Title: La pianta dei sospiri
Author: Defendente Sacchi
Commentator: Giovanni Battista Cremonesi
Release date: August 28, 2008 [eBook #26453]
Most recently updated: January 4, 2021
Language: Italian
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the
Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)
vol. 428
Illustrazione: Appoggiato ad un bastone narrò le sventure
degli amanti del colle.
p. II.
1841
Voi m'invitaste a dettare alcuni Cenni intorno a Defendente Sacchi, ed io non ebbi a frapporre un solo istante per vedere, che a Voi, dolce e tenero amico di sì caro uomo, era dovuto il mio lavoro qualsiasi.
Conosco già che questa mia fatica sarà tenuta in pochissimo pregio da tutti quelli che non vogliono udir a narrare che le grandi cose, o gli uomini straordinarj; desiderio perdonabile a questi tempi, in cui fummo agitati da tante meraviglie di avvenimenti quasi incredibili. Ma non importa; io non confido certamente di piacere a que' saccenti i quali, gonfi del loro fumo scientifico vorran disprezzare questo umile lavoro ch'io dedico alla Vostra amicizia, lavoro che certamente non ha merito fuorchè nei sentimenti che lo dettarono. Da questo lato torni egli più caro al vostro cuore scevro da quella fredda politura, che, venuta in un momento di calma, travisa non di rado le calde ispirazioni delle passioni.
Accoglietelo dunque benevolo, e assicuratevi della mia pienissima estimazione.
Di Casa, 27 febbrajo 1841
Bello è il pianger gli estinti; e separato
Dall'immemore vulgo, a cui non fiede
L'alma torpida oggetto altro nessuno
Fuor che l'oggetto che la man gli tocca,
E con forma e colori occupa il guardo,
Bello è il ridursi a solitaria cella;
E ad uno ad uno riandando i giorni
Che negri precedeano alla sventura,
Chiamar l'amato nome, e con lo spirto
Conversar del defunto.
¹ _Quantunque i molti scritti di D. Sacchi sieno bastanti a render durevole la di lui fama, pure non ispiacerà al lettore che un suo caro amico, il sig. Giambattista Cremonesi, abbia, da noi richiesto, dettato alcuni cenni per rilevarne maggiormente la virtù del defunto. Il sentimento di una viva riconoscenza ed ammirazione che il suo animo nutre costantemente verso la memoria di Sacchi, ed il desiderio di renderne un pubblico attestato, sono le sole ragioni che lo obbligano ad appagare in un col suo, il nostro desiderio.—L'Autore di questi cenni non intese di scrivere l'elogio a questo letterato, ma sì bene, per quanto si poteva così subitamente, dare un pubblico segno di riverenza a chi gli fu caro amico ed alla patria, la quale deve godere che sia onorata la memoria di un suo chiaro cittadino._
Nota dell'Editore.
Chiunque sia zelante dell'onor nazionale, e tenga in pregio chi s'adopra a celebrar cogli scritti la memoria de' propri concittadini per ingegno e per virtù chiari e benemeriti, saprà certamente buon grado a noi che abbiam dettato un breve cenno che risguarda Defendente Sacchi, scrittore degno d'essere collocato nel novero di quei personaggi di cui va superba la biografia italiana. Ma delle chiare imprese quanto più ricca è la messe, tanto è meno agevole stringerla debitamente in parole, e le speranze de' leggitori e il pubblico grido adegnare. E noi sopra questa cagione principalmente ci scusavamo coll'egregio signor Giovanni Silvestri dal tessere questi Cenni, quando altri rispetti nell'animo nostro le forze loro usarono di qualità, che noi stessi i sospetti nostri improverando, fummo costretti a dettare queste parole, le quali se troppo povere all'argomento, ci saranno, speriamo, testimonio di osservanza e di volontà debita a tale che negli anni giovanili ci raccolse e agli studi dell'umane lettere confortò. Rimembranza veramente la quale più c'invoglia a piangere che a favellare.
Quanta dottrina, quanto ingegno, quante solide qualità, quante amabili virtù ci hanno fatto estimare ed amare questo caro confratello! Amico egli del vero, non istudiava che per conoscerlo, non iscriveva che per esporlo nella più chiara sua luce. Veruna prevenzione mai non lo traviò ne' suoi giudicj, mai non signoreggiò le sue opinioni. Vituperò sempre il mal vezzo di quelli che mettono con aspre critiche ed inurbane a rumore il pacifico regno delle lettere. Tale è il danno delle discordie letterarie, che mai non si può abbastanza dire di esse; ed allora si vogliono maggiormente combattere i vizj, quando per li malvagi esempi possono divenire comuni, e talvolta per certa loro indole vestir le sembianze della virtù.—Pur troppo, convien dirlo, questa mala costumanza di trattare le controversie letterarie colle armi della plebe e co' personali oltraggi, si è quasi perpetuata in Italia, ed anche al presente, sotto l'impero di più miti costumi, si è veduto nella giostra fra i Classici ed i Romantici, come pochi abbiano saputo attenersi alle norme di gentilezza che governano il moderno viver civile.
A ricondur sul buon sentiero gli abituati all'ira e alla critica mordace, giovino le seguenti parole di un illustre Italiano, parole che spirano reciproco amore e salutevole concordia; parole che noi dirigiamo principalmente, o giovani, a voi «ne' quali or la patria ripone le sue più liete speranze; a voi, ci rivolgiamo, e vi scongiuriamo, che vogliate discacciar del cuor vostro, se mai entrato vi fosse, un amore sì scellerato, e riprovi quel legittimo, quel santo amor di noi stessi onde si nutrono le anime generose, quell'amore onde si conciliano i nostri veri interessi con quelli d'altrui. Questo, questo collocò di sua mano la natura ne' petti umani; e appunto vel collocò affinchè avessero gli abitatori della stessa contrada, avvinti co' dolci legami d'una mutua benevolenza, a passar lietamente la loro vita. Se un amor di tal natura allignerà negli animi vostri, egli avverrà che, coltivando anche adulti le lettere con quell'ardore con cui ad esse dedicati vi siete fino da' vostri anni teneri, e congiungendo le vostre forze in loro vantaggio, siccome fecero gli avi nostri, le veggiate rialzarsi da quell'avvilimento in cui sono cadute per le discordie de' loro medesimi coltivatori. Già la grand'opera è oramai cominciata da alcuni privilegiati ingegni, dalla cui valorosa penna vanno esse ricevendo nuovo lustro. Quello che cominciarono a fare questi spiriti illustri, sarà continuato da voi: e le lettere nostre riacquisteranno il primo loro splendore; e voi darete agli altri del vostro paese un luminoso esempio di quell'amorevolezza ed urbanità con la quale gli uomini, dal loro Facitor destinati a dover vivere insieme, hanno a trattarsi fra loro.»
Se, nel corso di discussioni sempre franche ed amichevoli, avveniva a Sacchi di difendersi con qualche calore, questo non aveva per cagione che un interno convincimento; l'amor proprio non vi prendeva parte nessuna. Ispirato da quell'animosa verità di cui havvi sì grande scarsezza in questo secolo di servili dichiarati, e di liberali mentiti, si può dire essere sempre stato indifferente per lui che la verità uscisse dalla sua bocca, ovvero da quella di uno de' suoi amici, soltanto ch'essa riportasse vittoria. Egli definendo il merito e le mende d'ogni scrittore e d'ogni produzione, esaminando e paragonando le cose in modo da ischivare i traviamenti, traeva gli animi al bello ed all'utile; e adoperava la lima della critica per mostrare nel suo nudo aspetto tutto che era atto a fortificare le facoltà conoscitive invece di affinar le armi della bassa vendetta e della vile invidia. Chi più di lui nemico di quella smania di dileggiare e maledire per abitudine o per inclinazione tutte le cose buone e oneste? Noi vorremmo che ci intendessero quegli scrittori dei leggiadri nulla e dei pettegolezzi… Vorremmo c'intendessero tutti coloro i quali non sanno modellarsi che cogli spiriti mediocri, il cui contatto nuoce al genio, come la ruggine a' metalli!—S'abborriscano alla per fine le frivolezze ed il vano garrito, e si procuri di vivere in sè e non già negli oggetti esterni, di badare più alla realtà delle cose che alle apparenze, di agire e pensare senza imitazione, e di studiare d'esser uomo, perchè a tutti deve esser grave il veder scimmie da per tutto.—Non sappiamo comprendere come ai nostri giorni il piccolo numero de' veri letterati, e il grandissimo di coloro che aspirano a questa rinomanza, tanto si affanni in parole vuote affatto di un senso utile, e come alcuni scrittori di opere periodiche, senza al più delle volte leggere gli scritti degli autori, e non mai penetrando più a dentro nell'animo loro mandano da' loro scanni sentenze di morte e diplomi di immortalità e di gloria per i loro contemporanei, quasi che tutto il resto di questo vastissimo mondo che legge e che pensa abbia in essi soli riposta tanta parte delle loro facoltà d'intelletto da costruirne una sola inappellabile ed assoluta. E pazienza ciò si facesse apertamente confessando la propria religione in fatto di lettere, e difendendo a visiera calata la bandiera sotto la quale si viene assoltato, ma invece, in capo ad ogni opuscolo, ad ogni articolo da giornale, ad ogni giudizio, ad ogni controversia, noi vediamo sempre una solenne dichiarazione dell'imparzialità di chi scrive, ed una modestissima protesta di essere unicamente per il vero ed il giusto. Ma chi sono questi tali?—Oh! mio caro Cremonesi: la smania che non pochi hanno di mostrarsi dotti, solevaci spesse fiate ripetere Defendente Sacchi, ancorchè tali non siano, e le ciurmerie che usano a tal uopo, sono mirabilmente indicate nel Capo secondo della Relazione della Repubblica de' Cadmiti di Agnolo Piccione, dove si narra come i Cadmiti avendo testa piccina e statura di pigmeo, si allacciano a piedi una sorta di zoccoli d'elegante lavoro, e ritti ritti sen vanno sì, che veduti da lungi fanno una bella comparsa, ma se tu li squadri ben bene davvicino, ti si appalesano quelli che sono.—Se i nostri scrittori si porranno un giorno a raccogliere materiali per compilare la storia letteraria di questo beato ottocento, incontrando tanto profluvio di disputatori in materia di lettere, di scienze e di arti, crederanno che costoro con sì ricca dottrina di parole, con tanto gusto, con tante opinioni avranno dato al loro secolo capi d'opera maravigliosi in ogni ramo di italiana letteratura. Cercheranno i monumenti di tanta benemerenza gloriosa; ma che troveranno eglino invece?
Rari appajon nuotando in vasto mare
Prossimi anch'essi a rimaner sepolti
Entro i gorghi profondi.
Schivo a profanare le lettere nel congresso degli ignari, s'attenne egli sempre alla sentenza di Platone: Rerum naturam investigare difficile, in vulgus vero aperire nefas.
Colla moderazione, egli parlava senza alterigia, rispondeva senza viltà, criticava senza amarezza, lodava con giustizia. Le sue espressioni, scelte mai sempre, eran naturali mai sempre. Una portentosa memoria ed una singolare perspicacia lo studio gli agevolavano dell'uman cuore. Egli paragonava gli uomini dei passati tempi a quelli del nostro secolo. La conoscenza loro non lo attristava, poichè ripetea di sovente: Non si parla che dei malvagi in questo mondo: come citare i buoni? Essi sono in sì gran numero!—Non fece mai pompa di quell'impetuoso valore che in mezzo alle pugne letterarie soltanto compiacesi. Il pericolo ei lo sprezzava, ma non ne andava in traccia giammai. Destro nel nascondere le ricevute impressioni, e signore de' primi moti che svelano un secreto e tradir possono qualunque impresa mai lasciossi trascinare dall'impetuosità della sua indole. Pur vero e giusto è il dire, che un costante e fermo dominio sopra sè stesso sarebbe il primo passo e il più importante, ad ottener il quale è necessario ed indispensabile la condizione di prescinder sempre ed in tutto da quel turbolento, incontentabile, irragionevol io, che tutto guasta e deforma, e che non ci lascia mai formare giudizj retti, deducendoli dalle verità e conseguenze generali, e non dall'individuale interesse. Oh le quante volte ciò che parzialmente è male, generalmente considerato, trovasi essere un bene! nel qual caso l'uom di senno si consola del proprio male, ed anche in mezzo a quello è felice. Ma che? Questo fermo carattere e questa dignità non impedirono che intorno a lui bulicasse uno sciame di vili insetti, che sempre aggiransi intorno agli onorandi uomini per ferirli col velenoso pungiglione della calunnia e presentarli al popolo, cui sì facile è l'ingannare, macchiati e deformi per le piaghe di cui li coprono. Non turbossi egli, e tenendo sempre più la vista lontana di ogni volgar dilettanza tutto raccoglievasi alle letterarie cure, e sola vaghezza il prendeva di far tesoro di quelle cognizioni, che del loro bello e del vero intrattenendo vivo ed energico l'operare della mente, nè lasciando che intorpidisca collo scemare delle forze del corpo danno allo spirito perpetua vigoria giovanile, e lo pascono di quei divini piaceri degni solo dell'eccellenza umana. Ma in un cagionevole corpo pur troppo le lunghe veglie accelerarono la nostra amarissima perdita, nel mentre egli divisava vari lavori per la filosofia e per le lettere, e in quest'ardua impresa sarebbe egli entrato con felicissimo successo.—L'avversità lo trovò sempre imperturbabile e sereno, e ben di lui può dirsi aver indefessamente praticato quel grave consiglio di Orazio:
Æquam memento rebus in arduis
Servare mentem, non secus in bonis
Ab insolenti temperatam
Laetitia.
Molti che egli amava hanno sdegnato di riconoscerlo nel suo infortunio. Sofferse il male che non meritava; e allorquando la fortuna si è mostrata stanca di perseguitarlo, la morte si è presentata al suo cospetto.—Se alcuno cerca la cagione di un sì crudele destino, ei durerà fatica in trovarlo. Volete voi chieder la ragione perchè questo perde al giuoco e quel vince? O perchè si danno quegli anni in cui non v'ha nè primavera nè autunno, in cui i frutti si inaridiscono nel loro fiorire? Con tutto ciò non vi cada in pensiero che Sacchi avesse voluto mai cagionare la sua infelicità colla prosperità degli uomini deboli. La fortuna può farsi ludibrio della sapienza degli uomini virtuosi, ma il potere essa non ha d'atterrarne il coraggio.
Uomini distinti gli fecero cortesi accoglienze, ed allorchè gli avvenne di far con essi fortunati cambj di idee, arricchì il suo fondo senza diminuir quello di loro, e portò via il suo bottino eccitando l'altrui gratitudine. Alla gioventù dava l'idea dei fasti antichi, nei coetanei destava fiducia e compiacenza, e le due opposte età insieme conciliava. Abbandonò mai sempre la sua anima al tranquillo diletto della solitudine, come quella degli ambiziosi si abbandona all'inquieta felicità della fortuna, di cui egli ridevasi ripetendo a chi lo interrogava intorno alle sue vicissitudini ciò che solca spesse fiate ripetere Shakspeare:—Vada il mondo come sa andare, sorgano o cadano regni, purchè io abbia con che vivere, io sono il monarca di tutte le cose che passo in rassegna. Una seggiola a bracciuoli è il mio trono; il ferro da attizzare il fuoco il mio scettro; una saletta di dodici piedi quadrati all'incirca mio reame che nessuno mi vorrà contrastare. Quest'è un minuzzolo di certezza ch'io stacco fuora del cumulo delle incertezze congiunte colla nostra esistenza; è un istante di sole che rischiara benevolmente i miei dì nuvolosi; e chiunque si trovi alcun poco innoltrato nel pellegrinaggio della vita, sente quanto importi l'essere masserizioso di questi minuzzoli, di questi istanti di godimento.—Queste parole ci ricorreano alla mente appunto allora che la campana della Chiesa di S. Babila annunciava l'agonia di Sacchi, della cui ingenua affettuosità noi sempre partecipammo, e dal quale nè distanza di luoghi, nè disuguaglianza di tempi, nè vicende d'alcuna sorte poterono mai distrarre il nostro cuore. E questo carattere portò lui pure ad essere eccellentemente buono con tutti: onde, in ogni città in cui ebbe poco o molto a soggiornare, lasciò sì profondo desiderio di sè, che della stima e benevolenza di quelli coi quali aveva conversato, il sentimento e la memoria sono passate alla generazione succeduta.
Alcuni letterati di moda, che osano insultar persino la sacra immagine d'Omero, il quale come smisurato colosso innalzasi nella più lontana prospettiva dell'antichità, dissero D. Sacchi uno scrittore spigolatore; ma egli non aveva bisogno di spigolare, siccome fanno molti, in campi mietuti, nè di vivere delle altrui reliquie: egli possedeva e coltivava un proprio ricco fondo d'ingegno, da cui traeva pregevol frutto. E questi letterati di moda le cui critiche contro Sacchi a tutt'altro approdavano che alla cognizione del vero, e per lo più il solo infame gergo de' vituperi se ne giovava ed aumentava, furono o i non lodati, o i meno lodati da lui sui pubblici giornali.—La pubblica lode anima, è vero, vivifica, moltiplica i talenti: ma non serve di scuola che li formi, perchè i suoi giudizj, i suoi consigli non son sicuri. Col pronto applauso a certe opere le quali fanno soltanto traspirare e riconoscere il talento ancora immaturo, essa dissimula i difetti, sbaglia il giudizio, sempre più illude l'amor proprio e ferma o rallenta i progressi. Quasi tutti i segni d'ammirazione hanno ormai perduto il loro valore, pel grande abuso che ne ha fatto l'adulazione, ed è moneta fuori di corso: fa duopo il fabbricarne una nuova, a cui diano materia di valor vero e costante il sentimento, la verità, il giudizio. I letterati, disgustati una volta dei crassi vapori d'un incenso disonorato, tengono egualmente in poco conto, e chi prodiga lodi e chi non serve con coscienza alle lettere.—Per la eccessiva lode, il campo della letteratura è a dì nostri, per la gioventù, come la scena teatrale: troppo presto ella vi si mostra al pubblico; e in quella è pericoloso il volersi fare una precoce riputazione, imperciocchè egli è talor più difficile il sostenerla quando è immatura, che il giungere a meritar d'ottenerla. Le lodi sieno giuste e non simili a quelle che suole articolare a disagio la fredda lingua de' complimenti! Sia in noi franchezza di opinioni senza temerità, saviezza di principj senza nè pedanteria nè smanie di novità, aggiustatezza di giudizj dettati da coscienza, da persuasione, e senza le solite contumelie e personali inimicizie che troppo spesso lordano i giornali!—Pare proprio che in alcuni nostri letterati prevalga il pregiudizio che un articolo da giornale od altro, debba assomigliare ad un vase scoperchiato d'incenso, da cui si tramandino adulatorj profumi a tutte le nari. Non v'ha in que' lavori menzione di creatura viva che tosto non rechi seco un panegirico. Bella, noi ripeteremo sempre, santa è la lode spontanea, detta a proposito, largita a chi la merita, ma una maniera oratoria d'inchini e congratulazioni l'è un fastidio, un solleticamento d'orecchi e nulla più. Questo diciamo e a malincuore perchè la lettura di non pochi scritti di circostanze che si pubblicano in alcune città lombarde ne ha pur troppo convinti di questo abuso nella letteratura. Povero quel paese in cui letterati ed artisti non attendono ad altro che a darsi mutuamente patenti di immortalità! Eglino ignorano che c'è un pubblico spassionato che gli ode, un pubblico che non usa della penna che pe' privati o pubblici negozj, nè sa trattar tavolozza o scarpello, ma che vuole dagli uni e dagli altri verità ed istruzione, come cibo salutare dell'animo. Spendano i letterati le frasi gratulatorie ne' loro giornalistici convegni, nè rendano l'universale a parte de' loro non sempre sinceri baciamani! Gli artisti e i letterati sono gli interpreti della sapienza; e la sapienza non fu mai l'arte di sciupare inchini o di formare ingiusti giudizj che agitano continuamente gli scrittori, giudizj che ferirono anche Sacchi, cui la voce del Vero, più forte d'ogn'ira, apparecchiava maggiore della espettazione il trionfo.
«Se d'un forte pensier l'anima hai pregna,
Se amor di verità ti trae dal fondo
Franco l'accento e come strale acuto,
Se te stesso non fuggi, e se Viltate
Non t'è Prudenza, o Cortesia la pingue
Sciocchezza intesta con sottil menzogna,
Lascia il mondo a chi 'l merta. Invidia, scherno,
Noia, dolor, calunnia a te raddensa
Dell'agognato calice la fercia.
Puoi tu giovar dell'opra o del consiglio?
Allor qual sei ti mostra: all'alto passo
Della sventura, ove l'amor dei vili
Quasi a meta finisce, il tuo cominci.
Ma del gregge il contagio, e delle ciance
Fuggi l'anil sollazzo; e s'e' t'insiegue
Siepo all'orecchio oppon, freno alla lingua:
Ch'uom di lingua innocente è uom perfetto.
. . . . . . . . . . . . . . .
Quegli fia l'angel tuo che a te il sospiro
Recherà degli eletti in cui rivivi;
Cui tu l'immensa via delle intentate
Opre insegnasti, e il Dio furor del giusto,
E la scienza degli arcani affetti:
Or fa che in te primier forte s'alligni
De' forti sensi il delicato germe.
E di gentil fortezza e di verace
Non commutabil gioia unica fonte
È solitudo, il sai. Quivi te stesso
Al Sol di Verità lento matura:
L'alta fantasia, l'immota mente,
E l'arte, e il caso, e la memoria, e il senso
Rafferma, adergi, in armonia contempra.
. . . . . . . . . . . . . . .
Oh se possente meditar solingo,
E labor diuturno, e integra vita
E incessante pregar, dal ciel t'impetri
Poche, ma pregne di fecondi Veri
Splendide carte, in cui l'età lontane
Bacin segnata del tuo cor la stampa,
E ogni anima gentil senta il tuo spirto
In sè trasfuso, e a pianger teco impari,
Te beato in fra mille! Allor potrai
Volgere al mondo, che da lunge amasti,
Sereno il guardo, e dir morendo: io vissi.»
Ma a che ripetere questi versi pieni di verità in tempo in cui sono in grand'uso e onore la frivolezza, la molle pigrizia; in cui ognuno cerca di avere e mostrare ingegno e brio senza pensare a belle, ad utili imprese, trascurando e abbandonando le opere che richiedono serj e profondi studi; in cui si preferiscono gli Almanacchi, le Strenne, le Cronachette e i Versetti che divertono e fanno ridere gli oziosi, in cui pochissimi sono compresi da quel forte sentire che è la vera dote di un animo generoso; in cui si accompra coll'esser vile la facoltà di diventare insolente; in cui non si abborrono la cieca adorazione e la cieca irriverenza; in cui si ride perfino de' caldi promotori di instituzioni patrie che tanto ingentiliscono il costume: in cui trionfa l'inganno…. Ma il mondo, altro non è che una piazza pubblica, ove tutti i ciarlatani d'ogni genere e d'ogni professione si esercitano dal mattino alla sera a spese un dell'altro, e figurano or come ingannatori, or come ingannati, or come dotti, or come ignoranti.
Defendente Sacchi possedeva in sommo grado quell'arte tanto necessaria, e direm quasi indispensabile per chi scrive pei giornali, di dir molto in poco senza procedere sempre ad estratti altrettanto pesanti che nojosi, e di esporre la propria opinione in lode o biasimo, come uomo che parli per gli altri e non per sè solo, il tutto spiegando e comentando in favorevole senso e giustamente, a differenza di non pochi che, senza carattere e senza propria opinione non sono che un eco della opinione la più generale o dell'ultima che han sentita. Vi sono di quelli che per darsi vanto di perspicacia maggiore di quella di colui con cui parlano o di cui scrivono, sempre una diversa opinione oppongono, qualunque sia, purchè diversa, e la propria asseriscono in tuono di certissima verità esser la sola da aversi. Fissare un'opinione in mezzo a tanti non è men difficile a chi non ne ha, che ad un giudice il decidere d'una lite da cento avvocati trattata.
Dotato di uno spirito conciliatore, di un carattere nobile e generoso, fermo sotto ogni aspetto, indulgente come lo sono tutti quegli uomini che non han bisogno di far forza a sè stessi per conservarsi puri in mezzo ad un mondo corrotto, mostrossi egli a suoi compagni di lettere, senza nulla ostentare, e sempre sotto un ingenuo sembiante. E questi suoi compagni di lettere erano veramente generali veterani e non appartenenti all'esercito di molti letterati attuali, esercito composto in gran parte di bande erranti, senza vessilli, senza disciplina, senza valore.
Persuaso che chi consuma e non produce, muore fallito verso il banco sociale, Sacchi non lasciò passar giorno senza stendere qualche linea di storia, di scienze, di lettere, di arti. I suoi studj erano animati dai sentimenti più nobili, la riconoscenza, l'amicizia, la gloria nazionale, l'amore della patria, per la quale conservava in petto vivissima la fiamma che agitava l'animo suo con energiche commozioni; e a questi sentimenti frammischiavasi la passione delle anime dabbene e l'interesse pubblico.
Convinto che la virtù non sia una parola, possedeva in sommo grado il pregio de' veri dotti, la modestia. Le morali e le intellettuali qualità erano in lui temperate con felice mistura. Gagliarda tempra di passioni avea in lui riposto natura, ma con assoluto imperio ei le governava. Purissimi sensi di religione fortificarono la sua virtù, ed ogni parte adornarono della irreprensibil sua vita. Per formarsi un'opinione e professarla, egli non consultò mai nè il timore, nè la speranza, nè le viste personali: il suo motto abituato era Verità e Giustizia.—Di memoria vasta e tenace, versatissimo in ogni genere di letteratura, facile prestavasi a chiunque lo richiedeva di qualche cognizione, non lasciandosi mai prendere a questa vaghezza di conquistare una facile lode, per timore di vederla spenta infruttuosamente, e di star solo contento della meraviglia del nome.—Commiserava le altrui disgrazie, e compiangendo gli errori e le umane follìe, vestiva di un dolce patetico gli oggetti pascendosi di filosofiche considerazioni e di belle speranze, che si sublimano sopra la sfera delle volgari passioni e de' cittadineschi tumulti. In tempi in cui gli studj letterarj non ottengono incoraggiamento o mercede, e in cui chi non nacque patrizio difficilmente sorge a qualche considerazione o fortuna, egli non brigò nè cariche nè onori, e persuaso che ciascuno debba servire lo Stato in ragione delle sue forze, rendette de' servigi, ma invece di chiedere ricompense, fu soddisfatto di meritarle.
Amava la gioventù generosa cui dava spesse fiate lezione di scienza morale, e insegnandoli la rettitudine dei giudizj, l'onestà delle azioni, il governo degli affetti sì nella vita pubblica che privata, spronavala all'eccellenza universale. Ci sta fisso in mente quel grande dettame di Parini, che Sacchi spesso ripeteva, onde i giovani se ne giovassero, per declinare ove torni meglio, o ritardare almeno l'ordinario giro delle vicende: Povertà fa industria, industria fa ricchezza, ricchezza fa nobiltà, nobiltà fa superbia, superbia fa ignoranza, ignoranza fa povertà.
Che diremo ora del suo cuore? Come lodare abbastanza quell'attitudine a un tenero e vivo affetto, che così caro lo rendeva agli amici? Nei suoi discorsi come ne' suoi scritti, nessun indizio si scorse di pretensione o d'orgoglio; ciò avvenne perchè la bellezza della sua anima pareggiava la rettitudine della sua ragione e la coltura del suo ingegno.—Se reggeva al minuto squittinio ch'egli solea fare delle cose scientifiche e letterarie, usciva pago e tranquillo dalla indagine; diversamente, pace non davasi, e l'errore animosamente impugnando, conduceva a disinganno la pigra e facile credulità, rovesciando a terra, anche senza riguardo, ogni venerata antichità d'opinioni. Egli esponevasi a questi cimenti, che l'ardenza de' spiriti suoi gli pingeva sempre pieni di gloria per colui, che non isfornito di forze s'innamora della stessa difficoltà, e animoso l'affronta.
Coloro che dicevan male di lui soleva riguardarli siccome malati, renduti ingiusti dalla sciagura, e loro perdonava sinceramente; in tal modo raddoppiava il suo amore per quella sublime filosofia, le cui consolazioni, i cui benefizj ci accompagnano sino alla soglia del sepolcro.
Era suo costume, come non mutava nella infermità il suo tenor di vita, nè le solite azioni, così nè anche i piacevoli e arguti ragionamenti, che in un turbato corpo argomentavano una piena sicurezza e intiera serenità di mente. La natura gli aveva data una costituzione gracile; l'applicazione e più sventure la indebolirono.—Perchè mai, o eterno Iddio, ci dividesti innanzi tempo da persona sì cara! Ma così svengono e cadono in sul fiorire le umane speranze, e mutata in un subito la fortuna, dai più cari diletti a conforto dati della travagliosa vita spesso non si raccoglie che lutto e amarissimo desiderio. Ben disse un saggio, che alla miseria della mortal condizione vietato è anche lo sperar lungo, perchè il tempo sovvertitor d'ogni cosa e struggitore possente, tutto percuote ed abbatte nel suo passare, e i beni di questa terra non sono che un'ombra mobile e fuggitiva, la quale veduta appena, dileguasi. E tanta è l'incertezza in che siamo, e così fatta la caducità della vita, che tale piangente oggi l'amico morto o il congiunto, sarà pianto domani, e scenderà in quel sepolcro ch'ei vide aprire ai suoi cari, e sopra il quale si ripromise di lagrimare pur molto o per verace angoscia sentita o almeno per pompa e vanità di dolore. E questo ferreo decreto di necessità inesorata forse a buon dritto fe' dire gli estinti lungamente a piangersi, avvegnachè breve fosse troppo la linea che i viventi divide dai trapassati. Ma a Defendente Sacchi, che veniva accarezzato, riverito, rispettato da chiunque o per cospicuo natale, o per bella dote d'ingegno si distinguesse, non mancherà il lungo pianto degli amici, dei concittadini, degli estranei che lo conobbero; e quel pianto, quando pur fosse passaggero e di scarsa vena, già non è per inaridire la fonte di quello che ha versato ed avrà a versare chi scrisse questi pochi Cenni, al quale l'essere vedovo di sì cara compagnia, pesa più che il morire.
Oh! largite gli sieno
Tutte le grazie che Virtù si merca;
E quaggiù dove par la Sorte rida
Svolgendo a suo talento
Ogni merto, ogni vita ed ogni evento
Non mai stilla si perda
Della memoria sua santa e devota,
Ma ne' suoi cari l'opra sua rinverda.
Ancor ci pare vederlo seduto nel suo letticciuolo; ancor ci pare udirlo narrarci i motivi per i quali con animo gagliardo egli lasciato avrebbe la vita; e pronosticandosi la morte, dar caldi prieghi agli amici, che non mettessero sospiri, nè singhiozzassero sul suo cadavere: e questo voto è degno di laude, perocchè ogni anima elevata che è persuasa di eternar la sua fama su la terra dir dovrebbe come il poeta Ennio: Nemo me lacrymis decoret.—Pochi giorni prima ch'egli morisse, dicevaci stringendoci amorosamente la mano:—Credete voi ch'io abbia ben sostenuta la mia parte?—Sì, gli risposimo—Lasciate dunque, soggiunse egli, ch'io esca dal palco scenico accompagnato dai vostri applausi.—Queste poche parole bastino a far considerare al parassita, al buffone, al maldicente, al compagno da buon tempo quanta lode potrà ridondar loro allorchè scenderanno nel sepolcro…. dal dirsi di ciascun d'essi che altr'uomo non sapeva meglio divorar un pranzo, ch'egli aveva un ammirabil talento nel motteggiare i suoi amici, che niuno uguagliavalo in uno scherzo crudele, o ch'egli non ponevasi mai a letto senza aver dato passo alla quarta bottiglia. E queste sono cionnondimeno assai generali funebri orazioni ed elogi di morte persone che pur agirono nell'umana società con qualche lustro e riputazione: ma se noi riguardiamo da vicino il grosso della nostra specie, esso è composto di tali uomini che non saranno probabilmente rammentati un solo istante dopo la loro scomparsa.
Tre anni e più fu egli travagliato da forti dolori, ma con tanto vigor d'animo il fiero male tollerò che mai non ne fu superata la virtù. Finalmente venuto quasi meno d'ogni forza, come vide niuna speranza per sè più rimanere, si fece sollecito di affrettarsi i soccorsi della religione consolatrice, esclamando che ito sarebbe lieto e pieno di speranza a ribaciare e padre e madre, e moglie e figlia: ed acconciatosi con decenza sovra la sua seggiola a bracciuoli, sereno in volto come l'innocenza, i suoi occhi s'illanguidirono a poco a poco, simili ai raggi del sole che vanno a perdersi nell'onde quando il mare è tranquillo, finchè dopo una brevissima agonia, mancare sentendosi, stendendo la mano,
Dir parve: s'apre il cielo, io vado in pace.
Egli sciolse lo spirto alla mercede delle sue virtù, lasciando lo spento volto ancor atteggiato di una soave dolcezza, traccia sicura della tranquillità che gli era abituale e che è il frutto e la prova di una coscienza illibata. Il suo ultimo spiro fu esalato tra le braccia di un amico oltremodo accorato¹, al quale stringendo la destra disse con voce tremebonda: Ricordati del tuo Defendente che t'ha tanto amato.—Filosofo senza ostentazione, cristiano di fatto più che di parole egli morì rassegnato perchè visse virtuoso, e che quali nunzj dell'inevitabile umano sfacimento gli antiveduti spasimi portasi in pace, ed alla natura perdona.—In questo tremendo abbandono di tutte cose a noi sembra aver men desolata fine ove le moribonde mani a cader vengano l'ultima volta fra quelle di cara persona, che raccogliendo cogli aliti le parole estreme, quelle si chiuda nel petto a farne serbo nell'avvenire; e veggendo di lagrime un umano volto bagnarsi, ci pare quasi rivivere nell'affetto e nella dogliosa memoria di chi rimane.
¹ _Il cavalier Pompeo Marchesi, nelle cui concezioni noi ravvisiam sempre lo scultore che ha studiato il bello nel vero contemporaneo; che lasciò le orme greche aperte e richiuse con Canova per porsi al livello delle affezioni e delle immagini del secolo in cui viviamo. Il nome di lui risuoni spontaneo sulle nostre labbra con senso di gratitudine._
Possa la nostra gioventù mirar sempre in questo lucidissimo specchio; e possa la memoria di Defendente Sacchi accenderla di nobile ardore a imitarne l'esempio; salvo però in quella non lodevole intemperanza di affaticarsi negli studi a dispetto della sua mal ferma salute; intemperanza che troncò il filo de' suoi giorni, e la quale, anzi che riscaldare i più tepidi, potrebbe soffocare in loro ogni piccola scintilla che mai avessero facendo scioccamente valere a difesa della propria infingardaggine e viltà quella popolar sentenza, che dice: Essere troppo meglio vivere con ignoranza, che morir con dottrina; appunto perchè non sanno che il vivere ignoranti altro non è che un continuo morir da giumenti.
La morte di Defendente Sacchi fu quasi non avvertita. Questa disonorevole trascuratezza deriva in parte dalla natura di alcuni cittadini, i quali scioccamente s'immaginano e pretendono che i chiari uomini debbano avere la pompa e la jattanza degli eroi da teatro: ma è pure una conferma dell'antica sentenza riportata da Pietro Verri nelle Memorie del Frisi, Che le vite dei filosofi sarebbero la vera satira de' loro tempi se potessero scriversi, o si dovessero, con cinica libertà.
La cerimonia funebre d'un uomo sì caro alle Scienze, alle Lettere, alle Arti, alla patria, non ebbe alcun corredo di pompa. Egli fu accompagnato alla tomba da pochi scienziati, letterati ed artisti che gli erano legati da gratitudine, rispetto ed amicizia; e noi, disturbati dalla febbre, l'abbiam veduto portato sulle spalle lentamente oltrepassare il limitare per non varcarlo più mai. Tale è il corso della vita dell'uomo! Così rapidamente essa fugge! Somigliante ad una meteora, essa lucica e non è più.—Tre brevi discorsi vennero pronunziati su quelle care spoglie, discorsi veramente affettuosi, sinceri, a cui rispose il cuore di tutti gli astanti, i quali sbandatamente si scostarono da quell'asilo di morte assorti in lagrime e in tristi pensieri.—Pochi uomini discesero nella tomba, accompagnati siccome quegli di cui piangiamo la perdita da sommo e universale rincrescimento. Ma più memorabile sua ventura fu quella che s'infervorasse l'amicizia intorno al suo cadavere, contro la sentenza d'Euripide, il qual dice: Nessuno fra gli uomini serbasi fedele amico alla tomba.
Defendente Sacchi era piccolo di persona e non bello di aspetto, benchè i suoi lineamenti presentassero un non so che di piacevole nel tutt'insieme e di sereno. Dentro a' suoi occhi leggevasi una immaginativa vivace non disgiunta dalla penetrazione dell'ingegno, e ne scintillava un certo poetico brio. Un fiume di dottrina scorreva dalla sua lingua, quando gli avveniva di poter a lungo e non interrotto parlare. I suoi modi erano cortesi e la bontà dell'anima sua andava del pari colla rettitudine de' suoi costumi.
Lasciò varie opere, ad alcune delle quali, così il mio caro Piazza, «si è mostrata propizia l'opinione degli Italiani.» In quasi tutte però noi scorgiamo uno scrittore abituato alla lettura dei classici, ai quali attinse principj generosi, checchè ne possano dire in contrario coloro che fanno gemere i torchj sotto il peso de' libri inutili, nei quali trovansi idee comuni sulle lettere, sulle scienze, sulle arti, e ciò che più deve rincrescerci, vili adulazioni, siccome già dicemmo, proprie a lusingare ora l'orgoglio, ora l'ignoranza, e sempre la stolta presunzione d'illustri fantasmi. Le opere di Sacchi presentano una mescolanza d'ingegno e di interesse, e trattano alternamente di gravi e ridenti soggetti; motivo per cui elleno andranno alle mani d'ogni genere di persone, facendo la delizia specialmente di quelle che col sentimento del bello e dell'utile cercano d'illudere i penosi sentimenti dai quali è offesa la vita. Noi confessiamo però che in molti de' suoi scritti regnano calor d'idee e fretta di composizione: che non v'è tutta la maturità di riflessioni, tutta l'aggiustatezza di pensieri ond'esser degni di lunga vita. Pure anche in mezzo al loro disordine e alla scoria di che son pieni, talor s'incontrano bellezze e lumi che meritano d'essere conservati.
Le opere che abbiamo di lui alla stampa sono: La Storia della Filosofia greca, in sei volumi.—La Collezione dei Classici Metafisici pubblicata in concorso del professore Rolla e dell'avvocato Germani, in sessantadue volumi.—La Vita di Lorenzo Mascheroni, colla Raccolta di alcuni suoi scritti inediti.—I Lambertazzi ed i Geremei, romanzo storico di cui se ne fecero due edizioni.—Le Antichità Romantiche d'Italia, in due volumi, al primo dei quali concorse anche Giuseppe Sacchi.—Miscellanea di Letteratura.—Varietà di Letteratura.—Saggio sulla Letteratura Civile.—La traduzione del Diritto Pubblico universale, o sia Diritto di Natura e delle Genti di Gio. Maria Lampredi, la quale forma i volumi 8, 9, 10, 11, 12 della Biblioteca Scelta di Opere tradotte dal latino.—I Saggi sugli Uomini Utili e Benefattori del Genere Umano, che formano i vol. 417 e 418 di questa Biblioteca Scelta.—La Pianta dei Sospiri, di cui questa è la seconda edizione, e che ottenne, a Parigi l'onore di una traduzione in lingua francese.—Oltre altre Opere, ed un infinito numero d'opuscoli letterarj e di articoli pubblicati nello Spettatore Italiano, nella Minerva Ticinese, negli Annali di Statistica, nella Gazzetta Privilegiata di Milano, nel Pirata, nel Cosmorama pittorico, nell'Annotatore Piemontese, nella Vespa, nella Farfalla, nell'Eco, nell'Indicatore Lombardo, nel Ricoglitore, nella Rivista Europea, ecc. Avea egli dato mano ad un interessante lavoro, i Voti dell'Italia: ma questo venne dall'Autore medesimo consegnato alle fiamme, ed a noi non resta che di poter dire col poeta,
A suoi voti alfin deh rida
Una sorte più serena,
L'infelice assai la pena
D'esser bella oh Dio pagò!
O Italia, o Italia! Sorgi alle glorie; tu la reina sei del mondo, tu sei la figlia de' Cieli. Il tuo genio t'invita a contemplare in dolce estasi i secoli gareggiare coi secoli a far più vividi i tuoi splendori. Un mondo è il tuo regno; degne d'un mondo sieno le tue leggi.
Defendente Sacchi nacque in Pavia nell'ottobre del 1796, e morì a Milano nella florida età di 44 anni il 20 ottobre del 1840.
Bastino questi pochi Cenni a raccomandare la ricordanza di lui. Gloriose per chi le fa, efficaci sovra chi le ascolta riescir debbono le evocazioni dalla tomba e dall'obblio; perchè l'animo de' giovani, ha detto un valente scrittore, è la terra più ospitale alla memoria delle persone illustri.
Vedesti, o Bella, il mar su cui combatte
Il vento e la tempesta, che la nave
Scorge in porto festante? Se improvvisa
Su lui s'asside la fatal bonaccia,
Ne dispera il nocchiero, e gela e trema,
Che invan raggiunge coll'ansio desìo
Le patrie sponde, i pargoletti figli,
E della sposa l'iterato amplesso.
Tale è il mio core: in lui convien sia desta
Degli affetti la pugna ognor: se tace,
La vita è muta in lui, e l'armonia
Immortale del bello e la favella
Ch'entro si sente, e sembrano parlarne
Il ciel, la terra e l'onde e l'erbe e i fiori.
S'ei tal sortiva, e se innocente affetto
È solo amor fra l'ire torve e crude
E i pensier tristi del bel mondo, amore
Accolgo or sol. Soave ei più mi versa
Per entro il seno il nèttare di vita;
Di voti cari ed innocenti in mente
Ei mi ragiona: a nuovi voli addestra
L'accesa fantasia, e finchè il gelo
Dell'età nol costringe, dalle gravi
Di Sofia cure, cui solo son care
Le insonni notti e la squallida face
Che del pensiero invan svelar procaccia
L'oscuro inestricabil labirinto,
Amor m'invola, e fra le vie rapisce
Del dolce immaginar, e in queste carte,
Cui fia talun segni di fola, sparge
La mestizia onde il core ognor si veste.
Tu, vezzosa MALVINA, a cui le Grazie
Vaghe composer la gentil persona,
Nido d'alma più bella, un dì beasti
De' tuoi sguardi le piagge erme e romite
Ov'io già corsi colla mente, e pinsi
A' meno austeri, lagrimose scene,
Costumi antiqui e ferità degli avi
E novelle sventure. Ecco alle labbra
Schive di succhi estranei, che di miele
Asperso il vaso, agl'Itali palati
Ministra amaro tosco il secol novo
E ogni senso di bello estingue, ardiva
Io l'onda pura appresentar del fonte
Nel cratere di creta. Già me avea
Mosso a libarlo amor de' prischi tempi
Alla tomba prosteso, ove sdegnoso,
Pel culto ora negletto, il cener giace
Di quegli ausonj cigni il cui divino
Canto pur vinse i secoli canuti,
E dolce ognor nell'anima risuona.
Cui più la voluttà soave alletta
Della tristizia, amai di fresche valli
E leggiadre selvette e ameni colli,
Mal noti, pinger la quiete e il bello
Onde son dilettosi, se nol cinse
Il rozzo parlar mio di fosca nube.
Se fra que' monti ancor Bella ti giovi
Il piè inoltrar curioso, allor che l'ali
Volger vorrai de' lumi ove s'innalza
La Pianta ond'io parlava, sulle rose
Del tuo labbro avverrà forse baleni
Un sorriso, più grato assai dell'alba
Nella stagion novella: a quel sorriso
Vedrai d'intorno rallegrarsi il poggio
E rifiorir la valle, ed inviarti
Collo stormir de' rami il conscio bosco
Sull'aure un noto nome e i miei sospiri.
Nè tu vorrai tacciar di dura nota
Questi studi e d'inutili: talora
Giova lo spirto da severe idee
Richiamar fra più liete, onde rinnovi
Lena ed ardir: così fra balze e sassi
Al lasso vïator spesso rinverde
Le forze un prato ameno. Talor giova
Di soavi blandizie adescar l'alma,
Ed educar di cari affetti il core.
Amor che spesso è di venir sì vago
Dolce a parlar nel volgere soave
De' tuoi bei rai, ed ivi insegna altrui
Con quai saette fera e quai tu annidi
Virtù, per che seder teco si piace
Meglio che in grembo a Venere celeste;
Amor ti porga questi fogli, e s'unqua
Pietà ti mova de' dolenti amanti,
E qual rugiada del mattin ti brilli
La lagrima sul ciglio, ei la raccolga
Sollecito e a versarla ah! tosto voli
Pietoso sul mio cor. Tempri ella alquanto
Il bollor che l'incende e nel mio petto
Un fiume sparga di tutta dolcezza,
E spunti nuova luce a' miei pensieri.
Senza odorati fiori
Le rive e i poggi, e senza verdi onori
Vedrai le selve alla stagion novella,
Prima che senza amor vaga donzella.
Ameni colli ove seminò tanto bello Natura, vallette solitarie in cui spesso venni a confortare lo spirito lasso e a bere più dolce l'aura di vita, voi non sarete mai posti in obblìo dal mio cuore. Le tue ingenue virtù non fieno dimenticate, o abitator del dirupo, da chi fuggendo il lezzo della social corruzione ritrasse sovente ricreamento, imitando la semplicità de' tuoi modi. A te di campestri fiori intreccierò una corona, pianticella solitaria, ove sparse i suoi sospiri la vergine della collina, commetteva all'aura le proprie sventure, e muoveva a pietà quegli cui ferivano i suoi lamenti.
Lungi lo sguardo severo del freddo Sofo dalle care innocenze della natura, lungi gli agghiacciati petti chiusi alla dolce voluttà delle passioni: non ignoti agli affetti del cuore, noi spargiamo sospiri per le anime sensitive, e cediamo per un palpito soave i contrastati allori della volubile fama.
Povera Marcellina, invano una rozza culla volea tenerti lontana dalle passioni del bel mondo; invano il natìo tuo colle ti crebbe alla solitudine ed alla pace. Amore s'apprende ai petti più rozzi, e penetra i più silenziosi recessi; Amore stringe il cuore de' porporati monarchi e dell'ultima villanella: è il vento che scuote la cima del superbo pino e la viola della valle, è bufera che spande la discordia nelle popolose città, e la desolazione nelle innocenti capanne.
Natura, che avara sempre ricopre di geloso velo i suoi tesori, destò la face di vita in Marcellina sulla cima di un poggio solitario. Nebiolo è una collinetta che umile s'innalza fra Casteggio e Voghera, alle cui radici da un lato scorre il torrente Carvenzolo e volge dall'altro più ricca d'acque la Schizzola. Nebiolo è collina che quasi orfana si leva siccome piramide in mezzo alle sue uguali: era antica sede di uno di quei castelli che seminò il feudalismo sulle Alpi e sui liguri monti: questo, come vollero il destino di chi il tenea e le fazioni, fu preso e distrutto, sicchè di tanto orgoglio appena or se ne scoprono l'orme.
Su queste rovine sorgono otto o dieci anzi capanne che case, e le abitano altrettante semplici famigliuole. Le tenebre delle fuggite età involgono la loro origine, si chiamano tutte dal nome del loco, e vivono in grembo all'innocenza di natura. Scorrendo quei dirupi, e a gran diletto avventurandoli in Nebiolo, ti avviseresti seguace di Vailland visitare nei deserti dell'Africa una di quelle povere orde di Ottentotti, che ricoverandosi in pochi tugurj di canne non invidiano al fasto de' molli Europei.
Que' di Nebiolo non hanno neppure il forno ove cuocere il pane, non comodi della vita, non ambiziosi pensieri d'aggrandimento. Lavorano a lor mani le poche terre enfiteutiche ch'ebbero in retaggio dai loro padri; raccolgono quanto solo è richiesto ai loro bisogni, spesso si maritano fra loro, e vivono in mezzo alla società nel semplice stato di natura.
Marcellina era figlia di Giovanni, che fra i maggiori di Nebiolo teneasi pel più venerabile padre. Innocente come l'agnella che pasceva sul suo pendìo, negletta come la pianta del bosco, cresceva la bella come il fiore di primavera: era pronta e vivace, d'un animo puro e dilicato, vestita di quella soave verecondia, onde natura volle far presente al suo sesso per renderlo più vago e desiato.
La madre di Marcellina essendo lieta di questa unica figlia, la crebbe come si coltiva la bionda spica del campo, era il primo pensiero della sua vita. Sebbene il lavorìo della poca sua terra dovesse solo condursi per le sue e per le braccia del marito, e l'opera della Marcellina potesse riuscir loro a molto sollievo, essa non volle serbarla che alle cure più lievi, e amò meglio sola indurare nelle fatiche.
Mentre i genitori intendevano a rompere le zolle de' campi, a raccorre la matura messe, o andavano per le legne al bosco, Marcellina nella povera capanna, lunge dall'importuna sferza del sole e dalla malvagità della stagione, preparava loro lo scarso desco che offerto dalla mano di lei, riusciva a quegli innocenti condito della più squisita dolcezza. Essa imbandiva pure nella tersa caldaja il cibo più semplice dell'uomo coll'aurea farina del monte; con questa pur facea una maniera di pane, che forse fu quello de' primi uomini, allorchè rozzi come que' di Nebiolo, non conoscevano l'arte di costringere il calore entro cave vôlte di creta, per cuocervi i loro cibi. Marcellina formava colla farina senza lievito un rotondo pane: fatto indi ben riscaldare un largo mattone ch'era base al focolare, ivi il collocava, ricoprivalo di ardenti brage e lasciavalo colà finchè fosse a debita cottura.
Tale è il modo con cui la natura insegnò a que' di Nebiolo a supplire all'arte, e pone tanta squisitezza in questo cibo, che quegli uomini ingenui sporgendomelo, m'accertavano essere assai più saporito di quello che si ministra alle mense cittadine. Assaggiandolo lo innaffiai d'una lagrima, perchè sentiva la sublimità di quegli accenti, mentre quella schietta vivanda non era loro amareggiata dall'assenzio che spargono le cure sociali fino sul più abbietto frusto di pane.
Non io già sogno la felicità de' pastori, non le favole degli abitatori di Arcadia: dipingo i costumi de' rozzi coloni dei nostri colli. Non io già invito gli uomini ad abbandonare le città, onde menare nella solitudine una semplice vita, straniera alle colpe ed ai delitti, che sarebbe vana fola per la lor civiltà: io accenno come quei semplici montanari fra le fatiche e i disagi, gustano la felicità, e certo nella innocenza della loro vita, se invidiano alle nostre dovizie, non sanno che, ottenendole, rinunzierebbero alla pace.
Marcellina aveva la cura del piccolo pollajo, tosava alla stagione le agnelle, e aveva pensiere de' loro piccioletti. Preparava col latte della giovenca il burro per la famigliuola, attendeva a racconciare i rozzi abiti de' genitori, in fine prendeva sollecitudine di tutte le cose domestiche; nè veniva ai campi che al tempo della vendemmia e nelle più stringenti necessità. Quindi era più gentile e meno brunetta delle altre femmine della montagna, assai dilicata, ed anzi pallidetta che rubiconda: poteva valere a modello onde rappresentare la grazia della collina. Capelli castani inanellati, viso piacevole, e sebbene qualche menda vi si potesse trovare nel profilo, avea una di quelle fisonomie che dir si possono saporite. Pronta, snella, dolce d'indole, non melanconica, ma, anzichè gaja, di un carattere soave.
Marcellina era la delizia de' suoi genitori nella fanciullezza, loro conforto nell'età più verde. Allorchè il padre nella state ritornava madido di sudore dai campi, essa se gli faceva festevole incontro, gli toglieva d'in collo gli stromenti agresti, e invitatolo ad adagiarsi sotto l'ombra di alcuni castani che prosperavano vicino alla casa, col suo grembialetto gli veniva lievemente tergendo la fronte, e con qualche fronda provocava l'aria, perchè muovesse quasi coll'ali fresche a scherzargli intorno, e temprargli la tiepid'ôra.
Siccome spesso Giovanni al ritorno desiderava di bere, ed essa temeva forte non gli inducesse nocumento il subito freddo dell'acqua, anche correndo pericolo d'esserne ammonita teneva vuoti i secchj, onde finchè ella scendesse al pedale del colle ad attingere l'umor del fonte, alquanto si rattemprasse il calore nelle arse di lui membra. Rinfrescatolo e presentatogli il cibo, gli preparava qualche fascio d'erba o di fieno, e fattonelo adagiare lo invitava al riposo. Con qualche fronzuto ramo gli allontanava i molesti insetti, e conciliavagli il sonno: quando erasi addormentato, gli copriva con quella fronda il volto, e stava sempre in attenzione perchè niuno venisse a dargli molestia o a rompergli il riposo.
Nè men tenera la Marcellina era per la madre. Aveale questa dato il proprio latte, cresciutala con amore e confidenza: teneala più qual sorella che figlia. Già anche adulta la forosetta, faceale intorno mille amorevolezze e mille baci: la ripigliava sovente perchè troppo si affaccendasse, in vece di commettere a lei il peso de' lavori più gravi. Ogni dì le serbava l'uovo recente della gallina e la induceva a berlo; la pettinava; era sollecita di lavarle i panni più spesso del solito bucato; vegliava per filare il lino di lei; attendeva con ogni premura ai bachi, perchè Giovanni ne concedea l'utile alla moglie. Marcellina non era mai lieta se non vedeva la giovialità sorridere sul volto della madre; non sosteneva mai che andasse ancor digiuna al lavoro, e nel verno pativa di starsi più a lungo nella piccola stalla, ove teneva l'asinello e la giovenca, per serbare le legne a destare un bel fuoco quando quella tornava dalle proprie cure.
Rosa d'altra parte non era meno amorosa verso la figlia. Ne' giorni dì mercato andando a Voghera a vendere qualche pollo o la lana, o alcuna misura di castane, avea sempre premura di portare a Marcellina qualche pan bianco, ch'ella però divideva co' genitori; spesso un fazzoletto, talora qualche spillo d'argento da rannodare le trecce, od altri simili vezzi. Come la buona donna aveala fregiata del nuovo presente, la riguardava quasi innamorata, e sembrandole più bella, con trasporto la stringeva e la baciava caramente.
Fra queste innocenti cure era cresciuta la Marcellina, sicchè già le sorrideva il terzo lustro, e sua madre non aveala che una sola volta condotta a Voghera. Non mai avea corso i vicini paesi, non mai erasi trovata fra i tumulti delle feste de' propinqui colli. Usava ne' dì festivi andar coll'alba nascente a S. Antonino sua parrocchia insieme alla madre, assisteva con raccoglimento ai divini uffizj e ritornava al natìo casale, senza mai immischiarsi in vani discorsi colle altre donnicciuole, o prendersi pensiero di sapere quanto altri oprasse.
In Nebiolo però essa era nè selvaggia nè schiva; giacchè non constando il paesetto che di pochi vicini focolari, viveano quasi que' solitarj come in una sola famiglia, nè vi aveano che cinque madri, altrettanti mariti e dei figli.
Allorchè alcuno di questi ammalava, e mentre tutti intendevano al lavoro, la sola Marcellina restava nell'eremitaggio, ne pigliava essa pensiero, gli prestava ristoro col latte delle sue capre, e raccoglieva le erbe onde preparargliene col succo salutare beveraggio. Avea cura pei fanciulli degli assenti e delle loro case, e all'estate verso sera, raunata sur un vicino praticello la pia tribù, faceva recitar loro l'orazione de' morti: era in fine la delizia, il pensiero più tenero di tutti, e alle preghiere di lei ognuno confidava nelle proprie calamità.
In vero la semplicità ed il candore dell'animo sono l'olocausto più grato al nume della virtù; e Marcellina esser dovea il solo interprete di que' puri cuori presso la divinità: essa era religiosa come una cenobita, ispirata come un serafino, nè altro mai domandava al cielo che la salute de' suoi parenti e la prosperità de' vicini. Così, presso a sedici anni, fresca come la rugiada del mattino, pura come la neve del monte, altro affetto mai non aveva accolto il suo cuore, fuorchè l'amore di coloro che le diedero vita, e la carità de' suoi simili.
Già al raggio d'estivo sole biondeggiava la messe nell'arso solco, e il tempo s'appressava in cui correa la festa della Madonna del Monte. È un tempio consacrato alla Vergine, sulla cima di un colle alquanto erto, in cui gli scabri macigni fan testimonianza della vicina montagna. Essa s'innalza fra la catena delle colline che con diverso pendìo e vago succedersi or di valli verdeggianti, or di sterili dirupi, muovono lungo il letto della Copia verso la di lei sorgente.
A metà del colle mezzo ascoso fra il seno delle rocce, le circostanti alture e le piante, siede il paesetto in dolce pendìo. A lui sovrasta quasi piramide la cima del monte, sopra cui romita sorge la chiesetta colla cella del levita che ne ha la cura: conducono a questa varj tortuosi sentieri, che ora si innalzano sullo scoglio, ora si perdono nei silenziosi labirinti del bosco. Niuna vetta di opposto monte, niuna fronda d'importuna pianta adombra il solitario tempio; sicchè il sole nell'intero suo giro sempre lo indora co' suoi raggi, e concilia a vederlo da lungi religioso ossequio, perchè ti avvisi ch'ivi l'aura rifulga, indizio della presenza del nume. A questa chiesa traggono i terrazzani del sottoposto paese, per essere addottrinati nella religione de' loro padri, ed ivi coi puri lor cuori porgono voti innocenti al cielo.
Numeroso e vago è il concorso degli abitatori delle altre colline al Monte il dì della festa: d'ogni età, d'ogni sesso, eguali di semplicità di costumi, pari negli abiti e nel cuore, se non che taluno nella diversa foggia di qualche ornamento accenna la natìa sua terra. Tutti serbano questo giorno a sollievo delle diuturne fatiche; ognuno si procaccia far pompa de' più eletti fregi, e ti piace fra quella semplicità un lusso che è di vezzi anzichè di ornamenti: ognuno si studia meglio di riuscire gradito altrui o colle grazie o coll'innocente allegria, sicchè potresti dire che colà si uniscono i fiori più eletti della campagna.
Ivi fra semplici parlari e liete cure si rinfrescano le vecchie amicizie e se ne stringono delle nuove; ivi si veggono gli antichi congiunti, e vi convengono e gli amorosi genitori e le figlie che andarono lungi a marito, per ritornare ai paterni amplessi. Sovente s'incontrano taluni che, da gran tempo lontani, pareano dimenticati dal cuore, si ricordano i trascorsi tempi di felicità; corrono grate all'animo le fauste novelle; e fra loro batte la gioja le scherzose penne, senza che mai invido umore ne annebbii il caro sorriso, cui sovente, fra l'avvicendarsi degli affetti e delle accoglienze oneste e belle, gode la volubile sorte d'intrecciare inaspettate avventure, e insidioso amore prepara nuovi nodi e future felicità.
L'industria dell'uomo si procaccia di trarre partito anche dalla semplicità di questa festa. In ogni parte sulle strade, che conducono all'erta, entro varj seni del monte, vedi annicchiati alcuni che vendono ornamenti, merletti e tele, altri che fanno mercato di fettucce a vario colore, di semplici fiori coi quali il contadino fregia il suo cappello. Alcuni ti sporgono dolci, non quali si richiederebbero al molle palato della dilicata dama, ma pur grati a quelle labbra che non ancor rifuggirono dai semplici cibi della natura. Fra questi ancor più grate riescono le inanellate file che tu, schietta contadinella, sporgi cibo squisito a' più schivi: tu col fior della farina e col burro della tua giovenca, componesti una molle pasta, e con questa formasti varie picciole anella cui il calore del fuoco rese rigonfie e rilucenti, e sovente, perchè riuscissero più gradite, sopra vi spargesti i favi delle tue api. Tu con grazia le offri al passeggiero che con molli parolette le compra, e spesso si ricorda di quelle che a lui già vendevi la scorsa estate; e mentre te ne dà lode, dolce ti corre un piacere all'animo che si annunzia sul tuo labbro con un caro sorriso.
Altrove in breve piano a sè rapisce gli orecchi, non abituati alle diverse armonie de' combinati stromenti, la melodia di un'umile sampogna o di una montana piva, al cui suono due fantocci mossi da una cordicella che si appicca alle ginocchia del suonatore, menano allegra danza su una breve assicella. Più vicino schiude un altro un ligneo tempietto ove son dipinte le sacre storie: ognuno si studia di scoprire se sieno quali le udì dal sacerdote, ama ravvisare i fatti che più gli piacquero, e sebbene spesso non sappia leggervi entro, si provvede del breve libretto ove è il noto racconto.
Qui un altro tiene un capace arnese che in varia foggia s'innalza, e in cui per diversi cristalli sporgenti all'intorno può spiare l'occhio della curiosità. Vi si accosta il semplice montanaro, e all'abbassare di varie cordicelle, vede succedersi e scomparire innanzi a' propri sguardi città, palagi, giardini, mari e monti e le più strane meraviglie: già è trasportato in lontane contrade, e mentre coll'occhio sta fiso al breve pertugio, si scuote per gioja, chè già emulo degli eroi, di cui sentì nel presepe raccontare al verno la storia, gli par di scorrere l'universo, e sovente poi ragiona cogli amici de' lontani paesi come se gli avesse visitati. Altrove si stringono in breve giro uomini e donne, ed ecco scorrere all'intorno un destro cane che or va a pigliare nell'altrui tasca l'ascoso fazzoletto del padrone, a questi indovina gli anni, a quella le passioni, e con qualche altro più pungente giuoco tiene lieta la brigata.
A questo ingenuo ricreamento ti sostieni, o montano abitatore, non correre al palco vicino, nè starti coll'affollata turba che già il circonda, tese le orecchie, immobili gli sguardi e aperte le bocche quasi li tocchi gran meraviglia, a udire colui che dall'alto ti è largo di parole. Ah! non credere di acquistare vantaggio ne' suoi accenti: semplice! non prestar fede ai portenti ond'ei si millanta maestro: ei viene dalle corrotte società, nè v'ha menzogna che rifugga dalle enfiate sue labbia sitibonde di guadagno. Non porre speranza negli antidoti che ti offre, nè affidare troppo ciecamente a' suoi ferri te stesso: ei si ride della tua inesperienza, ei si adopra più presto procacciare a sè lucro, che a procurarti salute.
In vece meglio ti alletti quest'altro che sopra un breve tavoliere ti viene attelando eletta schiera di graziosi giuochi. Ecco tre bossoletti, sono vuoti al tuo sguardo; sgombre sono le mani di chi li move fra le cui dita si agita magica bacchetta: ecco è percossa sul tavoliere, e d'ogni parte come più ti talenta spicciano lignee pallottole, e quasi polvere che s'insinua, passano sotto il cavo metallo. Mentre meravigli al primo portento, uno novello il tragettatore ne crea: leva que' piccioli globetti che sempre si riproducono, e li pone in copia nel tuo cappello: or se il tenti e lo rivolgi il trovi solo pieno di vento, eppur tu stesso il tenevi gelosamente coperto! Ma le palline che sfuggirono alle tue cure gelose, già si moltiplicarono sotto il magico bossolo: ecco mentre le riguardi mutano colore, a un soffio s'ingrossano, e sempre crescendo divennero gonfie per modo che più non possono ritornare sotto il capace vase.
Meraviglia pure e sorridi: questa è tutta destrezza della dotta mano. Anch'io sovente quando teco passai ore di schietta gioja, io t'apriva il velo di que' nuovi portenti, e apportandoti diletto, spesso mi compiacqui nelle improvvise commozioni della tua meraviglia. Ah furon pur quegli innocenti piaceri assai più dolci di quanti ne comparte pieni d'amarezze il bel mondo! Ah fia pur ch'io ritorni a rintracciarli, allorchè stanco di rintuzzare con indomito petto i dardi di bieca fortuna, con questi incolpabili strumenti, ultima mia speranza, e in vero più certa di quella che talor risplende fra il sorriso della volubile opinione, io riederò a voi, ingenui mortali: niuno mercè la festività di que' giuochi negherà lo schietto pane del suo campo alla purità del mio cuore.
I vicini premeano il padre di Marcellina perchè colla famigliuola volesse seguirli al Monte, che è forse a tre corte miglia lungi da Nebiolo. Giovanni era restìo, ma le importunità della moglie, i vezzi della figlia cui già da gran tempo pungea curiosità d'andarvi, senza molto il piegarono.
Messo quindi in capaci panieri chi il formaggio delle pecore, chi qualche pollo, chi alcun pezzo di porco arrostito o salato, s'avviò al Monte il dì della festa, la brigata di Nebiolo. Fra la famiglia di Marcellina e gli altri a cui permisero le proprie cure di andarvi, essa constava di dodici a quattordici persone, cui seguiva indivisa compagna una schietta allegrìa.
Poichè giunsero al divisato loco e confortarono alquanto lo spirito lasso pel cammino, si misero a discorrere il colle, e i varj boschetti ove più li tirava o la frequenza delle genti, o la curiosità, o la brama di recare Marcellina a piacevoli trattenimenti. Essa nuova ai tumulti, spesso seguiva i compagni quasi pecorella che tien dietro al gregge senza che la tocchi altro desìo fuorchè l'esempio: sovente da' parenti o dagli amici richiamata su qualche oggetto, riguardava con piacere, dimandava a vicenda quanto le ricercava la curiosa vaghezza, e siccome la allettava ora un suono, ora una meraviglia, ora un giuoco, era rapita alla gioja ed al riso. Così que' di Nebiolo passarono in vario modo quelle ore prime della lieta giornata, altri cogli amici, altri a parte degli altrui racconti, altri colla Marcellina, finchè li chiamarono nella chiesa la cerimonia e i cantici della mattina.
Poichè il sole incominciava a declinare dalla metà dell'arco suo diurno e tacquero i pii uffizj su quel Monte, nuova scena ivi seguì assai aggradevole a riguardarsi. Si riunirono in varj gruppi e brigate i congiunti e gli amici, quali in un praticello verdeggiante, quali al rezzo di un'antica pianta, chi nel seno di qualche dirupo o fra le macchie del bosco, si assisero sul terreno a grata mensa, che in breve sorse a rallegrare i loro palati.
Dove prima sul Monte era un tumulto di persone che scendevano e salivano quasi arena in cui spira il vento, un rumore diverso di suoni, di parole e di grida, e un premersi a vicenda, che ti affaticava; allora la scena cangiò. Al continuo moto è succeduta la quiete, son vuote le vie, vuoto il tempio: d'ogni intorno ove pria non vedevi che scoglio ed erba, l'occhio si riposa sur un gruppo atteggiato d'allegria che intende al cibo ed a ricercare l'animo con nuova e pura gioja.
Rompe solo l'apparente silenzio un bisbiglio di voci, che sommesso da prima, col proceder del pranzo cresce e sovrabbonda, finchè s'innalzano grida di giubilo cui rispondono gli opposti drappelli e le percosse valli. Si ridestano gli strumenti, si sparge la campestre armonia, la volubile follìa rapisce gli animi, e in breve vedi ove innanzi festeggiava la mensa, risplendere la danza, scopri d'ogni intorno in nuovo commovimento il colle, e ti pare che un delirio agiti quelle genti, cui volano le ore stando a diletto fra sì innocenti piaceri.
Anche la breve colonia di Nebiolo dopo i sacri uffizj si pose a dar opera al lauto pranzo, sotto una pianta non lungi dalla Chiesa. Il Parroco, uomo assai pio e di molta santità, recavasi in tanto a piacere di diportarsi fra i festeggianti, trattenersi or con questa, or con quella brigata, dare loro dolci parole, richiederli del natìo paese e confortarli a starsi di buon animo. Allorchè fu a quei di Nebiolo ed ebbe i loro ossequi, e saputo d'onde erano, e come un paesetto ivi si unisse in amorosa famiglia, e commendò il loro proponimento; gli venne veduto il pane di che si cibavano, e dimandò di qual sorta si fosse. Giovanni prestamente gli espose come si cuocesse ne' loro focolari, sicchè assai ne fu meravigliato il venerabile Sacerdote, e sentendolo lodare siccome saporito, ne lo richiese di uno, proponendo di cambiarlo con del proprio.
Appena manifestò egli questo desiderio, la Marcellina fu in piedi, e preso un pane che era ancora intatto, con modesto inchino glie l'offrì, dipingendosi d'innocente rossore ed abbassando gli occhi. Fu il Solitario assai lieto del gentile presente, e presa per mano la Marcellina la ricercò del suo nome, e lodata la sua prontezza e modestia, gliene seppe cortesia: essa ritraendo da lui la mano tremante si restituì al suo posto. Il savio Pastore corrispose con alcuni suoi pani e del vino alla brigata, e fè' sentire alla Marcellina come desiderava che al vespro fosse fra quelle che accompagnavano col torchio l'effigie della Vergine in processione.
La madre fu oltremodo contenta dell'onore compartito a Marcellina, e venuta l'ora divisata, la timida fanciulla, roseo per verecondia l'angelico viso, fra le elette ancelle della Chiesa, seguì la sacra pompa.
Questa si aggirò per le vie meno anguste che corrono intorno al Monte, ed era pure incantevole a riguardarsi, in obliquo calle, con leggiadra ordinanza alternando inni di pietà, muoversi il devoto corteggio. Siccome discese fino a metà del colle, ed era numeroso perchè il seguivano tutti i vicini coloni, mentre da una parte era bello vederlo tortuoso scendere, piaceva dall'altra osservarlo nel salire. Ognuno facea riverenti le ginocchia e il ciglio, allorchè passava la sacra effigie, e la seguitava al tempio: ognuno intendeva alla straniera figlia a parte de' sacri riti nell'altrui parrocchia, e chi ne applaudiva le fattezze leggiadre, chi il fior di giovinezza, chi la semplicità del vestire, tutti la cara modestia del volto.
Ma fra tanta religione e pietà della povera fanciulla, aveale la fortuna nemica ordita una lieve sventura che dovea segnare il destino della sua vita.
Erasi restituita la processione in chiesa, e tutti si affollavano verso l'ara; alla timorosa Marcellina mentre incerta ove porsi, abbadava alle compagne e stava per inginocchiarsi, cadde il bianchissimo lino che siccome velo le copriva il capo. Ne fu assai turbata, e mentre volgeasi a raccorlo, ecco gliele viene presentato da un giovane tutto sollecito, che avidamente in lei ponea gli sguardi: la fanciulla volle sapergliene grado, ma alzati gli occhi verso lui e accortasi che con tanto fuoco la rimirava, abbassò vergognoso il volto, e si fe' tutta vermiglia: acconciatosi come meglio potè il velo, stette inchinata attendendo che avesse termine la cerimonia.
Il giovane era stato commosso dalla soave fisonomia di Marcellina, e sentì in petto una insolita inquietudine che gli mettea desiderio di rivedere la bella sconosciuta. Compiuti i religiosi uffici ei stette ad attenderla fuori della chiesa, e mentre la semplice raccontava alla madre l'occorsole, s'incontrò negli occhi di lui: le morirono sulle labbra le parole, e un inusitato palpito del cuore le richiamò il rossore sulla dilicata guancia.
Il giovane focoso non ristette perciò: le tenne dietro, e giacchè il giorno era sul declinare, veduto che quella brigata s'incamminava sulla strada che conveniagli percorrere per rendersi a casa, si mise fra loro. Ragionando or coll'uno or coll'altro, gli accompagnò fino al Carvenzolo, ove presero commiato dividendosi, gli uni per salire il colle di Nebiolo, gli altri per proseguire la via.
Però il giovane per quanti ragionamenti si muovessero non restava dall'adocchiare la Marcellina, e benchè questa per la natural sua modestia si tenesse a molto raccoglimento, le sue pupille sovente senza avvedersene si giravano sopra di lui, e le inchinava palpitando. Così ella trasse da quella festa al paterno casolare una dolce melanconia, che le parlava al cuore un ignoto favellìo cui non sapea comprendere. Sola fra' suoi pensieri e i suoi dubbj, se le destava sempre in mente quel velo, quella chiesa, e quel giovane infausto. Erano idee che pareano turbarla, ma pure non sapea disperderle, chè aveano seco una sconosciuta dolcezza ad un tempo piacevole e molesta.
Nè intanto eri meno tranquillo tu pure, sfortunato Girani. Tu ti restituisti affannato alla tua collina, tu passasti torbida la notte, e più annebbiato il dì venturo: fra' tuoi lavori innalzavi lo sguardo a Nebiolo e sospiravi; sollecitavi impaziente la prossima festa onde vedere la bella dal colle solitario. Già per te si meditava lieto fine a tanti desiderj, timore ti stringea di non esser gradito all'avvenente fanciulla, e se non ti ratteneva il dubbio ed il timore, saresti di presente volato ad offerirle la tua vigna, i tuoi armenti e la tua casa, perchè volesse corrisponderti d'amore e dividerli teco.
Non era agiato Girani, non era l'ultimo dei coloni della montagna. Possedeva alcune vigne, il lavoro di due buoi, abitava sopra una placida collinetta che di poco s'innalza fra la Torrazza e Maresco, d'un miglio lunge da Nebiolo. Sulla sommità di questa siede il suo albergo, casetta umile cui saluta il primo raggio del sole, saluta l'ultimo crepuscolo della sera.
Bella è Mancapane, sebbene l'antica infecondità del terreno vi apponesse infausto nome. Ivi io pure pel giro di lunghi anni menai le quete ore del pampinoso autunno, in seno ai dolci piaceri dell'agreste innocenza: fra quelle valli amene sovente col mio Rousseau errai colle lagrime agli occhi pensando alle passioni del burrascoso mio cuore, e più volte vi feci risuonare il caro sospiro di Raynal sulla tomba d'Elisa. Sur uno di que' castani io incisi il nome degli amici più diletti alla mia ricordanza; da quella casetta io salutava l'alba nascente, rimirava la mia patria, numerava le sue torri, e rimembrava le antiche sue glorie.
Nella terra natia di Girani io sovente risi delle nebbie che vedeva coprire le lontane città: ivi ideai le sventure degli amanti infelici del Lago, ivi rinvenni nell'animo mio gli affetti che amai dipingere in altri, e colà sentii narrarmi la dura istoria di Marcellina, mentre io stesso era a parte d'una scena più bella che possa offerire la semplicitade agreste.
Era un bel mattino d'estate: sciolto d'ogni benda importuna il collo, vestito di un breve giubbetto, con un semplice cappello di paglia, ritornava col fido mio brik e il frate solitario ospite mio, da una lunga passeggiata ne' dintorni di Nebiolo. Stanchi più dal crescente caldo che dal cammino, ci soffermiamo vicini al presepe, e sediamo all'ombra sopra un banco di terra. In questo mezzo viene la castalda dal forno con frutti cotti, e li porge a noi che ne avevam mestieri. Ce ne imbandiamo cibo saporito, e il cane facendone intorno meravigliosa festa si mangiava quanto era gittato. Intanto ritornavano all'ovile le pecorelle: era con esse il porco, si fermò e volle esser quarto al nostro desco, sicchè io ridendo e sovvenendomi il Pirrone, ma con un cuore diverso, distribuiva a quegli amici innocenti e innocui parte del mio cibo.
Allora un montanaro che passava ne fu cortese di un saluto sorridendo, per chè io il volli a parte della brigata e della colezione. Entrò egli meco in vari ragionamenti, e caduto discorso di Nebiolo, appoggiato ad un bastone narrò le sventure che ripeto alle anime sensitive.
Girani attendeva impaziente il dì festivo: come e' venne, avendo saputo ove que' di Nebiolo usassero a' divini uffici, all'alba si rese a S. Antonino, ove avea speranza di vedere la bella. Ma la madre che già da alcuni dì la scorgeva melanconica, nè sapeva indovinarne la cagione, a procurarle con una lunga passeggiata qualche sollievo, pensò condurla il mattino al Costiolo, che è un prossimo colle su cui s'innalza con un paesetto la chiesa.
Girani quindi l'attese invano e quasi disperò di più incontrarla. Pure non sapea dipartirsi da que' luoghi, e quasi dimentico di sè, si adagiò verso il meriggio sotto l'ombra di una pianta sulla via che da Nebiolo mette a S. Antonino. L'aura tiepida e la quiete di quelle solitudini conciliarono il sonno al conturbato garzone, sicchè lo colse colà l'ora de' vespri.
Marcellina e la madre, poichè ebbe fine il breve loro pranzo, s'avviarono alla chiesa usata per la dottrina. Mentre erano poco lungi dal paese e Rosa richiedeva la figlia della cagione di tanta melanconia, e questa rispondeale di non saperla nè conoscere nè esprimere, giunsero ove era coricato Girani, che da lunge videro bensì, ma non vi posero mente, tale essendo il costume di pressocchè tutti i montanari. A costui ruppe il sonno la voce della Marcellina: levato il cappello con cui faceva coperchio al volto, e alzatosi nel momento istesso che le donne passavano, fu fortemente scosso alla inaspettata fortuna, e la povera fanciulla diede un grido e si strinse alla madre. Questa tenendo simil commozione procedesse perchè ivi non si fosse prima avveduta di un uomo, sorrise e passò colla figlia.
Marcellina andava innanzi, ma aveva addietro il cuore, teneva il capo inclinato verso la strada percorsa, e tendeva l'orecchio desiderosa di sapere se quello straniero la seguitasse, ma pur temeva di rivolgersi. Però ove la strada era più erta, e dava volta sicchè con poca difficoltà potea discorrere col rapido sguardo il lasciato cammino, di poco piegò il capo e s'accorse che Girani le teneva dietro, e ne fu lieta nell'animo. Era confusa e agitata, e assai le parve lunga la via che conduceala alla chiesa, perchè potesse togliersi alle moltiplici dimande della madre, cui il suo labbro tremante e confuso mal sapeva rispondere.
Lo sbigottimento e il rossore della Marcellina ispirarono conforto al giovane, che sebbene rozzo, pure vedea trapelargli qualche speranza a' suoi dolci desiderii, sicchè entrò in chiesa, e si appostò in modo che agevolmente potesse vedere la bella, ed esser da lei ravvisato.
Marcellina confusa fra un tumulto di affetti e il terrore religioso, stava cogli occhi al suolo, e se talor gl'innalzava vedevasi innanzi l'ardito sconosciuto che parea cogli sguardi di fuoco le favellasse un nuovo linguaggio; sicchè stava contrastata, desiosa di seguire ora i doveri della sua innocenza, ora gli impulsi del cuore. Però a malgrado della modestia in cui si tenne, potè di soppiatto osservare meglio che altra volta Girani, sicchè e l'occhio vivace e le forme belle, e la snellezza della persona, e il brio della gioventù che gli sfavillava sul volto non le sfuggirono, ma altamente s'impressero nella sua fantasia.
Il giovane innamorato si fe' di nuovo incontro alle donne, allorchè si misero al ritornare verso la nativa capanna, e fu loro cortese di gentile saluto; avutane una cortese risposta, le accompagnò coll'acume dell'occhio, finchè l'invida strada piegando, non le rapì a' suoi rinascenti desiderj.
Se per lo innanzi una dolce malinconia governava l'animo di Marcellina, dopo questo giorno fatale divenne oltremodo tristissima. Non più brillavale negli occhi la festività dell'innocenza, non più ridea sul suo viso la gioja come raggio di sole sui fiori di primavera: era la pianta dell'autunno che mesta abbandona l'onor della chioma e il sorriso della verdura.
Non era più l'asilo del riposo il letticciuolo suo innocente; chè rifuggiva il sonno dalle sue pupille, e se talora coll'ali lievemente le blandiva, funeste immagini le si appresentavano in cui erano sempre confusi quella festa, quel velo e quel giovanetto. Non più correva gaja ad incontrare i reduci genitori, non più rallegrava il sereno loro albergo col suo festevole umore. Erano dimentichi i suoi polli e le altre cure predilette: invano l'agnelletta, già sua delizia e cura, veniva a lambirle la mano, a stropicciare il capo a lei d'intorno; invano quand'era seduta s'innalzava coi primi piedi sulle di lei ginocchia, e con teneri belati parea richiederle le carezze usate. L'altrui affetto le accresceva mestizia e le richiamava forzate le lagrime sul ciglio.
Spesso facea rampogna a sè stessa della propria miseria, nè sapea trovarne rimedio: siccome era assai religiosa, sovente quand'era sola si prostrava, e fisando gli occhi lagrimosi al cielo, gli dimandava compassione se questo era un castigo, pietà se era una follìa che la prendeva.—Oh cielo! chi, chi mi toglie il fiero malore che mi uccide? E che cosa è mai questa nuova inquietudine che mi turba, mi rende indifferente a quanto m'era sì diletto in prima? Quai nuovi pensieri agitano i miei sonni? Che cosa è che io sento qui nel mio seno, che mi preme, mi avvampa, mi dà dolore e mi piace?—
Così spesso fra sè si doleva la misera, ma pur temendo un qualche gran male la prendesse, nè più sapendo patire il dolente suo stato, pensò che assai bene le starebbe ove pigliasse consiglio.
Era in Nebiolo un cieco, provetto d'anni e di mente, uomo mirabile a conoscersi. Misero, camminava scalzo, vestiva una giubba assai lunga che meglio di un abito nostro sentiva di una veste antica: lunghe chiome gli scendeano sulle spalle, e ricoprivagli il capo un largo cappello che avea rappiccata da un lato parte della grondaja: folta barba gli ombreggiava il mento, che non radeva, nè permettea che gli calasse in fino al petto: avea sempre ignudo il collo e il seno, e mandava dalla lanosa bocca una monotona voce; procedeva a passo timido e lento, e portava un lungo bastone, unico compagno con cui traeva il travagliato fianco nei sempre eguali giorni della sua vita.
Costui viveva di carità: solo col suo bastone passava dal colle alla pianura; scorreva i villaggi e le capanne, ora accattando, sovente inteso a cantare vecchie nenie, a improvvisare triviali rime: talora prediceva il futuro a chi era sì semplice da tentarlo per l'opera sua; raccontava antiche istorie e le sempre sue nuove miserie. Per tal modo ritraeva alcun soccorso per sè e per un fanciullo che teneva dall'estinta sua moglie. Era il cieco assai industrioso, ed io già vidi un carretto che costrusse di propria mano, la sua vigna che potava egli stesso: conoscea la virtù di molte erbe, prescrivea medicina a molti mali, era in fine in Nebiolo l'uomo più saputo, quegli da cui tutti prendevano consiglio, l'indovino della collina.
Marcellina, non sapendo trovare rimedio a' suoi malori, una mattina che costui pigliava piacere di canticchiare innanzi alla propria capanna, mentre tutti eran lungi al lavorìo, le venne in pensiero di rivolgersi a lui per soccorso.—Cieco, gli disse, io sono la più misera fanciulla di Nebiolo: mi fuggono e il sonno e la quiete, mi è straniera la gioja, tutto mi spira tristezza; mi sono di peso le mie cure usate. Sento qui al cuore un vôto di cui m'è ignota la causa, un male di cui non so guarirmi. Ah cieco! se ti son cara, se mai non dimenticai di usarti i servigi di cui avevi mestieri, abbi misericordia di me: cieco, sanami per pietà.—Appena potè pronunziare queste ultime parole pel gran pianto che le sgorgava dagli occhi, e per l'angoscia che dal petto le traboccava sulle rose del labbro. Stese le tenere braccia al collo del veglio, e sospirando inchinato il capo sulle di lui spalle, attendeva ch'ei le facesse risposta.
Il pietoso cieco cui assai stava a petto la Marcellina, giacchè era colei che più sovente in Nebiolo gli era cortese di soccorso, e quando era ammalato veniva a prestargli le proprie cure e divideva con lui il suo pane, stese la mano tremante sul capo della cara fanciulla, la blandì dolcemente dandole parole di speranza e di refrigerio. Poi la dimandò del tempo in cui caduta fosse in siffatta melanconia; e ingenuamente essa gli raccontò l'accaduto al Monte. Allora l'accorto indovino di nuovo la interrogò se non avea più veduto quel giovane, e se le fosse noto che non lo avesse colta alcuna sventura. Fu turbata la semplice a simile dimanda, e con premura desiderò sapere se ciò fosse avvenuto.
Il buon vecchio sorridendo allora la ricercava perchè sì fortemente le tenesse di quello sconosciuto, e rispondendogli la Marcellina, ciò nascere dalla gratitudine che sentiva per la premura in quel dì usatale, dolcemente presala per la mano—Oh figlia! questi occhi pur troppo si chiusero per sempre al giorno, ma io vedo il tuo volto innocente colorarsi di modesto rossore: mel dicono le tue parole interrotte, e questa mano che trema nella mia. La gratitudine è come la pietà, che negli umani petti leggiermente si scambia in amore: questo, figlia mia, ti sparge di nebbia la bella aurora della tua vita, questo ti rende tanto sollecita… Oh! ma sai tu poi chi ei sia quel giovane che sì facilmente ricevesti in cuore? sarà egli degno delle tue virtù? ah tu non conosci, mia cara fanciulla, qual prezioso tesoro tu ne serbi, e quanto mi dorrebbe di vederle derelitte!… Ah per pietà non abbandonarti ciecamente a una passione che potrebbe costarti!… tu dispereresti i tuoi amorosi genitori, il tuo povero cieco: ah Marcellina! tu perderesti te stessa.—
Marcellina cadde nel maggior fastidio del mondo, e poco anche intendendolo, sbigottita disse che quel giovane non le avea detto nulla, non averlo veduto che poche volte e per caso, e porla in forte timore il misterioso suo favellare. Il cieco allora la esortò a starsi di buon animo, volle che apertamente le narrasse quante volte si fosse incontrata in quel giovane, e come ei si comportasse verso di lei: accertatosi che fosse preso per la Marcellina, la consigliò a studiarsi di saperne il nome, o almeno il paese di lui, prendendo poi sopra di sè la cura di renderla felice, se lo avesse riputato degno di possederla. Le profferì però molti savi avvertimenti, perchè si tenesse a gran diffidenza e verso il suo cuore e verso gli uomini, ove pur non amasse esser colta da maggiore sventura: si fe' dar fede di raccontargli ogni cosa in ogni evento, se voleva da lui utili consigli. Parve ciò lusingare alla Marcellina qualche speranza, e si accommiatò da lui coll'animo men tristo.
Nè Girani diveniane ogni dì meno inquieto e meno amante: mille pensieri gli si giravano nell'accesa fantasia, e studiava ogni partito perchè gli riuscisse vedere la cara fanciulla.
Sta a fronte di Nebiolo una verdeggiante collina, dall'un lato della quale corre una via che conduce a S. Antonino, dall'altra ove per breve valletta è divisa da Nebiolo, è deserta, spoglia d'ogni gleba e d'ogni pianta. Le acque, le quali si precipitano dai colli superiori trascinando seco la terra che era sul pendìo, vi fecero alcuni seni e scoscesero in mille luoghi il declivo, sicchè tra la rapidità del dirupo, tra la nuda crosta di cui si vestì nel diseccare della frana, sembrano a riguardarli un macigno. In questo seno poi, siccome piacque alle precipitanti acque, si vedono mille diversi giuochi del caso, poichè la terra or s'innalza in piramide, or si prolunga con varie eminenze quasi bastita di guerra, ora s'incava in una grotta, or s'incurva in un seno: l'occhio curioso volentieri ivi gode di spaziare, e divisano que' luoghi i montanari col nome di orridi. Sulla pendice di questo vario poggio s'innalza una pianticella solitaria di olmo, che d'ogni parte dei contorni e anche dalla via romana sempre si vede primeggiare sugli altri colli, pianticella che fu poi denominata dai sospiri che ivi si sparsero per le sventure dei due amanti.
Girani si arrampicava su quella cima vicino a quella pianta, ed ivi a lungo si stava a contemplare Nebiolo: spingeva l'avido sguardo a ricercare fra quelle fronde e quei tugurj la cara luce de' suoi focosi pensieri, e sovente la dimandò come passero solitario che va nel bosco in traccia della compagna. Spesso dal dubbio biancheggiare fra le fronde delle vesti, vide o veder gli parve la bella, e le inviò mille baci e mille sospiri. Così struggeasi il giovinetto, ed erano derelitti i suoi campi, mentre sedeva sospirando sotto quella pianta solinga; erano derelitti gli amici invano dolenti della sua mestizia, e che invano il provocavano con motti a richiamargli sul labbro appassito l'antico sorriso. Era deserto il cuore di Girani, era chiuso alla gioja: qual pianta inaridita, su cui indarno piovono le rugiade, punto non vi poteano prieghi o conforti.
Però all'innamorato giovane pareva oltremodo dolorosa sì misera vita, e fe' proponimento di aver maniera onde riuscire a più lieto fine. Correva il tempo di raccorre le messi, e in sì pressante cura anche coloro che tengono piccioli poderi, sogliono ricorrere a straniere braccia per aiuto. A Girani cui nulla sfuggiva era noto, siccome al padre di Marcellina conveniva mietere il frumento, e gli parve venirgli in destro l'occasione favorevole a' suoi disegni. Trovato Giovanni nel prossimo mercato a Voghera, gli esibì l'opera propria a minor prezzo d'altri, e pattuirono che ei verrebbe a Nebiolo di là a due giorni.
Non è a dirsi, quanto paresse lungo al giovane innamorato il tempo posto in mezzo a' suoi desiderj, e in tanto quali follìe gli si girassero pel capo, e come seco stesso ponesse di aprire i suoi affetti a Marcellina. Ma quale fu la sua maraviglia, allorchè venuto a Nebiolo e postosi al lavoro, vide che assai lunge gli era riuscito il suo avviso, mentre non trovò come pensava l'amata giovanetta a formare i manipoli della messe tagliata, giacchè a ciò sola intendeva la madre? Ne fu oltremodo dolente, e volea pure più volte dimandarla di ciò, ma non lo ardiva: girava intorno ognora desideroso lo sguardo, e sempre nuova gli pungeva speranza almeno qualche momento di vederla.
Finalmente venne il mezzodì, l'ora del pranzo, ed ecco, mentre meno Girani se l'attendeva e stavasi pensoso, scendere la Marcellina nel pendìo recando le minestre ed il pane pei parenti e per l'uomo che era seco loro al lavoro. Veniva ella con abbassata e pallida la fronte, e pensava alla sua melanconia, a' suoi affanni: giunta al gelso, sotto la cui ombra erano assisi gli stanchi mietitori, fu tocca da improvvisa meraviglia vedendo ivi il giovane sospirato.
A chi che fosse fuorchè a' due buoni montanari, non sarebbe sfuggita la confusione dell'una, e l'inquietudine dell'altro: ratto ei si alzò, la salutò, e indarno volea dirle qualche parola, velare lo stato ondeggiante dell'animo suo. Mentre incerti essi si riguardavano ed atterravano gli occhi, Nebiolo a nulla badando disse:—Brava mia figliuola, porgine il pranzo e buono, giacchè il meritiamo, mentre questa mattina in tre si è operato per quattro, non già da noi, ma da questo instancabile nostro vicino che pare un folletto.—Intanto presentava a Girani la scodella, che avuta avea dalla figlia; ma questi ringraziatolo, mosse verso Marcellina dicendo che gli era più in grado averla dalle di lei mani: essa arrossì, gliela porse con un sorriso di compiacenza.
Restò con loro la giovinetta finchè ebbero posto fine al breve pranzo; poi alquanto si trattenne sotto colore di vedere quanto fossero abbondanti le spiche del frumento, e dolcemente si richiamava alla madre, perchè non la voleva a parte delle sue fatiche. Indi, poichè ebbero ripreso il lavoro e Rosa la premea perchè non istesse più a lungo digiuna, Marcellina partì: dirigea ver' l'erta il passo, ma ivi lasciava i suoi pensieri, e spesso rivolgeasi addietro e commetteva all'aura un sospiro.
Se Girani fu per lo innanzi piacevole alla Marcellina, ora il suo cuore ne era stato sì vivamente preso, che parea pei palpiti frequenti volerne uscire dal petto onde volare a lui. Però sebbene innocente, essa s'avvide non essere senza fine il venire colà di quel giovane: non toccò cibo fra l'inquietudine e la gioja, e meglio pensò a preparare gradita merenda all'ospite. Richiamatesi intorno le agnelle, ne spresse il fresco latte, e postolo in un terso lebete al fuoco, in breve ne fe' una vivandetta piacevole e squisita. Venuta l'ora della merenda, volò verso il campo ed ai parenti ed a Girani, che come la videro, deposti gli strumenti, le mossero incontro; ella disse con un sorriso che avrebbe diradate le nubi della più triste melanconia.—Caro padre, questa mane mi imponeste di usarvi cortesìa perchè lavoraste assai: io volli ubbidirvi, e in vece del solito formaggio vi ho preparato col latte delle mie agnelle un cibo che v'andrà a grado, e spero che anche il vostro ospite non vorrà darmi troppo biasimo se non sarà riuscito quale si converrebbe.—
Fu commosso il padre per la bella sorpresa, e stretta amorosamente al seno la figlia la baciò in fronte.—Vedete, mio Girani, questa è la sola nostra consolazione: colle poche terre che lavoriamo, coll'umile nostra casa, con questa diletta fanciulla, siamo più felici dei signori di città. Ella s'ingegna in ogni maniera per riuscire grata a sua madre ed a me, ella è il nostro solo e caro pensiero. Anche la picciola cura d'oggi vi accerti di quanto vi dissi.
Ma l'innocente mossa da' suoi pensieri ascosi, mal sapendo dissimulare, e nella sua semplicità dubitando che altri non le leggesse nell'animo, offrendogli il cibo vezzosamente gli soggiungeva—Sì, caro padre, per voi e anche pel nostro commensale, giacchè questa mane mi diceste che gli dobbiamo assai buon merito per la sollecitudine che ne mostra.—In così dire mentre abbassava que' suoi begli occhi neri che pareano due stelle nell'azzurro del cielo, volse uno sguardo fuggitivo a Girani. Ma questi, che la avea già ben compresa, ne fu lietissimo, e dalle parole di lei messo nell'occasione di parlare, le proferì le grazie con tanto fuoco, e sì lusinghiere parole, ch'ella ne fu confusa.—Io non avrò mai toccato cibo che mi sia riuscito più gradito di questo: lo terrò come una manna, giacchè ha certo qualche cosa di cielo la mano onde viene.—
Si assisero in giro: Marcellina si pose vicino alla madre, e il desco semplice sull'erba fu assai più grato a que' puri mortali, dell'aurea mensa su cui fumano le straniere vivande. Ognuno applaudì alla Marcellina per lo squisito suo presente, ma il suo cuore non sentendo che quelle laudi le quali venianle da Girani, trepidava dolcemente. Si offrì la capace tazza del vino al giovane di Mancapane; ma volle che prima bevessero i due vecchi, indi empiutala di nuovo ne fe' attingere parte alla Marcellina, e con un lieto evviva la vuotò.
Trascorsa in così cari trattenimenti l'ora vespertina, si posero di nuovo all'opera i lavoratori, e perchè rimaneano pure alcuni manipoli da legarsi, e il sole era sul declinare, Rosa permise alla figlia di starsi ad ajutarla. Girani in breve pose a terra quanto ancor restava della messe, onde venire di sussidio alle donne, e fu sì destro che si mise vicino alla Marcellina e le preparava i legacci, e le dava mano nell'ordinare le spiche. Intanto tenea fisamente gli occhi in lei, e le gittò qualche detto or di lode or della propria presente fortuna; e la poverella tutto bevendone il dolce non sapeva rispondergli, e si affaccendava al lavoro tenendo inchinato il capo. Finalmente Girani nell'ajutarla a legare un manipolo, nel serrare il salice corse colla mano a stringere l'estremità di quella di Marcellina: ella la ritirò prestamente, sicchè l'altro sorridendo le disse, di non avere le mani di fuoco, a cui con tronchi accenti, fiammeggiando la bella rispose, che le metteano più timore.
XVIb.
Già il nostro emisfero volgea l'estremo orizzonte a' rai del sole, e l'amorosa stella brillava sulle ultime rose occidentali foriera della vicina notte, allorchè posto fine ai lavori, Girani prese commiato dalla innocente famigliuola. Innanzi di partire posto piede nella loro casetta fu commosso nel vedere la Marcellina intesa alle domestiche bisogne, dare di propria mano il cibo alle sue pecore, e spargere amorosa le proprie cure su tutti gli esseri che la circondavano. Accrebbe ciò esca al suo fuoco, che verace amore meglio s'accendo per le belle virtù che spargono dall'animo una soavità di cari affetti.
Però fra questi nuovi avvenimenti, anzi che scemare si accrescevano le trepidazioni nell'amorosa vergine: non sapeva a qual partito appigliarsi, fra la passione che la premeva e gli avvertimenti del cieco sui perigli d'amore. Alla dimane come ognuno fu nei campi, e questi tornò dalle sue peregrinazioni, Marcellina gli offrì il latte della sua capra e gli narrò quanto era accaduto, e di nuovo gli chiese consiglio. Ma il veglio sentendo il nome del giovane a lui ben noto, la rassicurò, perchè il tenea per assai onesto, ed animandola a confidare nella premura ch'ei volea pigliarsene, le cosparse il cuore delle più lusinghevoli speranze.
Si rendeva intanto Girani ogni dì alla pianta de' sospiri, e sì adoprò che la Marcellina il vide e ne fu oltremodo lieta. Il cieco venne a ritrovare il giovane ne' suoi campi, gli favellò della figlia di Nebiolo, scandagliò l'animo di lui, e sentendo ove mirassero i suoi desiderj, lo inanimò a proporre alla fanciulla la propria mano, pigliando sopra di sè il pensiero di condurre ogni cosa a fausto termine. Ne fu lietissimo l'amante e sospirò il momento di manifetare l'amor suo alla bella.
Era l'ora in cui più fervono i raggi del sole che già oltre al meriggio volge all'occaso, e Marcellina stava tutta sola assisa sotto i castani dietro la sua capanna. Girava sovente le desiose pupille alla pianta presso cui vide talora il giovane che vivea nella sua mente: pettinava la sua agnella, e quasi stretta dal bisogno di spargere i proprj affetti che mal le capìano nell'animo, teneramente la accarezzava e baciava: allora la scuote un calpestìo, s'alza e scopre Girani. Ei veniva tutto festevole, e vedendola confusa, intimorita, le disse che accortosi come fra la famiglia delle sue bestiuole ne mancavano pur alcune, le portava due colombi a lui carissimi, e che a lungo erano stati i soli suoi compagni, e gliele presentò.
Marcellina ne fu imbarazzata, nè sapea se li pigliasse o no; ma quegli augelli innocenti, siccome erano assai dimesticati, le volarono sul petto e per le spalle, e pareano ora scuotendo le ali, or avvicinando le piccole lor teste al di lei viso, invitarla ad accarezzarli. Ella volea pur consigliarsi innanzi colla madre, perchè temeva gliene avesse a dar biasimo se gli accettasse, e disse a Girani che non avrebbe patito si privasse di quanto gli era più caro.—Ah no, Marcellina, io non saprei meglio collocare questi esseri che vicini a voi, a cui solo cedono in candore ed innocenza: essi son vostri, e omai più nulla, no più nulla ho che possa creder mio, neppur il mio cuore. Possano questi colombi farvi almeno qualche volta sovvenire di me.—
La giovane, che nella sua schietta innocenza mal sapea celare gli affetti ascosi, gli ripose che cari al certo le sarebbero riusciti, ma che ad ogni modo si sovveniva di lui anche di troppo—Dunque, Marcellina, io non vi sono indifferente! mi potreste voi amare? voi?—Girani, io non so che cosa vi diciate, ma…—e qui tutta verecondia il ferìa con un modesto e loquace lampeggiar degli occhi che abbassava tremanti e incerti, e si strinse al seno uno di que' colombi.—Oh me fortunato, se a me pur compartiste sì teneri accarezzamenti!—Ma questa colomba resta ognor meco…—E se io pure dovessi esservi sempre vicino, dividere con voi le vostre cure, le vostre fatiche, la vita?—Sento che allora sarei felice.—
Intanto il focoso giovane l'avea stretta per una mano, e mentre essa pronunziando le ultime parole, dolcemente riguardandolo parea invitarlo a meglio aprirle i suoi sensi, Girani dicendole—Ah sì sarai mia,—ratto volle scoccarle un bacio sull'amato volto: ella sbigottita si ritrasse, e sarebbe fuggita se non la riteneva a forza. Ma mentre l'uno le profferiva i propri affetti e le dicea tenarissime parole, e l'altra inquieta, confusa, si sforzava, quasi colle lagrime agli occhi, di divincolarsi dalle sue mani, ecco loro sopravvenne la madre.
Diè la Marcellina un grido, e sciolta volò a nascondere la vergogna che le si pinse sul viso nel seno di lei, chiedendole pietà. La buona vecchia, che sebbene rozza pur nudriva alti sentimenti, si lagnò fieramente a Girani perchè abusasse dell'accordatagli amicizia e turbasse l'innocenza di sua figlia; ma il giovane pieno di un generoso sdegno le rispose, sè essere bene straniero alle basse mire de' seduttori:—Io vidi vostra figlia, e ne fui preso: la sua innocenza tutto mi ha preso, io l'amo e desidero di formare la felicità di entrambi, se voi vi assentite, e se ella non isdegna di dividere meco la vita. Io sarò lieto se vivrò con lei, ella sarà la speranza della mia fortuna: coltiverà i miei campi, sarà a parte della mia messe e dividerà il mio letto.—
Rosa si compiacque a questi accenti, e di troppo amava la figlia perchè non l'allettasse l'idea della di lei felicità. Baciò l'innocente che ancor si avvinghiava al suo petto, e in cui le parole di Girani cresceano la trepidazione, e rialzandola le diceva:—Marcellina, pur troppo è destino del nostro sesso, di non sedere sempre a quei focolari ove abbiamo mandati i primi vagiti. Lo sa il cielo quanto mi pesi la sola idea di dovermi dividere da te, ma converrà seguire il nostro destino. Però non sia mai ch'io voglia far forza a' tuoi affetti. Girani coltiva molti campi, tiene molti greggi, e raccoglie maggior messe di noi; ma se Girani non è pel tuo cuore, io non vorrò giammai consigliarti ad assentire alla sue richieste. Finchè io viva e tuo padre, starai con noi; quando ti abbandoneremo, è tua questa capanna e questa valle, e qui sola ma libera, povera ma non infelice, condurrai la tua vita nell'innocenza.—
Intanto l'agitata giovanetta teneasi pur vicina alla cara parente, la stringeva e talvolta le dava caldi baci. Girani la premea perchè pure rispondesse un accento, ed in fine pur sollecitata dalla madre, tutta vergognosa rispose—Ei mostra tanta premura per me, ei mi dona i suoi colombi, gli oggetti suoi più teneri, ei dice di amarmi, potrei essergli ingrata?—
Ma Rosa perchè meglio e più liberamente potesse spiare i pensieri della figlia, ricordò come non le conveniva parlarne più oltre se prima non erasi consigliata col marito, e licenziò Girani. Ei profferse in affettuosi accenti di nuovo l'amor suo a Marcellina, e partì giulivo e pieno di speranze, mentre l'amorosa fanciulla cogli occhi tremolanti di un fuoco novello, lo seguiva finchè la lontananza e gli opposti colli non l'involarono.
Giovanni fu contento della novella, poichè piacevagli in Girani la gentil persona, la semplicità de' costumi, la florida giovinezza, e l'animo indomito alle fatiche. Il Cieco pose in assetto le opinioni, e la Marcelina venne promessa a Girani: fu divisato il prossimo autunno dopo il raccolto delle uve a stringere il felice imeneo.
Chi potrà ricordare la gioja de' due amanti mentre pur li premea l'angoscia della lontana unione? Girani veniva ogni dì a Nebiolo, ei volava come la rondinella al nido: sovveniva nel lor lavorìo a' vecchi genitori della fidanzata, e mentre questa allestiva il cibo, ei facea la frasca a' buoi, e raccogliea le agnelle che si sbrancavano sul colle. La Marcellina festevole cantava la canzone della montagna, accarezzava i bei colombi e appena sorgeva l'aurora, le pungeva desio di vedere lo sposo.
Questi però per volgere di fortuna non lasciava le sue antiche abitudini: innanzi di andare a Nebiolo spesso allungava la via e veniva alla pianta de' sospiri; di là considerava il casale umile ove si racchiudeva il caro sogno delle sue notti, il primo oggetto dei suoi pensieri; e la ricordanza delle passate angoscie, gli condiva di nuovo diletto l'idea del bene presente. Spiava nella valle se mai qualche agnella della cara fanciulla si fosse di troppo dilungata dall'ovile, e volava a richiamarla, indi festante rendevasi al tetto desiderato, ove lo accoglieva il gentile sorriso dell'amor suo.
Un dì venuto verso il meriggio alla pianticella, di là vide la Marcellina assisa all'ombra tutta sola coi colombi e coll'agnelletta: ei ne fu allegro chè pochi momenti gli era riuscito di vederla sola. Si precipitò da quell'eminenza, e leggiermente arrampicatosi in mezzo al boschetto, fu sul colle e dietro la Marcellina senza ch'ella se ne avvedesse. Giunse mentre essa occupata al solo suo dilettarsi, careggiava gl'innocenti suoi amici, e finiva di cantare una rustica canzone che così suona:
Perchè su questo margine
Non è il mio caro ben?
Un'amorosa lagrima
Vorrei versargli in sen?
Girani udendola non potè più starsi, e improvvisamente avvicinatosele, presentatole un mazzetto di fiori che per lei recava, esclamò:—Non è lungi l'amor tuo, agnelletta solitaria di questo colle, fiore vezzoso di questi boschi, splendore di Nebiolo: nè l'amorosa tua lagrima fia che raccolgano queste invide zolle, ma bensì le labbra accese del tuo sposo.—
Restò intimorita la bella, come giovinetta capriola cui improvviso calpestìo turbò il pasco innocente. Girani dolcemente la piglia per la mano.—A che dunque, mia cara Marcellina, non versi nel mio seno questa amorosa lagrima? a che ti stai sì timida e non vieni fra queste mie braccia? perchè que' baci che pur confusa comparti all'agnelletta a me non li dai, a me che ten sarei ben più grato? non vedi come queste colombe affettuose c'insegnano ad amarci? Segui, Marcellina, il loro esempio e accogli me pure al tuo seno, lascia che io pure su quella cara bocca…..
Ma essa respingendo dolcemente lui che già erasele sì avvicinato che beveva l'alito soave de' di lei sospiri, disse che a niuno patto volea che più se le accostasse. Sdegnoso allora l'amante minacciava di fuggirsene, ella il richiamava soavemente, semplicetta scuotendosi nelle spalle, e il tratteneva con un loquace favellare degli occhi da cui piovea un'aura celeste che il rapiva a ignota voluttà.
Or mentre mal contende col focoso amatore, ecco s'accorge d'un suo colombo ch'era fuggito, di che fu assai turbata: e sebbene Girani la rampognasse, quasi più di quella bestiuola le tenesse che di lui, ella più sempre diveniane inquieta, perchè già erasi rifuggito sur un'alta pianta, temendo non prendesse più lontano volo. Il destro amante prestamente s'arrampicò fra que' rami, ed ebbe preso il colombo, ma disceso premendolo con ambe le mani, giurava a lei che il richiedeva, di non volerlo rendere se non n'avea in compenso un bacio. Mancellina gli rispose con un vezzoso sorriso, sicchè lusingato ei gliele porse, ma la furbetta sen fuggì ridendo. Si sdegnò l'amante, le tenne presso, e raggiuntala, con tanti sospiri la stringeva, e sì dolorosi lamenti, che la bella fatta pietosa abbandonò il capo dipinto di caro pudore sulle di lui spalle: trepidando ei raccolse su quella bocca di rose la più soave rugiada.
Marcellina dopo quell'istante fu più affettuosa; ma disse che le si era destato in petto un fuoco che la distruggeva, e omai di troppo intendeva che cosa fosse amore. Parea che un delirio commuovesse l'innamorato Girani, che dopo quel bacio sentiva avere attinta novella vita: quindi sebbene Rosa non abbandonasse mai la figlia, amore industrioso sapea pur additargli qualche istante in cui potesse vezzeggiare la bella, e fra sì teneri affetti spuntava ognor novello sugli animi loro il desìo delle nozze.
Sedeva nei campi il pampinoso autunno, e tripudiava la vendemmia sul colle: Girani propose che que' di Nebiolo scendessero pel ricolto dell'uve a Mancapane, onde egli poi co' suoi parenti convenire nella stessa occasione su quel poggio, siccome in fatto seguì.
Venne la Marcellina co' genitori al tetto di Girani: ivi si festeggiò la vendemmia e poi si menò sull'aja la carola della campestre innocenza. La figlia di Nebiolo per la seconda volta vide splendere la festa, e sebbene non avesse mai ballato che co' fanciulli della natale collina, nella rozza sua danza fu sì seducente che riscosse gli applausi e piacque.
Alla dimane vennero que' di Mancapane a Nebiolo, e quel giorno parve destinato a far parte ai congiunti ed agli amici che Marcellina era fidanzata a Girani. Mentre racimolavano gli altri, la fanciulla preparava il semplice pranzo e s'imbandì il desco sotto l'ombroso castagneto vicino. Eranvi tutti i provetti di Nebiolo d'ambo i sessi, e i congiunti dello sposo: ricordava quella mensa fra le frescure del bosco la festa del Monte, e fra gli applausi e gli evviva suonarono ognora i nomi degli amanti.
Poichè fu spento il desio del cibo, chi ragionava delle cose vedute nelle città, chi la lor vita con quella dei signori paragonando, esaltava la semplicità della propria; chi richiamava le cose passate, e d'uno in altro ragionamento trapassando, si ricordò qual fosse un dì l'umile colle ove sedevano. Allora Marcellina ricercò il padre, perchè sempre si fosse rifiutato a narrarle per qual maniera il loro eremitaggio da dovizioso e rinomato si trasformasse in poche capanne: affermando gli altri, che il racconto esser dovea bello e fiero, anche Girani venne nel desiderio di sentirlo.
Giovanni le rispose ciò seguire, perchè mal si conveniva all'innocenza di una fanciulla; ma omai che era sposa esserle lecito di udirlo.—È acerba al certo e dolente la storia de' nostri maggiori; ma giacchè questo dì è pur consacrato al riposo, finchè più alte s'innalzino l'ombre, mentre il calore del giorno è vinto dalla freschezza della vicina sera, e grato è qui pur lo starsi; a voi la narri il cieco, cui se tace la luce del sole, chiara è la ricordanza delle passate età. Noi qui assisi sull'erba, silenziosi beremo il suono delle sue parole, come si ode sull'alba il canto dell'usignuolo fra l'ombre del bosco.—
Ivi l'un l'altro
Beremci il sangue, e giurerem sovr'esso
Anco oltre morte di abborrirci noi.
ALFIERI.
Desto a quell'invito il veglio, movendo intorno le appannate pupille, quasi pur cercasse di fruire la cara luce del sole, inchinava alle loro preci.—Fiera storia e crudele, mio dolce amico, m'inviti a narrare, e non quale si convenga a rallegrare un convito di gioja. Dolorosa in me si ridesta l'orma delle passate cose, perchè pur mi ricorda la luce alma che bevea cogli occhi ora ottenebrati e muti, e mi richiama i lieti giorni della mia fuggita gioventù. Ma poichè tanto desìo vi prende, pur nella mia fantasia si risvegliano i racconti che per lungo ordine di tradizione si tramandavano dai nostri avi ai giovinetti di questo casale.
Già il passato splende nella mia mente come raggio di sole; già maggiore di me stesso parmi nel richiamare la storia dei padri nostri di essere rapito in altri luoghi; già in me si destano le vive immagini che dopo tanti anni per me sono quiete: mi si pinge nell'animo questo cielo sempre sereno, mi piovono nell'agitata mente queste roccie e queste valli: vi veggio, o colli circostanti vestiti di chiomate piante, rendere bello e vago questo seno di natura, e vi veggo quali già foste nei secoli che fuggirono.
Erano piene di guerra queste convalli in cui ora s'ode l'umile belato delle agnelle; dove ora s'asside lo stanco agricoltore all'ombra, onde ristorar le forze vinte dagli agresti lavori, già si posò cruento e grondante di sudore il feroce eroe della battaglia. Qui nembi s'adunarono di guerra e i procellosi sdegni, qui muggirono le civili discordie e il fasto de' potenti, e la Copia e il Carvenzolo, travolsero nelle loro acque sangue ed eroi.
E tu, patrio nostro colle, ove poveri ma innocenti sediamo, già andasti altero per inespugnabile Castello, per temute armi e pel nome di valorosi. Passarono su te l'ire delle guerre e i secoli fuggitivi, e cadesti; nè più una pietra ricorda l'antico tuo splendore: fumano pochi focolari ove prima bollivano ira ed orgoglio.
Non era allora Nebiolo asilo di semplici agricoltori, nè dirupato calle conduceva all'altera sua cima; ancora sono le tracce della agiata strada che dal torrente metteva alla formidabile rocca armi ed armati. Fu questa innalzata nelle prime ire civili d'Italia, allorchè orde di barbari vennero dai servili loro solchi, come addensate tempeste, a distruggere la messe de' nostri fertili campi. Vide per lungo ordine succedersi or miti or turbolenti Signori i Cavalieri di Nebiolo: da questa sede ricevevano leggi e l'opposto Costiolo, e la sorgente Codevilla, e l'amena Torrazza in cui ergevasi la torre delle carceri, e talora vi prestò omaggio anche il delizioso Montebello.
Su quest'erta infieriva il feudalismo: al suono di sue catene invano fremea la morta libertà latina, invano la patria gemea nel vedersi, opera de' barbari, serva de' proprj figli, tiranni dei loro fratelli, e invano innalzava al cielo il sospiro della speranza. Qui sorgeva il tribunale e il patibolo, qui portavano gli schiavi di queste valli la primizia delle loro messi, e tremavano prostrati innanzi al fasto de' loro oppressori. Invano si spargeano i gemiti de' conservi, e mordeano i vassalli fremendo le proprie catene: l'ambizione de' vicini potenti facea loro sovente cangiare oppressore, non fortuna.
Era antica nimistà fra i signori di Nebiolo e quelli del non lontano Stefanago. Aveano seguìte sempre contrarie fazioni, adescavano ognor la discordia fra' loro alleati, e trassero sovente gli abitatori di questi colli a portare le armi contro i loro fratelli. Spesso aveano spinta la guerra fin sotto le loro rocche, posta in dubbio la lor sorte, sparso il comune sangue: se ebbero talora deposti i brandi, li costrinse necessità, non pensiero di pace: la tregua era richiesta a rinnovellare le forze; era calma di bufera che più feroce ridesta l'ira sterminatrice.
Mentre stringeano l'itale contrade le tenebre del secolo undecimo, a Stefanago regnava Stefano II, il più fiero della famiglia e il più valoroso. Era detto il Rosso pel colore della sua bandiera e de' suoi ricciati capelli. Era uomo rabido, feroce, d'animo ardito, intraprenditore, fosco: ruotava lo sguardo qual sinistra cometa, e pari a suono d'acqua cadente, rauca e fiera mandava la voce. Niuno sentìa più di lui l'altezza de' suoi natali, niuno avea maggior sete d'onori e di gloria, niuno più fermo nell'odio e nell'ira: avea portate l'armi nella Crociata, ed era salito illustre fra più valorosi cavalieri.
Guidone era allora signor di Nebiolo: sdegnò seguire la Croce, chè disprezzava uomini e cielo. Si leggevano sulle agrottate sue ciglia cupi pensieri, quasi costrette nubi piene di tempesta: il facile muoversi dell'aggrinzata spaziosa fronte annunziava il succedersi nella sua mente di sempre nuove idee: orgoglioso aveva a schifo abbassare lo sguardo sul verme che gli strisciava al piede; niun lamento giungeva fino al ferreo suo cuore: spirava dall'occhio inquieto tosco, e vendetta, idolo a cui sagrificava anche i proprj affetti. Non conosceva altro dritto che la propria spada, altra legge che il proprio volere, altro consiglio od ajuto che i suoi pensieri e il valore dell'indomabile suo braccio.
Stefano e Guidone aveansi giurato odio eterno fin dall'infanzia: mentre i loro padri erano uniti per comporre una pace, i figli per puerile giuoco discordi, destati all'ira vennero alle mani, e in sè mostrarono trasfusi l'odio e la fierezza degli avi. Invano i Signori di Malaspina si sforzarono più volte di conciliar gli animi loro, nè solo ottennero di ridurli per pochi momenti in tregua a respirar l'aura stessa: essi non si videro che nella mischia delle battaglie, non s'incontrarono che per macchiarsi del vicendevole sangue.
Non davano mai posa ai loro turbolenti affetti, e spargeano di tanto l'odio proprio ne' loro vassalli, che que' di Nebiolo e di Stefanago non si scontravano mai senza venire alle mani, e le feste di questi colli eran ognora turbate dai loro ratti e dalle loro risse. Si spingeano sempre audaci gli uni sul confine degli altri a rapire le caccie, a calpestare le messi, ad insidiare i coloni, ed ove non potea il valore scendeva lo stile del tradimento. La diffidenza e lo spavento passeggiavano sempre queste valli, e stringevano i cuori, da cui era volta in fuga la gioja della calma.
Era a Stefano una figlia cui sorridea trilustre giovinezza, di cuor gentile e dalle chiome bionde, siccome raggio di sol cadente: a Guidone un Antelmo, ardito, generoso cuore, cui spuntava scarso ancora il primo onor del mento. V'ebbe chi ardì proporre a compor tante liti le loro nozze: Stefano giurò che avrebbe prima strappato di sua mano il cuore dal seno palpitante di Bianca anzichè vederla congiunta ad un Nebiolo; Guidone non rispose che con un amaro sorriso. Non v'era fra i due rivali altra pace che la tomba.
Anselmo era men fiero del padre: talora si dolea di sì pazze inimicizie, ma si dolea con sè stesso, chè fora stato alto delitto sulle sue labbra il profano accento nella casa di Guidone; però ispirato dal furore degli avi e degl'insulti presenti, si procacciava pur sempre di vendicare i suoi e portar nocumento al Rosso. Nè questi si avviliva per ciò, nè tenea il nemico più possente: chè se il Nebiolo avea due spade in campo, era la sua troppo formidabile nella temuta destra, era morte certa ai nemici, folgore sterminatrice di guerra. Pure si dolea sempre al cielo che non concedeva anche ad esso un figlio, per infondergli in petto il suo foco e l'odio suo, invido quindi ordiva sempre insidie alla giovanile imprudenza d'Anselmo, che sebbene valoroso alfine vi cadde.
Taluno di voi ben vide il Castello di Stefanago: egli è tuttora intatto quale s'innalzò nelle passate età. Ben mi ricorda che ancor giovanetto, mentre poteano fisarsi al sole queste luci or chiuse in perpetua notte, errai sovente intorno a quelle solitudini riguardando l'altera mole, e narravano i coloni come s'udivano ivi ancora di notte lunghi ululati di compianto e di lamenti, e gridi di vendetta e fragore di guerra.
Nel cuor di questi dirupi, non lunge dal seno ove la Copia trascina dal monte arene e sassi, in mezzo a minori eminenze, sorge a piramide il poggio solitario su cui torreggia la superba Rocca. Ivi la innalzava uno Stefano perchè gli parve difficile il loco a pigliarsi, mentre potea dominare sovra gli altri e quasi avere l'ossequio de' circostanti colli: così gli lusingava il suo orgoglio, e la chiamò dal suo nome. Meravigliano tuttora i riguardanti come siensi colà ammucchiati tanti massi e tante pietre: i più canuti di quelle valli favoleggiano ancora, che quel Castello si ergesse in tre notti per opera d'incanto. La prepotenza del feudalismo e le fatiche degli schiavi grondanti di sudore, operarono ne' tempi più oscuri queste malìe.
Bella è la vista di Stefanago, o ti diletti contemplarlo da lungi, o ti aggiri al piè della rupe su cui maestoso siede. Gli corre all'intorno quasi alla metà del colle lungo giro di mura, che per le guardie e le vedette accennano, quasi bastite, chiudessero le prime fortificazioni, le quali in varia foggia sorgevano sul pendìo, e dove ora si abbarbica la tortuosa vite. Sulla cima torreggia il maestoso castello procinto di densi baluardi, di propugnacoli e di guerresche difese, d'ogni parte ben serrato, presentando all'oste che ardisse accostarsegli orride bocche di spavento e di sterminio.
Una tortuosa via di pietre dalla valle scorge all'antemurale ed alla uscita estrema: da questa trascorrendo fra le fortificazioni per rapido sentiero, si giunge al secondo ingresso, da cui sassosa scala mette all'inespugnabile Rocca. Sopra la sua ferrata porta si spinge al cielo l'alta torre che orgogliosa per intangibili mura, insulta agli anni ed all'età fuggitive. Essa scopre ad un tempo allo sguardo i monti e le pianure, e piove una grandine di sassi sul nemico che portasse tant'oltre il piede; mentre da ogni parte si mandano per aperti artifiziosi spiragli mille strali di morte.
Un dì Stefano diede voce ch'egli n'andasse a diporto dai Malaspini a Pregola sul Penice. Anselmo dal padre istigato con breve mano de' suoi valorosi, si spinse su quello del Rosso a depredarne le mandre, a devastarne i campi; e inseguendo i fuggitivi ardito s'inoltrò fin sotto al nemico Castello. Pose fiato alla bellica tromba, e sfidò come altre volte solea i nemici alla battaglia: niuno rispose, e tacile le scolte sostenevano dalle mura il più amaro insulto.
Anselmo diede volta al cavallo per tornarsi, reputando viltà spargere voce di guerra innanzi a' codardi; ma taluno de' suoi più fiero e men generoso, si scagliò ad insultare la sentinella della porta: grida questa per soccorso, vengono pochi de' suoi, la difendono, e in tal modo involontariamente si appicca la mischia. Allora l'armi di Nebiolo son volte contro la porta: dopo breve resistenza cede e sì apre. Fatto ardito il picciolo drappello penetra il primo cortile, sparge terrore, e innalza gridi di vittoria. Ma in quell'istante sbocca Stefano da alcuni sotterranei che dal castello metteano nel sottoposto bosco, prende furiosamente co' suoi i nemici alle spalle, e stretti in luogo angusto, sconosciuto, sopraffatti da' soldati che da ogni parte come onda di crescente fiume precipitavan su loro, in poco d'ora gli ebbe a man salva vinti e fatti prigioni.
De' pochi compagni d'Anselmo che restarono in vita, Stefano fece a quali tagliare l'orecchie, a quali la destra, quindi così mutilati li mandò al loro Signore, dicendo che in tal modo tosava le capre che s'attentavano mozzicare nelle sue vigne; del lupo poi che ardì portare l'avido dente nel suo ovile, avrebbe fatto quanto richiedeagli la vendetta dei suoi cani. Indi ordinò ai suoi sgherri, che troncata la testa ad Anselmo, la si innalzasse sulla maggior vedetta del baluardo.
Non si avviliva il giovane per ciò, ma già fra le mani de' suoi sicarj, fieramente lo insultava; il tacciava di traditore e di vile, e diceagli che se avea petto dovea seco lui discendere al duello.—Ma troppo fiacco è il tuo braccio, perchè osi trattare la spada del valore; tu paventi troppo i Nebiolo, e perciò tendi loro infami insidie, tu cui il solo lampo della loro spada fa tremare ogni vena.—
Ferìano acerbamente Stefano quell'orgoglio e quella rampogna, e meditando più lunga e cruda vendetta, entratogli anco speranza con quest'amo di trarre pure il padre nella rete, richiamò quell'ordine di morte, e fe' gittare il giovane eroe nella torre, stretto di ferri.
Ivi spesso il caricava di tante catene che a fatica poteva reggerle; talora legategli le mani al tergo ed annodatele ad una corda che pendea dalla volta, il teneva sospeso dal suolo, rovesciando miseramente col peso del corpo le braccia: sovente ordinava venisse per giorni intieri immobilmente legato al muro in piedi o boccone sul suolo. Ivi il misero dormendo sul terreno ignudo, pativa disagio d'ogni nutrimento, e sovente alle arse sue labbra dopo lunga sete, si concedevano, a spegnerla, liquori putrefatti o amari.
Fiera è questa torre in cui per brevi spiragli penetra poca luce, e il piano destinato alla carcere si è il primo che sovrasta all'ingresso della Rocca. La scala che conduce ad essa passa per gli appartamenti di Stefano: la porta ne è tutta di ferro, e presso alle imposte di sasso è aperto un tortuoso pertugio che appena consente il passaggio ad una mano, onde per questo ministrare al prigione lo scarso cibo, allorchè non si vuole penetrare la carcere. Stefano ne tenea sempre seco le chiavi, nè si apriva quella porta fatale s'egli non era presente, nè alcuno si accostava al prigioniere senza che esso ne spiasse i moti e gli sguardi, perchè temea mosso a pietà non ardisse in secreto rendere mite la sua vendetta.
Anselmo però fra tante strettezze e in sì dolorosa vita non si avviliva mai. Nè la scarsità del cibo, nè i sonni interrotti dalle catene, dal duro letto e spesso dalla presenza del truculento nemico, nè i più fieri tormenti, poterono domare l'animo di lui. Ogni volta che udiva stridere le ferree imposte, presago di nuove sciagure, sentìa corrersi per le vene un gelo: però non cangiò mai di aspetto o si atterrì al fulminar degli sguardi di Stefano, e queto sempre udì la minaccia di nuovi tormenti: agli insulti o non rispondeva o opponeva il disprezzo. Il Rosso il premea perchè scrivesse a suo padre di venire in un vicino bosco, ove gli avrebbe acconsentito di parlargli per trattare di pace. Era questo un inganno che ordiva per indurre pure Guidone ne' suoi lacci: ben Anselmo sel vide, nè mai per preci, promesse o minaccie volle annuirvi. Ei non sostenne mai un solo istante che il suo cuore si mostrasse debole innanzi al nemico, e se talora fra i patimenti pur si dolse, il facea sommessamente e solo.
Allorchè Anselmo venne trascinato nella torre, Bianca sbigottita al suono dell'armi che s'era sparso nel Castello, accorsa alle grida de' soldati nella stanza per cui passava, vide il giovine bello e disdegnoso fieramente insultato, e n'ebbe pietà. Fu però gelosa che il padre non s'avvedesse di questo sentimento che le muoveva il cuore, poichè si sarebbe tenuta persa. Pensava sempre ai crudi modi con cui udiva opprimersi lo sventurato straniero, e si dolea di non potergli prestare alcun soccorso; però nè osava chiederne, nè muovere accento a svegliare compassione per lui: ben sapea che se l'avesse tradita un sol sospiro, in un loco ove era ignota la pietà, e avrebbe provocata la spaventosa ira del padre, e ridestando gelosi sospetti, accelerata a un tempo la morte dello sventurato.
Anselmo già da molto giaceva nel duro suo carcere, e l'inumano Stefano iroso perchè vedea tornar vano ogni suo pensiero di nuovi tradimenti, e il giovinetto rintuzzare con indomito petto l'ira sua, gli diminuiva ogni dì più il cibo. Quasi meditasse fra que' ceppi lasciarlo perire di fame, già da alcuni giorni non avea schiusa la fatale porta, nè permettea che alcuno si attentasse avvicinarsele, paventando si concedesse al nemico maggior vitto di quanto dall'angusto pertugio ordinava gli venisse ministrato in sua presenza.
Mentre volgeano sì acerbi dì, in tempo che il fiero Duca era lunge dai Castello, tutto era quiete, e Bianca sola passeggiava sotto il battuto della torre, e flebilmente cantava, quasi cercasse rapire sè stessa dai cupi pensieri ove la sospingeva la vista delle impenetrabili mura in cui crebbe; Anselmo sentendola, e come più potè, avvicinatosi allo spiraglio da cui ritraea scarsa luce, la dimandò.—Ah per pietà, chiunque voi siate, essere pietoso che qui v'aggirate, giacchè non può albergare anima fiera in cuor di donna, datemi un'arme con che io possa por fine alla tristissima mia vita. Omai qui ho difetto di pane e di acqua, ed è quasi un dì che son sì travagliato dalla sete che sento struggermi le viscere. Porgetemi, e fia l'opera più pia di questo Castello, porgetemi un ferro per pietà.—
Que' dolorosi accenti discesero in cuore a Bianca, e fu commossa a tanta miseria: e sovvenendogli qual si fosse chi le parlava, parve che un'ignota voce la richiamasse a compassione, sicchè superando il timore di essere scoperta e dell'ira paterna, gli rispose che attendesse.
Volò alla carcere; colle preci e coi doni tanto si adoprò che ne sedusse la guardia, sicchè potè da quella picciola fessura offrire alcun sussidio al prigioniero: a ciò per confortargli l'animo travagliato unì un biglietto, in cui dicevagli essere figlia di Stefano bensì, ma non d'egual cuore, l'animava a non ismarrirsi, e gli dava qualche speranza di salute. Anselmo si ristorò alquanto, e ottenuto da Bianca con che scrivere, potè significarle i sentimenti del grato animo suo. Era Anselmo giovane d'alto intelletto, nè lo studio dell'armi avealo sviato dal coltivare l'ingegno nelle discipline che gli consentivano le tenebre della sua età: le sue lettere cercarono il cuore di Bianca, e in lei la compassione erasi trasformata in tale inquietudine, che ognor la pungea nuovo desìo di sapere novelle del cavaliere oppresso.
Ogni volta che si mutavano le scolte e veniva a guardia della torre quella ch'essa avea resa amica, tosto volava a quella dura porta, e se il padre era assente stava a lungo a racconsolare Anselmo con miti accenti. Di propria mano gli sporgeva il cibo, e più d'una volta in quell'angusto forame da cui il prigioniero traeva refrigerio a' suoi patimenti, strinse la mano pietosa che il sovveniva, e mentre esprimeale tremando la sua gratitudine, quella di Bianca tremando essa pure gli accennava, insieme alla pietà, quai nuovi affetti le si destassero in petto.
Fra queste pie cure e il timore e il compianto, cresceva nella vergine leggiadra ognor più compassione per le sciagure d'Anselmo. Poichè questi più volte esprimeale il desiderio di vederla, desiderio a cui parea dolcemente inclinare anch'essa; nè ciò riuscendole in niun modo, fatta ardita dalla bramosìa, un dì mentre il padre era penetrato nella torre infausta, con mendicato pretesto vi portò audace il piede.
Stefano lunge dal darle per ciò rampogna, presala per la mano con amaro sorriso le disse—Vieni, figlia, impara anche nella docilità del tuo sesso ad abborrire i tuoi nemici. Calpesta questo orgoglioso: esso lotta contro la natura, contro la forza e contro il voler mio; ma pur se io sono Stefano, cadrà. Esso è lo sparviero che voleva dominare nei nostri boschi, volò intorno alla nostra sede, portò l'artiglio nel nostro tetto, ma cadde nella rete, cadde nelle mie mani, nè fia vi sfugga più mai. Se ei non seconda il voler mio, se non chiama quel Guidone nella nostra valle al parlamento ch'io medito, vedrai ivi rotolarsi la sua testa, e il suo sangue renderà più belle le nostre bandiere.—
Bianca stava sbigottita e muta presso al padre, guardava di soppiatto Anselmo cui nè lo squallor della carcere, nè i sostenuti patimenti, per nulla aveano scemato alla nobile fierezza del volto e all'avvenenza delle forme. Non volea applaudire agli inauditi crudi modi del padre, chè non gliele consentiva il cuore, ma non ardiva sciogliere accento per raddolcirne la fierezza; ben sapea che tanto stato sarebbe il segnale di morte pel prigioniere sventurato. Tremava la combattuta fanciulla, e riguardava Anselmo con un misto di pietà, di conforto e di paura, che gli apriva quali angoscie a prova le combattessero nell'animo.
Il Nebiolo per nulla si avviliva, muovea gli occhi or sul padre or sulla figlia, e mentre sdegnosi rifuggiano dall'uno, pareano vaghi fermarsi a contemplare il leggiadro viso della giovane pietosa, quasi stanco viatore cui aletta limpida fonte, e dopo petroso cammino rallegra l'amena verdura del prato. Nel momento che Stefano altrove torceva il fiero cipiglio, ei riguardava la bella, nelle accese luci raccoglieva il fuoco dell'alma, e in un baleno tutti le esprimeva i sensi ascosi.
Però anzi che punto si dileguasse la sua fermezza, o gli annebbiasse debole tristizia il volto, con generoso ripiglio così mordea il nemico.—Uomo dispietato e vile: a che insegni la tua malvagia crudeltà a quest'angelo d'innocenza? Non temi che l'alito tuo soltanto macchii il candore delle sue virtù? Assai si ravvisa al solo leggiadro aspetto di dolcezza pieno; ben altro è il suo cuore dal tuo, e troppo straniera debb'essere in questo Castello, benchè il destino ve la facesse nascere tua figlia. Tu sei lo sparviere, tu il lupo distruggitore, ma ella è la colomba benefica che porge conforto alla solitaria tortorella del bosco, e le è riconoscente, nè mai vorrà spiegare il volo dalla sua macchia, senza spargerle intorno il flebile canto della gratitudine.—
La giovane era commossa ai cari accenti da lei sola intesi, e tremava vedendo torvo ruotarsi qual tempestosa nube lo sguardo del padre che impaziente spirando tosco dalle enfiate labbia proruppe—Folle, a che vaneggi tu, a che muovi mistici detti? Ben io apprenderotti quale tu sia, e che sorte ti attenda. Qui vuolsi sangue, e tu il verserai. Però cessa dallo spargere ombra di lode a mia figlia: sarebbe in lei segno dell'odio mio la lode di un Nebiolo. Fra pochi dì o tuo padre sarà mio vassallo, o verserai colla vita questo insano orgoglio.—
Senza udire risposta, impone di raddoppiare i ferri al prigioniero, esce dispettosamente dall'infausta soglia e seco trascina Bianca. Soffoca la timida i sospiri che le van concitando il terrore e la pietà, e traendo dietro al padre, muove fuggitive le tremule pupille inondate di represso pianto sur Anselmo: mentre si avvisa d'infondergli speranza ed ardire, ritrae in vece dal di lui volto intrepido e sereno una straniera dolcezza che le piove in petto e lo schiude a nuovi affetti, quasi aura mattutina che accarezza la socchiusa rosa, finchè apra il seno a' balsami della rugiada.
Il Rosso spedì un messo a Guidone a ordinargli che cessasse dallo spargere contro di lui le insane sue grida, e sciogliesse il turbine di guerra che milantava volere portargli a Stefanago per vendicare il figlio. Questi giacersi nella sua torre, e proporgli solo partito a liberarlo, che ei si rendesse vassallo di Stefano: se il nega manderebbe a Nebiolo la testa d'Anselmo: due soli dì concedersi alla scelta.
Arse di rabbia Guidone alla fiera minaccia e ordinò che si gittasse dalla sua torre il messo. Stefano che più ritornar nol vide e seppe da' suoi spiatori la fine di costui, si morse per dispetto le labbia agitando vendetta. Bandì nei suoi feudi la condanna d'Anselmo decapitato tra due dì, e mandogli nel carcere avviso che si apparecchiasse a morire: ei nulla rispose, ma sguardò con sì fermo ciglio chi glielo annunziava, che vergognando si ritrasse dalla carcere in cui risplendea tanta virtù. Pure perchè l'ira di Stefano più s'accendea a quel silenzio, e di nuovo gli proponeva la vita a prezzo della viltà, rispose il generoso Nebiolo che nulla temeva la morte e che da un codardo suo pari, cui era morta in petto ogni scintilla di valore, non doveasi attendere che tradimenti e patiboli.
Bianca erane oltre modo dolente, e seguendo gl'impulsi del suo cuore seco fermò di liberare il giovane prigioniero. Gli porse tenere preghiere perchè volesse assecondare le di lei premure se avesse schiuso il carcere, nè sdegnasse la sua virtù di salvare una vita che non era del tutto sua ove teneva un padre, e ricordasse che il misero morrebbe di dolore nell'udire la dira e sanguinosa novella.
Persuadeano l'austera ragione d'Anselmo le care sollecitudini di Bianca, e sebbene d'animo forte pur gli tremava il pensiero all'immagine d'una morte obbrobriosa ed oscura: ma l'idea che la sua salvezza travolgesse Bianca a certa rovina, gli ridestavano nell'animo le assopite virtù e pria scegliea cadere che vivere coll'onta di una viltade in fronte. Rispose però a Bianca che sarebbesi arreso, presto a secondare quanto gli richiedea la pietà di lei, ove ella volesse seco partirsi dall'infausto castello, perchè non pativa di abbandonarla al furore del Rosso, e confidare, libero e a lei vicino, di porre fine alle tremende ire paterne. Alla misera di troppo era noto Stefano, perchè potesse annidare pur lieve speranza; ma serbava troppe virtù perchè sostenesse di offuscarne lo splendore con una fuga, e troppo le tenea d'Anselmo onde abbandonarlo: pensò di salvarlo, gittarsi indi ai piedi del padre, e cadere vittima del suo implacabile sdegno.
Bianca di continuo attendeva se il padre dimenticasse nella sua stanza le chiavi della carcere: ma invano lo sperò, e temeva che male le riescissero i suoi pensieri. Già premea l'ultima sera che spargea colle tenebre l'estremo sonno sulle pupille d'Anselmo, già s'apprestavano nella prossima valle il feral palco e la cruda bipenne, e il misero giacea pur sempre ne' suoi ferri: non si lagnava, non ostentava coraggio, queto aspettava il suo destino.
Ma con quella notte scendeva il gelo di morte in seno a Bianca: le parea ad ogni istante che sorgesse l'importuna aurora, e sentiva nell'animo il suono del bronzo fatale e l'ultimo sospiro di Anselmo morente. Nè più potendo reggere a sì funeste immagini, nè parendole che dar si convenisse maggior indugio al pietoso suo proponimento, fatta ardita, siccome la stringea necessità di consiglio, penetrò nella stanza ove Stefano dormiva, e chetamente avvicinatasi ove tenea le chiavi, le rapì. Prese il serico di lui mantello adorno d'aurei fregi, e la celata ondeggiante per molte piume, se ne ricoprì la persona, si armò d'una spada, e tacita e franca s'avviò alla torre.
Poco differìa Bianca dal padre in altezza, sicchè le sentinelle non si accorsero della frode. Disserra l'uscio ferrato, e ad Anselmo che scosso riguardava chi venisse a portargli o vita o morte, dicea pregando e stendendo le mani tremanti ai suoi ceppi:—Ecco ti schiudo il tuo carcere, ti sciolgo le tue catene. Quest'abito e questo elmo ti apriranno ogni via ed ogni porta, chè tutti ti crederanno il Signore. All'ultima uscita è già presto un mio fido con un cavallo: t'invola, salvati e ricordati nel furor delle tue vendette che Stefano è padre di Bianca… Non obbliare talora quella mano che scioglie i tuoi ferri:… io già non sarò più, ben conosco l'ira paterna, ma la ricordanza di chi per te si dimentica d'essere figlia, ti renda meno crudele…—Ah Bianca, ch'io parta e abbandoni te fra gli artigli dei crudi?… ch'io viva mentre queste tue forme immortali, questo cuore sì pietoso… questo pietoso cuore!… Ah non sia mai! mi colgano mille morti, anzi che esser reo di tanto delitto.—Anselmo, or sì mi strazii d'acerba doglia, or che il tuo dubbio solo ne spinge a irreparabile rovina! Omai non ha più speme, la sorte è gittata e noi siamo entrambi perduti, che questa frode non può starsi ignota a Stefano… Deh! se ami tuo padre, se non è spenta ogni favilla di gloria nel generoso tuo cuore, se non mi sei ingrato, Anselmo, fuggi… io non posso essere felice se non ti vedo in salvo.—
Anselmo comprese il linguaggio della tenera fanciulla, commosso le cadde al piede, chè eran già sciolte le sue catene, e stringendole teneramente la destra che copriva di lagrime riconoscenti e di baci.—Ah spirito celeste per cui mi son cari anche questi infausti luoghi! speranza della travagliata anima mia… Bianca, ah! no il mio cuore non può esserti ingrato, se ei respira solo perchè tu gli ministri l'aura di vita… ma che ei giammai non si divida da te: se lo abbandoni è nulla per me la vita, lievi mi sono e patibolo e morte…
Ma la giovane accorta avendo l'animo a doversi affrettare, pur lo pungea a fuggire, mentre ne avea ancor tempo: ei si arrendeva purchè ella non rimanesse in sua vece nella torre. Volea schiudersi la strada col ferro, volea,… ma un lampo loro scioglie la confusion della niente: Bianca fa cenno alla sentinella più prossima di entrare: la assalgono, la disarmano; Anselmo prende quelle armi e quella divisa, la minaccia di trafiggerla se chiama per aiuto: la chiudono nella torre e s'involano.
Ogni servo cede al loro passaggio, ogni porta si apre, chè ognuno crede con un soldato il Duca. Bianca segue Anselmo, perchè l'aspetto di un semplice uom d'armi potrebbe destar sospetto, nè gli sarebbe permesso in quell'ora l'andar fuori. Già solleciti hanno corsi gli appartamenti, lasciate addietro le ascolte, passate le due prime porte: già trepidando di gioja si appresentano all'estrema, e Bianca dà il cenno perchè si schiuda.
In tanto il soldato dalla torre innalza disperate grida, accorre la vicina guardia, si sente la frode, si dà il segno di soccorso. Il custode dell'ultima uscita che stava per ischiudere, vedendo il contrasto de' due guerrieri, perchè Anselmo premea Bianca a seguirla, e questa si rifiutava, sospetta dell'inganno, a quel clamore ne ha certezza, e vuole opporsi al loro passaggio; ma la spada d'Anselmo vince ogni ostacolo. Già il grido d'allarme scorre per tutto il Castello, suona la campana, si desta la milizia, accorrono i servi, tutto è scoperto. Anselmo non si perde d'animo, apre la porta, sale il pronto cavallo, si leva a forza Bianca sugli arcioni e si dilegua in un istante. Racconsola la vergine tremante, le ripete che non avrebbe mai patito di lasciarla vittima della sua pietà, la preme al petto, la inanima, la pasce di nuove speranze e fugge.
Precipita il cavallo fra le distorte vie: sprona timore chi il caccia e preme, ei vola e pare non senta il doppio peso, appena liba coll'agil piede e balze e valli e passa, e in breve è sotto le mura di Nebiolo. Anselmo diede il solito suo segno e fu riconosciuto dalle veglie: si schiusero le porte, e fu uno stupore, una gioia di tutti nel vederlo di ritorno, mentre ognuno piangeva la sua morte: chi accorreva a riguardarlo, chi se gli faceva incontro e gli baciava le mani e lo stringeva al seno, mentre a tanto amore spuntava sul ciglio al reduce il pianto della riconoscenza. Guidone che gemea sulla sorte del figlio e ne fremea orribilmente in suono di pietà e di rabbia, vedendolo improvvisamente libero, e stringendolo fra le sue braccia, pianse di paterno affetto: però fieri i suoi lumi aggirandosi fra quelle lagrime, quasi raggio di sole fra fosca nube, annunciavano le sue risorte speranze e la vendetta che gli suonava intorno al cuore.
Udì severo e muto il fiero veglio i patimenti del figlio, e il suo silenzio parea la calma che precede la tempesta; ma quando seppe che seco traeva la figlia di Stefano, sorrise di barbara gioja, credendo che rapita l'avesse alla vendetta. Anselmo allora radolcìa quell'antica rabbia col racconto di quanto la virtuosa adoperasse per lui, e aprendogli i suoi affetti ascosi, gli asseverava com'ei non avrebbe mai con viltà corrisposto ove lo stringea gratitudine.
Gli addusse innanzi la tremante donzella, che stava contrastata nell'idea dell'altrui sdegno, del luogo nemico ov'era, e di un incerto avvenire. La confortò il giovinetto vestendo d'amorosa dolcezza le sue parole, sciolse i di lei timori, e ispirolle coraggio; le propose tutti i teneri sensi del proprio cuore omai non più libero, non più suo.—Tu, generosa Bianca, mi salvasti la vita, tu restituisci un figlio, tu perdesti un padre, io darotti uno sposo. Tu forse richiamerai la pace su questi contrastati colli, sarai l'angelo di salute a questi abitatori ognor turbati da ire nemiche. Tu splenderai raggio di gioja in Nebiolo, e l'anima mia accesa d'inesausti affetti attingerà dai tuoi occhi una soave e nuova vita: tu sarai la speranza de' miei giorni, tu l'elemento del valor mio, e mentre io ti stringerò al petto amante e sposo, grato in te mio padre ravviserà l'angelica mano che gli rendeva un figlio e gli ricovrò le perdute speranze. Fra tanta soavità di affezioni, tu ancora farai riflettere ne' nostri cuori il lampo della gioja, e su queste mura il sorriso della calma.—
Pioveano siccome rugiada ristoratrice di primavera sulle erbe appassite gli accenti d'Anselmo in cuore della vergine pudibonda, e a sì teneri affetti stranieri nel luogo inospito ove sortì la culla, ella beveva una nuova dolcezza che componeva le tempeste dell'animo suo. Tripudiava ei di vederla commossa, e tanto si ingegnò che le rasciugò il ciglio, e porgendole nel proprio un nuovo padre, potè richiamare in lei alquanto lo spirito smarrito. Guidone istesso rattemprando i vetusti sdegni che gli capìano nell'animo, reso per amor del figlio di più umana natura, con dolci blandizie la allettò a nuovi pensieri, e insieme ad Anselmo la strinse al petto.
Col giorno nascente, perchè aura di nemica fama non turbasse il candore della bella innocenza di Bianca, fu nel castello ove sorgea il tempio celebrato l'imeneo: si sparse d'ogni intorno la letizia, e giuliva brillò la festa per la liberazione d'Anselmo. Trassero da queste valli e i vassalli e le scalze contadine alla Rocca, onde offerire presenti, quali de' loro greggi, quai di frutti o di fiori ai nuovi sposi, e lieti ne ritornarono per doviziosi doni. Sparse la fama l'inaspettato evento, e tutti sperando di raggiungere la invano da lunga età sospirata concordia, aprivano l'animo a nuovo gaudio, sicchè le conscie valli ripeterono gli evviva e i cantici di pace.
Come ricordare il furore di Stefano allorchè conobbe la frode? Morse per dolore le mani, squassò la scompigliata chioma, e con un grido di rabbia destò all'armi i suoi: corse il Castello, nè ritrovandoli fece inseguire i fuggitivi. Però il cammino era breve, e il timore aggiungea lena al loro corso; sentivano da lungi ferirli sull'ali de' venti il suono della suscitatrice squilla e gli urli dei soldati: ad ogni fischio d'aura, ad ogni sasso smosso dal veloce corsiero, si credeano preda degli irosi nemici, ma sperarono e ottennero salute. Poco dopo che si furono rifugiati in Nebiolo giunsero fino alle falde del colle armi ed armati, ma dipinti d'onta e di dispetto tornarono digiuni di preda e di vendetta al loro Signore.
Stefano ponendo sull'irta testa il cimiero di guerra, proclama ribelle la figlia: giura di vendicarsi traendo dalla vagina il formidato brando, che agitato nella sua destra sparse sinistro lampo, sicchè ne furono atterriti i circostanti.—Vendetta e morte siano la sola nostra insegna. Io non ho altri figli che questa spada: essa non tornerà al mio fianco se non grondante del sangue dei traditori: allora esultante tergerolla colle mie labbra e la riporrò. Giurate vendetta o morte.—I vassalli palpitando toccavano col proprio quel brando fatale, e pronunziavano il terribile sacramento. Si spargeva a quei terribili accenti un cupo mormorìo, che ripeteano le mura del palagio; parea che fino l'aura ne tremasse: un brividìo, un gelo cercava tutti i cuori; tutti i volti erano smarriti, fuorchè quello del tremendo Signore.
Sventola sulla Torre di Stefanago la sanguinosa insegna; si diffonde in tutti i petti, scorre per tutte le valli fiero commovimento di guerra. E i Signori di Fortunago, e que' di Rocca Susella e i Malaspina del Penice son richiesti da Stefano alleati contro il Nebiolo. Il Castello manomesso, le scolte trafitte, la figlia involata, sono crucciosi argomenti sulle labbra de' suoi messi: preme e da tutti ottiene soccorso. Il grido di guerra mugge di monte in monte, l'indegnazione unisce arme ed armati, l'insegna di distruzione sparge il terrore, come spaventosa cometa.
Anselmo manda lettere a Stefano, che gli portano novella dell'imeneo di sua figlia, e gli propone una pace stretta da' nodi di sangue. A quell'annunzio più freme il Rosso, risponde che si restituisca la giovane involata e il prigioniero, sdegnare ogni altro partito, e se più si tarda a ubbidirlo, sterminerà i nemici, sterminerà Nebiolo; e il sangue de' vinti segnerà soltanto dopo la loro rovina, la pace. Bianca volea pur sola correre a rintuzzare l'ira del padre, a offerirgli il petto ignudo, ma Anselmo nol sostenne, sapendo che ne andava a certa morte: quanto meglio poteva, studiavasi di porre in calma l'inconsolabile fanciulla, cui quindi movea tenerezza pe' luoghi ove nacque e timore pel periglio del padre, quindi sollecitudine pel nuovo asilo e amore per lo sposo: era la deserta sempre atterrita dal pensiero, che apportavale irreparabile doglia qualunque fosse o il vincitore o il vinto, che era delitto in lei per qualunque porgesse voti; era sempre turbata dall'immagine che per sè si destassero tanto furore e tante armi.
Però mal sostenendo che crescesse il turbine senza che in nulla si fosse provata di scioglierlo, volle scrivere al padre accenti di filiale ossequio ed amore, volle cercargli per quanto avea di più caro la pace. Mandò un messo che gli deponesse a' piedi il proprio pentimento e l'ulivo, ma di questi più non si ebbe notizia, e invano ogni dì la profuga di Stefanago rinnovava la speranza di udire annunziarsi men fiera la volontà del padre.
Guidone però rivolto l'animo da ogni vano pensiero di pace, non istava neghittoso, perchè a lui sprovvisto e inerme sovrastasse poi sul capo la nemica spada. Rampognava talora il mite cuore d'Anselmo e rideva di Bianca occupata nel suo dolersi al cielo per le proprie sventure.
Non pensò a far voti o ad innalzare preghiere; sollecitò gli alleati persuadendo altrui e il suo dritto di difendere chi avea presso di sè preso ospitalità, e vendicare gli oltraggi fatti nel figlio. Dava agli uni donativi, agli altri speranze; trasfuse in tutti l'odio ch'egli avea nel Rosso, sicchè già conveniano numerosi soldati intorno ai suoi vessilli. Benchè mitigasse il suo fuoco a non esacerbare il dolore dei figli, pure sentiasi ruggire in petto l'ira antica, e l'odio degli avi gli ridestava la sete atra di sangue. Così mentre l'uno fea velo dell'onte novelle alla brama che avea di prostrare il rivale, Guidone ridea nel pensiero di spegnere nel petto del nemico l'ognor rinascente livore.
Lo strepito de' bellici strumenti, il clangor delle trombe, e il suono dei sacri bronzi, annunziavano la fatal milizia che sotto gli stendardi del Rosso s'avviava lungo il Carvenzolo verso le nemiche torri. Il cigolìo delle ruote, il grave e lento stropicciare dei fanti, lo scalpitar de' cavalli, faceano un misto d'un cupo rimbombo che si ripeteva di speco in ispeco, e avvisavi al grave pondo tremarne il dirupo. Era ingombra la tortuosa via dal piano al colle d'armi e di combattenti, e i raggi del sole ripercossi dagli scudi, dai brandi e dai cimieri, pareano spargere nell'aure un torrente di scintille di fuoco.
Fugge sbigottito il montano abitatore, e sì impetra per paura, che nè si lagna nè piange per le calpestate messi e per le violate capanne: fuggono l'inerme veglio, le vergini pudibonde nelle macchie e negli spechi, e le madri tremanti si stringono i figli al seno. Il terrore precorre l'evento, si annunzia a Nebiolo la formidabile armata, si annunzia la sanguinosa bandiera, lo spaventoso motto, e sopra di essa orribile a vedersi il capo troncato del messo infelice.
S'inaspriscono gli animi a tanta crudeltà, e già Guidone, non men fiero dell'abborrito rivale, anela vendetta. Già in suo pensiero la vede compiuta e tutta ne pregusta il dolce, già tende più fili onde se più cruenta la raggiunge, gli riesca più cara.
Mentre la militar baldanza si sparge pe' suoi campi a depredare gli abituri e gli armenti, mentre l'audace nemico lo insulta sotto le sue Rocche, il Nebiolo prepara loro per mille modi la morte. In que' tempi di barbarie tutto concedea la dira legge di guerra, nè l'animo feroce di Guidone rifuggìa da crudeltà. Ei sparse veleni nelle fonti, veleni nei vini, nei cibi de' coloni, veleni sulle micidiali spade: così i seguaci di Stefano or a tradimento, or côlti da improvvisa sventura, or con acerbi e lunghi dolori, e di giorno e di notte, e nelle capanne e nelle valli in diversi modi oscuri morivano. Il valore si affievoliva, giacevano le spade, la paura e il terrore cominciavano a cercare tutti i petti, mentre il nemico atrocemente ne esultava.
Fremea il Rosso a questa nuova maniera di guerra che si opponeva al suo sdegno, e tarpava i suoi facinorosi disegni: fremeva nel vedersi tendere tanti agguati, patire tanti disagi il suo campo, e ostinato il nemico rifiutarsi alla battaglia. Gli parve dopo alcuni dì che più non potessero starsi senza taccia di viltà, divise le alleate schiere sui circostanti poggi, e ordinò che con trabocchi e balestre s'investisse da una parte la Rocca, mentre egli co' più arditi vi avrebbe dall'altra portato il ferro e il combattimento. Squillano d'ogni parte i guerreschi oricalchi che sfidano il nemico alla pugna, e mandano grida di confuse voci che tacciano di timore e di codardi gli assediati: s'innalza il canto di guerra, l'inno della vittoria; Stefano s'innalza invitto nell'armi, domatore dei possenti, e signor degli Irii colli; Stefano che se muove il passo tremano i forti, e paurosi fuggono ad appiattarsi come cervi ne' loro covili; se snuda il ferro china ogni orgogliosa testa: ei folgore sperditrice della battaglia, sterminatore de' nemici, oppugnator di Nebiolo.
Erano mortali saette al cuore di Guidone gli acerbissimi accenti: lo stare chiuso ancora gli parrebbe viltà. Sente che gli giungono i soccorsi richiesti da Montebello, sguajnando l'invitta spada dà il segno di guerra e si dispone a discendere nell'aperta campagna. Fremono intorno a lui i suoi prodi, e si diffonde fra loro un cupo suono di ripercossi scudi che pare il mesto lamento di rovina e di morte. Alzano alcuni dal chiuso cimiero in segreto gli occhi di preci al cielo, altri agghiacciano stretti da sinistri presentimenti. Ride Guidone e disprezza i loro voti, e scuote il brando che sparge sanguigni lampi, muove su loro uno sguardo di compassione, e pare rampognarli di viltà, e accennare che in quell'arme sua soltanto sia riposto il volere della terra e del cielo.
Anche Anselmo cigne l'acciaro malgrado la sposa che dolcemente lo prega a restarsi, o a condurla seco.—No, non seguire tant'ira, dolce amor mio, nè abbandonare questa misera a cui tu solo sei vita. Lascia al padre il peso di tanta guerra, e tu resta a difendere queste torri: ten prego pei primi nostri affetti, non allontanarti da me: sento che questo dì può riuscirti fatale, sento che noi non dobbiamo dividerci. Deh vorrai opporti all'amore della tua sposa la prima volta che trema sul tuo periglio? Che se tanta è in te sete di gloria e di sangue, che si chiuda il tuo cuore alle mie preghiere, consenti che io pure combatta al tuo fianco e teco divida il destino dell'armi: io mi porrò fra te e il ferro nemico, nè vi avrà soldato di Stefanago, per quanta fierezza accolga, che ardisca per questa via cercarti il petto.—Anselmo la confortava di lusinghevoli parole, e dolcemente se le richiamava perchè sì poco confidasse nel suo braccio.
Però non cessava dalle preci l'esule timorosa; e se tacea, era il suo silenzio più eloquente degli accenti, era un sospirare dolente, un riguardare pieno d'affetto, una mestizia che annebbiava i suoi vezzi e li rendea più vaghi, come lo spruzzo della rugiada sulla rosa del mattino; le bagnavano le lagrime copiose il viso e risplendea più bello come estivo sole dietro il velo di una minuta pioggia. Ma qual robusta quercia allo spirare d'aura leggiera, piega i mobili rami e non si commove nella radice, era intenerito l'eroe, ma non cedeva alle molli blandizie di Bianca: il chiamavano le trombe e l'impero del padre, e già in punto di volare al campo raccomandava alla sposa i propri affetti.
Com'ella vide che vani tornavano e preci e pianti, di nuovo il pregava:—Deh almeno, mio Anselmo, giacchè pur corri alla battaglia, fuggi, ah fuggi l'incontro di mio padre. Volgi per pietà su altri eroi la generosa spada; ah si torcerebbe al mio seno! io non potrei sostenerne l'atroce vista, nè patire la mano che mi lusinga, fosse macchiata di sangue… e di qual sangue!… Il vostro incontro sarebbe troppo fatale… Anselmo, egli è mio padre.—In così dire avvolgeva vezzosa le braccia intorno al ferrato usbergo dello sposo, e dolcemente alzandogli la già calata visiera, gli careggiava colla tremola mano il volto e baciava l'amata bocca. Ei rispondea parole e vezzi per sospiri e baci, e già molli affetti gli addormentavano i bellici sdegni, se nol scuoteano le grida delle ordinate schiere. La voce di guerra impera su quella d'amore, tornano gli amanti agli amplessi, e con un loquace sospiro Anselmo a lei s'invola. Mentre ella lo seguita colle rugiadose pupille, l'altro talor si rivolge e dai chiuso elmetto pur le vibra gli ultimi accesi sguardi d'amore.
Bianca abbandonata e sola anelava flebili singhiozzi, e quasi l'animo le fuggisse cadeva sul seggio abbandonato: indi sporgeva le braccia al guerriero e vuote le ritraeva al vedovo seno, chiedeva dell'amante all'aure, alle squallide pareti, ma ei già era lunge, e al nome d'Anselmo rispondeano solo le cave vôlte del Castello e il fiero muggito della battaglia.
Già l'accesa fantasia le dipinge nuove sventure, delibera seguire lo sposo, veste guerriera maglia e s'avvia verso la porta: se le oppone dolce violenza, per che delibera attendere finchè meglio s'inviluppi la mischia, e fra maggiori cure non s'abbia mente a' suoi passi. Sta intanto dalla vedetta ad osservare la pugna nè sa per cui preghi: palpita se piega l'una o l'altra schiera: or figlia, ora sposa, or fuggitiva, or serva, non sa far voti, spesso ondeggia, e trema sempre.
Torrenti che scendono furiosi da opposti monti e si mischiano frementi nella valle, nubi che s'incontrano e confuse ululando spargono lampi e tempeste, sono lievi immagini della crudele battaglia. Ondeggia il terrore sugli irti cimieri, morte splende negli sguardi dei combattenti, morte scaglia il declinare d'ogni spada. Nessun brando è digiuno di sangue, tace in ogni petto la pietà, è più lieto chi dissetò il suo sdegno nelle viscere di più nemici, e fin dalle chiuse visiere, come lampo da nube, trapela il livore e l'ira: accende un sol desiderio e il superbo cor del Signore e il tremante petto dell'ultimo schiavo.
Stefano, purchè ognor versi sangue, non risparmia la punta dell'acciaro nè al vincitore nè al vinto: è bufera che abbatte e l'alta pianta e l'ultimo virgulto: ogni volta che si gira la temuta destra cadono mietute teste, e le calpesta col piede che imprime orme di sangue e passa. Incoraggia i soldati col grido della vendetta e chiede del giovine Nebiolo. Questi, fido al suo giuramento, prode nel cruento certame, coglie mille palme sugli alleati e sfugge il fiero Sir di Stefanago.
Ma il Rosso dal colle mentre gioisce fra le uccisioni, vede in basso consumarsi miseranda strage de' suoi, vede piegar l'armi, e un terribile guerriero, quasi turbo in campo di biade, spargere lo sterminio e la morte. Alle insegne, al portamento ravvisa Anselmo, e barbaramente esultando precipitandosi a valle, lo chiama alla tenzone.—Cessino l'armi, soldati: lascia, vituperato rapitor di fanciulle, di mostrarti prode sul volgo: il bastone e non la spada si conviene all'imbelle tuo braccio. Qui, qui ti rivolgi, è la mia che ti attende e vuole insegnarti quanto valga un Nebiolo, eroe da tradimenti.—
Anselmo punto sì aspramente il riguardò e con disdegnoso ripiglio:—Uomo crudele, perchè il cielo ti diede una figlia, e tu non puoi imitare le sue virtù! Ammansa il tuo furore, omai Bianca è mia sposa: benedisci a questo nodo, dà la pace a' nostri cuori, a questi popoli.—Ah codardo! la pace al tuo cuore, daralla la punta della mia spada. Difenditi, nè colla pietà far velo alla tua paura.—
Seguì l'assalto agli acerbi detti, che non permise Stefano all'altro di rispondergli, ma lo investì furiosamente col ferro. Anselmo così costretto, chiamando in testimonio il cielo perchè non avea rotti i suoi giuramenti, difendendosi si pose nell'infausto duello. L'una e l'altr'oste immobile ristà, nè osa innalzare un solo accento pe' due combattenti, pende dai loro moti, e corrono gli sguardi dietro al fulminar de' ferri.
Qui ognuno trema, nè osa col pensiero tentare il futuro, mentre Guidone spargendo strage nell'oste, iva affannoso in traccia del figlio.
Bianca, che palpitante considerava la pugna, e a cui nulla sfuggiva, vide dal poggio il padre a provocare Anselmo, e un gelo di morte tutta la cercò. Presentì inevitabile la zuffa, e anziosa di dividerli, paventando per entrambi, volò dal Castello nel campo. Sopravvenne agli sdegnosi mentre aveano dato principio al fiero assalto, e siccome la consigliava amore, osò, perchè cessassero dall'armi, interporre la sua spada in mezzo alle loro destre. Stefano il crede un tradimento, e mentre grida al rivale:—Vile, il mio braccio vale per te e pe' tuoi—il suo ferro è disceso nel petto dell'infelice Bianca. Essa dà un grido—Ah padre—cadde, e l'elmetto rovesciato lascia sprigionare il tesoro delle bionde chiome.
I due guerrieri la ravvisano, il Nebiolo ne resta stordito pel dolore: Stefano trae partito dalla sorpresa di lui per ordinare a' suoi soldati che si prendano la ferita e la trasportino a Stefanago. Anselmo s'avvede che gli è rapita la sposa, cerca invano di soccorrerla, chè il Rosso gli è sopra col ferro e il provoca di nuovo alla battaglia.
In tanto la mischia cresce e si fa generale; coloro che videro il miserando caso di Bianca alzano grida di orrore: vola d'ogni parte la ferale novella, accorrono guerrieri nell'angusta valle, e in suo sdegno terribile Guidone scende anch'esso anelante di pugnare col nimico. L'odio antico fa dimenticare lo sdegno novello; Stefano lascia Anselmo e si batte con lui, e tanto eran lieti que' fieri d'incontrarsi, che avresti detto scendessero al ballo e non al conflitto.
Mentre fremono intorno armi ed armati, e si oppongono scudo a scudo, elmo a elmo, spada a spada, Anselmo palpitante e addolorato, siccome gli persuade amore, silenzioso si ritira dal campo e segue la sposa.
Venivano intanto furiosi i due rivali alla lotta, e forse la morte d'un d'essi poneva breve termine alla guerra, se la pugna che d'ogni parte premea non turbava il duello. Allora sitibondi di sangue volgono il formidabile acciaro fra l'oste più folta, e piove ove scende irreparabile morte: striscia di sangue allaga i lor passi, e mietono mille vite fra il volgo e fra gli eroi.
Stefano instancabile rinnova ognora e gli assalti e la strage, scorre le file, raccoglie i fuggitivi e oppone il suo valore ove vien meno quello de' soldati. Guidone mentre incoraggia i suoi, gli spinge sul nemico con impeto irresistibile come sasso che si rotola dal monte, e li preme e li fuga e gli uccide: invano chiede a tutti del figlio. Poderoso era Guidone, ma in breve s'avvide che aveva una sola spada in campo, poichè ove non folgoreggiava il suo brando piegavano i suoi, mentre dove non ruggiva l'ira del Rosso oprava la temuta destra di Fortunato Malaspina.
Come generoso leone che si vede circuito nella foresta, fieramente si aggira fra le nemiche insidie, arruffa la bionda criniera e pone con un sol ruggito il gelo in petto de' cacciatori; così Guidone or sul colle, or nel chino dava procelloso co' suoi ne' nemici, e la sola sua presenza era loro terrore e indubitata fuga. Ma il suo coraggio non potea soccorrere ogni drappello ed ogni mischia, nè opporre lo scudo al Malaspina mentre frenava la baldanza del Rosso. Destro raccolse le sue schiere, le ordinò in ben serrata coorte sulla via che mena alla Rocca, e vedendone scemato il numero, perchè molti vilmente s'erano dati per vinti, sostenne da prode ritraendosi dubbia la battaglia, finchè la notte pose termine alle ire ed al conflitto.
Ritiratosi nel Castello fu dolente senza modo di non trovarvi il figlio, e scoprire venuta meno la fede di qualche alleato. Pure confidando nella prudenza d'Anselmo, colla speranza ei meditasse qualche audace impresa, divisò tenersi chiuso nella Rocca finchè spirasse aura più propizia.
Passò la notte nell'ordinare i suoi militi, applaudire a' valorosi, rinfrancare i meno audaci e dare ordini per la difesa. Intanto l'oste avversa destando d'ogni parte i fuochi e vegliando nel riordinare i battaglioni e repristinare le armi, accennava anzichè riposare sulla vittoria, di prepararsi a nuove imprese.
Appena sorgeva quasi a gramaglia, vestito d'infausta luce il dì novello, Stefano siccome famelico lupo che s'aggira intorno all'ovile ove è la greggia, inoltrato sino sotto le mura di Nebiolo, alteramente sfidava Guidone e il chiamava a nuova pugna, e perchè vedea serrate le porte e niuno rispondere alle sue minacce, il tacciava di paura e di codardia. Fremeva il Nebiolo alla nuova rampogna, e malgrado il parere de' suoi, destò i soldati all'armi, e uscì con essi dal chiuso. Retrocedono all'impeto novello le schiere del Rosso, gli altri le inseguono e porta il combattimento nella pianura: la fortuna or all'uno sorride, ora l'altro abbandona; a vicenda i due campi o vincitori o vinti innalzano il grido di fuga o di vittoria, e per lunghe ore si combatte or sull'alto or nel declivo con dubbio marte.
Ma disperate grida de' talacimanni, un confuso suono di trombe, di squille e di timballi, un cupo rimbombo d'armi ed armati, annunziano che il forte è preso d'assalto. Avvampa Guidone di dolore e di rabbia; e pur vorrebbe volare a soccorrerlo, ma invano cerca di abbandonare il conflitto in cui si trova avviluppato. Si batte con deliberato coraggio, fere, rovescia, uccide e stermina, ma se qui il nemico piega, invadono altre schiere vincitrici il Castello.
Allora ode tuonare la voce di Stefano:—Sia preso, ma niuno osi vestirsi dell'ira mia, in quel petto fere solo il mio brando, beve sola la mia vendetta.—Guidone si volge a mandar pentito quell'orgoglio, ma d'ogni parte è furiosamente assalito, e mentre abbatte chi gli viene incontro, preso a tradimento alle spalle è disarmato, e prostrato fra mille ferri che gli pendono sul capo. Gli si annunzia le truppe disperse, presa la Rocca, dileguato il potere: s'insulta al vinto, e s'innalza il plauso della vittoria.
Freme il Nebiolo stretto dalla turba che l'opprime e spaventa solo che ei giri la sanguinea vista: ei si scuote e palpitano mille petti, fremono mille spade, chè ognuno teme non riprenda l'armi e il furore, di tanto gli atterrì sul campo; pari a cignale fra lacci, che se rabuffa l'ispido pelo o arruota la zanna, ne agghiacciano gli assalitori cui trema ancora la mente per la passata ferità della belva.
Ma altiero in sua possanza il Rosso è sopra al vinto e il garrisce amaramente.—Vedi, orgoglioso, il tuo Castello è in mio potere: mira, già divampa la fiamma divoratrice ove passeggiava il tuo orgoglio. Omai se' mio vassallo, mio schiavo, inchina la fronte al tuo Signore e siagli sgabello nel salire il suo destrero.—Cui il Nebiolo oppresso dal numero, ma non prostrato—Prode solo di parole: vile mi costringi per un tradimento: è questo il valor tuo… A che ti rifuggi in mezzo a' tuoi agnelli che non osano alzare gli occhi paurosi sulla mia fronte? A che non ti provi meco come pur dinanzi mi provocasti, nè io stetti chiuso tremando fra le mie mura? Oh! ma folle, che cerco? tu torci il guardo al solo lampo della mia spada. Perdei tutto, ma mi resta l'onor mio, tu codardo trionfi colla viltà, tu prode solo nel trucidar le fanciulle.
Pungono acerbamente Stefano queste rampogne, ordina di rendere al nemico la libertà e l'armi, e giura di dar morte al primo che attenterà frapporsi al loro duello. Ossequiosi si ritraggono i soldati, e si sparge nel campo un cupo silenzio, che solo è rotto dalla stridente fiamma che divora il Castello, e dallo scroscio delle mura cadenti. Allora Guidone impugnando il libero brando, volto in pria uno sguardo alla sua Rocca, senza mostrarsi nè atterrito nè dolente:—Rosso, ricordati che il mio petto non è di debile donzella.—E l'altro a lui:—Servo di Nebiolo, troppo ho sete del tuo sangue perchè fallisca il colpo.—
Sono questi detti il segno d'una lotta che più fiera non seguì fra eroi: è lo scontro di due nembi che frammischiano le procelle, è il fremito di due belve che pugnano nella foresta. Trema sotto a' lor piedi la valle, spirano fuoco gli irosi volti, lampi i brandi che scendono tempesta sull'elmo, sulla corazza e sullo scudo. Ma prodi erano entrambi e maestri di guerra, eran destri e micidiali i colpi, ma erano riparati.
Arrabbia Guidone a sì lunga resistenza, e impaziente apporta alla gola dell'altro la spada, ma mentre scaglia il colpo, Stefano percuote a lui sì fieramente la mano, che è forzato abbandonare l'arme. Però ei stesso non evitò, abbenchè lieve la ferita, e sentendosi scorrere il sangue, fu sopra all'avversario, il rovesciò, e brandendogli il ferro sul viso gli intimò con terribil voce di darsi vinto.
Guidone per nulla si arrende o mostra timore: rovesciato sbuffa come leone piagato a morte: freme, ma nè parla, nè si lagna, gira foschi gli occhi e mentre l'altro l'insulta, in un lampo coll'una mano procura di deviare la pendente spada, coll'altra tratta un pugnale, e lo avventa al petto del nemico. Ma il ferreo usbergo è scudo al Rosso, che scosso a tanto ardire gl'immerge nella gola il provocato acciaro: e mentre quei versa il sangue e la vita, gli calca il petto coll'orgoglioso piede e l'insulta.—Così il Rosso ti calpesta: così qui fosse teco tuo figlio, e andasse ogni tuo congiunto come te e la tua Rocca, fuoco ed ombra.—
Levato il cruento elmo dell'ucciso, e innalzatolo con barbare grida sulla bandiera, fu la spoglia di Guidone gittata nella fiamma divoratrice che distruggeva l'oppugnata fortezza. Si fe' libero alla militar baldanza di depredare i poderi del vinto, e ordinò l'inesausto odio di Stefano di rovesciare fino alle fondamenta la formidabile Rocca, sicchè non ne restasse pietra sopra pietra, e si disperdesse pur la memoria di un orgoglio che fu.
Fra tanta strage e sangue allora pensò a' suoi ed alla pace: credendo Anselmo o estinto oscuramente o fuggito, depose la spada micidiale, e disse che perdonava alla figlia i commessi errori, perchè aveagli aperta la strada alla vendetta.
Ma era vano il perdono di Stefano. L'ira e l'insano livore non gli permisero di veder qual piaga avesse il suo ferro aperta nel petto di Bianca; la vittoria gli aveva tratto di mente di chiederne novelle, pago di saperle in Stefanago.
Giovane sventurata e in mal punto pietosa, ondeggiante fra gli affetti di sposa e di figlia, amore la trasse fra le battaglie, e ambizione la trascinava al natìo suo tetto. Anselmo anelante la raggiunse lungo la via che conduce a Stefanago, recata sur un letto di frondi da una mano di fidi soldati. Come questi videro giungere il guerriero, dubitando non gli inseguisse onde loro involare Bianca, si disponevano alla difesa, ma il dolente alzando la destra ignuda gridava—Pace: io non porto guerra, voglio vedere la mia Bianca, la sposa mia, colei che per me si avventurò fra l'armi, voglio soccorrere a' suoi mali e caderle vicino.—
Scese in cuore a Bianca la voce di Anselmo, e n'ebbe soave refrigerio; pregò i soldati perchè libero lasciassero a lui il passo al suo letto. Come il vide, quasi amore le richiamasse sulle erranti pupille il fuoco di vita, teneramente riguardandolo,—ah Anselmo mio, diletto sposo sì per poco a me concesso!… vedi, omai è segnato il mio destino, e mi abbandonava anche la speranza, se non che desìo di pur vederti mi nudriva in seno amor di vita. Or lieta inchino alla necessità che mi appella, irreparabile necessità, poichè la mano, ahi qual mano!… che trafisse questo mio seno, troppo seppe cercare le vie di morte…. Almeno colla mia vita si ponesse termine a tanto furore.
Anselmo fattosele vicino, e presa la destra che Bianca avea a stento levata allorchè il vide, teneramente la baciava e bagnava di pianto, e i suoi occhi stringendo agli occhi della sposa:—Ah Bianca, lungi per pietà questi sinistri presagi che mi straziano…. Lascia al tuo Anselmo, all'amor del tuo sposo il pensiero di sanare la tua ferita: amore per me ti trasse al duro passo, amore deve prestarti salute.—Oh che di' tu mal accorto! quali pensieri aduni? a che pure stai? Non vedi i perigli che ti circondano? non senti il suono delle inimiche catene che ancor ti si apprestano? Ah va, fuggi, finchè n'hai tempo! Soave in vero mi è il vederti, e sento che la tua voce mi piove un balsamo sull'anima che mi asperge e disacerba fino le mie ferite;… ma tu sei in periglio, e a me sarà bastante sollievo nelle ore estreme l'averti ancora abbracciato, e il sapere che quel ferro fatale fu sazio di una vittima sola… Ah se m'ami, se non vuoi contristare con terribili presentimenti l'anima mia fuggitiva, ricevi questo ultimo addio e involati sempre dalla sventurata tua sposa.—
Accompagnava la misera le meste parole con una soavità d'affetti che se le pingeano sul pallido viso e i sensi schiudeano dell'anima; stringeva a sè Anselmo, e ancora tacendo il pregava in vista a salvarsi colla fuga. Ma questi ricusò di lasciarla, depose lo scudo nelle mani de' soldati, e li sollecitò perchè la trasportassero ove erano indirizzati. Non si dipartì mai lungo la via dal suo fianco, e d'amorose parole s'ingegnava lenire alla sfortunata il doppio affanno.
Come furono al fatale Castello si adoprarono ragioni e preci perchè Anselmo non vi ponesse il piede, presagendogli sinistri e sventure, ma tornarono a vôto, quasi parole commesse al vento. Ei depose Bianca sul letto del riposo, e giurò che niuno nol rimoverebbe mai finchè era in vita. Ognuno sentivasi commosso da terrore discorrendo col pensiero i guai della giovinetta, ognuno era preso da meraviglia vedendo Anselmo con tanta fermezza riedere fra quelle mura; tutti rispettavano e compiangevano lo sposo di Bianca.
Le cure dell'arte indarno furono poste in opera, invano si accolsero labili speranze, chè non vi avea rimedio alla piaga fatale. Fuggiva alla misera col sangue la vita, che sentiva ognor più venirsi meno: e il celeste suo spirito dolente di abbandonare il leggiadro velo con cui fu pellegrino in questo mortale viaggio, pareva ora fuggire dalle annebbiate pupille di Bianca, ora riedere ad esse non già per fruire ancora la luce fuggitiva, ma per pascerle in quelle innamorate dello sposo, e ancor gustare la soavità dell'amoroso desìo. Nulla sapevano quegli affannati, nè curavansi chiedere di quanto accadeva a Nebiolo: Anselmo solo avea pensiero di soccorrere alla trafitta, mentre la nemica fortuna gli toglieva il patrio tetto, la libertà e il padre.
Fuggiva la notte funesta per Bianca, e ognor più scemavano in lei le forze, e s'avvicinava l'ora del misero suo fine. Ordinò che convenissero al suo letto il pio sacerdote, il custode del Castello, ed alcuni servi, e prendendo da loro gli estremi congedi, li pregava perchè consentissero ad Anselmo suo torsi liberamente da quelle infauste mura.—Ei qui non pose inimico il piede, ei non apportò sterminio e guerra ai vostri figli. Fu la pietà che il trasse in queste soglie, la pietà libera gliene dia l'uscita. Questo sia l'estremo favore che accordate alla povera vostra Bianca, questa l'ultima opera pia e giusta che vi consiglia l'amor mio: ve ne prego per quell'affetto che pur m'aveste, per quelle cure onde sovente raddolcìa per voi l'ira paterna, e vi resi men duro il suo rigore. Ei non ve ne farà rimprovero; ditegli che il concedeste alla morente sua figlia, e che era crudeltà negare l'estrema grazia alla figlia di Stefano.—
Erano tutti commossi intorno a lei, pieni di lagrime gli occhi, le risposero che Anselmo potea a suo piacere partirsi, ma ad un tempo che conveniva il facesse tosto, giacchè giungeano dal campo sinistre novelle per lui. Si succedeva sulle squallide gote a Bianca un misto di pietà e di dolore, pietà che la stringea per le sventure che presagìa dell'amico, dolore che la premeva perchè dovesse dividersi innanzi di morire; ma vinse la pietà e a lui dal labbro agitato dagli aneliti di morte volava la tenera preghiera.—Mio sposo, mio unico amico, va, ti salva, nè volere ostinarti a perire vilmente fra questi ceppi, mentre t'attendono forse altrove gli allori della gloria e il periglio de' tuoi congiunti. Omai io sono presso al mio fine, inutili omai mi sono le tue cure. Lascia che sola io componga questi occhi al sonno di morte… Ti prometto che il tuo nome sarà l'ultimo mio sospiro… tu sarai l'ultimo pensiero di Bianca… se tu solo fosti quello onde io gustai qualche dolce in questa travagliata vita…—Ah, Bianca, ch'io ti abbandoni? disperi dunque affatto di tua salute?… E dovrò lasciarti sola contro l'ira d'un uomo sì fiero? Ei venga, ei la spenga nel mio petto, e almeno vedendomi ancora ne' suoi ceppi, sia men duro con te… Ei sia feroce, ma non padre snaturato… ei ti dia l'estremo abbraccio e tu possa dividerti da lui obbliando un involontario…—Anselmo, e tanto ti stringe pensiero degli altrui filiali affetti, mentre nulla hai cura de' tuoi? forse in questo istante tuo padre oppresso dai nemici, invano sospira il braccio di suo figlio perchè gli presti soccorso… forse ei cadde e non ha una mano amica che gli ministri l'ultimo uffizio di religiosa cura… Ah questa idea pur mi pesa! va, mio pietoso amico, per l'amore che mi ponesti in questi brevi giorni di nostra unione, va, ti prema sollecitudine pel padre, cedi al desìo della tua Bianca che ten prega e ti vuol compassionevole, nè si acqueta che in questo pensiero…—
Erano inutili le preci di lei, e i consigli di quelli che il circondavano: Anselmo rispose siccome conosceva il valor di Guidone, e che ove fortuna men propizia gli mostrasse la fronte, chiuso nella Rocca poteva sostenere lunga difesa: allora migliorata la salute della sposa, sarebbe volato a soccorrerlo. Soggiunse come solo ei seguendo i consigli del cuore, mai non si sbigottiva all'incostanza della sorte o al rumor de' perigli:—Sempre io gli ebbi al tergo, e per quanto fieri mi minacciassero, non giunsero a prostrarmi giammai, e sì che il mio cuore era unicamente acceso da sentimenti d'onore: potranno ora atterrirmi, ora che dovere, gratitudine, amore, amore che per te mia liberatrice e sposa sì altamente intendo, a te mi stringono, nè fia che umana forza mentre io viva giunga a dividermi giammai… Se pur te move come innanzi, eguale affetto per me, cessa dall'inutile preghiera: mi cruccia, m'irrita, e quasi mi desta l'acerbissimo dubbio che poco t'importi di avermi vicino,… o ti pesino le mie cure.—
Si acquetò Bianca a quel deliberato favellare, e gli rispose con uno sguardo in cui tutti sfavillavano i sentimenti dell'anima amorosa. Poichè alquanto racconsolò l'amico sul destino che la premeva, presentendo brevi i momenti di vita che ancor le rimaneano, gli profferiva mille ricordi, perchè sottrarre si potesse allo sdegno di Stefano, ma ad un tempo accorta il raddolciva con pietosi sensi che il richiamassero dalla vendetta.—Ti sia la ricordanza di Bianca tua infelice, siccome un'aura che temperi il rigore de' tuoi pensieri… Deh abbiano fine queste discordie, e sulla mia sciagura s'innalzi la pace di questi poveri coloni. Che se l'onta di una non tua colpa… agognasse in mio padre a spargere nuovo sangue alla mia memoria, Anselmo perdonagli l'ira, e forse qualche rimorso… che destar gli potesse la ricordanza di una figlia perduta… Egli è mio padre, Anselmo, ed io morrei desolata, se sapessi che nella sua canizie privo dell'antico valore, privo del conforto de' filiali affetti… dovesse sostenere i furori del tuo sdegno.
Anselmo tutto le prometteva, e le giurava che più presto avrebbe rinunziato alla sua fortuna, alla vita, di portare la spada di guerra nell'asilo che ella col nascervi aveva per lui santificato. Anselmo abborrìa dai pensieri di vendetta e si proponea di offrire, se occorreva per la pace di que' paesi, anche in olocausto la propria vita.
Allorchè la calma dell'amoroso foco consentiva a Bianca il pensiero di cose meno affannose, spargeva i suoi accenti a sollievo degli altri che le stavano intorno.
Prese l'estremo commiato dalla sua nutrice, e raccomandatale la propria memoria, la pregò perchè talora la richiamasse al padre.—Allorchè dorma in lui lo sdegno, e il dolore lo cerchi della perduta figlia, allora te le avvicina, e digli che Bianca morì invocando il suo nome;… che solo mi dolse di non potergli chiedere compatimento di un pietoso errore, pietoso perchè forse il suo cuore istesso ove sia più mite, mi applaudirà di aver salvata una vittima di acciecato furore… Digli ch'io muojo per giovanile imprudenza e amore;… che que' ferri m'erano del pari mortali, e volea dividerli, ma il destino… Se però egli a sè rivolgesse qualche rimprovero,… tu il solleva dalla crucciosa idea, e lo accerta che sua figlia non ebbe mai quel pensiero, ma riconobbe la spada del cielo che punì le proprie colpe… Se mai l'ostinazione d'Anselmo a non allontanarsi… se… deh tu che m'avesti in luogo di madre, tu che vedi quanto ei mi ami, chiedi a Stefano in compenso di tante cure per me sparse, in espiazione della mia sventura… chiedigli… nè qualche atroce scena… Gli ricorda che io abborro il sangue, e che perdonando… morii… oh Anselmo… Anselmo…
Allora Bianca fu presa da convulso improvviso commovimento, che le troncò la voce e le tolse ogni lena. Madida di freddo sudore la fronte, era combattuta da un fiero anelito che quasi le impediva di spirare le fuggitive aure di vita: si smarrirono le ultime rose delle appassite labbia, nè più, sebbene agitate sembrassero tentarlo, potevano formare accento. Parve che una nube se le diffondesse sullo squallido volto, se le innondarono di pianto gli occhi, e avvisavi che un velo ne appannasse il lume. Come face cui viene meno l'alimento, ora è pallida e presso ad estinguersi, ora divampa di subita luce, indi ricade; così nelle pupille alla morente, or quasi si spegneva la vitale scintilla, ora ritornava a sfavillare, e mentre di nuovo animate pareano erranti cercare quegli che più loro incresceva abbandonare, tornavano di nuovo ad offuscarsi.
Così per molte ore accolse la misera debile fuoco di vita, e a lungo lottò fra l'ansia di una penosa agonìa. Anselmo sentiva a prova tutte le angosce che la stringevano, e a maniera ch'ella ripigliavasi, sorgeva a ristorarlo la speranza, per cader tosto in una miserrima disperazione: la sua anima era un deserto di arena in cui spira la bufera, dove invano piove la rugiada, dove invano un'erba pone radice.
Però avea cura di sostenere i singhiozzi che pel gran duolo ognora gli prorompeano dal petto, per non contristare colle sue doglie alla moribonda. Stava inchinato sul letto ferale, intendeva a soccorrerla, a porgerle qualche refrigerio, e sovente le bagnò l'aride labbra colle lagrime de' suoi occhi. La dimandava pietosamente, la blandiva con affetto, le dava qualche tenero amplesso, e raccoglieva colla bocca tremante gli estremi sospiri, che pareano con un confuso susurro fuggendo, gli parlassero ancora del suo amore.
Già un alto clangor di trombe si propaga di vetta in vetta, già ripetono le valli le grida confuse degli evviva e i clamori della vittoria, e a questi si rispondono da Stefanago suoni d'esultanza e di gioja. Tutto intorno è un frastuono, un affaccendarsi di soldati e di conservi, tutto annunzia Stefano che giunge vincitore.
Si scuote, se ne avverte Anselmo, e se gli propone la fuga, perigliosa in chi la permette, ma sacra a chi serba i giuramenti. Solleva lo sfortunato cavaliere il capo dal letto di morte, e nè agitato nè stretto da meraviglia, interrompe—Vincitore, e in qual modo? dunque mio padre?… fuggire!… Bianca or rende gli spiriti estremi ed io?… Anselmo non fugge, non commette bassezza. Se mio padre… se… io cadrò senza avvilirmi.—Niuno osa rispondergli, nè tôrre a' suoi occhi il velo che ancor gli ricopre il destino della sua casa: ammutolisce ognuno e dall'occorso più fiero scopre l'avvenire, e trema.
Stefano irato aveva dimenticati i privati affetti, Stefano trionfante chiese di Bianca, non vedendola muovergli in contro, e dividere seco l'esultanza della vittoria. Udì che era presso a morte, e parve turbato commoversi, e volle vederla, ma come inoltrò il piede in quella stanza di pianto, e scoprì Anselmo a canto a quel letto, ripigliando la natìa fierezza stette, lo sguardò con un amaro sorriso che annunziava il tripudio della crudeltà:—Tu qui, tu cagione che io sia orbato dell'unica mia figlia? Ah sapevi al certo ch'io richiedea qualche gran vittima sulla sua tomba: non aspettato m'è il dono e più gradito.—
E a lui Anselmo con disdegno, mentre colla destra faceva velo agli occhi di Bianca:—Uomo crudele, e osi insultarmi a questo letto, ove manda l'ultimo sospiro quella figlia che tu trafiggesti? Ah ch'io la tolga a' tuoi sguardi! nè son degni di fermarsi in tanta virtù; certo quest'alma immortale nel suo partire da spoglia sì pura ne sarebbe macchiata… Vedi, ella moriva spargendo sentimento di pace, e tu vieni a insultare l'asilo della sua quiete col veleno della tua inaudita ferità! Credi forse atterrirmi? vittima sulla tomba di quest'angelo? io ne sarò ben lieto, poichè con lei mi rapisti quanto m'era di più dolce e di più caro: io che brevi e foschi giorni vissi con lei, volonteroso divido seco il riposo della morte. Sappia ognuno però ch'io non t'abborro, sappia mio padre…—Tuo padre?… bevette il suo sangue questa mia spada: la sua spoglia abbruciò fra le ruine del vostro castello; Nebiolo non è più.—
Fe' gittare innanzi ad Anselmo gli abiti insanguinati e l'elmo di Guidone, e gli fe' balenar sugli occhi la spada ancor rosseggiante che gli uccise il padre: il riguardava con orgoglio e disprezzo quasi anelasse che l'avvilimento del figlio rendesse più bello il suo trionfo. Ma l'eroe muto guatò quegli oggetti d'orrore, non profferì accento, impetrò. Raccolto indi al cuore lo spirito inorridito, e tratto un profondo gemito, cadde sul letto di Bianca e spirò.
Dopo tante lagrimose vicende fu cercato a qualche pietà l'animo di Stefano, e venne dolente per la morte della figlia. Il Malaspina parlò allora sensi di pace almeno cogli estinti, e il Rosso ebbe per legittime le nozze di que' miseri nel cui amoroso sangue erasi macchiate le mani, e acconsentì avessero eguale sepoltura.
Anselmo coll'onore delle armi, e colle insegne di cavaliere levato sulle spalle de' Signori confederati, Bianca portata dalle spose, furono posti a sepoltura presso alla seconda porta che esce dal Castello, ed ivi s'innalzò una chiesetta ed un'ara. Stefano reso dalla canizie più mite, moveva sovente a visitare quella tomba, e a spargerla di qualche fiore, e solo negli estremi giorni di sua vita, spesso con amarezza ricordò ove il traesse l'ira ultrice e lo spirito di vendetta.
Amor sementa in voi d'ogni virtute,
E d'ogni operazion che merta pene.
DANTE.
Il cieco era venuto a termine della dolente istoria che il giorno se n'andava, e raggiando l'occidente per gli estremi crepuscoli, parea rivolgere l'ultimo addio ai solitari di Nebiolo. Tutti erario impietositi al mesto racconto, e qualche secreta lagrima spesso fu vista spuntare sul ciglio a Marcellina.
Girani cui nulla era sfuggito, e mentre tutti pendevano dalle labbra del cieco, amava schiudere il cuore a quegli affetti che vedea succedersi sul volto della bella, ruppe il silenzio.—Fiera storia narrasti, egregio veglio, e non poco ne fu commosso il cuore dell'amor mio.—Avvicinandosi poscia alla rosea guancia di Marcellina, amoroso stringendole la mano:—Sgombra i pensieri tristi che ti destò il racconto delle passate età: brilli il sorriso sul tuo volto e rallegri gli animi nostri.
Allora il bardo della collina salutò con lusinghiere parole la leggiadra sposa: disse come dopo quelle fosche tenebre sorgesse a diradarle più propizia aurora, e come movendo per quelle valli amica il piede la Pace, una povera famigliuola co' rottami del diroccato castello si costruisse un tugurio sulla vetta di Nebiolo: mano mano indi nuove aggiungendone, siccome dimandava il bisogno della crescente colonia, si formarono i pochi casolari che sorgono su quella cima.—Essa fra gli avvolgimenti dei secoli fuggitivi visse nella campestre semplicità, nè mai potè la corruzione in questi luoghi, nè i nostri padri furono sollecitati dal desiderio di allargare i confini di quei poveri campi, che mercè il tributo di poco grano, ebbero fin da quelle remote età in dono dagli orgogliosi dominatori; nè mai venne loro il talento di cambiar forma a queste capanne, e se togli le fanciulle che sovente altrove andarono a marito, niuno de' figli di Nebiolo abbandonò questa patria innocente. Fu il debito solo di provvedere alla necessità della vita che menò i nostri fratelli nelle città, o per cambiare i prodotti del loro suolo, o per prestare altrui i proprj offici, ma ritornarono sempre semplici e puri al loro focolare. Fu la pietà che sempre gli inchinò alla religione degli avi, la semplicità che educò le nostre figlie, e l'innocenza che le guidò desiate in seno degli sposi, nè mai turbolenti affetti offuscarono il bel sereno della pace conjugale. Essa sieda sempre invidiata fra di voi, e da questa solitudine accompagni nei focolari di Girani la bella Marcellina, cui il cielo è cortese di tante grazie innocenti, e la volle a consolazione della nostra cadente età. Ella dia a colui, che lieto le siede al fianco, bella corona di figliuoletti che in sè rechino le virtù della madre, fiori degni di sì gentile stelo: sia la felicità, o figli, indivisa compagna della vostra vita.—
Si fe' la Marcellina tutta vermiglia come la rosa dell'alba, al suono di quella lode, e vezzosamente abbassando gli occhi sfuggì gli sguardi di coloro che l'affisavano e le davano plauso. Però s'avvide che il suo Girani stava trepidante fiso in lei sfavillando di gioja, e sentì corrersi al cuore un fiume di tutta dolcezza.
Giri, allora disse il padre, giri la tazza dell'amicizia, e ponga giulivo fine a questo festevole giorno. Venne il rustico cratere allora terso nell'onda, ed empiutolo di spumante vino, Marcellina lo offrì al padre. Se ne avvide il cieco, e a lei—Sposa della Collina, a te spetta il cominciare, noi seguiremo l'esempio: bevi e presenta la tazza a cui più ti è dolce scerre fra noi, ma bada a non mentire.—
La bella timida si rifiutava, ma in fine sollecitata ne attinse qualche sorso, indi stava dubbiosa a cui la offrisse, giacchè la giovanile innocenza le consigliava il padre, ma il cuore le fea un più dolce invito. Tutti stavano in attenzione del modo onde si togliesse dal contrasto in cui la vedeano, e ne pigliavano diletto; ma in fine raggiando di un amabile sorriso i genitori, la porse a Girani. S'innalzarono replicate evviva, sicchè ella nascose il suo rossore in seno della madre, finchè lo sposo la richiamava, ed a saperle onore della grazia, le offriva il presente di alcuni spilli con cui raffermare le treccie.
Si alternò una rustica canzone che invitava a bere ed alla gioja, e come ebbe fine la libazione dell'amicizia, a porre termine più gradito alla festa, il cieco invitato sciolse il canto delle nozze. Era l'inno che il trovatore sposando la voce al suono dell'armonica arpa fea echeggiare nella valle Borgoratto, il dì che il Signore di quella menò la figlia dei principi al patrio talamo dai Liguri monti. Sentiva della religione non in tutto spenta de' latini, sentiva della rozza favella che nuova allor tentavano le itale Muse, ma non era oscuro a que' montanari, il cui linguaggio talora come i costumi ricorda tempi più antichi. Destò il bardo di Nebiolo la melodìa di una corda che era tesa ai capi di un legno piegato in arco, e pari a Femio crinito che rallegrava la mensa della casta Penelope, innalzò il cantico che suona in questi accenti, mentre gli rispondeano gli amici con gioviali evviva:
Tutto festevole
D'un vago riso
Che i fiori addoppia
Del roseo viso,
Nel bosco Idalio
Amor dicea
All'Acidalia
Leggiadra Dea:
Vedi risplendere
Tu quella Rosa
Che il seno schiudere
Par vergognosa,
E mentre amabile
Incanta gli occhi,
Par dir stringendosi:
Nessun mi tocchi?
Vedi protendere
Tutto giulivo
A lei le braccia
Quel casto Ulivo,
Che dalle foglie
Tal calma muove,
Che il crine cingere
Potrìa di Giove?
Li vo' rimovere
Da questo lido,
E uniti crescerli
Là dove il nido
Pone la tortora
Fra fronda e fronda,
Mentre la Copia
Bacia la sponda.
E incontro Venere
Serena il ciglio,
In sen recandosi
Il caro figlio:
Più bello in animo
Non ti fu desto
Pensier, o fecesi
Più vago innesto.
Prosiegui; il vivido
Cespo gentile
Le aurette educhino
D'eterno aprile.
Nè lo molestino
Le algenti brine,
Ma l'alba rorida
Gl'imperli il crine.
Qui a Imen commettere
Dei la tua face,
E il bacio porgergli
Di eterna pace.
Qui intorno versino
I vezzi e il Riso
La colta ambrosia
In paradiso.
Ognor a renderlo
Giulivo intenti,
Lieti vi aleggino
I bei Momenti;
E mentre volgono
Lungi le cure,
Fauste vi danzino
L'Ore future;
Faccia il suol ridere
Di bei colori
Vaga famiglia
D'erbe e di fiori.
Disse, e all'augurio
Dal manco lato
Fe' plauso il fulmine
Nunzio del Fato:
Sparir le nuvole
Che al ciel fean velo,
E un riso parvero
La terra e il cielo.
Così giulivi si menavano i giorni dell'autunno fra le feste della campestre innocenza. Ognuno si studiava di rendere men nojoso il tempo che si mettea in mezzo a queste nozze con qualche nuovo diporto. Rendeasi la gentile brigata sui vicini monti, e qualunque fosse il luogo a cui si indirizzassero, riusciva sempre aggradevole alla Marcellina perchè nuovo, mentre essa non avea mai veduto che il natìo suo nido. Era l'ottobre, e siccome correva la festa di Montalto, Girani propose di andarvi con piacevoli amici.
Sorge Montalto in mezzo ai colli di Casteggio lungo il corso della Copia, e come pino fra le minori piante, si innalza maestoso sovra di essi. La natura tutto profuse, perchè quell'eminenza essere dovesse la più deliziosa delle ville oltrepadane.
Se da qualche altura ti prende vaghezza di contemplare il vario succedersi delle colline, la tua mente errando sopra uno spazio sì esteso e diverso, si avvisa che le si stenda dinanzi un ampio burrascoso mare: ivi mille vertici ora fregiati di grazioso palagio, ora velati di candida nuvoletta, accrescono la tua illusione, sembrandoti o le onde rialzate, o i vascelli affidati allo spirare de' venti; mentre le pianure e le valli ora ti offrono un placido tratto di acque, ora uno schiuso abisso. Fra questa immaginazione che più ti riesce gradita e meglio ti acquista opinione d'esser vera, quanto è più vasto lo spazio che cingi collo sguardo, Montalto fa pompa di nuovi incanti: fra il silenzio delle vallee e l'ondeggiar di tante cime, ti pare di ravvisare l'isola fortunata, ove approdano i tuoi pensieri e riposano gli stanchi tuoi occhi.
Che se in vece meglio ti diletta da quella sede discorrere co' lumi all'intorno, vai orgoglioso di dominare i sottoposti poggi, e ti pare essere il re di quelle balze. Nè più vario, nè più piacevole unqua si offriva alimento alla tua curiosità, esca al tuo immaginare. Da un lato t'incanta la pianura di Lombardia fiorente per popolose città, e i suoi confini sì estesi che vincono la tua vista e si confondono in un azzurro infinito, e come immense acque si colorano al variare delle ore del giorno: Dall'altro ferma l'acume del tuo vedere la canuta cima delle Alpi che nasconde le spalle fra le nubi e pare sposarsi al cielo. Che se l'aere puro veste quelle vette di luce, miri ripercosso un doppio sole dalle eterne nevi, e scopri dietro monti succedersi monti, e ghiacci e monti ancora, sicchè lunge ti si desta il pensiero di straniere terre e di lontane genti.
Commosso fra sì opposti remoti obbietti, quasi dolente di non potere stringere tanta mole di cose col solo girar dell'occhio, su te il richiami e il volgi su quanto si posa al tuo piede, e mentre ne avvisavi esausta la sorgente, ecco scaturire nuove bellezze.
Qui trovi l'opera dell'uomo e le necessità della vita seminare l'eminenze di case, di castelli e di paesi: vedi l'industria rompere il seno al pendìo, ed ei grato alimentare la messe; crescere le piante che dai piegati rami ti sporgono i frutti; la vallata altrice di densi castagneti e di pascoli graditi all'armento. Or ti piacciono i varj errori delle convalli, ora il biondeggiar delle biade che allo spirare del vento s'increspano in onda, e la quiete del maggese, e il sacro orror del bosco; ora par che inviti i tuoi pensieri al riposo l'ordine con cui dal chino procedono all'erta i filari della vigna, gravi di grappoli pendenti che parte s'innostrano, parte s'indorano ai rai del sole e ministrano alla tua mensa squisito liquore. Fra tanta varietà di poggi, piacciono fra le opposte pendici i tortuosi meandri della Copia: scorre limpida fra sasso e sasso, e piega i ramoscelli che le escono sopra, e muove tacita pe' vicini prati ad innaffiare le zolle ed è cortese all'aure delle valli di grata frescura.
Allora seguendo i voli della agitata mente, ti senti rapito alla diletta Tempe, e ossequi il loco sacro alle deitadi agresti, odi i canti di Bacco, i suoni e le danze delle invase seguaci del nume, e già ti pare di vivere in più lontane età. Se non che più caro ti riesce all'animo richiamato dalle fantasie, ravvisare quivi il cultore inteso o allo studio dell'aratro, o a racconciare alle piante la chioma; altrove le mandre dilettarsi di brucare le erbette, mentre i fanciulli che le governano intrecciano allegri balli al suono di rozzi pifferi e rusticali carmi.
Invaghito dell'opera dell'uomo, e della vita, che lo spirito suo diffonde dove porta la mano, se ti volgi ove più scarso approda il sole verso la settentrionale regione, rinvieni il riposo, anzi lo squallor di natura. Sporge il tufo vestito di scarse glebe, vedi formarsi la roccia primitiva, e succederle il dirupo, e spogliarsi d'ogni verde onore, fuggire ogni pianta, e innalzarsi lo scoglio, e comparire la montagna. Qui nello stesso mezzo trovi il bello della coltivazione e quello della natura: l'uno ti cerca con piacere, l'altro ti solleva la mente, l'uno ti schiude i tesori del bello, l'altro aprendoti i misteri dell'infinito t'innalza al sublime.
L'industria dell'uomo poi volle rendere Montalto il più dilettoso fra i colli. Il paese è situato sur un piano vicino alla sommità, ma sulla roccia che vi sovrasta, ardì la dovizia erigere magnifico palagio, ed ove era maggiore l'impero della natura profuse il più eletto dell'arte. Allo scuotere della magica verga di questa allettatrice degli umani consorzj, apparvero sulla inaccessibile rupe e altere mura, e torri, e portici, e tempj, e dilettose pianure. Scomparve l'ispido della roccia e si ornò di variopinti tappeti: si appianò il dirupo, scosse il selvaggio del bosco e aprì il seno al sorriso de' fiori: si compartì il pendìo in vari piani, che dolcemente l'uno all'altro succedendo, trasformati in altrettanti gardini, vagamente mettono dal piede della collina alla vetta: ti avvisi di vedere una egizia piramide sopra cui s'aderga alto palagio; ti pare, contemplandola da lunge, di rinvenire fra i monti le delizie dell'Isola Bella che siede reina dell'ameno Verbano.
Se vago sei di scorrere questi poggi, ora ti diporti sotto un viale tutto coperto di frondosi pergolati e che pare protendersi innanzi al piacevole errar de' tuoi passi; ora vai lungo un altro rallegrato da cedri e d'aranci che fanno dolce forza al clima, e crescono ove era loro inospite il terreno: ivi vengono ad educarli i venticelli tiepidi del mezzodì, ivi le lascive aurette amano soffermare le ali scherzose, e imbalsamate le piume sul margine che d'ogni intorno olezza, volano a scuotere i più eletti odori nelle propinque valli, ed a solleticare i sensi di que' rustici abitatori, non ancora ottusi per le orientali essenze alle care fragranze della natura.
Se malinconico più ti diletta il selvaggio, varj tortuosi sentieri ti mettono fra foschi boschetti, in cui l'arte talora non osò turbare la natia selvatichezza, e nei quali per la densità delle frondi nulla ponno i raggi del sole: dolce ivi t'alletta la solitudine, e una soave quiete t'invita al riposo. Se più che restare, ti è in grado muovere l'incerto piede fra i frondosi labirinti, ora ti si addensa dinanzi la macchia, or bella ti si apre alla vista la lontana pianura, or ti avventuri in una verde capannetta che non invidia l'asilo alle ninfe, ora riesci in un seno ove è ordinato leggiadro teatro in cui e il palco, e la loggia, e i sedili sono di sempre verde mirto, sicchè il reputi il tempio consacrato alla Dea d'amore.
Fra questi piacevoli errori, fra queste selvette amene, scegliendo fior da fiore muovea la Marcellina il piede sull'erba onde era pinta la via. Facea col sorriso dolce invito agli amici e allo sposo, a partecipare nella gajezza che in lei destavano le bellezze nuove, e a quel sorriso parea si rallegrasse il poggio e nuova si diffondesse in que' luoghi aura di vita, pareano le piante dai commossi rami scuoterle sul grembo mille fragranze elette, e avvisavi ivi intenti a rallegrarla tutti alternare i lor canti i pennuti abitatori del bosco.
Ma già il doppio giro di agili scale ecco mena la bella peregrina alla sede de' botanici fiori, che concede l'aria del monte. Qui l'accoglie o lungo portico in cui in varia foggia distribuì il maestro pennello i più pregiati dipinti, o fresca grotta non già quale si apre nella foresta alle belve, ma artifiziosa, incantevole e dove il ciottolo minuto, involati i colori all'iride, ne fregiò a mosaico le vôlte e le pareti. In fine ritrova, ciò che più piace sull'alto della roccia, il zampillo della fontana e la marina conchiglia, inviolato asilo d'argentei pesci.
Qui l'arte ebbe più innanzi: celò in mezzo all'arena e dietro i marmorei sedili, che invitano al riposo, graziose insidie, sicchè a voglia ne spiccia una fonte improvvisa. Cadde a Girani in pensiero di farne una piacevole sorpresa alla Marcellina, e mentre ella adescata dagli inviti sedeva, ecco si vide innanzi spruzzare mille zampilletti, acqua le parti, acqua il seggio insidioso ove posava: s'alza e dallo spruzzato umore le è contrastato il passo, onde molle la succinta gonna, fra gli evviva della brigata ed un modesto rossore s'invola e si nasconde.
Il veggente amante però avea già provveduto a porre riparo alla lieve sciagura, sicchè nella casa di una prossima contadina, era parato con che rasciugare la tradita curiosità della semplice fanciulla. Sdegnosetta ella sen richiama allo sposo, e pare col torvo sguardo presagirgli lunghi sdegni; ma ei sì piacevolmente le usa intorno accarezzamenti, si mostra sì dolente di esserle stato molesto, che in fine l'ira nella forosetta si volge in un dolce riso, e sfavilla di nuovo la gioja sul volto dell'audace amatore.
Alla sera il Signore del loco schiuse il palagio alla danza. Ivi convennero gli abitatori de' vicini villaggi, atteggiati anzichè di voluttà, di un ingenuo pudore che rapiva: non vi mancarono le belle di città, molte delle quali per gustare le piacevolezze dell'agreste innocenza, rapirono gli abiti alle contadine e folleggiarono con esse. Vi andarono anche que' di Nebiolo, e la Marcellina colle proprie attrattive destò meraviglia in chi la considerava: parea che le grazie movessero l'agile suo piede, e le componessero di rose e di ligustri il viso, e avvisavi ch'ella sola accogliesse quanto era di leggiadro. Non mancò chi ardisse avvicinarsele e ferire la sua modestia colla lode, nè si tenne l'invidia di guatar bieco il garzone che ognuno segnava diletto alla fanciulla, cui ella spesso co' bei rai ammiccando invitava alla gioja, e al quale per vezzi e per premure, rispondea la bella col sorriso d'amore.
In sì fatto modo si andava sognando una prossima felicità per quella coppia innocente, se non che l'inimica fortuna le veniva temprando i suoi veleni: si adunavano su quelle colline nubi di tempesta che doveano rapire loro per sempre la cara luce del sole.
Aveano in quel mezzo le truppe francesi innondate per la prima volta le contrade d'Italia, e vezzeggiando le sue bellezze le imponevano nuove catene: un grido di guerra non più, come ai tempi d'Anselmo, chiamava all'armi i figli della gloria; ma si stringeva ognuno che aggiungesse il quarto lustro a seguire gli stendardi de' vincitori.
Era Girani a questa età: l'avversa sorte il volle fra i primi che dovessero accostare le labbra onde assaggiare quel nuovo calice amaro. Si turbarono gli sposi al duro annunzio, che colle lagrime represse sul ciglio dava a quegli atterriti montanari il pastore dall'altare.
La legge interdice le nozze a coloro che sono nel numero de' chiamati, sicchè è forza differir pure quelle degli amanti di Nebiolo. Una segreta amarezza ricerca i loro cuori, ma la speranza non gli abbandona, chè la novità dell'ordinanza ancora non ne appalesa tutto il rigore, sicchè nella temenza in cui stanno, pur travedono sempre qualche raggio di fortuna. Attendevano con impazienza e con tremore il momento della scelta, e si confortavano gli animi contrastati con qualche dolce chimera, allettando tuttavia nuovi affetti che la paura sollecitava e rendeva più teneri.
Venne il Natale, tempo temuto e segnato alla scelta fatale. Il sacro bronzo chiama i signori e i contadini al tempio: vi accorrono gli amici e le trepidanti madri, vi accorrono con Girani i suoi parenti e Marcellina. Il silenzio di tutti annunzia il terrore che siede nei loro petti, la trepidazione scuote tutti gli animi, e ognuno teme per sè o pei suoi. Si agita la fatal urna: Girani trae il numero, ed era il due: alla Torrazza si richiedeano sei coscritti: Girani è fatto soldato. La povera Marcellina sentì venirsi meno alla fatal novella; lo sposo restò immobile guardandola cogli occhi gonfi di pianto, ma la loro ambascia andò inosservata e confusa fra l'afflizione di altre madri e spose.
Era irremovibile il destino de' segnati: furono vani e preci e lamenti: si davano solo due dì al compianto delle vedovate famiglie, poi doveano i novelli soldati seguire l'armata ad Alessandria.
Chi potrà ricordare se fosse maggiore il dolore in Girani, o nella povera fanciulla in questi infausti momenti? Ella non sapeva trovare nè tregua nè riposo: contrastata fra l'amore e il martiro di ogni perduta speranza, parea smarrirsi della ragione. Appena spuntava l'alba, Girani era a Nebiolo e le sue confondea colle lagrime della Marcellina.—Ah Girani, mio sposo, forse per sempre a me rapito… Ahi dura legge, a che ne costringi?… ma io, io ti seguirò, sarò tua compagna fra i disagi e le sventure: dividerò teco il peso delle tue armi, le tue fatiche. Io tergerò il sudore della tua fronte dopo i disagi del cammino, ti concilierò il sonno nella stanchezza, e ti temprerò l'amarezza per l'esilio dai luoghi ove sei nato. A mia madre pur resta il marito, e a te, che dura necessità spinge ramingo in lontane contrade, io sarò confortatrice compagna. Ch'io ti segua, ch'io teco divida il tuo destino, e non temerò i perigli, care mi saranno le fatiche, dolce mi sarà teco anche la morte.—
Ma era vano il voto, era vietato l'imeneo, nè il rigor dell'armi compativa le dolcezze d'amore.—Ahi dunque tu solo… lunge, ed io misera, abbandonata in questa solitudine… io gemerò e verserò inutile pianto, mentre tu presso a nuovi oggetti forse scorderai la povera Marcellina…—Girani cui questi lamenti erano mortali saette, palpitante stringea per la mano la dolorosa, e le prometteva coi cenni, col pianto e con interrotti sospiri eterno amore e fede.—No, amor mio, il mio cuore non può essere che tuo, io non posso vivere che per te… Se irreparabile destino or sì ne acerba e divide,… forse non sarà per sempre, forse dopo sì dira procella non fia ne debba fallire più lieto porto: soli quattro anni ne richiedono all'armi, e sebbene lenti, si dilegueranno finalmente innanzi al nostro desìo: allora volerò a questi lidi, volerò al tuo seno unica mia Marcellina, e ricordando la nostra costanza e i sostenuti travagli, più dolce suonerà l'ora della nostra unione… Ma e tu pure non voler poi che m'abbia a fuggire tanto sospirato bene: tu… giurami di non esser che mia,… di non porre in altri i tuoi invidiati affetti, giurami di attendere il mio ritorno, nè che mai oserà alcuno vagheggiare il fiore di questo colle… Che se poi la fortuna affatto nemica spento mi vuole fra l'armi, lontano da te…. Marcellina! se sciolta d'ogni promessa, d'ogni giuramento, un altro più avventurato possedesse… deh per queste lagrime, per quegli affetti onde l'animo nudrivi nella tua felicità, non dimenticarti del misero che ti pose tanto amore quanto esser ne può capace un mortale, che col solo pensiero di te alimentò la vita raminga, e fra i tumulti della milizia non visse che per te sola… Scorrendo questi poggi, vedendo quella pianta, ricordati che ai primi spesso appresi a ripetere il tuo nome, e sotto quelle verdi fronde ho sovente sparse lagrime amorose… Consacra, Marcellina, qualche segreto sospiro alla mia memoria e vivi felice.—
Piangeva la commossa fanciulla per duolo e per tenerezza, e con soffocati singhiozzi il pregava perchè più non albergasse sì tristi presentimenti, nè volesse di tanto amaro pure esacerbare il suo affanno. Marcellina soffolti gli occhi al cielo annebbiati di pianto, pari all'astro antelucano fra la notturna rugiada, e indi movendoli sull'amico con tanta soavità che davano conforto e vita, gli sporgeva le mani tremanti, gli giurava eterna fede e amore—io sarò tua o di nessuno.—
Tali erano i melanconici ragionamenti fra' quali volavano a que' miseri le poche ore che loro acconsentiva la sorte che li premea. Già eran trascorsi que' giorni luttuosi, già pendeva l'istante segnato alla partenza, e Girani preso il dolente commiato da' suoi, venne a dare l'ultimo addio a Marcellina.
Ella volea pur essergli compagna fino a Casteggio, ma non le reggeva il piede, e fra sì lungo dolore mal potea sostenere l'animo affaticato. Mille volte iterarono gli amplessi ed i saluti, e ritornarono ai giuramenti, alle lagrime.—Ah forse io non ti vedrò più: estrania terra lungi da' miei, lungi da te mi raccorrà semivivo, coperto di ferite e di sangue. Allora mi sarà di qualche consolazione il tuo nome, ma in uno mi sarà di amarezza, chè invano ti dimanderò e sperderà l'aria i miei gemiti, invano desidererò che almeno la tua mano pietosa mi chiuda gli occhi nel riposo.—
Il tempo premea, i compagni già si dilungavano, ed era necessità partire. Marcellina cadde semiviva fra le braccia della madre, e Girani si precipitava dal colle miseramente gemendo e rivolgendo gli occhi dolenti all'amoroso loco. Chiamava la sposa e rinnovava i lagni, e seguiva gli altri a caso, quasi cacciato giovenco che corre e si precipita sul cammino, senza sapere ove lo tragga l'incerto piede e la fortuna.
Il novello guerriero fu inviato ad Alessandria, ed ivi coperto della militare assisa ed adestrato all'armi. Sapeva appena scrivere, ma amore tutto affina e insegna: ei mandava sovente sue novelle alla Marcellina, e tracciava sulla fida carta interprete del suo cuore parole e pianto.
La semplice fanciulla che pur sentìa dolce ricreamento nel ricevere quelle lettere amorose, pativa sovente dura molestia per non sapere da sè interpretare quanto le scriveva l'amico: guardava con impazienza la lettera quasi volesse dire: ei qui mi parla ed io non posso sentirlo; la baciava, e la trasportava al seno e gemea finchè le venisse di avventurarsi in chi le svolgesse le cifre arcane. Per quanto la sua modestia le fesse dolce forza, pur non sapea imporre silenzio al suo tripudiare sentendo gli amorosi sensi di Girani, e per quanto fosse destro chi per lei affidava al foglio la risposta, non pareale però mai che tutti esprimesse gli affetti che ella sentiva.
Marcellina che sino allora non si occupò che delle sue agnelle e del suo casale, era desiderosa ad ogni novella che venisse di lontana terra, non parlava che d'armi e di soldati. Traeva nei luoghi più alti e meno ingombri di piante, per vedere nella lontana pianura il frequente alternare delle truppe che passavano il Po e andavano o redivano di Lombardia, e fra quell'ondeggiare d'uomini e di cavalli, fra il lampeggiar di quell'armi e il suono degli strumenti guerreschi non vedea che Girani, non udìa che la sua voce, e tutto le parlava di lui, e da questo inganno ritraea sovente sollievo, più spesso nuovo argomento al suo dolore.
Accade che taluno de' vicini si rendesse ad Alessandria a visitare qualche congiunto pur soldato: la Marcellina gli fu intorno e gli proferì mille ricordi, mille cose che dovesse usare e dire al suo sposo. Il premea ognora di nuovo perchè nulla dimenticasse, e quasi dovesse solo occuparsi di loro, il pregava perchè mentre dimorava colà fosse sempre con Girani e gli parlasse de' suoi affetti, e spiasse se in lui era ancor viva la fiamma del prisco amore e lo invitasse a venirla a ritrovare. Nè diversa era quando il messo facea ritorno: lo affaticava con mille richieste, e ricevendo per qualche ricordo che avea mandato a Girani, talun lieve dono, fatta sicura della fede del suo amante, non è piacere che soverchi quello ond'era cercato il suo cuore, che ognora si apriva a nuove speranze, come il fiore d'estate che a temprare l'arsura, socchiude il calice all'aura della sera perchè lo imbalsami la notturna rugiada.
Avea già la luna compiuto cinque volte il suo viaggio intorno alla terra, e altrettante riflessale ora scarsa, ora intera quella luce che beve dal sole, per rendere a noi meno tristi le tenebre della notte, dacchè il giovine di Mancapane seguiva le marziali bandiere. Già destro nelle militari manovre e primo fra gli eguali, si affidava in compenso ottenere per pochi giorni di rivedere i patrii campi, e già di questa sua speme alimentava l'amica e confortava sè stesso; inutile fiducia che disperse il fatal ordine per cui il reggimento di Girani prendeva la via di Francia.
Fu improvvisa e rapida la partenza, nè l'amante ebbe modo di mandarne novelle a Nebiolo, e ne fu oltremodo dolente. Movendo sui monti che Italia dividono dall'estranee regioni, più viva si destava alla vista di que' dirupi nell'animo suo melanconico la ricordanza de' suoi colli, sentiva la potenza d'amore e il desìo della sua Marcellina, e questo era lo strale più acerbo che gli saettava in petto l'arco del nuovo esilio.
Appena ebbe sosta per qualche dì il viaggio e fu sulla cima delle Alpi, ei scrisse all'amica e diede un saluto alla patria. Fra i sospiri onde spargea le carte, egli usciva in questi lamenti:
—Ahi innocente colomba destinata a dividere meco il nido, invano tu empierai di pianto la deserta campagna, invano confiderai che accorra il tuo fido a porti sollievo! qual aura amica potrà impennare l'ali a tanto volo e recarmi i tuoi lagni in sì lontane contrade? qual pietosa valle farà eco alla tua voce e dividerà in mia vece il suono della tua mestizia!—
—Ahi deserti campi, ameni boschi ove menai vita innocente e solitaria, io più non verrò a respirare in grembo alla vostra quiete il balsamo dell'esistenza! Io sperava bearvi di lei che me facea beato, mentre mi riscaldava a' suoi rai d'amore, ma ogni speranza fuggì: sarà fosco il bel sereno de' suoi lumi e lontano l'amico delle vostre solitudini.—
—Mia Marcellina, ricevi con questo addio la fede del tuo sposo. Chi sa quando mi sarà dato ancora farti pervenire, testimonii d'amore, questi fogli impressi de' miei sensi e delle lagrime de' miei occhi? ma ti sarà sempre fido il tuo Girani, nè mai per volger di fortuna, gli cesserà un istante il pensiero della sola amica, dell'anima sua. E tu pure bella de' patrii nostri lidi, speranza de' miei dì, serbami, deh serbami l'amor tuo, finchè il cielo ne sorrida e ricongiunga due cuori, che siccome due foglie dello stesso stelo crebbero per riposare vicini a bere lo stesso alimento di vita.—
Pervenuto Girani sulla Senna fu del numero dei scelti per l'impresa d'Egitto. Innanzi partire inviò qualche lettera in Italia, e abbandonata l'Europa, pur sempre si procacciava di trovare occasione per mandare sue novelle: ma in breve cangiò il destino dell'armi e i gallici stendardi diedero volta ai lidi d'Esperia. Per che non solo fu tolta ogni corrispondenza che potea seguire fra i due amanti, ma fu impossibile alla Marcellina avere notizia delle bandiere sotto cui combatteva lo sposo e della fortuna che esse correano in sì lontane regioni.
Prode Girani intanto e coraggioso conseguiva in Egitto i primi gradi di minore uffiziale. Scorreva quelle contrade già celebri per antica grandezza, e sentiva pieni la mente e il petto di alte cose. Vide Alessandria non più orgogliosa per orientale commercio, poichè l'audace navigatore superò il capo delle tempeste; vide volgersi al mare con incostante passo il Nilo, e quaranta secoli parlare dalle piramidi di Menfi.
Innanzi alle meraviglie della natura, fra lo splendore degli antichi popoli, che in mezzo al bujo delle età fuggitive, pallido ancor si riflettea su quelle rovine, dolce era a Girani l'idea della lontana sua sposa. Ei sovente scoprendo fra gli immensi deserti di sabbia, quasi isole in mare, breve seno di verdeggianti glebe, si avvisava che ivi fosse il sorriso del divino sguardo di Marcellina. Talora nel bujo ancor della notte destandolo raggio d'intempestiva aurora, gli parea di vederla venire a lui dall'Oriente vestita di colore dell'acceso cielo: spesso informò l'aura delle di lei sembianze, e immaginava che movesse a rallegrarlo fra gl'incanti del miragio o in seno a qualche candida nube.
Questi soli erano i pensieri onde ei nudriva la calda fantasia, e rapito nell'ideale di un oggetto celeste, nulla poteano su lui le cure terrene, cui non desse alimento l'altissimo suo sentire. Vide le belle Mussulmane e fu insensibile alla loro avvenenza, chè lieve cosa le parvero innanzi alla cara immagine che serbava in petto: ei fu insensibile alle lusinghe de' piaceri che allettavano i suoi compagni sulle sponde del Nilo. Mentre gli altri prendeano sollievo alle fatiche co' sollazzi, ei raccoltosi in solitaria parte trascorrea dolcemente le ore coll'idea di Marcellina, e talor l'alma in sì dolce quiete fatta pellegrina dai sensi, trasmutate in sogno quelle dilette immagini, gli parea ch'ella venisse a parlargli della sua fede e del suo duolo. Fra i tumulti e le turbolenze militari, ei sempre non intese che amore: ogni dì salutava il sole—e tu la vedrai, diceva, tu vedrai quell'angelo d'innocenza, ed io?… Ah chi sa se ancor mi sarà dato contemplare da lunge il colle che si rallegra al girare de' suoi lumi!—
La militare baldanza e il dritto di rappresaglia devastavano i campi e ne turbavano gli abitatori. Girani andava coi suoi soldati per viveri fra quelle desolate campagne, ma mite non inchinava che alla necessità. Mentre stretto dal dovere operava la forza, impediva a' suoi ogni violenza, li richiamava dalle crudeltà, nè mai lasciava di spirare ne' loro petti sentimenti di commiserazione. Racconsolava lo sciagurato cui coglieva il disastro di guerra e a cui la digiuna fatica de' soldati invadea le case e ne dividea gli averi, e gli raddolcia la fortuna col diminuirne i danni: si studiava ognor che il potea, perchè il turbine dell'armi mentre fremea negli alti palagi, mite passasse sul povero tugurio. Girani non venìa meno nè al suo debito nè alle necessità di guerra, ma ad un tempo non venìa meno al suo cuore, e bella era la pietà da lui richiamata ove spesso tace ogni generoso sentimento.
Penetrò il suo drappello un'abitazione ove era sola e abbandonata una fanciulla: piangeva la misera tremante e presaga di un triste avvenire, nè osava alzare gli occhi, nè osava raccomandarsi. Già il soldato la sogguardava con malizioso sogghigno, e indurato fra le sventure, anzichè compassionare alla sfortunata, pareva insultarne il pianto.
Fu tratta al campo colle spoglie della sua casa. Girani osservando la mesta prigioniera si sovvenne di Marcellina, e gli cadde in pensiero, che fra il destino dell'armi potrebbe anch'essa venire colta dalla stessa sciagura. Lo ferì quell'immagine, e mentre si divideva la preda, ei rinunziò alla propria parte a patto che non si molestasse la bella fanciulla e la si ponesse in sua mano. L'ottenne, e fatto il Colonnello partecipe di quanto l'animo gli capìa, guidò la prigioniera al vicino villaggio e la restituì palpitante e timorosa ai parenti che omai nè disperavano della salute. A tanta cortesìa furono vivamente commossi e la figlia e i genitori, sicchè quegli proposero al generoso guerriero di restarsi colà e dividere colla bella le loro dovizie.
Ricusò l'eroe l'offerta accennando come l'onore e le sue affezioni gli togliessero di abbandonare le proprie insegne, e di disporre del suo cuore già occupato. Allora gli si proffersero donativi e tesori, e tutti li rifiutò, e solo alle iterate preghiere, prese un vezzo di perle onde farne presente alla sua sposa: si restituì quindi al campo godendogli l'animo non già perchè altri gli andasse in qualche modo obbligato, ma per avere operata una bella azione che al certo confidava riuscire dovesse gradita alla sua Marcellina.
Nè meno foschi giorni si volgevano intorno alla figlia derelitta. Più non fioria sulla sua guancia il fior di giovinezza, più non le lampeggiava sul volto il sorriso già apportatore d'allegrezza, nè più s'udìa la sua voce dolce come il canto di capinera solitaria! Allorchè era sola più affannata la stringeva la melanconia: volgea nell'animo la fuggita felicità e la condizion presente, e vestìa di nuova tristezza il suo duolo: ogni piaggia ed ogni macchia ricordavale il suo Girani ed ogni speco e ogni valle faceva eco a' suoi lamenti. Stringeva al seno i colombi e l'agnelletta, e pareano quegli innocenti partecipare nelle sue pene; l'una con querulo belato le lambiva la mano, gli altri le svolazzavano sul petto e raccoglieano dalla sua bocca i baci. Mentre con essi confondea queste ingenue affezioni, le sembrava temperare alquanto le proprie amarezze, e ritrovare alcun refrigerio all'immenso fuoco che la ardeva.
Andava spesso sul colle della pianta ove Girani avea sparsi tanti sospiri ed ivi versava essa pure i suoi: ivi stava a lungo fisa nella via che doveva ricondurle l'amor suo. Sovente sporgendo le mani al cielo gli chiedeva il ritorno dello sposo: teneva sì in quello ferme le devote pupille, e pregava con sì dolorosi lamenti che parea ne sentissero pietà consci gli augelli della valle, e flebilmente alternassero a lei d'intorno i loro canti.
Allorchè era nel bosco e svolgea le sue querele il solitario usignuolo, quasi venisse l'augello pietoso compagno alla sua mestizia, stava Marcellina ad udirlo con placida quiete, come cara si ascolta la voce dell'amicizia. Spesso fra questo silenzio sentiva fischiare fra le fronde l'aura leggiera, e avvisandosi in pria che fosse l'orma del reduce amante, tendeva fiammeggiando l'orecchio, ma gli morìa tosto sul volto l'improvvisa gioja e la speranza, fatta accorta del suo errore. Talora si richiamava a quell'aura ingannatrice, talora se era più dolce la tristizia che la governava, cantando in voce lamentevole, rivolgevale nel proprio accento l'inno che soleano cantare le abitatrici del monte.
Aura soave e queta
Che intorno a me t'aggiri
E i flebili sospiri
Ascolti del mio cor;
Amica deh! li reca
In sen del caro bene,
Narragli le mie pene,
Narragli il mio dolor.
E se pietà gli desta
La lagrima amorosa,
Nel seno mio pietosa
Deh vienila a versar;
E un cesto ogni mattina
Avrai d'eletti fiori,
Ove sui primi albori
Le penne riposar.
Così a lungo giacea la sconsolata e sola, e spesso ivi dimentica delle sue cure usate, dimorò molte ore fra le preci ed il pianto, finchè non la richiamava al mesto focolare, o la voce de' reduci genitori, o il cadente raggio del giorno.
Restava a Marcellina il sollazzio della tenera madre, ma il cielo pur di questa la volle rendere dolente. Pochi mesi dopo che Girani partì dall'Italia, la pia fu presa da malore sì fiero che in breve la trasse al sepolcro. La Marcellina non si rimovea mai dal mesto letto, nè dimenticava la più lieve cura; e se queste valevano, certo Rosa avrebbe racquistata la salute. Ma i guai della disgraziata fanciulla spuntavano allora, ed era segnato dovesse assai combattere fra dire procelle, nè mai raggiungere il sospirato lito.
Rosa era presso a morire, e doleasi non già di dipartirsi da questa vita, ma di lasciare sola e vedova d'ogni conforto la figlia già per sì crescenti affanni ridotta a tanto stremo.—Marcellina, ecco omai a sè mi chiama il cielo: è forza dividerci, ma pur mi duole il lasciarti, e il lasciarli, o figlia, fra tanto squallore. Se almeno ti sapessi felice col tuo sposo, unica meta cui solo miravano i miei pensieri, io morirei tranquilla,… ma così povera orfanella, smarrita, ti abbandono fra i travagli della vita, e lontana, ahi troppo! è la speranza di migliore sorte. Tuo padre ti ama, ma ei non può averti quelle sollecitudini ch'io usava teco, e abbisognevole di chi gli faccia consolazione, mal potrà sovvenire all'ammalato tuo spirito. Però il duolo mai non ti tragga a disperare, nè chiudere l'animo alla speranza. Non traviare giammai dal sentiero su cui per buona ventura ti mettesti, paventa le vie tortuose in cui si celano i serpi con mille insidie, ed abbi sempre in mente che ti ho cresciuta nella povertà e nella innocenza.—
La pia donna ben conosceva quanto tenero per la figlia fosse il marito, pure gliela accomandò con ogni istanza, e volle che le facesse promessa di non adoprare mai violenza nella volontà di lei.—Se torna Girani, arrida il cielo alla vostra unione, se più non torna…. sia libero al tuo cuore scegliere la vita che più ti è in grado. Però guardati dalle attrattive e dalla fallacia delle nostre passioni, consigliati con tuo padre come avevi costume adoperare con me, ed ei sia scorta all'incerto tuo piede: una figlia sola è come una viola che metta all'impeto di tutti i venti. Non ti adeschino le lusinghe di coloro che di dolcezza ti vestiranno la frode; sono come la brina di primavera che scende per innaffiare i malaccorti fiori e li disecca. Sii cauta e schietta, nè mai la sete dell'oro o il desiderio di fortuna migliore ti seducano, o trascinino lungi dalla tua semplicità. In questa, tua madre gustò i piaceri più cari della vita, ti crebbe delizia di un marito amoroso, e passa senza che niuna trista ricordanza venga a funestare l'ore sue estreme. Possano a te pure questi monti ove sortisti la culla schiudere l'asilo innocente del riposo, possa il tuo cuore, come crebbe, serbarsi puro e virtuoso, sicchè come ritornerai all'amplesso che ora ultimo ti porgo, io pur ti ritrovi quale ti lascio,… Ah sì, Marcellina, quel tuo sguardo affettuoso mi acqueta, quel tuo pianto mi affida… Vieni al mio seno e ricevi dalla madre che sì divide da te, il pegno più dolce d'amore.—
Dopo simili ricordi abbracciò teneramente il marito e la figlia, e invocò sul capo di questa la benedizione del Signore. Indi si pose in calma e diede tregua ai vaghi pensieri, quasi li rivolgesse sopra sè stessa e ne fosse contenta: accoglieva sul viso tanta quiete che parea vi si diffondesse un raggio della pace celeste. Di nuovo dopo alquanto, riscossa girò più volte i tremoli lumi su que' mesti intesi a soccorrerla, e quasi salisse al cielo, passò fra le loro braccia, e parve chiudesse gli occhi nel sonno, chè dolce è la morte del giusto e fra i vizj della società, e nella semplicità dei campi.
Marcellina non si dilungò mai dal letto ove Rosa giaceva. Lontana dal seguire il costume de' cittadini, e fuggire come stranieri coloro che or dianzi ne fur cari perchè più non gli alimenta l'animatrice favilla, essa col superstite parente ebbe le più sollecite cure dell'emunta spoglia della madre che vestì colle stole del sepolcro, e la adagiò nel feretro. Come giunse il cruccioso momento che dovea per sempre rapire la cara estinta alla magione dell'incolpato viver suo, la sconsolata figlia in negra veste la seguì alla chiesa, ed ivi prostrata sul suolo presso alla funerea bara, con gemiti repressi per angoscia e per religioso terrore, pregava la pace all'anima benedetta.
Indi la accompagnò al cimitero e abbenchè sentisse soffocarsi dall'affanno, mai di là non si rimosse finchè l'invide zolle la rapirono a' suoi occhi. Innalzò di sua mano su quel terreno la croce, e poichè il gelo che le si era ristretto intorno al cuore, sciogliendosi, le permise libera uscita al suo dolore, la bagnò di lagrime, e accese l'aura di sì dirotti sospiri, che uscirono in mesti gemiti i dolorosi amici che le feano corona.
Dopo tanta sventura Marcellina non portò più nè serena la fronte, nè vivaci i lumi, ove fosca nebbia di pianto non gli appannasse. Ogni volta che il padre ritornava al vedovo casolare, ella vedendolo solo se gli stringeva al petto, e il guardava fiso quasi volesse chiedergli ove era la sua compagna. Il mesto veglio abbracciava amorosamente la figlia e muti confondeano i loro omei, e condivano d'amare ricordanze il desco e il silenzio del riposo.
Invano Giovanni pur temendo forte alla figlia per tale mestizia, consigliato dagli amici, si provò più volte di trarla lungi dalla natìa capanna, e addurla ne' vicini paesi a passare meno mesti alcuni giorni. Invano le conoscenti di lei si studiavano inescarla con vezzi a ripigliare l'animo dimesso: le era di peso la loro serenità, trovava unicamente sollievo nella propria melanconìa, e solo in questa amava rivolgere tutti i suoi pensieri.
Mentre i vicini ne' dì festivi correano a diporto le valli, ella solitaria penetrava nel cimitero ed ivi carica di dolore il volto, dimessa e velata di nero zendado, atterrava la fronte, e sulle zolle che ricoprivano la madre spargeva preghiere e lamenti. Sovente intrecciava su quella croce una corona d'erbe sempre verdi, evocava la pia estinta perchè la sovvenisse nelle proprie sciagure, le chiedeva che almeno le rendesse lo sposo per averlo a compagno nel distribuire devoti fiori su quella fossa.
Siccome però quel sacro recinto non era schiuso alla pietà de' fedeli che nei dì festivi, e sovente il pastore dava qualche dolce rampogna alla Marcellina, perchè di troppo ivi si struggesse in doglianze, ella negli altri giorni in ora che non potesse spiarla importuno sguardo, si trascinava sul poggio dei sospiri, da cui guardava nel cimitero. Ivi appoggiato il travagliato fianco alla pianta amica, or chiamava la madre, ora Girani, indirizzava al cielo preci e voti, e spargeva di lamenti la collina e il bosco.
Queste erano le sole cure che le occupassero la mente e il cuore, e se stretta non l'avesse amore del vecchio padre, ella giammai non si sarebbe prestata a preparare le vivande, a richiamare l'ora di quiete, chè interamente avea perduti e il cibo e il riposo. Erravano sparse le sue pecore nel bosco, lorda dal limo e dagli sterpi l'intonsa lana, e invano coll'umile belato pareano pregarla perchè ne prendesse maggior pensiero: erano derelitti i suoi colombi, muta la sua casa, e tutto a lei d'intorno sembrava vestirsi del suo squallore.
Si avvisarono alcuni che volesse procedere a mal fine questo dolore della Marcellina, sicchè persuasero al padre che per avventura converrebbe trovar modo a procurarle nuovo partito di nozze. Ognuno compiangeva la figlia di Nebiolo: omai le sue belle virtù eran note, correvano le sue sventure su la bocca di tutti, ed ognuno ne sentiva pietà: Marcellina era il compianto delle figlie, l'amore dei padri, era il secreto sospiro di tutti i giovani del colle.
Fu quindi agevole trovare chi desiderasse alle nozze di lei, e il padre sempre di nuovo sollecitato, dolcemente un dì accarezzandola, cercava d'insinuarle nell'animo il nuovo consiglio.—Mia cara, tu vedi che già io m'incurvo sotto il peso degli anni e delle fatiche, sì che solo oggimai non basto a queste poche terre. Tu prostrata dalla tristezza e non avvezza agli stenti, male ti adoperi ond'essermi di ajuto, e sovente mi si spezza il cuore vedendoti indurar fra lavori che tua madre ti impediva. Omai volge il terzo anno da che Girani è in istrane contrade e non ne manda sue nuove: forse mentre tu gemi, ei dimentica… Deh, Marcellina cedi alla necessità, unisci la tua destra a qualche altro che accolga animo eguale, che te compensi della perduta madre, a me sia di sollievo, a entrambi di secura speranza. Vuoi che io pianga ogni dì sull'incertezza del tuo destino? ch'io cada col dolore di lasciarti orfana e sola su questa rupe? vuoi?… no, Marcellina, sii più mite e vinci te stessa, un giovane di Codevilla….
La sconsolata fanciulla a maniera che suo padre favellava, dolcemente il cingeva colle braccia e gli scaldava di baci le lanose gote; ma come sentì la fatale proposta quasi le fuggissero le forze, si abbandonò sul di lui petto, e in vece di risposta le veniano sulle labbra i singhiozzi, sugli occhi le lagrime. Nebiolo ne era intenerito, volea inanimarla, la accarezzava, la invitava a rispondergli e ad annuire al suo consiglio.
Come potè appena Marcellina riprendere lena e ardire, perchè la tenerezza del padre le dava animo ad aprirgli i propri pensieri, atteggiata di dolore e di innocenza, a lui volgea tai detti:—Ah padre! padre mio! perchè avete fermo di perdermi, perchè spingermi alla disperazione? io mi adoprerò per alleviare le vostre fatiche, il cielo pietoso raddoppierà le mie forze, se mia madre non si dimentica di me… Io vi sarò sempre vicina finchè mi sia dato dividere con voi la vita: lasciate alla fortuna la cura del resto. Ma non parlatemi di nuove nozze, è una spina che m'infiggete in petto; sarebbe un lento veleno che pria di condurmi all'altare, mi trascinerebbe all'invidiato riposo della perduta vostra compagna… Io non credo che Girani siasi dimenticato di me, ei nol può, e in lontane contrade forse inutilmente desidera di mandarne sue nuove. Che se pure in guerra… se ei più non fosse,… nessun altro, no mai… io vivrò finchè l'amor vostro abbisogna delle mie cure, poi lo seguiterò in cielo… Per pietà, padre mio, se vi fui cara, se affatto non mi ha dimenticata l'amor vostro, per questa mia mestizia, non mi parlate giammai d'altro… Ve ne prego per lo stesso dolor mio,… per questo pianto,… per la promessa che ne deste alla mia povera madre innanzi che si dividesse da noi…—
Il buon vecchio fatto assai pietoso della Marcellina, piangeva al pianto di lei: un bacio, un eloquente amplesso, la rassicurarono e tutto le promisero.
Dopo quell'istante ei più non parlò a lei di nozze, neppure la interrogava del suo dolore, ma cercava cogli accarezzamenti e colle sollecitudini sempre nuove, di toglierla per qualche istante alla melanconia: la figlia anche essa poneva ogni opera perchè alleviasse le fatiche del padre; allorchè ei ritornava, componeva come meglio le riusciva a serenità il volto, e si procurava sempre più colle cure e cogli affetti di rendersegli cara e di piacergli.
Erano solo volte dodici lune da che aveasi innalzato l'ulivo di pace, e l'incendio di guerra destava di nuovo il terrore negli italici petti. Già i gallici stendardi risalivano le alpi, e Girani reduce dall'Egitto, conseguito pel suo coraggio il grado d'uffiziale, era fra i primi che moveano verso l'Italia.
Gli godeva l'animo nell'idea di rivedere la vergine di Nebiolo dopo il volgere di sì lunghi giorni, e sì diversa fortuna. Nè le fatiche di lungo viaggio, nè i sudori sparsi in una via che ancora intentata schiudevasi fra le nevi, le balze e gli scoscendimenti del S. Bernardo all'ardito passaggio del guerriero; nè le veglie, nè il gelo, nè il digiuno poterono domare l'animo suo speranzoso, che vedea acquistandosi merito presso il generale, più agevole gli sarebbe ottenere lo sposare Marcellina. Era primo a destare i suoi compagni all'opra, primo ad arrampicarsi fra le rocce per iscerre la men difficile strada, primo a scomporre carri, a calar cannoni dagli scogli, a ridurre i dispersi commilitoni sotto le bandiere. Era caro ai soldati, agli eguali ed a' suoi superiori, che gli promettevano in Italia larga messe di premj. Ma nulla ei curava di questi, era un solo il pensiero che il movea, e dalla cima dell'Alpi salutava la terra natale della sua amica, alternava canzoni di guerra e d'amore.
Calate le Alpi corsero l'armi galliche con diversa fortuna l'insubriche contrade, e Girani in molti eventi potè col suo coraggioso adoperare, fare palese di qual valore armasse l'animo intraprendente. Un'ala dell'esercito era indiretta verso il Po, e in questa era il reggimento di Girani. Perchè siccome l'assetato che cerca una fonte amica, egli ardeva di baciare pel primo la natìa sua terra, bramò ed ottenne di appartenere al picchetto che precedeva la divisione la quale inviavasi a Casteggio.
Precedeva festivo in mezzo a' suoi sentendo l'aura nativa, e scoprendo da lunge i dolci colli, salutò l'Iria e i paesi che il videro povero contadino e da cui passava valente soldato, e inoltrando verso Casteggio, dilungandosi sulla romana strada, in breve gli occhi suoi desiderosi, poterono riposarsi scoprendo la pianta dei sospiri e dietro questa l'amoroso Nebiolo. Accennava palpitando agli amici l'invidiato poggio, e quasi la vedesse, inviava saluti alla sua Marcellina, e ad ogni istante avvisava ch'ella volare dovesse ad incontrarlo, quasi ogni suono di tromba potesse annunziarle il suo ritorno. L'inimico era a Casteggio, quindi fu pigliato il partito di porre il campo nella pianura di Montebello. L'antiguardia ivi prese i suoi quartieri, si inviarono messi al reggimento, si disposero le scolte, e si mandò a spiare il paese.
Girani attendeva sollecito a quanto gli richiedeva il dover suo, ma il pungeva impaziente brama di vedere Marcellina.—Le sono sì di poco lungi, diceva fra sè, vedo il suo casale, annovero le piante che s'infiorano al di lei sorriso, e forse or mi piange lontano! forse ora geme, ed io non volo a consolarla? forse in questo momento disperando del mio ritorno, cede all'importunità che la preme e dà la mano ad un altro…. Ed io avrò invano sì a lungo amato e formati tanti desiderj?… e così si sperderanno le mie speranze, mentre un momento solo può recarmi alla sospirata felicità? e starò più a lungo inerte e pensoso?…—Tai cose volgeva nella mente il contrastato guerriero, e ognor più s'accendeva in lui il desiderio di Marcellina. Restava ancora a un'ancella del mattino il menare la danza della terra intorno al sole, perchè questa toccasse a metà del suo viaggio, e le truppe non raggiungeano il drappello spiatore che verso sera; e in due ore Girani aveva agio volare a Nebiolo, vedere la bella ed essere di ritorno. Adescato da idea cotanto seducente, più non vede ostacoli, affida il suo picchetto al minor uffiziale, e sotto colore di riconoscere il colle e ritornare in breve, si mette precipitoso in cammino.
A misura ch'ei percorrea que' poggi mille care rimembranze se gli ridestavano nell'animo, e sentìa crescere la fiamma dell'antico affetto: alcuni montanari accorrevano tirati dalla curiosità a vedere quel soldato, e forse lo avrebbero ravvisato, s'ei in nulla ponendo mente al loro meravigliare, con ogni pensiero inteso al vedere l'amante, non si fosse involato ai loro sguardi colla rapidità del lampo. Era Nebiolo cui cercavano i suoi occhi, era la bella solitaria cui intendevano i suoi voti: già col desìo precorreva l'evento e favellava con lei, già per nuove affezioni era tolto il pensiero d'ogni passata amarezza, e come raggio di sole dopo lunghe tenebre, più bella gli rinasceva nell'animo la speranza.
La vergine di Nebiolo, cui la vaga fama avea annunziato il rumore della novella guerra e il ritorno delle galliche insegne, sempre pronta come suole l'amante a prestare facile credenza a quanto brama, già accogliea fidanza di rivedere in breve lo sposo. Traeva sovente sul colle dei sospiri, per iscoccare di là più lungi lo sguardo, e spiare se sulla romulea strada o lungo il Po vedevasi commovimento d'armi e d'armati, e spesso siccome la consigliava l'amorosa vaghezza, avea fra strane illusioni attinto nuovo ricreamento, onde più amara poi sentire l'acerbità del proprio inganno.
Quella stessa mattina l'avevano ivi pure attirata il romore de' tamburi e il clangore delle trombe, e fra un continuo aggirarsi di carri e di soldati, un luccicare d'armi e un fragore confuso di suoni e di voci, era sovente trascorsa dalla trepidazione della paura al tripudio della speme. Volgeasi indi al cimitero, ed alla madre addimandava per pietà il ritorno dello sposo, e come nave all'onde cui rapisce ora propizio, ora contrario vento, occupata da diversi affetti or disserrava le palpebre al pianto, ora accogliea la gioja. Reduce al suo colle raccontava ansiosa al padre quanto erale occorso alla vista, e spesso usciva dall'abituro, onde per poco che da Nebiolo raggiungere potesse coll'occhio, pur cercare qualche nuovo allettamento alla sua immaginazione.
Dimorava appunto in questi pensieri incerta intendendo alle domestiche cure, allorchè con lena affannata la raggiunse Girani. Marcellina si scosse al calpestìo de' suoi passi, si videro, e da loro fu detto appena:—oh mia Marcellina! oh mio Girani!—e l'una si confuse nel seno dell'altro.
Solo dopo alcuni istanti ricuperarono gli smarriti sentimenti, rinnovellarono quelle prime eloquenti parole, stettero a riguardarsi quasi ammutoliti, e quindi l'una premendo la mano dell'altro, si dimandavano s'erano pur dessi, quasi sospettando non li prendesse qualche illusione. Indi più securi e lieti, a vicenda si chiesero della loro fede, si narrarono le proprie sventure, i perigli, i timori, e vagheggiarono l'idea della presente fortuna.—Oh mia Marcellina! pur ti trovo dopo tanti guai ed affanni, e sei pur bella come il primo dì che ti vidi e ne fui preso, e quale ne serbo l'immagine nel cuore, sola compagna ch'io m'avessi nel vario cammino della varia sorte. Avvicinandomi all'Italia, il sorriso di questo cielo sempre sereno, parea che mi annunziasse che qui risplende la virtù de' tuoi occhi: parea che le Alpi monti aggiungessero a monti per allungare il mio cammino: oh! ma che son mai quelle rocce eterne innanzi all'immenso amor mio? fuggivano sotto l'instancabile mio piede, e parea che col rumore i torrenti mi chiamassero in tua voce e dicessero, affretta; parea che al mio passaggio vedendo i miei tormenti si sciogliessero i ghiacci, e vola mi ripetessero, vola in seno ad amore: le stesse campane della sera che spargevano un queto suono di vetta in vetta, sembravano dirmi in loro flebile metro: noi siamo figlie della pace e a te l'annunziamo. Ah sì, Marcellina! breve omai sia il sospirar nostro: la tua mano fu il premio che io desiderava alle mie fatiche: omai il mio grado mi consente di menarti per isposa, e il sarai, e noi vivremo felici. Dimmi, e tu anima dell'anima mia, lo desiderasti questo istante che sempre fuggiva innanzi alla tormentosa mia brama? avevi ogni giorno presente il tuo Girani, come tu Marcellina eri a me, tu solo pensiero di gioja? mi ami tu sempre del pari, m'ami, Marcellina; e sarai tu felice di ristorarti alfin da tanti travagli in questo seno amoroso?…
Mentre l'acceso amante le favellava, or le stringeva, ora le baciava le mani, or cogli occhi accesi di amoroso fuoco pareva invitarla a rispondere alle proprie richieste. Stava la Marcellina intanto confusa fra il piacere ed un misto di vergogna e di pudore che destavano in lei il marziale aspetto di Girani, e quelle innocenti virtù che sebbene travagliate, eransi sempre serbate pure nel suo cuore. Mal sapea la semplice corrispondere ai modi ingentiliti ed animati dello sposo, e solo accarezzandolo e accennando col capo e colla mano, gli rispondevano i suoi occhi col linguaggio più eloquente della natura, e a chi bene intende amore, caro e certo pegno degli affetti ascosi.
Intanto in ogni casa era corso il nome di Girani, e quasi ad ognuno succedesse favorevole avventura, erano tutti festanti per gioja, di tanto andavano dolenti nella mestizia di Marcellina.
La curiosità movea giovani e vecchi, donne e fanciulli: traevano dalle loro soglie e si affollavano intorno al soldato; chi gli sporgea le braccia, chi lo premeva al petto e applaudiagli il ritorno e la prossima felicità, chi stava muto a guardarlo intimidito dalla guerresca presenza. Questi gli dimandava della salute, quegli de' viaggi e delle guerre, l'uno il tirava per la mano, l'altro lo scuoteva per l'abito, tutti chiedevano e voleano soli risposta: una domanda succedeva all'altra, e a queste ne seguivano mille, quasi onde che vengono a sferzare il lido e si succedono senza posa, sì che egli confuso, angustiato li riguardava tutti e non sapea rispondere ad alcuno. Il cieco intanto compiaceasi di richiamare alla Marcellina come ei sempre l'avesse incorata a buona speranza, e sì di ciò ne andava giojoso, quasi l'evento fosse stato costretto dai suoi presagi.
In questo mezzo le donne che meno audaci non ardiano porsi fra la calca che premea Girani, e i fanciulli, che o si sovvenivano appena d'averlo veduto, o aveanlo sentito nominare, come sogliono ad ogni nuova cosa rallegrarsi, gli facevano con gridi festevole allegrìa. Le une più curiose minutamente spiavano gli abiti onde ad esse compariva sì dovizioso, ed amavano coll'ardita mano trattare la morbidezza de' panni; gli altri andavano leggiermente a toccargli la spada, indi ritraevano la mano quasi da un ferro rovente, e ritornavano scherzosi allo stesso giuoco. Questi intendeva maravigliato all'auree insegne che gli ornavano le spalle, quegli pigliava il cappello di lui, e compiacevasi o di scuotere o di solleticarsi al mento le variopinte piume. Ognuno diversamente cercava di soddisfare al natural talento, e chi non potea parlargli o interrogarlo, si metteva nel ragionare di lui col vicino, e in tutti era eguale il tripudio.
Tratto dalle grida e da confuse voci che il richiamavano, giungeva in quella dai campi il vecchio Nebiolo, ed accertatosi dell'arrivo del giovane, anelante, bagnati per consolazione gli occhi, mosso da nuovo entusiasmo, prima abbracciò Marcellina, indi Girani. Poichè la gioja gli permise gli accenti, e in lui fu spenta la bramosìa di accarezzare que' diletti, prorompeva—Oh mio Girani! caro figlio, solo pensiero della mia Marcellina, tu rasciughi il mio pianto, tu porti la salute a mia figlia, la pace ai nostri cuori, tu sarai il bastone della mia vecchiezza, formerai la nostra felicità.—
Scendevano care queste parole in seno a Marcellina: riconoscente, compunta, non sapendo trovare accenti alla sua letizia, si stringeva fra il padre e l'amante e versava lagrime di gioja. Così si alternavano le dolcezze dell'amore e dell'amicizia, ed era piacevole anche la ricordanza delle passate sciagure, chè suole con piacere il marinajo ricordare in porto la burrasca. Furono sacri alcuni sospiri alla memoria dell'estinta madre; fu dato merito alla serbata fede, e si cosparse di dolce obblìo ogni sinistro di nemica fortuna fra le più care affezioni che ministrano al cuore l'energia di vita.
Per tal modo trascorrevano rapide le ore, e Girani, intento a disbramare la dolce sete che sì da lungo il travagliava, spente in lui tutte le altre cure, dimenticava imprudente i suoi doveri: adescato dall'idea di un'apparente felicità, non sentiva quai fiere procelle già gli ruggissero sul capo.
Il Comandante della Divisione seppe la vicinanza dell'inimico, e temendo non fosse in periglio la guardia avanzata, le tenne tosto dietro; sicchè giunse nelle pianure di Montebello, poche ore dopo che vi aveano preso campo i compagni di Girani. Pose i quartieri, e mentre scorreva i luoghi, visitava le sentinelle, gli venne annunziata la mancanza di un uffiziale.
Non fu ira cui eguagliasse quella di lui al pensiero, che un soldato innanzi all'inimico abbandonasse il suo posto, e disertasse dalle bandiere. Tutti meravigliavano come a ciò si fosse condotto Girani, esso da tutti tenuto valoroso ed onorato; ma alcuni montanari che asserivano aver veduto un soldato fuggire a suo potere verso il colle, diedero maggiori argomenti al dubitare, sicchè il Generale ordinò che ad ogni modo venisse inseguíto. Si mandò una mano di cacciatori sulle tracce del fuggitivo, e siccome era stato da tutti osservato, fu facile scoprire il suo cammino e raggiungerlo fino a Nebiolo.
Stavano nel ragionare ancora intorno al reduce parenti ed amici, quando scoprirono che alcuni soldati salivano il colle. Girani fatto di ciò accorto, e avvisando fossero nemici che si attentassero di farlo prigione, sguainata la spada, giurò di non perderla che estinto, e inanimava i circostanti a difendere l'onor suo. Ma fra sì generosa gara qual meraviglia fu la tua, giovane imprudente e sfortunato, allorchè in essi ravvisasti i compagni, e ti ferì rampogna di traditore e vile, ed annunziato l'arrivo del Generale fremente per gli abbandonati posti, ti venne ordinato di deporre la spada? Mille diversi affetti si succederono sul tuo volto, ed un tristo presagio ti occupò quasi tetra nube il cuore. Incitato alla partenza ti dividevi con represso dolore dalla Marcellina, prendesti mesto commiato dagli amici, e pieno di tristi pensieri ricalcasti con orma incerta quella strada su cui ti condussero l'amore e la speranza.
…So come è incostante e vaga,
Timida, ardita vita degli amanti;
Ch'un poco dolce molto amaro appaga:
E so i costumi, e i lor sospiri, e i canti,
E 'l parlar rotto, e 'l subito silenzio,
E 'l brevissimo riso, e i lunghi pianti;
E qual è 'l mel temprato con l'assenzio.
PETRARCA
Addotto in campo innanzi allo sdegnoso Capitano, si vide Girani fatto segno all'ira ed a' rimbrotti di lui, nè sapeva ove sperare salute, chè la sua difesa era peggiore della colpa per cui era querelato. Lannes non volle decidere del castigo dell'uffiziale e ne ripose ogni pensiero nel consiglio di guerra, che ordinò si unisse coll'alba novella.
Crucciosa si volse la notte allo sconsolato giovane fra le custodie siccome un fuggitivo, nè mai chiuse placida quiete le sue palpebre, chè troppo funesta potea su i suoi pensieri l'idea non del suo destino, ma dei delitti che gli si apponeano. Gemea non già per sè, ma per la sua Marcellina, chè vedea mal reggerebbe la povera fanciulla al nuovo infortunio, presago della prossima sua sorte.
Si potè trovare un contadino che si recasse quella stessa notte a Nebiolo: e per esso il prigioniero riuscì a mandare all'amica novelle del proprio stato, dirle qual giudizio lo attendesse al prossimo giorno e come temesse assai; desiderare almeno di vederla, per che volesse al nuovo dì venire al campo col padre, e affinchè non la molestasse la licenza de' soldati le inviò uno scritto in cui diceva:—Abbiate rispetto a questa povera fanciulla: essa appartiene allo sventurato Girani.—
Tremò Marcellina al duro annunzio, e più ai sinistri presagi che il messo avea udito spargersi pel campo. Si tolse col padre dall'umile tetto, appena l'alba vermiglia pinse l'oriente del lontano fiammeggiare del giorno. Come fu alla Torrazza, s'avvenne in bande di soldati che siccome li traeva la ferità di guerra calpestavano le speranze dei fertili campi, invadevano le case degli spaventati terrazzani, e a man salva involavano quanto loro veniva innanzi, indi disperdeano ciò che seco non poteva trasportare la loro rapacità. Si udivano intorno il compianto, il lamento de' padri e delle mogli, e quali si vedeano prendere sbigottiti la fuga, quali gemere innanzi alle spogliate case, quali imprecare contro ai crudi che aveano portato il terrore su quelle innocenti colline.
Procedeva la coppia timida e silenziosa in mezzo a questa licenza, e parea che ognuno rispettasse il loro dolore, parea che innanzi al soave viso della mesta giovane, dipinta da temenza e da verginale verecondia, si spontasse ogni audace desìo, e che la canizie del padre addolorato inducesse compassione e rispetto. Che se taluno ardiva avvicinarli, sporgeva senza far motto il veglio la tessera dolente, ed ognuno commiserando a Girani, ossequioso sgombrava loro il passo e accennava la via che menava al campo.
Avea l'oste franca posti gli accampamenti nelle pianure su cui domina Montebello, ed ivi sapendo vicino il nemico, teneasi ognora presta alla difesa. Marcellina passò fra le varie scolte che erano appostate sul colle e nel paese, e calò al piano.
Vide d'ogni parte quasi brulicame di api intorno agli alveari, o presso una fiorita riva, un commovimento continuo di soldati, udì un misto di grida, di suoni e di stranieri accenti: or la ferivano i manipoli di rilucenti fucili, or l'atterriva lunga fila di apparate bocche di spavento e di morte. Ove ardono fuochi, fervono i lavori, ove si distribuiscono viveri, e foraggi: chi accorre con notizie, chi sostiene il passaggiero, chi cambia le sentinelle, scrive su tamburi ed alterna le parole e le ordinanze. La baldanza dei soldati scorre tutti i luoghi, invade tutte le case: la legge di guerra siede ove impera il bisogno: il timore cede alla licenza, tace l'avarizia innanzi alla minaccia, freme ne' petti quasi onda intorno a scoglio l'inutile coraggio innanzi alla forza soverchiante, il terrore batte ad ogni cuore e si palesa dai torvi sguardi. In tanto scorre a vicenda intorno la pietà e la fierezza, la discordia e l'ordine, a maniera che stringe la necessità o il dovere, od è più o men lontana la mano che muove tanta mole.
Giunti i solitarii del colle in mezzo ai figli di guerra, chiesero di Girani, e sentirono che era tratto innanzi al consiglio destinato a dar sentenza del di lui fallo. Tremò Marcellina a quell'annunzio, e dimandando che ne potesse seguire, gliene fu presagito assai male. Le fu accennata una tenda cinta da soldati, e le si disse che ivi sedeva l'irrevocabile tribunale presieduto dal maggior-comandante che giudicava del disertore.
Stringendosi timidamente al padre, e abbassando gli umidi rai innanzi ai soldati curiosi e procaci, attendeva quella diserta il fine di quel giudizio, mentre le correano all'animo diversi pensieri formati or dal timore or dalla speranza. Ma ecco un suon di tamburi accenna che il consiglio è disciolto: un mormorio si sparge di bocca in bocca, un compianto scorre per tutto il campo e s'annunzia la condanna di Girani; è morte. Le sue difese erano riuscite vane: egli avea abbandonato il suo posto a fronte dell'inimico, le leggi e la necessità di guerra richiedeano un terribile esempio: svanirono tutte le ricordanze della virtù del prode innanzi all'appostogli delitto: più che la colpa il perde la sua avversa fortuna.
Ruppe in dolorosi lamenti Marcellina come la trafisse la fiera novella, e semplice addimandò se non poteasi rivocare l'ingiusta sentenza.—Chi, chi fu sì inumano per punire tanto crudelmente un uffizio pietoso? Ei volea consolare la derelitta sua sposa, annunziarle il suo ritorno: ei recava altrui la vita e si avrà procacciata la morte? E quelli che scagliarono sì barbaro colpo, non hanno essi intelletto di pietà e d'amore? E sono uomini?… Ma ch'io li vegga… Me, me sentano e il mio dolore… Chi potrà resistere al mio pianto, alla mia disperazione?… Che se hanno pur sete di sangue, se bramano una vittima, non egli innocente, io ne morrò, chè tutta mia ne è la colpa: bene più giusto fia il castigo e di lor meno indegno: chè non perdono il prode, e tolgono a me misera una vita cui da gran tempo è di peso per le tante sventure…—
Invano s'ingegnavano quelli che le erano intorno per dar consolazione alla dolente: fu condotta al Colonnello di Girani, e il ritrovò gemente sul disastro del suo bravo uffiziale ed amico. Se gli precipitò alle ginocchia, chiedendogli pietà e compassione.—Ah rendetelo, rendetelo a me, egli è innocente:… ei non volea abbandonare le bandiere, volò per annunziarmi il suo arrivo e ritornava in campo… Oh se lo aveste veduto quando udì la mortale rampogna,… se aveste veduto che generoso sdegno!… Ahi pietà del povero Girani, egli è innocente.—
Stringeano quei lamenti a compassione il pio, e come conobbe costei essere la Marcellina di cui aveagli sì sovente discorso Girani, ne sentì maggior doglia, sollevò la misera e ne raccolse fra le braccia il vecchio padre. Scoprendo l'acerba angoscia che soffocava la fanciulla le dava miti accenti e consigliavale di ristorarsi, ma ella nulla udìa, e solo con largo pianto il richiamava a pietà e gli dimandava lo sposo.
Mal reggea l'animo al cauto guerriero di accrescere l'affanno alla misera, ma a lungo provocato, omai sembrandogli il silenzio crudeltà, uscì in queste doglianze.—Mia fanciulla, non esacerbate di più il dolor mio col vostro lamento: nulla è in mia mano, non ci resta che il pianto: Girani è irreparabilmente perduto, e noi, noi lo abbiamo perduto, io col concederlo nell'antiguardia, voi pel cui amore fu trascinato al doloroso passo. Cercai di difenderlo invano: è certo che disertò il suo dovere, la circostanza lo condanna, le infrante leggi di guerra richiedono una vittima. Girani abbandonò i suoi compagni innanzi all'inimico, e se non s'avesse irremovibile rigore, ogni soldato ne seguirebbe l'esempio. In altro evento le azioni di valore per lui operate avrebbero cancellato ogni errore, ma ora le antiche virtù rendono più colpevole il nuovo delitto… Ognuno lo commisera della sua sciagura, tutti sentono che viltà nol mosse, ma il suo destino lo condanna: ognuno ne geme, io ne piango nè so darmene pace…—
Erano mortali ferite a Marcellina quelle parole e la disperavano: al fuggire d'ogni fidanza, più cadea l'infelice nel dolore.—Ah voi non sapete ch'io tutto perdo, lui perdendo, e sola mi resterà la mia desolazione… Morì mia madre e doveva Girani essere il sostegno di questo vecchio cadente, il mio compagno, la nostra speranza… Ah ch'io non potrò sostenere quest'ultima sventura!… Sento che Girani… ma e chi potrà negarlo al mio pianto, chi se non è chiuso ogni petto alla pietà? chi vorrà trafiggere sì crudelmente una misera che prega e si strugge in affanno?… chi gittarla nel precipizio mentr'ella si avviticchia alle sue ginocchia?… Ahi misera me! ahi compassione per l'innocente, perdono!…—Datti calma, mia buona fanciulla, sei misera forse tu sola? ed io non perdo in lui il più diletto amico? il mio braccio destro nel comando dell'armi, colui che meco sì a lungo divise il destino della guerra? Non vedi intorno dipinti di dolore tutti i suoi compagni? e chi di loro per serbarlo non porrebbe e preci e istanze, se valessero a rimuovere dal suo capo il disastro che lo preme? Almeno fra tanto infortunio ti sia di qualche sollievo il vedere come ognuno ne vada dolente, e sia l'amico tuo l'amore di tutti.—
Allora senza però dar a vedere che tai parole la persuadessero, chiese almeno di parlargli, e le fu risposto come ciò potea conseguire, giacchè dovea Girani da lì a non molto condursi nella prossima chiesa per offrire gli ultimi suoi voti al cielo.—Dunque fia breve?..—Tre ore sole, e poi il tuo amico…—Marcellina impallidì, venne meno: il Colonnello la sorreggea, e commiserando alla disgraziata, con mille argomenti e cure procurava di richiamarle le forze e inanimarla.
Poichè riebbe alquanto lo spirito smarrito, s'avviò la dolente col pio guerriero all'oratorio di Ginistrello, nè stette molto che se le annunziò giungere fra l'armi Girani. Ei veniva con serena fronte, e serbava fra il dolore la dignità dell'innocenza, chè tale il rendea la coscienza di non aver commessa viltà. Accennava come lieto si avvicinasse all'altare onde di là passare al riposo della tomba, ed essergli bastante compenso se restava della sua perdita orma di dolore ne' suoi compagni d'armi; solo corrucciarlo di non essergli concesso rivedere la sua Marcellina, e almeno darle l'estremo addio ed apprenderle col proprio esempio a sostenere l'animo forte fra tante disavventure.
Poichè fu poco lunge, Marcellina, scoprirlo, chiamarlo, gittarsi fra i soldati ed abbracciarlo, fu un punto solo. Ognuno si ritirò al cenno del Colonnello, nè alcuno s'ardì turbarli: volò terzo fra tanto duolo il cadente Nebiolo, ed era una compassione vedere Girani stringere al seno il padre e la figlia, compartire e ricevere tanta soavità d'affetti che a lungo loro non permisero di formare un accento, e solo rompea quel miserando silenzio qualche repentino prorompere di pianto.
Fu prima Marcellina a sciorre quella soffocata ambascia, nè più avendo mente ov'ella si fosse, nè più la giovanile timidezza ponendo freno al suo sentire, disperatamente dimandava lo sposo e aperto manifestavagli l'interno affanno.—Dunque io che ti amo, cui solo era dolce il pensiero di teco vivere i miei dì, io sarò cagione della tua morte?… e tu che ora qui palpiti a me vicino, che stringo con tanto amore al seno, che mi ami, tu, mio Girani, mio sposo… dovrai?… oh Dio! ahi disperato pensiero! ed io in tanto?… io sola?… Ah no! ch'io teco divida questo istante funesto… io t'infonderò coraggio, e mi sarà dolce con te… Chi potrà impedirlo… chi sì crudo fia che nieghi d'aver comune la morte,… a chi dovea dividere teco la vita?… ma e si potrebbe impedirlo a un animo deliberato?… io stretta a questo petto, io stretta a Girani… ah niuno! niuno varrà a dividerci…—
Ma il giovane tristo più per questa desolazione dell'amica che pel proprio destino, procurava di lenire tanta amarezza.—Poni in calma i turbolenti affetti, e piega il capo alla necessità, che forse non è sì acerba quale la fingi… E se fossi caduto in Egitto, solo, pesto dall'infuriare della battaglia, e invano chiedente pietà? Almeno ora ti è dato porgermi l'estremo amplesso, almeno fra queste braccia senti che gli ultimi moti del mio cuore si ridestano per te, almeno sei certa ch'io t'amo… No, Marcellina, non prostrare l'animo mio, non darmi doppia morte coll'aggiungere all'irreparabile mio fato la tua disperazione: a questa sola mal saprebbe reggere la contrastata anima mia… Il solo pensiero della tua felicità dava forza al mio labbro, ma suonò invano il tuo nome in mezzo ai figli di guerra:… il Colonnello volle pure farsi scudo allo sventurato, ma invano;… amore ci richiamava al maggior dei beni, e dopo tanto desìo, amore spezza per sempre quel nodo che già era presso a formarsi. Ah, Marcellina, non piangere, non desolarmi… noi saremo ricongiunti in cielo…—
Già l'ara e il sacerdote attendevano il mortale designato al supplizio, e la lugubre campana che lo chiamava all'ultima benedizion del Signore, percuoteva di terrore tutto l'esercito. Scese quel suono spaventoso in cuore a Marcellina, e voce pietosa d'amico in seno a Girani: l'una inchinò il capo dipinta di mortale angoscia, l'altro cercando cogli occhi erranti la luce del cielo, parea schiudere il labbro al sorriso di pace.—Senti, Marcellina, questo bronzo? In triste suo metro ei m'annunzia il prossimo mio fine; è il principio della mia agonìa, ma mi chiama ove la religione de' nostri padri ci apre i tesori de' suoi conforti, ci schiude la via a una vita più eguale… Forse un giorno ho profanato con amorosi pensieri la castità del tempio, allorchè bevvi per la prima volta l'amore pe' tuoi occhi, compresi, ben mel rimembra, da innocente pudore e da terror religioso: ora vuolsi lavare ogni macchia, e rendere l'animo mondo quale è il tuo, al bacio dell'eterno… Ah, Marcellina! abbiano calma per poco i terreni pensieri, e mentre colà mi reco onde prepararmi al nuovo mio viaggio, teco resti l'amor mio, teco resti la ricordanza delle nostre sventure.—
Si alzò dal sasso su cui avea preso qualche riposo, e dava un abbraccio alla dolorosa per dividersi ed inoltrare nella vicina chiesetta, ma essa come chi sull'orlo d'un precipizio si aggrappa a quanto le scorre alle mani per sostenersi, forte si avviticchiava a Girani.—Ah non fia no ch'io ti abbandoni: io vo' seguirti all'altare, e dividere teco proponimenti e preghiere… I nostri affetti sono puri, nè saranno forse disaggradevoli in cielo le preci di due cuori che si amano: se meno acerba ne si volgea la fortuna sarebbero voti di felicità… saranno voti di eterno pianto.—
Niuno ardì opporsi al pio desiderio, e la coppia sfortunata inoltrò nella chiesa. Ivi la Marcellina, siccome angelo tutelare, soccorse all'amico negli uffici della religione, si sparsero pie lagrime e sciolsero l'ali all'etere fra i vortici degli incensi le devote preghiere. Penetrava dalla finestra del tempio un raggio di sole, e ferìa i gradini dell'altare sui quali erano genuflessi i penitenti amici, sicchè si diffondea su' loro volti la luce: parea che il cielo mosso a tanta pietà, spargesse un'aura divina che valesse a rinnovellare le forze ne' loro agitati petti.
Poichè ebbero compimento le religiose cerimonie e si tolsero dal sacro loco gli sconsolati, Girani si accorse che fuori della chiesa tutti stavano in inquieta attenzione i suoi compagni d'armi, e non lunge scoprì breve drappello di soldati che tenevano le bocche de' fucili a terra, ed erano preceduti da alcuni tamburi coperti di negro velo. Girò intorno le dubbie pupille e lesse nel volto di tutti il proprio destino, e volto a Marcellina stringendole la mano:—Marcellina, mia compagna nella sventura, ecco già pende il momento del mio fine:… ricevi in questo amplesso l'ultimo pegno dell'amor mio, e ti allontana da questi luoghi funesti. Mi serbi il tuo cuore qualche dolce ricordanza, serbami i tuoi affetti,… ma tu non devi stare presente,… fra pochi istanti io non sarò più…—
Allora la dolente, che stretta da profonda melanconia stava col capo abbandonato, come chi si giace dimentica dell'esistenza, fu da subito terrore riscossa, si strinse a Girani, e riguardava in atto di dolore e di sdegno il padre che la sorreggeva e volea allontanarla.—Ah no! non fia mai ch'io mi diparta dal tuo fianco,… i crudeli ci uccideranno insieme… Chi sa forse mossi a pietà pel mio dolore,… forse, vorranno perdonare…—Ah no non ti seducano, mia cara, sì folli illusioni: è morta ogni speranza… Vedi quella mano di soldati che non lunge mi attende?… quando que' tamburi di morte ridesteranno lugubre suono, allora mi chiamerà la mia ora estrema, io partirò, e dopo pochi istanti ti ferirà un fragore, uno scoppio… allora… ah, Marcellina!… Tu ottieni la mia spoglia, e ti adopera perchè sia sepolta presso a quella di tua madre: almeno mi sia dato dopo morte ottenere fra le natìe mie glebe quella pace che invano ho vezzeggiata in vita: almeno ch'io non sia troppo lunge da que' luoghi che fai beati di tua presenza;… e sappia, e cada col dolce pensiero che verrai talora su quella terra a versare qualche tributo di pianto. Sostieni il cadente tuo padre, e talora ricordagli lo sposo che hai perduto; ma giacchè la sua età lo richiede, un altro figlio… Ah, Marcellina!… almeno affatto non dimenticarti di me; tel chiedo in solo compenso di tanto affetto che ti serbava in cuore… Perchè altri però non turbi con larve gelose la tua pace, allorchè pietà ti muova del perduto amico,… digli che vieni a visitare il riposo di tua madre, e tacita e in te ristretta, spargi anche sulla mia fossa qualche sommesso sospiro… E voi, mio buon padre, padre della mia Marcellina, voi datemi l'estremo vostro abbraccio, l'ultimo pegno di paterno affetto… Per questo sì tenero amplesso, per quelle lagrime che sì copiose vi piovono dagli occhi, vi raccomando questa povera fanciulla: compatite al suo dolore, nè muovetele rampogna se in lei sia soverchia l'amarezza pel doloroso mio fine: io la ho amata tanto… deh non vogliate far forza al suo cuore…
Trepidava l'afflitto veglio, nè sapea fargli altra risposta che di singhiozzi e di pianto, abbracciava, baciava a vicenda Girani e la figlia, nè avresti detto quale dei tre fosse più infelice o sventurato.
Corsero alcuni istanti fra sì tenera commozione, e poichè ebbe qualche tregua il compianto, Girani composto a serenità il volto e ripreso animo, volgea ai commilitoni più ferme parole—Mio Colonnello, che sempre anzi che capo mi foste padre amoroso, e voi soavi amici porgetemi l'estremo vostro abbraccio, e dimettere vi piaccia al morente socio quanto in lui vi parve riprovevole ne' tempi trascorsi. Deh non sia presso di voi la mia memoria turbata da alcuna sinistra ricordanza. Io sono stretto a dividermi da voi, ma non n'è colpa che giovanile imprudenza d'amore: non vogliate arrossire d'avermi avuto a compagno, poichè l'onore fu sempre l'unica meta cui miravano i miei pensieri. Io divisi con voi i perigli e la fortuna dell'armi, voi dividete con me il dolore che mi preme per questa fatale mia partita… Se mai vi fui caro, se mai non venni meno presso di voi al dover mio, all'amicizia, deh non patite, ve ne prego, che questa povera fanciulla e questo vecchio, dopo la mia caduta vadano insultati dalla marziale durezza. Sia loro libero trasportare seco l'estinta mia salma, perchè riposi vicino ad essi almeno dopo la morte. Se non fui l'ultimo nelle battaglie, spero che voi, mio Colonnello, vorrete di tanto essermi cortese, chè sarebbe crudeltà abbandonare le spoglie d'un soldato di onore fra questi campi obbliviosi, su cui scorrerà il tumulto delle prossime pugne: voi l'otterrete, chè non vive ira di giustizia oltre la tomba.—
Gemeano tutti intorno allo sfortunato, e si iteravano intanto i dolorosi complessi e le parole e i baci, ed era una mestizia, un lamento che ti cercava il cuore. A questi, Girani rendea pur grazie di antichi benefizj, a quelli ricordava la vita insieme condotta, i corsi perigli e le palme mietute:—ma per me tutto ha fine, e quale!… a voi sta chiuso il campo della gloria, a me la fossa… Almeno fossi caduto combattendo, che il mio nome andrebbe scritto fra quello de' valorosi figli della patria. Ahi dolce nome che rapito alla natìa rozzezza ora cominciava sì altamente a intendere!… ahi inutili speranze e più inutile pianto!—
Provvide quindi come bramava si compartissero le sue cose, e fattasi venire una sua spada assai bella, dono del suo Generale al ritorno d'Egitto, la baciò e porgendola al Colonnello:—Eccovi l'arme onorata che m'acquistò il mio coraggio: questa era la sola eredità che avrei lasciata a' miei figli, se un dì avessi diviso con Marcellina… inutili speranze! A voi ora la porgo perchè non sentiate vergogna ove vi soccorra del mio fine: questa vi farà testimonianza ch'io non fui l'ultimo dei vostri soldati. Questa è l'estrema volta ch'io tratto l'armi d'onore, di cui fra poco verrò spogliato fino delle insegne: io la bacio e la bagno di pianto, certo il solo pianto che non la disonori, poichè non è figlio della viltà, ma del dolore di lasciarla.—
Levò quindi quel vezzo di perle di cui era stato presentato in Egitto, e lo pose al collo di Marcellina.—Tieni, mia sconsolata amica, questo l'ebbi in Egitto, allorchè pensando a te, salvai una vita preziosa. Io divisava di offrirtelo il giorno delle tue nozze, e te lo offro nell'ultimo momento della mia vita: ricordati a qual fine era destinato, e quando il ricevesti… ricordati…—
Ma il funereo suono de' tamburi annunziava l'ora fatale: Girani riscosso stette ad udirlo, e intrepido come ebbe rivolto uno sguardo confortatore alla sua Marcellina—Sì, t'intendo, voce di morte, io vengo.—
Marcellina svenne fra le braccia di suo padre, che la sostenea combattuto da doppia ambascia: Girani riguardava l'amato viso che dipinto di pallore mortale gli richiamava il suo prossimo destino; tra commosso e addolorato strinse teneramente la mano della misera, la accostò alla tremante bocca, e pronunziando il di lei nome, per l'ultima volta parve fruire la vita fuggitiva dalla cara morente luce del di lei volto: indi innalzati gli occhi al cielo, si mise coraggioso fra i soldati che doveano scorgerlo sul sentiero di morte.
Procedeva a lento passo il corteggio funebre e pervenne a una vicina campagna, ove era schierata gran parte dell'esercito e lo stato maggiore. Girani in cui più non poteano nè dolore nè amor di vita, inoltrò senza far motto nel fatale recinto: se gli strapparono dalle spalle le onorate insegne del suo grado, ma prima che si gittassero a terra volle baciarle, e con quel bacio parea dire che mai non le ebbe disonorate.
Ruppe solo il silenzio allorchè si volea bendargli gli occhi.—Io vissi sempre siccome soldato d'onore e muojo senza viltà: non ebbi mai alle spalle l'inimico, non fuggii mai i perigli, nè ora tremerò di vedere la morte. Vibrino i miei amici al cuore, ei solo n'è colpevole: io perdono loro questa necessità e gli amo come fratelli.—Colle braccia aperte ponendo gli occhi al cielo, e susurrando il nome della sua Marcellina, calava il ginocchio l'intrepido e stava attendendo il dardo mortale.
Dopo pochi istanti che Girani erasi dipartito, la deserta di Nebiolo ripigliava l'anima smarrita, e sporgendo le braccia tremanti, e vuote ritraendole al seno, dicea con interrotti singhiozzi:—No, mio Girani, non fuggirmi per pietà… qui, qui meco…—In tanto viene in sè stessa e più nol vede, e sola si trova col padre adagiata su d'un sasso, e sente il proprio errore: alza gli occhi, scopre già lontani i soldati, e senza far motto, accesa da improvviso coraggio, vola, si precipita ove più folta è l'oste schierata.
Giunse fra le file quando Girani rifiutava la benda, e per gli spazj che si aprono fra schiera e schiera vederlo e volare a lui fu un punto solo, sicchè niuno se ne avvide o potè impedirla. Lo raggiunse nel momento che ei piegava il piede, se gli prostrò vicino, se gli strinse al seno, e perchè l'ansia affannata le soffocava gli accenti, accennava sè stessa e percoteasi il petto riguardando l'amico, quasi dicesse di voler morire con lui.
Fu universale la maraviglia a tanto coraggio, si sostennero i fucili già inchinati onde scoccare il colpo fatale, e tosto alcuni soldati tenendola presa da pazzìa erano accorsi per trasportarla altrove. Marcellina aveasi con tanta forza avviticchiata a Girani che era malagevole il dividernela: non parlava, non piangeva, spirava disperazione dagli occhi e si difendea colle mani, co' piedi e co' denti da que' barbari che si attentavano strapparla dal suo amico. Era una compassione a vedere una lotta fra soldati e una donna che per ogni modo cercava di avvinghiarsi a colui dal quale si volea separarla, nè altro mettea dal petto che qualche disperato grido ogni volta che pareano venirle meno le forze.
Era perturbato tutto l'esercito, e commoveano ogni petto il silenzio di Girani, quella miserrima lotta e le grida disperate della donna. Il Generale trasse a quella mischia, ordinò di ritirarsi ai soldati, e accostatosi alla Marcellina la richiese fra dolce e severo quale follìa la prendesse, e perchè fanciulla volesse porre a sì imprudente partito il proprio onore. Com'ella vide rimossi i crudi che voleano farle violenza, tenendosi tuttavia stretta al suo amico, poichè l'affanno le permise la voce, con incredibile coraggio franca e deliberata gli rispondeva—Non isperate mai,… mai ch'io mi divida da lui: trafiggetemi, ponetemi in brani, io non lo lascerò,… morirò con lui… io fui la cagione, egli è innocente… Niuno s'attenti di avvicinarsi, non sento parole… e chi, chi siete voi che mi parlate d'onore… se perdo tutto?…—
In tanto erasi avvicinato il vecchio Nebiolo e atterrato, stringendo le ginocchia a Lannes gli domandava commiserazione, e con lui molti dello stato maggiore chiedeano grazia per Girani. Come Marcellina s'avvide che quegli era il Generale, ispirata e desta da nuova speranza se gli gittò ai piedi e lasciando libero il pianto, ora stringendogli le ginocchia ed ora baciandogli l'elsa della spada pregava clemenza, perdono pel suo amico—Grazia per pietà, egli è innocente, ei non volea fuggire… me, me qui trafiggete, ma vi stringa compassione di lui… Non macchiate di questo sangue il nome vostro, datelo alla vostra gloria, al mio pianto, al dolore di tutti… Se avete figli ah pensate! a qual duro passo possa trascinargli una cieca passione e compatite al vostro soldato… Che vi avvenne di male per ciò, che vi occorra tanto rigore?… che vi feci io misera orfanella che vogliate strapparmi il cuore colle vostre mani?… Ah no pietà, perdono…—
Stava silenziosa, ansante tutta al di lui volto, e tacito se le volgea sulle gote a rivi il pianto, e con quello sguardo, con quelle lagrime, con quei repressi sospiri, sembrava pur chiedergli grazia e perdono. Mosse Lannes intorno gli occhi, e parvegli tutto lo stato maggiore dipinto di pietà e di duolo ripetergli con Marcellina, perdono. Egli sollevò la misera coll'una mano, e stesa l'altra a Girani, che era stato muto a sì diversa scena, gli ordinò di raccogliere le insegne del suo grado, e disse che ove nella prossima battaglia lavasse con valore le macchie apposte all'onor suo, gli era fatta perdonanza; indi di sua mano gli restituì la spada.
Fu universale la letizia, e mentre Girani quasi preso da stupore, come quello cui passò vicino il fulmine e non l'offese, vedeasi cinto dagli amici che gli metteano coraggio e gli faceano intorno piacevole e lieta festa; la Marcellina rapita all'entusiasmo dalla gioja, volea di nuovo per gratitudine prostrarsi innanzi al clemente Generale. Ma ei mitigava con blandi accenti quella sfavillante letizia, le applaudiva a quella costanza di affetti onde a tanto fu mossa, e le proferiva consigli perchè con maggior prudenza il suo amante per lo innanzi adoprasse per coglierne non amari frutti.
Intanto Girani ebbe restituito all'omero l'onor perduto, ed abbassata innanzi al Comandante la punta ossequiosa del reso acciaro, gli riferiva i sensi del grato animo suo.—Non già perchè mi pesasse il morire, non già perchè onta mi pungesse di commesso delitto, chè ben sentiva la necessità segnare dura condanna a lieve colpa, e ciò che è più, l'animo mio mi giudicava ch'io era innocente. Voi mi restituite alla vita, voi mi ridonate al mio grado, all'onor mio, a quanto mi è di più caro, ed io giuro per questa spada che innanzi a voi si inchina, giuro che nel primo fatto d'arme saprò rendermi degno di queste insegne o morire: tergerò dalla fronte la macchia che s'attenta deturparla, o non la innalzerò mai più innanzi ai vessilli della gloria. Dopo la pugna io deporrò questo ferro al vostro piede, nè mi verrà restituito se i miei compagni non giudicheranno che io ne abbia buon merito. Se fia mi succeda tanto amica la fortuna, allora vi porrò voti perchè abbiano qualche ricompensa le virtù di questa povera fanciulla e fine i suoi lunghi patimenti.—
Il Generale accolse al seno il valente giovinetto e lo accertava come ei conoscesse le sue virtù, e di quanto sen dolesse innanzi colla dura necessità, che lo armava di tanto rigore. Fu cortese anche alla Marcellina di lusinghevoli encomj, le applaudì l'umano cuore, e il maschile coraggio, dicendole come gli intensi suoi affetti aveano forza di pigliare qualunque alto animo, e piacergli che di tanto l'avesse in cuore Girani: le porse nuovamente fede di tenere quanto poco dianzi avea promesso, e la confortò e nudrì di buone speranze pel conseguimento di una prossima felicità. Trepidava la bella solo occupata del pensiero che fosse salvo l'amico, e dietro il velo delle inchinate palpebre muovea furtivamente gli occhi sopra di lui, se non che al suono di quella lode correva un lieve vermiglio a dipingerle il viso, che la rendeva in suo pudore più bella.
Si diffuse per tutto il campo la gioja e su ogni bocca suonavano i nomi di Girani e della Marcellina, e per ognuno si applaudiva al novello coraggio di lei che salvò allo sposo la vita. Tutti s'affollavano intorno al racquistato amico ed era loro grazioso parlargli, e chi ne era impedito si studiava manifestargli colla mano i sensi ascosi, chi il confortava nella vista alla letizia, chi vel richiamava con improvvise grida di tripudio che ad abbondanza usciano dai petti, e sfavillava sul volto di tutti sì verace la gioja, che Girani sovente a tanta amicizia commosso, stretto soavemente fra l'altrui braccia era sforzato a lagrimare, che è pur dolce in uman cuore la voluttà d'essere caro altrui. Dolce voluttà che il mio cuore anela più d'ogni vana fola che vezzeggia il bel mondo e chiama onore l'orgoglio de' mortali; soavissimo nettare che ove si delibi presso un animo gentile, addolcisce l'amaro calice di vita e le mortali catene infiora di rose le quali olezzano di paradiso: voluttà cui ignora il cieco volgo e il procace mortale che non innalza mai l'ali del desìo sopra la paludosa terra, che il Sofo vestì tutta di celesti spoglie, e che ove si contemperi coll'affetto più tenero dell'alma, ove si attinga fra i fiori di un gentil volto o dalla luce fuggitiva di due occhi amorosi, è il solo e più pregiato conforto dell'umana vita.
Ma ove la letizia correva all'estremo, era in Marcellina in cui fu estremo il dolore. Ella non trovava modi e parole ad esprimerla: contrastata ad un tempo dalla modestia e dall'amore, da tutti riguardata ed applaudita, non sapea a cui volgersi, quali accenti formare in mezzo al tumulto di un campo, fra genti a lei sì strane per costumi, per maniere e per favella. Pure non sapea starsi queta, e chiudere nel silenzio del cuore il piacere chè ad ogni istante lo schiudeva a un nuovo palpitare: divideva la soavità del contento col padre e coll'amante, or careggiava colla timida mano il canuto capo di questo, e ne baciava la gota lanosa, or movea su quegli soave il favellare de' bei lumi cui seguiva il raggiare di più seducente sorriso. Figlia ed amante, siccome pria fu la compassione, ora era l'amore di tutti, e batteva furtivo in ogni petto vaghezza, non che di vederla, di ottenere gli ultimi suoi sguardi, allorchè modestamente a sè li raccoglieva, come chi siegue colla bramosia del volto gli estremi raggi del sole che si nasconde.
Erano intanto accorsi d'ogni intorno gli abitatori della collina; poichè la loquace fama avea sparso sui monti il venir di Girani. Egli era a tutti diletto e il suo caso riusciva più acerbo quanto più ognuno era tenero per la Marcellina. Quindi più ratta si propagava la propizia novella, quindi più festevole si diffondea fra loro la gioja, che meglio schietta e pura suole risplendere su quegli animi che meno si accostano alla civiltà, nè risentono i legami sociali, i quali non che al pensiero, impongono dure catene fino alle care affezioni del cuore.
Scendevano que' semplici fra l'armi, ed erano intromessi nel campo, e vedeano il lor paesano, e con grida e con gesti e con parole gli aprivano il proprio affetto e la gioja onde erano piacevolmente cercati: Girani rendea loro grazie per voti e abbracciamenti e baci.
Ognuno recava seco qualche donativo, e chi portava i polli, chi il capretto, chi il latte ed il formaggio. Venivano questi divisi fra i soldati che ne faceano festa, e coperte di brani quelle bestie innocenti, ridestati nella campagna i fuochi, talora con pentole e con i spiedi, spesso con vecchie bajonette ne arrostivano le carni e ne imbandivano un banchetto. Si divideva in varj gruppi il campo, e ognuno intendeva a cure diverse. Qui si stringeva una mano di montanari intorno a varj soldati che eran pur nati sui colli, altrove gli amici insieme prendeano riposo dalle fatiche: ove si conveniva ad un desco, ove si allestiva un cibo, e mentre l'uno si tenea buono se rendeva acquavite per latte, l'altro era desioso a più spiritosi beveraggi. Girava la tazza spumante di pretto liquore, il gaudio sovente usciva in liete risa ed in festevoli grida, e spesso la gioja moveva il piede all'agile danza.
Era bello fra tanto rumore e tripudio l'ordine che reggeva ogni cosa, e il cambiarsi delle scolte, il correre de' messi, il sostenere de' carri nel cammino sconnessi, la distribuzione de' viveri e de' foraggi, e il ricevere e il dar ordini, e il severo comandare e il subito ubbidire. Era bello vedere ai tumulti e agli evviva, al battere de' tamburi, succedere il silenzio e la quiete, e un correre a' fucili, un allestire i cavalli, un porsi nelle file, e destramente eseguire le militari evoluzioni. La sola voce del Comandante muove a sè d'intorno in varj giri, in eguali atteggiamenti e in armoniose file, miliaja di soldati: or incedono i fanti, ora precipitano i cavalli, questi procedono con ordinanza, quegli soccorrono con apparente disordine, gli uni traggono pesanti carri, gli altri i cavi bronzi, che in un lampo rivolgono, puliscono, v'infondono nel seno la combustibile polve e coll'occhio sagace divisano ove debba cadere il telo mortale. Tutto è movimento ed opra, e ti piace in questi l'agilità, in quelli la fierezza, sugli elmi degli uni scuotersi l'equina criniera, su quelli degli altri ondeggiare le variopinte piume, e i raggi del sole infrangersi ne' puliti fucili, e nelle sguainate spade, sicchè ti pare sovente vedere sull'armi di guerra il settemplice arco di pace.
Corsero due giorni in questo modo, e mentre i soldati prendeano riposo dei sostenuti disagi, il Comandante ordinava che si scorressero i colli e pigliava cognizione delle posizioni delle forze dell'oste contraria. Talora si udiva nelle valli qualche strepito d'armi, e ritornavano poscia i brevi drappelli che eransi mandati a spiare o vinti o vincitori: ora redivano scemi di numero, ora traevano prigioni vinti all'inimico.
Girani cui troppo addentro premea l'onta del passato giudizio, mai non restava inoperoso, e sempre ottenea dal suo Colonnello di andare capo delle bande che scorreano i dintorni. Cittadino delle rupi egli era più d'ogni altro esperto de' luoghi, più ardito: inoltrò fra vallate inospite, si arrampicò su luoghi dirupati, e adoprò con tanta audacia, che potè spiare quai posti occupasse l'inimico; portò sì innanzi il piede che gli convenne talora venire alle mani colle avverse scolte avanzate, e potè condurre al campo alcuni prigionieri in testimonianza del proprio coraggio.
Volgeva egli nella mente alte cose cui alimentavano più alti desiderj. Avea da lungi scoperti sulle alture di Casteggio alcuni apparati di guerra, nè sapea comprendere come si fossero colà situati ed ordinati: non potea conoscerne la forza, e bramava d'esserne accertato innanzi di aprire al Generale i suoi disegni. Allora gli suggerì la Marcellina, e parve che assai bene l'opera di lei verrebbe in destro.
Era la Marcellina con altre donne e col padre sempre nel campo, e solo si ritraeva a Montebello, allorchè l'esercizio militare richiamava nel bivacco la quiete. Essa provvedeva i cibi al suo amico ed al Colonnello di lui, e talora presentò lo stesso Generale col fresco latte delle sue capre che a Nebiolo iva a spremere il padre, e un dì gli offrì di quello stesso squisito cibo che già aveva posto a Girani la prima volta che venne a lavorare i suoi campi: lo aggradì l'eroe, e mentre assiso nella tenda lo gustava, ella piacevolmente narrava a lui la storia di quel giorno.
Fu Girani dalla fanciulla, e accennatole quanto gli tenesse di rendersi accetto a Lannes, le manifestò come per un suo divisamento gli era mestieri di sapere quanto operavasi sopra Casteggio, e se le desse l'animo di recarvisi.—Perigliosa e difficile è l'impresa, ma a niuno meglio deve uscire agevole che a te, giacchè non può cadere sospetto in mente ad alcuno che una semplice contadina possa covare pensieri di guerra. Non richiedermi di più: l'evento ti renderà più accetto lo sposo, e sorriderà amico alla nostra felicità.—
Marcellina di buon animo assecondò i desiderj dell'amante, e poste in un paniere alcune frutta, delle ova e due colombi, ben avvisata del modo con cui dovea adoperare, entrò in cammino verso Casteggio per la via della collina lungo i tortuosi meandri della Copia. Passò illesa in mezzo alle sentinelle, e insieme con altri montanari che andavano e redivano chi recando polli, chi frutta, potè conseguire ogni suo desiderio.
Casteggio, sede antica di un presidio non ignoto nelle romane guerre, e intorno a cui sono celebri e la fontana d'Annibale e il monte di Cesare e luoghi la vestustà del cui nome ricorda la presenza dell'Aquila latina; è posto sul pendìo che riunisce quasi apice di angolo la doppia catena di colline, l'una delle quali muove verso Voghera, l'altra seconda il corso del Po. Gli corre al piede la romana via, e dove forse un dì fremeva l'onda dell'incostante Eridano, ora le prime mura sorgono del paesetto che in varia foggia a riguardarsi sale mano mano sul poggio in fino alla cima: l'una casa sovrasta all'altra e s'aderge più orgogliosa quanto più s'accosta al vertice, l'un tetto è quasi di gradino all'altro, e ti presenta a riguardarsi un colle di riunite abitazioni fra le quali innalza più orgoglioso il capo qualche chiesetta. Una spaziosa via dalla radice mena alla sommità e divide il paese, e lungo questa si schiudono officine d'ogni sorta a cui hanno ricorso pel bisognevole i cultori della montagna. Sulla vetta spaziosa grandeggia da un lato il maggior tempio, la cui torre ornata di graziosa cupola, rende più vago a riguardarsi da lungi quella piacevole altura: dall'altro è fabbricato un moderno convento, ed era forse un'antica rocca, e innanzi ad esso si stende un ameno praticello da cui, mentre ti pare di avere al piede ossequioso il villaggio, spingi curioso lo sguardo per l'immensa pianura, e ti diletta vedere il corso del Po, le feraci campagne di Lombardia, i castelli del Piemonte; nè la tua curiosità ha confine se non se dal connubio del cielo cogli orgogliosi gioghi del Cinisio e del Monte Rosa. A questo poggio, che è il più dilettoso, e vien denominato il Pistornino, trae sovente il curioso viaggiatore a deliziarsi nel contemplare le lontane bellezze.
Marcellina non curata innoltrò col suo cesto fino al mercato. Questa è una piazza che quasi riposo giace a metà del colle, e dall'una parte è ornata di una chiesetta, dall'altra si spazia fino al dirupo e sovrastandogli il Pistornino presenta tuttora la vista dello spalto d'una fortezza. Da questa piazza per salire più in alto, conviene passare sotto un arco, sicchè lo diresti la porta della rocca, e se su quella cima si assise l'ira di guerra, quivi certo erano poste le prime fortificazioni. Ivi in fatti avea l'oste raddoppiate le guardie, abbenchè non potessero impedire il passaggio ai montanari, poichè ove loro pur fosse stata chiusa questa via, ne restavano altre assai per salire e rendersi alla parte più erta di Casteggio.
Molti venivano intorno alla Marcellina per fare mercato di quanto portava; ma la destra forosetta sentendo che ove ne avesse consumata la vendita, non avea più con che far velo al suo andare, richiedeane molto prezzo sicchè niuno volea comperarsi il suo. Non facea risposta che di un modesto sorriso a quanto alcuno motteggiando diceale, e in sè ristretta e chiusa procedea in suo cammino, e tripudiava nell'idea di condurre a meta ogni suo desiderio.
Per tal modo d'uno in altro luogo trascorrendo, mettendosi or con questa or con quella donna, delle quali per avventura alcuna conosceva, ella potè pervenire fino alla cima di Casteggio. Quivi quasi presa da femminile vaghezza, e come se fosse selvaggia del loco, addimandava ora l'uno ora l'altro che si facessero i soldati in questa od in quella parte, e avendo più avanti l'ardir suo, rimirando intorno come chi assaggia nuove cose, inoltrò con diversi cicalecci fino al Pistornino. Ivi vendette i suoi colombi e le ova, e in tanto a suo grand'agio potè comprendere come in quel luogo si fossero posti de' cannoni ed innalzate alcune fortificazioni. Poichè ogni cosa vide e notò, bellamente ritirandosi lasciò quella terra, e in brev'ora di ritorno al suo Girani, gli narrò distintamente quanto erale occorso di osservare.
Da tanto ben sentì il sagace soldato come il nemico si fosse afforzato sul Pistornino e nel Monastero. Nè ciò senza molta accortezza, poichè dominando quel luogo il sottoposto paese, non solo si teneano soggetti gli abitanti, ma rendeasi micidiale l'impresa di chi si fosse attentato di penetrarlo, mentre que' cannoni impunemente vi piombavano sopra sterminio e morte.
Fermo nel suo proposto e pieno di alte speranze, venne Girani al Generale, gli narrò quali fossero le difese di Casteggio e il modo con cui tutto ebbe scoperto, sicchè quegli ne fu ad un tempo meravigliato e dolente, poichè vide turbati i suoi progetti, e temea forte la presa del Pistornino non dovesse costargli molto sangue. Girani scoprendo i propri pensieri, gli disse a ciò solo essere venuto, presto a trarlo dal duro impaccio: gli chiese una mano di arditi e presti a porre per la gloria la vita, e gli svelò come proponeasi, girando nella valle opposta, condurli dietro al colle di Casteggio, e mentre fervea la battaglia nella pianura, e tutte le forze dell'inimico erano volte a difendersi ove erano assalite, egli arrampicandosi co' suoi sul colle, gli piglierebbe alle spalle, e renderebbe inoperosa quella fortificazione. Lannes rivolto l'animo a siffatto proponimento, gliene piacque, gli acconsentì una squadra di pochi arditi de' quali il pose al comando, e baciatolo in fronte gli disse:—Bravo capitano, sappiti col tuo valore procacciar questo grado nella battaglia.—
Ogni cosa era ordinata fra il Generale e il giovane ardito, se non che il primo sentiva, come, se Girani si fosse scagliato a prendere il Pistornino innanzi che egli di fronte si fosse mischiato nella battaglia, e il nemico accorgendosi del nuovo assalimento rivolgesse a quelle parti le forze; sarebbesi gittata l'impresa, e inutilmente avventurati a indubitata perdita i suoi. Perciò stavano fra loro ragionando del modo con cui dare un segno, ma non sapeano ravvisarne uno sicuro. Allora il Generale soggiunse—Se un ardito potesse salire la torre del tempio…—Un lampo parve balenare innanzi a Girani, che rispondea interrompendo—È fatto: a ciò basta Marcellina.—
Sorrise l'uomo delle battaglie e gli applaudì che meglio gli parve dover riescire per amore, quanto avrebbe durato fatica a ottenere altrimenti, e disse:—Che questa giovane oggi richiamare dovesse la fanciulla d'Arco?—e accompagnò tai detti di un sorriso che ad un tempo accennava e la fidanza della vittoria e il plauso che ne dava a chi schiudeane la via. Dileguarono innanzi all'accortezza di Girani gli ostacoli che poteano nascere in questa impresa, e posero fra loro che allorchè il Generale farebbe volare dalle sue truppe al cielo un foco artifiziato, Marcellina moverebbe a suono le campane del tempio, affinchè dall'opposta valle volasse novella che si operava l'assalto.
Girani aprì questi pensieri alla Marcellina e trovolla presta a seguirli, abbenchè il padre ne fosse alquanto turbato, sicchè ne fu malagevole ottenerne il consenso. Amore è duce d'ogni audace impresa, desto in cuor di donna l'arma d'ardire, la sprona fra i perigli, e sovente poca scintilla per lui seconda gran fiamma di gloria: amore accese nuovi pensieri in animo alla vergine di Nebiolo, le sparse di rose la via de' perigli che la scorgeva a conseguire lo sposo. Perchè non le fallisse il misterioso andare, venne a Casteggio la sera che precedeva il dì della battaglia, ivi prese alloggio presso una buona femmina con cui teneva amicizia, e la cui casa usava ogni volta che traeva al mercato, e la quale era forse d'un trarre d'arco lunge dalla chiesa.
L'amante innanzi di separarsi da lei le dava ricordi e preghiere, e perchè bene le riuscisse l'impresa, e perchè non la cogliesse qualche sventura. Sentiva egli un'insolita letizia scorrersi in petto scoprendo il coraggio della bella, e precorrendo col pensiero il bene che lo attendeva, ma ad un tempo il timore pareva amareggiargli il calice cui appressava le labbra assetate, od offuscargli la luce che gli raggiava sugli occhi: ei spesso timoroso, come barchetta in mezzo all'onde contrastata da opposti venti che or l'uno la rapisce, or l'altro la spinge nè sa rimuoversi, da doppio affetto sospinto non sapea sciogliersi dall'amica e lasciarla libera al suo cammino. Ma vinse in fine la brama d'onore e la data fede, vinse l'amoroso desìo, strinse la bella pudibonda al petto, e additandole il cammino—Va, anima mia: ci dividiamo solo ancora per pochi istanti, poscia nulla potrà separarci giammai. Va, ricordati di chi non vive che nell'amor tuo, e domani i nostri cuori ritornando a' più soavi amplessi, possano dirsi in loro favella: noi siamo felici, ma lo abbiamo meritato.—
E a lui la Marcellina, cui la commozione amorosa non diminuiva per nulla il vigore dell'animo—Fatti sicuro, mio unico amico, omai mi sento il coraggio di un soldato. Il tuo trionfo è certo, e questo abbraccio sarà l'ultimo che non ci scambieremo se non che sposi. Animi entrambi il pensiero della nostra felicità. Io vedrò fischiarti intorno il periglio e pure oserò accennarti la strada che ti adduce a combatterlo,… ma tu fra l'ardire e la mischia, ricordati che hai qualche parte di te,… che taluna trema sulla tua sorte; ricordati che un cuore amante e sì a lungo contristato dagli affanni, ti serba il premio di un costante affetto e della vittoria; sieguila audace sì, ma in modo che vane non riescano le nostre speranze… Girani, non dimenticarti mai di Marcellina, e son certa che ritornerai salvo al mio seno.—
Il sanguigno colore onde l'alba novella vestì le prime nubi in oriente, annunziava il dì della battaglia. Tutto è ordine, opra e silenzio nell'un campo e nell'altro: si stringono gli offiziali intorno al Comandante, e dal correre, dal breve starsi e dal partire si argomenta il succedersi delle ordinanze. Volano dalle prime alle ultime squadre gli operosi aiutanti, scorrono di fila in fila gli ordini severi: il suono delle trombe o de' tamburi impongono i movimenti, or avanzano gli audaci picchetti, or si stendono, or si dividono, or si riuniscono le schiere. Il fragor dei carri pesanti, lo scalpitare de' cavalli commettono all'aure un mormorìo confuso ed una nebbia di polve, che sale a rapire i puri raggi del sole e rende più truce il momento della battaglia: ti avvisi di sentire nelle nubi muta mormorare la tempesta pria che dirompa sulla terra, e quella nebbia e quel mormorìo ti mettono terrore.
Accorrono d'ogni parte gli abitatori de' monti e si arrampicano quali sui dirupi, quali fra i rami delle lontane piante, ansii di riguardare nella vasta pianura il commovimento delle schiere, lo scintillare dell'armi e l'ondeggiare dei cavalli. Ricordano gli amici ed i congiunti, ricordano le antiche tradizioni dei padri e le trascorse guerre: ondeggiano fra il terrore e la maraviglia, quindi li prostra l'idea di pericolare, quindi gli accende amore di novità, sieguono coll'occhio e colla mente l'ordine della battaglia, e contrari sorgono i timori o le speranze, siccome muove gli animi amore di parte o diversità di consiglio. Intanto il soldato nella sua fila mentre muto opra ognora novelli movimenti e lo perchè non sa, ebbro di sconosciuto foco, mosso da un'ignota forza gira l'incerto sguardo bramoso di nuove cose, nè più teme perigli, nè più pensa a serbare la vita, e anela e chiede la battaglia.
Fu lo scontro di due picchetti che diede il segno della pugna: in un istante tutto fu movimento e fuoco e sangue nella desolata pianura. Una fila succede all'altra, volano ad un punto, fischiano per l'aura mille teli di morte: tra il fumo e il rumore, questo vince, quel retrocede: or tacita un'ala s'avanza con passo accelerato e pare agogni al trionfo, or un drappello rintuzzato da forza maggiore piega e manda rovina quasi leon che s'accoscia e mette spavento col fiero ruggito: or si dividono i fanti e danno luogo all'oprare de' cavalieri, che furiosi precipitano nella mischia, piovano dagli sguainati brandi sterminio e morte. Altrove si scatena dal cavo bronzo fulmine distruggitore; tronca, abbatte, fora, uccide quanto si oppone al suo passaggio, e precipita quasi dalle nubi e manda dall'ignivomo seno, come vulcano dall'ardente gola, mille infocate saette, che scagliano intorno lagrimevole strage col temuto rimbombo del tuono; ma il soldato imperterrito stampando orme di sangue, fra il maggior cimento più s'accende alla vittoria: si lasciano i caduti, si stringono le file, e mentre la fiera artiglieria gli tempesta contro la rovina, ei quasi la disprezzi, se le scaglia incontro, l'aproccia, l'assale e la rende inoperosa; ardire solo concesso all'orgoglio dell'uomo.
Così per più ore pendeva dubbia la battaglia, l'un campo e l'altro facea prodigi di valore, e volava la vittoria or sugli stendardi dell'uno, ora sfavillava sull'armi dell'altro. Il Duce franco intanto volse un'ala del suo esercito sopra Casteggio, e mentre parea tutto occupato nel dargli l'assalto, mentre dalla cima grondava su lui una pioggia di fuoco, ecco vola per l'aere aperto l'artifiziale cometa, e Marcellina che di soppiatto e mentre niuno sel curava avea salita la torre, mise improvvisamente a suono i sacri bronzi.
Allora anche Lannes investì coll'artiglieria il paese, e mentre inutili sforzi volgea contro l'armata cima da cui gli grandinavano sopra infallibili colpi, Girani co' suoi pochi arditi uscì dalla macchia ove si era appiattato, si arrampicò precipitosamente sul colle e fu sopra alle fortificazioni de' nemici in meno che nol videro. L'opera dei bronzi è omai vana: le spade ignude e deliberato ardire sono soli ministri al conflitto. Richiamati dal nuovo assalto, abbandonano gli artiglieri l'opera de' fuochi, e lasciano libera la strada a quella cima alle francesi truppe della pianura; il breve drappello degli arditi assalitori lotta con indomito valore cogli animosi che si sforzavano a respingerli: si pugna colle spade, colle bajonette e colle mani, si combatte fin sui cannoni: cadono intorno a Girani i seguaci, son pari la speme e il timore, ma in fine i sussidj vicini, un risoluto coraggio e disperate grida furono il segno della vittoria.
Già s'udivano d'ogni parte i bellici oricalchi in suono di gioja, le ostili schiere si ritiravano verso il Po; scorreva ogni fila il grido della vittoria, e il nome glorioso di Girani. Ei scese asperso di sudore e di sangue, e sulla piazza del mercato si avvenne nel Generale che moveagli incontro: stette a lui dinanzi in atto ossequioso, e offrendogli la propria spada, gli disse che omai decidesse del suo destino. Commosso il Duce gliela restituì con un amplesso, spiccò dal suo petto l'insegna d'onore, e la pose al vincitore proclamandolo colonnello e l'eroe della battaglia.
Risuonavano a lui d'intorno gli evviva, chè ognuno accogliea vera gioja per la gloria dell'amico. Si applaudiva anche all'ardire di Marcellina, ma ella non si vedeva:—Venga, dicea il Generale, ben venga questa figlia dei prodigi, e qui sul campo della gloria abbia la mano dello sposo e il premio che si conviene al suo coraggio.—Ognuno cercava di lei impaziente, suonava su ogni bocca il suo nome ed era Marcellina il desìo ed il voto di tutti.
I sacri bronzi dato appena il pattuito segno aveano cessato dal suono, e la vergine di Nebiolo essere dovea discesa dalla torre. Girani annuncia in qual casa potea avere ricovrato, si accorre, si cerca, si dimanda, si torna, ma mesti dolenti portano tutti un'inutile brama, la bella non si trova. Diverso si dipinge sui volti l'affetto: chi spera, chi teme, chi palpita presago di qualche sventura. Ma ecco in fine piangente il vecchio Nebiolo, e un grido universale gli chiede di Marcellina…—Marcellina non è più…—
Meraviglia, dolore, pietà, stringono i petti; l'un preme, l'altro chiede, tutti domandano che avvenne di lei chi colla voce, chi col gesto, chi coll'impaziente interrogare degli occhi.
Appena Marcellina ebbe dato il segno, accortasi che Girani co' suoi pochi saliva il colle, discese dalla torre per restituirsi all'asilo ove avea ricoverato, e impaziente attendere il destino dell'amico. L'improvviso squillo de' muti bronzi avea mosso meraviglia e curiosità, e attirate varie persone al tempio, per che quando ella discese, per quanto andasse cauta, non potè a tutti tenersi celata. In quello stesso mezzo si gridò al tradimento, si conobbe lo stratagemma militare e il fine per cui erasi desto quel suono. Scorreva il paese lo sdegno di guerra, lo spavento negli uni, la speranza negli altri: alcuni cacciatori pieni d'ardire cercavano ogni angolo, salivano sui tetti delle case, e cogli infallibili fucili dardeggiavano intorno la morte. Altri eransi indirizzati al tempio a rinvenire i complici del tradimento, e mentre la militare ferocia spargeva il terrore in quell'asilo, qualche voce imprudente accennò la Marcellina.
Già si annunziava la presa del Pistornino e il trionfo dell'inimico, si suonava a raccolta e si dava il segno della ritirata. Il Comandante della banda che avea assalito il tempio innanzi di ritirarsi, agognando a qualche vendetta, trasse furioso contro colei che gli venia indicata, e l'avrebbe trafitta, nè la vittima se gli opponeva, se il sacerdote non frapponea la mano di pace in mezzo ai micidiali ferri, e non chiedeva atteggiato di pietà e di sdegno, che non si macchiasse di sangue la casa di Dio. Allora il furente soldato ordinò a' suoi che seco trascinassero la Marcellina, serbandola a miglior uopo all'ira vendicatrice de' traditi, e si precipitò dal colle per condursi a salvamento.
Tanto narrava dirotto nel pianto il padre, che inquieto sul destino della figlia erasi coll'alba condotto a Casteggio, e nel bollore della mischia avea osato inoltrare il piede in fino alla chiesa. Fu il misero presente al duro caso, invano pianse e pregò, seguì da lunge il fuggiasco stuolo, imprecando ai crudi che gli strappavano l'unica sua figlia; ma temendo lui pure non facessero prigioniero nè più potesse giovare alla figlia, abbenchè con acerbissima ambascia, diede ai crudi le spalle, e coll'incerto piede ricalcando la via già trita, mentre lasciava addietro il cuore, venne in traccia di Girani. Gli chiede Marcellina e mettea col disperato dolore compassione, e animava ora questo ora quello a seguirla e sottrarla a tanto infortunio.
Fu turbato Lannes all'improvviso disastro, e mille smanie di dolore e di gelosia trafiggeano a prova il povero Girani, nell'idea della sua sposa abbandonata alla licenza de' soldati, o fra le estreme agonìe d'obbrobriosa morte. Si volse disperato al Generale, e per tutto premio di quanto avea operato, chiese una banda di arditi con cui volare a liberare la sposa.
Si annuì all'inchiesta e tosto i più animosi si strinsero intorno a lui: presentendo la via che doveano percorrere i nemici, si misero con disperato coraggio in cammino. Era un correre, un precipitarsi l'andar di que' prodi, era un anelito, una smania il lor desiderio: non ebber sosta finchè videro lontano il nemico drappello che nelle campagne di Casatisma camminava verso il Po.
Si era l'ostile banda assai ingrossata raccogliendo i fuggiaschi, ma nel pensiero che fra quegli era la rapita sposa nulla trattenne Girani, chè amore non sente nè forza nè perigli. I suoi voleano far fuoco, ma ei pensò come taluno di questi dardi di offesa poteano innocenti ferire colei che voleasi liberare.—Amici, le vostre sole spade ne dieno la vittoria.—Disse, e gridando Marcellina, d'un tratto raggiunse i fuggitivi, si accese la pugna e cadeano d'ogni parte colpi e ferite.
Marcellina riconobbe lo sposo, il chiamò, e fu quella voce esca novella all'incendio di lui ed al valore dei soldati, sicchè fu tanta la calca e la strage, che cedeva il nemico e prendeva la fuga. Allora il feroce capitano, quello stesso che avea dal tempio rapita Marcellina, avvicinatosi a lei che quasi libera stava per volare fra le braccia dello sposo, gridò—Il tradimento non fia impunito, abbiti francese la tua vittima,—e colla spada ferì la misera che cadde.—Assassino—grida Girani, e già lo ha steso al suo piede, mentre i di lui seguaci si dileguano.
Amore vince la sete di vendetta ed è paga di quel solo sangue la spada di Girani, e mentre i suoi inseguono i fuggitivi, anelante ei raccoglie la sua Marcellina, la chiama, studia ridestare in lei lo spirito smarrito, accosta tutto tremante le labbra alle labbra di lei, e si adopera ad infonderle spirito e vita. Le lagrime che frequenti gli pioveano dagli occhi e tutto irroravano alla misera il volto, ebbero tanta virtù che poterono richiamarla, e a misura che riprendevano le sue gote la smarrita rosa e la bocca il natio cinabro, tripudiava l'animo al giovinetto amoroso: ei dimandava con tanta ambascia la trafitta che ne piangeano quelli che officiosi gli prestavano soccorso.
Schiuse ella in fine gli occhi, e ripigliata alquanto, fu lieta di ritrovarsi fra le care braccia, e muovendo sul labbro un lieve sorriso il dimandò se ormai fosse sua. Come sentì d'essere libera, tutto per gioja quasi se le fea raggiante il viso, volse gli occhi ossequiosi al cielo e poscia teneramente li pose all'amico, e parve invitarlo a dividere con lei la nuova letizia che le cercava l'animo: intese il linguaggio affettuoso il giovinetto, s'inchinò sull'amato volto, e tutto tremante le baciò la bocca amorosa e ne raccolse un soave sospiro.
Pure gemea Girani per la disgrazia ond'era colta, e Marcellina ognor meglio racquistando le forze, lo rassicurava non doversi temere la sua ferita.—No, mio amico, mio sposo, datti pace nè conturbare il gaudio di questa nostra unione con fatali presentimenti. Il fiero che si attentò trafiggermi nella chiesa, non sostenne che salva gli sfuggissi,… ma forse la sua mano tremante per un delitto, non ferì sì addentro quanto bramava la sua crudeltà. Si dilegua ogni dolore ed ogni male nel vederti salvo e nel sapermiti restituito: questo pianto di cui mi bagni, è una rugiada che in me rinverda la vita, il pensiero che son tua è un balsamo che sana tutte le mie piaghe e toglie ogni acerba ricordanza.—
Girani intanto si studiava di tergerle la ferita e in qualche modo stagnarle il sangue che ne sgorgava, nè per quanto vedesse ripigliarsi la Marcellina, ei si svestia del timore o rattemprava il duolo.—Ahi me infelice! invano co' blandi accenti aqueti l'affannata anima mia e i suoi tristi presagi… e tu in tanta sciagura sei pur per mia colpa: oh dolore! oh pensiero che mi allaccia lo spirito e mi scioglie la lena che mi regge! fida, impareggiabile Marcellina; e tu pur m'ami? e a tanto affetto io corrispondo doni di sangue… Ben io dovea, ben io, volare non alla pugna ma a te, e farmi tuo scudo: avrebbe il crudo trapassato il mio petto prima di giungere a questo seno amoroso: forse quel ferro micidiale quivi saziava la sete, forse… oh me felice se col versato mio sangue avessi a te data la vita!—
Marcellina gli stendeva la titubante mano e si procacciava di calmarlo, e mentre ei la adagiava per trasportarla, soffocava la misera il dolore ed i sospiri perchè li vedea altrettanti strali che laceravano a prova il cuore di Girani: richiamava la serenità nelle dubbie pupille: con qualche accento si studiava deviarlo dai tristi presentimenti e spogliargli ogni timore, ma il dolente la riguardava fiso e non poteva rattemprare l'angoscia.—A lungo, sì, navigai ne' mali, ma ora che parea spirare aura propizia, non paventava così dura tempesta che rovescia ogni nostra speranza… Dolce sì mi riesce il conforto che mi viene da' tuoi occhi, impareggiabile Marcellina, dolce la fidanza che ti accende, e in me par quasi diffonda la calma che ti siede in cuore. Ecco ho già rasciutto il pianto, chè sol da te hanno legge i miei affetti: essi son tutti tuoi, io non respiro che per te, per serbarti a più sereni giorni se tanto ne acconsenta la sorte avversa che ne fischia intorno. Ch'io medichi a' tuoi mali, teco io tutto divida, chè teco solo mi è dolce la vita.—
Porgevano queste parole un soave ricreamento a Marcellina, e già si avvisava attingere la sospirata felicità, misera! allorchè la coglieva il più crudo disastro.
Mentre Girani favellava, uno de' fuggiaschi cacciatori che erasi appostato dietro una pianta, agognando vendetta dell'estinto suo capitano, appunta il fucile al capo del misero, e scocca il colpo; lo sventurato giovane colto nella fronte con un grido cadde estinto sul petto della sua Marcellina.
Ahi figlia sfortunata! invano festi prova di magnanimo ardire, invano pur accoglievi nell'affanno di morte qualche speme e traevi refrigerio alla sventura nella vista dell'amor tuo. Tu eri sortita agli infortunii, tu segnata a sopravvivere al tuo fido perchè dovessi patire doppia morte accogliendolo trafitto in petto. Invano il vindice sdegno dei soldati ti uccise innanzi l'assassino dello sposo, chè il tuo cuore rifuggiva dalla fiera vendetta, e tu versando il represso sangue dalla riaperta piaga stringevi con mestissimi ululati la cruenta spoglia ed invocavi la morte.—Ahi… Girani, mio amico, mio sposo, Girani!… Ah più non è, più non risponde… Oh Dio qual sangue tutto mi allaga il seno? di qual sangue io ritraggo bagnate le mani stese all'amato capo!… Ahimè, dolente me! ahi disgraziato Girani! più non ti trovo, e ove sedeva lo sguardo più non v'hanno che ossa infrante, e lacere carni e distruzione!… Ahi misera, misera! a tanto mi ha serbata la nemica fortuna! doveva io raccoglierti fra queste braccia coperto di ferite e di morte?… Ahi, chi l'orrendo colpo scagliò? maledetto il fiero che troncò sì preziosa vita! e che mi vale s'essi punirono l'assassino quando io ho perduto per sempre l'amico? Allora dovea cadere che stava per iscagliare la fatale ferita, allora… Pietoso cielo, dove dormia la tua giustizia quando all'infame attentato commise la mano! a che nol travolgesti nel nulla? in che t'ebbi io offeso… perchè di tanto mi perseguiti?… O se era segnato sì nefando lutto, perchè un colpo solo ad entrambi non troncava la vita? a che sorridermi propizio, e solo perchè più fatale seguisse la mia rovina, mentre rifiorìa la mia speranza, qui su questo petto stendermi trucidato colui per cui unicamente vivea? e quasi per saziare l'amorosa mia sete, darmi da bere il sangue delle sue vene?… Ahi sventura, sventura…—
La derelitta atteggiata di disperazione così prorompea nei lamenti e maravigliava perchè non la uccidesse il dolore. Si strappava le chiome scarmigliate e passe, percuoteasi il petto, e riscossa, fatta forza a sè stessa, soffolta sulla mano tremante s'innalzava dal suolo su cui era prostesa, e sostenuta dai lagrimosi soldati, stette assisa sull'ignuda terra. Teneva in grembo l'ucciso amico, a vicenda riguardava l'infranto volto e stretta da raccapriccio faceva agli occhi un velo colle mani sanguinose, volea pur dargli un bacio, ma la tremante bocca non trovava ove fermarsi.—Ahi, Girani, miserissimo Girani!… ch'io ancora ti stringa a questo cuore che in petto forte mi piange;… ancora pria che allacci queste labbra la morte, che pietosa già a te mi congiunge, esse ti dieno un bacio estremo… Ma che cerco io mai? qual fia in questo infranto capo, breve asilo incruento su cui io spiri l'ultimo fiato?… Ahi misera! cerco un bacio e non trovo che sangue! vo raccorre gli estremi suoi aneliti e non bevo che sangue!… Ah duro cuore, e a tanto lutto non mi scoppj in petto? e a sì lagrimevole vista non vi offuscate inutili miei occhi? ei qui giace nel mio seno, ed io ancor vivo?…
Piangevano i circostanti a sì dolorosa scena, nè reggea loro l'animo di lasciare Marcellina in quella situazione, nè riescivano a partirla da quella estinta spoglia, cui si avviticchiava furibonda e minacciava in suono di pietà e di sdegno.—Ah no, non mi dividete da lui… Crudeli, egli è mio, è mio, nessuno lo tocchi… guai a chi tanto osa… io voglio morirgli vicino.—
E qui rinnovellava il pianto e i delirj, se non che parve a poco a poco non già calmarsi ma affievolirsi, e stretta dal profondo dolore le fuggirono le prostrate forze e tornò a ricadere, e si chiusero quasi in sonno di morte i suoi occhi. Allora que' pietosi soldati la divisero dall'estinto e la trassero dal lago di sangue in cui giacea.
Vennero trasportate al campo l'emunta salma dell'uffizial d'onore e la morente Marcellina, e il giorno della vittoria si converse in giorno di lutto per l'acerbo e duro caso. Si diffusero la mestizia, i singhiozzi, le doglianze in ogni fila e in ogni schiera, l'angoscia piovea le lagrime sul ciglio; tremava ogni petto, era ogni volto squallido di dolore.
Il vecchio misero di Nebiolo, che Lannes tenea seco alimentandogli la speranza per la libertà della figlia, come vide giungere il drappello, reputandolo vittorioso, precipitò ad incontrarlo: ma visto l'alto infortunio, preso da subito terrore ristè, oppresso dal dolore teneva fisi gli occhi in Marcellina, non gli spuntava una lagrima, non formava un accento, non movea un sospiro e male avresti avvisato s'egli era in vita, sì impetrò.
Ella intanto dal suo letto che era intrecciato di tronchi rami, volgeva a lui le pupille affievolite, e come fu posta al suolo muovea dal fioco labbro questi accenti:—Ahi padre infelice, orbato padre! ecco quale a voi ritorna la sfortunata figlia vostra, ecco quai nozze mi preparava il cielo… Egli correva a soccorrere alla rapita amica, a trarmi dal periglio, ei volea restituirmi al vostro amplesso paterno, misero! ei trovò sul mio petto la morte… Così si spense ogni mia speranza, si troncò il filo cui era affidata la mia vita… Sì, padre amoroso e infelice, io lo raggiungerò e in breve: sia per me un sollievo, un fine ancor dolce a tanti guai il morire…
Intanto si sciolse lo stupore che pel gran duolo erasi al cuore ristretto del padre, sicchè infine la sua angoscia uscì dagli occhi e dal petto in lagrime e in singhiozzi.—Padre, voi piangete, voi che non perdete uno sposo, cui non si recide sul più bel fiorire ogni speranza? Piangete per me? non cesso io forse dai patimenti? non s'ammutolisce finalmente il mio lamentar lungo? a che pur starsi ogni dì a contristarvi coll'eterno mio pianto… Rattemprate l'ambascia: omai esservi dovea di solo peso la mia vita dolente… non vi sia però ne' dì della vostra vecchiezza, dispiacevole la ricordanza di Marcellina: padre, la figlia vostra oltre l'amore non sentì altro affetto che quel dolce fremere che nel mio cuore commoveano i vostri accarezzamenti, altra vaghezza che raccorre dal soave volgermi del ciglio testimonianza di paterna tenerezza… Ah non restatevi lungi da me a spargere lagrime!… qui… qui le versate in questo seno ove egli versò col sangue la vita… Cingetemi colle vostre braccia: ch'io possa ancora, mentre rendo gli spiriti estremi, deliziarmi di qualche affettuoso amplesso; che questo cuore schiuso ad ogni infortunio possa anche una volta palpitare soavemente e poi tacersi per sempre.—
Provocato il veglio da que' lagni, inchinato sulla figlia, alternava abbracciamenti e meste querimonie.—Me dolente, me tapino! a che mi ha serbato la mia vecchiezza?… quai delitti ho io commessi nell'innocenza della mia capanna, perchè debbano a prova lacerarmi tanti infortunii… Tutto ho perduto, una sposa, la pace, ma pur restava a sollievo della mia canizie questa unica figlia che ringiovania del suo sorriso le mie membra cadenti,… ed ora anch'essa mi è tolta,… mi è tolta quando avea fidanza di vederla felice… Ahi! Girani sfortunato e a me fatale Girani?…—No, padre, non vi riesca dolorosa la sua ricordanza… mi uccide doppiamente la vostra rampogna. Ei mi amò, ei perì per salvarmi e perì fra queste braccia… Infelice! avea tersa la mia ferita, stava richiamando i miei spiriti smarriti, e mi piovea tanta dolcezza dagli occhi amorosi che mi racquistava la vita… Io riguardava quel volto di foco, quando… oh perchè ebbi la vista?… oh perchè pur non morii di dolore che ora non udrei… oh padre… ah Girani…—
Piangevano tutti intorno alla misera perchè la non lontana spoglia del giovane, e il sangue onde avea l'altra grondante il petto e lorde le mani e il viso, metteano ad un tempo terrore e compassione. Il padre con atti e aspetto di calma parlava all'angosciosa conforti e persuasioni, che niuna amarezza gli tenea contro il di lei perduto sposo, ed accorgendosi che ognor più se le diffondea sulla fronte il pallore di morte, le raccomandava di dare triegua all'affanno onde restituire le affievolite forze. Marcellina però paga di quanto affidavala il padre, di niun altro pensiero lo trattenea fuorchè dell'amico.—Ch'io sappia s'ei fu trasportato nel campo, che io sappia se voi cosparsa avete di qualche lagrima la sua spoglia, e gli perdonate dovermi amata,… se fu pure questo amore che vi lascia vedovo ed orbato della figlia nella vostra vecchiezza.—
Le fu detto essere poco lungi il feretro ove giacea Girani, e venirle impedito di vederlo per alcuni pietosi che postisi in mezzo la copriano. Li pregò perchè volessero dileguarsi, ed essi se le tolsero dinanzi, e inclinando i mesti volti pareano accennarle ove giacea il trafitto.—Ah sì toglietevi, toglietevi ond'io sappia ch'ei non è lungi da me: ei spirò fra le mie braccia e a me sia dato rendere vicino a lui la vita. Colà volgetevi, o padre, fissate gli occhi in quel miserrimo spettacolo… e benedite alla fredda spoglia,… chiamate lo spirito che forse ancora le geme d'intorno, e ditegli che io son presta a seguirlo… Sì, caro padre, sento venir meno la vita,… allaccia i miei sensi invincibil forza di sonno… voi mel diceste, è il sonno di pace, ma almeno ch'io il dorma presso al mio Girani… All'ultimo mio desiderio, se nel richiedete per me, acconsentirà quell'uomo pietoso che già alle mie lagrime fe' dono ahi sì per poco! della preziosa vita a me sì cara… almeno se la sua pietà non valse a riunirci in vita, insieme ne congiunga nel riposo del sepolcro…
Già la voce di Marcellina era affievolita e fioca, e non uscivano dalle tremanti sue labbra che tronche parole. Volle che si rivolgesse la sua faccia verso di Girani, e come scoprì il luttuoso letto e il giacente, parve che le tremasse il pensiero e la mente, metteva più frequenti singhiozzi, rivolse al cielo i lumi sbigottiti, e pieni di profondo dolore e di pianto—Padre, grata vi sono del benefizio estremo,… i miei occhi si vanno offuscando, ma fruirono colla fuggente luce la cara e dolorosa vista… Padre, pregate alla morente figlia vostra,… stendetemi, deh stendetemi la mano perchè io più omai non vi ravviso… ancora un paterno bacio… e raccogliete l'ultimo mio sospiro… ei vola a voi… a voi e a lui…
Il singhiozzo di morte le soffocava la voce, e l'anima fuggitiva più non le consentiva forze alle parole. Movea le labbra tremanti e pareano susurrare il nome di Girani, e sgorgando copioso sangue dalla ferita, spirò.
Fu squallore in tutto il campo, chè alla disgrazia de' miseri accresceva terrore il dolor disperato del povero Nebiolo. Ei si era precipitato al suolo presso a Marcellina, a vicenda la dimandava e cercava per pietà di seguirla: era lagrimevole e doloroso a vederlo innalzare il bianco capo bagnato nel sangue della figlia, e col rugoso volto e gli occhi pieni di disperazione rivolgersi al cielo e dimandare la morte. Non vi avea consolazione o parole che valessero a mitigare il suo affanno, nè si potè rimuoverlo finchè prostrato dall'angoscia e vinto dalla stanchezza, si potè trasportare il miserando veglio nella tenda.
Vestirono i prodi di guerra la mesta gramaglia come allorchè muore de' primi capitani, si compose con tronchi e frondi un letto funebre, e sopra vi si adagiarono gli estinti, si fregiò Girani delle insegne di Colonnello, e si coprì il mesto feretro con due bandiere, ad accennare che entrambi aveano operato nella battaglia ed avuta parte nella vittoria. Si posero sull'armi i soldati, sciolsero le trombe ed i timballi una mesta armonìa ed annunziarono la funerale pompa, mentre traevano d'ogni parte i rustici nel campo, e stavano mesti spettatori della dolente cerimonia.
I più fidi soldati di Girani levarono sulle loro spalle la squallida bara, e per lungo giro la recarono a un'ara che si era innalzata in mezzo al campo. La precedevano e la seguivano numeroso corteggio di fanti e di cavalli, e intorno al feretro stavano mesti il Generale collo stato maggiore: si alternava un fioco suono di tamburi che imitava un lontano lamento, ed una querula melodìa che gittava la melanconìa ne' petti, e ognuno presso cui passava il funereo convoglio metteva qualche sospiro sulla coppia infortunata.
Collocato innanzi all'ara il cataletto, s'innalzò il compianto degli amici e de' congiunti, e si alternarono le nenie di pietà e il canto degli estinti. Quindi siccome avea desiderato Giovanni, la compagnia di Girani e la lamentevole banda accompagnarono il feretro sulla collina, e traevagli dietro lunga fila di montanari, de' quali altri narravano il duro caso, altri pregavano pace alle anime benedette.
L'uno presso l'altro adagiati gli amanti della sventura, sulla stessa vetta, nella stessa fossa, furono posti a sepoltura sotto la pianta dei sospiri. Ivi erano accorsi tutti que' di Nebiolo, uomini e figli: innalzavano un mesto pianto e faceano risuonare per que' luoghi abbandonati i cari nomi di Marcellina e di Girani, e a quei nomi rispondeano le conscie valli con pietosi ululati, mentre i soldati salutavano la terra che ricopriva gli estinti colla fiera armonia dei fucili. Ivi s'innalzarono le bandiere della gloria, e ognuno riguardando la capanna di Marcellina compiangea l'orfano colle e il vedovo padre.
Nebiolo orbato e solo nella squallida casa, sempre dolente, chiamava e nella mesta notte e nel giorno affaticato la figlia, e rinnovellava ad ogni istante la storia dell'acerbo dolore. Era il colombo che trova deserto il nido, e va di fronda in fronda e plora e chiede i figli; era l'allodola abbandonata che piange la solitudine, e assorda di lamenti il bosco e la campagna.
Trascinava l'antico fianco sulla erta funerea vetta, e prostrato sotto la pianta amica versava interminati omei su quella sacra terra, evocava gli estinti a sollievo nella sua ambascia: di là volgendo il sospiro anche alla moglie, e alle nuove associando le ricordanze degli antichi mali, ponea le tremole pupille al cielo, quasi volesse chiedergli di ricongiungerlo a quanto avea di più caro.
Così ognor genuflesso, sovente colle mani congiunte, giaceasi a lungo quasi rapito o dimentico di sè, e lo avresti tenuto inanimata pietra, se non manifestava in lui la vita il rivo copioso che gli sgorgava dal ciglio. Indi riscosso richiamava le sue cure sui cari figli, pronunziando i diletti nomi, strappava le erbe malefiche che crescevano sopra la loro fossa, invocava propizia la stagione e mite il vento a quel terreno e a quella pianta, baciava innanzi partire le pie zolle e raccoglieva qualche virgulto per ornarsene il petto finchè ritornasse.
Tale era il pietoso uffizio, cui intendeva ogni giorno il derelitto veglio col nascere e col tramontare del sole, finchè la cadente età e il continuato duolo, gli schiusero il desiato asilo di pace, solo certo porto ai travagli dei miseri mortali.
L'innocenza del colle. pag. 1
Il Castello di Stefanago. » 66
La fidanzata di Nebiolo. » 143
La battaglia di Casteggio. » 208
vol. 231
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
Prezzo Austr. lir. 3 00. Ital. lir. 2 61.
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
Biblioteca Scelta di Opere Greche e Latine tradotte in lingua italiana, in 16.^o grande, carta sopraffine levigata, con Ritratti.
Vol. I al IV.
TACITO. Opere tradotte da B. Davanzati colle giunte e supplementi dell'Abate Gabriele Brotier, tradotti dall'Ab. Raffaele Pastore, quattro volumi. Ital. lir. 12 00
Vol. V.
VIRGILIO. L'Eneide tradotta da Annibal Caro; colla Vita dell'Autore e del Traduttore, e Ritratto. » 3 50
Vol. VI.
CELSO. Della Medicina Libri otto, volgarizzamento di G. A. Del
Chiappa. » 4 60
Vol. VII.
SALLUSTIO. Della Congiura Catilinaria e della Guerra Giugurtina, Libri due volgarizzati da Frate Bartolommeo da S. Concordio; col Ritratto. » 2 61
Vol. VIII all'XI.
LAMPREDI. Diritto Pubblico Universale o sia Diritto di Natura e delle Genti, volgarizzato dal dottor Defendente Sacchi, seconda edizione riveduta e corretta sul testo. Volumi quattro. » 9 20
Vol. XII.
CORNELIO NIPOTE. Le Vite degli Eccellenti Comandanti, recate in lingua italiana da Pier Domenico Soresi, milanese, col testo latino a fronte, edizione migliorata e accresciuta; col Ritratto. Ital. lir. 2 30
Di quest'Opera se ne è fatta un'edizione col testo a fronte, ed un'altra della sola traduzione italiana: quest'ultima » 1 74
Vol. XIII.
DEMOSTENE. Le Aringhe per eccitare gli Ateniesi contra Filippo Re di
Macedonia, volgarizzate ed illustrate con Prefazioni ed Annotazioni
Storiche dal P. Franc. Venc. Barcovick; col Ritratto. » 2 30
Vol. XIV.
CICERONE M. T. Orazioni scelte recate in lingua italiana a riscontro del testo, e corredate di note da Giuseppe Antonio Cantova. » 3 00
Vol. XV.
CESARE. Commentarj, recati in italiano da Camillo Ugoni, coll'aggiunta di un indice generale delle materie; e Ritratto. » 4 60
Vol. XVI.
FLORO L. ANNEO. Delle Gesta de' Romani. Libri quattro tradotti da Celestino Massucco. Seconda edizione. » 2 61
Vol. XVII e XVIII.
CICERONE M. T. I tre Libri dell'Oratore recati in lingua italiana a riscontro del testo da Giuseppe Antonio Cantova, due volumi. » 6 50
Vol. XIX e XX.
OVIDIO P. NASONE. Le Metamorfosi recate in altrettanti versi italiani da Giuseppe Solari col testo a fronte, due volumi. Seconda edizione. » 5 65
Di quest'Opera se ne è fatta anche un'edizione della sola traduzione italiana. » 3 25
NOTA di trascrizione:
sono stati corretti i seguenti refusi:
al padre, guardava di soppiato Anselmo innodate di represso pianto sur Anselmo: fremeva nel vedersi tendere tanti aguati, da nuovo entuasiasmo, prima abbracciò alcuni opparati di guerra, nè sapea comprendere
Nel libro I due diversi capitoli sono numerati XVI, Abbiamo numerato il secondo XVIb.
Nel libro IV due capitoli sono numerati VII. ed il successivo è numerato IX. Abbiamo numerato VIII. il secondo.
End of Project Gutenberg's La pianta dei sospiri, by Defendente Sacchi