diffidente sull'avvenire, alimentata da una stampa calunniatrice—mancanza di coscienza della propria forza.
Bisogna vincere il primo ostacolo coll'apostolato, dichiarando ripetutamente ciò che la Repubblica è e ciò ch'essa non è: separandosi lealmente e coraggiosamente dagli amici che traviano, e respingendo gli stolti concetti che sostituirebbero una tirannide all'altra.
Il secondo ostacolo non può superarsi che coll'argomento col quale il vecchio filosofo provava allo scettico l'esistenza del moto, coll'azione; bisogna che una città provi, sorgendo e vincendo, al Paese che volendo si può.
L'iniziativa Italiana diventerebbe rapidamente, se diretta da uomini che sapessero e osassero, iniziativa Europea.
E scrivendo questa linea m'è impossibile non aggiungerne alcune di sorpresa e lamento.
L'orgoglio, quando si sperde intorno a misere ambizioncelle dell'io e s'affatica a crear superiorità artificiali di ricchezza, di potenza o di quella fama d'un giorno che Dante paragonava a un color d'erba che va e viene, è colpa e meschina. Ma l'orgoglio raccolto intorno all'anima dal ricordo dell'ultima parola dei martiri per una idea, dalla voce profetica di tutta una tradizione religiosamente interrogata, da una riverenza che adora ogni indizio di disegno provvidenziale, da un immenso amore per la terra che vi fu culla, e ha le tombe dei vostri più cari, da un senso di vita collettiva che abbraccia quanti vi furono, sono e saranno più strettamente fratelli, dalla tacita eloquenza d'una natura che si stende, privilegiata oltre ogni altra, intorno a noi quasi mormorandoci: siate grandi quant'io son bella,—e versato sulla [283] Patria, sulla Nazione nascente, sulla Bandiera, alla quale il mondo guarda per vedere s'è bandiera di Popolo annunziatore o di gente inutile, senza nome e senza missione—è cosa santa e pegno di grandezza futura al Paese nel quale si mantiene perenne, coscienza e fiamma alla vita. Sentono quest'orgoglio i nostri giovani, o l'hanno sommerso nel disprezzo dell'ideale, al quale oggi li alletta un materialismo che fu sempre conseguenza o preludio di servitù? A me quest'orgoglio del nome italiano insuperbì nell'anima fin da quando, nel silenzio comune e fra le mura d'una prigione, mi prostrai davanti al pensiero d'una Italia repubblicana iniziatrice in Europa e giurai fede alla sua bandiera. Come i figli della Polonia portavano con sè nella proscrizione, quasi reliquia, una zolla della loro terra, portammo, io e i miei amici, quel sacro pensiero con noi nell'esilio e lo serbammo incontaminato per voi, o giovani, sperando che lo raccogliereste in tempi migliori, quando vi sarebbe dato di tradurlo in fatto. E oggi vi è dato. Oggi l'Europa è in tali condizioni, che a voi basta il sorgere a compire, in nome d'un principio e affratellandovi arditamente coi Popoli che v'aspettano, la vostra Rivoluzione Nazionale, perchè la vostra Patria diventi iniziatrice d'un'Epoca e guidatrice delle Nazioni sulla via del Progresso. Una dichiarazione di Principî, dettata da Roma libera ai Popoli e appoggiata da due o tre atti ai quali più volte accennai, darebbe all'Italia un Primato morale, che da oltre a mezzo secolo è vacante in Europa.
Se agli uomini che, invecchiati anzi tempo, si chiamano pratici perchè hanno imparato a tacere, e patrioti perchè agli inevitabili errori del povero Lanza antepongono le colpe subdole di Rattazzi, la iniziativa italiana in Europa sembri folle utopia, poco monta. Ma i giovani? I giovani delle Università e della classe educata alle lettere e alle arti? I giovani che hanno in custodia nell'esercito la bandiera della Nazione, e sanno di potere con un fatto collocarla all'antiguardo d'Europa? I trentamila volontarî che dal Trentino all'estrema Sicilia fecero battesimo del loro sangue all'Unità del Paese? I popolani che, vergini d'anima e devoti per istinto non contaminato da calcoli all'avvenire d'Italia, adorano la religione e la poesia dei grandi ricordi? Son essi muti al pensiero della loro Patria fatta, da un atto energico di volontà, prima tra le prime e centro di moto pel bene alle Patrie sorelle? Sanno che dalla coscienza d'un alto dovere, d'una solenne missione da compiersi move tutta una Educazione e che il carattere d'una iniziativa determina tutta una lunga vita di Popolo? Rammentano che, soltanto per quella coscienza, la vita di Roma fu vita del mondo e che ciascuna delle nostre città repubblicane scrisse, nel medio evo, una pagina di gloria e d'incivilimento nella storia europea? Sentono in core l'immensa potenza che dovrebbe emergere dalle cento città d'Italia unite ad un fine, e che il sorgere della Nazione a guisa d'ancella sommessa, timida, incerta, tanto che il mondo non si avveda neppur di quel sorgere, è—per essa—scadere? Se gli Italiani possono guardare alle condizioni nelle quali versa oggi l'Europa e non vedervi i segni di un'Epoca, che aspetta e accoglierebbe con entusiasmo l'iniziatore, sono ciechi. E se lo vedono, ma dicono a sè stessi: altri può esserlo, noi non possiamo—sono imbelli e indegni davvero del nome che portano.
No: gli Italiani non saranno nè ciechi nè imbelli. Ma ricordino che dieci anni d'interruzione nel moto sono lungo periodo; che l'inerzia genera l'inerzia; che la corruzione non combattuta ingigantisce rapidamente e minaccia le sorgenti della vitalità; che le delusioni durate per breve tempo irritano gli animi, durate a lungo li affogano [284] nell'immoralità dello scetticismo; che gli uomini, anche maledicendo, s'avvezzano a tollerare; che il disonore prolungato è la morte delle Nazioni; che le popolazioni ineducate son facili ad accusare dei loro mali, non l'interruzione della Rivoluzione, ma la Rivoluzione stessa; che il federalismo, muto dieci anni addietro, accenna oggi a rivivere; che gli indugi non fruttano ormai se non alle fazioni retrograde; e quanto più si prolunga la resistenza a una crisi inevitabile, tanto più la crisi riesce violenta e pregna di quei mali, ai quali sul cominciare di questo scritto accennai.
Comunque, quando l'iniziativa popolare s'assumerà il compimento del moto Nazionale Italiano, importerà che si raggiunga il fine colla maggiore rapidità e colla menoma violenza possibile. E le vie, se non erro, son queste:
Unità di bandiera. Isolare la questione di Roma; prefiggersi a programma una battaglia col Papa-re: ricominciare imprese, generose un tempo e feconde, impossibili attualmente e che non toccano se non un termine del problema, è oggimai colpa più che follìa. L'emancipazione di Roma—nè avrei mai creduto di doverlo ripetere—si compie in Genova, Milano, Bologna, Torino, Firenze, Palermo e Napoli, non altrove. L'Italia deve esser base secura d'operazione all'impresa. Una frazione d'arditi non riescirebbe che a chiamare, prima d'entrarvi, in Roma nuove forze francesi. A un fatto compito dalla Nazione in armi, nessuno oserà mover guerra.
Programma semplice, chiaro, puro da un lato di reticenze ed equivoci, puro, dall'altro, d'ogni voce che accenni a sistemi non definiti e molteplici, capaci quindi di false interpretazioni e di suscitare calunnie e terrori. Le due parole aggiunte da molti in Francia alla parola repubblica, inutili e senza valore pratico, hanno scisso il campo e indugiato il lavoro d'emancipazione più ch'altri non pensa. Chi mai può in oggi sognare d'una Repubblica fondata, come nell'antica Venezia, sopra un patriziato che più non esiste? Chi può intendere l'Instituzione repubblicana, se non come fatto anzi tutto sociale e mezzo al rapido miglioramento delle misere condizioni economiche dei più fra i produttori? Ma chi può, d'altra parte, esigere dichiarazioni solenni di socialismo, prima d'aver detto a quale fra i tanti sistemi cozzanti l'uno contro l'altro egli attribuisca quel nome? E a che varrebbe l'accettazione di quella voce straniera, quando chi l'accetta la intende probabilmente in modo diverso dal vostro? I soli pegni efficaci dell'avvenire sociale invocato stanno nell'attiva predicazione delle idee ragionevoli, desunte dal moto dell'Epoca e dai serî lavori di quanti hanno cercato e cercano di definirlo: stanno nell'ordinarsi del Popolo alla solenne espressione de' suoi più urgenti bisogni, nella scelta accurata degli uomini chiamati a dirigere, nelle questioni proposte dagli elettori ai membri dell'Assemblea, che dovrà dettare il Patto della Nazione.
Azione rapida e aperta di quanti credono necessario il compimento dell'impresa nazionale, di quanti s'avvedono che il moto è veramente di popolo destinato a vincere. Le incertezze, il tentennare, il fanciullesco amor proprio di quei che indugiano a dar l'opera loro perchè jeri non credevano venuto il momento, non impediscono lo svolgersi dei fati, ma prolungano la crisi, irritano gli animi di quei che iniziano e cacciano il germe di categorie funeste in futuro. La legge dei sospetti in Francia ebbe origine dall'esistenza degli uomini del dì dopo. Nei grandi rivolgimenti nazionali è concesso, se conseguenza di convincimento, l'essere ostili, non l'esser tiepidi. Dove si tratta di cose che involvono la salute del Paese, ogni uomo ha debito di combattere [285] per impedire, o di secondare; e quando un fatto appare inevitabile, unica via perchè assuma condizioni normali e s'inanelli alla vita del Paese, è quella d'accentrarvisi intorno e giovarne il pronto sviluppo: gli uomini o le classi, che per mal fondati sospetti o indegno egoismo si ritraggono e lasciano un solo elemento a compirlo, preparano gravi mali al Paese e a sè stessi.
Scelta dei pochi—dacchè la Dittatura è, in una impresa di libertà, illogica e pericolosa—chiamati a dirigere il moto fino al momento in cui, raccolta la Costituente Nazionale, il Paese esca dalle condizioni provvisorie e ripigli vita normale: da quella scelta e dai primi atti di quel piccolo nucleo dipendono il carattere dell'iniziativa e metà del successo. Di fede provata, d'immacolata onestà, d'intelletto diritto e logico, di tranquilla pertinace energia, incapaci d'odio e di spiriti di vendetta, quelli uomini devono conoscere le condizioni di Europa e sentire la forza ch'è nell'Italia: devono esser capaci di movere arditamente al fine senza guardare al di là del Paese; capaci d'intendere che l'Europa governativa oserà s'essi titubano, rimarrà inerte se si mostrano forti e decisi, capaci di sommovere i Popoli, se i Governi s'atteggiassero a offesa o minaccia.
Riunione di Commissioni numerose nelle diverse zone d'Italia chiamate dai Municipî, dai Consigli locali e dai Delegati dell'Autorità governativa, a dirigere inchieste sulle condizioni morali, civili, economiche delle loro zone e preparare materiali ai lavori della futura Assemblea. Commissioni siffatte gioveranno a rassicurare gli animi sospettosi, a determinare il fine del moto Nazionale e a invigilare a un tempo la condotta del Governo d'Insurrezione.
Ma, e anzitutto, coscienza, negli iniziatori, dell'altezza e della santità dell'Impresa. L'Italia e l'Europa devono avvedersi dal loro linguaggio e dai loro primi atti che, sacerdoti del Dovere Nazionale, essi sono migliori di quei ch'oggi lo violano o lo fraintendono: che essi sono deliberati di vincere, ma non oltrepassando d'una linea la condotta indispensabile alla vittoria: ch'essi combattono per l'onore della Nazione e lo mantengono puro, incontaminato d'ogni macchia d'odio, di vendetta, d'intolleranza: che vogliono fondare un Governo morale e sono morali: che intendono a conquistare libertà di coscienza, di parola, d'associazione, non per sè, ma per tutti: che intendono a rivendicare le frontiere d'Italia, ma senza usurpar sulle altrui: a riconquistar colla forza Roma, negata dalla forza alla Patria, ma senza persecuzioni alle altrui credenze e lasciandone la vita e la morte all'apostolato pacifico del pensiero: che amano quanti nascono nella loro zona e si prefiggono di migliorare le condizioni dei più, non di peggiorare quelle dei pochi: che, come aborrono dal monopolio privilegiato d'una classe sulle altre, aborrono dall'antagonismo tra classe e classe: che la loro è bandiera d'associazione, non di risse civili: che sorgono a compire una Rivoluzione Nazionale interrotta, non a ricominciarla o perpetuarla.
A questi patti s'ha diritto di vincere: a questi patti si vince.
Io devo, dopo oltre a due mesi di silenzio forzato, una parola sul passato e sulle condizioni presenti al Partito: e questa parola deve esser libera d'ogni riguardo fuorchè all'amor del vero.
Il Partito ha, negli ultimi tempi, tradito il debito proprio, e con esso i fati del Paese.
Il dolore, ch'io sento profondo nello scrivere queste affermazioni, deve essermi scusa all'acerba franchezza.
Primo debito d'un Partito che professa una fede, dal cui trionfo dipendono l'onore e la grandezza della Nazione, è quello di non illudere sè stesso e altrui intorno alle proprie forze e alle proprie intenzioni. Il Partito ha violato quest'obbligo: ed è quindi scaduto, nè può risorgere se non facendone ammenda e accogliendo, senza ribellione d'amor proprio da qualunque sia proferita, la verità.
Dopo Mentana, dopo il rinnovamento della Convenzione, dopo fatti governativi, turpi oltre ogni dire, di persecuzione e corruttela; dopo avere da un lato calcolato il danno, che scendeva inesorabile dal sistema regnante all'educazione morale e alle condizioni materiali del Paese, ed esplorato dall'altro com'io potea le forze ordinate del Partito e le tendenze generali delle popolazioni d'Italia, dissi agl'influenti che rappresentavano nelle diverse zone i repubblicani, ch'io credeva fosse giunto il momento di sostituire al periodo dell'apostolato un periodo d'azione, e che, secondo un mio convincimento radicato in me tuttavia, una forte e vittoriosa iniziativa sopra uno o due punti strategicamente e moralmente importanti basterebbe a sfasciare una Instituzione, che non aveva omai nè intelletto, nè ardire di fede in sè, nè prestigio d'illusioni, nè fiducia de' suoi, nè compattezza d'esercito. E dissi ad un tempo che l'azione, santa pel fine e provocata dalle circostanze, diventerebbe nondimeno immorale, creando pericoli e sacrificî senza speranza, se chi doveva iniziarla non si sentisse forte di determinazione e moralmente convinto di poter vincere.
Io chiedeva risposta sincera e che non soggiacesse menomamente a influenza mia o d'altro individuo qualunque.
Mi fu detto: siamo concordi con voi: possiamo e vogliamo. E mi recai in Italia per ajutare i preparativi supremi e assumermi la parte di pericolo che mi spettava.
Allora cominciò un periodo d'esitazioni, di tentennamenti, di diffidenze [287] reciproche, di paure e d'errori, ch'io non vorrei per tutte le felicità terrestri ritraversare, e dal quale raccolsi che il Partito non era maturo per forti fatti, nè educato finora alla coscienza della propria missione e della propria potenza.
Io non ridirò una storia che i più tra quelli pei quali scrivo conoscono, ma ne accennerò i sommi capi.—Uomini tra i più prodi in battaglie già iniziate affacciarono, troppo tardi e quando la parola d'azione era già corsa nelle file, la necessità d'aspettare una opportunità che creasse agitazione di piazza nel popolo; ed io pure preferiva quel metodo, ma chiedeva al Partito di creare esso medesimo, con radunanze per le tasse, per Roma o per altro, quell'agitazione: ed essi volevano aspettarla impreveduta e di altrove. Le opportunità inaspettate sorsero, sorsero due o tre volte; ma le città che dovevano afferrarle rapide come il ciuffo della Fortuna, e lo avevano promesso, mandavano allora a ottenere promesse di seguire, già più volte date, dall'altre, e le opportunità passavano. Altri, scambiando il problema d'insurrezione, che deve fondarsi su tendenze accertate nelle moltitudini, in un problema di guerra, chiedevano materiale, ordini, capi, disegni strategici senza fine.—Tutte le città si dichiaravano pronte, anelanti a seguire, nessuna a iniziare: intere zone, che in altri tempi sollevavano la bandiera, non sospettavano neanche che si potesse dire ad esse: due milioni d'uomini bastano sempre, se vogliono, ad esser seguiti: e la possibilità del moto si riduceva quindi a due o tre luoghi determinati. E da quei luoghi, gli uni parlavano ad ogni tratto di fare in qualunque modo, gli altri ricusavano tutti i modi proposti senza determinarne migliori. Poi, conseguenza inevitabile, si separavano, s'aspreggiavano, con diffidenza esagerata, gli uni cogli altri, invece d'intendersi e discutere con amore. Ebbi promesse di fatti complessivi importanti che sommarono in nulla o si ridussero a ebullizioni di bande o sommosse disapprovate da me, che pur tradivano l'elemento vulcanico latente, ma che invece somministravano argomento d'inerzia a chi non sapeva osare. E gli uomini noti e consenzienti con noi, in Parlamento e fuori, la cui azione insieme alla nostra avrebbe assicurato il successo, rimanevano inerti per poi dirci: vedete che non potete riescire. Finchè, disperato non del fare o non fare, ma del disfarsi del partito nei continui annunzî di fatti che non si ottenevano, m'avviai dove pure s'era solennemente promessa azione immediata, e fui preso.
E mentre ero in Gaeta si svolse più sempre la guerra che, sottraendoci il solo temuto nemico, ci lasciava padroni dei nostri fati: venne la settimana di tentennamenti, di ordini e contr'ordini governativi nella mossa su Roma: venne la caduta di Luigi Napoleone e la proclamazione della Repubblica; e nulla si fece, e la promessa data pubblicamente dai patrioti genovesi alla Francia, che l'Italia, s'essa sorgesse a Repubblica, la seguirebbe, si ridusse allo schierarsi di un pugno di volontarî sotto la bandiera francese, come se la inspirazione repubblicana dovesse, fatalmente, essere muta in Italia, o l'ajuto d'una Nazione fatta anch'essa Repubblica non dovesse riescire ben altrimenti efficace.
È forza il dirlo: il popolo è in Italia maturo: gl'influenti chiamati naturalmente a guidarlo, nol sono; mancarono e mancano, prodi come pur sono in campo, del coraggio morale, che solo crea le Nazioni: della fede che vien dall'amore; del culto al principio; dell'intuizione che rivela la forza latente e presta a suscitarsi nel popolo. Non è in essi finora virtù iniziatrice.
Intanto la situazione è mutata.
La caduta dell'Impero e la presunzione mal fondata, pur troppo che noi ne profitteremmo, ha spinto la monarchia verso Roma. Guasta, sviata, profanata com'è, Roma, fatta città italiana, è oggi, in virtù del passato e dell'avvenire, centro, perno, anima della Nazione. Nessuna grande questione può oggimai sciogliersi senza prima accertare quale sarà la condotta di Roma. E inoltre, l'iniziativa, abdicata dai nostri, spetta oggi al Governo: a' suoi errori, alle sue transazioni col Papato, al suo resistere agli istinti della Nazione. È d'uopo attenderne le decisioni manifestate, e prendere norma dalla sua condotta. Chiaritosi incapace di crearsi la propria opportunità per agire, il Partito l'aspetterà inevitabilmente da essa.
L'attività del Partito deve ora concentrarsi in gran parte su Roma, a infondere in essa il Pensiero italiano ch'essa deve rappresentare nel mondo; a richiamarla alle grandi sue tradizioni; a darle coscienza di ciò che la Nazione aspetta da essa; a rendere impossibile ogni vita del Papato fra le sue mura.
Un'agitazione pubblica dovrebbe iniziarsi con adunanze tenute in ogni città per sancire che da Roma deve escire, consecrazione della nuova vita della Metropoli, per opera d'un'Assemblea Costituente convocata dal suffragio universale, Il Patto Nazionale Italiano.
Ogni agitazione, che sorgesse tendente all'abolizione del Giuramento o d'altra qualunque esclusiva guarentigia monarchica, dovrebbe essere secondata.
E mentre l'ajuto dato a tutte le agitazioni miranti a chiarire la radicale opposizione esistente fra la monarchia e il progresso libero della Nazione creerebbe presto o tardi l'opportunità all'Azione popolare, unica via per la quale può risolversi il problema vitale, il lavoro ordinato dei nostri dovrebbe rafforzarsi e preparare più sempre l'elemento destinato ad afferrare quella opportunità inevitabile.
L'Alleanza Repubblicana deve tendere a moltiplicare i suoi nuclei—ad ajutare la stampa repubblicana e diffonderla nell'Esercito—ad affratellarsi più sempre colle Associazioni Operaje—ad evangelizzare, contro le calunnie e le stolte paure, ciò che la Repubblica è e ciò che non è—a educare i suoi a rinnegare il pregiudizio monarchico, che limita la possibilità di una iniziativa a tre o quattro città principali, e peggio, all'azione d'uno o d'altro individuo qualunque ei siasi—ad avvezzarli a sentire che se la disciplina è virtù essenziale d'ogni ordinamento finchè l'opportunità non è sorta, l'osare è virtù suprema di popolo quando è sorta, e mezzo sicuro di trascinare i capi che tentennano soltanto perchè diffidano—e a dirigere, senza inutili e funeste congiure, un assiduo apostolato di principî fra le file dell'Esercito Nazionale, dove abbonda più che generalmente non è creduto l'elemento italiano, ove aumentano ad ogni ora le cagioni del malcontento, ed è vivamente sentito il disonore che paci vergognose e guerre tradite hanno versato sulla bandiera.
È questo il dovere dell'oggi: al resto provvederanno Dio, i fati assegnati all'Italia e gli errori inevitabili della monarchia.
Noi fummo inferiori ai nostri propositi e alle circostanze: ma questo sentimento deve spronarci al meglio e a correggere i vizî che sono in noi, non a prostrarci nel dubbio e in una inerzia colpevole. Vive in voi pur sempre la forza, che non abbiam saputo dirigere al fine.
Ma in questo nuovo periodo di lavoro, voi, è necessario ch'io lo dica, non potete, fratelli miei, avermi oggimai compagno d'ogni ora, corrispondente assiduo con ogni nucleo, consigliero in ogni piccola difficoltà. Vostro e della Sacra Causa alla quale giurammo è questo logoro avanzo di vita ch'io ho.
Voi mi conoscete abbastanza per sapere che l'opportunità, dove sorga me vivo, non mi troverà lontano, e che voi non farete opera decisiva e degna di voi, senza ch'io mi trovi con voi l'ora prima o l'ora nella quale agirete. Ma sono inoltrato negli anni, infiacchito nella salute e incerto, pur troppo, pei fatti e le delusioni dell'ultimo periodo, dell'avvenire immediato. Sento il dovere di tentare di giovare all'educazione di quei che di certo opereranno nel futuro, degli operaî segnatamente, ch'io amo, e che hanno in sè gran parte dei fati italiani, scrivendo per essi tutti pubblicamente e con qualche lavoro politico-storico, impossibile finchè ogni minuto del mio tempo è assorbito da una corrispondenza con quanti professano la mia fede concernente i menomi particolari d'un ordinamento segreto, inutile se non conduce all'azione, facile ormai se spirito d'azione è in voi.
Norme, metodo, fine, tutto in questo ordinamento fu da lungo determinato.
Voi non avete oggimai bisogno giornaliero di consigli, nei quali io non potrei ripetervi se non cose dette e ridette. Nè avete bisogno da me o da altri di sprone: se lo aveste, sareste indegni della Causa che propugnate; sprone d'ogni ora deve esservi lo spettacolo della vostra Patria com'è oggi, e la coscienza di ciò che un Governo nazionale davvero potrebbe farla.
Non v'aspettate dunque da me contatto regolare e moltiplicato: e nessuno s'offenda del mio silenzio. Sento per me impossibile la continuazione d'un lavoro, che non sarebbe se non ripetizione, probabilmente sterile, del passato.
Lavorate soli e tempratevi a forti fatti come siete oggi temprati a nobili desiderî. Io saprò dei progressi che voi compirete, e voi udrete di tempo in tempo la mia voce a dire a tutti quel tanto di vero essenziale che mi parrà d'intravedere.
Poi, se vorrete e vivrò, m'avrete compagno nell'azione. Prepararla è còmpito vostro: còmpito mio è prepararmi a morire degnamente con voi e per voi, quando sentirete di potermi dire, senza illudervi e illudermi: l'ora è suonata.—Addio.
5 novembre 1870.
Vostro
Giuseppe Mazzini.
La guerra Franco-Germanica è una espiazione per la Francia e un grave insegnamento per noi: è la prova, nella sfera dei fatti, d'una verità che proferimmo noi primi e che, se riconosciuta e accettata, modificherebbe il punto di mossa degli intelletti dati agli studî storici, emanciperebbe gli animi da un errore che fu negli ultimi cento anni fatale, e susciterebbe a nuova direzione di attività la coscienza dei popoli.
Nel tumultuoso affannarsi delle menti intorno alle vicende d'una guerra non impreveduta, ma pregna d'impreveduti rapidi eventi, la necessità di desumere imparzialmente dalla grave sciagura europea le lezioni che covano in ogni grande sciagura e ne formano il solo compenso, fu dimenticata. L'osservazione giornaliera fu inevitabilmente superficiale e assunse colore di parte. Gli uni si fecero esclusivamente francesi, gli altri esclusivamente germanici: taluni parteggianti per la Germania fino a Sedan, cominciarono d'allora in poi a parteggiare per la Francia, dimenticando che la guerra, provocata da Luigi Napoleone, doveva, iniziata una volta, assumere carattere di guerra tra due Nazioni e che ogni guerra ha per intento, non il vincere, ma l'ottenere condizioni di pace che sopprimano la necessità di combattere e vincere una seconda volta. Udimmo, da un lato, citazioni di ricordi storici a provare le ripetute offese alla Germania e le usurpazioni territoriali consumate o tentate in passato dalla Francia, come se tutte quasi le Nazioni non fossero state nel loro sviluppo egualmente colpevoli e la famiglia teutonica non possedesse anch'oggi tutta una considerevole zona usurpata su popolazioni slave, italiane, magiare;—dall'altro, parole stoltamente concitate sulle bombe gittate in Parigi, come se i soldati di Francia non avessero ventidue anni addietro bombardato Roma e non fossero presti, ove la fortuna arridesse, a bombardare Berlino; parole anche più stolte di Barbari e di nuovi Unni avventate ai Tedeschi per pochi fatti isolati inevitabili in una guerra combattuta fra quasi due milioni d'uomini in armi e quando le norme generali date dal comando germanico furono innegabilmente norme di battaglia leale, generosa talora. Ogni guerra è duello più o meno feroce. L'Europa deve rimproverare sè medesima se invece d'affrettarsi, coll'abolizione delle dinastie, la confederazione repubblicana dei popoli e una Instituzione internazionale di Arbitri in tutte contese, a sopprimerne le cagioni, è condannata a guaire inerte e impotente sui mali che ne derivano e proferire insani aforismi sui beneficî d'una pace perpetua impossibile [291] finchè i popoli non sono ordinati in assetto fondato sul Giusto e sulle naturali tendenze. Ma fino a quel giorno, ciascuno dei combattenti ha dovere, in nome della propria Nazione, di vincere; e se, per riverenza a una cattedrale o a una galleria, l'esercito germanico avesse rispettato Strasburgo e Parigi o ripassato, pago d'aver vinto a Sedan, la frontiera, cinquecentomila tra vedove e madri in pianto avrebbero avuto il diritto di dirgli: «Noi v'abbiamo dato la vita dei mariti e dei figli, non perchè l'orgoglio germanico fosse accarezzato dalla vittoria, ma perchè si conquistassero pegni di non dovere ripetere sacrifizî siffatti nell'avvenire.»
Altri, non sapendo darsi ragione dei subiti e continui rovesci toccati all'armi, riputate invincibili, della Francia, travolsero il proprio intelletto e l'altrui nel falso sistema storico che, nel secolo XVIII, attribuiva, duce Voltaire, i grandi eventi alle piccole cause: idearono tradimenti deliberati dove il tradimento non aveva scopo possibile e avrebbe infamato senza pro il traditore: mutarono in colpe premeditate, in disegni architettati da lungo, tra i nemici d'ogni libertà, errori ch'escirono da una fiacchezza frutto delle condizioni generali di Francia: spiegarono i più decisivi risultati della guerra con una inferiorità, non esistente, nell'armi, con un menomo errore di tattica di un generale, con un indugio di pochi giorni in una mossa strategica: incolparono i capi della difesa di Parigi perchè non ruppero con un vigoroso assalto la cinta d'assedio, quando oggi sappiamo che ogni vigore di battaglia era impossibile cogli elementi dei quali la difesa poteva disporre e di fronte all'assioma strategico che non si vince un potente esercito ordinato ad assedio se non armonizzando le mosse interne con quello di forze esterne sempre lontane, sempre respinte e disfatte nei loro tentativi per avvicinarsi: pensarono che se agli uomini preposti alla Difesa Nazionale si fossero sostituiti due o tre agitatori violenti, la Francia avrebbe rinnovato i miracoli del 1792 e respinto da sè, come il vulcano fa della lava, l'invasore straniero: dimenticarono che, maturo per forti fatti un paese, i capi non mancano mai—che sola la insurrezione nazionale poteva salvare la Francia—che in una guerra di nazione come quella della Spagna nel 1808, della Grecia nel 1821, della Francia nel 1792, il tradimento compito in un punto non soffoca il moto sugli altri—e che la rivoluzione dell'ultimo secolo ebbe traditori, defezioni, ribellioni interne, dissolvimento d'esercito, clero e patriziato nemici, città di frontiera conquistate dallo straniero, e non cadde per forza altrui: morì suicida, quand'era al sommo della vittoria.
Alle due cagioni di errori accennate s'aggiunse, a mezzo alla guerra, una terza e la più potente coi nostri: il fascino esercitato dalla parola Repubblica. Da quando quella parola fu proferita come formula di Governo in Parigi, i giudizî mutarono: la guerra diventò, per le anime più santamente bollenti di culto all'idea, guerra non di nazioni contendenti per sicurezza o incremento territoriale, ma di principî, di libertà repubblicana contro la monarchia invaditrice. E d'allora in poi si falsarono più sempre i giudizî sui fatti: ogni mossa germanica innanzi parve delitto: ogni necessità inseparabile dalla contesa, ferocia gratuita; ogni esigenza d'un popolo irritato o sospettoso del futuro, vendetta regia. Il vecchio prestigio rivisse tacitamente nei cuori: l'antica speranza che dalla terra accettata da tutti per lunghi anni come iniziatrice di progresso all'Europa partisse finalmente il segnale di rimettersi in via rialbeggiò nella mente dei migliori tra i nostri giovani. La formazione del campo Italiano, che fu poi l'esercito dei Vosgi, ebbe luogo.
Gloria a quei giovani, a quei che diedero la vita e a quei che l'offrirono! Speranza della nostra terra e della nostra fede, essi meritano da noi tutti amore e riconoscenza. La più splendida pagina della guerra, solenne di fratellanza e di solidarietà dei popoli nel futuro, fu scritta da essi e segnata, come s'addice a uomini che sentono l'unità umana nell'accordo tra il pensiero e l'azione, col sangue. E quella pagina, lezione profonda alla Francia, dirà per quanto duri la storia: «voi, quando eravate ancora alteri d'una bandiera repubblicana, lasciaste ch'altri vi trascinasse a sgozzare la nostra Repubblica in Roma; i repubblicani d'Italia accorrono a morir per la vostra.» È vendetta nobile e repubblicana davvero; e Dio vi benedica, o giovani, per averla compita. Non è colpa vostra se non poteste, facendo altro, porger più valido ajuto alla fede nostra e alla Francia.
Ma la condotta di quei prodi non deve traviare il nostro giudizio dei fatti. La guerra Franco-Germanica non è guerra di principî. Posteriore ad essa, la Repubblica non sorse in Francia voto spontaneo e deliberato di popolo che si leva in nome dell'eterno Dovere ad affermare la propria libertà ed il proprio diritto di non aver padrone da Dio e dalla sua Legge Morale infuori: fu conseguenza di fatto, escita dalla situazione, dalla codarda abdicazione di Luigi Napoleone e dall'assenza d'ogni altro Governo: collocò, sorgendo, le sue speranze, non nelle forze vive e nell'energia del paese, ma negli ajuti impossibili delle potenze neutre; e a blandirle, ad addormentarne i timori, celò quanto più potè il principio sotto l'intento della Difesa; scelse a primo rappresentante inviato a ogni corte, poco monta se dispotica o no, l'uomo della monarchia orleanista come Instituzione, del napoleonismo come sistema; evitò di raccogliere un'Assemblea che, convocata nei primi giorni del mutamento, avrebbe di certo inaugurato una politica repubblicana e si astenne dal dire in un Manifesto ai popoli dell'Europa: la Repubblica, annullando il plebiscito che gettò la Francia ai piedi d'un usurpatore, annulla tutti i plebisciti intermedi, ripudia gli atti internazionali del periodo bonapartista, riannette la propria tradizione politica col 1792 e col 1848, rinnega solennemente ogni idea di conquista ed è presta, occorrendo e chiedendo reciprocità d'obblighi, a combattere per l'unità territoriale Germanica contro ogni straniero che tentasse impedirla. Bismarck, uomo, come Cavour, di tendenze e non di principî, veneratore come lui della Forza e dei fatti, più avveduto di lui e consapevole della potenza che vive nella patria Germanica più assai che Cavour non era di quella che freme latente in Italia, non guerreggia contro la Repubblica nella quale ei crede d'intravedere una sorgente di debolezza pel popolo rivale, ma contro la Francia e per creare con nuovi acquisti una sorgente di perenne influenza alla Prussia. La Germania combatte, su via non buona, per la nazionalità minacciata in essa dal cesarismo ch'essa crede, esageratamente, incarnato tuttora nel popolo Francese. E noi abbiamo debito e diritto di dirle che, come noi Italiani c'illudemmo, essa s'illude, e che la Prussia monarchica potrà darle la forma non l'anima dell'Unità, il simbolo materiale, non la vita della Nazione: possiamo dirle che il mancare di generosità nel vincere dimezza il merito e i frutti della vittoria—che l'impadronirsi, senza libero voto dei cittadini, d'una zona di territorio, perchè la Francia vincitrice avrebbe forse fatto lo stesso, è tristo insegnamento di libertà al popolo che compie quel fatto e somma a ripetere l'immorale consiglio dato a noi talora dagli uomini del terrore: «siate intolleranti e feroci perchè i nemici d'ogni libero progresso son tali»—che l'annettere oggi, per via di conquista, quella zona alla Germania è un decretare inevitabile [293] fra pochi anni una seconda guerra tra le due Nazioni e creare anzi tratto, come fece l'Austria usurpando il Lombardo-Veneto, una base e un potente ajuto al nemico che tra due popoli forti di 37 o 40 milioni d'uomini i metodi di guerra attuale non concedono altra barriera che i petti dei combattenti, la scienza dei capi, i mezzi finanziarî e l'ardire—che i Pirenei e le Alpi si valicano dagli eserciti e le linee di monti, tremende all'invasore nell'interno delle terre invase, non furono mai nè saranno, se collocare sulla frontiera, ostacolo all'invasore; ma non possiamo, senza ingiustizia e follia, parlar di crociata repubblicana contro una brutale tirannide e avventare il nome di barbaro a chi, padrone d'imporre o di minacciare, lascia compiersi libere[156] le elezioni e raccogliersi un'Assemblea che potrebbe, volendo, in nome della Repubblica, respingere le proposte e romper guerra domani. La Repubblica è per noi cosa santa; ma il nome solo non basta; e il feticismo non è Religione. Dal Governo, con qualunque nome si chiami, il cui Delegato dichiara, quasi parodia del giammai di Rouher: abitanti di Nizza, voi appartenete da oggi in poi alla Francia, ed esilia, come nemico dell'integrità territoriale Francese, un cittadino che scrive con tendenze italiane un articolo di giornale, non escirà l'iniziativa della Repubblica universale. Se pensassimo altrimenti, non detteremmo articoli per La Roma del Popolo: saremmo noi pure in Francia.
Ad annuvolare intanto più sempre le menti, taluni gemono terrori sull'avvenire e intravedono nella sconfitta della Francia l'agonia della razza Latina, nella vittoria Prussiana il cominciamento d'una nuova èra di militarismo, nel destarsi dal pensiero all'azione della razza Germanica una prepotente invasione di Teutoni; e dietro ad essi la Russia, lo Tsar: terrori vani e argomento di pregiudizî e di considerazioni superficiali politiche. Quei profeti di sventura all'Europa dimenticano che l'espiazione ritempra; che la Francia, rinsavita dall'errore che una missione compita dia privilegio d'iniziativa perenne nello svolgersi dei fati d'un mondo, risorgerà più pura e più forte alla ricerca d'una nuova missione in un senso d'eguaglianza colle Nazioni sorelle; che una razza non more perchè la fiaccola irradiatrice delle vie del futuro trapassa d'epoca in epoca da uno ad altro dei popoli che la compongono: dimenticano che la civiltà Latina parve sparita, spenta per sempre nel V secolo e rivisse, col Papato, coi Comuni, coll'Arte, coll'Industria, colle Colonie, più potente di prima; che il principato, il materialismo e l'intervento cercato o servilmente accettato dallo straniero, sotterrarono, nel XVII, l'anima delle città italiane e che quelle anime spinte sotterra si confusero lentamente in una ed emergono oggi dal loro sepolcro di trecento anni chiamandosi Italia; che Roma è il sacrario della razza Latina, che da Roma escì due volte la parola unificatrice del mondo e che se prima Roma non è sommersa nel Tevere, la missione Latina vivrà eternamente trasformata e trasformatrice; dimenticano che un esercito di cittadini non fonda militarismo durevole; che tutti i cittadini entrano, in Germania, per tre anni nell'esercito attivo; che le questioni di politica interna rivivranno tra essi, dopo la pace, tanto più fervide quanto più quei cittadini soldati hanno conquistato col sacrifizio e colla vittoria coscienza di diritto e potenza; che il tedesco è popolo di pensatori e che il pensiero guida oggi inevitabilmente, dopo [294] brevi traviamenti, a repubblica: dimenticano che lo Tsar è un fantasma forte soltanto, come lo fu Luigi Napoleone, delle altrui paure e dell'assenza d'una saggia e morale dottrina politica nei Gabinetti Monarchici; che il primo popolo capace d'averla, limiterà l'azione possibile della Russia all'Asia dove può esercitarsi benefica; che la metà delle popolazioni Slave-Polacche, Ceke, Serbo-Illiriche, aborre dallo Tsarismo; che il giorno in cui noi, invece di paventarle, stringeremo alleanza con esse e aiuteremo il loro formarsi in Nazioni, le conquisteremo alla Libertà: che in quella zona di popolazioni Slave, stesa fra la Germania e la Russia e ostile per antiche e recenti usurpazioni alla prima, vive la nostra difesa contro la sognata invasione teutonica. L'asse del mondo Slavo è sulla Vistola e sul Danubio, non sulla Newa.
No; noi non temiamo per l'Europa o per noi le conseguenze della guerra e della vittoria Germanica; temiamo, per lunga esperienza, lo sconforto irragionevole che segue, ov'anche è meritata, una delusione. I popoli, gl'Italiani segnatamente, si sono illusi, per abitudini non vinte ancora, sulle condizioni e sulla forza attuale della Francia e illusi sul valore e sulle conseguenze della parola repubblica proferita in Parigi; la disfatta della Francia pare ad essi disfatta repubblicana a pro del principio monarchico, disfatta della Potenza dalla quale a torto speravano il cominciamento di un'èra. Scriviamo per combattere questo sconforto. Se gli uomini di parte repubblicana avessero antiveduto come noi—e per cagioni che nulla hanno di comune colla questione che ci sta a cuore—la disfatta francese; se non avessero, fraintendendo i termini della contesa, imprudentemente detto: là si combatte per la repubblica, là si vince per la monarchia, noi, tra due Nazioni che amiamo e stimiamo, preferiremmo anche oggi il silenzio. Ma importa dire ai nostri e agli avversi, che quanto è accaduto doveva accadere, che nulla è mutato nelle nostro speranze, come nei nostri doveri, che le condizioni essenziali dell'Europa rimangono le stesse di prima, che la monarchia non esce più forte dalla guerra attuale, che dove la repubblica non è che di nome, nessun argomento può desumersi a suo danno dalla sconfitta.
Dal cumulo delle affermazioni e delle opinioni proferite più o meno avventatamente sulla guerra Franco-Germanica emergono alcuni fatti innegabili, che giova registrare come base a un giusto giudizio e norma a desumere rettamente le conseguenze della vittoria germanica.
La guerra fu ideata, voluta, provocata senza cagione da Luigi Napoleone. Determinata poco dopo la pace di Villafranca, decretata dopo Sadowa, prenunziata dalla domanda d'una rettificazione di frontiere che la seguì ed ebbe rifiuto, data da quel tempo pubblicamente come parola d'ordine alle caserme, preceduta da ogni sorta di disegni e di preparativi militari, diventò finalmente necessità per l'Impero. A cattivarsi gli animi dei Francesi in qualunque impresa e per ogni sacrificio, Luigi Napoleone piegò, senza intenzione reale di libertà, dalle vie del terrore alle concessioni apparenti. E le concessioni, come ad ogni Governo che piega dal proprio principio, gli nocquero. La Francia, che aveva per lunghi anni tremato d'una potenza fondata su dispotismo illimitato e davanti alla quale l'Europa monarchica s'era tutta quanta servilmente curvata, sospettò vacillante nel padrone la coscienza della propria forza e ne trasse animo ad agitarsi. L'agitazione dei partiti, rifatta minacciosa davvero e ogni giorno crescente, [295] collocò l'Impero davanti al bivio o di ceder più sempre e spegnersi nella libertà rinascente o di rifarsi un prestigio in Francia e in Europa adulando, colla conquista di terre vagheggiate d'antico, l'ambizione della prima, cancellando con vittorie splendide, nelle tendenze volgenti all'ostile della seconda, i ricordi della disfatta subìta, per energia pertinace d'uomini repubblicani, nel Messico e vincolando a sè nuovamente colla gloria e le promozioni l'Esercito vacillante. Un milione d'uomini, tra morti, feriti e infermi, il commercio, l'industria, l'agricoltura d'Europa gravemente offesi por un decennio, un capitale incalcolabile per sempre perduto o sviato dalle sorgenti di produzione, un patto d'odio e vendetta tra due Nazioni chiamate a un patto di fratellanza e di progresso comune, tutto è opera di un calcolo di egoismo nudrito nella mente d'un solo individuo forte d'un potere usurpato col delitto e codardamente accettato. Non sappiamo—se i popoli vogliono raccogliere l'insegnamento—di condanna più irrevocabilmente severa contro il principio avverso a quello che noi propugniamo.
Sconfitto dall'esercito Germanico il Francese che volle e non seppe assalire, resosi prigione l'Imperatore e sorto in Parigi, nell'assenza d'ogni potere, un Governo provvisorio che si disse timidamente repubblicano, ma non fu in sostanza che Governo della Difesa, avremmo noi tutti voluto che fosse cessata la guerra. La Germania nol volle e, dobbiamo confessarlo, difficilmente il poteva. Retrocedere, dopo Sedan, mantenendo, come taluni suggerirono, l'occupazione della zona reclamata, era, di fronte agli eserciti che rimanevano, ai dipartimenti meridionali che s'ostinavano a battaglia e a Parigi libera e padrona di dirigere la resistenza, un perpetuare la guerra assumendone tutti gli svantaggi: rivalicare la frontiera senz'altro col solo orgoglio della vittoria, era, come abbiamo detto, un suscitare i giusti risentimenti dell'intera Nazione e rinunziare all'intento d'ogni guerra ch'è d'aver pegni per impedirne il rinnovamento. Il Governo della Difesa non voleva e non doveva concedere il pegno materiale richiesto e non poteva, provvisorio com'era e revocabile ad ogni istante, dar sicurezza morale. L'esercito Germanico s'avviò a Parigi. I fatti che seguirono diedero un altro grave insegnamento all'Europa, ed è che un popolo è, in parte almeno e quando tollera lungamente, responsabile dell'ingiusta immorale politica del suo Governo—che deve, per legge di cose, soggiacere alle conseguenze—che non basta a evitarle la caduta di quel Governo, quando è determinata, non da fede e sacrificio spontaneo del popolo, ma da un errore o da un atto codardo di quel Governo medesimo.
E questi insegnamenti furono confermati dai casi della guerra, dalla serie non interrotta di rovesci ai quali soggiacquero l'armi francesi; rovesci cominciati fin dai primi giorni e inaspettati anche a quelli che, come noi, antivedevano rovinoso per la Francia l'esito finale della contesa.
Quei rovesci furono dovuti a molte cagioni di natura apparentemente diversa, ma tutte più o meno direttamente connesse colla prima suprema cagione, il potere fidato a un sol uomo, e coll'altra dell'orgoglio francese che presumeva di vincer tutti e sempre o a ogni modo. La prima cagione era avversa naturalmente al progresso; la seconda fece gli animi noncuranti d'esso; norma regolatrice in ogni guerra dev'essere quella di stimare il nemico, e i Francesi lo disprezzavano e credevano inutile ogni riforma.
Una grande riforma s'era intanto compiuta nell'esercito nemico alla Francia. Per impulso dato segnatamente dal principe Federico Carlo [296] e seguito efficacemente da altri, la pedanteria militare prussiana aveva fin dal 1861 ceduto il terreno a una scuola più libera, più emancipata dal metodo servile che prescriveva il da farsi per ogni menoma contingenza possibile, e lo riduceva, come il Talmud gli Israeliti, a ufficio di macchina, costringendolo in ogni circostanza e per ogni atto a forme e regole prestabilite. Le istruzioni tattiche Prussiane di quell'anno iniziavano un nuovo periodo: affidavano gran parte dell'esecuzione di principî irrevocabilmente accettati dalla scienza guerresca al giudizio e all'inspirazione degli ufficiali: riconoscevano l'individualità e fondavano quindi più grave e più vigile la responsabilità. È questo il segreto di tutti gli ordini umani; e convalidato, quanto alla guerra, dal frequente successo dei volontarî, prevarrà più sempre in futuro nella difesa delle Nazioni. Soltanto, quel metodo esige più forti cure nella scelta degli individui destinati a funzioni speciali, nella costituzione dell'esercito, nel sistema delle promozioni, nell'istruzione sul maneggio delle armi dato a chi deve combattere, nella formazione anzitutto degli stati maggiori che dovrebbero accogliere gli ufficiali esperimentati migliori dei corpi e non appagarsi d'un esame di scuola politecnica o d'altra inefficace ad accettare le attitudini pratiche e di applicazione. Base dell'esercito Germanico è, come dicemmo nel numero antecedente, l'obbligo in ogni cittadino di ricevere una sufficiente istruzione militare e d'esser presto ad accorrere. E per intelletto dell'arte, studî d'ogni luogo sul quale accade o è probabile che accada un conflitto, provate abitudini pratiche, conoscenza di lingue e d'altro, lo stato maggiore è oggi in Prussia il migliore forse che esista in Europa.
In Francia, l'Impero, per le condizioni inerenti al sistema e appunto per l'obbligo che ad esso correva di far dell'esercito un'arme, non della Nazione ma d'un partito pericolante, ha diminuito nel soldato, naturalmente prode, la coscienza e l'entusiasmo del cittadino e allentato, dove quella coscienza è rimasta, il vincolo di fiducia tra soldati e capi senza il quale le vittorie non sono possibili. Il sistema del cambio, violazione dell'eguaglianza e della missione dei cittadini incoraggiata dai bisogni crescenti delle finanze imperiali, s'era negli ultimi anni aggravato di corruzione fatale alla forza delle file: la somma versata come sostituzione al servizio era presa; il cambio non curato, e le cifre pagate dal Ministero di Guerra rappresentavano un vuoto considerevole nella cifra reale dei soldati. I capi erano scelti a seconda, non del merito o della moralità, ma della loro devozione vera o presunta al bonapartismo: i generali, segnatamente cercati fra gli uomini delle guerre d'Algeria, guerre buone per avvezzare a tendenze ferocemente dispotiche e ad allontanare l'animo dall'effetto di patria, ma di natura diversa da quella delle grandi guerre regolari europee. Accarezzati da chi dovea serbarsi ad ogni patto in essi un ajuto contro il possibile insorgere del paese, quegli uomini intendevano la carezza, sentivano il bisogno che il capo supremo aveva d'essi e acquistavano impunemente abitudini e vizî di pretoriani: nuotavano nel lusso e lo tolleravano negli ufficiali: la depredazione s'era fatta, come nell'esercito Russo, tradizione in ogni ramo d'amministrazione militare e, come per l'armi Russe in Crimea, doveva produrre delusioni e disastri.
Il soldato, acuto osservatore e facile al biasimo in Francia più che altrove, indovinava e scemava di fiducia nei superiori e quindi di spirito di disciplina. Fondato sulla corruzione, l'Impero periva per essa. Le relazioni che giungevano a Luigi Napoleone sugli apprestamenti di guerra e sulle condizioni dei corpi erano menzognere: il [297] vero avrebbe svelato i guasti operati dalla cupidigia. Quelle che gli dipingevano la Germania meridionale pronta a sollevarsi contro la Prussia erano egualmente false: il danaro profuso a cospirare per Francia tra i cattolici di quelle terre e che di fronte al senso della patria germanica sarebbe pur sempre riuscito inefficace, aveva impinguato le borse dei segreti incaricati di quel lavoro. E—copiatore infedele dello zio—Luigi Napoleone non verificava, credeva: ingannatore, ingannato. Quando, dopo il suo giungere al campo, gli rifulse il vero, era tardi. Davanti a un esercito nemico mirabile per esattezza armonica di tutti i rami d'amministrazione militare, per capacità in ogni frazione di farsi, occorrendo, unità e operare da sè e nel quale il soldato era fidente nei capi e che certo nulla gli mancherebbe, ei si trovò, dopo d'avere dichiarato guerra e scelto il momento per assalire, condannato alla difensiva, incapace di marciar su Magonza, incapace d'operare da Strasburgo contro la Germania meridionale, incapace di violare, avventurandosi per vincere allo sdegno dei neutri, la frontiera Belgica e girare il nemico, incapace perfino di distruggere i vicini centri nei quali si congiungono le vie ferrate germaniche. Inerte, immobile, aspettò gli assalti e soggiacque. Il solo valore tradizionale nei soldati francesi non bastò, nelle sfavorevoli condizioni preparate dalla corruzione e dalla inettezza dei capi, a resistere. L'intelligenza—ed è il terzo insegnamento che vorremmo vedere raccolto dai nostri—vinse il cieco valore. L'unità, la fiducia reciproca, l'armonia tra le diverse sezioni amministrative, l'esattezza nell'esecuzione dei disegni, la giusta parte d'indipendenza lasciata agli individui, la coscienza di combattere, non per un uomo o per un onore militare scompagnato dall'idea d'una sacra missione, ma per la propria Nazione, dimostrarono anche una volta come un esercito che accoglie in sè ogni ordine di cittadini sia superiore ad ogni altro. Il trionfo Germanico è il trionfo dell'ordinamento militare che ricordammo nell'altro numero e dell'insegnamento obbligatorio nella Nazione.
Ma la Repubblica? Il Governo della Difesa?
Sì: emancipata dall'Impero e anche dopo Sedan, la Francia poteva salvarsi, risorgere: una Nazione lo può sempre se vuole, e un mezzo milione di stranieri non basta per conquistare a patti disonorevoli un popolo forte di 38 milioni di cittadini. Bisognava distaccarsi interamente, apertamente, dalle tradizioni imperiali e dagli uomini della monarchia—dichiarare ai popoli, nei termini che accennammo nell'altro numero, la nuova politica e ottemperarvi gli atti—convocare immediatamente, non fosse che di notabili, un'Assemblea che confermasse—e sotto i primi impulsi l'avrebbe fatto—il Governo della Difesa, poi rimanesse o meglio si disperdesse, in piccoli nuclei di Commissarî ai Dipartimenti per suscitarvi e dirigervi l'entusiasmo—rinunziare a vincere con mosse ed eserciti regolari e organizzare guerra di popolo—abbandonare, occorrendo, Parigi, condannata ad arrendersi presto o tardi e, se s'antivedeva che il suo arrendersi sarebbe dissolvimento alla resistenza della Nazione, chiamare la Francia non alla leva in massa, ma all'insurrezione in massa—ordinare i giovani, non a versarli ineducati all'armi nelle sezioni dell'esercito regolare dove non potevano recare se non germi d'ineguaglianza e d'indisciplina, ma a collocarsi, liberi nelle loro inspirazioni e conoscitori dei luoghi e confortati dal pensiero di difendere i proprî lari, a guerreggiare nella loro zona, tanto che il nemico trovasse in ogni via una barricata, in ogni inoltrarsi un pericolo, in ogni boscaglia un agguato—mandare ai nuclei di partigiani uomini già esperti nelle [298] cose di guerra come insegnamento elementare vivente—distribuire largamente armi, munizioni, danaro all'insurrezione—costringere con guerra siffatta il nemico a smembrarsi, a occupare una moltitudine di punti, ad assottigliare la propria linea—e stabilire intanto, in Bretagna, in Provenza o altrove, un punto di concentramento a tutti gli elementi regolari per riordinarvi e rifornirvi, eliminando gli antichi capi e scegliendo i nuovi tra gli ufficiali, un esercito pel momento in cui il nemico stanco, sconfortato, rotto in frazioni, avviluppato nelle spire dell'insurrezione, avrebbe prestato il fianco a una operazione decisiva d'offesa.
Questo ed altro poteva, doveva farsi. Il Governo della Difesa non lo tentò: seguì un metodo diametralmente contrario. Un uomo solo, Gambetta, parve volerlo tentare: ma fervido, energico nel linguaggio, fallì all'impresa nei fatti e s'ostinò anch'egli nell'errore di volere salvare la Francia colle mosse e cogli eserciti regolari.
Fu colpa di quegli uomini o della Francia?
Quanti, con grave torto e pericolo, accarezzano tuttavia negli animi dei nostri giovani l'illusione che dalla Francia debba escire l'iniziativa delle grandi cose, dei grandi moti che avviano innanzi l'Umanità, persistono e persisteranno nell'attribuire la colpa a que' pochi individui. Noi l'attribuiamo pensatamente alla Francia.
E non deriviamo, tardi profeti, la nostra opinione dai fatti recenti, bensì li spieghiamo con quella. Chi scrive affermò nel 1835 in una Rivista Francese, quando tutti vaticinavano in Europa iniziatrice dell'èra repubblicana la Francia e le idee repubblicane erano in Parigi rappresentate dai migliori per intelletto e per cuore[157], che l'Europa e la Francia s'illudevano—che mancava in Europa l'iniziativa,—che ogni popolo poteva, credendo, sapendo, volendo, colmar quel voto, ma che bisognava cominciasse dal convincersi che la virtù iniziatrice non esiste più, monopolio perenne, in Francia o altrove—che la Francia l'aveva, fin dal 1815, perduta—che la grande gigantesca Rivoluzione del 1789 non era stata iniziativa, ma sommario e conclusione d'un'epoca—che splendidi fatti e presentimenti del futuro potevano rivelarsi in Francia, ma che per molti anni le solenni collettive mosse della Nazione non segnerebbero nuovi gradi di progresso all'Europa e si consumerebbero fatalmente per entro alla chiusa curva di un circolo. Oltre a un terzo di secolo è trascorso d'allora in poi e i fatti hanno confermato l'idea.
Nessuno può—noi men ch'altri possiamo—dimenticare i grandi servigi resi dalla Francia all'Europa, i grandi esempî di fortezza e di volontà che abbondano nelle pagine della sua vita storica, lo splendido tentativo, trionfante in parte, d'applicazione pratica del lavoro intellettuale di due epoche, Politeismo e Cristianesimo, e la conquista operata per noi tutti a prezzo di sangue dei diritti dell'individualità: nessuno può sospettare che la Francia non risorga a nuova e potente vita, anello indispensabile nella catena dei progressi da compiersi. Ma nessuno, popolo o individuo, può sottrarsi, comunque sia grande, alla Legge Morale che ha decretato s'espii presto o tardi ogni lunga deviazione dalla missione assegnata, ogni violazione del Dovere.
Affascinata dall'orgoglio d'una lunga seria di trionfi coll'armi, guasta dalle proprie tendenze dominatrici e dal plauso servile dei popoli che la circondano, la Francia traviò dalla propria missione e dall'intento nazionale che avea, sul finire dell'ultimo secolo, definito: evangelizzazione di Libertà, d'Eguaglianza e di Fratellanza fra i popoli: [299] sostituì la propria dominazione a quella dei tiranni che rovesciava; commise i suoi fati all'eletto delle battaglie; conculcò per accrescere potenza a sè stessa i diritti delle nazioni sorelle; sostituì alla bandiera della rivoluzione una bandiera d'Esercito, all'adorazione delle idee il culto degli interessi materiali, alla Fede in Dio la Fede nella Forza: più dopo e inevitabilmente alla politica dei principî, alla franca, aperta, leale dichiarazione delle proprie credenze, la politica dell'opportunità, delle transazioni, il gesuitismo d'opposizione che campeggiò nel regno dei due rami borbonici; rimpicciolì le sante idee di rinnovamento sociale in una guerra d'egoismo di classi e nelle angustie d'un problema esclusivamente economico; ringrettì nel 1848 il vasto pensiero repubblicano in una tattica anormale di riconoscimento dei principî e d'accettazione dei fatti che li negavano; suscitò, promettendo ajuto, i popoli a moti e li abbandonò; incredula, protesse il Papato; predicatrice di libertà, votò poi secondo Impero; dichiarò d'esser unica tra le Nazioni a combattere per una idea e volle, prezzo al combattere, danaro e terre non sue; ingelosì, Essa rappresentante esagerata dell'Unità, del moto di unificazione germanica; si disse avversa alla guerra e applaudì quando fu dichiarata; invase il Messico, dimenticò la Polonia, trucidò, movendo repubblica contro repubblica, Roma; e s'arrogò nondimeno, violando l'eterna massima: Dio solo è padrone; i popoli devono tutti essere, nell'eguaglianza e nell'amore, interpreti della sua Legge, diritto di perenne primato fra le Nazioni. La Francia oggi espia queste colpe coll'impotenza, colla mancanza degli spiriti del 1792, colle esitazioni dei suoi capi, colla codarda condotta della sua Assemblea, coll'inerzia da noi preveduta delle sue moltitudini.
E l'espiazione è severa, severa oltre il giusto; e per questo, largamente compita.
Guidata da una cupida Monarchia, la Germania ha traviato alla sua volta dai confini del retto che la riverenza al pensiero ingenita in essa le insegnava di non varcare, e sostituito al diritto di proteggersi un concetto di vendetta che semina i germi di nuove guerre. Dio e i popoli lo allontanino. Possa la Francia risorgere all'influenza che le spetta e vendicarsi delle ingiuste esigenze come i nostri vendicarono con essa l'eccidio di Roma, ajutando a promovere il trionfo d'una Unità Nazionale Germanica fondata sulla Libertà. Possa l'Italia, oggi colpevole di parecchie delle colpe che travolsero in fondo la Francia, affrettarsi a cancellarle, intendere la grande missione ch'essa potrebbe, volendo, compiere a pro di tutti in Europa, raccogliere la fiaccola di libertà popolare caduta dalle mani altrui e iniziare l'impresa dalla quale soltanto può, col giusto riparto delle terre europee fra le Nazioni e l'unità d'una fede morale comune a tutte, inaugurare un'èra di pace e di armonia nel lavoro.
Abbiamo, fin dalle prime pagine di questa pubblicazione, detto, e insisteremo a ripetere, che la Legge Morale è il criterio sul quale deve giudicarsi il valore degli atti sociali e politici che costituiscono la vita delle Nazioni e delle diverse dottrine che s'assumono di dirigerle: e lo spettacolo che abbiamo innanzi d'una grande Nazione caduta in fondo per essersi sviata da quella Legge dovrebbe essere oggi luminosa conferma al nostro principio. Ciò ch'è vero per tutte le Nazioni, lo è doppiamente per le Nazioni che sorgono. Nella moralità dei loro ordini sociali e delle norme che ne dirigono la condotta politica sta non solamente il compimento del Dovere, ma il pegno del loro avvenire. Come la vita del commercio ed ogni vasto sviluppo economico posano sul credito, la vita complessiva d'un popolo e l'incremento nazionale posano sulla fiducia che gli altri popoli pongono in esso; e quella fiducia ha bisogno d'un programma definito accettato e invariabilmente mantenuto nelle transazioni interne e segnatamente internazionali del nuovo popolo. Dai mercati economici alle alleanze politiche, tutto si schiude agevolmente a una Nazione che vive d'una vita normale fondata sopra un principio morale la cui sorgente è nota e le cui conseguenze sono logicamente e praticamente dedotte negli atti: dove manca, dove non esiste norma dall'arbitrio infuori degli individui e dei capi, i popoli guardano diffidenti, sospettosi, gelosi. Un trionfo carpito al delitto o all'altrui codardìa può affascinarli o impaurirli a concessioni e a riverenza apparente, ma per breve tempo, e il primo indizio di decadimento o fiacchezza li muterà. Par avere negato l'idea di Nazionalità, anima dell'Epoca nuova e sostituito alla potenza d'un principio la propria, genio, forza e prestigio del primo Napoleone sparirono davanti al subito inaspettato fremito dell'Europa rifatta ostile non sì tosto parve interrompersi per lui il corso delle vittorie. E la Francia dell'ultimo Napoleone, orgogliosa pochi anni addietro della sommissione abjetta di tutti i Governi Europei non trovò, nella prima ora di crisi, un solo alleato. Gli stessi fati s'apprestano all'Inghilterra, s'essa persiste a cancellare nella sua politica esterna quel culto al principio di Libertà che la fece potente e inspira tuttavia la sua vita interna.
Per noi—ed è la dottrina dei nostri Grandi da Dante in poi—ogni essere, individuale o collettivo, ha un fine, e il fine ch'è parte del Disegno divino regna sovrano: l'esistenza di quel fine genera il dovere di raggiungerlo, di tentarlo almeno. La vita è una missione. Il compimento [301] più o meno continuo, più o meno potente della missione costituisce il merito e quindi il progresso della vita.
L'Umanità ha un fine: scoperta progressiva della Legga Morale e incarnazione di quella Legge nei fatti. Il mezzo, il metodo, per raggiungere quel fine, è l'Associazione: l'associazione, progressiva anch'essa, delle facoltà e delle forze umane, la comunione più e più vasta, più e più intensa d'ogni vita coll'altre vite, l'amore trasfuso nella realtà. Quando tutti i figli di Dio saranno liberi, eguali e affratellati in una fede comune di pensieri e d'opere, e la coscienza della Legge splenderà in ogni vita come splende il sole in ogni goccia di rugiada diffusa sui fiori dei campi, il fine sarà raggiunto. L'Umanità trasformata ne intravederà un altro.
Le Nazioni sono gli individui dell'Umanità: tutte devono lavorare alla conquista del fine comune: ciascuna a seconda della propria posizione geografica, delle proprie singolari attitudini, dei mezzi che sono ad essa naturalmente forniti. L'insieme di queste condizioni costituisce per essa un fine speciale da raggiungersi sulla direzione del fine comune.
Dov'è coscienza del fine speciale e speciale attitudine ad accostarsi attraverso quel fine al fine comune ch'è l'ideale dell'Umanità, ivi è Nazione: dove non è, è gente, frazione di popolo destinato presto o tardi a confondersi con un altro.
Il Patto Nazionale, ch'è battesimo e mallevadorìa di fraterno progresso ad un popolo, riconosce, nella Dichiarazione di principî che deve essere preambolo al Patto, il fine comune a tutti e addita nel proprio insieme il fine speciale, la parte di lavoro che spetta, nel lavoro generale, a quel popolo. Ogni qual volta un popolo rinnega il fine comune o svia dal bene di tutti esclusivamente al proprio il frutto dei progressi compiti verso il fine speciale, la Nazione retrocede. Raggiunto il loro fine speciale, le Nazioni morivano un tempo per lungo corso di secoli: oggi, la conoscenza del fine comune, della vita collettiva allora ignota dell'Umanità e della legge di Progresso che la governa, lo impedisce; ma la Nazione colpevole smarrisce per un tempo ogni virtù iniziatrice e non si ritempra ad essa fuorchè espiando.
La dichiarazione del fine speciale costituisce il vincolo di libera associazione nel quale i milioni appartenenti a un gruppo determinato riconoscono di far parte d'una Nazione e ordinano il loro lavoro interno: l'analogia dei fini speciali costituisce la baso di più perenni e più intime relazioni tra popolo e popolo: la dichiarazione del fine comune determina le alleanze.
Santa è ogni guerra comandata dalla necessità d'un progresso vitale verso il fine comune assolutamente vietato per ogni altra via o contro chi contende ad un popolo libertà di compiere la propria missione: ogni altra è delitto di fratricida; e le Nazioni affratellate nella conoscenza accettata del fine comune dovrebbero collegarsi contr'essa. Come i membri d'una famiglia, i popoli sono, a seconda dei loro mezzi, solidali e chiamati a combattere il Male ovunque s'accampa, e a promuovere il Bene ovunque può compiersi. Le Nazioni che rimangono spettatrici inerti di guerre ingiuste e inspirate da egoismo dinastico o nazionale, non avranno, il giorno in cui saranno alla volta loro assalite, che spettatori.
Son queste per noi le norme regolatrici d'ogni politica internazionale e le abbiam fin d'ora affermate perchè giudicheremo a seconda gli eventi europei: norme semplici e piane come tutte quelle che derivano da un concetto morale; ma la loro prova sta nella Storia che, [302] interrogata a dovere, dimostra ogni violazione di esse aver generato conseguenze funeste ai violatori e ai popoli che, potendo, non impedirono. La scienza del come dirigere le cose umane è più semplice e men difficile ch'altri non pensa, se mova da pochi principî derivati tutti da una idea di religione e di Dovere: non diventa complessa e oscura e raddensata di semi-diritti storici cozzanti gli uni cogli altri e sorgente inesauribile di piati e dissidî, se non quando, cancellata ogni fede comune e illangui